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Italian Pages 160 [164] Year 1996
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Questo libro è il frutto di una occa sione rarissima e felice. A ben poche per sone nel nostro paese è accaduto di essere protagoniste, lungo l'intero corso di un cinquantennio, della vita intellettuale e civile ma forse a nessuno come a N orber to Bobbio è dato di poter porre a con fronto, a distanza di cinquant'anni, la propria personale riflessione su due diffe renti passaggi d'epoca, su due svolte deci sive per la storia italiana. Caduto il fascismo, dopo le lacerazio ni della guerra partigiana e nel pieno degli entusiasmi seguiti alla Liberazione, il pro fessore era sceso in politica. Aveva preso in mano la penna per scrivere i saggi di ri flessione e gli articoli militanti pubblicati nella prima parte di questo volume. Una democrazia moderna - era il succo delle riflessioni di allora - o è una democrazia dei partiti, o non è. L'impronta antitotali taria, la vocazione rappresentativa, la spin ta autenticamente liberale di quella pero razione della «democrazia aperta» avreb bero fatto da guida a tutti i passaggi suc cessivi della riflessione di Bobbio, ritira tosi pochi mesi dopo dalla politica mili tante ma rimasto in tutti questi decenni un critico accanito dei pericoli che la de• rnocraz1a poteva correre. E di pericoli, la democrazia italiana in questi decenni ne ha corsi tanti. Ma più se ri, forse, e gravi e insidiosi sono quelli che interessano la fase attuale della nostra vita collettiva, perché ri gu ardano, appunto, un momento di nuova fondazione.
Saggine/ 19
Norberto Bobbio
TRA DUE REPUBBLICHE Alle origini
della democrazia italiana con una nota storica di Torrirnaso Greco
DONZELLI EDITORE
© 1996 Donzelli editore, Roma ISBN 88-7989-211-8
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Indice
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Nota dell'editrc __________ fuori da ogni personalizzazione carisn1atica del potere e da ogni facile ricorso al qualunquismo. Una democrazia moder na - era il succo delle riflessioni di allora - o è una den1ocra zia dei partiti, o non è. L'impronta antitotalitaria, la vocazio ne rappresentativa, la spinta autenticamente liberale, di quella perorazione della «democrazia aperta» avrebbero fatto da guida a tutti i passaggi successivi della riflessione di Bobbio, ritiratosi pochi mesi dopo dalla politica militante ma rimasto in tutti questi decenni un severo, accigliato, insoddisfatto ga rante delle prerogative di un sistema democratico, un critico accanito dei pericoli che la democrazia poteva correre. E di pericoli, la democrazia italiana in questi decenni ne ha corsi tanti. Ma più seri, forse, e gravi e insidiosi sono quelli che interessano la fase attuale della nostra vita collettiva, per ché riguardano, appunto, un momento di nuova fondazione. Perciò la seconda parte di questo volume, quella scritta oggi nel pieno di un passaggio politico di grande delicatezza e complessità, si rivela se possibile ancor più preziosa della pri ma. Sottc la forma di un modulato contrappunto alle idee di allora, il professore individua i temi e i nodi del presente e del futuro prossimo. Non vuole scrivere ricette; e anzi diffida di molte di quelle correnti. Ma non rinuncia a esprimere i pro pri giudizi; lo fa anzi in modo inusitatamente netto ed esplici to. La sua insistita difesa di una democrazia dei partiti, la sua avversione per i partiti-persona e per il loro potenziale au toritario, la sua concezione misurata e sobria della lotta poli tica democratica suonano come una lezione da meditare per la parte che ha perso; e come un preoccupato ammonimento per la parte che ha vinto e che si appresta a governare. Roma, maggio 1996 La proposta di racc , Tra due Re p u bblicl1e _______
realizzato in terra il regno di Dio, o di non avere più altro da fare che contemp lare l'eternità della meta raggiunta; e la mi noranza continua ad avere la certezza di non aver rinunciato ai propri valori, • solo perché ha dovuto sacrificare, in tutto o • • • • 1n parte, 1 propri 111teress1.
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IV.
Federalismo vecchio e nuovo
La discussione intorno all'autonomia della Valle d'Aosta riaccende in Italia una polemica che sembrava, dopo tanti an ni di tollerato accentramento, dimenticata: la questione del federalisrno. Lo spauracchio del federalismo è stato già agitato con successo nei 1110111enti decisivi della formazione dell'unità ita liana. La paura del federalismo, oggi, non è dunque altro che l'espressione di un sentimento latente, l'eco di una polemica antica, il frutto di un pregiudizio saldamente radicato in una tradizione costante ed univoca. Dopo il fallimento dell'insur rezione quarantottesca e della prima guerra di indipendenza fallimento che fu considerato l'effetto dell'impronta federali stica e non unitaria data all'insurrezione popolare e alla guer ra regia, e in cui, quindi, fu coinvolta la responsabilità sia del federalismo monarchico per la mancata concorrenza e colla borazione degli �serciti dei vari Stati della penisola, sia del fe deralismo repubblicano per la incapacità dei governi provvi sori democratici, sorti qua e là nella penisola, di reggere a lungo, disuniti e in contrasto tra di loro, al ritorno della rea zione monarchica ed austriaca -, il federalismo fu attaccato da parte tanto dei moderati, quanto dei repubblicani. Da una lato, il La Farina, nelle considerazioni finali della sua Storia d'Italia dal 181 5 al 1 850, volendo dimostrare come non fosse necessario, anzi fosse pernicioso, passare attraverso l'ordinamento federale per arrivare a quello unitario, giunge15
_______ Bc.lbbic>, Tra due llepubblicl1e _______ va persino a confutare l 'argon1ento principale dei federalisti, la diversità di usi e costun1i da un'estremità all'altra della pe nisola, sostenendo co n evidente forzatura che «in poche na zioni vi è tanta somiglianza fra popoli delle diverse province quanto nella nazione italiana». D'altro lato, Mazzini, che dal primo giorno all'ultimo del suo avventuroso viaggio nel terri torio sempre a lui straniero ed inospitale, della vita politica italiana, combatté per l'unità repubblicana, non tralascia oc casione, soprattutto negli anni di preparazione dopo le vicen de del Quarantotto, di attaccare con asprezza le dottrine fe deralistiche, e non solo quelle monarchiche ma anche quelle repubblicane: « Il federalismo, quando non è voluto da condi zioni territoriali e da diversità di razze, di lingua, di religione, è teorica d'aristocrazie, di principati, di ambizioncelli locali [ . . . ]. Una lega, un'accozzaglia di stati e provincie non è Patria: è fantas111a di Patria>> . Alla fine del '59, avviato ormai il problema italiano verso una soluzione unitaria e monarchica, persino nella relazione alla nuova legge comunale e provinciale, che veniva estesa dal Regno sardo alle province di nuova annessione, si era in trufolata la polemica antifederalistica, con le seguenti ben chiare parole del ministro relatore Rattazzi: «Mentre le legge più contrasta ad ogni tendenza federativa, assicura maggior mente le libertà locali. Il federalismo, quale forma interna, vuole essere respinto siccome un pericolo e pel regno e per l'Italia». Il decennio di preparazione si apriva e si chiudeva, dunque, agitando lo spauracchio del federalismo. Ma federalismo significava già allora due cose diverse: im plicava, da un lato, una mera questione di fatto, dall'altro una questione di principio. La questione di fatto era questa: l'Ita lia è composta da una molteplicità di Stati, onde l'unità sarà più facilmente raggiungibile, se si rinuncerà a formare di tutti questi Stati un solo Stato e se ci si limiterà a costituire al di sopra di essi un vincolo federale, che darà origine al nuovo Stato federale, senza peraltro distruggere la configurazione 16
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gati. Il problen1a, se mai, è q uello di vigilare a che il federali smo d'oggi sia veramente l'attuazione di una democrazia arti colata, che è segno di vitalità del nuovo Stato, e non pretesto per uno smembramento dissolvitore, che sarebbe indizio di debolezza e di vecchiaia. La polemica risorgimentale tra unitari e federalisti, di cui ci si lascia suggestionare per condannare il federalismo, e che era poi una polemica tra unitari monarchici e federalisti mo narchici, è oggi esaurita, non foss'altro perché è esaurito il compito della monarchia. Il che non esclude che, proponen dosi oggi il tema della Repubblica, sia ragionevole e doveroso porsi il problema, se la Repubblica dovrà essere unitaria, ac centrata e cesarea come quella del Mazzini, oppure unitaria, ma articolata internamente con larghe autonomie regionali, come quella del Cattaneo.
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v. Chiarezza Abbiamo più volte avuto occasione di dire che la demo crazia ha bisogno di chiarezza. Ora, il risultato delle elezioni per il Consiglio dell'ordine degli avvocati, dopo la votazione di ballottaggio di domenica, è stato chiarissimo: gli «indipen denti» hanno avuto una netta prevalenza sui cosiddetti «poli tici». Quello invece che non è affatto chiaro, e richiede per lo meno un commento, è il modo con cui è stato impostato il dibattito tra le liste concorrenti. Si è parlato, da un lato, di li sta di partiti, dall'altro, di lista degli apolitici. Chiediamo: chi sono gli apolitici ? L'apoliticità indica per lo meno due situa zioni ben differenti: coloro che non si occupano di politica, e coloro che non hanno idee politiche. Ma i primi sono, oggi, senza coscienza; i secondi sono, sempre, senza cervello. A chi mai potrebbe passar per la testa di attribuire ai nuovi concor renti del Consiglio dell'ordine l'uno o l'altro di questi attri buti ? E allora ? La verità è che questi indipendenti, che si oc cupano così bene di politica- e l'hanno dimostrato con lo ze lo con cui hanno combattuto e vinto la loro battaglia-, questi apolitici che hanno bene o male le loro idee politiche (si può essere avvocati di «provata rettitudine e disinteresse» senza sapere se si vuole la repubblica o la monarchia, il liberismo o il socialismo, ecc. ?), questi indipendenti ed apolitici, dico, non sono né indipendenti né apolitici. Sono i politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei Comitati di libera zione o del Fronte di resistenza. Liberissimi: ma bisogna dir19
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lo con la massima chiarezza. Forse però, a darci qualche lume ci aiuta la b rava e ardente professione di fede con cui il Grup po degli indipendenti - con esen1pio, tra l'altro, di bello stile formale - ha accompagnato, in una lettera circolare, la pre sentazione dei suoi candidati: «uomini - vi si dice - vieppiù affratellati della stessa indolllita fede nel tran1onto definitivo di sistemi autoritari e nel trionfo di ogni libertà ordinata » . Abbiamo capito: libertà ordinata. Ma una volta, se non cadiamo in errore, i sostenitori di questo impo rtantissimo principio si chiamano «cittadini dell'ordine», poi per vent'anni si chiamavano in un altro mo do, e chi sa che d'ora innanzi si possano anche chiamare - i nomi non sono le cose- apolitici.
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VI.
Partito d'Azione e realtà di Augusto Monti
Se qualcuno chiedesse quali sono le fonti ideologiche del PdA, gli si dovrebbe rispondere in una sola parola: storicismo, con quella stessa sicurezza con cui si risponderebbe «materiali smo dialettico» per i comunisti, e «spiritualismo cristiano» per i democristiani. Ciò ha visto assai bene, e messo in rilievo con sobri ma ben segnati tratti di storia politica ed ideologica italia na dal Risorgimento ad oggi, Augusto Monti discorrendo, nel suo recentissitno libro, della t1 i d e111(>craticl1e-------per i cittadini l 'aspetto di un nu me impassibile e inaccessibile; in quanto burocratico, appare come una macchina insensibile e incontrollabile. Si presenta, cioè, ora come qualcosa di su p crumano, ora come qualcosa di subu mano: in nessuno dei due casi è al livello dell'uomo, è lo Stato degli uomini, che co struiscono con la loro intelligenza e con la loro volontà gli strumenti e gli ordini del vivere civile. Democrazia oggi vuol dire prima di tutto dare lo Stato ai cittadini, colmare per quanto è possibile il distacco tra individuo e Stato, riportare insomma lo Stato al livello degli uomini, portando il cittadino al governo, all'amministrazione non soltanto nei comuni ma nelle fabbriche, nelle professioni, nella scuola ecc., dando alla maggior parte degli individui direttamente, e non soltanto in direttamente, gli obblighi e la responsabilità del cittadino. In secondo luogo, proprio perché la democrazia oggi deve far sentire a ciascun individuo cosciente gli obblighi e la re sponsabilità del cittadino, non può essere considerata unica mente come un semplice metodo di designazione della classe politica, come un mero strumento di governo, per quanto più rispettoso della persona umana del metodo autocratico; ma ha essa stessa un fine suo proprio che la distingue essenzial mente da ogni altra forma di governo. Questo fine è l'educa zione dei cittadini alla libertà. Solo l'uomo libero è responsa bile; ma l'uomo non nasce libero se non nelle astrazioni degli illun1inisti: l'uoino diventa libero in un a1T1biente sociale in cui condizioni economiche, politiche, culturali siano tali da condurlo, anche suo malgrado, ad acquistare coscienza del proprio valore di uomo, e quindi delle proprie possibilità e dei propri limiti nel mondo degli altri uomini. Per conseguire questo fine, occorrono istituzioni democratiche che siano in grado non soltanto di dare all'individuo l'esercizio della li bertà (per esempio, attraverso il diritto di voto), ma anche di radicare e di sviluppare in lui il senso della libertà, vale a dire istituzioni che garantiscano quelle condizioni economiche e sociali indispensabili, perché la massa informe e inerte delle 29
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teressi, e nella conseguente opera di sm asc heramento di ogni «esca motage» a dan no degli interessi e ad u mi l iazione dei principi, deve consistere il nostro laicismo. Si parla qui naturalmente di laicismo in un senso più ag giornato e anche più an1pio del consueto. Non si tratta infatti soltanto di una politica laica contrapposta ad una politica ec clesiastica: non si tratta cioè di agitare il problema dello Stato laico nel senso di Stato non confessionale, anche perché, co me ha avuto occasione di scrivere recenten1ente il Salvatorelli, non c'è Stato oggi in Europa che non sia laico, e il problema è quindi oggi forse più di quanto si creda, se non si guardan le cose con spirito fazioso, risolto. Né d'altra parte intendiamo per politica laica una politica antireligiosa o irreligiosa o addirittura atea: non abbiamo nes suna intenzione di fare del nostro laicismo, che deve essere nutrito di spirito critico, di chiaroveggenza realistica, di posi tivismo costruttivo, il ricettacolo di tutti gli astii religiosi che si vanno accumulando in un paese come l'Italia contro la reli gione dominante, cioè non vogliamo per altra via riempire il nostro laicismo di un contenuto teologico. Se vi è un paese in cui la politica possa dirsi a buon diritto laica, è l'Inghilterra: eppure non vi è nessun paese come l'In ghilterra in cui lo spirito e le forme religiose permeino la vita dello Stato. In Inghilterra le sedute della Camera dei Comuni hanno inizio con la recita delle preghiere: ma la politica è lai ca. In Italia neppure il governo più vaticano si sognerebbe di sollevare questo problema: ma la politica è teologica. La politica laica, come oggi la intendiamo, non si contrap pone né ad una politica ecclesiastica, né ad una politica reli giosa; si contrappone bensì alla concezione teologica della politica. Il nemico del laicismo è, in politica, quell'atteggia mento in base al quale si porta nella discussione su questioni d'interessi lo spirito d'intransigenza dommatica proprio delle questioni di principio, onde le questioni politiche, che sono di interessi e non di principio, sono continuamente rinviate e 36
---------- P(> l i tica laica ---------lasciate non risolte, e alla loro ombra si trovano a prosperare troppi teologi in mala fede che trafficano principi per difen dere interessi. L a conseguenza dello spirito teologico trasportato in po litica non è l'elevazione degli interessi ma la degradazione dei principi. Tutti lottano per i propri interessi ed elevano la ban principi. per i Tutti lavorano discutono di principi e diera dei • • • propri 1nteress1. Il mondo borghese è stato in ascesa fino a quando i suoi principi e i suoi interessi coincidevano, e non aveva bisogno di mascherare i secondi con i primi. Oggi che è costretto a dire in sede di principio «lo Stato per tutti», mentre afferma in se de d'interessi «lo Stato per me», fa la teoria della libertà, ma in pratica si contraddice, la proclama dommaticamente, ma in realtà ne ha paura. Chi teologizza su un'idea, non la vuole nell'intimo. Una libertà teologizzata è una libertà contraffatta. Il compito del laicismo è oggi anzitutto quello di svelare l'alleanza tra lo spirito teologico dei chierici e l'animo mer cantile degli uomini d'affari. Questo compito, che è critico e positivo, cioè antidogmatico e antideologico, ha la funzione di attrarre tutti coloro che non sono disposti a fare dei princi pi il proprio interesse e neppure degli interessi il proprio principio di vita; cioè di lasciare ai margini tanto il professio nalismo dei chierici quanto il filisteismo dei mercanti. Il laico accetta, sì, dello spirito mercantile, il valore dell'iniziativa, co me accetta dello spirito dei chierici la serietà e la severità della ricerca. Ma rigetta del primo il cinismo, del secondo la vanità. Supera ad un tempo la sciatteria dell'uomo d'affari e la ma gniloquenza dell'addottrinato. Porta nella teoria la spregiudi catezza pratica del mercante e nella pratica la rigorosità dell'indagatore, in modo che la sua dottrina non diventi mai illudente e la sua azione non diventi mai sopraffattrice. Il principio del laico è la coerenza; la sua norma la sincerità. A questo spirito laico, noi del Partito d'Azione, che ab biamo proclamato la laicità della nostra politica, abbiamo sa37
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crazia di nome, e un governo, nella migliore delle ipotesi, pa ternalistico di fatto. Un partito di centro, oggi, non ha altro destino che quello di essere schiacciato dalle forze contrap poste: troppo debole per snidare i privilegi dalle loro roc caforti, nonostante le sue buone intenzioni, finirà per lasciare rispetto alla riforma della società il tempo che trova; troppo debole anche soltanto per conservare la libertà di tutti in una situazione di malcontento da una parte e di rinnovato ardore combattivo dall'altra, finirà per far pagare al paese una libertà puramente formale con sommovimenti e convulsioni reali che condurranno alla fine alla soppressione della libertà. Pre tendendo di porsi come arbitro, farà la fine del terzo tra i due litiganti. Idea generosa ma sterile, pretende di essere il punto dell'equilibrio e rischia invece di essere il seme della zizzania. Oggi, in Italia, solo un'unione stretta e attiva tra i partiti che sono in contatto con le forze sociali in rriovirriento d'ascesa, dei partiti della sinistra, può assicurare una demo crazia reale e duratura.
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XII .
Un nuovo p artito ?
Chi sta al di fuori dei partiti può compiere oggi un'opera politicamente assai utile: opera di critica dell'attività e dell'or dinamento dei singoli partiti, opera che gli stessi partiti non possono o non vogliono fare, sia perché sono impegnati in un lavoro non facile di riorganizzazione dopo la fase di lotta clandestina, il che toglie chiarezza e scioltezza alla critica di se stessi, sia perché sono impigliati nelle reti di una politica ufficiale di unione, o per lo meno di coalizione, che induce ad un certo conformismo di atteggiamenti e rende difficilmente praticabile la critica degli altri. Quest'opera di critica si tradu ce poi in vera e propria opposizione, ed è quindi ancor più feconda, quando contrappone l'attività di chi si muove libe ramente senza pigrizia né sottintesi, senza riguardi né com piacenze, al di fuori dei partiti, a quella specie di blocèo delle idee politiche, di monopolio dell'azione dello Stato in cui pa re talora esaurirsi l'attività pubblica dei partiti ufficiali. Con tro chi compie siffatta opera di critica e di opposizione sareb be dunque ingiusto estendere la polemica, che si fa di giorno in giorno più accesa, contro gli assenti, gli inerti, in una paro la contro gli apolitici, perché, se politica importa prima di tutto assunzione di responsabilità pubbliche, non v'è chi non veda che una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue ten denze, e magari meglio fuori che dentro, e che se mai è pro prio l'amaro frutto di quella monopolizzazione politica dei 43
_______ B(>bbic>, Tra due llepubblicl1e _______ partiti, di cui si è detto, il confondere - come si fa da parte dei più zel a nti seguaci - l a p o l itica c o n l 'ad es io ne ad u n o dei partiti, e quindi l' «apartiticità» con l' « apoliticità» . Credo però che valga la pena d i mettere in guardia q uesti critici indipendenti da un pericolo permanente insito nel loro atteggiamento, qualora la critica dei partiti o della politica dei partiti tenda a trasformarsi in una critica della politica di parti to. Quanto è utile la prima, tanto è nociva la seconda, perché mentre la prima fa opera di chiarimento e di educazione poli tica, la seconda incoraggia il malcostume politico dell'assentei smo e dell'indifferenza di fronte alle grandi questioni pubbli c he, atteggiamento comune in coloro che, dietro il pretesto che la miglior politica è quella che si fa al di fuori dei partiti, rinunciano di fatto e di buon grado ad ogni attività politica, di partito e non di partito. Mentre la critica dei partiti è stimola trice d i riforme e di miglioramenti all 'interno dei partiti e quindi è feconda, la critica della politica di partito lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del po polo italiano; incoraggia gli ignavi a vantarsi della loro ignavia presentandola come intelligenza politica o come spirito d'in dipendenza, o come un'altra qualsiasi virtù; fa insuperbire gli ottusi e gli inerti, i quali finiranno per trovare nella loro ottu sità e nella loro inerzia uno speciale decoro, se non addirittura una ragione di superiorità; offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica se non organizzata di persone che la pensano nello stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico; e per tal mo do rende più compatta e quindi più opaca la grande moltitudi ne degli indifferenti che genereranno di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento demo cratico dello Stato italiano. Non si dice un paradosso, se si osserva che già oggi per innu merevoli ragioni, in cui entrano e la solita immaturità politica del popolo e la confusione tra politica e fascismo do po tanti anni di politica fascista e certe pose autoritarie dei 44
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p arti t(l ? _________
partiti alla ribalta, si va componendo al di fuori dei partiti uf ficia l i una sorta di alleanza dei « senzapartito » , c he ha anch 'essa, al pari di ogni altro partito, le sue formule, il suo programma d'azione, le sue intransigenze e le sue velleità, un'alleanza che minaccia di assumere l'aspetto di un vero e p roprio partito, il quale dovrebbe poi essere, senza troppa ironia, l'unico partito di massa del popolo italiano: il partito dei senzapartito. Si tratta di un partito non omogeneo ma ab b astanza unitario per esercitare un forte influsso sulla forma zione o meglio sulla dissoluzione dell'opinione pubblica; non tanto forte per determinare un'azione politica, ma forte abba stanza per ostacolarne molte; inetto a formare idee nuove ma capace di combattere tutte le idee, sol perché sono idee; inde sideroso di fare, desideroso soltanto che gli altri facciano, perché ogni fare è, secondo il suo modo di vedere, attivismo, sempre pronto a gridare al fascismo di questo o quel partito, ma nient' affatto disposto né oggi né domani a lottare perché il fascismo non ritorni, cosa che bene o male, con maggiore o minor sacrificio, tutti gli altri partiti hanno fatto e fanno coi loro mezzi tuttora; scettico di quello scetticismo che è pro prio delle classi medie italiane; scontento di quella scon tentezza che è propria di coloro che non sanno cosa voglio no, ma vogliono pur qualche cosa per non essere considerati ignoranti o retrogradi; un partito insomma di opposizione, ma di quella eterna irreducibile opposizione verbale e non reale, che costituisce la virtù degli insoddisfatti, dei deboli, di coloro che non s'impegnano per non sbagliare. Ora, bisogna riconoscere che questo nuovo partito non fa che aggiungere confusione a confusione, accrescere il diso rientamento, intorbidare le già torbide acque; sovrappone in un terreno già così accidentato, come è quello della vita pub blica italiana, un nuovo campo di battaglia a quello già aperto tra i singoli partiti. E in modo tanto più pericoloso per la pa cificazione degli spiriti e la normalizzazione della vita politica d'oggi, in quanto, a differenza del contrasto interno dei parti45
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ti, i l dissidio tra i parteggianti e i scnzapartito è un contrasto sterile e vac u o, i n pu ra perdita, non essendo u n con trasto d'idee o d ' i nteressi, da c u i possa derivare o u no sviluppo ideologico o una composizione utile di forze, ma è un dissen so di gusti, un disaccordo di stati d'animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null'altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all'azione ricostruttri ce, strascichi di n1alumori, di gelosie, di reciproche accuse. La democrazia impegna tutti noi ad uno sforzo di chia rezza: c'impegna quindi nell'attuale disorientamento ad eli minare prima di tutto quei contrasti che non rispondono a reali dissid i d 'idee o d'interessi, tna sono unican1ente il frutto dell'incomprensione prodotta da tanti anni di malgoverno. Perciò, da un lato, chi oggi compie opera di revisione e di cri tica deve preoccuparsi di tutte le ripercussioni che la sua ope ra può avere in un ambiente così scosso e sensibile ai minimi scotimenti, come è quello italiano. Non deve quindi ignorare le insidie che si nascondono in un'opposizione che distolga coloro che sono tendenzialmente apolitici da ogni partecipa zione ali'attività pubblica, facendo loro credere di essere uo mini liberi sol perché non sono disposti a tollerare nessuna disciplina e quindi neppur la disciplina di partito. S'intende che, d'altra parte, chi è uomo di partito e non di parte, e co nosce la differenza che corre tra l'intransigenza e il settari smo, tra la coerenza con le idee direttrici del proprio movi mento e l'intolleranza delle altrui, deve accogliere come utili e salutari tutte le critiche che son rivolte ali'assetto e al fun zionamento dei partiti, quando queste critiche mirino a ri chiamare i partiti al loro dovere, che è il dovere di formare delle coscienze, non di violarle, di suscitare delle convinzioni, non di imporle già beli'e fatte, di educare dei liberi cittadini, non di fabbricare degli elettori, di dissipare le diffidenze effi mere, non di provocarne di più durature.
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XIII .
I partiti politici in Inghilterra
1 . La storia costituzionale inglese è, per così dire, una sto ria paradigmatica. Nel suo pacifico e graduale svolgimento è passata successivamente attraverso varie fasi di sviluppo che, staccate via via per astrazione dottrinale dai loro n·arurali li miti di tempo e di luogo, considerate in se stesse come un punto di arrivo, necessario e non ulteriormente superabile, hanno costituito, agli occhi dei giuristi e dei politici dell'Eu ropa continentale, veri e propri modelli costituzionali da ela borare dottrinalmente e da applicare praticamente a una di versa, più confusa e meno avanzata, realtà politica. La costituzione inglese è un prodotto naturale e inconscio della storia stessa del popolo inglese. Di questo prodotto na turale e inconscio, i dottrinari continentali hanno, di volta in volta, in alcuni lllOtnenti decisivi della storia delle nazioni eu ropee, acquistato più o meno chiara coscienza traendone for te ispirazione a elaborare e a proporre le loro più o meno ar tificiali costituzioni. Quest'opera di fissazione schematica di una realtà vivente, che fu quasi sempre pure una traduzione in termini ideali di una storia vera e già realizzata, fu compiu ta per lo più da scrittori francesi, i quali, in tale guisa, fecero della loro elaborazione dottrinale un ponte di passaggio tra la realtà costituzionale inglese e le imitazioni continentali. Quando ancora nelle più civili nazioni europee era in pie di, se pure minato e già prossimo al crollo, lo Stato burocrati co delle monarchie assolute, che non conosceva né guarenti47
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gie né rappresentanze e univa in un connubio ib rido e mo struoso il principio della potenza divina e quindi superumana del Principe, con la struttura puramente meccanica e quindi subumana dell'apparato statale, il barone di Montesquieu, nel suo celebre libro XI dello Spirito delle legg i, dopo avere se gnato con vigorosa incisività i tratti della costituzione ideale, di quella costituzione in cui «nessuno debba essere costretto a fare le cose alle quali la legge non lo obbliga, e a non fare quelle che la legge gli permette», annunciava solennemente: «vi è pure una nazione nel mondo che ha per oggetto partico lare della propria costituzione la libertà politica», e dei princì pi di questa subito dopo diceva: «se sono validi, la libertà vi apparirà come in uno specchio». Questa costituzione era la costituzione inglese, e Montesquieu ne dava una esposizione interpretazione nel capitolo successivo. Accadde in tal modo che l'Inghilterra avesse naturalmente e inconsapevolmente prodotto, e l'Europa continentale per bocca di uno scrittore francese elaborasse, prendendone coscienza, uno dei fonda mentali princìpi dello Stato moderno: il principio della divi sione dei tre poteri. All'inizio del secolo seguente, terminato il periodo burra scoso delle guerre napoleoniche e iniziata in quasi tutti i paesi d'Europa l'età dell'assestamento costituzionale, un altro scrit tore francese, Benjamin Constant, irrequieto assertore di li bertà, esponeva nelle sue Réflexions sur les constitutions, nel 1 8 1 4, la sua nota teoria del potere reale, inteso come quarto potere, come potere neutrale al di sopra dei tre poteri tradi zionali, avente la funzione di ristabilire l'armonia fra i tre po teri, quando le forze rispettive, invece di equilibrarsi, tendes sero a soverchiarsi e a distruggersi vicendevolmente; e appog giava la propria teoria ai fatti, con queste parole: «Questa realtà trovasi nella monarchia inglese. Essa crea questo potere neu trale e intermediario, ed è il potere reale separato dall'esecuti 1 vo>> . E del resto la voce del Constant suonava all'unisono con tante altre voci del tempo che invocavano l'imitazione delle 48
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istituzioni inglcsi , e soprattutto con l'appassionata e risonante voce del la sua grande an1ica Madame de Stael, che aveva scritto nelle sue Considerazioni sulla rivoluzione francese: «Si chiede come occorra distribuire i poteri, perché i cittadini siano liberi. A questa domanda la risposta è già pronta: l'Inghilter ra possie de da lungo tempo le istituzioni favorevoli allo sviluppo della libertà: la Francia segua il suo esempio» 3 • Anche in questo caso la natura in Inghilterra produceva, l'arte o la teoria in Francia si incaricava di riprodurre, quanto più letteralmente fosse possi bile, quella istituzione che era destinata a diffondersi, a predo minare a poco a poco su tutte le altre, a segnare con le sue for tunate vicende tutta la storia politica del secolo scorso in gran parte degli Stati europei: la monarchia costituzionale. Finalmente, in un altro periodo a noi più vicino di intensa attività legislativa nel campo del diritto pubblico, nel dopo guerra 1 9 1 8, quando, in seguito allo sconvolgimento istitu zionale prodotto dal conflitto, nuovi Stati nazionali si venne ro formando e vecchi Stati dovettero affrontare il problema di un profondo rinnovamento del loro assetto costituzionale, il modello costituzionale inglese riapparve, se pure giuridica mente ricomposto e dottrinalmente razionalizzato, nella isti tuzione del governo parlamentare, che come un abito confe zionato in serie fu adattato uniformemente alle più diverse corporature, forti e gracili, sane e malate. Anche questa forma di reggimento, che a un certo punto poté sembrare e sembra ancora a taluni il principio e la fine della sapienza politica, era sorta gradatamente, quasi insensibilmente, in Inghilterra, at traverso un graduale spostamento della responsabiltà mini steriale dalla Corona alla Carnera elettiva, e si era affer111ata efficacemente soprattutto in seguito alla prima riforma eletto rale del 1 832, che, riallacciando più saldamente la Camera dei Comuni al corpo elettorale, poneva in essere le condizioni per lo stabilimento di uno Stato sempre più democratico. Insomma, da quella stessa miniera da cui un grande scrit tore del secolo XVIII aveva estratto la teoria della divisione 2
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dei tre poteri, e u n letterato politico del secolo XIX, la dottri na della mo narchia costituzionale, i giuristi n1oderni francesi, tedeschi e italiani avevano saputo estrarre quello che essi rite nevano il più prezioso dei materiali per la costruzione politi ca: un governo controllato dal popolo attraverso i suoi rap presentanti: il governo parlamentare. E per l'appunto nella costituzione inglese, la divisione dei poteri, la monarchia co stituzionale, la democrazia parlamentare convivevano effetti all'altra, non giustapposte n1a reciprovamente •l'una accanto • • ca111ente 1ntegrant1s1, tutte e tre. ' E tuttavia da osservare che gli imitatori continentali giunsero ogn i volta in ritardo; e imposero il loro modello quando questo nel paese d 'origine si era dimostrato insufficiente e se ne stava farmando uno nuovo e più idoneo: la divisione dei tre poteri quando di fatto il regime inglese s'identificava per fettamente col tipo della monarchia costituzionale, la monar chia costituzionale quando si stava elaborando il sistema del governo parlamentare. Non credo di andare troppo lontano dal vero se aggiungo che, nel momento in cui in Europa si ac cendevano gli entusiasmi per il governo parlamentare, un go verno siffatto, nel senso genuino della parola, in Inghilterra, la madre del parlamentarismo, non esisteva ormai più. 2. Oggi, infatti, che il regime parlamentare in tutta l'Euro pa continentale è in crisi e di tutte le costituzioni democrati che sorte nell'altro dopoguerra neppure una è sopravvissuta e non è a dire che le abbia travolte la guerra, perché in tutti gli Stati nuovi o rinnovati, il regime parlamentare era già morto di morte talora naturale e talora violenta in tempo di pace, o soffocato in sul nascere - sarebbe naturale domandarsi con un certo senso di smarrimento: l'Inghilterra ha dunque esau storia paradigmatica ed è fallito il suo rito il suo compito di ' magistero politico ? E finita in una crisi drammatica e irrimediabile la produzione tanto pregiata e richiesta dei modelli costituzionali da parte dell'Inghilterra ? 50
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Possiamo rispondere tranquil lan1cnte di no. Le costitu zioni continental i si possono paragonare a una macchina che va soggetta di tanto in tanto a deperim ento tecnico: e quando la macchina è invecchiata non c'è altro da fare che cambiarla, costruirne una nuova secondo un model lo tecnican1ente più progredito. Ma questo, come è naturale, implica dispendio di energia e di capitali. La costituzione inglese è, invece, simile a un corpo organico che, trovandosi in un ambiente favorevole e con una nutrizione abbondante, si sviluppa e si irrobustisce per forza propria e non ha dato sinora segni manifesti di se nescenza. Sviluppandosi lentam ente e gradualmente, supera da se stessa le crisi, ed è sempre nuova pure essendo vecchis sima. Una macchina nuova, co n1e ben s'intende, non pu ò avere nulla in con1une con la tnacchina vecchia, è un nuovo congegno con materiale nuovo e con diversa efficienza. E bi sogna trovare chi sia capace di farla funzionare. Un organi smo, invece, che si sviluppa per forza propria, è sempre lo stesso organismo, anche se le sue funzioni di oggi sono più estese e più progredite rispetto a quelle di ieri. Confrontiamo per un istante la storia costituzionale francese dalla Rivolu zione in poi con quella inglese dello stesso periodo, e la me tafora della macchina e dell'oganismo apparirà limpidissima: la storia costituzionale francese è la storia di successivi adat tamenti di macchine sempre guaste; quella inglese, invece, non è altro che lo sviluppo normale di un organismo sempre in salute. L'evoluzione costituzionale del popolo britannico non si è arrestata al regime parlamentare, ma è andata oltre. Ed è an data oltre tanto lentan1ente, com'è suo costume, che è difficile accorgersene anche se il mutamento oggi in atto è iniziato per lo meno un secolo fa. Difatti, se per regime parlamentare si intende quel regime in cui organo sovrano è il parlamento e il governo è emana zione del parlamento ed è politicamente responsabile esclusi vamente di fronte a esso, il regime inglese, quale si è venuto 51
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morte il prin10 uo n10 della Grecia com e l 'ultimo cittadino. E ancora: l a dottrina di Rousseau, che ancor oggi ci pone sotto gli occhi il modello più perfetto di Stato democratico, per quella rigorosità che è propria del dottrinario intransigente e radicale, pone in sostanza le fondamenta di uno Stato assolu to . Quando egli attribuisce allo Stato il potere di fissare i dogmi della religione civile, per quanto questi dogmi debba no essere pochi e semplici, e aggiunge che può essere bandito dallo Stato chiunque non li accolga, introduce a forza lo Stato nella sfera personale e non lascia all'individuo nulla che non sia in qualche modo invaso dal potere pubblico. Delle defini zioni che ci sono state date dello Stato totalitario mi pare tra tutte la più convincente, quella che considera il totalitarismo come un feno meno di politicizzazione totale della vita dell'uomo, di riduzione a politica, cioè a strumento dello Sta to, della cultura e dell'arte, della filosofia e della religione, ol tre che degli averi e degli affetti. Ora, quando si dice che è in sito nelle dottrine democratiche il pericolo di una degenera zione nel totalitarismo, si vuol dire appunto che nell'invoca zione ad una più aderente partecipazione alla vita dello Stato, se si trascendono i limiti della partecipazione, si corre il ri schio di assolutizzare la dimensione politica, di elevare in somma, come è proprio di ogni totalitarismo, la politica ad attività esclusiva dell'uomo. 4. Della degenerazione delle due vie, che il pensiero politi co moderno aveva escogitato per umanizzare lo Stato, abbia mo fatto troppo dura esperienza perché occorra mettere anco ra una volta con insistenza il dito sulla piaga. Occorre, se mai, rendersi conto dei motivi della degenerazione per non rica dervi. Da quel che abbiamo detto sin qua appare che il moti vo principale di questa degenerazione sia da ricercarsi nel mancato riconoscirnento, da un lato, del valore dell'uorno co me essere personale al di là dei limiti in cui si svolge la sua vi ta sociale, dall'altro, dal disconoscimento dei lirrliti tra la sfera 84
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personale e la sfera sociale dell 'uon10 . Solo una conoscenza empiricamente fondata dcll' evoluzione della società umana p u ò aiutarci a trarci dall'errore e fornire qualche argomento per appoggiare quelle idee che sorgono, magari tumultuosa mente ma perentoriamente, nel campo della lotta politica. A questo punto possiamo tornare un momento sui nostri passi per concludere brevemente. Abbiamo preso le mosse dalle tradizionali raffigurazioni dello Stato, dello Stato-divi nità e dello Stato-macchina, descrivendole un po' come un incu bo da cui dovessimo liberarci. Ma a poco a poco, nel cor so dell'esame critico che siamo andati svolgendo delle corre zioni che a quelle raffigurazioni sono state apportate, l'incu bo si è venuto sciogliendo. Il nostro discorso, infatti, ha mes so in rilievo per lo meno due concetti utili, delicatissimi per il loro uso pratico, ma indispensabili per il chiarimento del no stro problema: il concetto di lim ite dello Stato di fronte all'uomo-persona e il concetto di partecipazione degli uomini allo Stato entro il limite posto. Ed ecco, allora, che se lo Stato ha un limite, non è più un dio terreno e il suo volto minaccio so si trasforma in un volto benigno. E se entro quel limite lo Stato richiede la partecipazione dell'uomo, di tutti gli uomini, lo Stato non è più una macchina sovrapposta all'uomo ma è l'uomo stesso nell'incontro col suo simile in una con1une vo lontà di collaborazione. Nella liberazione dagli idoli consiste il progressivo incivilimento dell'uomo. E siccome ogni idolo è il prodotto dell'alienazione che l'uomo fa di una parte di se stesso, staccandola da sé ed entificandola colTle alcunché di assolutamente valido al di fuori di sé, per liberarcene bisogna ricondurre l'idolo alla sua origine e alla sua funzione umana. Tra gli idoli dell'uomo d'oggi uno dei più persistenti e mali gni è lo Stato: se vogliamo liberarcene dobbiamo mostrare, come abbiamo cercato di fare sin qui, che esso non è un ente sovrapposto o sottoposto all'uomo, ma è u n'espressione dell'uomo, è la realizzazione stessa dell'uomo sociale, cioè dell'uomo in quanto si vincola e non può non vincolarsi con 85
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gli altri uomini insiem e con lui coesistenti. In un'età che ha visto il trionfo di m iti primitivi e feroci, e che là dove no n ado ra il mito si prostra d innanzi alla macchina adorata anch'essa come una potenza superumana, in un'età che ha vi sto l'uomo, ora accecato da una volgare idolatria di dei terre ni, ora soverchiato dalla potenza di una tecnica di cui si è la sciato sfuggire il dominio, ricondurre lo Stato, questo supre mo tra gli dei terreni, questa machina machinarum, al livello della condizione umana, è il primo dovere di chi si accinge all'opera di ricostruzione di uno Stato democratico.
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xv. Società chiusa e società aperta I sociologi tedeschi, dall'inizio del secolo in poi, cioè da
quando, con la decadenza dei vari indirizzi di pensiero positi vistico, la filosofia, sotto pretesto di un ritorno a Kant e in cerca di purificazione, aveva abbandonato la positività della ricerca per la purezza del metodo, il contenuto per la forma, si erano soffermati con insistenza sopra una distinzione con cettuale, che da empirica quale era s'innalzò a poco a poco, con l'aumentar delle pretese della sociologia formale, a distin zione di categorie pure o forme a priori dell'esperienza socia le, sino a diventare nella storia più recente della scienza di Stato dei professori tedeschi una distinzione di tipi ideali, im plicante l'assunzione di certi valori e la formulazione di certe valutazioni. Parlo della distinzione tra società (Gesellschaft) e comu nità (Gemeinschaft), che esprime la differenza tra l'aggruppa mento di individui che si uniscono al fine di perseguire un in teresse comune, e il gruppo di persone che si trovano ad esse re unite in ragione di un vincolo di sangue, di razza o di na zione, indipendentemente dallo scopo perseguito, in altre pa role e più brevemente, se pur con un pizzico di semplifica zione, tra l'associazione convenzionale e il gruppo naturale. Da quando il TOnnies vide in questi due concetti le categorie fondamentali della sociologia pura (la prima edizione del suo libro Gemeinschaft und Gesellschaft è del 1 887), i sociologi tedeschi dal Vierkandt al Freyer, dal Litt al Gehlen, si esercì87
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tarono con n1olta bravura su quella distinzione con1e su di un tenia obbligato, e molta parte del la nuova sociologia fu tessu ta a fili sottilissimi e multicolori su quel la fragile trama. La di sti11zionc, sino a che fu 111antenuta n ei suoi lirriiti, ebbe un non trascurabile valore classificatorio. Ma quando negli ulti mi anni se ne impadronì la scienza di Stato, questa le inoculò il suo veleno, trasfortnando una distinzione di concetti in un'opposizione di valori. La comunità, intesa come unione naturale e spontanea di membri dello stesso gruppo razziale, in cui l' «io» scompare nel «noi», caricata di un significato mi stico o magico, rappresentò il valore, l'ideale da perseguire; la società, spregiativamente considerata come unione meramen te meccanica, o atomistica, di individui egoisti e asociali, gra vata di tutta la polemica antilluministica e antirazionalistica che si veniva agitando nel misticismo pagano della barbarie ritornata, rappresentò il disvalore, la realtà da eliminare. La proclamata superiorità della comunità sulla società era la tra duzione in termini sociologici della lotta contro la ragione, intrapresa in nome del nuovo irrazionalismo, della mortifica zione dell'intelligenza creatrice in nome della fantasia fabula trice dell'uomo primitivo, e per quanto fosse presentata come il termine di una evoluzione sociale ed umana di cui il popolo tedesco soltanto avesse toccato i più alti fastigi, conduceva al la fine alla rivalutazione della tribù contro lo Stato 111oderno, della concezione olistica della società contro quella indivi dualistica. Era una nuova insidia che la scienza tedesca tendeva a chi si era rivolto ad essa per tanto tempo con fiducia. E anche di questa insidia, come di tutti i camuffamenti, le ciarlatanerie, le menzogne e le sciocchezze perpetrate durante dieci anni, gli uomini della cultura e della cattedra portano una responsabi lità morale che non si può facilmente dimenticare né sottova lutare. Nel nostro caso l'insidia consisteva nello staccare arbi trariamente il concetto di comunità dall'ordine classificatorio in cui era valido, per trasferirlo nell'ordine dei valori, in cui 88
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acq uistava una carica positiva, solo perché venivà con1 misura to ad u na scelta valutativa già presupposta. Questa scelta ini ziale si risolveva nella perentoria e obbligatoria affern1azionc che il gruppo fosse la realtà suprcn1a a cui l 'individuo doveva sottostare a guisa di strumento rispetto al fine, di parte rispet to al tutto, o secondo la vecchi a concezione organicistica, di membro rispetto all'organismo vivente. Da questo punto di vista, che era il punto di vista dell 'universalismo in opposizio ne all'individualistno, non c'è dubbio che la corriunità, co111e unione solidale di membri legati da vincoli non occasionali né convenzionali, ma naturali e duraturi, rappresentasse una for ma di unione superiore alla società in cui il vincolo associati vo non impegna l'individuo se non parzialmente, cioè per quella parte in cui la sua attività è necessaria al raggiungimen to del fine comu ne. Ma fuor dell'astrazione dei dottrinari, sorgeva immediatamente un problema fondamentale, che col suo stesso imporsi mostrava i limiti della soluzione accettata. La comunità apparteneva ad un ordine superiore di valori, va bene: ma, in concreto, quale comunità ? La famiglia, la nazio ne, la razza, l'umanità ? Posto che l'individuo nella coITlunità vive in funzione di questa e ne viene assorbito, era importante sapere o decidere quale comunità dovesse avere sulle altre la prevalenza: non era la stessa cosa che l'idea-comunità s'incar nasse nella realtà della co111unità faITliliare, o della corrlunità religiosa, o come fu sostenuto, della comunità razziale. E so prattutto il problema cambiava faccia totalmente a seconda che la comunità, in nome della quale si chiedeva il sacrificio dell'individuo, la sua dedizione, la sua fede, il suo annichili mento, o con quale altro termine del linguaggio mistico si vo lesse chiamare la partecipazione del singolo al tutto, fosse una comunità parziale come la famiglia o. la razza, o fosse invece la corrlunità universale, l'uinanità come comunità, con1e ter mine finale della comunione degli uomini. La comunità razziale, la Volksg emeinschaft, che faceva delirare i letterati neoromantici e i politici realisti, era una so89
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filosofica, sostenuta da una fer1T1a co11vinzione 111oral c di de mocratico laico, e ravvivata da un'irrequieta curiosità di cose, fatti ed opinioni antich e e recenti, merita dico di esse re ascoltata. K. R. Popper ci parla in un recente libro, in due grossi volumi, della «società aperta e dei suoi nemici» ( The Op en Society and its Enemies, London 1 945): la società aper ta è quella dove ogni individuo assu me una responsabilità personale e dove la molla della vita sociale è l'iniziativa mora le e singolare, mentre la società chiusa si fonda essenzialmen te sulla rigidità dei costumi appoggiati ad un'autorità d'ordi ne religioso. La prima è razionale e critica, continuamente in progresso; la seconda irrazionale e magica, staticamente asso pita nella ripetizione di formule consumate. Il passaggio dalla società chiusa alla società aperta è anche per il Popper, come per il Bergson, il passaggio dal tribalismo all'umanitarismo; ma al Popper non piace l'intrusione di quell'intuizione misti ca che nel Bergson apre la società chiusa e la dissolve. Il mi sticismo, anch'esso, è, per il Popper, un ingrediente della so cietà chiusa: o se tnai una reazione alla 111inacciata decadenza della società chiusa, e quindi una protesta contro la società aperta che tende a distruggere il sogno di un ritorno al para diso perduto della tribù. Non sul misticismo la società aperta si costruisce; ma sull'intelligenza degli uomini che hanno ac quistato consapevolezza del potere critico della propria ra gione e l'esercitano per svelare l'inganno e l'inconsistenza dei miti, per distruggere l'autorità e il terrore delle superstizioni selvagge. Di nemici, secondo il Popper, la società aperta ne ha co nosciuti in ogni epoca molti, anche nelle più gloriose età del pensiero. Nell'antichità sopra ogni altro Platone, proprio il divino Platone, che tradisce il messaggio umano di Socrate, e vagheggia il sogno impossibile di ricostruire, idealizzandolo, integro immutabile ed immobile, il paradiso perduto della so cietà chiusa, arrestando in un momento del tempo, per l' eter nità, il moto del progresso umano verso le libere istituzioni. 92
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Nei tem pi moderni, Hcgel, apologeta e teorico dello Stato tribù, e il suo discepolo, falso profeta (se pure assai più acuto e intelligente indagatore dei fatti sociali) Marx. Smascherare questi nemici della società aperta e quindi dell'umanità è, se condo il Popper, compito della filosofia razionalistica e criti ca. Dovere urgente e degno dell'uomo moderno è quello di mostrare che il ritorno ad ogni forma di tribalismo eroico non è un ritorno allo stato idillico di natura, tna alla belluinità primitiva. Il_ paradiso per l'uomo, da quando egli ha mangiato il frutto dell'albero della conoscenza, è definitivamente per duto. «Se noi sogniamo - egli dice - di ritornare alla nostra infanzia, se ci lasciamo tentare di fare assègnamento sugli altri e di essere in questo modo felici, se ci sottraiamo al dovere di portare la nostra croce, la croce dell'umanità, della ragione, della responsabilità, se perdiamo il coraggio e ci ritiriamo dalla lotta, allora dobbiamo renderci chiaro conto, spregiudicata mente, di quel che ci spetta: noi possiamo tornare allo stato belluino. Se invece desideriarrio restare uomini non c'è che una sola via, quella che conduce alla società aperta» (I, p. 1 77). Quanto all'analisi storica del Popper, non è il caso qui di indagare se sia esatta o non sia viziata dall'amore della tesi. Ma un inodo così sincero ed ardito di denunciare l'eterna tentazione che in ogni società umana fatalmente emerge di ri tornare al tribalismo, merita pure qualche commento. Non foss'altro perché questo ritorno al tribalismo è il più incisivo e meno astratto criterio di spiegare il fenomeno dello Stato totalitario, in qualunque paese e con qualunque veste ideolo gica si sia presentato, e quindi anche, dato che la storia non conosce altri valori che il e il , di condan narlo senza ricorrere a valutazioni d'ordine trascendente, a immagini apocalittiche, a visioni provvidenziali. Lo Stato totalitario, come oggi, dopo l'evento, appare sempre più evidente, e come, prima dell'evento, aveva messo in rilievo con una certa baldanzosa facilità Walter Lippmann in un noto libro, ora conosciuto anche da noi, è esscnzial93
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mente u n'organizzazione n1ilitare e guerriera, che no n si giustificherebbe, anzi sen1 brerebbe addirittura m ostruoso, se il suo scopo ultimo non fosse rappresentato dalla prepa razione e dalla condotta della guerra. Esso affonda le sue ra dici in quegli stessi motivi psichici e sociali che hanno pre sieduto al sorgere delle organizzazioni statali primitive, nate appunto per la difesa del gruppo dalla permanente insidia degli altri gruppi. Per q uesto lo Stato totalitario è una so cietà chiusa: alla sua base è un gruppo che si crede isolato o si isola volontariamente, e concepisce tutta la vita sociale in funzione della difesa dell'attacco nei confronti degli altri o • g ruppi. L'autarchia è l'economia chiusa di uno Stato guerriero. Il fanatismo eroico, l'esaltazione delle virtù militari e degli istinti sanguinari, sono le uniche forme di moralità concepi bili in una società di guerrieri, sia esso il moderno Stato to talitario o l'orda selvaggia: la morale s'identifica con la po tenza del gruppo, onde è morale tutto ciò che serve ad ac quistare o conservare la potenza collettiva; morale chiusa, legata alla razza di chi esalta i valori, e quindi puramente esteriore e meccanica ed aspramente coercitiva. La religione si risolve in una serie di prescrizioni e di proibizioni, ricava te e giustificate dalla fedeltà alla razza, cioè in definitiva agli antenati: religione totemistica, antica e nuova, in cui ancora una volta il principio e la fine di ogni pratica di culto sono la sicurezza e la conservazione del gruppo; religione chiusa di una società chiusa, che ha la sua mitologia e le sue super stizioni, i suoi crudeli olocausti e le sue terrificanti vendette. Lo Stato totalitario ha pure il suo diritto: forse in nessun'al tra sfera meglio che in quella giuridica, esso ha rivelato la sua parentela con l'orda. Un giu rista che avesse cercato d'intendere i nuovi concetti del diritto tedesco, valendosi delle categorie giu ridiche diventate tradizionali nella nostra patria europea, si sarebbe trovato tra le mani il più ineffica ce degli stru menti: il segreto dell'odierno diritto tedesco 94
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non si sciogl ie con le Pandette o coi Codici, ma ricorrendo a q ualche trattato di etnologia . g i u ridica. Ma la società chiusa non è morta, sol perché siano caduti tre o quattro Stati totalitari. Essa è una tentazione perenne di quell'uomo p rimitivo che sonnecchia in ciascuno di noi e si desta e si scatena nei momenti di sconquasso sociale; è la ten tazione di ignorare che gli altri non sono soltanto i miei figli, quelli della mia terra e della mia razza, ma tutti gli uomini in distintamente; di far tacere l'appello della nostra coscienza m o rale, che è tale in quanto è consapevolezza di una legge u niversale che unisce tutti gli uomini al di sopra delle differen ze sociali; di far trionfare sulla evidenza della ragione l'oscu rità dell'istinto, sull'intelligenza moderatrice la passione scon volgitrice, sul sapere scientifico le più screditate superstizioni, sull'obbedienza ai principi di un'educazione civile l'abbando no al furore cieco del fanatismo. Ogni aggruppamento cela in sé questa tentazione di chiudersi nel cerchio magico della sua autosufficienza: ed ecco che dalla classe sorge il classismo, dal la nazione il nazionalismo, dalla razza il razzismo. Il popolo che in questa materia è senza peccato scagli la prima pietra: forse che i rappresentanti delle grandi democrazie non ci ap paiono oggi anch'essi come potenti, smisuratamente potenti, capi-tribù che si rinchiudono gli uni di fronte agli altri in un atteggiamento di diffidenza ostile e perversa ? Lo spirito che ha determinato la politica delle zone d'influenza è lo spirito della società chiusa; non importa che i confini della tribù si al larghino sino ad abbracciare quasi mezzo mondo: lo spirito tribale rimane. E con la seduzione della tribù, che i demagoghi delle piazze, i retori della cattedra e tutti i più cinici e sciocchi mistificatori di ideali ricoprono sotto il nome pomposo di amore di patria, va di pari passo l'organizzazione della società non per la pace ma per la guerra, non per la felicità dei singoli, ma per la potenza del gruppo, non per lo sviluppo dell'anima ma per la vigoria delle membra, non per la libertà delle perso ne, ma per la schiavitù del gregge o dell'alveare. 95
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Dovunque questa seduzione si estende, la dcn1ocrazia è destinata a ritirarsi e a decadere. La democrazia, o è la società aperta in contrapposto alla società ch iusa, o non è nulla, un inganno di più. Quella democrazia alla quale hanno guarda to, come a meta che meritasse il sacrificio dei migliori, tutti i movimenti di liberazione europei, non era stata intesa come una modificazione puramente formale delle leggi costituzio nali di uno Stato: o era vera n1ente la rottura della società chiusa, e l'instaurazione della società aperta, o era un falso idolo che non meritava né incensi né vittime. Purtroppo una concezione tneratnente fortnale e strumentale della de01ocra zia prevale ancora oggi nel mondo; e in tal modo si disimpara a leggere il significato profondo di quelle strutture o di quegli accorgimenti giuridici che si dicono democratici. Dietro al suffragio u niversale, alla garanzia dei diritti dell'individuo, al controllo dei poteri pubblici, all'autonomia degli enti locali, al tentativo di organizzazione internazionale degli Stati, sta, ben visibile a chi non vuole chiudere gli occhi, la convinzione che l'uomo non è mezzo ma fine, e che quindi una società è tanto più alta e più civile quanto più accresce e rinvigorisce, e non avvilisce e mortifica, il senso della respon sabilità individuale. In altre parole: dietro alla democrazia co me ordinamento giuridico politico e sociale, sta la società aperta come aspirazione a quella società che rompa lo spirito esclusivistico di ciascun gruppo, e tenda a far emergere di sot to alle caligini delle superstizioni sociali, l'uomo, il singolo, la persona nella sua dignità e nella sua inviolabilità. Contro la società chiusa, cioè contro la morale della potenza, l'autarchia economica, il monismo giuridico, la religione magica, la de mocrazia si ispira ad una morale fondata sulla responsabilità individuale, rivendica un'economia antimonopolistica, avver sa ai privilegi dei gruppi, ha bisogno di una struttura non mo nistica ma pluralistica del diritto, esige una religiosità interio re che sgorghi dall'intimità della coscienza. Una democrazia che non sia il rivestimento formai e di una società aperta è una 96
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for1na senza conte11uto, è una falsa democrazia, una de1110crazia ingannevole e insincera. Bergson, dopo aver tracciato le linee della sua distinzione tra società chiusa ed aperta, spie gava che di tutte le concezioni politiche la sola che trascenda, in intenzione alrrieno, le condizioni della società chiusa è la democrazia. E aggiungeva: «Essa è stata introdotta nel mon do, soprattutto come una protesta. Ogni frase della Dichiara zione dei diritti dell'uotno è una sfida lanciata contro un abu so» (p. 305). Proprio come una protesta il nome della democrazia è ri suonato ancora una volta in Europa: come una sfida agli abu si del nuovo Leviatano, che impassibilmente ha versato il san gue di tante vittime e ha distrutto le cose più sacre degli uo mini. E proprio perché è stata accolta come una protesta, co me una sfida, ed è quindi magnificamente e terribilmente gra vida di un profondo significato morale, la democrazia, cioè la società aperta, non può essere buttata via come una carta inu tile sul tavolo dei grandi giocatori internazionali. Ne va del nostro destino, del significato di questa dolorosa storia che abbiamo vissuto. Ne va del nostro prestigio, acquistato a così duro prezzo, di uomini civili, che hanno spezzato, per non più subirne l'oltraggio, la legge della tribù, e hanno acceso speranze di una legge più alta, contro l'orgoglio della potenza e la • supremazia del terrore, negli uomini umili, ma liberi di • • tutti 1 paesi.
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Parte I I .
Dop o cinquant'anni ( 1 996)
_____ TRA DUE REPUBBLICHE ______
I.
Autogoverno e l i bertà politica
Da quando pubblicai per la prima volta gli scritti compre s i ne l l e p agine p rec ed enti s o no p as s at i es attamente c in quant'anni. Si tratta di articoli e saggi composti in occasione della difficile fondazione della prima repubblica, che vengono ora ripubblicati nel momento, non meno difficile, del trapas so dalla prima alla seconda. La loro rilettura dopo tanti anni mi offre l'occasione di un duplice confronto, tra le mie idee e gli eventi di allora e le mie idee e gli eventi di oggi. Mi sono accorto che sono cambiati molto pi:I i secondi che le prime. Se sia bene o male lascio giudicare al lettore. La nostra formazione politica era avvenuta durante il fa scismo e nonostante il fascismo. Per quel che riguarda la tra dizione del pensiero liberale e democratico, che è il filo con duttore che unisce i miei pensieri di allora a quelli di oggi, fondamentale era stata la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero, pubblicata da Laterza nel 1 925 e ristam pata anche in seguito. La giovane casa editrice Einaudi, nata nel 1 933, pubblicò tra il 1 935 e il 1 953 le p rincipali opere sto riche di Luigi Salvatorelli tra cui Il p ensiero politico italiano dal 1 700 al 1870 e Pensiero e azione del Risorgimento ( 1 943). Nel 1 940 usciva presso la Nuova Italia in due volumi lo stu dio di Adolfo Omodeo su L 'op era p olitica del conte di Ca vour. Tutti e tre questi grandi storici confluiranno nel Partito d'Azione, se pure nella sua ala moderata. Per quel che riguar da il pensiero marxista, cui durante il fascismo era stato dato 1 01
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l'ostracismo, ebbe, a mio ricordo, una grande importanza la ripubblicazione di La concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, presso Laterza nel 1 93 8, a cura di Croce che vi aggiunse un suo scritto sulla crisi del marxismo in Ita lia. Ne feci materia di un seminario ristretto a pochi studenti all'Università di Padova nel 1 942 o '43. Nei quasi due anni dell'occupazione tedesca (settembre 1 943 -aprile 1 945), chiuse le biblioteche pubbliche o quasi inaccessibili, sfollate quelle private, avevo letto e riletto i sette volumi delle opere edite e inedite di Carlo Cattaneo, pubblicate da Le Monnier tra il 1 8 8 1 e il 1 892, che per una fortunata circostanza avevo in ca sa. Dopo Croce avevo trovato nell'affascinante autore delle Memorie sull'insurrezione di Milano il secondo maestro. Il terzo, quando il periodo di militanza politica finirà e mi dedi cherò esclusivamente agli studi e al mio insegnamento di filo sofia del diritto, sarà non un filosofo, non un pensatore poli tico, ma un grande giurista, Hans Kelsen. Dello scrittore lotnbardo mi avevano attratto non solo le idee filosofiche, che avevano contribuito a liberarmi definiti vamente dalle varie filosofie dello Spirito, dominanti nelle università italiane dall'inizio del secolo in seguito alla crisi del positivismo, non solo le idee del riformatore illuminato, ma anche lo stile, forte, chiaro, incisivo. Uno dei miei scritti cui sono più affezionato è la lunga introduzione che scrissi nel 1 944, nelle ore di libertà che mi lasciava l'impegno di militan te del Partito d'Azione clandestino, a una raccolta di scritti cattaneani che pubblicai col titolo Stati Uniti d'Italia per una .collana di scrittori politici richiestami da un intelligente e co raggioso libraio-editore, Angelo Barrera, diventato il diretto re editoriale dell'antica casa editrice torinese Chiantore. Chi scorra i titoli di quei miei articoli qui ripubblicati ve de chiarissime le tracce dell'insegnamento cattaneano. Varie sono le pagine dedicate al federalismo, non solo a quello esterno che faceva parte del programma politico della sinistra democratica, ma anche a quello interno, che, ritornato in sce1 02
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na in questi ultimi anni, era stato dopo l'Unità completamen te abbandonato. Non c'è più traccia, invece, in questa raccolta del mio in teresse di quegli stessi anni per l'esistenzialismo, cui avevo dedicato numerosi sc ritti più espositivi che interpretativi e che mi aveva indotto nello stesso periodo dell'occupazione tedesca a pubblicare, sempre con Chiantore, un libretto che avevo intitolato La filosofia del decadentismo in cui tentavo di dare delle filosofie di J aspers e di Heidegger una mia interpre tazione che ora apparirebbe del tutto fuori tempo, forse anche stravagante e viziata da pregiudizi ideologici. A chi oggi po trebbe stupirsi di quest'interesse così apparentemente lontano dalle questioni del tempo, ho già avuto occasione di spiegarlo come il segno di un periodo di tormentato trapasso dal vec chio al nuovo, in cui l'esistenzialismo soddisfaceva un' esigen za liberatoria rispetto alle filosofie idealistiche in cui ci erava mo forma ti, una specie di «purgazione» prima di trovare la propria strada nelle filosofie militanti del post-fascismo, che erano sostanzialrnente il marxismo e il neo-illurriinis1110. Cattaneo era il solo dei nostri scrittori del Risorgimento che il fascismo non aveva osato annoverare tra i suoi precur sori, ed era stato negli stessi anni uno dei maestri ideali di Sai vernini e, attraverso Salvemini, di Gobetti, il cui pensiero fu una delle fonti del Partito d'Azione. Tuttavia, più che nel fe deralislllo in senso stretto, il cui esito sarebbe stato lo stnern bratnento dello Stato nazionale, e che lo stesso Cattaneo ave va abbandonato negli ultimi scritti dopo l'Unità, l'insegna mento sempre utile di Cattaneo stava, a mio parere, nella sua serrata polemica contro lo Stato accentrato sul modello napo leonico, che i vecchi e i nuovi liberali consideravano una delle condizioni che avevano favorito non d ico l'avvento n1a la ra pida instaurazione di uno Stato autoritario come quello fasci s t a . Lu i gi E i n aud i , c o me S alve m i n i grand e ammi r at o re dell'appassionato teorico del federalismo repubblicano, nel suo esilio ticinese durante l'occupazione tedesca aveva scritto 1 03
_______ Bobbio , Tra due Repubbliche _______ il 1 7 luglio 1 944 un articolo intitolato: Via i prefetti! (una del le tante «prediche inutili»). Quando Cattaneo definiva il fe deralismo «teorica della libertà», intendeva per libertà l' eser cizio del potere dal basso, la pratica dell'autogoverno. Nel mio commento scrivevo: «Oggi sappiamo che la democrazia progredisce non tanto in proporzione dell'estensione mera mente quantitativa del suffragio, quanto proporzionalmente al moltiplicarsi delle istituzioni di autogoverno» . Avevo completamente dimenticato questo primo scritto, quando nel 1 984, quarant'anni dopo, in uno dei saggi che compongono una delle opere mie più note, Il futuro della democrazia, scri vevo che l'estensione della democrazia sarebbe consistita nel dare una risposta non solo alla domanda: «chi vota ?» ma an che a questa ulteriore domanda: «dove si vota ? » . Il primo problema, dicevo, è stato ormai risolto, ma sino a che- soste nevo con qualche esitazione, rendendomi conto della diffi coltà cui sarebbe andata incontro la risposta alla seconda do manda - non sarà avviato a soluzione anche il secondo pro blema, il processo di democratizzazione iniziato con le suc cessive• tappe dell'allargamento del suffragio, non potrà dirsi compiuto. Nella restaurazione della democrazia il tema dell' autogo verno era un tema obbligato. Esso riguardava quello dei due aspetti della libertà che nelle discussioni successive sarebbe stato chiamato «libertà positiva», ovvero la libertà che, a dif ferenza della libertà negativa intesa come libertà dallo Stato, consiste nell'obbedire alle leggi che ciascuno si è prescritte. Questa distinzione mi è apparsa più chiara qualche anno do po, quando il dibattito sulla libertà si è spostato dall'opposi zione al fascismo all'opposizione al comunismo. Nel frattem po, la teoria delle due libertà è stata ripresa e sviluppata da lsaiah Berlin, ed è diventata un luogo comune. Ma allora non lo era. Oggi sappiamo anche che le due libertà sono interdipen denti, e che una compiuta democrazia ha bisogno di tutte e 1 04
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due. Non escludo che allora, per reazione allo Stato autorita rio da cui ci eravamo liberati, tendessi a dare maggiore rilievo alla libertà come autonomia, avendo ben presente che Kelsen (uno dei miei maestri, come ho detto) fondava l a contrap posiz_i one fra autocrazia e democrazia sulla distinzione kan tiana tra eteronomia e autonomia. Ma non dimentico che al lora io sostenevo la concezione etica della den1ocrazia cui avrei sovrapposto in seguito quella concezione procedurale che p rop rio da Kelsen avevo attinto. Il fondamento della concezione etica della democrazia è il rispetto dell 'uomo in quanto persona. L'uomo in quanto persona precede la nascita dell'organizzazione statale, e proprio perché non ne dipende, ne segna i limiti. La concezione personalistica della democra zia, per cui l 'individuo è prima dello Stato, implica il ricono scimento e quindi la protezione dei diritti che appartengono alla persona in quanto tale. Questi sono i diritti propriamente detti personali, i diritti civili, che insieme costituiscono il con tenuto specifico della cosiddetta libertà negativa o libertà dallo Stato. Non era del resto pensabile la distruzione dello Stato fascista, che era stato insieme antiliberale e antide111ocratico, senza porre il nuovo Stato sulla base della restaurazione, se mai in maggiore misura di quello che era avvenuto nello stato prefascista, di entrambe le libertà. Non è difficile ricostruire lo stato d 'animo di chi, come me e come tutti gli appartenenti alla mia generazione, era ar rivato agli anni della maturità senza avere mai votato, e aven do cercato, se mai, di sottrarsi a quelle forme di partecipazio ne forzata che erano le adunate e altre messe in scena che non riuscivamo più a prendere sul serio. La stessa parola «gerar ca» negli anni della segreteria di Achille Starace aveva ormai un suono grottesco. Quando votai per la prima volta alle ele zioni amminis trative d ell 'ap rile 1 946 avevo quasi 3 7 anni . L ' atto di gettare liberamente una sched a nell 'u rna, s e nza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un'abitudine talora, come nel caso di certi referendum, persino stucchevole 1 05
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apparve quella prima volta una grande conquista civile, che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro paese l'inizio di una nuova storia. So che è difficile farlo capire ai giovani d'oggi, che hanno perduto, per varie buone ragioni che non mi nascon do, molte illusioni, se non rispetto all'astratta teoria, rispetto alla prassi democratica quotidiana. Ma chi ha vissuto il mo mento di quel trapasso osa dire, sapendo di sfiorare il para dosso, che tra l'ordine imposto e il libero disordine non ha dubbi quale sia il male minore. Ai nostri genitori e ai nostri maestri rimproveravamo con insolente asprezza che avessero capito troppo tardi a quale tragica fine avrebbe condotto l 'Italia la rivoluzione delle camicie nere; rimproveravamo lo ro di non aver difeso il diritto del cittadino a partecipare in prima persona alla vita pubblica e di essersi lasciati a poco a poco ridurre, spesso di malavoglia, anche durante i decantati «anni del consenso», a una folla acclamante. Ogni volta che rivedo quella piazza, quel balcone, quella folla in divisa col braccio alzato, dico fra me e me: «Dio mio, che vergogna! » . Leggendo Cattaneo avevo appreso una frase poco nota di Machiavelli che egli amava ripetere adattandola alla sua idea di autonomia: se un popolo vuol mantenere la libertà «cia scheduno deve tenervi sopra le mani». Quante volte l'ho ri petuta anch'io, insistendo su quel «ciascheduno».
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_____ TRA DUE REPUBB LICHE ______
II.
Contro l' apoliticismo
Non c'è da stupirsi se uno dei principali temi di quei pri mi articoli sia stato l'invito ai nostri lettori di riappropriarsi dei diritti politici, partecipando attivamente alla vita pubblica, anche attraverso i partiti, strumenti indispensabili di forma zione democratica. Sin dal primo articolo qui pubblicato, ma nifesto la mia avversione per il puro tecnico che con il prete sto della dedizione esclusiva alla propria professione dichiara, pur vantandosene, la propria apoliticità. Per chi aveva parte cipato alla Resistenza, dietro questa avversione per il tecnico apolitico si intravvedeva la diffidenza verso i cosiddetti «at tendisti» che avevano continuato a fare i propri affari in atte sa del vincitore. Costoro dalla storiografia revisionistica ven gono· ora salvati dal limbo di coloro che mai non fur vivi, in cui li avevamo collocati, come la «zona grigia», che costituirà poi la base democraticamente vincente del partito cattolico. Si sospettava, dietro la professione di apoliticità, una non compiuta maturazione democratica, addirittura una non pie namente raggiunta coscienza antifascista. Ma già allora si profilava in contrasto con questi sospetti quell'atteggiamen to che a sinistra non eravamo disposti ad accettare, l'esigenza (già allora qualcuno diceva) di andare al di là del fascismo e dell'antifascismo. Nel dar conto, in un trafiletto, della prima elezione per il Consiglio dell'Ordine degli avvocati, in cui avevano vinto gli indipendenti che si erano proclamati «apo litici », diffidavo della loro ostentata apoliticità, sostenendo 1 07
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che erano anch'essi politici, se pure di una politica che non era quella dei Comitati di Liberazione e del Fronte della Re sistenza. Altrove, riferendomi a coloro che si erano schierati con il movimento dell'Uomo Qualunque, condannavo «il male dell'assenteismo, dell'indifferenza di fronte alle grandi questioni pubbliche, che stava per dar vita al partito dei sen• za partito>>. Vorrei ricordare che si pose allora il problema, non più ri proposto, di rendere il voto obbligatorio, considerandolo non più soltanto un diritto ma anche un dovere. Il che voleva dire considerare l'apatia politica non un atto giuridicamente indif ferente e, se mai, soltanto politicamente biasimevole, ma un vero e proprio reato, se pur di non grave entità. Chi oggi ri corda che tra coloro che allora sostennero la tesi dell'obbliga torietà ci fu un giovane filosofo, poi diventato famoso, che aveva aderito alla Democrazia Cristiana, Augusto Del Noce? Su «Il Popolo Nuovo», giornale torinese della Dc, del 24 ago sto 1945, egli scrisse un articolo Intorno alla obbligatorietà del voto, in cui, respingendo a uno a uno gli argomenti degli av versari, che erano la stragrande maggioranza, considerava il dovere di votare come una conseguenza di quella concezione personalistica della democrazia, propria, egli riteneva, della Democrazia cristiana: una concezione forte della democrazia, che avrebbe dovuto segnare un distacco definitivo dalla de bole democrazia dei partiti prefascisti che non avevano sapu to offrire un'efficace resistenza alla dittatura. Ma fu una voce isolata. Molto più numerose e autorevoli furono le voci con trarie. Ciò che rimase di quella discussione fu il blando art. 90, primo comma, della legge n. 1058, 7 ottobre 1947, che sta biliva come sanzione per coloro che «si astengono dal voto nelle elezioni per la Camera dei Deputati senza giustificato motivo» l'iscrizione in un elenco «esposto per la durata di un mese nell'albo comunale», e al secondo comma aggiungeva che l'astensione per cinque anni di seguito avrebbe avuto co me conseguenza l'iscrizione nei certificati di buona condotta. 1 08
_________Contro l 'ap o l i t i cismo_________
Il confronto tra lo stato d'animo di allora e di oggi è ine vitabile. Non mi sarei mai immaginato di leggere su «la Re pubblica» del 3 marzo, nei giorni in cui sto scrivendo queste pagine, sotto il titolo Io disertore della politica, un articolo di Marco Tarchi, che proviene dalle file giovanili del neo-fasci smo, da cui si è ora distaccato, deluso o pentito, per darsi agli studi di teoria politica. In questo articolo Tarchi rivendica il diritto di non scendere in campo né per la destra né per la si nistra né per il centro e di «chiamarsi fuori da una politica che gli suona stanca e fasulla in ogni sua singola componen te» . Pochi giorni dopo anche Marcello Veneziani ha fatto lo stesso discorso. E proprio il caso di dire: niente di nuovo sot to il sole. Ci sono sempre stati gli astensionisti, e ci sono pure sempre state due forme opposte di astensionismo, quella de gli indifferenti, che se ne lavano le mani, che non la bevono, e quella contrapposta di chi si pone non fuori della mischia ma sdegnosamente pretende di stare al di sopra della mischia, e non vuole abbassarsi al livello della rissa quotidiana tra i poli tici di professione. Entrambe queste forme di astensione so no, se pure per ragioni opposte, esiziali per la democrazia. In fatti, chi si astiene dovrebbe porsi questa semplicissima do manda: «Se tutti facessero come me, quali ne sarebbero le conseguenze ? Non sarebbe la fine di quella forma di gover no, la cui superiorità su tutte le altre sta nell'essere fondata sul consenso, periodicamente dichiarato, dei cittadini ?» .
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III . Democrazia integrale
Insistere sulla partecipazione alla lotta politica del cittadi no liberato era il principio di ogni discorso sul «futuro della democrazia» . Quale democrazia ? Per il Partito d'Azione, di cui allora facevo parte, la democrazia che avevamo in mente quando predicavamo la «rivoluzione democratica», potrei ri definirla oggi «democrazia integrale»: non soltanto formale 111a anche sostanziale, non soltanto stru111entale 111a anche fi nalistica, non soltanto come rnetodo rna anche come insieme di principi ispiratori inderogabili. Erano indicazioni vaghe, lo ammetto; aspirazioni legittime, però, che richiedevano di es sere rese operanti attraverso nuove istituzioni. L'unico punto fermo per gli azionisti era l'instaurazione di uno Stato repub blicano, che andavamo predicando nei nostri comizi elettorali nella p rimavera d el 1 946 . Per quanto rigu ard a l a trasfo r inazione di una de111ocrazia forrnale in una sostanziale, l'in novazione principale sarebbe stata l'introduzione nella prima parte della costituzione dei diritti sociali, oltre quelli persona li, civili e politici, già riconosciuti nelle costituzioni liberali. Su questi aveva scritto nel 1 944 un saggio prezioso Piero Ca laITlandrei commentando il vecchio libro di Francesco Ruffi ni, Diritti di libertà, pubblicato da Gobetti nel 1 926. In un ar ticolo dell 'agosto 1 945 , Costituzione e questione sociale, lo stesso CalaIT1andrei scriveva incisiva111ente: > e che tale nucleo di irriducibilità va difeso an che nello Stato democratico, poiché «se la partecipazione si esten de al di là dell'ambito in cui l 'individuo è portatore di un interes se collettivo», e lo Stato esige l'impiego totale della persona, allo ra questo «minaccia di trasformarsi un'altra volta in un idolo di voratore di uomini». Attraverso il riferimento all'insegnamento di Kant e alla separazione tra sfera interna e sfera esterna dell'uo mo, si faceva strada la critica a Rousseau, la cui teoria veniva rico nosciuta responsabile delle degenerazioni totalitarie della demo crazia . Nella prolusione su La persona e lo Stato tenuta all'Uni versità di Padova nel 1 946, la soluzione più opportuna al proble ma del potere era individuata nell'equilibrio fra esigenze dell'in dividuo e necessità dell'organizzazione sociale; cioè fra i diritti di libertà derivanti dai limiti posti all 'attività dello Stato e le possibi1 43
_______ Bobbio , Tra due Repubbliche _______ lità di intervento di un potere legittimato dalla partecipazione di tutti. Equilibrio instabile, destinato a mutare a seconda della co scienza del tempo, ma che non può mai rompersi definitivamen te: lo Stato totalitario coincide infatti con la «politicizzazione to tale della vita dell'uomo », e anche su questo punto conviene sot tolineare la vicinanza a Del Noce che parlava del totalitarismo in termini di « elevazione della politica a religione» 4 . Ecco perché nella recensione al libro di Popper, La società aperta e i suoi ne mici - che è anche la prima segnalazione in Italia di quel testo fondamentale - Bobbio identificava la democrazia con la società aperta, indicando in essa l'unico sistema politico in grado di pre servare la dignità dell'uomo e di garantire l'inviolabilità dei suoi diritti. Si tratta infatti di un concetto di democrazia che ha defini tivamente inglobato la tradizione liberale di garanzia dei diritti e di controllo del potere ed è per questo che le sue regole non pos sono essere viste come semplici meccanismi. È necessario render si consapevoli dei valori su cui esse si basano e che contribuisco no a mantenere: «dietro alla democrazia come ordinamento giu ridico politico e sociale, sta la società aperta come aspirazione» . La società aperta costituisce, d'altra parte, l 'approdo delle ri flessioni sulla persona che B obbio aveva avviato sin dal 1 93 8. In una serie di scritti, culminati nelle Lezioni di Filosofia del diritto tenute a Padova nel 1 942-43 , aveva affermato infatti l'esigenza di concepire «l'uomo come portatore di valori, come centro auto nomo di vita spirituale», e aveva parlato, rifacendosi a B ergson, della società aperta come di quella società in cui «non agiscono più gli individui meccanici e meccanizzati, ma le persone come centri autonomi e coscienti di fatti sociali» 5 • Se la persona è la via che conduce a una più alta e ricca vita sociale, allora la democra z i a rapp res en ta i l modello olitico ideale di u na società di persone''. E non deve sorpren ere che Augusto Del Noce, sebbe ne dal punto di vista di un personalismo cristiano, giungesse ad analoghe conclusioni, allorché affermava che la democrazia è « quel regime in cui ogni soggetto viene considerato come sog getto di persuasione, cioè come persona>> 7 . 3 . Oltre tali considerazioni intorno ai fondamenti filosofici della democrazia, tra le ragioni che spingevano a preferire istitu1 44
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zioni democratiche, spiccava l'argomento che queste ultime so no in grado di garantire l'alternanza al potere senza spargimento di sangue. È un motivo che Bobbio ha citato sempre più spesso a favore de lla democrazia e che, proprio all'indomani della grande carneficina della seconda guerra mondiale, permetteva di segnare una differenza fondamentale con lo Stato totalitario o dispotico. Si tratta né più né meno della differenza tra governo delle leggi e go verno degli uomini, dove la democrazia, in quanto governo sub lege e per legem, si pone a garanzia della continuità delle li bere istituzioni contro il capriccio degli uomini. Parlare di istitu zioni più che di uomini permetteva fra l'altro di relativizzare la questione dell'epurazione. Posizione singolare, questa di B ob b io, se si ensa a quanto gli azionisti tenessero, almeno fino alla cadu ta de governo Parri, a che il processo contro gli ex-fascisti fosse radicale ed esteso. Il viaggio in Inghilterra compiuto sul finire del '45 ( cioè pro prio in coincidenza con la crisi che aveva portato De Gasperi a so stituire Parri alla presidenza del Consiglio), aveva convinto ulte riormente B obbio della necessità di conciliare le esigenze di un governo stabile e autorevole con il principio della sovranità popo lare. Né Bobbio si era lasciato sfuggire che un ruolo fondamentale nella stabilità del sistema politico inglese era ricoperto dalla parti colare natura dei partiti politici. Pi ù in generale, attraverso una snella ricostruzione della storia costituzionale d'Oltremanica, egli giungeva a rappresentare l'unione «a filo doppio» esistente tra de mocrazia e organizzazione partitica. La democrazia non solo ha generato i moderni partiti politici ma ne garantisce l'esistenza; i partiti, dal canto loro, oltre a rappresentare il motore dello Stato democratico, sono «il principale coefficiente di una educazione politica democratica». Ecco perché è importante che l'organizza zione interna dei partiti poggi anch'essa su basi democratiche: co me può altrimenti un partito organizzato su principi non demo cratici essere nello stesso tempo legittimo pretendente alla guida di un governo democratico ? E si capisce che, pur ammettendo la cri tica alla politica dei partiti, Bobbio non ammettesse la critica qua lunquistica contro i partiti tout court. Se la prima poteva svolgere una utile funzione di rinnovamento e di chiarimento, la seconda finiva per assecondare i vizi peggiori di un popolo considerato im-
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_______ Bo bb io , Tra due Rep u b bliche _______ maturo, dando vita al vero e proprio non-sense di un «partito dei senza partito ». Anche perché era forte la convinzione che dietro alla tanto sbandierata apoliticità ci fassero, eccome, interessi con creti, come dimostra il commento fatto da Bobbio in margine alle elezioni per il Consiglio dell'ordine degli avvocati della provincia di Torino - in cui gli «indipendenti» avevano avuto la meglio sui «politici» - intitolato, non a caso, Chiarezza. L'esigenza della chiarezza nel confronto politico era specula re alla pretesa trasparenza del sistema democratico. Era il bisogno di chiarezza che, se da una parte faceva respingere l'ipotesi del «partito di centro» perché troppo legata al vecchio modello di de mocrazia parlamentare trasformistica e consociativa (forse con la mente rivolta alla concentrazione democratica di Bonomi, Nitti e Orlando), dall 'altra parte, permetteva di richiamare l'attenzione sulla natura del confronto politico: ci sarebbe stata la necessaria chiarezza solo quando i diversi partiti avessero cessato di essere dogmatici e settari e avessero cominciato a discutere finalmente di questioni concrete. In definitiva, ciò che bisognava affermare era la necessità di una politica laica per far ben funzionare un si stema democratico. Questo della laicità è un altro punto importante. Non solo perché investiva direttamente la natura e la vocazione del Partito d'Azione, cui Bobbio faceva cenno in un articolo pubblicato alla vigilia del contrastato Congresso di Roma (quello che sancì la spaccatura e l'inizio della crisi definitiva del partito, con l'uscita di Parri, Salvatorelli e molti altri importanti esponenti) 8 . Ma piut tosto perché, sul piano teorico, una politica laica svincolata dalle dispute teologiche e volta fruttuosamente ai problemi concreti, non è affatto da intendere come sinonimo di politica spregiudica ta e machiavellica. Al contrario, essa dà ai valori il peso dovuto, ancorandoli all 'universo morale della coscienza e ponendosi per ciò come base per l'affermazione di una concezione etica della po litica. Non sembri un paradosso: quanto più i valori saranno ra dicati nel profonda degli uomini, tanto più essi saranno guida ai comportamenti concreti, anche in politica; quanto più saranno i partiti e le associazioni a garantire l 'ortodossia dei valori e a occu parsi del loro concreto operare, tanto più gli individui saranno li beri di sentirsene svincolati. Non è dunque perché i partiti guar146
----------- Nota storica ----------dano troppo in alto che nasce la corruzione ma, al contrario, per ch é facendo credere di guardare così alto lasciano spazio ai molti faccendieri. Ma, ancora, la politica laica imponeva un altro riman do alla cultura e alla tradizione liberale: rimandava cioè alla plura lità e relatività dei valori stessi e all'impossibilità di affermarli at traverso l'autorità dello Stato, pena la ricaduta nelle maglie oppri menti dello Stato etico, nuova versione dello Stato teocratico. 4. Si trattava, ancora una volta, di affermare l'autonomia della persona e, per converso, il principio di responsabilità individua le: l'unica via che permette di accertare il grado di radicamento dei valori e il reale consenso di cui gode un sistema politico. Ec co perché il cerchio delle riflessioni sulla democrazia si chiudeva con l'affidamento alla democrazia stessa «di un fine suo proprio che la distingue essenzialmente da ogni altra forma di governo. Questo fine è l'educazione dei cittadini alla libertà» . Tale affer mazione valeva soprattutto a constatare che la democrazia, in quanto sistema politico fondato sull 'autonomia e sulla libertà, non può sopravvivere se i suoi cittadini non sono permeati da un vero e proprio costume democratico. Parlare nel '45 di «educazione democratica» significava af frontare l'annosa questione dei ceti medi italiani. Quei ceti cui veniva imputata, giusta l'analisi del Salvatorelli, la principale re sponsabilità del fascismo e che una volta tornati alla libertà sem bravano incapaci di trovare una loro collocazione democratica. Non è un caso, perciò, che nel primo articolo scritto per « GL» B obbio affrontasse proprio il problema dei ceti tecnici apolitici, per sottolineare che «inserire la tecnica nella vita politica» era questione urgente del rinnovamento democratico . Si può intendere, però, l'indicazione di B obbio come uno svi luppo dell'antica osservazione di Aristotele, secondo cui «bisogna che l'educazione si adatti a ciascuna costituzione, perché il costu me proprio di ciascuna suole difendere la costituzione stessa e la 9 pone in essere già in origine» • Su questo piano, l'importante ruolo affidato ai partiti era solo un completamento di quello, ben più ri levante, spettante alla scuola. Questa, più di ogni altro settore della società, deve essere veicolo dei valori democratici. Una scuola che p erciò non può essere vista come un altro qualsiasi pubblico servi1 47
_______ Bobbio , Tra due Repubbliche _______ zio, ma che deve essere in stretto legame con la cultura poiché solo in tal caso diventa «veicolo di libere persuasioni»' 0 • Veniva così posta in luce la stretta connessione tra cultu ra e politica democratica. E chi più di Carlo Cattaneo poteva fornire l 'occasione per sottolineare l'esigenza di adeguare la cultura alla vita e all'azio ne ? Proprio durante l 'ulti mo inverno di guerra, Bobbio aveva preparato una raccolta di scritti politici cattaneani intitolata Stati Uniti d'Italia, in cui il richiamo alla cultura «posi tiva» dello scrittore lombardo costituiva l'occasione per dichia rare la propria fiducia in un rapporto positivo tra la scienza e la politica: la scienza è «quella suprema manifestazione dell'umano ingegno che non p uò non determinare lo sviluppo e la direzione della politica» " . Una visione progressiva, che si basava sull'as sunzione di specifiche connotazioni dell'una e dell'altra: Catta neo scienziato e Cattaneo politico, infatti, erano tutt'uno a patto che s'intendesse «per scienza la scienza sperimentale, e per poli tica non già la ragion di stato o l'arte di governo, ma il promovi mento del bene pubblico » 1 2 • La duplice sottolineatura fatta da Bobbio - scienza sperimentale e politica come ricerca del bene comune - oltre ad essere opportuna, perché indica l'integrazione e il reciproco richiamo fra determinate concezioni del l avoro culturale e politico, permette una corretta interpretazione del l'approdo futuro del filosofo a una versione più disincantata, che lascia ai politici la politica e affida agli intellettuali il persegui mento di una più appropriata «politica della cultura» . L'importanza del ruolo della cultura non prefigura però una nuova morale di Stato, poiché la dottrina ufficiale è una caratteri stica tipica del dispotismo. La democrazia vive e si rafforza me diante l'opinione pubblica, formatasi liberamente e liberamente trasformantesi in consenso. È l'opinione pubblica, infatti, anche grazie alla sua evoluzione, che permette di misurare lo stato di sa1 ute di una democrazia. Se una costituzione dura nel tempo solo quando «è sostenuta dalla convinzione della sua reale conformità alle esigenze di libertà e di giustizia che in un determinato mo mento della sua storia un popolo ha maturato ed espresso», divie ne anche possibile spiegare l'alternarsi delle classi dirigenti: quan do un determinato ceto politico, che pareva ben fermo nel suo po sto di guida della società, all'improvviso cade nel generale discre1 48
----------- Nota storica ----------d ito e perde tutte le posizioni acquisite, è perché evidentemente esso non è stato in grado di percepire e recepire i mutamenti avve nuti nell'opinione pubblica, la quale si è spostata dalle posizioni p recedenti e si è formata un nuovo modello di equilibrio sociale. Seguire B obbio nella co mpletezza del suo ragionamento, vuol dire però non lasciare nell 'ombra l 'altra faccia della meda glia: la democrazia ha bisogno del costume democratico, ma il costume democratico per nascere e durare non ha esso stesso bi sogno della democrazia ? La democrazia di Bobbio non è governo per il popolo, a fa vore del popolo; è governo del popolo a favore di se stesso . Se il popolo è il soggetto e non l 'oggetto del governo democratico, �1lora esso deve avere la possibilità di esercitare il suo potere. Il principio propugnato da Bobbio è quello del federalismo, il quale va al di là della sua fase storica contingente legata agli s viluppi radicali della Resistenza, e, proprio per la sua qualità di principio, non può essere applicato parzialmente, ma richiede di poter investire tutta intera la società civile e politica. È qui che il richiamo a Cattaneo implica l'assunzione piena della sua battaglia politica. L'esempio di un autore «antirivolu zionario e riformatore>> come Cattaneo, valeva come ammoni mento a «non fare salti nel buio» poiché «la libertà è tanto di sé diffusiva da attuarsi senza bisogno di interventi violenti » u . Nel l'Introduzione al già citato Stati Uniti d'Italia, Bobbio spiegav a che l'ipotesi di una federazione italiana, come unione di Stati diver si, dopo l'avvenuta unificazione nazionale rappresentava l'aspetto «passato» del pensiero di Cattaneo. Meritava invece di essere ri preso e valorizzato il federalismo inteso come «teorica della li bertà». Era questo il principio della nuova democrazia - reale e non più formale, nel linguaggio di Bobbio. Lo stesso suffragio universale, massima aspirazione delle lotte democratiche del l'Ottocento, diveniva insufficiente se non era accompagnato dal la proliferazione dei centri di partecipazione, in quanto chiudeva «l'esperimento dem ocratico nella forma della democrazia indi retta», mentre il federalismo, in quanto presupponeva la pluralità dei centri di partecipazione democratica, rappresentava «il prin cipi o dell'unico metodo, che non [fosse] puramente ideologico c om e quello propugnato dal Rousseau, di democrazia diretta» 1 4 . 1 49
_______ Bobbio, Tra due Repubbliche _______ L e appass i o n ate convinzi on i di B o bbio si inseriscono i n quella viva corrente di pensiero federalistico presente nel Partito d'Azione, che ha avuto il suo frutto più maturo nel Manifesto di Ventotene' 5 • È naturale, quindi, che il discorso venisse completa to nel riferimento al doppio versante di operatività del federali smo, il quale deve agire non solo all 'interno dei singoli Stati, ma anche al l'esterno di essi, per dar vita a vere e proprie federazioni sovranazionali in grado di annullare le tentazioni del nazionali smo. In queste considerazi oni, che sono state poi sviluppate am piamente a partire dagli anni sessanta negli scritti sulla guerra e sulla pace, ancora una volta il nemico da battere è il pericolo del lo Stato totalitario. Se le autonomie lo bloccano all'interno, to gliendo allo Stato quella forza concentrata che lo rende temibile controllore degli uomini, l 'unione con altri Stati lo ferma verso l 'esterno, impedendo ad ogni comunità nazional e di pensarsi isolata e di tornare, mediante il nazionalismo sfrenato, alla chiu sura dell'orda. Dunque, e il cerchio si chiude davvero, il federali smo come concreta via per limitare il potere, come nuovo banco di prova su cui la società aperta deve misurare la validità delle • • • p ro p rie rag1on1. Con le elezioni per l 'Assemblea Costituente, in occasi one delle quali Bobbio era stato candidato, senza successo, per il Par tito d'Azione nel collegio di Padova, si chiudeva dunque un pe riodo eccezionale, ricco di spunti teorici strettamente legati al momento politico ma che sono stati fruttuosamente sviluppati in futuro. Le «dure repliche della Storia», culminate nelle elezioni del 1 948, avrebbero fatto emergere definitivamente una peculiare vena pessimistica. Sulla scia di Kelsen e di Weber, due dei suoi autori, B obbio ha progressivamente accentuato il carattere ava l utativo delle p ro p rie riflessioni, sia nel campo della teoria g iuri dica sia in quello filosofico-politico. Per altri versi, egli si è spinto sempre più spesso a cercare rifugio in quella comunità fatta di « uomini di profonda convinzione», che ha chiamato Italia civile. Da lì, il filosofo torinese ha continuato a ripetere il suo ammoni mento: «la libertà è sempre minacciata ed offesa, e deve trovare sempre chi la riconquisti, la difenda e la proclami virilmente di nanzi a tutti>>. Che libertà sarebbe altrimenti,