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Italian Pages 442 [274] Year 2014
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Federico Fellini. Romance Jean-Paul, Manganaro ISBN: 9788865763537
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su Libreria Ledi il 5 marzo 2014 18:52 Codice Transazione BookRepublic: 2014006576002681
Numero Ordine Libreria: 4049
Copyright © 2014 Il Saggiatore
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La Cultura 831
sito & eStore - www.ilsaggiatore.com Twitter - twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook - www.facebook.com/ilSaggiatore © P.O.L éditeur, 2009 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2014 Titolo originale: Federico Fellini. Romance
Jean-Paul Manganaro
Federico Fellini Romance Traduzione di Angelo Pavia
Federico Fellini A Odette, a Edelweiss, a Gilles, a Jérôme, a Pierre, ad Angelo, a Ena, a Nellotte, a Renata, a Salvo, a Sebastiano e ad Alì, a tutti quelli che mi hanno aiutato (Parigi-Atene-Patmos-Avola)
Sommario Copertina Colophon Frontespizio Occhiello Introduzione PARTE PRIMA - Le apparenze del reale: raccontare I II III IV V VI VII VIII IX X XI PARTE SECONDA - Le variazioni di una realtà che scompare: creare I II III IV V VI VII VIII IX PARTE TERZA - Che cosa diventa il passato: raccontare la riflessione I II III IV V VI VII Concludere Note
Introduzione
Come una carezza infinita, la linea nera segue un disegno e lo modella: la linea nera del tessuto segue il colore e il tessuto della carne, disegnando, per contrasto tra luce e ombra, un chiaroscuro, un palpito nella notte della città, nella notte degli uomini. Come una carezza infinita della notte, la scollatura evoca un brivido. È il vento, un vento di stagione, la luce, una luce che non filtra più dagli occhi ma dalla carne, l’acqua, un’acqua lustrale che è lì per confondere e unificare: la figura si erge, la sua forza invade. C’è esuberanza nel destino di questa immagine, una forza tale da cancellare ogni piccolezza, tutto ciò che di misero c’è al mondo, è cornucopia: è un canto che si esaurisce in un grido languido, è talco e profumo, è miasma e calore, pania e marmo, scaraventa l’anima nel disastro, spinge l’inconscio a prendere il largo verso quello che c’è, in esso, di più tenero, in attesa. Quest’immagine si ripete, pur senza essere ossessiva, è nella sua forza calma, nella sua dolcezza rude; senza fine, viene ripetuta. La scollatura invita agli abbandoni, ai vagabondaggi e alle fluttuazioni della carne, ancor prima che dell’anima: è lì, da questa fonte, che l’anima proviene dalla carne, ne assume la forma e l’odore, scivola e si rifugia negli anfratti delle sue masse. Opulenza che allevia gli sconforti, gli affanni, risveglia la dolcezza che c’è in noi, ne accorda i tempi e i ritmi, all’unisono: è un’ebbrezza, uno stato che solo raramente appartiene all’umano, visto che – sembrerebbe – quest’ultimo lo rimuove e non osa ricordarsene. La scollatura – disegno della stoffa che accarezza il disegno dei seni – è anche una favola d’infanzia: una storia poco raccontata di labbra, di guance accarezzate di notte da un lenzuolo di cotone, ruvido, o da un lenzuolo di seta, liquido, scene sepolte dell’infanzia, eppure così vicine a tutti, a portata di mano, a portata di guancia, di labbra, di ricordo felice, bacio. C’è una forza nel tocco leggero di questa morbidezza, di questa esteriorità della carne che sola si libra in tutto ciò che confonde, che manda in confusione. Immagine della notte, notturna, del tempo della notte o della notte dei tempi, profondità senza storia, vestigia e presenza, filastrocca e cantilena, lunga notte dell’uomo, sepoltura. Carezza immensa della notte, nella notte, carezza degli occhi accarezzati. * Il cinema ha cercato di insegnarci tutto. Come stare in piedi e camminare, come voltarci, come guardare in uno specchio, come avvicinarci agli altri e alle cose, come guardarle, le cose, come guardare in generale. Ha cercato di insegnarci come fare un discorso, restare in silenzio, sfuggire, trovare quel che c’era da trovare e cercare quel che desideravamo cercare e trovare. Ogni regista, ogni attore ha segnato questo sapere segreto del cinema con un’impronta propria: a ognuno di loro viene assegnato un modo particolare, rivelatore, che ne costituisce lo stile. Se a volte ci hanno mostrato come pensare alle cose, come guardare al piacere o alla fatica del piacere, tutti quelli che hanno fatto cinema sono accomunati dall’averci insegnato in che
modo si manifesta l’amore, come se, in fondo, lì si trovasse l’essenziale di quello che andava raccontato, il motivo principale che giustificasse il rischio di produrre e investire energie, metterle in gioco, in movimento, e che legittimasse la riproduzione di antiche dinamiche legate al tragico e al comico, il tentativo di restituire emozioni perdute. Nessun film sfugge a questa regola, che è il motore di ogni volontà di creare, di dare un’anima a queste ombre che si muovono e parlano, simulando qualcosa che sembrava allora fondamentale, innegabile, a costo di contraddirlo. Così, apparentemente al di là delle leggi, delle famiglie e delle scuole, il cinema ci immergeva in quei saperi: corteggiare, sedurre, eccitare, e poi, soprattutto, baciare all’infinito, chiudendo gli occhi e offrendo la propria carne, baciare nella fiducia e nella tenerezza, nell’arroganza e nel disprezzo. Uno dei percorsi non raccontati dell’opera di Fellini è forse la riappropriazione e il riordinamento delle rappresentazioni di questo sapere. Il motivo è semplice: nella cinematografia italiana nessuno, se si esclude qualche tentativo di Rossellini, ci si è ancora cimentato. Con Ossessione, Visconti va in questa direzione, ma non sfrutta appieno quel modello preso dall’estero – benché l’adattamento e la riterritorializzazione dell’intreccio funzionino, la lentezza e la passione per l’equivoco lo allontanano subito dalla precisione del modello americano. Da un altro punto di vista, i temi «neorealisti» di Rossellini costituiscono altrettanti eventi a caldo, troppo legati all’immediato perché vi si percepisca anche solo la possibilità di questo sapere più antico, a cui tanto piace prendere e perdere tempo; rimane, invece, la «novità» dei suoi film, che non sarà priva di utilità per Fellini. Più lontano, a monte, le favole di Fregoli, come le pose di Cabiria di Pastrone, rimandano a momenti passati, dimenticati dalla filmografia esangue, istituzionale e provinciale di vent’anni di cultura monarchica-clericale-fascista. L’Italia è una repubblica troppo giovane, e la sua popolazione deve ancora affrancarsi dalle vecchie immagini create sotto l’egida dei poeti «ufficiali» – Carducci o D’Annunzio, tra gli altri1 –, che le hanno fornito un modello deformato di sentimenti e passioni, e deve ancora emanciparsi da una dittatura culturale che, malgrado tutto, ha eletto e seguito fino alla sua apparente distruzione. La rivelazione di questa «apparenza» che resiste ai cambiamenti è uno dei temi impliciti dell’opera di Fellini, colora i temi del reale, offre un corpo feroce a tutto ciò che di nuovo s’inserisce nelle trame, nei movimenti e nei ritratti di questa opera. Non c’è scenografia, volto, battuta che non sottolinei – come un’eco, come una maledizione in fin dei conti comica – questo passato carico di segni sulla carne e sull’animo delle persone. La stessa cosa appare nell’ultima pellicola di Pasolini, Salò, in cui viene dichiarata, senza compiacimento, la capacità organica dell’Italia di marcire nel suo fascismo. Reimparare a stare in piedi e a camminare, a voltarci, a guardare in uno specchio, ad avvicinarci agli altri e alle cose, a guardarle, le cose, a incontrare i propri ricordi, a ritrovare storie. E imparare la «modernità» della città che era mancata alle vecchie esperienze – grazie alle città distrutte dei film di Rossellini, Roma o Berlino, divenute le periferie affollate del primo neorealismo –, impararla nuovamente dalla periferia di Rimini, che altro non è, dopotutto, che una Roma in piccolo, come Roma è una Rimini in grande. Quindi imparare di nuovo l’amore, sia con storie pervase da grandi drammi, sia, una volta passato lo scompiglio, grazie all’analisi minuziosa degli elementi in cui i corpi – di donna, di uomo, di altri corpi che si somigliano – s’inseriscono, in cui disegnano pulsioni, istinti, parole. È così che Fellini rievoca o rielabora l’architettura di un corpo sociale rappresentato
all’interno di musiche, movenze e ritmi cambiati, il quale deve dunque reimparare le regole e i riti che li determinano e li governano. C’è nel suo lavoro un confronto permanente tra le cose, che proviene dall’uso di antinomie feconde: il vecchio, o l’antico, messo davanti a quel che crede nuovo, rivela come questo nuovo sia già presente, da un tempo che non si può più calcolare, misurare. Non è un’autoanalisi, ma una rivelazione non assimilabile a una presa di coscienza: una rivelazione di cui il personaggio non sa che farsi, che forse lo imbarazza, che non può evitare di raccontare, di recitare. È solo allora che la ripresa e la ripetizione di vecchi temi ricreano energie e si ricostituiscono in un’immagine nuova. * È un’immagine storica, un’immagine sociale o altro ancora? Se la si confronta, anche solo in superficie, alle immagini quasi coeve di Visconti o di Antonioni, si vede subito come si discosti dall’immagine storicizzante del primo, che indugia nei salotti di tutte le decadenze narrate, e da quella fortemente concentrata e razionalizzata del secondo. Quella di Fellini è, prima di tutto, un’immagine affettiva. Non basta voler rappresentare l’Italia in un dato momento: quell’immagine, Fellini lo sa, non esiste. Bisogna cercarla, trovarla, crearla, inventarla; è così anche per se stesso, per la sua biografia: […] non ho una memoria fatta di ricordi personali. È semplicemente più naturale per me inventarne una mia, ispirata alla memoria di vite ed eventi che non sono mai esistiti, ma che l’esistenza richiama e di cui si nutre. Ho inventato tutto […]. Ho inventato la mia giovinezza, la mia famiglia, le relazioni con le donne e con la vita. Ho sempre inventato. L’irreprimibile urgenza d’inventare è data dal fatto che non voglio niente di autobiografico nei miei film […]. Così sono tutto e niente. Sono ciò che invento.2
Fellini sa che anche altri sono in cerca di questa immagine dell’Italia, e che essa varia continuamente da un autore all’altro; in quasi tutte le sue interviste non smette di affermare, come un tema ossessivo, la necessità di rievocare l’Italia, una qualche specificità italiana: Il nostro cinema è un cinema colpevole perché non ha raccontato veramente nulla dell’Italia. Inoltre, l’Italia è un paese completamente misconosciuto a causa della sua letteratura. Roma è stata un po’ raccontata. Anche Napoli, ma in modo folkloristico. La Sicilia viene sempre vista attraverso le sue truci storie di Mafia. Quanto al resto d’Italia in cui, ogni cinquanta chilometri, vi sono delle testimonianze di un’altra cultura, di altri miti, altri riti, non ne parla nessuno.3 Noi, i cineasti, non abbiamo detto nulla, o quasi nulla, dell’Italia. Il nostro paese è un universo ancora sconosciuto.4 Da sempre, era una delle mie ambizioni quella di poter raccontare […] storie del mio paese.5
Questa immagine deve superare lo stadio della rappresentazione: deve scaturire da una riflessione semplice, resa via via più complessa attraverso una serie di implicazioni, interferenze, commistioni. Al di là di un’immagine fedele degli anni sessanta, questo cinema si pone il problema di sapere come questa immagine diventi di colpo possibile in quegli anni, senza farne una storia univoca, cercandone la traccia ripetuta, il progetto, come disseppellendola. Dove va? Qual è il suo divenire possibile? Cosa si può farne? In cosa è una creazione? Cosa lascia dietro di sé? Su quali materie s’inserisce, si allinea? Dove si confonde? In cosa questa immagine non è più astrazione, ma viene forgiata come una materia e lancia un segnale chiaro a qualcosa che va oltre l’esperienza vissuta?
È il caso della «fosforescenza» di Anita Ekberg nella scena della fontana nella Dolce vita: l’immagine affettiva sognata. Non nel senso del sogno o della fantasia. Non è un’immagine di sogno, secondo il cliché sancito dalle culture e dall’epoca. È una cosa che nessuno avrebbe potuto pensare né sognare in quella forma, colta in un contesto che la esalta e le fa ombra, la colora alla luce di ciò che ne esprime la costruzione complessa, enuncia i modi della sua creazione e la rivela infine come ormai un’evidenza del nostro presente, di un presente indefinibile e senza contorni, un’estasi fiduciosa che si sarebbe potuta pensare e sognare, qualcosa di ordinario e di noto a tutti, e tuttavia straordinario: «Qualcosa che somiglia a una memoria che viene prima della memoria».6
PARTE PRIMA LE APPARENZE DEL REALE: RACCONTARE
Quel che so, è che ho voglia di raccontare. Francamente, raccontare mi sembra l’unico gioco che valga la pena di giocare. Federico Fellini, Fare un film1
I
FEDERICO FELLINI: FORMAZIONE E PRIMI BOZZETTI. CENNI SUL NEOREALISMO ITALIANO. LO SGUARDO DI ROSSELLINI. LA COLLABORAZIONE TRA FELLINI E ROSSELLINI. UNA FORZA DA CARPIRE NELL’OPERA E NELLA POETICA DI ROSSELLINI.
L’universo dell’immagine e i problemi legati alla sua formalizzazione irrompono molto presto nella biografia artistica di Fellini, all’inizio come gioco infantile: […] da bambino costruivo da solo dei burattini. Prima li disegnavo sul cartone, poi li ritagliavo, infine mettevo insieme le teste con la creta e con l’ovatta imbevuta di colla. Di fronte a casa nostra c’era un giovanottone con la barba rossa, faceva lo scultore […]. Un giorno mi vide in un angolino che pastrocchiavo per conto mio e mi insegnò a usare il gesso liquido e la plastilina. Fabbricavo da me anche i colori schiacciando i mattoni e riducendoli in polvere. […] C’erano […] falegnami […], anche nella loro bottega mi piaceva passare del tempo e portavo via delle tavolette di legno dolce. Insomma, se ci ripenso mi pare che per me la fantasia è sempre stata legata al lavoro artigianale. Non mi sono mai appassionato ad altri giochi all’infuori dei burattini, dei colori e delle costruzioni in cartoncino, quei disegni in pianta e prospettiva che si ritagliavano e s’incollavano […]. Mi piaceva anche star chiuso nel gabinetto per ore ed ore, mettermi la cipria in faccia e mascherarmi con baffi di stoppa, barbe, sopracciglioni mefistofelici, e basettoni disegnati col sughero bruciato.1
Disegno, ritaglio, montaggio, trucco, ricerca, collage: sono già presenti, in sintesi, alcuni dei saperi essenziali del fare cinema; la passione per il disegno porta Fellini a maturare un’assoluta padronanza del bozzetto caricaturale, grazie alla quale, nel 1937, insieme a un amico, Demos Bonini, apre una «bottega di ritratti» chiamata Febo, dalle iniziali dei suoi fondatori. Nel 1944 questa esperienza porta all’apertura, a Roma, insieme ad alcuni amici, del Funny Face Shop, frequentato soprattutto dai soldati americani che si facevano fare la caricatura o fotografare secondo composizioni prestabilite. Fellini non abbandonerà mai questo lavoro sul disegno e sulla caricatura, e proprio grazie a quest’attività, in apparenza ludica, darà in seguito forma alle intuizioni e ai bozzetti che, a poco a poco, costituiranno le sceneggiature dei suoi film, più simili a storyboard che a copioni canonici. A quest’attività si affianca una modalità di scrittura molto particolare che, coinvolgendolo più del disegno e della caricatura, lo porterà in maniera naturale a scrivere sceneggiature: a Rimini collabora stabilmente con riviste umoristiche o satiriche – tra le quali le più importanti di questo primo periodo sono La Domenica del Corriere, il 420 e l’Avventuroso –, anche nelle pagine destinate ai bambini. A Roma, dal 1939, Fellini inizia la carriera di giornalista. Prima scrive per settimanali relativamente noti legati al mondo dello spettacolo, occupandosi sia di teatro che di cinema: Rugantino, Cineillustrato, Cinemagazzino e il quotidiano Il Piccolo. Ma è soprattutto attraverso la collaborazione con il Marc’Aurelio, il giornale satirico più conosciuto dell’epoca,2 che Fellini allestisce vere serie a tema satirico, umoristico, e anche più che umoristico: il loro «spirito ironico sistematico», che è un’importante fonte popolare di ispirazione comica, finisce per incrociare un certo anarchismo della cultura familiare, in grado di sfociare verso «un
altrove in cui ripararsi per sfuggire al linguaggio totalitario»3 e ordinario imposto dalla dittatura fascista. Nasce così in Fellini un umorismo aperto al meraviglioso, che si può vedere all’opera anche all’interno delle sceneggiature scritte per altri, Rossellini per esempio, e che resiste anche nei film più cupi, pronto a cogliere l’aspetto paradossale delle situazioni. Disegno caricaturale e scrittura evidenziano subito, ognuno a suo modo, un atteggiamento non proprio di critica o di sfiducia, ma di distanza nei riguardi della trasposizione cinematografica di stampo neorealista. L’obiettivo non è affatto quello di porsi in posizione conflittuale nei riguardi del realismo, e nemmeno di operare all’interno di una problematica che tende spesso a un esito manicheo di tutte le domande poste incessantemente dal realismo e dalle sue aspirazioni; e nemmeno, come si è potuto pensare, quello di aderire a qualsivoglia avatar del pirandellismo, il quale comporta un’analisi apparentemente «aperta» delle realtà che ci informano, spesso risolta attraverso l’umorismo o l’ironia freddamente negativista.4 La questione è in primo luogo quella di un confronto diretto con l’immediatezza poetica e tecnica ricercata dal neorealismo. Da un lato, perché l’apprendistato di Fellini si compie con Rossellini e, in parte, con Cesare Zavattini – quest’ultimo fornisce, in una cultura ritenuta popolare, lo slancio di un nuovo genere di umorismo intimista, venato d’ironia surreale e di grande sensibilità per i fenomeni sociali –, ma, dall’altro, in virtù di una pressione culturale, ideologica e politica interna al neorealismo stesso, con la quale all’epoca bisognava fare i conti. Questa pressione ha determinato forzature e imposizioni nei confronti di tutto quello che correva il rischio di svincolarsi da un’elaborazione sorvegliata, come spesso fu quella del neorealismo, fin dentro territori dal punto di vista culturale non italiani. Si tratta più precisamente di ridimensionare la stessa scuola neorealista, troppo rigorosa e categorica – ciò che del resto non ha mai esitato a fare Rossellini – e inoltre, di contenere il neorealismo attraverso linee di fuga che verranno tracciate nella realizzazione poetica di Fellini. Spesso queste linee di fuga si compongono in leitmotiv che tornano nell’opera per scandirne visibilità, meccanismi, slittamenti, nuovi avvistamenti. Si radunano nella formalizzazione di ciò che potremmo chiamare «tratti» – tratti di spirito, di carattere, di riflessione sociale o politica –, che in alcuni casi iniziano a indicare, grazie al talento di precursore di Fellini, l’imminente perversione del cinema italiano verso quella che in seguito verrà chiamata «commedia all’italiana». Questi tratti erano già, in qualche modo, forme mentali specifiche della cultura italiana, e Fellini, diversamente e prima di altri, ha saputo farli emergere e mostrarli. * I primissimi rapporti di Fellini con il cinema risalgono al periodo in cui gli umoristi del Marc’Aurelio furono chiamati a inventare sketch destinati ai film del comico piemontese Erminio Macario, diretti da un veterano dello spettacolo, Mario Mattioli. Fellini ha sostenuto di aver debuttato come «negro», cioè come collaboratore occulto di Cesare Zavattini. La sua presenza all’interno del clan Zavattini sarà di breve durata, ma è lì che incontra Piero Tellini, con il quale collabora alla scrittura di una decina di film.5 Tuttavia, la storia di Fellini sceneggiatore inizia davvero con il teatro di varietà e l’incontro, nel 1939, con uno degli attori comici più popolari dell’epoca, Aldo Fabrizi, per il quale Fellini e Ruggero Maccari elaborano alcuni sketch riuniti sotto il titolo «Ci avete fatto caso?»: si fa satira sull’attualità, uno dei numeri irrinunciabili per
gli attori di avanspettacolo. La collaborazione artistica – che presto diviene amicizia – con Aldo Fabrizi si estende al campo cinematografico, e pare che Fellini abbia collaborato alle sceneggiature di tre film di successo dell’attore.6 Ma «la migliore prova della coppia Fellini e Fabrizi nel dopoguerra resta Il delitto di Giovanni Episcopo, girato da Alberto Lattuada nell’inverno 1946-1947».7 Qui, tra Fabrizi, Magnani e Lattuada si tirano le fila degli inizi cinematografici di Fellini: quando Rossellini ha bisogno di scritturare Fabrizi per la parte di don Giuseppe Morosini in Roma città aperta, chiede aiuto a Fellini per convincere l’attore, già molto celebre e popolare, a recitare in un film dall’esito incerto e il cui budget è in pratica ancora inesistente.8 * Come è avvenuto l’incontro con Rossellini? Per quanto Fellini abbia cercato in seguito di minimizzare, la prima parte del suo lavoro, da Luci del varietà fino alle Notti di Cabiria, s’inserisce nella prospettiva del neorealismo. Si tratta, certo, di neorealismo italiano, storico, impegnato in qualcosa che, a partire dalle riprese di due film di Rossellini, Roma città aperta e Paisà, è stato fortemente politicizzato, mostrando una visione del mondo che si opponeva alla storia raccontata dal fascismo e dai suoi sostenitori. Il merito di Rossellini non è soltanto quello di aver saputo operare per primo questa rottura, ma di aver preso le misure necessarie per realizzare un nuovo cinema, al quale aderiranno e in cui si formeranno diversi cineasti. La scelta di attori come Anna Magnani9 e Aldo Fabrizi, per esempio, in un’ottica rigorosamente italiana, e in seguito quella di Ingrid Bergman e di George Sanders, che conferma l’adozione della stessa ottica, risponde a scelte metodologiche che riguardano la messa in scena della realtà, come la intende un regista che vuole testimoniare un evento del reale attraverso la finzione: non si tratta tanto di filmare le cose come si suppone che debbano apparire, ma di farle avvenire organizzandole in un’azione.10 Su questo rapporto di Rossellini con le riprese e con la messa in moto dell’azione filmica, quindi con la sua «rivelazione», Fellini è tornato spesso, raccontando il suo apprendistato iniziale: Lo rincontrai dopo un po’ alla Scalera Film, in un teatro di posa dove io ero entrato sbagliando porta. In uno stanzone vuoto, in un angoletto in fondo, c’era lui con dei riflettori accesi e delle persone ferme, e una inginocchiata. Mi sono avvicinato e ho visto un piccolo recinto con della sabbia, con delle erbe e degli insetti. Stava facendo un documentario sugli insetti, e in un silenzio quasi chiesastico tentava di farli saltare con dei pezzetti di legno.11
Quello che Fellini percepisce, nella semplicità della scena descritta, è il pragmatismo forsennato del lavoro di Rossellini, che provoca l’insorgere necessario di un particolare effetto del reale: non la sua deformazione, ma la sua costituzione, il suo concatenamento, la sua descrizione, la sua formalizzazione a partire da quel minimo di «oggettività» di cui la realtà permette di disporre, cercando di ricavarne in seguito tutto il beneficio narrativo possibile e sapendo immediatamente che soltanto l’immagine, al di fuori di ogni altro linguaggio, deve raccontare la sua totalità. Da un punto di vista tecnico, Rossellini rintraccia le capacità meccaniche proprie della situazione che sta filmando, che la trasformano in un racconto specifico delle riprese. Nell’esempio riportato è già presente il nucleo della realtà di un ambiente – che potrebbe anche essere sociale – raccontato attraverso individualità isolate e singolari, di frammenti dell’«umano» che si riuniscono in intenzioni sociali, in cui la forza e la
potenza (il bene) provengono da un confronto nel quale l’individuo affronta gli aspetti negativi delle situazioni. Numerose testimonianze su Rossellini descrivono questo modo di filmare, che non precede l’atto estetico, ma la cui formalizzazione determinata a posteriori ne fa una nuova categoria, una categoria della necessità, un nuovo modo di operare, una nuova competenza. * In quest’incontro, quello che colpisce è l’acquisizione di un metodo. E se è vero che Fellini all’inizio è soltanto uno degli importanti ingranaggi del neorealismo rosselliniano, non è meno vero che lo scambio ha luogo nelle modalità di un apprendistato che sarà fondamentale: come girare un film, come il film si fa da sé, qual è il reale contributo del regista, come far funzionare questa macchina che implica anche rapporti con una burocrazia tiranna. È qui che si incrociano le questioni di fondo relative al lavoro cinematografico, compresa quella della produzione, problema fondamentale nell’impegno creativo di Fellini, sul quale tornerà polemicamente più volte: Vedendolo al lavoro mi parve di scoprire per la prima volta, con improvvisa chiarezza, che era possibile fare cinema con lo stesso rapporto privato, diretto, immediato con cui uno scrittore scrive o un pittore dipinge. La macchina che hai alle spalle, quella specie di babele di voci, richiami, spostamenti, gru, riflettori, trucco, aiuti, megafoni che m’era parsa così prevaricante, così debordante e rapinatoria quando, da sceneggiatore, venivo chiamato in qualche teatro di posa ad assistere a una scena o a riscrivere un dialogo; quel macchinoso coinvolgimento, da esercito in manovra che mi aveva sempre nascosto, come velato, il contatto diretto con l’espressione, in Rossellini veniva annullato, cancellato, respinto sullo sfondo, relegato a cornice chiassosa e necessaria di uno spazio franco in cui l’artista di cinema compone le sue immagini, come un disegnatore fa i suoi disegni sul foglio bianco.12
Le testimonianze di Fellini riguardano colui che, pur non rappresentando il suo maître à penser, gli permise di imparare ad affrontare la costruzione di un film; questi racconti vengono ripresi in tutte le sue interviste, senza variazioni. L’accento è posto ogni volta su piccoli dettagli in apparenza insignificanti, ma che attestano come questo apprendistato sia avvenuto, per così dire, furtivamente. Basta leggere, a tal proposito, le pagine che descrivono lo smarrimento di Fellini il giorno di inizio riprese del suo primo film, Lo sceicco bianco,13 per rendersi conto che è impossibile raccontare che cosa succede finché si resta al di fuori del vero atto creativo; le conoscenze acquisite funzionano soltanto quando sono messe in relazione con quest’ultima azione, come un ricordo che torna alla mente. Fellini rievoca spesso questa dinamica: Rossellini mi ha insegnato moltissimo, ma quasi di più sul piano psicologico. Rossellini è stato veramente un maestro, nel senso che mi ha fatto capire che si poteva anche guidare con semplicità tutta la macchinosità che c’è in una ripresa cinematografica, tutta l’organizzazione logistica, i rapporti con il denaro, con il produttore, l’organizzazione e poi il comandare cento persone, la ciurma, l’equipaggio, non soltanto gli attori, ma tutte le altre persone […]. Tutto questo l’ho appreso d’istinto da Rossellini e mi pare che sia stata la sua grande lezione […]. Ecco, ho visto la sua grazia, l’eleganza, la sicurezza, anche l’indifferenza e tutto questo mi sembrava di averlo davvero assimilato […]. Facendo finta di non esserci, per esserci veramente […]. L’unico che riusciva a captare proprio il momento esistenziale di quello che accadeva, irripetibile, o comunque a restituirlo come tale all’immagine cinematografica, era proprio lui con il suo talento particolare […]. La sua apparente sciatteria era proprio quella che creava un’atmosfera arcana, magica […]. Per un contatto misterioso, per la coincidenza di una macchina da presa lì presente nel momento giusto, un accadimento diventava essenziale e veniva registrato per sempre. Paisà è pieno di questi momenti di eternità dell’arte, colti dall’occhio che hanno solo i grandi pittori e i grandi narratori.14
E ancora: Non credo che mi abbia influenzato profondamente nel senso che di solito si dà a questa parola. Gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi […]. Rossellini ha favorito il mio passaggio da un periodo nebbioso, abulico, circolare, allo stadio del cinema. È stato un incontro importante, sono stati importanti i film che ho fatto con lui: in maniera di destino, però, senza che ci fosse volontà o lucidità da parte mia. Io ero disponibile per qualche impresa e lui era lì.15
Ciò dipende dal fatto che Fellini non si avvicina al cinema passando per la regia, ma tramite un’attività che occupa già un posto importante nella sua vita, la scrittura nelle sue varie forme, alla quale si aggiunge il disegno. Un pensiero segreto gli permette di attraversare tre dimensioni, in apparenza molto diverse tra loro, che finiscono per convergere nel lavoro a cui decide di dedicarsi. Nell’ordine cronologico ricordato: la fotografia e la caricatura;16 la scrittura di vignette per uno dei giornali satirici più in voga dell’epoca, il Marc’Aurelio; il lavoro occasionale da giornalista, nella rubrica degli spettacoli di numerose riviste: Nel mio arrivo a Roma dunque il cinema c’entrava in qualche modo: avevo visto tanti film americani in cui i giornalisti erano dei personaggi affascinanti. Non ricordo più i titoli, sono passati parecchi anni, certo è che rimasi talmente impressionato da come vivevano quei giornalisti che decisi di diventare giornalista anch’io. Mi piacevano i loro soprabiti, e il modo come portavano il cappello, buttato all’indietro.17
È dunque in qualità di sceneggiatore che arriva al cinema, un lavoro che, dopo alcune esitazioni dovute alle attività che lo impegnano al suo arrivo a Roma – senza un mestiere preciso, Fellini all’epoca sa soltanto ciò che non vuole fare –, lo occuperà per un periodo di tempo relativamente lungo. Sceneggiatore, insieme ad Amidei, di Roma città aperta e di Paisà – e aiuto regista in entrambi i film –, sempre sotto l’influenza di Rossellini, Fellini elaborerà un proprio modo di scrivere le sceneggiature, simile a quello di Rossellini stesso: Fino ad allora avevo scritto sceneggiature per vari registi […].18 Ho cominciato a utilizzare [i foglietti] con Paisà e con Rossellini. Lui si intimidiva molto [con gli attori] e allora mandava avanti me, con i foglietti.19 Dopo Paisà, scrissi per Rossellini, in collaborazione con Tullio Pinelli, il soggetto del Miracolo.20
* Davvero l’influenza di Rossellini su Fellini può essere circoscritta a queste testimonianze di una felice scoperta della relativa predisposizione nella percezione e nella realizzazione di sé? Nulla dell’estetica del primo sarebbe passato nell’immaginario visivo del secondo? Forse si può riflettere su tre aspetti, condensati in un solo film di Rossellini, Germania anno zero. In primo luogo, la carrellata e la panoramica con cui l’autore penetra nella città di Berlino, costeggiando lo spazio, lasciando che si racconti da sé, non più con scrupolo documentario o turistico, o mediante il cliché dei trionfi hitleriani, ma nel suo dolore carbonizzato di realtà schiacciata, distrutta. Riflettendo, da questa scena emana già la potenza di un sapere che ci dice il futuro di questa città; e viene rimodellata una mitologia che conferma nel nostro presente altre distruzioni, da Gerico a Sodoma, da Babilonia a Cartagine. Inoltre, carrellata e panoramica rimandano alla complessità di uno dei grandi temi specifici
del neorealismo rosselliniano: il vagabondaggio come istituzione di una nuova poetica dei territori e delle città, una poetica della modernità inaugurata dalla flânerie erratica di Baudelaire, che si farà carico della descrizione dei terreni incolti e delle periferie, fino al canto finale di Pasolini. Carrellata e panoramica percorrono e attraversano in ogni direzione il corpo e l’anima delle città, il corpo e l’anima degli uomini, di cui propongono una nuova descrizione che ci insegna da capo a immaginare le cose. Allo stesso modo, Fellini descriverà più volte e in modo sempre diverso il corpo di Roma, scovando i geroglifici e le iscrizioni che caratterizzano la contemporaneità della città. E trascrivendo in una forma che gli è propria, il significato di questi attraversamenti in linee, in scie, in tracce emotive. Un altro grande tema rosselliniano: filmare il vagabondaggio alla ricerca di letture possibili che ricordano le tracce incise sui muri, nelle vite. Sempre in Germania anno zero, Edmund Möschke, il bambino, cammina a lungo tra le rovine di Berlino, costeggia le linee, si china su zone di ombra e di luce, attraversa disegni, forse il disegno della sua vita che non riesce più a capire, che non sa più decifrare, che già viene incorniciata come la proiezione della sua morte in un quadrato d’ombra contrastato. Rossellini mostra qui la prefigurazione di quello che accadrà al bambino, della sua caduta dal mondo. Nel frattempo avrà filmato il pensiero di colui che pensa, che si mette in attesa di questo pensiero rivelatore, come in un viaggio, anche se questo viaggio si risolve in una liberazione individuale. Temi che Fellini, a suo modo, riprenderà: […] Rossellini è stato l’inventore del cinema fatto all’aria aperta, in mezzo alla gente, nelle circostanze più imprevedibili. Fu accompagnando lui per girare Paisà che scoprii l’Italia. È da lui che ho preso l’idea del film come viaggio, avventura, odissea.21 È il senso del viaggio che va cominciato per poterlo poi raccontare.22
II
PRIMO LAVORO IN COLLABORAZIONE CON LATTUADA: LUCI DEL VARIETÀ; IL MONDO DEGLI ATTORI DELL’AVANSPETTACOLO O DELLA RIVISTA E LA LORO INCURSIONE INCOSTANTE NEL TESSUTO SOCIALE; L’ATTORE SECONDARIO E LE VARIAZIONI SUL GENERE. LA MOLECOLA DEL «SENTIMENTALE». IL RADICAMENTO NEL MITO (TESPI) E LA CONTINUITÀ DELL’IMMAGINE CULTURALE (LA COMMEDIA DELL’ARTE E LA DISSIPAZIONE STORICA DELLE SUE VARIANTI). PRIMA DESCRIZIONE DELLA PROVINCIA E DELLE SUE ANIME. I MOTIVI RICORRENTI DELLA PASSEGGIATA E DEL VAGABONDAGGIO.
Il primo film di Fellini, Luci del varietà (1950), assembla in modo apparentemente casuale alcuni temi autobiografici: descrivendo il viaggio di una troupe di avanspettacolo – o di varietà – in tournée per la provincia italiana, il film è lo specchio di una materia psicologica, affettiva e sociale che l’autore conosce perfettamente, la cui storia e il cui destino gli stanno a cuore. Questi attori, con i quali ha viaggiato,1 appartengono a un mondo particolare, il più infimo che possa esistere nell’ambito attoriale italiano. Ma che cos’è l’avanspettacolo, e chi è un attore di avanspettacolo? Questa forma di spettacolo – letteralmente «prima dello spettacolo» – nasce nelle grandi città qualche anno dopo il cinema, e lo accompagna per lungo tempo, circa fino alla scomparsa del muto. È una parte del «programma» che va in scena prima del film, durante la quale si esibiscono svariati talenti: cantanti, acrobati, verseggiatori, prestigiatori, ballerini, contorsionisti, e soprattutto la macchietta, un attore capace di caratterizzare in maniera grottesca una determinata tipologia sociale o morale. Tutto ciò che il circo alla Barnum ha già proposto – animali esclusi – è recuperato in questa forma artistica, in cui sono essenziali la rapidità e l’aspetto folgorante del numero proposto, così come la dizione, che imita, deridendola, l’enfasi dei grandi attori, le pose dei grandi personaggi o, ancora, la banalità quotidiana, in cui si utilizza uno spazio scenico dalla funzione duplice, utile sia al cinema che al teatro. Fregoli, per esempio, prima di essere immortalato nei film, è stato uno dei grandi interpreti di questo genere, che riprende alcune forme del caffè concerto, del café chantant, dei bal tabarin2 delle grandi piazze teatrali europee, e il cui modello resterà per lungo tempo il Théâtre Maillol. Con l’avvento del sonoro l’avanspettacolo si è evoluto in una forma indipendente che ha preso il nome dal francese variétés, varietà, teatro di varietà, che corrisponde al music hall, con le sue due figure principali: la vedette femminile e il presentatore di rivista, che svolge la semplice funzione di collegamento fra i diversi numeri, o ne esegue lui stesso alcuni. Stranamente, la vedette verrà chiamata «soubrette»3 nella rivista di varietà italiana, per un bizzarro slittamento di ruolo e di senso al quale sarebbe difficile riconoscere un qualsivoglia significato.4 *
Luci del varietà inquadra un periodo preciso di questa esperienza, ma coglie anche il momento di passaggio, per Fellini, da un’abilità puramente funzionale – la scrittura di sceneggiature – a una capacità di elaborazione più precisa, quella di un regista.5 La motivazione esteriore del racconto, tuttavia, è determinata dalla nostalgia e dal desiderio di rimanere quel «giornalista» che Fellini sognava di essere da adolescente, e che adesso cerca di analizzare, raccontandola nelle modalità specifiche del neorealismo, un’immediatezza percepita come un luogo in cui il racconto vive dell’attualizzazione del suo passato, un passato ripetuto nei cambiamenti e nei percorsi del presente. La storia del film recupera un tema elaborato sulla base delle conoscenze acquisite in ambito giornalistico – giustificando così la posizione di narratore – e nell’avanspettacolo, o nei sottogeneri che ne derivarono.6 Fellini riprende allora, a qualche anno di distanza, alcune rubriche del 1941 incentrate sulla questione dell’avanspettacolo, e coglie – in questo presente – interessi interni al cinema come nuova possibilità espressiva in cui si fondono due elementi: Luci del varietà l’ho ideato e sentito come un film mio; c’erano dentro ricordi, alcuni veri, altri inventati, di quando giravo per l’Italia con una compagniola di rivista. Erano i primi appunti cinematografici su una certa provincia intravista dai finestrini delle terze classi o dalle quinte di teatrini fatiscenti, in paesetti arroccati su cocuzzoli ventosi o annegati nelle nebbie di tetre vallate. Il film lo dirigemmo in due, Lattuada e io: Lattuada con la sua capacità di decidere, con la sicurezza professionale dell’esperienza […]. Io stavo al suo fianco in una situazione abbastanza comoda di irresponsabilità.7
La questione dell’attribuzione del film a Lattuada o Fellini, a lungo dibattuta, non è molto rilevante. Ciò che conta è il passaggio a una nuova fase, che apre la strada a una costruzione personale, alla scrittura filmica. La trama sviluppa alcuni intrecci interessanti: segue una compagnia di attori organizzati in un gruppo sociale tipico degli scenari storicamente poco definiti (il dopoguerra non ha ancora proposto modelli alternativi) e, più in sordina, la vita di una strana categoria destinata a scomparire, che reca in sé il germe della sua estinzione. Il punto di osservazione è al centro di un ambiente considerato nelle sue abitudini e nei suoi valori più realistici.8 È la caricatura della provincia, che vive per consuetudini stratificate, senza domande, senza domani, nella ripetizione dei modi di essere e di parlare, in un’opacità in cui scompare persino la capacità di dare senso ai propri luoghi di appartenenza. Questo tema, ampiamente ripreso e rielaborato con toni che virano sempre più al fantastico,9 si sviluppa in antitesi alla presentazione della città per antonomasia: Roma, al contempo capitale storica e luogo di scioglimento di nodi in apparenza insolubili. In questi intrecci, che moltiplicano occasioni mal vissute o mal descritte, si delinea la realtà di un mondo che scompare perché incapace di aggiornarsi, ma anche a causa dell’ancoraggio impossibile a una realtà altra rispetto a quella della sua eterna finzione, nella quale la vita e l’opera si confondono in un accordo semplificato. La troupe si forma per imitazione di un ambiente sociale, con le sue regole implicite – identiche a quelle che regolano nello specifico il lavoro teatrale, il lavoro come necessità sociale in generale –, con le sue gerarchie e le sue prepotenze, i suoi desideri e i suoi deliri; viene lentamente risucchiata nell’incapacità di leggere il reale, se non come ripetizione compulsiva e ossessiva, sempre più convinta dell’esistenza di un destino che attende ogni personaggio, a sua insaputa.10 In tal senso, il monologo di Checco (Peppino De Filippo) nella scena in cui chiede a Melina (Giulietta Masina) i suoi risparmi, perfino al di là delle menzogne dissimulate, serve a fare luce su una vita che continua ad
attribuire a un altrui imprecisato le noie degli impegni esistenziali: Non merito niente, tanto sono un uomo finito io… era l’ultima occasione questa, tu lo sai Melina, perché per me il teatro è la vita. Io là sopra sono nato e là sopra devo morire. Ma sarebbe stata la mia compagnia questa… mi si sono messi tutti contro… invidie, gelosie… Dopo trent’anni di palcoscenico sarebbe stata la svolta decisiva della mia vita, e invece… […]. Io debbo ammainare bandiera perché sono un povero diavolo senza una lira… e mi basterebbero quattro soldi!
Al di là del tono shakespeariano, che ricorda il grande monologo di Macbeth sull’attore, la battuta descrive nel modo più straziante la verità-altra di una dissoluzione. La passione per Liliana (Carla Del Poggio) serve soltanto a mascherare temporaneamente la crudeltà non tanto del destino, quanto della storia stessa – un’autentica storia di produzione e denaro –, che inaugura in questo momento preciso il discorso in apparenza sentimentale che Fellini affronterà sui reietti e sugli emarginati. Allo stesso modo, il paragone con i diversi ambienti sociali che il gruppo incontra durante il film ripete in modo insistente questa lotta tra modi di essere e di parlare, accennando un doppio motivo musicale: da un lato la cacofonia insopportabile della piccola borghesia di provincia, che canta con arroganza l’opera nazionale credendo di possedere ancora lo strumento espressivo che si è accaparrata con violenza nella costruzione della sua storia, ma di cui non sa più decifrare i codici; dall’altro una melodia che appare già come un’attesa del tempo, un «mambo» continuo, violento e tenero, tema folgorante dell’opera di Fellini, motivo di esaltazione quando viene cantato da Liliana, ma libero e invadente in virtù della sua fluidità quando viene suonato, di notte, in una piazzetta di Roma. Una melodia che servendosi della funzione di allontanamento che la musica crea intorno all’esperienza vissuta, accenna alla fuga verso un esterno in cui un’altra vita sarebbe possibile per Checco e per gli spettatori. * È la descrizione di un piccolo mondo che fa naufragio. Fellini non prova nessun imbarazzo davanti alla forza drammatica della storia: essa è lì, presentata nell’evidenza schiacciante della sua ripetitività, modello ossessivo in grado di prendere forma in qualsiasi ambiente, all’interno di qualsiasi coppia, in qualsiasi individuo. Questa evidenza resta malleabile, neutra, quasi insignificante, funge da sostegno allo sviluppo di una tensione differente, che si fa carico di una specifica «sentimentalità» e rimanda a una funzione essenziale del neorealismo.11 Proprio questa sentimentalità renderà fluida la narrazione, frammentando la falsa oggettività della forza drammatica in una serie di dettagli che appartengono tutti alla storia specifica di questi attori. Tale procedimento, già presente nei titoli di testa costruiti sul modello della commedia musicale hollywoodiana, si prolunga nella presentazione dello spettacolo, del pubblico, dell’orchestra, nel finale degli attori, nei bisticci che anticipano i contrasti che a poco a poco si insinuano nel gruppo o temporaneamente lo smembrano, mostrandone ogni volta l’unione a scapito delle singolarità irriducibili. Ognuno di questi segmenti narrativi è rappresentato con una caricatura, in cui l’umorismo serve a esaurirne la violenza tramite un dettaglio appena rubato – uno sguardo, una posa, una smorfia, un gesto –, che spinge la storia drammatica verso ciò che di umanamente e sentimentalmente irrisorio possiede. Il film è costruito su questa
esaltazione della massa dei dettagli contro la massa drammatica, che finisce per indebolirsi nella ripetizione rappresentata dal finale: quella di una storia che, nel suo dramma specifico, resterà identica, ma non smetterà di essere «un’altra storia» in virtù delle particolarità che la caratterizzano. Su questo orizzonte inatteso affiora l’espressione propria del film: sentimentalità nel far ricorso al mito fondatore sotterraneo dell’attore errabondo, nella scena dell’automobile che rifiuta di caricare gli attori alla stazione ferroviaria. Questa scena, al di là della sua rappresentazione, rimanda alla capacità di resistenza presente in ogni attore, quella di restare nell’elemento che gli appartiene. L’apparizione della carrozza evoca la fine temporanea delle discordie attraverso l’adunata su questo carro di Tespi, origine mitica del mestiere di attore. Allo stesso modo, la sfilata dei numeri dello spettacolo rimanda alla particolarità di questo teatro, erede della commedia dell’arte. Ovvero ciò che è diventata la storia di un teatro italiano che nel tempo si è modellata in parallelo, o contro, o in resistenza a un’altra storia, ben diversa, del teatro – quello del Rinascimento, un teatro delle «tecniche» contro un teatro delle «passioni» –, e ciò che resta di una storia della teatralità italiana. Ed è questa deriva, riattualizzata, a essere raccontata: il rapporto conflittuale tra due forme identiche di «teatro di varietà» – quello già morto di Checco e quello apparentemente ancora in vita di Liliana –, raccontate attraverso storie che non hanno niente a che vedere con il teatro, e che mostrano da un lato un teatro dei poveri e dall’altro un teatro dei ricchi. La bellissima scena finale del music hall «chic», in cui Liliana fa il suo vero debutto, riassume questi temi: filmata da dietro le quinte, l’attrice esprime le sentimentalità in cui si scelgono e si affrontano le tecniche e i modi di «essere» di un determinato ambiente, ma sviluppa al tempo stesso un tema profondamente ironico – non umoristico – nei confronti di questo «chic» che sarà, a sua volta, spazzato via dalla televisione. A ciò si deve aggiungere un elemento che Fellini inventa e di cui si servirà ancora: la caricatura dell’immediato presente dei personaggi, che passa qui attraverso l’imitazione minuziosa della grande vedette italiana di music hall dell’epoca, Wanda Osiris, imitazione che si ispira alla sua carriera e alle storie, vere o presunte, che giravano sul suo conto. Tuttavia, sono una caricatura e un’imitazione non più tali: si tratta piuttosto di un «somigliare» preciso e profondo, più che di un «imitare», il cui effetto immediato è di sorprendere con l’indeterminatezza. «Somigliare» significa inserire nella storia un momento che è passato, e che in sua assenza rischierebbe ancora una volta di passare: dunque, ricordare da lontano. Questo «stilema», che non è comprensibile se non mediante l’applicazione «minuziosa» dei dettagli che servono a comporlo e a descriverlo, è un elemento essenziale dell’opera di Fellini, il punto nevralgico della sua riflessione sull’«adattamento» per lo schermo di opere letterarie.12 * Deriva costante, assenza di un posto in cui fermarsi, peregrinazione da un luogo all’altro: se è vero che questo elemento si sviluppa in parallelo con la vita intima dell’attore fino a divenirne quasi una risonanza simbolica, è altrettanto vero che in questo film il vagabondaggio riflette una poetica ben specifica di Fellini. Vagabondaggio da una provincia all’altra, di cui ci vengono mostrati di sfuggita i campanili e i luoghi segreti; vagabondaggio che allontana il soggetto,
separandolo dalla rete di conoscenze e di incontri; vagabondaggio attraverso le strade della grande città in cerca di soluzioni possibili; nomadismo sentimentale di Melina, di Checco, entrambi temporaneamente separati dalla loro vera storia, quale essa sia. Falso vagabondaggio, per il momento, di Liliana, che sembra l’unica a realizzare il suo sogno, vagabondaggio dei corpi e delle anime in quei luoghi così particolari che sono i teatri, veri o presunti, fatica dei corpi feriti da questa esperienza che li spinge in ogni direzione. Il vagabondaggio è descritto come ricerca consustanziale alla vita di ogni essere, ed è più forte dell’individuazione di un punto di approdo, sia pure provvisorio. Più che un motivo, questo è certamente il grande tema dell’intera opera felliniana, ripreso in varie forme in tutti i film, dai Vitelloni alla Voce della luna. Indipendentemente dalla rappresentazione che ne viene data, dalla classe a cui appartiene, l’uomo contemporaneo di Fellini è preso in questa rete inestricabile che la realtà gli getta addosso, obbligandolo a definire via via il suo destino e le risposte che quest’ultimo è in grado di dargli. Tema lancinante delle solitudini in mezzo alle folle, già in questo primo film il vagabondare sfocia su una piazza, una piccola piazza italiana, in cui i conflitti – grazie alla musica della vita e al mambo che la colora – sembrano poter prendere una direzione diversa, più serena e più accomodante. Tema preciso al punto che Fellini ne mantiene una traccia, le fila, come una rima poetica o un ritornello che ricama la fine dei percorsi: fila di piccoli preti, file di suore, di ragazzine e di ragazzini, file di persone erranti, file ripetute all’infinito, perché il vagabondare corrisponde qui a una formalizzazione della riflessione sulle cose e sugli eventi.13 Se Rossellini è presente in questo vagabondaggio, lo è già da tempo. Certo, segue anche lui le tracce di una recitazione interna alla materia di questi diversi percorsi italiani, la quale indica una concretezza impercettibile, e tuttavia condensata nel desiderio di visitare l’Italia: una visita non puramente funzionale, ma che rivelerebbe ciò tramite cui la sua immagine coincide con qualcosa dell’immediato, qualcosa di insistente, un tema ripreso ed enunciato da altri. Ma che il tema sia quello poco importa. Il vagabondaggio felliniano ha perso ogni contatto immediato con una finalità più o meno reale; è un punto di partenza, un dato di fatto della vita contro il quale non c’è nient’altro da fare, se non prenderne atto e aspettare lì dove ci scaraventa: forse un segno insolito che dovrebbe arrivare dall’esterno, probabilmente dal tempo. A proposito di questo primo film, a Fellini piace dire che la risposta a Luci del varietà è legata comicamente all’attesa di «un’alba livida»: L’alba livida. L’attesa «dell’alba livida» […]. L’alba livida era diventata una «cosa», come il cestino, come i binari del carrello, una cosa pratica da trovare, da consumare […]. Per il cinema, tutto diventa una sconfinata natura morta, anche i sentimenti degli altri sono qualcosa di cui si può disporre.14
Vagabondaggio dell’autore da un film all’altro, perché si tratta anche di voler dare colore a qualcosa che, girato in bianco e nero, finisce per virare in un colore supposto ma inafferrabile: quello livido del vagabondare, delle partenze che implica. Grazie a queste determinazioni indipendenti delle storie raccontate, Fellini sfugge agli schemi di ogni scuola, compreso il neorealismo. Si tratta di cogliere qualcosa che non esiste in una realtà data, ma che può esistere davvero, una tonalità, una sfumatura, una variazione, una fluttuazione impressa sulla pellicola, come il desiderio tenue di qualcosa di cui non si sa nulla, come la carezza momentanea di un istante di vita; qualcosa che riunisce gli esseri erranti, che ne fa qualcosa di squisito e di diverso, qualcosa che si potrà serbare per dopo, per altri momenti di attesa.
III
IL CAST DI LUCI DEL VARIETÀ. CHI È CHI, E PERCHÉ? INIZIO DI UNA SISTEMATIZZAZIONE DEI PERSONAGGI CARATTERIZZATI (IN OPPOSIZIONE ALLE PERSONE CARATTERISTICHE) NELL’OPERA DI FELLINI: L’IMPOSSIBILITÀ DI LAVORARE CON I «GRANDI ATTORI», ECCEZIONI A PARTE. FERMENTO DEL «GRUPPO» RITRATTO NELLA SUA INTERIORITÀ ED ESTERIORITÀ. ORIGINE DI UN MITO DIFFUSO: ROMA.
Luci del varietà pone in modo diretto il problema dell’attore, essendo il film pensato a partire da questo soggetto: non si tratta soltanto di descrivere gli stili di vita di una compagnia situata storicamente alla fine della sua vicenda, della sua ragion d’essere, invischiata nei problemi che nascono da quella che appare in modo emblematico come una disfatta. Bisogna anche definire quella funzione speculare ed essenziale del cinema che è l’attore. Fellini sembra ripercorrere una lunga storia, prendendo come punto di partenza il teatro, unico luogo specifico dell’attore: in tal senso, la recitazione di Peppino De Filippo ingloba, oltre al ruolo di Checco, qualcosa che appartiene al suo percorso teatrale e che gli è congeniale; è l’attore che si fa carico di questa storia, poiché ne ha vissuto la formazione, le rotture e le derive. Fellini lo ricorda in questi termini: Peppino De Filippo […] nella stalla del grande casale dove eravamo radunati raccontava la Napoli della sua infanzia, il teatro San Carlino, Antonio Petito il mitico Pulcinella chiamato Totonno ’o pazzo, Scarpetta, De Marco, detto Mfrù, e l’altro De Marco, Gustavo, il maestro di Totò; un mondo picaresco di glorie e di stracci, di avventure alla Thyl Ulenspiegel, Pinocchio, Don Chisciotte. Racconti favolosi, di attori geniali, come non ne nascono più, incarnazioni irripetibili. Ascoltavamo incantati, e lo stupendo buffone si divertiva lui stesso ai suoi racconti, con i sogghigni maligni dei suoi personaggi, infingardi e tracotanti.1
Nel film soltanto Peppino De Filippo è in grado di «caratterizzare» a tal punto il proprio personaggio, di cui ha condiviso il destino e che corrisponde a quanto viene descritto nella storia narrata: può quindi attribuirgli contorni più precisi e, al contempo, più enigmatici e sfuggenti. La parte «scritta» del film – che non si può limitare alla semplice sceneggiatura, ma include in modo implicito quello che lui desidera, pur senza ammetterlo – ha così la meglio sulla trascrizione puramente cinematografica della caratterizzazione. Fellini, che grazie alla caricatura sa già cosa può essere un «carattere», usa di rado attori molto noti, quindi troppo caratterizzati (tecnicamente e culturalmente). Dante Maggio, che ritroveremo nelle Tentazioni del dottor Antonio, e che appartiene a un’antica «famiglia d’arte» napoletana, occupa una posizione quasi equivalente a quella di Peppino De Filippo; la scelta di questo attore denota la volontà di attraversare un territorio italiano ideale: Ho conosciuto tutta la famiglia dei Maggio […]. Sono degli attori, specialmente quelli napoletani, affidabilissimi, ti danno una garanzia assoluta. Prima di girare ogni film, faccio sempre un salto a Napoli per cercare o rivedere facce di attori […]. Tutto il Satyricon è stato fatto praticamente da attori napoletani.2
C’è un duplice aspetto in queste scelte: in primo luogo, una questione già sollevata dal neorealismo, che riguarda l’impiego dell’attore e alla quale è stata data una risposta parziale «investendo» sui grandi modelli – Anna Magnani o Ingrid Bergman, per esempio – e «riducendo» gli attori «presi dalla strada». Poi una seconda, legata alla prima, inerente dal senso stesso dell’«immagine» dell’attore, alla quale Fellini risponderà in modo tempestivo, costituendo il proprio repertorio e che porterà alle problematiche poste dalla Dolce vita o ai grandi collezioni di 8 ½. In tutta la prima parte dell’opera, grossomodo fino alle Notti di Cabiria, l’elaborazione dell’immagine si confonde spesso con l’immagine del volto. Fellini, in un cinema che racconta storie prima di raccontare un film, crede fermamente nella seduzione intrinseca dell’immagine: Probabilmente all’inizio subivo di più il condizionamento narrativo del racconto, facevo un cinema più paraletterario che plastico. Andando avanti mi sono fidato di più dell’immagine, e sempre più cerco di fare a meno delle parole mentre giro.3
In un primo momento, è sotto l’influenza della narrazione che l’immagine ha attraversato la storia della cinematografia, che si è impressa direttamente sulla pellicola come una storia di volto e di fotogenia (prima di divenire visagéité, secondo il concetto deleuziano), questa immagine di colpo non ha più nulla a che vedere con il teatro, in cui il problema della «teatrogenia» è parzialmente risolto dal massimo di «caratterizzazione» possibile.4 In questa fase del lavoro di Fellini, il regime dell’immagine si confonde ancora con un discorso narrativo in cui il «personaggio» falsa i dati: Per me, il cinema prima della Guerra è sempre stato rappresentato dalla faccia di un attore. Per esempio, il sublime volto di Pizia della Garbo, ingrandito centinaia di volte sullo schermo, o la pallida maschera di Chaplin, erano volti che incarnavano estremi di desiderio e complessità psicologiche.5 Vado in cerca di facce che dicano tutto di sé al primo apparire sullo schermo; tendo anzi a sottolinearne i caratteri, a evidenziarli col trucco, col costume, proprio come avviene con le maschere dove è già tutto chiaro, comportamento, destino, psicologia. La scelta dell’attore per il personaggio che ho in mente dipende dalla faccia che mi trovo davanti, da ciò che mi comunica e anche da ciò che mi permette di intuire, di riconoscere, di indovinare dietro […]. Per me, è sempre positivo; ognuno ha la faccia che gli compete […], tutte le facce sono sempre giuste, la vita non sbaglia.6
* Rispetto a questo discorso, ricordiamo che l’incrocio di attori che avviene in Luci del varietà permette una ridefinizione dell’attore secondo alcuni criteri, che diventeranno in seguito regole ben precise. Da un lato, l’attore-personaggio, caratterizzato, già pienamente definito, troppo tipizzato dalle parti che è solito recitare e troppo noto perché se ne possano modificare i tratti, riutilizzato semmai in funzione di stereotipi propri della sua caratterizzazione: è il caso di Peppino De Filippo, di Alberto Sordi nello Sceicco bianco o nei Vitelloni; è anche il caso di Amedeo Nazzari o di Anna Magnani che recitano se stessi nelle Notti di Cabiria e in Roma; è il caso di Pupella Maggio che interpreta la madre in Amarcord. È quello che accade con Peppino De Filippo, riutilizzato nelle Tentazioni del dottor Antonio, in cui l’autore riprende i (soliti) tic paranoici, o con Alberto Sordi, che ricade in un’arroganza vanitosa, incapace di passare all’età adulta.
Dall’altro lato, l’uso di volti nuovi in Luci del varietà – che risponde in parte alla questione delle funzioni dell’attore nel cinema neorealista – è senza dubbio la novità più rilevante di questa «fabbrica dell’attore». È la prima importante apparizione sullo schermo di Giulietta Masina, il cui profilo e destino artistico sono tracciati nella scena in cui si mostra a Checco con un cappellino sul quale spunta una margherita, abbattuta in seguito da un colpo di pistola. Fellini forgia un carattere unico, che ha forse dietro di sé un percorso storico – si è parlato spesso di uno Charlot al femminile –, ma che riesce a vivere nella libertà di una vera e propria creazione. Una maschera che ha ciò che serve per sembrare nuova e che non può essere né ripresa né ridetta altrove; è una figura talmente peculiare della poetica felliniana che l’attore finirà per somigliare sempre a ciò che Fellini ne ha fatto.7 Sotto il segno di questa disposizione per la caricatura, che gli serve a «caricare» un carattere, Fellini inventerà la maggior parte dei suoi personaggi, da quelli interpretati da Marcello Mastroianni nel ruolo di protagonista a quelli affidati a Sandra Milo e a Magali Noël – quest’ultima è quasi una variante della prima –, o ancora ad Anouk Aimée che, per così dire, viene mostrata in un «provino» nella Dolce Vita e che finisce per «recitare» in 8 ½. Questa divisione tra caratterizzazione e carattere è un passaggio obbligato che Luci del varietà non si limita ad accennare, ma che penetra nel vivo di qualcosa che è già stato enunciato, pur senza esaurire l’argomento. Indipendentemente dall’uso che ne fa al cinema, è impressionante l’insieme dei testi in cui Fellini parla dell’attore, e lo fa ogni volta con una competenza che sfrutta conoscenze acquisite a una triplice fonte: il teatro in generale, il teatro «di avanspettacolo» nel caso specifico e, infine, il cinema. Il cinema italiano e quello americano – molto meno il cinema francese, nel caso di Fellini – sono le grandi riserve a cui attingere per la costruzione di queste immagini che creano un universo di fantasmi ancora in vita, dietro i quali far scivolare altre voci, altre storie, altre musiche, nell’eterno ritorno della forma. * Si profila un’impossibilità, quella di poter lavorare con i cosiddetti «grandi attori». È un aspetto che porrà dei seri problemi alle pellicole successive e che provocherà difficoltà di ogni tipo con i produttori. La complessità dei significati già scolpiti in un volto troppo noto non permetterebbe l’impeto e l’abbandono «sentimentale» necessari a un personaggio-interprete creato insieme all’opera in base alla densità del film, e non a uno sfondo mentale che non appartiene nemmeno più all’attore celebre, tanto viene ricostruito nelle ipostasi dei cliché dello spettatore. Se a Fellini serve un background, deve essere nuovo, nuovo e vergine, non appartenente ancora a nessuno e di cui il film si farà interamente carico: Apprezzo moltissimo l’attore che non vuole dimostrarmi che è bravo, che non vuole convincermi di come lui vede il personaggio. Che ne sa lui di come è quel personaggio? Viene dalla Francia, dall’America, dalla Germania, per la prima volta […]. Io non ho chiamato un attore per interpretare con la sua esperienza un personaggio, ma ho scelto una faccia perché mi pare che quella «sia» il personaggio […]. Loro spesso non sanno qual è il racconto, soprattutto tutti quei piccoli personaggi che danno poi il senso al film. Gli spettatori che vedono il film, il racconto lo devono leggere su quei volti e quelle caratteristiche somatiche, il vero racconto del film è quello.8
Si tratta di ritrovare una forza emozionale, un equilibrio della «sentimentalità» che permetta a una massa confusa di rifondersi in un gruppo relativamente omogeneo, brulicante nelle sue
singolarità, sonorità specifiche, in una partitura d’insieme in cui i minimi gesti – lo sguardo, la smorfia, diventati gesti anch’essi – suscitano le percezioni interne di quanto è soltanto esteriore. Si tratta di cogliere l’esteriorità dell’attore nel dare forma a un’interiorità che non gli appartiene, che al massimo appartiene al racconto e al discorso filmico, quello di un’immagine continua che assorbe le intenzioni del film. Da questo punto di vista, la piccola storia di Checco e di Melina non è interessante, perché inserita in una storia più generale di ricorrenze. Essa non costituisce nemmeno il cuore della narrazione, non è altro che una implosione, che si esteriorizza attraverso ciò che di provocatorio riesce a sprigionare. Così come viene descritta, la storia serve a confermare tutte le ipotesi implicite alla ripetitività del tema, e questo vale anche per il suo finale, quasi felice, visto che propone per ognuno la ripresa delle abitudini affettive, benché queste ultime siano, da sole, incapaci di risparmiare alla ripetizione le sue stesse distorsioni. Di colpo, per semplificazione del «carattere» in «caratteristica» e per aggiunta di quello di cui un carattere – in quanto caricatura – deve farsi temporaneamente «carico», non si può nemmeno più parlare di personaggi positivi e negativi: a ognuno viene offerta una sequenza di inquadrature – che può essere più o meno percorsa da una catena di effetti e conseguenze –, all’interno della quale tenta in modo intuitivo di affrontare opposizioni che gli vengono date da un disegno più grande, che lo oltrepassa, ma che gli offre, ogni volta che viene riproposto, uno sviluppo possibile, una nuova scommessa in cui rilanciare la propria condizione di attore, in cui sperimentare ancora la propria capacità di definirsi come immagine. Certo, il gruppo è messo a confronto con l’ambiente sociale e le sue false omogeneità, ed è proprio questo confronto che crea una storia. Nondimeno, in questa fase del suo lavoro Fellini deve abbandonare il confronto immediato con la storia – come è determinato dall’esperienza neorealista –, a beneficio di una redistribuzione di questa stessa storia in tutta l’ampiezza delle sue consistenze, delle sue nuove densità, che tenga conto di una certa tenerezza insinuatasi nel tessuto delle cose, malgrado tutto, malgrado le derive e le rovine. Prendono corpo altre consistenze, per il momento appena percepibili, già inserite nel divenire del cinema italiano. Quello che Fellini esprime senza tanti indugi, e con minor riserbo, al di là di un immaginario personale, è il sogno della vita di qualsiasi italiano «medio»: la conquista di Roma come punto di arrivo e di partenza, Roma come forza e opposizione di un ideale che si erge contro i torpori e i miasmi della provincia. Roma come un’alba che cancella e disfa ogni orizzonte livido.
IV
PRIMO APPROCCIO CON LO SCEICCO BIANCO. NUOVA DESCRIZIONE DELLA PROVINCIA. STRATIFICAZIONI E COMPORTAMENTI NEGLI AMBIENTI SOCIALI. LA FAMIGLIA COME DOVREBBE ESSERE E LA FAMIGLIA COME ANDREBBE RAPPRESENTATA. PRIMO NUCLEO PATOLOGICO O L’APPARIZIONE DELLA TENSIONE DEL «DOPPIO» COME FUORI DA SÉ (L’UOMO E LA DONNA, IL MARITO E LA MOGLIE). L’IMMAGINE DI SÉ E L’IMMAGINE DEGLI ALTRI COME PROBLEMATICA SUPERATA, E TUTTAVIA COSTANTE. LA SERIALITÀ IN SFILATE E GALLERIE: DEFINIZIONE DELLE SERIE E LORO VALORI. LA COSTANTE DELLA FINZIONE APPLICATA ALLA DESCRIZIONE DEI GRUPPI SOCIALI.
Lo sceicco bianco inizia con un treno che arriva a Roma, mentre I vitelloni finisce con un treno che parte per Roma; su questa partenza che non prevede ritorno, viene allestita una serie più che un tema, tanto a lungo quanto questa scena verrà ripetuta, fino a esaurirsi in Ginger e Fred e in Intervista. In essa è presente ogni volta l’evoluzione e l’involuzione di un’ambizione complessa, che non possiamo limitarci ad analizzare nei suoi aspetti storici, sociali o psicologici. Va detto che all’epoca quest’ambizione era uno dei sogni della piccola borghesia: visitare la capitale almeno una volta nella vita, se possibile per il viaggio di nozze – in tal senso il viaggio a Roma è sempre un viaggio sacro, e Roma la Mecca dell’Occidente italiano. Roma è prima di tutto erede di un passato imperiale e di conquista, poi di un passato più papalino che cattolico, ma parimenti di conquista, un passato che comprende le ortodossie e le eterodossie che hanno consegnato alla città l’insieme dei proverbi e dei significati che le vengono attribuiti. Ma Roma è anche erede di un passato più recente, quello del fascismo mussoliniano, che ha voluto e saputo rappresentare il suo potere attraverso lo snaturamento di tutti i simboli che hanno fatto la potenza stratificata di Roma.1 Questo elemento è comune alla storia d’Italia e degli italiani, i quali sanno che essere a Roma può anche significare essere «romeo», cioè errante e vagabondo, essere di passaggio, come un pellegrino.2 Tutti questi significati sono mostrati in quest’ordine dall’inizio dello Sceicco bianco: la campagna romana e le vestigia imperiali, la cupola di San Pietro, dove si concluderà con delicatezza la storia, la stazione Termini, primo grande simbolo di una riappacificazione italiana realizzata dalla riurbanizzazione e dalla modernizzazione del fascismo. Quella che viene a svilupparsi come un’ampia simbologia delle legislazioni e delle legislature ha la funzione di un quadro d’insieme per l’impostazione psicologica dei personaggi: non si tratta più di un gruppo, ma di una coppia alle prese con la conferma dei passaggi della vita pubblica, la conferma del matrimonio attraverso l’ufficializzazione esteriore pretesa dai membri della famiglia che contano nella vita pubblica, la conferma, attraverso quel completamento rappresentato dal matrimonio, di una carriera da funzionario pubblico già collocata nel solco di una coscienza pragmatica, così come è già pronta la lista canonica delle persone e dei luoghi da visitare nella capitale.3 Quantomeno è questo il piano precisissimo che Ivan espone orgogliosamente alla giovane sposa, Wanda, la quale lascia trapelare un certo sconforto rispetto a un programma
che non lascia nulla al caso. Abbiamo a che fare con una nuova descrizione della provincia, alle prese con il problema della trasmissione dei poteri, con l’eredità implicita in ogni operazione familiare – nel caso specifico, il rapporto del marito con lo zio, l’unico che possa permettergli di fare carriera in ambito istituzionale; la provincia alle prese con l’apparente rigore «imperiale» della capitale, vissuto in un’occasione che capita una sola volta nella vita, e in modo impetuoso, senza requie, come il programma esige e prevede. Tuttavia, questo confronto della provincia con il nucleo familiare e con l’istituzione della capitale non è di tipo oppositivo; non ci si aspetta altro che riconoscimenti, conferme. La vera e propria opposizione avviene con quanto si trova fuori dall’ambito familiare e legale, che invaderà con la sua violenza e la sua forza distruttiva questa piccola storia di banalità quotidiana. Come in ogni tradimento che si rispetti, è la donna-moglie a introdurre l’elemento di rottura delle regole. Al contrario di Ivan, Wanda vive in un mondo ideale e non accetta il mondo maritale, se non a condizione di custodire gelosamente la possibilità di vivere protetta dal suo duplice segreto. È vero che segue il marito in questo viaggio, ma ne condivide gli intenti solo passivamente; lettrice famelica di fotoromanzi, Wanda crede di amare l’eroe di una serie che porta il nome del suo protagonista, lo Sceicco bianco, di cui ha disegnato un ritratto che vuole fargli recapitare tramite la redazione del giornale. Quando viene a sapere che la sede si trova proprio vicino al suo hotel, fingendo di andare a fare un bagno, scappa via. Iniziano così mille peripezie che la spingeranno lontano da suo marito e da ogni ancoraggio sicuro, ma anche verso la conferma della vacuità del suo «ideale». Per ora Wanda vive soltanto nel fremito palpitante di questo sogno, componente essenziale della sua risposta quando, al giornale, le viene proposto di suggerire una battuta: «Oh! Non sono niente tranquilla! Che cosa minaccia il mio Sceicco?»
Costi quel che costi, dall’inizio alla fine della sua storia Wanda non avrà pace se non nell’affermazione di un presupposto incrollabile, a scapito delle sue diverse formulazioni: «La vera vita» dice dettando quello che dovrebbe essere il suo ultimo messaggio a Ivan «è quella del sogno, ma a volte il sogno è un baratro fatale». Ecco allora dove si annida la ferita: certo, entrambi i coniugi sognano, ma mentre Ivan lo fa nella certezza delle cose più concrete, i sogni di Wanda nascono dalle immagini costruite e tenute in vita artificialmente del mondo dei fotoromanzi. Un fenomeno unico nella vita culturale italiana, che esplode nel 1946 grazie al lancio, per i tipi di Del Duca e Mondadori, di due celebri settimanali: Bolero film e Grand Hotel.4 Fellini aderisce a un progetto che ha a che fare – alla maniera neorealista – con un importante fatto sociale; nel film è rappresentato dal punto di vista più paradossale, quando i personaggi sono trascinati a confermare le diverse elaborazioni possibili della realtà, e la loro capacità di affrontarla viene messa alla prova. Un nuovo modo di costruire l’immagine è qui rivelata e studiata da Fellini, il quale, dopo aver lavorato sull’immagine teatrale, si avventura nel campo dell’immagine veicolata dalla carta stampata. Se Fellini ha un’opinione su questo fenomeno, è certamente negativa: la storia nella storia che ripercorre la vita all’interno del giornale, i personaggi che ci lavorano, i loro profili e i loro atteggiamenti sono inclusi dall’inizio alla fine in una satira di costume che non risparmia nessuno; dalla caporedattrice, una Madame Soleil5 del suo tempo, ai collaboratori, al cagnolino, alle comparse che sfilano lungo la scala come in uno spettacolo di music hall; dalla descrizione minuziosa della sede del giornale –
simile a un altro luogo da incubo, il commissariato di polizia – agli attori in posa su una spiaggia diretti da un regista che «somiglia», tanto da poterlo confondere, a un Pirandello di seconda mano,6 fino al baccanale proposto da Alberto Sordi. Tutto indica e sottolinea nei minimi dettagli la mediocrità e la volgarità di un mondo che vive tra il travisamento della realtà e l’esaltazione dei peggiori simulacri di celluloide. * È da questo squarcio che la piccola storia di una coppia viene sottratta alla sua ordinata cornice. I due mondi s’incontrano senza vedersi, anzi si perdono di vista: come è chiaro soprattutto quando Ivan, uscendo dall’hotel in cerca di Wanda, incrocia ignaro i camion che la stanno portando fuori Roma. Le tracce ci sono, ma il caso fa sì che non ci sia possibilità di ricongiungimento. Tutto converge verso un avvicinamento massimo dei percorsi, che crea una distanza impossibile da ridurre o da recuperare. Al contrario, la bellissima ed esplicita traiettoria dei bersaglieri – in un incrocio di destini che avviene in via XXIV maggio, una delle strade più centrali della città –, finisce per confondere definitivamente le tracce, e ancor prima le idee di Ivan, rallentato dal suo stato confusionale, prossimo a passare dall’incredulità alla disperazione. S’infrangono le certezze che gli venivano dal matrimonio e da questo scampolo di vita familiare, il rapporto tra un’interiorità affettiva duplice e un legame possibile con un esterno che deve essere garantito dalla famiglia a ogni costo: quella famiglia che dovrebbe essere presentabile alla famiglia stessa e invece non lo è più. Ivan, allora, non può fare altro che rappresentarla nella sua assenza, che crea in lui una linea di sospensione e di attesa sulla quale prenderà una serie di decisioni razionali e irrazionali. La ferita schizofrenica si apre in lui in tutta la sua profondità, fino alla crisi di pianto catartica nella piazzetta di notte. L’esperienza pericolosa di Wanda segue lo stesso corso di quella di Ivan: all’inizio sembrava essere soltanto una semplice verifica della realtà del sogno, ma si rivela un’avventura che scivola inesorabilmente verso l’incubo. E data la sua incapacità di riannodare le fila di un reale che non le ha insegnato a vivere, l’unica via d’uscita, agli occhi di Wanda, è quella di mettere fine ai suoi giorni. Con grande maestria, Fellini riesce a mostrare in poche scene relativamente brevi la complessità delle trasformazioni subite in successione da Wanda, nel corpo e nell’anima. Alla fine, il suo percorso morale sembra identico a quello di Ivan: lei è, almeno quanto lui, prigioniera di un baratro che si spalanca sotto i suoi piedi e che sembra inghiottirla, anche se, in ultima analisi, tutto ciò che può fare è riaffermare la forza e il valore catartico del suo sogno, cercando di eliminarne ogni componente equivoca o perversa tramite la traslazione di immagine che opera, sul ponte, con l’angelo bianco del Bernini: lo Sceicco bianco ha preso le sembianze dell’angelo, l’unico, ormai, in grado di garantirle ancora il suo paradiso perduto, prima che incarichi il marito di occuparsene, ricomponendo così la completezza della sua realtà. La coppia, che in Luci del varietà veniva rappresentata all’interno di un gruppo instabile, il quale si inseriva a sua volta in modo intermittente in un tessuto sociale più ampio, si trova immersa in una struttura più complessa, anche se, in entrambi i casi, è un elemento esterno a turbare equilibri soltanto apparenti. Ivan e Wanda devono affrontare una serie di prove che, partendo dalla coppia, deve condurre alla famiglia passando per le procedure di verifica. La
redazione del giornale, il commissariato di polizia e l’ospedale assumono questo ruolo – solo una legge interna può procedere a queste verifiche –, e ognuno di questi elementi lo fa eludendo qualunque conclusione estranea al proprio universo.7 In entrambi i casi emerge con chiarezza l’incapacità della coppia di costituirsi come entità, a meno che non abbia affrontato le prove necessarie per arrivare a una condizione più sfumata, che ha tuttavia soltanto l’aspetto di una riunificazione. Se il finale sembra concedere le gioie di una riconquistata monogamia, non manca di constatare, tuttavia, una cesura netta: il marito trionfa nelle sue necessità di conferma e di carriera, mentre la moglie ratifica il suo mondo di sogni. La battuta finale di Wanda, «Ivan, il mio Sceicco bianco… sei tu!», ricrea all’interno della coppia la dicotomia che l’esteriorità dell’evento improbabile – l’incontro con lo Sceicco bianco – avrebbe permesso di superare, se Wanda avesse potuto darne una lettura concreta. Anche davanti alla violenza dell’evento, Wanda continua invece a credere nella forza del suo sogno – un sogno distruttore perché basato sul funzionamento di simulacri all’interno di una vicenda che dovrebbe, malgrado tutto, dipendere dal sacro: il matrimonio e la sua convalida pubblica, secondo codici e riti precisi, le cui leggi, divine e umane, proibiscono l’uso di immagini diverse dalle proprie. Questa problematica rimanda a una questione analoga. A essere messa in discussione è la reciprocità tra uomo e donna, tra marito e moglie, benché possa sembrare superata dall’assenza di risposte legata allo stallo del suo status quo: in quali rapporti la reciprocità, allo stesso tempo, si combina e non cessa di combinarsi, ovvero di preservare l’equivoco delle ripetizioni che sembrano gli unici fondamenti dell’unità? Quali sono le sue immagini possibili? Senza dubbio, alla fine del frammento che ci viene mostrato, a essere riorganizzata è soltanto l’immagine semplice, temporaneamente infranta, dei due protagonisti: se gli eventi hanno portato Ivan a mettere in dubbio per un istante il suo orgoglio, a piangere, non per il suo destino, ma per una vergogna concreta, a vivere un vero nomadismo affettivo; se gli stessi eventi hanno portato Wanda a mettere in dubbio il suo sogno, e anche lei alla vergogna e al vagabondaggio, è altrettanto vero che l’immagine di sé, in un caso come nell’altro, si ricostituisce nella ripetizione di una modalità culturale e storica identica: si cancella tutto e si ricomincia da capo. Si «dimentica» quello che forse non è mai successo, si dimentica tutto quello che viene escluso da questa azione e che è esistito in noi; un oblio che, come un nuovo Lete, si compie nell’abbraccio orgiastico e rituale del colonnato del Bernini nella scena finale del film, un abbraccio che, al contempo, dichiara che il giogo dell’ordine divino si impone nuovamente su tutti, e che là dov’è Dio tutto diventa possibile. * Alle linee erratiche di Luci del varietà corrispondono, nello Sceicco bianco, altrettanti percorsi sul motivo della sfilata: sfilata di attori di fotoromanzi lungo una scala, con una musica in sottofondo; sfilata di bersaglieri che corrono al tempo di un’altra musica; sfilata delle immagini sulla spiaggia che concorrono a creare un racconto di finzione, con un’altra musica ancora; sfilata di documenti e di portici nel cortile del commissariato; sfilata di uomini, in questo stesso cortile, che permette a Ivan di «svignarsela» con passo scandito dalla loro musica; sfilata delle prostitute nella piazzetta; sfilata di persone all’ospedale; sfilata di sposini in udienza al
Vaticano. Dietro questa modalità espressiva si nasconde sempre un significato recondito, l’apparizione non svelata di un piccolo «nucleo patologico»: la sfilata a San Pietro comporta, dissimulandole, alcune modalità molteplici; allo stesso modo, la sfilata dei bersaglieri contiene diversi livelli di significato. Sottolinea le tracce mentre le cancella, le sposta mentre le disegna, toglie valore all’incrocio come intersezione perché non vi accade più nulla; non solo non è più luogo d’incontro, ma è soprattutto negazione di un momento privilegiato per Ivan: il riconoscimento della «gioia della Patria», che la sfilata avrebbe dovuto rappresentare, si trasforma per lui in sconforto.8 La serie che viene a crearsi, pur ripetendo una forma e una maniera che possono essere percepite soltanto come effetti di stile, serve a rivelare, magicamente, le relazioni ambigue, ma effettive, che l’immagine intrattiene con la storia che racconta. Ciò avviene sia attraverso un pathos psicologico, sia attraverso un pathos storicista, sia, più in generale, attraverso un pathos descrittivo che trascina l’immagine verso una complessità figurativa. La serie serve allora a risolvere temporaneamente insiemi, confusioni, interruzioni in una riflessione che non è inserita nel film, ma che tuttavia è presente, pronta ad afferrare, a dare corpo e a rilanciare la narrazione sotto forma di materia ottica. Tanto più che l’elemento della serie non riappare mai con le stesse intenzioni descrittive o narrative, ma secondo una linea pronunciata che, proprio per questo, porta in sé i termini stessi della sua significazione, e dunque della sua comprensione. Tutte le passeggiate, come tutte le sfilate, non rimandano mai esattamente alle stesse implicazioni, ma si inseriscono nella ripetizione di un motivo ogni volta indipendente, che trascina lo sviluppo della narrazione nelle sue zone più centrifughe. Motivo di linearità, di cui vedremo come incontra quello dei riferimenti e delle letture stratificate, degli accostamenti che ricreano di continuo i rapporti tra le immagini. È anche tramite le serie narrative che il gruppo o l’ambiente sociale, quello della piccola e media borghesia, continua senza sosta a deviare verso storie personali che non gli appartengono se non per caso, giusto il tempo di bruciarle e rinnovarsi temporaneamente in esse: sempre qui nasce il tema ricorrente della finzione applicata alla descrizione dei gruppi sociali – più o meno sempre la stessa – osservata da punti di vista e da focalizzazioni diverse. Dalle variazioni della ripetizione e delle analisi si origina, invece, la vera differenza tra le storie, attraversate da una stessa «sentimentalità» che investe ogni racconto tramite molteplici sfaccettature e volti che imprimono nuovi significati.
V
DISCORSO SULL’IMMAGINE. LO SCEICCO BIANCO COME IMMERSIONE NEL SOGNO: L’IMMAGINE E IL SOGNO, OSCILLAZIONE DELLA REALTÀ E SUA TRASFUSIONE-ELEVAZIONE, LA SUA TRANSUSTANZIAZIONE NEL SOGNO VISSUTO COME REALTÀ. L’ATTORE: VERO O FINTO. IL TENTATIVO IMPOSSIBILE DI INTERIORIZZARE QUANTO SI TROVA FUORI. SECONDO NUCLEO PATOLOGICO: REALTÀ E RAPPRESENTAZIONE. INCROCIO DI EQUIVOCI E DI ALIBI IN UNA SITUAZIONE SCHIZOFRENICA: ESSERE SE STESSI NON SIGNIFICA ESSERE QUALCOSA. SOLUZIONI E RISOLUZIONI DEL POSSIBILE: DALLA PERDITA DELLA REALTÀ AL SUO RECUPERO. APPARIZIONE DELL’ANGELO.
La questione dell’attore, che era al centro di Luci del varietà, viene ripresa nello Sceicco bianco, ma in maniera indiretta, coinvolgendo soltanto un piccolo gruppo riunito occasionalmente per una giornata di lavoro. Tuttavia, ciò che è messo in gioco in questo campione relativamente ridotto fa nascere l’opposizione necessaria a una dialettica della trama: nell’animo di Wanda si affrontano due mondi, quello pragmatico di Ivan, che lei considera astratto e poco interessante – e che, di fatto, essendo fondato su ruoli sociali, si basa soltanto su modalità esterne alla vita, ed è quindi astratto quanto il suo –, e quello del suo sogno, fatto di immagini, al quale cerca di dare la precisione oggettiva della realtà. Questo desiderio, incerto all’inizio, in seguito permea risolutamente le sue azioni: Wanda desidera conoscere in carne e ossa l’uomo dei suoi sogni, dapprima con timidezza, poi con sempre maggiore convinzione, grazie alla sequela di complimenti e proposte che riceve. Per lei si tratta di verificare quel reale di cui ha deposto la matrice nel disegno che porta con sé. Lo sceicco bianco riprende, dopo Luci del varietà, un discorso complesso sull’immagine e pone una domanda che Fellini svilupperà ulteriormente in altre circostanze. Questa domanda si sviluppa qui su una linea che va dall’immagine dello Sceicco bianco a quella dell’Angelo bianco del Bernini, nella scena del suicidio mancato, fino a quella dell’Angelo del Vaticano nella scena conclusiva, attraverso inquadrature sempre dal basso verso l’alto. La complessità è data dai diversi piani proposti: l’immagine dello Sceicco proviene da un supporto, il giornale, da cui viene tratta una seconda immagine, il disegno, che cerca di somigliare alla prima. Ora, questa somiglianza esiste davvero, è presente implicitamente nello sforzo che mira a far coincidere il piano della realtà oggettiva della foto sul giornale con la capacità di comprenderla, di farla propria attraverso il disegno. Le differenze che si possono rilevare non sono dovute a un’imperizia tecnica, ma a quanto di affettivo è sfuggito alla composizione manuale: far propria un’immagine richiede necessariamente un’interpretazione, non fosse altro che per difetto, un prendere possesso dell’immagine. Quello che Wanda vuole capire non è se l’immagine sul giornale corrisponda o meno allo Sceicco bianco – o se l’immagine dello Sceicco bianco corrisponda o meno a quella del giornale –, visto che essa coincide per forza con il dato reale che è in principio servito da supporto al suo immaginario e lo ha nutrito. In tal senso, l’immagine sul giornale non può che somigliare a se stessa. Wanda
vuole verificare, piuttosto, l’aderenza tra la propria immagine – l’immagine che lei ha fatto sua a partire dalla propria elaborazione affettiva – e la realtà dello Sceicco bianco; vuole verificare il grado di adeguamento, sia per difetto che per eccesso, dell’immagine reale del protagonista alla «precisione» dell’immagine che ha creato lei stessa: si tratta di quantificare il valore e il significato di questa differenza, visto che è in essa, nella determinazione delle sue zone, che risiedono la qualità, la potenza, e dunque la realtà del suo sogno. Ed è proprio ciò che dirà lei stessa: «La vera vita è quella del sogno, ma a volte il sogno è un abisso fatale!». Situare l’evento sul piano dell’identità e della corrispondenza delle immagini significa porre un’altra domanda, sempre inerente all’immagine: è vera o falsa? Il che significa porla a chi dovrebbe avere una risposta, ovvero, in questo caso, a tutti coloro che quelle immagini – nelle quali si finisce per credere – le realizzano, quindi ai redattori del giornale, al regista, agli stessi attori: Wanda segue minuziosamente il tracciato di questi percorsi, in modo quasi inconscio, che la conducono, dopo qualche deviazione, alla visione dello Sceicco bianco. In un rinvio costante della scoperta del desiderio incarnato, la narrazione segue il filo di tutti i racconti, di tutte le cacce al tesoro, nelle quali a ogni tappa si suppone che sia stato superato con successo un certo numero di prove – che Wanda supera del resto, ma scavandosi intorno in modo sempre più evidente quello che lei stessa chiamerà «abisso fatale», alla fine del viaggio. * Ora, la «visione» del modello – Alberto Sordi su un’altalena, giustamente celebre – soddisfa appieno il suo contratto implicito: innanzitutto perché, nella distanza che la rende lontana e tremula, ma di un tremolio luminoso e persino incandescente, questa visione colma in modo perfetto la distanza prodotta dal tracciato affettivo del disegno a matita, che finisce per sbiadire nel suo grigio nitore. Da dove trae la sua forza questa immagine? Proposta nei modi dell’apparizione e del miracolo, fa letteralmente oscillare la realtà nella sua trasfusioneelevazione, dà corpo al sogno che, da lì in poi, è vissuto come l’unica realtà possibile. È un’immagine abbagliata, prima ancora che abbagliante, o nell’abbaglio di una mitologia lontana, che emana un motivetto, vaporoso come un tabernacolo nella sua orgia di sete bianche, gonfie di promesse nuziali, involata verso il compimento di destini insospettati, di viaggi inconcepibili, di paradisi perduti, di Orienti estremi. L’immagine viene esaltata dall’inquadratura dal basso, che la solleva e la scaglia verso un infinito, fino a produrre la visione, molto elaborata, di un altare profano, la quale recupera, nei suoi attraversamenti e nei suoi passaggi, universi mitici più recenti, intrecciati di palme e di liane, come quelli di Sandokan o di Tarzan; e tuttavia è guastata da segni già equivoci. Nel campo della rappresentazione, l’altalena non ha mai smesso di essere associata al femminile: Fragornard, Watteau. Affiancarvi quella che dovrebbe essere un’immagine di mascolinità, ancor prima che di virilità, è un’operazione non priva di intenzioni né di equivoci. L’andirivieni dell’altalena ricorda ed evidenzia il movimento primordiale e fondamentale che si compie quando si «fa l’amore»: andare avanti e indietro, all’infinito, un infinito soggettivo e oggettivo al contempo, un infinito interiore ed esteriore. Andare avanti e indietro, e parallelamente velare e svelare, grazie al fluttuare di tessuti che aderiscono al corpo o volteggiano. Andare avanti e indietro, velare e svelare, all’infinito, alla ricerca di un orgasmo
impossibile perché proiettato verso un infinito che lo dirige e che lo sottrae alla storia, e tuttavia sospeso, indefinito. Il movimento dell’altalena si afferma in una compulsione di ripetizione che non raggiunge mai il suo punto di compimento – toppa o chiave che sia –, poiché movimento e compimento non aderiscono se non in modo imperfetto al piacere stimolato, e si rivelano incapaci di indicare la loro vera realizzazione senza passare per la deviazione di metafore moltiplicate, infinite come il movimento dell’altalena. L’immagine è equivoca in quanto inserisce il maschile, alterandolo, nel registro del femminile: l’altalena esprime non tanto la penetrazione, quanto l’invaginazione o l’«impenetrazione», un aspetto attivo del femminile – e, da parte sua, è Wanda a penetrare almeno la scena con il suo sguardo allucinato –, ed è per questo che l’attore sull’altalena ha qualcosa di femminile, è nel femminile.1 La scena dell’altalena inaugura una modalità espressiva associata all’andare avanti e indietro – forse la duplicità del chi è chi? –, perché all’equivoco del maschile rappresentato in un aspetto femminile si aggiunge quello dello Sceicco bianco, che non esiste di per sé, ma viene impersonato o raffigurato da un attore. Un secondo scarto si apre nella percezione del reale di Wanda, la quale oscillerà seguendo una linea d’incertezza che la conduce dallo Sceicco all’attore. Tanto il primo è «vero», quindi all’altezza del suo sogno, quanto il secondo si rivelerà «finto» – soprattutto quando si lancia, sulla barca, in gesti di seduzione più concreti –, dunque non adeguato alle sue aspettative, dopo esser passato per due volte attraverso un regime impuro in cui vero e finto coincidono: la grande scena di seduzione nel bar e la scena del racconto patetico che l’attore fa della propria vita amorosa, un racconto che reimmerge Wanda nella propria fantasia di purezza ideale. Grandezza devastante di Alberto Sordi, che non si risparmia nell’espressione caricaturale di queste molteplici sfaccettature: tutto è assorbito in un delirio calcolato della forma – una forma generosamente volgare che coinvolge al contempo il volto e il corpo, e nello specifico le espressività emesse dalla parola e l’insieme delle gesticolazioni parodiche, dei tic controllati alla perfezione, delle false somiglianze, che rimandano ad altrettanti codici culturali dell’immagine, soprattutto dell’immagine cinematografica –, un delirio che unisce tutte le contraddizioni proprie alle due tipologie sviluppate, lo Sceicco e l’attore, l’uno nell’altro, l’uno credendosi e prendendosi per l’altro, e riesce a dare spessore alla temerarietà dell’equivoco. In questa scena Alberto Sordi2 utilizza codici linguistici presi da numerose fonti: una canzone che evoca New York, quindi il sogno hollywoodiano e il suo cinema, un «bonjou…» detto male, alla francese,3 lingua della seduzione per eccellenza, una parlata che prende le mosse da una forma adattata di dialetto romano, ma tenuto sospeso, una tonalità vocale che cerca di neutralizzare, o piuttosto di rendere in tono neutro, le inflessioni dialettali; a essere saccheggiato è anche il senso immediato della lingua, come nella battuta rivolta a Wanda sulla barca, «… una felicità che proviene dal ricordo di una vita posteriore… Posteriore o anteriore?», in risposta alla battuta precedente di lei: «Ho una confusione in testa, che strano, mi sembra di non essere più io». Per quanto riguarda i gesti, un’andatura ondeggiante il cui ancheggiare rivela le pieghe di una pinguedine che sfiora le mollezze di un castrato, di una finta odalisca; il gioco delle dita che scandisce la dimestichezza con i tempi e i modi del corteggiamento; l’indice alzato che dà il cambio alla «carineria» del mignolo alzato di tanti gesti femminili; gli sguardi contraddistinti da una porcinità sporcacciona; le figure di una danza che ricordano un’imitazione di Rodolfo Valentino nel Figlio dello sceicco, di cui il personaggio dovrebbe essere al
contempo erede designato e copia. Tutti modi controllati alla perfezione per rendere più complessa l’immagine. * Da questa incapacità dell’attore a muoversi nella sua interiorità, potendo vivere soltanto nella duplicità che le esteriorità della recitazione e delle riprese gli offrono, affiora un secondo «nucleo patologico»: la rappresentazione – che va quindi di pari passo con la riconquista dell’interiorità – non può essere colta nella sua totalità se non in secondo piano, nella descrizione minuziosa delle cause che creano ogni effetto. La parte segreta e impercettibile, che ne costituisce lo spessore, resiste, mentre la rete di informazioni che racchiude viene mantenuta lontana dalla caratterizzazione e dalla sua formalizzazione. Il tema appare solo in quanto realtà narrata, che prende corpo grazie a effetti policromi i quali sottolineano le piste evitandole, le tracciano cancellandole. Il tema dell’altalena e dell’altalenare racconta la storia: l’altalenare tra Wanda e Ivan rispetto all’oggettivazione dei loro rapporti, l’altalenare tra lo Sceicco e l’attore, l’altalenare tra il sogno di Wanda e quella parte di realtà che esso svela. E ancora: l’altalenare nella storia interna dello Sceicco bianco attore, combattuto tra il personaggio, l’interprete e la sua condizione di uomo sposato: la realtà che rappresenta da sua moglie metterà del resto un primo punto fermo ai sogni di tutti. Nel frattempo, qui pro quo e alibi non smetteranno di incrociarsi, creando una situazione nella quale ognuno dei protagonisti riesce soltanto a rimettere in moto la modalità schizofrenica nella quale «essere sé» non significa «essere qualcosa», quel «qualcosa» che la storia sta tracciando all’insaputa di tutti. L’ensemble delle altre figure – troupe d’attori, zii e zie della famiglia – è rapito dal vortice delirante di una storia che non è la loro, ma nella quale sono tutti obbligati a sembrare loro stessi senza «esserlo», e senza mai essere «qualcosa». È allora la storia stessa che trasferisce, a una velocità minuziosamente calcolata, il possibile verso la sua risoluzione. Ivan e Wanda aderiscono entrambi, nello stesso momento, a una risoluzione-rassegnazione, a una sorta di abbandono. Il primo finisce, alla fine di una lunga giornata di vagabondaggio e di sofferenze rimosse, in una piazzetta notturna identica a quella vista in Luci del varietà, nella quale i tormenti della storia trovano uno scioglimento emotivo: la massa affettiva accumulata confluisce in questa piazzetta in cui è raccontata di nuovo, questa volta però non più da un punto di vista sentimentale, ma nell’esteriorizzazione di un «sé» più autentico, dimentico della volontà di successo, che si avvicina infine all’oggetto che crede di amare e che per adesso è soltanto la causa del suo dolore. Ivan racconta alle prostitute, per la prima volta, il suo affetto per la moglie, della quale conosce, con ogni evidenza, poco; e quel poco che sa è strano: l’immagine di una donna-bambina è abbozzata nel vuoto della notte, l’immagine di una ragazzina che va a scuola o fa la prima comunione. Ivan non ha più paura né vergogna di parlare di quello che fino ad allora è stato per lui inconfessabile. Le lacrime riparano – in entrambi i sensi – un dolore nuovo, diverso, almeno per il momento placato. Nello stesso istante, Wanda arriva finalmente a Roma, anche lei al termine di una lunga giornata di vagabondaggio e di sofferenze rimosse. Dopo aver tentato invano di raggiungere Ivan, decide di purificare la sua vergogna e quella della coppia tramite un suicidio fallito all’ombra di un angelo del Bernini che, dal ponte, le volta le spalle; una nuova figurazione di
uno Sceicco che non oscilla più sull’altalena tra sogno e realtà, ma prefigura, al contrario, la dura misericordia e il fatto che ogni perdono, in un modo o nell’altro, deve essere pagato con una miseria personale. L’Angelo chiude la serie delle immagini di sogno inaugurata con l’apparizione dello Sceicco, più commovente e più sentimentale, più abbagliante perché preparava ai segni materiali della felicità, mentre l’Angelo indica con la sua spada soltanto la via delle realtà pure attribuite a un altro sogno raccontatoci da sempre come ancora più grande.4 All’immanenza tattile del sogno in carne e ossa segue la trascendenza di un sogno di pietra, inalterabile, che ricolloca o respinge il sogno nelle zone puramente oniriche dell’immagine. Anche Wanda deve rassegnarsi alle soluzioni imposte dall’esteriorità della storia e della sua storia personale, e restare nella duplicità della schizofrenia, nelle soluzioni che questa genera, nello status quo che spettava alla realtà prima di tuffarsi nel suo dolore e di riemergere nelle affettività che quest’ultimo mette in gioco. Il mondo ricompone allora i suoi frammenti nell’unità ritrovata grazie alle mediazioni di sempre, che per il momento riassorbono le contraddizioni. Una marcetta e un motivetto musicale portano a quest’ultima finzione che è la rappresentazione di un’assolutezza del sogno, quindi direttamente al papa, lo Sceicco bianco di tutti.5 * Il film si apre con Roma e si chiude con San Pietro, emblema di eternità, la rappresentazione principale del cattolicesimo che conferma l’ordine di quelle strutture a cui Ivan ha tanto anelato. Il viaggio ha risposto alle domande che si poneva – sulle nozze, i rapporti familiari, la fiducia verso sua moglie –, e gliene è data conferma nell’ultima scena, in cui il colonnato del Bernini e la sua schiera di angeli lo rassicurano con la loro protezione armata: un abbraccio che, comunque, chiude in una morsa coloro che a questo anelano. È la Roma dei papi, vero potere della città, con la sua aristocrazia gerarchizzata, vero potere tentacolare, al di fuori e oltre la città, il cui significato non può essere occultato, ma è rivelato in pieno giorno, come attesta l’assemblea degli angeli, che Fellini descrive mettendola in risalto. Le altre stratificazioni di senso, in particolar modo l’Impero, sono evocate soltanto in momenti precisi, a seconda delle necessità; per esempio ciò che rimane dell’epoca fascista, una sorta di complemento e prolungamento del papato, come il papato era succeduto all’Impero e a tutti gli imperi sorti all’ombra della città. Senza dubbio la presenza tanto invocata di Dio garantisce il perdono dal peccato e, al tempo stesso, la sua potenzialità e il suo traviamento, come è accaduto per Wanda: altrove, questa storia avrebbe forse avuto un finale più crudele, ma Fellini conosce Roma e i romani: qualcuno veglia da vicino sui potenziali suicidi.6
VI
I VITELLONI, O «IL MONDO È UNA FESTA MOBILE». STORIE DI FAMIGLIA VISTE DALL’INTERNO DI UNA REALTÀ SOCIALE IN CAMBIAMENTO. LA SERIE DEGLI AMICI, LE LORO DIFFERENZE. CARATTERI: IL DISSOLUTO, IL RIFLESSIVO, GLI ALTRI. GRUPPI DI UOMINI, GRUPPI DI DONNE. L’AMBIENTE GIOVANILE IN FELLINI: L’ESSERE CHIARO E L’ESSERE SCURO. I SEMITONI. LA SERIE DEGLI STATUS: IL LAVORO, IL QUOTIDIANO, CIÒ CHE NON È NÉ L’UNA NÉ L’ALTRA COSA. LA FESTA E I SUOI VALORI: COME POTREBBE FINIRE IL MONDO?
Se Luci del varietà si definiva come «l’attesa di un’alba livida», I vitelloni (1953) racconta il passare delle stagioni in un’età precisa nella vita degli uomini e in un certo ambiente provinciale. Ma prima di tutto: che cosa sono i «vitelloni»? Fellini, riassumendo alcuni temi del film, li definisce così: Sono i disoccupati della borghesia, i figli di mamma […]. Nessuno di loro sa bene che cosa vorrebbe fare […]. Non hanno attitudine per niente in modo speciale; aspettano sempre una lettera, un’offerta, una combinazione che li porti a Roma o a Milano, per qualche incarico generico, onorifico e redditizio. E aspettando sono giunti, chi più chi meno, verso i trent’anni, passando la giornata a fare discorsi e scherzetti da ginnasiali.1
Forse per la borghesia è difficile uscire dall’adolescenza, immaginare e affrontare la vita a livello lavorativo – il rapporto di contiguità o di opposizione con il lavoro e i lavoratori è sottolineato più volte nel film –, lasciare quella condizione neutrale concessa, in modo provvisorio, dall’aver seguito, bene o male, un percorso di studi, ed è ancora più difficile dal momento che tali studi portano solo a situazioni di incertezza, in una mancanza di definizione che può prolungarsi all’infinito. È proprio questo protrarsi indefinito che Fellini cerca di raccontare attraverso cinque tipologie umane. I primi nuclei di somiglianza sono determinati dall’appartenenza a una stessa classe sociale (una piccola borghesia relativamente benestante), dalla convivenza in una stessa città (Rimini)2 e da abitudini comuni consumate nell’attesa che i giorni passino e la vita si assesti. Di fatto i cinque personaggi condividono un percorso simile, ma con variazioni e intensità che oscillano tra due poli, rappresentati rispettivamente da Fausto e da Moraldo. Se la storia di Fausto è la storia stessa del film, i tre personaggi intermedi non sembrano trovare un loro sviluppo all’interno del racconto: da questo punto di vista la figura di Riccardo, tratteggiata in modo rapido e subito lasciata da parte, segue il destino filmico di Leopoldo, murato nelle sue fantasie di autore teatrale, o di Alberto, il cui carattere compiaciuto, profondamente pusillanime e narcisista, sembra non essere mai messo in discussione da alcuna esperienza dolorosa. L’unico che maturi quanto a sensibilità e riflessione è Moraldo, benché ignori dove possa condurlo questa sua maturazione. Le esperienze personali, tuttavia, s’inseriscono in un ordine molto rigido, quello familiare. La famiglia non è più quella che appariva nello Sceicco bianco, l’entità che si costituisce attraverso il consolidamento del rapporto Ivan-Wanda, o l’entità astratta della «parentela» da
cui bisognava ottenere riconoscimento e ufficializzazione. Nei Vitelloni il mondo familiare è soggetto a una descrizione minuziosa quanto quella che riguarda le tipologie umane che ne derivano. Come in Pirandello, i vecchi e i giovani ripetono da capo una storia circoscritta in contesti abituali, e la famiglia conserva, per quanto possibile, un’influenza potente sui propri discendenti, sugli eredi: le vecchie zie su Leopoldo; gli anziani genitori su Riccardo; una madre vedova e una sorella che rifiuta di diventare una vedova bianca su Alberto; una famiglia impoverita – umile e modesta – su Fausto, il cui padre passa il tempo con una strana bimbetta in attesa di un destino; una famiglia come si deve, i cui progetti sembrano realizzarsi, su Moraldo: un padre, una madre, una sorella, il tutto invischiato in una morale benpensante e conformista. Inoltre, I vitelloni descrive rapporti non soltanto generazionali, ma anche morali: i giovani sperimentano da soli la propria capacità di vivere, in altri termini non si accontentano di un facile sapere trasmesso. Sandra e Fausto costruiranno la loro esistenza attraverso confronti graduali con gli eventi. Moraldo rifletterà sull’esperienza di tutti gli altri, cosa che gli permetterà di affinare la sua sensibilità e di inseguire il proprio destino, mentre i suoi compagni si arenano nella ripetizione di un quotidiano senza sorprese e costruiscono ricordi di ogni genere e i modi per servirsene. Il ritratto delle famiglie dall’interno tiene conto di cambiamenti economici e sociali che sono già compiuti in Italia. A prescindere dal punto di vista dal quale lo si osserva, il tema essenziale di Luci del varietà o dello Sceicco bianco si sviluppa in un mondo esterno. Dai Vitelloni emergono descrizioni di interni fluttuanti, di forme tradizionali, persino arcaiche, che evolvono verso spazi in cui si esplicano modi di vivere; il cui quotidiano, coinvolto nelle sue stesse trasformazioni, traduce una volontà implicita di andare oltre una storia già morta. Si vuole sottolineare la transizione tra un tempo antico di resistenza e di lotta e un mondo più calmo e riflessivo, più economicamente libero. Questi nuclei familiari assumono significati diversi. Da un lato, le famiglie incapaci di riflettere sulle cose, di farsi carico della complessità dei movimenti, sono prigioniere della tradizione e della sua ciclicità: è il caso delle famiglie di Leopoldo, di Riccardo e di Alberto.3 Dall’altro, gli sviluppi di una storia capace di affrontare i problemi portano ad alcuni superamenti, non importa quali: è il caso delle famiglie di Sandra e di Fausto, che garantiscono una successione ordinata e accolgono la nuova linea di cui si fa carico Moraldo. Sono così tracciate tre linee: il tradizionale-arcaico-morto (Leopoldo, Riccardo, Alberto); il tradizionale-vivo (Sandra, Fausto); l’antitradizionale (Moraldo), l’unico che riesca a proiettarsi in una storia di differenze. * Questa differenza nel trattamento dell’analisi sociale viene suggerita da una pellicola più luminosa, anche se questa chiarezza è dovuta in parte alla leggerezza della narrazione. Il montaggio accosta drammi e gioie a una velocità che mancava nella storia più cupa e frammentata di Ivan e Wanda, anche se Fellini gioca in entrambi i casi sulla rapidità e sulla semplicità del racconto. Questa accelerazione non avviene a scapito della precisione e dell’abbondanza dei dettagli: al contrario, è sostenuta dall’uso, inedito in Fellini, di una voce narrante che serve a concentrare e alleggerire in modo graduale la massa delle informazioni,
seguendo ritmi e tempi della parola, più rapidi della descrizione per immagini.4 Il racconto procede per accumulazioni che hanno diverse caratteristiche: massa di dettagli narrativi da parte della voce narrante durante la festa di fine stagione, in cui vengono presentati i personaggi e, al contempo, fornite informazioni e fissati i cliché inscindibili dei ritrovi mondani della piccola borghesia. Mole di dettagli narrativi dopo la partenza di Fausto e Sandra per il viaggio di nozze a Roma – da cui riportano una novità tecnica, il giradischi portatile, e soprattutto il mambo –, che permette una presentazione più intima dei personaggi e la prima manifestazione di uno spessore riflessivo in Moraldo. Mole di dettagli narrativi nel momento in cui Fausto è assunto alla bottega di oggetti sacri. Mole di dettagli alla nascita di Moraldino. A questi livelli, che servono a scandire la storia, si oppongono i dettagli nella scena della festa di Carnevale: che si tratti dei preparativi o della festa stessa, i dettagli accumulati, divenuti soltanto descrittivi, hanno perduto ogni valore narrativo. Quasi informi, trascinati come nostalgie impossibili, cenni indiscreti della descrizione, fanno emergere il momento critico di ogni presa di coscienza. Inoltre, la scansione data dalla voce narrante libera nuovi spazi all’interno del film, dove l’immagine aderisce solo parzialmente a ciò che la voce riferisce: si schiude una dimensione dell’immagine a completa disposizione di altri racconti intrecciati, non detti, di cui non si parla, raffigurazioni di paesaggi o di interiorità affettive trasferite sul piano della pura rappresentazione. Con tutta probabilità, a questo livello, uno dei refrain più belli del film è una storia di vento: storiella del vento della città, tenera storia del vento, tema musicale del vento, musica che s’invola e si avvita e torna, scherzosa e beffarda, una storia di vento che rapisce e svela, uno dei momenti più puramente poetici di Fellini, il vento come un nastro che annoda tra loro i frammenti narrativi. È un vento che viene dal basso, dalla terra, che rasenta i marciapiedi, sfiora la base dei muri, accompagna in segreto i personaggi, li guida nel loro vagabondare e li porta a trovare vie da percorrere. Così il vento che soffia sulla grande spiaggia in cui Alberto scopre la relazione amorosa di sua sorella: quindi il vento del silenzio, anche, che cade come tenebra sugli occhi. Il vento compone le sue serie recitative, salmi interni all’opera, scansione ritmica e lirica, che può essere accostata alle sere stellate e solitarie dedicate a Moraldo. Anche qui viene delineata un’altra serie, quella tenera, carezzevole e affettuosa delle sere di Moraldo, che non giudica, che aiuta, ascolta e risolve, come può: la lunga serie delle sere di Moraldo in compagnia di Guido – un angelo che attraversa le notti degli uomini, difensore senza spada –, carezza felliniana alla giovinezza che dice soltanto parole semplici e giuste, amicizia del cuore e degli occhi, simpatia fuori dalla storia e senza storia, dove si impara soltanto a nominare le stelle: chiare sere di una chiarezza dell’animo, in cui l’innocente semplicità incontra il dono della sua profondità e la regala. In Fellini la presentazione psicologica è sempre contraddistinta da una grande delicatezza, il suo cinema è attraversato dalla luce, anche nella descrizione dei personaggi indolenti. Tutto è detto in una luminosità speciale, la stessa che sostiene il racconto: non c’è nulla di cupo a offuscarla, e le connotazioni negative sono temporanee, assorbite rapidamente dal racconto, che finisce per giustificarle, per renderle, cioè, giuste e chiare. Al contrario di Visconti, i cui personaggi, assediati dal proprio destino, devono regolare le loro azioni in funzione delle pieghe tragiche che ne conseguono e che li sottopongono alla necessità di un giudizio e di una dannazione, Fellini aggira questo ostacolo fondamentale della drammaturgia del personaggio e conferisce a quest’ultima una sfumatura impalpabile, inafferrabile, un profilo che, benché
venga dalla caricatura, non si appesantisce mai con i segni dell’ironia o del sarcasmo, mantenendosi al livello di un umorismo semplice, adeguato a situazioni spesso banali. * Mondo dei padri, mondo delle madri, confusioni necessarie. Tuttavia, il mondo femminile, compreso quello materno, non è il tema di questo film. È soltanto sfiorato, più volte, in molteplici sfaccettature, ed è spesso mescolato a un’espressione sorprendente del femminile. Non c’è alcuna relazione che leghi tra loro le donne, né Sandra a sua madre, né la sorella di Alberto alla propria. Le donne sono sempre ricondotte alla storia degli uomini, a una storia del maschile che non si confronta mai veramente con il femminile – come avverrà con violenza nella Strada, nelle Notti di Cabiria e nella Dolce vita –, ma soltanto con la propria espressione narcisistica, con il proprio affermarsi attraverso codici sociali che sembrano particolari, ma che in definitiva non sono che ordinari. Eppure, anche qui si determinano traiettorie che saranno ripercorse più avanti, linee di immagini o di tipologie femminili: la bellezza di Claude Farell, la sorella di Alberto, che sembra anticipare Anouk Aimée; la tipologia di Sandra, imprigionata nella rete di un amore del tutto esplicitato, troppo rassicurante e soffocante, che verrà riesaminata attraverso la figura di Emma nella Dolce vita; la bambina, la sorella di Fausto, inconsueta nella sua semplicità chiacchierona, forse in attesa di esplodere nella bimbetta che originerà l’evento malizioso delle Tentazioni del dottor Antonio; a queste si aggiungono le madri, più o meno pettinate all’antica, secondo le tradizioni di questa provincia che aspira a follie pacate e normate. Nella sequenza incentrata su Fausto, il rapporto con il femminile è più significativo. La sua relazione con Sandra rimane fuori dal film, nel senso che comincia prima che il film abbia iniziato a raccontarne la storia. Evitando e sfuggendo la realtà, Fausto, seduttore ipocondriaco, è prigioniero del suo stesso gioco compulsivo, e si abbandona alla sua mania caotica con il corpo e con il cuore, non appena se ne presenta la possibilità e in qualsiasi situazione, incapace di scegliere con precisione l’oggetto del proprio desiderio. Prima è deluso dall’incontro con la femme fatale – in una scena di iper-rappresentazione, nella quale la fatalità affianca un destino, evidentemente impossibile, che le parole stesse della donna confermano, rimandando l’occasione alla fatalità di un destino futuro –, poi sarà respinto dalla moglie del padrone, Giulia, il cui esempio morale dovrebbe insegnargli che il destino non è né una casualità né una circostanza, ma è ciò che ne facciamo. La sua storia s’inserisce in una successione di deviazioni dal lecito, che condanna la sua indolenza alla costruzione di sensi di colpa che lo inducono a tornare dalla moglie: l’unica volta in cui l’occasione si concretizza è durante l’avventura con la vedette di music hall, ma quest’ultima fa appunto parte del lecito: secondo i criteri dell’ordine morale, la vita delle ballerine di music hall sembra dover essere sempre «leggera». L’approccio è diverso nel caso di Alberto, l’unico a non avere relazioni con il femminile; il suo egocentrismo e il suo narcisismo, tuttavia, sono pieni della presenza colpevolizzante della madre e della modalità di separazione familiare, altrettanto colpevolizzante, alla quale perviene sua sorella; senza dimenticare che il rapporto con lei si basa sul denaro, ed è simile a quello di un magnaccia con la propria prostituta. L’assenza di relazioni con il femminile lo spinge forse ad assumerne l’aspetto mediante il travestimento carnevalesco; e nell’ubriachezza molesta
cerca di scacciare a parole la propria consacrazione al celibato: «Non sei nessuno, non siete nessuno tutti […]. Ci dobbiamo sposare!» esorta. La storia, guidata dalle figure paterne, fa davvero irruzione il giorno dopo la festa di Carnevale. Il padre di Sandra vuole picchiare Moraldo e Fausto; il padre putativo di Fausto, che è stato il suo datore di lavoro, lo conduce dal vero padre, che gli impartisce una lezione: in questo modo tutto rientra nell’ordine della morale ripristinata, dell’eredità e della successione. Ricordiamo la scena dello Sceicco bianco in cui Ivan, disperato, finisce al commissariato, dove la richiesta che gli viene fatta, ripetuta come un’eco e moltiplicata dalla sua coscienza malata, lo spinge a fuggire: «Il nome di suo padre!». Ancora una volta, anche se le tensioni sono state portate all’estremo, è il mondo dell’ordine giusto, o di una giustificazione ordinata degli eventi, a recuperare i suoi diritti, un mondo le cui convenzioni rinchiudono le individualità nei canoni di un destino che non può essere più ordinario di così. E a dimostrarlo è la carrellata delle camere dei personaggi che chiude il film e che serve non tanto a creare una nostalgia del passato e del luogo abbandonato, quanto a confermare una rinuncia definitiva. Ma al di là del paterno, presentato nelle conseguenze delle eredità morali, sono le caratteristiche specifiche del maschile a interessare l’autore: l’uomo nel suo divenire adulto. Questa sperimentazione viene filmata, prima ancora che narrata.5 Anche i diversi caratteri – il dissoluto, il sensibile riflessivo, il pigro cinico e narcisista, l’idealista, il melodioso – sono delineati come insiemi dentro ad altri insiemi che si costituiscono attraverso l’unità del film. E questa unità definitiva è espressa da Moraldo, poiché ha attraversato una per una tutte le situazioni affettive e morali, cristallizzate infine nella forma di una scelta che ora è in grado di compiere. Cosa che non avviene per tutti gli altri protagonisti, i quali restano legati non all’esperienza, ma alla ripetizione delle loro abitudini. In termini di immagine, quindi di caratterizzazione dei volti, ritroviamo alcuni codici già stabiliti dalle modalità espressive felliniane. Nella sfera specifica dell’attore, Alberto finisce per somigliare all’Alberto Sordi dello Sceicco bianco e si ricollega al crescendo degli effetti psicologici, secondo una retorica che appartiene a lui soltanto; allo stesso modo, così come Leopoldo riprende la tipologia di Ivan e la sviluppa a un livello minore. Si potrebbe immaginare che il personaggio di Leopoldo, per esempio, sia stato costruito a partire da quello di Ivan, ma soltanto dopo la scena della piazza notturna dello Sceicco bianco; e che la figura di Alberto viene definita nel momento in cui, sulla spiaggia, non è più lo Sceicco bianco, ma solo un uomo dentro la sua storia banale. Il problema non è né rinunciare né affermare l’unità stilistica dell’attore Leopoldo Trieste o dell’attore Alberto Sordi: la ripresa di attori in Fellini non sembra essere decisa in funzione di un’interpretazione o di un volto – sebbene questi elementi esistano, anche in modo evidente –, ma si organizza intorno a un tema più intimo, ancora una volta quasi segreto. Senza questo sarebbe difficile capire – al di là dell’ovvietà del successo – il ricorso ripetuto ad attori come Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Anouk Aimée o Anita Ekberg. Nei primi film sono inseriti percorsi di riflessione, serie, continuazioni, o piuttosto lasciati inespressi. Questo procedimento, del tutto originale, non può essere ricondotto a serie praticate altrove nel cinema:6 si tratta della creazione di un presente dell’attore, una materia che non ha trovato spazio altrove e, in altri film, si costituirà in quanto vissuto. Questo vissuto passato diventa il «rilievo» quasi scultoreo dell’attore, il suo corpo e la sua anima sono colti in tempi differenti che si esteriorizzano in un momento dato della creazione, come un nuovo ricordo (impresso) in una parte cosciente del regista, dell’attore e dello spettatore, come se un
passato comune li riunisse. In questa fase della filmografia felliniana, che racconta delle storie, la realizzazione delle scene ricorrenti procede secondo una stessa modalità; queste scene saranno riprese quando Fellini avrà smesso di raccontare, o quando racconterà in un altro modo. Tale modalità rende possibile, inoltre, una stratificazione delle conoscenze e una loro utilizzazione costante e parallela. In tal senso, forse le problematiche interiori appartengono alla ripetizione, poiché sono comuni a tutti, e soprattutto perché non si possono esprimere diversamente, né si può dare loro risposta. * Come costruire allora un volto che porti in sé al contempo una domanda e una risposta riguardo al maschile adulto? Dai diversi volti scaturisce qualcosa di forte che, tuttavia, ha a che fare con un’assenza di significato o, piuttosto, con un’assenza di segni. Mentre i volti – e l’immagine filmica – di Leopoldo, di Riccardo, di Alberto e persino di Fausto sono attribuibili a un insieme ristretto di temi, di tic, di piccole manie, il volto di Moraldo appare in una sorta di purezza chiara e neutra, quasi una disposizione alla bontà. Tutti giocano a biliardo, tutti ballano il mambo, tutti cambiano con l’arrivo della primavera, tagliandosi i baffi, facendosi crescere le basette o spuntando la barba, come per sollecitare da queste trasformazioni contingenti il cambiamento di realtà più profonde che tuttavia a loro sfuggono. Moraldo è in ascolto, non ancora rapito da tic e manie, e si prepara a un divenire che appartiene a lui soltanto: una decisione, una partenza, le uniche cose che possono confermarlo in una nuova saggezza, in qualcosa di giusto. Come c’è e ci sarà una moltitudine di volti per raccontare il femminile, esiste una linea del maschile che si dispiega con precisione, composta a partire da quello che esclude nel confronto con le altre immagini-volto. Franco Interlenghi nei Vitelloni, come Antonio Cifariello in Agenzia matrimoniale, rivela questo disegno tracciato in una sorta di astrazione che cancella il carattere, le definizioni ingombranti di un surplus di segni: una linea del liscio, del dolce, dell’esile, forse dell’arrotondato, in cui s’incrociano i primi tratti di personaggi futuri, che porteranno alla vera creazione di Fellini, cioè a Marcello Mastroianni, dalla Dolce vita a Intervista,7 o ancora, in modo più definito, a Donald Sutherland in Casanova. Nel frattempo, la psicologia e i comportamenti sono stati attraversati da una storia sociale in cui ognuno cerca di verificare la propria condizione: il quotidiano sfila nella molteplicità delle sue manifestazioni, rappresentato nella policromia neutra di un concertino di musica da camera. La vita lavorativa, che tiene occupati quelli che hanno una certa età, si affianca a un altro modo di vivere, estemporaneo, quel bighellonare tutto italiano, quell’indolenza, l’essenza stessa dei vitelloni, un’arte esistenziale del «far niente» già intessuta come materia e significato, che verrà ripresa in seguito nel titolo della Dolce vita. I soggetti della storia sfilano e creano significati immediatamente apprezzabili, e che tuttavia si proiettano verso altre storie, come nel caso delle sequenze nel negozio di oggetti sacri in cui Fausto è assunto, e in cui si inizia un discorso che sarà poi ripreso più avanti, costituendo un’ennesima linea di racconto. È proposta così, nel modo in apparenza più scontato, una riflessione su un tema che non riguarda immediatamente il religioso o il sacro, e nemmeno il divino, ma che colloca questi
aspetti in una dimostrazione da sviluppare ulteriormente. L’immagine del sacro è moltiplicata all’infinito nei simulacri delle icone, da cui affiora il complesso delle simulazioni che appartengono a questa storia, rivelando in tal modo una lettura supplementare del carattere di Fausto e della condizione sociale nella quale finisce per trovarsi: finto seduttore contrariato, la sua indolenza lo induce al furto e alla menzogna; allo stesso modo, i simulacri del divino enunciano soltanto una bugia equivoca sul divino e sul sacro, e riescono a malapena a proporre un’immagine stereotipata del religioso.8 Attraverso il furto della statua dell’angelo e l’impossibilità di rivenderla – i religiosi non sbagliano, essendo degli specialisti, non si può rivendere o comprare ciò che possiede un carattere sacro – è ripreso un tema, che produrrà ulteriori varianti, già accennato nell Sceicco bianco: l’incontro con l’angelo e con l’innocente Giudizio, quindi l’incontro tra l’angelo povero e l’angelo dorato,9 ci ricorda che anche Wanda, l’innocente, ha trovato un angelo sul suo cammino, un angelo guardiano che passa, creando il suo silenzio allusivo. Ma l’angelo – o almeno una delle sue varianti – è già presente nel personaggio di Guido, il piccolo ferroviere, descritto anche lui secondo una variazione dell’innocenza.10 * Al di là della storiella raccontata attraverso la descrizione dell’ambiente, è la commistione sociale a emergere e a essere sorprendente, quella particolare commistione che crea la festa, le innumerevoli feste di una giovinezza che dissipa il suo presente nella speranza del futuro. Nelle feste tutti si sfiorano, padroni e commessi, cameriere e signore, in tenute che conservano ancora l’idea del rango sociale, durante la festa di fine estate, e in travestimenti che invece annullano la realtà, durante quella di Carnevale, nella quale ognuno conserva i suoi tic e le sue manie. La divisione per classi, la non permeabilità e le separazioni che costituiscono il tragico sono sconvolte. Sono feste profane di una società che tende e aspira alla laicizzazione, a un’espressione culturale che mostri la sua singolarità, mentre si allontana dalle tradizioni: i padri e le madri, del resto, vi partecipano una sola volta. Alla festa ufficiale si aggiunge una festa esteriore: una breve storia dell’avanspettacolo con le sue retoriche superate – la poesia e la canzone interpretate dal «grand’attore», i balli e le loro logore coreografie – riprende la linea recitativa nata in Luci del varietà e portata avanti nello Sceicco bianco attraverso la messa in scena grottesca e ironica di un’opera, il Don Giovanni. C’è poi la grande festa che mette fine all’inverno e annuncia la primavera, come se la festa aprisse per ognuno uno spazio sconosciuto pronto a ricevere stimoli e sorprese inconsuete, con tristezze che si trascinano e drammi che si presentano già al momento dei preparativi. Se la festa inizia con descrizioni sempre minuziose, i dettagli perdono velocemente i loro contorni definiti, diventano una massa informe, si dissolvono nella materia delle musiche che fanno da struttura portante alla festa stessa: si cerca qualcosa attraverso una «Titina» che non si trova, i piedi s’incrociano e inciampano dietro un charleston, perché i passi del ballo confondono tracce e piste. La tristezza annunciata scoppia poi come un temporale. Della sua vita, ad Alberto non rimane altro che una grossa testa di cartone da trascinare non riconosce più nessuno; né può riconoscere se stesso, se non rientrando senza esitazioni nel gruppo sociale. Sono queste le parole che rivolge a Moraldo: «Non sei nessuno, non siete nessuno tutti […]. Ci dobbiamo sposare!». Conclusione ipotetica di
un mondo, ma quale, a dirla tutta? La domanda resta aperta: la festa che finisce non annuncia nulla, se non che la festa stessa è finita. Da qui in poi il film si occupa della descrizione di piccoli drammi e della loro risoluzione. Fino alla partenza di Moraldo.
VII
SOLITUDINE DEGLI UOMINI NELLA CITTÀ: L’AMORE IN CITTÀ E AGENZIA MATRIMONIALE. I PRIMI ACCENNI DI UN LUNGO DIBATTITO: FACILITÀ E DIFFICOLTÀ DEI RAPPORTI IN UN MONDO IN CUI LA PUBBLICITÀ INVADE LO SPAZIO MORALE. SIMBOLI DEL LABIRINTO E DELL’ERRANZA.
Agenzia matrimoniale (1953) inaugura modalità espressive inedite nella filmografia di Fellini: da un lato, il film a episodi, che il regista riprenderà altre due volte con Le tentazioni del dottor Antonio, uno degli episodi di Boccaccio ’70 (1962), e con Toby Dammit, in Tre passi nel delirio (1968), trasposizione di un racconto di Edgar Allan Poe; dall’altro, in secondo piano, si delinea un genere al quale Fellini darà grande risalto, il reportage-intervista, presente in Prova d’orchestra e Intervista, passando per I clowns. Il titolo generale del film, nato da un’idea di Zavattini e con Marco Ferreri alla produzione, è L’amore in città. Qui il lavoro di Fellini deve confrontarsi con quello di registi del calibro di Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi e Alberto Lattuada.1 Ma questo cortometraggio è per Fellini anche la prima occasione di prendere posizione nei riguardi del neorealismo: Fu Cesare Zavattini a offrirmi di partecipare con un episodio […]. Accettai di partecipare a quel film di gruppo con lo spirito polemico dello studentello che vuol prendersi sornionamente beffe del suo professore. I vitelloni aveva avuto un gran successo, ma fin da allora la critica di sinistra prendeva le distanze. Pur esprimendo consensi, venivo rimproverato di aver ambientato il film in una provincia senza connotati precisi, mi si accusava di insistere troppo sulla poetica della memoria e di non aver saputo dare al film un chiaro senso politico […]. Inventai un’agenzia matrimoniale annidata nelle soffitte di un enorme palazzo fatiscente; è la storia della ragazza che pur di sposarsi accettava di unirsi in matrimonio con un licantropo. Giurai che tutto era vero, e quando mostrai il primo montaggio del mio episodio, gli autori del film-reportage si voltarono verso di me molto soddisfatti: «Hai visto, caro Fellini, che la realtà è sempre più fantastica della più sfrenata fantasia?».2
È la prima testimonianza di una rottura irritata con neorealismo e affini, anche se il racconto di questo episodio si sviluppa come un’inchiesta su una realtà ben precisa: vi si descrive il cinismo delle agenzie matrimoniali e la condizione disgraziata dei gruppi sociali di cui queste si approfittano, in un violento rapporto servo-padrone. Individui immersi nella realtà di uno sconforto affettivo e materiale che definisce esistenze impossibili, percepibili nello sguardo rassegnato della ragazza durante la lunga sequenza di confessione che chiude l’episodio. Individui tenuti in un’illusione falsata da un regolamento crudele delle cose, che pone i soggetti in un’eterna attesa per le loro vite. Tra questi due segmenti sociali scivola, in una sorta di neutralità, la figura «oggettiva» del giornalista: senza appartenere né all’uno né all’altro di questi due mondi, egli ha, insieme, l’elasticità di chi vuole capire e il cinismo di chi non riesce davvero a credere di cambiare le cose. L’interesse, dal punto di vista di Fellini, sta nella non identificazione di colpe ideologiche o sociali: i due mondi sono entrambi colpevoli di automantenersi in rapporti equivoci, ma
perfettamente regolati dalla consuetudine o da ciò che appare come una necessità. Se è vero che la gravità dei problemi del dopoguerra si è attenuata all’inizio degli anni cinquanta, la società resta comunque condizionata da un’indigenza culturale e morale. Fellini si limita a descrivere alcune forze attraverso luoghi e formalizzazioni che suggeriscono la violenza di certe situazioni, accumulando immagini che già appartengono al suo repertorio. Il racconto è introdotto da una voce narrante che dilata il tempo del reale, poiché il tempo della sua parola corrisponde al tempo globale dell’evento: il prima, il durante e il dopo della storia si costituiscono in un unicum all’interno del quale il narratore esprime anzitutto l’intenzione (prima) della sua attenzione, cosa che farà (durante) dando già le conclusioni del suo operato (dopo) – sospensione –, proponendo un modello di stratificazione del tempo recitativo che raddoppia il tempo di riflessione e ricezione. Questa voce riprende la narrazione dei Vitelloni nel momento stesso in cui quest’ultimo avrebbe dovuto interrompersi: se Moraldo lasciava Rimini per Roma, il giornalista che gli succede, e che ne interpreta il doppio, rimane quello stesso personaggio della biografia di Fellini. Adesso siamo a Roma – lo capiamo dopo essere entrati in un edificio molto vecchio e molto grande; Roma, il palazzo antico e il nome dell’agenzia, «Cibele», rimandano a una stratificazione di segni che appartengono alla città come elementi costitutivi di un corpus, per ora embrionale.3 Il palazzo, infatti, nasconde la sua porzione più popolosa all’ultimo piano,4 al contrario di quanto avveniva nell’antica Roma. Il palazzo è un vero labirinto, un labirinto di catacombe,5 nel quale si percepisce e si rintraccia, mediante le soste e le domande del protagonista, la realtà sociale che fa da sfondo al discorso neorealista; se non fosse che queste informazioni sembrano il risultato di un caso fortuito più che il frutto di una volontà specificamente realista. Non è tanto una questione di distanza, quanto di sospensione: il punto essenziale è l’attraversamento di questo labirinto in cerca del punto di arrivo, l’agenzia. Irrompono alcuni temi: innanzitutto, l’elaborazione di un percorso nel quale ciò che l’erranza può avere in comune con il vagabondaggio si coniuga con una migliore definizione del luogo. È una nuova specificità dell’erranza che esita rispetto al compimento della sua ricerca: trovare un luogo. Allo stesso modo, la ricreazione di uno spazio poetico di ombre e luci che si succedono ricorda il labirinto mentale delle ultime scene di Germania anno zero di Rossellini, uno spazio rafforzato dalla presenza dei bambini che, a ritmo di samba, precedono il protagonista nella sua ricerca. Tutto ciò rimanda al codice della favola (gnomo, Pollicino, Peter Pan), già presente in Rossellini in forma di miracolo, che Fellini trasforma moltiplicando le entrate dei bambini, degli idioti, di forme che appartengono al campo di una forte idealizzazione «materialista» dell’innocenza.6 Questa composizione sembra dimenticare lo scopo della suo vagare: la localizzazione dell’agenzia. Protagonisti di questa scena di ombre e di linee intrecciate, i bambini svolgono molteplici ruoli: filo di Arianna del ritrovarsi, vengono avanti, disperdono le loro tracce prima di riapparire magicamente, unici detentori di una piccolissima e utile conoscenza; si moltiplicano a mano a mano che il protagonista avanza nel labirinto, lasciando percepire una delle funzioni del matrimonio: la procreazione. Il loro numero crescente, inoltre, rimanda al codice di una proliferazione culturalmente meridionale e propria di una società preindustriale. *
L’arrivo all’agenzia e la sua descrizione chiudono la prima fase dell’erranza. Questo mondo della burocrazia e del controllo è stato già descritto nello Sceicco bianco, quando il marito va al commissariato per cercare sua moglie. L’agenzia matrimoniale, pur non avendo gli stessi interessi dell’insopportabile mondo burocratico della polizia, non smette di scimmiottarlo. Il padrone dell’agenzia si presenta come un ex poliziotto che in due ore può sapere tutto sulle donne che propone, «solo sulle donne assumiamo informazioni, non sugli uomini, le donne perché c’è qualche volta qualche bambino di mezzo, capirà, bisogna essere molto, molto prudenti». Il discorso «poliziesco» appare sempre come una garanzia di serietà e di successo in un mondo che non intrattiene altri rapporti con la legge morale se non in questa forma di laicismo, quella dei carabinieri e dei poliziotti, che ne esprime la forza più che la conoscenza, rappresentata invece dalla giustizia. Il padrone dirige l’agenzia solo sotto banco, ufficialmente la direttrice è, come vuole la modernità, una donna, ricorda la direttrice della rivista di fotoromanzi dello Sceicco bianco: ed è ancora a ritmo di samba e attraverso una tenda fluttuante che veniamo introdotti nel suo ufficio, svelato da una rapida panoramica sugli elementi stravaganti che ne compongono il mobilio e sul disordine, in particolar modo un manichino da sartoria e scartoffie che ne certificano la competenza, come le schede di iscrizione, numerose, che il giornalista deve firmare e pagare.7 Il caso di epilessia e di licantropia inventato dal giornalista corrisponde a un atteggiamento duplice di Fellini nei riguardi del racconto filmico in generale e di questo racconto in particolare: si tratta, tecnicamente, di presentare il caso più disperato per mettere alla prova la credibilità stessa dell’agenzia, ma anche di mostrare il cinismo che predomina in simili attività, di far emergere il mero sfruttamento economico, mentre si fa credere di lavorare per la felicità delle persone. Si aggiunge poi un aspetto più cupo, che consiste nel porsi in un atteggiamento volutamente trasgressivo rispetto ai canoni neorealisti, sottolineando che, a prescindere dall’opzione scelta, rimaniamo nel campo di una dimostrazione che interpone tra il piano del reale e il piano del possibile la sua condizione di finzione.8 D’altro canto, il carattere paradossale del caso serve a porre l’accento sulla miseria delle relazioni umane in un mondo in cui queste sono organizzate da istituzioni invece di essere gestite dagli individui. La descrizione di questo ambito sociale – il cui senso di colpa e la cui miseria ne costituiscono gli elementi principali – avviene attraverso la presentazione dei componenti della storia: due poli (l’agenzia e la ragazza) che non si scompongono per l’intrusione di un terzo elemento esterno il quale non riesce a proferire parola, tanto le due parti sono ugualmente aggressive. Al punto che, alla fine dell’incontro, il giornalista si dimostra incapace di dire ciò che gli sta a cuore. Se ne fa carico la voce fuori campo che chiude la questione rivolgendo allo spettatore, pur di fronte a un’umiliante esistenza vissuta all’insegna della predestinazione alla disgrazia, un messaggio di speranza e di fiducia nella vita: Sentivo che avrei dovuto dire qualche cosa, non per giustificare me, ma per aiutare lei. Avrei voluto dirle di avere più fiducia in se stessa, che si guardasse intorno, che aprisse gli occhi alle infinite possibilità d’incontri che la vita presenta ogni giorno, ma tutto ciò mi sembrava retorico e soprattutto era inutile. Le sue difficoltà immediate, le angustie quotidiane da superare, avrebbero continuato a sembrarle l’unica cosa importante e reale. Non dissi nulla. Solo, quando ci lasciammo, le augurai sinceramente buona fortuna.
Nulla intacca l’irriducibilità della storia, raccontata senza sbavature, senza falsi sentimentalismi, in cui traspare nuovamente il gusto manifesto di Fellini per la notazione, non tanto del fatto di cronaca, quanto dell’elemento imponderabile che proviene dalla rappresentazione dei dettagli. Questi si accumulano come altrettante massime nella
materializzazione dei segni della realtà. Il labirinto dedalico percorso senza angoscia, i bambini che ne rallegrano l’attraversamento, la luminosità specifica che attenua gli elementi brutali della storia legata a un samba aereo, la tenda fluttuante, la campagna romana. D’altra parte, grazie alla scelta di Antonio Cifariello e al ruolo che gli viene proposto, si sviluppa un meccanismo di elaborazione di cui si cominciano a percepire le frequenze: prima di tutto la presenza del giornalista, testimone fondamentale per la descrizione della realtà, che il film da solo non riesce più a garantire; e poi l’emergere – forse preso dalla cinematografia americana, si pensi a Viale del tramonto e al suo protagonista – di questa figura come elemento preponderante nell’analisi del reale, piuttosto che del vissuto reale, come si andrà ad affermare gradualmente nei pochi anni che separano il film da una contemporaneità diversa, quella della Dolce vita, di cui tali frequenze costituiranno la traccia indispensabile. Infine, l’utilizzo di un personaggio maschile i cui tratti prefigurano l’aspetto che assumerà l’interprete dell’autobiografismo felliniano: una certa disponibilità – tra dolcezza e tenerezza – caratterizza Antonio Cifariello, che conferma la fisionomia di Franco Interlenghi nei Vitelloni, il Moraldo della biografia immaginaria. Gli stessi elementi saranno in seguito quelli di una virilità matura, che ha superato le fasi dell’adolescenza provinciale e nell’ambito della quale si affermerà la formazione di un attore come Marcello Mastroianni.
VIII
L’AMBIENTE SOCIALE PERDUTO: LA STRADA. UN INCONTRO APPARENTE TRA IL BENE E IL MALE. LA QUESTIONE DELLA RELIGIONE: COME FORMULARLA? RAGGRUPPAMENTO DI ALCUNI TEMI FELLINIANI. PRIMA PARTE. IL NEGATIVO E LE SUE SERIE: 1) IL PIÙ (ZAMPANÒ) E IL MENO (GIULIETTA) NELL’«OBIETTIVO»; 2) L’UOMO E LA DONNA COLTI IN FORZE D’OPPOSIZIONE; 3) LA PESANTEZZA E LA LEGGEREZZA: CHI NON HA UMORISMO (ZAMPANÒ), CHI VIVE NELL’UMORISMO (IL MATTO). SECONDA PARTE. IL POSITIVO E LE SUE SERIE: 1) L’INCONTRO DI DUE ASPETTI DI UNA STESSA POETICA: L’ESISTENZA PERDUTA (GELSOMINA E IL MATTO); 2) IL BENE E IL MALE: LE GENEALOGIE, LE TOPOGRAFIE E I TOPONIMI; 3) COME POETICIZZARE IL DRAMMA DELL’ESISTENZA?; 4) L’IMMAGINE E I SUOI RIMANDI IMPLICITI, TEMI DI UNA POESIA DI OGNI TEMPO NELLA DESCRIZIONE DELLA VITA (IL PATETICO COME FORZA POETICA).
Una riva, un tratto di mare, segnano l’inizio della Strada. Il film si conclude con lo stesso tratto di mare. Al centro, questa linea di mare dice qualcosa che ha a che fare con un luogo d’origine. Proprio in quel momento, Gelsomina parla per la prima volta con Zampanò: «Da che parte è la mia casa?». Poi, come a correggersi, aggiunge: «Adesso, la mia casa mi sembra con voi». L’origine si è trasformata in semplice provenienza, immediatamente smentita per trasmettere una rivelazione ben più importante attraverso quel «la mia casa mi sembra con voi». Quello che manca a Gelsomina e a Zampanò è un luogo, come a Checco e Melina in Luci del varietà, ma il luogo mancante della Strada non può essere un’abitazione, un ambiente domestico: deve essere per forza qualcos’altro, un luogo tra due mari, tra due sponde. Il titolo struttura questa impossibilità del luogo nella sua trascrizione abituale, una casa o qualcosa di simile. Evoca un’erranza diversa, chiusa in se stessa, che ha come geografia e storia soltanto il suo svolgersi maniacale e monotono su quello che è a malapena un carro di Tespi. Non è un’erranza nella quale si cerca qualcosa, per i sentieri di campagna, per le strade di città o di paese, com’era stato il caso finora. È un labirinto che non porta da nessuna parte, una trappola. È la strada, una strada circondata da un tratto di mare che ne esprime l’isolamento e, paradossalmente, una forma di liberazione, ritmata da tre momenti diversi, come una melodia dalla strana cadenza. Il punto di vista del film si situa su questo piano: la strada, costante, implacabile. La strada su cui per Gelsomina tutto ha inizio, la strada su cui per lei tutto finisce, in un sonno in apparenza dolce della vita impossibile. La strada non è un luogo, anche se poteva essere molti luoghi. Ma non sarà così, qualcosa di più forte di ogni volontà decide altrimenti. Fellini vive un periodo in cui – con questo film e con i due che seguiranno, Il bidone e Le notti di Cabiria – si spinge oltre nell’intento di raccontare la sofferenza: fin qui, un happy end maliziosamente accomodato aveva permesso di tenersi al di qua di questa provocazione. Senza dubbio è nella Strada che la violenza della vita si afferma nell’ampiezza devastatrice di una sentimentalità che a volte sfiora il patetico, senza però sprofondarvi: si palesa un’intransigenza, la si percepisce persino nella maniera quasi didattica, a volte apparentemente maldestra, di condurre una storia in cui gli individui s’incontrano per caso, per poi schivarsi e lasciarsi immediatamente, in
cui la provocazione della felicità a ogni costo è subito esclusa. Raccontare questa storia equivale a raccontare un dolore del mondo che ognuno porta dentro di sé: vederla e raccontarla significa sfuggire ai territori del razionale così come si è soliti praticarlo. In effetti, la distanza che si crea tra questa sentimentalità – o questa affettività – e le possibilità di razionalizzarla diventa incolmabile, e ciò a scapito del razionale, dato che la particolarità della sua forza sta nel prendere possesso di realtà immediate, che non subiscono alcuna trasposizione metaforica durante il racconto. Di colpo, vedere e raccontare questo reale significa precipitarvi dentro. La strada ne rasenta la storia, ma non ha niente a che vedere con Sulla strada, in cui il soggetto colma il viaggio dell’esperienza attraverso la coscienza sensibile che ne acquisisce. Siamo forse piuttosto in una «corsa all’oro», in miserie falsamente eroiche. La strada è la storia di un carretto a motore, un treruote in rapporto con quell’asfalto, e il racconto definisce del resto le sue conclusioni a partire dal guasto all’automobile del Matto. La striscia d’asfalto non costeggia nulla, appena qualche paesaggio che scandisce un tempo interno all’opera, ma senza determinazione spaziale oltre a quella della strada. Un tempo senza pause e senza limiti, in cui notte e giorno si confondono con la solitudine che questo esprime. Di nuovo, c’è un punto di vista sull’Italia preciso fino alla maniacalità; vi è descritto qualcosa che è «ancora» possibile,1 uno strano rapporto senza altro sbocco oltre alla sua negazione, ma che conduce, nel film e oltre il film, a un sentimento più forte della storia raccontata, a un grumo di dolore e di noi stessi che è trasmesso, insospettabile, nella sua forma migliore. * Qual è allora il luogo che si cerca? La strada non offre più nessun ambiente sociale, nessun gruppo; è un ambiente perduto, ciò che resta – come in Luci del varietà – di ciò che è stato, senza tuttavia mai essere, saltimbanchi di un tempo andato, dimenticato; resti di una teatralità che attraversa le epoche, talmente arcaica da essere spazzata via dalle leggi ufficiali del tempo, che annuncia, tramite le contiguità attraversate, l’altro arcaismo imminente, il circo, in un’epoca che vede nascere la televisione.2 Ambiente sociale ancora più perduto, poiché non ha altri luoghi di espressione a parte gli incroci ai bordi dei villaggi, con persone silenziose che vivono anche loro sul ciglio della strada, sugli sterrati di campagna dove spesso dorme Gelsomina. Barattata e strappata al suo nido con la forza, Gelsomina perde quella libertà del corpo di cui godeva, senza riconquistarne un’altra. Perde anche il fervore affettivo della sua famiglia, senza avere la possibilità di ricrearne il calore. La strada racconta anche del freddo che s’insinua sotto pelle e indurisce l’anima, il freddo color neve nel quale Gelsomina finisce per rinunciare alla sua vita fisica, svolgendo però nell’aria il filo della vita del suo spirito: lei sa con certezza che, un giorno senza fine, Zampanò la incontrerà, forse amandola nella rovinosa nostalgia di un evento che egli non ha ancora vissuto. La Strada sceglie un rapporto diretto con alcuni elementi grezzi, non permeati dalla cultura: si svolge sulla striscia-tappeto di una strada che attraversa una geografia minerale elementare, la parte concreta e dura di un’altra geografia meno consistente – il mare, la riva, la sabbia, il firmamento – capace di ritrascrivere le tracce di passi che erano stati separati.3 Ora, questo luogo che si cerca, grazie al quale le cose potrebbero cambiare, è la parola,
comunque la si voglia intendere. Gelsomina emerge nello sconforto degli abbandoni e delle perdite, all’ombra di una sorella morta, emerge nel silenzio personale in cui non c’è niente da dire perché è già stato fatto tutto, emerge accanto alla brutalità fulminea di Zampanò, presentata come una «innocente» incapace, ma utile. Tra il suo sconforto e questa brutalità le mancherà sempre, qualsiasi cosa faccia, quel luogo che è il dire, il legame che renderebbe la strada il luogo non più delle solitudini ripetute, ma di qualcosa di cui lei non sa nulla, e in cui tuttavia spera. Una parola come luogo di riparo e di unione, in via di divenire una lingua, ma che si realizzerà nella sua forma più astratta, e tuttavia più completa, quella di una filastrocca, di una nostalgia infinitamente sospesa. La musica del Matto, la sua parola e la sua lingua saranno la parola e la lingua di Gelsomina nel momento stesso in cui non potrà più parlare, quando la trombetta sostituirà la sua voce e la farà risuonare ovunque nella geografia mobile delle sponde e dell’aria. È questa linea che colora in diversi modi La strada: parola, lingua, musica. In qualche modo, un ritorno circolare al silenzio popolato di filastrocche infantili al quale Gelsomina è stata strappata. Un silenzio che l’autore, poco tempo dopo, riprende come spiegazione: La strada era un film che raccontava contrasti più profondi, infelicità, nostalgie e presentimenti del trascorrere del tempo non puntualmente riconducibili a problematiche sociali ed impegno politico; quindi, in piena ubriacatura neorealistica, La strada era un film da rinnegare, decadente e reazionario […]. Ma i ricordi della Strada sono troppi, e voglio rimuoverli, anche perché rievocarli mi metterebbe subito nella condizione dell’imbarazzante agiografia, dato il singolare destino del film, che ha girato tutto il mondo con una specie di carisma ecumenico […]. Come si può rintracciare verosimilmente il momento in cui si ha un primo contatto con il sentimento, o meglio ancora il presentimento, l’anticipazione di ciò che poi sarà il tuo film? Le radici da cui sono nati Gelsomina e Zampanò, e la loro storia pescano in una zona profonda e oscura, costellata da sensi di colpa, timori, struggenti nostalgie per una moralità più compiuta, rimpianto per un’innocenza tradita. Non mi va di parlarne, tutto quello che dico mi sembra sproporzionato ed inutile. Confusamente mi par di ricordare che andando in giro in automobile, per le campagne attorno a Roma, quel vagabondare pigro e molleggiato, forse mi ha fatto intravedere per la prima volta i personaggi, il sentimento, l’atmosfera di quel film.4
La parola utilizzata dai personaggi e dalle situazioni risuona inoltre come una parola falsa, come qualcosa che sembra colmare una distanza, ma che non smette di essere scavato come distanza e ripetizione di questa distanza, in cui non si ritrovano né l’anima né il corpo. È questa parola falsa che Zampanò offre a Gelsomina, inserendola nei codici di una forma di schiavitù e di disprezzo destinati al femminile, che per lei diventano rapidamente codici inaccettabili, perché invivibili. L’autore, invece, la propone sulla seguente modalità umoristica: non essendoci tra loro parola, in tutti i sensi, s’inoltrano nella parola falsa, una parola simulata che rappresenta, colmo dei colmi, il comico nello sconforto. Questo modo di esprimere lo sconforto può riferire soltanto la tragicità di ogni situazione: dal comportamento sessuale traditore di Zampanò, poiché con il suo mutismo non mantiene la parola data, all’impossibilità di Gelsomina di far crescere anche soltanto dei pomodori. * Quando parla di contrasti, di disgrazie, di nostalgie, di presentimenti del tempo che scivola via – che non possono essere legati a problematiche sociali, o a un impegno politico –, Fellini sottolinea la sua ulteriore distanza nei confronti del neorealismo e della sua ideologia.
Affrontare individualità così strane, in un mondo destinato in quegli anni al racconto ripetitivo delle sue soddisfazioni, non è conforme ai canoni dell’apologia della collettività. La strada non riguarda le pluralità, perché le due nature che vi sono descritte non ne conoscono l’esistenza, se non da lontano, in rapporti di stretta necessità – spettatori, persone che lavorano come loro –, dato che non hanno avuto accesso nemmeno a loro stessi, a una sola domanda su loro stessi. Percepirli come un incontro e una sintesi possibile del bene e del male è errato, come non si può ricondurre a una realtà semplificata il fatto che si tratti della storia di un uomo e di una donna. Nella Strada la dualità è solo apparente. Zampanò e Gelsomina sono le stesse entità di un esterno-mondo che li tiene divisi, gettandoli sulla strada, fino a quando colui che sembra governare i rapporti con questo mondo esteriore viene coinvolto in circostanze tali da non essere in grado di tenere aperta la comunicazione. È la loro identità di fondo che porta psicologicamente alla mancata separazione, quando il Matto propone a Gelsomina di partire con lui; ma il Matto ha anche percepito, interiormente, che lei non l’avrebbe mai fatto, pur sapendo che lei ha trovato con lui, almeno per il momento, il suo luogo in quanto parola. Allontanandosi da una rappresentazione del bene e del male, ci si avvicina a qualcosa che è stabilito all’interno di tutte le serie che andranno a comporre l’opera felliniana. Da una parte, la negatività, che pare addensarsi su Zampanò e su quello che ha fatto a Gelsomina, e che sembra far parte di una piccola volontà di potenza che ha in sé, come a difesa della propria umanità. La «compra» e ne fa una cosa sua, la sevizia in diversi modi, e tutti servono a scolpire la brutalità del personaggio. Accanto a lui, Gelsomina rivela la sua inettitudine, non rispetto a Zampanò, ma rispetto al mondo: ed è in questo che Gelsomina è una figura universale che ognuno contiene in sé. Dall’incontro nascono dunque forze di opposizione o di intolleranza non dettate semplicemente dalle necessità fondamentali di una storia del maschile e del femminile. L’uno e l’altra, all’inizio, sono presi da una sorta di sincerità ideale. È l’assenza di luogo in quanto parola che fa comparire a poco a poco in Gelsomina dei barlumi di rivendicazione o di nostalgia. Per esempio, le domande che pone su Rosa hanno diverse valenze: vera nostalgia della sorella, desiderio di rivelazioni, pretesto per rivolgersi a Zampanò. Si potrebbero moltiplicare le situazioni di effetti alla ricerca delle loro cause, ma tutte devono essere ricondotte alla volontà di Gelsomina che prova a stabilire il luogo della parola rispetto al rifiuto ostinato di Zampanò; è attraverso la duplice ostinazione dei personaggi che Fellini avanza nella narrazione. Che la storia sfugga alla serie delle dualità è dimostrato chiaramente dall’introduzione del Matto come elemento motore e di verifica. Ma serve soltanto a sottolineare la brutalità fisica e mentale di Zampanò. Mentre Gelsomina non vede inadeguatezza tra lei e Zampanò, il Matto capisce subito che loro due non sono compatibili; è come se l’assenza totale di affinità lo precedesse, e il film non racconta mai l’origine della loro «antipatia» reciproca: è lì, come un elemento grezzo, esplicitata in primo luogo nelle differenze fisiche, che sono soprattutto spirituali e artistiche. Tanto l’uno è saltimbanco di terra, quanto l’altro è giocoliere aereo, ed è proprio a causa della loro natura che non possono mai avvicinarsi. Quando l’incontro avviene, il primo precipita sempre più nel torpore della sua brutalità, il secondo nei volteggi dei suoi balzi aerei. Il Matto sconvolge la realtà, soprattutto quella terrena alla quale Zampanò si aggrappa con tutte le sue forze e la sua violenza. Al mutismo repressivo e colpevolizzante di quest’ultimo si oppone la parlata saltellante del Matto: una parlata espressiva che, appena tocca le cose, crea. È su questa serie che le due vittime di Zampanò s’incontrano, attirate dalla singolarità
incosciente della loro sorte, dalla loro esistenza perduta a priori. Al contrario di Zampanò, il Matto instaura con Gelsomina un luogo della parola. Tale luogo prende forma nella simpatia che circola tra due nature identiche – natura dello strano, natura sovrannaturale dell’angelico –, entrambe fatte di una grazia particolare, quella di non somigliare a nessuno. È un luogo che si sviluppa nell’amicizia delle loro identità trovate, le quali comunicano nell’apologo del «sassetto» che, per la prima volta, fa prendere coscienza a Gelsomina della necessità della sua esistenza accanto a Zampanò, e rivela a entrambi l’esigenza di un addomesticamento o di un superamento del dolore che è la vita. * Incontro di due nature dello strano: l’elaborazione del personaggio di Gelsomina, la sua comprensione interiore, avviene fuori dalla narrazione, attraverso la presentazione dell’innocenza. Nei Vitelloni, «Giudizio» annunciava la convivenza dell’innocente e dell’angelico nel mutismo dei segni. Gelsomina concentra questi segni sul volto e sugli abiti, ma anche nelle deviazioni dell’artificio: il trucco di un quasi clown svela luoghi scenici e luoghi di vita, mostrati allo stesso tempo attraverso il suo stupore di fronte a ciò di cui è ignara, di cui è angelicamente innocente. Il Matto, che intuisce la fatalità in Zampanò, senza tuttavia capirne chiaramente la trascrizione – in tal senso, non può fare altro che deridere la fatalità –, attraversa parimenti un insieme di situazioni e di segni che lo avvicinano all’ingenuità di Gelsomina. Il film cattura la forza di un discorso che non può passare dalle parole. L’infanzia innocente di Gelsomina circondata da bambini, l’incontro occasionale della piccola fanfara, la festa religiosa e i cortei, la festa profana e l’apparizione del Matto sul filo, la rivelazione dell’uno all’altra, le persone del circo, la festa di nozze e l’irruzione dei segreti dei bambini, il mescolarsi di filastrocche e ritornelli, l’incontro pacificatore dalle suore lasciano intravedere mondi di magia o di favola, momenti di una felicità possibile, ma incomprensibile, perché senza nome, nome che pure esiste, a condizione che ognuno sappia impadronirsene. Viene tracciata una serie che riunisce la donna, il clown, il folle, il bambino, l’angelo in una stessa massa-materia: questa è rappresentata da un’immagine puramente filmica, che evidenzia un momento di sosta del reale, muto davanti allo strano che non sa spiegare. L’innocenza e la follia, vera o apparente, che la costrizione e la solitudine producono, anche se non parlano nessuna lingua, sviluppano tuttavia altri segni. Fellini li descrive come tracce che testimoniano la loro storia e conducono in zone neutre e sconosciute. Tracce e zone s’incrociano, come quando Gelsomina, cercando di liberarsi dalla morsa di Zampanò, fugge e incontra la festa religiosa nel villaggio. Vede allora tutto quello che Zampanò le impedisce di vedere, e la sua gioia non dipende soltanto dalla festa che incontra, ma dalla conoscenza che per caso ne ricava e che fa sua.5 Avviene lo stesso con l’illuminazione che riceve scoprendo il Matto, o il malato, o la vita delle suore: non sono stati d’animo, ma stati del pensiero, il pensiero che esiste in lei e che la parola falsa di Zampanò è incapace di suscitare. Lo strano, o il magico, l’innocenza, o l’angelico, tutto quello che appartiene all’inspiegabile, sembra orientarsi, con il succedersi degli incontri, verso una possibile destinazione religiosa, ma senza cedervi – è il caso della festa religiosa, ed è anche il caso dell’oasi avvelenata rappresentata dal convento di suore. In realtà, una religiosità intima, del tutto estranea alla
struttura culturale e sociale della religione, riassorbe e fa sua questa massa-materia. Questa religiosità appare nei film precedenti – in Wanda pentita, per esempio – o successivi – Le notti di Cabiria e La dolce vita –, disposta seguendo strati che sono altrettante strategie narrative. Ora, il coinvolgimento nel religioso è indiretto ed esteriore, e Fellini si limita a dirlo e a descriverlo. Non ne ha mai fatto un’occasione per sciogliere il racconto, al contrario di Rossellini, per esempio. Le apparizioni e i miracoli procedono dall’umano, e non dal divino, dalla grande capacità dei personaggi di stupirsi in momenti eccezionali del loro vissuto. La storia di Gelsomina – e la potenza vitale che vi si esplica – non è diminuita da alcuna trascendenza in grado di riassorbirla; fino alla morte, Gelsomina va incontro alla rovina mentale e poi fisica alla quale il comportamento di Zampanò la costringe. La sua storia si spiega attraverso la sua storia: non sprofonda nella follia, ma in quello che le è impossibile esprimere diversamente, poiché non le è stato mai permesso di abitare quel luogo specifico che è la parola, condannata a seguire un cammino già tracciato. Lo strano apparente restituisce al dramma dell’esistenza il suo spessore poetico. Le possibilità alle quali Gelsomina non può accedere, malgrado tutto, saranno state vissute non come malinconia del passato, bensì come nostalgia di un futuro che non vedrà, ma di cui conosce l’esistenza e di cui tesse le fila nel poco di vita e di coscienza che le rimane. Sono l’elemento sonoro, il motivetto ripreso, la parola lanciata e ritrovata, la massa-materia a tenere prigioniero in lei il senso profondamente affettivo di tre esistenze. Trasformeranno le possibilità di Gelsomina in una nuova realtà della vita di Zampanò, in un finale in cui s’incontrano la sublimazione concreta del tema musicale, che ora aderisce al corpo e alla vita di Zampanò, e le sue lacrime, anch’esse sublimazione concreta di un passato che non è riuscito a esprimersi in maniera diversa. In questo film l’immagine e i suoni si attardano stranamente in zone d’ombra che subito si accendono di una luminosità nuova, come una conquista progressiva del poetico sul patetico.
IX
DI CHE COSA È FATTO UN CAPOLAVORO? NASCITA DI UNA STELLA: GIULIETTA MASINA. NASCITA DI DUE STELLE: FELLINI E GIULIETTA. MITOGRAFIE. IL BIDONE: MORALE DEGLI «AMBIENTI SOCIALI»; PERTINENZA E ADEGUAMENTO. IL PATETICO COME ESTREMA VOLONTÀ DI COMPRENDERE LA DUREZZA DEL MONDO E IL NULLA COME UNICA POSSIBILITÀ DI ESISTENZA.
La strada è stato un successo travolgente e, per diverse ragioni, il «capolavoro» di questa prima fase dell’attività di Fellini. Il tema è insistente, ancor più della trama stessa, ed è sviluppato con modalità che tengono in sospeso il patetico; il fatto di sottolineare la natura apparentemente manichea del tema (Zampanò e il Matto) apre alla soluzione che s’interpone tra gli estremi del «Bene» e del «Male» (Gelsomina), e fa in modo che Gelsomina abbia la meglio in una situazione in cui non è più la brutalità del «sentimentale» a primeggiare, ma il sorgere di un sentimento puro, attribuito ora all’uno, ora all’altro dei tre personaggi. Ecco, riassumendo, che cosa rende La strada ancora oggi un capolavoro del cinema: il fatto che Fellini abbia lasciato l’opera nell’indeterminatezza del maggior numero di sfumature possibili, accumulandole con minuzia, così da creare il substrato necessario a una lettura più personale e segreta da parte dello spettatore, più isolata, in cui il visibile non costituisce il reale, ma proprio ciò che dissimula; una lettura ritardata, che fa emergere i temi a cose fatte. Infine, rendere un finale disastroso una sorta di esitazione inquietante, anche qui in virtù delle indeterminatezze che lo tengono in sospeso. Questo tema e il suo epilogo segnano uno scarto netto rispetto alle sceneggiature della filmografia neorealista: non è più una ragione – sociale, culturale, storica – che ne determina l’esito, ma ciò che c’è di impalpabile nella natura umana, spinto da un’illuminazione verso la sua rivelazione inquietante nell’immagine. Per questo il finale della Strada può riassumere i temi del finale di Stromboli e rielaborarli. Qui non è il miracolo, ma la potenza sorda, inorganica dell’affetto a colpire le stratificazioni della materia: il grande flusso dell’inconscio, maturato come un ascesso, fa irruzione in qualcosa che somiglia al conscio. L’elemento marino, che apre e chiude il film, rimanda a una condizione iniziatica e non alla sua analisi psicologica: nasce da qui l’appropriatezza di cominciare e finire con la risacca, con il grande respiro naturale degli elementi che esprime sia la continuità sia tutte le sue rotture. Nel contesto, l’interpretazione dei tre attori è originale: tutto è forzato fino alla caricatura, soprattutto nel caso di Anthony Quinn, e la leggerezza di Richard Basehart sfiora a volte il parossismo. Giulietta Masina, invece, la spunta nella creazione di un carattere puro, completamente nuovo. Tutti hanno in comune la maschera, ma laddove Zampanò e il Matto si inseriscono nella continuità dei percorsi culturali – brutalità da orco nell’uno, leggerezza vaneggiante di un Arlecchino o di un Pulcinella nell’altro –, e dunque in un passato teatrale o letterario, Gelsomina crea una maschera cinematografica inedita, seppure sulle tracce di
Charlot e dello «stupore senza baffi» di Buster Keaton. Nella Strada Gelsomina è prima di tutto un disegno cinematografico, definito dall’ovale e dal biancore che lo fissano, una pura superficie che l’esperienza non intacca, e in cui s’inscrivono, senza fermarsi, le linee torbide della sua storia. La sua singolarità è però data dall’indeterminatezza sessuale che costituisce la maschera, pur restando in un complesso di segni legati al femminile: forza di una maschera capace di astrarsi dalla Storia, che raggiunge una zona di trasparenza o di eclissamento del mito nel quale finiscono per confondersi maschera e interprete – Gelsomina e Giulietta Masina –, senza sapere quale delle due abbia la priorità. * Un anno dopo l’esperienza della Strada, Il bidone (1955). In questo film ritroviamo, prima della grande sintesi della Dolce vita, delle convergenze e dei nuovi sviluppi. Il tema della disfatta e della sfortuna dell’individuo ai margini della società, ma che si nutre di disagio sociale; il tema di un ambiente, quello criminale, che andrà scomparendo, respinto dalla storia: Il bidone ripercorre la fine della vita di Augusto, che è in sé un decadente, con l’eleganza che ne deriva. Fellini riprende luoghi e situazioni: ritroviamo il night club, gli incroci nelle piazze, una breve descrizione della provincia e di una Roma più circoscritta, interiorizzata, a ricomprendere qualcosa di intimo, di segreto, come sottolinea il colore della pellicola, lasciata nel velluto di un’ombra diffusa, solo raramente esposta, eccetto durante l’incontro tra Augusto e la figlia e nella scena finale della morte. Torna anche il tema della festa, centrale nei Vitelloni, una festa di Capodanno in cui, nel fracasso, deflagrano verità, in cui, in attesa della sua reiterazione finale nella Dolce vita, appare la prima immagine di un femminile che verrà poi sconvolto da Anita Ekberg. Infine, il biancore delle ultime sequenze, che somiglia alla neve e ricorda le scene finali della Strada: ripresa dei temi, nuovo sviluppo, verifica di un percorso cinematografico personale, affinché un nuovo racconto si concluda in una concrezione inedita e resti nel solco del discorso di fondo sull’Italia e sugli italiani.1 In un certo senso, Il bidone riprende ciò che I vitelloni non aveva portato a termine. Ma al posto di una descrizione (come nei Vitelloni), il punto di partenza è ora la situazione enunciata dal titolo (Il bidone), ovvero, con un lombardismo, imbrogliare, raggirare qualcuno. Questa attività – che è un’arte a se stante, e il film racconta anche «il declino dell’arte di imbrogliare»2 –, occupa a lungo l’inizio del film e rivela la sua terribile ferocia, poiché a essere truffati sono anche i più umili e svantaggiati. Il lato patetico della vicenda, in cui la seconda «bidonata» si rivela più complessa della prima, è raccontato con un’ironia che rivela l’avidità e la bramosia in quanto componenti amorali insite nella natura umana. Il racconto del dolore immediato provocato dalle truffe coincide con la descrizione più lenta di un’altra forma di dolore, rintracciabile nella vita accennata dei diversi protagonisti, e in particolar modo in quella di Augusto, che contiene in sé tutte le altre. Franco Fabrizi è Fausto nei Vitelloni, tinto di biondo allo scopo di americanizzare un personaggio che ha «tutti i dischi di Sinatra» e un attore la cui recitazione vuole simulare l’aplomb elegante di Cary Grant, riuscendo però a imitare soltanto il cinismo grossolano e senza scrupoli del suo ambiente e della sua cultura.3 La scelta di riprendere Fabrizi sigilla la continuità tra i due film e riafferma l’aspetto velleitario di quei giovani divenuti adesso degli
strani adulti. I quattro ragazzi dei Vitelloni sono rimasti gli stessi, lo capiamo dal modo in cui alcuni di loro hanno continuato a crescere nelle loro indecisioni. Nel Bidone si respira una velleità che aggredisce la vita nel suo elemento più vulnerabile: desiderare un altro destino, un’altra vicenda umana oltre a quella che ci si è autoassegnati, e nella quale si è finito per lasciarsi andare. Così, per esempio, il dolce Raoul-Picasso ha delle aspirazioni da pittore, e Roberto, nella sua volgarità, vuole fare il cantante. A sua volta, malgrado i discorsi che fa sull’arte di vivere da soli, Augusto sarà costretto entro velleità di ritrovata sensibilità paterna, che riveleranno la sua inadeguatezza a questo genere di vita, producendo come unico effetto la sua rovina. Allo stesso modo, richiamare Richard Basehart – il Matto della Strada – e Giulietta Masina, riuniti come coppia nel Bidone, suggerisce alcuni significati indiretti: le loro storie, che non avevano potuto unirsi nel film precedente, sono virtualmente rimesse in gioco, come se il destino ridistribuisse le carte, in un happy end contenuto, perché la vita resta comunque un problema. Un parallelismo supplementare è infine offerto dalle scene, ambientate in entrambi i film in una sala cinematografica: compimento del «peccato» nei confronti della sposa nel primo film, quando Fausto esce dal cinema per sedurre la femme fatale, lasciando sola la moglie; espiazione del «peccato» nei riguardi dell’ambiente di appartenenza nel secondo, quando Augusto viene accerchiato e arrestato. Ma se I vitelloni si svolgeva intorno all’ombra dei padri e di una struttura familiare che riuniva in essa situazioni di evasione e di abbandono, nel Bidone i protagonisti conducono una vita che non riescono a dominare, il cui compimento passa per la rovina altrui. Questa rapacità intrinseca nella vita impone la propria legge attraverso la rivelazione del punto di debolezza o di decadenza al quale giunge il soggetto: indebolito dall’età e dalla solitudine, Augusto diventa a sua volta la preda di una vampirizzazione proprio quando rivendica la possibilità di «avere una coscienza». * Come nella Strada, gli schemi che sostengono la storia hanno soltanto un valore relativo; l’interesse risiede piuttosto negli slittamenti a cui la storia è sottoposta e che l’attraversano, prima di tutto nei suoi aspetti parodici. Alcuni truffatori travestiti da prelati e da autorità ecclesiastiche, o da esimi funzionari di stato, promettono ricchezza e redenzione in cambio di molto denaro. L’inferno che ne deriva è facilmente immaginabile: è il destino dei poveri truffati, e quello al quale i truffatori sono destinati a causa delle loro azioni. In questo contesto si delineano i confini di una morale che, pur senza mai essere esplicitata, è comunque precisa e operante. In che cosa consiste l’inganno? Qualcuno finge di sapere qualcosa (l’esistenza di un tesoro nascosto e segreto) che qualcun altro ignora: è questa la problematica insita nella truffa, ma il disegno morale non può accontentarsi di una risposta basata sul fatto di sapere o meno, dato che lo spettatore, invece, sa tutto. Piano piano emerge più evidente un altro tema: sia nel caso dell’imbrogliato che in quello dell’imbroglione, la regola consiste nel non allontanarsi mai dalla propria natura sociale senza conservare i mezzi che le sono propri, con il rischio di finire nella non conoscenza di sé e, di colpo, trovarsi nelle mani di coloro che, proprio per questo motivo, diventano i più forti. Si impone una legge immanente della pertinenza e
dell’adeguamento, che serve a spiegare, al di là delle realtà sociali e storiche, le inettitudini del protagonista, dovute alla sua incapacità di preservare la coerenza negli atteggiamenti morali. È nella rappresentazione di questi codici etici, interni «all’ambiente», ma anche a ogni forma di appartenenza a un «ambiente sociale», che il film perviene a qualcosa di nuovo nella produzione felliniana, un tema ripreso poi in Cabiria e che riunisce Augusto e Cabiria in una stessa unità solidale, differenziandoli dai protagonisti della Strada. Con maggiore profondità, Il bidone torna sulla questione della solitudine, che Augusto sviluppa in un breve monologo; una solitudine del tutto voluta e costruita dal soggetto stesso, e che non ha nulla in comune con quella di Gelsomina. Associata a questa prima questione, c’è quella dell’età, posta da tutti i personaggi in relazione ad Augusto, che fin dalle prime scene è descritto come una persona stanca, cupa, troppo anziana. Nel night club Augusto richiama il problema da un altro punto di vista: «La gioventù al giorno d’oggi è così… Io non sono mai stato così… io ho sempre lavorato in grande stile… ho girato tutto il mondo e ho fregato sempre tutti perché il mondo è pieno di fessi… io son capace di vendere il ghiaccio agli esquimesi anche… e mi tocca lavorare con questi dilettanti… ma io mi rimetto da solo». Il ricordo di un tempo passato pone l’accento sul passaggio a un’altra epoca, nella quale i truffatori come Augusto non esisteranno più, lasciando il posto a giovani squali che non lavorano più come lui, grazie a «piccoli espedienti», ma sognano affari in Svizzera e misurano i loro successi a seconda delle automobili che possiedono. La realtà di questi cambiamenti generali è confermata durante il veglione di Capodanno dal dialogo tra Augusto e Rinaldo, che è più giovane e ha davvero avuto successo: «Non l’hai ancora capito che di queste cose non me ne frega più niente… Dì un po’… quant’anni c’hai? Quarantotto… E a st’età pensi ancora a gioca’? Ahò! E me meravigli, sa’… ma vergògnate…». Più il film prosegue, più la questione dell’età evidenzia l’incapacità di Augusto di inventare situazioni, di affrontarle e risolverle, fino a quando lo lasciano anche i complici di sempre. Roberto, con il suo cinismo e le sue brutalità abituali, scappa a Milano. Raoul-Picasso, sconvolto per la propria situazione familiare e temendo che la moglie lo abbandoni, saluta Augusto per inseguire le sue fantasie di viaggi e di felicità, e così facendo risponde alla grande lezione morale impartita da Augusto: «Bell’affare che hai fatto tu a sposarti quando avevi diciotto anni… Lo vedi non puoi più fare niente… Sei finito… Col nostro lavoro non si può avere famiglia… uno deve essere libero di andare, venire, prendere e partire quando vuole… non si può sempre stare attaccato alle sottane della moglie… devi essere solo… quando si è giovani, la cosa più importante è essere liberi… è ancora più importante dell’aria che respiri… se tu hai paura adesso, figurati quando avrai la mia età… gli anni passano, sai». Ma è Augusto stesso a porsi troppo tardi il problema. Questo importante monologo, costruito come una professione di fede, rompe idealmente il legame con i suoi complici, che come tanti Giuda lo stanno per abbandonare, ma segna anche la fine della relazione tra la sua storia personale e quella di un ambiente di cui non sa più capire e governare i cambiamenti. È così che inizia il suo calvario personale, poiché l’evento che segue – l’appuntamento con sua figlia – lo obbliga a confrontarsi con un tipo di realtà per lui inusuale, e soprattutto lo mette in contrasto con il codice morale che ha appena definito.4 Fellini pone qui alcune questioni: non è l’immoralità o l’amoralità dei comportamenti (essere truffatori) che ci porta alla rovina, ma l’incapacità di restare fino alla fine all’interno dei codici determinati dai comportamenti stessi o, ancora, l’incapacità di variare gli strumenti in rapporto alle trasformazioni provocate
dall’evoluzione del genere – e questo secondo punto rimanda direttamente al problema del neorealismo nella sua opera. Come resistere all’evento? Agli eventi? Augusto dà diverse risposte, ma tutte insoddisfacenti: l’incontro con la figlia determina la percezione errata di una nuova fase della sua vita. È un evento che crea la pura finzione di una possibilità di riscatto, attraverso i sentimenti, ma anche su un piano morale, con ogni comportamento immorale o amorale che deve essere volto, da lì in poi, alla realizzazione di una giusta causa. Tuttavia, appena si allontana da quella che è stata la sua strada deve pagare un prezzo alto per accedere alla nuova dimensione: il susseguirsi di problemi, di avversità. La seconda situazione che Augusto deve affrontare è una conseguenza di ciò che accade durante l’ultima truffa compiuta alla fine del film: nulla basta a cambiare le realtà di miseria e di cinismo che, da entrambe le parti, sono già state rappresentate nella scena iniziale. Ma stavolta accade l’imprevedibile, con l’apparizione della ragazza paralitica che ricorda in tutto e per tutto quella della figlia di Augusto. Si tratta dell’ennesima variazione sulla figura dell’angelo che, tramite la grazia che lo circonda, indica uno stato assoluto, uno stato miracoloso al quale l’uomo tende, e al quale anche Augusto aspira. La volontà del soggetto, stretta tra due atteggiamenti morali, deve allora scegliere se cedere o meno davanti alla situazione pericolosamente sentimentale e patetica che si è creata. In nome di un imperativo categorico, Augusto non cede alla prima situazione (portare a termine la truffa), non per rimanere coerente con la sua morale, ma con il suo nuovo atteggiamento, il cui scopo è la felicità della ragazza-angelo. Ciò significa cedere, malgrado tutto, succube di una volontà sulla quale, contro la sua morale da truffatore, hanno la meglio il sentimentale e il patetico, che Augusto ritiene essere le opzioni migliori (portare a termine la truffa con una finalità morale). Se fosse rimasto nel solco del suo codice morale, si sarebbe senza dubbio salvato, ma non avrebbe bevuto dal calice che, allontanandolo ancora una volta dai complici e dal presente, lo conduce alla sua aspirazione segreta, all’innocenza e alla purezza della sua intera esistenza. * Il montaggio del film segue una linea divisa in quattordici blocchi narrativi che enunciano ognuno una situazione specifica, come le quattordici stazioni che scandiscono la Via Crucis della «passione» dell’uomo, «povero Cristo».5 Una sorta di oratorio in cui si compie il racconto dell’umano punito, non tanto per le sue malefatte o perché è un criminale, ma per la debolezza nei confronti di se stesso e della propria legge; e il tono scuro della fotografia accentua la sensazione di un precipitare nel nulla, in cui sprofondano le colpe e i peccati rimossi.6 Numerose sono le scene che insistono sulla solitudine di Augusto, nel cuore della notte, anche quando falsamente accompagnata da un corpo di donna, ombrosa solitudine del volto di Broderick Crawford nelle strade cittadine, solitudine di un’anima già segnata da un destino di dolore; Fellini userà proprio quel viso per inserire nel film ciò che, per strati, in modo esteriore, ha contribuito a creare quel destino.7 La scena della morte, la schiena spezzata contro una pietra e le braccia spalancate a terra ricordano una crocifissione patetica nella quale, dopo esser stato alleggerito del gruzzolo, questo Cristo dei poveri e delle periferie non invoca il
padre, ma la figlia: «Figlia mia, aspettami… vengo con te». La morte del protagonista si consuma nella stessa solitudine che ne ha caratterizzato l’esistenza e la morale. La vita e la morte di Augusto offrono l’occasione di mostrare un ambiente sociale importante, quello al quale appartengono gli altri personaggi, presentati in gesti e parate individuali, ma riuniti «dall’ambiente» e «dal mestiere». La scena del veglione mostra quanto questi truffatori e ladri siano uomini indelicati e rapaci, dalle maniere brutali, soprattutto nei confronti delle donne. Si creano dei vortici, alcuni di loro cercano di violentare una ragazza che vuole partecipare a un concorso di bellezza; altri assalgono un tizio e lo sottopongono a una sorta di tremendo rituale di nonnismo, fingendo di gettarlo giù dal balcone. Gesti estremi di una tipologia sociale particolare, ma che rimandano a una società maschile mostruosa, che viene a mano a mano delineata. In queste figure dall’eleganza smaccata, che parlano di Svizzera e di America, di macchine e di soldi, s’intravedono i piccoli industriali del Nord Italia e i mafiosi del Sud che si preparano ai ladrocini di un neocapitalismo e di un neocolonialismo interno, già rintracciabili nei segni della relativa opulenza degli anni sessanta, il cosiddetto «miracolo italiano». Raramente il cinema ha proposto con altrettanta violenza le facce abiette e corrotte di una società che sta scivolando nei disordini di un potere che assume, nelle truffe proposte, le forme del politico e del religioso. Louis Buñuel, con L’angelo sterminatore, e Francesco Rosi, con Le mani sulla città, sono forse gli unici, in quegli anni, ad avere la stessa percezione figurativa di una complessità sociale soltanto attraverso il disegno di volti che le danno vita, riuscendo, già soltanto con questo – un po’ come Daumier –, a sottolinearne l’ovvietà assassina e senza scrupoli. Di colpo, questo affresco di costume non è valido soltanto per «l’ambiente» al quale dovrebbe rapportarsi, ma per un’intera società in cui i valori dell’epoca precedente sono considerati superati: i «piccoli espedienti» aspettano allora di essere riposti nell’armadio della morte, e coloro che ne erano stati gli eroi se ne vanno ora nella notte delle città, da soli, dopo una festa che indica appunto, ancora una volta, che la festa per loro è definitivamente finita.
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LE NOTTI DI CABIRIA, O «IL MONDO È UNA FESTA IMMOBILE»: STORIE DI DUE MONDI DIVERSI CHE SI SOMIGLIANO (LE PROSTITUTE E GLI ATTORI). ANCORA SULL’USO DELL’ATTORE IN FELLINI. SOSTANZA DI UN CORPO DI ATTORE O DI ATTRICE: «UN CORPO SENZA ORGANI»? LA REALTÀ SFUGGE ALLE VALUTAZIONI, AI GIUDIZI: CONFRONTO TRA DUE SITUAZIONI IN DUE AMBIENTI APPARENTEMENTE DIVERSI (L’ATTORE E LA PUTTANA, LA PUTTANA E L’UOMO CHE VUOLE SPOSARLA). CONFRONTI TRA REALTÀ: CHE FARE DEL REALE E COME VIVERE LA DISPERAZIONE? FELLINI E PASOLINI.
Il bidone e La strada cominciavano e finivano con una stessa scena, e Le notti di Cabiria trae profitto dalla lezione. La sceneggiatura raggiunge una sorta di perfezione per l’abbondanza dei temi che si legano alla trama principale – alcuni momenti cruciali della vita di una prostituta –, ma anche grazie a una felicità narrativa dovuta agli intrecci drammatici scelti. L’elaborazione di Cabiria corrisponde per Fellini a un progetto relativamente datato, di cui ritroviamo un primo nucleo in un film di Lattuada, Senza pietà del 1947;1 la preparazione continua nel 1948 con una sceneggiatura proposta ad Anna Magnani, rifiutata dall’attrice a causa della scena, decisamente lontana dal suo temperamento, in cui la protagonista si lascia rinchiudere in un bagno.2 Una prostituta che si chiama Cabiria, sempre interpretata da Giulietta Masina, era già presente nello Sceicco bianco, nella scena in cui, di notte, Ivan piange nella piazzetta e dispera di rivedere Wanda. La scelta, decisiva, dell’attrice protagonista non poteva che condurre, come fosse un destino, a Giulietta Masina, a condizione tuttavia che lei e Fellini riuscissero a smarcarsi da un lato da Gelsomina, e dall’altro da Giulietta Masina: e Cabiria sarà Cabiria, che si lascia alle spalle, o a fianco, tanto Gelsomina quanto Giulietta, permettendo a quest’ultima di proiettarsi così in un futuro in cui non sarà altro che Giulietta, da Giulietta degli spiriti in poi. Infine, due incontri hanno un ruolo importante nella rielaborazione del soggetto. Prima di tutto quello con una prostituta – le loro conversazioni durante le riprese del Bidone suggeriscono i tratti psicologici del personaggio centrale –, che Fellini rievoca in questi termini: […] mi raccontò qualcosa di questa sua vita alternando episodi di una realtà atroce e brutale, una vita da bacherozzo, con altri che si capiva chiaramente che se li stava inventando prendendoli in prestito dai film che aveva visto o dai romanzi a fumetti. Cocciutamente si ostinava a mescolare gli uni e gli altri confondendo tutto per un bisogno straziante di credere che la sua vita di sciagure fosse così come se la raccontava lei colorandola con le ingenue sentimentali fantasticherie di bambina ignorante e sfortunata.3
Poi l’incontro con un certo Mario Tirabassi, detto l’«uomo del sacco», un ex infermiere che ogni notte assisteva decine di miserabili; questo episodio, ancora visibile nel film presentato a Cannes, sarà poi tagliato dalla versione definitiva a seguito di pressioni esercitate dalla Chiesa, insieme a un episodio in cui Cabiria e Matilde sono coinvolte in alcune vicende con due ladri.4 Altri problemi, tuttavia, complicheranno le riprese. Prima la morte improvvisa del padre di Fellini, poi un incidente che impedisce a Giulietta di lavorare per un po’. Soprattutto, la
produzione si trova a dover affrontare il sindaco di Roma, irritato dal fatto che la zona archeologica, della cui bonifica andava fiero, venisse mostrata come un luogo di prostituzione e di vizio, e ancora la censura clericale e di Stato, scontenta che si facesse spettacolo del volto della Città eterna, di cui avrebbero preferito conservare l’immagine di Città santa. A tutto ciò si aggiungono altri cambiamenti rilevanti: la sostituzione, verso la fine delle riprese, del capo operatore Aldo Tonti con Otello Martelli, con il quale Fellini aveva già lavorato e che lo accompagnerà fino alle Tentazioni del dottor Antonio; il recupero di Piero Gherardi, che creerà tutte le scenografie felliniane fino a Giulietta degli spiriti. E, soprattutto, l’incontro con Pier Paolo Pasolini, che collabora alla sceneggiatura trascrivendo i dialoghi in dialetto romanesco: Pasolini, accompagnato da Franco Citti – al quale Fellini propone un ruolo da magnaccia, che l’attore rifiuterà –, lo inizia alla conoscenza della periferia e dei suoi abitanti, diversi da quelli degli ambienti piccolo-borghesi che avevano finora caratterizzato i sopralluoghi romani di Fellini.5 E, dall’inizio alla fine del film, il pullulare di figure di bambini e di giovani. * Le notti di Cabiria è uno spazio e un movimento all’interno di questo spazio. È anche un’assenza di peso. Lo spazio è duplice, ed è quello della prima periferia che costeggia la capitale, occupata dalle case popolari di una città in espansione, fuori controllo, accanto alla quale comincia subito la campagna. Un nuovo registro poetico coniuga, senza ombra di retorica, ampie spianate quadrate o rettangolari, a volte dune sulle quali spunta un canneto, con il piano acquatico di un Tevere fuori città, quasi contadino, bonario e ridanciano, costeggiato da semplici galleggianti metallici; è lì che Cabiria, vittima di un magnaccia che l’ha buttata in acqua dopo averle strappato la borsetta, è salvata da alcuni ragazzini. L’altro spazio, più impreciso, è composto da terreni che vengono occupati, senza problemi legati alla proprietà, dove, sparito il Tevere, spira un venticello romano, un ponentino che smuove i panni stesi. In entrambi i casi, una vitalità diversa respinge l’imponente verticalità degli spazi della Città e racconta di una dimensione orizzontale a perdita d’occhio, in cui si inserisce, di colpo, una libertà: quella dei corpi. Fin dalle prime sequenze, una nudità senza equivoci racconta la semplicità dei rapporti tra le persone. Periferie di Roma, certo, ma anche nuovi territori: un chiarore agreste e pastorale sprigiona dai corpi nudi e brillanti che nascono in questi spazi, lo slanciato vigore senza atletismo né eroismo dei ragazzini, la camicia bianca dell’operaio che ha terminato la sua giornata di lavoro, il bucato ad asciugare: viene descritto un mondo nuovo, innocente, senza altra storia se non quella che vive in un ordine che è soltanto quello, poetico, della sua descrizione. Il corpo perduto di Cabiria è, in questo mondo, quello di un animaletto variopinto e mutevole, tra il bruco rigato della scena dell’affogamento e il canarino saltellante di altre scene, quasi sempre un corpo invertebrato. Fellini, ricordando per caso questo film, parla di animali: Una notte, sulla spiaggia, [Evtušenko] mi ha raccontato che in Groenlandia, una sera d’inverno, una di quelle sere che dura sei mesi, su una baleniera in mezzo ai ghiacci c’era un eschimese, con una macchina da proiezione, che proiettava Le notti di Cabiria, e che tutti si divertivano, si commuovevano, anche gli orsi. Poi disse anche un’altra cosa bellissima che mi torna sempre in mente quando penso a Evtušenko: disse che le foche hanno lo sguardo umido, tenero, come quello di sua moglie. Adesso io non so se per una donna sentirsi dire che ha gli occhi come una foca
possa essere piacevole; ma da quella volta ho guardato alle foche con un sentimento diverso; ed è vero che hanno degli occhi bellissimi, di una dolcezza straziante, che ti fanno sentire colpevole.6
L’espressione del carattere di Cabiria passa attraverso la descrizione del suo corpo e del suo modo di muoversi, di stare in una sorta di assenza di spessore, disarticolata. Racconti meticolosi delle disarticolazioni di Cabiria: il film insiste su questa complessità della leggerezza, dal momento in cui sbatte i piedi come la bambina che è davanti alla sua porta chiusa – di freddo, di orrore, d’impazienza o di che cos’altro? –, passando per tutti gli stati di squilibrio e di confusione, attraverso lo scalpiccio dei marciapiedi – corpi d’impazienza –, lo scatenamento del mambo che termina in un rock, le posture caracollanti che fingono indifferenza, gli incanti del fantasticare e di un valzer la cui ipnosi si chiude sulla desolazione. Corpo di derisioni, che si lancia nelle gestualità complesse dei litigi, che guarda dalle finestre o spia attraverso i buchi delle serrature, corpo in agguato, che volteggia e corre nella felicità, piccoli corpi saltellanti dei passeri, piccoli corpi della pazienza e dell’infelicità scomparsa non appena si presenta una minima possibilità di felicità, corpo ripiegato su se stesso che precipita di nuovo in tutte le sue tristezze; e tutte le riassume nella scena in cui, seduta come un manichino disarticolato, lascia scorrere accanto a sé la notte irreale di una felicità passata così dappresso. Fellini crea un corpo la cui consistenza è quella di un «corpo senza organi», che ha, in un certo senso, disorganizzato le sue strutture rigide per meglio scivolare negli interstizi offerti da quanto gli resta di disponibile, socialmente e affettivamente. È in questo spazio che Cabiria tenterà di penetrare, quasi per caso, prima attraverso l’incontro con l’attore famoso e la visita al santuario, poi percorrendo una via aperta dalla seduta di ipnosi, attraverso l’incontro con quella fatalità che non è il suo destino, ovvero Oscar. Accanto a ogni movimento, altrettante espressioni si confondono con il racconto del corpo, interamente costruito da un numero minimo di elementi: ciuffetti di capelli in disordine, un bolero di piume, una finta vestaglia giapponese, calzini, scarpe, gonne e righe, tutto esalta la semplice pienezza di un volto sul quale la storia non sa indugiare. Certo, lo sviluppo del racconto provoca piccoli cambiamenti, e le posture del corpo o gli abiti di Cabiria mutano non appena sente avvicinarsi i cambiamenti che desidera: è come se fosse stata ripulita dalla visita al santuario del Divino Amore, dall’incontro con Oscar e dalla storia d’amore possibile. Pettinata meglio, vestita di bianco o alla marinara, i tratti illuminati da uno stupore crescente che spera in una risposta impossibile, Cabiria si prepara esteriormente a una nuova vita, attraverso un battesimo che, prima di rimettere in questione il «mestiere», passa per gli abiti. Nelle splendide scene del santuario, in cui si apre il baratro di una domanda la cui risposta non verrà dal cielo, ma da lei stessa, come nella scena in cui frate Giovanni (Polidor) le chiede se è «in grazia di Dio», si impone la bellezza delle espressioni di Giulietta Masina: è lei che in questo film riprende e porta avanti quanto l’attrice che recitava Wanda, la moglie di Ivan nello Sceicco bianco, aveva prefigurato. * Un altro spazio si apre: quello della strada, della pubblica via. Non sono le strade di provincia di Luci del varietà o dei Vitelloni, non somigliano in nulla alla Strada, e nemmeno a quella, maestra, di
via Veneto nella Dolce vita. La strada delle Notti di Cabiria è in sé un prolungamento del buco in cui Cabiria vive, la sua ragione di vita e la sua sofferenza felice, il suo mestiere, il suo bar, il suo bancone; un prolungamento vitale, un budello a cui si è attaccati attraverso la forza delle cose. È da questa strada che Cabiria trae la fierezza di avere un posto suo, come dice all’attore, una casa che le «basta», «con tutte le comodità», in cui vivere l’intimità di alcuni oggetti, più una gallina e un canarino, una foto incorniciata di sua madre; in cui vivere l’amicizia con Wanda, bellezza giunonica, rassicurante e sentimentale. E se il suo tugurio le permette questa intimità e la possibilità di ritrovarsi con se stessa e con quello che ama, la strada è il luogo specifico degli incontri, degli scambi e soprattutto di una conversazione ininterrotta, un pigolare felice anche durante le risse peggiori. Strada fatta di tacchi alti che fanno rumore, di gambe che si accavallano, di borsette grandi e piccole, di voci che chiamano da ogni lato, di intrighi che si annodano e si disfano, di amicizie e antipatie storiche, di automobili, di moto, un mondo intero di donne senza uomini e di uomini senza donne. D’un tratto la strada è un salotto dove si scherza e ci si batte, dove passano in tanti per guardare, si fermano, se ne vanno, tornano, per conversare e passare il tempo. Del resto, non è una strada qualsiasi: è comunque la «passeggiata archeologica» di Roma, città eternamente santa, una Nuova Delhi occidentale, con il ricordo incorporato dei suoi fasti. La prima sequenza di strada sviluppa questo tema: la «Bomba atomica» – è la prima puttana che ci viene mostrata, e che esclama: «Io sono una gran dama!» – è filmata sotto un grande arco che la incornicia, come un’attrice della tragedia antica: ne ha i tratti, l’aspetto, l’enfasi vocale, i gesti e la presunzione, ripete ogni sera il suo numero da primadonna in un teatro che a dire il vero non è quello della strada, ma che prende dalla strada quello che vi accade per farne un teatro, un mondo ormai perduto di cui si trovano le ultime tracce in Genet e in Fellini. È sulla strada che Cabiria enuncia il suo primo credo sociale, appena vede la Fiat 600 di Marisa: «Certo che la Fiat è sempre la Fiat… embè, co’ la macchina è tutta un’altra cosa… ti siedi al volante tutta cosona… la freccia a destra la freccia a sinistra… ti scambiano per una persona distinta, ’n’impiegata, ’na fija de papà… è una soddisfazione!». Per strada ha dimenticato in un attimo l’evento che ha rischiato di pagare con la vita. Si è immediatamente reinserita in una dimensione dell’inafferrabile di cui ci si appropria – con la pioggia o con il sole, con il tempo che passa ma che non si conta –, in una faccenda di scambio che non ha niente a che vedere con i giorni, ma con una piccola storia minore, quella delle notti, una storia che è subito musica. Vi risuona un’eco che arriva ovunque, in cui i suoni si dilatano e in cui lo sguardo si fa indiscreto, in cui le fantasie crescono in speranza e la speranza nell’incanto di certezze che durano un giorno soltanto, in cui, ogni sera, come al casinò, la fortuna viene rimessa in gioco. Per strada si possono mettere in fila i propri sogni e andare a cacciarli, e il sogno di Cabiria è la Grande Strada, lì dove il mondo, per la strada e grazie alla strada, cambia volto o almeno finge di farlo, di notte. Il sogno di Cabiria non è un’ossessione, una recriminazione, qualcosa che nasce dal risentimento. È un sogno di Natale, un sogno da bambini, di festa, sogno di gentilezza più che di lusso da bambola. Sentirsi bene e a proprio agio, malgrado il confronto inevitabile con ciò che sembra inaccessibile. Così, la passeggiata di Cabiria in via Veneto si trasforma in un rapporto polemico, prima diretto poi indiretto – con tanto di gesto dell’ombrello –, con le puttane di alto bordo, vestite con cappelli e abiti lunghi, così silenziose in confronto al grandioso stile espressivo che Cabiria condivide con le figure del suo mondo: un mondo che è già un Carnevale della vita, una festa della vita. Ma la festa è anche un supplemento di illusione
difficile da estirpare, una finzione che, come nelle favole di una sera, dura lo spazio di una notte, e che tuttavia è meglio prendere che lasciare. E a Cabiria che rimette in gioco il suo destino, il destino sorride: vivrà la sua notte da Cenerentola, la notte in cui la realtà della finzione è talmente esagerata da somigliare a un miracolo, un miracolo umano che si realizza. * Il racconto propone allora in successione due tipi di confronto: uno con il mito umano dell’attore famoso, l’altro con il mito religioso dell’icona. In entrambi i casi, è un discorso sull’immagine, un’immagine pagana (la star del cinema) e un’immagine cristiana (la Vergine), le cui conseguenze, in un caso come nell’altro, portano a disastri. Nella sequenza dell’attore famoso, questa struttura duale dell’immagine si sdoppia ancora in quella, banale, del confronto tra due vite: la vita di Cabiria e la vita dell’attore. Vite che si trascinano entrambe per le strade, con finalità all’apparenza diverse. Se Cabiria in strada si guadagna da vivere – alla fine dell’incontro viene pagata per la notte che così non ha perduto, poiché si porta via le prove tangibili della sua devota ammirazione, la foto e la dedica –, l’altro, l’attore, sembra sprecarvi la sua, da un punto di vista meramente morale – paga soltanto per il malinteso e l’equivoco generati dagli eventi, mentre l’ammirazione che provoca è gratuita. Intanto entrambi passano il tempo, il tempo delle loro vite. Se l’attore in quanto immagine seduce immediatamente Cabiria – quali che siano le reticenze di ordine morale che la donna tenta di opporre a questa seduzione –, Cabiria seduce, anche lei per quello che è, una vita che crede diversa, ma che in realtà, raccontata nella notte, ha molti più punti in comune con la sua di quello che entrambi non credano. Siamo ancora una volta di fronte al racconto di una vita erratica, una vita che cerca la sua destinazione e i suoi punti di riferimento nella ripetizione dei gesti e dei tic, su cui fondare un quotidiano credibile che trasforma la mancanza di storia in altrettanti frammenti di storie, i quali servono a ognuno per costituire il proprio calendario, la propria casa di bambola. In questa piccola economia del quotidiano, tuttavia, galleggia l’immagine dell’attore: la sua verità è espressa dalla foto, il cui significato è, anch’esso, duplice, perché l’immagine diventa un oblio per l’attore, e un ricordo per Cabiria. In fin dei conti non ricava nulla dall’esperienza, che per lui non è affatto un evento, se non che questa lo riconduce sulla retta via della sua esistenza ripetuta, nella vita come sullo schermo. Al contrario, lei ci ha oltremodo guadagnato, nella costruzione di un passato che percepisce già come diverso, in cui l’evento si cristallizza in un ricordo di cui lei sa fare tesoro: è ciò che Cabiria non dimentica di prendere nel momento in cui lascia quei luoghi. Luoghi, del resto, indimenticabili come quelli delle favole raccontate ai poveri, senza paragone possibile con quelli che si frequentano nel proprio quotidiano. Questa storia è accompagnata da una constatazione: Fellini sceglie per la parte dell’attore Amedeo Nazzari – Alberto Lazzari nel film –, la cui vita privata corrisponde, più o meno, a quella raccontata sullo schermo, come se volesse suggerire l’idea che non c’è alcuna differenza tra quello che si vive, che si racconta e che si vede. Nel corso di un’intervista delinea il ritratto dell’attore: L’avevo già conosciuto quando facevo lo sceneggiatore […]. Viveva anche da divo, sapeva gestire il suo personaggio. Tutto quello che ho raccontato in Cabiria era vero, la sua casa, l’armadio con tutti i vestiti, ce n’erano più che alla Rinascente […], aveva, per esempio, almeno venti abiti tutti in principe di Galles, le cui sfumature consistevano nelle
proporzioni dei quadretti o erano attraversati da una righina rossastra, o ruggine, o carminio, sfumature impercettibili… e le scarpe! […] Avrà avuto cinquecento paia di scarpe chiuse in questi enormi guardaroba con le porte scorrevoli.7
Forse Fellini, sul modello di Viale del tramonto, mostra ciò che è, o che è diventata, la vita di una star: non di un attore nel vero senso del termine – che lavora, che fa un certo mestiere –, ma di qualcuno che, lavorando o meno, non è più percepito in questo rapporto di lavoro, anzi ne è persino sottratto e astratto.8 È rappresentato soltanto da un’esistenza trasversale di immagine, riportata da foto più o meno numerose, fermo in un’immobilità museale che lo trasforma prima in idolo, poi in icona, di cui però si possono sempre vedere sullo schermo le gesta miracolose. La star è colta in un’immortalità in saldo, a buon mercato, la quale gli deriva al contempo dal mestiere di attore, dai cachet e dal supporto che lo inserisce teoricamente in un dato formale di immortalità e che trasforma il sudario di una persona qualunque in una sacra sindone, dall’impronta visibile. Fellini ricorda: [Gli attori] hanno consumato la vita protetti da qualche cosa che ha impedito loro di consumarla davvero. C’è una specie di mascherina, come di plastica psicologica, che dà loro un tipo di anzianità che non è fatta di rughe, di un vero deterioramento e degrado, di una degenerazione dei connotati, come se la loro esistenza fosse stata protetta da questa assenza di consumo che l’attore inconsciamente vive. Anzi, non vive […]. Quella vita è stata consumata in una maniera protettiva, è stata vissuta da un’altra parte, attraverso delle mediazioni, attraverso dei rappresentanti che hanno preservato la parte anagraficamente e biologicamente più intima ed essenziale […]. Sono protetti dal degrado psicologico dal fatto che tutte le sere hanno l’approvazione, il consenso, la simpatia, l’affetto, l’amore tributati in una maniera così calorosa e questi sono fluidi, correnti di energia vitale […]. Quale terapia più salutare di questa si può immaginare? […] Il fatto di sapere che una parte di te, una parte della tua energia che si è atteggiata in certe pose è stata fotografata e consegnata per l’eternità o perlomeno per un tempo abbastanza lungo, in una dimensione di esistenza particolare, fantasmatica e magica, preserva la consumazione dell’esistenza consapevolmente. Sono dei turisti della vita, gli attori, gente che curiosa un po’, gente protetta.9
Questo discorso sull’immagine icona-idolo, che prende avvio nelle Notti di Cabiria e che nella Dolce vita diventerà il tema portante, è enunciato nel momento in cui, nella storia del cinema, la confusione tra vita privata degli attori e vita pubblica delle immagini diventa spropositata, al punto che la prima viene distrutta dalla seconda. In quegli anni non mancheranno gli esempi illustri, dalle riprese a Roma di Cleopatra di Mankiewicz, in cui Liz Taylor si sforza di sacrificarsi sull’altare dell’amore per l’immagine, alla morte di Marylin Monroe, sacrificata al termine di una lunga storia di immagine dell’amore. * Nel caso di Cabiria, Fellini fa ricorso a un altro tipo di immagine, quella, miracolosa, della Vergine. Alcuni passaggi dei Vitelloni mettevano in vetrina una religione fatta di angeli di legno dorato e cianfrusaglie sacre in ceramica; altri, nella Strada, mostravano l’emozione ingenua di un cuore semplice che si avvicina a delle immagini religiose, per due volte, prima nell’incanto della festa, poi negli episodi relativi al monastero; altri ancora, nel Bidone, mettevano in scena la turpitudine della negazione della fede in un paese in cui il clero detta legge. Le notti di Cabiria scava più in profondità, come se volesse completare quanto era stato accennato in precedenza, soprattutto nella Strada, procedendo al recupero dell’elemento decorativo presente nei Vitelloni. Si descrivono la folla e l’interno del santuario, su cui aleggia un’atmosfera da baraccone, un che di strano e morboso che impregna questa isteria collettiva capace di
dimenticare tutto fuorché se stessa, schiere dipinte di ciechi e zoppi, infermi, la cui fede è raccolta e resa meccanica – il prete che asciuga con uno straccio il vetro santo dopo ogni bacio – in un dato quantitativo e numerico. Ognuno non è che l’elemento di una stessa moltitudine paradossale e commovente, ancora una volta ai limiti del patetico, amalgamata in un’entità che è ormai un corpo unico. Forse il miracolo è già questo, quello della vita di tutti, ritratti in uno stesso insieme in cui ognuno diventa indissociabile e miracolo dell’altro e per l’altro; o quello delle credenze e della fede che scaturisce dalla pellicola. Ma che cosa sta filmando Fellini? Blocchi a cui si può dare un nome: la fede, il credo, la religione, il rito immutabile dei secoli, ma anche un insieme sociale che aspetta di vedere «apparire», attraverso un’immagine, un’icona, un idolo santo incompleto, qualcosa che vada al di là dell’ostentazione dell’immagine. Qualcosa che deve «apparire» attraverso il miracolo, qualcosa di materialmente tangibile, che in tal modo diverrebbe infine la dimostrazione della presenza e dell’essenza del divino, perché è in quest’ultimo che la folla ha imparato a credere. Ora, dentro la pellicola il miracolo è proprio quello di aver filmato quest’attesa disperatamente equivoca, e tuttavia commovente, perché, al di là della sua dimostrazione d’insieme, riesce in segreto a individualizzare la speranza di ognuno in un momento esclusivo che porta in sé tutte le speranze e le riassume. Così, la scena ingenua della Strada si trasforma qui in evento di tremito e turbamento, come sempre accade nell’attesa del miracolo. In che cosa questo discorso sull’immagine differisce dal precedente? In apparenza, credere in un’immagine o in un’altra produce gli stessi risultati: un nulla di fatto nel caso dell’attore, un non-cambiamento in quello della visita al santuario. È quello che grida Cabiria nel suo sconcerto di bambina che ha creduto nella propria generosità, nell’offerta del suo innocente candore, nella sua richiesta di bene: «Nun semo cambiate!». E mentre dell’immagine quasi divina dell’attore poteva conservare un ricordo la cui economia risollevava, almeno un po’, il senso della vita, non può conservare nulla di questa immagine che non ha saputo mostrarsi attraverso l’evidenza del suo miracolo. Quello che avrebbe dovuto essere un oscuro evento nell’oblio passa nel tempo e fa di ognuno – come la star – un ricco che aspetta. Le lamentele che Cabiria rivolge alla processione di suore sottolineano questo passato innocente che si dissipa nella delusione, la cui infanzia è ancora una volta perduta all’ombra di un istante che avrebbe dovuto essere profondo. * Cabiria si troverà a confronto con altre immagini durante il numero di ipnosi in teatro che segue la visita al santuario. Immagini affettive e mentali emergono da un luogo profondo; Cabiria vi ritrova un frammento della musica della sua infanzia. L’illusione che le regala l’ipnotizzatore diventa una forza feconda, in cui finzione e realtà si compenetrano – come nelle sequenze a casa dell’attore o al santuario, o nelle storie della sua vita, serrata tra la finzione imposta dal suo mestiere e la realtà inarrivabile che vuole vivere, in cui l’amore sarebbe vero10 –, una forza che propone la soluzione idillica di «un bellissimo giardino tranquillo e fiorito». Il dialogo tra il mago e Cabiria, sulle note del valzer della Vedova allegra, gioca sulla sospensione di un sentimento che potrebbe essere finalmente vero: «Sono ricco, ma sono solo e infelice… che cosa importano le automobili di lusso, i viaggi, i grandi hotel… fumo, illusioni… quello che
desidero è avere una casa, dei bambini, una moglie come lei…» suggerisce lui, e Cabiria: «Quando avevo diciotto anni… mi doveva conoscere allora, avevo i capelli neri, lunghi così». «Per me è come se lei avesse sempre diciotto anni.» «Allora è vero, mi vuole bene, è proprio vero, non cerca di ingannarmi… mi vuole veramente bene!» La finzione dell’ipnosi rivela il mondo ideale nel quale si proietta Cabiria, quel ritorno a una pre-vita in cui il sogno, il quale coincide con i suoi desideri, le restituirebbe la possibilità di un nuovo inizio che modificherebbe il presente. La paura di Cabiria è che non sia vero, che l’immagine della realtà desiderata nel suo mondo segreto possa venire a mancare, ancor prima che nei suoi desideri, nella percezione che ne ha. Dopo l’immagine mondana e l’immagine divina, ecco che lei ritrova nel suo animo un’immagine nascosta, un’immagine senza figure, certo, ma le parole dette per esprimerla creano, in un inconscio che diventerà coscienza, la totalità di un affetto che credeva perduto, la materialità di un pensiero potente perché s’inserisce nella certezza del suo desiderio e gli restituisce vita. Poco importa che il seguito del racconto ci mostri, attraverso una nuova immersione nelle realtà, come un fato malvagio può piegare e frantumare il desiderio, fino all’estremo. E Oscar – nella grande interpretazione di François Périer, che non tradisce mai la «verità» del suo recitare, scoperta solo nel momento in cui si svela a Cabiria, che è la prima a capirlo, la fine della sua storia nel film – rappresenta questa doppia fatalità: fatalità del presente di Oscar nella vita di Cabiria, pronta nel suo desiderio di verità ad amare tutti quelli che la riempiono di parole e azioni all’apparenza in tutto e per tutto vere, e fatalità, sconosciuta, futura, dopo che la verità contingente offerta da Oscar si è consumata nell’amarezza di bugie ripetute, negando la verità celata dal desiderio. Il desiderio di vivere un’altra vita, una vita secondo il suo modello, è più importante di Oscar, perché questi non è che un intermediario qualunque tra i due poli che sono Cabiria e il suo desiderio, come già era stato Giorgio, il quale aveva cercato di farla affogare all’inizio del film. La scena finale duplica la prima, addensandosi al punto di apparire come se fosse addirittura l’ultima della vita di Cabiria. In realtà, esprime una coazione a ripetere intrinseca alla vita, a prescindere da ciò che se ne fa, e di cui è difficile liberarsi, nel senso che è difficile non trovarvi una verità. Cabiria racconta la versione della storia di Oscar in parallelo alla storia di famiglia raccontata da quest’ultimo. Lo fa diventare quello che non è, «un tipo bruno, settentrionale», ed è il suo sguardo che conferisce candore ed emozione a un individuo il cui aspetto tradirebbe piuttosto una natura da topo. È sempre lei che fa precipitare la proposta di matrimonio, la richiesta di verità e di realtà nella quale ha inquadrato e nobilitato le sue aspirazioni, nel momento in cui, davanti a quella che prende per esitazione, annuncia la sua rottura: «Ma tanto a che serve? Che ce vengo a fa’ io con lei? Perdiamo tempo tutti e due… a fa’ che? E poi lei che vole da me? Che vole? Nun se fa così». Come fare allora? E mentre beve a una fontanella, Oscar trova la risposta che lei vuole sentire: «Noi siamo… noi siamo due creature sole, dobbiamo stare assieme». Cabiria ritrova allora il sortilegio luminoso del miracolo che non si era compiuto nel santuario e che l’accompagnerà fino alla fine, persino nelle piccole sfortune legate al cambiamento immediato della sua vita. Un uomo nuovo che non sia un magnaccia, al quale si rivolge nelle scene finale chiamandolo il suo «angelo», in una prospettiva identica a quella dello Sceicco bianco; un disegno tutto nuovo di ciò che può essere la felicità, incomparabilmente più esteso di quello offerto dal modello dell’attore. Un sentiero che si apre adesso come una linea
dritta, mostrandole l’uscita dal labirinto, in antitesi alla sua difficoltà nel lasciare la villa dell’attore. Un camminare che non è più l’erranza vagabonda della prostituzione, ma un nuovo anelito a credere di essere forse in «grazia di Dio», e a confessarsi, non più a Dio, ma a chi sa condividere quella confessione nell’ingenuità di umana fratellanza, una confessione che sembra voler riprendere l’eterna conversazione con le compagne che ha lasciato. La notte, soprattutto, si è trasformata in giorno: i grandi colori liquidi del mambo in cui si bagnavano le notti di Cabiria mutano immediatamente in ritornelli più calmi e riflessivi, che stanno bene con gli abiti chiari, modesti, conformi a questo progetto di vita nuova, nella quale anche le lacrime piante con Wanda si metamorfizzano in felici rimpianti, quasi placidi. Prima che il paesaggio e i colori si trasformino di nuovo nel finale della storia, passando in maniera impercettibile dalla pienezza di un giorno soleggiato al crepuscolo. I canneti chiari della prima scena si trasformano in bosco, il loro intreccio ingarbugliato imita di nuovo il labirinto della vita, e a Cabiria resta appena il tempo di un’ultima ammissione del suo amore e della sua verità, prima di vedere sul volto dell’altro la volontà del crimine: «Che luce strana! […] Però è vero che ci sta una giustizia a questo mondo… uno soffre, ne passa di tutti i colori… ma poi viene il momento de esse’ felici per tutti! Tu sei stato il mio angelo!». All’incredulità di fronte al tentativo di omicidio della prima scena segue una coscienza diversa degli accadimenti: l’immagine del miracolo si cancella per la terza volta e il corpo ripiegato su se stesso si scioglie in lacrime nel grembo della terra. Cabiria si appresta a morire come Augusto, come lui troppo emozionata da quello che è stato preso per un evento della vita, ma era soltanto un modo di sbagliarsi su se stessi, e sull’immagine di quanto l’evento stesso sembrava incarnare. Poi la notte, una notte della vita, da cui sorge un nuovo, piccolo, ritornello, un la-ri-la-là che da lontano potrebbe ricordare il tema miracoloso della Strada: è un motivo che prende la sua forza dalla mitezza del Tevere dell’inizio e la riversa nell’ultima scena, in questo nuovo mischiarsi di corpi di giovani, ragazzi e ragazze. Una festicciola comincia e riporta la realtà al punto di partenza, prima dell’illusione di tante illusioni, qualcosa di cui ridere nell’attimo in cui accade, l’ultima inquadratura, gli occhi pieni di lacrime. Come «una foca».
XI
COME DISTACCARSI DAL NEOREALISMO?
La polemica sull’appartenenza o meno di Fellini al neorealismo, fin dalle sue prime pellicole, è stata alimentata dalla critica ufficiale italiana di area sia cattolica che comunista. Il regista ha sempre risposto con argomenti e fatti ben precisi. È interessante osservare il modo in cui, nel corso degli anni, Fellini ha voluto affermare con decisione la propria distanza nei riguardi di ogni approccio neorealista e ribadire che il neorealismo apparteneva soltanto a Rossellini, escludendo dunque dal movimento se stesso e, fin troppo rapidamente, anche coloro i quali, in un modo o nell’altro, avevano partecipato alla sua attuazione. Ecco una delle sue ultime dichiarazioni sul tema: Quando si parla di neorealismo nel senso di un’estetica espressiva, mi pare che ci sia proprio solo lui [Rossellini] a rappresentarla. Gli altri registi erano dei veristi della scuola francese, sempre con qualche cosa di sentimentale, o comunque di narrativo nel senso tradizionale della parola. L’unico che riusciva a captare proprio il momento esistenziale di quello che accadeva, irripetibile, o comunque a restituirlo come tale all’immagine cinematografica, era proprio lui con il suo talento particolare. Non mi pare che altri registi siano riusciti ad esprimersi in quel modo.1
E ancora: Quindi non sono mai preoccupato di perdere il neorealismo perché in primo luogo non mi ci sono mai identificato, anche se ho lavorato accanto a Rossellini. Fu una grande esperienza, come molte altre cose che ho fatto, ma non ho mai creduto che vi fosse una teoria estetica che dovevo seguire…2 Rossellini […] viveva la vita di un film come un’avventura meravigliosa da vivere e simultaneamente raccontare. Il suo abbandono nei confronti della realtà, sempre attento, limpido, fervido, quel suo situarsi naturalmente in un punto impalpabile e inconfondibile tra l’indifferenza del distacco e la goffaggine dell’adesione, gli permetteva di catturare, di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. Il neorealismo non è forse tutto questo? Perciò, quando si parla di neorealismo ci si può riferire solo a Rossellini. Gli altri hanno fatto del realismo, del verismo, o hanno tentato di tradurre un talento, una vocazione, in una formula, in una ricetta.3
La rottura con la critica italiana si consuma probabilmente quando la critica internazionale rivolge alla Strada un’attenzione ben diversa da quella ricevuta in Italia, e basta rileggere la risposta di Fellini a Massimo Mida Puccini nel 1955 per restituire l’intensità delle reazioni.4 Reazioni che saranno sempre più violente: si leggano, per esempio, le sue dichiarazioni a Giovanni Grazzini in Intervista sul cinema, laddove, ricordando Agenzia matrimoniale, chiama in causa i dettami e le necessità stesse del neorealismo, rimproverando ai suoi sostenitori di inventare categorie completamente estranee alla sua poetica: I vitelloni aveva avuto un gran successo, ma fin da allora la critica di sinistra prendeva le distanze. Pur esprimendo consensi, venivo rimproverato di aver ambientato il film in una provincia senza connotati precisi, mi si accusava di
insistere troppo sulla poetica della memoria e di non aver saputo dare al film un chiaro senso politico. Pensai di prendermi una rivincita alle spalle di chi faceva in quegli anni dichiarazioni sul neorealismo da comizio, creando le nefande conseguenze che ancora perdurano […]. Il fraintendimento, appunto, del neorealismo di Rossellini, che pericolosamente illude che sciatteria e casualità possano costituire il primo imperioso dovere per fare film; il rispetto a ogni costo della realtà come accadimento esistenziale, inalterabile, intoccabile, sacro. L’emozione personale, l’intervento soggettivo, la necessità di selezione, l’espressione, il senso artigianale, il mestiere, sono dei condizionamenti che politicamente si collegano con la reazione; abbasso i ricordi, le interpretazioni, il punto di vista suggerito dall’emozione, abbasso la fantasia, in castigo l’autore! Sprovvedutezza, ignoranza e pigrizia hanno fatto accettare questa nuova estetica con entusiasmo, tutti potevano fare film, anzi, tutti dovevano farli. Un’estetica della non-estetica che penso abbia contribuito in buona parte alla crisi attuale del nostro cinema.5
* Lontano dal clamore di allora, oggi possiamo senz’altro ripercorrere l’opera di Fellini tentando una lettura dei suoi primi lavori, da Luci del varietà alle Notti di Cabiria, in una prospettiva neorealista. I motivi che s’incrociano all’interno dei temi cercano di presentare, con notevoli differenze, un campionario del vissuto sociale in Italia, sebbene le variazioni da un motivo all’altro siano sottolineate con forza e situino l’autore ai margini di un procedimento «neorealista» che lui percepisce come reversibile. Se consideriamo i temi nel loro complesso, vediamo delinearsi con insistenza due blocchi: il primo è costituito, in ordine cronologico, da Luci del varietà, Lo sceicco bianco, I vitelloni e Agenzia matrimoniale; il secondo dalla Strada, Il bidone e Le notti di Cabiria. Non si può non rimanere colpiti dalla degradazione costante dall’uno all’altro, in tutti i sensi del termine. In primo luogo, tematica. I film che appartengono alla prima serie subiscono un’influenza narratologica forte, grazie alla quale la linearità del racconto è compiuta, a prescindere da passaggi e rimandi (il finale di Luci del varietà non è quello dello Sceicco bianco né quello dei Vitelloni, per esempio) e dall’ottica critica che si predilige: i punti di riferimento e i tempi di interruzione sono combinati in modo da permettere la descrizione minuziosa di un insieme sociale e la riflessione su un’etica sociale al contempo possibile e palese. La totalità descrittiva dell’ambiente e dei personaggi che lo abitano non è più riprodotta nei tre film seguenti, o almeno non nella stessa maniera: è stabilito ormai un rapporto di significazione – o, più precisamente, un rapporto di risonanza – con ambienti sociali parziali, proprio per questo fortemente degradati. In secondo luogo, la degradazione è connessa con la perversione del tema sociale: quello che viene descritto e che si trasforma a seconda delle occasioni, ogni volta, in un ambiente unico, non è più una società. L’erranza degli attori in Luci del varietà, l’erranza dei sentimenti nello Sceicco bianco, l’erranza della vita nei Vitelloni, fino all’erranza del giornalista tra i corridoi di Agenzia matrimoniale ripetono a misura di immagine i luoghi disparati di un mondo sociale, di uno stesso insieme che corrisponde, in poche parole, alla piccola e (molto) media borghesia italiana tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta. Si tratta della ripresa di meccanismi funzionali che si riproducono e diventano altrettanti segni forti dell’insieme sociale, della sua costituzione in posture statiche e in stereotipi che ne garantiscono la continuità. Se la seconda serie rilancia una degradazione, è perché, distaccandosi dalla prima, finisce per disegnare un centro ormai equivoco, portatore di temi, di pulsioni tutti colti in un insieme degradato in partenza e che aspira alla purificazione: non una catarsi, ma una spiegazione resa possibile dalle proprie capacità di continuità o di riformulazione di un mondo etico. La domanda è questa: come si può
non smettere di riprodurre cliché, come far uscire la propria vita dal mondo e dal modello del già detto e della ripetizione sociale? La cinematografia felliniana si trova in effetti obbligata a riflettere i cambiamenti che avvengono. La società, percepita sino ad allora come un corpo compatto e uniforme nel quale alcune storie personali, a volte equivoche, torbide, insinuavano la loro differenza, lascia spazio soltanto al racconto di storie estrapolate dall’ambiente sociale, ormai descritto da lontano, come un’eco. Siamo passati da una società che integra a una società che moltiplica le esclusioni. Si può seguire questa fluttuazione ai margini delle due serie. Mentre la prima parla ancora di risonanze all’interno del corpo sociale piccolo-borghese, la seconda se ne è come tirata fuori, si è marginalizzata. Sono descritti solo degli «ambienti»: «ambiente» da baraccone nella Strada, «ambiente» dei truffatori nel Bidone, «ambiente» della prostituzione nelle Notti di Cabiria. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dal fatto che a farsi carico della degradazione e della perversione sono entità specifiche, che recano in sé l’esclusione sociale: la «coppia» Gelsomina-Zampanò, Augusto che progetta piani truffaldini e la prostituta Cabiria sono tutti, a diversi livelli, rifiutati dal loro stesso ambiente. Questa analisi non può essere fatta per i film della prima serie. Certo, Luci del varietà descrive il nomadismo di un gruppo particolare, quello dei miserandi attori di avanspettacolo, e La strada dovrebbe rappresentare una situazione più o meno analoga, ma la prima descrizione viene fatta all’interno di molteplicità narrative il cui territorio corrisponde all’Italia nel suo insieme. L’Italia non appare se non sullo sfondo, ma c’è. Con la sua provincia replicata all’infinito, in opposizione a Roma, che appare nella scena in cui i protagonisti si danno un aspetto più presentabile, rifiutando la loro marginalità nel tentativo disperato di farne «qualcosa», raccontandosi che funzionerà anche se non è così. Nella Strada non è più così: è qui attuata una sorta di marginalizzazione narrativa della provincia, che prende crudelmente l’aspetto di una campagna. Nello Sceicco bianco e nei Vitelloni torna un procedimento identico a quello impiegato per Luci del varietà. A essere analizzata è innanzitutto una pluralità, anche se, nello Sceicco, quest’ultima si realizza soltanto attraverso la semplice deformazione della coppia: una coppia che non sa ancora di essere malata e che prenderà mano a mano coscienza dei sintomi che ne fanno un corpo corrotto; una coppia temporaneamente esclusa, ma che evolve dentro l’ambiente familiare, proiezione di tutte le possibilità sociali garantite a coloro che abitano al suo interno e che lo occupano. Lo stesso avviene per I vitelloni: la brigata che vive nella gioia di stare insieme, nella spensieratezza della gioventù di provincia, ma che partecipa così – e lo sa – alla vita sociale. Le cose andranno tuttavia diversamente quando si troverà circondata da storie che non la riguardano e che travalicano i suoi codici. È solo allora che il piano etico del film svela la sua essenza: riconoscimento di una trasformazione avvenuta, riconoscimento sociale nella ripetizione e nel ridetto dei nuovi sentimenti, che sembrano gli unici a poter garantire un funzionamento efficiente dell’istituzione familiare. * È possibile che tutto ciò sfugga alle severe condizioni poste dal neorealismo, che impone narrazioni e valori più ampi. Si potrebbe persino affermare che, all’insaputa dei suoi fautori, le
possibilità sviluppate dal neorealismo non siano più presenti, e che la sua storia come genere sia archiviata o entrata in un’agonia che porterà alle domande poste, in ambito letterario, dal Metello di Pratolini.6 Non si possono più descrivere globalità ricostituite, i cui frammenti, una volta ricomposti, hanno creato un nuovo consenso sociale. Quest’ultimo non riesce più a riassorbire le molteplici storie crollate che gli si ergono intorno, storie costruite come cadute, storie che si costruiscono come avanzi, come ciò che è inesorabilmente escluso, e che presto sarà definito marginalità. Non è questione di ottimismo o di pessimismo. Il problema è più complesso, per il campo sociale che ne è investito, ma soprattutto per ogni autore che riflette sul proprio lavoro. Fellini non è l’unico ad avvertire che è diventato impossibile raccontare attingendo a un’interiorità ormai catturata in un’esteriorità di rappresentazione: l’individuo si costruisce d’ora in avanti all’interno di tensioni morali che il corpo sociale gli sottopone o gli impone, e ha soltanto modeste possibilità d’intervento, per non dire mediocri. Questo assillo è del resto sentito anche da altri autori. Calvino e Pasolini, per nominarne due – e nella misura in cui le loro scelte non coincidono –, lo esprimono con molta precisione.7 Qualcosa sembra essere andato perduto, ora un’aria, ora una musica, ora una verità che ha bisogno di autenticità e di assoluto. Il problema si pone anche per Fellini, in termini che esprimono lo stesso assillo nei riguardi di un tema che non riesce più a cogliere: Ebbi a quell’epoca il conforto di trovare quello che avevo immaginato, quello che mi ha incoraggiato a pensare che il cinema poteva anche esprimere qualcosa che non era soltanto una fotografia di una determinata realtà, non concepibile soltanto in maniera neorealista, ma anche verista, autentica – quello che il cinema di Kurosawa e di Buñuel aveva già tentato di fare –, un cinema che poteva davvero raccontare delle realtà interiori. Delle realtà più sottili. Il cinema può riuscire a guardare in trasparenza la realtà e a svelarne altre.8
Se torniamo al confronto che abbiamo stabilito tra le due diverse serie, i primi film appaiono come altrettante piccole epopee, chiuse nella loro grazia e nella loro leggerezza straordinarie. Epopee che riprendono la leggenda della tradizione familiare e sociale, facendone quasi un messaggio nazionalpopolare, il quale trae la sua vivacità dalle piccole lotte interne che i personaggi creano tra loro solo per affermarne i codici e il funzionamento. In Luci del varietà, nello Sceicco bianco e nei Vitelloni la favola sociale, che corrisponde alla favola familiare raccontata mille volte, sempre legata alle ripetizioni delle sue «riprese», si erge a proteggere (da) tutte le possibili cadute. Memoria di una cultura – quale essa sia –, memoria culturale di alcune trasformazioni in corso: il passato s’incarna nel presente di ognuno e lo ridisegna identico. Tutto è rappresentato, malgrado l’esplosione delle situazioni, in una circolarità che fa sì che la figlia sarà madre in quel preciso momento della sua storia nel film, che il figlio lavorerà nel momento in cui la festa della vita si consuma, e termina senz’altra storia oltre a quella della sua ripetizione morale, ovvero quella dei costumi della provincia. Nel secondo blocco è introdotta una poetica diversa, che appare sotto una luce nuova: a emergere dalla memoria, trascinando il suo vago avvenire, non è più il tempo passato. La discorsività quasi trasparente dei primi film – malgrado i soggetti, e a volte proprio in funzione di questi – è sostituita da una conflittualità rafforzata e violenta, che dipende anche dal modo di mettersi in gioco nella narrazione. Nella seconda serie di film viene rimossa proprio la trama sociale, in cui l’azione e i gesti obbligati dei protagonisti erano circoscritti all’interno di un medesimo intreccio, rendendoli interlocutori gli uni degli altri e, proprio per questo, dello spettatore. È come se, di colpo, l’insieme sociale fosse eliminato e sostituito da qualcosa d’impalpabile, che la società stessa non può certificare. Le storie di Gelsomina, di Augusto, di
Cabiria non sono o non possono essere nella Storia: esse escono dalla grande Storia per passare in una piccola storia, nella quale si perde forse una colorazione, un colore, ma si acquisisce una «coloratura». La rete costituita dalla società è ormai perduta, non appare più se non sullo sfondo, come commento muto a una perdita progressiva del senso di realtà. Gelsomina-Zampanò-il Matto, Augusto, Cabiria non riescono mai a far parte di alcun corpo sociale. Restano serrati e imprigionati, in modi diversi, nello scarto che la società assegna come unica possibilità; ogni particella di vita, da lì in poi, non può essere strappata se non riflettendo timori e disperazioni sugli altri, anche loro in cerca della propria esistenza. Così Gelsomina non può far altro che attaccarsi a Zampanò annullando dalla sua vita il Matto, che Zampanò finirà a sua volta per annullare, nello stesso modo in cui lei si cancella da Zampanò, la cui parte rimanente di vita finirà annullata nel non-detto che la vita ha accumulato; percorso simile a quello di Augusto, il cui segreto vitale, non compreso, impedirà ogni tentativo di nuova stabilizzazione, e infine di Cabiria, che persegue l’annullamento di quello che crede di costruire. Ognuno di questi esempi fa parte di una poetica del patetico, la sola che sia capace di rivelare l’autenticità, l’assoluto o la realtà interiore che permettono alla vita spossessata dalla società di trovare un senso, proprio lì dove non avrebbe mai pensato di cercarlo, cioè nella propria forza. Sì, forse questi personaggi hanno dei destini tragici: Gelsomina e il Matto, Augusto, finiranno per morire. Zampanò e Cabiria non smettono di essere colpiti da eventi che ne fanno dei corpi supremamente fragili, corpi devastati da una realtà impossibile da decifrare, per il semplice fatto che non è la loro. Il racconto di Cabiria inizia e finisce con la sua condanna a morte, e il battesimo finale di Zampanò annuncia soltanto l’impossibilità di riorganizzare i propri frammenti. Sfidando ogni organizzazione, questi personaggi, da Gelsomina a Cabiria, si ergono come esistenze tragiche, e ognuno di loro mette in gioco la sua forza per affrontare, contrastare il tragico di quel reale che la sorte gli ha attribuito o al quale la società lo ha destinato. Attraverso questa poetica è descritto un regime del mostruoso e della follia, che decide lentamente di una disorganizzazione dei corpi, costituendoli tutti – nel senso artaudiano dell’espressione – come corpi senza organi. Mostruosità e follia diventeranno in modo paradossale una costante della creazione felliniana e porteranno, in un primo momento, alla grande scena di riflessione sul malessere della rappresentazione che sostiene il discorso lacerato di Toby Dammit in Tre passi nel delirio. Ma c’è, sullo sfondo, un’operazione ancora più importante in questa modalità, che servirà alla ridefinizione del realismo di Fellini dal momento in cui non riesce più a inserirsi nelle classificazioni del neorealismo: tanto i personaggi iniziali sono «caratteristici» – nel senso che caratterizzano stilemi ripetitivi, modalità sociali convenzionali, in cui ogni forma corrisponde a un calco che la determina e ne definisce con precisione i contorni psicologici e comportamentali –, quanto quelli della seconda serie sono nell’impossibilità di ripetere alcuna dinamica: si trovano al di fuori di ogni convenzione sociale, al di fuori anche dell’idea di convenzione gestuale, poiché non hanno mai avuto né vissuto la cultura sociale che avvolge i primi. Mentre la giovane sposa dei Vitelloni, sempre paziente e risoluta, accede nel finale alla realizzazione del ricamo dei suoi sogni, Gelsomina non riesce mai a dare vita a nulla – nemmeno a una pianta di pomodori –, e parimenti fallisce nel tentativo di modificare ciò che somiglia a un carattere, quello di Zampanò, trincerato nel silenzio infinito di quel che gli manca. In questo senso Zampanò rappresenta per Gelsomina il modello di una società – di quanto resta di una società – al quale lei si avvinghia senza che quest’ultimo (o
quest’ultima) le offra la possibilità di sopravvivere. Siamo passati dalla «caratterizzazione» a un carattere che è esclusivo del soggetto, senza per questo farne un soggetto – dal momento che, socialmente, è proprio di questo che è privato –, un carattere che ormai appartiene soltanto a un individuo inserito in percorsi storici che lo rimuovono e lo negano. Questa trasformazione del caratteristico in carattere non agisce su un’interiorizzazione, sulla sua espressione psicologica, ma segna al contrario la sua «depsicologizzazione». Se c’è denuncia sociale in Fellini – per riportarlo, contro la sua volontà, a una condizione e a uno status propri del neorealismo –, si trova in questo rimettere in discussione i valori sociali come si vengono a disegnare in un’Italia ormai uscita dai tormenti del dopoguerra e che si rimodella lentamente su schemi antichi, riprendendo una vecchia storia di ripetizione del corpo sociale. La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria esprimono una nuova resistenza, il cui fronte si è spostato dalla guerra agli esclusi; quelli che nessun embrione di comunità riesce più a prendere in considerazione, a trattenere tra le sue fila e che, addirittura, li espelle.
PARTE SECONDA LE VARIAZIONI DI UNA REALTÀ CHE SCOMPARE: CREARE
I
ROMA COME CONQUISTA DI UNO SPAZIO TOTALE: LA DOLCE VITA. NUOVE STRATIFICAZIONI, NUOVE GENEALOGIE: RICERCA DI UN PASSATO PER UN PRESENTE. IL CINEMA E LA CITTÀ: LA CITTÀ DEL CINEMA. LE SERIE DELLA CITTÀ, LE SERIE DEL CINEMA. COME DIRE COSA PUÒ ESSERCI DI NUOVO IN UNA SOCIETÀ. VERIFICHE DEL NUOVO. INVENZIONE DEL «PAPARAZZO». IL SUPPORTO (IL PAPARAZZO) E IL SUO SUPPORTO (LA STRADA): ERRANZA E VAGABONDAGGIO. IL SOGGETTO SOCIALE SENZA PIÙ INDIVIDUALITÀ E LA RICERCA DI UN NUOVO CODICE IDENTITARIO. LO SHOCK DELL’IMMAGINE. L’IMMAGINE DI DIO E IL SUO POTERE. RICOSTRUZIONE DI UN SAPERE SOCIALE, IL SUO ORDINE, LE SUE REGOLE. YVONNE FURNEAUX O L’IMPOTENZA DELLA DONNA. DESCRIZIONE DELLA GRANDEZZA DEI MITI ATTRAVERSO L’IMMAGINE DEL FEMMINILE COME PRIMORDIALITÀ: ANITA EKBERG O LA POTENZA DEL FEMMINILE AI PIEDI DELLA FONTANA («MORIRE DI SETE ACCOSTO ALLA FONTANA»).
Ecco: La dolce vita (1960) è, in senso più materiale, un film strutturato secondo attraversamenti. Già le prime scene definiscono questo principio di costruzione, che stabilisce a mano a mano i suoi luoghi e i suoi spazi, non più ritratti soltanto nei racconti del presente, ma nell’insieme composito del loro passato, e poi calati in ciò che divengono, nel momento stesso in cui lo divengono. Che cosa si attraversa? E come? La prima sequenza è esplicita: si attraversano stratificazioni che rivelano genealogie. Due elicotteri si inseguono nel cielo, al primo è appesa una statua gigante, un Cristo Lavoratore che porta «la buona novella» con le braccia aperte in segno di pace. Gli elicotteri rasentano le arcate di un acquedotto romano, fendono l’aria sopra alcuni bambini che li rincorrono, diventano ombre e nuvole sulle mura della città in costruzione, sorvolano le terrazze di case eleganti, gli attici della nuova borghesia. Lassù, belle donne in bikini cercano, invano, di comunicare con gli uomini a bordo, che a loro volta tentano di abbordarle: uno è un giornalista, e quindi anche lui portatore di «novelle»; l’altro è il fotografo che lo accompagna. L’inquadratura, dal basso verso l’alto, rivela il volto del Cristo dorato dal sole mentre scende su San Pietro. In rapida sequenza con l’atterraggio della statua, sulla pedana-altare di un locale notturno molto chic si leva l’immagine di un idolo orientale. Questo attraversamento, rumoroso ma quasi muto, raccoglie una serie di significati e di intenti: moderna efficienza del Vaticano (gli elicotteri), classicità di Roma (l’acquedotto), iscrizione della modernità sulle mura dei nuovi edifici (il tracciato delle ombre), sintonia di questi elementi con la vita (i ragazzini o gli operai che festeggiano il passaggio degli elicotteri), nuovi rapporti interpersonali (tentativi di instaurare un dialogo, possibile o impossibile, tra uomini e donne), estensione e conferme simboliche di una storia di potere (il Cristo vittorioso attraversa, dall’acquedotto a San Pietro, un territorio di conquista, in una sintesi che ne raccoglie tutta la storia), mescolanza stratificata delle religioni, ovvero continuità dei paganesimi, in una Città eterna e santa già prima della conquista cattolica (l’immagine del Cristo dorato che si trasforma in idolo orientale, con quest’ultimo che evoca i culti precedenti al cattolicesimo, persino quello di Mitra). In questo attraversamento verticale, gli unici appigli sono le immagini e i rumori, come in una base sonora balbettante.
La sequenza successiva si sviluppa come un attraversamento apparentemente orizzontale, ma il principio di verticalità è in realtà identico, se si esclude il fatto che la sua elaborazione avviene a partire da richiami ai film precedenti. Il locale notturno rimanda a quelli già incontrati, in un’attualizzazione più elegante e raffinata; allo stesso modo, il numero orientale riprende l’atmosfera di altri, modellandola secondo codici elaborati dalla nuova borghesia italiana che si sforza di nascondere – con un effetto di litote – i segni che potrebbero farla sembrare una parvenu.1 Il personaggio del giornalista, Marcello, che abbiamo visto nella scena precedente in elicottero, qui in abito da sera, chiede notizie, prende appunti, elargisce mance perché gli si lascino scattare delle foto. Spunta un nuovo personaggio, molto loquace, caratterizzato come omosessuale, che propone compiaciuto le sue notizie-pettegolezzi. Il fotografo che accompagna Marcello scatta una foto a una coppia seduta a un tavolo. Ne nasce un battibecco, il giornalista è chiamato a un altro tavolo dove si trovano due donne e un uomo, quest’ultimo rimprovera Marcello per come svolge il suo lavoro, e lui precisa: «Io ho un’opinione pubblica da informare, è il mio mestiere… del resto un po’ di pubblicità…». Il dialogo si conclude con una minaccia. Arriva Maddalena, da sola, chiede un whisky, la fine del numero con gli idoli orientali introduce una musica – non è già più il mambo –, sulla quale danzano coppie in abiti eleganti e sofisticati. Il giornalista saluta Maddalena, la conosce, le offre da bere, poi se ne vanno insieme. In questa sequenza, in apparenza insignificante, Fellini fornisce alcune informazioni essenziali per la possibile costruzione di una storia: il giornalismo ha la funzione di informare e di pubblicizzare la vita diurna (il Cristo al Vaticano) come quella notturna, e dunque è una questione di scoop. Le notizie non riferiscono di eventi, ma riportano con insistenza la pregnanza di un modello sociale. Evocando i frequentatori di via Veneto, Fellini parla di donne vestite come ortaggi: è il caso di molti costumi di scena della Dolce vita, in parte già mostrati nelle Notti di Cabiria: Mi rendo conto che La dolce vita ha costituito un fenomeno che è andato al di là del film stesso. Dal punto di vista del costume; ma anche forse di qualche innovazione: era il primo film italiano che durava tre ore e tutti, anche gli amici, volevano che lo tagliassi. Ho dovuto difenderlo con le bombe […]. Mi pare che il nutrimento anche per quanto riguarda la formazione delle immagini, fosse rappresentato dalla vita proposta dai rotocalchi, «L’Europeo», «Oggi»; insensate passerelle di aristocrazia nera e fascismo, quel loro modo di fotografare le feste, e quella loro estetizzante impaginazione. I rotocalchi sono stati lo specchio inquietante di una società che si autocelebrava in continuazione, si rappresentava, si premiava; di una nobiltà papalina, nera e contadina, che prendeva il Caravel e si faceva fotografare su «Lo Specchio».2
Abbandonando gli ambienti e i gruppi a cui si era interessato fino ad allora, Fellini racconta frammenti di storie di persone i cui ruoli sociali restano relativamente sospesi, se non attraverso gli elementi, nuovi, di un’eleganza ricercata, strana, inclassificabile, che forse va al di là della classe sociale, fuori categoria, e tuttavia sfrutta un ingombrante sistema di segni: una donna che arriva da sola in un locale notturno, un omosessuale, pose che appartengono a un gruppo che non è nemmeno più la borghesia, ma una via di mezzo che cancella la possibilità di lettura diretta dei segni, moltiplicandone le soluzioni possibili, dagli occhiali scuri, che portano tutti, fino alle automobili. L’attraversamento si fa dunque linea, linea sottile di un racconto elusivo: è Sylvia-Ekberg a percorrere l’attraversamento lineare più grande, come fa Marcello in tutto il film: sono entrambi indicatori della distanza massima dal reale. L’attraversamento, ancorato a un passato di racconti, serve a ridistribuire la materia filmica verso un divenire che ancora non c’è, se non nel suo nascere immediato, nella preparazione di
un divenire, non di storia, ma di racconto filmico. Fellini fa il punto, riflette sul suo cinema e procede a un rovesciamento essenziale: non è più la storia, la narrazione interna, a fare il cinema; adesso è il cinema a creare, raccontandola, la propria storia, e questo rovesciamento, che inizia qui, terminerà formalmente con l’ideazione di 8 ½. Il film non si regge più sulla sceneggiatura, ma sulla sua drammaturgia immanente. È rimessa in discussione la natura stessa della drammaturgia, come se per Fellini il passato di sceneggiatore avesse perduto ogni efficacia reale, ma potesse ancora servirgli da lontano, come un’eco, a creare una base per riprendere da capo quanto già enunciato. In tal senso, l’ambito scelto per rappresentare i meccanismi interni del cinema è prima di tutto quello dell’immagine in generale, poi quello degli attori3 – anche se, ripetiamolo, il sistema sarà definito con maggiore veemenza e rigore in 8 ½ –, ma spinto verso la sua esteriorità, soprattutto attraverso l’eliminazione dei rapporti psicologici.4 La sceneggiatura e il film non sono nulla più che la trascrizione di quello che gli occhi intercettano, una realtà sempre in fuga, sempre da catturare, e dunque un presente che non può essere dato fuori dal tempo e dalla Storia. Se l’erranza e il vagabondaggio hanno rappresentato la formulazione di una ricerca e di un’esperienza conoscitiva, entrambe le modalità sono adesso interamente spostate. Ora, sono l’immagine e i balbettii che trascina fuori dalle parole, fuori dai discorsi e dalle concatenazioni, a raccontare una forma nuova dell’erranza e del vagabondaggio; è la scena tagliata e montata all’infinito. * Anche La dolce vita sembra suscitare un’impressione duplice: staticità apparente di una forma – per esempio, l’insieme dei racconti nel modo in cui sono sviluppati, nell’estensione di una sequenza come nella moltiplicazione dei dettagli di ogni scena –, e tuttavia sconvolgimento esplicito del materiale che fa da supporto a ogni racconto. Questo parallelismo appare con regolarità: rovine massicce delle strade di una Roma antica, notturna, attraversate da Sylvia, dalla sua chioma, dal suo vestito, dalle sue smancerie balbettate che si appoggiano come bava di lumaca sulla storia immutabile delle mura, rappresentate tuttavia in ulteriori divenire di rovine romane fatte di pellicola, rovine di cinema. O ancora: eternità inalterabile della fontana e sconvolgente immersione di Sylvia nelle sue acque, rivelazione e perdita della parola da parte della fontana e di Marcello. In questo doppio movimento si coniugano velocità differenti, che creano dinamiche esplosive e moltiplicano i gesti che fanno rivivere l’immagine, lasciandole un campo di esposizione che è al contempo più ampio e più denso. A ogni sottrazione del racconto corrispondono addizioni di immagine: così ogni episodio si suddivide in serie variabili – il femminile descritto secondo una triplice serie, con ciascuna delle donne che avrà poi diritto alla sua serie personale, Steiner rappresentato in tre serie, e così via –, e ognuna di queste serie varia in funzione delle velocità che le danno impulso.5 Affermare che questo film rielabora i precedenti non è sufficiente, poiché significherebbe limitarsi ai suoi nuclei narrativi. Allo stesso modo, non basta dire che i sette episodi che compongono il film riprendono, collocandole altrove, le situazioni dei sette film precedenti, anticipando il procedimento utilizzato per il titolo di 8 ½, la cui finzione puramente numerica rimanda piuttosto al desiderio parodico di «fare i conti».6 In realtà Fellini lavora su un elemento che appartiene a lui soltanto, come se volesse far emergere una nozione specifica a partire dal
«residuo»: che cosa resta di una storia, di un gesto, di un volto, di un destino nella pulsione affettiva di un prolungamento senza risposta, che non appartiene più al destino dell’uomo, ma alla creazione di un’opera? Le cose trovano in sé il loro compimento, o non le si può forse ritrovare, identiche ma altrove, in un altrove di fluttuazione che le avrà, se non cambiate, quantomeno spostate? In che cosa consiste questo spostamento? Le risposte suggerite in precedenza sono rimaste le stesse, e sono ancora valide? Tutto ciò significa prendere in considerazione una storia di eterno ritorno, e anche concedere un tempo ritrovato a ogni riflessione sul tempo perduto. La dolce vita filma divenire parzialmente avvenuti: divenire degli uomini nelle situazioni, divenire delle cose, dei sentimenti, dei volti e dei gesti. E, di colpo, sono anche nuove costruzioni: tanto Gelsomina, Cabiria, Augusto, Zampanò, il Matto, i Vitelloni erano rappresentati nella loro eccezionale individualità e in un racconto chiuso, quanto nella Dolce vita Maddalena, Sylvia, Emma non esprimono più, se non raramente, la propria individualità, e anche quando questo accade, non è sufficiente: sono, ognuna, l’espressione particolare di un disegno più ambizioso, che le riassume in un unico emblema nel quale si trovano coinvolte o dal quale si svincolano in modi diversi.7 Si tratta senza dubbio del femminile: ma da dove prende spunto? È il femminile in sé o non è anche, parallelamente, il femminile filtrato dallo sguardo di un uomo? O ancora, in che modo un uomo lo rappresenta affettivamente, ricostruendolo in un’immagine mentale? Chi è quest’uomo che a sua volta ignora se stesso? Che valore può avere l’immagine del femminile, come si combina, e dove conduce? Come si costruirà a livello culturale l’immagine del femminile, e qual è la sua novità? Che cosa interpreta? Fellini inaugura delle modalità di riflessione e di creazione che riguarderanno volta per volta «oggetti» diversi, ai quali tenterà di conferire l’espressione più estesa possibile. Si può ridurre il tutto a pochi grandi temi: il femminile e il maschile che si affrontano, nel caso della Dolce vita; l’artista e la creazione che si affrontano attraverso i modelli delle «creature» e quelli di una totalità del femminile – dove l’artista è ritratto tra l’espressione della vita e le possibilità espressive della rappresentazione – in 8 ½; il femminile alle prese con i tormenti prodotti dal maschile in Giulietta degli spiriti; alcune proiezioni vicine all’omosessualità di fronte a un mondo costruito in modo strano in Satyricon; la ripresa interminabile del femminile, nella Città delle donne, e così via. Come se questa modalità di elaborazione cercasse ogni volta di colmare il vuoto lasciato da una realizzazione parziale, inserita in una temporalità che andava delineandosi come fosse in fuga: mancava a ogni storia raccontata l’espressione della sua creazione, il racconto lasciava un residuo che si sarebbe sviluppato secondo nuove leggi, portatrici di un surplus di invenzione creativa. * L’intenzione drammaturgica della Dolce vita nasce da un sogno di Cabiria e ne prolunga la storia: andare a guardare, senza voyeurismo e con scaltrezza innocente, in un mondo di cui si crede di conoscere tutto, ma che sembra diverso e nuovo, che, pur mostrandosi, non intende davvero svelarsi, e i cui segni, distanti nel caso di Cabiria, sono ammalianti, avvolgenti. Vita sognata degli altri, inaccessibile, con l’apparenza di una finzione che riveste esteriormente i segni della teatralità, della teatralizzazione. Il titolo stesso dell’opera – un’invenzione di Ennio Flaiano –, nonostante l’articolo che serve ad attenuarne l’enfasi, suggerisce un contorno fluttuante, più
astratto di quello degli altri film, evoca la sensazione di una cosa piuttosto che la cosa stessa, come una malinconia alla Fitzgerald, piena dei rimpianti dell’incompiuto, riassorbita dalla dolcezza sospesa del non finito. Il film e il titolo sfuggono a un’imposizione di senso: non si sa cosa sia «la dolce vita»,8 e ogni risposta che non accolga la dimensione elusiva del film, l’esperienza di attraversamenti e di linee raccontate nell’abbandono della finzione, non può che essere parziale. La scena in cui si svolge questa finzione corrisponde a quanto esiste di più esteriore alla vita, di più immerso nell’apparenza, di meno compromesso in storie d’interni di vita privata: siamo passati dalla geografia angosciante della strada (La strada, appunto) a quella, appena più rassicurante, delle strade della città (i marciapiedi delle Notti di Cabiria), per giungere a un luogo estremo, via Veneto – all’epoca importante quanto la basilica di San Pietro, senza tuttavia manifestarsi come «punto di vista» laico –, che si distende come il nastro scintillante di una collana dal fluire ostentato e sensuale, Via Lattea e cintura di Venere dell’Urbe, fiume dalle due rive che non si attraversa mai, ma di cui si costeggia la sponda.9 È l’elemento costitutivo del film in cui si torna e si resta arenati alla fine di ogni deviazione, in cui le cose accadono come per caso, benché sia risaputo che quello che accade può aver origine soltanto da lì: da lì si fa il punto e da lì si riparte, lì tutto si lega e si slega, antagonismi e pacificazioni, punto di raccolta e di dispersione.10 A questa concentrazione che si disperde e si riaddensa come un respiro corrisponde una messa a punto dell’immagine: ciò che sembra statico si muove costantemente, pullula. Soppiantando il racconto delle apatie ripetute, un nuovo elemento, i fotografi, i «paparazzi» – un’invenzione linguistica di Fellini –, determina in modo occulto l’insieme dei movimenti. Fin dalle prime scene al cabaret, i paparazzi imprimono delle dinamiche – a volte antitetiche o negative –, le quali si sviluppano in altrettante azioni – chiamiamole scatti – che aspettano di avere la parola. I paparazzi scattano foto, catturano immagini, inglobando, includendo e mescolando i loro segni distinti: occhiali scuri, automobili, abbigliamento, modi di agire. Ma queste immagini non sarebbero nulla se un commento appropriato, una parola adeguata non ne esprimessero la specificità di luogo, di tempo, di azione: il giornalista le interpreterà poi con la parola che attendono, una parola preparata dietro le quinte da un informatore. L’omosessuale ciarliero e curioso svolge questo ruolo, di personaggio subdolo e vigile. Nella scena iniziale le reazioni dei clienti del cabaret danno avvio alla finzione, rappresentati in un desiderio di farsi pubblicità tanto manifesto quanto negato: a che cosa servirebbe altrimenti la loro vita estatica, ferma in posa, se non fosse commentata, in forma di nuova conversazione sul tempo che passa? È qui che la finzione raggiunge il culmine, che il suo bisogno di testimonianza e di attestazione è soddisfatto, che tutto è detto attraverso la negazione stessa; fotografi e giornalisti sono gli scribi, i chierici, i divulgatori, gli storiografi di questa nuova forma di realtà che tenta di sfuggire alla propria testimonianza, ma non alla propria formalizzazione, di affrancarsi dalle leggi di un reale che crea dal nulla, imponendo una sola lettura possibile della sua immagine e, tramite questa, delle immagini. Da questo momento in poi, la successione delle prime scene acquista maggiore chiarezza: il discorso indiretto sull’immagine degli individui, sviluppato nel cabaret attraverso delle opposizioni, ha qualcosa a che vedere, in modo rovesciato, con l’immagine dell’idolo che danza e con quella dell’icona trasportata dall’elicottero. Sono tre momenti di una stessa suggestione: queste diverse linee creano un intreccio il cui esito, che inaugura un discorso sull’immagine
dell’umano e sulle modalità del suo muoversi, diventerà il punto nevralgico del film, esterno alle individualità e alle soggettività, proprio come la strada in cui si svolgono gli eventi, che include questo discorso interiorizzandolo per ricacciarlo fuori, sui marciapiedi. Tutto avviene su questa linea: quello che sembra «succedere», «avvenire», non è altro che l’esemplificazione sistematica di questo doppio attraversamento dell’esterno. La riflessione che pare muovere il personaggio principale, Marcello, è solo apparente, non aderisce che a questo esterno e ne fa un personaggio di pura «superficialità»: gli eventi gli scivolano addosso, senza toccarlo, o soltanto in modo marginale. Una sorta di attore-spettatore, in fin dei conti, apatico e velleitario quanto i personaggi che l’hanno preceduto, senza alcuna presa sulla realtà, che deve subire per due ragioni: perché quella realtà è solo apparente, pura finzione posticcia della vita, e perché, nondimeno, la sua iscrizione nella legge dei segni è tirannica e non ammette trasgressioni. In questo contesto, l’evento non può avvenire per davvero, si confonde troppo spesso con l’occasione in tutto quello che quest’ultima può avere di casuale e di improbabile: come in una favola in cui si devono superare delle prove, Marcello sembra passare «accanto» alle (sette) modalità che gli vengono offerte come possibilità di trasformare le occasioni in eventi. La sordità della scena finale – in una suggestione che inverte la condizione di Ulisse mentre ascolta le Sirene – gli impedisce di capire la rivelazione della triplice sirena che gli si mostra: la prima, Emma, umana e sociale; la seconda, Maddalena, animale e naturale; infine la terza, Sylvia, irraggiungibile e divina. * C’è un mondo subalterno in fermento, che aspetta di essere divinizzato, in un modo o nell’altro. L’umorismo di Fellini, volontario o meno, consiste nel situare la sua rappresentazione nella città dove, in un’altra epoca, gli imperatori erano divinizzati, i papi santificavano gli uomini, e ora gli idoli sono le star. Roma acquisisce spessore da questo triplice grado di eternità: città dell’Impero, città del cattolicesimo, città del cinema, tre sistemi che, incastonati l’uno nell’altro, come una tiara papale, si stratificano, in una genealogia le cui letture e i cui percorsi sono necessariamente legati in un passato – compreso quello fascista, ancora così recente – per ricavarne un presente. Roma ricopre allora la sua totalità spaziale, al contempo monumentale e ripetuta dall’andirivieni continuo in ogni direzione, verticale e orizzontale, dei paparazzi. Dopo le diverse tappe nel corso delle quali non ha smesso di avvicinarvisi,11 Fellini giunge per la prima volta a questa globalità della Città per antonomasia e, nella sua cinematografia, è come se Moraldo (I vitelloni),12 partito per una destinazione ignota, fosse finalmente arrivato, e vivesse o rivivesse adesso, in questo presente, il complesso delle immagini ricognitive della città, nell’apparenza delle sue trasformazioni scintillanti. L’immagine filmica cambia le carte in tavola: si passa da un grado dell’immagine che conservava, malgrado tutto, una funzione storicista condivisa con il neorealismo, a una nuova definizione stratificata dell’immagine, sostenuta da un colore nuovo, una nuova lucentezza del bianco e nero. Si possono isolare alcune sequenze nelle quali il riferimento neorealista è più o meno evidente: innanzitutto quella in cui Maddalena e Marcello, dopo alcune peripezie, vanno a fare l’amore nella casa in periferia di una prostituta, dove l’azione, fortemente determinata dal racconto interno che la suggerisce mediante i dialoghi, ripete compulsivamente precisi fatti
di attualità sociale (gli edifici incompiuti, l’acqua che invade gli alloggi, le pessime condizioni di vita, determinati comportamenti). Sola, qui, l’immagine di Maddalena provoca, invece di suggerire, in quanto assume atteggiamenti inappropriati o inadeguati al contesto sociale generale – suo padre è molto ricco –, al punto di travolgere Marcello, che inizialmente sembra esitare.13 Un secondo segno, appena una strizzatina d’occhio al neorealismo, si trova nel finale della sequenza della fontana di Trevi: quando è tutto finito, all’alba, nel silenzio, la scena è contemplata da un giovane fattorino in bicicletta. La terza scena è quella del primo incontro, nel ristorante sulla spiaggia, con Paolina, la ragazzina-angelo: dal punto di vista visivo, la scena rientra nei confini del neorealismo, ma se ne distanzia per la forte sovraesposizione dell’immagine che, grazie al gioco di trasparenze, rende il luogo subito appropriato ai dialoghi.14 Il superamento del neorealismo dipende in parte dal fatto che il racconto non scandisce più il film, sostituito dalla composizione del bianco e nero e degli stati intermedi in serie cromatiche che determinano le disposizioni delle masse all’interno del movimento. Questa vera e propria «captazione» – risultato di molteplici fattori – formula e fonda la definizione di stile in Fellini. È forse l’ultima volta che, nell’ambito di grandi produzioni e prima del lirismo del bianco solarizzato di 8 ½, la pellicola in bianco e nero è trattata con un’intenzione così accuratamente pittorica, con estrema attenzione sia alla forza che alle sfumature che questa pittoricità comporta.15 È la prima volta che Fellini riesce a dare una risposta così esaustiva alla sua percezione del bianco e nero, trattandolo proprio come fosse colore. […] il bellissimo, suggestivo, amatissimo bianco e nero […]. Non credo che il colore sostituirà del tutto il bianco e nero, o almeno mi piace pensare che questo non avvenga. A un brutto film a colori, preferisco naturalmente un film in bianco e nero. Tanto più che in alcuni casi i cosiddetti «colori naturali» impoveriscono la fantasia. Più ti avvicini mimeticamente alla realtà, più scadi nell’imitazione. E il bianco e nero, in questo senso, offre margini più ampi alla fantasia. Se dopo la visione di un bel film in bianco e nero interrogassimo sapientemente gli spettatori sulle qualità cromatiche del film, sono sicuro che molti di loro affermerebbero che i colori erano molto belli; perché ciascuno presta all’immagine i colori che ha dentro di sé.16
Questo discorso, di cui 8 ½ rappresenterà un secondo capitolo, porta nella Dolce vita allo stupore per i risultati di una nuova fotogenia, che non proviene soltanto dagli attori, ma da tutto quello che c’è nel film, e la copia che Martin Scorsese ha fatto restaurare ne è una conferma; personaggi, occhiali, vestiti, automobili, architetture, movimenti e masse, al di là dell’invenzione scenografica, hanno valore perché ogni volta qualcosa diventa «davvero» corpo, riesce a materializzarsi e a vivere nella sua traiettoria, a farsi racconto visivo. Ora, alcuni elementi di questa elaborazione sono estremamente precisi: abbiamo visto l’effetto allusivo della sequenza che evoca l’angelo e che modificava la struttura estetica della scena per condurla verso la sua esteriorizzazione. Nella lunga sequenza in cui Sylvia passeggia vestita con il suo abito nero, il nero della scollatura, insieme alla generosità dell’abito, serve a sfumare l’evidenza dei seni, per lasciare di queste due entità soltanto un petto, o piuttosto a sottolinearne diversamente l’abbondanza e la rotondità: non è più un seno, ma una massa ondulante in un’altra massa ondeggiante e ondulata, in un canto dell’immagine modulato da una stola bianca, un gatto bianco, una capigliatura bianca, la trasparenza dell’acqua: sono masse di movimento che, senza allontanarsi dalla natura, ne sviano profondamente i significati percettivi. Come la storia racconta un movimento di immagini, anche il film racconta un lavoro sull’immagine a partire dall’immagine stessa: la nozione di immagine è rappresentata nei suoi
valori e nulla è più difficile che renderne in dettaglio le sfumature, a volte le opposizioni. Eppure, la trama generale che sostiene tutto è lì: icona, idolo, immagine sono uniti da un discorso che sempre più li avvicina, ma per esprimerne al contempo la distanza. In che cosa il «voyeurismo» legato a questa distanza può sottolineare la loro verità – e ciò che l’accompagna, ovvero la realtà – o la loro menzogna, cioè la loro mancanza di realtà-verità? Come vive allora l’immagine, al di fuori del sostegno rappresentato dalla strada e da un manipolo di paparazzi? Come hanno vissuto gli idoli e le icone? Come vive l’immagine di un cinema rappresentato in una nuova storia della sua creazione, che non dipende più dalla grande mitologia hollywoodiana, ma da una elaborazione inedita? E cosa farsene, al cinema, dell’immagine determinata dalla pubblicità, che si impone con valori puramente voyeuristici e mercantili? Infine, in che modo impedire che tutte queste immagini si trasformino in altrettanti stereotipi? Queste le domande che il film pone e alle quali Fellini risponde con una (im)pertinenza gioiosamente egoista: «Glorificare il culto delle immagini (mia unica, grande, primitiva passione)».17 * Il neorealismo aveva sviluppato una forma di resistenza nei confronti della storia dell’immagine che l’aveva preceduto: «contro» tutte le immagini, comprese quelle filmiche, volute dal fascismo, ma anche «a fianco» delle orripilanti immagini che la guerra e la prigionia offrivano; per non parlare di quelle dei campi di concentramento, che scagliavano il loro ennesimo divieto sull’immagine. Su questo slancio, l’immagine felliniana ha esaurito quello che aveva da dire in merito a un dolore spesso puro, anche se sottratto alle determinazioni della violenza diretta della prima fase del neorealismo.18 Il dolore ha ormai cambiato natura, la sua immediatezza e la sua attualità non si traducono più in forme parossistiche: si è trasformato in una sorta di irrequietezza, la quale intende ora descrivere il crollo di una realtà che non permette più alcuna oggettivazione, ma appare sotto sembianze più sfumate e involute, più conversazionali, come una nostalgia che riflette sulle sue distanze temporali e desidera instaurare un rapporto nuovo, un colloquiare diverso. In questo attraversamento di esperienze e maturazioni l’immagine non può più descriversi da sola, non basta a se stessa, e l’unico margine di intervento che le resta è stare in guardia rispetto a ogni minima percezione e portare la nostalgia al punto di rottura. In altri termini, gli stereotipi legati alle descrizioni non possono più essere superati se non dalla moltiplicazione attentamente controllata delle decodifiche, in una proliferazione agitata dell’immagine che riesce, allora, a catalogare tutte le sue sfumature e a oltrepassare la condizione di storicità per lanciarsi in un divenire-immagine fin lì inesistente. E a dare corpo a una nostalgia che sembra radicarsi nel passato, ma che in realtà mira soltanto al suo futuro.19 È questo il senso del filmare la notte, la notte romana, che è soprattutto avvolgimento di tenebre ctonie da cui lasciar emergere, dionisiacamente, e filmare le resurrezioni dell’immagine. L’immagine della Dolce vita è come «gonfiata» dalla sua moltiplicazione e dall’«effetto notte» che le viene conferito grazie alla tonalità di base, glorificata in seguito da vibrazioni luminose: scintillio di automobili, di occhiali scuri di notte, grandi palpiti di carni, di epidermidi. È nell’attraversamento di questi baluginii luminosi che si deve cercare di comprendere il discorso
felliniano.20 L’esempio più sorprendente di questa moltiplicazione decodificata è il complesso dei racconti che ruotano intorno al femminile e ne attraversano la storia e la traduzione in immagini. Non basta leggere in Maddalena, Emma e Sylvia tre momenti diversi dell’esperienza sentimentale, affettiva e sessuale di Marcello, né semplicemente tre modelli di donna dell’epoca. È forse proprio il contrario: si parla del femminile, certo, ma rielaborato dallo sguardo di quell’adulto, e quindi catturato in un prisma diffrangente che ne fa l’insieme multiplo di proiezioni personali e soggettive, affettive (Maddalena), estatiche (Sylvia), compulsive (Emma), ripetute come cliché, incapaci di esprimere altro se non una storia italiana fatta di infiniti stereotipi sul femminile, e dunque di dare solidità alla realtà. Tanto che Marcello, alla fine del film – nella scena dello spogliarello, in cui esaurisce il suo laboratorio di cliché pseudosadici in uno spettacolo voyeurista e narcisista davanti a tutti e a se stesso –, rimane solo con il suo cumulo di proiezioni e di immagini, nell’incapacità, infine, di leggerne altre oltre quelle che è stato indotto a riprodurre nella sua esperienza di vita. Ne deriva anche il fatto che Maddalena, Sylvia ed Emma vivono soltanto sotto il peso opprimente dei loro cliché, adornate dalle banalità stereotipe con le quali gli altri le rivestono; ogni tentativo di superarne la condizione e la natura avviene una volta soltanto, nella temporalità cinematografica che riafferma, per ognuna di loro, le velleità di cui il desiderio si alimenta. * Sul piano dell’analisi della condizione psicologica, nulla sembra arrestare le derive individuali: alla fine del film, una volta conclusa l’esperienza, le speranze di ognuno, accennate all’inizio, si sono smorzate e ripiegate nel disincanto e nella paura. L’episodio a casa di Steiner – asse intorno al quale potrebbe girare il film21 – racconta la varietà delle situazioni in cui non resta nulla da decidere, in cui si possono soltanto stilare elenchi di aspirazioni incompiute, antologie nelle quali si dispiega l’eterna proiezione della creazione artistica come unica possibilità di accordo con il reale, a condizione di evitare il «dilettantismo». Nella sequenza della serata a casa di Steiner, in un’atmosfera sonora nella quale gli elementi primordiali sono ricordati nell’attraversamento dei loro stati e dopo la declamazione di alcuni versi della Tempesta di Shakespeare, il racconto si sviluppa intorno alla visione di un’opera d’arte, una natura morta di Morandi – e la costruzione della scena riprende i temi del dipinto22 –, davanti alla quale Marcello enuncia una sorta di progetto-proiezione: Un Morandi magnifico […] un’arte in cui niente accade per caso, […] l’arte che penso servirà domani, un’arte chiara, netta, senza retorica, che non dica bugie, che non sia adulatrice.
E come rivolto a un futuro: Fammi venire più spesso qui da te […] dovrei cambiare ambiente, dovrei cambiare tante cose. La tua casa è un vero rifugio, sai, i tuoi figli, tua moglie, i tuoi libri, i tuoi amici straordinari. Io sto perdendo i miei giorni, non combinerò più niente. Una volta avevo delle ambizioni, ma forse sto perdendo tutto, dimenticando tutto…
Steiner risponde da una profondità che è già negazione e assenza: Non credere che la salvezza sia chiudersi in casa, non fare come me Marcello… io sono troppo serio per essere un
dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista, ecco. Meglio una vita più miserabile, credimi, di un’esistenza protetta da una società organizzata, in cui tutto sia previsto, tutto perfetto. […] Qualche volta la notte, questa oscurità, questo silenzio, mi pesano. È la pace che mi fa paura, temo la pace più di ogni altra cosa, mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno. Pensa a cosa vedranno i miei figli domani: il mondo sarà meraviglioso, dicono, ma da che punto di vista se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto. Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato. Dovremmo riuscire ad amarci tanto, a vivere fuori dal tempo, distaccati… distaccati.
Il suicidio di Steiner devia il racconto verso soluzioni più critiche, come se il film, abbandonando il ricordo di una vita felice, all’improvviso si mettesse a parlare del prezzo da pagare per ottenerla. Anche Steiner, modello apparentemente perfetto di equilibrio tra pulsioni vitali e ascesi metafisica, apparso nell’alone di un discorso-conversazione in cui si mescolavano tutti i dati offerti dalla libertà laica di pensare e di agire, è avvolto soltanto dal suicidio e dal sacrificio estremo della progenie, come un Saturno che l’esistenza offende; ma era, anche lui, preso in una rete di immagini mentali in cui la pura volontà dell’atarassia era insufficiente a controbilanciare le forze negative di un pensiero ripiegato sul trompe-l’œil delle immagini del pensiero. Con questo personaggio Fellini brucia una delle ultime, tarde rappresentazioni di un romanticismo in cerca di verità, semplici in apparenza, tuttavia estreme e definitive, la cui «barca dei sogni» si spezza sulle onde di una realtà troppo complessa. La debolezza degli altri personaggi è troppo vistosa, incapaci come sono di maturare in progetti il cui obiettivo potrebbe essere il superamento dello stadio del volere capriccioso, affinché questa stessa realtà possa dare loro risposte o soluzioni: solo la buona stella e la fortuna potranno ormai condurli verso un destino su cui non incidono. In questo senso, nessun personaggio è «salvo», e il mondo della pura apparenza cade, come una scenografia teatrale, nella notte che impallidisce in un livido mattino, proprio come nelle serie dei film precedenti: alba di Maddalena, di Emma, di Sylvia, vissute nella reincarnazione del quotidiano, alba di un miracolo che non avviene, trasformato in catastrofe, alba del padre, della festa a casa dei nobili, dello spogliarello, la somma di tutte le albe di Marcello. Occupare un’immagine non significa stare nella vita, e non occuparla come si dovrebbe rivela l’imbroglio in cui tutto sprofonda. Questo divario tra le diverse pose dell’immagine e delle sue rappresentazioni è espresso con insistenza e delinea una trama ulteriore: l’insieme degli interstizi nei quali si fondono unità disparate – proiezioni, apparenze, congetture, rumori ecc. – è una maniera di cogliere non tanto dubbi, quanto l’universo complesso delle virtualità che agiscono, nell’ andirivieni molteplice di un passato spinto verso un progetto di futuro, un reale sistematicamente raddoppiato, non da atti, ma da quello che resta sempre in sospeso dell’idea della vita. L’insieme degli sguardi e delle espressioni, delle attese senza intenzioni, dei balbettii sostituiti ai discorsi, delle pure percezioni visive e sonore, protende la banalità elaborata del racconto verso il suo trompe-l’œil, verso una pura linearità narrativa, dove l’immagine vive prima nella chiusura che le serve come definizione, poi nell’esplosione che deve subire ogni volta prima di ricomporsi in lampi brillanti, cui si guarda con amore. Questo film allora non è la somma di psicologie che agiscono le une accanto alle altre con la vocazione di soddisfare coscienziosamente i dati della realtà presentata: benché sia spesso molto marcato, il movimento psicologico non appare mai come il punto di arrivo di un discorso dimostrativo, ma come la semplice formalizzazione di un punto di partenza dal quale far variare le proposte e far agire la variazione. Nei sette episodi che compongono il film Fellini
riesce a riunire e mettere in evidenza non soltanto i temi delle altre pellicole, ma soprattutto le questioni fondamentali dell’Italia dell’epoca, sfidando il mito del «miracolo italiano», guardando da vicino chi e come è coinvolto nella nuova quotidianità, prevedendone già l’esito mancato: in questo La dolce vita è una cronaca minuziosa del quotidiano. In primo luogo, la questione del maschile in rapporto con il femminile, a partire dal quale riorganizzare una visione del maschile; il luogo (via Veneto, in quanto simbolo) dove la classe che si appresta a prendere il potere vive la questione dell’individualità all’interno del nuovo dato degli scambi e della rete problematica da cui non può essere separata; come questa classe si sta modellando in quanto immagine e forza; che cosa sparirà in questa calca (Steiner); quali sono in questa «terra di santi» non tanto i rapporti con la trascendenza e la metafisica, quanto i rapporti con l’evento religioso (il miracolo); qual è la posizione di coloro che non sono destinati a vivere in questo nuovo solco sociale (il padre); come vivrà la parte segreta di coloro che sono stati salvaguardati dalla monarchia papale (la festa a casa dei nobili); qual è, infine, il vero disegno dei rapporti reciproci (lo spogliarello nella villa sulla spiaggia). Rispondere a tutte le domande corrisponde, per il film, a un atto politico immediato, poiché ridisegna una geografia dei comportamenti e delle tensioni. Il soggetto sociale non è più determinato dalle miserie e dalle arroganze che lo costituivano in passato; la sua identità, come la sua individualità, prende ormai dei percorsi di cui non riesce a valutare altro che l’importanza ostentata, e di cui non riesce a disfarsi, benché ne misuri la superficialità. Miseria morale e arroganza rimarranno, in fin dei conti, il bagaglio umano di Marcello, contro il quale egli lotta maldestramente, chiuso nell’impotenza della propria individualità: ormai può solo puntare a un sapere sociale ridotto, con regole e ordini già colmi di compromessi in cui si sente a suo agio, perché sono divenuti una forma adeguata nella quale si è fatto strada e ha creduto di crescere, alla quale ha persino sacrificato la sua bontà e la sua correttezza naturali. L’episodio conclusivo, di estrema solitudine, non può essere compreso se non vi si include il finale della conversazione a casa di Steiner, i progetti che Marcello annunciava, il disegno che tracciava di se stesso. * Che la costruzione del femminile come modello particolarmente riuscito dell’immagine passi innanzitutto dalla sua visualizzazione esteriore è una constatazione banale, e non è chiaro per quale motivo Fellini, in una società che rimane ferocemente maschilista, in una cultura in cui le forme essenziali mirano, da Giotto a D’Annunzio, dalle Madonne a Silvana Mangano, alla rappresentazione di questa evidenza, dovrebbe sottrarsi a un cliché che, messo più volte alla prova, si conserva intatto. C’è qualcosa che accomuna Anouk Aimée, Yvonne Furneaux e Anita Ekberg e che, al di là dei singoli caratteri, è legato a un ideale di bellezza somma, espressa in modi diversi: eleganza altezzosa, fredda in alcuni momenti, e tuttavia nobile nella prima; bellezza naturale, modellata con una grana di porcellana miracolosa, nella seconda.23 Tuttavia, le loro storie personali aderiscono a modelli collaudati: nei gesti e nelle decisioni, Emma ripercorre il registro solitario di chi, in una determinata cultura e nonostante una certa evoluzione, resta fedele all’immagine che la descrive come appartenente all’unico uomo che desidera e in nome del quale, forte della fede definitiva nel proprio amore, è decisa a superare il
disprezzo e a reprimere la vergogna, dal tentativo di suicidio all’uovo alla coque. Come una Giunone da presepe, questa sicurezza la porta a non abbandonare mai né il letto dell’uomo né il luogo in cui vivono e in cui lei sa che l’amore di lui tornerà, nulla la distoglie dal suo intento; in quel nucleo culturale che compone il suo repertorio, e che lei rappresenta, arriverà al punto di cercare di attirare l’attenzione di un’improbabile Madonna durante un’altrettanto improbabile apparizione. Solo Steiner riesce a dirle l’unica verità che, idealmente, conta in amore: «Il giorno in cui capirà che ama Marcello più di quanto lui non si ami, lei sarà felice…». La storia di Emma inizia e finisce lì, nelle ceramiche Della Robbia bianche e blu delle coppie, nei letti funebri di argilla dell’Etruria, in questo dono di sé che chiede qualcosa in cambio, piccola lupa romana, vorace di amore in un’onestà integra e scrupolosa, pronta alle nozze, che costruisce in modo maniacale la felicità minuziosa delle eterne dispute coniugali, delle spugne che servono a purgare ogni vergogna, ad annullare ogni disprezzo, a rendere la pelle tonica e nuova, in un destino malinconicamente infinito, nella flebo ospedaliera di una tristezza felice. Accanto a questa immagine purificatrice della femminilità, si erge, più imperiosa, quella di Maddalena, bella di una bellezza che sa – il suo nome non è casuale –, e il cui amore equivoco rimanda, in una versione contemporanea, al dibattito tra amor sacro e amor profano; in tal senso è simile a una Venere la cui esperienza avvolge e sconvolge fino alla discrezione – la scena che chiude l’episodio della festa a casa dei nobili è una scena di avvolgimento, mormorata in una bocca di marmo, circolare come una cintura che stordisce. Inadeguata e inappropriata all’epoca e all’ambiente, lei va oltre: da lì trae gli effetti complessi della sua seduzione, l’asprezza e le delicatezze, le abitudini che appartengono tanto al suo animo quanto al suo corpo. Devota ai culti di Afrodite, ne incarna l’eredità errando attraverso i labirinti del tempo da una donna all’altra, da Frine a Madama Butterfly, risultato di una volontà di superamento eroica ancor più che del piacere e della lussuria. Offre il suo corpo perché le piace il corpo degli uomini e le piace goderne, gioca con la sua distanza, in un finto disprezzo di sé che riprende i modi subdoli della più abile seduzione: MADDALENA: Ti amo, Marcello, lo sai… vorrei essere tua moglie, vorrei esserti fedele, vorrei tutto insieme, vorrei essere tua moglie e vorrei divertirmi come una puttana. MARCELLO: Stasera non so perché sento di volerti un gran bene, di avere bisogno di te […]. MADDALENA: […] non si può avere tutto in una volta, una cosa o l’altra… e io non posso più scegliere, è troppo tardi. Del resto io non ho mai voluto scegliere… non sono che una puttana, lo sai, non c’è rimedio, sarò sempre una puttana, e non voglio essere altro.
È una parola che non mercanteggia nemmeno, la sua, che dice della femme fatale o della fatalità della donna mentre già accenna all’eterno femminino che soltanto Sylvia porterà a compimento; Maddalena è affrancata, per natura e per status sociale. E di questa natura l’uomo fa in seguito l’anima più fedele e la meno corrotta, lo scrigno colmo di tutti i condizionali della vita, il deposito sacro delle sue velleità e dei suoi rosari di «sarebbe potuta andare così», in una giostra di stordimento in cui – sembra – la vita, se fosse stata vissuta, sarebbe stata un trionfo. * Sylvia, infine, o Anita Ekberg. Come una carezza infinita, la linea nera segue un disegno e lo modella: la linea nera del tessuto segue il colore e il tessuto della carne, disegnando, per
contrasto tra luce e ombra, un chiaroscuro, un palpito nella notte della città, nella notte degli uomini. Come una carezza infinita della notte, la scollatura evoca un brivido. È il vento, un vento di stagione, la luce, una luce che non filtra più dagli occhi ma dalla carne, l’acqua, un’acqua lustrale che è lì per confondere e unificare: la figura si erge, la sua forza invade. C’è esuberanza nel destino di questa immagine, una forza tale da cancellare ogni piccolezza, tutto ciò che di misero c’è al mondo, è cornucopia: è un canto che si esaurisce in un grido languido, è talco e profumo, è miasma e calore, pania e marmo, scaraventa l’anima nel disastro, spinge l’inconscio a prendere il largo verso quello che c’è, in esso, di più tenero, in attesa. Quest’immagine si ripete, pur senza essere ossessiva, è nella sua forza calma, nella sua dolcezza rude; senza fine, viene ripetuta. La scollatura invita agli abbandoni, ai vagabondaggi e alle fluttuazioni della carne, ancor prima che dell’anima: è lì, da questa fonte, che l’anima proviene dalla carne, ne assume la forma e l’odore, scivola e si rifugia negli anfratti delle sue masse. Opulenza che allevia gli sconforti, gli affanni, risveglia la dolcezza che c’è in noi, ne accorda i tempi e i ritmi, all’unisono: è un’ebbrezza, uno stato che solo raramente appartiene all’umano, visto che – sembrerebbe – quest’ultimo lo rimuove e non osa ricordarsene. La scollatura – disegno della stoffa che accarezza il disegno dei seni – è anche un racconto d’infanzia: una storia poco raccontata di labbra, di guance accarezzate di notte da un lenzuolo di cotone, ruvido, o da un lenzuolo di seta, liquido, scene sepolte dell’infanzia, eppure così vicine a tutti, a portata di mano, a portata di guancia, di labbra, di ricordo felice, bacio. C’è una forza nel tocco leggero di questa morbidezza,24 di questa esteriorità della carne che sola si libra in tutto ciò che confonde, che manda in confusione. Immagine della notte, notturna, del tempo della notte o della notte dei tempi, profondità senza storia, vestigia e presenza, filastrocca e cantilena, lunga notte dell’uomo, sepoltura. Carezza immensa della notte, nella notte, carezza degli occhi accarezzati. Prima di arrivare a questo stadio di perfezione, a questo spogliarsi, Sylvia ha dovuto disfarsi, raccontandola, della sua storia di immagine. Appena arrivata dal cielo, investita di tutti i cliché che attirano le star, le viene fatto rifare ciò che è instancabilmente ripetuto nell’ambiente in cui si produce l’idea stessa dell’immagine: l’uscita e la discesa dall’aereo, circondata da una corte di mercanti (di immagini) che si agita intorno a lei, ai suoi piedi, e che dà forma ad altrettante processioni comiche. La scena riprende nell’hotel in cui si tiene la conferenza stampa, in un miscuglio babelico di lingue e in una ripetizione dei soliti cliché.25 Sylvia – che all’inizio doveva chiamarsi Anita – attraversa tutte le fasi e le frasi dello star system: è la sua prima linea di attraversamento, per conquistare – proprio lei, con una filmografia relativamente mediocre – il posto che potrebbe metterla alla pari con Marylin Monroe, di cui del resto ripete alcune battute durante l’intervista. Nella realtà, le stratificazioni che l’attrice è tenuta a rappresentare sono più complesse: svedese come Greta Garbo e Ingrid Bergman, non ha le stesse qualità delle sue connazionali, ma ne ha altre; come la Bergman, strappata agli americani, lavora con un italiano che ne farà una star; diventa star nel momento stesso in cui il film fa di lei una star, grazie tra l’altro alla sua presenza in una delle più belle scene della storia del cinema. L’iniziazione è complessa. Superato il primo stadio, quello delle domande e delle risposte, il suo battesimo con la Città santa avviene il giorno seguente, durante una visita alla basilica di San Pietro, in cui viene trascinata da una folgorazione verso l’abisso del cielo, inseguendo un sentimento segretamente felice, l’espressione della sua pura forza. Il secondo battesimo, con la città del cinema, avviene la sera, in un night club – una prima versione di quello tetro e
decrepito di Toby Dammit –, dove supera altre tappe della stessa iniziazione. Riprendendo l’immagine del grande mito cinematografico di Rita Hayworth in Gilda – incarnato, abito e capelli al contempo –, Sylvia danza fino alla propria metamorfosi, con il mambo e l’inno dei bersaglieri, come un’italica Minerva trionfante. Al colmo di questa potenza, quando lascia il locale con Marcello e si ferma in piena campagna, Sylvia diventa tellurica e animale, tuba e urla insieme ai cani, in uno dei balbettii più emozionanti del cinema, come per aderire alla totalità di cui Marcello le sussurra all’orecchio: «Tu sei tutto, Sylvia, ma lo sai che sei tutto? Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa, ah… ecco che cosa sei, la casa… ma perché sei venuta qui?». Poi, infine, il vero battesimo, fuor di metafora, nel cuore stesso della Città eterna, della Roma più profondamente romana, di cui attraversa i labirinti e i diversi strati, ricomponendo gli odori della sua femminilità dispersa, ondeggiante nel suo vestito che è già laguna di Casanova, oceano di E la nave va, fiume e cigno di una composizione fluviale attesa come la beatitudine del morire di sete, diventando ninfa e driade e, come tale, mito e dea di un paganesimo terrestre. E l’immagine diventa idolo. Nel silenzio, dove mormora appena lo sciabordio lustrale dell’acqua, la doppia potenza della scollatura riprende il suo gioco: la nudità degli archetipi, l’abito che vela e svela il corpo intero, che lo afferma e lo sottrae, che, in definitiva, lo dà a vedere in modo che non venga visto, come in un bagno di Diana o in una nascita di Venere. Pura esistenza, senza lingua, impossibile da raccontare. Bagliore, carne in cui ci si perde senza pagarne il prezzo, carne rubata, nascosta, offerta, carne di un tempo musicale ondeggiante. Diventa l’intoccabile, l’ineffabile, e si trasforma in eternità, in eterno femminino. La fontana si prosciuga, e Marcello, di colpo, non sa più nulla: «Ma tu chi sei?». Sylvia ha attraversato tutti gli stati – dalla baccante alla terra, dall’animale alla pietra – prima di giungere a questa purezza fluida e liscia, a questa forma e a questa condizione di calma senza peccato e senza memoria, come l’immagine del film, la sua fotogenia, ha in precedenza attraversato tutti gli stati della sua costituzione in corpo, questo corpo. Identità del corpo della donna, del corpo della città, del corpo dell’immagine.
II
COME COSTRUIRE UN MITO, COME COSTRUIRE UN PROTOTIPO FECONDO: MARCELLO MASTROIANNI O IL VOLTO INSIGNIFICANTE. L’INSERIMENTO DEI SEGNI IN UN VOLTO SENZA SEGNI, L’INSERIMENTO PROGRESSIVO DI UNA VITA SIGNIFICATIVA IN UNA VITA SENZA SEGNI. CREAZIONE DI UNA VOCE DI UOMO: LA VOCE DI MARCELLO MASTROIANNI. L’UOMO ITALIANO DEL 1960 DAVANTI AL FEMMINILE. TRIONFO APPARENTE DELL’IMMAGINE COME CAMBIAMENTO DEL REALE. LA FINE DEL FILM COME SCOPERTA DELLA TRIBÙ IN OPPOSIZIONE AL GRUPPO SOCIALE. NUOVA APPARIZIONE DELL’ANGELO.
Se l’immagine della donna attraversa tutti i cliché della sua costruzione e del suo utilizzo, offrendo lo specchio delle sue metamorfosi successive, per l’immagine dell’uomo non avviene altrettanto. Tanto le tre donne suggerite come modello hanno la forza e la violenza di un’età compiuta, che è più o meno la stessa per tutte, quanto il modello maschile sembra seguire una traiettoria ascensionale che va dal protagonista al padre, passando per il punto intermedio della maturità virile di Steiner e riproducendo un discorso qualsiasi sulle tre età dell’uomo. In confronto agli altri, Marcello è quasi un bambino (infans) che non sa parlare, pronto a entrare nella complessità di un discorso, che forse non avverrà o che dovrà, prima che siano proferite le parole giuste, pervenire a un momento di riflessione. Tuttavia, non è tramite una storia personale, una storia tra padre e figlio, o tra individuo e modello, che è costruito il personaggio di Marcello, e in questo la sua esperienza supera la banalità della situazione. Anche qui le varie stratificazioni di Marcello si confondono con la realizzazione progressiva dell’opera di Fellini: ciò equivale a porre il problema dell’attore nel cinema – non più identificandolo con un solo film, ma collocandolo in un’ambizione più grande –, della sua elaborazione nel momento in cui Fellini formula, per l’ennesima volta, un’interrogazione critica. Chi scegliere? Con chi lavorare? La dolce vita dà una risposta nuova a queste domande, già affrontate, anche se indirettamente, su intervalli di tempo più ristretti. Fellini non smette di fare i conti nemmeno con questo, ovvero il valutare le possibilità di approfondire un discorso che calcoli la distanza percorsa e valuti ciò che ancora gli resta da dire, senza approssimazioni. Sebbene Fellini ricorra a un procedimento già abbozzato dal neorealismo, la questione attoriale diventa il centro di una nuova riflessione che darà risposte di cui si serviranno altri cineasti.1 Nei film precedenti, invece di scegliere attori più o meno affermati, Fellini preferiva andare alla ricerca – letteralmente – di figure, con il rischio di dover tornare su alcuni passaggi per completare e perfezionare le proprietà caratteristiche di ciascun attore.2 Ciò non ha nulla a che vedere con la questione dell’attore «maggiore» o «minore», e nemmeno con la problematica che riguarda la costituzione di serie,3 benché questi due dati finiscano per incrociare obbligatoriamente i film e, anche dopo La dolce vita, Fellini torni ad attori già utilizzati in precedenza. E se è vero che dal neorealismo mutua un’idea di «purezza» o di
«innocenza» dell’attore, più tardi sembra sviluppare una sua concezione personale, che gioca sulla definizione di «carattere», al quale oppone le «caratteristiche» o la «caratterizzazione» e la loro sentimentalità, che abbiamo già cercato di definire.4 In modo più deciso, tra le opere stesse si costituiscono continuità diverse, più che strati o collegamenti associati che si ricongiungono, seguendo il tema, sia per parentela che per modello. L’autobiografia è allora affondata, confusa e superata dal biografismo interno all’opera. Due esempi valgono per tutti: uno, già citato, è quello di Anouk Aimée, Maddalena nella Dolce vita, che diventa Luisa in 8 ½, attraversando così la linea che va dagli «amori impossibili» ai «matrimoni difficili», un attraversamento che soltanto le forme della finzione possono realizzare senza problemi. L’altro esempio rimanda alla persistenza del personaggioprotagonista Marcello Mastroianni, prima Marcello poi Guido, per il quale un solo film non basta più, ma che si dilata dalla Dolce vita a 8 ½, e potenzialmente a tutti gli altri, non in relazione al successo personale dell’attore, ma secondo una linea di creazione e di espressione che lascia sconfinare le opere le une nelle altre e le collega tra loro. Questa problematica, specifica delle opere di Fellini, lo vedrà a lungo in contrasto con i produttori, influenzati da un mercato «cultuale» più che culturale al quale tengono spietatamente, votati all’idolatria mercantile delle star e incapaci di modificarne il funzionamento e le regole. Parlando della lavorazione del film, Tullio Kezich ricorda: Un motivo sicuro di divergenza fra De Laurentiis e Fellini è il protagonista. In un «cast» di tutte stelle dove progetta di riunire Maurice Chevalier, Barbara Stanwyck, Henry Fonda, Walter Pidgeon, Luise Ranier e Silvana Mangano, Dino pensa che non è produttivamente possibile mettere al centro un protagonista italiano. Insiste perché Fellini dichiari di gradire Paul Newman, che ha dato la propria disponibilità. Ma Federico si è innamorato dell’idea di avere Marcello Mastroianni: lo conosceva poco, l’ha fatto venire, gli ha parlato e ora non vede nessun altro al suo posto. Ha subito modificato il nome del protagonista da Moraldo in Marcello: la scelta è fatta e non si cambia. Tanto peggio per De Laurentiis, che non ama venire contraddetto.5
* Si capisce meglio come Mastroianni sia potuto diventare Marcello. Se si analizza il film nel suo complesso, emerge chiaramente una linea sottile del maschile, caratterizzata da una certa innocenza vaga e nuda, o vuota, tanto fa il paio con la figura dell’«idiota» e del «bambino». Quest’innocenza è un’attesa, pronta a ricevere i segni possibili con i quali può essere messa a confronto, e che a volte osa persino scegliere i suoi segni, i suoi punti di riferimento. Più precisamente, questo tema dell’innocenza – distinto dall’ingenuità – sviluppa i segni e i tratti di una curiosità flessibile che si confonde spesso con una gentilezza cinica: da una parte Antonio Cifariello e la sua schiera di bambini in Agenzia matrimoniale, dall’altra Franco Interlenghi (nella parte di Moraldo) in compagnia dell’angelo, dell’idiota e del piccolo ferroviere nei Vitelloni.6 Idealmente, entrambi finiscono per abbandonare la storia a un destino che resta sospeso: sospensione di un mestiere di fortuna (il giornalismo), sospensione di un passato senza sbocchi (la partenza). Abbiamo visto come La dolce vita volesse essere un seguito possibile dell’esperienza biografica di Moraldo nel momento in cui lascia la provincia alla scoperta di Roma, con lo scopo, in realtà, di fare il punto sulle intenzioni di partenza e sui risultati che pensa di aver raggiunto qualche anno dopo, come nella più banale delle esistenze. Le scelte del personaggio-protagonista sono di natura affettiva. Un intenerimento filtra nel
prediligere le figure e i volti di Antonio Cifariello e di Franco Interlenghi,7 l’agilità e l’eleganza indifferente del primo, la grazia e la dolcezza attenta del secondo. Allo stesso modo, una modulazione tematica compone definitivamente il disegno di Marcello fondendo il mestiere di giornalista e gli interrogativi di chi vuole vivere esperienze nuove. A ciò si aggiunge il fatto che il contesto del cinema italiano dell’epoca metteva il regista davanti all’impossibilità di riprendere Antonio Cifariello o Franco Interlenghi, troppo adulti per la parte, nel senso che avevano lavorato troppo nel cinema commerciale. L’immagine di Mastroianni è allora una delle poche in grado di affrontare un ruolo più complesso, a condizione di essere riplasmata. Benché sia relativamente conosciuto, Mastroianni ha girato ancora pochi film e porta avanti soprattutto la carriera teatrale; l’unico ruolo veramente importante gli è stato affidato da Visconti nelle Notti bianche (1957), accanto a Maria Schell. Visconti, grande esperto di immagine maschile, ha saputo rappresentare le regolarità nel volto di Mastroianni, segnato da una bellezza calma: riesce a sfumare alcune sporgenze pronunciate del viso tramite una sovraesposizione dell’immagine, rivela, al di là dei temi del film, una fotogenia senza inquietudini, senza nevrosi, senza scossoni né contrasti, ed eleva infine l’attore al di sopra della semplice tipologia del «simpatico» che emergeva nel resto della sua filmografia.8 Fellini si appropria, letteralmente, di questa faccia, e la rimodella finché non arriva a corrispondere a quello che sta cercando. All’epoca, un’ampia letteratura di stampo giornalistico comincia a interessarsi dell’etica relativa a questo lavoro di rifacimento, che trasforma di colpo il regista in un demiurgo o in un pigmalione onnipotente e tirannico: […] con lui non ho mai intuito o percepito che ci potesse essere questa forma tra il compensatorio, il protettivo e l’allusivo per interposta persona. Insomma, non lo faccio dimagrire perché voglio dimagrire io, ma perché lui sta bene un po’ più magro. La scelta di Marcello nei vari film è nata in maniera meno deterministica; intanto la prima volta ne La dolce vita l’ho scelto per difendermi dall’imposizione dei suggerimenti di De Laurentiis, che voleva prendessi Paul Newman per fare un reporter a via Veneto: un divo per raccontare la storia di qualcuno che doveva essere proprio l’antidivo […]. Io volevo dargli un’aria leggermente più sinistra, più obliqua, di un testimone infedele per il personaggio di questo giornalista che si ispirava a un modello reale, Gualtiero Jacopetti: un bel ragazzo cinicone, un po’ sfrontato, che approfittava di tutte le situazioni, intelligente ma con qualcosa di lievemente infido. Su Marcello, simpatico ciociaro, bisognò poi fare tutta un’operazione per renderlo più sinistro: ciglia finte, il trucco accentuato, sempre vestito in nero, per tentare di avvicinarlo a questo modello che avevo in mente. Poiché Marcello è molto intelligente, ricettivo, disponibile; è questa la sua grande qualità, unita al buon carattere, non è mai divo, e neanche attore nel senso limitativo della parola, ma nel senso più nobile della disponibilità dell’aprirsi, del ricevere, del riproporsi con un’assimilazione che non ha niente di drammatico, di stanislavskiano e neanche dell’Actors Studio. Anche se lui dimagrisce, lo fa solo perché sono io che lo obbligo a dimagrire […]. È pronto a subire tutte le correzioni della luce, del regista, del trucco, del modo di muoversi, in una maniera amichevole […] senza però irrigidirsi e bloccarsi in un disegnino programmato prima. In questo senso per me è l’attore ideale, più che l’alter ego […]. Girando 8 ½ c’era una scena in cui io non potevo fare a meno di metterlo di profilo […] ma di profilo Marcello aveva la pappagorgia, allora gli piazzai un cerotto che gliela spostava tutta da una parte […]. Un altro difetto di Marcello sono le dita corte, ha la mano che sembra una spatola […]. Devo dire che li avevo interpellati tutti prima di prendere Marcello: Lawrence Olivier, Claude Rains, Peter O’Toole e Marcello stava lì ad aspettare e non diceva niente […]. Gli avevo fatto fabbricare dei cappuccetti per allungare le dita […] ma era una sofferenza ogni volta che gli vedevo esporre le mani […]. Un’altra particolarità di Marcello è che cammina come se avesse gli sci ai piedi, scivola e si trascina un po’ pesantemente.9 Marcello, sul piano professionale ma anche psicologico, è l’attore ideale […]. Non ha una curiosità invadente né imbarazzante, non ha idee sue sul personaggio, non vuole proporti nessuna soluzione, capisce che il modo migliore per collaborare […] è quello di rendersi disponibile con la massima cedevolezza, una curiosità intimidita e prudente, […] totalmente disponibile a fare esattamente quello che gli suggerisci, […] non sovrappone nessuna presunzione di mestiere, non interviene con la sua esperienza professionale. Per lui è sempre la prima volta ed è giusto perché ogni volta è la prima volta che fa quel personaggio […]. Io apprezzo moltissimo l’attore che non vuole dimostrarmi che è bravo, che non vuole convincermi di come lui vede il personaggio. Che ne sa lui di come è quel personaggio? Viene
dalla Francia, dall’America, dalla Germania, per la prima volta.10
La questione attraversa tutta la storia dell’elaborazione della finzione nel cinema, da Scarface a Elephant Man a Toroscatenato – passando per King Kong, Tarzan o Frankenstein, il prototipo generale –, per limitarsi alle trasformazioni paradossali del maschile. La morale della rappresentazione cinematografica, legata a una forma relativamente primitiva di morale dell’immagine, accetta e impone delle trasformazioni spesso radicali del femminile, imposizione invece negata nei riguardi del maschile, tranne nell’anamorfosi del patetico, del grottesco o del mostruoso. Quel che è valido per il tragico lo è anche per il comico, benché invertito: il comico maschile passa sempre attraverso l’immagine – da Chaplin a Buster Keaton, da Totò a Jerry Lewis –, il comico femminile attraverso la parola, da Pauline Carton a Lucille Ball e Barbra Streisand, da Tina Pica a Jacqueline Maillan. Nel registro tragico, sono note le trasformazioni che Joseph Steinberg fece subire a Marlene Dietrich prima che quest’ultima potesse portare un nome che davvero le desse significato nella conquista di un equilibrio adeguato e miracoloso, e la distanza tra il congegno Angelo blu e la macchina Shanghai Express è evidente. Sono noti i racconti mitici sul trucco di Greta Garbo, prima che il suo volto raggiungesse lo stato «gessato» evocato da Roland Barthes.11 In quelle mutazioni si determina una linea di «trasformazione» opposta alla linea del «naturale», di cui Ava Gardner resta la massima espressione.12 In Fellini la questione presenta un problema supplementare che abbiamo già affrontato. La complessità di una riflessione sulla somiglianza gli permette di distanziarsi dalle proposte che mirano a qualsivoglia forma di verosimiglianza o di verità13 e, dunque, di semplice trasmissione del reale. Da un lato, la realtà di cui Fellini vorrebbe dar conto non esiste, è il risultato di una elaborazione virtuale alla quale bisogna dare un corpo visibile, l’immagine. Non è perciò facilmente trasferibile dal piano dell’esistenza al piano della finzione, non può essere resa con le situazioni e le parole disponibili e Fellini deve quindi procedere a delle formalizzazioni. Più che il lavoro di un cineasta classico, che si limita a riprodurre i dati del reale, questo processo ricorda quello di un pittore o di uno scrittore, che realizzano una formalizzazione partendo da un postulato sulla complessità del reale, evitando il più possibile ogni commistione con la realtà. Nasce così il lavoro minuzioso, quasi ossessivo, su ogni dettaglio, e nello specifico sui dettagli luminosi, sul quale si è voluto credere che fondasse una poetica «barocca». In tal senso, il Marcello della Dolce vita è un’astrazione che agisce nella sfera delle virtualità creative pronte a concretizzarsi. Si percepisce questa posizione del personaggio-protagonista, che assume in blocco un atteggiamento da voyeur, da interlocutore, da narratore indiretto, da semplice operatore all’interno di un meccanismo, più che da vero e proprio attore. Da lì in poi, l’attore non deve più incarnare, ma quasi scarnificare. Ed è ancora troppo: deve cogliere e restituire, come una lama lucente sulla quale le cose scivolano via, sviluppando delle linee-situazioni esenti da decisione, puramente descrittive. È una strana pienezza dell’immagine che non governa più i significati simbolici con cui si rischia di rivestirla, ma che nondimeno porta i segni dati in lettura come se l’immagine creata valesse solo per se stessa. Spogliare dunque il volto dell’identità-Mastroianni, denudarlo, privarlo di ogni traccia, di ogni residuo che potrebbe ricordare un passato-intreccio individuale che non appartiene più all’opera. Inserire questa spoliazione in un epilogo che diventa un obiettivo più complesso dello stesso Mastroianni; farne semplicemente Marcello, come prima non c’era stato che Moraldo, senza segni distintivi nel gruppo dei Vitelloni, se non alcuni punti astratti: situazioni di
fuga, di erranza, di attesa, di scoperta. Restituirgli questa innocenza che era la sua natura peculiare, uno stato di annullamento a partire dal quale si possono rielaborare nuove condizioni, farne un oggetto neutro in-significante che permetta di esprimere gli assi del nuovo mondo che viene percepito e che si vuole descrivere, gli assi di un modello umano estetico e acculturato. Una sorta di Adamo del cinema.14 * Tutto dunque passa da questo volto che modula lentamente la serie delle variazioni e accompagna le deviazioni della trama. E questo a dispetto di una fissità «neutra» dell’espressione, come se il volto finisse per imitare una macchina da presa; uno sguardo che, non intervenendo in modo diretto per interpretare l’immagine, permette di cogliere sullo sfondo non soltanto i dettagli minuziosi, ma prima di tutto gli spazi: appartamenti vuoti, strade dritte o tortuose di Roma, automobili in corsa. Le esitazioni e le angosce diventano scorciatoie, masse dalla bianchezza modulata degli ospedali o delle panoramiche sul quartiere dell’Eur, masse di corpi in oscurità brillanti e sfuggenti, come composizioni geometriche in cui l’espressione piatta del protagonista invita a una visione-riflessione, a un’immersione spesso meditativa, a una penetrazione superficiale che evita ogni interpretazione diretta. Fellini esprime la percezione della nascita di qualcosa di nuovo nell’Italia così come lui la vede; se ne appropria e lo restituisce quasi in sordina, lo sviluppa in quanto assenza di storia, o in quanto storia che non ha passato se non quello che vive nell’istante, in cui tenerezza e sconforto si confondono in blocchi di solitudine che si incrociano senza interessarsi davvero l’uno dell’altro, per cogliere soltanto le fluttuazioni insondabili del reale e abbandonarle alla loro deriva. In questi oscillamenti, Marcello finisce per somigliare alle situazioni nelle quali è coinvolto, travolto. E i momenti di maggior somiglianza corrispondono agli incontri con Steiner-Cuny. Fellini insiste nel porre l’accento su questa somiglianza. Durante il primo incontro, il volto di Marcello si incupisce per l’invidia-rimpianto di non somigliare al suo amico, pur somigliandogli; nell’episodio della serata, i primi piani sui due volti creano una tensione mimetica strana e inquietante, che sfuma negli sguardi scambiati e nei silenzi. In questa somiglianza, Steiner non è tuttavia né un fratello maggiore né un alter ego, ma uno specchio senza alluminatura, l’ipotesi di un divenire di Marcello, di una sua maturità che, postulata con insistenza nei dialoghi, di fatto non giungerà mai. La morte brutale di Steiner è premonitrice dell’impossibilità definitiva di questo compimento: il volto addolorato filmato davanti al volto del suicida traduce ancora una somiglianza che tende alla rappresentazione del suicidio di Marcello, del suo fallimento. Questa somiglianza ridefinisce le situazioni in cui Marcello è impegnato e che si risolvono, una dopo l’altra, in altrettanti nulla di fatto. È che la vera condizione di Marcello – in quanto giornalista – non è tanto quella di un attore che agisce sulla realtà, ma di uno spettatore nel complesso pigro e indolente, che punta su conoscenze delle quali, in realtà, dubita. Anche i suoi attraversamenti conducono all’irresolutezza, al rinvio, alla rarefazione, finché il reale non ha di nuovo la meglio e lo fagocita. Nulla di fatto nei riguardi di Emma, di Maddalena, di Sylvia, del femminile, impotenza velleitaria nei confronti di Steiner, dell’amicizia e delle sue verità,
incapacità di colmare le finzioni del reale nell’episodio del miracolo, silenzio che impedisce di riallacciare i rapporti con il padre, ridotti ormai alla semplice ovvietà di un vuoto sentimentalismo invischiato nel rimpianto, incapacità di capire le trame e i luoghi nella festa a casa dei nobili, se non quando è guidato da Maddalena, rivolta inutile nella scena del party a casa dei parvenu, memoria divorata nella scena finale sulla spiaggia. Durante l’episodio dello spogliarello, Marcello arriva a riconoscere questa impotenza, anche se la scaccia come se non provenisse da lui e come se lui non sapesse che farsene.15 La questione va oltre il Marcello personaggio e diventa la seguente: l’individuo è pronto ad accettare il mondo così come si presenta, il mondo che concepisce come nuovo? In tal senso, è importante che Marcello non rechi in sé alcun significato, al contrario degli altri personaggi che affermano la loro soggettività all’interno di forme preesistenti, tracciate, di cui è stata modificata soltanto l’apparenza. L’assenza di significato di Marcello gli permette, in modo indiretto, di reperire i segni di questo presente che passa, di codificarli o di restituirli alla loro insignificanza: ciascuna delle direzioni determinate in singolarità di ogni tipo implica altrettanti atteggiamenti che, diversamente, dicono tutti la stessa cosa, ovvero un’interrogazione su questo divenire che si sussegue e nel quale Marcello vaga alla cieca. Dovrà imbattersi in tre forme del femminile (le tre donne), in uno stile di vita che si trascina per strada (via Veneto), nelle disperazioni dell’ideale (Steiner), in forme arcaiche di cui il presente tenta di impadronirsi privandole di misteri e segreti (il miracolo), nella più semplice delle costruzioni sociali (il padre), e nella più vetusta (i nobili), nella realtà volgare di quello che si pone come nuovo ordine morale (i nuovi borghesi e lo spogliarello), dovrà imbattersi in tutto questo per arrivare alla conoscenza di un nuovo sistema di segni. * Se non è la prima volta che la creazione artistica esplora questa problematica e questo personaggio, è forse la prima volta che il cinema li formula con un’ampiezza tale da conferire loro una tale forza di riflessione e, soprattutto, di immagine. Questa forza, ripetiamolo, può essere espressa soltanto dal bianco e nero, tramite la sua formalizzazione più rigorosamente classica e definita, lontano dalle frivolezze del colore, e rifiutando anche la colorazione mista che Fellini a volte utilizzerà. Colore che giungerà al culmine della sua capacità di rivelazione in 8 ½, un bianco e nero in cui emerge «l’evento intimo del fuori»,16 della marea di persone che ha sempre accumulato e maneggiato dettagli, utili, inutili, adatti all’evento che ne costituisce la storia. La trama di Marcello si sviluppa così secondo una partitura ottica e sonora di cui gli occhiali scuri e i brusii non sono che la superficie turbolenta. Il fruscio di fondo è però inseparabile dall’invenzione di una lingua cinematografica che corrisponde, ovviamente, all’italiano. E se è già di per sé una «forma»,17 la lingua che utilizza Fellini insiste su alcuni punti di rottura, segmenti, iati e interiezioni, la sua fluidità è costantemente spezzata da emersioni, modulazioni, distorsioni, sbarramenti e impasti che la plasmano in ogni direzione. La scena a casa dei nobili romani – che comincia in via Veneto, prosegue in auto fino al palazzo, per poi intensificarsi e disperdersi nei giardini – porta al loro apice le soluzioni di una trama verbale capace di sostenere la danza dell’immagine: quest’ultima non punta alla compattezza mediante
l’elaborazione di dialoghi unificatori, ma insiste anzi sul carattere frammentario grazie a espressioni che la mantengono in uno stato di fluttuazione. La frase spezzata, che sfugge a ogni confronto esplicativo, non basta a creare un’armonia o una dinamica di contrasto. Tale contrasto si impone da sé, come l’immagine nella serie di scene dell’episodio. La scansione di un tema interrotto e poi ripreso costruisce molti dei tratti sonori specifici del film, soprattutto nella stessa via Veneto: gli alterchi, i richiami dei paparazzi, che la musica aggira e rafforza invece di integrarle o rimuoverle; allo stesso modo i flash luminosi – bagliori nel buio, colori nel colore – disintegrano senza sosta la purezza dell’immagine.18 La creazione di una lingua adatta al suo cinema comporta per Fellini il dovere di estrarre da Mastroianni una voce cinematografica per Marcello. Non che le linee del film siano al filo di questa voce: essa si oppone in contrasto ai tumulti evocati; è neutra e levigata quanto il suo volto, sprovvista di segni nel suo punto di partenza e di attacco, eppure è sensibile ai movimenti e alle sfumature, ai cambi, alle inflessioni. Ha qualcosa della torba che filtra e chiarifica. A volte emerge e si distende come uno strato di sabbia su cui vanno successivamente a depositarsi le grida, i discorsi, i canti languidi degli altri, punto di ancoraggio nel valzer delle parole; le tonalità e i colori vocali neutri di un italiano medio, relativamente colto, non formano più una lingua, ma una pura fonazione di tregua che si congiunge con il resto della massa linguistica e vi aderisce come punto di risoluzione e di pacificazione provvisoria.19 All’inizio la voce di Mastroianni è quella dell’intimità più immediata, che sembra parlare soltanto per colui che ascolta, per ognuno, all’orecchio, voce di uomo che rivela una virilità tenera e carezzevole, senza tormenti né guerre, voce di mezzo e piatta delle confidenze, voce bagnata di saliva, di fumo e di alcol, tra il palatale e il gutturale. Si tratta di conservare i timbri di questa voce, ma anche di estrapolarla dall’intimità, di esteriorizzarla appena, e di darle uno spessore pubblico, di farne, una volta ancora, un’intimità esteriore, togliendole quello che potrebbe avere di eccessivo nella sua soavità e nei suoi effetti di persuasione. È quindi su Mastroianni che Fellini lavora di più, è lui che trasforma in profondità, cercando di farne la materia e l’oggetto specialistici meglio aderenti alla sua poetica. Sono stati spesso criticati il dominio dell’uno e l’arrendevolezza dell’altro: e bisogna rendere omaggio a Mastroianni per aver saputo resistere con fiducia all’influenza di una soggettività che sarebbe stata impraticabile e pericolosa per l’opera.20 Fare in modo che l’attore non sia più l’interprete di qualcosa di cui non sa nulla – del resto, l’attore spesso non ne sa molto –, ma il protagonista temporaneo di quanto impara via via sugli eventi causati dal lavoro; fare in modo che perda ogni individualità e ogni soggettività a vantaggio di una singolarità che aderisce a quel progetto e a nessun altro, indifferentemente, significa per il regista aver raggiunto un nuovo stadio nelle sue capacità di elaborazione del materiale creativo. La questione non è priva di importanza: solo in questo senso, infatti, Mastroianni potrà in seguito servire alla precisa creazione di Guido in 8 ½, perché il film e l’attore si collocano nella stessa continuità, non soltanto efficace, ma irripetibile, con quanto La dolce vita non ha finito di dire e di mostrare. Allo stesso modo, è forse per questo motivo tecnico, cioè la mancanza di un possibile protagonista, che Il viaggio di G. Mastorna non sarà mai realizzato: i provini girati con Marcello Mastroianni evidenziano un’inadeguatezza tra i desideri elusivi di Fellini e le capacità di adesione dell’attore al progetto, ed è penoso vedere come l’uno e l’altro rinuncino all’uno e all’altro. Dopo questi due film Mastroianni, che diventerà l’attore di tutti in quanto ridefinito da Fellini, non sarà, nella filmografia di quest’ultimo, nulla più che una nostalgia senza rimpianto
– portata fino al punto di rottura –, un buon interprete: nel frattempo, il regista avrà abbandonato l’idea e rinunciato al lavoro sul personaggio-protagonista, operando per eliminarne il fondamento. La dolce vita corrisponde a quel sussulto in cui l’attore non oppone più resistenza alla caduta del reale: lo scarto tra l’interprete e l’attore è in quell’«autoabbandono», in quello scivolamento nel quale non può recuperare nulla di sé né degli altri: onestà e rigore dell’abbandono attento di Marcello Mastroianni. * Mastroianni è stato spesso percepito come un esempio della tipologia del latin lover, ed è vero che se si paragona il suo aspetto fisico con quello dei suoi predecessori nell’iconografia del ruolo, da Rossano Brazzi a Charles Boyer, fino a Louis Jourdan:21 nella loro recitazione si trova un tono comune, un’insipidità soft, un’arte della cortesia, del silenzio nella posa e nella conversazione, sostenuta da una fisicità sorniona priva di atletismo. Ora, per Fellini si tratta di superare questa suggestione semplicistica: la rappresentazione che offre è un’immagine dell’uomo in un contesto ideologico e politico di cui deve subire il peso, le determinazioni e le apparenze, senza che i segni emanati dal sistema decidano per lui. Di fronte al femminile, l’uomo esce impotente e privato di tutto, subisce le forze segrete del suo mistero, senza riuscire a decriptare la capacità di riorganizzarsi che il femminile attraversa secondo le modalità concesse dal film; le tre donne di Marcello, infatti, sono moltiplicate in innumerevoli altri approcci e definizioni del femminile che si fondono in una o più forme mentali e corporee. A prescindere dalla situazione, il processo in opera è il medesimo: la sensazione di impotenza di Marcello si scontra con l’immobilità delle situazioni. Marcello quindi percepisce solo il margine disfunzionale di un sistema frammentato che deve la sua unità a una semplice apparenza: sarebbe questa la sua nuova realtà, la sua caratteristica «barocca». Inafferrabile, impalpabile, vibratile, sfuggente, la «dolce vita» non dipende più dall’unità dei suoi valori sociali – realisti o neorealisti –, ma dalla dispersione che soltanto il trattamento della notte e dell’immagine riesce a garantire. Si passa dal dolore come concatenazione nella vita (La strada) alla tristezza gonfia di un’allegria capricciosa e smorta, gratuita e illusoria, una tristezza che invade il film in un crescendo e culmina nella finta rabbia finale di Marcello, nella sua finta rivolta contro un mondo in cui l’apparenza dell’immagine autodefinisce i suoi limiti: al di là dell’immagine, per il momento, nulla si eleva. C’è, in Fellini, un’idea di purezza che filtra dalla tristezza vuota che invade la fine degli episodi, come la fine della festa lasciava in bocca l’amaro del ricominciare sempiterno quando il miracolo promesso non accadeva. L’uomo finisce per essere preso in uno di quei momenti in cui, senza avere torto, non ha tuttavia ragione, e questa scoperta – non avere ragione né torto – non viene percepita dall’anima, ma dal corpo, che la riveste di una vergogna, anch’essa fisica, come se fosse stato cacciato di nuovo da un paradiso accessibile.22 Attraverso questa perdita della persona viene descritto anche qualcosa che il tempo e l’epoca tramano politicamente, di nascosto: il soggetto e l’individuo sono eclissati a vantaggio di una nuova realtà più fluttuante che bisognerà rinominare, forse «gruppo», forse «tribù», i cui elementi si oppongono in una piccola guerra senza quartiere: paparazzi e giornalisti contro le classi che dividono nuovamente i loro imperi fingendo di trasformarsi. E non è un caso che il
film termini su due parabole che si toccano: festa tribale a casa dei nobili e festa tribale a casa dei borghesi, sazietà di entrambi, ognuno conta le sue perle.23 Descrizione di questa nuova borghesia che si vuole splendida e munifica, senza per questo essere generosa, ma che lo diventa, perché scopre in se stessa quello che crede essere la propria aristocrazia, e cerca di abbellirne l’immagine per ritrovarsi nei dipinti della Storia. Dipinti, però, che si riducono ormai a una manciata di foto di paparazzi, commentate da qualche articoletto di giornale. Impotenza, dunque? Eroe negativo? Forse, più semplicemente, la constatazione violenta che le cose, in questo presente, non possono più essere comprese nello stesso modo di prima, ma vanno intese in una metamorfosi, come se rinascessero, assaporando per l’ultima volta, nella grande malinconia, la nostalgia di una dolcezza che se ne va, di ciò che è divenuto una decadenza, in mancanza di altre parole, e che non riusciamo a vivere. Dimenticare, come dimentica Marcello, quello che sarebbe potuto sembrare dolce,24 e vivo.
III
L’EPISODIO DI BOCCACCIO ’70 (LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO): LA FOLLIA FA PARTE DELLA VITA. LA SOCIETÀ BORGHESE E LA RIDICOLIZZAZIONE DEL TEMA RELIGIOSO DEL BENE E DEL MALE: POLEMICHE UMORISTICHE SUGLI INDOTTRINAMENTI MORALIZZANTI. RIPRESA DEL TEMA DEL FEMMINILE. VALORI E CLASSIFICAZIONI DEGLI STEREOTIPI: IL FEMMINILE E LA PUBBLICITÀ. LE ARCHITETTURE VISIVE DI UN’ANTOLOGIA FELLINIANA. LA GIGANTESSA E IL NANO, O LA STORIA DI UN GRANDE ATTORE: PEPPINO DE FILIPPO. L’ULTIMA PARATA: INTRODUZIONE DI UN’ESTETICA BAROCCA ATTRAVERSO L’ELEMENTO FUNEBRE. NUOVI CLICHÉ DI UNA VECCHIA ESTETICA: LE MODERNITÀ DI ROMA, CITTÀ ITALIANA DEGLI ANNI SESSANTA.
Nelle forme brevi, Fellini riesce a concentrare il massimo di intenzioni: così è stato per Agenzia matrimoniale, così sarà per Toby Dammit e così è per Le tentazioni del dottor Antonio. Fellini è coautore del soggetto e della sceneggiatura insieme ai suoi migliori collaboratori: Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi e Goffredo Parise. È anche il suo primo film a colori. Per questa storia, Fellini ricorre a Peppino De Filippo, l’attore napoletano protagonista di Luci del varietà. Il film è «corrotto» da un ambiente linguistico centromeridionale in cui domina il napoletano, per effetto delle cadenze recitative del protagonista. Intorno si muovono le squadre di operai che montano il manifesto – lo snodo problematico del film –, dirette dall’ultimo rappresentante del teatro di varietà che fu Beniamino Maggio, la cui sorella, Pupella, avrà la parte della madre in Amarcord. È probabile che il Sud si presti meglio al tema del film: l’atteggiamento e le azioni di un moralista sessuofobo alle prese con i costumi sessuali di ogni epoca e, in questo caso, con le trovate della macchina pubblicitaria. Il protagonista si trova di fronte a un nuovo modello culturale, in cui i vecchi valori non sono più inconfutabili, ma diventano la quintessenza del grottesco, e finisce allora per allentare i freni imposti dal proprio rigore e scivolare nel terreno impervio delle «ossessioni». I temi suggeriti sono in realtà ben più numerosi. Appaiono, a margine, le schiere di figuranti ripresi nelle sfilate tipiche della stilistica felliniana, ragazzine, preti e suore in costumi nuovi, immagini di moda nei quartieri restaurati della capitale di un paese che è già la punta di diamante del design. Nel film Roma subisce trasformazioni virtuali, soprattutto nell’immagine della burocrazia e delle chiese in cui pulizia e candore clinici fanno risplendere la luce di un’evangelizzazione del tutto nuova (Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II). La società dei consumi è annunciata da una ragazzina Cupido-Eros, alata e con la faretra, che canta allegramente: «Quanto mi piace Roma, ragazzi! Come si sta bene! Che piacere lavorare qua… che divertimento!». Sci nautico e pedalò sul Tevere annunciano questo paradiso e, per non dimenticarlo, viene fatto notare di sfuggita che è la città in cui si fa il cinema. L’andamento comico e infantile, spinto fino al grottesco, è ripreso da una costellazione di personaggi dai tratti caricaturali, come nei fumetti per bambini – ricordano le figure del Giornalino di Gian
Burrasca, del Corriere dei piccoli – e dall’inserimento di una sequenza di film muto che non segnala altro se non un gioco, che descrive un immaginario corrosivo e comune alla nuova società e che avanza velocemente. In questa Roma burocratica e clericale vive un mondo più realista del re, attraverso la figura di un bacchettone che, da Plauto a Feydeau, ha fatto il giro di tutti i palcoscenici; lo ricordano alcune immagini rubate al Grand Guignol con Pulcinella come protagonista, qui adattate all’ambiente napoletano e a un Peppino De Filippo all’apice della sua espressività. Il protagonista minaccia l’inferno per coloro che, in un modo o nell’altro, si abbandonano ai piaceri facili della nuova società, e convive, nella suggestione di una pedofilia rimossa, con dei boy scout ridicoli e fuori tempo massimo, che hanno superato l’adolescenza e ora svolgono soltanto funzioni subalterne, e con una burocrazia rimasta arcaica (malgrado i cambiamenti di facciata che la mascherano), provinciale, piena di tic nervosi – scoreggia, si gratta, si tocca, sogna sante e madonne – che la rivestono di tratti grotteschi. Un nido sociale fuori dal mondo, ritratto nei suoi vuoti rituali fatti di riconoscimenti reciproci: a tal proposito, gli episodi in cui Antonio Mazzullo1 detta ai boy scout tardoni le sue interminabili lettere, o la serata «mondana» in casa sua, raccontano i dettagli minuti di questo ambiente in cui si ammassano invasati e psicotici, prigionieri di magnetismi morbosi. La geografia dei luoghi è semplice: da un lato il quartiere moderno dell’Eur, il punto più alto dell’estetica fascista, e l’immagine scintillante e canzonatoria dei palazzi pubblici con, ai margini, i nuovi quartieri, tristi e cupi, che irrompono nella parte suburbana della città. Nel mezzo, un ampio lotto di terra, semideserto, in cui si svolgerà il «dramma». Nel momento in cui il dottor Antonio sta consegnando dei premi ai boy scout, in un’abbondanza esemplare di discorsi retorici – in cui non manca l’evocazione di Babilonia e del Vitello d’oro –, si crea il caos con alcuni operai che stanno allestendo un immenso cartellone pubblicitario. Per Fellini è un’occasione per eccedere: la tristezza si accende allora di una gioia molecolare, e vicino agli operai un camion scarica sul terreno una fanfara di neri – come già in Luci del varietà e nello Sceicco bianco – che suona un mambo, tema musicale del film, e crea la festa, il grande carnevale, quelle cacofonie necessarie a sostenere la storia amara di un pazzo. Le varie parti del cartellone sono state assemblate e Antonio Mazzullo scopre terrorizzato ciò che non osava immaginare: un’immensa donna scollata – Anita Ekberg – stesa su un divano, grande come l’intero cartellone, porge un bicchiere di latte. Sopra il manifesto è acceso il neon azzurro di una pubblicità: «Bevete più latte».2 La costruzione dell’immagine della star si inscrive nella pienezza dei codici pubblicitari (e cinematografici): su un divano di pelle chiara, una Anita Ekberg dall’atteggiamento felino – capelli biondi, occhi azzurroverdi – è adagiata in una posa languida. Le braccia sono coperte da lunghi guanti di seta nera: un braccio solleva la testa in modo da lasciar libero il busto e la scollatura del vestito, mentre l’altro porge un grande bicchiere di latte, un bicchiere di una banalità molto domestica. Il corpo è fasciato da un abito da sera piuttosto sobrio, con le bretelline che mettono in evidenza la generosità del seno; lo spacco lascia apparire il profilo di gambe lunghe da bionda «americana»; infine i piedi, in scarpine di strass: poco più di una Gilda da interno, da appendere sul vetro della credenza o sul frigorifero. L’abito, tuttavia, richiama la mitologia del femminile e della seduzione: è blu notte, tempestato – lungo una linea trasversale che parte dai seni, scivola sul ventre, per poi gettarsi verso l’orlo – da un firmamento di strass che ricorda la Via Lattea dispiegata sul corpo di una sola donna, ma anche la cintura stellata
che rendeva irresistibile Afrodite, o la goccia di latte caduta dal seno di Era mentre allattava Eracle. Poi un grande velo nero come stola. Se è vero che nella filmografia felliniana nessuna immagine eguaglierà mai la sequenza della fontana di Trevi, dal manifesto scaturisce comunque la potenza di un femminile che, seppur ereditata da una precisa tradizione cinematografica, catapulta l’immagine stessa e la spinge a infrangersi in una pienezza ipersatura. È come se il cinema volesse indicare, attraverso questa rappresentazione, tutto quello che la pubblicità è riuscita a sottrargli: un furto dell’immagine che, in ogni caso, non ne ha catturato il movimento, poiché quest’ultimo, sul supporto pubblicitario, non può fare altro che essere immaginato. Mentre nel film precedente il gioco della figura si era insinuato tra le oscillazioni di un paganesimo che cercava di ricoprire la totalità dei suoi panteismi, qui siamo di fronte a qualcosa che non è altro, dopotutto, che un’icona moderna, con l’aggiunta di qualcosa di malizioso che filtra attraverso il significato nascosto: il rapporto tra i seni e il latte, non esattamente provocante, che cancella il contesto culturale legato alle Vergini, alle Madonne, alle madri allattanti. Sono soltanto i segni di una bellezza e di una seduzione pittorica nuovamente acculturate, esposte da nuove icone, senza nulla di libertino, ma che rimandano alla mercificazione delle riviste – anche erotiche – a grande tiratura. L’allusione a una rappresentazione in stile Playboy, con il guanto gettato in strada e ripiegato come il coniglietto del celebre marchio, bandisce ogni possibile interpretazione equivoca.3 Ma Fellini indica un’altra potenzialità: è un’immagine simpatica e gioiosa, debordante e affettuosa, come possono esserlo spesso le immagini, «un’attualità plastica» che trasforma il luogo, prima cupo, ora popolato, in cui si moltiplicano le gite, si fermano i pullman di turisti, sfilano i soliti «bersaglieri». L’apparizione e i miracoli della Vergine che non erano avvenuti sul terreno incolto della Dolce vita, malgrado la presenza di tutte le istanze paradivine e televisive, hanno luogo qui, su quest’altro terreno incolto, fomentati dalla nuova religione che mostra concretamente le sue icone e le sue divinità, innalzate come su altari, illuminate da proiettori e da luci azzurre simili a lumini votivi. * Ma la donna è «la donna», anche in immagine, e raffigura un’evidenza. Antonio Mazzullo soccombe davanti a un’idea, a una «proiezione», ed è a forza di resistere ai suoi desideri nascosti che viene afferrato dalla forza dell’immagine, che scalfirà la base immaginaria delle sue ossessioni, in un andirivieni di attrazione e repulsione. Fellini combina intenzionalmente miti diversi: la dea, la gigantessa, carne e massa che si possono soltanto immaginare, per sempre intoccabile – com’era Anita per Marcello nella Dolce vita –, fastosa e provocante per la sua distanza; e la diva di carta delle riviste, altrettanto inafferrabile. Il soggetto frustrato, Antonio Mazzullo, non può avvicinarla se non assumendo la forma di un Pulcinella maldestro, manichino lillipuziano, preso nella ragnatela dei veli e atterrito dalla possibilità di un intollerabile spogliarello. Trasformato in un san Giorgio da teatro delle marionette, che cavalca su una sella di pietra, trafigge con la sua lancia il cuore di una Vergine-Diavola-Drago di cartone – «Strega, Sodoma e Gomorra!» grida –, facendosi preda delle sue rimozioni. Nella Dolce vita la problematica sessuale era sviluppata attraverso le esplorazioni di un soggetto pubblico e aveva come punto di riferimento l’insieme più ampio di una tipologia
sociale. Nelle Tentazioni l’aspetto deliberatamente grottesco denuncia anch’esso le pratiche tribali di una società messa di fronte allo stravolgimento che la novità genera in un’area, nonostante i fasti del fascismo, ancora troppo dominata dalla violenza esercitata sugli individui dalla Chiesa e dal potere. I riferimenti alla Chiesa sono espliciti, così come quelli che rimandano alla burocrazia statale. Diverse scene sono ambientate in luoghi detti santi, ma filmati in un’astrazione totale dalla cosa religiosa, in un’inefficacia del religioso e del sacro che amplifica la loro configurazione ostentatamente modernista: la questua per le opere pie, la cerimonia funebre di una vedova troppo affranta,4 le richieste di intervento del protagonista alla curia romana, la visita sul luogo incriminato da parte dei messi vaticani in Cadillac nera. E infine la cerimonia funebre, pensata come una grande festa antisabbatica gestita dagli intendenti della Chiesa, che organizzano l’inumazione dell’immagine. La riflessione sulle problematiche religiose muove la sua critica tramite l’invasione acritica del grottesco. In questa configurazione c’è, per la prima volta in modo netto in Fellini, l’emergere di una necessaria formalizzazione barocca, legata a Roma, alla Chiesa, all’Italia. È l’elemento funebre che le conferisce espressività e tensione: risolto con la leggerezza più materiale possibile, quella di una grande nube del grottesco che si spinge oltre il contesto narrativo, ma includendolo, ma anche oltre qualunque contesto propriamente cinematografico, in forma di messa in scena da «varietà», da opera napoletana squinternata, irrecuperabile. * Al di là dei suoi contenuti espliciti, il film è notevole per il suo apporto nell’uso della forma breve. Portare alla luce senza dissipare, dire tutto nel tempo concesso: è come se si dovesse rifare il punto su cosa comporta non tanto «saper fare un film», quanto «fare un film», riesaminare i contenuti e la loro formalizzazione – le condizioni di «ispirazione» – e decidere di lasciare un mondo di cui è stato detto tutto e che adesso è cambiato. Di questo mondo passato Fellini conserva soltanto alcuni stilemi, come altrettante firme, poetiche perché non necessarie nell’economia delle opere, stilemi che nei film precedenti svolgono una funzione tematica, di ritornello, di metopa o di fregio decorativo, proponendo ai margini interni dell’opera momenti di sospensione, di respiro, di eccesso. È in questo che tali film appartengono alle opere di un’arte cui è sottesa la problematica della creazione. La filmografia felliniana rivela così un aspetto implicitamente politico: quest’ultimo non può più definirsi soltanto dall’esterno, come il trattamento di una crisi immediata, di società, di costume, di idee, di conflitti, di convivenze. L’opera è in sé una maturazione, vive in profondità e si immerge in qualcosa di nascosto, di sconosciuto e di pressante che deve essere portato alla luce. Un grande lavoro già avviato con La dolce vita: la ricerca geologica su Roma non rispondeva a una volontà documentaria, ma alla necessità di dare vita a un presente abbellito dal proprio passato, nella sua resa espressiva, nella sua necessità in quanto atto e opera di creazione. Dal punto di vista cinematografico, gli stilemi – i passaggi, divenuti innumerevoli, di stirpi di personaggi – servono a confermare momenti segreti, ripiegati su se stessi, dimenticati dall’opera, che hanno ormai acquisito la loro indipendenza creativa e stilistica. Della vecchia maniera, Fellini conserverà le parate o le sfilate, da sinistra a destra, da destra
a sinistra. Le moltiplicherà, addirittura: sono processioni che non servono a logiche interne, ma alle modalità pure della rappresentazione, piani di sospensione temporale, melopee umoristiche, linee di evasione, di movimento, di ritmo, come la ripresa di un tema senza tema, il refrain di una canzone. Nelle Tentazioni la parata funebre, per esempio, introduce un elemento nuovo che verrà ripreso semplicemente perché serve da finale non casuale, eppure del tutto gratuito: «’O spettacolo è fernuto», «lo spettacolo è finito» grida uno degli operai napoletani. La parata, la sfilata recuperano anche l’elemento circense, la sua forza lunare, ctonia, la sua diffidenza verso le spiegazioni, ma anche il suo momento di grazia e di esplosione, la visione globale di tutto ciò che ha partecipato alla costruzione del film. È così che prende forma, nuovo di zecca, il più bel finale di Fellini, quello di 8 ½, nell’espressione di un’indipendenza voluta dell’opera, nell’offerta che promette una liberazione felice per lo spettatore. Un’altra innovazione importante, molto evidente nelle Tentazioni, è la ripresa di un effetto cinematografico che abbiamo già evidenziato a proposito della realizzazione della Dolce vita: l’effetto «film nel film», che consiste nel filmare il film stesso, gli elementi che permettono di «impressionare» il film, in particolar modo i proiettori, numerosissimi, come fossero altrettanti spot5 il cui gioco incessante fa esplodere l’immagine nel momento stesso in cui la esplora. Questo lavoro sulla luce – che serve anche a cingere di un’aureola e trasfigurare l’immagine di Anita Ekberg, conferendole l’aspetto di allucinazione – anticipa l’uso originale della luce in 8 ½.
IV
CHE COSA SIGNIFICA CREARE? CHE COS’È UNA CREATURA? 8 ½ O LO STATO CREATIVO INVIVIBILE. LA CREAZIONE ARTISTICA (CINEMATOGRAFICA) NELL’ITALIA DEGLI ANNI SESSANTA. NUOVO SVILUPPO DELLA PROBLEMATICA DELL’IMMAGINE DEL MASCHILE. LA SEMPRE PURISSIMA BELLEZZA FEMMINILE: LA SFILATA DI TUTTE LE FEMMINILITÀ POSSIBILI. NUOVA DEFINIZIONE DI STRUTTURE PSICOLOGICHE E SOCIALI. I MITI DELL’IMMAGINE, I SISTEMI DEL REALE. L’ETEROSESSUALITÀ DAL PUNTO DI VISTA DEGLI UOMINI. LA TENERA DOLCEZZA DELLE «CREATURE». ELABORAZIONE E PUNTO DI ARRIVO DI UN’ESTETICA NELL’ULTIMO FILM IN BIANCO E NERO. SERIE DEI PERCORSI: LA LINEA E LA STRIATURA, UN’ALTRA MODALITÀ DELL’ERRANZA.
8 ½ è il seguito e il completamento della Dolce vita. Quest’ultimo terminava con un’ennesima necessaria partenza, come se per Marcello fosse essenziale lasciare qualcosa che era divenuto inefficace, spinto dalla rabbia per un’impotenza che percepiva come condizione generale e, di riflesso, individuale. 8 ½ ha inizio su una spiaggia, proprio dove terminava La dolce vita. Poco importa che il film cominci da quello che viene definito un incubo:1 ammesso che sia così, Marcello termina la sua evocazione su una spiaggia, elemento ricorrente nella filmografia felliniana.2 Da una spiaggia all’altra, alla fine di questa prima sequenza di 8 ½ si crea una linea di confine tra elementi, la risacca che cancella e riempie quello che invade e, al contempo, una linea di indeterminatezza, tracciata all’infinito, che non si stanca di riprendere quello che porta a termine. Distinta dalla linea di orizzonte per il suo movimento ripetuto, seppure irregolare, un movimento di pura perdita, se ci si pensa, a perdita d’occhio e di movimento che si trasforma nell’istantanea di una ripresa dello spirito, di una ripresa mentale. L’elemento liquido confluisce qui con l’elemento solido, e si può attribuire alle fluttuazioni del primo quando nel film si presenta come esitazione, e al secondo quando dipende da una frizione con la materia, che prende la forma del concreto e del reale, che, per sua natura, sembra immutabile: l’elemento specifico della vita. Così avviene tutto in un’apparenza che sviluppa nello stesso momento l’aldilà e l’aldiquà; tutto viene mantenuto – lungo questo confine – su una linea di galleggiamento e di insistenza, di chiacchiericcio e di tremore che, da sola, forgia il suo colore e le sue sonorità. Il plasma vitale della Dolce vita – il color strass, il bianco e nero, che brilla ancora delle esaltazioni di un perdersi nel vivere, con gli occhi scintillanti nelle ostentazioni di un lusso che sembrava tanto più vero quanto era orpello o caos – si muta in una forza decisa, capace di esplorare, nel suo andirivieni inquieto e umoristico, i suoi stati di estasi, di voluttà o di mancanza, ritratti in accerchiamenti di luce e suono. Coralità della luce e dei movimenti in 8 ½: oscurità lucente e ricca dei mobili scuri degli interni, che si oppone al bianco asettico dei bagni, in quello che è un vero e proprio «Castello» nel quale è elaborato un impossibile favoloso attraverso la moltiplicazione dei punti di rottura psicologici, buio opaco e profondo in cui è descritta la nascita delle situazioni più intime, quasi segrete. Grigio tenue di quanto viene detto nella lentezza opulenta di intuizioni miste a ricordi
o a blocchi di déjà-vu, bianco solare e sovraesposizione di tutte le potenzialità che si attualizzano e si insinuano silenziosamente nella materia dell’azione. E movimenti: tutte le sequenze del film raccontano storie di movimento, non azioni o strategie – dal momento che la vita o la creazione le invadono –, ma storie di concatenazioni colte nel momento stesso in cui avvengono, in cui sembrano fissarsi, ma che non evocano altro che oscillazioni, slittamenti. Se nella Dolce vita Anita era la carezza regalata dalla notte, 8 ½ è trasportato dalla carezza dell’acqua che ondeggia e scivola, di tutte le acque: sponde e rive, acque termali, nuvole di vapore, acqua delle vasche, acqua bevuta e fonti alle quali dissetarsi, battesimi, rigenerazioni. Come in un’allegoria di Hieronymus Bosch, il Giardino delle delizie è rinchiuso tra le mura di un hotel che fa da recinto agli eventi.3 * Come La dolce vita nasceva da un sogno di Cabiria, un senso di continuità lega 8 ½ alla scena della fontana di Trevi: la scena lustrale di rinascita e di battesimo traccia, nei silenzi della Città, una linea che invoca l’altro film, e si svolge in una stazione termale. Alcune parole che Marcello pronuncia nella parte finale della Dolce vita – «Ho tutto falso, abbiamo tutto falso» – determinano un punto, un momento rimasto sospeso. Bisogna allora ricominciare, ricominciare da altri silenzi – proprio quelli della prima sequenza di 8 ½ –, rendere immagine un pensiero che riunisca due o tre punti di riferimento, i quali dovrebbero enunciare un tema generale del film. Non si tratta né della descrizione di un incubo, né di premonizioni, ma di una fantasticheria su una situazione concreta, di riflessioni a occhi aperti, di pensieri aggrovigliati che cercano di slegarsi, di pensieri sovraccarichi dei segnali negativi di un io inquieto, di pensieri pronti a lasciarsi riassorbire dal racconto che ci si appresta a farne, e quindi alleggeriti dal loro peso, lavati. La finzione delle acque termali corrisponde a questo desiderio di depurare, di chiarire. Immerso in questa riflessione, Guido, il protagonista, regista cinematografico, si sente oppresso da una piccola folla che lo squadra senza dire nulla, chiusa nel suo silenzio, una folla opaca, dalle espressioni neutre e tuttavia minacciose, che scivola apatica dentro alcune automobili all’entrata di un tunnel: una bella donna, che scopriremo essere la sua amante, si lascia accarezzare a bordo di una delle auto. Guido riesce a uscire da questa situazione e a librarsi nell’aria, ma per entrare, in un modo falsamente liberatorio, in una situazione diversamente identica: una libertà impossibile. Una corda stretta alla caviglia lo riporta sopra le linee di uno spazio marino dove si erge una struttura metallica, la torre di lancio di un’astronave; qualcuno ordina di tirare la corda, e Guido, cadendo, torna bruscamente alla realtà. Questa prima scena, come quella finale, serve a inquadrare le varie sequenze del film: l’una e l’altra sono composte mediante gruppi di persone diversamente distribuiti. Mentre l’ultima offre una risoluzione alla prima – o piuttosto la definizione della sua soluzione –, questa pone soprattutto delle domande al protagonista-regista. Chi sono queste persone ammassate all’esterno? Che cosa osservano, che cosa controllano con i loro sguardi? Sono guardoni? Spettatori? Sono gli stessi che comparivano nell’ultima scena della Dolce vita, oppure gli somigliano e basta, ritratti in uno dei modi possibili del loro divenire? E allora, che cosa sono diventati? Non sono forse fin da subito gli stessi che lavoreranno in questo film, mentalmente
riuniti in questa prima sfilata? Guido, il protagonista, non li riconosce subito, nella loro indifferenziazione e nella loro indifferenza, come i portatori di mediocri nevrosi che colpiscono senza tregua un io che ha, da lì in poi, mille ragioni per sentirsi fragile? Non presagisce che vogliono imporgli queste loro nevrosi – imporle al film da girare –, considerate come gli stati o le condizioni provenienti da una libertà personale? Non aspettano anche loro, nella loro mancata definizione, di essere designati, nominati e pronunciati da colui che, grazie all’autorità della funzione che svolge, esporrà (loro) la posta in gioco di una liberazione diversa – una deliberazione –, un altro abbandono, creando l’incontro delle storie personali per farne una storia comune? La posta in gioco iniziale del film consiste nella risposta che l’autore darà alle domande che determinano la struttura psicologica di questa prima linea, o «primo piano» o «piano reale», propriamente narrativa: la parte iniziale del film – e quello che racconta delle vicissitudini di Guido – comincia situandosi tra due poli piuttosto indefiniti: da un lato un personaggio per ora poco definito, «il produttore» di un progetto cinematografico di cui non si sa nulla e di cui soltanto la costruzione futuristica, intravista tra le immagini della prima scena, offre alcune vaghe indicazioni. Dall’altro, una folla indistinta che sembra essere stata attirata nello stesso luogo da una volontà muta e assente, e sembra accompagnare Guido; più che di folla, si dovrebbe forse parlare di un fermento, di una sfilata di ombre che si manifestano e prendono corpo, corpi conosciuti, sconosciuti, strani corpi di una vita larvale, ombre di pellicola. Ombre che agiscono come attori o spettatori passivi, ritratti in strane attese di cui sembrano ignorare lo scopo. Comparendo in unità molto frammentate, in piani che scorrono all’interno del film e sviluppano ulteriormente le processioni dei film precedenti, questa folla ricorda quella brulicante che macchiava di colore il bianco e nero della Dolce vita, a parte il fatto che, invece di stendersi su tutta la lunghezza di una strada, qui è radunata da uno scopo ancora non specificato all’interno del Grand Hotel di una città termale, con numerose fughe verso l’esterno. Oltre alle fonti termali e ai bagni, c’è il ristorante-night club, una piazza con un palchetto dove vengono suonate arie di operetta e una pineta separata dall’albergo da grandi pannelli di gesso, che ricordano delle scenografie teatrali, quasi in trompe-l’œil. Le fughe verso l’esterno sono numerose: la stazione in cui Guido accoglie l’amante; una grande strada della cittadina in cui incontra la moglie; la zona con la struttura per il lancio dell’astronave; la sala cinematografica in cui si proiettano i provini del film; le strade di periferia percorse in automobile; il cortile di un’antica villa medicea in cui si svolge l’incontro con Claudia. I luoghi di questa realtà riemergono nel film elaborati come ricostruzioni di immagini mentali. Tuttavia, benché abbiano come cornice alcuni luoghi già indicati, come la pineta o la fonte termale, queste immagini sono proposte come luoghi nuovi o diversi: la loro luminosità è esposta diversamente, spazi di una strana memoria che brucia.4 È il caso del seminario e della spiaggia in cui appare la Saraghina, del cimitero e della tomba del padre, della grande casa di campagna nelle scene d’infanzia. Queste scene – che evocano un ricordo a volte doloroso, a volte felice, in una commistione a-patica del ricordo, un tempo ricreata nel presente sensitivo dell’io, ma che non ha più lo stesso timbro, la risonanza di uno stato antico del presente che deve aver attraversato, anch’esso, stati di percezione e di appropriazione – giocano su diverse tonalità di grigio che emergono da un bianco meno violento. Altre scene, che sembrano inventate soltanto dall’umorismo, sono sovraesposte in un bianco gioioso, nuziale o da battesimo. In particolare, la scena dove Guido immagina l’incontro con Luisa, sua moglie, e
Carla, l’amante, in cui entrano in gioco parallelamente l’odio di un presente intollerante e la felicità nel vedere le due donne unite dall’amore per uno stesso uomo, cosa che non accadrà mai. Malgrado la molteplicità degli ambienti, il luogo «cerebrale» del film, nel quale tutto si svolge e tutto si decide, o non accade, rimane l’hotel, con i suoi colori, le camere, i saloni, le scale. È l’anima mentale in cui si determinano le diverse funzioni attribuite alla moltitudine di persone che lo frequenta, in una mescolanza di abiti e atteggiamenti di cui si ignora quali appartengano alla sua realtà insignificante e quali facciano parte del film da girare. Inoltre, accanto all’abbigliamento quotidiano di coloro che lavorano per il film, sfilano complesse combinazioni di abiti: ricordano alcune sagome sfuggite alla Dolce vita e somigliano loro, come se avessero in sé la marea di una fine che continua. Cambiano soltanto la qualità e la quantità del movimento, come un tempo che passa dentro il tempo stesso. L’elemento appropriato del film finisce così per inserirsi nella scia di una Dolce vita che avrebbe preso a prestito la sua allegria malinconica da una Belle Époque fatta di piccole solitudini riunite – le danze nel night club dell’hotel, tutte costituite da concatenazioni e accenni di temi che scivolano e sfumano in conversazioni sul film che si sta girando – e da un motivo da operetta che risuona insieme ad alcune arie d’opera,5 come per ricollocare la storia nel racconto di una non-storia; c’è il palchetto, anch’esso fuori da ogni storia possibile del presente, come pure la ripresa dell’aria della Cavalcata delle Valchirie in diverse sequenze che svolgono un ruolo importante in questa evocazione della Belle Époque.6 L’elemento non appropriato del film, invece, si inscrive nella vita quotidiana dell’hotel, parallelamente travalicata dal racconto del probabile fallimento di un progetto artistico. Qual è, dunque, questa realtà sfuggente nella quale un presente improbabile si immerge in passati indefiniti, trascinati dalla variazione delle immagini? In che cosa consiste questa leggera aria di esitazione? Il tema delle Valchirie, che torna almeno tre volte, suggerisce delle risposte. Con il suo incedere imperioso sembra sottolineare precisi momenti del film, talvolta spettacolari, come se volesse indicare che «si va avanti», che «si procede», pur fingendo un ripiegamento e un’immobilità. Appare per la prima volta all’inizio della terza sequenza del film, quella che segue la visita medica di Guido e la prima relazione negativa dell’«intellettuale», per indicare che il progetto va avanti, malgrado tutto, malgrado l’apparente impasse, malgrado la sensazione di regressione, proprio come la risacca sulla spiaggia crea un confine invalicabile. * Il film inoltre si sviluppa su diversi piani di regia, di cui il primo, quello della ricezione del reale, è senza dubbio il più complesso e combina ciò che accade con ciò che potrebbe o non potrebbe accadere. Già gli appunti della sceneggiatura traducono l’esitazione volontaria che consiste nel differire la decisione fino al momento in cui le riprese permetteranno di scegliere una forma definitiva: Piano reale. Il dottore delle terme. È un personaggio che apparirà all’inizio del film entrando in camera del protagonista che sta ancora sognando […]. Il medico è molto giovane, molto serio e ha una gran fretta […]. Da questo interrogatorio veniamo a sapere alcune cose essenziali sul nostro tipo: nome, cognome, età, che è sposato, il suo mestiere, il padre, la madre, le malattie precedenti, tutto quello che è utile sapere. Forse questo è un personaggio che
rivedremo durante il film, forse no.7
E più avanti, ciò che si può applicare al film nel suo complesso: […] qualcosa avverrà, sebbene io abbia l’impressione che non ci sia bisogno di chiudere nessuna delle storie che racconteremo.8
Da un lato l’evento, lo svenimento di Guido, le cure che comporta, i disturbi e le interruzioni che provoca; dall’altro il naturale svolgimento delle cose rispetto agli impegni presi: l’arrivo dell’amante Carla, gli incontri con alcuni ospiti, l’arrivo della moglie, l’arrivo del produttore, le interviste programmate con i giornalisti, i dibattiti scaturiti da varie situazioni. Si crea una tensione duplice: alla vita dell’hotel, che segue il suo corso, si sovrappone un altro ritmo, anomalo, che riceve impulso dalla produzione e dalla lavorazione del film, che lì si è trasferita. La crisi del regista, dentro l’hotel, accentra la crisi delle riprese e lascia trasparire allora soltanto pochi dettagli del lavoro, alcune scene umoristiche o tristi, opposte alla tranquillità della vita in hotel. È come se l’inquadratura si formasse mediante strati di «decentramento», seguendo un movimento che trascina un punto verso le periferie, prima di compiere – con molte distinzioni – il percorso inverso, modificando quello che doveva essere il punto di partenza, sia esso la scena iniziale o il fatto di «fare un film». Per lo più, questo spostamento è effettuato secondo una percezione lineare, il cui movimento ondulatorio elude le conseguenze logiche: La dolce vita procedeva per successioni (di tipo misto, ma non deliberatamente consecutive, anche se vi era sviluppata una decisa strategia di montaggio), e dal punto di vista del ritmo tendeva a un diminuendo della centralità dell’azione. L’orchestrazione di 8 ½ persegue una delucidazione ridondante (o di chiarificazione di quanto è rappresentato in alcune complicazioni), seguendo una linea melodica in crescendo, che corrisponde a una linea musicale. Il movimento cambia regime, pur tornando al tema: si passa dal carattere imperioso della Cavalcata delle Valchirie all’aria da operetta Belle Époque-Lehár, per giungere alla sorridente nostalgia – dell’a(v)venire, inserita in una conclusione prolungata – del finale di Rota. Ciò significa inserire alla fine di 8 ½ lo stesso movimento-suono che costituiva la fine delle Notti di Cabiria: un sorriso, una strizzatina d’occhio dopo le lacrime, una ouverture come compimento. L’opera frammenta così l’aria operistica nei ritmi più provocatori di plurimi ritornelli. La questione fondamentale è allora un’altra: si tratta di far passare quello che Fellini chiama il «piano reale» sullo sfondo, senza tuttavia occultarlo, lasciando emergere, davanti, qualcosa che appartiene al non detto di un «secondo piano», conferendogli un’indipendenza filmica reale, che non ha più niente a che vedere con i racconti-sequenze abituali del flashback, che provenivano, fino a quel momento, dalla riproduzione di una modalità letteraria. È un’alchimia difficile, una combinazione di ricordi, vecchie impressioni e intuizioni che compongono le immagini di un presente che di reale ha soltanto la sua potenzialità. Le immagini sono liberate da ogni legame con la loro evocazione, nella misura in cui la memoria stessa non smette di frequentare il presente e di appartenervi. Sono lì come fedeli compagne, possono trasformarsi in preghiere senza dichiarare alcunché di religioso; estraggono dalla massa immobile del tempo tutto ciò che gli conferisce un senso nel presente. Per questo è interessante la prima sequenza: ovunque si trovi, Guido è circondato dalla «massa all’opera», oppure è vincolato e riportato al «piano reale» dai numerosi guardiani della produzione, senza scampo. Da qui la necessità di tenersi su un margine che è lui stesso, sul bordo fluttuante di un «primo piano» delle cose, di
un «piano reale» di cui non è più necessario, da questo momento in avanti, negare la forza, accettando di riprenderlo in altrettante situazioni da sviluppare ulteriormente. Se esistono delle verità, nella realtà, emergeranno da sole, nella consapevolezza che sono solo soggettive e sottoposte all’analisi di coloro che non creano. Il bordo è così il ripiegamento concentrato e meditativo, il riflesso-riflessione9 in cui si ritira Guido per dare libero corso ai suoi pensieri e le immagini, in tal senso, sono pensieri reali che a volte parlano e cantano, altre volte se ne stanno in silenzio. * Guido è un regista quarantenne. Mastroianni ha subito trasformazioni che l’hanno reso meno spigoloso, più addolcito; la sua vivacità si è trasformata in una soave nonchalance. Il volto, segnato da una pacificazione riflessiva, almeno in apparenza, sembra più maturo, i capelli sono argentati – gli occhiali scuri, trasformati in occhiali da vista, traducono un riflesso, una riflessione, un’immersione senza colore da fuori a dentro e viceversa –, e tuttavia dubbio e incertezza attraversano il suo sguardo, sottolineando una meditazione spesso improntata all’umorismo e all’allegria. La voce restituisce adesso le articolazioni e i timbri di un parlare più complesso rispetto a quello dei film precedenti, anche se meno fitto, anche se ha perduto le inflessioni quasi metalliche, guadagnando in spessore e in superficie: come se avesse attraversato qualcosa di impossibile e di doloroso, la sua voce è divenuta meno pubblica, più intimista e stratificata, e tale aspetto si manifesta ovunque nelle serie di conversazioniriflessioni con se stesso, con la moglie, con Claudia o Carla; siamo passati da una voce di testa a una voce di gola e palatale. Non si può fare altro che insistere sul fatto che Guido riprenda idealmente Marcello per come quest’ultimo ha potuto maturare, prima della scena dell’orgia nella Dolce vita, nel momento in cui si impone per lui una meditazione dopo i discorsi affrontati a casa di Steiner, dopo il suicidio di quest’ultimo, dopo lo sgomento finale che lo vede allontanarsi sulla spiaggia. In sostanza, il suo lavoro non è cambiato: c’è sempre l’immagine al centro dei suoi interessi, ma non è più stereotipata. Quello che cerca, quello con cui vuole confrontarsi, è il contrario: fare in modo che l’immagine si liberi da quanto in essa resta cliché, che riesca a recuperare se stessa in un’intimità che ne esprima l’essenziale, il nucleo crudele (o cruciale) che ne rivela la forza, senza che tale intimità sia percepita come un’interiorità. Guido, in quello che eredita da Marcello, traduce lo scorrere di questo tempo di riflessione con un atteggiamento diversamente inquieto. La sua inquietudine non indugia più sul vociare degli altri circa la sua impotenza, ma si ferma davanti a un sé sgomento e confuso rispetto al proprio lavoro di creatore, alle domande che ogni creazione fa emergere al momento della sua formalizzazione e della sua espressione, al momento di assemblarne i frammenti. Ma soprattutto rispetto alla confusione o alle distrazioni che creano i discorsi altrui. Ancora una volta il biografismo si smarca dall’autobiografia e, giocando su serie di variazioni tra personaggio e narratore – in questo caso, il regista –, riesce a imporsi come distanza, come vero e proprio supporto sul quale lasciar lavorare l’immagine, partendo da un nucleo di solitudine. Nasce qui l’irriducibilità della forma narrativa scelta da Fellini, che pone sullo stesso piano trasversale le sequenze, piuttosto che riconoscergli profondità e varietà come avveniva ancora nella Dolce vita.10 Che cosa è escluso allora? In primo luogo, i rapporti di effetto e
conseguenza, ovvero i sistemi di «psicologizzazione» con i quali si cerca di aggiustare le vite e le dialettiche inesauribili della realtà. Allo stesso modo è escluso ogni giudizio di valore – anche se il giudizio è replicato nei rapporti che si incrociano sul piano della realtà immediata: amante, moglie, produttore, gli altri, tutti, ognuno a suo modo, non fanno che rimproverare a Guido quest’assenza di logistica del «giudizio» e del «comportamento» –, per quanto riguarda sia i rischi della sua stessa forza, sia le sequenze nelle quali storie e personaggi sono ridefiniti. Infine, è esclusa la metaforizzazione come sistema interpretativo delle sequenze che sfuggono a una lettura puramente realistica. Non è più il racconto in sé a raccontare: la sua fragilità, che diventa una forza, è sostenuta dalla leggerezza sfrangiata di una pellicola che esplode di continuo, creando ed esplorando le immagini dei differenti piani di concezione, lasciandole sospese nella loro incontenibile deriva. Così, il «piano reale» è trasmesso unicamente dalla forza delle virtualità che lo circondano, descritte sotto forma di cose impalpabili che ne compongono la materializzazione attraverso immagini che moltiplicano le strette correlazioni tra i due piani. Ciò equivale a fare in modo che lo scarto tra il piano immanente e quello trascendente sia il vero supporto sul quale la vita misura l’ampiezza dei suoi echi nella descrizione delle esitazioni di cui siamo fatti, molto più che il calcolo egoista di quello che ne facciamo. In tal senso, la continuità dell’opera felliniana è costituita dalla sua linearità ondulatoria, fatta di rimbalzi, e l’interrogativo rivolto alla creazione tenta di riesaminare il percorso creativo. 8 ½ non sfugge alla serie, ne diventa persino il perno – adesso – più visibile, quello che lascia emergere dalle sue viscere le strutture che si sono dovute gestire nel tempo, le domande già poste, cercando di vedere come le risposte abbiano potuto arricchirsi o cambiare. Il film introduce figure inedite come quella dell’intellettuale, recuperando così la visione di un pubblico accorto e critico: da qui l’importanza della folla che si è formata nel corso delle opere, dell’opera, e che assegna al set, o all’hotel, l’aspetto di una città perfettamente organizzata nei suoi rituali. Viene lanciata qui un’altra scommessa: come creare una folla? E cosa può significare creare una folla? Una folla è prima di tutto il set cinematografico che raggruppa il maggior numero di persone, sia interne che esterne alla lavorazione del film, gli invitati, veri e propri voyeur: anche questo viene riportato con forza nel racconto che il film fa di se stesso. È trascritto nella storia che erompe dal Grand Hotel come luogo di circolazioni molteplici, nel quale si stabiliscono scambi in una variazione costante dei rapporti di opposizione e di reciprocità, legati e slegati nella leggerezza che caratterizza il luogo stesso. Tutto succede lì, non nel suo centro, ma in luoghi decentrati che ne formano le ramificazioni e danno ampiezza, spazio, ai gesti e alle pose. Nello svolgimento, il nodo soffocante della prima sequenza – in cui nessuno poteva assumere altro atteggiamento oltre quello della propria ignoranza – si scioglie quasi teneramente, attraverso gesti di conforto, verso il compimento in una zona imprecisa che dovrebbe essere quella del comune accordo. Le scene collettive in cui le persone bevono alle fonti, le scene del night club, l’incontro con l’amico Mezzabotta (Mario Pisu) e con la sua fidanzata (Barbara Steele) non descrivono soltanto momenti di cortesia, ma si trasformano in momenti di scambio. La folla, all’inizio insignificante e nevrotica, impara a parlare, a capire perché è stata convocata: nel fondo segreto delle sue conoscenze si prepara, lei e lei soltanto, a costituirsi in quello che sarà il gran finale, perché lei soltanto sarà chiamata a farlo esistere.
* L’immagine dell’hotel e di questa folla rimanda alla struttura imposta a Guido nel film: lui ne è l’elemento centrale ma decentrato, quello da cui dipende tutto, ma ritratto nella sua dipendenza che solo la creazione compiuta trasformerà in indipendenza. L’elemento principale di continuità tra La dolce vita e 8 ½ è, nell’eco della crisi attraversata da Marcello nel suo lavoro, la crisi vissuta da Guido nella sua creazione; egli, sull’esempio dei suoi personaggi, ha in aggiunta un problema di espressione. La questione fondamentale, da un film all’altro, è cambiata: cosa dire di quello che si ha tra le mani e in testa, ma soprattutto come dirlo? Che forma dare alle cose e come disporle in modo che, senza sovrapporsi, i diversi piani coincidano in un equilibrio di cui l’autore non percepisce ancora il disegno e la posta in gioco? A parte il tema enigmatico di uno stato dell’affaticamento, la crisi non viene mai espressa apertamente dal personaggio, che si lascia invece cullare dall’indolenza amorosa che gli proviene dalle immagini. È espressa invece da tutti quelli che, lavorando con lui, la denunciano, e in primo luogo dal produttore, attraverso l’«intellettuale francese». Componendo una sorta di dialogo classico, alla maniera di Platone o di Galileo, Fellini dà la parola a uno sguardo critico, all’«intellettuale» – che riassume ironicamente diverse figure in una sola, dal giornalista all’opinionista, dal filosofo al commentatore, dal moralista al maître à penser –, incaricato dalla produzione di commentare le potenzialità della sceneggiatura: il suo ruolo, che fa di lui il più suadente degli investigatori, dei giudici, degli sbirri, produce proprio l’effetto contrario rispetto al desiderio di chi lo ha ingaggiato. Ognuno dei suoi interventi si oppone alle idee di Guido – che simulerà, alla fine, la sua impiccagione – ed è proferito in un linguaggio tipico, al quale Guido non risponde mai nulla, poiché non ascolta se non le sensazioni che cerca di raccogliere per farne una creazione. È l’intellettuale che, tra gli altri, permette a Guido di tenersi costantemente sulla sua linea di divisione invalicabile, sul bordo. Il suo giudizio, dall’inizio alla fine, è feroce e implacabile: Ad una prima lettura, salta agli occhi che la mancanza di un’idea problematica, o se si vuole di una premessa filosofica, rende il film una suite di episodi assolutamente gratuiti, può anche darsi divertenti, nella misura del loro realismo ambiguo. Ci si domanda cosa vogliano realmente gli autori: Ci vogliono far pensare? Vogliono farci paura? Il gioco rivela fin dall’inizio una povertà d’ispirazione poetica… Mi perdoni, ma questa può essere la dimostrazione più patetica che il cinema è irrimediabilmente in ritardo di cinquant’anni su tutte le altre arti. Il soggetto poi non ha anche il valore di un film d’avanguardia, benché qua e là ne abbia tutte le deficienze…11
Fino all’ultima battuta, nel momento in cui Guido rinuncia a fare il film: Che inguaribile romantico! […] Lei ha fatto benissimo: mi creda, oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali […] abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine. In fondo perdere dei soldi fa parte del mestiere di produttore […]. No, mi creda, non abbia né nostalgie né rimorsi: distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie e poi… c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere?! […] In fondo avremmo solo bisogno di un po’ d’igiene, di pulizia, di disinfettante… siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto…
Dove risiede, nella mente di un eventuale Guido-Fellini, il valore – come ricorda l’intellettuale – della narrazione proposta? Risiede davvero nella relazione equivoca marito-moglie che sembra, da un punto di vista psicologico, orchestrare la partitura generale del film, o quantomeno
determinare la gestione degli eventi? O in quell’altra relazione, altrettanto equivoca, tra produttore e autore, gestita come un matrimonio impossibile e secondo le modalità della coniugalità capitalista?12 In ogni caso, entrambe le situazioni sollevano il problema di una libertà impossibile – o di una libertà che non può essere che fantasia, come nella sequenza di apertura –, la quale deve passare attraverso una decisione se vuole che le sue possibilità si realizzino. Già nella Dolce vita il rapporto con ogni forma di coniugalità possibile si rivelava essenzialmente equivoco, a prescindere dal punto di vista dal quale veniva osservato. In 8 ½ gli unici due interpreti attraverso i quali Fellini reinveste una matrice narrativa emersa dal film precedente sono Guido-Marcello Mastroianni e Luisa-Anouk Aimée, rappresentati in una linea di eventi che rimanda a possibilità già elencate. Da un punto di vista psicologico, Guido si distingue da Marcello per un’assennatezza in cui un’eleganza tinta di umorismo si è sostituita a un bisogno di seduzione senza oggetto. Se Marcello era nella condizione di dover imparare quasi tutto a sue spese – cioè nella dipendenza –, ora è come se Guido ne sapesse un po’ di più grazie a quello che ha pagato. Ma il «piano reale» del film non può limitarsi a questo, e tale sapere è evocato soltanto come un’ovvietà nei confronti della quale non c’è altro da dire, tranne dal punto di vista appropriato dei rapporti che il film rivela. Quanto a Maddalena-Luisa, il processo di unificazione di due tipologie, che avrebbe potuto portare a un’armonia Emma-Maddalena, è risolto in apparenza da una Luisa «camaleontizzata» in Emma, che però non ha dimenticato la scorza fisica e mentale della contraddittorietà di Maddalena. Inoltre, Luisa rappresenta per Fellini un’ennesima tappa della riflessione sul femminile: intanto non è sola, arriva accompagnata dal suo seguito. Sempre sullo stesso piano, al di là della sua ricerca, rivela una grazia, una leggerezza e, al tempo stesso, una forza e una distanza che non hanno nulla di borghese o di piccolo-borghese – ovvero di una im-posizione culturale –, e che appartengono alla «pelle» della natura specifica di Anouk Aimée attrice di cinema. Tanto l’attore Mastroianni è ancora artefatto in qualcosa che determinerà forse il suo divenire attore, quanto Anouk Aimée è già quella Luisa di cui soltanto Guido pensa di poter rivelare la dolcezza segreta; qualcosa che è già lì e di cui comunque lei sola, come attrice, conosce la densità e il riflesso. Non è sola: è continuamente assorbita dalla diffrazione-effusione del femminile con il quale si confronta – l’amante di Guido, le attrici che dovrebbero interpretarle entrambe sullo schermo –, ma anche dalla diffrazione-effusione del femminile con il quale compone un coro, la scena della «casa-harem», nello specifico, ma in tutto il film, attraverso le parate e le sfilate del femminile che la assorbono, la scompongono e la ricompongono. Come la storia del rapporto coniugale, i racconti sulla situazione del film in realizzazione appartengono alla costruzione del «piano reale», all’impostazione di questa prima lettura alla quale Fellini ci obbliga, in modo quasi pedagogico, con insistenza. Tutto ciò che avviene su tale piano è di quest’ordine e serve soltanto a svolgere il film sotto l’apparenza di un compimento, verso lo scioglimento dell’azione che non corrisponderà né alla fine prevista, né alla «vera» fine, né alla sua finalità; in tal senso, è importante sottolineare quanto la fine effettiva del film differisca dalla sceneggiatura iniziale. Si intravvede meglio il senso dell’enigma suggerito dalla sequenza introduttiva: forse si trattava dell’impossibilità di sapere come situare la folla, che posto dare a tutti i parassiti della sua mente, disturbando la realizzazione futura del film. Fellini inaugura una modalità di riflesso-riflessione sull’elaborazione artistica, indagata da sguardi curiosi e voyeuristici, ma che non sanno come guardare e vedere, che non sanno come essere
guardati ed essere visti. La domanda che Madeleine Lebeau – «l’attrice francese» che non capisce come possa essere assunta soltanto per cinque pose e lasciata nell’ignoranza di quello che lei chiama la sua «parte» – pone instancabilmente, come un ritornello lamentoso, ne è l’asse centrale: Mi lascerà completamente all’oscuro fino alla fine? Sono talmente ansiosa di conoscere, di capire bene il mio personaggio… io, voglio vivere molto tempo prima con il mio personaggio… devo sentire su di me la sua carne, le sue idee, senza questo… non so…
La domanda che Guido non fa, ma che agisce attraverso il secondo o terzo piano, quello che non appartiene più al reale, si rivolge a tutti quelli che creano il film senza per questo farlo davvero: l’artifex non sa che farsene delle interferenze che lo accerchiano con la violenza delle loro posizioni e delle logiche dei loro ruoli. Anche quelli che lo interrogano e lo assillano fanno soltanto vecchie domande e non propongono altro che vecchie risposte. Non è la prima volta che, nell’universo cinematografico di Fellini, l’elemento politico discute della «lavorazione» dei film, del mestiere di «regista», del mestiere di «attore», delle attività della produzione. Questa «massa all’opera» è solida nelle immagini di apatia della prima sequenza; tutte queste persone, questi attori, ignari, confusi, dispongono forse di conoscenze artistiche e artigianali individuali, ma sono incapaci di metterle «all’opera», di trarne un film. Se La dolce vita sottolineava l’impossibilità di soddisfare le esigenze della produzione quanto al tributo da pagare alla narrazione, 8 ½ cerca nel suo sviluppo di affrancarsi da questo debito presunto nei riguardi della «storicità», a meno che non si tratti della propria, che include, forse a ragione, ma in modo sconsiderato, tutti i suoi realizzatori. Fellini inaugura infine una modalità espressiva che assumerà forme più precise con I clowns, Roma e Intervista, giocando sulla mole di domande poste dalle riprese di un film, sulle domande che il film rivolge a chi lo gira e sull’impossibilità di una risposta che non passi per la sua dimostrazione deliberata. La crisi del regista, trattata in forma di finzione,13 provoca e permette l’elaborazione di inquadrature senza finalità narrativa: il racconto prosegue secondo un’altra linea, la quale avvolge quello che sarebbe potuto accadere e che, in fin dei conti, non sembra poter avvenire, benché questa stessa linea riferisca la possibilità del film. Tra questi piani molteplici si snoda un’altra linea ancora, quella di un «appena percettibile» che rimanda a presenze lontane dal presente che bisogna cercare di captare, momenti di passaggio inseriti tra le situazioni di «doppio» (e «controfigura») che il film riesce a creare.14 Non si tratta affatto di una storia di film nel film, e anche quando l’argomento potrebbe essere in parte quello, la domanda rimane la seguente: come girare un film che ha come progetto quello di descrivere gli intralci che ostacolano la sua creazione, nati non tanto da una mancanza di chiarezza – ce n’è fin troppa, come testimonia la luminosità accecante dell’immagine –, quanto dalla difficoltà di formulare la composizione – propriamente sensitiva e chimica – di quanto lo influenza da ogni parte? Come filmare le commistioni e i traumi, le variazioni che lo scuotono e lo arricchiscono e la cui unificazione, attraverso il racconto di un io capace da solo di contenerli in una stessa unitàcompattezza, si rivela impossibile? Il personaggio è allora sdoppiato in due condizioni – di uomo e di regista – che non influiscono l’una sull’altra se non riguardo alle modalità di trasmissione che propone delle rappresentazioni immediate, esse stesse immediatamente descritte, senza che i rapporti che reggono l’incrocio dei diversi piani siano di altro tipo oltre quello della descrizione. A dispetto di tutto, il film esisterà di fatto dal momento in cui il regista avrà saputo dare una configurazione espressiva a questa folla all’inizio insignificante – folla di
immagini e di situazioni, di sentimenti che a volte si urtano e a volte convivono in una pacificazione emblematica –, dal momento in cui avrà saputo dar loro l’equilibrio dell’immagine che gli si addice, un’immagine appropriata.15 * Di che cosa è fatto l’immaginario di chi crea? La risposta è al contempo troppo semplice e tautologica, ma è così che sembra essere formulata: è il frutto del suo immaginario. Sia nel lavoro creativo, sia nelle domande che pone e nelle formulazioni che dà. Si arriva al punto in cui il «piano reale» – che include i due problemi che contengono la trama narrativa, la coniugalità e la produzione – finisce per sembrare derisorio, proprio dal punto di vista del reale, rispetto allo sviluppo sul secondo piano del film. Anche le numerose sequenze in cui il ricordo è raffigurato senz’altro sostegno che il suo stesso racconto sembrano temi volti a render conto del sentimento di distacco che abbiamo evocato precedentemente, la risacca che fa ripartire il movimento. Così è la scena del cimitero, in cui Guido, che indossa, malgrado l’età, un’uniforme da scolaro, incontra il padre e la madre: il primo si lamenta della sua tomba angusta, mentre la seconda lo bacia, prima che l’inquadratura si chiuda sull’immagine della moglie Luisa.16 Così è anche la scena del convitto, accelerata dall’arrivo di una donna nel momento in cui Guido ha il primo incontro con il cardinale. La sinonimia è perfetta: la silhouette della donna ricorda l’aspetto della Saraghina, ma la sequenza, invece di portare direttamente a quest’ultima – escludendo dunque ogni appropriazione della storia –, prosegue su una dimostrazione di colpe e punizioni che illustra la forza, nell’individuo e in Italia, di un’educazione cattolica che non permette di «immaginare» l’amore e le sue seduzioni se non nella beatitudine cadaverica delle «vergini» imbalsamate. Questa piega della storia, tuttavia, è importante solo perché permette di accedere non tanto al tema del rapporto che ogni italiano intrattiene con la cultura violentemente luciferina della Chiesa, quanto a quello del rapporto del «maschio» italiano con il femminile e con l’eterosessualità, così come erano stati già proposti nella Dolce vita e qui ripresi da un altro punto di vista. La scena, in realtà, si sviluppa in direzione del suo motivo essenziale – e lo riprende: Guido, sfidando la situazione, torna a trovare la Saraghina17 –, che è quello di mostrare, nella fissità della sua attualizzazione, la forza di quel preciso femminile, la misteriosa fascinazione demetriana che gli appartiene, di cui l’infanzia intuisce che è beatitudine e oblio, e non fonte di amarezza e di punizioni. In 8 ½ Fellini affronta per l’ennesima volta la questione religiosa. Sin dalle prime scene, le figure di un cardinale e del suo seguito ossessionano la mente di Guido, affascinato dalla loro ieraticità estrema, da una sorta di ascetismo laico – il cardinale si sta curando l’asma e i reumatismi –, di silenzio dei sensi, degli sguardi, dei gesti, delle parole, che ne fanno come un’assenza, un distacco dal mondo. Guido ottiene due incontri: uno nel parco dell’hotel, in cui il tema dei rapporti complessi fra arte e religione è presentato dal segretario del cardinale, che rimprovera agli artisti di trattare alcuni temi con troppa leggerezza e di mischiare le questioni di amor sacro e di amor profano. La critica accenna un parallelismo – in merito al discorso sulla superficialità degli artisti – tra le posizioni dell’intellettuale francese, di cui non viene esplicitamente detto che sia marxista, e della Chiesa. Alle domande in merito ai suoi «dubbi», che Guido pone senza troppa convinzione, il cardinale, incartapecorito nei suoi pensieri,
risponde chiedendogli a sua volta se è sposato e se ha figli, poi, sentendo il canto di un uccello, se conosce quell’uccello, il cui lamento, racconta, accompagnò la morte di Diomede. L’assenza di risposta e il rimando a qualcosa di apparentemente non interpretabile – l’arrivo di una donna – catturano l’attenzione di Guido e del film, che scivola quindi nell’episodio del convitto e della Saraghina. Il racconto del secondo incontro con il cardinale è più complesso. Ha luogo nelle grotte dei vapori termali ed è introdotto dalla discesa della folla dell’hotel alle cave. Qui l’effusione del bianco è totale, negli ampi teli che come tuniche ricoprono gli ospiti, in una quasi clinica configurazione architettonica e decorativa di bianche ceramiche, nelle nuvole di vapore che ne scaturiscono: non è una discesa agli inferi, ma l’atmosfera è di purgatorio, sì, di purificazione, e fa pensare all’iconografia delle terme romane. Si stabilisce una relazione tra la cultura cristiana del purgatorio e la salubrità romana di una mens sana in corpore sano: è un mondo composito, tra paganesimo ctonio – reso in modo diverso in Fellini Satyricon – e rigenerazione battesimale, diurna e notturna, fatta di fluidi e flussi. La scena si regge su una maestosità quasi sacerdotale, uomini e donne si auscultano e si purificano, le parole si rarefanno nello sciabordio delle acque: alcuni microfoni, che attestano la perfetta tenuta tecnica del luogo e rimandano, in senso umoristico, all’universo di Jacques Tati, convocano Guido presso il principe della Chiesa. La sagoma del cardinale si staglia su fondali dalle tonalità grigioperla o antracite, nell’ombra, magnificamente ieratico, psicopompo, immagine ereditata dell’iconografia faraonica di cui il papato e i suoi principi-preti garantiscono la continuità. Ma il cardinale, ancora una volta, risponde soltanto per massime oscure a domande che, in fondo, sono poste soltanto su istigazione della produzione:18 «Extra Ecclesiam nulla salus! Nemo salvatur!». Frasi fatte, litanie latine, sia nel primo sia nel secondo incontro, che non possono più far vacillare la religiosità che Fellini criticava dalla Strada fino alla Dolce vita, e la cui conclusione era già data nelle Notti di Cabiria. Se la domanda è quella della fede, la risposta consiste nel separarla dalla Chiesa, che si riduce a fornirle i luoghi e le funzioni della sua regia e della sua rappresentazione, che gioca sulla dimostrazione della fede dei credenti come contropartita di un’illeggibilità presunta del mondo, come governato dai poteri.19 Queste poche scene che regolano alcuni conti in sospeso, sia con la Storia italiana che con gli italiani nel loro accettare questa Storia, non riescono tuttavia a ribaltare l’apparato maieutico imposto dall’autore. Il vero nucleo di felicità dell’infanzia maschile – italiano o meno – si annida in una fantasia fatta di donne: le scene della scuola e della Saraghina, che richiamano una storia che appartiene agli anni della pubertà, sono precedute da una delle più belle sequenze del film, originata dai giochi di prestigio nel night club dell’hotel.20 La parola che fa scaturire il ricordo è un’anamorfosi di «anima», ASA NISI MASA, uno «spirito» dell’anima. Dal fondo di un’architettura complessa affiora un ricordo – fantasia, sogno, come un desiderio –, una grande casa di campagna, volte e travi, focolari, fornelli, lenzuola sospese su stenditoi di legno, l’eco prolungata di un canto sopra le imprecazioni di una donna anziana, come il borbottio di una strega, in una lingua che sembra misteriosa, ma che è romagnolo. Poi donne, robuste, piene di tenerezza per i bambini che mettono a letto, tra le risate; risate di un’infanzia che, come la vecchiaia, non sa dormire e non si addormenta se non dopo aver recitato le sue filastrocche, il suo brusio stregato, passaggi nella notte della vita, nella vita dell’anima, nell’anima della carne. Si intuisce che la primissima infanzia è tutta nel corpo a corpo con questo femminile matriarcale di cui risuonano le melodie, e i gesti lenti, precisi, gli sguardi; e
che è possibile ritrovare, non questa stessa infanzia, ma quel tempo perduto, il suo sapore, il suo odore, il suo palpito tenue e carnale, proprio come una piccola anima «che erra carezzante, ospite e compagna del corpo»: ASA NISI MASA, da cui continuare a vivere e a guardare il mondo come un inizio, senza origine. * Questo libro di immagini è il punto di partenza di quella grande celebrazione del femminile che è 8 ½. E di un’altra cosa sono sicuro, il film dovrebbe essere tutto costellato di figure femminili; il protagonista ne è abbagliato, gli piacciono tutte, come se la donna fosse una sola, incarnata in miliardi di sembianze. Una persistente fantasia che lo ossessiona potrebbe essere quella motivata dallo struggimento, dal malumore, dalla rabbia, per tutte le donne belle nate prima di lui, o quelle che verranno dopo. Il tipo è inguaribilmente soggiogato, affascinato dalla donna e non ha ancora capito quale sia il suo rapporto con lei (e del resto chi può capirlo?) con il suo corpo favoloso e mitico, le sue rotondità, luna, monti, vallate di pianeta sconosciuto. Ecco, il film dovrebbe essere anche la storia di questo interminabile favoleggiare sul continente-donna, oscuro e affascinante. Protagoniste a parte, dovrebbero esserci molte altre apparizioni femminili…21
L’impostazione è evidente, anche se si struttura in modo progressivo, come se fosse dapprima sottratta, poi estesa, passando dal generale ai racconti specifici, in una costruzione minuziosa che mette in scena le sue possibilità. Il crogiolo è di nuovo La dolce vita, i cui modelli sono ripresi in una ridistribuzione-trasformazione necessaria dell’immagine. Alcuni percorsi appena tracciati nel film precedente sono riconsiderati, ridefiniti in modo più complesso, a volte definitivo: è questo il caso del padre, di cui ci veniva lasciata prevedere la morte e che, attraverso un pensiero-meditazione di Guido, appare, insieme alla madre in un cimitero. È anche il caso del divenire proprio della serie Maddalena-Emma – o Emma-Maddalena –, combinato in Luisa in una sintesi della vita, nella quale desideri simili finiscono per essere momentaneamente confusi e uniti. Teneramente amata e teneramente abbandonata – o almeno lei ha questa certezza –, Luisa riunisce esigenze che vengono dall’una trasformata nell’altra, in un continuo andirivieni, e appare prigioniera di domande mai portate a termine, in cerca di deliberazioni e soluzioni logiche. Allo stesso modo Carla, l’amante, sembra ricevere i suoi gradi e le sue prerogative da un nuovo ruolo impostole dalle funzioni di colui che è diventato regista. Accanto a lei il film mostra, sia sulla linea del reale, sia su altre linee, un insieme disparato di situazioni: la scena dell’harem opera allora la riunificazione, in uno stesso blocco, delle immagini-oggetti davanti al soggetto che le prevede e le inserisce in una pura funzionalità. Il femminile sembra in ogni caso piegarsi, se non alle esigenze, almeno alle dinamiche di questo maschile, a una legge che si suppone più forte e che avrebbe realizzato in modo implicito la forza delle sue seduzioni, in modo che la ricerca di Luisa, di Carla, e delle altre, a scapito delle loro differenze, finisce per essere fondamentalmente la stessa. In Guido, la componente culturale di un mito, la cui potenzialità delirante resta intatta, non può trasformarsi, per il momento, se non nella sua reiterazione umoristica – il trattamento sarà leggermente diverso in film quali Giulietta degli spiriti o La città delle donne –, in una risonanza accattivante che mette in scena la pienezza di quella che crede essere la sua «bontà
magnanima» nei confronti dell’evento del femminile. L’apparente libertà dell’individuo nella Dolce vita non si è ancora fortunatamente trasformata in una ragione che potrebbe immobilizzarlo in un’affettività «monogamica» più forte della vita stessa: qui, la forza della creazione in atto, la forza vitale delle immagini che popolano il suo immaginario, convinto com’è di una molteplicità necessaria dei desideri espressa tramite il tema ripetuto della fascinazione, del desiderio per la costellazione delle «figure femminili», dell’accecamento e del soggiogamento, fino al tentativo ossessivo di capire «quale sia il suo rapporto con loro». Forse egli considera che le strutture sociali, da sole, comportino questa dipendenza del femminile dal maschile, il quale lo mantiene nei solchi di una lettura inserita nella doxa culturale. In ogni caso, Guido non è ancora pronto a sacrificare valori che sente, pro e contro tutto, come una vera ragion d’essere, almeno sul piano della propria materia creativa. Nasce l’affabulazione e, al contempo, la sua negazione: la modalità baudelairiana del «lusso, calma e voluttà» si trasforma in un’interpretazione in contro-verità dell’«ordine domestico» e della «voluttà quotidiana», che può solo rimodellare secondo una modalità borghese gli elementi semantici di un Sade o di un Fourier, o la teorizzazione tra padrone e schiavo necessaria a questo genere di formulazione. L’unica possibilità che si offre a Fellini è quella di trattare questa condizione con un umorismo che insista sul suo carattere puramente immaginario, irrealizzabile nella pratica del «piano reale», e volto da un lato alla disfatta davanti alla logica delle cose vissute, ma dall’altro alla sua teatralizzazione estrema. La scena dell’harem – e, in modo impercettibile, l’intero film – ripete i numerosi percorsi già attraversati nella ripresa dei temi di un altro sogno, quello del teatro di varietà o, piuttosto, quello della sua scomparsa, proprio in quegli anni, dalle scene italiane.22 Avviene comunque una trasformazione, anche se, nei due ultimi film, la configurazione dei comportamenti relativi ai due sessi resta identica. Si tratta, più esattamente, di un transfert – elaborato a partire dalla massa all’opera, grazie alla folla fatta opera –, un transfert dal corpo della donna al corpo dell’opera. L’autore descrive l’opera e la donna assorbendo, nel medesimo gesto, l’impotenza nei riguardi dell’una e dell’altra, nei riguardi dei due corpi che si sottendono e che accedono all’enunciazione espressiva più completa della loro potenza. Il corpus dell’opera e il corpo della donna finiscono per coincidere e confondersi. Da qui in poi non ci sono elementi, se non originati da uno strappo, che possano dare singolarmente ragione, sul «piano reale», a una qualsiasi di queste donne. Questa «ragione» implicitamente indiretta, che colma il desiderio, non potrà venire, in definitiva, se non dalle donne stesse, unite in una volontà comune di ri-conoscenza verso la creazione, cioè verso colui che dovrebbe elaborare e far funzionare questa riconoscenza.23 La comparsa di questi impedimenti rende necessaria la descrizione in immagini del femminile e impone a Guido di guardare una dopo l’altra le donne che in mille modi diversi appartengono alla sua realtà e alle virtualità che, riguardo a quest’ultima, chiedono costantemente un rinvio. Descriverle in quello che mostrano, e in quello che lui percepisce e desidera da loro: pur sapendo che questi diversi punti di vista appartengono soltanto a lui e che si crea, durante le descrizioni, un terzo piano ottico e sensibile, quello di una ricezione affettivamente sintetica. Tale descrizione è poetica, crea turbini-densità che saranno consumati e tenta, ma senza davvero volerlo, di rispondere alla sollecitazione di un tema culturale antico divenuto, nella semplicità della domanda che pone, un tema creatore: «Où sont les dames du temps jadis?»,24 quelle che, nella forza del loro presente, ricoprivano dimensioni
mitiche – come nella vicenda Anita Ekberg o Marcello Mastroianni in cui si esasperano gli «interpreti» fino a farne degli «attori». Il sistema di passaggi ripetuti, elaborato per Anouk Aimée – e in altri film –, si applica anche per le altre donne, con l’obiettivo di descrivere caratteri e non caratteristiche. Allora Magali Noël diventa Sandra Milo25 – entrambe in rapporto di complicità erotica con Marcello-Guido – e Carla potrebbe essere una delle variazioni piccolo-borghesi di Maddalena. Le tipologie sembrano in un primo tempo emergere dalla casualità della folla, in una confusione dalla quale si distinguono linee individuali che seguono il loro corso, prima di finire con l’essere ordinate secondo regole seriali: donne comuni che lavorano alle terme, donne clienti dell’hotel che passeggiano o danzano, nella ripresa di linee fluide, habitué delle terme e delle pellicole di Fellini, donne giornaliste o mogli di giornalisti, donne che cantano, donne innamorate di uomini più vecchi – la relazione di Barbara Steele, strappata alle belle serie di Bava, con Mezzabotta permette anche di insinuare un’analisi-rappresentazione delle scelte esistenziali offerte a Guido26 –, donne del seguito di Luisa di cui una, Rossella Falk, fa da mediatrice nella querelle coniugale, ma anche da contrappunto all’intellettuale francese, donne quasi mute nel mormorio dell’infanzia. Donne starlette che accompagnano l’entourage di Guido – soprattutto il produttore – in sviluppi ulteriori di situazioni che, sul «piano reale», finiscono a volte per somigliarsi. Donne attrici – tutte, ovviamente – di cui una è l’interpretazione particolare: Madeleine Lebeau, nella sua ricerca che diviene rimprovero, Madeleine Lebeau e la sua leggendaria e frivola bellezza. In questo catalogo si distingue un’immagine di splendore, Caterina Boratto, che non recita alcun ruolo, a parte il suo. Immagine pienamente percettibile, percepita, da lontano, emerge, come un Magnificat, nell’estasi di una memoria di immagine fuori dal tempo: una delle donne più belle della filmografia italiana anteguerra, quintessenza – come si dice – del femminile nella gamma delle sue fatalità,27 è «mostrata» in 8 ½ come la statua animata più bella e inavvicinabile della scenografia dell’hotel. Caterina Boratto corrisponde, in questo film, a quello che sarebbe potuta diventare Anita Ekberg: un attraversamento del tempo, un divenire delle cose; deve essere interpretata in un «anywhere» baudelairiano, affetto puro della cosa in quanto tale, bellezza misteriosa, come un altrettanto baudelairiano «sogno di pietra». Bellezza che incarna in immagine tutti i passati di questa immagine fatta opera, la sua storia dimenticata, le sue perfezioni, evanescenti e precise al contempo – e incarnandoli, li transustanzia, verbo fatto carne e pura superficie data in dono all’immagine. Senza parole, come nel silenzio della fontana di Trevi, quest’ultima è captata, distante, «in fondo alle solitudini», nella perennità di una Venere di Milo giunta fino alla soglia di Era e alla perfezione del suo letto, segreto che si muta in mistero, Sibilla o Costanza delle allegorie pagane o cristiane, figura, luminosa e oscura, della fatalità della donna, dell’eterno femminino, lei, da sola, parata di tutti i femminili: purissima bellezza della donna. Inoltre, attraverso le cinque pose che nel film compongono la sua storia, diventa evidente che Caterina Boratto è già nel ruolo che Madeleine Lebeau è in attesa di recitare e che non reciterà mai, dal momento che è già stato recitato in un’altra linea del film, quella della risacca che avanza. Come Madeleine Lebeau, tutte le giovani donne del film gireranno i provini per i ruoli di «Luisa» e di «Carla» e non supereranno questa fase, sia perché si rivelano inadeguate rispetto alle attrici che devono reinterpretare, sia perché Anouk Aimée-Luisa e Sandra Milo-Carla sono già state quei ruoli, nell’altra direzione della linea di risacca, quella che arretra.
Al di qua di tutte, su una traiettoria parallela a quella di Caterina Baratto, Claudia Cardinale, Claudia. Come Anita attraversava La dolce vita, Claudia attraversa 8 ½ da un capo all’altro, pur essendo presentata come colei che non reciterà mai il suo ruolo nel film a venire o, piuttosto, come colei che non recita se non in qualità di attrice cinematografica: in un certo senso è nella stessa condizione di Madeleine Lebeau, il cui personaggio, come abbiamo visto, è interpretato da Caterina Boratto, riassunto però in un unico personaggio-immagine; Claudia Cardinale potrebbe anche essere il lato «giovanile» di quest’ultima, di una bellezza già destinata al mito. Claudia – personaggio – è quindi tutto quello che le altre donne non sono: un’immagine di tranquillità, senza domande, l’immagine di una vitalità senza rumori, senza eroismo, immagine di dolcezza silente e «infermiera» che fa sognare l’immaginario maschile. È lei la più vicina, nella sua attualità, alle donne dell’infanzia, antica, di razza, efficace nelle sue tenere attenzioni, nella pienezza della sua avvenenza, qualità che mancano alla fisicità e al carattere di Luisa, o che in lei si compongono diversamente, come il suo vigore manca alla morbida Carla. Quando Claudia arriva sul set, la parte che la riguarda è stata già filmata: scena nel bianco delle terme in cui dà da bere a Guido, scena nel bianco dell’hotel in cui gli fa il letto e si addormenta accanto a lui, scene di un desiderio pacificato, amante, che evocano l’abbandono nella fiducia. Le resta soltanto una scena per chiudere la serie a lei destinata. Prende allora corpo, questa volta, attraverso la creatura che diventa creazione: alla finestra di una vecchia villa medicea, una sagoma antica, kore virginale, di bianco vestita, accende una lampada, compie pochi semplici gesti, come in un quadro di Vermeer: resurrezione di un’incandescenza perduta. In una lettera a Brunello Rondi, Fellini immaginava così il tratteggio essenziale del personaggio: La ragazza delle terme. Immaginati Claudia Cardinale, bella, giovanissima ma già matura interiormente, solida, un’offerta di autenticità che il protagonista non sa più accettare. La prima volta vediamo di questa ragazza soltanto la mano che dal fondo della sorgente porge al protagonista il bicchiere colmo di acqua fumante. Poi gli occhi che guardano dritti in faccia e sorridono, e il protagonista sente senza equivoco che quella ragazza potrebbe essere la soluzione di tutto…28
Proprio a Claudia Cardinale attrice Guido darà le risposte che non ha mai concesso a Madeleine Lebeau, come se desiderasse – nell’abbandono della fiducia – fare il punto della situazione con l’unica che prima non gli ha fatto domande. Così come appare, Claudia passa e scompare; singolarità non condivisa, non farà parte delle donne dell’harem, ma la rivedremo solo nel gran finale. * Fellini non vuole pervenire a «un’idea» del femminile, ma alla trascrizione dell’immagine più completa che le sensibilità del maschile e della classe sociale di quell’epoca compongono. Anche la sequenza della casa-harem diventa «inevitabile», secondo le parole dello stesso Fellini.29 Emerge «come se fosse evocata dalla concentrazione del suo pensiero»,30 subito dopo la fine dell’incontro da «operetta» tra Luisa e Carla, nel quale veniva sperimentata la possibilità mentale di un’amicizia tra le due donne. L’immagine dell’improbabile incontro precedente è così sviluppata, per saturazione mentale, in qualcosa di ancora più paradossale: riunire nello stesso luogo chiuso tutte le figure amate, conosciute, immaginate, previste. È una fantasia, una «proiezione» che riunisce la folla dei ricordi personificati in altrettante silhouette, in gesti, in
andature, in singolarità, quindi, la «confusione» non ancora sbrogliata che abbiamo incontrato nel percorso. La sequenza scivola sullo spartiacque dell’umorismo e dell’autoironia: come in un presepe, oppone un esterno gelido e innevato a una grotta protettiva, avvolgente, il luogo delle scene d’infanzia. Venendo da questo freddo, ancora sospinto dall’aria da operetta di Nino Rota, Guido, che ha l’aspetto di un giovane Babbo Natale, circondato dalla freschezza dei fiocchi di neve e con le braccia piene di regali, è subito accudito dalle donne. Distribuisce regali, baci, carezze, in un clima di affettuosità generale in cui il foxtrot scandisce i movimenti su accordi d’intesa perfetta fra tutte le donne, piene di comprensione e di tenerezza, intente a ricevere un compagno gradito che torna dalla giornata di lavoro. Mentre risolve qualche piccolo problema quotidiano e distribuisce i regali, le donne iniziano a togliergli il cappotto, la sciarpa, i guanti, lui resta in abito scuro, camicia bianca, bretelle, una figura che evoca con simpatia un uomo ordinario mediamente bello; corrono a scaldargli le mani, lo mettono a suo agio. La melodia si mescola a suoni più cadenzati – il mambo del ricordo della Saraghina –, appare una danzatrice nera, immagine strappata a una Saraghina molto giovane, che accenna passi identici a quelli dell’originale; le donne lo aiutano a farsi il bagno in una tinozza immensa, come nelle scene dell’infanzia felice. L’harem è allora al completo, tutte le donne che hanno sfilato nel film, eccetto Claudia, sono lì, pronte a esaudire i suoi desideri: lo asciugano, lo cospargono di talco, i dialoghi fluttuano come veli e piume che la musica e il movimento diffuso fanno danzare. Una hostess «nordica» immagina persino una sosta notturna a Copenaghen e avvolge tutti nella polvere di stelle della sua voce. Viene messo a letto, ammantato come un Cristo deposto dalla croce e come nel Gesù portato al sepolcro di Raffaello. Ma si verifica un incidente: l’harem è retto da un regolamento che Jacqueline Bonbon, ex ballerina di music hall, si rifiuta di rispettare. Non vuole raggiungere le più anziane al piano superiore, dove, anche se trattate bene, non hanno gli stessi diritti delle più giovani. L’aria della Cavalcata delle Valchirie tuona e sommerge le altre musiche; esplode una rivolta, capitanata all’inizio da Madeleine Lebeau. Quasi tutte adesso ritengono che questo sistema generi ingiustizie inammissibili e sessiste. Donne, amanti, amiche passano, in pochi istanti, dall’intesa a rivendicazioni sempre più decise. I turbini-densità musicali che reggevano la scena dall’inizio della sequenza si fanno più violenti, senza concessioni. Appare un femminile di Baccanti, vorticoso, volteggiante, in una scena premonitrice della grande sfilata delle prostitute nel bordello di Roma. Guido è costretto allora a ripristinare la calma a colpi di frusta, imitando un domatore da circo in asciugamano, alle prese con tigri e leonesse inferocite. Finisce per concedere a Jacqueline un’ultima uscita di scena illuminata da un occhio di bue, parte allora un bellissimo numero, l’ultimo accordo di un repertorio che non esiste più, eseguito in un alone di nostalgia in cui il tremore della luce tra un cono luminoso e il buio che lo circonda esalta le linee di chiusura di un tempo e di un’epoca, lo spazio in cui si condensa l’inventario della sua potente esattezza e delle sue goffaggini; e suonano le campane a morto dello spettacolo di «varietà», del music hall autobiografico. Jacqueline Bonbon non canta una canzone triste, ma il suo numero di entrata, il cavallo di battaglia, Paris est une blonde…, prima di salire, sostenuta non da due boys, ma da due donne anziane, l’ultima scalinata della sua carriera, senza più poter chiedere conferma sulla sua bravura nel scenderla. A poco a poco torna la calma, una serenità che invita alle confidenze del dopocena. Guido dice allora a se stesso, ma è come se parlasse alle donne che lo circondano: Mi sembrava una situazione così divertente! Pensavo che potesse essere la parte più buffa della mia storia. Avevo anche preparato un bel discorsetto da fare qui a capotavola… avrei detto così: «Mie care, la felicità consiste nel
poter dire la verità senza far mai soffrire nessuno». Carla avrebbe suonato l’arpa, come tutte le sere, saremmo stati contenti nascosti qui dentro, lontani dal mondo… voi ed io. Ma cos’è che non va? Perché questa tristezza? 31
Forse ogni forma di disordine, anche il più delicato, o umoristico, o paradossale, comporta un ordine che lo circoscrive e lo soffoca; o forse è impossibile perseguire una fantasia fino al punto più estremo, per via delle strutture culturali ripetitive che le fanno da schermo. La scena dell’harem, significativamente, si chiude con un piano lungo su Luisa rasserenata rispetto a Guido – ma la fantasia appartiene solo all’animo di quest’ultimo, che, rendendola ancora una volta paradossale, pacifica così la loro relazione. Coperta con uno straccio, sparecchia e lava il pavimento in un monologo che tesse l’elogio di quest’uomo così dolce e così comprensivo… In realtà, dietro l’umorismo dispettoso che regge da solo la scena, spunta l’idea che esistano una dolcezza e una comprensione reali in Luisa, che soltanto Guido conosce e sa restituire attraverso la descrizione che ne fa su una linea che non può più appartenere al «piano reale». E in fondo alla scena, in questi baccanali in cui trionfa un Guido disperatamente mascherato da Dioniso, rimodellato da una deposizione dalla croce per opera delle Marie e delle Maddalene, si configura anche il fallimento della rivolta di un femminile che ha ancora una definizione inefficace, improbabile, forse persino equivoca. Ma questo viene detto da un uomo. * L’importanza della scena dell’incontro fittizio tra Luisa e Carla, come quella della casa-harem, sta nel fatto che operano una liberazione reale nell’anima del personaggio, nella formulazione della sua domanda segreta e della risposta che ha cominciato a darsi: che cosa significa creare? E nella percezione che l’atto creativo non può essere sostenuto né compiuto se non sulla linea dell’immaginario, distanziato da ogni atteggiamento realista, anzi opposto a esso, l’immaginario non è altro che produzione e filtro di realtà disperse, legate tra loro da meccanismi di continuità illogiche. Il presunto percorso del film è allora portato a termine, è condotto attraverso lo strappo necessario tra possibile e impossibile, per insistere adesso su una dimensione in cui lo sguardo inquisitore altrui si dissolve nelle risposte che il personaggio, e lui soltanto, dà al proprio lavoro, alla delusione necessaria alla risoluzione del problema dell’opera e della sua realizzazione. Le immagini sparse si riuniscono in una contiguità possibile, nella percezione di una sceneggiatura che, senza essere scritta, è già stata filmata. Questo superamento della materia scritta come gesto che precede il fatto cinematografico è senza dubbio l’atto più importante del film, sul quale l’autore insiste in modo quasi provocatorio.32 La scena dei giornalieri, in presenza del produttore e di tutta la troupe, è in tal senso una scena di finti specchi che serve a sottolineare quanto segue: queste realtà fittizie, nel modo in cui sono state elaborate a partire da una sceneggiatura, sono letteralmente invisibili, impossibili da vedere; non possono, in ogni caso, dire la realtà, e una critica violenta è rivolta a quello che resta del neorealismo, ai suoi ripiegamenti, a ciò che già annuncia il suo imbastardimento in forma di commedia all’italiana.33 Questa finzione del reale deve venire da altrove, svilupparsi da un altro punto, che non può essere altro che un sé in risonanza. Ma in risonanza con che cosa, con chi? Le scene dell’harem e dei giornalieri non sembrano proporre soluzioni dirette, solo balbettii, accenni di risposte. Segnano invece un punto di non ritorno
per Guido, un momento inedito di riflesso-riflessione: benché ancora sul limite del dubbio, da quel momento deve escludere perché ha già incluso. Si torna al congegno delle domande poste direttamente (Madeleine Lebeau) e delle risposte date indirettamente, per deduzione (le cinque pose di Caterina Boratto), se non fosse che questa deduzione è inserita nel montaggio definitivo dell’opera compiuta. Non si tratta nemmeno più di stream of consciousness, di work in progress, di cinema nel cinema. Si tratta dell’invenzione di un sistema di composizione indiretto libero in cui ormai conta soltanto il montaggio del racconto mentale, il montaggio di una materia filmata in modo da aderire ancora ai supporti – le immagini vive – in quanto segni e riferimenti di elaborazione che, nell’effettività di quello che viene fatto, eccedono proprio ciò che le fonda in quanto discorso. Da questo punto di vista – quello dei segni e dei riferimenti – non siamo più in categorie di segni che – come accadeva nella Dolce vita – indicano avanzamenti, che definiscono situazioni. È forse anche il momento in cui Fellini sembra distaccarsi dalle serie, quelle meno immediate, e di conseguenza la designazione di una «storia», di una «narrazione», perde qui ogni necessità: il film non è qui, perché, al contrario di quanto il «piano reale» sembra lasciar apparire, questo film non gioca sulle interferenze di un’individualità che interroga le situazioni cercando le risposte, è un film che parla da solo e si parla addosso. Il riflesso-riflessione, mostrato più volte, sottolinea in modo maniacale questa attitudine della materia filmica a riflettere sulla elaborazione, e a rifletterla non in «negativo», ma nella sua maniera specifica di «positivo» di pellicola rivelata. La sovraesposizione dell’immagine, che sfiora costantemente il «negativo», non è più il vettore del senso, ma procede al contrario verso una perdita di senso, uno smarrimento, che, coincidendo con gli assiomi già enunciati – riferimenti, segni –, scarta ogni assegnazione-significazione di segni e rielabora la visione di una «pienezza» possibile in quanto «rivelazione» di un semplice contorno, di uno schizzo, di una sospensione attenta del possibile. In maniera sottile, il film ha tessuto una rete di piccoli strappi, che corrispondono in parte a queste impressioni sulla pellicola la cui colorazione differisce dalle sequenze del «piano reale». Quella dell’harem, che segna senza dubbio il momento di svolta del film,34 è seguita da una serie di altri piccoli strappi nella sequenza dei giornalieri, in cui sono descritte incomprensioni e collera, collera sorda della produzione, collera sorda di Guido che fa impiccare «l’intellettuale» – e la scena è filmata come se si trattasse di un «piano reale» e non di un desiderio irrealizzabile –, collera non trattenuta di Luisa che lascia la sala. Alla sua partenza segue l’arrivo pacificatore di Claudia e la lunga conversazione tra lei e Guido, in cui tenta di dare un equilibrio, benché sembrino incompatibili a prima vista, alle forze irriducibili che percepisce possano essere in gioco. È Claudia che pronuncia, al termine del loro dialogo, le parole necessarie a dissipare i dubbi: «Perché non sa voler bene…»
Espressione che fa scattare il riflesso-riflessione di Guido: voler bene a che cosa, voler bene a chi? E che farà mettere in moto, in seguito, come una risacca, il riassorbimento degli strappi in altrettante rivelazioni. Ma deve prima di tutto andare in fondo allo strappo fondamentale, almeno sul «piano reale», ovvero chiudere definitivamente con il produttore. Come nella scena dell’harem, tutto è determinato dal crescendo del movimento, non più nella fretta di un desiderio di pacificazione, ma nell’espressione di una lotta accanita contro tutti quelli che, dall’esterno, non hanno saputo percepire il corso segreto di un film che parla da solo e che si parla addosso. Tutto si propaga dalla moltiplicazione delle velocità: se la conferenza stampa
organizzata dalla produzione riassume quelle già sviluppate nella Dolce vita, l’intervista è qui afferrata nei turbini-densità delle domande, degli equivoci, dei ricatti e delle minacce, delle risposte impossibili. Impone la prova di un’ultima difficoltà di attuazione tramite le realtà della cosa da fare dal punto di vista di quelli che si situano all’esterno, e questa sequenza mette a punto l’immagine definitiva di un riflesso-riflessione sul tavolo di vetro al quale è stato trascinato Guido. L’unico ripiegamento che prende in considerazione è ormai il suicidio, è imprigionato come in una gabbia dalla sua fuga sotto i tavoli e dalle striature bianche vetrose, grigie e nere, di una pellicola che lo accerchia e lo tiene legato, del resto fin dall’inizio. Striature, allora, di un’erranza impossibile. Sulla rottura con la produzione e sullo smantellamento della torre di lancio dell’astronave – luogo comune nell’immaginario dell’epoca, già caduto in rovina – si esaurisce il «piano reale» del film. Il film è finito. All’impossibilità di fuga della prima sequenza deve ora rispondere il vero finale del film, che rivela la sua conclusione. Ma per questo bisognerà che Guido riassorba, in un ultimo movimento di risacca, tutto ciò che è stato costituito in termini di strappo e lo muti in una rivelazione finale che soltanto l’apparizione del mago della sera al night permette di ricreare. La creazione è allora come un atto magico che, invece di condensare il tempo e lo spazio, li rarefà, li annulla, li fa sorridere cancellando le meschinerie della storia, e quello che appare non ha più bisogno di essere giustificato o giudicato. Le cose sono lì, basta avere la sensibilità di comprenderne completamente la vitalità affettuosa, la simpatia innamorata. Nel momento di più grande sconforto, le immagini, che all’inizio si facevano folla muta e ostile, sfilano di nuovo adesso, nel presente di Guido. Tutte: suo padre, sua madre, Luisa, Carla, Jacqueline Bonbon, la dolcezza ritrovata di Anouk Aimée, tutte, ognuna legata alla complessità di quello che sono state, e tuttavia liberate dall’opacità di aver potuto rappresentare qualcosa che apparteneva soltanto a loro, immagini certe di un ego che desiderava dare loro proprio quell’espressione, che mostrano ancora, ma senza prostrazione né dolore. Ecco, forse è questa la creazione: riconoscere in ogni dettaglio che compone le immagini il senso – forse persino i significati, ma al di fuori di ogni storia – attribuito a ognuno, i volti e i gesti dati a una folla all’inizio balbettante e irrisolta, divenuta ostile; aver fatto dell’individualità di ciascuno qualcosa che adesso è comune. Sapere perché si amano queste creature e riconoscere allora che la creazione è le sue creature, l’intesa amorosa che si crea fra l’individuo e l’altro da sé. È Guido che parla, nei riverberi di una bellissima confessione-poema: Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa, dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo. Com’è giusto accettarvi, amarvi, e com’è semplice! Luisa, mi sento come liberato, tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero… ah… come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere, e non mi fa più paura. Dire la verità, quello che non so, quello che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro, Luisa, né a te né agli altri… accettami così come sono, se puoi, è l’unico modo per tentare di trovarci.
Allora tutto è pronto: il grande sipario teatrale che è la vita si apre sulla stessa folla che occupava ossessivamente la prima sequenza – e la sequenza dei bagni termali –, ma allora ognuno rimaneva chiuso nella propria corazza egoistica. Adesso si riunisce in una confusione melodiosa, mentre scende la lunga scalinata di una vita nuova, nella composizione di una sfilata che, seppur maestosa, non smette di disperdersi nella sua grazia, nell’aria di una conversazione musicale senza inizio né fine, cori di angeli di Giotto e paradisi laici ritrovati in un unico gesto che raccoglie tutte le linee che si credevano perdute e le sparge in un fiume rutilante, in cui il
bianco ridiventa luce, e colore, e profondità vuota e cava del teatro, di tutte le ultime scene del teatro di varietà, dimenticato e perduto, cavo e vuoto come era, nel suo silenzio palpitante, il teatro scenico nello stillare della fontana di Trevi, e Guido, ancora una volta domatore, dirige un ultimo tempo musicale, il quale dissolve il grande equivoco che avrebbe potuto essere la scena dell’harem se non fosse stata, nei tempi del film, quella che gli avrebbe permesso, nella sua gioia dionisiaca, di creare la scena stessa. Il circo, infine, la prima rivelazione in Fellini della voglia di creare, già annunciata altrove:35 la folla si dispiega su una passerella in una linea di orizzonte circolare, parata e sfilata proseguono in una coralità che rende omaggio a tutte le altre sfilate, a tutte le altre linee che le hanno precedute. Il giorno sprofonda di colpo. Sul bianco, la notte distende la sua veste nera e luminosa, la musica unisce i due colori in una stessa sinfonia scintillante: il cono di luce di un ennesimo occhio di bue, omaggio a Jacqueline Bonbon, ruba un’immagine d’infanzia, infanzia del circo, infanzia di 8 ½ inghiottita nella notte brillante dello spettacolo.
V
COME SFIORARE IL REALE QUANDO IL REALE SFUGGE, O GIULIETTA DEGLI SPIRITI. MITOLOGIE DEL MASCHILE E IMMAGINI DEL FEMMINILE NELLA DONNA. L’ETEROSESSUALITÀ O L’ALTRO SESSO DALLA PARTE DELLE DONNE. PRIMI NUCLEI DI UN TEMA CHE SARÀ RIPRESO PIÙ AVANTI (LA CITTÀ DELLE DONNE). LA CADUTA DELL’IDEALE E IL RIFUGIO DELLE IMMAGINI: STORIE DI RELIGIONE O LA RELIGIONE COME OPPIO. LA RELIGIOSITÀ, LO SPIRITO E IL SACRO. UMANO, TROPPO UMANO: NUOVA APPARIZIONE DEGLI ANGELI. ANGELI O DEMONI? LA GRANDE DEFINIZIONE DEL COLORE: IL COLORE DEL CINEMA, IL COLORE DEI SOGNI, L’IMMAGINE DEL COLORE. IL RITORNO DI GIULIETTA MASINA.
Per un tempo abbastanza lungo si vede Giulietta soltanto di sfuggita, e sempre di schiena, come se l’immagine volesse sottrarsi a se stessa o non fosse ancora pronta a mostrarsi: due giovani donne di servizio la assistono negli ultimi preparativi della vestizione per una cerimonia intima che dovrebbe essere celebrata in occasione del suo quindicesimo anniversario di matrimonio. Alcune candele accese immergono la scena nell’oscurità, la velano di un’ombra da cui le cose emergeranno poco alla volta. La casa è percepita attraverso tagli decisi, specchi che restituiscono immagini oblique, aperture in cui si distinguono i volti tranquilli delle domestiche sorprese in espressioni interrogative, di curiosità. Solo quando arriva il marito, Giorgio, appaiono prima il volto, luminoso, e poi la figura di Giulietta. Lui ha dimenticato la ricorrenza ed è accompagnato da amici che improvvisano una seduta spiritica per invocare due spiriti, Iris e Olaf, di cui non si conosce la natura benevola o malevola. Inizia così Giulietta degli spiriti,1 rivelando il tema del film, la storia di una donna che riconosce e ritrova se stessa soltanto nello sguardo del marito. La trama si lega fin dall’inizio a questo rapporto, il momento narrativo scelto è quello in cui questo sguardo viene meno e in cui ciò che fino ad allora era stato certezza si trasforma in turbamento e dubbio. Come confesserà lei in seguito a Susy, la sua vicina, in un momento di sfogo: Il matrimonio, ho sempre creduto che dovesse essere così: io, tutta per lui, e lui, tutto per me. Quasi mi vergogno a dirlo, ma Giorgio è stato il mio primo amore, come l’ho visto me ne sono innamorata, e non ho desiderato altro che vivere con lui, e quando mi ha chiesto in sposa, ero così felice che quasi non ci credevo. E lui è diventato tutto il mio mondo, il mio sposo, il mio amante, mio padre, il mio amico, la mia casa… Ecco, io non avevo bisogno d’altro, pensavo che così era giusto, ed ero felice.
La ferita che si apre in lei – e nella quale si insinuano, come segni che dovrebbero fornire risposte, gli spiriti buoni e quelli malvagi – è fatta prima di tutto di sensazioni e di impressioni, poi di sospetti, infine di certezze: suo marito la tradisce con una modella, Gabriella, che sappiamo solo essere bellissima ma che non ci verrà mai mostrata. All’interno di questo breve percorso tra dubbi e certezze, il film sviluppa le sue situazioni; la tensione raccontata si inserisce tra le pieghe di un mondo e di una vita che Giulietta si era cucita addosso per permettersi di non aver «bisogno d’altro». C’è una donna costretta a rimettersi in discussione in un momento preciso della vita, senza
mai accusare direttamente il marito, o caricarlo di una qualsivoglia colpa: una tranquillità che non coincide per forza con la vita, ma che rende tutto vivibile. A tal proposito, la scena in cui, alla fine del film, Giorgio finge di partire per riposarsi e in cui Giulietta lo segue nei preparativi, non indica l’assoggettamento del femminile coniugale al maschile, ma piuttosto la possibilità di una diversa formulazione delle cose: non c’è niente da discutere sul comportamento dell’«altro», perché la problematica sviluppata appartiene unicamente a colui che avverte lo stato delle cose come un punto ormai critico e diventa, proprio per questo motivo, la chiave di volta di una nuova riflessione, di una riformulazione delle certezze, della ricostruzione di un mondo che sarà necessariamente diverso. Nell’assenza di rapporto e di discorso tra i due coniugi, un insieme-coppia che dovrebbe avere «delle cose da dirsi», si svela il punto di rottura della sceneggiatura di Fellini. Un essere, il marito, compìto fino all’astrazione, che non manifesta alcun moto affettivo o passionale, e poi lei, con le pulsioni emotive che la tormentano, ma che la obbligano anche a ritirarsi nel silenzio di una ricerca che deve attraversare i territori e le tappe delle sue disfatte e dei suoi dolori per rinascere, per riconoscere territori e tappe come nuovi punti di riferimento. Questo aspetto non viene sottolineato con chiarezza nel film, né comunque formulato attraverso le parole, ma manifestato da uno stile di ripresa il cui effetto sottrae una parte dell’immagine alla percezione, scava un’assenza in cui volti e corpi sono espressi tramite quello che mostrano di illeggibile in loro, come paesaggi di cui non si riesce a leggere il disegno, la conformazione. Questo risparmia a Fellini la necessità di immergersi nell’universo delle relazioni psicologiche, perché sa che sono falsate dalla carenza di parole che dovrebbero renderne conto; il problema non è mai banalmente considerato dal punto di vista dell’età dei personaggi, come non è mai una pura questione di sessi opposti, né di rapporti di compatibilità. A partire da questa «chiarezza» non equivoca – riaffermata nel corso di tutto il racconto, e che funge da premessa – il film si avvia verso qualcosa di più complesso, lo spirito di Giulietta, creando uno scarto nella parola stessa. Gli spiriti sono i nuclei spirituali che ne fanno un personaggio «totale», modellato dalle sue debolezze, dalle sue forze sensibili ed emotive, mediante la messa in scena di uno stato di «stupore» non tanto rispetto a ciò che presagisce, ma a ciò che non è mai riuscita a «vedere». Si tratta di percorrere questo labirinto di sbalordimenti, di visioni misconosciute di cui deve prendere coscienza – Giulietta racconta la storia di un labirinto alle sue nipoti –, di sondare le numerose pieghe, forme e modalità che intravede per la prima volta all’interno di insiemi ottici compositi di cui prima non aveva la minima idea, chiusa com’era all’interno del «marito-casa». Fellini mira a far apparire queste spiritualità nella loro forma primordiale, nella loro apparenza originale di immagini, a volte illeggibili, che si compongono a nostra insaputa, di cui si riesce a stabilire a volte il senso generale, ma di cui ci sfuggono sempre i dettagli, i raccordi, le sintesi reali, in una parola, l’efficacia. Vuole anche comprendere per quali ragioni queste spiritualità emergano in certi momenti e non in altri; e trasformare i mostri – nel senso di ciò che viene mostrato – in altrettante creature legate a una necessità, organizzando il paesaggio del nostro corpo in una geografia in cui l’armonia convive con masse e materie soffici e sfuggenti, dure e ottuse, ma che si presentano sempre come prove. Non si parla di sogni né di fantasie né di incubi, ma di immagini che possono apparire «appena chiudiamo gli occhi». Fellini riprende il tessuto costitutivo di quanto ha già elaborato
con 8 ½ e riesce a mettere in scena lo scrigno delle immagini, o delle visioni, che le fluttuazioni del nostro spirito ci portano a creare in funzione di momenti specifici dell’esistenza. Queste visioni sono allora come altrettanti specchi, opachi o trasparenti, che vengono attraversati: in tal senso, Giulietta si avvicina a una Alice nel paese delle meraviglie o a una Psiche, innamorata di Eros, che si riscatta dolorosamente da quello che ignora e che la spinge a sapere. * Se esiste un risvolto autobiografico, è indiretto e non ha nulla a che vedere con Giulietta Masina, semmai con lo stesso Fellini, nel rapporto di complicità e di lavoro con l’attrice che è anche sua moglie. Lo spiega così: Il personaggio che più la rappresenta, nel quale Giulietta si è più oggettivata, mi pare quest’ultimo. All’inizio è stato un problema serio togliere, non da lei, ma da me, i sorrisi, i pallori, le occhiate da cagnolino sperduto di Gelsomina e di Cabiria, personaggi cresciuti dentro di me e ormai sovrapposti a lei, cinematograficamente parlando: l’operazione di toglierli di mezzo senza cancellarli completamente, cioè salvando quel tanto di Gelsomina e di Cabiria che c’è in Giulietta donna, è stata un’ossessione.2
E in effetti, diversamente dalla relazione ancora stretta tra Gelsomina e Cabiria, qui non sussiste più nulla che possa determinare un rapporto di continuità con queste figure. Giulietta rappresenta un ruolo a parte, e se si dovesse a ogni costo assegnarle un contesto, sarebbe più giusto evocare un filone che va da Emma a Giulietta, la quale ricorda solo alcuni tratti di Luisa, legati al semplice fatto che sono, sia l’una che l’altra, tormentate dai dubbi. Più che nei contorni individuali, i punti di appoggio risiedono in un certo numero di situazioni-discorsi accennati nella Dolce vita, in insiemi definiti all’interno di una struttura sociale. Rimane l’analisi di uno stesso ambiente: la Giulietta-coppia è circondata da un gruppo di facoltosi, all’interno del quale nessuno sembra essere impegnato in un lavoro. A parte Giorgio, che si occupa di non meglio identificate relazioni pubbliche, gli altri svolgono attività più o meno artistiche, come la scultrice; per il resto, tutto viene lasciato nell’approssimazione. Un avvocato, un nobile spagnolo in viaggio, alcuni psicoanalisti, una piccola folla di personaggi la cui definizione sembra dipendere dagli sviluppi del film: ci troviamo di fronte a un mondo ricco, i cui membri passano il tempo affaccendati in una quantità di esercizi mentali in forma di conversazioni dove si parla solo del più e del meno. Un mondo simile a quello scoperto a casa di Susy, la vicina la cui esistenza sociale si inserisce nel contesto relativamente complesso di una vita all’insegna dell’erotismo, del libertinaggio e della lascivia, che la donna pare accettare perfettamente, e che può sembrare un’antitesi di Giulietta. Detto questo, è un mondo che rappresenta per quest’ultima un modello antitetico e, al contempo, una possibilità di evoluzione. I due mondi, quello degli amici e quello sconosciuto di Susy, appaiono entrambi nello stesso autocompiacimento, immersi nell’incapacità di desiderare davvero qualcosa, ed esprimono i loro eventuali desideri attraverso una rete di simboli svuotati di ogni forza dinamica. Opposti l’uno all’altro, sono peraltro messi di fronte a colei – Giulietta – che detiene il potere segreto di sapere qual è l’oggetto del suo desiderio, o che almeno sa porsi questa domanda. In tale contesto, che cosa fa Giulietta nella vita? È sollecitata unicamente dalle sue funzioni di padrona di casa, del «marito-casa» appunto, in un rapporto stretto con le due cameriere,
dalla gestione rigorosa di un luogo-casa luminoso, tuttavia intimo e segreto, da cui traspare un ordine molto geometrico, un agio confortevole e di buon gusto, circondato da un giardino curato nei minimi dettagli in cui si muovono due nipotine sorvegliate da una tata francese. Il luogo è completamente recintato – un’orchestrazione dalla Dama e l’unicorno –, l’esterno può entrarvi a suo piacimento, l’interno si definisce con la sua spazialità di paradiso domestico, per la sua dimensione di felicità dai confini controllati e disegnati con precisione. Questa logica della perfezione ideale governa anche i rapporti di coppia: la rispettosa compostezza con la quale ci si siede o ci si sdraia l’uno accanto all’altro, gli atteggiamenti affettuosamente attenti o distaccati, una vicinanza fatta di abitudini divenute raffinate e neutre, senza enfasi né conflitti. Sembra tutto organizzato dalla sensibilità di Giulietta, al fine di lasciar esprimere le possibili effusioni di Giorgio: in rilievo, come punto di raccordo o di rispecchiamento tra i due, c’è uno schermo televisivo spesso acceso, che trasmette consigli di «benessere» e di «felicità». Tuttavia, l’attesa serena di Giulietta, in questo mondo in cui l’attesa è un ricamo – e in cui anche i peperoni diventano collane –, è tanto più vana in quanto suo marito non sembra particolarmente emozionato da questo clima in cui la comodità e la calma escludono senza volerlo la voluttà, in cui sembra difficile lasciarsi andare e mettersi a proprio agio, come se la «casa» fosse ormai vissuta da lui come una funzione fra tante altre – quella di marito, per esempio –, coltivata mediante i gesti meccanici del quotidiano, che escludono le emozioni di una vita più reale. Eppure, questo spazio risuona: la musica di Nino Rota, all’apice della leggerezza, mista al canto dei grilli, degli uccelli, accompagna con dolcezza insistente il filo di immagini che lentamente prende vita. E le sue risonanze sono molteplici. Una, interna, è fatta di suoni felpati, candele accese, passi, ombre, sagome sfuggenti, fruscii, favole raccontate. Accoglie tutte le sonorità più artificiali che arrivano dall’esterno – per esempio, quelle provocate dall’oggetto che porta una evanescente Valentina Cortese, all’apice della forma artistica –, che imitano una natura la cui conoscenza è acquisita indirettamente, attraverso una cultura di suoni-segni, segni e suoni di presenza, di una presenza ipotizzata perché rappresentata attribuendole altri segni: presenza degli «spiriti». L’arrivo di amici inattesi, in questo nido per due, fa deflagrare le sonorità, i gesti incompiuti – i baci amichevoli, per esempio –, il presagio di altre presenze che attirano perché la lettura della realtà non basta più a colmare il vuoto di senso che le incertezze hanno radicato in modo ossessivo e maniacale. Dov’è la realtà? Nell’ordine ideale e immutabile, nell’ordine composito o in questo disordine apparente che non smette di comporre e canticchiare una melodia subdola e ammaliante, che induce a verifiche, a prove ingannevoli? Senza dubbio, più importante è che da questi suoni affiorino naturalmente i pensieri, le parole corrispondenti, i segni, un’infinità di segni, che fanno nascere il desiderio di un accordo affettuoso con una materia di cui non si avverte subito la forza; segni che fanno credere alla possibilità di piegare questa forza a una benevolenza gratificante che impedirebbe, per il semplice fatto di esserci, in questa forma, la volontà di rimettere in discussione la prospettiva di «essere felice». Si fa largo una sorta di paganesimo panteista, tutto vi risuona – oggetti, persone che emettono suoni, corrispondenze –, tutto assume un senso nuovo, che sembra leggibile e pulito come la realtà della vita ricamata. Nonostante questo, l’incertezza e il dubbio persistono, la massa dei segni, a scapito delle infinite possibilità che dissimula, non è sufficientemente leggibile né affidabile, e la diffidenza richiede aiuti altri.
L’altra risonanza è del tutto esterna e assume, nell’economia del racconto, diverse forme. Da un lato la spiaggia, il sole accecante, un accecamento che genera miraggi: al mondo sonoro che la tranquillità dell’interno lasciava propagare si oppone la brutalità di visioni, mute e terrificanti, create da quello che conosciamo delle cose e delle forme, e da quello che ignoriamo di esse, ma che immaginiamo, visioni che assumono sembianze inattese, di cui tuttavia siamo autori e vittime, assoggettate e affascinate. È sulla spiaggia che appare a Giulietta un mondo orrendo, perché incoerente: un vecchio tira una corda attaccata a una zattera, dall’acqua riemergono carcasse di cavalli, bauli o carri metallici che contengono corpi aggrovigliati di cui lei non riesce a decodificare l’essenza delirante. In una seconda fase Giulietta assocerà questa visione a un’altra – quella di una recita di bambini nella sua scuola –, molto dolce all’inizio, poi di colpo violenta. In queste scene siamo posti di fronte a qualcosa di invisibile, di impercettibile, di offuscato, il cui senso è deteriorato – o tale ci sembra –, e che è dunque illeggibile, oscuro, sottratto alle certezze razionali, all’ordine armonioso dei ricami, e che provoca, proprio per questo, lo smarrimento rispetto a ciò che si presume essere il disegno confuso del disordine. La terza risonanza, anch’essa esterna, corrisponde al territorio della vicina, che Giulietta all’inizio incrocia, da lontano, soltanto sulla spiaggia. Un mondo sofisticato dall’eleganza chiassosa e dal piacere raffinatissimo, che trae il suo modello da un’interpretazione coreografica della decadenza e della fine dell’Impero bizantino, e dispiega la sua parata di tende che ondeggiano per la brezza estiva, di imitazioni di schiavi, d’Africa o d’Asia, di lettighe; è una scenografia comunque fuori dal tempo: si fa avanti un femminile dal profumo di resina e muschio – da Giulietta a Susy, la vicina, tutte le donne del film portano cappelli a forma di fungo, guscio, ortaggio, fiore, piccoli o appuntiti o larghi, quasi corolle, che rimodellano una natura sbocciata da suoli umidi –, un femminile leggendario. C’è anche la casa di Susy, che Giulietta percepisce da lontano, senza sapere come sia fatta, cosa vi accada, come se non le interessasse, forse lo immagina, ma solo nella distanza dalla realtà. Il momento della visita a casa di Susy svela un mondo incredibile perché inatteso, in completa opposizione a quello di Giulietta. Tanto quest’ultimo si coccola e sonnecchia nei feltri mordorè dell’ordine e delle sue gerarchie, quanto la casa di Susy appare sin dalla scala esterna come una creazione dell’immaginario: sfingi, gradini, vetrate, sculture, giardino incolto e alberi dai rami aggrovigliati compongono un luogo in cui si può vivere soltanto nella rottura delle regole. Il paradiso per due che è la casa di Giulietta è qui messo a confronto con dimensioni diverse: gli spazi e i corpi che lo animano sono immersi in una policromia barocca dai colori acidi e smorzati, una notte senza giorno. Un altro tipo di ricamo, fatto di languori, di specchi scuri, di pietre sparse e di superfici murarie che nascondono nicchie, di balconi interni da cui si affacciano, come in un disegno di Goya, strane maschere di vecchie un tempo libertine e adesso tenutarie. Un popolino eterogeneo pullula in questo luogo, un popolino che finisce per somigliare alla gente che frequenta la casa di Giulietta: alcuni facoltosi instaurano una gerarchia in questo brulicare di esseri, trasformano l’abitazione in una casa chiusa, un lupanare, un alveare in cui il disordine è strutturato per altrettante funzioni erotiche – tutta un’ars amatoria tratta dalla rilettura degli universi chiusi di Sade da parte di una classe che sa, o ha saputo, riaffermare una nuova maniera di «ben pensare». Un libertinaggio al quale è stata sottratta ogni libertà, senza piacere – né desiderio –, ma di cui traspare la conformità con gli atteggiamenti dell’epoca, il godimento fatto di imitazioni, di remissioni, di compulsioni. Un libertinaggio organizzato nelle biancherie, camicie da notte di cotone, raso bianco di Susy e
farfalle posticce, cosce e seni, schiena e linea delle natiche, piume e parrucche, cosparse di talco, profumate, tinte di un odore di fine Settecento, ridoratura del consumo di lusso. Immagini di una forma la cui opulenza, se non resuscita le epoche passate, non smette comunque di manifestare come quell’epoca, forse la nostra, inventa soltanto ciò che conosce, interpreta solo la sua stessa cultura e le prede «eccitanti» di ciò che è «indigeno», e quindi già addomesticato. Tutta una moda «Africa» o «Asia», arrivata direttamente dai magazzini Harrod’s di Londra o dalla biancheria da letto hollywoodiana, nella quale Susy si muove da padrona incontrastata, fiore sessuale di un paradiso terrestre esibito nell’ostentazione della sua bellezza e delle sue mercanzie, esseri e cose, emanazione di un immaginario costoso, alimentato dal denaro, che sembra a volte dare sollievo a sconforti, ma che in realtà li nutre e li prolunga, accuratamente, come fa, in qualunque Chiesa, l’idea e l’amministrazione del paradiso. Il femminile di Susy è sia animale che floreale: appollaiata sul suo albero, nel suo nidoalveare, è lei l’ape regina dispensatrice di quintessenze, orchestratrice di piaceri, orchidea che perde la scarpetta di Venere, insetto e fiore. Questa linea del femminile e dei suoi luoghi non si ferma qui. Un elemento supplementare si sprigiona dalla linea familiare, dove «un» padre è del tutto assente: la madre e le sorelle di Giulietta, come tre Parche, dalla bellezza glaciale da copertina di rotocalco,3 le rivolgono rimproveri muti, la incitano a prendere decisioni che la sua coscienza rimanda (chiedere l’aiuto di un’agenzia di investigazione e far pedinare suo marito, per esempio). L’attenzione riservata nel film a questa categoria del femminile familiare è particolare: le tre donne non entrano mai in casa di Giulietta, come se non avessero niente a che vedere con la sua vita «interiore», la incontrano al confine, nei sentieri della pineta o nel giardino della villa, come a indicare una transizione tra i mondi delle case contigue. Vestite con abiti a fiori, uniformi nelle differenze, rosee e rose, in una profusione di sfumature tra il vaniglia e il lilla, glicine e tuberosa; una sola, la maggiore e la più dura delle sorelle, porta un cappello che ricorda il guscio di un’arachide. Prestano attenzione soltanto all’esteriorità di Giulietta, soprattutto la madre, che le rimprovera la mancanza di civetteria, mentre una delle sorelle la spinge in modo maniacale a reagire ai dubbi e alla violenza che le viene inferta con l’altra violenza che è la certezza di sapere, portandola da investigatori specializzati in pedinamenti che, effettivamente, sembreranno fornirle gli elementi concreti di una verità. * Ecco l’essenziale. Mondi in apparenza diversi si scontrano, cercano di comporsi nella mente di Giulietta, la quale percepisce che l’evidenza di una realtà-verità, che lei non cerca davvero, è insufficiente e inefficace per comprendere e spiegare lo sconquasso in quel momento nella sua vita. Accanto a questa linea di chiarezza senza luce, alcuni spiriti, magici, forse malefici, prendono corpo e soprattutto voce; è un universo brulicante dietro la facciata levigata delle cose, che impedisce, per sua stessa natura, di «vederli», di «vederne» le immagini. Spiriti invocati che rispondono, visioni di anamorfosi e di ermafroditi, parole ammalianti e illeggibili, formule prese da un sufismo e da un buddhismo caricaturali, importate da un Oriente europeizzato, atteggiamenti e argomenti chiari e oggettivati ma interpretabili in modo diverso nelle serate di Susy, diffuso erotismo delle parole, erotismo dichiarato dei corpi: Giulietta
diventa cosciente della presenza nella sua vita di questo imprevisto, davanti al quale è invitata ad agire e a reagire. E se tutto si intreccia in strani grovigli di cui lei rischia di perdere il filo, è perché deve diffidare dei segni degli spiriti magici come di quelli della realtà-verità. Parte da qui la traversata di Giulietta: traversata delle immagini che si mostrano e tentativo di districare da queste un filo di comprensione. Ci sono immagini che lei non vede, o che non vuole vedere, che appartengono alla sua storia reale – il marito che la tradisce –, e la spingono a cercare certezze in altre immagini. Dalla crepa che si è aperta fuoriescono, come da un passato lontano in cui tutto è netto, altre immagini, quasi originate da un regno dei morti; vi sono associate due serie di immagini familiari all’inizio senza legami, ma che in seguito convergeranno l’una sull’altra. La prima è quella del nonno che si invaghisce di un’avvenente ballerina di circo – il simulacro di Susy –, e vola via con lei davanti agli occhi esterrefatti di una signora, sua figlia, cioè la madre di Giulietta. La seconda serie di immagini rievoca una recita al teatro delle suore e racconta la storia di una giovane santa, interpretata da Giulietta bambina, che subisce il martirio del fuoco per essersi rifiutata di rinnegare la sua fede e ascende in paradiso accompagnata dalla voce di un’amica, che la implora morbosamente di parlare di lei a Dio. Il nonno interrompe di colpo lo spettacolo e si porta via la ragazzina, ancora sotto lo sguardo pietrificato della madre di Giulietta, che sviene. Nella prima ricostruzione appare un corteo di cavalli neri, mentre nella seconda una lunga fila di suore, cupe, minacciose e infide: i volti sono nascosti dai cappucci, come se non avessero volto, o l’avessero perduto, o volessero sottrarlo agli sguardi. Si stabilisce una relazione tra la storia di un nonno libertino-liberatore e quella di una madre austera e punitiva, fallica, e il film sembra suggerire che la perdita di vista da cui Giulietta è affetta sia dovuta allo sguardo che la madre posa sulla figlia, sulla sua vita, uno sguardo glaciale e vitreo, che vieta: deve liberarsi dalla sua dipendenza. Da questo punto di vista la trama di fondo che sostiene tale logica è identica a quella proposta nella Dolce vita e in 8 ½: il paterno è presentato quasi come una liberazione, o per lo meno come una vita vissuta per sé e per gli altri, senza l’ansia delle convenzioni, senza la voglia di creare rapporti di forza. Il materno, invece, si mostra sempre colpevolizzante e, nei processi formativi, alleato di una Chiesa le cui regole corrompono la natura delle cose e la loro interpretazione. È la parte femminile della famiglia che manda Giulietta dagli investigatori, ai quali dettagli e cliché ben precisi danno l’aria non soltanto di poliziotti, ma anche di preti di una Chiesa molto particolare, dalla morale ben oliata, secondo la quale si deve «considerare con distacco» tutto quello che rivelano, dal momento che nulla è «definitivo» o «irreparabile». Giulietta cerca in questo passato ossessivo la possibile origine di ciò che, nel presente, corrisponde all’impasse, per liberarsene, o per ritrovare la visione di qualcosa che è andato perduto. Guidata dalle immagini che l’assalgono a sorpresa, attraversa le immagini del suo presente filtrate da quelle di un paradiso perduto di cui, tuttavia, non sa indicare cosa è andato perduto, come del suo presente di «marito-paradiso» perduto. Durante una visita notturna a casa della vicina, ai volti nascosti delle suore si sostituiscono i volti indistinguibili di un presente di cui lei sembra ignorare tutto, in cui tutto è misterioso, compreso l’amor profano che le si presenta nelle fattezze di un angelo luciferino, a suggerire che l’atto sessuale si tramuterebbe in profanazione. Come potrebbe abbandonarsi a questa semplice libertà dal momento che non è libera né nell’atto di fede verso suo marito, né in questo racconto del passato che diventa compulsivo, devastante? La questione dell’amore libero si pone allora in questi termini: l’amore è libero? L’immagine affettuosa del nonno ha potuto trasferirsi in
questo presente e prendere dei contorni frazionati in presentazioni diverse di un maschile affabile: per esempio, l’avvocato che la corteggia assiduamente, ma che lei respinge, perché è scialbo; o, più interessante, la presenza dell’uomo romantico (José Luis de Villalonga), i cui gesti, parole, racconti rimandano a un mondo dolce e ovattato, ma che non può, come gli altri, andare bene per lei, perché spiega soltanto ciò che è misura, equilibrio ed eleganza in un mondo illusoriamente perfetto, in un altrove per ora lontano. Giungerà quindi da sola alla comprensione, come se percepisse da subito che gli eccessi dell’ignoto e dell’inconscio devono essere riassorbiti dalla sua coscienza. Nella lotta che la devasta, Giulietta intuisce che non deve rifiutare il presente che ha scelto per sé, anche se questo ha provocato una frattura; intuisce che non potrà mai cancellare quel passato ossessionante perché, pur non appartenendovi più, non lo lascerà, anzi se ne servirà per ridefinire nuovi spazi vitali, persino di libertà. È dunque indispensabile per lei distruggere la parte malefica del passato, grazie all’individuazione di ciò che si è costituito, nel corso del film, come l’ostacolo nel quale le immagini stesse inciampano: lo sguardo opaco, vitreo e smorto di sua madre, collocata tra lei e il nonno, tra la verità possibile di una felicità e la verità fattuale dello sconforto che si origina da un’immagine non spiegata, non risolta, letteralmente imprigionata, quella della rappresentazione del suo martirio. Al termine dell’ultima lotta contro il groviglio degli spiriti riuniti, dopo un grido di disperazione in cui invoca l’aiuto della madre che risponde con un nuovo divieto, Giulietta libera la sua immagine dalle fiamme di un martirio il quale non era altro che la punizione per il fatto di essere una «ragazza».4 Con la forza della disperazione, apre il ripostiglio materno che la imprigiona – ma che è anche la porta dietro la quale crede sia nascosto Dio – e libera l’immagine che sua madre vorrebbe tenere rinchiusa. Giulietta termina qui la traversata delle immagini, di questo momento della sua vita e del film. Va allora a casa dell’amante di Giorgio, che non riuscirà a vedere, ma non le importa, perché ha ormai capito che la certezza è ingannevole quanto le immagini che nascono dai dubbi, e che per lei la liberazione non può venire se non da una deliberazione diretta contro ciò che, in lei, la ostacolava. Anche il libro della storia delle sue immagini si richiude, una pagina dietro l’altra: l’amante e il marito, la madre e le sorelle, il nonno e la ballerina, tutto ciò che le variazioni di queste combinazioni potevano creare di dolce, ma di inefficace, di atroce, ma in grado di portare a una soluzione. Gli spiriti malefici si disperdono, rimangono solo quelli che mormorano, tra gli alberi e le foglie del giardino: «Siamo amici… amici… Ascolta: adesso, se vuoi, possiamo restare»; sola nella tranquillità di una pineta in cui non si muove né blatera più nessuno, può finalmente sentire la carezza e i mormorii coscienti della sua coscienza. * Poi, un bel giorno, ho fatto una scoperta. Le resistenze di Giulietta […] erano funzionali. Non dovevo arrabbiarmi perché la Giulietta di questo film era giusto che prendesse quegli umori, quelle aggressività.5
Lasciare libera l’attrice non significa per forza liberare la donna, e d’altronde non è evidentemente lo scopo perseguito da Giulietta degli spiriti, in cui è più verosimile che si ricerchi una presa di coscienza, un’analisi affettiva dei funzionamenti della coscienza. Le motivazioni
storiche e sociali di un percorso personale, per quanto possano sembrare insoddisfacenti dal punto di vista di una lettura analitica, delimitano il quadro critico all’interno del quale si sviluppa l’azione: profondità dell’animo umano – nel caso specifico, quello della donna –, in un ambiente il cui spettacolo di ostentazione è evidente, quale che sia l’angolo dal quale lo si esamina, oppure, sempre nello stesso ambiente, piani di sensibilità messi alla prova? Il soggetto si ritrova di fronte a forze positive e negative che si liberano dalla frequentazione stessa degli altri e delle situazioni, e si dà a questo incontro il nome di «spiriti», secondo una mitologia peculiare a un territorio, a una geografia che, nelle sue resistenze, è proprio la mitologia italiana dell’epoca. Si tratta di afferrare e restituire i diversi sentimenti che elaborano tutti noi, rappresentati in un momento di fragilità che richiede una riorganizzazione delle esperienze sensibili e delle elaborazioni mentali, ed esige anche la rimessa in discussione di un passato la cui costruzione cosciente, per effetto del continuo utilizzo, è rimasta dimenticata. Il confronto con un discorso psicoanalitico è obbligato – anche se l’elemento che lo costituisce può sembrare a volte provocatorio, per via della sua superficialità o del suo carattere umoristico –, e termina con il dialogo con la psicoanalista americana: Lei non è serena […] lei ha paura di restare sola, di essere abbandonata, ha paura che suo marito la lasci. In realtà lei non desidera che questo, lei vuole con tutte le sue forze essere lasciata sola, vuole che suo marito se ne vada […]. Senza Giorgio lei comincia a respirare, a vivere, a diventare se stessa. Lei crede di aver paura, in realtà ha paura di una cosa… di essere felice.
Qualunque sia la credibilità che Giulietta riconosce a questo discorso, è vero che lei rielabora la propria «serenità» attraverso tre determinazioni risultanti dalle sue nuove percezioni della vita, le quali danno luogo a tre nuove interiorizzazioni: la risposta data alla proibizione materna, il discorso dell’analista, la disponibilità di cui finisce per dar prova rispetto alla «frasetta saggia» pronunciata da uno degli investigatori.6 Soltanto staccando queste tre condizioni dal loro contesto e facendole proprie – come nelle logiche osservate nelle favole – può, malgrado il carico della sua storia, aver accesso a se stessa bambina in un’innocenza di vita vissuta. Questo le permette di riorganizzare le trame della sua percezione del mondo, di evocare una nuova chiarezza – orale e oculare, forse oracolare –, di esprimere, accompagnata da forze divenute parole amiche, l’accettazione a uscire dal ricamo avvolgente del suo «interno». Dopo il percorso prettamente interno intrapreso nella Dolce vita e in 8 ½, attraverso ampi immaginari, è come se, in Giulietta degli spiriti, Fellini non potesse che tentare di «dipingere», dall’esterno, un mondo interiore. Davanti all’eventuale caduta dell’ideale, non resta che cercare riparo nell’immagine stessa, in una compulsione che all’inizio sembra confondere tutto e in cui solo un piccolo bagliore guida l’irregolarità verso la chiarezza. Psiche, Biancaneve o Alice, il femminile sembra restare imbrigliato, malgrado tutto, nella grande tela delle immagini che compongono le sue mitologie, che ne costruiscono il mito. Senza dubbio, in questo film il merito principale di Fellini sta nell’apparente assenza di presa di posizione riguardo alla profondità dell’anima, a vantaggio di una descrizione delle superfici che ne determinano, se non le profondità, almeno l’estensione delle possibilità. Ritroviamo la ricerca di strutture per strati successivi: immagini o non-immagini della realtà, della fantasia, dell’ossessione, del possibile come dell’impossibile, senza intento strettamente biografico, ma in cui il passato è enunciato per far esistere un presente aperto al futuro. Ora, questa stratigrafia, diversa da quella della Dolce vita o di 8 ½, giustifica, in quanto nuova parata, la scelta
determinante del colore. Alla bellezza scultorea del bianco e nero dei due film precedenti segue l’apparente fragilità e la frammentazione di un colore provocatorio, capace di recuperare gli elementi tonali di un comune quotidiano e, al contempo, la compulsione barocca delle trame ossessive che elaborano questa banalità, di differenziarli senza dualismo, lasciando a ogni spazio espressivo la libertà di catturare temi in una trama. Nuove descrizioni di spazi: cromatismo elaborato di una «serenità culturale» nella casa di Giulietta, cromatismo diversamente elaborato di un’«oscenità» altrettanto culturale nella casa di Susy, semitoni nelle «solarità», nelle «lunarità», trasparenze, zaffiri e diamanti veri e falsi negli occhi di ognuno. Significa dipingere non soltanto le immagini, ma l’immagine stessa del colore, cangiante, un colore del cinema.7
VI
COME LAVORARE SULLA LETTERATURA E RISCRIVERE IL FANTASTICO AL CINEMA? PRIMO ESEMPIO: TOBY DAMMIT, O QUELLO CHE SI FA DIRE O FARE A UN’IMMAGINE. L’IMMAGINE DEL CORPO FRUSTRATO DALLA MORALE. L’IMMAGINE DEL CORPO DISORGANIZZATO. LA PERDITA DI SÉ NELLA VELOCITÀ PURA. IL DISSIPARSI DELL’IMMAGINE: L’IMMAGINE È SOLTANTO FRONTALE O DI TAGLIO.
La gestazione di Toby Dammit è una lunga storia, raccontata con abbondanza di dettagli.1 Tuttavia, questa storia non riguarda davvero Toby Dammit, ma un film che non verrà mai girato per le resistenze di alcuni produttori e numerose altre difficoltà. Si tratta del Viaggio di G. Mastorna, progetto nato dalla collaborazione con lo scrittore Dino Buzzati, poi sfumata.2 Alcuni elementi della «tormenta» che si scatena in quel momento, insieme alla malattia che si abbatte su Fellini, suscitano interesse in quanto forniranno alcuni temi particolari di questo mediometraggio del 1968. In una lettera al produttore Dino De Laurentiis, Fellini scrive che il Viaggio doveva dare seguito all’idea di «ritmare il film secondo una spirale unica, a perdifiato e molto lucida […] seguendo una storia che non ha fine»; vi aggiunge la segnalazione di una serie di luoghi per le riprese: «Aeroporti, stazioni ferroviarie e metropolitane, porti di mare, strade di città modernissime e molto antiche, distese paludose, il mare, poi quartieri di Roma, New York, Amsterdam, Berlino, il Vaticano, paesetti del Lazio, Venezia…». Il rapporto che Fellini in quel momento della sua vita ha con la malattia – una pleurite purulenta che lo terrà a lungo in ospedale – e gli incubi da questa provocati sembrano persino affascinanti: «[…] Un seguito di sogni furiosi pieni di alt, sbarramenti, passaggi a livello, dogane, fucilazioni, catastrofi e la scritta AUG-URI spezzata in mezzo». In un altro incubo: «C’è un uovo che è inghiottito da una gola-tunnel dalle pareti elastiche; non viene schiacciato e nemmeno distrutto, ma il regista si sorprende a pensare: “Quando lo rivedrò?”». Sempre in quel periodo Fellini fa un sogno strano, ma non spiacevole, durante il quale finisce «decapitato al volante» per salvare alcuni bambini. Si aggiungono i sintomi di una crudeltà quasi vendicativa, rivolta contro i produttori e le circostanze, in una specie di rapporto saturnale tra se stesso e l’opera, che lo portano a cercare luoghi di ispirazione per le riprese di Satyricon: «Cercare l’aria scura del sangue; della ferocia romana… la crudeltà che si è conservata intatta da duemila anni…». Infine, durante un’uscita notturna con uno dei suoi cosceneggiatori, Bernardino Zapponi, il regista vede il ponte di Ariccia, crollato poco dopo, e lo mette in relazione con un racconto di cui gli ha parlato la sua collaboratrice Liliana Betti: Never Bet the Devil Your Head (Non bisogna scommettere la testa col diavolo).3 Il cuore rivelatore, propostogli dal produttore Raymond Eger, sarà sostituito da questo racconto, che sembra meglio aderire alla sua biografia affettiva ed espressiva.
* Per Fellini è il primo adattamento per lo schermo di un testo letterario, che ha accettato, del resto, non senza qualche reticenza.4 Che cosa narra il breve racconto di Edgar Allan Poe? Inizia con un attacco contro i critici che rimproverano all’autore di non suggerire, nei suoi racconti, alcuna finalità morale. Poe si rivolge loro in tono umoristico, rispondendo che quella novella contiene inequivocabilmente fin dal titolo un’asserzione morale, e insistendo sul fatto che le loro affermazioni comportano sempre delle ripercussioni morali e conducono a nomi come quello di Calvino, di Lutero, o dei Protestanti, degli Olandesi, o ancora, dei Trascendentalisti. Riprendendo il tema polemico dell’opera – e volendo dire ai critici di «andare al diavolo» (quel diavolo che è presente dunque nella novella di quel dannato di Toby Dammit, scritta da quell’altro dannato di Poe) –, l’autore definisce il suo personaggio come una persona «bizzarra». Nato da una donna triste e malvagia, che lo picchiava sempre, Toby Dammit ne ha ereditato la tristezza. Poiché non possiede nulla dal punto di vista materiale o spirituale, la sua vita si limita a sfidare tutto e tutti, e non gli resta altro che giocarsi la «testa col diavolo». È sensibile soltanto alle scommesse, non accetta alcun consiglio ragionevole, che pure il narratore ha provato a dargli. Nulla lo distoglie dalla sua natura, né dalla formulazione di quella espressione fatidica. Fino al giorno in cui giungono, lui e il narratore, davanti a un ponte, che suscita in quest’ultimo un’impressione profonda dovuta al «contrasto tra la luminosità esterna e le tenebre interne». Il limite estremo di questo ponte è sbarrato da una specie di cavallo di frisia; è lì che Toby Dammit lancia la sua ennesima scommessa, dicendosi capace di saltare «con un salto “ala di piccione”» al di sopra della sbarra a cancelletto «non troppo elevato» dice Poe «come lo stile di Lord, ma nemmeno basso quanto lo stile dei recensori delle Poesie di Lord». «Un ometto di aspetto venerabile, un poco sciancato», anzi «nulla di più venerabile del suo aspetto», vestito di nero, si lascia sfuggire soltanto un «ehm» dubitativo, come se lo lasciasse cadere e rimbalzare, come un pallone in uno spazio vuoto, e accetta la sfida. Pur dicendosi sicuro del fatto che Toby Dammit sia capace di superare l’ostacolo, gli chiede di effettuare il salto, per verificare se riesce a superarlo «in modo elegante e trascendentale», proprio come Carlyle. Ma la testa di Toby Dammit viene recisa da una «sbarra di ferro, piatta, con la parte larga orizzontale» che non poteva esser vista da quel lato della «sbarra a cancelletto».5 Il racconto di Poe gioca astutamente sul fatto di scommettere la propria testa di dannato (il racconto morale) con quei diavoli dei critici (la morale dei racconti), il cui unico scopo è restaurare una morale di natura dottrinale: la parodia critica delle dottrine religiose è il filo conduttore del racconto. Nel testo viene elaborato un umorismo della crudeltà letteraria che, integrando nel proprio oggetto il destinatario della ricezione, lo pone nella situazione di essere dannato per le sue intenzioni e, soprattutto, di morire per queste. Se è vero che il narratore cerca di riportare il suo personaggio su una «retta via» di cui non sa nulla, il racconto ripete incessantemente i percorsi di una volontà negata (sia quella del narratore, sia quella di Toby Dammit): forma così una metastoria delle capacità creatrici, filosofiche e letterarie, che viene esplorata, comparata e opposta ai movimenti di natura religiosa indicati come impedimenti alla libertà di espressione della creazione.
* L’appropriazione della componente biografica, innegabile in Poe, è allo stesso modo presente in Fellini. Le gerarchie ecclesiastiche sono i produttori che hanno impedito alcuni film precedenti (come in Poe, i critici rimandavano a un ordine morale-religioso e impedivano le realizzazioni creative). La somiglianza progressiva di Terence Stamp con Poe è per il momento soltanto una deviazione che garantisce un altro genere di continuità nell’opera sotterranea, allo stesso modo in cui la storia cinematografica di Toby Dammit cela un elemento che non è subito spiegato chiaramente. Si tratta soltanto di un’apparenza, portatrice di una ridotta forza di persuasione, ma che funziona soprattutto come impertinenza della trascrizione felliniana. È qui elaborata più in profondità una crudeltà esplicita che ridefinisce in maniera umoristica il narratore come il vero e proprio dannato della storia. Questo tema è ripreso «crudelmente» da Fellini, il quale coinvolge se stesso, come Poe, in un racconto che ripercorre da vicino un evento della propria storia creativa: crudeltà con doppio senso, perché risultato tendenzioso di una scommessa da cui si può comunque uscire con «la testa tagliata». Del resto, è questo finale che viene mantenuto umoristicamente da entrambi gli autori, ma il suo valore, lungi dall’essere catartico, è invece apotropaico: questo destino, sembrerebbero dire entrambi, ce lo teniamo, purché spetti a noi enunciarlo e compierlo, visto che gli autori-creatori finiscono sempre per trovarsi, loro malgrado, in una posizione da suicidi sociali; e se anche seguissimo i vostri diktat morali non potremmo comunque sottrarci alla morte. Il trattamento di Fellini tiene per sé «il fondo» di questa storia senza storia. Di fatto, della novella di Poe conserva il grido polemico contro le organizzazioni critico-religiose. La vicenda narrata nel film si sviluppa in quattro sequenze,6 in cui Toby Dammit (alias Edgar Allan Poe – e si deve rendere merito a Fellini di dare questa lettura simmetrica che va oltre il semplice fatto mimetico –, alias Terence Stamp, alias Fellini): 1. arriva all’aeroporto di Roma. Viene scritturato dalle più alte gerarchie vaticane per interpretare il «primo western cattolico»: accanto ai sinistri prelati del Vaticano, alcuni religiosi di altre fedi girano per l’aeroporto; è in questo luogo che Toby avverte la presenza di una ragazzina senza età che gioca lanciandogli una strana palla. In una lussuosa limousine, in compagnia dei prelati, giunge a Roma, esterna alla storia, come se non fosse altro che un’escrescenza del Vaticano: una zingara gli legge la mano, ma si rifiuta di rivelargli quello che ha visto; 2. viene intervistato negli studi della tv italiana e, fra tante domande insignificanti, gli viene chiesto se ha avuto un’infanzia infelice. La risposta segna un importante punto di contatto con la novella di Poe: «Niente affatto» dice. «Mia madre era molto felice quando mi picchiava.» Non crede in Dio, ma al diavolo, che in realtà è una ragazzina; 3. vince uno dei premi che, in un night club, sono assegnati alla romanità e alle distorsioni che la Storia le ha fatto subire; per ringraziare, declama le ultime battute del Macbeth;7 4. fugge dal night club e trova la Ferrari che la produzione gli aveva garantito nel contratto; si lancia in una folle corsa nella notte per finire su un ponte crollato, che decide di attraversare, quasi invitato dall’apparizione della ragazzina. Ci riesce, ma rimettendoci la testa, che la bambina raccoglie come fosse una palla.
* La corrispondenza tra la novità e la violenza presenti nel racconto di Fellini e quello che c’è di nuovo e di violento in Poe è evidente. Non deriva soltanto dalla ricreazione delle atmosfere, un crepuscolo livido, striato di rosso e grigio, o una notte profonda attraversata da colori che non hanno nulla di psichedelico, ma che le conferiscono l’apparenza di un mondo di larve e di ectoplasmi. È in questo clima che avviene la descrizione di due mondi simili, quello degli ordini religiosi, presenti in tutto il film, e quello di cui questi stessi ordini si appropriano, della produzione che vuole organizzare e regolamentare la creazione artistica. Proprio come Poe regolava i conti con i critici più infami e ortodossi, Fellini si riferisce ancora una volta alla produzione, un sistema fatto di costrizioni e regolamenti, riproponendo, dopo 8 ½, il problema dei finanziamenti dei produttori.8 Accanto a questo vengono sviluppati altri due temi, anch’essi ripresi da altri film, dalla Dolce vita a Ginger e Fred: il tema dell’immagine sovrapposta alla realtà, che tenta di fare di ogni creazione il doppio di una rappresentazione possibile, mentre invece sembra impossibile da dire e da mostrare; e quello, speculare, affrontato durante l’intervista a Toby Dammit, dei rapporti tra l’immagine cinematografica e l’immagine televisiva, laddove quest’ultima crea di sana pianta le prove della realtà di ogni cosa organizzata in evento. Ora, tutto ciò non è formulato di sfuggita, ma con una violenza che, pur evitando l’arroganza, è comunque radicale. Non basta pensare che questi argomenti riassumano da soli il lavoro di adattamento. Portare Poe sullo schermo non è un’operazione comune; allo stesso modo, non si può ridurre l’adattamento di un racconto fantastico alle semplici qualità pittoriche e cromatiche dell’opera, dovute, tra l’altro, all’abilità di Giuseppe Rotunno, qui al primo film con Fellini. Abbiamo già fatto riferimento ai colori che creano strani ambienti, rossi e grigi che sfumano verso il nero, esplosioni di flash e solarizzazioni (scene della tv) che illuminano inquietanti presenze, ma in cui trionfano liquidità proprie al colore e che sono altrettante viscosità, che fanno sfumare lo striato dell’inizio del film (scene dell’aeroporto) verso una traslucidità opaca, poi vischiosa, della forma (scene del night club), come se quest’ultima non riuscisse a costituirsi né in unità né in molteplicità, né in fusioni né in contrasti. Allo stesso modo, l’adattamento non può ridursi alla semplice caricatura dei personaggi, tra i quali nessuno, a parte Toby Dammit, si erge alla potenza di interprete, relegati e condannati a essere soltanto maschere e grottescamente complici di organismi superiori. Qualcosa di funebre si sprigiona dalla risata dei prelati e delle starlette, dalla corpulenza degli imprenditori, veri e propri magnaccia della società, loschi figuri, bacati, la cui rappresentazione si rifà ai temi espressionisti presenti in Ensor fino a Maccari. Altrettanto funebre è l’eleganza fatalmente sovraccarica delle donne che attraversano il film, portatrici di messaggi sinistri, figure che aspirano a essere inquietanti ma si riducono a una parvenza erotica da carta patinata, da rivista per ricchi, fissate in battute stereotipate. * In questo quadro grottesco, qual è il posto di Toby Dammit? È qui che la somiglianza fra
Terence Stamp e Edgar Allan Poe assume un senso che non ha più nulla a che vedere con il compiacimento dei mimetismi.9 Fellini capisce che nel racconto Toby Dammit, con i suoi ghigni, non è altro che la coscienza cieca e irragionevole di Poe, che il narratore cerca di riportare alla ragione; ciò che i moralisti e gli ordini religiosi chiamerebbero la sua «cattiva coscienza». Toby Dammit è allora soltanto l’altra faccia di una struttura bicefala, ostinata e cocciuta, che si intestardisce, proprio come il suo alter ego a due facce, in quello che gli altri chiamano il male, nell’espressione di quanto non deve essere fatto né detto, a costo di giocarsi la testa con il diavolo – che, almeno lui, non farà tante storie –, a costo di morire. È in questa specularità totale che bisogna inserire i rimandi felliniani; è in questa semplice significazione che viene esaltato il fantastico come genere letterario trasposto in un’area che non è più quella originaria e dalla quale può persino distaccarsi, pur conservando la parte che gli appartiene. Di colpo, Toby Dammit-Poe è costretto ad assumere la crudele mostruosità di cui è accusato, che gli è assegnata come destino. Da qui in poi, ogni rivendicazione di «inquietante estraneità», che fa del suo corpo un oggetto di repulsione, non appartiene più al campo delle opposizioni (moralisti, preti, approfittatori, produttori di film e di interpretazioni), ma passa per il fatto stesso di impadronirsene direttamente, di farlo e di mostrarlo, costi quel che costi. È attraverso la doppia disorganizzazione del corpo di Poe e di Dammit, l’uno confuso nell’altro, che Fellini giunge al fantastico: la dannazione che gli altri hanno stretto intorno al collo di Poe-Dammit si rivolta contro la morale stessa, ormai inadatta a garantire la sicurezza degli organi di circolazione delle sue verità. Non va risolto il problema di coscienza, né in Poe né in Fellini: è semmai la questione della doppia coscienza, che gli altri continuano a proporre senza sosta (l’una, che si vuole colpevole; l’altra, si esige che sia pronta a essere redenta), mentre questa grida la sua non-colpevolezza e la sua non-volontà di redenzione, fino a schierarsi dalla parte del diavolo. * Come dare corpo alla forza che viene scatenata? Come rivelarla in modo operativo? In Poe, tramite l’umorismo, la crudeltà è urlata ovunque, e possiamo distinguerne quattro diversi tipi: crudeltà che afferisce ai religiosi moralizzatori; crudeltà del narratore; crudeltà di Toby Dammit; infine, crudeltà di quello che dovrebbe essere il diavolo. Quattro sono anche le sequenze che compongono il film di Fellini e sviluppano gli stessi sistemi di crudeltà, con le stesse attribuzioni. D’altro canto, la crudeltà, che nel testo è sempre connessa all’umorismo, è determinata in Fellini dalla «cinepresa-soggettiva». È la prima volta che Fellini gira in soggettiva, una variazione possibile della «cinepresa-penna» con, all’inizio del film, Toby Dammit che prende la parola in prima persona, per poi cederla, in modo frammentato, agli altri; questo stile crea lo spazio di un’«immagine soggettiva indiretta libera» che non smette di sdoppiare il personaggio in azione.10 Lo sdoppiamento, già messo in atto nella rappresentazione Poe-Dammit, ritrova le sue risonanze comparative e aumenta, per di più, trasformando questo primo doppio nucleo in un triangolo che include lo stesso Fellini. Si è quasi tentati di attribuire a Fellini il merito di un metodo che Pasolini teorizzerà e applicherà in seguito, ma i cui primi segni sono già presenti nella sua opera cinematografica.11
Alcune strane coincidenze continuano a dare uno spessore particolare al regime «fantastico» di quest’opera: le riprese di Toby Dammit sono state precedute da una rottura temporanea tra i due autori, dovuta al fatto che la casa di produzione di Fellini (la Federiz) aveva rifiutato di finanziare il primo film di Pasolini, Accattone.12 Altra stranezza: Pasolini, che nello stesso anno sta girando Teorema – prima di Toby Dammit –, propone anche lui la parte del protagonista a Terence Stamp. Ora, il procedimento delle riprese del corpo utilizzato da Pasolini non è molto diverso da quello felliniano. In Pasolini c’è un’esaltazione del corpo dell’attore, mentre in Fellini si ricorre alla sua devastazione e corruzione. Entrambe queste rappresentazioni si inseriscono in un territorio identico: quello della composizione di un «corpo senza organi», che tende a disorganizzare, in entrambi i casi, non soltanto un sistema sociale chiuso, ma anche la rappresentazione del corpo all’interno di quel corpo sociale; e non ha lo scopo di una «martirizzazione», ma di indebolire i meccanismi dell’immagine come forza organizzata (tramite il mito e la santità nel primo, tramite il cinema, la stampa, la televisione nel secondo).13 Questa disorganizzazione dell’immagine del corpo è il requisito necessario per la costruzione di una nuova immagine che sfugge a ogni tentativo di contenimento entro sistemi organici. Si arriva così a un corpo impercettibile, non in fuga, ma che non si sottomette più ai referenti che lo ossessionavano e che gli chiedevano conto, condizione rispetto alla quale non poteva far altro che tenere un profilo basso e assumere un atteggiamento funereo. Che il corpo sia d’ora in poi l’immagine sfuggita a una tormenta, come tante altre, non organizzabile, è proprio il risultato dell’approccio umoristico di Fellini: il corpo diventa pura velocità, fa ormai tutt’uno con il suo divenire-velocità, con il rosso della sua Ferrari, con la strada tra il grigio asfalto e il metallo, con la notte nera. Riappaiono i colori dell’inizio, ma adesso hanno cambiato territorio, o piuttosto si abbandonano a una deterritorializzazione all’interno della quale ciò che è girato non è altro che l’ombra nel buio, un cinema della luce nera. È quello che vuole Fellini: «Dobbiamo riuscire a individuare le prospettive del buio»;14 non corpi e organi, gli organi di un corpo o dei corpi organizzati, ma tracce costitutive di velocità nella notte. Linee di fuga, ma senza la fuga, scappatoie che ridistribuiscono le linee di forza del cinema e dell’immagine in quel cinema. Un’immagine che, grazie al buio, grazie alla sua cancellazione, non può più essere recuperata da tutti i finanziatori-produttori di immagini, a costo di perire nel suo ritrovarsi con la propria singolarità. Nessuna «distrazione» è ormai possibile tra la materia del gioco – ovvero l’oggetto della velocità (la Ferrari), la velocità-percorso (il nastro d’asfalto che scorre davanti alla vettura), le diverse intensità della velocità che si sono costituite in umori e in desiderio – e lo scopo stesso del gioco: Toby Dammit non dà nemmeno ascolto all’avvertimento che nella notte, al limite dell’abisso, gli grida il guardiano. Non è un desiderio di morte, anche se Fellini l’ha dipinto perfettamente attraverso la linea che recide la vita, ovvero il filo di acciaio insanguinato: «Il modello della morte appare quando il corpo senza organi respinge e depone gli organi».15 Non è suicidio, né in Poe né in Fellini: al massimo è il risultato di una scommessa persa. Ma anche nella morte, è proprio quell’immagine a essere salvata – attraverso la testa raccolta dal diavolo o dalla ragazzina –, e non quella che volevano i finanziatori. È, infine, un altro vivere, un «vivere [che] non può significare null’altro che nutrire se stessi di se stessi».16 Attraverso questa corsa e attraverso la sua velocità, Fellini riprende ancora una volta un vecchio tema: descrizione di percorsi per giungere al significato recondito della conoscenza, a ciò che le cose nascondono e che bisogna scoprire. In questo film è l’erranza da un volto al suo altro volto, da
un’immagine alla sua altra immagine, con la quale ricrearsi un corpo e un destino nuovi, al riparo da un’immagine imponente e unica, la cui sola possibilità è di ricreare e riunire in essa nevrosi insondabili.
VII
CHE COSA FARE DEL COLOSSAL E DEL PEPLUM? UNA RISPOSTA AL COLOSSAL HOLLYWOODIANO E AI PEPLUM ALL’ITALIANA. COME RIFLETTERE SULLA LETTERATURA E RISCRIVERE IL PASSATO AL CINEMA? SECONDO ESEMPIO, FELLINI SATYRICON: CHE COSA PUÒ ISPIRARE ANCORA IL PASSATO? CREAZIONE DI NUOVI STILI DI IMMAGINE. LA PLURISESSUALITÀ E L’INIZIO DI UN DISCORSO SULL’OMOSESSUALITÀ. L’ABISSO NELLE STORIE O IL FRASTUONO DEL PASSATO. IMMERSIONE IN MITI ANTICHI E LORO FAGOCITAZIONE/INTROIETTAMENTO. LINGUE ANTICHE, LINGUE NUOVE, DIALETTI, PLURILINGUISMO DI FELLINI.
Numerose sono le sfide presentate dalla realizzazione di Fellini Satyricon. La prima, la meno importante, di natura esteriore, riguarda il completamento del progetto del film dopo lunghe battaglie tra i produttori: sono tutti curiosi di vedere come si porrà il regista rispetto a un genere, il film storico-mitologico o peplum, che, da Cecil B. DeMille in poi, è stato molto codificato, in Italia come in America. Fellini parlerà in seguito di qualcosa di simile a un metodo: Casanova, come il Satyricon, il Decamerone, l’Orlando furioso, appartiene a quel tipo di film che si presume allettino i produttori, e che possono quindi rappresentare un’autorevole moneta di scambio: io realizzo il Satyricon, ma tu, produttore, poi mi lasci fare Mastorna o Roma o quello che voglio? […] Perlomeno a me sembra che le cose stiano così; ma può anche darsi che stiano esattamente al contrario: che Roma abbia consentito il Satyricon, e Amarcord, Casanova. Oppure tutto questo non è altro che un sistema proiettivo di intenzioni, alibi, desideri, convinzioni, che ha il solo compito di permettermi di fare il film che devo fare in quel momento.1
Le pressioni, in ogni caso, sono state forti, tanto più che il confronto tra l’italiano e il quasi monopolio della produzione americana, ancora intatto in quegli anni, doveva essere alquanto stimolante. Fellini lavora, sul piano della resa storica ed estetica, alla messa a punto di una differenza rispetto alla produzione americana, e definisce un’ottica. In America il peplum era praticamente un affare di stato, dunque imbevuto di retorica politica; così era stato anche per il fascismo italiano, che ricercava una conferma dei suoi simboli riproponendo gli ornamenti di un’epoca gloriosa, la cui appropriazione si fondava sull’appartenenza a un territorio comune, e spalleggiato dalla Chiesa, secondo la quale il genere aumentava la credibilità delle martirologie. L’elemento essenziale non consisteva nella storia raccontata, ma in ciò che si trovava al di qua, nell’espressione del dominio del mondo moderno, basato su un utilizzo spinto al massimo della verità-bugia riguardo al passato. Ciò era evidente nelle alterazioni subite dalla Storia nelle sceneggiature,2 nel fasto eccessivo delle ricostruzioni architettoniche, nei gesti, nella massa di dettagli che tendevano, sotto l’effetto di una narcosi pedagogica, a dimostrare la veracità della questione3 – una sorta di cinema-verità o di reality show ante litteram, una verità attestata dal cinema –, che non esita a popolare le situazioni di accademismi hollywoodiani4 e che punta ad abbellire un’aristocrazia di mediocre cultura, più di Philadelphia che di New Orleans. Se il peplum voleva essere un’arte, ed è per quello che era nato, doveva essere colossale – degno di un Colosseo ricostruito ex novo, made in Usa –, mescolando folle oceaniche di figuranti che, in continuità con la storia biblica, volevano farsi cristiani, e romani: forse, segretamente, una
forma di giustificazione delle ondate migratorie della storia americana. Per Fellini il secondo problema era l’incontro con un testo letterario, mitico, dell’Antichità: Satyricon e il suo presunto autore, Petronio, l’arbiter elegantiae della corte di Nerone, portano ancora i segni, nella cultura moderna, delle ambiguità che hanno contribuito alla loro leggenda a causa degli elementi autobiografici prestati a questo testo, il cui commento mette abilmente in scena la forza della letteratura contro i poteri della presunta tirannia, ma anche il recupero, nel tempo, dell’aspetto negativo, persino infame, attribuito dalla cultura popolare cristiana al mito neroniano.5 In Fellini Satyricon un commento all’opera è appena suggerito nell’episodio della libertà concessa agli schiavi e del suicidio dei patrizi, l’unica scena del film che rimanda all’armonia possibile di un mondo e della sua storia, filmata con una lentezza e un silenzio insoliti in Fellini, il quale tenta di catturare un tema più che il racconto della Storia, come si farebbe in un affresco. Infine, c’è lo «spirito» di Roma. Nel rapporto che stabilisce senza volerlo tra Satyricon e Roma, Fellini lega il mito della Città eterna a quest’opera – tanto più che la sua elaborazione passa anche per la contaminazione con altri testi della letteratura greco-latina, la citazione di Adriano, il terremoto, il testamento di Eumolpo, la morte dei patrizi, l’Ermafrodito, il Minotauro e Arianna –, come a indicare che i limiti di un’opera si estendono oltre l’opera stessa, che non smette di accrescersi nei suoi prolungamenti, compreso quello rappresentato dal film. Ritroviamo l’attenzione nei confronti delle stratificazioni che generano ogni struttura, il gusto per la rivisitazione e la lettura dei livelli che costituiscono la materia delle conoscenze e le gesta che vi si accordano, i passaggi obbligati che ne modellano il presente, e da cui deriva il situarsi in una durata che, da lì in poi, appartiene soltanto alla creazione filmica. Il Satyricon di Petronio appare dunque come il supporto ideale nella sua sostanza frammentaria, nella mutilazione che rende quest’opera un’erranza delle erranze, la qualità stessa dell’elaborazione di una storia e di una vita: è nei frammenti eterocliti che potrà inserirsi l’apparenza di una nuova totalità dell’opera da fare, coinvolgendo la proliferazione dei temi precedenti, tornati nuovi grazie a una visione plastica interamente liberata dalla storia, passata o presente che sia. * L’obiettivo è dunque quello di inserire il film in questi differenti scarti. Fellini rinuncia immediatamente al peplum, senza polemiche, e in tal senso il suo Satyricon6 non rispetta affatto le regole del genere. Non è nemmeno un tipo di peplum diverso. Se c’è nel film un aspetto «colossal», è dovuto alla complessità del girato, e non alla volontà di aderire a un cliché. Se lo paragoniamo agli altri film citati, è evidente che questo lavoro si fonda su sottrazioni che gli permettono di sfuggire alle leggi del repertorio e gli evitano di aderire a una qualsivoglia «romanità», come a qualsivoglia «Antichità». Alla rievocazione viene preferita la fluidità della suggestione di un mondo sconosciuto, creato ex novo, una rêverie di quello che l’Antichità probabilmente non fu mai, ma la cui forza virtuale permette di far nascere una forma artistica del presente. Quasi un film di fantascienza: Il Satyricon è un testo misterioso prima di tutto perché è frammentario. Ma il suo frammentarismo in un certo senso è emblematico […] del generale frammentarismo del mondo antico quale appare a noi oggi. Questo è il vero fascino del testo e del mondo che è rappresentato nel testo. Come di un paesaggio sconosciuto, avvolto in una fitta nebbia che a
tratti si squarcia e lo lascia intravedere […]. Il film dovrebbe far intravedere un universo dissepolto, proporre immagini quasi offuscate dalla terra, un film rotto nella sua struttura diseguale: episodi lunghi e ben articolati, altri come più lontani, sfocati, irricostruibili nella loro frammentarietà. Non un film storico, ma un film di fantascienza. La Roma di Ascilto, Encolpio, Trimalchio, più remota e fantastica dei pianeti di Flash Gordon.7
In questa prospettiva, la componente scenografica del film non poteva limitarsi alla ricostruzione che il contesto storico dell’opera pareva richiedere. Lo scarto probabilmente più importante, perché immediato, si evidenzia nell’universo immaginario della visione personale: possiamo nominare questa o quella cosa, dire piscina o palestra, suburra, teatro, palazzo, ville, battaglie navali, deserti, campagne, ma nessuno di questi oggetti rispetta un qualsivoglia codice, tutti scartano attraverso l’invenzione di forme che corrispondono senza dubbio a qualcosa, ma non erano mai state, fino ad allora, mostrate in quel modo. È un universo sotterraneo, soffocante e lugubre, striato di verde e di toni scuri, più che sotterraneo è come esumato, mantenuto nella cavità delle sue fosse, è fatto di terra e di fuoco smossi, è un universo che si inabissa di continuo nelle sue profondità, e sfuma poco a poco la sua sostanza attraverso una successione di scene tenute insieme soltanto da questa tonalità cromatica brunastra, tellurica. La polvere, agitata da un vento ora pigro e leggero, ora turbolento, domina un mondo di traffici oscuri, nel quale l’oro stesso, invecchiato e impolverato, sembra estenuato, a scapito dei toni vivi di alcuni colori che compongono un realismo affabulatorio. L’esperienza complessa dell’elemento pittorico condotta su 8 ½ e Giulietta degli spiriti, sia dal punto di vista dello sviluppo narrativo che del trattamento cromatico, ha permesso a Fellini di giungere alla grande maturità espressiva che caratterizza Satyricon. Ogni scena si perde nel suo abisso, in una cancellazione quasi immediata. Non c’è una sola scenografia che sia ripresa o ripetuta nel film, non c’è luogo che determini un seguito, ogni sequenza è inghiottita dal suo passato, svanita appena sorge. Le scene della seconda parte ricreano più volte dei labirinti: uno nella casa patrizia, con le successioni di porte, corridoi, giochi di luci che trasformano la pellicola in un vero e proprio affresco o in un mosaico – ma è passato? L’altro, all’aperto, nel momento in cui Encolpio affronta il Minotauro in onore del dio Riso, e la cui successione di corridoi e di costruzioni in pietra non imita il labirinto precedente, ma rintraccia l’archeologia di un passato minoico o etrusco nel passato romano, instaurando dei rapporti di vicinanza e distanza tra continuità non storiche, ma architettoniche o figurative, come infine nel labirinto del Giardino delle delizie. Conferire alla scena la letterale capacità di «disfarsi»,8 rappresentare la sua impossibilità di fissarsi davvero in questo passato che balbetta, intravvedervi soltanto ciò che passa come un semplice presente di pellicola, è l’espressione matura dell’addomesticamento di una libertà creativa. La scena, la scenografia sviluppano allora la pienezza delle loro potenzialità figurative, una successione di quadri in cui, ogni volta, qualcosa di pertinente «assomiglia» e si fa tuttavia distanza, straniamento, rimessa in gioco. Da questo passato senza sole – nient’altro che il colore delle cose in un sole artificiale – emerge soltanto un universo opaco, oscuro: nella prima parte tutto si svolge in sotterranei umidi, opprimenti e claustrofobici, nella seconda un vento di polvere sottile e il fumo dei fuochi e il canto delle candele velano le situazioni, si infiltrano nello sguardo, creando la giusta distanza per un rapporto d’intesa più che di comprensione. Tuttavia, contrariamente all’oscurità, alla parte di invisibilità che caratterizzava l’immagine in Giulietta, qui tutto appare nell’evidenza del visibile, associato a una sospensione del senso, il quale, in modo deliberato,
non sempre coincide con quanto si vede. Questa sospensione separa l’immagine dal significato, l’immagine irrompe più velocemente del senso, che la sospensione invoca, per incidenza e non per coincidenza, come se quello che accade avvenisse nel momento stesso in cui è mostrato: la scena in cui Eumolpo è cacciato dalla casa di Trimalcione è costruita su questo caleidoscopio di effetti, si regge su non si sa cosa, con forni e fuochi che bruciano le sensazioni.9 Questo mondo sotterraneo è costruito come un inconscio troglodita con elementi fondamentali che si sdoppiano – l’aria e il vento, la terra e la polvere, il fuoco e i suoi diversi fuochi; l’elemento acquatico è espresso soltanto attraverso il suo asciugarsi e il suo prosciugarsi –, in cui le pareti di terra e di roccia scura palpitano e vivono quanto le persone che le frequentano. Viene mostrato non un mondo lascivo, ma un fermentare sotterraneo di forze incontrollate, innumerevoli, impalpabili, nascoste sotto tessiture, brulichio che preme e finisce per esplodere in terremoti, in uragani, in abissi. In questi lembi di mura che crollano è inserita e descritta – o decriptata – la «passione», le passioni di Encolpio e di Ascilto, di cui Gitone è soltanto un «anello»: rimanda ad Ascilto, e Ascilto di fatto rimanda, attraverso Gitone, a Encolpio. Circolo chiuso delle passioni come avventura determinante della vita, in cui l’oggetto del desiderio è spesso altrove rispetto a quanto viene percepito. Gitone si perderà nei tremori della storia, marito da lupanare o da teatro, starlette di qualche stagione senza inferno. Resta la storia più complessa di Encolpio e di Ascilto, trasferita, secondo gli eventi, dalle caverne ai labirinti nei quali, in un’impotenza apparente, è in gioco la vita. I personaggi non fanno più domande, l’azione è al minimo, e l’invenzione dei gesti spetta all’immaginazione curiosa, movimenti concatenati in un ritmo continuo della forma, all’interno di uno spazio esploso più ampio della misera scena di un teatro. Le scenografie percorrono e ridefiniscono l’archeologia dei ritrovamenti con l’immagine, immagini di scenografie sulle quali sono incisi corpi inventati. Tutte le sequenze sceniche, a dispetto dell’atmosfera di chiusura, di un passato da catacomba romana, si fanno carico di questa ampiezza che spinge la profondità verso la sua linea di infinito, verso la perdita del suo orizzonte: prime scene della piscina, di umidità senz’acqua, vischiosa, soffocante e morbosa, in cui si muovono i corpi di Encolpio e di Ascilto in una dimostrazione che è più coreografica che enunciativa. Ballo e trance dei corpi della Suburra, labbra, occhi, seni, masse di carne che recitano il copione delle loro anatomie, senza commento, ballo e trance delle masse terrose e petrose nel crollo e nella catastrofe, delle molteplicità distese, in piedi, piegate, balletto della conversazione senza capo né coda nelle scene a casa di Trimalcione, ballo erotico della storia della matrona di Efeso, ballo delle parole nel testamento di Eumolpo, delle navi, dei remi e delle lance sui mari solcati da Lica, ballo dei condannati, delle battaglie navali, dei labirinti, delle lingue sconosciute, della resurrezione e della condanna a morte nelle scene dell’Ermafrodito, ballo della lotta con il Minotauro, con la Morte per Riso, delle natiche nelle scene della virilità perduta, del fuoco e del sesso a casa di Enotea, ballo finale del film che lascia rotolare la sua storia negli abissi dell’incompiuto. Altre folle di cui governare l’ordine e la dispersione: il film ha come unico protagonista una situazione all’inizio astratta – Satyricon – a cui bisogna dare corpo, a volte in semplici accenni. Le riutilizzazioni, i recuperi cui è solito l’autore passano in secondo piano: Magali Noël, Capucine o Alain Cuny non hanno nemmeno più valore per ciò che sono come attori, soltanto la loro corazza smontata, adulterata acquisisce un senso, trascinata nei vortici di fango di un passato ricostruito, polvere di volontà superate, denti guasti e palpebre appesantite di cipria di
una morte prevedibile e già avvenuta. E allora: pienezza di una romanità inventata nella Trifena di Capucine, nel Trimalcione di Mario Romagnoli, detto il Moro,10 come una rivitalizzazione della statuaria romana. O nella testa del proconsole nella scena del Minotauro, che ritroviamo in Roma, acconciata da una madre alla quale lui somiglia, pesantezze «lipidinose» di ciò che fu una razza fatta di orientalismi, di insediamenti e di colonizzazioni. Se bisogna ricercare un modello nei repertori dei musei,11 questo non può essere attribuito né all’epoca classica né a quella imperiale, ma alla reinvenzione di un sottomondo etrusco o campano, terriero, adiposo, solido, truculento prima che decaduto, tratto dall’immaginazione di territori in cui – tra Alba e Pompei – è in gioco la continuità tra il passato e il futuro di questa Antichità. * Se l’opera prescelta è frammentaria, il film sembra fornirle un’unità che non attinge all’elemento romanzesco, ma a ciò che gli sta immediatamente di fronte: la tragedia interna – in tutte le sue deviazioni umoristiche –, con l’elaborazione di finzioni immediate che accelerano le velocità del racconto. Il monologo di Encolpio è come il «prologo» di questa tragedia delle passioni di colui che si presenta come un letterato. Il tema dello studente, dell’uomo di lettere, dell’intellettuale ripreso nel film da Ascilto, prolungato e rinforzato da Eumolpo, fino all’ammissione finale di Encolpio davanti al Minotauro, fonda l’unità di un discorso forte, per tenue che possa sembrare: la condizione dei personaggi è fluttuante, ma proprio per questo fa da conduttore, come un filo d’Arianna, che tuttavia non servirà a liberare Encolpio dai suoi difetti. Questo filo ci permette di entrare in quella grande cornice esterna che è il Satyricon stesso, in cui sono incastonati i racconti interni, del tutto compiuti, che, stranamente, sono gli unici a essere sviluppati in ambienti in cui appare il cielo, aperto, forgiato dalle sue luci: il racconto della matrona di Efeso con il suo lascito morale: «Meglio perdere un marito morto che perdere un amante vivo»; il racconto del suicidio dei patrizi romani, inquadrato nella pittura di un’armonia perduta e della speranza di un mondo nuovo – e in quella priva di retorica di una nobiltà storica del suicidio romano, patrizio, ma repubblicano; le storie che circoscrivono miracoli in carne e ossa come l’Ermafrodito o Enotea e il suo mago, le fantasie e le ossessioni che propongono una storia invertita del Minotauro e del labirinto, con il trionfo del mostro su Teseo, in onore del dio Riso.12 E la fine al principio di una storia che reimmerge la materia del film nell’erranza dei suoi frammenti. Anche la tragedia ipotetica – o ciò che è vissuto tragicamente – isolerà i materiali che le daranno forma: senza che lo si possa qualificare davvero come un intellettuale, l’universo nel quale si muove Encolpio, anche grazie alla frequentazione di Eumolpo, è permeato di cultura. Le prime occasioni di incontro avvengono in un teatro, il cui spettacolo è pensato come una suggestione, umoristica, che potrebbe essere la forma arcaica del varietà, la sua origine, la sua fonte saturnale, la sua atellana – come non pensare all’attore romano Ettore Petrolini? –, quindi comparabile alle scene di teatro in Roma, con la presentazione di quello che ne è uno degli elementi caratteristici, «quell’aria oscura del sangue, della ferocia romana… la crudeltà che è rimasta intatta per duemila anni». Accanto alla crudeltà, le scene rutilanti nelle dorature e nelle glorie delle divinità di un pantheon imperiale romano, sotto il quale si celano appena i traffici monetari necessari al teatro perchè possa lavorare e vivere, i rapporti di assoggettamento del
teatro al potere pubblico – un realismo aggiunto per incidenza o, se si preferisce, l’abbozzo di un barocchismo già presente nell’atmosfera primordiale della Città. Sono momenti polemici e ironici in cui si sente che Fellini cerca di evocare un’essenza romana – o italiota, come ha già fatto nella Dolce vita –, ma che nutrono anche la continuità mentale di Satyricon con e in un presente che del resto ha contribuito a modellare. Al teatro segue un mondo di parvenu costruito con poesia: poesie di loro composizione, le citazioni e i prestiti poetici si fondono e la frase messa nella bocca di Trimalcione, nella sua intraducibile espressività, rivela i rapporti complessi che ogni tentativo creativo intrattiene con l’autoritarismo rozzo del denaro: «… anche a tavola, i classici, ci stanno bene». In lontananza, i cani abbaiano: si declama o si mormora Omero, si danza sui suoi versi, si plagia Lucrezio, ma il vero e proprio poema che questa società si concede, attraverso il più ricco di tutti, è la lista dei suoi possedimenti, esposta come un catalogo di seduzioni, accompagnata dall’esibizione di tutto quello che dovrebbe partecipare alla sua nobiltà: i Lari un po’ tronfi, la prima barba, lo sterco quotidiano, le mosche, l’umanità, la sessualità, le minacce complici e volute al capocuoco, il litigio con Eumolpo contro il quale scaglia un grido accorato prima di ordinare che venga arso vivo: «A casa mia, sono io il poeta!». E, gran finale, la visita della sua ultima dimora, spaziosa, la lettura del suo epitaffio, lui che «lascia trenta milioni di sesterzi e non ha mai ascoltato un filosofo!», la sepoltura che vuole grandiosa, finalmente. Accanto all’evocazione degli eroi omerici si profila un mondo di malfattori dagli atteggiamenti eroici che replicano la storia di antieroi propria di Satyricon. Un altro filone poetico regola il suo fluire tramite Eumolpo: rispetto a tutto quello che lascia Trimalcione, ecco il testamento di Eumolpo a Encolpio, il testamento del poeta che canta il panteismo delle creature del mondo creato: Ti lascio la poesia, ti lascio le stagioni, soprattutto la primavera e l’estate… ti lascio il vento, il sole… ti lascio il mare, il mare che è buono, e anche la terra è buona, le montagne, i torrenti, i fiumi e le grandi nuvole che passano, solenni e leggere. Tu le guarderai e forse ricorderai questa nostra breve amicizia. E ti lascio gli alberi e i loro agili abitanti, l’amore, le lacrime, la gioia, le stelle, Encolpio, ti lascio i suoni, i canti, i rumori, la voce degli uomini che è la musica più armoniosa. Ti lascio!
La linea poetica, a parte le citazioni e le creazioni dirette, è ripresa in tutto il film tramite un’orchestrazione melodica delle lingue e delle voci: questa folla sussurra o canta suoni, come se, da un’imitazione della natura, animale o vegetale, dalle chiacchiere e dai balbettii, ma anche dal rumore dei gesti, stesse inventando, registrandola, una lingua fatta delle lingue che balbetta, in mormorii e canti languidi, grida fruscianti e risate. Sono le parole di coloro che non parlano nessuna lingua, ma tessono una rete di segni attenti e previdenti, fuori dai sistemi usati per capire; reinventano un’intimità gioiosa da musiche imprecise di sensazioni e di sentimenti, nella complicità del rispetto e dei dispetti reciproci, contro le rotture babeliche dei monoteismi. Fellini porta qui al culmine ciò che aveva iniziato, in modo polemico, con 8 ½ e poi con Giulietta degli spiriti e Toby Dammit: un flusso libero accompagna il fiume umano – Africa, Asia, Europa – che mette in scena. Come mai prima d’ora, l’unione dei colori e delle razze diviene armonica nelle espressività che Fellini scopre e inventa. Anche parole e musica si dispiegano in una dipendenza libera e spostata rispetto alla trama delle immagini, che non è di natura esplicativa e nemmeno espressiva. Portano l’immagine, tanto nella sua leggerezza quanto nella sua pesantezza o pluralità, la circondano, la precedono, la seguono, ma non la spiegano. Nella liberazione rispetto al materiale sonoro risiede la forza dionisiaca del film, vicino alla materia orgiastica che evoca di continuo.
Eumolpo introduce lo sviluppo di una seconda linea artistica, quella della pittura e della scultura, la quale inaugura un discorso in apparenza rivolto al passato, ma che investe in realtà il presente. Nella scena dell’incontro in pinacoteca, la polemica di Eumolpo riprende, con tono diverso, la conversazione di Marcello e Steiner davanti al quadro di Morandi. All’enfasi lirica del lamento di Encolpio: Ganimede, Narciso, Apollo che trasformò in un fiore l’ombra del giovinetto… Tutti i miti ci parlano d’amore, di unioni senza rivali. Ma io mi son preso in casa un ospite crudele…
Eumolpo risponde, sempre sul tema di Où sont les dames du temps jadis?: Io sono un poeta! Tu dirai: ma com’è che sei vestito così malamente? È proprio per questo: la passione per l’arte non ha mai arricchito nessuno. Non so perché, ma la Povertà è sempre sorella del Genio […]. I capolavori che vedi in questa pinacoteca denunciano il letargo attuale. Una pittura così oggi non la sa fare nessuno. E da cosa è stata provocata questa rivoluzione? Dalla brama del denaro. Nei tempi andati, l’ideale degli uomini era la virtù pura e semplice, e per questo fiorivano le arti liberali. Eudosso invecchiò sopra una montagna per cogliere il moto degli astri. Lisippo disegnò tutta la vita un unico modello… e morì di fame. E invece noi, tra vino e baldracche, neppure i capolavori che ci sono conosciamo più. Ma dove sta la dialettica? Dov’è andata l’astronomia? Dov’è la filosofia, che una volta era la strada maestra? Non ti meravigliare, mio giovane amico, che la pittura è finita, quando ormai per tutti noi c’è più bellezza in un mucchio d’oro che nelle opere di Apelle o di Fidia!
Queste frasi sembrano servire da fondamento a Fellini per un discorso più preciso sul cinema e sulla sua forza creativa. È come se quest’ultima si fosse emancipata da tutti i suoi complessi rispetto al tema che tratta, nella piega di un passato trasferito in presente o di un presente che vive in un passato reso immortale. Emancipata dai temi soggettivi che richiedevano l’esplicazione dell’immagine in 8 ½, psicologicamente emancipata dal filtro autobiografico che tratteneva e imprigionava le immagini di Giulietta degli spiriti in grovigli di domande, Fellini manifesta in Satyricon una capacità piena e completa di trasformare i piani e le inquadrature in quadri liberamente elaborati. La lista di queste composizioni esterne che servono a legare tra loro i frammenti in una continuità pittorica sarebbe troppo lunga; è sufficiente indicare alcuni grandi momenti: innanzitutto, il susseguirsi di cieli attraversati da nubi, i finti marmi dipinti, altri soffitti dipinti utilizzati come punti di transizione da una stanza all’altra, che sembrano annunciare una creazione del mondo alla maniera di Michelangelo, e sovrastano a volte l’immensità definitiva dei deserti. Poi la fascinazione, il fascinum della grande scena che precede la cena di Trimalcione, in cui si passa da un deserto lunare alla folla ammassata nella piscina, un’umanità che sa di pesce, luci create da orge di candele, una scena inventata, che non ha altra utilità oltre a quella della sua esecuzione e dei suoi processi.13 Altrove, l’atmosfera acquatica e cristallina nella quale è immersa la grotta dell’Ermafrodito – destinato invece a morire di sete –, di una lustrazione ninfale in cui il colore trascende se stesso nei propri ondeggiamenti da una variazione all’altra grazie a effetti di scintillio. E altri temi ancora: il ripescaggio di un gigantesco pesce morto, come nella Dolce vita, che anticipa la maschera veneziana di Casanova, il futuro rinoceronte di E la nave va, la testa tagliata di Lica come in Toby Dammit, gli elefanti che annunciano Intervista, tutti elementi a metà strada tra l’aldiqua e l’aldilà della derisione o della caricatura. La scena della pinacoteca, squadrata e inquadrata, come un telaio, offre uno scorcio della configurazione stilistica delle scene successive. Ritroviamo lo stesso effetto compositivo nella geometria della prigione di Lica, nella sua disposizione interna, tra cielo e mare, ma comunque interna, le murate della nave, gli incavi oscuri che racchiudono alcune nicchie: gli esseri le cui
pose imitano sculture – i «bei oggetti» che Lica e Trifena raccolgono per l’imperatore – sono incastrati in cornici, come i bassorilievi dei sarcofagi. L’episodio dello scontro tra la galera di Lica e le galere imperiali è la perfetta formulazione di quest’arte senza limiti di tempo o di spazio: tutto un gioco di remi solca la trama del quadro, si muovono appena, in una sosta interrotta da un’oscillazione leggerissima che diventa fremito d’aria, fremito impercettibile di prigionieri in catene, immobilità muscolare fremente che aspetta l’esecuzione di un decreto di morte. Nulla si muove e tutto vibra, tutto è detto da quello che affiora e rimane invisibile. Lo spazio e l’intensità ricreati dalla geometria che regola la disposizione delle linee e dei remi sono vicinissimi a quelli che ci svelano i quadri della Scuola metafisica: paralizzare l’attesa della morte alla luce del sole e dell’acqua, raggelare lo spazio visivo fino al punto in cui la visione si accetta nel tremito dei remi e nella sospensione della loro attesa. Quest’ultima troverà una risposta possibile nelle scene seguenti, nelle quali, ironicamente, attraverso la delusione di ciò che è lasciato in sospeso, Fellini sembra caricaturare i temi essenziali del peplum: irruzioni rapide di scene che richiamano e fanno avanzare un impero già barbaro, con i suoi trofei, i suoi crocifissi, i corni, il frastuono delle macchine da guerra, le fiaccole nere e le fumate, i simulacri e gli idoli sradicati, le frecce affilate, le aquile di paglia e di stoffa, i ritratti del Fayyum, le immagini di una romanità già mummificata nella sua archeologia. Testimonianza di un compimento cinematografico tanto padrone dei suoi mezzi da andare dritto alla sua realizzazione più epurata, tutte le scene sui mari nell’episodio di Lica, prive di necessità, sono tuttavia tanto assolute da diventare fondatrici, come alcune scene di Ėjzenštejn o di Ford. Che cosa succede in questi casi? Forse un’ipotetica risposta ci viene fornita dall’aforisma di Bresson: Silenzio musicale, per un effetto di risonanza. L’ultima sillaba dell’ultima parola, o l’ultimo rumore, come una nota tenuta.14
* Potremmo fermarci qui, e invece: Potrei dire che la Roma della decadenza rassomiglia molto al nostro mondo d’oggi, con questa smania buia di godere la vita, la stessa violenza, la stessa vacanza di principi, la stessa disperazione, la stessa fatuità. Potrei dire che gli eroi del Satyricon, Encolpio e Ascilto, rassomigliano molto agli hippies, come loro ubbidiscono unicamente al proprio corpo, cercano una nuova dimensione nella droga, rifiutano i problemi. Potrei dirlo e magari rischierei di avere ragione. Ma tutte queste spiegazioni più o meno convincenti, in fondo contano poco. L’importante è che nel fare questo film mi riscopro dentro un piacere, un fervore gioioso che temevo perduti.15
Fellini può anche tentare di mettere in secondo piano ciò che appare come una delle risorse del film, ma ci sono evidenze difficili da nascondere. A parte la rielaborazione del genere letterario e la sua immersione nel «fantastico» – in una modalità comparabile a quella di Toby Dammit –, al di là dell’interrogazione della pittura, e più in generale della cultura, che attraversa il film, un elemento dell’opera letteraria è recuperato dall’opera cinematografica e rielaborato in adeguamento con la sua epoca. Si tratta della componente erotica e orgiastica che, dal prologo al finale, porta avanti il racconto. Se è vero che la ridescrizione di percorsi erratici e nomadi è essenziale, lo è altrettanto che questo tema si sviluppa attraverso un discorso sulla sessualità,
necessario nel contesto di un presente culturale, sociale, politico, che ha cercato e cerca ancora, con brutalità spesso inaudita, di occultarlo, di sottrarlo. Anche il discorso diretto sulla sessualità, imitando l’asse di una tragedia, con il suo prologo, i suoi intrecci e il suo finale rimandato, dipende da un proposito deliberato. Si può osservare la presentazione della sessualità in questo film da un altro punto di vista, e dire che se La dolce vita e 8 ½ saggiavano un modello di maturità sessuale e affettiva dell’uomo italiano contemporaneo, se Giulietta degli spiriti si rivolgeva su aspetti identici ma dal punto di vista della donna italiana, Satyricon affronta l’omosessualità in Italia, inserendola nella dimensione elusiva della pluralità sessuale. A tal proposito, i due film precedenti coglievano questo tema tanto quanto Satyricon lo osserva da lontano, tramite la descrizione di costumi attribuibili a un’Antichità passata, che sottintende quella della «libertà sessuale» degli anni sessanta e settanta, venuta da un «altrove» che non ha quindi nulla di particolarmente italiano, e al quale Fellini dà qui il nome di «hippies», interpretati da Encolpio e Ascilto.16 Nella prima descrizione, quella antica, l’espressione della libertà dipende dal carattere apparentemente banale di questi costumi; nella seconda dal fatto che quest’ultima costruisce i poli di una trasformazione transculturale che inaugura il proprio radicalismo. Il punto non è l’amore – l’amore è un’altra cosa –, benché il film ne proponga almeno due rappresentazioni, in forma profana con il racconto della matrona di Efeso, poi attraverso il racconto del suicidio dei patrizi, circondato da un’attesa quasi messianica. Il punto è la pluralità di forme che assume la sessualità quando i costumi non sottopongono la sua pratica ad alcun condizionamento, pagano o cristiano che sia, e questa sottrazione è operante in entrambe le epoche. Pertanto, l’unico contesto in cui l’autore può inserire questa pluralità è di natura artistica, letteraria e cinematografica, dove i rapporti sentimentali e sessuali sono presentati nella loro dimensione più nobile, la forma tragica, il cui accademismo viene stemperato dalle passioni, dai furori e dai disastri che il tragico provoca. La sessualità allora può essere mostrata in modo esplicito, come un esercizio naturale che richiede il suo addestramento e i suoi apprendistati. Encolpio e Ascilto, che furono amanti, vivono, loro soltanto, le inquietudini della loro condizione di studenti, dei loro incontri, seguono le vie delle esperienze, delle curiosità, delle conoscenze e degli scambi che appartengono loro, offrendo così una sintesi della propria condizione umana e sociale, come quella del letterato attraverso la figura di Eumolpo, in ogni epoca. Anche le diverse prove che devono affrontare tendono a dar conto della facilità connessa alla sessualità come strumento di conoscenza, di reciprocità e di interrogazione – ciò fa ancora chiaramente parte delle nostre pratiche culturali –, grazie al confronto con circostanze in cui ognuno inventa soluzioni, oppure aspetta dagli altri la sperimentazione di un sapere che non possiede, o cerca anche di cavarsela grazie alle esperienze che ha accumulato. L’oggetto tragico, Gitone, è allora soltanto un amuleto cangiante che passa dall’uno all’altro, e poi a tutti; solo uno dei numerosi oggetti intermediari necessari alla formazione di questa conoscenza, alla sperimentazione di questa curiosità. Lo stesso procedimento era già all’opera in Giulietta degli spiriti, con la differenza che le sfilate amorose non si cristallizzano qui in ossessioni. Il paganesimo greco o romano, straniero all’idea di peccato e di colpa, non crea se non oggetti di fascinazione che portano a timori senza allucinazioni – il timore di perdere l’amato o la virilità, di perdere qualcosa del genere, è assorbito dall’urgenza con la quale i problemi devono essere risolti, in un modo o nell’altro. La paura profonda, vera, è quella di un domani di cui si ignora tutto e, più ancora, la possibilità e i
mezzi per arrivarci. Vita quotidiana, sentimenti quotidiani in cui la sessualità è sia omosessuale che eterosessuale. È insita, naturalmente, semplicemente, nell’espressione dei suoi incontri, del suo uso immediato: si gioca a mettersi insieme per aggiustare il fatto di essere soli o senza un domani. Malgrado il loro potere, anche Lica o Trifena non possono sottrarsi dal gridare «Cubitu gaius!» per continuare a vivere, pur ricordando la favola crudele di Kore: «Dio le apparve con queste parole: “Se vuoi vivere con lui il suo destino, vivrai la metà dei tuoi anni sottoterra e l’altra metà nella dimora dorata dei cieli”». Sempre, in queste vite di un tempo e di oggi, il fascinum include il formidabile, il monstrum, che promette miracoli e maledizioni, perché il dono degli dèi è sempre duplice: l’Ermafrodito, nella bianchezza opalina della sua strana natura, o Enotea, nell’incandescenza delle sue malizie fiammeggianti, fondano la loro forza su un destino tragico originato da una storia passionale, legata a sessualità offerte o rubate. Il film evoca più volte le forze del nefas, e la fine della scena della lotta con il Minotauro in cui Encolpio lo supplica di risparmiarlo, «Doveva esserci un gladiatore al mio posto, io sono uno studente! Risparmiami!», ripete l’antica legge del prezzo da pagare nell’unione con i simulacri e gli idoli del divino. Quando gli viene concessa la salvezza, Encolpio fallisce l’ultima prova, la prova sessuale dell’unione dionisiaca con Arianna: fare e disfare Arianna, una libertà compromessa per natura e per cultura. I molteplici labirinti reinventati nel film17 si ricollegano alla loro antica funzione: la conoscenza e la liberazione – sempre intempestive e temporanee – sono il compimento di un percorso nel quale perdite e ritrovamenti avvengono soltanto attraverso pegni combinati di amore e di sessualità e di storie che fanno perdere i sensi. Conoscenza e liberazione temporanee: è in uno dei labirinti che Encolpio ritrova il suo amore per Ascilto, ovvero la sua vera storia: in una bellissima scena di sguardi e tenerezza reciproci, il biondo, apollineo Encolpio si unisce al moro, al dionisiaco, in un lungo sorriso. Ma l’amore di nuovo percepito e ritrovato non restituisce la virilità, bisognerà sacrificargli l’amato e mandarlo a morte: Ascilto muore un po’ per caso, in modo strano, come sempre in modo strano si muore per amore, come muore a Delfi Dioniso, il Pitone, braccato e temporaneamente vinto dall’amore di Apollo. Allora Encolpio, lo studente innamorato, chiude la tragedia di cui aveva recitato il prologo e tenuto insieme le fila e i lamenti. Come Achille davanti al corpo di Patroclo, piange e si lamenta in versi: Dov’è adesso la tua gioia? La tua prepotenza? Sei in balia dei pesci e delle belve, tu che poco fa ostentavi la tua innocenza guerriera! Avanti mortali! Ora riempitevi di sogni. Dei grandi! Come giace lontano dalla sua meta.
La liberazione temporaneamente riacquisita, la decadenza, le disfatte, i lunghi cammini riprendono. Eumolpo muore, nel testamento chiede di essere mangiato, nuove amicizie sessuali percorrono gli sguardi, le vicende del mondo continuano, e quella di Satyricon, la storia che contiene anche le storie finite, non si chiude se non promettendo di ricominciare, anche se il Tempo, divinità cieca e senza favola, muterà tutto in pittura d’argilla: Decisi di partire con loro. Salpammo quella stessa notte. Facevo parte dell’equipaggio. Toccammo porti di città sconosciute, udivo per la prima volta i nomi di Keliscia, Rectis… in un’isola ricoperta di erbe alte e profumate, si presentò un giovane greco e raccontò che negli anni…
VIII
RIPRESA E RICREAZIONE DI UN FILONE CINEMATOGRAFICO: I CLOWNS O L’INTERVISTA AGLI ATTORI DEL PRESENTE. RITORNO ALLE IMMAGINI E AI MITI DELL’ERRANZA E DEL VAGABONDAGGIO.
Parlare di ciò che muore, di ciò che oggi è già morto, ecco cos’è I clowns (1971). In questo film Fellini riprende un tema che dal punto di vista narrativo sente completamente suo.1 È un cogliere strane palpitazioni: le cose, gli esseri si compiono e spariscono nella loro trama, e dunque nella loro vita, e la necessità è allora quella di sparire e tacere quando tutto è finito, perché non resta più che una presunta continuità. Non c’è nulla di più gioioso, in tal senso, del finale di 8 ½, la ricomposizione delle soggettività, indifferenti e ostili all’inizio, in un tema più grande, in una riarmonizzazione sostenuta soltanto dalle scansioni musicali, dagli accordi che riuniscono i corpi, dalle parole che scoprono le vibrazioni più tenui di una conversazione infinita che svanisce nella pellicola. Questo «sparire» fa da sfondo ai Clowns: nessuna nostalgia intacca la semplicità simulata di ciò che viene detto e mostrato, di ciò che diventa memoria nell’istante stesso in cui viene detto, in un susseguirsi di circostanze che liberano gesti maldestri, gesti che così diventano, immediatamente, protagonisti del film. Liberarsi di tutto scomparendo, nella tenerezza di un gesto, di uno sguardo, di una parola. Il problema non è più sapere se le cose hanno contato o meno, ma sta nel fatto che queste si situano in un passato che si può soltanto guardare, a condizione di essere stati invitati. La questione posta nel film respinge l’immagine in una posizione di arretramento, da cui si deve liberare la testimonianza che si presenta più in forma di parata o di racconto che di spiegazione. Ogni parola rimanda alla ricostruzione di una simpatia, di una complicità: forse le cose sono state così, ma non lo si sa più veramente, e la sfida è definire, terminare con una parola che non potrà più essere pronunciata. Una domanda che non prevede risposta e mantiene soltanto la tensione degli sguardi che dicono quello che si è stati senza possibilità di recupero. Dire un presente mancato che non ha più motivo di essere. L’esempio della fallita proiezione a casa di Pierre Étaix del film sui Fratellini, quello della visione deludente di poche immagini mute all’Ortf (Office de radiodiffusion-télévision française) rivelano che il fallimento può essere un compimento del reale. La sfida è questa, perché chi è il clown, se non qualcuno che ha successo soltanto quando sbaglia magistralmente la sua mossa? Non è una questione di abilità e di precisione, con l’una e l’altra che si riducono a semplice dimostrazione; ci vuole l’arte, una grazia nella disgrazia, un miraggio nella malasorte, un sorriso tra le lacrime. E non si tratta nemmeno di questo: non c’è nulla di più appassionatamente serio e noioso di un clown, con la sua applicazione testarda, tranne quello che imprime ai suoi gesti, che sfugge ai codici sociali attraverso una trasgressione di cui il clown finge di conoscere soltanto il meccanismo e non le conseguenze,
confinato nei limiti di una topografia inventata, ai margini di tutti i territori – la circolarità apparentemente chiusa del circo, ai confini delle città, vicino ai mercati, alle prigioni –, e che oltrepassa fino all’estremo sia i codici della ragione che quelli della follia. Mondo del fallimento e dell’ingenuità indotta, provocato e ricercato dallo spettatore, convinto della realtà di una superiorità che non sa più collocare, in se stesso o nel clown, su un’estensione temporale e spaziale in cui s’insinuano lo strano e l’oblio. Elemento specifico dello spettacolo, dunque, a parte le continuità fissate dalla tragedia del grottesco. Il grottesco o il caricaturale, quelli del clown, mettono in gioco una megalomania che volge subito al tragico della banalità se non è crudele. Non sorprende che di questo mondo resti soltanto qualche frammento casuale, pronto a sgretolarsi del tutto se lo si tocca, se lo si pensa. Qualche locandina sbiadita, sagome, trucchi diluiti nell’acquerello del tempo, racconti, le centinaia di ferite di un domatore di animali feroci, gli incidenti, le poche foto che resistono quando i clown sono ancora in vita, vite stiracchiate nella noia di quello che non accade più, villette in periferia, appezzamenti di giardini umidi, un turbamento strappato, una paura, un terrore al posto di un coraggio del corpo, un tempo fatto di esattezze. Il film mostra anche la vita presente di questi mostri di un tempo: il tema del «tempo di una volta» riappare nella sua forza negativa, in quello che ormai gli manca di eroismo necessario, nella banalità del confronto con un mondo che li ha esclusi dal quotidiano. E con loro il loro mondo, che li ha divorati: Cirque d’Hiver, Medrano o Bouglione hanno posto le loro sedi su una stabilità che, pur dando una patente di nobiltà al genere – come viene detto nel film –, ha scambiato la sua ostinazione e la sua resistenza con severi padroni di fabbrica. È allora che il film rinuncia a ricostruire e a far brillare le figure essenziali di quest’arte perduta, preferendo sviluppare alcune variazioni. * Il film nasce da un ricordo di infanzia, da rumori e soffi nella notte, come un grande polmone che respira o un veliero che lascia gli ormeggi. Lentamente si alza il tendone, la sua cupola, i suoi pali, gli uomini si danno da fare, tutto è seguito da sguardi che attraversano le sbarre di una prigione, di un convento, di case con le finestre illuminate. Altri ricordi si susseguono in pochi brevi nuclei narrativi, come se l’autore testasse i colori di una tavolozza, come se cercasse le tonalità giuste. Il giorno seguente, il bambino sognatore vestito alla marinara entra nel tendone del Circo Equestre, in cui si susseguono diversi numeri decantati da un imbonitore: cavallini neri, il prodigio del cannone, ripreso dai clown in una maldestra imitazione, numeri comici, leoni e tigri, Matilde, la donna Ercole che, sul tema della Cavalcata delle Valchirie, abbatte un uomo fortissimo prima di affrontare Miss Tarzan, un fachiro che sopravvivrà sepolto per quarantotto ore, la sirena Nettunia dal sangue freddo, che ingoia pesce crudo, i feti siamesi, altri numeri dei clown in cui partecipano i Cesari, i clown bianchi, e gli Augusti, una maschera triste in omaggio a Kafka, la musica della Marcia dei gladiatori, come gran finale, e ancora un Minotauro farsesco, come se tutto tornasse in forma di guazzabuglio. La curiosità del bambino viene delusa: I pagliacci non mi avevano fatto ridere, al contrario, mi avevano spaventato, quei volti di gesso dall’espressione
indecifrabile, quelle maschere stravolte da avvinazzati, le urla, le risate folli, i loro scherzi assurdi, atroci, mi ricordavano altre figure strambe e inquietanti, che vivono e si agitano in ogni città di provincia.
Dal circo Fellini passa a una serie di digressioni che avvicinano le eccentricità del quotidiano di una cittadina di provincia alle buffonate dei clown. C’è Giovannone, che corteggia le donne gridando oscenità, poi la nonna nana, sia in convento, sia al manicomio – rivedremo la stessa attrice in Amarcord –, la donna che viene a prendere suo marito, mutilato della Grande guerra, la signora Ines, che sa a memoria tutti i discorsi del Duce, i facchini della stazione che passano il tempo a litigare, il capostazione – quasi una caricatura del re d’Italia –, il treno e i ragazzi che fanno le pernacchie proprio quando il capostazione fischia per far ripartire il treno, la stessa scena ripetuta in seguito alla presenza di un capo della milizia fascista, il braccio teso; le partite a biliardo con l’idiota, Giudizio, che tiene i punti. Poi la scena nel bar, in cui entra, sulla musica di Fascination, una tedesca bella e bionda accompagnata da un gerarca, ancora un capo fascista; si fa avanti un seduttore belloccio, la partita a biliardo ricomincia. Lo scherno piove su Giudizio e tutto finisce nella festa di una battaglia a palle di neve e nell’invito a bere un bicchiere di vino. Tutti temi già contenuti nei Vitelloni, con un’insistenza sui toni tipici dell’epoca fascista, a Rimini, e la manifestazione di un gusto per la caricatura e l’esagerazione che avevano caratterizzato l’apprendistato di Fellini presso le riviste umoristiche della fine degli anni quaranta. Temi che saranno rielaborati in Roma per convergere poi nel grande affresco di Amarcord. La novità dei Clowns sta nella scelta dei suoi approcci: l’intenzione è giornalistica, documentaristica, legata al periodo di formazione del regista, al ricordo di Rossellini che gira un documentario. Tutto ciò colma un altro desiderio: proporre un seguito al giornalista di Agenzia matrimoniale, o al Marcello della Dolce vita, e fare il punto su un mestiere che, pur non avendo avuto ripercussioni nella vita reale, permetteva l’ottica giusta, quella del giornalista documentato che si cela dietro il regista cinematografico. Il ricordo del giovane giornalista che sbarca nella capitale, meravigliato da tutto quello che può osservare dopo averlo immaginato attraverso il racconto degli altri, è stato un aspetto sentito della filmografia felliniana.2 I clowns dà quindi avvio a una nuova serie, la quale deve cercare di rimuovere la posizione umoristica, a volte ironica, che ha avuto verso un mestiere di cui ha denigrato l’atto di fede e i metodi. Questo tema si radicalizzerà con il tempo, quando non si tratterà più di parlare della carta stampata, ma dei mass media: l’offensiva, iniziata nelle scene del «miracolo» nella Dolce vita attraverso il confronto tra Marcello e i suoi colleghi della tv, è ripresa con cieca violenza in Toby Dammit, prima di concludersi in Ginger e Fred, ormai priva di ogni forma di umorismo, grazie all’amalgama tra giornalismo e pubblicità. Anche la struttura dei Clowns può sembrare bizzarra. Mischiare, da un lato, l’improvvisazione di una ricerca e dell’intervista avendo a disposizione soltanto un piccolo ufficio, una segretaria di produzione e collaboratori quasi risibili, qualche taxi e ristoranti dall’aspetto insignificante, e d’altro l’inserimento di numeri ricostruiti o improvvisati, significa lavorare senza indugi, frontalmente, «senza motivo reale», alla questione dei clown, a metà strada tra l’intenzione documentaristica e l’intenzione poetica. È una piccola erranza che ricomincia a recitare la sua aria, la passeggiata all’interno dei frammenti di un mondo fragile di dispersi. Come emerge dai discorsi dettati in modo ostentato da Fellini alla segretaria di produzione: I teatri trasformati in piste, gli scenari luminosi e ingenui, la credulità infantile del pubblico, non esistono più,
restano delle tracce sottili e struggenti negli attuali circhi, ed è questa la nostra ricerca.
* Il film procede veloce: il vagabondaggio e l’erranza mescolano gli sketch e la materia della ricerca come in fotogrammi e quadri cinematografici muti, in cui sono inserite delle didascalie. Dopo la presentazione della ridottissima troupe che girerà il film, un breve «tour italiano» ci porta a visitare il Circo di Rinaldo, Liana e Nandino Orfei. Tutto sembra rispettare ancora le antiche e solide tradizioni – il tendone, gli animali, i domatori, la pista e i colori, sensualità diffuse, come odori, le roulotte in cui alloggiano i circensi –, rappresentato in un guazzabuglio di forme e atteggiamenti accompagnati dalle variazioni musicali di Rota nel finale di 8 ½. Ecco la parata dei clown e i loro numeri, gli elefanti, le gabbie delle belve e Anita Ekberg, vestita da felino, che passa lì davanti: vuole comprare una pantera. Si bivacca, come dopo una gita: durante un pasto si scambiano alcune battute nella roulotte di Liana Orfei. Il clown moderno e gli elefanti resistono, pensosi. Fuori intanto si ammaestra una tigre. Lo stesso percorso sarà seguito a Parigi, dove, in un’altra epoca, era esistita, si dice, la maggiore concentrazione di clown. La Storia riunisce i suoi racconti: il primo grande clown di cui si ha memoria, alla fine del XIX secolo, fu il francese Gilles Guillaume – riusciva a nascondere il naso col labbro inferiore –, morto alcolizzato ancora giovane, straziato dalla solitudine e dalla malattia, e dimenticato. Ma come muore? Il racconto ricorre ad alcune immagini. Il documento tace ed è il film che racconta quest’ultimo frammento di storia e di vita, mettendo in scena la fuga di Gilles Guillaume dall’ospedale, la sua traversata della città fino al circo, ricostruendo il numero di Frutti e Cioccolato sulle note di Io cerco la Titina; in trasparenza, l’evocazione della morte di Gilles Guillaume, di professione clown. Sfila un mondo che non esiste più, di cui restano soltanto nomi di luoghi, Gare d’Orsay, Grand Palais, altri circhi famosi, e soprattutto Les Halles, in cui Fellini incontra il grande esperto di clown, Tristan Rémy. Le storie si snodano come se si stessero evocando le mitologie di divinità scomparse: compare Antonet, clown bianco crudele che sottometteva il suo Augusto, e in parallelo a questo racconto, più forte del semplice ricordo, una ricostruzione, un numero che riunisce Antonet e Béby. È messa in scena la gioia inattaccabile di credere all’evidenza dell’idiozia, l’innocente grandezza di pensare la materia come qualcosa di non esistente contro cui inciamperà ogni possibilità di razionalizzazione o di materializzazione. Una banalità muta, inoperosa, quella del quotidiano, urta contro una miriade di impasse che si trasformano in altrettanti passaggi, di rumori attraversati dalle inutilità di tutti i giorni che, sviate dalle loro funzioni, trasformano le verità in altrettanti cliché: nulla serve a nulla. Un uovo schiacciato in una ciotola non è più lo stesso se schiacciato su una testa, ma in entrambi i casi è inutile, non serve a nulla. Strana poesia dei clown bianchi, dei loro costumi. Alcuni – raccontano – cuciti dalle mogli, altri confezionati da grandi stilisti. Rimane comunque l’aspra lotta tra i clown sui costumi. Eppure, a parte le rivalità, dietro la faccenda si nasconde l’attrazione irrefrenabile per il travestimento: si possono solo lontanamente immaginare i rapporti tra il clown, la moglie e lo stilista, il quale disegnava, mentre la moglie cuciva e il clown indossava, notti cucite di paillettes, di nastri e di goffrature, notti di inamidature, di stirature, in tessuti di rarità già
polverosa, candidi di un candore papale, di antichi dolori. Da dove nasceva – e nasce ancora – questa volontà, da quale singolarità nascosta, segreta, da quali peripezie, da quali vendette e da quali rivincite sin dal tempo dei matti e dei nani di corte, i Rigoletto? In Fellini le dimostrazioni si collegano tra loro partendo da una voglia diffusa di teatralità, una teatralità che viene dal circo. Sul tema musicale del «Toreador» è presentata la sfilata dei costumi dei clown bianchi, in un grande numero di marionette che fa da anteprima alla sfilata ecclesiastica di Roma. Qualcosa di incantatorio si libera da queste figurine; sono qui per sempre, consegnate in questi angoli di vetrina, porcellane fissate in «conversazioni», come biscuits di Sassonia, livide di un’anemia della ragione ma gonfie di cattiverie impulsive, di collere rubate agli Arlecchini della commedia dell’arte, ai Pulcinella, ai Pierrot, ai Pinocchio. Su grandi slanci musicali, le sagome si sfiniscono in false delicatezze che ne attenuano il sesso, i costumi le travestono senza tuttavia mascherare la loro violenza, flauti e mandolini diventano armi inquietanti. «Ma perché lei vuole fare un film sui clown? Il mondo del circo non esiste più. I veri clown sono tutti scomparsi, perduti […] ed è giusto che sia così…» chiede Tristan Rémy, ma non ottiene risposta, se non una risposta diffranta nella ripresa di un refrain dell’immagine. Fellini cerca di incontrare Monsieur Bouglione, che non sembra disponibile, ha troppo da fare; al suo posto si vede l’elegante numero di un giovane clown accompagnato dalla figlia di Charlie Chaplin; una maniera come un’altra, per Fellini, di ripercorrere una storia di appartenenze. Strato per strato, rivisita tutti i resti: il Capitano Hook, un tempo direttore dei circhi più grandi, che dopo aver lanciato due fenomeni come Dario e Bario, abbandonato oggi nel suo ospizio alla periferia della grande città, parla soltanto di Beniamino Gigli e di Tito Schipa, due vecchi astri del teatro lirico. In seguito, un Augusto spagnolo, in costume rosso, racconta una storia di circo, di funamboli, e termina eseguendo un numero con la chitarra. Poi l’incontro con Pierre Étaix e Annie Fratellini, il fallimento della proiezione, l’album disegnato da un ammiratore, una nuova discussione sui clown bianchi, la storia dei Fratellini, che recitavano a sei mani, recitavano nelle trincee, nei manicomi, negli ospedali. Un numero di farfalle musicanti, che soffiano in strumenti magici da prestigiatori e da circo, è ricostruito in una scuola diretta da suore, poi in un manicomio, poi in una trincea. Rivisitare questi teatri corrisponde a una reinvenzione della plasticità felliniana. Ricorda «le scene luminose e ingenue, la credulità infantile del pubblico», dipinge quello che avrebbe potuto essere il teatro-circo di quel tempo, la maniera in cui lo spettacolo avrebbe potuto apparire agli occhi di un bambino, all’epoca di un’infanzia degli spettatori, attraverso scene in cui l’infanzia è vista di spalle – proprio come i bambini che corrono nei corridoi di Agenzia matrimoniale –, in allerta, inafferrabile. Fellini utilizza tonalità fra il pastello e l’acquerello, colori polverosi; forse li userà con gli stessi obiettivi in alcuni passaggi di Casanova, il tocco di un’infanzia già trascorsa di Venezia. Resta una trama che si intravede appena un’ultima volta, grazie agli effetti del cinema, prima di sparire definitivamente, pallido pulviscolo posato sulle cose. Delicatezza e morbidezza che impongono un’assenza del tattile, o l’aereo e la leggerezza, qualità specifiche del clown, che dà il cambio a ciò che è inenarrabile. Fantasmi di clown nelle periferie di Parigi: Monsieur Rioux, poi Pipo e Rhum, Monsieur Bario, di origine toscana, in un sorprendente momento di tenerezza, di timidezza di vite fuggite via, tra la «colpa» di essere partite lasciando qualcosa – l’Italia, forse – e la «colpa» di non essere altro. «Non mi sentivo a mio agio» commenta fuori campo la voce di Fellini «come per
un’impresa fallita: il senso di un viaggio che non ci ha portato da nessuna parte. Forse Tristan Rémy ha ragione, il clown è definitivamente morto!». * Bisogna festeggiare, e il film termina con un gran finale che riprende tutto quello che Fellini ha già fatto dai Vitelloni fino a 8 ½. L’ultima scena, con la sua immensa bara, si scatena in una grande sarabanda di clown tra le scenografie di un tendone rosso fiammante. Come per un ultimo grande spettacolo, i clown si riuniscono nella loro varietà: italiani, spagnoli, francesi, inglesi, appaiono tutti, ognuno con la sua lingua, le sue pose, i suoi sketch e i suoi scherzi inutili, come in una gigantesca Babele. Tutto si confonde nella celebrazione della vita e della morte del clown Fischietto, mentre si organizza il suo funerale. «Fischietto è morto… è morto cadavere!» grida una voce, ripetuta in coro, in strane condoglianze, con la lettura del testamento, il fotografo che immortala il momento e l’eterno incidente che raddoppia la comicità dei clown: manca solo il magnesio per completare il cliché. Poi le battute che tutti conoscono: «Che messaggio vuole dare?», e il clown si becca un secchio d’acqua in testa, a sottolineare la stupidità delle domande dell’intervista, ma anche a ripetere la grande e solida stupidità del mondo. Poche note del tema di 8 ½ sviluppano una risonanza interna che è puro scherno. Infine, il funerale, con bara e carro funebre, guidato da un elegante Augusto, in stile inglese, e trainato da asini, come in omaggio a Lucignolo e a Pinocchio. Si celebra la morte di Augusto detto Pagliaccio, e le sue lodi sono pronunciate da una voce che riecheggia Petrolini, anche lui dall’aria decisamente clownesca. Durante il funerale gli asini si ribellano: è l’eterna rivolta e la sua repressione-rimprovero, pronunciata in inglese, una lingua straniera, seguita da sequele di discorsi ufficiali. Come nell’esaltazione delle scene finali delle Tentazioni del dottor Antonio, la sfilata, iniziata al passo di una marcia funebre, è rappresentata in un’accelerazione progressiva, strascicata, scandita da numerose gag. L’accelerazione termina con una grande corsa finale, con fuochi d’artificio e pompieri, quasi un omaggio a Totò e ai Pompieri di Viggiù. Un quadro di Grosz, una fine del mondo è dipinta in questa sarabanda con l’apertura di una gigantesca bottiglia di champagne nascosta nel catafalco del morto. L’accelerazione obbedisce allora a un altro ordine del regista – «Accelerate, accelerate!» – che sottolinea la costruzione del lavoro e lascia percepire, attraverso la voce, la propria elaborazione esteriore e interiore. L’inseguimento finale – melodia dell’erranza imprecisa – è spinto al limite, fino all’esaurimento della scena. Tanto il gran finale di 8 ½ conservava nel suo segreto la bellezza legata alla folgorazione della pellicola in bianco e nero e al racconto, quanto qui l’unione delle scene finali e delle scene di festa sfocia nel turbinio degli elementi, come se si trattasse di immaginare qualcosa di inesauribile in sé, di descrivere forze scatenate. All’improvviso, tutti i temi musicali, il frastuono scandisce il silenzio, non si sente più neppure un fruscio, tra il volteggiare di mille nastri di carta, e lassù un clown, muto, appollaiato come un pappagallo. Il mondo dei clown che ha rivissuto quest’ultima follia non può essere richiuso se non con una lunga sequenza sul clown sfinito. Quest’ultimo, che non riesce più a correre dietro o davanti al catafalco, riprende in un bellissimo monologo un numero che Bario ha raccontato a Fellini:
«Mi è piaciuto molto.» Lo sa, signor Fellini, una volta facevo un numero con un mio compagno che si chiamava Frufrù, si faceva finta che lui era morto. Io entravo in pista e dicevo: «Dov’è Frufrù?». «Ma non lo sai» mi diceva il direttore. «È morto.» «Ma come è morto?» dicevo io «mi deve restituire le dieci salsicce e la candela che c’ho prestato l’anno scorso!» «Ebbene, è morto» mi diceva il direttore. «Dove posso trovarlo?» dico io. «Ma cretino, ti dico che è morto!» Allora io, che non mi davo per vinto, mi mettevo a chiamarlo: «Frufrù, Frufrù». Niente, non rispondeva. «Che sia morto davvero» dicevo io «e se è morto come faccio a trovarlo?» Uno non può mica sparire così, da qualche parte deve stare: «Frufrù!». Finché non mi viene un’idea: «Lo chiamerò con la tromba come quando lavorava con me». Così comincio a chiamarlo con la tromba… Suono le prime note, sto a sentire… Niente. Riprovo… Era una canzone molto bella, che faceva piangere… Faceva così…
L’ultima scena prende avvio da Stormy Weather e passa in rassegna le immagini della vita e della fine del clown, in giochi di effetti ottici che illustrano la sua scomparsa, in cui la tensione poetica è tenuta in sospeso dalla rarefazione della musica e delle luci. Sui gradini del circo in rosso, con l’eterno occhio di bue che getta la sua luce opalescente, spunta un giovane clown che suona qualche nota, poi, dopo un solo istante, un altro clown riprende la linea melodica, la inseguono insieme, per poi scomparire com’erano apparsi, davanti al sipario rosso dell’entrata in scena illuminato dal fascio di luce. Uno – sfinito – è l’Augusto, l’altro – Frufrù – è il clown bianco, ed è l’ultima scena possibile nel teatro del circo, recitata da due clown, dei quali uno è morto.
IX
COME DESCRIVERE CIÒ CHE È? ROMA, O UNA NUOVA IMMAGINE DI BABILONIA. CHE COSA RESTA DELLA ROMANITAS? ESSERE ROMANI E ROMANITAS. DI ALCUNI MITI DEL FASCISMO. DI NUOVO, LA CITTÀ NELLA CITTÀ, LO STATO NELLA CITTÀ. RICOSTRUZIONE DI CERIMONIE SOCIALI: A) UN’ARISTOCRAZIA GROTTESCA: LO SVILUPPO BURLESCO COME UMORISMO; B) I VOLTI STORICO-SOCIALI DI UN’ISTERIA ITALIANA: LA FAMIGLIA, LA CENA, IL TEATRO D’AVANSPETTACOLO. CIÒ CHE NE DERIVA.
Ancora una volta, che cos’è Roma? Nei film di Fellini il perdurare di questa domanda indica che ha a che vedere con la sua biografia, e con il prolungamento della sua vita, il cinema; riprenderne il tema significa esaminare una profondità e, forse, assaporare un sorriso. In Roma (1972), in attesa della svolta romana più legata al passato cinematografico di Intervista, ne parla per la penultima volta. Questo discorso, spesso portato avanti in modo frammentario, finge di combinarsi in una strana unità, che in fin dei conti sarà soltanto quella del titolo. In tal senso, Roma sfiora qualcosa che aderisce alla pelle e la cui ripresa non può evitare di rimandare a luoghi, personaggi, sensazioni precise, in virtù di un desiderio necessario. Inoltre, ogni tema che all’inizio può sembrare individuale o autobiografico diventa comune, e lo sguardo portato sulle cose dall’entità individuale – in un confronto spesso oppositivo tra personaggio e macchina da presa – non serve se non a delimitare zone immediate di interesse e si confonde in fretta nella massa dei frammenti che mette in risalto; anche l’elemento biografico lascia «trascorrere il tempo» tra uno stato di giovinezza naturalmente meravigliato e una maturità più cosciente dell’autore. Abbiamo già sottolineato quanto la Città fosse, per ogni italiano, un termine di paragone assoluto, di soluzione di una problematica complessa legata alle origini, all’origine stessa; tanto più che la narrazione inizia con un apprendistato collocato durante l’era fascista, che ha reso la Città e le sue diverse origini – i Sette re, la Repubblica romana, l’Impero, il papato – lo snodo centrale della sua credibilità e della sua spettacolarizzazione. Roma è dunque ciò che è – come Dio dice «ego sum qui sum» –, ha qualcosa a che vedere con l’Italia, oppure il contrario, l’Italia ha qualcosa a che vedere con Roma, con ciò che in essa è. Storicamente Roma ha ritenuto che il mondo fosse insignificante, privo di particolarità, e che lei soltanto potesse dargli significato: è questo il punto di partenza del film, come a voler illustrare il detto: «Tutte le strade portano a Roma». Dopo l’inizio in una landa desolata, a 340 chilometri dalla Città, come indica un cartello piantato in un inverno fosco e senza memoria, viene mostrato uno dei numerosi luoghi fondativi della Città: il Rubicone, il fiume che determina, con Cesare, il passaggio dall’epoca delle dittature repubblicane all’Impero. La scelta di Cesare – la cui morte è rappresentata nel breve sviluppo di una citazione interna – non è casuale, ma ben corrisponde all’età cesariana, cara al fascismo dal momento che rimanda alla dittatura delle dittature – Scilla e Pompeo,
Pompeo e Cesare –, scagliata in aria nel tempo ritrovato di un’altra frase celebre, «alea iacta est», gettando così la Storia nelle braccia del primo lancio di dadi che voleva abolire il caso. Ma il grido «a Roma» non può alzarsi se non mostrando la provincia da cui si parte, saturata dai segni della romanità conquistatrice: il lascito di una civilizzazione autoritaria traspira dai muri della città, dalle statue monche divenute monumenti. Il presente degli scolari in uniforme si nutre di questo apprendistato. Le lezioni quotidiane ripetono con enfasi la certezza monotona di un «valore», di un coraggio al contempo esemplare, perché pronto ai sacrifici, e comprovato, perché finisce per conquistare e imporsi, sotto lo sguardo «attuale» del re d’Italia e del Duce Mussolini, entrambi posti come i due ladroni ai lati di un crocifisso ancora obbligatorio nelle scuole. Tutte le classi sociali di una città di provincia sono impregnate di questa lettura del presente attraverso quell’unico passato. Anche la Chiesa se ne è appropriata, e quindi le diapositive che i religiosi mostrano agli scolari parlano soltanto di una Città eterna, rieternizzata dai papi: le indicazioni e i segni inculcati hanno prima di tutto a che fare con la fondazione di un Potere unico e molteplice, dalla lupa romana, «di bronzo», ai resti pagani e cristiani, alle grandi basiliche, fino alle imponenti natiche di una donna in un bordello, che anticipa scene future. Che questa serie concatenata del Potere sia ben reale, il film lo indica esplicitamente in una scena che evoca già una delle suggestioni di Amarcord, in cui, nel momento del pranzo domenicale di Pasqua, tutto si ferma per la benedizione Urbi et orbi del papa alla radio: tutti cadono in ginocchio per ricevere la pioggia di indulgenze che ovunque sulla terra rimette i peccati, grazie all’intercessione delle onde sonore e delle campane, fregandosene delle smorfie di un padre di famiglia agnostico. Anche il tempo libero è dedicato all’apprendimento di questa romanità d’epoca, attraverso i film storici che esaltano le martirologie e le enfatiche crudeltà di celluloide risolte dalla più grande delle passioni cinematografiche: l’amore, sempre l’amore! Fa sobbalzare i cuori e i volti, le bocche aperte, in mezzo a qualche ghigno e al disordine «nazionale» delle sale teatrali e dei posti da conquistare, letteralmente, a fatica.1 La successione delle scene sottolinea le connessioni tra i temi di un’acculturazione di massa realizzata grazie alle informazioni che le attualità dei film Luce estendono alla gloria postcesariana del Duce, di cui raccontano le imprese gloriose e l’esegesi. Lo sfogo allora non può essere altro che la libido potente di una lupa affamata, non di Roma, ma della più piccola e provinciale Rimini, tramite la moglie del farmacista, una ninfomane che si crede Messalina e trasforma la sua auto in un piccolo paradiso-lupanare per due, dietro la quale gli uomini fanno la fila.2 Come a sottolineare, con pochissime parole, che il potere maschile, rappresentato dalla mescolanza complessa di immagini devozionali ed eroiche, si riflette sui soggetti e fa razzia, al suo passaggio, di tutte le pose, compresa quella sessuale. Non è altro che l’esemplificazione di una virtualità sognatrice di libertinaggio, ma le storie di sesso sono frequenti nelle affabulazioni di quanto viene mostrato come preambolo di un racconto. L’andamento del film, la sua predisposizione alla «proiezione» di temi differenti raccolti come in una sorta di documentario che riunisce ciò che non smette di costruirsi come essenziale, è possibile grazie all’esperienza precedente dei Clowns, una sorta di testimonianza affettiva e tecnica. C’è in Roma, nel preambolo provinciale, un bambino dall’innocenza curiosa e meravigliata: il volto illuminato da una gioia e da una certezza stupite davanti alle natiche nell’episodio delle diapositive dai preti, lo stesso volto che comprende gioiosamente «quello che succede» nella scena della seduzione della femme fatale. I due episodi, legati dalle
«proiezioni» di immagini, sottolineano il carattere fondativo del cinema per un’epoca, in quanto documento della vita, o di una sua parte segreta, quella sessuale, e completano la spiegazione dei meccanismi dei passaggi sulla sessualità dell’infanzia trascritti in 8 ½. Sempre tramite semitoni espliciti, tuttavia. L’ultima scena di questo preambolo presenta lo stesso bambino: guarda il treno che parte per Roma come fosse un ideale, il luogo in cui tutto quello che è ancora massa di materia incerta potrà solidificarsi in sperimentazioni. Scena che si lega, idealmente, nei Vitelloni, alla partenza di Moraldo che lascia il suo presente di provincia per un futuro di capitale-ombelico del mondo: Urbi et orbi. * Scene di ricordi di infanzia proiettate alla rinfusa in un crescendo scandito da tempi che recuperano quel che possono. La partenza per Roma è indicata soltanto dalla transizione della fantasia finalmente realizzata dall’arrivo, già vista all’inizio dello Sceicco bianco. Il bambino è adesso un ragazzo di un’eleganza affascinante, «distinto», come verrà detto in seguito; attraversa, appena arrivato nella stazione più moderna dell’epoca, la realtà di quello che sfiora e che vede come se conoscesse già tutto, in principio stupito della sua gioia di riconoscere e di assaporare, in questa verifica tra idealità e realtà, il piacere di non essersi sbagliato. La Città s’inserisce in una modernità che pulsa e che lascia apparire, nella diversità delle folle, le sue figure vive di uomini e di donne cittadini di una capitale, i suoi mestieri, le sue fatiche, i suoi uomini qualsiasi. Le immagini che sorgono nel ricordo si trasformano in quest’attività pullulante, apparentemente incoerente, impulsiva, mischiata alla vitalità tutta nuova dei cartelloni pubblicitari, alla semplice bellezza delle realtà corporee delle donne truccate e vestite, a una lingua chiara e mobile. Felicità leggera e senza motivo per il fatto di esserci, al centro, tra questi monumenti un tempo visti nelle diapositive, la constatazione che tutto è veramente vero: vedere la Città di giorno, toccarla con gli occhi, la Stazione Termini, piazza Esedra, Santa Maria Maggiore, l’eterna sfilata di preti che corrono a destra e a manca, stupore sensuale di ciò che viene visto per davvero. Dopo il preambolo, il film segue una rielaborazione poetica dell’autobiografismo: «riconoscimento» della Città con l’immersione diretta in mezzo alla gente che la abita e la messa alla prova di un sé che brancola in questo racconto altrui, babelico e labirintico, con il riconoscimento delle caratteristiche condivise di un Paese – dalle sue origini e dalle sue fondamenta. Questo secondo racconto conduce al cuore di un quotidiano vissuto in comune e tocca più che mai, in Fellini, una necessità di verifica che ha a che fare con la realtà del presente e di ciò che resta di un Popolo. Anche la connotazione storica dell’epoca fascista sfuma nella descrizione di una vitalità che attraversa tutte le vite e gli atti che la compongono, a prescindere dai regimi che le governano, nel momento stesso in cui la trilogia del Potere – monarchia, dittatura, papato – è saldamente assisa sull’eternità della Città e del suo popolo. Interessa solo quello che rimane, il respiro che, sin nei minimi gesti, parole e sguardi, produce in tutto e per tutto un’epopea. Conta di più il baccano, la commistione di disordini apparenti – contro l’apparenza e la messa in scena dell’ordine monumentale –, comuni alla vita di provincia e a quella della capitale. È questo il senso delle scene che saranno sviluppate: qualcuno si lava a una fontana,
lamentele sul prezzo della carne, la ricerca della pensione negli alveoli delle prime case popolari, da cui filtrano i suoni della radio di regime. Si tratta di catturare l’ordine dei dettagli, minuziosi, e la loro portata, non per un semplice gusto del descrittivo, ma per attraversare particelle di vita, come la luce, per diventare tattile, attraverso pulviscoli infiniti che le conferiscono l’essenza di un corpo. La visita della pensione in cui il protagonista alloggerà è esemplare: un pullulare al limite del mostruoso, corse di bambini in ogni direzione, che litigano e giocano, che cagano, che saltano e gridano, che presentano la «nonna grande» e la «nonna piccola» come gli emblemi di misteri di cui loro soltanto sono a conoscenza; la generosità immediata di una donna tuttofare che lo guida in questo percorso iniziatico offrendogliene la spiegazione; il figlio della padrona restituito al suo stato di imbecillità da un’insolazione troppo violenta; la polifonia caratteriale dei diversi affittuari della pensione, ognuno aggrappato ai suoi bisogni come alle sue manie; la nevrastenia della padrona; infine, e la sua «infiammazione alle ovaie». La padrona, sì, la Signora, come emersa da una notte nascosta del tempo, etrusca, primordiale, disegno di potenza prima di essere immagine, né rotonda né grassa, ma massa, circolare, di un cerchio che lega e chiude. Legge di natura trascritta nella carne, Gea femminile e maschile, che appartiene a un’epoca in cui, per divinità, la forma poteva nascere dall’informe, ovaia di fecondazioni mute e cocciute, potenza oracolare e già Lare. Immobilizzata non da una malattia moderna ma da una santità pagana, terracotta e polvere terrigna di un sarcofago vivente, è temporaneamente deposta, come all’interno di un museo, in un appartamento piccolo-borghese degli anni trenta in questa Roma venuta dritta dall’Etruria. Cambia voce quando parla, passando dalla dolcezza di poche parole per dire l’essenziale, ovvero il nulla dell’ovvio, ai toni più rudi dell’imposizione di una legge che non teme le parole: «Nun se rompemo li minchioni», è questa l’ultima cosa che dice. L’essenza di questa materia si ritrova nella confusione della strada. Dopo le caratteristiche diurne della casa, con le sue innumerevoli aperture, il notturno della strada, nella bella stagione: mai popolo fu più unito che nell’atto di nutrirsi, e questo atto è pubblico, in pratica diffuso da questo film e poi divenuto una costante primaverile ed estiva nelle città turistiche. All’inizio questo carattere appartiene, però, soltanto al Sud, il quale, è risaputo, comincia a Roma e si rafforza a Napoli, che, è risaputo anche questo, l’avrebbe ereditato da Pompei. Tessuto sociale serrato che l’attualità della vita non è ancora riuscita a distruggere del tutto, come il film finirà per dire; vita sociale di una città cosciente di se stessa attraverso la sua popolazione,3 riunita in un esterno che mantiene questo rapporto preciso con i suoi costumi; poi, nel racconto del film, a causa della guerra imminente, assenza di un’altra coesione collettiva oltre l’ideologia prevalente e dominante. «Ritrovarsi» allora aveva un senso, «ritrovarsi» e parlare di tutto e di niente, salvo che, nel film, i dialoghi sconnessi rappresentano vocalismi e umori: prima di tutto a tavola, ma soprattutto umori di convivenza e di coabitazione, allacciati in uno stesso percorso della vita. Ci si accalca, si grida, si seduce, gentilmente, e tuttavia il racconto di questa vita che passa non dimentica come i baratri della vita futura, la guerra, si aggirino anch’essi vicini a queste tensioni. Certo, si manifestano quelle che oggi sarebbero chiamate nevrosi, ma sono la condizione stessa della vita vissuta, del modo in cui la si sta vivendo, ed è questa la grandezza di Fellini, la sua capacità di descrivere e decriptare ciò che è importante attraverso dettagli squallidi, a volte grotteschi o pietosi, ma che riuniscono tutti sotto l’ala di un vivere in comune, democratico, al di fuori dei particolarismi e degli egoismi individuali. È certamente lo sguardo fiducioso del protagonista
che riesce a ricreare questo presepe dell’esistente e conferisce a ciò che vede tutta la dolcezza popolare e nomade di un vivere insieme, possibile all’interno della Città, all’esterno della chiusura soggettiva, nell’impressione di una «festa mobile» anche sotto i peggiori regimi, inscritto nel film in opposizione alle pratiche militari, guerriere ed eroiche a ogni costo delle volontà politiche. È una Roma ancora antica, in cui tutto è intrecciato: musiche, lampadine colorate, tavoli, cibo, parole per parlare, menu che non cambiano mai, infanti, bambini, adulti di ogni età e condizione, abiti di ogni tipo, stornelli e le ultime canzoni alla moda, con la bella imbronciata al balcone, il domenicano che chiede l’elemosina, le grida, i pianti, la troppa menta e il poco peperoncino, come mangiare le lumache con un tocco di seduzione nei gesti e negli occhi, la trasmissione di alcune ricette, lo stato di salute equivoco di qualcuno che scopa male, e il proverbio finale che si dice a Roma: «Come magni cachi… sì, ma come cachi male!». Alcuni tram attraversano la notte, lampi di acetilene illividiscono le facciate su cui scivolano e urlano antiche lupe. Nella profondità notturna e solitaria delle conciliazioni, una mandria di pecore attraversa il piazzale davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, mentre riparate dal Foro, all’ombra delle statue, le prostitute accendono fuochi con la legna. * A un tratto, la domanda viene spostata: «E la Roma di oggi?». La risposta sembra elusiva, come se si dovesse verificare che tutte le strade portano ancora a Roma: Che effetto fa a chi arriva per la prima volta? Proviamo a entrarci in macchina, dall’autostrada, attraverso l’inevitabile Grande raccordo anulare, questo raccordo che circonda tutta la città come un anello di Saturno.
Il raccordo anulare, senza cancellare gli antichi grandi assi romani, si è imposto all’inizio degli anni sessanta come una novità che ridisegna la Città. Le immagini del traffico sono caotiche, ma questo, da un lato, è un caos che danza, e dall’altro permette all’autore di «filmare il suo film», di esserne il primo testimone. Le cineprese inseguono le situazioni di una quotidianità di autostrade, dall’alba fino a sera di una giornata qualsiasi. Qualsiasi, se non fosse per il dettaglio imponente della presenza filmata dell’autore, che controlla il montaggio e l’ingranaggio delle apparecchiature tecniche, le gru, le cineprese e le protezioni contro il maltempo, automobili, altoparlanti, movimenti, indicazioni, lo svolgersi di un’azione in cui tutto sembra previsto e imprevedibile al tempo stesso. La cinepresa è messa davanti a fatti che si svolgono seguendo una dinamica banale, che indicano come le cose stesse si costituiscano in sceneggiatura e in eventi provvisori, in situazioni che non hanno nulla di una giornata particolare. Spetta a ognuno, in seguito, interpretare – o «mostrare» – quei frammenti di fatti, la cui leggibilità sembra limpida poiché non è inserita in una storia, ma nell’articolazione narrata che le è propria, secondo concatenazioni che sollecitano il caso o, al massimo, logiche puramente casuali. Conta allora soltanto la trama musicale complessa, fatta di un insieme coincidente di rumori che accompagnano questa coreografia da balletto: la pioggia, i cambiamenti di luce, i proiettori che si accendono appena termina il giorno, intervengono per riorchestrare ritmi, cadute di tono, impennate, frasi differenti, e creano una nuova linea recitativa che osserva e trattiene masse in movimento, l’ondulazione stessa dell’autostrada. Si sviluppa così un altro
senso della sfilata, delle molteplici sfilate, essenziali nella sua poetica per l’espressionismo di una realtà non confusa ma di fusione, specifica di questa filmografia.4 Questo espressionismo può infine sembrare un ulteriore regolamento di conti con le poetiche narrative, nella leggerezza e nell’abbandono di una riflessione non premeditata, come un esserci, nel pensiero stesso della cosa filmata. È la penultima risposta5 rivolta non più al neorealismo né a quello che ne rimane, storicamente, ma al realismo tout court, a quello che si sta a poco a poco prefigurando come nuovo realismo.6 La ripresa di una realtà che sembra filmarsi da sola straripa necessariamente nella potenza della sua auto-indisciplina barocca, e il seguito di Roma lo dice per intero. Straborda nella convulsione progressiva della scena verso l’agitazione di situazioni molteplici, un molteplice che modifica l’elemento e la natura della deformazione dell’immagine narrativa. La linea ondulatoria dell’autostrada è striata, ripiegata nella chiusura implosiva di quello che sta dicendo, deborda nella piega di un indicibile che confonde volontariamente quanto è inventariato e quanto puramente inventato. Ma «girare» all’interno di questa piega significa anche schierare se stessi nel film. Come non rivedere le scene della Dolce vita che preparavano questa spiegazione necessaria dell’atto di filmare come atto deliberato, situato al di fuori di ciò che è raccontato, immergendosi in quello che si fa nel momento stesso in cui lo si fa, non per accreditare un presente qualsiasi, ma per segnalare la presenza di un sé errante nella cosa realizzata. Così le scene del «Miracolo», o le scene dell’incontro con Anita o delle litigate con Emma, che filmano, parallelamente al film, le riprese del film, l’atto fondativo della sua realizzazione. Come non intravedere nelle scene finali dell’autostrada l’inizio di 8 ½, privo del suo carattere falsamente onirico e dotato della forza creatrice di una deliberazione che incatena la potenza del virtuale a quella di una realtà – la creazione stessa – che può finalmente prendere corpo. Come non pensare, di fronte a questi dipinti in fuga verso l’astrazione, a ciò che restava in sospeso nel colore di Satyricon, nelle successioni dei suoi labirinti opachi e nelle folate di polvere sostituite dal fango. È la ripresa sistematica di quello che fa da leitmotiv, la cui lettura implica una ridefinizione di ciò che sembra essere stato lasciato in sospeso. Nella scena dell’autostrada tutto prende corpo, e tuttavia niente accade: si può leggere la scena in diversi modi, certo anche come atto di accusa a una società che si esalta in una comunicazione impossibile, e che invece è fatta soltanto di minuscole interferenze, di striature che si sovrappongono senza coincidere, senza la capacità di reperire i luoghi e le parole della conversazione. Si può anche leggerla come la narrazione di questa strada che porta a una Roma ancora babelica, e farne una festa, perché vi accade di tutto; una festa che tuttavia sbatte contro un Colosseo dalle arcate spalancate ma impenetrabili, come una ricerca che spiega un presente grazie a un passato. La scena opaca che filma la discontinuità di quanto è continuo per dargli la sua chiarezza non può essere cancellata dal bel tempo della scena seguente: dopo aver cercato di rappresentare la città attraverso l’orizzontalità dell’autostrada, il materiale tecnico è impiegato in verticale al di sopra di Roma. Anche in queste condizioni, tuttavia, nulla sembra più leggibile: la folla senza dettagli dell’autostrada si è divisa in gruppi particolari, turisti e passanti romani, e si continua a vedere della città solo ciò che è noto. Nulla che la colga in quella che potrebbe essere una verità nascosta. Si vedono gli alberi e i giardini, i campanili e le cupole nella calma di un mattino, una ragazzina che gioca a palla, la gru delle riprese, un pullman di turisti americani, spunta qualche bullo, pronto all’abbordaggio. Qualcuno cerca di spiegare cosa ci sia
di diverso: «Ma che è Roma, questa? Tutti matti, tutti corrono, tutti c’hanno fretta, la gente s’è fatta cattiva… è perché so’ scomparsi i romani […], tutti capelloni puzzolenti, studenti che nun vonno studia’, travestiti, drogati, de tutte le razze…» si lamenta un romano; frammenti di un’intervista con gli studenti che chiedono al regista se avrà un punto di vista oggettivo… In questo gioco frammentato di invisibilità, il ricordo è più adatto a far risorgere la vitalità di un passato che non si ritrova, esistendo soltanto nel ricordo ricreato di una situazione, di un luogo. Anche Fellini conclude: «Ecco, per esempio, cosa mi piacerebbe raccontare, uno spettacolo di varietà al teatrino della Barafonda». * La ricostruzione è un vero festino. Lo spirito di quello che poteva essere questo genere teatrale si manifesta in tutta la sua potenzialità, reso più preciso dall’uso del colore e da un movimento interno che gli conferisce un andamento diverso da quello delle presentazioni in Luci del varietà e nelle Notti di Cabiria. Nonostante le citazioni del periodo di guerra, la citazione, non inserita in un racconto storicamente definito, è fine a se stessa: l’accumulo di elementi di spettacolarizzazione mostra con forza la tenacia degli artisti, spesso autodidatti, che beneficiano del palco di questo teatro particolare che è l’avanspettacolo. Niente a che vedere con l’Ambra Jovinelli, il teatro più importante in cui si esibiscono grandi artisti, Petrolini, Totò, Anna Magnani, Aldo Fabrizi e altri ancora. Sottoprodotti, copie, le scene della Barafonda dovevano davvero corrispondere a quanto mostrato: un corpo di ballo che si agita su un mambo e musiche orientali, prestigiatori da due soldi, pallide imitazioni di comici del Nord Italia che scimmiottano gag all’americana, insopportabili per un pubblico come quello romano, che appunto li fischia, imitazioni di attori-ballerini del cinema hollywoodiano,7 il numero alquanto singolare dei tre uomini con la candela, probabilmente ispirato a uno sketch di Totò, poi le canzoni, presentate da figure femminili molto diverse fra loro. Ma il vero festino non risiede in questa restituzione. Il vero spettacolo, grande testimonianza di un’epoca, è il racconto, mitico, dei comportamenti e delle reazioni del pubblico. C’è più messinscena in sala che sul palco, come se la prima la sottraesse al secondo: una sala in cui, nonostante una folla variegata, anche da un punto vista sociale, in cui compaiono donne e bambini, l’elemento maschile domina «fastidiosamente» e impone la sua petulante aggressività. Il quadretto di genere, non sembrerebbe, è teso a scovare le specificità dei romani – di ogni epoca – in cui trionfa una sbruffoneria che nasconde una sorta di apatia, a sua volta celata da una forma popolare di atarassia, e quella goffaggine innegabilmente pigra e puerile di chi si sente protetto dagli dèi e dai papi. Le parole e i gesti assumono atteggiamenti e pose metodicamente sibillini, come distaccati da ogni forma di reale; dalle posture e dalle invettive si diffonde in chi le pratica un senso di noia vitale, per proteggersi da ciò che dicono gli altri e per garantirsi un campo di battaglia in cui scagliare insulti. L’idea essenziale è che non si va a teatro per annoiarsi, senza sapere precisamente che cosa sia questa noia, quale definizione darle. Rinasce un mondo oggi impensabile, nel quale lo spettatore stesso diventa il bersaglio di crudeltà diverse: i ceci e gli stracci imbevuti di piscio lanciati su quello che dorme, il gatto morto scagliato contro l’attore da cui ci si aspetta la reazione, la scarica di pernacchie, il
bambino che fa pipì in sala perché la madre non ha voglia di portarlo fuori sono, al di là delle parole, modi di essere in un raduno in cui ognuno conosce il valore dell’altro e vi si identifica, ostentando uno stare insieme specifico, la cui base nichilista consiste nel pensare, a ragione, che siamo tutti sulla stessa sciagurata barca. Viene da qui il tono delle frasi rivolte soprattutto alle ballerine e le allusioni sessuali che non sottintendono alcun desiderio reale, ma sono soltanto esibizioni verbali. La pesantezza dei complimenti è una mera constatazione d’ufficio, che preannuncia le scene nei bordelli, dove la parola sarà soppressa: in un caso come nell’altro, conta soltanto la possibilità di un atto enunciato indirettamente. È senza dubbio così che va inteso il commento rivolto da uno spettatore colto al protagonista: «L’avanspettacolo è il punto d’incontro tra il Circo Massimo e il casinò». In entrambi si può urlare per non dire nulla. Questa grande scena fuori dalla Storia termina con un richiamo patetico agli avvenimenti della Storia, con l’arrivo di un ragazzo rimasto storpio in guerra, poi con l’allarme. La tristezza smunta dei ritratti degli attori, come figure di morte sulla scena spenta e vuota, rimanda alla realtà esterna, in una sintesi violentissima. I rifugi antiaerei, come i teatri, come gli antichi templi di Mitra, aprono le porte, accogliendo nel silenzio persone che si ritrovano, discutono e litigano, poi finiscono per perdersi nelle luci dell’alba; in lontananza, evocato da grida e da uno scippo, il bombardamento di Roma, città aperta, a San Lorenzo. Questo viaggio nel divertissement, immerso in seguito nella geologia dei rifugi, riporta all’attualità: gli scavi impossibili per la metropolitana di Roma. Siamo ricondotti a un’anteriorità del tempo che coincide con la profondità dello spazio, la cui stratificazione, attraversata senza che si possa spiegarne le potenzialità, conduce ai misteri. Sotto l’insegna di una zanna di mammut, la cinepresa scende fino al centro della terra, nelle viscere frugate da auto il cui rumore rende incomprensibile ogni lingua: l’ingegnere, trasformato in speleologo, spiega che il sottosuolo di Roma si compone di otto strati: «La prima volta che si è parlato della necessità di fare il metrò a Roma è stato nel 1871, la burocrazia è ancora più imprevedibile del sottosuolo e il carteggio intercorso tra noi e il comune di Roma riempie l’intero percorso della metropolitana». I lavori sono continuamente interrotti da un eccesso di ostacoli o di tesori storici riportati alla luce: un fiume sotterraneo che sfocia dieci chilometri più avanti, ai Cessati Spiriti, poi una necropoli del III secolo con quattrocento scheletri, l’attraversamento di quartieri impossibili da scavare, l’Appia Antica, porta San Sebastiano. Subito, lì, alcune pareti indicano un vuoto «più vasto di quello dei Colli Albani»… Viene bloccata la scavatrice, montata una fresa più piccola che con i suoi arti sembra all’inizio carezzare la terra che smuoverà e, prima che la parete sia forata, il film preannuncia l’evento mostrando alcune immagini di una vasta dimora, come se risalissero alla superficie di una coscienza che già le conosce. Falso o vero, o inventato? Le crepe nelle mura lasciano apparire un’antica casa patrizia, i suoi affreschi e le sue statue, immersi in un’acqua pura e azzurra, un’acqua che da principio era mancata ai labirinti di Satyricon, in relazione a cui questa scena rappresenta il punto di raccordo e, al contempo, il punto di massima distanza. Quali corpi e quali anime sono stati accolti in queste soglie, su queste rampe, in questi spazi? Che cosa rimane, a parte un gesto che l’arte del tempo e quella del film hanno conservato? Falso o vero, o inventato? Una grande Bona Mater, di spalle, protegge il luogo, a meno che non si rifiuti, testarda, di assistere all’ultimo sgomento, quello della scomparsa progressiva di tutto ciò che ha saputo conservare e guardare, di assistere, in un simbolismo carico di emozione, alla sparizione delle sue creature, ossificate come scheletri delle catacombe, calcificate come vecchi ricordi che hanno atteso di essere ritrovati.
Più rapida di ogni disperazione, la macchina da presa è riportata in superficie, verso Trinità dei Monti, come per riprendere fiato dopo questa discesa agli Inferi, dalla quale un ipotetico Orfeo è forse tornato. Il luogo e il tempo, che sono belli, permettono a Fellini di filmare la sovrabbondanza di hippie sdraiati o stiracchiati nei vasti campi dell’amore «senza guerra», già schopenhaueriani e buddhisti, intorno ai quali aleggiano musiche senza parole, forse immagini senza risposta al romano che parlava di Roma invasa da genti e razze. Transizione tra un’avventura e l’altra? No, non proprio, piuttosto introduzione immediata, com’erano le immagini preveggenti della dimora, di qualcosa che sarà sviluppato in seguito. * Dopo il passato della Città si torna a quello del protagonista attraverso l’esperienza del bordello. La visita non è commentata, deve essere semplicemente guardata; difficile parlarne, tranne dire che è stata costruita in un tempo lungo, se non di abitudini personali, per lo meno di fantasie filmiche. Le immagini di tre bordelli, distinti da un punto di vista sociale, si legano ad alcune inquadrature di stradine dai colori d’epoca: il primo, in via dei Tre Archi 14, per militari e altri clienti piuttosto squattrinati, con un grande corridoio, come in una delle sale termali di 8 ½, anche se qui il vapore si condensa negli umori condensati dei clienti. Un’imbonitrice incalza i ragazzi che esitanti fanno la fila come nella scena della moglie del farmacista, decantando con modi da circo le qualità delle belle ragazze che s’intravvedono in lontananza. Il secondo bordello è altrettanto popolare, ma meglio arredato e più fornito: un’ampia sala rettangolare in marmo bianco con due scale che agevolano la circolazione, una per salire alle camere, l’altra per scendere, è illuminata a giorno da una grande vetrata sul soffitto. La sala è divisa in due spazi: nel primo sono radunati i clienti, che sembrano fermi, in attesa di decidere; l’altro serve invece da vetrina alla schiera di donne di ogni tipo ed età che si propongono, invitano, provocano, camminano, urlano in ogni direzione e si dimenano, spalleggiate da altre donne che arringano la folla in romanesco o in napoletano. In mezzo alle grida e trasportate da un moto continuo, le evoluzioni di queste donne ricordano alcune scene dei Clowns in cui si esibiva una femminilità circense, grottesca o selvaggia, donne cannone o belve, tigri e leonesse. La circolarità del movimento esprime il crescendo di un’esasperazione, nel martellamento delle maledizioni che nessun oblio può cancellare. Una luce accecante in cima a una scala sembra annunciare l’estasi, ma la scena s’interrompe nell’ora di pausa, in cui gli indecisi sono scacciati con il Ddt. Il bianco delle ceramiche e il bianco dei marmi dei primi due bordelli evocano – più che il terzo, in cui le maioliche e il marmo sono colorati – scene da mercato della carne e da macello, di offerte, di scelta e di acquisto, un sacrificio già consumato nella sua stessa rappresentazione e che non ha bisogno di commenti. Il terzo bordello è più ovattato e opulento: i clienti sono riuniti in masse più compatte, c’è un ascensore grazie al quale, tutte insieme, le signore scendono da un cielo sospeso, come a dimostrare che la salita in paradiso avverrà nella dolcezza. La nudità è valorizzata da abiti più castigati, le ragazze – così vengono chiamate – sono più giovani e belle e adottano i toni giocosi di una civetteria differente, più sicura, benché i meccanismi di rappresentazione e di circolazione siano identici. Nel consueto chiasso cala il silenzio: scende la più bella, celestiale di madreperla e d’opale, una ragazza di Santa Maria la
Bruna, vicino Pompei. Dopo la sosta per l’arrivo di un pezzo grosso della gerarchia fascista, è lei che il protagonista andrà a cercare, e non ci sarà alcun commento. Il passaggio tra l’ultima casa chiusa e un’altra dimora avviene senza transizione, appena una dissolvenza, come per andare a frugare in quello che Roma ha di più segreto e inaccessibile: l’antica aristocrazia romana e papalina. La casa che visitiamo è un palazzo principesco, chiuso perché la principessa Domitilla, figlia di Fabiola – segue una cascata di nomi antichi –, adesso vi abita da sola. Entrare nel palazzo è, oggi come ieri, ugualmente difficile: vecchi domestici puliscono spessi strati di polvere accumulati sui ritratti degli antenati, El Greco e Tiziano diventati dei Bacon, si crea qualcosa di sacro, qualcosa che ricorda i riti che precedevano il suicidio dei patrizi in Satyricon, che annuncia i preparativi della grande cappella in Prova d’orchestra. La principessa riceve uno dei principi della Chiesa – rievoca l’infanzia vissuta insieme –, per una cerimonia di cui non si può intuire nulla, la cui ambientazione si rifà ai bordelli, l’oro e le porpore cremisi. Il film prepara allora la parata e la sfilata più grottesche e barocche, senza dubbio le più burlesche del cinema di Fellini, e del cinema in generale. Ma le fa precedere da una cerimonia più segreta, i ricordi e i rimpianti di una vecchia vita da principessa, sostenuta dall’emozione di un cuore che, quando tutto è pronto, non ritrova più il corso della sua vita, come se, in tutt’altro modo, nell’ansimare di un sospiro, confermasse quello che la voce del romano sulla strada rimpiangeva di una Roma perduta: Quanto tempo è passato. Com’è tutto lontano, diverso… mi dispiace di chiude’ l’occhi in una città che non è più la mia. Perché Roma mia era n’altra: la gente era più bona, rispettosa, ci conoscevamo tutti: monsignori, cardinali, il papa, erano tutti amici nostri, tutti parenti… Eh!, mo’ s’è persa l’amicizia co’ la Chiesa… Che belle feste che davamo: in villa, al palazzo… co’ tutti quei cardinali vestiti de rosso che giravano pe’ casa, me sembrava de vive come in un quadro. E a Natale! Ma guarda che me vie’ in mente adesso! I regaletti che me faceva Monsignor Altieri! Statuette de cera, croci de paglia intrecciate e tanto vellutello pel presepio… tutta robba che non ho trovato più… chissà dove so’ andate a fini’ tutte quelle statuette de cera…
La cera: ecco una delle chiavi di lettura del passato, passato di cera di Roma, sciolto senza corpo, morte e scioglimento, che soffre di dover morire. Domitilla piange, allora, pian pianino, sul suo intenerimento infinito: il tema di «un tempo di una volta» perduto per sempre, e che ricorda le stirpi dei Gattopardi, riappare nell’evocazione dell’agonia sfinita di questa civiltà ormai senza vita, svuotata, in altri film, nella sua molle cera. In questo straripamento barocco – e quasi nella fusione di un impossibile «tempo ritrovato» –, non resta che raffigurare la presa in giro della morte. La parata e la sfilata di moda religiosa s’inseriscono così in una rappresentazione rituale del Trionfo della Morte con cui la Roma barocca ha scolpito i suoi monumenti. Nel salone, davanti al podio teatralmente cardinalizio svettante verso l’alto, si staglia il rettangolo sacrificale e compiacente delle parate, delle sfilate – clerici, milizie ecclesiastiche –, circondato da un pubblico pronto ad assistere a una cerimonia funebre, come nel finale dei Clowns; un suono di organi, un occhio di bue che esplora nel buio, il tutto è presentato da un maestro di cerimonie. I ritmi burleschi di una musichetta meccanica, leggera e fragile, spezzata, che accentua gradualmente l’effetto dei tessuti, una leggerezza che sfiora e gonfia l’aria vuota e l’affabulazione del nulla: amitti, piviali, cotte, pianete e casule, veli, sete, raso, rasatello, damasco e moire, merletti, montagne di merletti montate come chiare d’uovo fino alle meringhe delle casule, inamidate di purgatorio, calcificate di assoluto. La parata dei clown bianchi è rievocata da quella delle variazioni da sacrestia dei cardinali colorati, impellicciati, vetrificati, illuminati, aureolati e confusi in nuvole di incenso che fungono da ouverture a un
prefinale tagliato e cucito nelle organze piegate, fluttuanti e virginali, della morte beatificata, seguita dal suo carro trionfale di tele di ragno, gigantesca e mirabolante pasticceria del mondo che avanza in cataclisma e catastrofe, degna di uno Shakespeare del cinema. Ma è il finale che conta. La scena sacrificale si dilata in una vera e propria scena teatrale, dai soffitti sono calate le quinte, e come nel teatro di varietà appare la star, di fronte al baldacchino del cardinale, nello sfinimento sfiatato delle dorature gelate della morte: qui, l’abito di un papa che, beffa suprema, somiglia alla colomba dello Spirito Santo e, in un eccesso di parossismo, a Pio XII, se guardato di fronte, e a Paolo VI di profilo. La morte che invadeva la dimora romana negli scavi della metropolitana, la morte che zittiva tutti nelle scene di teatro, recita la sua ultima aria, e il cerchio si chiude. * Di nuovo l’esterno, e il presente, come un seguito dell’autostrada e della sosta al Colosseo, degli hippie a Trinità dei Monti; e della nottata passata tra le strade della Città dal giovane protagonista al momento del suo arrivo a Roma, della sua cena in compagnia di gente nuova. L’epoca attuale ha conservato l’antica abitudine delle cene all’aperto: le trattorie di Trastevere straripano di gente a tavola. La cinepresa compie una lenta panoramica degli esterni e degli interni che descrivono nel dettaglio diverse situazioni: una lunga festa di quartiere che parte da Santa Maria in Trastevere e porta a un vicolo cieco, ma è come se il quartiere fosse stato diviso in due. Da un lato è rimasto com’era, popolare e vagabondo, dalle malinconie misurate e mutevoli; dall’altro, il più monumentale, è come se la città si fosse imborghesita: le tavolate hanno perso quel loro tratto popolare e quotidiano che avevano un tempo. Gli hippie hanno invaso anche questa parte borghese e, addossati alla fontana, cantano mostrando una tranquillità priva di provocazione. Come prima, si mischiano le battute: gli stornelli sono sempre lì, ricordano situazioni del passato, «… ’sti giovanotti antichi de’ ’na vorta», una bionda si lamenta di essere stata sistemata vicino a un tombino delle fogne, il cameriere le risponde a tono: «… È l’odore dei secoli!». La serata si fa furtiva, scivola lentamente negli occhi e nella musica, la troupe di Fellini si avvicina a un giovane Gore Vidal: Mi domandate perché mai uno scrittore americano viva a Roma. Prima di tutti perché piace i romani, che si frega niente se sei vivo o morto, sono neutrali, come gatti. Roma è la città delle illusioni, non a caso qui c’è la Chiesa, il governo e il cinema, tutte cose che producono illusione… come fa tu, come fa io… Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo populato… troppe macchine, veleni… e quale posto migliore di questa città, morta tante volte e tante volte rinata? Quale posto più tranquillo per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazione? È il posto ideale per vedere se tutto finisce o no…
La polizia carica gli hippie e li disperde, nell’indifferenza. Nello stesso momento, un politico intervistato al suo tavolo si complimenta per l’intervento della polizia che permette di preservare i valori essenziali della città, un’eco dei commenti del romano che parlava di capelloni sporchi, di studenti che non vogliono studiare, di razze diverse, di travestiti, di drogati… È la parte borghese a parlare, quella che ha asservito il quartiere alla propria espansione e alla propria falsità, e la denuncia di Fellini contro l’occupazione borghese dei quartieri popolari, ormai zone esclusive – cosa che il fascismo non era riuscito a fare –, è evidente, benché sia messa al riparo di una sorta di oggettività delle constatazioni. La
provocazione implicita risalta con più ferocia nell’ovvietà apparente delle sequenze. La serata diventa furtiva, sfuma e si veste di notte. Una Signora costeggia un muro romano – non siamo lontani dai luoghi della scena della Fontana di Trevi – e la voce di Fellini dice: «Questa signora che rientra a casa costeggiando il muro dell’antico palazzetto patrizio è un’attrice romana: Anna Magnani, che potrebbe essere anche un po’ il simbolo della Città.» «Che so’ io?» «Una Roma vista come Lupa e Vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca… potrei continuare fino a domattina…» «A Federi’… va’ a dormì, va’…» «Posso farti una domanda?» «No, nun me fido, ciao… bonanotte!»
Si avrebbe voglia di chiudere tutto qui, tanto la scena, nella sua semplicità elaborata, è carica di umorismo e di tenerezza, piena di qualcosa che non esiste più o che è diventato difficile far esistere, e conservare. Bellezza estrema di una distanza innamorata tra «sé e se stesso», limpida e blu, come la notte, come l’acqua di un’antica dimora romana sprofondata nel tempo. * Fellini non vuole e non può finire. Questo film è composto da una successione di finali che si inseguono, si raggiungono, ripartono: anche questo è straripamento barocco, come l’inserimento in emblemi diversamente interpretabili di verità – tutta un’arte del grottesco, nel silenzio nascosto che viene dalle grotte. Ancora la notte, dunque, ancora Roma, all’esterno. Il percorso fatto all’arrivo del protagonista, in cui sfilavano i monumenti più importanti della Città, è ripreso in un’altra forma, ed ecco che irrompono alcune motociclette, non motociclette, ma giovani in moto, e per una volta nel cinema italiano non sono né la Vespa né la Lambretta. Dire di questi giovani che sono i nuovi barbari sarebbe un’idea meschina e parziale, sterile, degna della voce di un romano o di un borghese romano che reclama l’intervento della polizia. No, sono Centauri, ed è un’idea di velocità, un’idea di velocità che irrompe e squarcia, nella notte che permette loro di attraversare la Città, nella notte che consegna la Città all’attraversamento obliquo della loro orda, che stralcia la monumentalità statica di Roma e fa di questa architettura una folle corsa nella notte, un’architettura trasformata in corsa. L’idea di velocità sviluppa nei suoi fotogrammi quello che il film ha già mostrato a un’altra velocità, quella turistica dell’andare a piedi e in un’emozione diurna. Adesso, una pura velocità notturna fa sfilare un’ultima volta la Città eterna, affinché si esibisca la parte di Roma che i papi hanno strappato a quanto restava della romanità per farne un’eternità romana di papi e pontefici, un’eternità eternamente restaurata, ritratta nel vivo delle manipolazioni restauratrici; ed è Castel Sant’Angelo, un tempo tomba di Adriano e della sua anima fluttuante, che erra perduta, ospite e amica del corpo – ma l’oblio è feroce –, e il ponte degli Angeli del Bernini; ecco sant’Andrea della Valle che custodisce un Caravaggio, piazza Navona con Bernini e Borromini, poi Trinità dei Monti, la cui scala fu costruita grazie al lascito testamentario di Luigi XV per salire velocemente in paradiso; poi la vasca della Barcaccia ai piedi della Trinità, piazza del Popolo, con la porta e le due chiese, all’interno di una delle quali si trova un altro Caravaggio; poi, salendo in linea retta, il Quirinale con Castore e Polluce accompagnati da cavalli dalle
natiche possenti che ne fanno dei Centauri, poi un Campidoglio senza oche ma con ancora Castore e Polluce, ancora nella loro gemellarità, abbelliti da Michelangelo, come tutto questo insieme molto capitolino, e l’Aracœli, l’ultima opera di Elsa Morante, e Marc’Aurelio sul Campidoglio in un gesto pacificatore Urbi et orbi, prima ancora che glielo rubassero i papi che garantisce, grazie alla sua doratura, oggi fissata dalle vernici della conservazione, l’eternità del mondo, prima che la promettessero i papi, fra i rintocchi delle campane. Poi l’immagine della Città sfuma con l’arco di Costantino che, tra i suoi trionfi, e nel suo cinismo da grande svogliato che vuole sopravvivere ai cataclismi e ai catafalchi, ci ha lasciato la vitalità delle rigenerazioni e dei risorgimenti – In hoc signo vinces, doppiato da una Santa Croce tra le nuvole, ma era il cinema di un’altra epoca –, frammenti di immagini strappate al vento del Foro imperiale, e il Colosseo dove Chateaubriand e Musset, ognuno a suo tempo, piansero, mentre Juliette Récamier e George Sand, ognuna a suo tempo, porgevano loro il fazzoletto; infine porta Labicana, dove conducono tutte le strade del mondo. Una velocità – la pura velocità di un gioco con la morte, come in Toby Dammit – che coglie tutti gli istanti della Città in un batter d’occhi e in uno sguardo perduto che accetta ancora di giocarsi la testa con il diavolo. * Con I clowns e Roma è successo qualcosa, qualcosa è cambiato. La violenza della creazione impone un gioco di riflessione attraverso il quale coordinare tutto ciò che, in ordine sparso, avrebbe rischiato di sfuggirle. Questa meditazione e questa esplorazione riguardano indirettamente luoghi biografici, geografici o storici – entrambi i film iniziano in Romagna, poi si perdono ognuno verso la propria destinazione –, e luoghi mentali, legati a determinate funzioni: in entrambi i film, l’autore si mostra direttamente in quanto regista. È un nuovo modo di andare alla ricerca di questi luoghi, come se Fellini tentasse di ridurre al minimo la finzione, tornando alle prime aspirazioni da giornalista. In tal senso, lo stimolo creativo resta in allerta e assorbe l’interrogazione che non porta a una risposta, contrariamente a quanto richiesto da una pratica giornalistica in senso stretto. Queste interrogazioni tentano di ridefinire quali siano le possibilità creatrici all’interno delle quali muoversi, conquistare spazio, misurarsi. I problemi legati alla produzione, al pubblico, alla distribuzione, alla recitazione degli attori, come alla violenza delle tematiche che Fellini intendeva affrontare e risolvere, i momenti di difficoltà e di dubbio richiedono delle nuove riflessioni. I clowns e Roma corrispondono allora a momenti specifici di un bilancio con se stesso e con il proprio cinema. Come non notare l’ansia di un’apertura diversa rispetto a quelli che sono stati i temi di riferimento – la vita e il significato del circo e dei clown, la vita e il significato di Roma –, forse i più importanti, dato che investono direttamente le funzioni della biografia e della creazione? Che cos’è cambiato, allora? In entrambi i film il tema è stato esasperato. La sua ripetizione che vuole esaurirne la materia, la ripresa spostata dello stesso punto di partenza, l’arrivo a un luogo che non può servire da risposta definitiva, l’allargamento verso una ridefinizione delle pulsioni che raggiungono livelli conflittuali tali da non poter essere limitate e che si devono allora abbandonare al processo del loro stesso dispiegarsi, la spinta significativa verso uno sviluppo di ciò che è sempre segretamente possibile: ecco alcune spiegazioni di questa nuova
anatomia. Questa riflessione implica anche l’autocitazione, l’autoriferimento: spesso i temi e gli sviluppi sono ripresi tali e quali e riutilizzati. Il che non dipende né da una qualsivoglia economia delle funzioni dell’immaginario, né da un esaurimento delle funzioni stesse, ma corrisponde a una verifica della possibilità di proseguire questa ricerca deliberata. Se c’è una «magia» di Fellini, risiede in questa volontà intransigente, crudele, che l’ha portato a lasciare le scuole, i clan, e anche la sua epoca, per conservare soltanto dettagli divenuti a posteriori imponenti. Il fatto, per esempio, di avere sempre saputo sviluppare le possibilità presenti in ogni minima funzione del reale, e di esserci riuscito attraverso un lavoro compiuto unicamente sull’immagine e sulle idee che le immagini sostenevano, significa avere lavorato il più vicino possibile allo strumento di cui disponeva, la creazione di immagini, avendone acquisito il carattere e le funzioni critiche. Da questo punto di vista, Roma è importante ancora oggi. In questo viaggio di frammento in frammento, scandito dalla ripresa dei suoi temi, il desiderio di sapere traccia traiettorie differenziate che non si escludono mai tra loro, quali che siano le indicazioni di lettura che sono adottate. Ma Roma non è Roma senza il suo inserimento in un modulo immaginativo più ampio, che va oltre la situazione della città. Da qui l’interesse di farne un parametro assoluto per tornare al relativo di una situazione che, da Rimini a Roma, è storicamente e geograficamente soltanto italiana. L’analisi implicita – sempre indiretta, in un’assenza simulata – della famiglia, della costruzione familiare, dei suoi rapporti con l’esterno e con l’interno, la casa, la strada, il quartiere, le forme specifiche di lingua e di parola, i divertimenti dell’individuo e quelli della collettività, ciò che diventano le cose e gli esseri in un tempo di cui si deve tentare di cogliere tutto, l’epoca e le sue dimostrazioni: questi sono gli oggetti del lavoro critico che stanno al cuore del film. È questo lavoro che si deve osservare, e ciò che ne deriva in termini di poetica. Rinunciando all’opportunità delle ragioni, alle concatenazioni logiche, contestandone persino la parata per presentare soltanto sfilate di effetti, Fellini affronterà un periodo che ci sembra diverso – in cui ci saranno con tutta probabilità anche alcuni tentennamenti.
PARTE TERZA CHE COSA DIVENTA IL PASSATO: RACCONTARE LA RIFLESSIONE
I
IL CINEMA DEI RICORDI O IL RICORDO DEI CINEMA: AMARCORD. ODORI E FRASTUONI DI QUELLA CHE FU UNA BELLE ÉPOQUE. LE «CADUTE» DELLA BELLE ÉPOQUE. CHE COS’È UN PASSATO, CHE COS’È UN PRESENTE? MESCOLANZA DI TUTTI I GENERI FELLINIANI: COMMEDIA, TRAGEDIA, MUSIC HALL. IL COLORE DI UNO STILE. NUOVE DESCRIZIONI DELL’ISTERIA ITALIANA COME FORMULAZIONE DEL «BAROCCO». RITORNO DEI MITI DEL PRESENTE E LORO ASSORBIMENTO. LA STORIA PIÙ BELLA DEL NARRATORE.
L’esperienza tecnica e mentale dei Clowns e di Roma – gli umori subito trascritti – è una tappa importante per comprendere che cosa si agita sotto la superficie trasparente di Amarcord (1973). Il titolo rievoca un insieme di ricordi – letteralmente, «io mi ricordo» –, ricordi che passano, in italiano come in dialetto, dal cuore, cord: tutto passa dal cuore.1 Il cuore-ricordo lavora come un filtro che condensa materie opache dalle quali scaturiscono scintille: è questo il ritmo del film, inserito nella monotonia delle vite di una città di provincia interrotta da un altro genere di monotonia, quella delle piccole vicende che accadono in maniera sistematica nello stesso periodo dell’anno. Un anno dell’epoca fascista, la quale s’imprime sul film come un marchio difficile da dimenticare – dal momento che così fu –, ma restituita, insieme al «resto» in una tonalità sfumata, che non ha valore di ricordo ritrovato e dà ai contorni l’indeterminatezza di un pastello, né violento né spiacevole, lasciando fluttuare i racconti nella leggerezza dell’umorismo. L’uso di attori poco noti rappresenta una scelta importante, legata all’esperienza degli ultimi film: dopo Toby Dammit e Satyricon, in cui rimanevano alcune figure di un certo rilievo, Fellini torna a qualcosa che somiglia a un inizio, a quella sorta di invenzione che caratterizza i primi film fino a Cabiria. A parte Magali Noël, qui nella compiutezza di una recitazione ricercata dalla Dolce vita fino a Satyricon, a parte Alvaro Vitali – che troviamo nei Clowns e in Roma –, gli interpreti sono debuttanti, molti adolescenti, pochi i professionisti affermati, e tra questi Pupella Maggio, protagonista del repertorio di Eduardo De Filippo, è sicuramente la personalità più importante, come Ciccio Ingrassia – lo zio internato in manicomio –, già famoso negli anni settanta. Il criterio di scelta degli attori risponde a nuove esigenze sceniche, ma rivela, sotto la superficie narrativa dei frammenti di una giovinezza ancora adolescente, la volontà di ridare corpo alla memoria del suo stesso cinema, delle sue prime creazioni. Ciò che appartiene alla memoria ripropone la questione delle somiglianze a partire da un’altra sfida. È come se – in una funzione ottica duplice – i personaggi di Amarcord fossero stati in precedenza le protofigure di tutti quelli che sarebbero comparsi nel tempo impreciso di una memoria cosciente, che ha bisogno di affermarsi nell’apparizione. Così il racconto di Amarcord, nel suo svolgersi, finisce con il precedere soprattutto la storia dei Vitelloni e con il seguire le tracce filmiche che l’hanno preceduto. Questa ricerca di «apparentamento» non incide soltanto sulla coreografia dei personaggi,
ma tiene anche conto dello stato degli elementi, nel modo in cui li abbiamo già visti comparire. Riprende una storia del vento, che è iniziata con I vitelloni e che accompagna numerosi episodi di Satyricon, è così una storia di umidità e di acqua – il mare, la riva, presenti in alcune scene dello Sceicco bianco e della Strada – e una storia del fuoco, che s’imprime su una storia della neve, già accennata in Satyricon, nei Clowns e in Roma, mentre è avviata qui una storia delle nebbie, lo spessore dell’impalpabile. Quest’ultima rimanda a paragoni che rappresentano l’opacità dei ricordi – il ricordo come regione di una nebbia senza soluzione o irrisolta –, e l’opacità in quanto elemento comune alla giovinezza e alla vecchiaia. In una delle scene più belle del film, il bambino che va a scuola incrocia il nonno perso nelle nebbie di uno stesso territorio. Tutto inizia in campagna, e viene dal cielo. Le «manine», pollini che cadono annunciando l’arrivo della primavera e quindi la fine dell’inverno: scatenano un’esaltazione dei sensi e una stasi di incanto di fronte a un mistero che perdura nella sua qualità segreta, un miraggio che mette fine alla stagione invernale. In città l’eterno Giudizio, l’angelo-idiota dei Vitelloni, di Roma, le annuncia con una poesia che dice che le manine «vagano qua e vagano anche là», e le persone ovunque si accostano alle finestre, alzando gli occhi al cielo. Mediante brevi scene in rapida successione, il film presenta alcuni personaggi, un’intera città di provincia, Rimini, e in particolare la donna più bella, la Gradisca, giovane, con i suoi capelli rossi e le sue forme, che la sorella va a prendere dal barbiere per il quale lavora. È subito sera, la sera di San Giuseppe. La musica si confonde con i dialoghi, tutti in strada si dirigono verso una piazza dove viene sollevata, con l’aiuto di Giudizio, la grande «fogarazza», un immenso rogo di fascine sul quale verrà bruciata la vecchia strega, una bambola di stracci che arriva accompagnata dalla fanfara, come a Carnevale, per festeggiare l’inverno che se ne va e la primavera che arriva. C’è un fisarmonicista cieco che suona il suo strumento e vuole che gli si racconti tutto quello che accade; Volpina, la giovane ninfomane che «l’uccello lo metterebbe anche nel caffè e latte»; il conte con la figlia nevrastenica e la sorella con il Parkinson che sorseggiano un vino bianco seduti sotto gli archi, girotondi, danze e canti intorno al rogo; Titta,2 il giovane protagonista e la sua famiglia, padre, madre, fratello, nonno e serva; le passeggiate di tutti che guardano tutti, soprattutto i fianchi seducenti della Gradisca, bella tra altre meno attraenti. Gli occhi raccontano le storie che gli sguardi amano raccontare, e si susseguono sorrisi di intesa, che altrettanti sguardi, soppesano, intendono, nei riflessi di cui le vetrine dei negozi sono complici. Su una melodia di «raspa», la nuova «quindicina»3 della casa chiusa sfila su una carrozza decappottabile, e il cinema Fulgor chiude le porte. Finalmente viene acceso il rogo che sembra inghiottire Giudizio, in un rito che si ripete ogni anno; poi esplodono alcuni petardi, nella confusione di grandi e piccoli, di grida e divieti. Tra la neve sciolta alcuni tizzoni bruciano ancora. Appare Scureggia, con una moto che passa sopra braci e ghiaccio nelle sue giravolte. La scena termina sulla piazza, finalmente deserta, con la presentazione dell’avvocato: La nascita di questo paese si perde nella notte dei tempi: nel museo comunale, sulla piazza grande, ci sono degli utensili di pietra che appartengono alla preistoria. Io stesso poi ho scoperto alcuni graffiti antichissimi nelle grotte dei conti di Lovignano. Comunque, la prima data certa è il 268 avanti Cristo, quando divenne colonia romana e punto di partenza della via Emilia. [Gli fanno una pernacchia, che però non riesce a fermarlo, anche se lo infastidisce.] Anche questo fa parte del carattere beffardo di tale popolazione, la quale ha nelle vene sangue romano e celtico, è un carattere esuberante, generoso, leale e tenace. Dal divino Dante a Pascoli e D’Annunzio, numerosi sono gli alti ingegni che hanno cantato questa terra, e i suoi innumerevoli figli, che hanno onorato con segni d’eternità l’arte, la scienza, la religione, la politica… [Un’altra pernacchia gli permette di terminare così.]
Qualcosa di leggero e di incerto ha ansimato, percettibile nell’indefinito sfiorare dei contorni,
benché lo schem delle classi sociali sia già chiaramente tracciato da questi sguardi da vicino e da lontano, di persone che si incontrano tutti i giorni, mattina e sera. Il clima stagionale lascia percepire dalla distanza, attraverso le sue frange, i gruppi che si riuniscono, un rispetto incredulo degli uni verso gli altri, e l’idea, inoltre, di una diversità dei caratteri. * Il film non ricerca la precisione del racconto: per quanto sarà mantenuta, rappresenta un supplemento paradossale che finisce con il coincidere con un’altra linea la quale, incerta all’inizio, si rivelerà essere quella che guida la realtà del film. Tale linea è la «caricatura», sprovvista di grottesco o di ironia, una caricatura infantile, volontariamente incapace di approdare all’età adulta, lieve e tremebonda, come se, invece dei ricordi, si trattasse di afferrare e dire le cose nel momento stesso in cui avvengono, cose tuttavia già avvenute; sorpassare, cancellandolo, il tempo passato, farne un già-avvenuto che ancora non avviene.4 Viene raccontata l’infanzia di un adolescente qualsiasi – ancora una volta l’autobiografismo non ha un’importanza decisiva, soltanto il titolo ne determina il disegno e la legittimazione –, la vita di qualcuno che aspira senza dubbio a un divenire-adulto, ma la cui aspirazione finisce per confondersi con la forza di cose tali quali si trovano sul suo percorso. L’aspirazione non si traduce tramite decisioni soggettive, ma si riassorbe in quello che l’individuo ha e mette, in maniera ripetuta e cosciente, in comune con gli altri. Anche Amarcord si sviluppa come una superficie trasparente che scandisce, in una sorta di frammentarietà, quanto potrebbe effettivamente appartenere alla memoria: una serie di ricordi che non sono stati accumulati per stare lì, enumerati e raccontati, in una storia che calcola il tesoro dei suoi averi, ma che giungono alla mente – al cuore –, con una vicinanza tale da restituire l’azione descritta dal film in modo caricaturale. Si tratta di conservare, della vita trascorsa e di quella che trascorre, soltanto gli aspetti marginali, la parte effimera, camminata, flânerie, o passeggiata, quella più sfilacciata e sparpagliata, che non viene fissata nella memoria dei gesti o delle parole che tuttavia riempie di sé. Perciò i veri protagonisti di Amarcord non sono né i personaggi più importanti né le situazioni, ma quei ragazzi alle soglie dell’adolescenza, in episodi che si ripresentano ciclicamente nel passaggio generazionale. Grazie a loro si vive la ripetizione dell’esistenza di ognuno; grazie al loro sguardo, lucido e spensierato su un mondo vecchio da sempre, le cose conservano il proprio colore. La monotonia di ogni istante si carica di «caricatura» e trascina la massa ripetitiva degli adulti in sconvolgimenti che la portano momentaneamente fuori strada. Questa ispirazione evoca figure che hanno popolato i primi film: espressioni, volti, gesti, frasi, tutto si ricompone di nuovo, come a interrogarne l’esattezza nel tempo, un tempo senza rimpianto, senza compiacimento. In questa frangia ai margini della vita, ai margini del gruppo sociale, e nondimeno da questo catturata, in una disperazione sottesa che riesce a restare allegra senza abbandonarsi alla vacuità delle beatitudini, emergono i personaggi un tempo complessi dello Sceicco bianco, dei Vitelloni, del Bidone e delle Notti di Cabiria; e ancor di più di Gelsomina, Zampanò e del Matto della Strada. Anche Amarcord s’inserisce nella successione dei film in cui già si intravedeva, in forma di visione, quello che sarà il fantastico caricaturale. La caricatura è sempre stata una delle componenti vitali dell’opera di Fellini, che insiste più
volte sull’importanza di questo aspetto nella sua creazione, come l’accumulo di bozzetti. Amarcord fa scorrere una striscia a fumetti, con gli episodi che si susseguono slegati fra loro e la cui unica continuità deriva dalla loro durata, apparentemente un anno, confrontata con un tempo assente, quello di sempre, e le ripetizioni che ne determinano la circolarità. Il tempo diventa spazio, gli episodi ritmati non valgono più soltanto per il protagonista, Titta, ma per tutta la sua generazione e per quelle che seguiranno; gli episodi sono possibili soltanto in funzione della ripetizione immutabile da una generazione all’altra, da una scena all’altra. Questo camminare continuo riprende il motivo delle passeggiate, ma ora la passeggiata diventa conversazione di un’intera città. Il destino personale, isolato nella bruma della storia dei Vitelloni, di Gelsomina, di Cabiria, di tutti gli altri, diventa coralità e coreografia della massa narrativa, da cui si staccano episodi che di certo appartengono all’individuo, ma riportato a uno «stare in comune» che si appropria delle vicende, poiché queste si riferiscono ai giorni vissuti insieme. Da qui in poi, la storia non è più quella di Titta ma quella di chiunque altro, non più di una famiglia ma di qualsiasi altra, non più di Rimini ma di tutta l’Italia. Il disegno caricaturale dell’epoca fascista acquista allora un preciso rilievo. Storie di infanzia? No, quasi mai. Si assiste piuttosto al racconto di ciò che rimane nel tempo di ognuno quando le storie finiscono. Anche i frammenti di materia drammatica – la violenza fascista, la follia di uno zio, l’accidia di un altro, gli interrogatori politici, la morte della madre – sono privi di psicologia. Sono raccontati a volte nella tormenta dell’atto e dell’azione, ma non determinano alcuna conseguenza. Parlano senza raccontare, afferrano, in un presente dilatato, il divertimento, la comicità, lo stupore, a volte la collera, l’attesa presente nei gesti compiuti in un tempo che appartiene a tutti, in cui gli adulti sono anch’essi bambini. In un certo senso, Fellini non dice altro: Diciamo la verità, questo moralistico traguardo del divenire «adulti», che cosa significa veramente? E ammesso che sia poi possibile divenire adulti, che cosa si fa quando lo si è diventati? Voi avete mai incontrato «adulti»? Io no. Forse gli adulti veri evitano di incontrare quelli come me.5
* Tutto accade per le strade. Anche nell’evocazione delle intimità, lo spazio del film è riversato verso un esterno comune a tutti, e la strada finisce così per includere le scene a priori più segrete, soprattutto gli episodi a sfondo sessuale, le seghe dei ragazzi nell’automobile, Titta che prova a corteggiare la Gradisca, la notte che quest’ultima passa al Grand Hotel, la storia della tabaccaia, ma anche le scene familiari o quella dell’olio di ricino al momento dell’arresto del padre da parte dei fascisti. Il movimento del film va dal generale al particolare – tutta la città, poi la diffrazione nei casi particolari, prima di ripiombare nel disegno complessivo, poi di nuovo nel particolare, fino a esaurire le storie –, con l’idea che qualcosa di fisicamente trasmesso e conosciuto perdura attraverso le generazioni. L’intimità e il segreto accadono come un fatto personale ma non isolato, poiché appartengono già agli enunciati e alla conoscenza di tutti coloro che vivono insieme, all’interno di ogni insieme. Un esempio di questa modalità è quello della classe che inaugura, dopo le passeggiate in strada, lo svolgimento dei vari episodi. All’inizio tutti appaiono nelle scene della scuola secondo alcune tipologie; poi tutti si somigliano, nel cortile, per la foto annuale – un anno di vita, un
anno di scuola, quell’anno lì per tutta la vita. Ogni volto racconta un’immaturità fatta di acne e di rossori, di adipe che tradisce una voglia di esistere, ma anche le prime umiliazioni che hanno il peso e la patina di un’istantanea, un battito di ciglia in cui viene detto tutto, sguardi lanciati verso angoli lontani, che rappresentano l’accenno di piccole seduzioni che ancora non attecchiscono; poi gli atteggiamenti e i volti, maturi, degli adulti, i professori, ostentatamente incartapecoriti in vecchie manie, leziosità che occultano la vacuità di fantasie incompiute e nascondono lo spessore di altre realtà, impettiti verso le riserve di Eldorado popolati da Ercole muscolosi, pantaloni alla zuava che rendono virili secondo i dettami di un’epoca forte. Le cose accadono insieme, in questo insieme trasferito su uno scatto in cui si prende in un giorno solo la posa di una vita. La zona di condivisione, in cui i gruppi – allievi e professori – si distinguono, si situa nelle classi, raccontate dalla cattedra e dal cortile, con una serie di episodi nei quali l’assenza di pudore dell’infanzia risponde all’impudicizia lasciva degli adulti, in cui il topos vuoto, monotono dell’insegnante è restituito da una «marachella» senza limiti: da qui quel comico specifico, esposto nella ripetizione comica di domande e risposte senza alcuna variante, pura caricatura dell’istante nell’istante. Il racconto articolato della successione delle lezioni permette al film di sviluppare i momenti inalterabili che la foto deve ancora rivelare, in un divenire futuro immediatamente passato. Lo scatto conserverà, dissimulata come dentro un’anima, la fuga rapsodica degli scatti-ricordi, le sigarette nei cessi, le poesie scritte per le ragazzine con un cuore già pornografo. Ma è soprattutto lo scatto mentale che manterrà, attraverso il comico necessariamente pericoloso della lezione di greco, la dolcezza del mosaico musicale in cui si confondono le lingue parlate, i gesti che le hanno accompagnate durante le sequenze sintetizzate dalle foto. Il comico scaturisce allora dalla sua capacità di essere ripetuto, e la caricatura attraversa i piccoli eventi senza che fatti e avvenimenti siano di per sé grotteschi o caricaturali. Forse la vita è altrove e non qui? Essa è ovunque, ripetuta in modi diversi: sul molo e sulle dighe, nella Volpina che cerca un uomo, sul cantiere del padre, nella poesia del muratore senza casa: «Mio nonno fava i mattoni, mio padre fava i mattoni, faso i mattoni anche me, ma la casa mia n’dov’è?». È perfino in casa del padrone che fa l’elogio del lavoro. Il padrone che è anche un padre di famiglia, una famiglia con un nonno, una madre, uno zio fratello della madre, due figli. Segue la magnifica sequenza del pranzo durante il quale esplodono le piccole miserie e le collere futili che dipingono la vita di un’Italia fatta anche – come in Roma – dei «nulla» moltiplicati che si costituiscono in un «tutto», in una soggettività corale, in una totalità che vincola ogni presente in un’eternità impossibile da sciogliere. Ripetizione di temi, ripetizione di parole, di gesti, che sono per ognuno elementi di apprendistato e punti di riferimento nel gruppo, come per la madre che minaccia di uccidere tutti e finisce con il dire che si ucciderà lei, cosa che poi il film realizza, dato che la donna morirà quasi senz’altra ragione se non la vita stessa. È nella massa intricata di ragioni e controragioni della sequenza, di gesti e di sentimenti che si annodano in maniera inestricabile in affetti – passati che si trascinano, presenti che si costruiscono per poi passare –, che la caricatura felliniana acquista tutto il suo senso, e ne riprende il tema quasi di proposito. Alla fine di questa scena in interno, quando tutti hanno esaurito i loro argomenti che erano soltanto divagazioni, il padre si risiede in una concentrazione pacificata con la vita: la sedia cede trascinandolo in una caduta che porta via con sé tovaglia e piatti. Ecco che la caricatura raggiunge, nella scena ormai devastata, la sua
piena forza espressiva, perché non si accontenta di deridere «soltanto», di burlarsi, ma trascina tutti i temi nella caduta di ogni idealità. È così che emerge l’esattezza del suo proposito: se non nella derisione, la caricatura non può risiedere che in quello che nasconde, la parte invisibilmente derisoria che la sostiene e che sposta la sua portata, raggiungendo non più l’individuo, ma la situazione stessa, la sua dinamica. Vi è anche questo: non puntare sulla narratività della storia pur conservandone la traccia. La caricatura che sembrava destinata a deridere si trasforma in caricatura di ciò che è in sé derisorio: è l’aspetto derisorio delle cose a essere osservato, poi consumato, l’aspetto derisorio della vita di cui l’individuo – nonno, padre e madre, zio e figli, tutti gli altri – è soltanto un supporto inconsapevole ma necessario.6 Questo processo intorno al derisorio è messo in atto in tutti gli episodi. È questo, inoltre, il senso delle passeggiate del film – comprese le esibizioni ginnico-militari delle parate fasciste –, in cui si accumulano tutti gli effetti di realtà che permettono di sfuggire a una formalizzazione esplicita del reale e di accedere alla precisione elusiva del derisorio. Eludere, rendere elusivo, non attribuire mai al soggetto una causa diventa un principio che permette la ripresa del reale in una forma che non dipende più né dalla giustificazione né dalla sottomissione, ma rimanda alla materia stessa delle cose che accadono. Singolarità di tutte le scene-sequenze: alla musica che nell’oscurità si diffonde misteriosamente sulla città dal campanile – la musica è per sua stessa natura misteriosa: per un insieme complesso di ragioni che non sono rivelate, l’Internazionale suona come la piccola serenata di Mozart – segue la gratuità senza mistero degli spari fascisti. Entrambe le scene, nella loro quasi coincidenza, sono sviluppate all’interno di uno strano spazio temporale, in cui dall’accumulo degli elementi di disturbo emergono valori armonici differenziati, il cui carattere speculare è percepibile senza essere per questo reso esplicito. La soluzione di queste due scene sembra fornita da una terza, quella dell’interrogatorio e dell’olio di ricino, che ha l’aspetto di una spiegazione. La scena rivela in realtà più di quanto dice e, in tal senso, non riveste alcun valore di sintesi rispetto alle altre: si limita a riferire un gioco di effetti fattuali che coincide con il gioco storico del film. Questo scarto, questa sottrazione è permanente. Nelle seguenze brevi, come quella della masturbazione, limitata al ricordo comune di immagini, di situazioni astratte – Jean Harlow, la Gradisca, le mammelle della tabaccaia, la donna del circo, l’Aldina, ma anche il culo di bronzo della statua della Vittoria –, e rivelata soltanto dai sussulti della macchina e tramite una gestualità semplificata; o quella della serata danzante al Grand Hotel, dove ciò che è derisorio viene messo in relazione con la realtà. Ma anche in sequenze più lunghe, come quella della notte della Gradisca nella suite del Grand Hotel. L’importante, in questo caso, non è l’evento in sé, cioè andare a letto con un principe di Stato, ma il fatto che il principe riunisca in sé tutto quanto fa in modo che la Gradisca si ritrovi in questa serata: i suoi desideri cristallizzati di un essere donna come lo intende e che lì si liquefanno, prima che intraprenda ancora un lungo percorso – che attraversa il film –, intessuto delle sue speranze d’amore, o di sesso, fino alla realizzazione del matrimonio con un carabiniere – ancora un rappresentante dello Stato, ma di grado minore – il quale per un istante le fa rimpiangere la libertà che sta per perdere, anche se serve a ricostruire il cristallo del desiderio, tra le prove del matrimonio e la rimozione dell’ideale magico.7 Una costruzione identica regge la grande scena in cui tutta la città aspetta, di notte, il passaggio del transatlantico Rex: la lunga, minuziosa, descrizione dell’attesa, i mille segni che
accompagnano l’epifania di un desiderio reale e ideale al contempo, mito ancora prima di apparire – come Anita nella Dolce vita –, poi lo sprofondamento nel sonno, il passaggio tranquillo dell’oggetto dei desideri, in lontananza, come un miraggio inafferrabile, la sua evanescenza, in seguito, e la sua scomparsa. Al di là della descrizione di un differimento, l’intento è forse quello di far apparire le opposizioni primordiali nelle quali nascono e vivono le cose. Anche la sequenza della passeggiata dello zio internato non si sottrae alle leggi di questa evidenza. Siamo in presenza della creatura meno adulta del film, di un adulto che si è fermato a una soglia mentale indeterminata, incapace di sfuggire al proprio mondo interiore. È attraverso di lui che ogni adulto rimane intrappolato in un’infanzia senza fine, inserita nell’immagine futura di un ricordo che esiste per quello che resta delle cose – a volte delle foto –, che ogni adulto è intrappolato in un’esperienza di cui domina maldestramente il racconto. Inoltre, alla fine di una lunga giornata, lo zio scemo si ritrova su un albero e reclama che gli si porti «una donna!», e niente e nessuno lo potrà distogliere se non ciò che si oppone a lui e lo completa: davanti a lui, alto e magro, e davanti al suo volere impotente, la monaca nana e rotondetta detta legge in una relazione che soltanto la natura intima e invisibile degli elementi può comporre. * Attraverso la componente caricaturale il film accede alla sua dimensione politica. Parallelamente a una caricatura del derisorio s’insinua una caricatura di derisione, più risoluta, che attacca l’epoca fascista e che, abbandonando il registro tenero della prima, accumula i segni di una retorica pomposa. Si celebra il 21 aprile, il giorno della nascita di Roma, la Città eterna, ma questa festa è soprattutto un’occasione per celebrare il fascismo. Si aspetta un treno, come se dovesse arrivare il Duce stesso, e una gigantesca composizione floreale di garofani rossi e rosa che riproduce la sua immagine svetta nel piazzale della stazione, un ritratto-caricatura in cui i buchi sparsi tra i fiori ricordano i segni del vaiolo. Sono organizzate delle parate e tutte le corporazioni della città presenziano l’avvenimento: gli uomini armati secondo la tradizione fascista, le scuole, le autorità dall’aspetto baldanzoso, i corpi di ex combattenti e di giovani balilla, riuniti, tenuti sull’attenti, in un’esaltazione atletica e, dunque, eroica. Al biancore delle manine si è sostituita un’aria scura, portata da un vento che gonfia nuvole di polvere mista al fumo del treno finalmente in stazione, un fumo nero come l’ideologia e le camicie. Si attendeva il Duce, ma in realtà arriva un gerarca regionale di alto grado al quale è attribuito il titolo di «Eccellenza», accolto da un fumo che si fa sempre più denso. Il corteo avanza, grottesca riproduzione del Quarto Stato di Pelizza Da Volpedo. Che significato ha il 21 aprile, data di fondazione della Città eterna? Significa rispettare i monumenti, le rovine e le pietre che Roma «ci» ha lasciato: «[…] La Roma imperiale che ci indica la via del destino dell’Italia fascista!». Tutti applaudono, la gerarchia sfila a passo di corsa, allo stesso passo vengono spinti i paralitici e gli emiplegici, con le ovazioni di una piccola folla; la Gradisca vuole toccare e grida: «Viva il Duce, il Duce è bello!». I dati sono illustrati senza tanti giri di parole: «Il 99% della popolazione è iscritta al partito… abbiamo 1200 tra balilla e avanguardisti, 3000 giovani italiane, 4000 figlie della lupa […]. È meraviglioso, questo entusiasmo che ci rende giovani e antichissimi allo stesso tempo, giovani perché il fascismo ha ringiovanito il nostro
sangue, con gli ideali luminosi antichissimi… Io vi dico soltanto questo: Mussolini c’ha due coglioni così!». Su questo grido di gloria e di guerra pieno di nobiltà, la gerarchia, che non esita davanti a nulla, sale correndo per una scala ripidissima, poi di colpo tutto si ferma per il discorso ufficiale di Sua Eccellenza. Seguono le dimostrazioni ginniche degli scolari dirette da funzionari cittadini, tra cui la professoressa di matematica che, ostentando l’esuberanza del suo petto da leonessa, commenta: «Una giovinezza di granito!». Viene sollevato il ritratto floreale del Duce; segno, tra gli altri, di assoggettamento all’immagine di un’immagine. Il liceale innamorato di Aldina, la quale non lo vuole, sogna che il Duce, il cui ritratto si mette a quel punto a parlare, celebri il loro matrimonio. Trionfo finale con cerchi di legno per le femminucce e fucili di ferro per i maschietti. Con le sue parole d’ordine e la sua liturgia semplificata, la festa fascista si oppone alla spontaneità mobile delle feste cittadine. Attraverso la continuità dei ritmi, ricreano i fondamenti di un vivere in comune, scandiscono i tempi e gli spazi delle maturazioni, tessono una rete di complicità, senza dubbio impacciate, ma generose, poiché manifestano l’intimità di ciò che lega le persone, anche in quello che le divide. Al contrario, l’altra festa, quella fascista, sottolinea, attraverso il peso della sua retorica, la volontà di disciplinare quanto potrebbe trasformarsi in disordine o mettere in discussione le procedure del divieto. Da qui la soluzione della violenza come regolamento che cancella la continuità della conversazione, il chiacchiericcio senza fine che era il tessuto più prezioso, i giochi dello sperimentare e del conoscere, gli attimi di una libertà forse inesistente, ma comunque paradossale. Il vero «adulto» è questo «spazio» fascista, questo tempo delle categorie e della scansione dei regolamenti – come al liceo –, che fa di ogni adulto un bambino o un povero scemo, imponendo il suo comando, le sue soluzioni fatte solo di violenza e di abuso che dovrebbero «proteggerli e rendergli la loro dignità: Dio, patria, famiglia». Al suono delle campane che scandiscono l’ora e la buonanotte si sono sostituiti la confusione e il baccano della brutalità, colpi di arma da fuoco. Questo orientamento «fascista» è presente insidiosamente in tutto il film, e permea l’espressione del derisorio quanto quella della derisione. Questa è insita nel doppio senso di ogni scena: scene della scuola, del padre con i suoi operai, scena domestica e regolamento di conti familiare, scena della confessione, scena della masturbazione, degli sguardi e delle complicità, scene di relazione con il femminile, dei rapporti con le favole, fino alla scena del matrimonio. Essa sembra a volte apparire, inattesa, in uno spazio in cui derisorio e derisione si sfiorano, come nella serata di primavera al Grand Hotel, in cui la virilizzazione a oltranza di un carattere latino diventa il segno caratteristico delle intolleranze del fascismo, anche se questo è esposto con un divertito umorismo. Questa scena è il terzo capitolo di un trittico, situato tra il ritorno a casa del padre dopo l’interrogatorio e la passeggiata in campagna con lo zio Teo, il cui protagonista è lo stesso Grand Hotel, la Vecchia Signora, come lo chiama l’avvocato. Somiglia molto all’hotel che era stato uno dei protagonisti di 8 ½: entrambi evocano la storia della Belle Époque, mitologia di riferimento per la borghesia di quest’altra epoca, quella tra le due guerre, che si vuole bella e in continuità con la precedente. Il trittico ripercorre la storia, narrata dall’avvocato, di due fantasticherie – come dice lui, cose di cui nessuno è sicuro, ma che tutti raccontano – differenti fra loro, alle quali si aggiunge una conclusione. La prima riguarda una dubbia avventura della Gradisca, che sarebbe all’origine del suo soprannome. Incaricata di allietare la notte di un principe di passaggio, la Gradisca si reca al Grand Hotel, accompagnata dai politici locali che la
spingono a ottenere, in cambio delle sue grazie, favori per la comunità. In questo modo la Gradisca può, con il pretesto di un atto patriottico, convertire i suoi desideri – i suoi sogni – in causa eroica, in abnegazione per la comunità. Penetra nel vuoto profondo dell’hotel, appena disturbata dalle guardie, e raggiunge la camera. Il film si orienta qui verso l’operetta viennese, La Gaîté parisienne e La vedova allegra, Offenbach e Lehar riuniti, con militari in tenuta di gala, luci attenuate da abat-jour di alabastro, tendaggi di seta e sofà, grandi candelabri e specchi, tappeti, insomma un bordello molto chic in casa propria, rosa, bianco e celeste, tutto l’assortimento di un sogno da rotocalco, liscio e levigato, completato da un principe da operetta, decadente, davanti a lei che di democratico ha soltanto l’ideale d’amore. I militari lasciano il salone-camera, finalmente il principe si alza per guardarla, infine lei saluta, tutta vezzi, dispiega l’intero repertorio delle seduzioni apprese al cinema, non aspettava altro, è tutto perfetto nella sua testa e non resta altro che agire, lei, bella piccioncina agghindata di rosa color carne e piume, lui, in pigiama di seta, che si versa da bere, poi la raggiunge nel letto in cui lei è già nuda: «Signor principe, “gradisca!”». La seconda storia è quella, altrettanto esotica, di Biscein, un sempliciotto che vende chicchi di girasole, olive e fave arrostite. Due anni prima ha assistito all’arrivo al Grand Hotel di un emiro e delle sue trenta concubine. Musiche orientali e una parata di drappi di seta rosa e grigi danno corpo al racconto, secondo il quale, una sera in cui si trovava lì come per caso, Biscein si sente chiamare dalle concubine, rinchiuse nelle loro camere dall’emiro. Scavalca il muro grazie ai drappi annodati che gli hanno lanciato e scopre un harem. Fellini si lancia nella fantasticheria di un music hall orientale, una sorta di Sheherazade hollywoodiana con languide danzatrici in colori madreperlati dalla luna. Biscein chiude la scena suonando il flauto di Pan. Questo ritornello da operetta e da music hall, caratteristico di numerosi film di Fellini, non poteva terminare se non nell’ennesima attualizzazione di quello che somiglia a uno spettacolo di varietà e che apporta una conclusione ai «sogni» precedenti approfondendo la rappresentazione di un maschilismo del resto inerente agli altri due racconti. È ancora notte, è primavera, sulla terrazza dell’hotel la musica è un samba, le donne sono vestite in abiti anteguerra, alla Isa Miranda o Isa Barzizza, gli uomini, qualche rampollo abbastanza maturo di una piccola borghesia provinciale italiana, sono impomatati, in smoking, giacca bianca. La grande messa in scena dell’idea e della pratica virile dell’epoca, in cui lo zio in odore di fascismo seduce la sua preda al ritmo languido di uno slow, sussurrandole all’orecchio, pur di parlare: «Sei polacca, perché solo le polacche hanno questo fuoco negli occhi!»; o ancora: «Allora sei cecoslovacca, perché solo le cecoslovacche hanno questo fuoco negli occhi». Lei risponde recitando tutto quello che conosce di italiano: «Buonazera, Miccelangelo, ffan’culo, ’O sole mio…». Un altro tipo, stempiato, approccia una donna dal petto più che rigonfio, il samba si fa selvaggio, i ragazzini nascosti dietro la siepe sbirciano la scena, lo zio si eclissa tra i cespugli con la pseudocecoslovacca – in realtà tedesca –, che gli concede la sua «intimità posteriore», come dirà lui in seguito. Seduto con calma a tavola, l’avvocato, che vive la vita senza aspettarsi nulla in cambio, chiede a una straniera se conosce Leopardi e con gesti della mano accenna un paragone con Dante; la tettona danza ancora con lo stempiato, entrambi rapiti ed eccitati, più passa il tempo più i seni di lei si gonfiano e più cola la brillantina di lui, poi le luci dell’hotel sfumano, e si spengono. Attraverso questi tre esempi viene evidenziata la pratica interna a una concezione ridicolmente fallica del maschile, forgiata dal cattolicesimo italiano e confermata dall’attualità
del fascismo. Mentre, per il femminile, dalla Volpina alla Gradisca alla tabaccaia, viene espresso soltanto un desiderio di godere, senza ipocrisie. Dall’inizio alla fine, l’atteggiamento della Gradisca tradisce una naturalezza solo appena intaccata dalle ripercussioni di un’ideologia che non le appartiene, se non perché appartiene innanzitutto a quell’epoca. * Davanti a queste imposizioni, che cosa resta, non tanto della vita, quanto di quello che è stato vissuto? Il derisorio oppone ai malintesi le sue strategie malinconiche, la cui descrizione richiama temi colti sul vivo e sviluppati in un abbandono senza limiti: da qui la lunga durata di tutti questi episodi, portati dalla melopea di un tempo passato a perdersi nei dettagli. C’è l’1% che resiste al 99% di insolenza del fascismo, la collera del padre che la moglie tiene rinchiuso perché non esca «ogni volta che c’è una manifestazione di quei coglioni»; c’è la madre che aspetta il suo ritorno, l’umiliazione lavata nella tinozza in cui, ripreso di spalle, subisce le prese in giro di suo figlio; c’è il dolore della madre quando il padre accusa suo cognato, un dolore che arriverà fino a una morte dolce e silenziosa, come la fine di una stagione. Ci sono i sassi che lo zio Teo porta in tasca perché sono belli, c’è il pisciare insieme al proprio padre perché «per campar sano, bisogna pisciar spesso come il cano». Ci sono le mosche, la siesta, l’incanto davanti alla bellezza di un uovo e le pigrizie pastorali sotto il sole. Poi tutti i racconti in attesa del Rex, le poesie inventate, le barchette e le uscite in mare che hanno lasciato la città deserta, abitata soltanto dai cani. Vengono scattate foto indimenticabili, un tramonto arancione si diffonde sulla scena, canzoni, danze e racconti s’intrecciano, il padre va in estasi davanti alle stelle che non capisce come fanno a reggersi nel vuoto. Tutti si addormentano, cullati. Di colpo, un muggito lontano, il Rex, «la più grande realizzazione del regime», l’immensa nave fende le acque con i suoi due grandi baffi di schiuma, il cieco chiede pateticamente: «Com’è?», baci, saluti quando passa, lacrime davanti al «miracolo» che scompare. L’acqua nera. Questa accumulazione tesse una rete di intensità che resiste alle mura del tempo, dell’epoca, dell’affermazione del fascismo. Ed è questa intensità a restare forse vaga, diffusa, ma la cui vibrazione perdura. Affogato nelle brume e nelle nebbie dell’alba, al confine tra la vita e la morte, il nonno esce di casa e si perde, avendo smarrito ogni punto di riferimento. Chiama: «Mi sembra di non stare in nessun posto… ma se la morte è così… non è un bel lavoro, sparito tutto, la gente, gli alberi, gli uccellini per aria, il vino… n’te’l cul». Quando rientra, il più piccolo dei fratelli esce: uno ha finito la sua vita, l’altro la comincia. Fischiettando Stormy Weather, il bambino va a scuola; per strada incrocia un’automobile, poi si imbatte in un toro, esita per la paura, meravigliato davanti a tanta potenza. Tutto torna banale. Il Grand Hotel è chiuso, freddo e deserto. Risuona una musica, quattro o cinque liceali danzano su accordi interiori, senza rumore. Ecco di cosa ci si ricorda: di quel nulla in apparenza senza interesse che si annida sotto la pelle, che viene da sotto; della malattia che vi prende dopo l’insuccesso con la tabaccaia, soltanto perché a monte ci sono altri insuccessi – paroline rivolte alla bella che si nega, i pantaloni lunghi, perché crescere è anche questo – che si cristallizzano, lì, nel luogo e nel momento in cui sono più cocenti; della madre che veglia; della storia d’amore tra lei e il padre, raccontata con semplicità, il loro primo bacio. Qualcuno grida «nevica!», e il ciclo delle stagioni si conclude. Ovunque si trovino, tutti
escono per guardare la neve che cade. Alcuni attirano i passeri con un fischio, se vengono è buon segno. In labirinti di ghiaccio ci si incrocia senza incontrarsi, smarriti gli uni per gli altri. La madre è in ospedale, le vengono portati fiori modesti, le parole quotidiane si fanno dolci, la fede si è fatta troppo larga, c’è un piccolo giardino. Fuori nevica ancora, fiocchi bianchi tra i colori, colori – ancora il rosso della Gradisca – che risaltano sul bianco, ci si lancia palle di neve, il fondoschiena della Gradisca è un bersaglio perfetto. Appare all’improvviso il pavone del conte. Ci si ferma, immobili, ci si interroga con speranze diverse su questo segno del cielo, dal canto rude e grossolano. Infine, silenziosamente, l’uccello si posa facendo la ruota sulla fontana ghiacciata. L’immobilità e il silenzio annunciano la chiusura di Titta in una solitudine muta, una maturazione. Miranda, la madre, è morta. C’è il funerale, la chiesa, lo svenimento dello zio, la bara che viene accompagnata come usava un tempo, con il corteo che sfila per la città, le carrozze, i preti, gli orfani, la fanfara, i passanti, i bambini e le loro smorfie, quelle smorfie che non esistono più, il cimitero, i cipressi. Ai silenzi che invadono e alla casa vuota seguono la passeggiata solitaria, la riva, il grande mare e l’aria. Ecco che le piccole quantità affettive del derisorio rispetto a quanto sembrava insopportabile guadagnano terreno in ciò che resta della vita, nel quale ci si dovrà calare per vivere. Di nuovo le manine, la primavera, un’aria pasquale. Malgrado la loro continuità, i cicli provocano alcuni cambiamenti nei dettagli, ed ecco che la Gradisca sposa un solido carabiniere. La festa nuziale si svolge in campagna, in un albergo sperduto chiamato Paradiso. Ecco le ultime marachelle di quelli che hanno amato la Gradisca, che fluttuano in questa storia, il cieco suona la fisarmonica, ci si fanno gli auguri e si brinda, si scattano fotografie, la Gradisca versa qualche lacrima e per consolarla Biscein recita la sua ultima poesia da clown, poi: «Arrivederci a tutti, arrivederci… Ho mangiato quattro minestre…». La Gradisca parte in automobile con il suo carabiniere, e dopo un ultimo bacio: «Addio, vi voglio tanto b…», e il film sfuma in una dissolvenza progressiva. Come in uno spessore impalpabile, nella nebbia dei ricordi, il film sviluppa il riflesso di quanto è stato fin lì addomesticato. E questo riflesso che gioca sulla densità delle trasparenze porta, dopo I clowns e Roma, a un rinnovamento della forma che corrisponde a un’autentica riflessione. La ripetizione dei temi sfuma – benché l’espressione dell’erranza sia ancora molto forte – a vantaggio della loro premonizione e della loro prefigurazione, che portano a un tempo fin lì inesistente, che non è di certo quello della memoria, ma nasce nello scarto tra quello che già è stato detto e quello che poteva già essere stato detto, ormai esclude ogni ragione sociale, lasciando affiorare il film nel suo essere cinema, senza più bisogno di spiegarlo.
II
COME LAVORARE SULLA LETTERATURA E RISCRIVERE UN BEST SELLER DEL PASSATO AL CINEMA? TERZO ESEMPIO, CASANOVA: MITI E LEGGENDE DI UN MITO. COME FILMARE I MITI? CHE COS’È VENEZIA? UNA NUOVA MANIERA DI AFFRONTARE LA FUGA, L’ERRANZA E LA DISORGANIZZAZIONE DEL CORPO. AFFABULAZIONI DI FANTASMI. L’UOMO E IL SUO SESSO, I SESSI DELL’UOMO. LA DONNA E IL SUO SESSO, I SESSI DELLA DONNA. CHE COS’È IL GRANDE NORD? CHE COS’È UN NORD RISPETTO A VENEZIA?
Come indicano i titoli di testa, Il Casanova di Federico Fellini1 è liberamente tratto da Storia della mia vita – o Mémoires – di Giacomo Casanova, e sarebbe inutile cercare legami di vicinanza con l’opera di Casanova, che Fellini dichiara di non amare.2 La questione della riduzione per lo schermo di un’opera letteraria si era già posta per altri due film, e i motivi espressivi fondamentali non sono mutati. Al contrario, Casanova spinge al limite ciò che non era stato espresso in Satyricon, in cui l’uso di un materiale «favoloso» era importante. Ora, con Casanova, è come se la favola si rivelasse ormai impossibile, sia da parte di Giacomo Casanova che da parte di Fellini. Ciò che costituiva territorio di invenzione nel caso di Satyricon, per la sua distanza storica, è scomparso con il Settecento, per la particolarità e la vicinanza del periodo, ma anche degli sguardi e dei commenti che ne hanno informato la costruzione, e su questo punto Fellini è altrettanto esplicito.3 Perciò la «favola», i suoi frammenti devono provenire dall’indipendenza del film rispetto a due elementi: la biografia di un uomo che a suo modo ha creduto di rappresentare qualcosa in una certa epoca – quindi ritratto in una contemporaneità –, e la fedeltà all’epoca stessa, rappresentata da troppe ovvietà, da parte di un autore che la ridisegna nell’espropriazione di un’appartenenza storica. Nel film tutto è «falso», non nel senso di un’ennesima esegesi della problematica della finzione, ma nel senso più specifico di «paccottiglia». Questo «falso», che ne costituisce l’estensione e la grandezza, è lo stesso che, in ogni epoca, ha generato la liturgia delle tombe e dei sepolcri: nessun altro film di Fellini racconta in modo altrettanto esplicito il funebre, in modo altrettanto disperato il lugubre, il «luttuoso»; procede così alla rielaborazione dell’antico tema delle «Vanità» o del «Trionfo della Morte», conferendogli la monumentalità che si ritrova in alcuni aspetti del barocco romano. La quantità smisurata di carrozze che attraversano il film, che non sono più semplici mezzi di trasporto, il modo in cui questi veicoli circolano nelle scene, i loro cavalli bianchi di impazienza e di foga, la danza teatralmente ripetitiva e macabra delle loro evoluzioni non hanno altro equivalente, nel richiamo mortuario, oltre quello della stravagante quantità di armadi, credenze, casse, cassettoni, panche, celle chiuse, poi la moltitudine di candele, di ogni forma e lunghezza, di cui il film è ornato e che rimandano al sentimento, non tanto di una lotta, quanto di una preparazione e di un’adesione alla morte, all’infinita conservazione del suo fantasma. Mentre Satyricon offre l’orizzonte di uno sviluppo attraverso temi di iniziazione e di continuità in espansione, le tonalità nette di Casanova s’inseriscono nei colori scuri di riti
notturni di magia e di occultismo, di sortilegi e stregonerie di ogni genere, in una commistione di culture solcate dai crepuscoli di quell’Europa. Il tono generale dell’epoca è segretamente presente come fondale di scena: il Settecento, accanto ai suoi peculiari splendori, segna la fine di tante cose, e tuttavia ciò che finisce vacilla ancora in un’indeterminatezza che è una delle scelte rivelatrici del film, la cui speculazione scenica, ottica e cromatica, abbraccia nel suo oscillare un’ampiezza inaudita, dagli artifici in trompe-l’œil dei teatri barocchi alle lividezze di un’aurora boreale romantica. Fin dai titoli di testa, lo spessore è quello delle tenebre, che scivolano sull’acqua della laguna, una materia viscosa, inalterabile, in movimento, non come dovrebbe essere una superficie, ma come dovrebbe esserlo l’interno di un ventre che divora: sifilidi e cancri, come in Defoe. Nessun altro film ha avuto questa densità ctonia, di spaccatura o di piaga, che trasuda umido e colatura. Un’umidità di alghe e di spume che appartengono soltanto a Venezia, all’inizio, alla scena di una mascherata dalle tonalità brunastre di sortilegio. Falò, fumi annunciano l’innalzamento di altari sui quali si consumano sacrifici. C’è una festa notturna al ponte di Rialto, in onore di Venezia, una festa che celebra l’eternità della città, Regina, Dama d’oro che governa; poesie incantatrici si confondono con gli insulti apotropaici in questo Carnevale in cui un giovane doge di circostanza taglia un nastro e scatena immersioni nell’abisso della colla lagunare ed emersioni, con l’affiorare di una testa di prua color bronzo, caput nascosto, allegoria della città, mostro dagli occhi bianchi sorpresi nello stupore della morte, tutte immagini che ci relegano nei domini delle incertezze equivoche. Frastuoni, assembramenti, dispersioni, qualche macchia di tessuti avorio, il domino, altre maschere portate in mano ed esumate dalla notte dei tempi, che ribadiscono i modelli di Satyricon, fino al momento in cui una lettera viene fatta scivolare nelle mani di un domino: a volte, Fellini prende da Balzac. Il motivo acquatico sparisce definitivamente nell’acqua. Giacomo Casanova spinge e rema, forte. Viene presentato così in una sequenza sdoppiata che inquadra le scene dei due primi riti spermatici dell’eroe. Il corpo si erge nel rosso e nel bianco delle martirologie, plongée e contre-plongée, chiaroscuro, nelle variazioni di un nero da teatro in dissolvenza, illuminato da una candela alle prese con il vento e le onde, in un gesto di solitudine perso contro la furia degli elementi, in quel magnifico abito che sarà il suo distintivo, pantalone, gilet, bretelle fascianti e, sopra, un largo mantello di mussolina che lo chiude come un pistillo nella sua corolla bianca; un’aria a volte sportiva o eroica, ma con il gusto retorico dei salvataggi. Spingere e remare per salvarsi, sull’immensa barca con lo stemma di Venezia, il Leone della Legge, spingere e remare contro l’acqua dell’immenso mare nero, incubo dell’inesauribile andirivieni nell’oceano intrepido di quest’onda, o questa bora, che fischia da ogni lato: onde, marosi, turbini ricreati sciabolano in orizzontale e incrociano il beccheggio verticale della barca, scagliata in alto, inghiottita dal basso. Plongée e contre-plongée, l’enfasi ricorda inevitabilmente zattere degne dell’Inferno di Ulisse, annuncia le tempeste di E la nave va: questo cinema cerca le sue affinità, le sue similitudini, altri riverberi che trova nella pittura. * Tra due onde, è raccontata la storia sessuale, o meglio la storia di questo sesso, impugnata all’inizio dalla lettera che lo invita a un appuntamento galante. C’è un determinismo perentorio
in Fellini nel non ricreare mai in Casanova la leggerezza volubile che avrebbe potuto appartenergli, trasferita, nel film, unicamente nelle garze e nelle cravatte dei costumi, nei cotoni setosi, nelle orlature e nei guanti, nell’eternità volteggiante di una veste dal velo musicale e fluttuante, leggero di luce, un abito che lo innalza in aria o sull’acqua di Venezia. Per il resto, almeno in questo inizio, Fellini impone una definizione stranamente teatralizzata del volto sul quale volontà e debolezza si sfiorano.4 Il trattamento di questo «ritratto» ha più a che vedere con la scultura e con la pittura che con quanto ci si aspetta dal trucco cinematografico; così rimodellato, offre superfici frontalmente più ampie, tagli più affilati di profilo che ne accentuano la verticalità, aureolato di parrucche inventate apposta per questo film. Fellini crea una mobilità dissociata dalla recitazione, che non punta direttamente alla sua espressività, ma ai volumi in movimento che la massa pittorica fa emergere e vibrare grazie alle composizioni delle luci. La prima volta che vediamo Casanova, la percezione d’insieme rimanda a un’apparizione: come si fa apparire sullo schermo, e non come si mostra qualcuno. C’è qualcosa di ieratico e grottesco al contempo che deve restare nell’assenza di spiegazione diretta. L’addizione o la sottrazione espressiva e psicologica avviene progressivamente e non è mai definitiva; viene effettuata secondo una modulazione che si realizza scena dopo scena e che rimanda allora a soluzioni temporanee nella caratterizzazione, il cui risultato è un disegno, una pittura visiva che di rado coincide con le intenzioni del dialogo. Ciò non significa affatto sminuire l’attore, ma più semplicemente porlo in situazioni che non gli appartengono, dato che rimandano a un codice espressivo che lo oltrepassa. L’indeterminatezza serve anche a sottolineare l’inadeguatezza di Casanova rispetto a se stesso o al suo progetto, poiché non sembra capace di deciderlo, di stabilirlo: si dichiara ora una cosa e ora l’altra, ridisegnando all’infinito un modello ideale di uomo universale, ma inadatto nella realtà pratica, sia essa di ordine politico o culturale o sociale, inadatto a situarsi in quello che crede essere il suo destino. Il sesso, il suo, diventa così l’unico capitano di questo vascello che lo porta lontano da Venezia, il sesso che già gli è valso in città qualche storia vantaggiosa, da cui ha saputo trarre profitto; non abbastanza, tuttavia, per non essere divorato da quello che resta di un’Inquisizione e di un potere che lo rinchiude ai Piombi. Le tre avventure sessuali mostrate all’inizio sottolineano la volontà di esibire la meccanicità di un fare che non si pone il problema delle proprie conoscenze, delle proprie variazioni, insieme caotico che ne ha fatto uno dei generi letterari più suggestivi. Le provocazioni erotiche proposte dall’ospite – l’ambasciatore francese – e da una suora, Maddalena, le pitture e i calchi che rappresentano pesci nella scena della cella di specchi – in cui si sviluppa un teatro del sé ricamato da un pizzo di vetro, uno stato in cui si possono annientare i fantasmi e l’invito infinito della ripetizione – non sembrano interessarlo affatto, nemmeno dal punto di vista suggerito dall’occhio morto-vivo del pesce, puramente narcisistico.5 La sua preoccupazione principale è far bene davanti all’occhio appena compiacente di un Padrone voyeur che, oltre a qualche complimento, gli dà dopotutto una lezione (perché si tratta comunque di un ambasciatore di Francia, al quale spillare eventualmente qualcosa). La giostra erotica non si gioca negli specchi, che restituiscono soltanto pochi scatti, né infiniti né moltiplicati, appena pochi segni silenziosi verso un occhio che si lascia vedere tra due simboli i quali, non mettendosi in opposizione, vivacchiano nella fatalità della loro connivenza. Ai meccanismi voyeuristici del pesce rispondono i meccanismi erogeni di una forza compulsiva, quella proiettata dall’uccello feticcio, che sarà ben più che l’emblema o il portabandiera di Casanova, il
suo alter ego goditore-gaudente, l’unico per cui, nella fissazione di un andirivieni senza variazioni, remare sarà nella vita soltanto fottere (tutto ciò porta a Sade, senza dubbio, ma fuori dalla filosofia e malgrado i boudoir). Casanova lavora sul suo meccanismo fino a restarne accecato – è questa la sua risposta al voyeur –, ed è l’uccello a godere in un fremito che unifica la moltiplicazione degli specchi.6 I vestiboli labirintici che penetravano nella stanza del piacere senza desiderio si richiudono dietro la scena: il pesce riprende il suo occhio metallico, l’uccello viene riposto nella sua elegante scatola di cuoio e velluto, i sessi nelle loro mutande e le intimità ridiventano coscienze; solo i veli di una suora, che il godimento ha reso losca, sfiorano gli abiti talari di un abate cui non la si è data a bere. Anche per questo Casanova dovrà lasciare la città evadendo dai Piombi sotto la luna, la sua ultima luna veneziana, velata dalle nuvole – in una scena appena derisoria da Pierrot lunare, nella quale pesanti campane suonano a morto, come umidi stillicidi –, dopo l’immersione decadente in alcuni ricordi che, a prescindere dal punto di vista dal quale li si osserva, equivalgono a cadute in un patetismo morboso.7 Per lungo tempo la fuga, l’orgasmo che procura, sembrerà corrispondere a una destinazione più tangibile e reale, ed è soltanto l’avventura, questo è il nome che le viene dato. La destinazione, tuttavia, somiglia a un progetto: capovolgere la fuga in avventura, trasformare tutto questo, che non è nulla, in avventura. Che cosa può volere questo Casanova che non sia in fin dei conti già presente nei codici di un secolo, di una cultura e di un potere di cui conosce, in qualità di apprendista stregone, le novità mondane, ma di cui è lungi dall’essere una delle espressioni radicali come crede o finge di pensare? Sono le determinazioni di questo «indeterminato» a essere messe in scena da Fellini. La risposta suggerita è quella della costruzione, a cose fatte, di una «leggenda» che – contro la favola – vuole operare la propria transustanziazione, grazie alla testimonianza della scrittura su di sé – i Mémoires –, la più abbondante e la meno allusiva che ci sia. Si tratta di trasformare la leggenda – senza virgolette –, il mito di questo oggetto e del suo possessore – e da qui scaturisce la necessità di raffigurarlo attraverso l’uccello meccanico –, che hanno pur dovuto esistere allo stato di oralità, che hanno dovuto, al loro tempo, passare di bocca in bocca, da orecchio a orecchio, da uno sguardo all’altro, da uno sfioramento all’altro e così via. E farne allora, nell’istante stesso della loro trascrizione, uno stato genitale della lingua e della storia, non più una situazione del corpo, ma il nodo di una struttura ideologica e linguistica: ciò che si potrebbe considerare come effetto di realtà è solo ormai il coacervo mortuario di una catastrofe che, accuratamente ripiegato in alcuni bauli, durerà per tutta la vita. Ciò significa volere che la «leggenda» – il suo sesso da stallone e l’inesauribile vigore fisico, quella potenza lì – si trasferisca, grazie alla scrittura e alla sua memoria, in una sostanza dello spirito, nella certezza – attraverso le pratiche occulte, per quanto ci creda, e con lui gli altri, e anche questo è Illuminismo – che il sesso da stallone diventi spirito, o almeno che sia un espressione di quest’ultimo. * Per Fellini, Casanova non è altro che l’elaborazione di questa idea. L’avventura che si determina al momento di lasciare Venezia, sostituendo le gondole con le carrozze, sceglie luoghi e
frequentazioni in cui dominano la mondanità e la sessualità. Equivale a dire che la vita non sarà altro che una questione di fottere il mondo, e nel film viene descritta grazie a quindici quadri che formano un crescendo variabile, che implica zone di convergenza con un modo di decifrare l’epoca, zone nelle quali Fellini sembra dare molta importanza agli atteggiamenti e ai modi di pensare rispetto ai «sessi» incontrati in alcune conversazioni. Il primo salone della nuova vita di Casanova è un salone parigino, quello della marchesa d’Urfé. Nasce una conversazione tra il conte di Saint-Germain, un prelato e una giovane donna, già vecchia, appassionata di teologia. Il prelato entra in una trance durante la quale viene invocato lo spirito della regina di Saba e richiesta la possibilità per gli umani di penetrare nella sua anima. Il tema divide il prelato e il conte, da un lato, e Casanova dall’altro: è impossibile, affermano i primi, trasmigrare in quell’anima, perché, come per tutte le donne, nella regina di Saba vi è carenza d’anima. Secondo loro, mentre gli uomini dispongono di tre qualità dell’anima, le donne ne posseggono soltanto due, poiché manca loro l’anima nobile, quella immortale; la torva ragazzina si esibisce allora in una refutazione dell’idea di Sant’Agostino secondo la quale Cristo sarebbe stato concepito attraverso le orecchie. Casanova interviene prendendo le difese del sesso femminile e ricordando che il Concilio di Trento si era sbarazzato di tutte queste sciocchezze. Secondo lui per una «vera» donna anche una sola anima è più che sufficiente, purché questa riesca tuttavia a fondersi con quella di un uomo nell’armonia perfetta che nasce dalla fusione dei loro corpi – discorso che sviluppa una volta ancora la questione della transustanziazione, attuata dall’alto per e verso il basso. Il dardo è scagliato e scatena in risposta gli sguardi della marchesa d’Urfé: ha ascoltato e capito queste frasi che raggiungono la sua volontà di fusione in vista di una metamorfosi o di una metempsicosi dal suo corpo di donna con il corpo di uomo. Esagitata, contorcendosi come se avesse i crampi allo stomaco, si precipita in quel vasto apparato scenico che è la sua camera – sotto gli occhi della civetta di Atena –, dove ceri e specchi compiono nella tranquillità della speranza la loro funzione di illuminare e moltiplicare i fantasmi. La marchesa mostra i suoi tesori, ma Casanova ha sete di altri tesori, tesori spirituali, dice lui. Sono evocati Paracelso e i segreti della pietra filosofale, è poi la volta di Selene, Anubis, Osiris e dei profumi di Venere, e si prende appuntamento per raggiungere quei fasti che porteranno, attraverso l’accoppiamento e la copula, alla realizzazione dei percorsi iniziatici di entrambi. Ecco, essenzialmente, che l’avventura, in una delle sue accezioni più banali, si riduce a un percorso che non potrebbe essere più sessista di così: non riguarda il sesso se non nella misura in cui quest’ultimo rappresenta una moneta di scambio. Il delirio della scena seguente, di un Casanova in carrozza dorata che grida il suo inno a Parigi, «la città di Mazzarino, Racine, Voltaire», mentre si masturba con le mani e con gli occhi fino a un orgasmo che, andando di pari passo con la tempesta di fuori, farà sbandare la carrozza, definisce i contorni di cosa sia davvero l’avventura per Casanova. Con la testa infiocchettata da un diadema di fuoco e sgocciolamenti di cera, eccitandosi invano alla visione delle natiche di una prostituta che fa da assistente, «remerà» lungo i condotti dell’anima della marchesa con il suo andirivieni, coronandosi di un presente che percepisce soltanto un avvenire cieco attraverso l’eco di un passato sordo e muto. In un secondo episodio, Casanova incontra quello che definisce il più grande amore della sua vita: il racconto inizia in una carrozza in cui il protagonista incontra un ungherese e una bellissima e giovane francese, Henriette, l’unica scena del film di grandissima luminosità, quasi assolata. La sera, durante un concerto a casa di Monsieur Dubois, nel ducato di Parma, la
conversazione che riunisce gli invitati intorno a una tavola sontuosamente apparecchiata riguarda nuovamente la questione delle donne: cos’è che è più leggero di una piuma? La cenere… e più leggero della cenere, il vento, e più leggero del vento, la donna, e più leggero della donna, niente… Davanti ai ritornelli del suo ospite, Casanova, che ha già dichiarato il desiderio di essere il Pigmalione di tutte le sue conquiste, si lancia allora in un discorso a favore delle donne, nell’intento, filmato in tutta la sua ostentazione, di attirare l’attenzione di Henriette e di piacerle: Esercitiamo un totale potere sulle donne, un’autentica tirannia che noi siamo stati capaci di far accettare solo perché esse sono… più buone, più ragionevoli, più generose dell’uomo… Tali qualità che avrebbero dovuto dar loro la superiorità su di noi, le hanno invece messe alla nostra mercé, perché gli uomini sono di fatto cento volte più irragionevoli, più crudeli, violenti, più inclini per natura ad opprimere… […]. Ma chi non parla mai male delle donne, non le ama… perché per capirle ed amarle, devi soffrire per loro colpa, allora, e solo allora, puoi trovare la felicità sulle labbra della tua diletta […]. Che cos’è il bacio? Semplicemente il desiderio di sperderti nell’animo della donna che ami.
Il fascino del discorso produce visibilmente i suoi effetti, e dopo l’intermezzo musicale della Mantide religiosa, interpretato da un Daniel Emilfork in gran forma che divora la giovane preda, la storia d’amore con la bella Henriette si consuma nelle circostanze consuete, salvo che questa volta – motivo per cui l’amore resta una bella storia della vita – Henriette, rapita come Manon Lescaut, lo lascia, scomparendo dalla sua vita. Il film è impegnato in sequenze ripetute che sottolineano lo spirito avventuroso e ruffiano di Casanova, sempre pronto ai bei discorsi quando gli conviene. Casanova sviluppa le sue variazioni su un tema che fa emergere il lato paradossale della baroquerie dei volumi, attraverso un’esagerazione dei temi pittorici e compositivi. L’immagine che si avventura in un discorso sull’epoca non smette di strapparla dalla cornice, di sconvolgerla: di colpo il film fa emergere il lato animale e carnivoro di un gruppo umano decadente, di un’aristocrazia in fin di vita pronta a divorare la gioventù che compra – e in questo Casanova le somiglia –, mettendo in rilievo un disfacimento che trova vitalità soltanto nell’aberrazione di un passato da cui la morte nasce in convulsioni necromantiche. La geometria variabile che regola gli scambi di battute provoca moltiplicazioni inattese, le quali passano direttamente nell’immagine: i dialoghi non bastano a sviluppare una dialettica della conversazione, anzi al contrario, il loro essere vacui libera tutta la forza necessaria a una dilatazione dell’immagine. Nella scena della cena a casa della marchesa, come nella cena a casa di Dubois, l’accumulo degli elementi umani – simili alle vanità di una natura morta intorno all’ovale o al ventaglio della tavola – compone rappresentazioni che rimandano al grottesco di Goya, in una perdita felice della ragione: questo trionfo della scena si annulla nelle sue torsioni e nella sua messa a morte. * L’avventura diventa erranza, una necessità più forte di ogni storia, e il film continuerà su questa linea fino alla fine, spingendo il personaggio a adattarsi alla poetica dell’autore. L’erranza è rappresentata da minuscoli cambiamenti sensoriali elaborati a lungo attraverso la collazione di diversi frammenti, che non riguardano solo il passare del tempo: anche Casanova raggiunge il destino dei personaggi che l’hanno preceduto in questi percorsi disseminati di
tormenti, rimpianti e dolore, Zampanò nella Strada, Augusto nel Bidone. Tutti hanno in comune il groviglio delle strade che percorrono e delle situazioni che attraversano, giungendo alla questione di un’identità fisica e morale che non sanno più determinare, alla fine di un itinerario le cui tappe sono soltanto provvisorie, a immagine e somiglianza di una vita che mantiene, rispetto a loro, la forza e l’ampiezza convulse delle sue crudeltà. L’avventura prosegue la propria corsa ansiosa attraverso la scena, fondamentale, che riunisce in una stessa carrozza Casanova, malato di sifilide e con i primi segni della vecchiaia, e due prostitute, madre e figlia, con le quali ha intrattenuto rapporti mercenari. La scena termina con l’esplosione di un litigio sul ponte che li porta a Londra, esito fatale che riduce il passato imbellettato di garze e di organza a pochi bagagli gettati nel fango. Casanova è messo di fronte all’essenza della vita e dei rapporti che si hanno con essa, al di là degli agi che le circostanze gli hanno concesso. In quel solo istante si trova privo di tutto quello che fino ad allora ha creduto avesse un senso – una direzione –, che per lui era ancora intellegibile. La stella che l’aveva sempre protetto lo abbandona, dice lui, e la decisione categorica di morire vestito dei suoi migliori ornamenti è soltanto un’ostentazione culturale di fronte all’assenza di risposta affettiva, all’incapacità di pensarsi nella realtà che gli viene restituita, combinata a un’incredulità metafisica – pagana, cristiana o satanica – che lo lascia sperare nell’esistenza di un oltretomba in cui le anime e i corpi si riuniranno. Evoca Dante, Ariosto e Tasso, preso nell’accerchiamento o nella congiura delle sue speranze, essere quello che non è, o voler essere dove non è. L’apparizione della gigantessa e dei nani crea in lui un’esitazione ontologica, che si fonda sul credere alla possibilità di ritrovare un paesaggio di dolcezza che non immaginava potesse esistere: l’erba e la bruma, la tenera consistenza e il gocciolio di una rugiada senza sole, una promessa che la vita ha sconfessato. Rinasce in lui il bambino, avido di tenerezza e di lingua, una melodia tenue, solo poche battute senza ritmo, senza tema, un’erranza musicale dell’aria: e si doveva raffigurare proprio una volontà di morte per questa rinascita tardiva, eppure così dolce. La lunga scena della gigantessa, Mouna, ha la profondità di un corpo che s’immerge nel gorgo di un paradiso terrestre, istante di felicità di cui si sa tutto perché non lo si è mai incontrato, avvolgimento, seppellimento nel vivo della pienezza delle loro opposizioni temporaneamente pacificate. Situata in una delle parti centrali del film, questa lunga scena è costruita su diversi piani: la progressione nell’acqua del fiume, dopo il litigio con le prostitute madre e figlia, non può non ricordare la scena della fontana di Trevi e corrisponde a un battesimo o a una purificazione prima di affrontare il rinnovamento della morte; rievocare Dante e recitare un sonetto del Tasso ricorda il passaggio iniziatico dal Purgatorio al Paradiso nella Divina Commedia. A questo si aggiunge il ritrovarsi istintivo e immediato, al momento di sciogliere il fatum, con la lingua natale in un paese straniero, con una cultura che gli appartiene; infine, la seduzione degli esseri che lo sviano dal suo progetto di suicidio, la gigantessa circondata da due nani, in un paesaggio pacificato, ha il tono dei miraggi più volte incontrati: una Mouna, o Mona, l’utero-vagina, come Gaia, sorella di Kaos ed Eros, e i suoi eterni fanciulli trasformati in nani, la visione di un limbo che può appartenere soltanto a un topos mitologico. La vita di questi personaggi ricodifica un montaggio di temi tipici felliniani, ed è lì che Casanova si avvicina alla «favola» ritrovata di Satyricon o dei Clowns: la vita del circo e dei saltimbanchi, di giocolerie e di donne erculee, di artifici e di mostri che proiettano e suscitano al tempo stesso repulsione e simpatia. La scena del bagno della gigantessa permette di cogliere
questo straripamento di affetti duplici, in cui si ama e si tradisce, in cui si seduce e si corrompe, in un’allegria rumorosa e senza motivo. Casanova riesce allora ad avvicinarsi creativamente a Satyricon, attraverso l’evidenza ingannevole di un mondo sotterraneo e parallelo che vive nella messa in scena di un irreale fatto di pittura e di pura arte: giochi e dimostrazioni, strane altalene, volti di donne dipinti su ventri e cartoni disegnati con sessi femminili, fiamme di candele che bruciano, cavalli e trombe, il ventre ancora caldo del Leviatano di Giona, e infine la grande Mouna, nella dolcezza mormorante della ricreazione di un Giardino delle delizie. È anche una delle due scene del film nelle quali la seduzione prometeica di Casanova non riesce a ritagliarsi un ruolo. Ma un desiderio, infine, si realizza, e per questo Casanova rinuncia a quello che voleva fare della gigantessa per non essere altro che un mero voyeur, come il bambino che sbircia con piacere innocente il corpo nudo di una madre – episodio che si rifà alla ricostruzione di un mondo preolimpico –, mentre la melodia delle ninne nanne di terre natali lo immerge in un’assenza di pensiero simile a quella della scena delle bambole allineate, la cui inespressività non tradisce la stupidità dell’innocenza ma il mistero delle procreazioni. Il collegamento è fatto allora dalla lingua, dalle armonie che Casanova percepisce, prima ancora che ascoltare, nella visione di questi esseri: veneziani, calabresi o napoletani, mormorano tutti la stessa lingua. Il dialogo viene trasformato e la bella frase pronunciata da Mouna – «Tu viaggi nel corpo delle donne» – non è più un’allusione a una storia di sesso. Questo incontro spirituale, che crea un sollievo inatteso e rende Casanova malinconico, non può risolversi se non nel situarsi in una distanza fisica, che diventa spirito. L’erranza mette in luce lo sfondo malinconico presente nell’avventura, forse momentaneamente nascosto dalla spensieratezza, ma sempre presente: più avanti nel film, la stessa situazione di innocenza sconcertante viene riproposta di fronte a una delle ragazze dalla sapienza virginale incontrate in Svizzera, la meravigliosa creatura entomologa che schiaccia gli insetti, in una ricostruzione molto rembrandtiana di fuoco e di ghiacci, di ironia silenziosa, di mormorii e di pittura. Qualcosa di puro emana dalle frasi di Casanova, ma la ragazza finisce per cogliervi i sintomi di un desiderio di morte: Io sono molto sensibile, è fuori dubbio, sono una creatura degli elementi, l’aria, l’acqua […]. O mio Dio, come siete bella, quel vostro sorriso così grazioso, pieno di riserbo, è come quello delle figure sulle tombe etrusche, un sorriso ilare e mortuario […]. Ma soltanto per consegnarmi a un’altra dolcissima morte, quella dell’amore […]. Sento che voglio annullarmi in voi, mia saggia Minerva…
Lei risponde: Che uomo strano che tu sei, Giacomo, non puoi parlare d’amore senza immagini funebri, la più dolce delle morti… ti vuoi annullare in amore, forse che più di amare tu desideri di morire?
Lei non si presenterà mai all’appuntamento promesso. Come la gigantessa e il suo grande circo che si erano eclissati all’alba senza lasciare traccia. Giacomo Casanova di Seingalt, fiancheggiato da un valletto di stalla, si ritrova in quest’alba, come Don Chisciotte scortato da Sancho Panza, in cerca di mulini a vento; a meno che non si tratti di Don Giovanni e Sganarello. * Si capisce meglio la scelta dei paesaggi, le ombre, le zone lugubri, le striature di melma e fango,
di neve e ghiaccio che sommergono poco a poco l’anima e il corpo, le invasioni lente e inesorabili di parole e di lingue che non si riescono più a fronteggiare, nelle quali è difficile immergersi, la progressione di questo Nord che si fa Storia nel suo ghiaccio, orrore e tirannia subdoli. La questione per Fellini non sta nel rimpiangere un passato non vissuto, un passato di Venezia, per esempio: la luce era identica, altrettanto brunastra, un’oscurità dove nulla attecchisce, misto di incomprensioni e infamie. La questione sta soprattutto nella ridefinizione di un paesaggio di cui il personaggio non percepisce più le linee, in cui quello che accade si risolve in confusione. Alla bonaccia temporanea che ha offerto l’incontro con il paradiso artificiale della gigantessa segue la lunga avventura di un travaglio che corre verso il proprio compimento, in una successione di paesaggi in cui il buio confuso di Venezia si è trasformato in variazioni infinite sul grigio di un paesaggio vitreo e privo di vegetazione, da cui sprigiona un’atmosfera ostile e perversa. Bellezza tuttavia miracolosa di questi grigi negli esterni, il cui trattamento fa ricorso a una materia che non prende nulla dalla realtà, ma tutto dalla sua idea, mediante l’uso di particolari trucchi all’epoca inediti, nei quali l’assimilazione, attraverso la pellicola, dell’elemento decorativo in una pasta pittorica, che la pellicola stessa trasforma poi in paesaggio, porta a una commistione compatta di elementi difficili da distinguere. Sono questi i momenti più violenti di una visione e di una creazione pittorica che tende a un’astrazione nella quale è inghiottito il film, una massa colta in un turbine di riferimenti cromatici legati spesso a quelli di una storia dell’arte ai quali si è tentato a volte di dare corpo e nome. La dimensione plastica di un film, in Fellini, è sempre modellata in modi diversi, e non implica necessariamente il colore. Ma è altrettanto vero che il regista opera in modo più deciso negli approcci successivi al colore. Volendo stabilire dei paragoni, si potrebbe dire che, in Satyricon, Fellini si preoccupa soprattutto della composizione di quadri che portano a una sorta di surrealismo dell’immagine, con le cose che si distanziano in modo architettonico – cioè nella distribuzione interna degli elementi – da un significato, a vantaggio di un riposizionamento dell’immagine che la colloca in una posizione indipendente, sia nei riguardi del passato che del presente. Ritroviamo lo stesso sistema di caratterizzazione delle inquadrature nell’ultima scena di Intervista. La plasticità dei Clowns, che spesso prende colori e stile da una composizione naïf, lavora su una «acquarellizzazione» o una «pastellizzazione» di fondo, che riguarda unicamente gli esterni, e che viene rovesciata, in modo ossessivo, dall’esposizione ipercodificata di colori intensi: il gioco dei toni pallidi e diafani delle scene all’aperto si oppone ai rossi scarlatti, all’incandescenza dell’occhio di bue e ai neri dei fondali nelle scene in interni. I problemi affrontati in Casanova sono di altro tipo: da un lato c’è la volontà di tracciare il ritratto «storico» di un’epoca, definito dai costumi in scena; la struttura decorativa punta invece a ricostruire non tanto l’epoca, quanto ciò che, prima e dopo, ne ha potuto definire la caratterizzazione. Fellini cerca, nelle scansioni del gusto architettonico, la via di fuga da un passato verso un futuro per accogliere le fluttuazioni di un presente che dispone soltanto del tempo ristretto conferitogli dal cinema. In un certo senso tutto ciò serve a stravolgere l’epoca, a staccarla dalla cornice, a riconoscerle soltanto la consistenza del presente immediato del film in un’indipendenza che traccia e ritraccia il «quadro». Del resto, la massa delle «riproduzioni» presenti nel film è impressionante, la si percepisce nella scenografia della sequenza a casa del principe del Brando, in cui si manifesta seguendo le linee di una pittura che, anche se non è un’opera specifica, sarebbe potuta esistere, un Tiziano, o un Rembrandt, un Goya, un Rubens e così via. D’altro canto, una seconda massa pittorica di linee e di colori è costruita in modo
indipendente grazie all’uso di materie puramente fittizie. È il caso del moto marino delle prime sequenze, in cui l’onda, prima ancora di essere scena, è pittura, una pittura da cui è esclusa ogni volontà di realismo, e in seguito delle scene che creano paesaggi fangosi, ghiacciati, grazie a materiali selezionati per la loro fotogenia, e la cui stilizzazione recupera temi fondamentali della pittura nordica, da Bruegel a Rembrandt. La progressione pittorica, passando da una distesa di ghiaccio all’altra, conduce alle scene finali con l’automa laccato e verniciato, i neri ghiacciati nei quali si fonde infine il significato psichico della storia di Casanova.8 È quello che sembra dire Fellini: Un film astratto e informale sulla «non vita». Non ci sono personaggi, né situazioni, non ci sono premesse né sviluppi né catarsi, un balletto meccanico, frenetico e senza scopo, da museo delle cere elettrizzato. Casanova-Pinocchio. Disperatamente mi sono aggrappato a questa «vertigine da vuoto» come all’unico punto di riferimento per raccontare Casanova e la sua inesistente vita. Quest’occhio vitreo che si lascia scorrere sulla realtà – e trapassare, cancellare da essa – senza intervenire con un giudizio, senza interpretarla con sentimento, mi è sembrato emblematico della drammatica, esuberante inerzia con cui oggi ci si lascia vivere […]. Casanova mi sembra il mio film più bello, il più lucido, il più rigoroso, il più stilisticamente compiuto.9
Dopo la scomparsa dei sogni, anche l’ostentazione della fisicità cambia tono, o andamento. La favola dell’amore si è già degradata e la barca dei sogni delle prime scene arenata per sempre. Questo sogno non è più realizzabile, al di là delle storie che Casanova si racconta. La realtà del suicidio, imposta dall’onore ferito e cancellata dall’eco di melodie lontane, è solo rinviata, anche se non necessariamente con gli stessi gesti. La compravendita sessuale perderà i pochi valori di sensibilità che ancora possedeva, e il protagonista sarà sempre più spinto a dimostrazioni pubbliche: resta solo l’esibizione di un Super-Io in rapporti che escludono ogni forma di intimità, davanti all’arroganza indiscreta di piccole folle che chiedono allo stallone di vincere o perdere le sue gare di resistenza. Dentro un turbine che non governa più, Casanova si abbandona a giostre e giochi senza festa. Fellini opprime il personaggio con l’incapacità di riflettere e reagire alla sua epoca, trattenendone soltanto quel lato frivolo e passatista che una società defunta gli offre, senza, in tal senso, nemmeno l’aristocratico mondano che crede, ma uno dei numerosi abbozzi di piccolo-borghese già presente ovunque in questa Europa illuminista. Casanova vive poi in modo meccanicista, imbevuto di princìpi, senza saper riconoscere le mutazioni di un tempo più vicino, che sono lì, pronte, ai margini di un limite che avrebbe potuto oltrepassare – i cumuli di ombre e piogge, nel film, l’orizzonte e la frontiera di ciò che può essere superato. Le due scene finali di giocoleria si svolgono in due luoghi differenti che si somigliano, malgrado le variazioni sul tema e sull’arredamento. La prima è ambientata nel palazzo del principe del Brando, a Roma, che quest’ultimo ha affittato a un lord inglese. In un’immensa sala piena di tavole imbandite, di casse e di panche, ha luogo una sorta di baccanale alcolico, una gara di bevute che consiste nel risucchiare vino da grandi piatti e boccali per andare a sputarlo in piatti su tavole diverse. L’immensità della sala e del gioco che vi si svolge può far pensare ad altre sale di bevute monacensi, e viene in mente Rubens, in ragione di una seconda orgia, quella scarlatta degli innumerevoli quadri appesi alle pareti, in un crescendo che celebra a Roma, con degli stranieri, gli ultimi fasti di un barocco già fuggito altrove. La gara è aperta dallo stesso principe – parla della sua serata come delle ultime vestigia del tempo di Trimalcione – con provocazioni grossolane riguardo il sesso di Casanova. Quest’ultimo finisce per accettare la sfida, scopare otto volte di fila, e sceglie come partner Romana, l’amante del principe. Gli viene opposto lo scudiero Richetto – la notte precedente ha fatto l’amore sette volte di fila –, al quale
si offre, ben contenta, la sposa del lord inglese. La scena si ripete uguale, con il su e giù della scopata, nel baccano che riempie lo spazio nel quale si affrontano i concorrenti come galli da combattimento, fino alla vittoria di Casanova, portato in trionfo sul sottofondo musicale del suo uccello meccanico. La seconda performance avviene a Berna, in un albergo in cui aveva dato appuntamento alla bella sapiente che si è sottratta. Un’attrice tra i clienti dell’albergo lo riconosce e scatena una sarabanda di Menadi, tra le quali l’attrazione principale è una bella donna gobba. Inizia l’orgia delirante tra queste donne e Casanova, dentro un immenso armadio aperto che funge da alcova, e la ressa è tale che tra su e giù, avanti e indietro, l’armadio si muove da solo. Casanova ha tirato fuori il suo prezioso uccello, sfidando la sorte. Quando l’uccello si ferma, tutto il resto si ferma con lui, bisogna ricaricarlo affinché riparta, affinché tutto ricominci. Casanova è diventato il meccanismo lui stesso, o di se stesso, in un’epoca ricca di androidi. * L’Opera di Baviera, l’ultima scena barocca tedesca. Viene spento il lampadario, nel buio appare il fantasma della madre, si scambiano parole in dialetto veneziano, affiora l’intenzione di un ritorno insieme a lei, un fantasma, nel buio, che scompare. Livida, una carrozza la riaccompagna nella notte. I viaggi, i bauli e le valigie: l’Olanda, il Belgio, la Spagna, Oslo, poi il Württemberg, la corte europea più brillante dell’epoca, si dice. Un mondo di follia solitaria si apre davanti a lui, una solitudine di persone e rumori, rumori che diventano frastuono musicale di tutto quello che è stato fatto e si farà nella musica tedesca, frasi che somigliano ai responsi delle Sibille, un surrealismo che cancella il gioco delle epoche fin dalla sua comparsa e annuncia una meccanicità generalizzata, le nuove armate, i nuovi corpi di guardia, i nuovi androidi.10 L’androide, la bambola. È lì, in questa banda di pazzi che si muovono come automi, che basta ricaricare perché gesticolino e parlino, perché cantino inni di guerra, in tutte le direzioni. La bambola. È lì. Appartiene al mondo, basta cambiarle i vestiti, può fare tutto, basta accompagnarla con delicatezza, con premura, con dolce pazienza, amorevole, mettere in moto quel carillon tanto atteso, qualche passo di danza, si sente persino il cuoio delle scarpe stridere debolmente sul pavimento, basta prenderla tra le braccia, accompagnarla, seguirla, e danzare, accompagnarla in camera, nel suo letto viola, deporla, e infine parlarle d’amore, forse: Io spero che vogliate scusarmi signora per queste mie libertà, ma desidero tanto vedere come siete al naturale… non protestate? Quale pazzo inventore fu vostro padre? Pazzo, di certo… ma poeta, perché vi fece così bella. Vi ha posseduto? L’incestuoso… eh? Mi ecciti col tuo segreto silenzio. Giacerai con me? Porgerai il tuo delicato meccanismo alla mia voluttà? Sì? Ah… sì! Sei bella, sai… non rifiutarti! Qual è il tuo nome? Dimmelo! Rosalba?! Non Rosalba… Amore ti chiami… amore… amore. È questo il tuo nome! Lo sai…? Io ti cerco da sempre…
L’amore, incondizionato e senza uccello meccanico: solo un meccanismo che sia alla sua fragile altezza può prenderne il posto. Si vendica dell’ambasciatore di Francia e fa l’amore sulla schiena, come si deve. Il giorno dopo, un poco più soleggiato del solito, uno specchio, guardarsi, cipria, una piccola piuma e polvere di riso, un pettine, e pettinarsi. E partire, con una carrozza più piccola, forse ancora all’avventura, sotto la neve che copre all’infinito i passi e i solchi, gli anni. Questo idillio, questo preludio al finale, è raccontato con un’attenzione priva di commento,
nel tentativo di afferrare un’emozione che sembra reale, al di là della qualità delle interpretazioni. Il seguito porta alla vecchiaia e alla morte. La Boemia, Dux e Wallenstein, tutto conduce a un castello che per ironia e grottesco ricorda Kafka, agli oltraggi del tempo, all’assedio di una severità protestante rigorosa come il tempo che passa. Ecco, contro ogni aspettativa è solo un avventuriero, ed è così che viene presentato quando, molto vecchio, ancora più vecchio, incipriato e con i suoi migliori ornamenti, recita una poesia dell’Ariosto. Ridono di lui, si offende e se ne va. Nei suoi ornamenti più belli, ecco che torna ancora ciò che somiglia a un vecchio sogno di dissoluzione: l’uccello è lì, destituito delle sue funzioni, emblema definitivamente araldico, taciturno. Fuori, la neve e il vento cantano, fischiano. Torna la cantilena: Tornerò mai più a Venezia? L’altra notte ho fatto un sogno…
Il sogno scorre: la luna, la stessa che correva sopra Venezia spinta dalle nuvole – ma forse sono le nuvole che corrono –, la stessa della sua ultima notte a Venezia, già lontana nel film, ecco, anche un sogno è fatto di luna e di nuvole: è giovane, alcune ombre si avvicinano, svaniscono, il ponte di Rialto, ragazze che fuggono, una carrozza d’oro, l’ultima, quattro cavalli bianchi, il papa e sua madre, amanti? Una sintesi della vita? Come fare una sintesi di tutto quello che è stato vissuto, di tutto quello che è stato visto? No, bisogna lasciare i sogni, la vita delle immagini dei sogni non è una vita umana, queste sfuggono alle ragioni. Il loro legame dovrebbe essere pura gioia, pura armonia. L’una non spiega l’altra, tanto quanto l’altra non spiega il resto, e ciò che resta è il racconto di quello che resta. E una risata, vecchia e affettuosa come un tempo, cancella tutto, resta soltanto il cristallo della vita, lo specchio di marmo nero della notte veneziana che avvolge e nasconde, e quello che resta ritorna. La bambola, il carillon come melodia di quello che si ritrova perdendolo sempre, la bambola e quella felicità che è vera e artificiale nel momento in cui la si afferra, la bambola e l’ultimo ballo. Piange, segno che la felicità è finalmente arrivata. È tornato giovane, balla con la bambola, con la sua vita da bambola, bambola della sua giovinezza, inghiottito nel buio che lo finisce.
III
DOVE VA LA MUSICA QUANDO NON SI SUONA PIÙ? PROVA D’ORCHESTRA. LE LINGUE DISSONANTI DELL’ITALIA. ARMONIA E ORDINI SOCIALI. DISARMONIA E CONTESTAZIONI. LINGUAGGI INDIVIDUALI E LINGUA DEL DIRETTORE. UNA FORMA DI INTERVISTA FILMATA. CHE COS’È LA MUSICA PER FELLINI? CHE COS’È NINO ROTA PER FELLINI? L’ADERENZA TRA DUE STILI DI LEGGEREZZA.
C’è qualcosa di cruciale in Prova d’orchestra (1978), nel senso che nel film tutti gli avvenimenti s’intrecciano continuamente all’interno di una forma-luogo che li contiene. Questa forma s’impone e predomina sulle altre ed è annunciata dal portiere-copista-factotum che se ne occupa. Questi riapparirà più volte per commentarne lo stato: per come è mostrato la prima volta, il luogo somiglia quasi a un deposito, ma in realtà è molto antico, carico di una storia avvolta di mistero perché non se ne conoscono più gli elementi, se non in modo frammentario. Vi giacciono sette vescovi e tre papi; dal 1781 è diventato un auditorium, data la sua acustica perfetta, limpida, senza eco. La pavimentazione, le mura, ciò che resta delle decorazioni compongono un universo polveroso, desueto, immobile nella storia della sua antica nobiltà. Tuttavia, due elementi che appartengono al presente inquadrano la presenza dell’antico: la sua spoliazione, misera e vaga, tipica dei luoghi non più frequentati, è raddoppiata da un ordine decorativo che ha a che fare con qualcosa di contemporaneo, in cui primeggiano linee semplici e severe all’interno di un volume ancora grandioso. Questa forma racconta in una sintesi violenta, attraverso la relazione del portiere-copista, la storia di Roma che il luogo racchiude e che trasuda dalle mura, per il modo in cui viene filmato: una magnificenza imperiale e basilicale erosa dalla luce; papi e vescovi, eredi degli imperatori romani, lo abitano con il loro mutismo di morte, ceneri e polveri negli incavi delle urne dell’immenso. Attraverso questi elementi già in opposizione la forma acquisisce visivamente la risonanza che il portiere-copista evoca. * Poco a poco, la sala si trasformerà in un luogo abitato da un presente percepito come più incerto e rovinoso del passato che lo genera. Questo presente è fatto di leggii per la musica allineati, di spartiti, poi di sedie; si organizzano così gli elementi necessari a manifestare la vocazione postuma di sala di musica. Il presente si scinde in due coesistenze distinte: un presente in senso stretto, ben sistemato nella sala, fatto di prove quotidiane, gesti abituali che scompaiono appena cessano le funzioni orchestrali, e un presente di passaggio più legato, quasi per vocazione, a una forma ironica dell’eternità: l’attualità. Se il presente della sala è rappresentato dal portiere-copista che gli conferisce lo stato presente del suo passato,
l’attualità è invece presentata nella sua funzione più banale e terribile. È la televisione, che vuole impostare il discorso del presente in una sorta di eternità, fissando materialmente il suo obiettivo sul luogo e sull’evento che in quel luogo dovrebbe accadere: una prova d’orchestra. Ciò scompone, in parte, il tema del film, e fa sì che la telecamera e la macchina da presa si sovrappongano su uno stesso punto di vista. L’effetto televisivo svolge lo stesso ruolo del portiere-copista, sebbene occupi una posizione differente, con altri obiettivi: per dirla in breve, eternare il presente della sala prove in virtù del suo passato storico. È solo a quel punto che si vede il vero copista, che è lì come se non fosse visto, supposto, che non si mostra; tende a confondersi con un terzo sguardo, quello dello spettatore virtuale. Lo si percepisce, il nuovo copista, soltanto attraverso la voce flebile e bisbigliante di chi realizza le interviste. * Solo dopo questa disposizione della forma, quest’ultima può essere invasa da ciò che provoca la turbolenza del suo presente: i musicisti, i loro strumenti. La forma, come direbbe Gilles Deleuze, si costituisce allora in entrate.1 Tali entrate, all’inizio individuali, poi poco a poco come già là, per grumi umani, si riuniscono in insiemi, senza riuscire a formarne uno solo. È come se l’occasione dell’arrivo di ognuno formasse punti di interesse comuni tra macchina da presa e musicisti, scatenando forze, potenze, sia d’azione che di inerzia, che organizzano la preparazione nel disordine, in qualcosa di caotico. Queste entrate possono essere enumerate, ed è quanto fa il film: piuttosto che farci cogliere l’orchestra nella totalità di una visione, ci induce a percepire come a ogni funzione orchestrale corrisponda un’individualità umana. Come raggiungere una sintesi? Bisogna raggiungere una sintesi? Ecco una delle domande poste. Tra le numerose risposte, Fellini privilegia quella analitica: la funzione, che in primo luogo è un’essenza dell’umano, si estenderà in seguito al territorio orchestrale, poi musicale; l’individuo comincia a tessere un rapporto stretto tra sé e la funzione che lo determina o dalla quale è stato determinato nella sua presenza all’interno di questo evento che è la prova d’orchestra. Violinista, trombettista, arpista non sono definiti dagli strumenti violino, tromba, arpa, ma da un legame, chiaro e segreto, che rimanda sia al loro mestiere sia a una sensibilità sentimentale diffusa, che combina gli elementi essenziali del loro discorso, un discorso fisico, materiale, che si concretizza in brevi racconti fatti di piccoli slanci affettivi quotidiani; discorsi concreti che non escludono mai un pensiero su che cosa sia la musica. Il direttore d’orchestra, invece, è stretto in un discorso fondato su elementi trascendenti e metafisici, più vicino a una superata pratica mentale romantica. Accumulazione delle storie individuali: tutti vogliono raccontarsi, dire l’essenziale di sé, una parola, una frase, un tic. Ognuno è ripreso dalla telecamera da due angolature diverse, una prima volta attraverso il discorso su di sé, sul proprio strumento e sulla musica, poi attraverso il discorso degli altri su di sé. La superficie del racconto è lacerata e trapassata da quanto viene detto: così le frasi della pianista includono i dialoghi che s’incrociano nella sua formazione; il suo discorso è immerso in parole che hanno a che vedere con una faccenda legata a una sauna, per esempio, con la sessualità, con l’angoscia e l’ansiolitico che permette di affrontarla; così il racconto sta all’interno dell’intreccio dei discorsi.
In molti film ci troviamo di fronte a una forma che rinchiude, come un punto di arrivo della riflessione che trova un parallelo nel modo di filmare. Lo spazio si fa sempre più angusto, come a dire che la materia della finzione, all’interno di un sistema di produzione e di realizzazione, non ha nulla a che vedere con quanto viene detto altrove della vita, e con quello che la vita dice di se stessa. Davanti alle pressioni dell’attualità si presenta la dichiarazione di indipendenza della creazione, della libertà dell’autore. Quest’ultimo non è tenuto a decidere se collocarsi in un’ottica politica, etica, estetica, della cronaca, poiché le ingloba tutte. Si tiene quanto più possibile vicino al reale, in una confusione necessaria degli elementi. Ecco perché Fellini lavora in una sorta di naturalità dell’artificio, che non ha nulla a che vedere con il naturalismo, e nemmeno con il realismo o con il romanticismo, e non perché escluda queste modalità espressive, ma perché esse sono lì, presenti e tuttavia trasformate in qualcosa di nuovo. Allora gli insiemi che creano i racconti e questi insiemi nel complesso creano un discorso universalizzante che resiste a quello del direttore d’orchestra o a quello del portiere-copista che ne è l’eco. Contro un discorso che si può definire come del potere, chiuso, senza futuro, immerso nelle illusioni del suo passato, prende vita un parlare del tutto differente. È fatto di detriti, dei frammenti di tutti coloro che, malgrado la confusione e le contraddizioni, sono attraversati da un divenire di cui presagiscono la presenza e la pressione. È carnale, necessario a ognuno per superare la stasi del proprio presente e giungere a un divenire. È attraverso questi divenire che ognuno di loro è «portato insieme», che per ognuno si profila un divenirenota, un divenire-arpa o tromba o violino, e anche un divenire-morte, nel caso dell’arpista; e questi divenire sono sempre tratti da un desiderio, contraddittorio o meno, del passato. Passando a una visione più generale, si percepisce come, a uno stato presente di non-orchestra che prova, si sostituisca un divenire-sinfonia, un divenire-musica del film. * Di che cosa sono fatti questi racconti da cui partono linee che scompongono l’unità della materia narrativa e le impongono una molteplicità? Racconti per lo più leggeri e divertenti appena si connettono in serie non isolate: così il racconto del preservativo nella tromba non nasconde i rimandi a un discorso sul sesso, ma lo integra senza svilupparlo, e inaugura la serie di racconti minori in cui il sesso e la sessualità sono più indizi di una voglia di riderci sopra che argomenti di una riflessione. Lo stesso vale per l’arrivo dell’arpista, sottolineato dalla musica dei suoi colleghi, alla quale lei risponde con commenti che, benché grossolani, hanno un tono affettuoso; per la confessione di quello che se ne frega di tutti i discorsi fatti fin lì perché non gli si rizza più. A questa serie si aggiunge quella composta dall’incrocio delle storie sugli strumenti, la più importante, che non perviene, se non a tratti, a una storia più completa della musica: quest’ultima risulterà forse dalla somma di tutte le storie riunite sugli strumenti, le quali includono il discorso sulla musica che farà il direttore d’orchestra, mentre il contrario – l’inclusione degli altri racconti nel suo discorso – non avverrà mai.2 In un crescendo si passa dai racconti sugli strumenti alle riflessioni sul rapporto di ogni musicista con il proprio strumento, poi sui rapporti tra suono o sonorità e voce umana, fino ai rapporti tra suono o sonorità e sortilegi, alle dimensioni emotive e passionali legate al rapporto di ognuno con il suo strumento. Sono inoltre evocati i rapporti del suono e della sonorità con la
follia e con i sintomi di stramberia: questa serie è caratterizzata da manifestazioni immediate, comportamenti vicini allo sgomento e alla violenza, che diminuiranno al diminuire delle interferenze. Poi i rapporti di ognuno con la taglia dello strumento, piccolo o grande: la pianista definisce il suo strumento come un re o un animale mitologico e confessa che preferisce conoscerne più di uno piuttosto che utilizzarne uno solo, unico, e questa dichiarazione si oppone alle frasi dell’oboista o dell’arpista. Iniziano i racconti di opposizione tra gli strumenti: il proprio è definito unicamente per contrasto con questo o quell’altro strumento, e porta a una prima differenziazione tra canto italiano e ritmo napoletano, creando delle sfumature contrastate. Serie degli strumenti rapportati al corpo umano: se il primo violino è qualificato al contempo come il cuore e il cervello dell’orchestra, per irridere questa definizione, fin troppo presuntuosa, si dirà che il clarinetto ne è il pene; se il violoncello è l’amico discreto, ideale, il violino seduce, affascina e tradisce, e sembra essere quindi femminile. Racconti, anzi storielle aggiunte come aneddoti dell’individualità: tutto un fermento che fa emergere una zona dell’indistinguibile, uno spazio in cui il minuscolo esplora le sue possibilità. * Queste entrate arricchiscono la trama del film e lo collocano nella vibrazione della sua materia, conferendogli una sorta di tessitura allentata, forse incerta, ma che prosciuga continuamente delle possibilità. Queste ultime, tuttavia, ci lasciano intravedere come si sia stabilito progressivamente un rapporto di sottigliezza sotterranea che reimmerge il film tutto in un’altra dimensione, in un’altra forza dell’indistinguibile. Sin dall’inizio, il film si definisce anch’esso in modo sotterraneo come una partitura musicale: ciò è ricordato nei titoli di testa dal fluire del rumore della città. Eppure la vera e propria partitura è realizzata attraverso l’orchestrazione vocale di coloro che sono lì; attraverso questo mezzo e questa voce, l’interno tende a ricollegarsi con l’esterno, a instaurare un equilibrio sonoro con quanto è divenuto una forma di vita. Questa voce è davvero l’espressione di ognuno, non tanto quello che dice – che vi aderisce e se ne distacca al contempo –, ma la forza nella quale dice e che potrebbe essere una lingua. Se si dovessero individuare i fattori che dividono l’Italia per fasce, questi sarebbero proprio la molteplicità e il dispiegamento di lingue che la caratterizzano. Non soltanto i diversi timbri – maschile, femminile, giovane, vecchio, di mezza età –, ma anche le voci che esprimono sentimenti diversi. Ogni suono, mischiato ad altre sonorità, dà luogo alla partitura di una tessitura musicale nella quale la coloritura è modulata dagli accenti peculiari dell’italiano: il toscano, il milanese, il bolognese, il romano sono venati di napoletano o siciliano, o altro. La lingua non esiste più, il suo concetto è respinto con indifferenza ludica; essa è sminuita dal complesso di lingue attraverso le quali è rappresentata un’altra unità frammentata dell’Italia, che non è un’unità politica in sé, ma l’unità di una grazia divertente. Non è la coesione sindacale che verrà rapidamente scavalcata; questa grazia si situa nella piega del sociale che fa sì che un popolo si riconosca nelle vestigia della propria lingua, in una variazione continua della musicalità. A questa si oppone la struttura umoristica, ma purtroppo tirannica, dell’italiano fortemente venato di tedesco parlato dal direttore d’orchestra, anche lui trascinato in un crescendo linguistico la cui violenza esplode alla fine del film.
Queste commistioni non sono frutto del caso, ma di un disegno preciso di resa sonora, sinfonica, musicale, orchestrale, che risponde alla volontà artistica di far convivere dei compossibili affinché li si possa distinguere nella varietà dei loro valori tonali. Fellini non ha mai nascosto la sua intolleranza per la musica: a parte la misteriosa sintonia con Nino Rota, la musica, dice, per lui non è altro che rumore. Avendo l’abitudine di cogliere soltanto pochissimi segnali melodici elementari (L’entrata dei gladiatori, i ritornelli del teatro di varietà, gli organi di Bach, La cavalcata delle Valchirie e qualche canzone da jukebox), Fellini è stato inutilmente sottoposto all’insegnamento del suo vecchio montatore, Leo Catozzo, raffinato musicologo. Ma non sopporta la musica da camera, l’orchestra gli interessa soltanto in quanto collezione di campioni umani, e l’opera lo riporta a ricordi grotteschi o inventati.3 Nel montaggio dei discorsi si cerca altro, qualcosa di più forte della musicalità, dello spirito della musica di cui si parla nelle frasi dei musicisti. Si tratta di una costruzione del sensibile che sottende la narrazione. Si sa che Fellini ha rinunciato subito alla registrazione del suono e dei dialoghi in presa diretta. La colonna sonora è realizzata a riprese terminate, insieme al montaggio, mediante l’accumulo di strati in cui Nino Rota interviene in modo preciso. Parlando della realizzazione dei suoi film, Fellini ricorda: […] in tutte queste fasi contraddittorie, faticose o improvvisamente allarmanti, ce n’è una che è la più desiderata, un vero momento di festa: la creazione della colonna musicale, l’incisione, Nino Rota! Con Nino posso restare giornate intere, ad ascoltarlo al pianoforte nel tentativo di precisare un motivo, di chiarire una frase musicale in modo che coincida il più esattamente possibile con il sentimento, l’emozione che desidero esprimere in quella sequenza. Ma, al di fuori del mio lavoro, la musica preferisco non sentirla, mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto e allora me ne difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Non so, forse sarà ancora una volta un condizionamento cattolico, il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi; inutile come tutti i rimorsi è una voce ammonitrice che ti strugge perché parla e ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele, ti gonfia di nostalgia e di rimpianto e quando finisce non sai dove va, sai solo che è irraggiungibile e questo ti rende triste. Ma ecco che io conosco Nino Rota, sono amico suo, mi vuol bene e questo mi consola un poco; la consolazione un po’ cialtrona di chi sa di avere in quel regno metafisico fatto di leggi serenamente accettate un parente importante che può fare da mediatore, spendere una parola buona.4
All’uscita di Prova d’orchestra alcuni critici rimproverarono a Fellini di non aver costruito il film sulla reale prova orchestrale di una musica di maggior rilievo, e di essersi accontentato in definitiva di quattro composizioni che, per la prima volta, Nino Rota aveva dovuto creare a riprese non iniziate. Ora, questa scelta testimonia che la sfida non si gioca sul piano musicale, né su quello politico o sociale, ma che corrisponde a quanto Fellini persegue da molto tempo: l’opera filmica come sinfonia in cui trovano posto tutti gli accordi-disaccordi possibili. Per quanto riguarda la musica, le cose s’impongono da sole al momento della creazione, ed è possibile mettere in parallelo la costruzione del sonoro che struttura il film con un altro elemento, il colore. Ecco che cosa dice Fellini a tal proposito: Non c’è una regola per cui il colore debba sostituire il bianco e nero o viceversa. A un brutto film a colori è sempre preferibile un film in bianco e nero, soprattutto pensando a quanto un uso del colore pedissequo o sciattamente naturalistico faccia impoverire la fantasia. Più ci si avvicina mimeticamente alla realtà, più si scade nell’imitazione. E il bianco e nero, in questo senso, offre margini più ampi alla immaginazione. Quando si sceglie il colore? Quando è il film che ti si presenta così, quando le sue prime immagini ti si rivelano a colori e il colore diventa materiale totalmente espressivo, diventa storia, struttura, sentimento del film, diventa il mezzo con cui tradurre, raccontare tutto ciò. Come nel sogno, dove il colore è concetto, sentimento; come nella pittura. La domanda che tanti fanno: «Sogni in bianco e nero o a colori?» è oziosa: come chiedere se nel canto ci sono i suoni, quando tutti sanno che il suono è il modo di espressione del canto. Chi sogna può vedere un prato rosso, un cavallo verde, un cielo giallo: e non sono assurdità. Sono immagini intrise del sentimento che le ispira. Il problema semmai consiste nella traduzione
tecnica del colore. Nell’immagine cinematografica non è possibile definire il colore con altrettanta precisione in tutte le sue sfumature tonali come è possibile ad esempio nell’immagine pittorica, che gode di una luce fissa, ferma, immutabile. Fra i colori di una scena esiste un vero contagio, uno scambio fluidico che si risolve in uno sconfinamento costante.5
Ritroviamo in questo impasto sinfonico-linguistico l’intreccio di molteplicità che si uniscono o si separano, in un cicaleccio infinito che porta certamente ad atti violenti, ma soprattutto a delle sonorità, a una musica che non cessa di passare dal sinfonico, la sua forma classica, a una scrittura tratteggiata, cacofonica e dodecafonica: lì risiede la prova musicale del film. Il titolo rimanda a questa dimensione nascosta, e a prima vista indistinguibile: provare che il film può essere orchestra e musica. Ecco che la tessitura musicale si aggiunge all’accumulazione precedente: il problema non è più quello che viene detto, ma come dirlo. Non sono più gli accordi o le discordanze che s’incrociano – strumenti, particelle di vita, sensazioni, affetti –, ma campi di segni musicali che si sviluppano su temi diversi, nel modo in cui funzionavano i racconti individuali. A una sorta di amicizia fraterna, rotta dal tema musicale del direttore d’orchestra, segue la dissonanza comune degli altri strumentisti nella seconda parte del film, che si condensa tuttavia in un’unione di tutti e si trasforma in un brontolio che prefigura un ammutinamento. Questo ringhio che investe la forma dall’interno risponde a quello lontano, insistente, percepibile nella misura del terrore che suscita: un ringhio venuto dall’esterno, intollerabile all’interno della sala, la cui invasione è annunciata dall’intrusione di un topo. L’intromissione dell’animalità, insopportabile per un universo chiuso che non accetta nessuna forma di vita a parte la propria, scatena grida e forze, cioè musica, ma anche sentimenti, cioè timori e paure. Il ringhio prende corpo e si trasforma in una sfera metallica che «bucherà» la sala come si buca lo schermo. Emerge un altro mondo, di cui coloro che si trovano nella sala ignorano tutto benché l’abbiano evocato sotto forma di indistinguibile nei loro racconti, che rimanda a quanto, nella musica, sembrava loro appartenere a un mondo presunto dell’indicibile. Tramite la sfera che buca il muro, la violenza esce dalla storia del film che attraversa i suoi stati di dolore e di morte, s’insedia una cadenza funebre. Questo finale era già compreso nella grande ninna nanna della conversazione con l’arpista: La prima volta, l’arpa l’ho vista in sogno. Avrò avuto quattro o cinque anni. Forse anche meno. E non sapevo cos’era quella specie di gabbietta d’oro piccola piccola. Un giorno in un libro c’era Nerone con Roma che bruciava, e lui teneva in mano uno strumento che somigliava a quello del sogno. Finalmente un’altra volta, in un calendario profumato, c’era un angelo che volava e volando suonava l’arpa. Proprio quella che avevo sognato io! L’arpa! Ma l’arpa è una presenza umana! Vi dico una cosa: io non potrei vivere in un appartamento dove in una stanza non ci fosse lei. Non riesco a prendere il sonno se non so che è di là. Nel buio del salotto l’arpa non sta al posto suo… A volte ho la sensazione che delle mani la sfiorino, la sento suonare. Ma forse è il vento… L’arpa è stata tutta la mia vita, non solo il mio aiuto finanziario, ma, come si dice, il mio rifugio, la mia amica. Io sono sempre stata sola, non ho avuto mai uomini, è vero… nessuno, solo l’arpa… sì… e allora le racconto, le parlo, e l’arpa mi risponde, mi comunica, non so, sensazioni, fantasie, un sentimento struggente di felicità e di tristezza insieme. Ma la cosa più importante, ti dà fede… se suoni l’arpa lo senti, lo sai, che esistono altre dimensioni. Una volta un bambino mi chiese: ma dove va la musica quando non suoni più? Solo i bambini sanno fare domande così!
Da questo momento in poi, non essendo la sala in grado di contenere questa invasione, su impulso del direttore che non aspettava altro per riprendere in mano la situazione, l’armonia distrutta dall’evento sarà ristabilita. Verrà ricomposta una nuova partitura? No, come in un eterno ritorno, saranno pronunciate le stesse parole, sarà suonata la stessa musica, con posture quasi identiche, ma il racconto multiplo è impoverito e si rinforza il potere del
direttore nella sua nostalgia e nella sua violenza. La malagrazia, la cacofonia delle certezze – e non dei suoni – è dalla parte del potere, senza pacificazione possibile. * È facile allora non usare la metafora, ma nascondersi nella metafora. Cosa che fece la critica quando analizzò il film soltanto dal punto di vista della denuncia di una condizione dell’Italia negli anni di piombo, oppure come se costituisse una rivalsa nei riguardi dei movimenti del Sessantotto. Ci si chiede perché. La storia dei film di Fellini mostra il contrario, e se c’è un punto sul quale questa pellicola non è affatto esplicita, è proprio questo. Le è invece permesso svelare qualcosa di simile a una simpatia curiosa per il tentativo di rappresentare un divenirerivoluzionario: la telecamera sembra tenersi in guardia, pronta a catturare il minimo segno di ribellione. Forse il film si prestava a questa lettura, sia per l’epoca che per le convergenze storiche esterne con le quali doveva confrontarsi, al momento dell’uscita in sala, compreso il mancato successo di pubblico. Sì prestava perché affrontava una complessità tematica la cui soluzione non era unicamente quella dell’apologo sociale o politico; si può dedurre questa spiegazione, ma resta in secondo piano, tanto acquista rilievo l’evento creativo. La dualità tra le musichette ripetute in forma di ritornello e di legame da un lato e la tessitura sinfonica del film dall’altro è solo un’apparenza ingannevole: la musica è fatta di questi accordi e disaccordi. Se nel film è presente una metafora, è di natura linguistica, tante sono le parole duplici che vi si possono reperire: non ambigue, ma dall’uso duplice. Qualcosa canta il suo ritornello al «da capo» del direttore, e l’orchestra gli rimanda un suono totalmente diverso della stessa melodia, che forza i temi a far sentire un’altra musica o altri suoni di una stessa musica, i quali non sarebbero percepibili dall’orecchio stesso. Ecco forse dove va la musica quando non si suona più.
IV
LA CITTÀ DELLE DONNE: I MOVIMENTI FEMMINISTI RACCONTATI DA UOMINI DIVERSI. UN FILM MAI GIRATO: MASTORNA. STORIE DI UOMINI VISTI DA DONNE. VECCHIE STORIE DI CAMPAGNA E NUOVE STORIE DI CITTÀ. L’ETERNO FEMMININO ALLA PROVA DEI FATTI. FANTASMI FALLICI: «CHE (CAZZO) VUOI?». LE STORIE NON HANNO PIÙ STORIA.
Nell’ultimo periodo l’universo felliniano si concentra su strutture chiuse, non rispetto al tema, ma alla costruzione dello spazio.1 Lo spazio è diventato il punto nevralgico di una riflessione che ridispiega temi, argomenti e situazioni precedenti, ma da un diverso punto di vista. Questa prospettiva deriva da due considerazioni: da un lato, l’attenzione rivolta a ciò che «resta» da dire, a ciò che, ogni volta, è stato lasciato da parte e che torna in una forma appena diversa: mai come in questo film la tessitura generale non prende i suoi temi dall’autoreferenzialità e dall’autocitazione. Dall’altro lato, la sensazione che ogni avvenimento corrisponda ormai a un completamento, non per enunciare qualcosa di definitivo, ma per indicare che l’espressione raggiunge il proprio compimento, e che può allora richiudersi come ultimo luogo di ricezione.2 Il procedimento, che finge di tornare indietro, effettua come una contre-plongée nel lavoro iniziato a partire dai Clowns; e la battuta umoristica in esergo al film, preceduta da qualche risata femminile appena trattenuta – «Ancora Marcello? Prego Maestro…» – conferma la volontà di prestare particolare attenzione alla riflessione e al suo divenire.3 Proprio come Prova d’orchestra, La città delle donne (1980) integra la struttura chiusa in una serie complessa di variazioni. È il tunnel nel quale finiscono inghiottiti l’inizio e la fine del film, e che lo accerchia; è il Grand Hotel Miramare con tutti i suoi piani dove si sviluppa una delle situazioni del film, ovvero La città delle donne e la questione eventuale del femminismo; è la casa-fortezza, anch’essa su più piani, in cui vive Cazzone,4 che si fa carico della questione del maschilismo; sono poi gli spazi – anch’essi su più piani – di requisizione, di contenzione, di interrogazione, di giudizio e di punizione in cui sono mischiate le due questioni fondamentali, maschilismo e femminismo; ed è anche la campagna con le serre, i sentieri e le divisioni che la chiudono, i sentieri e le strade tracciate come labirinti; è infine la notte pressoché eterna che avvolge il film, diversa però da quella di Casanova. Tuttavia, queste strutture chiuse rimandano a un altro genere di chiusura, meno trasparente, perché non viene detta subito, ma rimandata agli ultimi due minuti, come in un film poliziesco: e il punto qui non è trovare l’assassino, ma un «colpevole» sì, senza dubbio. Inoltre, all’inizio la chiusura è intravista in alcuni momenti precisi che sfuggono al film,5 ma a partire dalla sua ultima parte domina la ricezione, come un sospetto la cui risposta è infinitamente differita.6 È comunque possibile riassumerla da subito come il rifiuto di aderire a una realtà. Quest’ultima si trasforma attraverso alcune serie di sintomi in una situazione puramente inventata, o inventiva, in cui gli eventi sono distribuiti in modo che sembrino
rilevare un discorso che appartiene, segretamente, all’unico che lo costruisce, Fellini, e all’unico che lo interpreta, Mastroianni. Questa è una delle spiegazioni possibili dell’«ancora Marcello?» dell’esergo, che risuona allora come un tema non tanto umoristico quanto provocatorio, e il cui utilizzo segreto alimenterebbe il rapporto diretto tra autore e interprete. In che cosa è rinchiusa La città delle donne? Nel sogno, il cui principio – o la cui conclusione – è svelato soltanto alla fine del film. È un sogno che fa un individuo di età matura, capace di dormire due ore per l’immane spossatezza, gli sballottamenti del treno, la calura, un certo logorio della vita: si addormenta e sogna. Bisogna insistere su questo tema, perché è l’unico elemento realistico del film, e perché si evita di confondere in una serie invariante l’accumulo delle situazioni espresse dagli altri film.7 La situazione peculiare della Città delle donne è estranea alla fantasia sulle virtualità di 8 ½, e agli incubi di Giulietta degli spiriti, per fare due esempi lampanti. È soltanto attraverso il filtro del sogno – l’immersione in ciò che dovrebbe dipendere dall’inconscio, il quale crea il personaggio «Marcello» in un corpo diverso – che si può leggere lo strano incastro di realtà molto particolari che costui attraversa, attratto inizialmente dalla bellezza. Forse l’inizio di ogni sogno ha questa bellezza, di donna e di Medusa, di cui si sa che è bella ma non quali danni o tormenti ne deriveranno. C’è una terza spiegazione possibile del carattere «appropriato» della parafrasi del sogno presentato sotto le apparenze di un reale in atto: dopotutto, non è che una forma della struttura della finzione che permette di mantenere, su una linea di incertezza o di sospensione, un discorso nei confronti del quale l’autore esita a adottare un approccio frontale. Tutto è rinviato all’esergo «Ancora Marcello?», al quale viene assegnato un biografismo «ugualmente condiviso» che non riguarda più le esistenze personali dell’uno, Fellini, o dell’altro, Mastroianni, ma le loro vite all’interno di questo «fare (un) film», di questo «fare (un) cinematografo», e di offrire così alla creazione la sua libertà espressiva. Questo perché la situazione di partenza è quanto mai realistica. In un treno un uomo corteggia una bella donna, la quale usa tutte le sue armi di seduzione, mentre alcuni bambini, dall’altra parte del vetro, nel corridoio, li prendono in giro; lei lascia il suo posto per andare in bagno, forse pensando che l’uomo la seguirà, ed è quello che accade, ma le loro effusioni sono interrotte da una frenata improvvisa del treno, in aperta campagna. Lei scende, lui la segue, dapprima incerto; poi, dopo la ripartenza altrettanto improvvisa del treno, si trova costretto a concretizzare l’unica possibilità che gli rimane, ossia raggiungere l’obiettivo del corteggiamento, avere un rapporto con lei. Ma la donna si sottrae, aumentando di fascino e accrescendo il desiderio con le sue promesse: un bacio a occhi chiusi, le labbra arricciate pronte a baciare. Dopo aver fatto qualche foto, lei sparisce e lui continua a seguirla e a cercarla, poiché l’ha già perduta. Nulla di più normale, tutto sembra incastrarsi perfettamente in una situazione ordinaria e convergere a causa degli imprevisti – donna seducente, sosta del treno, fuga – verso una complicazione imprevista. * Nella brevità di questo primo approccio accadono cose strane. Marcello, che non vedevamo da 8 ½ – diciassette anni prima – è cambiato, non è più Guido o Marcello. Adesso è Mastroianni,8 quello voluto da Fellini – che incorpora quindi Marcello e Guido –, e che tale è rimasto, malgrado i capelli brizzolati e un riconoscibile velo di maturità che lo allontana dalla luminosità
complessa dei suoi precedenti personaggi. Se la tematica della Città delle donne si affianca a quella dei film precedenti, nei quali la disputa sul femminile era avvincente, la scelta del titolo sembra qui radicalizzare la questione. I cambiamenti non riguardano soltanto il corpo dell’attore, ma anche il dialogo. Vedere e sentire l’uomo «delicato» della Dolce vita e di 8 ½ esprimere a parole e a gesti volgarità maschiliste nei confronti della sconosciuta produce uno strano effetto.9 Il desiderio e la sessualità hanno a che fare forse con la volgarità? Il maschilismo usa segretamente quelle parole? Le pensa o non le pensa? Nella scena i gesti sono resi, come l’immagine, in una sfumatura equivoca: un aspetto infantile, quasi stupido, che emerge dal modo stesso di porsi come seduttore, le labbra arricciate che vogliono baciare, gli occhi chiusi, insomma la caricatura di un uomo la cui esperienza torna in questa forma. Ma è altrettanto vero, anche se non dovremmo saperlo, che si tratta di un sogno dove la coscienza si abbandona. Queste differenze del personaggio Mastroianni servono a complicare più che spiegare: il derisorio di ciò che è serio, l’infantilismo burlone dell’eterno mascolino nel suo ritornello da filastrocca idiota, che scherza con il pisellino davanti al ritornello più fantasticamente contrastato dell’eterno femminino, che suona un altro spartito. La questione era già stata affrontata in modo umoristico, senza essere risolta, dal riassorbimento in 8 ½ dei motivi di incertezza, quello che Guido chiamava, come in una rivelazione finale, le «creature». Riproporla nuovamente evoca la difficoltà, occultata dai contorni sontuosi del sogno, di affrontare la questione. La soluzione viene da una risposta distorta, svolta in una sequenza che svela le ragioni cognitive per confonderle nell’ovatta di un sogno felice, fino al risveglio in una forma di realtà complessa, forse comprensibile, ma altrettanto inafferrabile poiché troppo simile al sogno. I cambiamenti del corpo e del dialogo servono così a creare nuove distanze e a dare alle situazioni la fluidità di una coscienza (dell’inconscio). La sequenza cognitiva diventa così un flusso vorticoso, come il racconto di tutto quello che accade all’interno dell’Hotel Miramare. Le sue esposizioni passano in rassegna gli ultimi venti anni della storia del movimento femminista, rivista dai timori e dai desideri confusi di un prototipo maschile che si vorrebbe «uno qualsiasi».10 Tutto fa folla, in una marea ondeggiante di parole d’ordine e di dimostrazioni rivolte contro una teoria del maschilismo che si forma lì sotto i nostri occhi. L’andamento da «torre di Babele» è evidente, tuttavia non indica confusione, ma coralità, ritrovamenti che mettono in comune temi disparati, opposti a una rappresentazione ordinata degli argomenti, come a indicare che l’ideologia non prevale sugli atti, che conta solo la loro esuberanza. Anche la molteplicità delle parole d’ordine, il lavoro sulle sonorità opposte del femminile e del maschile, la poesia presunta della vagina opposta all’antipoesia presunta del pene o del fallo, il rifiuto della penetrazione e della fellatio, le danze mimetiche, le scenette sulle sopportazioni della donna, Penelope del quotidiano, la storia di poliandria di Mistress Small con i sei mariti e la predilezione per la storia di Biancaneve e i sette nani, il film sulla sua felicità a sei o sette in riva al mare, poi l’evocazione freudiana, la conseguente parata dei mariti, la parata delle donne che contestano e mostrano quella che credono essere la pienezza di un’energia non ancora perduta, tutto è mantenuto su una linea esente da giudizio. Ogni gesto, ogni parola, ogni storia ha lo stesso valore, in una sorta di apatia fiduciosa delle conoscenze. Solo poche immagini precise lasciano apparire momenti di sensibilità capaci di esprimere gioie, lacrime, a volte dolori. Marcello, malgrado gli avvertimenti pronunciati da una voce che lo prende per un giornalista – un ricordo del primo Mastroianni della Dolce vita – e gli consiglia di andar via,
attraversa con curiosità quasi indifferente i percorsi di questa strana conoscenza, rivedendo e riconsiderando quanto crede di sapere, fino a quando ritroviamo la bella donna dell’inizio che pronuncia il discorso conclusivo di questo primo percorso del femminile: Vorrei dire qualcosa, ma forse è inutile, sorelle. Ancora una volta siamo state ingannate, in modo subdolo, com’è nel suo stile, siamo state generose, accoglienti, materne, abbiamo parlato, discusso, cantato, esibito i nostri riti, anche i più ingenui, senza ritegno, senza femminili pudori, nell’assurda speranza di far capire a chi non può capire, e non vuole capire, quanta libertà, quanta autenticità, quanto amore, quanta vita, ci è stata tolta […]. Dice che vuole informarsi, conoscerci meglio, perché solo conoscendoci meglio potrà cambiare il suo rapporto con noi… e di tutte le sue false ipocrite giustificazioni questa è la più turpe. Gli occhi di quest’uomo, dicevo, sono gli occhi del maschio di sempre, che deformano tutto ciò che vedono nello specchio della derisione e della beffa […]. Noi donne siamo soltanto dei pretesti, per permettergli di raccontare ancora una volta il suo bestiario, il suo circo, il suo avanspettacolo nevrotico, e noi lì a fare da pagliacce, da baiadere, da marziane, a far spettacolo per lui con la nostra passione, la nostra sofferenza. […] Abbiamo avuto il tempo di spiarlo, di osservarlo, il nostro carceriere, il nostro padrone… oh sì ti abbiamo individuato, sappiamo tutto di te, tu sei il pagliaccio, tu sei il marziano. Sorelle guardatelo! Eccolo qua… in primo piano… (mostra le foto che ha scattato di Marcello-Snaporaz).
Il discorso, che riassume antropologicamente le caratteristiche del femminismo rispetto al maschilismo, è tenuto da una donna la cui bellezza è come quella di una Medusa in un sogno, lo stesso che lei ha provocato. È il sogno di una coscienza maschile che ha rimosso ciò che di vitale le è sempre sembrato colpevole o non degno di attenzione; ecco che la distanza onirica serve a visualizzare qualcosa che, senza il sogno, resterebbe sullo sfondo di una formalizzazione già adottata.11 La colpevolezza o la mancanza di attenzione diventano allora, spinte dalle minacce che da ogni parte piovono sul presente del protagonista, una fuga durante la quale una ragazza materna e in carne, che nutre simpatia per lui, lo salva invitandolo a seguirla in ascensore. Al termine della discesa, e munito di pattini a rotelle, si ritrova in una palestra in cui una donna esegue seicento giri al giorno sui pattini. È un mondo diverso dal precedente, in cui prevaleva la rappresentazione delle parole: evidentemente, l’interesse è qui catturato dal corpo e dalle sue performance e la palestra si anima con l’arrivo di donne che pattinano o, seguendo degli ordini impartiti con un forte accento tedesco, si esercitano in sport di autodifesa, karate, pugilato, judo. Il protagonista è oppresso dal movimento violento dei corpi che danzano e volteggiano intorno a lui; spaventato, intima alla ragazza di salvarlo da quelle forsennate, ma finisce su una scala e si ritrova nei sotterranei dello stabile, una sorta di lavanderia in cui è affidato a una donna matura e robusta che in dialetto romagnolo si lamenta di come si possa trattare in quel modo un così bel «mulo». Dato lo stato pietoso in cui si trova, decide di lavarlo, sussurrandogli parole dolci, e di riportarlo alla stazione in motocicletta; ma in aperta campagna si ferma, lo conduce in una serra dove gli mostra le tette e cerca di farsi possedere da lui, che la rifiuta. Arriva allora una contadina ancora più anziana ma arzilla e saltellante – in modo caricaturale, sulla linea di un femminile da strega –, che la rimprovera e la caccia via a sassate. Marcello finisce dunque in un campo di granturco in compagnia dell’ennesima donna; arrivano di fronte a un grande cartellone pubblicitario: il paesaggio e il manifesto suggeriscono una dimensione pittorica in cui il vecchio si conserva quasi intatto, sfiora il nuovo, che rinnega ancora la sua forma e tenta di inventarsene un’altra. Un’automobile li attende, Marcello viene caricato a bordo da cinque donne che fanno discorsi insensati; poi appare di colpo una seconda automobile, che si mette a inseguire la prima lungo le strade di campagna. La commistione di vecchio e nuovo è resa più singolare dal brusco salto in una notte turbata da musica rock, al ritmo della quale le ragazze si mettono a ballare, a cantare, a muoversi, un vero e proprio ballo
dell’immagine, che ricorda le corse ad alta velocità di Toby Dammit. L’atmosfera incoerente accentua l’aspetto terrificante del sogno: il gruppo incrocia una terza automobile, appaiono volti spettrali di giovani che gesticolano in modo incomprensibile, e le cui frasi incompiute terminano in modo strano: «E nun te la pia’, tanto che c’avevi de mejo da fa’… balla pure tu!», come a testimonianza di un mondo che sta emettendo i suoi primi vagiti, compiendo i primi gesti. Nella notte traslucida, nella musica, da lontano un aereo inizia la discesa su una pista illuminata, forma che riempie con il suo mistero una delle scene più belle del film. Una ragazza punta una pistola in direzione dell’aereo, Marcello gliela strappa di mano; le luci invadenti dell’aereo che scrutavano l’oscurità sfumano ormai nella notte. Tutto è silenzio. Marcello, sull’orlo di una crisi di nervi, si aggira adesso da solo per la campagna, in mezzo al gracidare dei rospi, seguito minacciosamente dalle tre automobili. Si mette a correre a perdifiato per una strada senza indicazioni, a parte la scritta DUX tracciata in bianco; inseguito dalle grida corre sempre più forte, come un forsennato, e alla fine della corsa, oramai senza fiato, arriva a un muro di cinta altissimo. La scena si conclude su questo incubo di fughe e di inseguimenti. Esplodono colpi di fucile, urlano sirene di allarmi, dobermann giganteschi lo braccano, Marcello grida: «Ma che razza di film è questo?», ed è qui che inizia un’altra scena. * L’odissea di Marcello nella geografia complessa del femminile – con i richiami delle sirene – conduce all’interno della fortezza di Cazzone. L’ordine della storia è rovesciato: laggiù le femministe si organizzavano, mentre qui Cazzone è obbligato a lasciare la casa che ha costruito abusivamente. La situazione va oltre la superficie che vuole scarabocchiare i momenti infiniti della realtà. Tuttavia, l’episodio di Cazzone non si riduce a fare da contrappunto agli eventi che l’hanno preceduto; c’è un di più la cui consistenza è creata dai giochi e dalle complicità che uniscono il maschile al tema del femminile. Le inquadrature precedenti modellavano un universo femminile che cercava le sue espressioni, i suoi stati, la sua cultura, i significati di gesti, di parole, cercando di elaborare una sorta di tabula rasa in cui sarebbero tuttavia conservate le complicità necessarie a un discorso inserito in una novità che «progredisce». La rappresentazione dell’universo di Cazzone non è mossa dallo stesso problema: nel suo isolamento, i poteri passati del maschile si logorano da soli, attraverso la distruzione del cumulo di simboli nel quale si è pavoneggiato con ostentazione, fino a farne un potere. Cazzone sembra, sin dal nome, l’unico in grado di rispondere alle domande che riguardano la sua messa in scena; queste domande, innumerevoli, si riassumono in tre enunciati di base: «Chi (cazzo) sei?», «Che (cazzo) sei?, «Che (cazzo) vuoi?». Cazzone non le formula, visto che pensa di avere già risposto con la sua stessa vita. La sua veemenza si erge contro ciò che distrugge il suo mondo «decadente», opponendogli una pretesa «progressenza». Quando queste domande gli vengono poste in forma di lotta, non può rispondere se non attraverso la resistenza armata – una resistenza, sostenuta da tutto un passato di formulazione maschilista, che ha una storia specificamente italiana, come ricorda la parola DUX che annuncia l’arrivo a casa sua.12 La prima lettura di Cazzone è dunque la resistenza forsennata che il maschilismo, dal suo passato splendore, oppone per affrontare nuovi imperativi di cui non capisce le regole. Questa manifestazione esteriore è la base cosciente del sogno che, in realtà, alimenta
segretamente linee più strette: Cazzone fa eco al personaggio che Steiner incarnava nella Dolce Vita, l’immagine-riflesso della costruzione di una felicità che, sostenuta da una volontà sciagurata, conduce inevitabilmente alla sottomissione al potere. Tuttavia, il tema non è enunciato attraverso l’esito cui giungono gli esseri – che corrispondeva ancora al percorso dei film, più o meno fino a Cabiria –, ma soprattutto attraverso le simpatie che questi alimentano nel corso dei loro divenire: è l’amore-somiglianza che lega Marcello a Steiner a contare, non la sua delusione, e specularmente la simpatia-somiglianza con Cazzone, non il punto a cui giungerà quest’ultimo. L’aria musicale di questo tema, sostenuto dalla complicità tra i soggetti, è uno dei grandi motivi che spiegano la trama del maschile in Fellini. Quest’ultima non è immaginabile se non all’interno del rapporto stretto del genere, il maschile, che conosce la sua storia e non ne racconta nessun’altra, sperimentato nel corso di prove ripetute, e che riguarda tutti: Fellini, Mastroianni, Marcello, Guido e Cazzone, come altrettanti alter ego. È un tema che appare praticamente ovunque. Se ciò determina linee forti soprattutto in Satyricon, la sequenza più magicamente elaborata è quella in cui alcuni liceali danzano su accordi interiori, senza rumore, in Amarcord – una scena fatta di quasi nulla, come un riassunto finale di quanto aveva già avuto luogo, anche se in altro modo, nei Vitelloni –; riappare ancora nella sequenza della Città delle donne in cui grandi e piccoli nello stesso letto assistono, masturbandosi, alla proiezione di un film. Non conta quello che si fa, ma lo spessore di una storia delle sensazioni che si costruisce via via, e diventa allora una vera potenza vitale comune. Questa complicità – già sancita dalla protezione che Cazzone offre a Marcello quando costui si crede perduto – segna lo stadio iniziale di una fiducia che deve trovare i suoi contenuti. Questa inizia nell’incertezza dei ricordi che esprimono più le emozioni di un passato possibile che la verifica di una curiosità, sempre che la si possa attribuire alle oscillazioni dei sogni. Marcello-Snaporaz, una volta ripresosi dai suoi tremori, crede di riconoscere Cazzone, e la complicità nasce da uno strano gioco della memoria che rigenera somiglianze: «Non eri tu che riuscivi a farti il nodo all’uccello in stato di riposo?», frase e modo di dire coinvolti in un compromesso umoristico di riflesso-riflessione che rovescia la virtualità magnifica della scena dell’harem di 8 ½ e ne propone una dimensione completamente diversa. Tutto diventa inventario attraverso le approssimazioni letterarie di Cazzone, che prende da Ariosto – «Ho solo una passione, le donne, le armi, i cavalli…» – o da D’Annunzio nell’arredamento di questa casa di bambola. La complicità fragrante che univa le donne dell’harem di 8 ½ in segreti di cui loro soltanto erano detentrici si dissolve in questo museo di affabulazioni del maschile che esibisce il potere dei suoi ornamenti sotto forma di giochi, di scambio e di amicizia. La poligamia femminile di 8 ½ diventa allora collezione, compulsione fallica, accumulo combinato con conteggi, addizioni e riporti, che somma e misura i suoi oggetti invece di sottrarli; come Sganarello redige il catalogo di Don Giovanni e Casanova ordina le sue liste, Cazzone tiene la sua contabilità e situa il soggetto «maschio» al centro di un’assenza di perplessità e di dubbi: vibratori a tremila giri, maschere giapponesi che leccano e titillano, orchidee dalle carni divoranti, punte di cancellata a forma di fallo, corridoi in marmo bianco e nero in cui, come in un bel cimitero, riposano le foto, le voci e gli orgasmi registrati delle sue conquiste, tutto svela un discorso erotico fisso, prepara l’estasi, la sua commemorazione e la sua difesa contro l’oblio, fino alla targa scolpita che indica l’anno, 1935, di questa volontà monoteista e fascistoide di erigere l’(in)dimenticabile in eternità. L’architettura del luogo ricorda cappelle e cripte tombali
consacrate a un culto mortuario, faraonico e necrofilo, con l’epicentro panottico della rotonda in cui si erge il busto di marmo di una MAMMA benignamente morta ed eterna ausiliatrice di lupanari edipici. L’evocazione di questo passato tutto al negativo, nel luogo di ciò che non ha più luogo, esala l’ultimo respiro in una festa in cui la millesima conquista di questa vocazione allo sperma fallico è celebrata da una torta degna di Trimalcione, sulla quale svettano in trionfo tante candele quante sono state le donne. La festa inizia con un numero da circo nel quale l’amante in carica di Cazzone aspira con la sola forza della vagina perle e monete d’oro, prima dello spegnimento delle candeline, nello sfiatamento del padrone di casa che termina il compito pisciandoci sopra. Questo grande affresco ha un che di arcaico nella ripetizione di elementi presenti, in maniera differente, in Satyricon, in Roma e in Casanova. L’identificazione di Cazzone con uncon una borghesia occidentale fatta di parvenu, che fa il gioco di un egotismo narcisista con l’unico scopo di esibire la dimostrazione del proprio potere è tuttavia evidente, e l’episodio ricorda quello dello spogliarello della Dolce vita: è tutto divertente, sempre, e tuttavia malinconicamente inutile. Il discorso finale di Cazzone, iniziato con l’enfasi di un eroismo comico che prendeva le mosse dalla poesia ufficiale, termina, come in Trimalcione, con l’espressione di una malinconia retorica e catastale: In tanta festa, io sento grande malinconia […], perché è ormai tempo di dire addio alla donna, a tutte le donne, alla donna con D maiuscola, alla donna vera, alla mia donna. Questa sera io voglio lei rivolgere mio grande, commosso, saluto. Addio!
L’eterno mascolino non è più quello di una volta: un possibile legame con Don Giovanni, che apparteneva ancora alla sfera virtuale della Dolce vita e di 8 ½ – già interrotta nella tragedia senza nome di Giacomo Casanova, la cui forza dongiovannesca era trasferita e confinata nell’uccello meccanico –, s’annienta nella condanna a morte definitiva del mito, che spegne le sue diecimila candeline e finisce tra le braccia aperte di Cazzone. La festa prosegue in languidi balli guancia a guancia, inframezzati dalle improvvisazioni liriche di Cazzone che canta arie della Traviata e della Carmen: davvero due Grandi Donne, è evidente. L’inizio della festa segna un punto di svolta nel film grazie alla separazione sempre più accentuata di quanto dovrebbe inscriversi nella realtà. La presenza insospettabile della donna di Marcello (Anna Prucnal) e della ragazza che lo aveva aiutato a salvarsi dalla situazione precedente – e che ora gli ricuce un bottone della patta – cambia i ritmi. L’incontro tra Guido e sua moglie non si traduce in alcuna sorpresa, come ci si potrebbe aspettare; la moglie sprofonda subito nella tristezza alcolica e nella recriminazione – la superficie del sogno fa i conti con la profondità della realtà. Che cosa torna in questi duetti improvvisati in mezzo a un piccolo gruppo di persone? Di fatto, la sequenza è identica a quella di 8 ½ in cui Guido incontra per caso Luisa nel centro termale e lei gli scaglia contro una pioggia di rimproveri che complicano la sua linea affettiva. Sono ripetizioni-trasformazioni, riflessi-riflessioni di momenti precisi della filmografia che, in uno spazio-tempo definito, rielaborano gli stessi temi e le stesse tonalità, comprese le intonazioni vocali; e la ragazza che salva Marcello lungo tutto il film sembra far rivivere la ragazza delle terme.13 Il ritorno a una problematica che il film precedente non era riuscito a risolvere, se non proiettandola nel suo divenire immediato, sottolinea la necessità, anche nello spostamento del sogno, di valutarne le evoluzioni con l’introduzione di una storia diversa. Nel caso della Città
delle donne, il turbine è determinato dalla complicazione delle associazioni di idee e delle scorciatoie del sogno, mentre gli eventi, per il sospetto di un passato negativo, emergono come motivi di colpevolezza che il soggetto non percepisce in quanto tali o di cui è incapace di farsi carico. Inoltre, li affoga nella successione degli interventi esterni, la tristezza della festa a casa di Cazzone o l’arrivo delle donne che, trasformate in poliziotte, impongono all’alter ego che è ormai diventato Cazzone i regolamenti di leggi categoriche. Le armi sono passate dalle mani del vecchio padrone di casa a quelle della calca di un femminile in guerra, e tutto precipita sotto una valanga di dolore – l’abbattimento e il seppellimento del cane, l’accusa di voler sedurre le ragazzine, gli abusi perpetrati dalle poliziotte, benché in tono umoristico, al momento della danza con l’amante di Cazzone o della perquisizione di Marcello, la tempesta che si scatena dentro e fuori il salone, le lacrime versate sulla «Mamma», fino alla conclusione degna di un Erode Antipa da operetta: «Spegnete tutto, chiudete tutto, questa casa è deserta!». La storia del maschile dichiarata colpevole dalle femministe, alla quale il protagonista, braccato da questo femminile non liberatorio, sembra sottomettersi, non può che girare in tondo all’infinito, e soltanto la continuità del sogno può slegarla mediante l’accettazione parallela della sua manifestazione in quanto desiderio e della sua denuncia in quanto colpa. Seguendo queste nuove direzioni il film cerca una soluzione: da una parte attraverso la plongée su tutti i secondi piani che compongono il desiderio altrui, attraverso procedure che si ergono come tribunali di guerra. Queste inquadrature duplici non sono costruite mischiando le due trame, ma differenziandone l’uso narrativo: anche il film propone dapprima l’insieme poetico degli effetti del desiderio, poi la costruzione di un tribunale delle colpe. In tal modo il sogno sviluppa una storia del desiderio – di cui abbiamo visto comparire svariati elementi in 8 ½ –, un racconto dal presente gioioso e clownesco che conserva la parte infantile dell’adulto e la trascina nelle situazioni di una memoria vitale del corpo senza ricordo, com’è adesso, eterno Pinocchio, con la sua robustezza e i suoi atteggiamenti da adulto, in cui la scoperta sensuale e sessuale e l’intreccio di desideri che genera sono gli elementi di una gioiosità inventiva e costante, audace e senza peso, nella quale si intrecciano i brandelli del racconto delle donne, come favole sempre presenti nella vita degli uomini. Tutto inizia nella casa di Cazzone, dopo che quest’ultimo si è definitivamente chiuso la porta alle spalle e il film ha cancellato la sua storia. Nella rotonda due gemelle ballano, trascinando un piccolo gruppo, nuovo, di donne, giovani, mature e anziane, come tante fate intorno a una culla, e propongono a Marcello di accennare qualche passo imitando Fred Astaire. Una donna gli porge una camicia da notte, poi è condotto ai piani superiori, esplode un charleston su altri ritornelli: le musiche, le scene, le filastrocche si fanno e si disfano in una continuità di non-sensi recitativi, come in un’infanzia senza limiti.14 All’esibizione del femminile, priva dell’aggressività umoristica della scena dell’harem, resta soltanto la dolcezza di una sensualità fatta di parole, che mescola le lingue delle «donne passate» in un’unica melodia: una donna molto anziana gli dà un grande bacio, un’altra più giovane gli augura la buona notte: «Sogna di me che son la più bella, e alle tue voglie non mi ribella». La medesima sensualità riempie alcune immagini quotidiane, i simboli e i segni espressi non sono mai tragici o oppressivi: una donna stira i panni, un’altra, provocante, vende pesce tastandolo, l’infermiera delle terme ha un seno imponente, le ragazze in moto nel cerchio della morte sanno essere eccitanti, alcuni ragazzini spiano dal buco di una cabina la graziosa creatura che si spoglia prima di uscire su una spiaggia e dirigersi verso un mare comunque
finti, in una scena alla Cremonini che ferma e immobilizza il tempo, una donna canta arie d’opera in un giardino tropicale, esplode di colpo una tempesta – l’amore o la parola impossibili con sua moglie, truccata per la notte come un clown. Il gran finale di questa sequenza – alla quale si giunge grazie a tre mele che attraverso una grande galleria permettono di accedere a uno spazio scuro, in cui emerge un parco giochi favoloso con montagne russe notturne e stellate – è un omaggio alla donna nel cinema. In un letto immenso con lenzuola di seta ondeggianti adulti e bambini simulano imprecise e leggere masturbazioni di fronte all’esibizione di una femminilità provocante che sembra uscita dal cinema muto: star grazie alle quali hanno creduto e credono di «farsi uomini», le chiappe sode ricoperte di raso di una beffarda Mae West e i suoi boys con mutande da schiavi, l’ombra dei bordelli di Roma con un immenso campo lungo, da dietro, che invade la mente, e l’ombra ancora del teatro di varietà con i suoi vecchi signori maliziosi e funebri. Il sogno, dopo essersi sfogato in questa caverna di spettacoli mirabolanti, ripiomba nell’incubo. La notte di sogni si è trasformata in un grande spazio circense: alcuni vecchietti si allontanano, come fantasmi, e le montagne russe terminano con uno scivolo, una gabbia d’acciaio in cui Marcello è rinchiuso da una ragazza. Un gruppetto di donne viene avanti con un manifesto con su scritto PROGRESSENZA. La gabbia, coperta da un telone spesso, conduce a una stanza enorme, come una cappella, in cui dei guardiani garantiscono il servizio d’ordine: in questa sala, in mezzo alle candele, sono accumulati i ritratti di uomini celebri, dal Casanova di Fellini a Vittorio De Sica, mentre uomini di ogni tipo stanno in attesa vestiti con costumi che ricordano l’antichità improbabile di un cinema che mescola tutti i generi, tutti i figuranti. Marcello, semisvenuto, è condotto davanti a un tribunale di donne, che lo sottopongono a un interrogatorio, mentre altri uomini sono chiamati e portati attraverso un corridoio buio in un luogo di cui non è rivelato nulla e da cui fuoriescono su una barella. Alla fine dell’interrogatorio, il tribunale redige la lista dei capi d’accusa15 che riguardano le domande essenziali alle quali il film ha cercato di rispondere; e il processo si chiude apparentemente con un nulla di fatto, dato che il giudizio finale gli annuncia che è libero e può tornare a casa sua. Nonostante la libertà che gli è stata concessa, Marcello vuole andare fino in fondo all’incubo e scoprire cosa c’è dall’altra parte, lì dove venivano portati gli altri uomini per far loro incontrare, secondo le parole di una delle donne vicine al tribunale, «la Donna ideale, la Donna che hanno sempre sognato, la Grande Sconosciuta». L’incubo ricomincia e Marcello, alla fine di un passaggio labirintico, si ritrova in un grande anfiteatro arredato con immensi ritratti di donne celebri in cui iniziano a riunirsi velocemente e confusamente tutte le donne presenti nella scena iniziale e anche quelle che manifestavano: si susseguono scene spettacolari, una bambola che brucia, due donne che imitano Laurel e Hardy lo spingono a salire la grande scalinata per raggiungere l’Ideale, le spettatrici gli lanciano fiori, un fuoco d’artificio esplode davanti ai suoi piedi, il trambusto gli confonde la mente. Salirà la scalinata? La sua esitazione è identica a quella del protagonista di 8 ½ nel momento della conferenza stampa voluta dal produttore, ma le parole che la esprimono non sono le stesse e non portano a una liberazione: Che cosa dovrei andare a fare lassù? A fare l’amore? Ma come? Una figura così idealizzata io dovrei profanarla? Certo, sarebbe un brutto pasticcio se venissi a sapere che sente come le altre, che prova piacere come le altre, che piange come le altre… Ma dove vado? Non gliela faccio, mi manca l’aria… è un’eternità che sto qui. Mi è parso come di sentire una voce, una voce che conosco! Vecchio Snaporaz, coraggio! Andiamo a vedere! Smic-smac, smic-smac… E se ci fossi davvero, cosa saresti per me? Un premio? Una punizione? Lasciami andar via! Sii generosa, ti prego, toglimi da questa situazione ridicola… Cosa puoi aspettarti da me ormai? Non mi servi a niente e io non ti servo a
niente. Forse sei qualcuna che ho già incontrato e non ho saputo riconoscere: il primo amore? Ma no, dovresti essere una nuova, una mai vista, mai incontrata, una che nasce da me come una volta io sono nato da… Ti prego, ti scongiuro, se ci sei, se devi esserci, mostrati! Ora sono io che ho bisogno di te! Devi apparirmi! Posso fare così, chiudo gli occhi e conto fino a sette… d’altra parte bisogna anche finirla in qualche modo… ecco, e quando li riapro tu devi essermi… vicino…
Giunge infine a una sorta di terrapieno in cui una delle donne anziane gli indica la scala di corda che gli permetterà di raggiungere, attraverso un grande buco luminoso – grande e luminoso almeno quanto era oscuro il passaggio precedente –, la Donna ideale. Mentre di sotto l’anfiteatro si svuota – Marcello-Snaporaz ha vinto la sua scommessa e dunque non c’è più spettacolo –, si ritrova nella cesta di una mongolfiera decorata da trecce, capelli e pellicce che un vento leggero fa fluttuare e ondeggiare in questa notte di tutte le scene. Il pallone che sostiene la cesta è una bambola gonfiabile che somiglia alla ragazza che l’ha amato e aiutato, con un’aureola di stelle, Madonna e vedette di music hall al tempo stesso, praticamente nuda, con le gambe incrociate e le braccia spalancate, volteggiante in una lascivia dolce e affettuosa: santa e puttana, ma non castratrice, nient’altro che forza di immagine. Di sotto, sola nell’anfiteatro, la ragazza in carne e ossa mitraglia quel surrogato di realtà che è l’Ideale. È lì che Marcello-Mastroianni-Snaporaz si sveglia in compagnia di sua moglie nello scompartimento in cui prendono posto l’una dopo l’altra, con sorrisi colmi di grazia, la bella donna dal volto di Medusa e la ragazza che l’ha aiutato – riassumendo in loro due tutte le donne che hanno attraversato il film, anziane, mature e giovani, come nel catalogo di Sganarello. Così, La città delle donne si apre e si chiude come l’episodio di un trittico nella composizione del quale intervengono, quasi indifferentemente, altri film in cui la questione «eterna» del femminile è stata agitata fino allo scompiglio. Da questo punto di vista, La dolce vita e 8 ½ sono senza dubbio i film più significativi, in quanto pongono la questione in tutte le sue varianti, interne ed esterne, nonostante in essi risuoni l’eco di un’epoca e di una situazione sociale che frustrano il desiderio, poiché soffocano il rapporto tra i sessi con una compagine di questioni e di pratiche, ora tristi, ora dolorose, ora gioiose. La domanda che Marcello pone tre volte alla fine del film – «Chi sei?» –, e che rimanda indirettamente alle problematiche implicite delle pratiche di Cazzone, lascia passare l’eco quasi evangelica di un presente qualunque, a rivelare forse che la domanda è mal posta. Così finisce il sogno, e s’inabissa in un tunnel che, nuovo e diverso, resta comunque sempre lo stesso.
V
AFFONDARE, O GLI ABISSI DEL RACCONTO. E LA NAVE VA, UNA STORIA POSSIBILE DEL TITANIC. IL MITO ROVINATO DALLA VITA, O VICEVERSA. LA VALORIZZAZIONE DEGLI ARTIFICI COME UNICA SOLUZIONE DELLA RAPPRESENTAZIONE. STORIA COMPLETA DELLE TECNICHE CHE FISSANO L’IMMAGINE E IL CINEMA. MOVIMENTI DEL FANTASTICO: LINEA DI GALLEGGIAMENTO, LINEA DI DERIVA. COME DESCRIVERE MANIERE POLITICHE E SOCIALI. DERIVA DEI SOGNI, MUSICA DEI SOGNI, POLIFONIE. NAUFRAGARE O LA ZATTERA DELLA MEDUSA, MITI E LEGGENDE.
In E la nave va (1983), Orlando, un giornalista italiano, è il filo conduttore della storia di una nave che va, che procede, ma non è una storia, è senza storia o, se c’è storia, somiglia a quelle che avvengono su tutte le navi.1 La superficie dell’acqua che circonda la nave, l’isolamento da ogni contatto reale con il mondo esterno, del quale resta solo il calco attraverso identificazioni divenute di colpo fittizie, creano condizioni nelle quali le trame del «racconto» si rivelano prive di tenuta o puramente mimetiche. Queste trame si intrecciano in una strana relazione con la Storia – che peraltro incontrano, e per una volta in modo marcato –, nei limiti di un mondo nel quale il tempo e lo spazio, senza dissolversi, sono talmente rarefatti da non poter più essere narrati, se non nella filigrana dell’inessenziale che li elabora. Orlando ricorda del resto questa specificità del tempo e dei rapporti che si creano tra coloro che devono convivere su una nave: Le traversate in mare hanno questo di particolare, che dopo un paio di giorni ti sembra di essere in viaggio chissà da quanto tempo, e la gente che hai con te ti pare di conoscerla da sempre.
Parallelamente, per due volte, all’inizio e a metà del film, Orlando esprime l’impossibilità di raccontare una storia, come se si trattasse di una sua incapacità, o di un’inefficienza intrinseca alla vita, nel momento stesso in cui è visibilmente commosso da quello che sta raccontando e in cui soltanto il suo umorismo anglosassone gli permette di superare lo stallo nella riflessione e di lasciarsi andare alla fluttuazione di quella che diventa un’onda: Io scrivo, racconto, ma cos’è poi che voglio raccontare? Un viaggio in mare? Il viaggio della vita? Ma questo non si racconta, si fa, ed è già tanto. È banale? È stato già detto, e meglio. Ma tutto è stato già detto! E fatto!
Queste frasi, pronunciate da un giornalista, riassumono diverse componenti della creazione filmica di Fellini. In primo luogo, rimandano alla funzione stessa di colui che informa, uno dei temi ossessivi dell’opera. L’elemento è direttamente correlato alla questione, spesso evocata, della possibilità di una narratività in cui la realtà e la verità coincidano: entrambe, quali? E di che tipo? Da qui deriva l’interesse costante per il problema della struttura narrativa, dapprima risolto secondo le linee del racconto raccontato, poi dalla creazione, infine dalla riflessione. È a questo stadio, percepito dall’autore quasi come ultimativo, che la domanda può essere posta senza voler ambire a una trasparenza, ma a un «trasparire» in cui scrivere, raccontare, viaggiare, vivere, fare e banalità – i termini principali della riflessione di Orlando – esprimono o raffigurano
l’atteggiamento di colui che ha raccontato, creato e pensato attraverso l’atto cinematografico, e cercato quello che si poteva trovare al di qua o al di là delle immagini. E la nave va è il momento risolutivo di una pratica la cui costante è stata quella di mostrare che l’atto cinematografico non era riducibile alle realtà narrative, e che era possibile produrre le immagini di una realtà creata ex novo dallo svuotamento delle immagini stesse. Questo interesse ha potuto trovare una corrispondenza, tra l’altro, in un’epoca che aveva finito per «credere» all’immagine della realtà più che alla realtà stessa, inafferrabile per natura, alla sua forma svuotata, quale che fosse, purché l’immagine riuscisse a colmare il vuoto che lo spazio e il tempo della realtà lasciavano sospeso. In tal senso, la questione sottintesa al lavoro di Fellini non riguarda semplicemente gli elementi della narrazione al cinema – il tempo e il luogo, l’attualità –, ma la sua attualizzazione – dunque la sua libertà, attraverso altre ridefinizioni dei termini di realtà e di verità –, parimenti inseparabile dai confronti e dai rapporti tra il suo «fare (un) film» e i «fare film» dell’epoca: neorealismo, postneorealismo, cinema ufficiale, sperimentazioni varie. A tal proposito, Fellini accenna una spiegazione: Se volessi darmi delle arie, direi: la difficoltà del rapporto con il reale, o con quello che noi crediamo sia il reale. Direi: il tentativo di spiegare come mai siamo oggi abitati da una fredda, vitrea, immobile, assonnata, opaca indifferenza che oscuramente fa nascere in noi quasi l’assurdo desiderio di una catastrofe, di un naufragio che scuota la nostra inerzia riproponendo un nuovo rapporto con la realtà e consentendo di sperimentare altre possibilità, di un disastro che ci permetta di rinascere.2
È quindi proprio l’atto cinematografico a delimitare l’azione «narrativa» di E la nave va, come se, accanto alla storia intima, vi fosse raccontata una breve storia della fotografia, poi una storia del cinema, la storia del cinema italiano e la storia cinematografica del film – di fatto, una genealogia. Il film inizia in bianco e nero, muto, senz’altro suono oltre quello di una pellicola che gira da sola, che registra un quotidiano non ancora attestato storicamente e che dice il suo destino e la sua carriera futura in questo tentativo di formalizzazione. I personaggi ordinari filmati nella sequenza muta al porto prendono posto, nello stupore felice e banale dell’essere sorpresi in una situazione che spetta a loro comporre, rivelando istintivamente la duplice posizione di attore e di spettatore davanti all’oggetto macchina da presa; ogni attore è allora – e in primo luogo – dentro ciò che la macchina da presa, come lui stesso, non saprebbe volere. Forse soltanto il cameraman – già proiettato verso un divenire regista – sa qualcosa, appena, di cosa sarà questo divenire, per il semplice fatto di desiderare un campo libero da ogni incidente per la ricezione di un relativo al quale sta riconoscendo uno status eccezionale. Così macchina da presa e operatore, in un rapporto di reciprocità tra oggetto e soggetto, definiscono dall’inizio del film la variante di un divenire immagine e movimento, affermando così lo scarto che li separa dalla fotografia, che coglie e fissa quello che può e che vuole: magnifico il momento in cui i due uomini che portano le ceneri della diva su un cuscino indietreggiano fino al punto di partenza prima di ripetere la loro azione – dopo averla ripetuta, dopo averla mancata –, come al cinema si ripete sempre quello che è stato già fatto, ciò che la ripresa istantanea della fotografia esclude. Magnifici «spezzoni» di questo film che esprimono i momenti di una storia sconosciuta del cinema e che pretende di vedere, dall’inizio alla fine, la storia del suo sviluppo, cinema tout court e, in seguito, cinema d’autore attraverso la messa in opera di una volontà alla quale, in ogni modo, sfugge. Orlando e il cameraman si fanno narratori d’eccezione di un’assenza di storia resa eccezionale dal semplice fatto di essere stata registrata e catturata in una materia che la fissa –
la materialità di un evento che ha avuto luogo e che sembra esser stato vissuto. Il giornalista e l’operatore – sorpresi tra il bianco e nero dei preparativi di un matrimonio con la morte e il colore spento la cui apparizione progressiva accompagna la salita delle ceneri sulla nave, salita che segna l’inizio del viaggio e della storia del film – sono i testimoni di qualcosa che, malgrado gli elementi che immobilizzano, sfugge loro per forza, proprio come il passato che scorre sulla pellicola sfugge o sfuggirà allo spettatore o al futuro giornalista-analista-antropologo, poiché, al di là dell’atto, non potrà più afferrarne lo spirito vivace e sfuggente. La sola realtà possibile del film è allora l’impercettibile, che viene afferrato «per caso» dalla pellicola ed è rifiutato dal racconto che finisce per imporsi, come in questa favola che sprofonda nel naufragio narrativo del racconto, affondato e inghiottito negli abissi delle proprie tecniche. L’unico luogo che gli appartiene è la superficie acquatica, persino finta: Per me il mare è un paesaggio obbligato, una visione antica, una dimensione profondamente radicata. Infatti torna spesso in quasi tutti i miei film, ma non soltanto come luogo deputato della memoria, come una scenografia o un fondale: piuttosto come una forza generatrice di fantasmi, di invasori, di allucinazioni, di magia immobile. È una linea azzurra, grigia o buia sull’orizzonte; l’approdo a un panorama muto, una via che porta da nessuna parte.3
* La trama narrativa è dunque introdotta da una lunga ouverture in bianco e nero: sul molo del porto di Napoli una piccola folla si affanna lungo le fiancate di una nave ancorata e caricata di mercanzie e bagagli. Dopo alcune scene di ordinaria vita di porto iniziano ad arrivare automobili e carrozze. Gruppi di uomini e donne eleganti scendono sul molo; una donna fissa con concupiscenza uno dei marinai che gestiscono l’imbarco, quest’ultimo ricambia con sguardo compiacente; attraverso il finestrino di una delle automobili s’intravede il profilo arcigno di una donna dall’atteggiamento altezzoso; alcune donne orientali s’imbarcano precedute da un emiro. In lontananza si staglia un orizzonte grigio, la nave fischia, ed è l’unico suono che rompe il silenzio della ripresa muta. Sorridente e beffardo, Orlando prova diversi cappelli, finalmente ne trova uno, prende la parola mediante didascalie, come nei film muti; si formano gruppetti, si sentono note di pianoforte, arriva un carro funebre, due uomini portano un cuscino ricoperto da un drappo nero, si fanno avanti, un ragazzo dall’aria romanticamente disperata si passa la mano inanellata tra i capelli e manda baci; una volta ottenute le necessarie autorizzazioni, dalla scala che s’inerpica lungo il fianco della nave sono imbarcate le ceneri di Edmea Tetua: il film acquista allora voce e colore. Tutti si sistemano sul molo e sulla scala e si mettono in posa, come un coro, come all’opera, intorno a un personaggio alto e magro, con i capelli bianchi, che dirige il canto che s’innalza: «O voce, quale fato t’involò…». Il coro risponde: «È l’ora, salpiamo…», con in primo piano alcuni cantanti, la donna dall’atteggiamento superbo, una cantante, le cui asprezze la seguiranno sempre, così come, all’acme degli acuti o delle emozioni, il suo sguardo resterà sempre strabico. Chi deve partire s’imbarca, il ritmo è scandito dall’aria della Forza del destino. Sul ponte e fin nelle caldaie, in fondo alla stiva della nave riecheggiano le voci: «Nello sciabordio dell’onde, nel sussurro delle fronde, nel sospiro dell’aurora, l’amor tuo risuona ancora…». Dove vanno questi personaggi? Dove va questa nave, il suo comandante, dove vanno i marinai, i fuochisti? Il motivo di questa partenza può sembrare risibile, un «Capriccio»: vanno
a celebrare i funerali di Edmea Tetua, «la più grande cantante di tutti i tempi, un miracolo vocale, la voce di una dea»,4 il cui testamento stabilisce che le sue ceneri siano disperse al largo dell’isola d’Erimo, la sua isola natale. La storia, della durata di appena tre giorni, inizia nel luglio 1914 ed evoca nel suo svolgimento gli eventi di Sarajevo. Un gruppo assai composito di ammiratori dell’artista, appartenenti al mondo dell’arte e della finanza – senza la quale l’arte non esisterebbe –, la accompagna in quest’ultimo viaggio, al termine del quale le sue ceneri saranno disperse da un altro tipo di naufragio che è il vento. La brigata ha noleggiato un transatlantico lussuoso il cui nome misterioso, Gloria N., evoca ciò che più velocemente trascorre in questo mondo, la gloria: la nave è cinta da un’immensa corazza grigio scura di metallo bullonato che la fa somigliare a una fortezza inespugnabile destinata a garantire la sua eternità di transatlantico; la sua lenta partenza è scandita, mentre scivola sul mare di seta e paillettes, da voci che si rispondono a vicenda, voci di quelli che partono, sopra, e di quelli che restano, sotto. La scansione sarà ripresa all’interno della nave. È un castello scrutato fin dentro i suoi abissi: la stiva con le sue caldaie sbuffanti e gli uomini che le alimentano, un mondo sotterraneo di Vulcani, di minatori, di carbone e fuoco, la messa a nudo interiore, caotica e laboriosa, della metallurgia esteriore, le scalinate stesse. Sopra, l’animazione delle cucine, ancora fuoco e forni, su grandi tavoli da lavoro, carni in preparazione, su uno di questi un numero incalcolabile di bicchieri allineati, sguatteri che litigano, volatili schiamazzanti nelle gabbie, camerieri indaffarati che si attivano convulsamente tra fumi e vapori, disordini calcolati e coordinati s’incrociano in ogni direzione, ritmati dalla musica. La schiera dei camerieri con il suo andirivieni permette di passare alle tavole apparecchiate con lusso ed eleganza del salone ristorante, in cui grandi vetrate si affacciano sull’azzurro. Un’orchestrina suona una melodia dallo Schiaccianoci. La calma apparente, i gesti lenti e posati degli ospiti radunati più o meno per clan restituiscono ai camerieri l’aplomb necessario affinché nulla possa disturbare la divina assemblea. Perché ognuno, a suo modo, si crede una divinità che Orlando ci presenta nel corso di questo pranzo: il tavolo del comandante con qualche invitato, il tavolo di Ildebranda Cuffari, il suo seguito e le sue asprezze, lei, divenuta dopo la morte di Edmea «l’incontrastata sovrana fra le voci dei nostri tempi»; quello del tenore Sabatino Lepori, accompagnato dalla moglie argentina, il quale, appena si rende conto della presenza della cinepresa, assume un atteggiamento seduttivo e superbo, simulando le pose che ci si aspetta dalle dive del «bel canto», tra cui guardare di traverso lisciandosi i capelli; il tavolo del comico Ricotin che discute con i convitati dei valori della sua arte destinata agli intellettuali; a un altro tavolo sir Reginald Dongby, voyeur sadomasochista, e di sua moglie, lady Violet, che da brava ninfomane, e per il piacere di suo marito, divora con gli occhi ogni uomo che passa, mentre lui racconta una storia indiana di sguardi scambiati fra tigri e cacciatori; il sovrintendente molto illuminato della Scala di Milano, il suo illustre collega dell’Opera di Roma, coinvolto in uno scandalo, la sua seconda moglie, una cantante rumena, e la figlia avuta dalla prima moglie, un personaggio eccentrico, segretario e medium straordinario, il leggendario direttore d’orchestra von Rupert; e il tenore Aureliano Fuciletto, i due sovrintendenti dell’Opera di Vienna, nativi di Varsavia, Brenda Hilton, una celeberrima columnist, Ziloef, un basso profondo molto profondo, un mezzo soprano, Madame Valegnani, un’altra cantante, Ines Ruffo Saltini, i fratelli Rubetti, maestri di canto, David Fitzmayer, direttore d’orchestra, una celebre danzatrice, Svetlana. Tutta la Mitteleuropa dell’epoca è qui riunita.
Fuori, un gabbiano batte le ali, qualcuno apre una finestra, l’uccello entra e tutti si agitano per farlo uscire: la sua intrusione è percepita come un cattivo presagio e le signore, soprattutto Ildebranda, restano paralizzate dal terrore; viene portata una grande scala per acciuffarlo. Sulle note del Bel Danubio blu l’uccello vola via dopo aver lasciato cadere una delle sue piume sul collo di Ildebranda, segno fortunato, le dicono. L’orchestra ora suona una marcia militare: «Lunga vita al principe!», è annunciato l’arrivo di Sua altezza reale il Granduca di Herzog, al quale si darebbero otto anni a giudicare dalla sua politica, seguito da sua sorella Lerinia, la principessa cieca (Pina Bausch), che ha perduto la vista durante l’infanzia: non ama essere guidata e avanza accanto al primo ministro come se ci vedesse. Qualche dubbio sul menu principesco: consommé vichyssois, potage di tartaruga, no, lei vuole un potage printemps, lui delle cailles truffées, Il bel Danubio blu riprende. Orlando, che non ha mai smesso di intervenire durante questa sequenza di presentazione di tutti i personaggi, mostra la pagina di un giornale con la foto dell’isola verso la quale sono diretti, una grande roccia che somiglia a Stromboli, dove Edmea è nata e dove la sua anima desidera tornare. La principessa, come una Sibilla, passa in rassegna i nomi dei colori: celeste, celeste e bianco, blu oltremare, azzurro chiaro, verde smeraldo, verde; la musica le permette di vedere un arcobaleno: bianco, bianco, bianco. A ogni nota corrisponde un colore, e certe persone possiedono il dono di una visione cromatica dei suoni. Si apre una discussione parascientifica tra il capo della polizia, una dama della corte e il primo ministro, ma la principessa taglia corto: tutti possiamo percepire i colori della musica, e anche il colore delle voci. La voce del principe è grigia, e quando la sua mente è preoccupata la voce diventa ruggine, rosso «pruno». La voce del capo della polizia ha sempre lo stesso colore, un giallo opaco; il generale ha una voce senza colore, come un vuoto, un’assenza… In un salotto il cronista ci mostra un cofanetto di metallo e un’ampolla di vetro che contengono le ceneri di Edmea, un cofanetto «così piccolo e così grande»; il cameraman filma una parente della cantante, poi il cronista presenta il comandante, di Genova o di La Spezia; sir Reginald cerca la moglie, che non trova sul ponte; Orlando dà informazioni sull’emiro, un egiziano, di cui si dice che sia stato l’amante della grande artista, proprietario di tutte le ferrovie del suo paese, e che ha, pare, un pene enorme e violaceo. Una musica cristallina sale dalle cucine: i fratelli Rubetti creano una melodia sfregando dei bicchieri, uno dei direttori d’orchestra si unisce a loro suonandoli con dei cucchiai, qualcun altro soffia dentro alcune bottiglie; il Momento musicale di Schubert è angelico o magico: come in una commedia musicale, i cuochi rimestano il cibo nelle casseruole allo stesso ritmo, gli spettatori lo assecondano, Ricotin simula il gesto di bere la musica; nel retrocucina, sir Reginald schiaffeggia con i guanti il cameriere che si è lasciato sedurre da sua moglie e che non reagisce. La nave procede in un mare senza onde e rifiuta la sua storia. Da un lato tramonta il sole, dall’altro spunta la luna, è una meraviglia: «Sembra finto!» dice qualcuno. La conversazione prosegue fitta sul ponte; si parla di opera, il capitano ha la pelle d’oca quando sente Il barbiere di Siviglia, sir Reginald nomina le stelle e indica la loro posizione, Andromeda e Orione, scoperta da soltanto cinquant’anni, più lontana la Cauda Pavonis, la Coda del Pavone, a volte blu argento, a volte verde smeraldo, adesso di un arancione brillante. Poi il direttore del coro ricorda Edmea: al di là del mito della grande cantante, dice, era una bambina molto sensibile e sola. Ildebranda, sempre altezzosa e strabica e adesso attonita, scende i pochi scalini del ponte, mentre le fanno dei complimenti: «Che apparizione! Da una parte il freddo della luna, dall’altra la vampa del sole, bellissima! E tra il chiarore e la tenebra, il fuoco e il gelo, ci siete voi Ildebranda!».
«Eppure» dice Orlando «io dovrò scrivere anche di te, come di quello là, per esempio, quel ciccione che mi saluta, chi l’ha mai visto prima… è un po’ buffo il mio mestiere!» Un pianoforte suona nella notte; la sagoma di Dorotea, il tenero bagliore della sua giovinezza, il suo viso di perla, il più bello sulla nave, appaiono nell’alone della luna, scompaiono. La nave viaggia nella notte oceanica, incastonata in un firmamento di stelle dipinte. * Conosciamo i personaggi di questo viaggio e il suo scopo: una piccola società di raffinati, sicuri del loro valore – dato sia dalle loro virtù che dalle loro passioni artistiche –, si ritrova riunita a bordo di una nave che ostenta il suo nome in vernice di Gloria, in omaggio alla gloria defunta. È una storia? In ogni caso è un evento insolito che soltanto il giornalismo, la fotografia e il cinema, ognuno a suo modo, possono trasformare in una storia eccezionale. Quello che conta, in modo invisibile e insignificante, sono gli incontri occasionali e inaspettati che il viaggio comporta, già inseriti nella pellicola in bianco e nero, in cui si incrociano persone di ogni tipo. Che cosa torna da un passato muto e senza parole (il bianco e nero striato) di cui si evoca il presente (il suono e il colore levigati)? Nel film muto girato sul molo, alla partenza, grandi e piccoli, dalla più banale quotidianità, si divertono a posare davanti a un oggetto di cui non sanno molto, ma di cui avvertono il potere di immortalare in quella che si potrebbe definire una «testimonianza» – opposta a una gloria i cui contorni sembrano confusi –, un’immortalità di tutti i giorni, in un certo senso. Gli atteggiamenti degli altri, di coloro che credono nel loro valore, sono più complessi: prigionieri del lutto che sono obbligati a mostrare, non sembrano mai divertiti o stupiti da nulla, men che meno dagli strumenti che garantiscono la riproduzione tecnica di questa gloria sulla quale si fonda la loro sicurezza, se non quando registrano le loro qualità e ne colgono «l’aura». Anche l’atteggiamento che assumono ogni volta, più riservato o più emancipato, come se fosse dovuto, disegna i contorni di una società di snob o di parvenu la cui affermazione individuale o corale dipende da quello che hanno in comune e che li riunisce nella quotidianità consueta del loro mestiere. Gli incontri occasionali tra le differenti classi sociali sono determinati dalla classe più importante, che impone i suoi desideri, mentre gli altri fanno presenza. Gli scambi sono riservati a chi se ne concede la libertà: così lady Violet è la sola che sappia vivere la sua ninfomania come uno spazio indistinto di libertà, certo compulsiva e schizoide, ma almeno esistente – e la bella battuta nel senso di «facciamola breve», rivolta a un ufficiale che cerca di sedurla e alla sua retorica balorda, inserisce la possibilità di un divenire in qualcosa che sembra immutabile. Altri, pure confinati in compulsive conversazioni da salotto, per ammazzare il tempo, hanno soltanto storie accessorie, appena turbate da brividi insperati, come l’entrata del gabbiano, la visita alle caldaie, la scoperta del rinoceronte, la puzza, il bagno dell’animale sul ponte, in seguito l’arrivo dei serbi. Altri ancora hanno la vita inaccessibile degli eletti o, se si preferisce, degli esclusi per cause superiori: è il caso dei plenipotenziari che compongono la corte che circonda e protegge il granduca. In questo gruppo non si muove una foglia se non viene prima deciso con esattezza, al fine di garantire al granduca, inespressivo e senza età, di restare intoccabile e invisibile. Alla sua impotenza si oppone, per contrasto, il potere della cecità della principessa: leggerissima e veggente, più che cieca, vive nel rifiuto di vedere gli
altri e, al riparo dalle lenti d’ordinanza, realmente capace di sventare i complotti che, nonostante la vigilanza poliziesca, sono orchestrati contro i membri della sua famiglia. Nei suoi spostamenti, l’unico personaggio esterno che incontra è Orlando, ma quest’ultimo si lascia sfuggire l’occasione di un contatto che avrebbe potuto portare a rivelazioni o alla costruzione di un momento storico. Gli individui sono ripiegati ognuno nel proprio isolamento, soprattutto il conte di Bassano, perso in un mito – quello di Edmea – che gli permette di elaborare una mitologia personale: le sue attenzioni amorose sono vuote, nutrite di una retorica puramente narcisistica,5 del convincimento che è lui questa Edmea che cerca di imitare fino a travestirsi da lei e morire del suo mito, accecato come Narciso e inghiottito nell’immagine e nell’acqua che dimentica di abbandonare mentre la nave affonda. Infine Ildebranda, che non sa dove deve stare, in quale luogo che non sia traviato, perché quelli che le sono assegnati non le piacciono, ma si rassegna, nel timore di fare troppo o troppo poco, figlia di un’eredità che la svilisce e madre di una figlia che la infastidisce, incapace di dichiarare i suoi amori, isolata nelle sue paure, paure vocali e paure di gioielli rubati – che le venga rubato il gioiello che è la sua voce –, è assorbita dall’odio frustrato per Edmea, e le sue lacrime, al momento della dispersione delle ceneri, sono lacrime di rabbia.6 Gli altri artisti, prigionieri dei riti ripetuti delle conversazioni e dei gesti compiaciuti, ricordano insaziabilmente il «loro» passato della morta, glorioso o meno, per valorizzare un presente che è solo il riflesso scialbo di una vita vissuta altrove e in un altro tempo da colei che li mortifica attraverso questa cerimonia, e il cui destino, e soltanto questo, è inserito nella piccola e indiscutibile immortalità garantita dal fonografo. Come dice Fellini: I personaggi delle fotografie dell’epoca, forse per il fatto di non esserci più, hanno un tipo di seduzione, di malia, caratteristica. Come ritrovare e riproporre quell’immobilità, quell’impalpabile, indefinibile essenza che dà loro quella caratteristica in definitiva mortuaria, da epigrafe, da medaglione cimiteriale […], mi è sembrato che un po’ di questa lontananza potessero suggerirla al film degli attori che non fossero molto noti e fossero stranieri […], che il volto di qualcuno che non conosci, che non parla la tua lingua, che ha un’altra storia, un’altra educazione, potesse colmare in parte l’esigenza di disporre di facce che venissero da un altro tempo.7
Soltanto Orlando, in qualità di narratore, se la cava sottraendosi di continuo alla storia che racconta; alla fine smette i suoi panni, come ci si laverebbe le mani di qualcosa di cui non si vuole portare la colpa, e l’ultima scena, come un’allegoria animalesca, lo mostra con il rinoceronte in una scialuppa che costeggia un orizzonte il quale fa dell’improbabile l’unico capitano a bordo.8 Fino ai limiti del mondo raffigurato dal naufragio, Orlando ha descritto le linee intrecciate dei percorsi e dei destini di chi credeva di avere una storia e che, in realtà, era soltanto capace di fare delle storie. Gli altri occupanti della nave, i domestici, i cuochi, l’equipaggio, seguendo l’esempio di Orlando, hanno soltanto rapporti casuali con il resto del gruppo. Viene raccontata un’ennesima storia del frivolo, simile a quella che animava La dolce vita, 8 ½ o Satyricon, e che s’insinuava in alcuni episodi di Amarcord; via Veneto, i Grand Hotel, le numerose navi di Satyricon fino al transatlantico Rex, i cieli, i mari e gli oceani, veri e finti, tutto è imbarcato in questo Gloria N. finale. Ci sono, tuttavia, alcune differenze, perché nei film precedenti l’immagine si proiettava verso un vuoto inafferrabile che traspariva come un divenire possibile, mentre in E la nave va l’immagine, quella di Edmea impressa sulla pellicola, non è altro che il vuoto lasciato dalla disfatta e dalla morte di un tempo divenuto icona e storia imposta. L’imbarco ricorda la deriva definitiva di una fulgida Belle Époque – che include l’epoca felliniana – di cui non si è smesso di costruire ex novo l’immagine bella che ha preso il posto
della cultura, dalla Bella Elena alla Bella Otero. Modellandola come un semplice esterno, Fellini si è dimenticato di ripercorrere le sue storie di guerra e di appropriazioni imperialiste, così come le prove, trafugate e occultate, del suo potere devastante. La frivolezza, quindi, le sue maniacalità, e la nave, con i suoi piani divisi per classi, rivelano l’organizzazione compatta di un ordine che, sebbene antico, è costantemente rinnovato. La storia, dunque, cambia rotta: al di là della celebrazione di un rito funebre, è la vera storia di un essere Titanic inserita tra le fatalità che la informano, ne guidano la strada e gli snodi e oltrepassano la storia, ancora troppo italiana, dei film precedenti: i ruoli principali affidati ad attori non italiani, la sensibilità misteriosa di lingue che si intrecciano e si compongono reciprocamente, l’italiano che si mescola al tedesco, all’ungherese, in giravolte e avvolgimenti linguistici dalle strane sonorità, ricordano la fatalità delle Alleanze e degli Assi già inscritti o pronti a inscriversi in una Storia la cui vicinanza non è nemmeno più rinviata, tanto esplicitamente è dichiarata. In tal senso, E la nave va non forza la Storia, ma la assorbe e la trascrive nel suo racconto che inizia nel 1914, quando l’attentato di Sarajevo è già avvenuto e aspetta soltanto gli altari sui quali bruciare i suoi poveri morti e consumare i suoi falsi doni. Ultimi palpiti di un mondo in cui l’idea di felicità e di dolcezza poteva ancora avere un senso? Ma quale? Il frivolo, che diventa l’essenza stessa del film, come era il derisorio per Amarcord, è capace soltanto di capricci, di variazioni di effetti, come una musica che ricopre i drammi, nascondendoli, come la superficie liscia dei mari dissimula l’ampiezza dei loro abissi, come il quotidiano ricopre infine ogni nostro più piccolo gesto, reso immediatamente incomprensibile. Anche il tema del rito funebre – la sua esteriorità e la sua messa in scena – nasconde, pur lasciandoli trasparire, i suoi tratti essenziali tramite il fermentare capriccioso che anima le compulsioni stereotipate di tutti e che l’isolamento del viaggio non fa che accrescere. Piccole, misere passioni dei grandi: dalla ninfomania coltivata con cura, formale e domestica,9 alla pedofilia dei vecchi signori con scatole di cioccolatini per le bambine, all’omosessualità latente e diffusa dei marinaretti e dei barman, si svela tutto un mondo di rapporti ancillari, che l’arrivo dei rifugiati serbi confermerà; con un principe di sangue che risponde «Pum, pum, pum», quando gli chiedono il suo parere sulla situazione internazionale, intendendo che sono tutti seduti sul cratere di un vulcano; fino ai ricordi, infine, di spiriti defunti, nella speranza per ognuno di rivitalizzare la propria morta vita. Morte di un’epoca che va, tuttavia, di pari passo con la nascita di un’altra diversa, scandita dalla tecnica, e nella quale il cinema può concentrare la descrizione dei capricci in un breve lasso di tempo: la scena delle foto sul ponte, in un momento di bonaccia tra mare e stelle, quando lady Violet si lascia fotografare con sir Reginald, proietta in parallelo la storia del marinaio che è riuscita a sedurre. Ma il capriccio maggiore resta la schermaglia dei cantanti nel locale caldaie, dopo che i fuochisti hanno chiesto di ascoltare Ildebranda. La richiesta può sembrare inopportuna e, se ci si attiene al piano psicologico, Ildebranda si lascia ingannare, impacciata dalle sue paure, mentre gli altri non esitano a rubarle la scena, la voce. Approfittando dell’immensa cassa di risonanza, ma soprattutto della sua faccia tosta e della sua vanità, il tenore Fuciletto si lancia in acuti altissimi, seguito dall’altro tenore, Lepori, che non vuole essere da meno e intona un’aria della Carmen: invece di cominciare da un’aria, ne cantano soltanto il finale, laddove lo sforzo, come in un orgasmo, dovrebbe essere al suo apice. Inoltre emettono note molto alte e lo spirito di emulazione cresce; i due contralto, anche loro, non
volendo essere prese alla sprovvista, si gettano in questo parossismo vocale. Ildebranda, infine, dopo aver rivolto un’occhiata da vipera al suo segretario, si abbandona nell’aria di «Amami Alfredo» della Traviata, ma l’insopportabile Fuciletto le ruba lo slancio con «La donna è mobile!» da Rigoletto, poi ripresa da tutti, compresa Ildebranda sul finale; questa pantomima termina su «… e di pensier!», mentre invece non un solo pensiero attraversa queste menti. Gli aspetti psicologici che caratterizzano la scena occupano tuttavia soltanto un secondo piano rispetto a quello che Fellini sta davvero filmando: l’oscenità senza ritegno degli organi lanciati nella grande abbuffata della musica, a bocca aperta, con dentature divora-note più o meno brillanti, i movimenti e le masse muscolari degli organi incantatori delle lingue e delle ugole in pieno orgasmo secondo il ritmo imposto dal rumore delle caldaie, tutto un tessuto corale alla maniera di Della Robbia per adulti senza innocenza, una pavana per gli sguardi e gli applausi. La musica e il canto, insomma, come su un ring. * Nulla scuote questa Arcadia navale, poiché essa è, in un certo senso, indifferente a quello che non le appartiene direttamente, che non viene e non va verso di lei, cullata, in un’aria svagata da operetta, dalle conversazioni e dai giochi che servono a passare il tempo. Anche l’arrivo improvviso, di notte, dei rifugiati serbi non disturba le classificazioni e le delimitazioni che regolano il suo ordine, e la nave non fa altro che riciclarle e riconfermarle. Dopo un apparente sbalordimento che permette agli uni e agli altri di abbandonarsi alle paure abituali nei riguardi di ciò che è estraneo, la fiducia nella parola e nelle azioni del capitano prevale e tutto è disposto in modo che questo popolino sfuggito al nulla non disturbi né si confonda con le classi superiori. Ora, i confini di questo spazio erano già inseriti nella topografia stessa della nave, nella sua suddivisione tra caldaie, cucine, bar, ristoranti, prima e seconda classe, i cui occupanti non s’incontravano mai, se non, timidamente, sui ponti. Si tratta di provvedere alla necessità di riorganizzare la capacità di accoglienza del Gloria N. e non della volontà di farlo: i rifugiati vengono dissetati, auscultati, controllati nel loro stato di salute generale; sono pastori, contadini, nomadi, zingari, c’è anche qualche studente, forse ingiustamente perseguitato dalla polizia austriaca. La prima parte dell’incontro gioca su questa confusione impraticabile, con gli uni. i serbi, si muovono senza timore, e senza timore posano lo sguardo sui ricchi a tavola, mentre questi ultimi hanno paura che gli si rubi il cibo con gli occhi e, dunque, un tenore di vita al quale la loro colpa si rassegna. Ma la curiosità proveniente dall’esterno contamina l’interno: l’accenno dell’intenzione di venirne fuori si delinea grazie alla volontà del basso Ziloev, che dice di riconoscersi in quel popolo, e alla volontà libertina di lady Violet, certo mossa da un impulso che non confonde con il cuore, il desiderio di tastare nuovi muscoli. Il coacervo della bontà, recitata come fosse una commedia musicale, dura appena un istante: la spartizione si fa sempre più netta e prende persino la forma di una resistenza nei confronti del gruppo di rifugiati di cui si presume che, avendo attraversato la Tessaglia e l’Epiro, non resteranno relegati a poppa, e che vivano in un’unità forse apparente, ma la cui realtà rispetto agli scopi è, di suo, incontestabile. Viene così creata ex novo una quarta classe a cielo aperto, riparata da qualche lembo di lenzuolo, sul quale dominano le terrazze e i ponti di prima classe. A questo punto il film pone l’accento su differenze il cui interesse non è soltanto storico o
sociale, ma artisticamente «politico»: davanti all’incapacità di riunirsi della classe superiore – attraverso la messa in scena dei suoi fantasmi –, se non per descrivere la vita e la morte di uno spettro, ecco che i rifugiati si uniscono in un corpo unico, con un unico spirito sociale. Dopotutto, questa piccola moltitudine di simili ha bisogno soltanto delle poche note di uno strumento per mettere in scena il proprio sapere e i propri piaceri, e tutti si mescolano con naturalezza in una danza che confonde in uno stesso impulso individui che non si differenziano per età e funzioni. Questa forza giubilatoria, dionisiaca, si propaga tra i passeggeri di prima classe, colpiti da una specie di follia e colti dal desiderio di uno stare insieme, di una partecipazione comune a un tripudio puramente pagano, che ricorda quello di alcune scene di Satyricon o di Amarcord. La rigida produttrice del comico Ricotin tenta qualche passo, l’immutabile e frigida Ildebranda si lascia andare, nei vibrati delle sue asprezze, ai movimenti precisi di un paso doble teso a provocare il direttore d’orchestra, che lei abbraccia con i suoi sguardi, in una vera e propria orgia dei sensi. Fellini non resiste al piacere di deridere un Occidente civilizzato che vuole imporre il proprio sapere come unica chiave di lettura della vita: i due sovrintendenti dell’Opera di Vienna pretendono di insegnare a danzare ai rifugiati serbi, spiegando loro la filologia o l’antropologia o la sociologia di quello che fanno, cioè «che il potere di questa danza è di fare amicizia con gli spiriti naturali», fino al momento in cui perdono la testa, impotenti. Il contagio che proviene dal gruppo è generale e accende tutti, ognuno libera e brucia le poche pulsioni vitali che gli restano e gli permettono di sottrarsi alle abitudini di una vita ordinata, proiettandosi in un evento eccezionale indimenticabile, che si vorrebbe senza fine per il semplice fatto che si è guadagnato un’esistenza. Un’infinità di dettagli filmati traduce la volontà di andare fino in fondo a qualcosa che, pochi istanti prima, sembrava impossibile.10 Solo la luminosa Dorotea, nel precipitare degli eventi, conserva in cuor suo la coscienza viva di un desiderio senza nome maturato nel corso di tutta la vita e del viaggio che ormai porta il nome ed è incarnato nella figura di un giovane serbo: nel cogliere immediatamente la sua immagine, lui è per lei una possibilità autentica di abbandono amoroso, a prescindere da ogni altra motivazione, anche se si collega alla fuga da una società asfissiante, e dal sentimento che prova per lui. E nella rappresentazione del naufragio, lei e Myrko saranno gli unici emblemi di un divenire. La festa involontaria avrà tentato di dissolvere nei suoi ritmi e nei suoi canti i capricci e le banalità che l’hanno preceduta: quando finisce, nella notte, il ritorno all’ordine si rivela impossibile, il dramma che si annuncia va ben oltre l’arrivo imprevisto dei rifugiati e il pensiero di doversi occupare di loro. La tragedia si innesca quando la pesante macchina del potere e della guerra – rappresentata dal disegno grottesco e ironico di una grossa e pesante nave, scura tempesta o nuvola grigia e nera che sputa le sue ceneri nell’infinito dell’orizzonte – s’intromette nell’esistenza fittizia di questa nave; strana nave da guerra, strana corazzata austroungarica con le scritte in cirillico, come un Potëmkin reinventato, l’omaggio felliniano. La corazzata ammiraglia della flotta austriaca ordina che le vengano consegnati i rifugiati tra i quali si nasconderebbero alcuni pericolosi anarchici, ma il capitano della nave italiana rifiuta di obbedire all’ingiunzione, il che conferma i discorsi fatti in precedenza dal primo ministro del principe: «Come sempre, non ci si può fidare degli italiani!». Il granduca di Herzog riesce a ottenere un accordo e l’ammiraglio della corazzata autorizza la prosecuzione del viaggio fino all’isola d’Erimo dove saranno disperse le ceneri di Edmea. E infine si arriva a destinazione. La scena riprende il tema corale dell’inizio, quando la nave scioglieva gli ormeggi, ma ora è più
raccolta: intorno alle ceneri, tutti sono vestiti a lutto e mostrano espressioni di circostanza. Prima della lettura di un salmo di Davide, in un angolo, sir Reginald recita un ultimo omaggio: Una volta mi disse così: «Voi parlate sempre della mia voce, ma a volte ho quasi la certezza che in realtà non sia mia. Io sono un’ugola, un diaframma, un respiro, non so la voce da dove venga. Io sono solamente uno strumento, una semplice ragazza, che ha perfino paura di questa voce, che per tutta la vita mi ha obbligato a fare ciò che lei voleva».
Il vento compie la sua opera di dispersione: la voce scolpita di Edmea risplende in una purezza che annulla il patetismo della scena, anche se la cinepresa riprende attentamente le diverse intensità emotive. Un fischio segna la fine della cerimonia: i marinai lasciano il ponte, il conte primo ministro è «civilmente» arrestato dal capo della polizia per ordine della principessa, tutti si separano, commossi. In fondo, che cosa se ne va, per ognuno, insieme alle ceneri di Edmea? Cosa li sta abbandonando? Cosa resterà del film stesso? Spettano a Orlando i commenti di un finale che rifiuta di ridurre gli esiti possibili del racconto a un’unica soluzione; al contrario, li confonde tutti in una coreografia che funziona come una «clôture» rispetto alla ouverture dell’inizio. Se la storia non ha testa, perché dovrebbe avere coda? Perché non potrebbe avere finali diversi, dato che è una storia cinematografica che non punta affatto a riflettere una realtà o una verità che non hanno, dal punto di vista di Orlando, nessun’altra utilità oltre quella di produrre storie che il cameraman continua a filmare, mentre tutto crolla? Se c’è un finale, al cinema non può inserirsi nello scrupolo delle certezze, persino esitanti, che gli storici s’impongono.11 Un finale c’è di certo, ed è tragico, a parte il fatto che il film «finisce bene», nella forma di un happy ending ripetuto all’infinito e basato su un’ipotesi – non consegnare i rifugiati – che sarà, nei fatti, smentita: non può essere che recitata e cantata. Il Gloria N. capitola e cede i suoi rifugiati, manda la corte principesca a bordo di un’altra scialuppa in direzione della corazzata – il cui aspetto è sempre più cupo, con il fumo che si diffonde come lebbra – e Dorotea sposa il destino del suo amato. Una bomba lanciata da una delle scialuppe da uno studente serbo, probabilmente Myrko, fa esplodere la corazzata che s’inabissa trascinando con sé il Gloria N. Eppure si salvano tutti, grazie a Orlando che è l’ideatore di tutti gli scioglimenti di questa storia, o ne ha conoscenza, e di conseguenza si prepara ad affrontare il naufragio già dalla fine della cerimonia funebre. Il suo commento è l’inventario delle molteplici ipotesi immaginabili come finali: Certo che a questo punto, sarebbe stato bello se la commozione avesse toccato anche il cuore degli austriaci… e la loro nave da guerra si fosse allontanata inviandoci un commosso saluto. Ma non è stato così. Rivolevano i serbi invece, eccome li volevano! Sarebbe stato ancora più bello se noi davanti a tanta prepotenza avessimo detto: «No! Noi non ve li diamo!» […]. È quasi impossibile ricostruire l’ordine esatto degli avvenimenti, pare che tutto sia stato originato dal gesto sconsiderato del giovane terrorista serbo che ha lanciato una bomba contro la fiancata della corazzata. Ma è possibile che una così approssimativa e rozza bomba a mano abbia potuto provocare una catastrofe storica? Siamo proprio sicuri che sia stato il ragazzo a lanciare la bomba? Se stava vivendo una sua storia d’amore, perché correva verso la distruzione? Sembra di sì. Pare che la bomba, lanciata all’interno della corazzata, sia esplosa proprio sotto la culata di un cannone… provocandone automaticamente il fuoco. Altri dicono che automaticamente – capite! – lo sparo del primo cannone abbia innescato il fuoco di tutta la batteria dell’enorme corazzata. Altri ancora sostengono che non c’è stato né terrorista serbo né bomba, ma che si sia trattato di una premeditata volontà, da parte della corazzata, di provocare l’incidente internazionale. C’è poi una quarta versione, che non ho nemmeno il coraggio di riferirvi… sembra che… Ancora due parole prima di concludere: volevo dirvi che molte delle persone che avete conosciuto si sono salvate. Un idrovolante ha ricuperato i superstiti della scialuppa Aurora, la scialuppa Stella del Nord è miracolosamente arrivata ad Ancona… Purtroppo non ho più saputo niente degli altri…
Le immagini illustrano il suo commento, in altrettante tavole votive degli avvenimenti che sfuggono. Tuttavia, il contenuto del commento non riporta con esattezza ciò che accade nel
film, eccezion fatta per il naufragio delle due navi – tutto è sconvolto sul Gloria N. colpito, il salone messo a soqquadro, il pianoforte a coda, i divani, i tavoli, le piante e le sedie, tutto precipita, i bagagli galleggiano nei corridoi allagati – e per la visione delle scialuppe che si allontanano tra fumi e vapori. La scena clou di questo finale, che si svolge sul ponte dove non rimane quasi più nessuno e sul quale il cameraman continua a filmare, riunisce infine tutti i protagonisti nel coro di una sola voce e di una comune volontà, inventata – «No, no! Non ve li diamo!» –, che rimane un «giuramento» della finzione e dell’illusione. Finzione e illusione sono allora rivelate nella sola realtà assolutamente reale, quella della loro costruzione: la cinepresa del presente riprende le tecniche che sono servite a girare l’invenzione che è il film, una piattaforma immensa sulla quale c’è tutto, aste per microfoni, riflettori, valvole e molle di movimento, carrelli per le panoramiche, candelotti fumogeni, cavi, mixer audio, l’ondeggiamento di questo mare di carta argentata. Il passato che, avendo sfilato, si sfila dal presente, si chiude sull’ultima battuta di Orlando: «Ah! Per quanto mi riguarda, io ho una grande notizia da darvi: lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?» domanda, indicando l’animale steso a prua sulla sua scialuppa. Rema e se ne va. Il bianco e nero – la storia vera o quella finta? – è di nuovo presente, circondato dal mare argentato. * Più che a colori, sarà un film decolorato. I rossi, gli azzurri, i verdi perderanno l’aggressività della realtà per assumere la dolcezza della memoria, di certi ricordi. Sullo schermo avremo il risultato di quel processo di decantazione che, col trascorrere degli anni, si svolge nella nostra mente per cui le reminiscenze assumono una loro sbiadita solidità.12
Il finale, attraverso le scialuppe e le navi che non vogliono mollare, propone anche un’altra lettura. In effetti, il film osserva con tenerezza e umorismo cosa siano, non tanto l’opera italiana in sé, ma i suoi artisti professionisti di ogni epoca e, in questo caso specifico, del periodo tra il 1914 e il 1983,13 con l’esplosione di manie, di capricci, di altezzosità distanti. La parte affettata e derisoria di questo universo è ampiamente sottolineata in tutto il suo registro psichico e comportamentale, sia dal punto di vista degli artisti sia da quello dei produttori e degli ammiratori. Questa società vive ancora nei palpiti di immagini inquietanti e mostruose, tanto il melodramma tragico ha elaborato per lei un patetismo sociale – almeno nelle sue trame, nelle sue follie e nei suoi nazionalismi, in cui il presente, per avere un senso, si mascherava da ballo del passato. Divenuta confusa e paranoica, con una storia che non ha più senso, tale società non può ormai liberarsi di queste immagini se non attraverso la glorificazione dei suoi morti e l’intera gamma delle sue tecniche. Tuttavia, al di là degli orpelli stantii, resta la grandezza della musica, irriducibile ad altri materiali, implacabilmente vasta e colma di desiderio, la sua capacità di moltiplicazione, le unioni che opera attraverso la potenza delle sue coralità; è proprio questa immensità – con la quale è possibile far tutto – che Fellini vuole far sua: Devo confessare che in questi ultimi tempi ho conosciuto dei musicisti che faranno strada. Un certo Giuseppe Verdi, per esempio. E anche quel Rossini non è male. Čajkovskij, poi, ha un certo talentaccio. […] È una vergogna che io, venuto dalla Romagna, cioè da una terra tra le capitali della lirica, abbia cominciato ad apprezzare l’opera e a entusiasmarmi per certi geni musicali soltanto negli ultimi tempi. Ma sto cercando di riparare.14
E la nave va è concepito come un’opera, come La traviata, come Carmen: una ouverture duplicata dall’immagine, una «storia» senza storia, ma con sviluppi casuali, un finale in crescendo prima dell’abisso, un finale che cresce nelle sue virtualità. Non può esservi nulla di tragico, malgrado il motivo del viaggio; la gran pompa musicale di Verdi, il cui libretto è stato rielaborato da Andrea Zanzotto, giustifica al contempo la postura scenica immobile e fissa alcuni cori dell’ouverture e del finale e permette di far conversare confusamente Čajkovskij, Johann Strauss o lo stesso Verdi, opera e operetta a braccetto, i serbi, che nulla riesce a fermare, e che assicurano la coreografia interna, così come la serie enciclopedica delle danze folkloriche nella Traviata riempie gli intermezzi. Al tempo stesso, questo cinema rimanda agli elementi che gli appartengono e si rivede in essi: le evoluzioni dei cuochi e degli inservienti della nave, le manovre dell’equipaggio della corazzata austroungarica sembrano imitare i movimenti del musical hollywoodiano. Il direttore di canto lo ricorda agli artisti: si deve soltanto provare, provare l’Oratorio in memoria del giorno precedente, dato che, al di là del talento personale, si tratta in primo luogo di esprimere la propria gratitudine nei confronti dei grandi artisti tanto amati. Come nel finale di 8 ½, E la nave va non può o non sa concludersi se non nel momento in cui tutti i protagonisti trovano una soluzione in cui riconoscersi e riunirsi. Questo finale corrisponde al canto del coro la cui rivendicazione di una resistenza, sia pure fittizia, si rivolge non all’evento per come è stato – i rifugiati serbi consegnati al loro nemico – ma alla Storia per quello che avrebbe potuto essere. La finzione che s’impone è quella dell’opera italiana, in quanto grande momento di un’epopea dimenticata che risorge nell’affresco di questo ricordo. Il ricordo di Edmea determina così un altro obiettivo simulato: il 1914 non rimanda più semplicemente all’epilogo di una Belle Époque della Storia e della cultura europee che finirà col lacerare i suoi velluti, le sue sete e i suoi valzer nello strazio della Prima guerra mondiale, che ritroviamo tale e quale in tutto ciò che viene dopo, nelle guerre serbocroate della fine del XX secolo, le quali testimoniano di fatto che l’Occidente ha vissuto questo periodo confondendo le soluzioni che gli si potevano offrire. I segni della guerra con cui inizia il film designano, indirettamente, le premesse di una radicalizzazione delle politiche interne che, in Italia, porterà al fascismo; ma non è in questa direzione che si proietterà il film. Il passato, più composito, verso il quale guarda è quello, più lontano, del Risorgimento, le cui ambizioni e i cui ideali periscono, simbolicamente, con questa guerra. Sulla nave sono ancora presenti i temi della Storia che hanno portato all’unità d’Italia, e si capisce meglio, in quest’ottica, l’internazionalismo mitteleuropeo del Gloria N., che nel ricordo della Belle Époque esclude, per esempio, i francesi, limitandosi a Vienna, a Londra e all’Italia. Allo stesso modo si capisce meglio il richiamo circostanziale alla Triplice Alleanza durante l’intervista tra Orlando e il granduca di Herzog, che inserisce il film in alcune ipotesi della Storia, alla quale Fellini, tuttavia, nel finale, nega ogni potenzialità dialettica: la storia – ma quale, quella vera o quella del film? – va come va, proprio come la nave. Il ricordo di Edmea determina l’unico punto ancora intatto di questo passato culturale elaborato durante il secolo che si è appena chiuso: morte del Risorgimento e morte, anche, di ciò che – al di là degli eroismi più o meno contestabili – ha espresso il suo animo più profondo, ovvero l’opera. È un caso che tutto cominci e finisca con La forza del destino di Verdi? Che l’ampia tessitura sonora del film prenda da lì la maggior parte delle sue melodie puramente liriche? La forza unificatrice di questa musica irrompe e scaturisce nel finale, ed è «un’altra»
storia d’Italia che fa irruzione, una storia raccontata attraverso un’arte che, ben più della povertà romanzesca italiana del XIX secolo, ha saputo conferire al suo popolo – indubbiamente con un andamento senza dubbio romantico che inglobava anche il romanzesco – non solo un valore o una grandezza, ma la capacità di riconoscersi nell’unità italiana, a ciascun italiano la possibilità di riconoscersi come unità di accenti, «… e di pensier!». In tal senso, l’onestà del capitano del Gloria N., che rifiuta di cedere alle pressioni di un nemico ereditario, austroungarico, indica una volontà politica che conserva i suoi valori; allo stesso modo, come Dorotea afferma una libertà di cuore e di volontà che non sa transigere con i conformismi ai quali sembra destinata e riesce a superare, come un’eroina garibaldina, i limiti di quello che le viene imposto.15 Infine, non è un caso se al momento della dispersione delle ceneri si leva l’aria di Aida, «O patria mia, mai più ti rivedrò», il cui canto viene a colmare il vuoto morboso della vicenda mortuaria, della morte, in un momento specifico di questa storia d’Italia. Ecco che cosa se n’è andato, per ognuno e per tutti, insieme alle ceneri, che cosa li ha lasciati, che cosa resta del film stesso, tra mari di seta grigioperla e notti scintillanti di stelle dipinte.
VI
GINGER E FRED: RIVISITARE IL CINEMA ATTRAVERSO UNO DEI SUOI MITI PIÙ FECONDI. ANCORA SULL’IMMAGINE E SULLA SUA RIPRODUZIONE: ANCORA SUL CINEMA CHE SI OCCUPA DI TELEVISIONE. I SISTEMI MEDIATICI: CONFUSIONE DI GENERI, GENERE DELLA CONFUSIONE. LA VITA AVREBBE POTUTO ESSERE UN SOGNO. SGUARDI SU VECCHIE COPPIE. L’ULTIMO RITORNO DI GIULIETTA MASINA. INTERVISTA: COME RITROVARE E RIUNIRE TUTTI GLI AMICI. CHE COSA SI DICONO? COSA FANNO? COSA SIGNIFICA RIVEDERSI? COSA SIGNIFICA INVECCHIARE? COME PROLUNGARE IL TEMPO? LA CONVERSAZIONE NEL CINEMA.
1952: l’anno – tra Luci del varietà e Lo sceicco bianco – è menzionato in Ginger e Fred, quando un aiuto regista chiede a Giulietta Masina, alias Amelia Bonetti, alias Ginger, appena arrivata al Manager Palace Hotel, alcune informazioni per presentarla. Lei mostra la locandina di uno spettacolo in cui si esibiva in compagnia di Marcello Mastroianni, alias Pippo Botticella, alias Alfred Lights detto Fred, un’imitazione di Ginger Rogers e Fred Astaire che all’epoca li aveva resi una coppia di artisti di varietà piuttosto famosa nell’ambiente, come suggerito più volte dalla testimonianza di vecchi amici. Fellini riprende una storia tenera e assorta, e soprattutto un racconto, seppure esile: due partner che hanno lavorato insieme e, senza avere il coraggio di ammetterlo, sono forse stati innamorati; la vita li ha poi separati, e una strana occasione – l’invito da parte di un canale televisivo a esibirsi nel vecchio numero, per una modesta somma di denaro – li riunisce in una giornata particolare. Il film inizia ancora una volta con un arrivo a Roma, trent’anni dopo, con un sogno in fondo agli occhi di Amelia che le sarebbe impossibile esprimere con precisione. Inizia quindi con un ritorno a quella stazione Termini di tutti i film che portano a Roma – e se si prende come punto di riferimento Luci del varietà è un ultimo omaggio a Giulietta Masina che si era trovata già sull’ultimo treno di questo primo film. Da questa soglia Fellini insiste sui segni che riferiscono la distanza scavata dal tempo: nel suo trascorrere ha rimodellato le cose – è un presente fatto di passato, di quello che è passato –, benché sia possibile riconoscersi in esso. Se il luogo è rimasto pressoché immutato, la violenza della transizione esplode nella sua forma più direttamente offensiva: la brutalità. Per Fellini, la possibilità di selezionare gli elementi che partecipano alla volgarità presente in ogni forma di commercio è ormai da escludere:1 ne forza appena il tratto, è come se si fossero reinsediati, se fossero riemersi da profondità, permeando tutto sotto forma di un’attualità di cui non si sa nulla, poiché fa mostra di una perenne reinvenzione di se stessa. Se Amelia scende dal treno con una speranza confusa – ignora la trama che si tesserà sotto i suoi occhi –, questa speranza comincia rapidamente a sgretolarsi davanti agli eventi. Al di là della calca di folla delle feste natalizie, c’è l’indifferenza apatica, forse antipatica, della ragazza che viene a cercarla, che inserisce i rapporti tra i personaggi in nuovi contesti relazionali sfuggenti: la cordialità, l’urbanità, un tempo preservate, sono scomparse. È come se questo tipo di comportamenti, inediti finora, a parte qualche accenno nella Città delle donne, non avesse avuto il tempo di costruirsi un passato, ma fosse stato prodotto di proposito al fine di
occultare, con il nome di modernizzazione – o di attualità –, la vacuità del suo impianto, del suo orizzonte politico e sociale.2 Tutto corre veloce, all’insegna di un’«efficacia» che impedisce che ci si lasci andare allo stupore e all’immaginazione – ci si trova senza cercarsi, nessuno si perde nella folla e la ragazza riesce a radunare in poco tempo le persone che stava cercando; la questione ha soltanto l’apparenza dell’umano, in un Natale dall’aspetto carnevalesco.3 La disumanizzazione provocata dalla monumentalità dell’orrore mercantile: una serie di inquadrature attacca l’opulenza lasciva delle offerte della macchina pubblicitaria in cui la volgarità esibisce i suoi trionfi. Il carattere contraddittorio delle offerte che s’incrociano è restituito nelle inquadrature che affiancano un muro con sopra un manifesto che reclamizza ROMA PULITA e i marciapiedi dove si accumulano piramidi di rifiuti e sportivi che fanno jogging; cartelloni pubblicitari evocano sodomie animalesche mentre sfilano spot pubblicitari in cui la donna regna nella sua eternità di oggetto sessuale. È tutto veloce, ma tutto ha il frazionamento ripetitivo e sordo di un tema di fondo scandito nella farandola di oggetti riproposti mille volte, dai cartelloni e dagli innumerevoli schermi a circuito chiuso. In realtà non si tratta più di Roma, e il ricordo della grande città è tanto più interessante quanto più viene abbandonato. Il luogo di «verità», in cui si corre a gran velocità per non uscirne più, è uno strano «altrove», nato da un’«utopia» dell’attualità, un altrove che ingoia il virtuale in una trasmutazione paranoica; e questo luogo, divenuto incontrollabile, può, lui soltanto, controllare tutto. È la «totalità» di un’altra città, miniaturizzata, trapiantata in moduli extraurbani nei quali gli edifici e il paesaggio mostrano la loro «modernità» attraverso costruzioni le cui forme rimandano a una fantascienza realizzata; sfidano definitivamente il Tempo – mortale e immortale –, proponendo perfino un firmamento di stelle seminato di fari, di lampeggianti, di riflettori che garantiscono al «voyeur-controllore» una visibilità implacabile: nuovi territori in cui «sentirsi» liberi.4 Questo scampolo di storia si svolge in un universo perfettamente chiuso e compiuto, solcato dalle navette che fanno la spola tra l’hotel e gli studi televisivi. Poco a poco, Amelia s’interessa a un mondo che conosceva soltanto dall’esterno, in modo parziale e frammentario, e che incontra per la prima volta nella sua realtà interna, in percorsi segmentati, chiusi su loro stessi e da cui lei non devia mai: l’autobus che la porta all’hotel, e all’hotel un altro autobus per gli studi televisivi. Ogni tappa rivela una scorta di sorprese: una ragazza giovane e avvenente che le regala dei fiori, un ammiraglio sordo e rimbambito, accompagnato da un’infermiera dall’aspetto materno e da una recluta della marina che lo aiuta a udire e a parlare, due tipi identici che sono sosia di Lucio Dalla. Brandelli di conversazione, accenni di colloqui nei quali viene chiesto ad Amelia se è sposata con Pippo, alias Fred, perché sarebbe meglio per il pubblico a cui piace questo genere di storie d’amore di «compagni d’arte e di vita». Cartelloni e spot pubblicitari sfilano durante il tragitto: è scomodato Dante per garantire la qualità degli orologi Beatrice, la donna e gli oggetti che dovrebbero interessarle sono quasi sempre associati ai sintomi di una voracità carnivora. L’hotel conferma questa disgregazione: vi si ritrova lo stesso pullulare sconnesso di persone che non hanno nulla a che vedere le une con le altre, e l’attenzione si concentra soltanto su una partita di calcio trasmessa in tv davanti a una nicchia in cui troneggia un busto imponente che ricorda quello di un dittatore. La televisione è ovunque e domina sui luoghi, sulle situazioni; nell’intimità della sua camera Amelia non può sottrarsi alla sua vivacità che la spinge a inevitabili esercizi di ginnastica facciale, già presenti in
Giulietta degli spiriti, e qui ripresi con derisione accresciuta. Il perno dell’azione resta la realizzazione di un programma speciale per la notte di Natale, il cui titolo scontato è Ed ecco a voi…, che vorrebbe raggruppare per un’esibizione «indimenticabile» ogni sorta di stranezza umana e sociale, come quelle esibite da alcuni circhi e in alcune fiere.5 La mostruosità fisica, che costituiva un tempo l’attrazione principale di questi spettacoli, si è trasformata in qualcosa che viene spacciato come più raffinato, come se la necessità di recuperare una forma mentale ordinaria fosse in grado di giustificare un modo di pensare e una realtà avvicinabili per il più comune dei mortali, l’embrione, già all’epoca, dei reality show. Le esibizioni non presentano degli imitatori – che possiedono comunque l’intelligenza di un lavoro meditato –, ma dei sosia: Proust, Kafka, Clark Gable, la regina d’Inghilterra, Brigitte Bardot, Marlene Dietrich, Woody Allen che non ha il bagno in camera, Kojak, Toro Seduto e Lucio Dalla. Sono riuniti nella kermesse mostruosa di una connotazione culturale falsa, la cui acquisizione illusoria dipende da una riproduzione mimetica derisoria, clonata, come se intingere una madeleine in una tazza di tè comportasse la capacità di scrivere la Recherche. Una riorganizzazione di quella cultura di massa tipicamente televisiva, fin quasi dalla sua origine, è presente negli sketch costruiti per «trovare» o «indovinare» qualcosa – lo sketch della pasta nel lavandino, per esempio –, che viene reputato sempre essenziale e che lo diventa davvero, grazie alla sua presa emotiva. Ma la sfilata dei sosia rappresenta soltanto un assaggio, e quello che segue non fa che accumulare, disperatamente, la follia ordinaria della ripetizione e del numero senza logica: un gruppo folklorico le cui cantanti dai seni generosi accompagnano una vacca con diciotto mammelle, il conte di Saint-Germain che ostenta il catalogo degli ordini a cui sostiene di appartenere – ma a cui manca, come dice Pippo, il gran cordone ombelicale dell’ordine dello sfintere –, la coppia che registra le voci e i rumori dei morti, il boss mafioso vanitoso, accompagnato da carabinieri contenti di pavoneggiarsi, uscito di prigione per l’occasione e che ammette di essere emozionato per la presenza del fraticello capace di volare, un miliardario rapito a cui hanno tagliato un dito, una ragazza che racconta di far l’amore con un extraterrestre venuto da Sirio, il prete non spretato che ama una donna. La lista è infinita, come in un’enciclopedia di luoghi comuni che cerca di contenere l’inesauribile. La forza di Fellini sta nel presentare una critica violenta, diretta contro le imposizioni di un sistema che si vuole culturale nel senso più incerto del termine, e contro le motivazioni segrete degli individui, quali che siano il loro percorso e il loro destino, messi alla prova dalla macchina mediatica. Questa massa di persone e di elementi è filmata dal passaggio della macchina da presa, in un disordine di circostanza, puramente addizionale. L’assembramento confuso e caotico che accompagna le vicende prende man mano l’andamento di una corsa al massacro, come in una tauromachia o nei giochi di un circo romano, attraverso il coordinamento di diverse fasi tutte identiche, il cui unico crescendo è affidato alla ripetizione dei gesti fino all’istante decisivo della sua dimostrazione. Tra l’autobus, l’hotel e gli studi – l’alveare in cui sono affinate le ultime messe a punto dei numeri – questo finale e questa fine si condensano nelle loro formule. Si crea una vera e propria fabbrica, senz’altra preoccupazione se non quella di truccare e perfezionare un volto e un corpo per soddisfare le esigenze dello studio televisivo. Da questa massa anodina e ignorante si stacca la stupefacente «perdita di tempo» o «perdita di spazio» di Pippo-Fred-Mastroianni, con il suo tentativo, grandioso e patetico, di evadere da questo fagocitante meccanismo. Parla di prostata, racconta pessime barzellette, balla il tip tap
e si lancia, accompagnato da un pianista che ha ancora una forma umana, in una serie di imitazioni: la macchina da scrivere, la mitragliatrice, lo stile classico, quello moderno, il ritmo lento, quello rapido, quello comico-romantico, quello romantico-pastorale, quello comicopastoral-romantico, mentre la pubblicità mostra un nuovo tipo di accoppiamento fatto di natiche e mortadella o «uova da sbattere, sbattere, sbattere». Lui, più di Amelia, attraversa questa realtà cosciente che il tempo è passato ed è senza ritorno, che non ha mai concesso né dato quello che sembrava aver promesso; e la attraversa sfidando l’evento che gli viene garantito – lo spettacolo – e le attese generate in lui dal passato. Accetta di ballare per se stesso l’ultimo tip tap possibile, nell’incontro voluto da Amelia, ma al di fuori delle esigenze di un pubblico contro il quale comincia a imprecare. Grande interpretazione dell’attore giunto a qualcosa che era stato accennato come uno dei finali possibili della Dolce vita o di 8 ½, e soprattutto interpretazione di un attore per il quale, in questo film, vita, esperienza e recitazione, metamorfizzate in Parche, finiscono per confondere i loro fili in un’unica, medesima ironia. Anche Amelia è attraversata dalla tristezza che proietta il suo sguardo opaco su quello che resta del «tempo di una volta». Sì, il tempo è passato ed è passato anche male, e per qualsiasi presente il tempo non può che passare male o, se si vuole, andare male, dato che non c’è ritorno: è il senso della favola di Orfeo ed Euridice, di tutte le favole che vogliono somigliare a questa. Una volta lanciata, Amelia capisce l’impossibilità di sottrarsi a questa discesa negli inferi, la capisce prima di penetrare negli studi televisivi che confermeranno una sensazione divenuta certezza. Nel mondo esiste qualcosa che lei ormai non può più distinguere né afferrare, lo capisce nella bella scena in cui, da sola, nell’aria fresca della notte all’entrata dell’hotel, aspettando l’arrivo di Pippo, vede come vive e parla il transessuale, la banda dei sosia che finiranno per adescarlo. Sente la musica elettrica spaccare l’aria con le vibrazioni di una guerra che lei non conosce, mentre alcuni piccoli gruppi danzano ancora, assordati e incantati, in una solitudine condivisa, come in Amarcord, e davanti a lei sfilano gli uomini-moto-centauri di un mondo che, da Toby Dammit e Roma, affonda nella sua efferatezza necessaria e vitale. Ma, come Pippo, Amelia tiene alla sua vitalità, che non è una nostalgia, ma una rêverie che non ha nulla a che vedere né con il presente né con il passato. Questo tema torna all’astrazione che gli è propria, attraverso una domanda che appartiene al nostro tempo più segreto – al di fuori del suo significato ossessivo di presente o di passato: cosa diventano le cose una volta che le abbiamo lasciate? Da cosa sono afferrate? Cosa ci resta di esse? Ritrovare questo passato che si credeva felice, con la sua aura di occasioni favorevoli, permette allora di evitare l’inesattezza della domanda e risponde con l’emergere della verità delle cose per come sono avvenute. Il pragmatismo crudele di Fellini ha così la meglio su ogni determinismo narrativo: l’importante è il destino fortunato, al di là delle tristezze – poco importa che esso appartenga alla realtà o alla finzione, è la sua capacità di creazione che conta, più che la sua credibilità –, il destino che determina il combinarsi di sguardo e rinnovamento. Emerge due volte, sotto forma di duplice guasto elettrico, una prima volta all’hotel, e sembra non avere importanza, ma risuona a cose fatte come un avvertimento, poi una seconda volta nello studio televisivo, durante il numero dei due protagonisti ridiventati finalmente Ginger e Fred. Il guasto acquista allora una nuova importanza, non per la resa estetica dello spettacolo, già patetico di suo, ma perché l’oscurità libera una possibilità affettiva impossibile da ammettere quando gli occhi sono colmi delle certezze della ragione. È quando i nervi crollano e permettono un riposo insperato
all’irrequietezza delle nevrastenie che la debolezza s’impadronisce del gioco, e le confessioni si fanno favola di un quotidiano, passato o presente, che abbiamo nella pelle e che per noi è vita; allora le parole sono prese nell’eco del reale, come l’ammissione di Pippo-Fred che, nel buio, stende il suo fazzoletto per far sedere Amelia: Sarebbe una storia fantastica, pensa che titolo: si erano lasciati trent’anni prima, e si ritrovano per morire assieme! […] Ma lo sai che non sto niente male qui. È come nei sogni, lontano da tutto, un posto che non sai dove sia, come ci sei arrivato […]. Chissà cosa mi aveva preso quando mi hai lasciato… sindrome d’abbandono, di solitudine… […]. La nostra storia era finita, anche il nostro lavoro era finito, solo questi matti qui potevano ricordarsi di noi… siamo dei fantasmi che vengono dal buio e nel buio… se ne vanno. «La verità è che avevo una gran voglia di vederti…»
Così risponde lei. Nel ricordo di questa verità ogni miseria diventa nobiltà. Dal passato ricomposto in un presente il cui senso si riduce alla stretta letteralità emerge la possibilità di stare di nuovo insieme in un tempo del tutto fittizio o finto, in un luogo che impone le sue barriere, le sue definizioni, i suoi codici intransigenti. All’ultimo valzer di Casanova con la bambola corrisponde quest’ultima danza, i cui artifici non tentano di rimodellare i volti, di riprodurre a malapena degli atteggiamenti, ma di far rinascere un’intimità complice. Davanti alla perfezione vitrea dell’organizzazione televisiva che pretende di offrire uno spettacolo degno del Colosseo, davanti ai suoi ballerini di plastica e di metallo, asessuati, conquistatori di guerre interstellari e di futurologie, un tempo musicale diverso lascia fluttuare dolcemente la sua piccola melopea di vecchi Cheek to Cheek. Il movimento e i protagonisti sfuggono nell’incatenamentoincantamento che li riporta a un denominatore comune qualunque, nel fastidio visivo che l’oscurità ha reso visibile. La mostruosa banalità della tv, gli slogan che martellano un messaggio imperioso allo scopo di plasmare le nostre ossessioni, le leggi di un mercato che scivola pubblicamente tra le pieghe più anodine ma anche più segrete delle nostre vite sono temi che spiegano i rapporti complessi che Fellini ha intrattenuto con la televisione.6 Che si tratti dell’oggetto in sé e dei rapporti di domesticità ai quali sottopone gli individui, o dello strumento produttivo che riguarda allora il creatore e l’opera, ciò non può che portare a una lotta, a una resistenza. Due schieramenti si affrontano, la tv e il cinema: la dimostrazione crudele è che dal momento in cui si sottomette e accetta l’asservimento al quale lo riduce una televisione produttrice di film, il cinema non può che diventare «televisione». Con Ginger e Fred, nel 1985, Fellini giunge alla conclusione della riflessione sul giornalismo e sui media che ha pervaso l’intera sua opera, come risposta alla questione della sua presenza storica all’interno di questa lotta. Ne scaturisce per noi l’intuizione precisa e visionaria di quello che diventerà lo sviluppo monumentale del berlusconismo, creato dal vuoto spirituale che le tavole della legge mediatica e pubblicitaria hanno trasformato in pienezza, divorando in modo carnivoro le forze del virtuale, attraverso un rifiuto metodico, organizzato, di ogni spazio di silenzio, di riflessione, di deliberazione. All’interno di questo paesaggio imprigionato, che può sembrare nuovo – ma il cui carattere apparentemente inedito maschera la permanenza soggiacente, i mass media e la pubblicità che ne costituiscono soltanto l’ultima trasformazione, la materia molle e viscosa nella quale è caduta la cosa pubblica, la res publica –, risuona l’intimità della storia di Ginger e Fred, di Giulietta e di Marcello, di Masina e Mastroianni, del cinema di Fellini e del cinema in generale. La soluzione non può che concretizzarsi alla stazione Termini, la storia non può che terminare
nella ricomposizione assurda, ma necessaria, non tanto del mondo, quanto dei sentimenti che creano in noi la costante di un’anima, l’eterna complicità dell’uomo con le cose, con le sue creature. Sono lì entrambi grazie alla tv, chiedono loro l’autografo, cosa che ancora non gli era mai capitata, il mondo è cambiato, lui non ha abbastanza soldi, lei gliene dà un po’. Termina così Ginger e Fred: non ci lasceremo certo senza darci un bacio sulle guance. Lei si gira, spera di vederlo girarsi, ma no, è entrato in un bar, in un altro scorcio di vita, il treno lascia la stazione. Lei porta con sé la sua storia, ma la sua storia fluttua ancora una volta su di lei; per tutti, come ha detto Fred-Pippo: «Sarebbe una storia fantastica!». * Se Ginger e Fred affronta il rapporto conflittuale tra il cinema e la televisione, la problematica legata alla pratica del cinema è in parte ripresa in Intervista (1987). Riaffiora l’interrogativo che riguarda cosa significa «fare (un) film», posto dalla stampa e dalla critica per lo più in una prospettiva biografica sprovvista di ogni spunto analitico, e Fellini cerca di venirne a capo una volta per tutte. Da qui la necessità di riprendere alcuni fatti attraverso l’ennesima nuova riproposizione di un Fellini giovane, appena arrivato a Roma e alle prese con l’intervista commissionata da una rivista di cinema a una diva che sostiene di amare. Il punto di partenza è identico a quello di Roma, ma al battesimo nel girone materno della città si è sostituito il racconto infarcito di temi sparsi, impressioni, sensazioni, immagini catturate, percorsi che l’hanno portato a continuare nel cinema, condizioni pratiche e affettive di una determinazione alla quale ha dato spesso una parvenza involontaria. L’occasione per un chiarimento è data dall’intervento di una squadra di cineasti giapponesi che apparire a intervalli regolari per fare domande, secondo un procedimento già utilizzato nei Clowns e in Roma, quello di un giornalismo documentario. La risposta dell’autore individua tre piani distinti: prima di tutto la ricostruzione del tragitto del tram che portò l’apprendista giornalista a Cinecittà, vero punto di partenza del film, di un presente naufragato nel riproporre il ricordo che ne fa un passato; poi viene la rappresentazione di quello che accadde quel giorno, il ricreare le impressioni procurate dall’attività dei teatri di posa attraversati; infine, il presente dell’attività di Fellini a Cinecittà, il suo lavoro da capomastro che prepara un film il cui soggetto è America di Kafka, e più precisamente le riprese dei giornalieri per la scena in cui il protagonista, Karl, porta Brunelda al bordello. Questi sono i tre assi diacronici la cui elaborazione è basata sull’incrocio sincronico di linee trasversali che esprimono l’incoerenza apparente dell’approccio, della creazione e della riflessione, il disordine nel quale s’inventano e si modellano delle immagini, a questo stadio probabilmente ancora vaghe, ma che pure colpiscono un’immaginazione in attesa di rivelazioni. Fellini svela il volto privo di mistero di quei preparativi che devono creare qualcosa di segreto e di misterioso; e svela l’aspetto artigianale, artefatto e costruito degli elementi, aggiunti o sottratti alla realtà, che assumono l’apparenza di una nuova pelle perché nuovo è l’immaginario che sceglie e ricrea. E sopra questa struttura plana, come una pulsazione, la volontà precisa di raccontare il film che avrebbe sempre voluto fare senza averne avuto, in fin dei conti, la possibilità; e il ritorno, per frammenti sparsi, ai film girati, ai film amati. Con Intervista Fellini sembra riaprire un quaderno di appunti che sfoglia un’ultima volta
prima di richiuderlo. Si succedono dei provini, nella forza della loro inutilità reale più che nella loro inutilizzazione, alcune automobili passano nella tipica periferia romana fino alla grande città del cinema, riflettori issati su una gru illuminano le cime dei pini – c’erano già in Roma –, i pini, ornamento dolce e maestoso della città, come una musica di Ottorino Respighi. Tempo di inizio di un film, di notte, un film che dovrebbe iniziare, ci dice Fellini, con un sogno, «il classico sogno dove ci sembra di volare»; tempo di presentazione, di preparazione, tempo di disordine, tempo di viaggio errante alla ricerca del luogo Cinecittà. All’automobile, mezzo di ricerca dei luoghi, segue il tram di un tempo riportato in vita: si popola di volti, di sguardi scambiati carichi di simpatia, di incontri occasionali che si trasformano in segni felici. È la ricerca al contrario di un mondo per il quale siamo passati, di un’epoca che non c’è più e che è restituita dalla semplicità delle sue cose ordinarie, senza polemica: presente, passato, pura situazione di cinema – tra i suoi obiettivi c’è quello di raccontare fatti, spesso armoniosi, senza la volontà di trasmettere regole e ordini.7 Appena una sintesi dell’epoca degli anni quaranta per dire che non c’era soltanto il fascismo, la guerra, i quali potevano essere solo un elemento del paesaggio: il tram si ferma in piena campagna per via di un asino che blocca la strada, il gendarme scende, fa il saluto fascista alla brigata di operai agricoli, uomini e donne che, come in un quadretto di genere, tornano dai campi cantando Reginella campagnola. Altre canzoni del film più che un riferimento sono un gesto in direzione di una cultura che appartiene più a Ettore Petrolini che al fascismo. Il viaggio rivela l’avvicinarsi di un mondo magico che soltanto il cinema, appena si allontana dai neorealismi e dal cinema-verità, è in grado di ricostruire: cascate che non hanno nulla da invidiare a quelle del film Niagara, colline rocciose sulle quali, sopra ogni cresta, spuntano indiani a cavallo che inseguono e accerchiano i loro ostaggi, come nei film di John Ford, poi l’elefante, gli elefanti, l’Abissinia, infine Cinecittà. La sfilata dei paesaggi rivela una massa che porta questo nome: anch’essa appartiene a un tempo passato, a un tempo in cui l’immaginario poteva materializzarsi fondendosi in una geografia adeguata, dove quegli strani paesaggi erano immersi in un tempo senza tempo, immobile, pronto a essere filmato come tempo di cinema. Gli elementi si succedono in serie continue che si riproducono tra loro, si generano l’una dall’altra – da qui la sensazione di un movimento scatenato. Un grande stream of consciousness, un flusso di libere associazioni in cui ognuno prende a seconda delle voglie che ha quanto deve servire a costruire la scenografia. Questo esterno, un tempo vivo, è ora descritto soltanto per esprimere la chiusura necessaria di un presente che ha riunito questi elementi dispersi, perché Fellini non ha mai girato se non all’interno di uno studio chiuso, ben protetto dalla schiera di persone che lavorano con lui. Mentre spunta il giorno su Cinecittà, ci viene mostrato che cos’è diventato il luogo, un luogo per girare pubblicità di rossetti esplosivi o di macchine da scrivere, che muovono coreografie degne dei grandi musical hollywoodiani. La ricostituzione di riprese alla vecchia maniera, di atteggiamenti veementi e dimostrativi che oggi avrebbero una forma diversa, fa parte del percorso all’interno della città-fortezza; tutto diventa citazione e chiosa cinematografica. Le riprese di una scena in cui due sposi corrono uno verso l’altro, gli errori di interpretazione rimproverati dal regista che ne approfitta per toccare tutti, le grida e le urla, i terribili litigi che oppongono il regista ai produttori, le discussioni sui tagli ai costi delle riprese, ecco cos’è l’infinito nella quotidianità del lavoro. La sequenza della ripetizione continua, per tre
volte, di un «vattela a pija’ n’ter culo» da parte del pittore che, appollaiato sul suo ponteggio, ritocca lievemente il fruscio di nuvole di un grande cielo azzurro dalle variazioni tonali minime, sulla monotonia del quale spicca, funge magnificamente da transizione tra quello che si vede e che si sente «senza volerlo» e quello che, invece, partecipa allo svelamento dei meccanismi di un’arte del tormento che pesa sia sul ricordo che sul presente. L’autoreferenzialità felliniana s’insinua, come fosse lì per caso, nella leggerezza e nell’assenza di premeditazione apparente. Manifesta quando rende omaggio a Nino Rota, di cui vengono riprese nel film quasi tutte le musiche, più discreta quando si tratta del ricordo di scene minori: l’evocazione, per esempio, degli attori che scendevano nello Sceicco bianco la grande scala del palazzo del giornale e apparivano alla protagonista, inquadrati dal basso. La scena è ripresa al contrario, nel momento in cui viene srotolato un tappeto sotto i piedi della diva che si fa avanti con il suo piccolo gruppo di figuranti in costume. Quello che era un «episodio» significativo nel primo film è ormai divenuto episodico: spoglio della sua dimensione epica, può soltanto occultare una possibilità, tenue, di affabulazione referenziale. Anche se le cose sembrano essere pronte per le riprese di America, nulla procede. Bisogna parallelamente ricreare l’atmosfera dell’intervista con la diva, ricostruire quel passato di vita e di cinema, togliendogli ogni sembianza di ricostruzione per trasformarlo nel presente eterno della pellicola. Questa evidenza, o questa confusione, possibile ad alcune condizioni nel romanzo, diventa una realtà che si può costruire più agevolmente al cinema, perché il tempo del passato colto nel presente è circoscritto all’interno di un’economia dello stretto necessario. In Intervista, quest’ultima è il risultato di una poetica dell’abbandono, grazie al quale tutto può divenire racconto. Sono così evocati il lingam e lo yoni, il sesso maschile e quello femminile nella cultura indiana, e il frullo d’ali del passerotto ottenuto se l’avanti e indietro dell’atto sessuale si compie senza interruzione. L’introduzione all’intervista della diva e la scena stessa fanno eco all’intervista ad Anita Ekberg nell’hotel della Dolce vita, e il raffronto attesta che il vecchio manierismo non ha perduto nulla del suo potere incantatorio: dopo che, finita la doccia, la diva, avvolta in un accappatoio rosa, ingoia un uovo con convinzione tutta contadina, si può finalmente parlare di bellezza, di Greta Garbo che non rilascia mai interviste, di vocazione rivelata, affermare che senza vocazione non si fa niente, che la vita è un sacrificio compiuto in nome dell’arte e che non ci si libera mai dei personaggi che ci ossessionano. Il tema finale della sequenza, ispirato a quello molto «leopardiano» del naufragio, evoca il rischio delizioso di sprofondare nell’immensità, soavemente problematizzato e riassunto dai discorsi del truccatore della diva: «Tutto il segreto sta negli occhi […]. Tu devi senti’ che ce sprofonni dentro». Sfilano quadri, una grande odalisca con elefanti, sono mostrati trucchi, un’atmosfera da circo si mischia con l’altra preferita da Fellini, quella del teatro di varietà; iniziano abbozzi di provini che riprendono situazioni già approfondite in 8 ½, e anche nei giornalieri di Mastorna. La confusione di questo luogo in cui le cose sembrano chiare a chi le vive quotidianamente, l’atmosfera cupa di questo universo infernale in cui vengono creati paradisi artificiali ricordano le inquadrature di un film girato quasi di sfuggita, Bloc-notes di un regista. Fellini si dedicava gioiosamente alla ricostruzione di mondi popolati di morti viventi, di un passato senza tempo né luogo, appena pochi spazi in cui pullulava una vita larvale, in cui erravano fantasmi che la potenza dei riflettori rendeva ancora più esangui. Una poesia frammentaria e occulta raccoglie i suoi detriti nelle abrasioni della pellicola, foto mostrate da Nadia,8 la Vestale di questa città
divenuta spettrale, tomba di immagini girate e passate, come conferma la descrizione che lei ne fa ai giapponesi, mentre raccoglie la cicoria nei campi di Cinecittà: le case spuntano come funghi intorno a questi campi, non si può fare più nulla, girare nulla, anche il lago usato per I dieci comandamenti, per Ben-Hur o per le battaglie navali di Cleopatra è stato ormai prosciugato. In risposta a una delle domande fondamentali che non hanno mai smesso di fare a Fellini e che la troupe giapponese ripete, «Dove trova lei tutte quelle strane facce?», la scena che segue, in una lunga panoramica all’interno di un convoglio della metropolitana, cattura i volti di persone «strane», per lo più comuni, indicando così il rapporto con la contemporaneità e sottolineando il fatto che la «bellezza» in sé non saprebbe formulare una chiave interpretativa del reale. Ogni volto contiene il suo passato nel suo presente, forse anche il suo futuro – ma quest’ultimo interessa meno a chi cerca soprattutto di rendere conto dei momenti che passano –, e questo spiega il rifiuto di volti troppo conosciuti, da repertorio, perché il cinema deve proporre il rinnovamento dell’immagine in generale:9 l’aiuto regista cerca un volto per Brunelda, scatta alcune foto. Quanto al volto di Cinecittà, ci si arriva grazie al mezzo di trasporto più veloce, la metropolitana, in ricordo della scena di Roma in cui veniva trapassato il ventre della città. Altre grida e altri litigi provenienti dal passato. Un produttore milanese si lamenta per le richieste eccessive dei romani: con i soldi che ha messo in questa produzione, quella di un film in costume ambientato in India, avrebbe potuto comprarsi quattro palazzi e fare fortuna, ma con il cinema «mi diverto di più»; per un improvviso scrupolo di realtà finisce per chiedere se in India «è davvero così». Il regista urla disperato contro la diva che non vuole eseguire, per capriccio, gli ancheggiamenti che lui ritiene indispensabili per la riuscita della scena, gli elefanti di cartone non funzionano, lui abbandona il set urlando.10 Fellini descrive il cinema, i suoi diversi aspetti, ormai arcaici, inscindibili da ogni impresa creativa, per quanto pessima, senza nerbo o minore sia, e anche quando il suo obiettivo si rivela indelicatamente banale. Il tema fondante può essere riassunto in questi termini: quello che deve attirare, quando attira, può essere soltanto fonte di tormento. Al film che la produzione esige viene opposto il piacere dello spettacolo che l’artista ama, il suo soggetto: nel caso specifico una favola falsamente erotica, fintamente orientale, nata dal varietà, dall’avanspettacolo, una forma che non può essere integrata o riassorbita in nessun’altra, perché è già un sottoprodotto di metafore erotiche che portano a espressioni erotiche successive, nemmeno epurate, e della futura prepotenza pornografica. Gli interventi di Fellini scandiscono i passaggi tra le riprese di un tempo e quelle di oggi. Un allarme bomba sposta le riprese in un altro teatro di posa, quello attuale, dove si confezionano costumi, dove alcune donne vengono truccate per interpretare Brunelda; sulle scrivanie sono stese le locandine per il prossimo film, quello che si sta facendo, come in 8 ½. L’ufficio al completo è riunito, per selezionare e controllare la documentazione per i costumi, le foto dei possibili interpreti, nell’accozzaglia della pletora dei figuranti che si spintonano: ci sono quelli che vogliono essere almeno visti dal regista, quelli che non hanno mai lavorato con lui – malgrado la loro «continua evoluzione» –, quelli che sono immediatamente «felliniani», quelli che devono girare con lui per i motivi più strani. Un grande lenzuolo bianco e alcuni palloncini appaiono di colpo davanti alla finestra: Marcello-Snaporaz appare vestito da Mandrake; sta girando una pubblicità in mezzo a lenzuola che svolazzano. Fellini scende nel cortile per raggiungerlo, scambiano qualche frase sulla
situazione del film Intervista. Poi, in compagnia di Sergio Rubini, l’attore che interpreta il ruolo di Fellini da giovane, partono in macchina, portando con sé una pianta gigantesca. Lasciano Cinecittà con i suoi pini per il Grande raccordo anulare, senza che ci sia dato conoscere lo scopo di questa partenza precipitosa. In macchina inizia una conversazione sulla masturbazione, non senza metodo, sulle sigarette e sull’eventualità di smettere di fumare, a cui Marcello-Mandrake non pensa nemmeno per un istante. Le automobili e la cinepresa percorrono Roma attraverso la vecchia periferia di archi e acquedotti, superano i monumenti che costeggiano l’Appia antica e si perdono nella campagna alla ricerca di Villa Pandora. Ce le porta un prete in Vespa che riconosce Mastroianni. È la villafortezza di Anita Ekberg che vive ormai a Roma, protetta da cani feroci, leoni veri, dice Fellini. Dopo svariati controlli via citofono, la star apre e appare con indosso un immenso accappatoio, con i capelli avvolti in un asciugamano. «È stupenda! Sembra un gladiatore!» proclama Mastroianni. Grandi scene di nuovi incontri, Anita e Marcello non si rivedevano da ventisei anni, dal «loro» film, e lei cerca sul collo di Marcello i segni di eventuali lifting. L’équipe giapponese si stupisce: «In Giappone non esistono donne così!», «… è mitica» dice Fellini. «Sei sempre bellissima» mormora Marcello all’orecchio di Anita. Siamo in autunno, lei offre castagne arrostite e buon vino, si improvvisa una festa. I giapponesi propongono a Marcello una terapia per disintossicarsi dal fumo, lui si presta, ma senza alcun risultato. Preferisce giocare e, sempre travestito da Mandrake, come un mago trasforma un lenzuolo in schermo: «E ora, cari amici, con il vostro permesso, vorrei esibirmi in un piccolo giochetto per onorare la nostra amatissima ospite. O bacchetta di Mandrake, il mio ordine è immediato, fai tornare i bei tempi del passato…». Le figure, in ombre cinesi, di Anita e Marcello ballano strette, e poco a poco, in sovraimpressione, sfilano le scene del night club romano, poi della fontana di Trevi nella Dolce vita, si sentono le parole che ripetono la visione sublime di questa donna: «Ma chi sei tu? Sei una dea? La madre, l’oceano profondo, la casa? Sei Eva, la prima donna apparsa sulla terra…»; «Quante domande ti vorrei fare ancora Anita… per esempio… Che c’avresti un goccetto di grappa?» chiude la voce di Marcello-Mandrake, e lei lo manda a quel paese. Il film, che oscilla tra il presente di Villa Pandora e il presente di questo passato, prosegue in lunghi momenti di silenzio – né nostalgia né malinconia, ma emozione –, come un film muto, accompagnato da un pianoforte lontano che rimanda le note di Rota: nel silenzio una lacrima di Anita, un colpo di bacchetta magica, una nuvola di fumo e tutto rientra perfettamente nel presente, gli applausi, rivedere il passato è anche rivedere gli amici. La città si spegne nella notte dei grilli della campagna romana. Il ritorno a Cinecittà avviene, anch’esso, nella notte, stavolta una notte americana. La lavorazione, sempre parallela a Intervista, è quella di America. Maurizio, l’assistente di Fellini, spiega alla troupe giapponese che cos’è una prova cinematografica, per quali ragioni si sceglie un volto invece di un altro, che cosa voglia dire la fotogenia, dove sta il suo segreto. Fellini chiama Danilo Donati, il costumista. La musica riparte, un sassofono suona Stormy Weather, seguito da un charleston, Yes, Sir, That’s My Baby, poi Io cerco la Titina. Viene lentamente ricreato un disordine identico a quello del finale delle Tentazioni del dottor Antonio e dei Clowns. Le ragazze che fanno il provino per il ruolo di Brunelda danzano il charleston. Un uomo suggerisce che Anita sarebbe stata la migliore per il ruolo, ma «lui» non gliel’ha proposto. Diversi commenti si sostituiscono alle risposte di un’ipotetica intervista: è il film stesso, viene detto, che conduce in un’altra direzione, ci si rende conto che alcune scene, alcuni personaggi, finiscono con il non
appartenere più alla storia per ciò che diventa; sono state fatte anche molte ricerche per il personaggio di Karl, nelle scuole, nelle accademie, negli istituti religiosi, al conservatorio, Fellini voleva un volto molto delicato e spirituale, capace di esprimere anche la gioia di vivere – e la cinepresa si ferma allora su due ragazzi scelti per questo ruolo. Nadia, la Vestale, s’innervosisce, è stata convocata e non sopporta di dover aspettare. Le riprese dei provini ricominciano, sempre in presenza dei giapponesi: «Signor Fellini, ancora una domanda…», «Girerà in America, l’America di Kafka?», ma resta senza risposta. Il provino di Brunelda condotta al bordello prosegue all’esterno. Come nella scena del miracolo della Dolce vita, alcuni riflettori saltano a causa della pioggia, una voce evoca un film famoso, Lassù qualcuno mi ama, le torri dei riflettori ricordano il clima delle riprese, la costanza dei film, le notti artificiali, e il giorno artificiale come le notti. La pioggia diventa frastuono. Un telone montato su una pedana di legno fa da riparo per tutti: la troupe si mette sotto la tenda improvvisata e intanto vengono stesi dei teli di plastica per proteggere i riflettori. Mentre infuria la tempesta, nel rimorchio di un camion, la musica mescola il charleston e Stormy Weather. La troupe sotto la tenda parla di tutto, anche della pasta alla carbonara più o meno promessa, più o meno buona. Prima una panoramica orizzontale aveva svelato il paesaggio dei palazzi che circondano i luoghi delle riprese, ora le tenebre del temporale rivelano un paesaggio notturno, simile a una musica, punteggiato dalle poche finestre illuminate. È di nuovo notte – quale notte? Quella vera? Quella finta? –, il telo di plastica scintilla come una superficie strana e preziosa, i lampi fanno brillare grandi pozze d’acqua: è il temporale che si scatenava all’inizio dei Vitelloni, la stessa musica che invita a seguirla e ballare sulla scia dei Cheek to Cheek del cinema e del cinema di Fellini. Il silenzio si è impadronito di tutto, un silenzio immobile, nell’attesa di qualcosa che deve venire da altrove, come in un film di John Ford, girato però a Roma, un silenzio e un’attesa strettamente legati allo scaturire di un evento qualsiasi, che ricordano l’ammutolimento delle ultime scene della fontana di Trevi. «È l’alba. Credo che attaccheranno adesso.» Viene lanciata una palla infuocata. «Eccoli. Sono loro.» La lunga panoramica che segue mostra delle antenne televisive – tracce e linee, segmenti, geometrie, un disegno di Vespignani o una scena di Kurosawa. Quelli che scendono la collinetta dove li avevamo visti dal tram sono gli indiani di Ford. Le antenne si sono trasformate in lance e in armi da guerra, gli indiani accerchiano la tenda di plastica, all’interno viene organizzata la resistenza definitiva, una resistenza da film.11 Ci si spara addosso, reciprocamente, la musica di Rota impazza, un gran carosello, viene dato lo stop, era ancora una ripresa nella ripresa. Finisce tutto. Buon Natale a tutti, ci si lascia, ci si saluta, due cani restano lì. Un’ultima antenna trema nel cielo che torna sereno. Di nuovo all’interno di un teatro di posa: nell’oscurità, un occhio di bue traccia una linea e fissa un punto nello spazio a terra, come nel finale dei Clowns, ma con altri colori. Fellini chiude l’intervista: «Ecco, il film dovrebbe finire qui. Anzi, è finito. Mi sembra di sentire la voce di un mio antico produttore: “Ma come? Finisce così? Senza un filo di speranza, un raggio di sole? Ma dammi almeno un raggio di sole!” mi supplicava alle prime proiezioni dei miei film, un raggio si sole… mah… non so… proviamo…». Il ciak «Intervista scena prima» è dato davanti a un riflettore che dovrebbe dispensare questo raggio di luce, un raggio di luce cinematografico, e, giunto a questa fine, lascia in sospeso una frase detta in occasione di un altro film: A essere sinceri mi ricordo sempre meno delle cose che sono accadute; e dei vari film che ho fatto mi rimangono dettagli indecifrabili e inutili: il maglione verde di un macchinista, la pioggia, in esterni, che crepita sulla tenda di plastica improvvisata e noi tutti, lì sotto, rannicchiati al buio, come in trincea.12
Ecco: i dettagli indecifrabili e inutili. È così. Come parlare di questo film senza raccontarlo?
VII
COME LAVORARE SULLA LETTERATURA E RISCRIVERE AL CINEMA UN TESTO DELLA LETTERATURA FANTASTICA DEL PROPRIO TEMPO? QUARTO ESEMPIO, LA VOCE DELLA LUNA. COME RITROVARE E RIUNIRE I VAGABONDAGGI E LE ERRANZE DI TUTTI. Con Intervista, mi è sembrato di capire che non avevo bisogno di storie né di idee. Che mi bastava star seduto vicino ad una macchina da presa, in un posto dove si poteva accendere qualche lampadina, con intorno un equipaggio di facce fiduciose e vogliose di partire per un viaggio… Insomma qualche volta con una battuta ad uso degli uffici stampa ho detto che l’Intervista è un film che s’è fatto da sé.1
Questa premessa, quasi modesta, può servire a giustificare l’apparente mancanza di trama dell’ultimo film. Benché ripeta l’elaborazione precedente rispetto alla formulazione narrativa, La voce della luna (1989) è caratterizzato da una consistenza particolare, nella quale gli elementi simbolici seminati qua e là, come altrettanti riferimenti apotropaici,2 si accostano senza preoccuparsi di altre finalità oltre a quella dell’affabulazione del film. Da questo punto di vista, la pellicola è quella che somiglia di più alla Città delle donne, in cui il sogno s’imponeva come condizione necessaria a uno sviluppo trasversale delle realtà pronte a esser colte su linee virtuali. Si lasciava la città reale, in treno, per giungere a una forma di ricomposizione propriamente urbana, a una città ricomposta – gli immensi fabbricati, la casa di Cazzone –, ma anche a un territorio e a un paesaggio che avevano qualcosa a che vedere con la campagna, il passaggio dall’una agli altri era determinato dalla funzione del sogno. La voce della luna, a sua volta, diventa, nel suo tradursi in immagini, un film sulle vicinanze: un film che riguarda la campagna, che invade i prati e le stamberghe intorno ai villaggi. Ma è anche un film su quello che buca la compattezza e l’opacità della materia, come la nebbia e l’umidità dell’aria, che i raggi di luna dissipano. L’erranza del personaggio principale, Ivo Salvini, non lo trascina soltanto sulle strade di un paesino di provincia, ma soprattutto sui prati, sui sentieri di una campagna erbosa, spazzata, o piuttosto pettinata da grandi solchi di strane luci, che la delimitano e la carezzano in superficie e in profondità. Questo tema – abbandonare la città, uscire finalmente da Roma – apparteneva ai Clowns, ad Amarcord e ai film successivi. La voce della luna vi si immerge con una nuova dolcezza e si sviluppa come un potente notturno: il suo spazio si apre all’aria densa di umidità. La prima sequenza mostra quello che sarà il leitmotiv del film, l’erranza fisica, ma più ancora mentale. Nell’atmosfera lunare che si è sostituita alla densità opaca e alle piogge di Amarcord, sono evocati più volte, in un secondo leitmotiv, Pinocchio e Leopardi. Come Pinocchio, Ivo Salvini vaga nella campagna di un’incoscienza che cerca di riafferrare gli elementi primordiali della conoscenza. L’ultimo film di Fellini è forse il più italiano di tutti, grazie a un’espressione poetica legata al radicamento e allo sradicamento, ai territori. Emerge dunque questo rapporto stretto con il villaggio e i suoi dintorni, mostrati come passaggi da una sostanza all’altra, uno spazio intermedio, un intermezzo in cui si sperimenta ciò che si è, che si potrebbe essere e che si diventa, in quanto vittime di malintesi. La campagna ci riporta a un tema lineare di cui abbiamo già visto lo sviluppo, e che appare adesso in
rapporto diretto con una motivazione confessata dall’autore, l’inserimento della sua pratica creativa nel tessuto «italiano»: […] il romanzo di Cavazzoni, Il poema dei lunatici, è stato il punto di partenza, il pretesto, anche se poi lo sviluppo del film non ha avuto molto a che fare con la premessa iniziale […]. Tra le cose iniziali c’è stato il fascino della campagna […]. La campagna per me è stata una scoperta straordinaria, uno scenario favoloso, un po’ magico: gli animali, gli alberi, i temporali, le stagioni, i rapporti dei contadini con le bestie, il fiume che dalle nostri parti era un fiumiciattolo […]. C’era la nonna Fraschina, che sembrava la nonna delle favole […]. Da tanto tempo desideravo fare un film su quei ricordi, su quel mondo che mi suggeriva una storia tra panica e magica. Ma poi non è nemmeno così. Perché il libro di Cavazzoni ha riportato a galla un’altra mia vecchia idea […] che prendeva lo spunto dal racconto di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano […]. Tradurre in un film quell’isola che si chiamava ospedale psichiatrico, con attorno il muro di cinta che racchiudeva proteggendola la follia, i deliri e le persecuzioni […]. Mi illudevo d’aver fatto non un paese ma «il paese», un superpaese italiano con la piazza sulla quale s’affacciano in un coacervo, la chiesa gotica, la rocca rinascimentale, il palazzetto umbertino, il palazzo razionalista del fascismo, la chiesa postmoderna fatta di plastica trasparente. Un insieme di facciate ovvie, un paese invisibile […]. Ed è un ritratto del mio paese, del nostro paese, così come ci sembra di viverlo.3
Ma anche quest’altro progetto: … ogni volta mi rendo conto che il cinema italiano, me compreso ovviamente, dell’Italia non ha raccontato niente. Sappiamo tante cose sull’America attraverso i suoi film. Sul nostro paese niente. Qualche cosa di Roma, una Napoli che è un presepe di maniera, una Sicilia da oleografia sanguinosa. Ma tutta l’interminabile provincia italiana…4
Altrettanto significativa è la scelta di attori di una certa età che attraversano queste zone, questa no man’s land, in uno stesso movimento diretto, senza che sia per questo ben controllato, da Paolo Villaggio, e in cui viene espressa una spoliazione, una semplicità del vissuto e di quel che resta mal vissuto, in un mondo di cui si inizia a percepire l’ostilità. Questo movimento corale accompagna le rappresentazioni del divenire «pinocchiesco» di Roberto Benigni – divenire che consiste soltanto nel restare nell’eternità fragile, capricciosa e testarda dell’infanzia, e in cui si afferma la volontà radicale di un’idiozia innocente –, già chiaramente percepibile. Nulla allora sembra pesante, né le scene che ci sono presentate, né le minacce di ogni tipo che tengono il film in uno stato di agitazione. * Ma di che cosa è fatta questa campagna? E il villaggio? Quali ordini e quali sregolatezze, quali differenze mette in gioco la sua rappresentazione? È una questione di percezione e di visibilità: la campagna, al di là della sua veste rurale, sposa soltanto la notte, le sue nebbie leggere e fluttuanti, le sue nuvole notturne e lunatiche, l’ampio ricamo in movimento che compongono spinte dal vento, rischiarate dalle lune, i silenzi da cui scaturiscono voci divenute indecifrabili o incomprensibili, poiché il linguaggio che condividiamo con gli elementi è ormai perduto. Tuttavia questa superficie è lacerata: il protagonista insiste più volte sulla certezza – esposta in forma di interrogazione – che ci sono dei fori, dei passaggi, dei condotti, dei vuoti, delle tane che ci mettono in relazione con mondi ai quali siamo appartenuti, che sono stati rimossi ma che riappaiono, come passati che si ripresentano. Non si tratta né di fantascienza lunare, né di incontri ravvicinati del terzo tipo, ma di qualcosa a cui siamo appartenuti, intimamente, di un passato con un’anima sentimentale e cognitiva che sentiamo pulsare in noi e di cui ricerchiamo la presenza e il senso, quello che dice e che non sentiamo più. Ivo Salvini
gira febbrilmente intorno a questa insondabilità al fine di cavarne, di farne emergere, non «la» verità, ma una certezza, l’evento: percorre come un insetto i ciuffi d’erba, li solca, s’infila in tutti i buchi e i pozzi che potrebbero permettergli di traversare queste irresolutezze divenute misteri e che noi trasformiamo in segni – così,la macchia funesta di un corvo in volo fissa la notte in un’ombra più profonda. Le scene della campagna generano il sentimento oscuro di una dipendenza dell’umano nei riguardi delle forze telluriche, primordiali, pur suggerendo la loro conversione da parte dell’uomo in altrettanti segni, mondi che questi ricompone in interiorità mentali e fisiche. Al confine tra la campagna e il villaggio c’è il cimitero, il mondo sotterraneo delle sepolture, dei passati morti e ammassati, ma che risorgono sotto forma di spiriti, benevoli o malefici, come in Giulietta degli spiriti. Il villaggio, al contrario, frammentato nelle sue varie funzioni – sindaco, prete, industriale, prefetto, donne, uomini, coppie prigioniere di rituali complessi – e nelle architetture evocate nella citazione di Fellini, ha escluso e rimosso il mondo antico, ha rovesciato il rapporto di complicità che aveva con quest’ultimo e l’ha confinato tra le ombre della notte. Per sua stessa natura, il villaggio è inondato dalla chiarezza che deve corrispondere a una lettura coerente e parallela con la verità e la realtà di cui si fa portavoce, e tutto quello che dice si riduce a poche parole d’ordine. È allora filmato in storie di matrimoni e di divorzi più che in storie d’amore, nelle quali gli «altri» non appaiono più come esseri palpabili, relazioni, ma si riassumono in semplici valori emblematici. All’antico mistero, ancora intatto, si è sostituita la volontà di ordinare tutto, anche l’impossibile, attraverso l’applicazione di regole che si concatenano secondo progressi costanti, i quali hanno portato l’uomo a rinunciare a coltivare la terra, la campagna, e a preferire la costruzione di una cultura dell’edificazione astratta e meno comprensibile dell’universo nascosto che ha abbandonato. È questo il senso, ironico, della magnifica battuta della moglie dell’industriale che avrebbe preferito comprare mille vacche piuttosto che investire soldi in una rete televisiva; o ancora della scena dell’uomo il quale non capisce la storia della luna che gli viene raccontata e spara un colpo di pistola contro lo schermo che dovrebbe svelargli la verità di un procedimento per lui incomprensibile. Malgrado i disfacimenti violenti che lo turbano, il villaggio sembra vivere nella sicurezza di queste ragioni, sicurezza che gli permette di escludere coloro che non aderiscono alla convenzione ciarliera del vivere in comune; finisce persino con il rinchiuderli in recinti ospedalieri. Nel film, il confine tra le due condizioni è ben distinto. Prima di tutto attraverso il personaggio di Ivo Salvini, che, sballottato in un’erranza uditiva e vocale, sente delle voci che lo chiamano dai pozzi e in aperta campagna si trova di fronte a scene che appartengono a una cultura urbana trapiantata nei campi – gli uomini riuniti intorno a una finestra per assistere a uno spogliarello casalingo, da cui riemerge, come da una fossa, il mito antico della donna nuda, del suo seno opulento, eco del celebre latte delle Tentazioni del dottor Antonio, di una voluttà sensuale e nutriente, confermata dal racconto del mito di Giunone e della nascita della Via Lattea. Poi attraverso il personaggio di Sim, l’oboista, spinto dalla musica che suona, come i mobili di casa sua e le strane presenze che vi scova, verso la percezione di sensibilità e visioni diverse: come un appello ad accettare quello che ad altri sembra inaccettabile, vivere con i morti, nella speranza di raggiungere la serenità o una chiave che soltanto il mondo ctonio può rivelare. L’inquietudine dell’oboista, che finisce per trasferirsi in un antro, in un luogo pieno di buchi – le tombe del cimitero –, è provocata da quattro note, sol-la-do-mi, una terzina di semicrome chiamata Diabolus nel Medioevo: arriva perfino a chiedere la proibizione per legge di
questa musica, perché «è una violenza». La musica di cui parla è costruita su un intervallo, un intermezzo, in cui si annidano l’inconoscibile e l’ingovernabile: Non dovrebbe essere consentito di scrivere certi accordi! Quali? Non ditemi che voi non lo sapete… è proprio da quelle pause, da quegli intervalli, che entrano i fantasmi, il buio, il gelo… e a quel punto la musica fa di te ciò che vuole. Come puoi difenderti da qualcosa che promette, promette, e poi non mantiene mai?
Intervalli, pause, ulteriori fori, come per Ivo Salvini, che lasciano passare ciò che non può essere contenuto, o concepito, o, più semplicemente, sopportato, ma di cui si sa che è stata una promessa e in merito alla quale si attendono spiegazioni. La domanda posta dall’oboista nella scena del cimitero viene ripresa da Salvini davanti alla tomba di alcuni familiari, che interroga per avere informazioni: Certe volte penso: ma ci sarà pure un posto nel mondo dove c’è un foro, un buco che dà da quell’altra parte…
Ma l’altro aspetto sul quale apre gli occhi offre soltanto l’immediatezza concreta di misteri che devono ancora essere trasformati in segni e significati: il cemento della terrazza come superficie della realtà, da un lato, il cielo poeticamente nuvoloso e scuro e l’ombra di un corvo in volo, dall’altro. Il sopravvenire della pioggia scatena il racconto-ricordo della nonna, un doppio della fata turchina di Pinocchio, che lo salva dal suo errare. La casa della nonna presenta anch’essa dei buchi, il caminetto per esempio, a patto che lo si guardi dopo essersi infilati sotto il letto: allo stesso modo, nella Città delle donne emergeva una realtà di sogno se ci s’infilava sotto il letto, e poi nel buco spalancato di un lunghissimo condotto che portava a un altrove indecifrabile ma felice. Altri misteri nascono dal caminetto, fuoco e fiamme, senza che si sappia dove vanno le scintille, dove va il fuoco quando si spegne, come non si è mai saputo dove va la musica quando non si suona più, come, a volte, «si preferisce ricordare che vivere». La figura della terza tipologia umana messa in disparte è quella del prefetto Gonnella, che vive a metà strada tra il villaggio e la campagna, nobile e brontolone come un barbone, perso in situazioni di cui lui soltanto riesce a tratteggiare il profilo, divorato da ambizioni che crede politiche e che la vita ha disatteso, alle quali si mischia una vecchia storia d’amore ancora in corso con una signora che lo ricambia. Gonnella non prova alcuna gratitudine per un presente invivibile e ingiusto e finge di non sentire un passato che torna e fa male; è sgomento davanti alle figure di vecchi che lo invitano a raggiungerlo, prima del tempo, nella loro orribile malattia: la vecchiaia. * Le certezze, ecco cosa distingue gli abitanti del villaggio dai personaggi precedenti, uniti in una comune somiglianza. Tuttavia, malgrado la loro programmatica chiarezza, le storie, e poi gli eventi, restano sempre nel mistero perché impossibili da governare: le brevi storie che si intrecciano e si sciolgono collocano ognuno in posizione defilata rispetto a ciò che avrebbe potuto realizzarsi. Così, la sorella di Aldina, innamorata di Ivo e da questi respinta, accetta in silenzio la passione incontrollata che l’uomo prova proprio per Aldina;5 ma quest’ultima lo rifiuta con una repulsione inspiegabile, a metà strada tra l’odio e lo spavento, e quando lui cerca di vederla, gli tira una scarpetta che per lui diventerà il talismano di una rivelazione, in
uno sviluppo della favola di Cenerentola. Nestore, un amico di infanzia di Ivo, è, in modo diverso, altrettanto sventurato in amore, visto che la ninfomania di sua moglie lo costringe a divorziare. La storia del loro incontro e del loro amore porta a compimento una continuità narrativa: la bella del villaggio di cui gli uomini vorrebbero avere i favori finisce per innamorarsi di Nestore. L’episodio diventa una sorta di seguito del matrimonio della Gradisca in Amarcord; assistiamo in effetti alla storia della coppia dalla cerimonia in un albergo di campagna, proprio lì dove finiva la storia della Gradisca. Ivo ritrova Nestore, solo nella casa senza mobili portati via dall’ex moglie, che ha trovato in Zardetto, un macellaio, l’amante capace di soddisfare le sue voglie. Nell’appartamento restano soltanto una scopa e una lavatrice che Nestore accarezza con amore e tra il marito abbandonato e Ivo inizia così a delinearsi un’intesa; come Ivo e l’oboista, come il prefetto, anche Nestore percepisce suoni misteriosi: Ma tu hai mai sentito che suono misterioso che ha la centrifuga della lavatrice? Ha un suono che diventa come una voce… la voce di una sirena che canta solo per me. Io la chiamo la mia bella lavandaia. Marisa invece la trattava senza riguardo, sgarbata, impaziente, eppure una volta era così tenera, così dolce, la donna ideale. La guardavo incantato per ore e ore. Ti ricordi?
Nestore pensa che Marisa l’abbia lasciato non perché sessualmente è sfiancato, ma perché lei non condivideva la sua vocazione di starsene sui tetti: … stare sui tetti, era questa la mia vocazione, sin da bambino. Ma cosa c’è di più bello che stare seduto sul tetto che hai scelto, beato di non essere niente. Come aria.
La sequenza è importante perché riporta in primo piano il tema delle voci, dei fori, dei percorsi sotto la luna, e pone l’accento sulle stranezze che uniscono o dividono gli uomini. Ivo confessa che tutte le notti sogna di volare, poi si mette a camminare sul tetto della casa di Nestore, cercando di raggiungere la finestra di Aldina e di far scivolare dentro la scarpetta che ha sempre tenuto con sé, ma senza riuscirci. Vedendolo sul tetto, e credendo che voglia uccidersi, una piccola folla si raduna finché non viene recuperato con una gru da un vecchio amico, il quale gli confessa che per far felice suo fratello progetta di catturare e incatenare la luna. A parte queste avventure stravaganti come favole raccontate nella calma di una chiacchierata senza scopo, il villaggio vive la vita di ogni giorno, più o meno animata, con la caterva dei dettagli che la popolano. La scena è quasi sempre la stessa, dai Vitelloni in poi, e particolarmente dalla sequenza di 8 ½ in cui Guido gironzola per le strade della città termale e incontra, come per caso, sua moglie. In Amarcord, dove la scena si fa il pretesto per una descrizione storica, la camminata si trasforma in passeggiata serale – come in una poesia di Leopardi6 –, poi in flânerie, la cinepresa si attarda davanti a vetrine traslucide in cui si riflette qualcosa che appartiene alla revêrie: le statuette del presepe che contemplano nella loro tranquillità elusiva il flusso dei passanti. Nella Voce della luna, Aldina va a zonzo per questa strada rimasta identica, il riflesso brillante delle vetrine rimanda, come varianti delle statuine di un tempo, alcune immagini, quelle dei corpi di uomini e donne avvinghiati nello scontro, nella lotta tra i loro muscoli scolpiti: tutta una cultura del corpo competitivo che promette a sua volta paradisi perduti o artificiali, l’espressione rinnovata di una santità le cui forme oscillano a seconda del gusto delle epoche. C’è in Fellini, in questa ripetizione, in questa costanza, una fedeltà a se stesso, al proprio pensiero di regista cinematografico: ciò che il riflesso-riflessione rimanda non è tanto una meditazione sul passato, l’emergere del ricordo, quanto
un’interrogazione del pensiero in quanto riflessione critica: di sfuggita, e soltanto di sfuggita, questa riesce a catturare una scintilla del tempo che passa nel presente fugace. Tuttavia, grazie al progresso il villaggio tende a farsi città. I poveri e gli scemi, gli angeli che popolavano un tempo le pellicole, hanno ceduto il posto a persone sprovviste d’altro, visto che il legame che univa il villaggio e la campagna in una continuità uniforme sembra sfaldarsi e che alle riflessioni si è sostituita un’istanza senza nome e senza volto, al punto che anche «le Vergini Marie posso essere considerate come una razza […], non un popolo, ma una razza», come è detto nel film all’uomo che consegna le statue della Madonna. La chiesa, il cinema, il teatro non corrispondono più alla loro funzione e hanno smesso di essere quei luoghi di incontro e di scambio in cui si veniva a creare una realtà-verità parallela. La strada ha perso questo valore, anche la piazza, la piazza italiana, con i suoi legami e suoi incroci che il film fa rivivere. Restano soltanto alcuni luoghi importanti, che né l’individuo né la collettività riescono a condividere, a governare: dire che sono la televisione e il suo meccanismo ad aver imposto la nuova legge – di ordine divino, in un monoteismo senza corpo – e altri rapporti tra l’individuo e la collettività è al contempo dire tutto e non dire abbastanza. Ma questa ovvietà è presente: l’episodio della festa che, con il pretesto di un omaggio alla campagna, di un culto nei confronti della farina, ne organizza l’industria, la parata dei finti plenipotenziari, di cui viene svelato il lato grottesco, poi l’inerzia, segnalano l’imminenza dei pericoli che incombono sul vecchio villaggio, in un ultimo grido, prima che gli sconvolgimenti cancellino, senza che lo si voglia, ciò che in noi è caratteristico. È questo il senso della dimostrazione offerta attraverso coloro che scappano dai fori e dai tetti, nei pozzi o nei condotti. Il villaggio vuole farsi città facendo della campagna un villaggio: le scene di questa piccola verità che invade il film, dal voyeurismo dello spogliarello mutuato dalla tv fino all’immensa fattoria trasformata in discoteca, raccontano la dilatazione di una cultura televisiva divenuta culto, e la messa al bando, fuori dalle mura, di quanto non sottosta all’ordine. Da lì in poi, la libertà non può più essere una realtà comune, esiste soltanto se interiorizzata, nella distanza e nella solitudine, come una preghiera, ridotta a un’ambizione muta la cui unica soluzione risiede nei percorsi, i fori, nei pozzi, nelle ferite che apre nella vasta tela del mondo, nelle sue fughe verso un panteismo universale che per l’uomo della campagna si riassume nel cielo e negli astri. Ecco la luna, ecco anche la sua voce. Malgrado la favola secondo la quale, poiché femmina, non aspetta altro che essere presa e incatenata, resta inafferrabile, intatta e graziosa, nella sua rotazione misteriosa, che potrebbe essere quella della poesia, di una poesia tragica o comica, di una poesia tragica capace di diventare comica. Una rotazione che appartiene soltanto a coloro che riescono ancora a confondersi con gli elementi, con i regni di una terra guardata dalla luna, con dolcezza. * Il film ha dimenticato l’oboista nelle sue trincee, abbandonato ai flussi della sua esistenza di morto vivente. Di cosa sono popolati i pensieri vuoti delle nostre giornate? Come circola in noi il presente di coloro che ci accompagnano? Come filmare ciò che non esiste più e che è stato soltanto la percezione di una sensazione? L’aspirazione a una forma che catturi la dolcezza ancora tangibile della vita, contrapposta al caos e al frastuono di un presente troppo invadente
e al desiderio di tagliare la rete dell’adattamento all’epoca, per lasciar fuggire alfine le sensazioni di una vita, imprime al film la sua cadenza. Nell’irascibile prefetto Gonnella, nobiltà e brontolio si coniugano, il tempo di un valzer imperiale e viennese, che apre una breccia, una ferita, da cui riemerge un mondo scomparso, già inghiottito dal flusso di seta di E la nave va. Balla con l’amore incompiuto della sua vita, la sua duchessa d’Alba, un’aria lievemente drammatica, al modo di Pessoa, fluttua in mezzo alla folla di apprendisti stregoni, garantiti sul loro futuro da questo presente di barbarie di cuoio e ferraglia. Non è un passato che rinasce, è una faglia che si apre, da cui emergono voci e grida, voci e grida, forse, di tutto quello che, compiuto in vita, torna per rifarsi. Alla fine della festa rock nel capannone in campagna, Ivo è preso in consegna dalla sorella: si diffonde una serenità, quella di una vita tranquilla, quasi monotona, appena turbata dal rumore della televisione accesa in un angolo, una vita come nelle favole di un tempo, «un tempo di una volta», scomparso e senza memoria, in cui il flusso della vita s’inserisce calmo e senza spreco, in gesti consueti che sono ritmi, cadenze. Qualcosa di levigato e di tiepido ricopre i mobili e la pellicola, i tratti di tutti. Finita la cena, Ivo, accompagnato dalla sorella, se ne va in camera sua, la rivede con occhi incantati, come se il tempo avesse cancellato il ricordo, ma non la sensazione, conservata nei colori passati, negli oggetti immobili, come nelle foto: un Pinocchio di legno, la riproduzione di un ritratto di Leopardi, cose mute che sono come un’essenza dell’Italia, parole che si mescolano per dire la bellezza della Storia ancora comune dell’Italia. Nel mormorio che è come un silenzio, un silenzio che accarezza lo spazio e il luogo, la memoria di ciò che fu presente rimanda ad altre storie segrete, una camera, un sogno spalanca gli occhi, spazi contigui in cui si dispongono le cose che tornano, tutto quello che torna, uno spazio vuoto, pronto ad accoglierle. Una grande camera vuota come l’appartamento di Nestore abbandonato dalla moglie, e Nestore è lì, seduto alla finestra, venuto apposta per dire a Ivo che è stata catturata la luna. Ecco la luna. E la sua voce. Una luna femminile, quasi venuta dai film di Méliès e che ha preso le sembianze di Aldina, ricorda, in tono derisorio, la nuova divinità che riorganizza i ritmi delle vite, passate e future: la «Pubblicità». La vecchia polemica di Fellini contro lo strumento televisivo e il suo mercantilismo appare nell’ultima parte del film, tramite una kermesse che celebra stavolta la cattura della luna.7 Tuttavia, le forze che resistono primeggiano adesso su quelle che si piegano e riconoscono l’importanza del meccanismo introdotto – il colpo di pistola indica una resistenza che brandisce le sue richieste. Con questa morale termina la favola: sullo scompiglio gioioso che riassume in sé tutti i finali di festa, disperati e tristi, torbidi, allegri, ma ancora più spesso clowneschi, che reinventano, in un giusto ritorno delle cose, i loro disordini, le loro polifonie, le loro disarmonie. Ivo Salvini,8 innamorato della luna, innamorato di Aldina che confonde con l’ovale della luna, rivolge loro le sue ultime domande: VOCE DELLA LUNA Che faccia buffa che hai! Aveva ragione la nonna che non poteva guardarti senza smettere di ridere! E mo’ che mi vuoi dire? Delle voci? Delle corse da un pozzo all’altro? E non sei contento? Ma è un gran regalo, è una fortuna… cosiddetto Salvini! IVO Cosa vogliono da me? Mi prendono in giro, non riesco a capirle. Cosa mi dicono? VOCE DELLA LUNA Doppia fortuna! Mi fai rabbia per quanto sei fortunato! Non devi capire! Guai a capire! E che faresti dopo? Tu devi solo ascoltare, solo sentirle quelle voci, e augurarti che non si stanchino mai di chiamarti. […] IVO Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio… se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…
Scegliere tre attori comici per questo finale – Sim, Villaggio e Benigni –, significa voler terminare nello stupore segretamente, terribilmente gioioso dei Clowns. I tre comici – che avrebbero potuto far parte della tradizione della commedia dell’arte, o, più banalmente, della non tradizione della «commedia all’italiana» – sono qui, come possono esserlo Leopardi e Pinocchio, soltanto figure comiche stupite. In questo stupore del comico che stupisce se stesso si ripete, attraverso i segreti della campagna e le ovvietà del villaggio, la tenera, umile, esaltazione dell’Augusto a spese del clown bianco, il candore di un mondo che si crea segretamente nell’immaginazione e di cui spesso si ride di nascosto o fra sé. La ripetizione è allora ciò che torna, un «tornare» che si dà a vedere: nelle vetrine lisce e brillanti delle passeggiate e della flânerie, in tutte le parate, tornano immagini di attori e di altre persone, immagini di montagne e di pensieri, di riflessi-riflessioni, liberate dal peso dei rimpianti. In questo modo tornare è soltanto ripresentare o rappresentare. La luna stende il suo abito luminoso e riunisce i colori in un’unica sinfonia scintillante: il cono di luce porta via un’immagine infantile, infanzia dei circhi, nella notte luminosa degli spettacoli: «Mi è piaciuto molto.» Lo sa, signor Fellini, una volta facevo un numero con un mio compagno che si chiamava Frufrù, si faceva finta che lui era morto. Io entravo in pista e dicevo: «Dov’è Frufrù?». «Ma non lo sai» mi diceva il direttore. «È morto.» «Ma come è morto?» dicevo io «mi deve restituire le dieci salsicce e la candela che c’ho prestato l’anno scorso!» «Ebbene, è morto» mi diceva il direttore. «Dove posso trovarlo?» dico io. «Ma cretino, ti dico che è morto!» Allora io, che non mi davo per vinto, mi mettevo a chiamarlo: «Frufrù, Frufrù». Niente, non rispondeva. «Che sia morto davvero» dicevo io «e se è morto come faccio a trovarlo?» Uno non può mica sparire così, da qualche parte deve stare: «Frufrù!». Finché non mi viene un’idea: «Lo chiamerò con la tromba come quando lavorava con me». Così comincio a chiamarlo con la tromba… Suono le prime note, sto a sentire… Niente. Riprovo… Era una canzone molto bella, che faceva piangere… Faceva così…
Sì, come dice Ivo, proprio alla fine del film, un po’ di silenzio, un po’ più di silenzio, felici «di non essere niente, come aria».
Concludere
Da capo. Allontanare la discussione sull’opera da ciò che circonda le storie. Lasciare spazio soltanto ai film che si sono succeduti negli anni, scansioni di un vissuto appartenuto alle pellicole, ritrovare l’evidenza di una storia del cinema e della storia. Di una storia d’Italia. Partire da una realtà minuscola, quella meno vistosa, lasciarla agire su una superficie, incerta all’inizio, poi visibile, poco a poco. Trovare volti, luoghi. Farne immagini che si adattano alle situazioni. Trovare una lingua, inventare diverse lingue. Cogliere un universo di scene che non esistono più, attori fragili, già muti, dell’avanspettacolo (Luci del varietà), attori statici dei fotoromanzi (Lo sceicco bianco), clown di un circo disperato (La strada). Personaggi appena abbozzati (I vitelloni), nel passaggio da un’età all’altra, che vagano per la città. Un ambiente più angusto e terrificante (Agenzia matrimoniale), le stazioni dolorose di un contesto specifico (Il bidone). Percorrere marciapiedi e strade (Le notti di Cabiria). Passare, ripassare per la stessa strada, lunga notte di un flâneur (La dolce vita). Riflettere poi su ciò che vi ha condotti lì (8 ½). Divertirsi a spese dei benestanti (Le tentazioni del dottor Antonio). Cercare quello che le donne sanno, quello che dicono (Giulietta degli spiriti). Sperimentare un sogno fantastico con un pretesto attuale (Toby Dammit). Trovare gli stessi passi spingendosi il più lontano possibile nel tempo (Fellini Satyricon). Rivedere vecchie immagini per dire che non esistono più (I clowns). Essere risucchiati nell’ombelico del mondo (Roma). Abbandonarsi alle sensazioni di un ricordo della storia (Amarcord) e sprofondare più lontano nel passato (Casanova). Ascoltare frasi musicali, cercare di sentirle (Prova d’orchestra). Cercare di nuovo quello che sanno le donne e che si ignora, o come stare in società (La città delle donne). Andare su un battello, una boccetta senza più profumo (E la nave va). Constatare che l’attualità è una grande pattumiera piena di immondizie e far sfilare di nuovo il passato (Ginger e Fred). Dare ancora una risposta a chi fa domande (Intervista). Constatare che in fin dei conti l’universo della vita è pieno di buchi (La voce della luna). Riprendere tutto, indugiare sul finale dei film, sul modo in cui finiscono, sull’ultima immagine. Cosa dire? Quali conclusioni trarre? Da capo: uno termina dove l’altro inizia, il che significa disporre dei seguiti: la stazione di Luci del varietà continua quella dello Sceicco bianco, di Ginger e Fred, di altri film ancora. Si ritrova il mare dei Vitelloni e della Strada alla fine della Dolce vita, all’inizio di 8 ½. Il mare di Casanova è uno splendido trompe-l’œil quanto quello di E la nave va: immensa bellezza di queste finzioni. Poter dire: «Le cose più vere sono quelle che ho inventato». Molte cose sono un trompe-l’œil, tutto, forse, è finto. Percepire che il reale lascia intravedere solo quello che mette a fuoco, una parte infima ma precisa della superficie, e che si deve spostare lo sguardo, far posto alla sensazione di una pluralità in ciò che sembra essere unico. È così per i volti, per i paesaggi. Da capo: le serie si raccolgono in minuscole immagini di sfilate: a destra, a sinistra, nascono dal nulla, seguono percorsi. Non delimitare, andare più a fondo, fuori dall’inquadratura, in una virtualità che non è necessariamente mostrata, realizzata. Posti non occupati. Nulla è stato detto nelle pagine precedenti di quanti hanno elaborato questi percorsi e questi mondi insieme a Fellini: Tullio
Pinelli ed Ennio Flaiano, il primo fino alla fine e il secondo fino al 1965, fino a Giulietta degli spiriti, Brunello Rondi con La dolce vita, Bernardino Zapponi, arrivato nel 1968 con Toby Dammit, Tonino Guerra, nel 1973, con Amarcord; e i collaboratori, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise, Ermanno Cavazzoni. Nino Rota, sì, Nino Rota e dopo di lui Luis Bacalov e Nicola Piovani. I direttori della fotografia e i montatori: i primi, Otello Martelli, Aldo Tonti, Gianni Di Venanzo, Giuseppe Rotunno, Tonino Delli Colli; i secondi, Rolando Benedetti, Leo Catozzo, Ruggero Mastroianni, Nino Baragli. Piero Gherardi, Danilo Donati per i costumi, le scenografie. Mietiture di Oscar e foreste di premi. Soprattutto universi di concertazione, di lavoro condiviso, di fedeltà, una grande famiglia, un mondo. Molti aneddoti raccontano la possibilità di poter osservare, spiare, vedere cosa significhi «fare un film». Ci sono stati senza dubbio segreti, crudeltà, megalomanie, mondanità. La regia si teneva probabilmente a distanza, dietro un gran cappello, una sigaretta, una sedia, un megafono. * Risuona un tema, al quale si pensa solo dopo, quando tutto è finito. Un tema a cui non è dato tuttavia troppo rilievo: la morte. È lì, senza enfasi, detta in diversi modi. Non la morte allegorica, che cavalca nell’ombra e nella notte, carica di segreti. Il segreto della morte, in Fellini, è nella chiarezza. Non che sia meno dolorosa o meno sentimentale o meno patetica che altrove, ma è senza mistero, ha qualcosa di trasparente. Nominata una prima volta nella Strada, è ripetuta nel film successivo, Il bidone. Gelsomina e Augusto lasciano il mondo perché per loro è diventato impossibile, si è trasformato in qualcosa di indecifrabile, di invivibile. Tanto vale morire: se ne vanno come le creature lasciano la natura, in una stagione più ostile delle altre. I film precedenti, senza giungere a quel luogo paradossale della vita, nondimeno ne disegnavano malinconie e false colpevolezze che avrebbero voluto consumare nel nulla che cancella. Cabiria è un’altra cosa ancora: si salva per due volte dalla morte che gli altri tentano di infliggerle. Sfugge, come un passerotto che saltella sul suo pezzetto di marciapiede, dove la vita ha la bellezza delle lacrime dei suoi occhi spalancati. Nella Dolce vita, la morte è annunciata dal malore del padre, dalla morte inaspettata nell’episodio del miracolo, seguito dal suicidio di Steiner, e la sua eco si propaga fino all’animale, una razza il cui occhio si invischia nei resti di ciò che è vivo. Lacrime di Cabiria che sfugge alla morte, occhio opaco, vitreo, di un mostro marino in agonia. Visita della morte in 8 ½, durante l’episodio sfuggente del cimitero, il padre e la madre, bacio della madre che si scopre essere Luisa. Messa in scena della morte, barocca, delle Tentazioni, una morte per ridere, degna del Grand Guignol – ma cosa c’è di più serio di una morte messa in scena? Un’altra morte messa in scena in modo trionfale, quella di Toby Dammit, come quella presunta della madre in Giulietta degli spiriti. Messa in scena della morte da parte di Trimalcione, la visita alla sua tomba. E tutti i morti di Satyricon: dopo le morti della catastrofe del terremoto, dopo la morte ostentata di Trimalcione, la morte nell’episodio della vedova di Efeso, la morte suicida dei patrizi, la morte di Lica e di Trifena, la morte dell’ermafrodito, la morte di Ascilto, la morte di Eumolpo: muore in quel presente un mondo già morto. Come nei Clowns: un mondo di morti torna attraverso alcune foto, immagini diafane; in Roma, i passati rivivono il tempo di una resurrezione. La morte dolce, silenziosa, della madre in Amarcord: ci sono in questo film delle offese profonde, e «ogni offesa è morte». Casanova descrive le cose che
stanno morendo nel momento stesso in cui muoiono. Una morte in Prova d’orchestra, insospettabile. Le ceneri della cantante defunta e la morte di tutti i personaggi, di tutto un mondo, in E la nave va, lo sprofondamento di ogni fede, di ogni illusione. Ginger e Fred o la malinconia in mezzo alla spazzatura, poi La voce della luna, un suicidio, buchi e sepolture, l’accesso a un altro mondo, forse un aldilà. Questo lungo nastro riunisce alcune costanti, un tema comune all’uomo, comune all’illusione cinematografica. Le morti appaiono come liberazioni: la morte di Gelsomina e quella di Augusto, la testa recisa di Toby Dammit, la morte dei patrizi, la scomparsa della villa romana in Roma, che aveva resistito ai secoli e che si disfa davanti ai nostri occhi. Morire è nella natura delle cose. L’evocazione epicurea non ha nulla di casuale: queste morti sono scansioni del tempo. Non ci si ricorda più dei morti nei film di Fellini: ogni volta la morte è come il rifugio di un segreto: segreto di Zampanò, segreto di Augusto e di sua figlia, segreto voluttuoso di Toby Dammit, dolcezza sorridente dei patrizi, calma nel succedersi delle tempeste. Non ci si ricorda più dei morti nei film di Fellini, nei quali la tragedia è costruita come un evento banale. Sì, costruita, non mostrata, al fine di sfuggire alla sua morsa fatale, dalla sua viscosità nella catastrofe. La morte è lì ogni giorno, il suo racconto è senza fine: l’epoca della realtà, quella della creazione, poi infine quella della riflessione hanno determinato, ognuna a suo tempo, delle forze diverse nella ripetizione poetica di questa storia di morte, e il tempo ha sostituito le esigenze del reale con una dolcezza a volte grottesca. La morte ha ripreso i gesti delle Parche, senza tuttavia appesantirli con la loro violenza tragica. Strane scene sfilano in Block-notes di un regista: fantasmi che sorgono nella campagna romana, danzano, simulano rapporti sessuali. Non c’è nulla di macabro, nessuno scheletro, come spesso nelle figurazioni medievali e barocche; ma la danza «grottesca» delle riunioni in maschera che si facevano, nel Rinascimento, nelle grotte della Domus Aurea di Nerone. La morte rivive nei sussulti carnevaleschi e gioiosi di alcune sequenze, come una «disaffabulazione» del tragico. È il religioso al quale è più o meno legata, e non lei, che porta in sé il senso fatale di una tragicità dalla quale la «creatura» è stata irrimediabilmente ferita, ben prima di morire. La questione del peccato originale attraversa La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria e persino la tragedia del mondo pagano, Satyricon, se non fosse che lì prende l’andamento letterario di un passaggio necessario della vita e delle sue trasformazioni. La morte non è un finale che può chiudere la storia nella violenza del tragico, poiché quest’ultimo elemento non ha davvero presa. La morte è lì, semplicemente, sull’albero della vita, tende la mano e raccoglie la foglia che cade. Spesso l’acqua è vicina: il mare fa andare e venire le sue dolci onde nel finale della Strada; il Tevere accompagna il tentativo di suicidio di Wanda, e scorre nella scena del primo tentativo di assassinio di Cabiria; la neve ricopre l’uccisione di Augusto; il mare costeggia il finale della Dolce vita, poi l’inizio di 8 ½, angosciante come una morte. Il mare lambisce le rive degli incubi morbosi in Giulietta degli spiriti, il mare assiste alla morte di Lica e di Trifena, a quella di Eumolpo, in Satyricon, dove Ascilto muore in mezzo alle paludi. L’acqua invade la domus romana di Roma e la nebbia accerchia la morte della madre in Amarcord. Il fiume e il mare gravano ovunque sugli eventi di Casanova, come su tutto ciò che accade in E la nave va. Tutte morti purificate da battesimi acquatici, la carezza di un’abluzione, la percezione immediata del passaggio da uno stato all’altro, l’oblio dello sconforto, fuori dai simboli, dalle metafore. Non viene detto nulla di eterno, nulla di immortale, ma una necessità che raggiunge la precisione espressiva del suo emergere. Non si tratta nemmeno di farla indietreggiare, di ostacolarla, la morte: in questo essa è un luogo di attesa, a volte precipitato, per Gelsomina, a volte ritardato,
per Jacqueline Bonbon. È ancora meno un pensiero sulla morte, che si muoverebbe intorno a questo tema, ma una pausa di riflessione, per chi la riceve direttamente, per chi la sopporta indirettamente, come Zampanò: il momento in cui riflette, in cui vede vivere qualcosa che lo fa cambiare senza che sappia esattamente dove, in quale vena o in quale pensiero, in quale fibra o in quale parola. Una comunione panica e panteista, come ricorda il testamento di Eumolpo. * La morte, quindi, non serve da finale. Anche quando dà luogo alla grande sfilata delle Tentazioni del dottor Antonio o alla parata che festeggia la morte del clown, è solo un momento sospeso di riflessione. Il finale, il gran finale di scena che riunisce tutti i temi di un vasto flusso vitale, è l’invenzione della parata e della discesa dalla grande scalinata di 8 ½. I primi sintomi appaiono in Luci del varietà, nel finale di tutto l’avanspettacolo, la forma scenica preferita da Fellini. Era per lui necessario cercare in quella direzione, rivedere concretamente quel passato fatto di sfilate e passerelle, imponente e impertinente, derisorio e tenero, passionale, l’addio al pubblico, il ringraziamento e la riconoscenza. La passerella comportava un compiacimento narcisistico per il derisorio, capace di prendere forza dalla festa dell’infanzia, dallo stupore del piacere riflesso e condiviso tra attori, con gli spettatori: il finale di Luci del varietà racconta la gioia profonda della protagonista. È l’unione in un momento unico di due temi, l’avanspettacolo e il circo, ad aver inventato questa forma. Bastava ritrovare il punto di unione di ciò che l’avanspettacolo deve al circo, di quanto può ancora prendere da quello. Ma prima di arrivare a questo momento sospeso era necessario riconoscere le «creature», tutte, che hanno presenziato, nominarle una dopo l’altra, riunirle nella loro interdipendenza comune. È quello che accade nel momento in cui Guido ritrova il senso di ciò che ha fatto: Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa, dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo. Com’è giusto accettarvi, amarvi, e com’è semplice! […] Mi sento come liberato, tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero… […] È una festa la vita, viviamola insieme. Non so […] dirti altro.
Sarà questo il senso di tutti i grandi finali dopo 8 ½, dalla folle corsa di Toby Dammit, delle sfilate e delle parate e del gran finale dei Clowns, della sfilata di moda e della corsa notturna di Roma, delle parate di Amarcord, delle fughe e degli inseguimenti della Città delle donne, dell’affondamento delle navi in E la nave va, delle antenne di Intervista e ancora delle luci fredde, blu, su cui il film indugia alla fine, quando Fellini conclude l’intervista: Ecco, il film dovrebbe finire qui. Anzi, è finito. Mi sembra di sentire la voce di un mio antico produttore: «Ma come? Finisce così? Senza un filo di speranza, un raggio di sole? Ma dammi almeno un raggio di sole!» mi supplicava alle prime proiezioni dei miei film, un raggio di sole… mah… non so… proviamo…
Bruscamente la scena si addensa e sprofonda in se stessa. La notte blu del teatro di posa è trapassata da un raggio magico, il cono dell’occhio di bue, e racconta ancora una volta, l’ultima, una storia di luce, un motivetto, appena mormorato, un la-ri-la-là.
Note
Introduzione 1 Due poeti dalla teatralità manifesta: D’Annunzio, del resto, è il padre di Cabiria di Pastrone (1914) e Carducci potrebbe
essere il padre putativo della Corona di ferro di Blasetti (1941), che chiude un’epoca del cinema italiano nel momento stesso in cui Fellini si avvicina al cinema: alcune scene di questo film svolgono un ruolo importante nella sua mitologia cinematografica. 2 Federico Fellini, Sono un gran bugiardo. L’ultima confessione del maestro raccolta da Damian Pettigrew, Elleu Multimedia, Roma 2003, pp. 50-51. 3 Ivi, pp. 117-118. 4 Costanzo Costantini (a c. di), Fellini: raccontando di me. Conversazioni con Costanzo Costantini, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 41. 5 Jacqueline Risset, «Discesa agli inferi con qualche bagliore di paradiso. Conversazione», in L’incantatore. Scritti su Fellini, Scheiwiller, Milano 1994, p. 102. 6 Citazione di Fellini riportata in Jacqueline Risset, «Discesa agli inferi con qualche bagliore di paradiso», cit., p. 79 e p. 111, in Cahiers du cinéma, n. 474, 1993, pp. 68-70.
PARTE PRIMA – LE APPARENZE DEL REALE: RACCONTARE 1 Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980, p. 168.
I. Federico Fellini: formazione e primi bozzetti [...] 1 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 41-42. 2 Le prime scritture giovanili di Fellini per il Marc’Aurelio sono pubblicate in Federico Fellini, Racconti umoristici, a c. di
Claudio Carabba, Einaudi, Torino 2004. 3 Italo Calvino, «L’irresistibile satira di un poeta stralunato», in la Repubblica, 6 marzo 1984. 4 È piuttosto Michelangelo Antonioni a farsi parzialmente carico di questa eredità nella cultura cinematografica italiana. Il tema delle applicazioni possibili del reale e dei suoi intrecci con la realtà è al centro delle ricerche del fotografo nel bellissimo Blow-Up, del 1967, un anno di scrittura per Fellini, che lavora alla sceneggiatura del Viaggio di G. Mastorna e al libro La mia Rimini. 5 Tra cui Documento Z3 (1942) di Alfredo Guarini e Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) di Alberto Lattuada. Il testo di riferimento per le informazioni su Fellini è l’opera di Tullio Kezich, Fellini, Camunia, Milano 1987. Le notizie riguardanti il lungo avvicinamento di Fellini al cinema sono riunite nel capitolo III, «Avanti (nel cinema) c’è posto», pp. 81-115. 6 Si tratta di Avanti c’è posto del 1942, Campo de’ Fiori del 1943, nel quale recitano Anna Magnani e Peppino De Filippo, che ritroveremo in Luci del varietà e nelle Tentazioni del dottor Antonio, e quindi dell’Ultima carrozzella, sempre del 1943, durante la quale incontra Leo Catozzo, che si occuperà del montaggio di diversi suoi film. 7 Tullio Kezich, op. cit., p. 98. 8 L’incontro tra Rossellini e Fellini avviene al Funny Face Shop: molti considerano questo momento come l’atto fondativo del neorealismo, e il suo racconto è diventato un topos della mitologia neorealista, che include variazioni e contraddizioni. Lo stesso Fellini non riferisce di questo evento in Fare un film, e in tutte le sue interviste rimane discreto, privilegiando il significato profondo dell’incontro. 9 Omaggio al nome: «la» Magnani è, da un punto di vista cinematografico, il personaggio più immediato e rappresentativo di un’epoca in cui, da Rossellini a Pasolini a molti altri, ma anche prima e dopo di loro, la sua figura è stata formulata prima sotto
il segno della sua «romanità» e poi della sua «italianità». Per Rossellini, autore per il quale la riflessione sulla donna è cruciale, Anna Magnani, come in seguito Ingrid Bergman, è il simbolo più preciso di una femminilità che pone domande. Per Fellini – avremo modo di tornarci a proposito di Roma (1972) – è non tanto un simbolo, ma il «sentimento» di qualcosa che non può essere dato a vedere, nella sua timida sicurezza fatta di pudore, e non già nella sua storia, ma nel coinvolgimento della sua essenza totale, di colpo fattasi misteriosa. 10 La «naturalezza» dell’atto filmico ha fondato un suo credo, una mitologia e una letteratura spesso abbastanza leziosa sull’improvvisazione nel cinema neorealista. D’altro canto, l’abbondanza della bibliografia sul neorealismo ci lascia l’imbarazzo della scelta. Citeremo soltanto un testo polemico sulle dinamiche e sui personaggi che hanno contribuito alla costruzione e allo sfruttamento della problematica della cinematografia neorealista: Raymond Borde e André Bouissy, Le Néoréalisme italien. Une expérience de cinéma social, Clairefontaine, Lausanne 1960. Per quanto riguarda Roberto Rossellini – è ancora impossibile essere esaustivi – si impongono alcuni testi: Roberto Rossellini, Le cinéma révélé, Flammarion, Paris 1984, con l’introduzione di Alain Bergala, «Roberto Rossellini e l’invenzione del cinema moderno», pp. 7-32; Roberto Rossellini, Quasi un’autobiografia, a c. di Stefano Roncoroni, Mondadori, Milano 1987; Michel Serceau, Roberto Rossellini, Les éditions du Cerf, Paris 1986; André Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, Les éditions du Cerf, Paris 2000, e più specificamente i seguenti passaggi: «Le réalisme cinématographique et l’école italienne de la Libération», pp. 257-286; «Défense de Rossellini», pp. 347-358; «Europe 51», pp. 359-361. 11 Rita Cirio, Il mestiere di regista. Intervista con Federico Fellini, Garzanti, Milano 1994, p. 94. La Scalera Film fu, tra il 1938 e il 1949, un’importante casa di produzione. 12 Federico Fellini, Intervista sul cinema, a c. di Giovanni Grazzini, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 54. 13 Diversi sono i testi che riportano questo racconto; ne citiamo alcuni: Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 48-53; Id., «Un esordio difficile», in Lo sceicco bianco, Cappelli, Milano 1969, pp. 5-15; Tullio Kezich, op. cit., pp. 180-185. 14 Rita Cirio, op. cit., pp. 129-133. 15 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 47. Cfr. anche Id., Sono un gran bugiardo, cit., pp. 84-85. 16 Cfr. Id., Fare un film, cit., pp. 66-74. 17 Ivi, p. 43. 18 Id., Sono un gran bugiardo, cit., p. 85. 19 Rita Cirio, op. cit., p. 141. 20 Costanzo Costantini (a c. di), op. cit., p. 50. 21 Ivi, p. 70. 22 Rita Cirio, op. cit., p. 140.
II. Primo lavoro in collaborazione con Lattuada [...] 1 I racconti autobiografici riferiscono di un viaggio attraverso l’Italia durante il quale Fellini avrebbe accompagnato Aldo Fabrizi in tournée con uno spettacolo di «rivista» o «di avanspettacolo», ma questa informazione non è mai stata né confermata né smentita chiaramente; cfr., tra gli altri, Tullio Kezich, op. cit., p. 102. In interviste più recenti Fellini dice: «Per un paio d’anni ho girato l’Italia con Faville d’amore, una compagnia che aveva come comico all’inizio Virgilio Riento» (Rita Cirio, op. cit., p. 25). 2 Il tabarin è stato, in Francia, una tipologia di locale adibito a diverse forme di rappresentazione teatrale, che permetteva al pubblico di ballare durante gli spettacoli. Il nome proviene da Tabarin, nome d’arte di Antoine Gérard, artista di strada e comico del XVII secolo. Il primo tabarin che acquisì fama internazionale fu il Bal Tabarin di Parigi, aperto nel 1904: era dotato di un piccolo palco con ribalta e di una pista da ballo. Negli anni successivi il tabarin divenne sinonimo di dancing, night, café chantant o, in italiano, di balera. Spesso il termine viene utilizzato per designare un cabaret di infimo livello. [N.d.T.] 3 Termine che designa, in modo dispregiativo, una sorta di «servetta» subalterna e intrigante, per poi indicare, nella tradizione italiana, l’artista femminile più importante negli spettacoli di «rivista». [N.d.T.] 4 Per quanto riguarda la «macchietta», cfr. il bel testo di Franca Angelini, Petrolini e le peripezie della macchietta, Bulzoni, Roma 2006 e Rita Cirio, op. cit., p. 31. La grande epoca della vedette di music hall è illustrata in Francia dalle prodezze di Mistinguette, e termina con l’incomparabile Liliane Montevecchi, con due spettacolari riprese del genere all’inizio degli anni settanta: La Grande Eugène, con Eugène e Jérôme Nicolin, e Luxe, con Marucha e Facundo Bo. Le attuali riviste del Lido o del Moulin Rouge non offrono più se non repliche insipide del genere, tanto è stato «spompato» dalla televisione. In ambito italiano, i punti di contatto con il futurismo sono stati particolarmente importanti e hanno spesso dato vita a una forma particolare di surrealismo: citiamo, per esempio, il grande attore romano Ettore Petrolini, ispirato dalle tecniche dell’«avanspettacolo», di cui basta rivedere la prestazione filmata, Gastone, ma anche il suo Pulcinella; il più grande presentatore di rivista fu senza dubbio Totò, figura e immagine che torna spesso nei ricordi commossi di Fellini: cfr. Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 125131, e Jean-Paul Manganaro, Douze mois à Naples. Rêves d’un masque, Dramaturgie, Paris 1983. 5 Tullio Kezich parla di funzione «di salvataggio» a proposito di colui che è pronto a risolvere un problema, ad affrontare un’emergenza nei diversi momenti della lavorazione di un film; cfr. Tullio Kezich, op. cit., p. 143. Il titolo che Fellini dà al suo testo di cinema, Fare un film, evoca quest’ampiezza, quel passato proteso verso un futuro la cui determinazione procede non
tanto da una decisione, ma da qualcosa che non era previsto all’inizio e che finisce per assorbire l’insieme delle capacità acquisite. 6 In Luci del varietà, all’avanspettacolo, alla rivista di music hall, si aggiunge la variante del cabaret o del night club (la scena di due comici che prendono in giro Checco, interpretati da Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli). La passeggiata-passaggio nel cabaret sarà una delle costanti della filmografia felliniana, almeno fino a 8 ½. Qui, il tema enuncia degli incastri, una prima costituzione di serie tra numerose altre, senza che si tratti di teatro nel teatro, né di cinema nel cinema, bensì di descrizioni puramente parallele. 7 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 48. 8 La scena del pubblico sarà ripresa in Roma, che, meglio rappresentato da un punto di vista storico perché più completo e più ricco, riunisce in un solo «gesto» narrativo l’insieme delle piccole storie che l’attraversano. La modulazione descrittiva, tuttavia, non cambia da un film all’altro: il ricordo, la nostalgia e il realismo sono trascinati dalla mente e dall’esperienza dell’autore e non hanno subito modifiche. 9 Che si pensi ai lungomare notturni, ventosi e deserti dei Vitelloni, o alla nebbia che circonda l’apparizione del toro in Amarcord, la scena vuota della narrazione rimanda sempre all’assenza di specificità del luogo – in questo caso, la provincia –, riprende con un solo gesto il fluire delle sue nostalgie, ma segnala anche l’assenza del suo significato: restano soltanto i segni di quanto non è leggibile nel tempo del presente lontano e che s’inscrive in una memoria viva del passato. 10 Gli stessi temi torneranno tali e quali nella Strada, ma condensati nell’impossibilità di giungere alla coppia. 11 Da Rossellini a De Sica, questo elemento fondamentale si disegna al contempo come «umanità» e come «umiltà» che tende a superare gli ostacoli di un reale che resiste; del resto, lo stesso modello è complesso per ciascun autore, che ne enuncia le differenti modalità con sfumature proprie in ogni film: anche la «sentimentalità» di Stromboli differisce da quella di Germania anno zero o di Europa 51, come la sentimentalità di Ladri di biciclette differisce da quella di Umberto D. 12 La differenza con gli altri autori di adattamenti della stessa epoca è importante. Non si può fare l’economia di una riflessione su «imitare» e «somigliare», il che può apparire polemico, se si pensa all’importanza di queste nozioni nella speculazione critica in generale, e letteraria nello specifico, e se si pensa al risultato più compiuto di Fellini in questo campo, Toby Dammit. Sottolineiamo, di sfuggita, il grande riadattamento di alcuni «modi» o «maniere» propri dello spettacolo di music hall e di Wanda Osiris, rivisitati tramite un «brechtismo» molto popolare in un gran numero di commedie della troupe dei Legnanesi, tra il 1960 e il 1980, o in alcuni spettacoli di Peppe Barra e Lamberto Lambertini all’inizio degli anni ottanta. 13 Se Fellini ama questi vagabondaggi, è perché nascondono delle traiettorie segrete, dei divenire. Per tutta questa parte sull’erranza, cfr., Gilles Deleuze, «Quel che dicono i bambini», in Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 85-92. 14 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 66-67.
III. Il cast di Luci del varietà [...] 1 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., p. 66. 2 Rita Cirio, op. cit., pp. 73-74. 3 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., p. 82. 4 Grandi caratteri del teatro (Talma, Sarah Bernhardt), grande fotogenia del cinema (Lillian Gish, Greta Garbo, Marlene
Dietrich), ma a volte anche regimi misti (Anna Magnani, Jeanne Moreau): le sfumature in questo campo sono infinite e tuttavia determinanti, nel senso in cui un regista crede spesso di aver fatto un film riuscito grazie alla scelta intrinsecamente «perfetta» degli interpreti; è, in generale, il caso di Visconti. 5 Federico Fellini, Sono un gran bugiardo, cit., p. 23. 6 Id., Intervista sul cinema, cit., p. 80 [corsivo nostro]. 7 È un vero regime di crudeltà, e si deve ripensare a quanto è stato detto dell’imitazione che non imita ma assomiglia. Giulietta Masina somiglierà soltanto a Giulietta-Gelsomina, in(de)finitamente ripetuta da un film all’altro, attraverso la molteplicità complessa di ciò che permette la singolarità di ogni introspezione. Allo stesso modo Mastroianni, che non sarà mai più «come prima» e che, da un certo punto di vista, non avrà un «poi» oltre a quello determinato da Fellini. In tal senso, la riunione in Ginger e Fred di questi due attori, interamente forgiati da Fellini, funziona come una vera e propria allegoria del destino della vita e del destino delle marionette. Insomma, a volte Fellini, per consolarli, lascia a ciascuno il proprio nome. Le sue numerose interviste sull’attore rivelano spesso un duplice aspetto: sicuramente una simpatia, ma anche più di una punta di crudeltà e di derisione. Uno scorcio davvero completo sui problemi relativi alle forme teatrali, al cinema e agli attori figura nel bel libro di Rita Cirio, che abbiamo citato spesso, in cui sono riportate le considerazioni di Fellini su tali questioni. Per concludere, ricordiamo un’intervista di Alberto Arbasino, apparsa sulla Repubblica del 20 aprile 2001, a proposito di Ennio Flaiano, uno degli sceneggiatori-collaboratori più importanti di Fellini: «Fellini, ma anche Visconti. Con i loro collaboratori si comportavano come padroni». 8 Rita Cirio, op. cit., pp. 81-84.
IV. Primo approccio con Lo sceicco bianco […] 1 La mitologia papale e poi quella mussoliniana hanno cancellato l’antico passato repubblicano di Roma, esaltandone e conservandone soltanto l’ultima veste storica, il grande scorcio imperiale, non potendo il papato riconoscersi se non nel modello sul quale aveva costruito la gloria e l’esaltazione dei suoi sacrifici: in tal senso, il papato recupera il prestigio della nobiltà romana d’epoca imperiale. Della Repubblica romana, il fascismo salva soltanto – attraverso il film di propaganda che fa girare in una Cinecittà nuova fiammante, Scipione l’Africano di Carmine Gallone (1937) – l’episodio delle guerre puniche e l’affermazione di una dittatura senatoriale militare ed espansionista, nella quale il regime trova la sua espressione, le sue radici e le sue basi culturali. Tutta l’oggettistica fascista rimodella la propria «segnaletica» secondo questa grottesca mitologia di cartapesta (aquile romane e bandiere) e di fantasmi, ai quali tenta di dare, con successo, nuova linfa. La percezione e l’acquisizione di questi segni esteriori del fascismo sono evidenti nella descrizione felliniana della «romanità» ritrovata di continuo e di continuo perduta; «romanità» che è, di per sé, una fonte di rielaborazione costante. 2 È il significato del nome proprio Romeo, errante lontano da Giulietta. 3 Il «programmino» è commovente nella sua esaustività, mescolando vita privata e pubblica: «Ore 7, arrivo a Roma; fino alle 10, riposo in albergo; 10-11, conoscenza e affiatamento familiare; ore 11, visita dal papa… poi, pranzo con gli zii, e dalle 13 fino a mezzanotte tutto fila a meraviglia, non abbiamo un minuto libero, sempre con gli zii Pantheon, Colosseo, Palatino, Foro romano, qui, appuntamento con i cugini De Pisis e poi tutti insieme Appia Antica, catacombe, Cecilia Metella, ritorno a Roma e… verso sera, tutto illuminato, Altare della Patria… poi, naturalmente, cenetta intima e… riposino notturno». 4 Per la storia completa di questo tema, come per le ragioni che hanno portato Fellini a girare il film, si rimanda alla bella introduzione di Oreste Del Buono alla sceneggiatura dello Sceicco bianco, Garzanti, Milano 1980, pp. 5-15, seguita da un’intervista di Lietta Tornabuoni ad Alberto Sordi. 5 Astrologa francese, resa celebre dalla radio negli anni ottanta. [N.d.T.] 6 Proponiamo una spiegazione possibile del tipo di somiglianza qui evocato: il momento del film in cui il personaggio è presentato rimanda a una somiglianza tematica con il «teatro nel teatro» inventato da Pirandello; il film oscilla quindi in una sorta di «cinema nel cinema», o di «immagini nelle immagini». 7 Tutti prendono delle decisioni: la caporedattrice spinge Wanda verso la catastrofe, il commissario decide di far internare Ivan come pazzo, l’ospedale, a sua volta, offre soltanto una soluzione clinica, la semplice «consegna» della malata all’autorità ufficiale, che non può essere altri che il marito. 8 Ivan aveva inserito nel suo «programmino» una visita precisa all’Altare della Patria, la tomba del Milite ignoto; queste tracce sparse mostrano, nondimeno, una mentalità e un conformismo nati con la poetica del Risorgimento e rimasticati dall’amor di patria strombazzato dalla cultura fascista.
V. Discorso sull’immagine [...] 1 Cfr. Jacqueline Risset, L’incantatore, cit., p. 31: «Lo sceicco bianco […] gioca con un’altalena, oggetto infantile che è anche uno strumento di seduzione femminile. Si potrebbe leggere la scena come scena di seduzione rovesciata: il volo dei veli al posto delle gonne che si sollevano – l’oggetto d’amore in posizione femminile». 2 L’attore inventa in questo film una caratterizzazione del seduttore di cui si servirà a lungo, modulandola; un seduttore sicuro di sé malgrado tutto, ovvero a dispetto di quello che lo spettatore può pensarne rispetto ai codici abituali di fascino e seduzione. È più complessa di una modalità teatrale comica o grottesca, visto che, in fin dei conti, non può essere rivelata in tutta la sua ampiezza se non attraverso inquadrature in campo medio. 3 In merito a queste due contestualizzazioni, cfr. Jacqueline Risset, L’incantatore, cit., p. 30. 4 Il mito dell’Angelo s’impone in questo film come un tema ricorrente dell’iconografia felliniana futura, una modalità complessa di mediazione tra il divino e il satanico, che rimanda a quanto di più satanico può esserci nel divino. Divino che si confonde spesso con una rappresentazione altra della bellezza. C’è, in Fellini, un satanismo della bellezza, espresso soprattutto nell’angelo carnale di Giulietta degli spiriti. 5 Jacqueline Risset stabilisce questo legame tra lo Sceicco bianco e il papa: «Wanda è una variante indebolita d’Emma: e il Charles Bovary di Wanda, il suo sposo, si chiama Ivan Cavalli. Ma anche lui nutre un fantasma: un secondo Sceicco bianco, che non è altri che il papa […]. Tra i due immaginari stereotipici, quello di Ivan è il più sottomesso: coincide con una gerarchia sociale già fatta, mentre Wanda persino nello stereotipo si avvicina a qualcosa che ha a che vedere con una certa forma di emozione estetica […]. L’oggetto di Ivan, a differenza di quello di Wanda, è oggetto astratto, invisibile, mai percepito come fantasmatico: esso resta bianco» (in Jacqueline Risset, L’incantatore, cit., pp. 35-36). 6 Nel momento in cui Wanda si getta in acqua, una luce veglia in una capanna sul fiume; la stessa scena è ripresa in Toby Dammit, quando quest’ultimo sta per uccidersi.
VI. I vitelloni, o «il mondo è una festa mobile» [...]
1 Angelo Solmi, Storia di Federico Fellini, Rizzoli, Milano 1962, p. 135. 2 Numerose situazioni dei Vitelloni anticipano Amarcord, il film dei ricordi, non solo nella descrizione delle passeggiate sui
marciapiedi della città, ma anche in alcuni episodi, che verranno ripresi nel film successivo. È stato evocato il carattere autobiografico di questo film: i cinque personaggi incarnerebbero i diversi aspetti della stessa persona, ovvero Fellini, che non l’ha negato, a condizione tuttavia, ha detto, che si aggiunga quello che avrebbe voluto essere e quello che non avrebbe voluto essere. 3 A causa della storia narrata e dell’esempio di sua sorella, Alberto si trova a doversi confrontare con una situazione critica, ma invece di impegnarsi in una problematica che lo metterebbe in discussione, preferisce aderire al modello compassionevole propostogli dalla madre. 4 Fellini non utilizzerà più la voce narrante se non in occasione di Agenzia matrimoniale, e anche lì per concentrare lo spazio narrativo nel tempo e in un ritmo più rapido della parola. 5 La questione della sperimentazione e dell’esperienza è un tema importante nella creazione artistica; per rimanere in ambito italiano, ricordiamo il già citato Pirandello (I vecchi e i giovani), a cui possiamo aggiungere Saba (Ernesto), o Calvino (Palomar); e quindi Pasolini (Petrolio), il quale, eliminando i possibili rapporti padri-figli, ripercorre il problema dell’esperienza e della sperimentazione togliendo alla questione i suoi elementi astratti e facendone un sapere del corpo. 6 Non ha lo stesso valore dei film con protagonisti Totò o Louis de Funès, per esempio, né con Greta Garbo o Marylin Monroe, in cui l’attore, puro volto e metodo, è pronto a un impiego più o meno differenziato da un regista all’altro. 7 Richard Basehart, presente nella Strada e nel Bidone, appartiene alla linea abbozzata da Franco Interlenghi e Antonio Cifariello. 8 In definitiva, le immagini esprimono il simulacro e le sue simulazioni come stereotipi; sempre in questo film, anche le scene di matrimonio religioso subiscono questo trattamento critico degli stereotipi, attraverso l’immagine caricaturale del prete, le parole tronche che rivolge agli sposi, l’Ave Maria di Schubert, tutti cliché descritti in sintesi narrative. 9 Per antitesi: «Giudizio», il povero di spirito al quale, in principio, appartiene il regno dei cieli; è il marchio di una cultura contadina che condensa tutte le forme differenziate che ne costituiscono l’unità. 10 Il discorso qui inaugurato sul religioso, il sacro, il divino, l’innocente e l’angelo, che interessa a livello più alto una lettura specificamente morale dell’Italia, è perseguito in modo sempre più deciso nei film La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8 ½; sembra poi dissolversi, essendo stata esplorata in questi film la materia razionale-emotiva, per riapparire in seguito sotto l’unica forma possibile, il grottesco, almeno in due opere: Toby Dammit e Roma.
VII. Solitudine degli uomini nella città [...] 1 Il progetto di Zavattini, una rivista cinematografica chiamata Lo spettatore, era volto a «ridurre al massimo la distanza tra la vita e lo spettacolo»; gli altri episodi di questo primo numero, che non ebbe seguito per via del disinteresse della critica e del pubblico, erano Tentato suicidio di Michelangelo Antonioni, L’amore si paga di Carlo Lizzani, Paradiso per quattro di Dino Risi, Gli italiani si voltano di Alberto Lattuada e Storia di Caterina, di Cesare Zavattini e Francesco Maselli. 2 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 85-86. 3 Vedremo come questo corpus si costituisce a mano a mano in un’elaborazione materialmente «corpulenta», massiccia, stratificata e tettonica, che a sua volta diventerà la base essenziale di un gran numero di racconti. Ci sono tre elementi: Roma, il vecchio palazzo, il nome Cibele – un anagramma di «celibe», che sottolinea l’immersione nei racconti che circondano la mitologia di questa figurazione della «Grande Madre» –, qui in relazione con il tema del «matrimonio», che ritroveremo rappresentato in Roma e in Intervista. 4 Questa stratificazione reale che parte dal pianoterra e termina all’ultimo piano si nostra nel film nella maniera più semplice e diretta, impedendo una lettura errata dei segni: non si tratta tanto di una spinta ascensionale quanto di un attraversamento verticale. 5 Satyricon e Roma riprenderanno questi spazi chiusi, fornaci termali, labirinti e catacombe, modellati diversamente. 6 La scena più significativa da questo punto di vista è quella del miracolo e dei bambini nella Dolce vita: lì gli elementi si mescolano in una disposizione in cui il significato è moltiplicato; per esempio, nella stessa scena, l’evento, il giornalista, la comunicazione. La tipica scena dell’insieme idiota-angelo compariva nei Vitelloni, laddove l’idiota fraternizzava con la propria rappresentazione angelicata e fortemente idealizzata. 7 Si può riassumere così: il giornalista inventa il caso di un suo amico epilettico e licantropo, la direttrice accetta. Rifiuta di fargli vedere il catalogo delle ragazze, ma promette con grande ottimismo di averne già una che fa al caso suo. Il giornalista firma una scheda (nessuna differenza tra protagonista e attore-interprete, che firma con il suo vero nome: Antonio Cifariello). Riceve a casa, per telefono, la notizia che l’agenzia ha trovato una ragazza. L’appuntamento inizia con un giro in macchina, durante il quale conosciamo la storia triste e banale di una ragazza di campagna, la maggiore di nove figli con un padre senza lavoro. Il giornalista le chiede il motivo profondo che la spinga a sposare un mostro: è una che si affeziona, dice lei, vuole sistemarsi. Il dialogo avviene prima in macchina, poi su un prato, ma lei ha paura di sporcarsi, sedendosi, e scivola. Lo sfondo rivela il paesaggio tranquillo, quasi idilliaco, della campagna romana. 8 Il piano della finzione è molto elaborato, verità e finzione si mescolano in movimenti molteplici di credibilità: l’attore che
si presenta con il suo vero nome indossa l’apparenza di un giornalista la cui voce è doppiata da Enrico Maria Salerno.
VIII. L’ambiente sociale perduto: La strada […] 1 A Fellini piace raccontare, come accade nelle favole, qualcosa che sembra inverosimile; Il bidone suggerirà questo stesso
sentimento di una storia alla quale è impossibile credere, e l’accumulo di dettagli intorno alla trama centrale è lì per corroborare l’apparente «futilità» del tema. 2 Prima testimonianza dell’interesse di Fellini per il circo: un’altra linea narrativa – o d’inchiesta, o di ricerca – che in seguito sarà oggetto di una lunga riflessione e più volte rappresentata. 3 Nella Strada c’è qualcosa che potrebbe appartenere a René Clair e a Prévert, il candore sfrontato delle cose incontestabili. 4 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 87-88. 5 Questa scena ricorda le descrizioni di vagabondaggio e di riflessione già realizzate da Rossellini in Viaggio in Italia.
IX. Di che cosa è fatto un capolavoro? […] 1 La dolce vita riunirà tutti i temi apparentemente disordinati in una falsa unità globalizzante; è del resto il motivo per il quale il film segna non tanto una tappa conclusiva, quanto un punto di partenza. Inoltre, non si insisterà mai abbastanza su questo dato obiettivo della filmografia felliniana: l’Italia e gli italiani; si gioca tutto all’interno di questo tema, da Luci del varietà alla Voce della luna, anche quando sembra dileguarsi, come in Toby Dammit, ricondotto con forza a Roma, o in Casanova e in E la nave va, in cui è lo Studio 5 a svolgere il ruolo di coordinata geografica. Non c’è «altrove» romantico in Fellini, l’«altrove» è sempre interno alla situazione geografica di una storia d’Italia. 2 Tullio Kezich, op. cit., p. 238. Nel film, l’imbroglio principale consiste nel far credere che c’è un tesoro nascosto nel terreno di qualche miserabile contadino e che questi non potrà recuperarlo se non dando ai truffatori, travestiti da prelati, tutti i suoi risparmi. 3 Franco Fabrizi avrà ancora un ruolo in Ginger e Fred; Fellini racconta: «Mi sembra di aver visto in teatro Franco Fabrizi – perché lui era uno dei “boys” di Wanda Osiris – […] ed ero rimasto sedotto e divertito dal suo modo di sorridere in passerella, con tutti quei dentoni e poi il compiacimento, la soddisfazione di far parte di quelle riviste con tutte quelle scalinate che aveva Wanda Osiris […]. Mi colpì anche la sua voce, quella sua voce rauca, strascicata che aveva anche qualcosa di capriccioso e infantile, una permalosità un po’ isterica […], questa spocchietta così femminea che è molta buffa. È venuto a Roma, gli ho fatto un provino e ho visto […] che si poteva costruire su di lui quel personaggio incosciente, fanciullesco, irresponsabile, sciocco». (In Rita Cirio, op. cit., p. 61; il seguito di questo brano evoca le relazioni al tempo stesso buffe e aggressive tra Franco Fabrizi e Alberto Sordi durante le riprese dei Vitelloni.) 4 La scena è situata tra due incontri con la figlia, così che il discorso di Augusto sembra essere rivolto soprattutto a se stesso. 5 Le «stazioni» della «passione» del protagonista sono le seguenti: 1) l’evento che funge da situazione narrativa e presenta i personaggi (Augusto: B. Crawford; Raoul-Picasso: R. Basehart; Roberto: F. Fabrizi, biondo; il «Barone» Vergas: G. Gabrielli), che stanno perpetrando il loro crimine, a primavera; 2) ritorno di Raoul-Picasso in famiglia e presentazione di sua moglie (G. Masina) e di sua figlia; 3) scena del night club; 4) tentativo di truffa al caffè Canova; 5) falsa assegnazione delle case popolari in periferia; 6) feste di Natale e di Capodanno e incontro con Rinaldo; 7) veglione a casa di Rinaldo; 8) fine della festa e uscita all’alba, poi ritorno solitario di Augusto; 9) preparazione del colpo alla pompa di benzina, incontro tra Augusto e sua figlia, esecuzione del colpo; 10) fine giornata a Marino in cui Raoul e Roberto lasciano Augusto; 11) appuntamento di Augusto con sua figlia, pranzo, scena del cinema e arresto di Augusto; 12) l’ultima truffa, l’inverno; 13) il tradimento e l’esecuzione; 14) la morte. 6 Ritroviamo questi dati in Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e in Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini, in cui la scansione musicale leggera suggerisce il tema della cristologia; nel Bidone, questo rapporto viene indicato attraverso le quattordici stazioni di una possibile Via Crucis. 7 Oltre all’autocitazione (il film che Augusto e sua figlia vanno a vedere è Lo sceicco bianco, come indica la colonna sonora), Fellini integra spesso nel film la storia esterna a esso. Ecco quello che dice di Broderick Crawford: «L’ho scelto dopo aver molto pensato a cercare il protagonista tra tantissime facce […]. Che magnifico faccione aveva Broderick Crawford! La testimonianza più clamorosa della fotogenia cinematografica: bastava alzasse un sopracciglio ed era già un racconto» (in Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 105-106). Fellini ha spesso raccontato come sia stato conquistato dall’immagine malinconica dell’attore dagli occhi dolci su una locandina strappata che lasciava vedere solo metà del titolo del film, All the King’s Men (cfr. Tullio Kezich, op. cit., p. 238). Questa circostanza è raccontata in filigrana nell’episodio dell’uscita dal cinema, nel momento in cui Augusto viene arrestato: è visibile solo metà del titolo del film proiettato, e che del resto non è Lo sceicco bianco. Cfr., in conclusione, la testimonianza di Fellini in Rita Cirio, op. cit., pp. 67-70.
X. Le notti di Cabiria, o «il mondo è una festa immobile»[...] 1 Cfr., a tal proposito, le analisi di Tullio Kezich, op. cit., pp. 146-150. 2 L’episodio viene raccontato per intero in Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 61-62, e in Rita Cirio, op. cit., pp. 54-55. 3 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 65. 4 L’episodio dell’«uomo del sacco» verrà ripreso in A Director’s Notebook e in Fellini nel cestino, due speciali per la televisione.
Per queste storie, cfr. Tullio Kezich, op. cit., pp. 244-246 («L’anima buona della passeggiata archeologica»). 5 Ivi, p. 248: «Fellini scopre così dei territori sconosciuti come Guidonia, il Tiburtino Terzo, Pietralata. Pasolini è un profondo conoscitore del ventre di Roma, indica luoghi e figure con la precisione di una guida e ha un buon orecchio […]». 6 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 99-100. 7 Rita Cirio, op. cit., pp. 63-64. 8 Fin lì, Fellini ha presentato degli attori soltanto in Luci del varietà e nei Vitelloni. 9 Rita Cirio, op. cit., pp. 59-60. 10 Fellini propone più volte nelle Notti di Cabiria questo rapporto tra finzione e realtà; quando Cabiria racconta la serata che ha passato al cinema in compagnia di Oscar e cita I gladiatori – un film dell’epoca, con Victor Mature –, commenta le osservazioni di Oscar in questi termini: «… Lui m’ha spiegato che quella storia lì mica è una storia vera, quella è una storia che fanno al cinema…».
XI. Come distaccarsi dal neorealismo? 1 Rita Cirio, op. cit., pp. 131-132. 2 Federico Fellini, Sono un gran bugiardo, cit., p. 68. 3 Id., Fare un film, cit., pp. 45-46. 4 Cfr. «Un caso di gente che vive insieme», in Il Contemporaneo, n. 15, 9 aprile 1955; articolo riportato in Federico Fellini, I
vitelloni e La strada, Longanesi, Milano 1989, pp. 276-280. 5 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., pp. 85-86. 6 Metello, pubblicato nel 1955, suscitò una grande polemica tra i difensori di un nuovo realismo, come Carlo Salinari, e quelli, come Carlo Muscetta, che gli rimproverarono il sentimentalismo e la rappresentazione idilliaca della realtà operaia; Metello fu portato sugli schermi da Mauro Bolognini nel 1970. 7 Cfr. Italo Calvino, «Prefazione», in I nostri antenati, Einaudi, Torino 1960, pp. IX-XIX, a proposito di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, cfr. Martine Van Geertruyden, «Pasolini romancier dialoguiste», in Réalités et temps quotidien. Matériaux de la culture italienne contemporaine, L’Harmattan, Paris 2001, p. 98 e sgg. 8 Federico Fellini, Sono un gran bugiardo, cit., pp. 68-69 [traduzione modificata].
PARTE SECONDA – LE VARIAZIONI DI UNA REALTÀ CHE SCOMPARE: CREARE I. Roma come conquista di uno spazio totale [...] 1 Con questo film si inaugura il terreno di elaborazione propriamente felliniano di un italian style che esiste già all’epoca,
senza per questo essere pienamente rivelato, come una sorta di obiettivo non ancora raggiunto. Esuberanza visionaria del cinema di Fellini, che ne determina la prima materializzazione in un senso «modernista», che allontana volontariamente dalle sue scenografie ogni riferimento all’antico e ne rinforza la visibilità tramite il contrasto del bianco e nero. Questa stessa visione figurativa si ritrova in Visconti, dove prende però il sentiero parallelo di una grandiosa ripresa dell’antico: questa seconda formula ha avuto, e ha ancora, un grande successo; promossa dall’ideale estetico di una borghesia che ricopre l’area liberal-social-democratico-socialista, si estende dall’esaltazione della bellezza incorniciata dell’antico – come Mario Praz l’ha messa in luce – alla purezza lineare, «miracolosa», di una commistione sapientemente elusiva di antico aureolato e inserito nella modernità. 2 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., p. 110. 3 Questo rapporto è già ampiamente delineato nelle Notti di Cabiria, sia attraverso la descrizione della vita dell’attore cinematografico, sia attraverso il «viaggio» intrapreso da Cabiria nel mondo di via Veneto e nella serie di «apparenze» che le vengono lì rivelate. 4 Sul piano drammaturgico, è la coerenza psicologica la prima componente a essere intaccata, dalla Dolce vita in poi, benché alcuni personaggi si inseriscano in questo tipo di rapporto: soprattutto Emma, nella relazione coniugale che la lega a Marcello,
anche se appare come una monomaniaca la cui descrizione rimanda più a una circostanza tipicamente italiana che a un’individualità specifica – il prototipo di una futura «mamma». 5 Nelle Vacanze di Monsieur Hulot, Jacques Tati utilizza in modo diverso questo stesso procedimento, moltiplicando le serie e gli incroci dei gesti all’interno di una geometria spaziale il cui disegno si vuole perfetto; lo riprende anche in Mio zio e Monsieur Hulot nel caos del traffico, modificando e allungando le velocità, spostandole, per esempio, dall’elemento visivo a quello sonoro. 6 Sette sono i film già girati al momento della Dolce vita, otto e mezzo al momento del film omonimo. Benché sia perfettamente soggettivo, possiamo frazionare il film in sette grandi episodi: 1) Racconti del femminile: a) Maddalena (Anouk Aimée), sviluppato a lungo, poi ripreso e sviluppato di nuovo nel sesto episodio; b) Emma (Yvonne Furneaux), abbozzato con forza, ripreso durante tutto il film per piccoli blocchi; c) Sylvia (Anita Ekberg), sviluppato in un blocco unico diviso in più parti (arrivo, conferenza stampa, visita a San Pietro, ristorante-night, vagabondaggio notturno, fontana di Trevi, ritorno in hotel); 2) via Veneto: dove tutto inizia e finisce, dove tutto converge, con la presenza costante dei paparazzi; 3) Steiner, abbozzato a lungo, sviluppato dopo il miracolo, ripreso dopo il quinto episodio e dopo la scena di rottura-riconciliazione con Emma; 4) il «miracolo»; 5) il padre; 6) la scena a casa dei nobili; 7) lo spogliarello; per un totale di settantotto sequenze narrative. Si può anche applicare una divisione in nove blocchi se si scinde il primo episodio in tre. Non c’è un episodio specifico riservato a Marcello, che, in compenso, li attraversa tutti in termini di attualità, iniziazione e sperimentazione della vita. Parlando della «fine» dei suoi film, Fellini dice: «In La dolce vita tutta la sequenza dei nobili proprio non esisteva nella sceneggiatura e non c’era neanche tutta la sequenza del miracolo, sono tutte cose che ho aggiunto girando il film […], in realtà per La dolce vita è stato come girare cinque o sei film a episodi: quello di Anita, poi l’episodio del padre, poi ho aggiunto tutto il pezzo del miracolo e poi ho aggiunto tutta la parte dei nobili. C’era invece una sequenza di un motoscafo che perdeva tutta la benzina e si bruciavano due donne, sequenza che poi non è stata inserita nel film, c’era nella sceneggiatura ma non l’ho mai girata» (in Rita Cirio, op. cit., pp. 142-143). 7 Un esempio: Marcello non riesce a sposare Maddalena o a vivere con lei nella Dolce vita; in 8 ½, il personaggio della moglie di Guido è interpretato da Anouk Aimée, come per indicare che, dopotutto, questo matrimonio è comunque avvenuto e che non è molto soddisfacente: ancora un attraversamento e una linea, ma da un film all’altro. 8 Non si sa fino a che punto l’espressione corrisponda al leggendario «dolce far niente», né a chi o a che cosa possa essere attribuita – motivo per cui è inattribuibile, ottusa, sorda, motivo per cui «la dolce vita» diventa indipendente –; appartiene agli uomini, alle cose, a un insieme degli uni e delle altre? Di fatto, è soltanto una proiezione. Quanto a Fellini: «… il titolo del film non aveva nessuna intenzione moralistica o denigratoria, voleva soltanto dire che nonostante tutto la vita aveva una sua dolcezza profonda, irrinnegabile» (in Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., p. 108). 9 Volontariamente o meno, Fellini riprende l’insieme dei temi legati al fiume (di diamanti, questa volta, ma anche Via Lattea e cintura di Venere), che sottenderanno la rappresentazione proposta dal manifesto di Anita Ekberg nelle Tentazioni del dottor Antonio. 10 Idealmente, via Veneto è messa in opposizione ai due luoghi chiusi del film: l’appartamento di Marcello lo spazio di Emma, spazio del ripiegamento in una coniugalità eventuale, e l’appartamento di Steiner, fintamente aperto – come se si desiderasse farne un «bateau ivre» –, in realtà luogo chiuso di un teatro in cui si concentra la tragedia del capro espiatorio; tutti gli altri luoghi sono pubblici o molto grandi, esterni puri. Del resto, via Veneto in sé pone a Fellini il problema del suo punto di vista sulla realtà: dato che viene ricostruita in un teatro di posa – il Teatro 5 di Cinecittà –, diventa scena, una delle copie possibili della realtà e già sua immagine reinventata. 11 Lo sceicco bianco o Le notti di Cabiria, interamente incentrati su Roma, ma racchiusi nella loro storia, non offrono questa visione globale della città. Sono esteriorità, descrizioni fatte dall’esterno, che rendono ostentata la potenza dei segni della città. Diverso sarà il caso di Roma o di Intervista, in cui sarà il punto di vista del «residuo» a permettere la lettura di stratificazioni e genealogie. 12 La dolce vita doveva intitolarsi inizialmente Moraldo in città; cfr. Tullio Kezich, op. cit., pp. 271 e 274. 13 Si può del resto paragonare questa scena a quella parallela in cui si racconta la fine della serata del padre di Marcello a casa di Fanny (Magali Noël), dove l’intenzione narrativa di partenza è la stessa, ma è tutto ormai rivelato soltanto dall’immagine, in una serie di atteggiamenti in cui i personaggi non si muovono più, né nella stanza dove si trovano Marcello e suo padre, né all’entrata, dove le ragazze attendono l’esito di una storia senza storia; nella scena con Maddalena, al contrario, la prostituta aspettava il finale di una storia che poteva sembrare sua, ma che viveva soltanto «di relato». Nella seconda sequenza i dialoghi sono diventati fluttuanti, non comunicativi, balbettanti, percepibili unicamente per addizioni o sottrazioni uditive. 14 Il filtrare della luce evoca l’atmosfera di una cappella; Marcello, soggiogato dall’immagine di Paolina – che è anche il nome di una celebre cappella –, le dice: «Ma lo sai che sembri proprio uno di quegli angioletti che ci sono nei quadri delle chiese umbre?». 15 Un paragone, persino frettoloso, è possibile con altri film, nei quali la cura riservata al bianco e nero è eccessiva; per esempio, i film che Leni Riefenstahl dedica al Terzo Reich, dove tutto diventa metallico, in un’esaltazione tribale dell’acciaio attraverso il bronzo antico, in una «scarnificazione» perfetta dell’immagine umana; cfr. Marie-José Mondzain, L’image peut-elle tuer?, Bayard, Paris 2002, p. 61 e sgg. 16 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 96. 17 Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, XXXVIII , Adelphi, Milano 1983. 18 Nei primi tre film si assiste al passaggio da una zona di referenzialità alla solitudine e alla perdita di spessore storico e
sociale, mediante la rappresentazione di individui in ambienti in via di estinzione; negli ultimi tre, a uno sprofondamento nel dolore individuale. 19 La dolce vita propone la descrizione di una modernità dell’Italia non ancora tentata, ma, descrivendola, la crea dal nulla, la produce. Lo stesso accadrà anche con Satyricon, di cui è stato detto che descriveva e creava un sistema di moda per il futuro; non sbaglia Orson Welles quando dichiara: «Perché dovrei turbare un uomo della forza di Fellini dicendogli che il Satyricon mi sembra sia stato spaventato alla nascita dalla rivista Vogue?» (Peter Bogdanovich e Orson Welles, Io, Orson Welles, Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 167). 20 A parte il Visconti di quell’epoca, ancora troppo legato a una pratica neorealista – pensiamo a Rocco e i suoi fratelli; la distanza non è dovuta soltanto a questioni di sceneggiatura, ma al trattamento della pellicola in bianco e nero e Visconti non giungerà a una nuova riflessione se non con Vaghe stelle dell’Orsa –, l’unico film che si possa paragonare alla Dolce vita è L’avventura di Antonioni. L’ambiente filmato è, in un certo senso, lo stesso in entrambi i film, ma Antonioni filma frontalmente, in una stretta corrispondenza tra immagine, argomento ed epoca, tra realtà ed esitazione. 21 Dal punto di vista dei racconti, la serata a casa di Steiner si situa proprio al centro del film, soprattutto se si suddivide la parte 1 in tre, arrivando a nove situazioni. 22 Mauro Aprile Zanetti, «La natura morta de “La dolce vita”. Fellini guarda Morandi», in Ciemme, n. 156/07, Cinit/Cineforum italiano, Venezia 2008. 23 C’è, in Fellini, un gioco perfido rafforzato da una forma di crudeltà: impossibile rappresentare ciò che avrebbe dovuto essere, in questo film, la donna italiana per definizione, se non attraverso attrici straniere, in questo caso francesi: aggiunta di un tocco piccante, poi ripreso diversamente in 8 ½, che ha sempre circolato nella mitologia erotica italiana, in particolar modo nel mondo dello spettacolo, e che è un’influenza della Belle Époque e del cinema francese tra le due guerre; ma dopotutto è un prestito reso, se si prendono a modello le bellissime figure delle italiane descritte da Stendhal nelle Cronache italiane. È anche una presa di distanza nei confronti del neorealismo, e siamo già lontani dalle troppo istituzionali Gina Lollobrigida e Sophia Loren, traviate in stereotipate carriere hollywoodiane, e che avranno diritto soltanto, nella cinematografia degli anni a venire, a ruoli nelle «commedie all’italiana»; quanto ad Anna Magnani, è già un monumento, un mito, e come tale sarà trattata da Fellini in Roma. Sia Anouk Aimée, sia Yvonne Furneaux ricordano la maturità delle ragazze italiane, da Luci del varietà al Bidone. La vera novità sarà, in 8 ½, la ricostruzione di una maschera antica e mitica attraverso la figura di Claudia Cardinale. 24 In italiano nel testo. [N.d.R.] 25 Ecco la serie delle domande che sono state invariabilmente fatte a tutte le star di Hollywood e alle quali queste ultime hanno invariabilmente dato le stesse risposte: «È vero che ogni mattina fa il bagno nel ghiaccio? – Le piacciono i bambini? – Ha già provato lo yoga? – Il personaggio storico italiano che le piacerebbe interpretare? – Le piacciono gli uomini con la barba? – Cosa ne pensa della cucina italiana? (Risposta: Spaghetti e cannelloni!) – Dorme in pigiama o in camicia da notte? (Risposta: Con una goccia di profumo francese!) – Pensa che il neorealismo italiano sia vivo o morto? (Non risponde a questa domanda) – Cosa le piace di più della vita? (Risposta: Love, love and love!) – Qual è stato il più bel giorno della sua vita? (Risposta: È stato di notte!) – Cosa l’ha spinta a fare cinema? (Risposta: Un grande talento!, alludendo al suo petto)».
II. Come costruire un mito [...] 1 Per esempio, attribuire ai protagonisti, quando è possibile, i nomi degli attori che ne interpretano i ruoli ecc., ovvero
diminuire al massimo la distanza tra biografia, finzione e rappresentazione. 2 È il caso di Alberto Sordi e Leopoldo Trieste (Lo sceicco bianco e I vitelloni), di Franco Fabrizi (I vitelloni, Il bidone e poi Ginger e Fred) e anche di Richard Basehart (La strada e Il bidone); è ancora il caso – benché sviluppato diversamente – di Giulietta Masina (Luci del varietà, Lo sceicco bianco, La strada, Le notti di Cabiria, Giulietta degli spiriti, Ginger e Fred), di Anita Ekberg (La dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio), di Anouk Aimée (La dolce vita, 8 ½), di Magali Noël (La dolce vita, Fellini Satyricon, Amarcord), o di Sandra Milo (8 ½, Giulietta degli spiriti), per non parlare della pletora di personaggi secondari che abbondano in tutti i film e in cui vediamo riapparire questi o quei figuranti che popolano i set di Fellini. 3 Come in Truffaut, o anche in Godard. Ancora una volta, il meccanismo avvicina Fellini a Tati, più che ad altri registi. 4 Cfr., Parte prima, cap. III . 5 Tullio Kezich, op. cit., p. 275. 6 Ma anche la grande trasparenza ricettiva di Richard Basehart nella Strada e nel Bidone, una malizia senza scopi. 7 Cfr., Parte prima, cap. VI . 8 Nel cinema francese, in opposizione a tipi fortemente marcati come Jean-Paul Belmondo e Alain Delon, Jean-Louis Trintignant avrebbe potuto avere un destino simile per volto e figura, di una regolarità neutra e scontata che sfiora all’inizio l’insignificanza: avrebbe dovuto incontrare sui suoi passi un demiurgo capace di rivelarlo e di trasformarlo, imponendogli i suoi progetti, marcandolo con la sua impronta. 9 Rita Cirio, op. cit., pp. 34-36. 10 Ivi, pp. 80-81. 11 Roland Barthes, «Il viso della Garbo», in Miti d’oggi, Einaudi, Torino 2005. 12 L’elenco di queste diversificazioni tra naturale e metamorfizzato è infinito e divertente, da Rita Hayworth nella Signora di
Shanghai, in cui la rossa dai lunghi capelli diventa una bionda dai capelli corti, distruggendo così un’immagine leggendaria, alle trasformazioni naturali, come per esempio quella di Simone Signoret, o ai cambiamenti spettacolari di Elizabeth Taylor nella serie dei film di Joseph Losey (La scogliera dei desideri e Cerimonia segreta); più recentemente, Sharon Stone in Casinò, per mano di Martin Scorsese. 13 Cfr., cap. II , p. 41, n. 1. 14 Il progetto di Fellini è, in tal senso, comparabile a quello di Michelangelo, che elabora un nuovo modello culturale umano, sia femminile che maschile; è tuttavia quest’ultimo che ha la meglio nella realizzazione dipinta e scolpita: bellezza subito squisita e astratta delle Vergini e delle Madonne, di ogni epoca; lavoro di ricerca e di elaborazione costante intorno al maschile, da Davide a Mosè, passando per l’anello centrale che è l’Adamo della Cappella Sistina: rendere la fierezza toscana o romana o italiana al re giudeo per antonomasia, unire il carattere ebreo alle caratteristiche di una romanità filtrata da Firenze, scolpire un’estetica che eccede nella politica per una volontà instancabile di mostrare l’insieme di queste linee di forza, fino alla maturità presa tra i lacci di una saggezza nutrita di tensioni nel Mosè. Ed essersi nel frattempo lasciati vincere dall’abbandono nella rappresentazione della più perfetta delle dolcezze, della fragilità fatta uomo, Adamo la cui grazia sembra toccare Dio: con la parata degli ermafroditi del Tondo Doni tra Davide e Adamo. 15 Il rapporto con Emma, spesso psicologico, in cui la tensione è determinata dalla violenza del quotidiano, resta all’interno di un condiscendenza-compassione affettiva; in tal senso, al di là del rapporto fisico, la relazione è vissuta come mentalmente e spiritualmente inferiore, e Marcello non si impegna mai davvero per modificarla, anche in questo caso inadeguato, o peggio accidioso, inetto, come direbbe Svevo. Di fronte alla propria impotenza, Marcello si rassegna a un rapporto psicologicamente regressivo, e l’ultimo litigio con Emma risuona come una prova: «Io non posso passare la mia vita a voler bene a te […], tu rovini tutto. [Ho paura] di te, del tuo egoismo, dello squallore desolante dei tuoi ideali. Non lo vedi che quella che mi proponi è una vita da lombrico, non sai parlare d’altro che di cucina e di camere da letto: ma un uomo che accetta di vivere così è un uomo finito! È veramente un verme! Io non ci credo a questo tuo amore aggressivo, vischioso, materno. Non lo voglio, non mi serve. Questo non è amore… è abbrutimento! Come te lo devo che non posso vivere così, che non ci voglio più stare con te! Voglio stare da solo […] e tu mi fai schifo!». Al contrario, lo scatenarsi dell’odio che Marcello, messo di fronte all’evidenza delle sue debolezze, deve affrontare nella scena dello spogliarello – una variazione di Orfeo divorato dalle Baccanti –, è risolto tramite l’umiliazione reciproca di rapporti regolati nella più banale e meschina delle psicologie. 16 Giorgio Passerone, Dante. Cartographie de la vie, Kimé, Paris 2001, pp. 220-221. 17 Cfr. la bella formula di Jean-Luc Godard sulla lingua italiana: «La lingua era passata nelle immagini […], un pensiero che forma, una forma che pensa», «La monnaie de l’absolu», in Histoire(s) du cinéma, Gallimard-Gaumont, Paris 1998, vol. III, cd n. 3, p. 86. 18 Filmare le riprese: per esempio, i proiettori testimoni messi lì per «illuminare» la scena del «miracolo»; o la bellissima parata di proiettori dell’ultima scena di rottura tra Emma e Marcello, che, sottolineando la finzione di quanto viene raccontato, rompe l’immagine di un silenzio notturno che avrebbe potuto essere romantico: ogni volta si innesta sull’intenzione narrativa un tocco umoristico che non cerca di introdurre una distanza ironica nei riguardi della scena e della storia, ma di dar loro delle possibilità più ampie di gestione plastica, e dunque più segni e più senso. 19 Spesso metallica, ma di un metallo dolce, la voce di Mastroianni non utilizza nella Dolce vita, né in 8 ½, la gamma completa dei suoi timbri. Realizza la sua migliore performance vocale, in un’utilizzazione più teatrale che cinematografica, in un bel film di quegli anni, Cronaca familiare di Valerio Zurlini (1962), tratto da un racconto, anch’esso molto denso, di Vasco Pratolini. 20 Questi problemi si porranno di nuovo, e in modo drammatico, al momento delle riprese di Casanova con Donald Sutherland: le affermazioni a posteriori dell’attore americano sottolineano crudelmente, al di là delle contingenze proprie alla formazione dell’attore, la distanza culturale in cui si radica la confusione tra il «coraggio» o la «perfezione» di alcune performance attoriali e ciò che va al di là della struttura dell’attore rivendicata dall’Actors Studio: ora, c’è immediatamente un equivoco in questa volontà di farne sia degli attori di teatro che di cinema, e le evoluzioni più recenti dell’attorialità mettono in evidenza una certa incompatibilità dell’uso indifferenziato delle due reti; l’equivoco, meno visibile quando era il cinema a utilizzare attori teatrali, diventa insostenibile nel caso contrario. Riconosciamo il grande valore attoriale in generale, ma sottolineiamo anche l’interesse delle incapacità che ne compongono la grandezza: quello che hanno di sublime Michel Simon o Delphine Seyrig, sia nel registro del patetico sia del comico, non ha mai fatto parte del repertorio delle scuole, ma di una singolarità che li distingue e li allontana dagli altri. 21 Lasciamo da parte il grande mito valentiniano, limitiamoci al mitema hollywoodiano, in funzione del quale un latin lover non può essere prodotto se non all’estero, prima di essere ricomposto o rimodellato in quell’Occidente della Storia e della forma che porta il nome di Hollywood. 22 Nella Dolce vita soltanto Sylvia cancella il peccato originale, tramite lei si accede a un paradiso non perduto, a un’immagine possibile di un paradiso senz’altro Dio al di là di una natura sensibilmente pura. 23 I due episodi del film includono, simmetricamente, una storia di perle. 24 In italiano nel testo. [N.d.R.]
III. L’episodio di Boccaccio ’70 [...]
1 Con una variante, Mazzuolo. In un caso come nell’altro, il nome evoca cose precise: Mazzullo ricorda Razzullo, il supplice
del diavolo Sarchiapone nell’antico teatro napoletano; Mazzuolo rimanda a «mazza», «mazzuola», forse il randello che serve a picchiare nel teatro di marionette. 2 È il gran tema, il ritornello del film che torna senza pietà, come un tormento: «Bevete più latte / il latte fa bene / il latte conviene a tutte le età. / Bevete più la… / bevete più la… / bevete più latte!». 3 Nel film i segni di un’erotizzazione banale dell’immagine sono molto diversi: per esempio, gli operai che «bagnano» il cartellone con delle grandi pompe idrauliche. 4 La scena anticipa la storia della matrona di Efeso in Satyricon. 5 Ciò tornerà utile nel trattamento della pellicola in 8 ½; la «rivelazione» del sistema di lavorazione in sé, il funzionamento della finzione sarà invece mostrato come elemento autonomo di composizione e di elaborazione cinematografica nel finale di E la nave va, come negli autoritratti in cui i pittori si ritraggono con la tavolozza in mano.
IV. Che cosa significa creare? [...] 1 Si è spesso parlato di incubo per questa prima sequenza, come si parla spesso di caratteristiche «oniriche» dei film di Fellini; è difficile accettare definizioni che non possono che essere equivoche per quanto riguarda l’arte, che si situa su un piano particolare del reale e necessita di una rielaborazione, di un supporto, di una lingua. 2 Spiagge diversamente coinvolte dello Sceicco bianco, della Strada, dei Vitelloni, delle Notti di Cabiria, della Dolce vita; spiagge future, a volte fatali, di 8 ½ e Giulietta degli spiriti; spiagge che si trasformeranno ancora, sia in mari (Casanova), sia in oceani (E la nave va). 3 L’hotel, il Grand Hotel – come la sua variante, il piroscafo di E la nave va – appare sempre di più come la «forma» in cui pullula una folla sostanzialmente diversa da quella dell’appartamento: il tentativo è quello di rifiutare (o di scrollarsi di dosso) la condizione psicologica della piccola e media borghesia, i rapporti stretti che intrattiene con la stessa strettezza, quell’affiancamento di vite da formica che secerne la materia tragica della modernità, e di creare una dimensione diversa dello spazio «vitale»: in 8 ½, accanto e in opposizione al Grand Hotel, la pensione in cui alloggia l’amante di Guido esprime una cultura diversa. Al tempo stesso, il modello rimanda essenzialmente a quello della vita d’attore, delle vite di teatro e di cinema, un nomadismo necessario, senza ingombri, a volte libero e voluttuoso, o libertino. 4 La bruciatura e le fiamme saranno un ricordo d’infanzia in Giulietta degli spiriti. 5 «Insisto che il film deve avere un tono gaio, festoso, umoristico e che figurativamente deve essere estremamente lindo, luminoso» dice il regista, in Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 85. 6 Questa suggestione, Belle Époque e operetta al contempo, sarà ripresa come tema centrale in E la nave va. 7 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 76. Fellini parla di «piano reale» per l’allestimento di questa situazione, senza del resto definire delle opposizioni, come se tutto ciò che accade, quale ne sia la temporalità implicata – presente o passato –, fosse da considerare soltanto come la variazione costante di questo «piano reale», senza differenza tra tempo ed epoca, tra passato e presente; il che spiega perché l’inizio e la fine del film siano posti in un’assenza temporale, in un tempo diverso da quello del film, che, nel momento in cui quest’ultimo si conclude, lo proietta in un futuro intollerabile. 8 Ivi, p. 78. 9 Le scene di «riflesso» – che richiedono un atteggiamento riflessivo – sono, più che altrove, molto numerose in questo film. 10 Forse per via della continuità sequenziale ricercata. 11 Guido risponde: «Questo film io voglio farlo!». 12 La letteratura operistica italiana del XVII e del XVIII secolo si muove intorno al tema del matrimonio «segreto» ma «possibile», mentre il XIX svilupperà quello dell’amore «segreto» proprio perché «impossibile»; nel primo caso, la questione del patrimonio non è nemmeno velata, mentre nel secondo caso si finge di dimenticarla. Tre esempi: Il matrimonio segreto di Cimarosa e Il barbiere di Siviglia di Rossini – ma c’è anche, sotto forma di Commendatore, una storia di «patrimonio» in tutti i Don Giovanni – per il primo periodo; La traviata per il secondo. Le patologie sono diverse: nel primo caso si ride, nel secondo si piange. La «coppia» funge da alibi spirituale alla coniugalità capitalista: in 8 ½ i regalini che il produttore fa al «suo» regista non mostrano che una piccola parte di questa transazione: c’è un crescendo, prima le carezze a favore di pelo al suo «animale domestico», poi i moniti – dire, per esempio, distrattamente, quanto è costata la costruzione della piattaforma equivale a dire quanto è costato l’appartamento in cui la «coppia» andrà a vivere –, le minacce più o meno velate, fino alla rottura del contratto matrimoniale al momento della sua firma: tutte ragioni che spingono a stabilire questo parallelo. Nasce qui anche l’interesse specifico che riveste, in 8 ½, l’ouverture del Barbiere di Siviglia di Rossini, la quale serve forse a evidenziare tutti i matrimoni traditi del film e i richiami all’ordine che impone l’aria della Cavalcata delle Valchirie. 13 Per la prima volta nel cinema italiano di quegli anni, la materia stessa del film costituisce la pura finzione che trascina nel suo flusso ogni forma di esperienza biografica attribuita in modo temporaneo – nella temporalità del film – a ciò che viene chiamato «l’azione», il «ciak», da cui proviene, come priorità, la domanda realmente formulata «dell’atto di creazione» che costituisce il tema centrale. 14 L’esempio più concreto di questa situazione dell’immagine è «l’apparizione» della Dama in bianco – Caterina Boratto –, alla quale, nella scena delle terme, Guido chiede: «Ma lei chi è, bella signora?».
15 La molteplicità di questi piani, il loro incrocio incessante, i rimandi diretti o indiretti che vi si imprimono, le connivenze,
gli asservimenti e le concatenazioni che ne compongono la bellezza proibiscono di addomesticare il racconto e di riassumerlo, conferendogli una psicologia portatrice e destinataria di messaggio alla quale cerca appunto di sfuggire. 16 La sequenza del bacio non contiene tanto una storia culturale intessuta di «edipo», quanto esprime un’accettazione della trama culturale di cui si nutrono le nostre educazioni sentimentali. 17 Saraghina, colei che si nutre dei pesci che le vengono donati come pagamento, del «sarago»; il pesce qui è anche simbolo del sesso maschile, al pari dell’uccello. 18 Il produttore che accompagna Guido alle terme gli dice all’orecchio, prima che questi vada a trovare il cardinale, alludendo ai preti e alla Chiesa: «Avere la loro benevolenza significa prima di tutto ottenere tutto quello che ti serve nella vita… ti supplico, siamo nelle tue mani». 19 Sull’incontro con il cardinale Fellini annota: «Forse una sera il prot. e il vescovo [si trattava di un vescovo al momento dell’elaborazione] dovrebbero anche parlarsi. Non so però cosa potrebbero dirsi. Ho anche pensato che il vescovo appare in sogno al protagonista» (in Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 81). I film a venire non faranno che confermare l’impossibilità di credere al messaggio della Chiesa come a una verità: la domanda formulata ironicamente nelle Tentazioni del dottor Antonio sarà posta in forma di pura presa in giro in Toby Dammit, che è un film sulle Chiese, prima dello sguardo implacabile rivolto alla Chiesa vaticana e alla sua corte in Roma. 20 Ricordiamo che questi numeri vengono ripresi tali e quali da un film di Edmund Goulding, Nightmare Alley (La fiera delle illusioni, 1947), in cui il protagonista era Tyrone Power: la storia di un truffatore e della sua decadenza, che lo rende un mostro da circo. Questo film è stato probabilmente un’elegante fonte d’ispirazione per alcuni temi della Strada, e per le scene di clown in generale. 21 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 78-79. 22 Un modello tipico, cioè perfettamente realizzato, potrebbe essere proprio il teatro di varietà di Totò, un altro grande appassionato di belle donne. In uno dei rarissimi documenti filmici che restano del suo lavoro teatrale, I pompieri di Viggiù, c’è una scena stupefacente in cui l’attore è circondato da una miriade di donne, tutte splendide, e che è stata utilizzata come ouverture del film di Jean-Louis Comolli, Totò, une Anthologie, prodotto da Dramaturgie e presentato nel 1978 al Festival del cinema di Parigi. In entrambi i casi, il tema culturale profondo e segreto, trasformato da una venatura popolare, è quello del Catalogo snocciolato da Leporello nel Don Giovanni di Mozart-Da Ponte. La forza «popolare» risiede nel fatto che, in entrambi i casi (Totò o Mastroianni), Leporello ha preso il posto di Don Giovanni, e la successione delle sue goffaggini simulate annulla il tragico rovesciandolo in una formulazione comica: già Mozart lasciava la situazione nell’incertezza, lavorando nella sospensione di una linea comica possibile. 23 E si deve includere in questo femminile, o escludere, a seconda dei casi – quello del «piano reale» che tracima continuamente – la produzione, incapace, in quanto coniugale, di riassorbire in sé, di far sua, la crisi e l’impotenza del regista. 24 Ballade des dames du temps jadis è il titolo di un celebre poema di François Villon, cfr. Ballate del tempo che se ne andò, il Saggiatore, Milano 2008. [N.d.R.] 25 Queste corrispondenze non sono casuali: ci sono delle forme che si «somigliano» senza essere ricalcate, colte quindi in una coincidenza apparente. Queste due attrici hanno alcuni tratti in comune – una vitalità gioiosa del volto, un sorriso che sta a metà strada tra sfrontatezza e innocenza, corpi che disegnano molto più che sagome – e, come altri attori, faranno parte di altri cast: Sandra Milo sarà la coprotagonista di Giulietta degli spiriti; Magali Noël reciterà in Satyricon, ma soprattutto nel ruolo principale di Amarcord. Il «destino» dell’immagine di un attore, che si è pensato si riassumesse in Mastroianni o in Masina, è in realtà condiviso e ridistribuito nella maggior parte dei film. Ciò conferma ancora una volta che non è mai l’attore in sé a interessare Fellini – da qui la scelta di attori all’inizio poco conosciuti –, ma l’immagine che lui stesso può modellare. Nella Dolce vita, Marcello «somigliava» a Steiner (Alain Cuny); in 8 ½, Guido «somiglia» a Mezzabotta (Mario Pisu), il quale, a sua volta, interpreterà un ruolo «biografico», quello del marito di Masina in Giulietta degli spiriti. Il film che mette insieme il maggior numero di queste «controfigure» è Le tentazioni del dottor Antonio, in cui Fellini riutilizza molti attori secondari comparsi nei suoi film. 26 Dunque anche al di là di un altro piano ancora, quello di un biografismo da pettegolezzo, il quale vuole che, in questo rapporto, Fellini descriva la storia dei suoi amici Carlo Ponti e Sophia Loren; cfr. Tullio Kezich, op. cit., p. 322. 27 Questo prima che l’iconografia delle produzioni di Dino De Laurentiis non imponesse alla penisola – anche nei libri di geografia, come modello della perfezione della «razza bianca occidentale» – Silvana Mangano, la moglie del produttore, rapita all’uscita di Riso amaro (De Santis, 1949) per essere subito rinchiusa negli armadi della «casa» da cui non uscirà più, se non in rare occasioni, tra cui un film mitologico intitolato Ulisse (1954), nelle vesti di Penelope – ma anche di Circe –, il cui sorriso si immobilizza in amarezza, accanto a un Kirk Douglas mingherlino e ostinato; poi Le streghe, film a episodi di Visconti, Bolognini, Pasolini (La Terra vista dalla Luna), Rossi, De Sica (1967); Teorema di Pasolini, e infine Visconti: Morte a Venezia, Ludwig, poi Gruppo di famiglia in un interno (1971, 1973, 1974). 28 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 77. Nel film, il dialogo tra Claudia e Guido durante la passeggiata in macchina è il seguente: «Quanto sei bella! Mi metti soggezione, mi fai battere il cuore come un collegiale! Non ci credi, eh?... Che rispetto vero, profondo, comunichi! Claudia, di chi sei innamorata? Con chi stai? A chi vuoi bene? – A te! – Sei arrivata proprio in tempo, sai… ma perché sorridi così…? Non si capisce mai se giudichi, se assolvi, se mi stai prendendo in giro… Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita daccapo? Di scegliere una cosa, una cosa sola, e di essere fedele a quella… riuscire a farla diventare la ragione della tua vita… una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua
fedeltà che la fa diventare infinita. Saresti capace? – E tu? Saresti capace? – […] No, questo tipo no, non è capace, questo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente. Cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta… e sta morendo, come dissanguato… […] poi incontra la ragazza della fonte, è una di quelle ragazze che danno l’acqua per guarire… è bellissima. Giovane e antica, bambina e già donna, autentica, solare… non c’è dubbio che sia lei la sua salvezza… sarà vestita di bianco con i capelli lunghi, così come li porti tu». Poi il dialogo continua ed è Claudia a parlare: «Un tipo così, come tu l’hai descritto, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena sai… in fondo è colpa sua, cosa pretende dagli altri? […] Io non capisco, incontra una ragazza che lo può far rinascere, che gli ridà vita, e lui la rifiuta… – Perché non ci crede più. – Perché non sa voler bene. – Perché non è vero che una donna può cambiare un uomo. – Perché non sa voler bene. – E perché soprattutto non ho voglia di raccontare ancora un’altra storia bugiarda. – Perché non sa voler bene». 29 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 84. 30 Ivi, p. 85. 31 Ricordiamo qui le parole di Steiner nella Dolce vita: «Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato… Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori del tempo, distaccati… distaccati…». 32 Il fatto che Fellini non abbia mai cambiato la trascrizione della sceneggiatura pubblicata per seguire lo svolgimento delle riprese, che esistano veramente le riprese della sceneggiatura scritta non è provocazione gratuita; questo atteggiamento è presente almeno sin dalle riprese di Agenzia matrimoniale: testimonia soltanto la volontà alle prese con elementi concreti della lavorazione di questo film, i dubbi che si trasformano in decisioni, la necessità, già espressa diversamente da Rossellini, di affidarsi soltanto agli elementi stessi della messa in opera cinematografica, in cui la sceneggiatura ha soltanto un’importanza relativa, e in nessun caso letterale o letteraria. La questione è tanto più importante quanto serve da punto di confronto con altri modi di costruzione cinematografica. Oggi, può sembrare obsoleta, ma viene posta in 8 ½ come una necessità che precede ogni altro discorso, e fonda una matrice d’elaborazione che sarà utile nel momento in cui Fellini si confronterà in modo diretto con testi letterari. 33 In quegli anni lo stesso problema critico è affrontato e sviluppato diversamente da Pasolini. 34 Ricordiamo le ultime parole di Guido: «Ma cos’è che non va? Perché questa tristezza?». 35 Le tentazioni del dottor Antonio è servito ad abbozzare questo finale preso in prestito dal circo, come in seguito il gran finale dei Clowns.
V. Come sfiorare il reale quando il reale sfugge [...] 1 Già nella Dolce vita era evocata una seduta spiritica, nell’episodio dell’aristocrazia romana. 2 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 97. 3 Non insisteremo sulla riutilizzazione di attori in questo film; si tratta di afferrare dei volti, delle forze, delle situazioni in
sviluppi improvvisi, imprevedibili, o rimasti in sospeso. 4 Questo elemento è già presente all’inizio della Strada, quando la madre di Gelsomina vende quest’ultima a Zampanò. 5 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 97-98. 6 Si tratta di trasformare un discorso che può sembrare cinico malgrado il tono bonario, ma bisogna interpretarlo, allo stesso modo dell’accettazione degli altri discorsi, come una formulazione umoristica partorita da Giulietta ritornata infans e capace di reimparare a parlare. 7 Fellini parla in modo ammirevole del colore: «Fra i colori di una scena esiste un vero contagio, uno scambio fluidico, per cui in proiezione ti accorgi che certe aree luminose sono affondate nel buio, altre hanno preso riflessi imprevedibili, che c’è uno sconfinamento costante ai margini degli oggetti di un colore nell’altro» (Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 95).
VI. Come lavorare sulla letteratura [...] 1 Toby Dammit, in Tre passi nel delirio, 1968. Per il contesto storico delle riprese di Toby Dammit, cfr. Federico Fellini, Louis
Malle e Roger Vadim, Tre passi nel delirio, a c. di Liliana Betti, Ornella Volta e Bernardino Zapponi, Cappelli, Bologna 1968, più precisamente pp. 29-96. E anche Tullio Kezich, op. cit., soprattutto il capitolo «L’urlo e il furore», pp. 377-383, ma anche il capitolo precedente, «Assurdo universo», pp. 357-376, che descrive la situazione affettiva e psicologica di Fellini, determinata dalla rinuncia alle riprese di un film al quale sembra tenere molto, Il viaggio di G. Mastorna. Il primo volume citato contiene, oltre al racconto di Liliana Betti, diverse informazioni, come il testo di Edgar Allan Poe e l’adattamento di quest’ultimo che Fellini ha realizzato insieme a Bernardino Zapponi. 2 Cfr. Federico Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, Bompiani, Milano 1995. 3 Per le citazioni e i passaggi tra virgolette, cfr. Tullio Kezich, op. cit., nell’ordine seguente: pp. 363, 358, 358-359, 369, 370, 371, 375 e 378. 4 La creazione in presa diretta si confronterà con l’esperienza letteraria in altri film: in ordine di realizzazione, Satyricon da
Petronio; Casanova dalle Memorie di Giacomo Casanova; La voce della luna dal Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni (Bollati Boringhieri, Torino 1987). Toby Dammit è importante in quanto rappresenta la prima esperienza di questo tipo. 5 Edgar Allan Poe, I racconti, trad. di Giorgio Manganelli, Einaudi, Torino 1983, vol. II , 1841-1843, pp. 416-429. 6 Ritroviamo qui diversi argomenti, o temi, sparsi in tutta l’opera di Fellini. I più importanti sono: i temi della star del cinema, dei giornalisti e dei paparazzi, trattati nella Dolce vita; il tema della polemica contro gli ordini religiosi, e in generale contro chi sale in cattedra per impartire lezioni, soprattutto di contenuto morale, trattato in modo ironico in Boccaccio ’70 (Le tentazioni del dottor Antonio), e in modo implacabile in Giulietta degli spiriti: si tratta dell’episodio dei detective e degli psicoanalisti, e del resto, all’inizio della sequenza, il detective è vestito da prete (è per questa ragione, tra l’altro, che ci distacchiamo qui da una lettura psicoanalitica, come quella tentata in particolare da Marie Bonaparte, Edgar Allan Poe. Studio psicanalitico, Newton Compton, Roma 1976. Il tema della festa e del night club è presente ovunque, dai Vitelloni in poi, ogni volta con un’espressione e uno sviluppo specifici; il tema della traversata di Roma è parimenti costante: è sempre una traversata di natura «stratigrafica» e «genealogica», come se venissero attraversati luoghi del passato più remoto per dimenticarlo e giungere al presente in fieri dell’azione; uno degli episodi a questo proposito più significativi è quello dell’insieme delle strade percorse nella Dolce vita prima di giungere alla fontana di Trevi; questo tema è spesso legato a quello della corsa in macchina, di notte, la cui rappresentazione in Toby Dammit è il punto culminante e cruciale, spinto al limite dei suoi significati possibili. 7 La battuta presa da Shakespeare è la seguente: «E tutti i nostri ieri hanno racceso / a stolti quel sentiero che conduce / alla morte di polvere. Spegniti / spegniti corta candela / La vita è solo un’ombra che cammina / Un povero attore che si dimena e va pavoneggiandosi / sulla scena del mondo la sua ora / e poi non se ne parla più / È la favola raccontata da un idiota / tutta strepito e furia / che non vuol dire niente: (William Shakespeare, Macbeth, trad. it. di Carmelo Bene, in Carmelo Bene, Opere, Bompiani, Milano 2002, p. 1233). La tirata shakespeariana ha nel film una funzione provocatoria che rimanda ai codici culturali dell’attore – e da lì a un’immagine del corpo organizzato in attore –, e si avvicina anche, a suo modo, a uno dei dibattiti più discussi del secolo, trattato in modo particolare da Antonin Artaud. 8 Preferiamo utilizzare il sostantivo che designa chi detiene questa forma di potere, piuttosto che l’astrazione limitativa del concetto che ne fa da sempre una Srl, mentre è invece completamente responsabile e, per estensione, completamente irresponsabile: è questa la questione che detta il tema di fondo di 8 ½. Per il trattamento d’insieme di questa tematica specifica, legata a quella del «cinema nel cinema», cfr. Gilles Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, pp. 91-93. 9 Roger Corman, per esempio, sembra essere andato nella stessa direzione con l’uso implacabile di Vincent Price, ma i risultati non sono sempre convincenti, come se, più che lo stesso Poe, Corman e Price si fossero sforzati di rappresentare, attraverso la ripetizione figurata dell’immagine e dell’immagine del corpo, una totalità uniforme, non una soggettivazione attraverso il corpo, ma la sua massima astrazione, illustrando insomma «il libro», «l’opera» di Poe. 10 Cfr. Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 2012, p. 94: «[…] il cogito dell’arte: non vi è soggetto che agisca senza un altro che lo guardi agire, e che lo colga in quanto agito, assumendo la libertà di cui lo priva». 11 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972. 12 Cfr. Tullio Kezich, op. cit., pp. 297-301. 13 Pasolini è stato cosceneggiatore delle Notti di Cabiria, dove la persistenza del tema di un corpo disorganizzato (corpo fisico, ma anche corpo sociale) è uno degli elementi essenziali del film. In molti testi Antonin Artaud dà forma a questa importante nozione di «corpo senza organi»: cfr. particolarmente Eliogabalo, Lettere da Rodez, Succubi e supplizi. Gilles Deleuze ha in seguito proposto una struttura e delle definizioni per la dimostrazione teorica di questo concetto: riassumerla non è nelle intenzioni del presente lavoro e rimandiamo, dunque, alle elaborazioni che ci sembrano essenziali per la comprensione dei procedimenti applicati da Deleuze. Cfr. Gilles Deleuze, «Introduzione alla schizoanalisi», in L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002, pp. 311-439; Id., «28 novembre 1947. Come farsi un Corpo senza Organi?», in Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2003, pp. 237-259; e Id., «Per farla finita con il giudizio», in Critica e clinica, cit., pp. 165-176. 14 Tullio Kezich, op. cit., p. 379. 15 Gilles Deleuze, «Introduzione alla schizoanalisi», cit., p. 376. 16 Joseph Venturini, Le cochon dans l’île, PUL, Lille 1986, pp. 92-93.
VII. Che cosa fare del colossal e del peplum? [...] 1 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 174-175. 2 Queste sono sempre percepibili, e soprattutto nei film che svelano una preoccupazione storicista, La caduta dell’Impero
romano per esempio, e il suo surrogato, Il gladiatore. 3 L’epoca napoleonica, sia la prima che la terza, come in seguito quella fascista, darà vita, attraverso i disegni pompeiani della Scuola romana, a questa stessa acquisizione «scientifica» di un tempo al quale vuole somigliare a ogni costo. La bellezza di un grande lavoro può nascere da un punto di partenza politicamente discutibile. 4 Un esempio che li riassume tutti: la magnifica ed esilarante rappresentazione di Poppea in Quo vadis?, un’interpretazione storica assai contestabile di cosa fosse la lussuria imperiale dell’epoca neroniana da Messalina ad Agrippina, come la si può leggere in Svetonio o in Tacito. Capelli biondi a iosa in questa filmografia storica – vestali, imperatrici, schiave –, quando il
biondo non poteva essere il colore dominante, ma quello, dissimulato, dello strano, e basterebbe frequentare più assiduamente i musei per accorgersi che i loro busti, senza parlare delle pettinature, ignoravano quel colore; cfr. su questo tema, «I Romani al cinema» di Roland Barthes, in Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1975, pp. 21-25. 5 Menzioniamo, nella vasta letteratura che riguarda Petronio, il ritratto di Marcel Schwob in Vite immaginarie (Adelphi, Milano 1972) e le pagine che gli dedica Enrique Vila-Matas in Bartleby e compagnia (Feltrinelli, Milano 2002). 6 Di fatto, Fellini Satyricon (1969), per giustificare la rilettura molto personale che Fellini fa dell’opera. Due altri film, Roma e Casanova, saranno preceduti dalla stessa menzione, su richiesta dei distributori americani. 7 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 101, 104. 8 Il tema sarà ripreso in una celebre scena di Roma, in cui il mosaico ritrovato del passato si disfa, scompare davanti al presente mortale dell’occhio della cinepresa. 9 L’effetto è accentuato dall’uso di un doppiaggio particolare e attraverso la commistione di lingue molto diverse che sorgono da luoghi non sempre individuabili: anche il piano visivo è spostato in un presente-passato che lo circonda, non attribuibile da un punto di vista uditivo. Quanto al fuoco, ai fuochi sparsi e numerosi, questi ci ricordano i riti sacrificali che terminavano nell’altro battesimo al quale, ai giorni nostri, non si pensa più. 10 Fellini avrebbe voluto Boris Karloff, che non accettò per motivi di salute: del resto morirà nel corso dell’anno, il 1969; cfr. Tullio Kezich, Federico, Feltrinelli, Milano 2002, p. 283: «Il Moro fa fatica a entrare nello spirito e nei tempi del cinema. Non tiene a mente le battute e dire i numeri lo imbarazza: propone allora al regista di recitare la lista del ristorante». 11 In tal senso, le collezioni del Louvre sono tristi, deludenti, non per mancanza di materiale, ma di inventiva; molto bella è invece la collezione di teste romane della gipsoteca di Monaco di Baviera. 12 Un’atmosfera da tribunale e da processo, nella festa per il dio Riso, che ricorda la situazione del protagonista delle Metamorfosi di Apuleio (Libro III). 13 Al punto, del resto, che le riprese di questa sequenza sono state spesso considerate esemplari per la direzione felliniana in teatro di posa. 14 Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Padova 2008, p. 91. 15 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 105. 16 In quegli stessi anni, la tematica è sviluppata da Pasolini in Teorema e da Visconti in Morte a Venezia. C’è un possibile percorso storico nella filmografia di Fellini, che passa attraverso le sensibilità maschili dei Vitelloni, i caratteri asessuati dell’angelo in questo e in altri film, attraverso la leggerezza di Richard Basehart opposta alla virilità brutale di Anthony Quinn nella Strada. 17 Ce ne sono almeno quattro: quello della casa patrizia in cui appare la giovane schiava liberata, quello del Minotauro, quello del «Giardino delle delizie» in cui Encolpio tenta per la prima volta di riscoprire la sua virilità, infine quello di Enotea.
VIII. Ripresa e ricreazione di un filone cinematografico [...] 1 A ben guardare, tutti i film di Fellini non raccontano altro: Luci del varietà è la fine o un «finale» del teatro di varietà; Lo
sceicco bianco, la fine dei sogni di un’adolescenza di provincia; I vitelloni, la fine complessa di un modo di vivere che langue nelle sue illusioni; La strada, la fine di esistenze che si svolgono intorno al circo ed è già la morte del circo, anche se questo sembra rinascere qua e là, ogni tanto, in forme che non sono altro che finte continuità. Il bidone è la fine di un mondo di canaglie schiave di codici d’onore, un mondo in estinzione, spazzato via dalle grandi imprese del crimine organizzato; allo stesso modo, Cabiria è la fine delle puttane e dei sentimentalismi che ne fanno degli esseri romanzeschi. La dolce vita è la fine di una società recitata sul palcoscenico sontuoso di una capitale che cerca di rimodellarsi per far dimenticare Hollywood, ricreando un’immagine del cinema che non ha più niente a che vedere con il cinema; una capitale che resta, malgrado tutto, profondamente italiana e personale. 8 ½, infine, sarà questo finale senza legami, nato da un’immaginazione o da una fantasia portata al suo punto di incandescenza nonostante sia, in fin dei conti, l’espressione «antimelodrammatica» di un nulla ricostituito dal desiderio amoroso. Così Giulietta degli spiriti, così Toby Dammit e, per diversi motivi, Fellini Satyricon: tutti ripercorrono le linee infinite di una fine. 2 Il tema sarà ripreso in Roma e in Intervista; ispira la voce narrante dei Vitelloni e la voce poetica di Amarcord; ma anche Prova d’orchestra, che si sviluppa come un’intervista discretamente condotta per la televisione.
IX. Come descrivere ciò che è? [...] 1 Grande disordine delle sale cinematografiche, ma anche delle sale teatrali del varietà che erano riempite a dismisura e nelle quali in molti non avevano nemmeno un posto a sedere; l’entrata al cinema era continua, si poteva guardare il film già iniziato, e anche più di una volta, in attesa che si liberassero i posti: un vero e proprio assalto, che Fellini ha raccontato più volte. 2 Il tema è insistente, ripreso sempre nello stesso modo: una donna attraente, tenebrosa e fatale, dallo sguardo assassino,
gravido di sottintesi, nell’oscurità di una sala cinematografica illuminata soltanto dai raggi del carbonio, gioca a sedurre. Era una delle scene dei Vitelloni, e lo sarà anche in Amarcord. 3 È la vera forza che assorbe il mondo, e che non è legata soltanto all’industria cinematografica, sviluppata negli anni cinquanta e sessanta. Perno politico nazionale, fucina del pensiero religioso, Roma ha da sempre vissuto come una «città aperta», estroversa e popolare in tutti i significati del termine, i migliori come i peggiori, città di intelligenti se non di intellettuali, molto più di altre celebri città d’Italia, ognuna vetrina di manifestazioni particolari. Città abitata appieno, d’altra parte, che deborda al di là dei Sette colli. 4 Questa maniera di stare nel film esisteva già prima di Fellini – esiste una modalità specifica di Hitchcock o di Tati di stare nei loro film –, ma l’uso insistente da parte di Fellini di questa «metafora tecnica» è di altra natura. Nell’Italia degli anni quaranta e cinquanta, Sergio Mattoli, che ha filmato tra gli altri Totò, e al quale si devono numerose piccole commedie all’italiana ante litteram, non faceva mai muovere la cinepresa, utilizzando una specie di piano fisso, e diceva: «Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è!». Ma pensiamo ancora di più all’uso che farà in seguito Kiarostami di questa cinepresa che vede, lei sola, quanto accade, come se nessun altro intervenisse nel discorso della composizione filmica. 5 L’ultima sarà nella Città delle donne o in Intervista. 6 Si tratta della cosiddetta «commedia all’italiana» – da cui bisogna escludere il lavoro impressionante di Marco Ferreri – che «fabbrica» in quell’epoca un realismo di fuga, che aderisce inconsciamente alla citazione, al riferimento. 7 L’imitazione di Fred Astaire sarà il numero clou di Ginger e Fred.
PARTE TERZA – CHE COSA DIVENTA IL PASSATO: RACCONTARE LA RIFLESSIONE I. Il cinema dei ricordi o il ricordo dei cinema [...] 1 Eppure Fellini tiene a evitare ogni rapporto con il «ricordo»: «[…] Quello che bisognava accuratamente evitare era una
lettura in chiave autobiografica del film. Amarcord: una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono cabalistico, la marca di un aperitivo, anche, perché no? Qualunque cosa, tranne l’irritante associazione al “je me souviens”. Una parola che nella sua stravaganza potesse diventare la sintesi, il punto di riferimento, quasi il riverbero sonoro di un sentimento, di uno stato d’animo, di un atteggiamento, di un modo di sentire e di pensare duplice, controverso, contraddittorio, la convivenza di due opposti, la fusione di due estremi, come distacco e nostalgia, giudizio e complicità, rifiuto e adesione, tenerezza ed ironia, fastidio e strazio» (in Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 156). 2 Titta, un amico di infanzia: cfr. Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 3 e sgg. 3 Ogni quindici giorni erano presentate «pubblicamente» le nuove signorine che avrebbero dovuto far accorrere i clienti, una forma primitiva di pubblicità diretta. 4 La scena di 8 ½ in cui il protagonista immagina l’incontro tra la moglie e l’amante appartiene allo stesso registro di tensione «caricaturale», una caricatura senza profondità, di superficie, che non mira a criticare o a ferire, ma semplicemente a far convergere verso uno stesso punto, verso una stessa situazione di tensione, un insieme innumerevole di tipi caratteristici, contraddittori o meno, rilanciati dalla situazione, ma soprattutto attraverso la sua ricezione immediata; nell’esempio di 8 ½ il ricettore è Guido, temporaneamente confuso con lo spettatore, a sua volta spettatore di un gioco di cui è lui stesso il punto di determinazione. L’asse di ricezione è così modificato e quest’ultima diventa indiretta, superando le flessioni paradigmatiche del discorso al contempo dialogico e dialettico. In questo spostamento, il tempo è dirottato, il punto focale non risiede più nell’azione narrativa, nella sua centralità, ma in quello che questa fa apparire a margine del centro; la narrazione si smarca dalla «precisione» a vantaggio degli sfilacciamenti centrifughi che lasciano l’insieme nell’irresolutezza, nella sospensione del senso e del movimento. Questi «scarti», questi «resti», possono essere certamente letti come metafore che accompagnano il racconto centrale, o come la disseminazione di altrettanti «segni» indiretti di senso o di comprensione psicologica, ma questa lettura conferisce al film un carattere elusivo che, appunto, non ha. Gli esempi sono numerosi: il fumo nero che precede e segue l’arrivo del treno e la sfilata dei gerarchi del partito fascista; le diffrazioni visive e verbali del racconto di Titta nel momento della confessione, poi i suoi spostamenti quando corteggia la Gradisca nella sala cinematografica, senza esserne capace – e questo stesso gioco si ripete con la tabaccaia; le nebbie nella scena del nonno e del nipote; le danze e le parate da Mille e una notte nell’episodio rivissuto da Biscein; la musica che viene dal campanile della chiesa; il ritorno del padre dopo l’interrogatorio, per non dire dell’insieme delle musiche che, in questo film, svolgono il ruolo, via via leggero e potente, di sfilacciamento della materia del racconto. Se è vero che queste complementarietà si sviluppano quasi sempre intorno a scene apparentemente comiche, esse servono in realtà ad amplificare e a modificare il tempo favoloso del ricordo – mito e menzogna in sé e per sé –, senza per questo farne né una fabulazione né un’affabulazione. 5 Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 152. 6 La discussione familiare, che avviene per forza a tavola – il momento comune di verifica, ma anche di riunione, che amalgama modi affettivi e puramente economici o di razionalizzazione – e serve da contesto allo sviluppo di diversi temi legati all’educazione, all’addestrare nei comportamenti, s’invischia in situazioni «prevedibili» e regolari: idiosincrasie e
antipatie, tenerezze, giochi, proverbi, ferite e rotture. Dipende da una fattività esistenziale, insomma; uno spazio in cui si sviluppa, malgrado tutto, un sistema di «pensiero» specificamente familiare d’esperienza e di conoscenza. Salvo che questa impalcatura «pensata» è letteralmente schiacciata dalla materialità «imprevedibile» di quello che «accade», cioè la perdita di equilibrio del padre e lo scivolamento della tovaglia. Il valore del sistema serio – quello del pensiero – è allora spostato nell’ambito del derisorio caricaturale – ciò su cui non si può contare o fare affidamento – che, senza cambiare radicalmente la distribuzione interna delle sue espressioni gerarchiche (padre, madre ecc.), ne compromette la quantità e la qualità: il padre è obbligato a inseguire più volte il figlio che se la svigna. Uno schema identico è ripreso al momento della confessione in chiesa: a prescindere dall’intensità «confessionale» di Titta inginocchiato all’ombra di San Luigi Gonzaga, la sacralità prevista dall’atto è messa in discussione dall’atteggiamento imprevisto del prete, che non smette di riportarla al derisorio tramite la moltiplicazione di peripezie di ogni sorta, estranee alla «concentrazione confessionale». Anche in questo caso, davanti al derisorio della situazione, Titta si sottrae mentalmente, fugge nella non-ammissione che desacralizza l’essenza stessa della confessione. Del resto, se si cerca di calcolare le mancanze indirette di Titta – e di tutti gli altri – riferendole alla madre, sono forse queste dosi infime di dolore accumulate che le tolgono la forza o la voglia di vivere. 7 La Gradisca (trionfo di Magali Noël) condivide con Titta un ruolo da vera protagonista: le due storie coprono l’insieme del film dall’inizio e si rispondono in modo simmetrico nel finale. Più specificamente, quella della Gradisca ricopre l’immagine stessa del film in quanto film. Il suo riferimento mentale non è mai il reale – benché sia cosciente delle sue attrazioni –, ma un’elaborazione dell’immaginazione e delle sue virtualità come possibilità del reale. Fanatica di film e soprattutto di Gary Cooper, le sue passeggiate la conducono costantemente al cinema: è lì che, da sola nell’immensa sala vuota del Fulgor, si rende conto che Titta cerca di sedurla; la frase con la quale chiude la scena, «Cosa cerchi?», fa ancora una volta calare il prevedibile nell’imprevisto; durante la sfilata fascista vuole toccare i muscoli degli uomini che vede passare – tema dell’incredulità che cerca di credere. C’è poi l’episodio con il principe, e infine, su una stessa linea, le sue confidenze durante l’attesa notturna del battello sembrano abbandonare questa fantasia per qualcosa di più reale: «E ogni volta mi sono illusa, e invece finiva tutto subito. È così… ma tu lo sai quant’anni c’ho? Oh, non mi vergogno mica a dire la verità sai, anzi, dico sempre qualcosina in più… trent’anni… e sono ancora qui che aspetto. Vorrei un incontro di quelli lunghi, che durano tutta una vita. Vorrei avere una famiglia io, dei bambini, un marito… per scambiare due parole la sera… magari bevendo il caffè e latte… E poi qualche volta fare anche l’amore, perché quando ci vuole ci vuole. Ma più che l’amore contano i sentimenti, e io ne ho tanto di sentimento dentro di me. Ma a chi lo do? Chi lo vuole?». E piange, come piangerà al suo matrimonio.
II. Come lavorare sulla letteratura [...] 1 Il film è del 1976. Fellini aggiunge alla sceneggiatura quattro testi d’autore: Andrea Zanzotto per le poesie in veneto dell’inizio, Tonino Guerra per La grande mouna, le melodie cantate dalla donna gigante, Antonio Amurri per La mantide religiosa interpretata da Daniel Emilfork, e infine Carl A. Walken per Il cacciatore di Württemberg, cantato verso la fine del film nel castello di Dux. 2 «I Mémoires li ho letti dopo aver firmato l’impegno per il film, e subito dopo sono stato preso da un senso di vertigine e dal presentimento di aver fatto un passo falso […]. Procedevo nello sconfinato oceano cartaceo dei Mémoires, in quell’arida elencazione di una quantità di fatti ammassati con rigore statistico, da inventariato, pignolesco, meticoloso, stizzoso, nemmeno troppo bugiardo, e il fastidio, l’estraneità, il disgusto, la noia, erano le uniche varianti del mio stato d’animo depresso e sconfortato» (in Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 175). Da notare, comunque, la strana situazione dei Mémoires di Casanova, la cui prima pubblicazione integrale avviene soltanto tra il 1960 e il 1963. 3 «Dal punto di vista figurativo, il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e svenato da tutte le parti. Restituire originalità, una nuova seduzione, una visione nuova di questo secolo è sul piano figurativo un’impresa disperata» (in Federico Fellini, Fare un film, cit., p. 175). Ricordiamo che film quali Tom Jones di Tony Richardson (1963) o Barry Lyndon di Stanley Kubrick (1975), che lo precedono, hanno dovuto affrontare e risolvere problematiche simili. 4 Non vogliamo entrare nel dibattito di quello che può essere accaduto tra Fellini e Donald Sutherland, prima e dopo, molto tempo dopo, a proposito della maschera voluta dal regista; ricordiamo solo che la stessa testardaggine era presente al momento della costituzione di Marcello Mastroianni come maschera e supporto dei personaggi di Marcello e di Guido, o di Terence Stamp in Toby Dammit. La bibliografia felliniana è esaustiva sulla querelle Casanova. 5 Dopo alcune provocazioni al «cornuto», come lo chiama Casanova, e dopo aver mostrato il suo bell’uccello – «Che magnifico gioiello! È oro? E che uccello è? Una colomba o un gufo?» chiede Maddalena quando le viene presentato l’indiscreto gioiello –, lui si spoglia, mentre l’uccello meccanico comincia a vibrare. Imitato da un Casanova che fa l’amore sotto i tulle vaporosi in cui è scivolata Maddalena, un atto simulato al ritmo della musica sempre più rapida e meccanica, respiri e penetrazioni, avanti e indietro, sottolineano i movimenti infiniti delle macchine di un’epoca che ha già inventato l’industria. È il primo di molti amplessi altrettanto meccanici, estenuanti perché inesauribili, che si sfiniscono in quella che non è altro che un’allegoria del godimento, dove lei mugola e sbava. La voce del voyeur esprime la sua soddisfazione per l’eccellente prestazione, malgrado rimproveri la mancanza di immaginazione nel momento della posizione sulla schiena. Casanova rivendica allora per la prima volta altre qualità, i suoi studi di ingegneria, di letteratura, di arti politiche ed economiche: perché non farlo lavorare per il re di Francia, chiede, stilando la lista delle sue capacità. L’ambasciatore-pesce
non apre bocca, solo il vento soffia. 6 Il pesce e l’uccello che indicano, visivamente e linguisticamente, il sesso maschile, rappresentato nell’eterno dilemma tra pene e fallo. 7 Il tema del ricordo è sempre malinconicamente «melodioso» e incantatorio, il suo incipit s’inserisce alla perfezione in una retorica del compiuto che reinventa il suo passato, il suo romanzo familiare: «Come mi appariva lontana la mia vita libera di un tempo, le piacevoli compagnie, gli appuntamenti d’amore…»; e poco dopo: «Non avevo mai visto Venezia così dall’alto, stentavo a riconoscerla, la mia amatissima città, che avrei dovuto abbandonare per sempre». Queste parole pronunciate nei Piombi fanno scattare un flashback verso una serenità, del tempo e delle cose, restituita da Fellini attraverso toni pastello, momenti di armonia davanti all’evidenza di un nulla lucido, ritratto tuttavia tra le morse del rimpianto. 8 Giulietta degli spiriti o Amarcord o E la nave va accordano ai disegni architettonici e alle pigmentazioni valori tonali differenziati, in funzione dei significati indotti dal genere di narrazione utilizzato, e soprattutto dalle ambientazioni dei periodi ricercati, sempre in relazione con una produzione diversa e inventiva della storia. Così sarà per Ginger e Fred, in cui il taglio architettonico e la modulazione pittorica rimanderanno a cliché più vicini a un iperrealismo già plastificato. 9 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 176-178. 10 Il frastuono della musica, in questa scena, è molto rilevante, e riunisce in una sintesi stupefacente i temi di ciò che potrebbe essere chiamato la tensione della musica tedesca, da Bach a Wagner.
III. Dove va la musica quando non si suona più? [...] 1 «Fellini ha pienamente colto il principio economico secondo il quale di pagante non vi è che l’entrata. Non esiste unità di
Roma, salvo quella dello spettacolo che ne ricollega tutte le entrate. Lo spettacolo diventa universale e non smette di crescere, proprio perché l’unico oggetto sono le entrate nello spettacolo, che sono, in tal senso, altrettanti germi» (Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, cit., p. 104). 2 Qual è il discorso del direttore d’orchestra, lui che non s’inserisce se non nel divenire delle sue mani svolazzanti? Eccone un estratto relativamente lungo: si tratta, nel film, dell’intervista più importante; malgrado i momenti di tremore e di esitazione, non fa altro che affermarsi nel potere di soggiogare e nei voli estatici: «Che allora vuoi zapere da me? Ma esiste la musica? No! […]. Quando io dirigo ogni volta mi sento ridicolo, come morto […]. No, non vorrei dire queste coze […]. Oggi niente si perdona, tu devi sempre essere un ottimista, sì, sempre intelligente, allora noi diciamo così: la musica è il mondo, io mi sento quanto dirico il patrone di mondo, io mi sento come un re […]. Io mi sento come un sergente mestierante che sempre deve dare tutti un calcio in sedere, sì ma adesso per stupidi absurde leggi è proibito fare sergente […]. La cenialità è vicino sempre al confine con capriccio e bizzarria: per esempio una volta io ho detto a una musicista di levare suo anello perché la pietra dava me fastidio occhi per causa luce riflettori. E questo, sembrato a tutti capriccio, mania da diva, forse è vero… Ma questa amplificazione, questo carattere esaltato di artista è vitale per la carica che tutti trascina, tutti domina e esprime i temi di sinfonia […]. Ma ora il fluido non sostituibile di direttore d’orchestra è contestato. I musicisti! […] Essi hanno insopportabili facce: volentieri se potevo vorrei posare paravento davanti alcuni di essi, sembrano come cani feroci […]. Il tempo di krandezza è finito. Kaputt! Io ricordo quando la prima volta sono salito su potio, allora mia più grande impressione era silenzio enorme davanti di me… io ho fatto segno di cominciamento, e vedo con mia grande emozione che mia bacchetta di dirigente è lekato il suonare di orchestra […]. Oggi tutti siamo uguali, e io devo essere somigliante a primo violino che ha diti come macellaio […]. Io sfogo mia rabbia e compro case… io ho due in America, una in Tokyo, una in Londra e una ancora in Berlino. In Parigi niente case, non volevo mai avere una lì perché io non sono in accordo con tutta musica di Francia […]. Io ricordo […] mio grande maestro […]. Noi seguivamo lui felici, pieni di tremore, per compiere rito di transustanziazione, è così, per cambiare vino in sangue e pane nella carne […]. La musica è sempre sacra […]. Noi tremavamo solamente alla idea per uno sbaglio che poteva rovinare compiutezza di rito […]. Egli era dentro di noi. Tanto amore si trovava tra noi e direttore. Un amore, come vede lei, che ora è perduto. Io e i miei orchestrali abbiamo solamente diffidenza tra noi, uno contro l’altro, il dubbio che rovina il credere […]. E così suoniamo noi insieme, ma unito solamente in un odio comune, come una distrutta familia». 3 Cfr. Tullio Kezich, Fellini, cit., p. 466. 4 Federico Fellini, Fare un film, cit., pp. 167-168. 5 Id., Intervista sul cinema, cit., pp. 122-123.
IV. La città delle donne: i movimenti femministi [...] 1 I clowns, per esempio, si chiude nel circo. Prova d’orchestra è tutto chiuso nella sua cappella, Casanova all’interno dei castelli di un viaggio attraverso un libro; E la nave va, a sua volta, si chiuderà nella nave, Ginger e Fred dentro la televisione, come Intervista a Cinecittà. Queste strutture esistevano prima, ma erano più elusive, giocavano più ostentatamente con la finzione del luogo aperto. Per fare solo un esempio, la struttura metallica che si profila sullo sfondo di 8 ½ non è concepita per la
chiusura, ma punta invece a un movimento propulsivo, ed è attraverso di essa che, alla fine, la storia negli interni sconfina verso l’insieme degli esterni. 2 Nella costituzione di questo pensiero, due elementi giocano un ruolo probabilmente non trascurabile: «l’incubo» di Mastorna, mai girato, con la configurazione basilicale dei suoi esterni, e la lettura di Kafka, nominato sempre più spesso nelle interviste di Fellini. Il ritorno insistente a una riflessione globale è centrale nelle riprese di Bloc-notes di un regista, nel quale il recupero del «resto», dello scarto inutilizzato, deriva da una nostalgia di quello che non è (stato) girato, in cui il tenebroso e «l’impressionante» diventano, sistematicamente, atti «derisori». Fellini: A Director’s Notebook, in italiano Bloc-notes di un regista, è girato alla fine di Toby Dammit, a mo’ di rinuncia rispetto alla possibilità di girare Mastorna, e prima di cominciare Satyricon, di cui può rappresentare una sorta di prefazione: uno speciale di un’ora, prodotto da Peter Goldfarb per il canale televisivo americano Nbc. 3 La battuta è umoristica, perché pronunciata da una bellissima voce di donna il cui «Prego, Maestro…» è un invito alla musica, e che pone, quasi involontariamente, una delle domande centrali del film: «Perché ancora Marcello?». 4 Preferiamo questa trascrizione del nome alla variante che si trova di solito, «Katzone», che comporta l’aggiunta di una sfumatura teutonica; ovviamente, entrambe hanno significati diversi nel film, caratterizzato da parlate germaniche molto marcate. 5 Sfuggono al film nella misura in cui fanno parte della sua infrastruttura: le tonalità vocali, le mimiche, la colonna sonora ecc. 6 Alla fine dell’episodio di Cazzone si scatena l’invasione «poliziesca» in quanto sistema organizzato di controllo, una costruzione che figurativamente si ispira ad alcuni aspetti della letteratura sadiana e, tramite lo stesso elemento, al Pasolini di Salò, senza tuttavia puntare a effetti parodici, di derisione o di critica, ma di necessità. 7 Rinviamo al capitolo dedicato alla presente questione nell’analisi di 8 ½ (Parte seconda, capitolo IV). 8 Al quale qualche anno prima Fellini aveva rinunciato per il ruolo di protagonista di Mastorna, film che non ha più girato, in parte anche per l’impossibilità di trovare un interprete; c’è, in Fellini, la volontà di perseguire la raffigurazione di quello che potremmo chiamare un «eterno mascolino» e i rapporti cinematografici con l’attore ne rappresentano la linea più forte, costituita nel tempo attraverso la sperimentazione di altri «tipi», come abbiamo già detto. 9 Ecco una parte del dialogo (nel bagno del treno): – Lei è stupenda, bellissima. Sono emozionato… sa perché? Lei è proprio la donna… il tipo che… Dio quanto mi piace! Lei è sposata? – No, ho divorziato due volte. Perché? – Brava, i suoi mariti non erano abbastanza virili?! – Lei è molto virile? – Ma con una donna come lei sì… in ogni momento! – Ora vediamo! Stia calmo… (lo bacia). Cosa c’è? Lo vuole fare qui? – Sì! – Possiamo anche provare! (poi, nella campagna, prima da solo, a parte) Vecchio Snaporaz! Non puoi mica rinunciare sai? Signora! Senta un momentino… ma che fa? È fotografa? Fotografa questo petalo! (indica il suo sesso) Guarda che ti acchiappo qua in mezzo ai cocomers… bella porcona! Come mi ha baciato… una scavatrice… Lo devi assaggiare il vecchio Snaporaz! Signora! (il treno riparte) E adesso? Lo sapevo, il tuo destiny s’è compiuto vecchio Snaporaz. Ma dove credi di portarle quelle superchiappe? Arrivo! Signora! Una cosa importante! […] «Smic-Smac» [questa onomatopea, pronunciata tre volte nel film, riprende la trascrizione italiana dei baci dati nei fumetti di Topolino]. […] (Le parla): Prima è stata così gentile e adesso scappa via?! – Ma io non scappo, mai scappata in vita mia. Io raggiungo! – Questi alberi si profumano molto meglio delle sue amanti… Lei è sposato? – No, cioè sì, insomma una volta sola, e non ho amanti… siamo soli io e lei… – […] Allora non ha paura? – Forse un po’ sì, ma questo mi eccita ancora di più. Mi dia un altro bacio, uno solo, ma come quello di prima! – […] A una condizione! Gli occhi chiusi – […] Boh! Chissà perché continuo a comportarmi da sciocchino? Alla mia età… 10 L’aspetto «qualsiasi» del protagonista rimanda alla questione di partenza: «Ancora Marcello?», suscettibile adesso di includere, in questo Mastroianni, Marcello e Guido, e anche Fellini. 11 Questo piano, sviluppato in altre condizioni, sposta la situazione della scena immaginata in 8 ½, l’incontro tra Luisa, la moglie, e Carla, l’amante, in presenza di Rossella. Il punto focale che cambia, che sembra cancellare l’effusione della fantasiavirtualità-immaginazione, è quindi la presa di parola diretta della donna e non più della sua donna, benché la tonalità vocale delle due sia identica in entrambe le sequenze. 12 Qui Fellini gioca sulla polisemia di alcuni segni: DUX non rimanda soltanto a Mussolini e al suo maschilismo, già evocato numerose volte, ma anche all’ultima dimora di Casanova. 13 La coincidenza della linea vocale e tonale di Mastroianni è qui stupefacente, così come la distribuzione-disposizione degli attori segue un percorso di identità seriali: ad Anouk Aimée corrisponde Anna Prucnal, a Claudia Cardinale Donatella Damiani, nella stessa aspettativa di storia assente, di presente immediato; quest’ultima, come Claudia in 8 ½, è infine incaricata di condurre il racconto verso il suo compimento. 14 Non si tratta di un flashback in cui si vede Marcello o Guido bambino: conserva il suo corpo di adulto la cui memoria sensibile rivisita l’infanzia che porta sempre in sé, detta qui nel suo sogno. Le filastrocche e i ritornelli sono il punto d’appoggio di questo passato che è sempre presente, in modo carnale, si mischiano le une con gli altri seguendo il filo di una lunga favola senza fine; alcuni esempi: «Una candela per ciascuno non fa male a nessuno»; «Sogna la donna fatta di frutta»; «Con tre mele sotto il letto, dalle voci sei protetto»; «Con la cipolla sotto il cuscino, dormi tranquillo fino al mattino»; «Quanti anni hai? Veramente ne ho cinquanta, ma la voglia è sempre tanta» ecc. 15 Ecco i capi d’accusa: «Non risponde alla domanda “perché sei qui?”; non risponde alla domanda “come mai hai deciso di nascere maschio?”; non ha risposto all’invito di dire quello che sa, non trova via d’uscita, non si è mai dato, abbandonato, fidato, non è in grado di fornire un perfetto piacere sessuale alla donna, non distingue, non riconosce la sua componente
femminile, fa sempre le stesse cose, porta i calzini a letto, fa finta di niente, colpevole di non guardare, colpevole di autocompiacimento, si compatisce, non sa uscire da questa storia, teme di concludere, sta sempre zitto, parla troppo, colpevole di sentirsi colpevole, si prende sempre sul serio, non va mai a trovare la sua mamma, colpevole di culità maniacale, ha i peli, non sa cosa significa sentirsi occupato da un’unica donna, teme di perdere i capelli, continua ad illudersi che esista una donna unica ideale, crede nell’inferiorità mentale della donna, considera la donna un essere superiore, vuol scoprire l’altra faccia della luna, continua a scappare, non si rassegna, ha la presunzione di cercare ancora, abitudinario, borghese, moralista… ha paura, non è mai contento, non sa cucinare, piscia in piedi…».
V. Affondare, o gli abissi del racconto [...] 1 Il grande modello è La Nef des fous di Sebastian Brandt, che reinaugura il tema delle navigazioni dell’Odissea, ripreso in seguito da Hieronymus Bosch ed Erasmo e, nella modernità, da Herman Melville: Moby Dick, Billy Budd o Benito Cereno sono ambientati nelle stesse condizioni di isolamento «acquatico»; questa struttura è ancora presente, in altro modo, in Assassinio sull’Orient Express o in Morte sul Nilo di Agatha Christie. Nel film, lo sviluppo del tema è anche molto baudelairiano – Il viaggio –, esplicito nella costruzione di un andare verso la morte, o verso il nulla, che potrebbe essere evocato dalla «N.» che accompagna il nome della nave. 2 Intervista con Lietta Tornabuoni, in La Stampa, 14 novembre 1982. 3 Ibidem. 4 Ogni similitudine con Maria Callas è da escludere, e del resto non ha alcuna importanza; non è la sua voce, ancora meno la sua epoca, per quanto si creda che l’arte non abbia tempo. La raffigurazione nel film di Edmea Tetua, richiamata dalle immagini di un cortometraggio proiettato durante una serata in cui si evocano degli spiriti sulla nave, ne fa un personaggio piuttosto simpatico, tra Delphine Seyrig e Melina Mercouri. 5 Le parole d’amore che rivolge alla morta appartengono alla retorica dei grandi cliché: «Quante definizioni, quante parole, quante storie hanno scritte su di te… ma nessuno ha mai detto chi eri veramente. Il tuo fiore preferito, non te lo farò mancare mai! Nessuno ha mai scoperto il tuo segreto, amore mio, chi sei lo so solamente io. Sei una bambina venuta dal mare. Ti ricordi la poesia che ti ho scritto? Nata dal mare, come una dea…». 6 La paura che più la divora è quella di non arrivare all’altezza vocale della defunta. Durante una serata in un salotto in cui si discute delle virtù vocali di Edmea, Ildebranda si agita: «Un’estensione di quasi tre ottave senza alcuno sforzo! Non è umano! Doveva comunque avere un segreto, ecco è questo, è questo che vorrei chiederle, maestro, come lo chiederei a un padre: che cosa potrei fare io…». A questo l’interrogato risponde: «Una notte Edmea mi disse una cosa, mi disse che quando cantava le appariva davanti agli occhi una chiocciola di mare […] seguo con gli occhi la spirale ricciolo dopo ricciolo e la voce sale con lei senza sforzo. Capisce, mia cara, non era solo un fatto di polmoni, di diaframma, di corde vocale… era un fenomeno di catalizzazione di energia. Io so solo che Edmea era diversa da tutte, era unica, non esisteranno più cantanti come lei». Ildebranda, esasperata, finisce per vendicarsi schiaffeggiando il suo segretario. 7 Intervista con R. Bareschi, in Oggi, 3 febbraio 1983. 8 Non è l’unico legame misterioso di Orlando con l’animalità: nella scena del basso che addormenta la gallina, Orlando è l’unico a cadere a terra ipnotizzato. Fellini giustificherà così la sua presenza: «Esperti in viaggi marittimi mi hanno assicurato che quasi sempre c’è un rinoceronte a bordo. Scherzi a parte, io dico con Picasso: non cerco, trovo. Mi è apparso un rinoceronte su questo piroscafo e ci sta benissimo» (intervista con Claudia Vinciguerra, in Il Giorno, 17 marzo 1983). 9 Molto diversa in tal senso dalla ninfomania mostrata in Amarcord. 10 Tutti questi dettagli rivelano uno stato «capriccioso», un impulso a oltrepassare i limiti abituali in una «liberazione» apparente. Due esempi: la crisi di nervi nei riguardi della sua produttrice che colpisce Ricotin, il quale rivendica la possibilità di regalare accendini al marinaio che gli ricorda il cuginetto; e il tenore Fuciletto che avrebbe «qualcosa da imparare da una delle ragazze di sotto». 11 Fellini racconta la storia seguente, ripresa da un giornale: «Dopo la morte, in casa di un vecchio padre gesuita è stato rinvenuto uno scambio di corrispondenza che il religioso aveva intrattenuto per anni con un ambasciatore d’Ungheria in ritiro. Questo carteggio era stato provocato dal Padre con l’intenzione di assecondare un proprio desiderio di studioso, e cioè quello di risalire alle vere cause dello scoppio della Prima guerra mondiale. Cause che, alla fine, gli erano risultate molto diverse da quelle comunemente indicate, anche oggi, nei testi di storia. Questa era più o meno la notizia, e l’avevo ritagliata forse stimolato in un certo senso dalla possibilità di riproporre una nuova versione di fatti storici prima acquisiti e poi stupidamente accettati» (Intervista con Gian Luigi Rondi, in Il Tempo, 13 novembre 1982). 12 Intervista di Fellini con Mino Guerrini, in Epoca, 11 marzo 1983. 13 Come dimenticare le rivalità tra la Callas e la Tebaldi, tra Del Monaco e Di Stefano, ampiamente alimentate dalla stampa? Il film di Daniel Schmid, Il bacio di Tosca (1984), ripercorre benissimo la storia di queste terribili epopee. 14 Intervista con Mino Guerrini, cit. 15 Si può pensare al mito di Anita Garibaldi. Nel film, lasciando la nave, Orlando porta con sé un ritratto di Garibaldi. Dorotea ricorda alcuni personaggi di Elio Vittorini, come Erica o la Garibaldina.
VI. Ginger e Fred: rivisitare il cinema [...] 1 Come La città delle donne in cui la stessa brutalità appariva nel suo elemento più sofisticato, la casa di Cazzone, le decorazioni, gli arredamenti, il movimento e la vita al suo interno. 2 Il film viene presentato nel 1985, con l’Italia che è appena uscita, senza tante illusioni, o forse con troppe illusioni, dagli anni di piombo: queste illusioni produrranno senza dubbio l’imbonimento dell’era berlusconiana. 3 Nella perdita dei riti e dei rituali spesso denunciata o rimpianta da Fellini, quello che ormai si celebra, in giornate dedicate – alla musica, alle madri, ai padri ecc. –, corrisponde a frammenti di piccoli carnevali deritualizzati. 4 Al di là del suo valore pittorico, questa nuova qualità del paesaggio urbano ed extraurbano, già affermata dagli aerei che atterrano a fari spiegati nella notte della Città delle donne, o tramite la presentazione della casa di Cazzone, descrive piuttosto nuovi luoghi di reclusione e di controllo: questi ultimi sono assai numerosi nel film. 5 Il tema è stato ripreso di frequente al cinema, e l’esempio più caratteristico del genere resta Freaks (1932) di Tod Browning; per una storia di queste messe in scena di «fenomeni», cfr. Italo Calvino, «Il museo dei mostri di cera», in Collezione di sabbia, Garzanti, Milano 1984. 6 Abbiamo più volte indicato gli elementi della questione, in particolar modo nei capitoli su Toby Dammit e Prova d’orchestra. Altri vengono sviluppati nel capitolo X di Fare un film, cit., p. 109 e sgg. 7 Come rivelano alcuni passaggi di Aurora di Murnau, alcune scene di Toni di Jean Renoir, la tranquillità apparente e dolce di una natura neorealista, profondamente umanizzata, o Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati, nella sua inquietudine di armonia dinamica. 8 Nadia Ottaviani, che sarà uno dei volti della luna in Voce della luna. 9 Si farebbe la stessa domanda sul volto – o sul corpo – a un pittore? Che cosa risponderebbe Rembrandt, o Goya, o Bacon? 10 «Me ne vado in Germania!» grida; è sottinteso che i registi tedeschi, all’epoca, lasciavano il loro paese. 11 Un’America che non appartiene più a Kafka, ma direttamente alla storia cinematografica dell’America. 12 Federico Fellini, Intervista sul cinema, cit., p. 170.
VII. Come lavorare sulla letteratura [...] 1 Federico Fellini, La voce della luna, Einaudi, Torino 1990, p. VII . 2 Il cimitero, le tombe, il corvo, il chiaro di luna sono utilizzati anche come elementi per bandire o invocare stregonerie. 3 Federico Fellini, La voce della luna, cit., pp. V-IX. 4 Ivi, p. V. 5 Questo «tema» è ripreso da Amarcord, a partire dai nomi. 6 Più in particolare, La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Il passero solitario, come descrizione di un tema fondamentale
della cultura sociale italiana. 7 Questa rappresentazione riprende le trasmissioni della televisione italiana – riprese in seguito dall’Eurovisione – girate negli anni cinquanta e sessanta in piccoli paesi, con l’obiettivo di far conoscere a tutta la nazione la vivacità delle piccole città e dei paesi; in un modo sempre identico, si cercava di valorizzare le collettività o le singole personalità di ogni comunità. Così, la televisione si attribuiva una funzione pedagogica essenziale: il superamento dei dialetti e del provincialismo italiani, tramite la riorganizzazione di un lingua minima comune, sfortunatamente la lingua della tv, una nuova koinè politico-nazionale. 8 Salvini, diminutivo di Salvo, a sua volta diminutivo di Salvatore, ovvero non tanto «che salva» ma che «salva se stesso».