Temporalità e umanità. La diacronia in Emmanuel Levinas 9788880576914

Riflettere sulla nozione di «diacronia» in Emmanuel Lévinas significa sforzarsi di portare a datità il senso che da essa

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Italian Pages [286] Year 2017

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Temporalità e umanità. La diacronia in Emmanuel Levinas
 9788880576914

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Francesca Nodari Temporalità e umanità La diacronia in Emmanuel Levinas

Giuntina

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Copyright © 2017 Casa Editrice Giuntina, Via Mannelli 29 rosso, Firenze www.giuntina.it ISBN 978-88-8057-691-4

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Al Prof. Dr. Dr. h. c. Bernhard Casper, insigne pensatore, Maestro paziente, dall’insegnamento alto e fecondo

«Gratuità del per l’altro, risposta di responsabilità che sonnecchia già nel saluto, nel buongiorno, nell’arrivederci. Linguaggio anteriore agli enunciati delle proposizioni che comunicano informazioni e racconti. Per l’altro che risponde del prossimo, nella prossimità del prossimo, responsabilità che significa – o comanda – precisamente il volto nella sua alterità e nella sua autorità incancellabili e inassumibili del far fronte. [...] Ma il per-l’altro nell’approssimarsi al Volto – per-l’altro più antico della coscienza di... – precede nella sua obbedienza ogni prendere/percepire (saisir) e resta preliminare all’intenzionalità dell’io-soggetto che nel suo essere-al-mondo si presenta e si dà un mondo sintetizzato e sincrono. Il per-l’altro sorge nell’io: comandamento da lui inteso nella sua stessa obbedienza, come se l’obbedienza fosse il suo stesso accesso all’ascolto della prescrizione, come se l’io obbedisse prima di aver inteso, come se l’intrigo dell’alterità si annodasse prima del sapere» (E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro)

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«La passività è il luogo – o più precisamente, il non-luogo – del Bene, il suo fare eccezione alla regola dell’essere, sempre scoperto nel logos, il suo eccettuarsi dal presente» (E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo) «Il sempre del tempo, l’impossibilità dell’identificazione, l’impossibile sintesi dell’Io e dell’Altro. Diacronia. Diastole. [...] “Incessanza” di questa differenza. Diacronia. Pazienza di tale impossibilità, pazienza come lunghezza di tempo, pazienza o passività, pazienza che non si risolve nell’anamnesi che ricompone il tempo. Impotenza della memoria sul lasso di tempo nell’immagine del flusso che sottolinea la diacronia del tempo» (E. Levinas, Dio, la morte e il tempo)

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Indice

Premessa di Bernhard Casper . . . . . . 11 Introduzione

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Parte prima Capitolo primo Temporalità e gratuità . . . . . . . . 41 1. Lo spettro della paura e l’utopia dell’educazione 2. Lo scacco della sincronia . . . . . . 3. Inter-essamento e indiffferenza . . . . 4. Non resta che il gratis? . . . . . . 4.1. Logica dello scambio e l’impossibile simultaneità del dono . . . . . . . . 4.2. Dall’ego a-temporale di Husserl all’«io sono» di Heidegger . . . . . . . .



42 50 55 57

60 64

Capitolo secondo Quando il tempo non è una moneta falsa . . . 71 1. La ragione che parla . . . . . . . 71 2. Creaturalità vs gettatezza . . . . . . 81 3. L’accadere dell’essere come ringraziare . . 89 Capitolo terzo Forme diacroniche della felix culpa

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1. La conversazione infinita tra Blanchot e Levinas . . . . . . . . . . 2. La parola plurale . . . . . . . . 3. Mantenere la parola . . . . . . . 4. Il supplice e la rottura diacronica del Moi .

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Parte seconda Capitolo quarto Temporalità e insegnamento

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1. Dallo scritto all’orale . . . . . . . 2. Tragicità dell’istante . . . . . . . 3. Compimento e generazione . . . . . 4. Temporalizzazione come assunzione dell’«allora insegnato» . . . . . . . . . Capitolo quinto La diacronia del bene e l’accelerazione della redenzione . . . . . . .

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1. Dalla nozione a-temporale di bene al bonum commune come farsi carico del giogo del regno 2. Il non-detto del bonum commune . . . . 3. Dallo Sprächen heideggeriano all’Ansprächen levinasiano . . . . . . . . . 4. Lo psichismo come resistenza alla totalità sincronica . . . . . . . . . . Capitolo sesto La bontà in quanto bonum diacronico

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145 155 164 169

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. 173

1. Il tempo come «sempre» della relazione . 2. Dire sì all’Altro tra ricominciamento e creazione del futuro . . . . . . 3. La dignità come evento della responsabilità 4. Attualizzazione di un «sapere d’angelo» .

. 173

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. 178 . 185 . 190

Parte terza Capitolo settimo Per una misericordia diacronica

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1. Misericordia: polisemia di una parola . . 203 3. Dimentichi di sé, dimentichi dell’Altro . . 206 3. Facere misericordiam come concrezione dell’«allora insegnato» . . . . . . 209

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4. Essere toccati dalla miseria dell’altro: l’eccezione della prossimità . . . . . 5. La misericordia come a-Dio . . . . . 6. Provocati da un volto che ci parla: attualità della misericordia . . . . . . . . 7. Dimensione diacronica della misericordia . Postfazione di Armando Savignano Bibliografia .

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1. Bibliografia primaria 1.1. Opere di Levinas

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1.2. Opere su Levinas

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2. Bibliografia secondaria .

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2.1. Letteratura di riferimento

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Indice dei nomi .

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Index rerum . .

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Premessa

Il pensiero filosofico può essere inteso solo come un domandare rivolto alle questioni prime e ultime che ci poniamo nel nostro esserci storico, nel nostro «essere-nel-mondo». Cercare di mettere in luce i presupposti che caratterizzano quest’attività risulta essere un compito critico – o ermeneutico – per utilizzare il termine di Gadamer che tiene conto della storicità del pensiero stesso.  1 Se oggi, di fronte all’enorme quantità di conoscenze e di possibilità che le scienze ci hanno fornito a cominciare dall’età moderna, c’è una questione prioritaria per la riflessione filosofica, essa consiste senz’altro nel chiederci che cosa noi uomini dobbiamo intraprendere – cominciare – con noi stessi e con tutto ciò che, grazie alla conoscenza, abbiamo a disposizione, noi che nel nostro agire e nel nostro disporre delle cose siamo in rapporto con noi stessi. Si tratta della seconda delle tre domande fondamentali a cui Kant ha giustamente ricondotto tutta la filosofia e da cui ha derivato la sua tesi «del primato della ragion pura pratica».  2

1  Cfr.

H.-G. Gadamer, art. «Hermeneutik», in Historisches Wörterbuch der Philosophie. 3. G-H, WBG, Darmstadt 1974, p. 1069. 2  I. Kant, Critica della ragion pratica, A216; tr. it. di F. Capra, intr. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 263.

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Da quando c’è l’uomo sulla terra, questa è la prima volta che ci troviamo in circostanze concrete tali per cui questa sfida, che la ragione ingaggia con se stessa sul piano della vita effettivamente vissuta, si pone a queste condizioni. Tale situazione consiste nel fatto che nel nostro presente viviamo in uno spazio unico di un mondo uno e unico, non solo in linea di massima e in senso generale, ma del tutto concretamente e nella nostra vita vissuta quotidianamente; e tale spazio determina la vita di ognuno singolarmente. Ci troviamo per così dire in una ed unica stanza, senza muri divisori, e per di più senza un «di fuori». Il termine “globalizzazione” non intende esprimere nient’altro che questo. In questo mondo unico nessuno può più scansare nessuno. Non possiamo retrocedere da questo nostro destino. Ciò porta necessariamente alla questione di come noi (cioè, molto concretamente, tutti gli uomini della terra) possiamo procedere insieme verso un futuro di salvezza. Negli ultimi quattrocento anni la ragione, quindi ciò che fa di noi delle persone, si è dedicata con un’intensità senza pari alla prima delle tre domande di Kant: «Che cosa posso sapere?». Indagando le leggi della realtà oggettiva, la ragione ha acquisito una quantità sorprendente di conoscenze, di volta in volta verificabili attraverso l’esperienza obiettiva. Grazie alle tecniche che ne derivano, abbiamo assunto la piena padronanza del “mondo” in cui viviamo, facendone un qualcosa di dominabile; l’abbiamo cioè trasformato in una totalità che in epoche precedenti della storia dell’umanità non era possibile ottenere in questi termini. Si potrebbe quindi intendere come di fatto raggiunta la meta di tutta la filosofia, presentata ai suoi uditori da Heidegger, il successore di Husserl, durante la sua prima lezione all’Univer12

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sità di Friburgo nel semestre invernale del 1928/29: quella di una radicalizzazione della monadologia di Leibniz.  3 Proprio tale realizzazione del trascendentale dell’«unità» in senso solo ontico-ontologico rende oggi evidente il fatto che il vero problema ultimo e fondamentale che inquieta il nostro pensiero, inteso come «scienza delle origini»,  4 non può essere solo quello di un’unità intesa in senso a-temporale. Il problema davvero fondamentale consiste piuttosto nel problema che noi rappresentiamo per noi stessi, in quanto esseri ragionevoli mortali che in forma finita intraprendono – cominciano – qualcosa-con-sestessi, cioè si temporalizzano. Dice Kant: «...perché ogni interesse, infine, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è soltanto condizionato e completo unicamente nell’uso pratico».  5 «Pratico» è tuttavia «tutto ciò che è possibile mediante la libertà».  6 Non è quindi immotivato il fatto che, a partire dal XIX secolo, i termini storia e società subentrino alla parola chiave che finora aveva contraddistinto tutta la filosofia, cioè «essere». Il vero problema fondamentale, espresso dalla domanda kantiana «Che cosa devo fare?» non è racchiuso solo nell’«io», nella mia libertà. Se con questa domanda ci si riferisce all’intera umanità, esso è 3  Cfr. M. Heidegger, GA 27, pp. 144-145; tr. it. Avviamento alla filosofia, Marinotti, Milano 2007, pp. 129-130. 4  Cfr. E. Husserl, Hua III/1, p. 122; tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. di E. Filippini, rev. di V. Costa, vol. II, Libro III, Einaudi, Torino 1965 e 2002, p. 452. 5  I. Kant, Critica della ragion pratica, A219, cit., p. 267. 6  Id. Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, p. 1127 (A800/B828).

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racchiuso piuttosto nell’Altro, riguarda cioè la sua alterità, che non è già contenuta nel mio «io sono». Di fronte ad essa mi temporalizzo in quanto me stesso; di fronte ad essa intraprendo – comincio – qualcosa con me stesso e con tutto ciò che ho a disposizione. Per amore di completezza dobbiamo dire: intraprendiamo – cominciamo – qualcosa insieme, e con ciò costruiamo il nostro mondo, dando inizio al nostro futuro. La vera umanità, cioè l’umanità salvata, del nostro essere-persone, si decide quindi in questo incontro con l’altro, inteso sia nel senso dell’altra cosa, sia in quello della persona dell’Altro. Tale incontro è di volta in volta qualcosa di nuovo: non qualcosa di sempre disponibile, bensì qualcosa che va sempre originariamente conquistato. Ciò significa che la nostra umanità, che è la nostra libertà, si realizza e ottiene la sua salvezza solo nella sua temporalità in quanto tale, intesa come il suo temporalizzar-si, che è ogni volta qualcosa di nuovo e di libero. La nostra umanità risulta quindi salva quando è intesa come «groviglio di responsabilità», «intrigue de responsabilité».  7 Essa si realizza grazie al fatto che (e nel momento in cui) rispondo all’altro in quanto se stesso. Nella riflessione filosofica essa diventa pertanto originariamente accessibile nell’accadimento del linguaggio. A partire da questa prospettiva, diventa plausibile l’attenzione della filosofia moderna non solo alla storia e alla società ma altrettanto ori-

7  E.

Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, p. 6 (c.vo dell’Autore); tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 8.

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ginariamente all’accadimento del linguaggio inteso come «orizzonte della riduzione trascendentale». Quando nell’Opus postumum di Kant, studiato a fondo solo dal secolo scorso e a tutt’oggi fonte di scoperte inaspettate, leggiamo che «Pensare significa parlare e parlare significa ascoltare»,  8 ci domandiamo se in questa osservazione lapidaria non siano già abbozzati i fondamenti della filosofia contemporanea. All’interno del panorama del pensiero ermeneutico che così si dischiude, nella presente opera la filosofa italiana Francesca Nodari indaga il cuore della connessione interna tra temporalità e umanità, ossia il suo verificar-si diacronico inteso come l’accadere della vera libertà, cioè della salvezza sperata per l’uomo. L’Autrice prende le mosse dalle analisi ermeneutiche di Emmanuel Levinas, filosofo ebreo francese originario della Lituania, la cui opera ella conosce ottimamente, come ha già dimostrato in precedenti lavori. In particolare, ella include nelle sue riflessioni alcuni testi importanti tratti dall’opera postuma di Levinas, accessibile solo dal 2009, soprattutto dai suoi Carnets de captivité (annotazioni che Levinas come prigioniero di guerra ebreo poté prendere nei suoi cinque anni di prigionia in un lager dell’esercito tedesco simile a un campo di concentramento) e dalle lezioni che Levinas tenne immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, al “Collège philosophique” di Jean Wahl. Ella può pertanto mostrare in modo molto dettagliato e circostanziato dove il pensiero di Levinas supera quello di Husserl e

8  I. Kant, Gesammelte Schriften, a cura della Preußische Akademie der Wissenschaften, vol. 21, Berlin 1936, p. 103; Id., Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 379.

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di Heidegger. Riguardo alla questione della connessione della nostra umanità con la nostra temporalità, l’Autrice ci porta a compiere delle riflessioni approfondite, importanti anche nel nostro immediato presente. Esse si delineano coinvolgendosi attentamente con quella particolare diacronia del tempo non più aristotelicamente inteso come «numerus motus» di un movimento che trascorre in modo uniforme e continuativo (tempo “nel ” quale accade qualcosa),  9 ma come tempo che è esso stesso ad accadere,  10 ossia storia che si fonda sulla libertà umana. In un primo momento Francesca Nodari presenta questa diacronia dell’esserci umano, che sul piano storico ha luogo di volta in volta nel suo essere-nelmondo e che si rapporta con l’altro esserci, secondo sei prospettive, ossia: 1. in riferimento alla sua «gratuità», 2. occupandosi del decostruttivismo di Derrida, 3. riflettendo sulla fondazione dell’umanità dell’uomo sull’originaria felix culpa, 4. mediante la descrizione ermeneutico-fenomenologica di ciò che può costituire la vera maestria dell’«insegnamento», 5. nel carattere diacronico di ciò che di volta in volta accade e si dimostra effettivamente come “buono” e 6. nell’essenza della «bontà» di ciò che in tal modo si realizza effettivamente come “buono”. In tal modo l’antica concezione del trascendentale definito come bonum acquista nel pensiero in «carne ed ossa», mentre in una

9  Aristotele,

Fisica 219b1. F. Rosenzweig, Das neues Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung», a cura di R. e A. Mayer, Nijhoff, Den Haag 1984, pp. 139-161; tr. it. Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, comm. di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983, p. 53. 10  Cfr.

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pura ontologia sostanziale essa risulta particolarmente sbiadita, sebbene sul piano formale pensatori come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino videro già in essa la più importante delle concezioni trascendentali. Queste sei riflessioni sono infine ricondotte da Francesca Nodari a una settima, quella sull’ermeneutica dell’accadimento della misericordia. Questa parola, che nei linguaggi colloquiali moderni sembra appartenere solamente alla dimensione del pensiero edificante o semmai alle riflessioni psicologiche, nel pensiero giudaico, come del resto anche nelle altre religioni, ad esempio nell’islam e nel buddismo, designa una virtù umana centrale, che risulta fondamentale nel rapporto religioso. Nel pensiero cristiano medievale essa indicava la maggiore di tutte le virtù umane, cioè dei modi fondamentali dell’uomo di intraprendere – cominciare – qualcosa con se stesso. La misericordia è la maggiore di tutte le virtù perché ha l’intento di sollevare i difetti degli altri: «defectus aliorum sublevet».  11 Questo è “l’oggetto” della sua intenzionalità. Nella cura, che è costitutiva di noi uomini e che consiste nell’«esser-avanti-a-sé (essendo-già-in) come esser-presso»,  12 essa si spin-

11  Tommaso

d’Aquino, STh IIa-IIae, q. 30 a. 4, c. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 245. Nelle rappresentazioni iconografiche del XV e del XVI secolo della cosiddetta “caccia mistica” data a ciò che per l’uomo è ben più decisivo di tutto il resto, la misericordia viene rappresentata nelle sembianze di un cane da caccia, così come succede per la verità, la pace e la giustizia. Questi cani simboleggiano le virtù con cui si dà la caccia all’“unicorno”, che rappresenta per così dire il bene supremo per l’esserci dell’uomo. Cfr. Lexikon der christlichen Ikonographie, WBG, Darmstadt 2012, vol. 1, p. 593. 12  M.

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ge fino a anticipare il futuro come qualcosa in cui speriamo, ed è espressa da Kant nella terza delle sue domande fondamentali costitutive della filosofia: «Cosa posso sperare?». Sbagliamo forse a supporre che il termine “posttruth” (“post-verità”), espressione che gli OxfordDictionaries hanno recentemente scelto come «parola dell’anno 2016» poiché descrive la situazione in cui «i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali»,  13 possa essere collegato con ciò che di fatto costituisce il fondamento dell’umanità dell’uomo, cioè con l’angoscia esistenziale e la cura per il proprio futuro sempre aperto? Questo nostro futuro è però quello di un mondo che in senso tecnico-oggettivo è divenuto irrevocabilmente uno; ciononostante non è unito. Oggi, nell’era della bomba atomica, in questo nostro «aver bisogno dell’Altro»  14 su cui si fonda la nostra umanità, siamo più che mai diventati il problema per noi stessi in quanto noi stessi. In questo contesto le riflessioni e le analisi filosofiche fondamentali e accurate che Francesca Nodari ci presenta acquistano tutto il peso della loro significatività. Wittnau, 17 novembre 2016 Bernhard Casper

13   Fonte: http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/16. Il ter-

mine può essere usato tanto in forma sostantivale quanto aggettivale. 14  F. Rosenzweig, Das neues Denken, cit., pp. 151-152.; tr. it. Il nuovo pensiero, cit., p. 58.

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Introduzione

Nel corso della nostra ricerca vorremmo esaminare da un punto di vista fenomenologico-ermeneutico la grande questione della temporalizzazione e, dunque, della diacronia  1 nel pensiero di Levinas di concerto a un tema che nel nostro presente è più volte evocato dato il disorientamento  2 del soggetto e la complessità della società planetaria ove la crisi, ancor prima che economica, è etica e morale. Una crisi dalla quale, secondo il noto antropologo Augé, non si può uscire che attraverso «l’utopia dell’educazione».  3 Un monito che intendiamo, davvero, prendere sul serio intendendo con utopia ciò che l’etimologia stessa ci suggerisce: un non-luogo, da decli1  Sul

concetto meramente linguistico di diacronia e sincronia, cfr. F. de Saussure, Cours de linguistique générale, a cura di Ch. Bally, A. Riedlinger e A. Sechehaye, Payot, Lausanne-Paris 1916; tr. it. Corso di linguistica generale (1967), a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2009. Si veda anche T. De Mauro, Introduzione a F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1992. 2  B. Casper, L’uomo disorientato e la ricerca della sua vera libertà, tr. it. di S. Bancalari, in F. Nodari (a cura di), Vizi e virtù, Massetti Rodella, Roccafranca 2008. 3  M. Augé, Futuro, tr. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 107 ss.; Id., Nutrire l’umanità per salvare l’umano, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2015, p. 22.

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nare, tuttavia, non tanto in senso antropologico – ovvero come perdita del simbolico  4 – ma nei termini di un’ermeneutica della fatticità storica che sia in grado, per un verso, di mostrare il non-luogo del soggetto in quanto esodo da sé per farsi-incontro-all’altro, per l’altro, di mostrare la stretta connessione che v’è tra diacronia ed educazione  5 in quanto utopia. Prima di illustrare, in linea generale, l’articolarsi della nostra ricerca, vorremmo, sin da subito, sottolineare come, ad oggi, non vi sia letteratura secondaria – nonostante le centinaia di titoli dedicati al pensiero di Levinas – che metta a fuoco la nozione di diacronia e, pertanto, tutte le implicazioni che ne seguono.  6

4  Cfr. M. Augé, Non-lieux. Introduction a une anthropologie

de la surmodernité, Seuil, Paris 1992; tr. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 1993 (nuova ed. con nuova pref. dell’Autore, tr. di D. Rolland e C. Milani, Elèuthera, Milano 2009). 5  Sulla nozione di educazione in quanto insegnamento nel pensiero di Levinas, ci permettiamo di rinviare al nostro saggio F. Nodari, Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Maestro. Una questione morale, Giuntina, Firenze 2013. 6  A riprova di questa nuova accezione della temporalità cui Levinas perviene, si può notare che nell’Enciclopedia filosofica non v’è traccia della voce «diacronia» sia nell’ed. del 1967 (Sansoni, Firenze) sia in quella del 2010 (Bompiani, Milano) – in quest’ultima compare soltanto la distinzione «diacronico/sincronico» che viene ricondotta alla linguistica – come pure nell’Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane (De Agostini, Novara 1996). Gli unici riferimenti si trovano, per quanto concerne «diachronie/ diachronique», in C. Ciocan - G. Hansel, Levinas Concordance, Springer, Dordrecht 2005, pp. 206-207 e per «diachronie» in R. Calin - F.-D. Sebbah, Le vocabulaire de Levinas, Ellipses, Paris 2011, pp. 17-19. Mentre le uniche tematizzazioni della nozione di «diacronia» in Levinas sono le seguenti: P. Amodio, Diacronie. Arendt, Celan, Levinas, Giannini, Napoli 2001, che, nell’ambito

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È come se vi fosse un vuoto da riempire nello studio senza sosta sul pensatore ebreo lituano, tanto più dopo il rinnovato fiorire di riflessioni che sono seguite alla pubblicazione delle opere inedite, a partire da quell’officina filosofica, che sono i Carnets de captivité.  7 Un vuoto che rischia di compromettere una di una raccolta di saggi su più autori, tratta parzialmente dell’argomento sviluppandolo in parallelo con Bloch, nel saggio Levinas e Bloch, ivi, pp. 149 ss.; B. Casper, «Die Zeitigung des Leibes in der Diachronie des “pour l’autre”», Archivio di Filosofia, 1998, pp. 159-170; Id., Erleiden und Transzendenz, tr. it., Passività e trascendenza nel pensiero di Emmanuel Levinas, in D. Venturelli (a cura di), Etica, religione e storia. Studi in memoria di Giovanni Moretto, il melangolo, Genova 2007, pp. 209-216; Id., Heidegger e Rosenzweig. Essere ed evento, a cura di A. Fabris, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 28 ss.; Id., «Die Diachronie des “Bonum commune”. Zur Hermeneutik seines Sich-Ereignens» [La diacronia del «bene comune». Sull’ermeneutica del suo accadere: non esiste ancora una tr. it. del testo], Archivio di filosofia, 1-2 (2016), pp. 287-298; D. Conesa, «Urimpression husserliana y diacronía levinasiana ¿Continuidad o ruptura?», Revue philosophique de la France et de l’étranger, 4 (2010), pp. 435-454; Á.E. Garrido-Maturano, «Sincronía, diacronía y tiempo mesiánico. Génesis y evolución de la noción de tiempo en la fenomenología de Emmanuel Levinas», Enfoques (Universidad Adventista del Plata Libertador San Martín, Argentina) 14/1-2 (2002), pp. 57-71; E. Severson, Levinas’s Philosophy of Time. Gift, Responsibility, Diachrony, Hope, Duquesne University Press, Pittsburg 2013. Di fatto, chi ha aperto la strada alla tematizzazione della nozione di «diacronia» mettendo capo a una sua interpretazione in chiave fenomenologico-ermeneutica è, ancora una volta, Casper. In proposito, si pensi soltanto al ricorrere della medesima nel suo capolavoro Das Ereignis des Betens. Grundlinien einer Hermeneutik des religiösen Geschehens, Alber, Freiburg i.B.-München 1998, 20162, pp. 2023, 45, 70-78, 94-96, 103, 105, 121, 127, 135, 137, 145, 151, 155; tr. it. Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso, a cura di S. Bancalari, Cedam, Padova 2003. 7  E. Levinas, Carnets de captivité, sous la responsabilité de

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“comprensione” profonda di ciò che Levinas aveva in mente quando, ad esempio, parlava e scriveva del Volto di Altri, dell’Illeità come se l’esplicazione della diacronia fosse semplicemente un dettaglio – certamente enigmatico e complesso, ma non per questo secondario – nella disamina di quelle categorie che in Altrimenti che essere,  8 opera della maturità e autentico fondamento del pensiero stesso di Levinas, da ontologiche diventano definitivamente etiche. Eppure considerare la diacronia come un qualcosa di accessorio piuttosto che il filo rosso attraverso cui si dipana il pensiero incarnato  9 di Levinas esporrebbe al rischio di offrirne una lettura incompiuta e diciamo pure a un’eventuale banalizzazione del suo pensiero liquidandolo semplicemente come il filosofo del Volto e dell’Altro. Se ci è concesso esprimerci in tal modo, così facendo, ci si limiterebbe a portare a datità il detto rinunciando a leggere tra le righe quel Dire che, come sappiamo, una volta tematizzato va disdetto affinché non cada sotto il dominio di un ego trascendentale o di un Dasein che-non-ha-mai-fame.  10

C. Chalier et R. Calin, Œuvres complètes, t. 1, Bernard GrassetImec, Paris 2009, pp. 120 ss. (d’ora in poi Œuvres 1). Si precisa che la traduzione dei passi cui si rinvia è nostra e che, a differenza di quanto avverrà per Œuvres 2, si cita dall’originale francese. 8  E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, 1978; Lgf, Paris 1990; tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, con intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983. 9  Su questo punto, ci permettiamo di rinviare a F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 2011. 10  E. Levinas, Parole et silence et autres conférences inédites au Collège philosophique, sous la responsabilité de C. Cha-

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A nostro avviso, sono da tenere in grande considerazione le intuizioni di Casper sul pensiero di Levinas  11 che – poggiando su due linee metodiche costanti e dialetticamente articolate: quella fenomeno-logico-ermeneutica (Martin Heidegger) e quella del «nuovo pensiero»  12 (Franz Rosenzweig) – ha indagato la portata della nozione di Ereignis (evento) in Levinas, la cui differenza da quella di Erlebnis (vissuto) è così delineata: Mentre l’Erlebnis può restare nello spazio della semplice interiorità, nella comprensione dell’“evento” l’accento batte sul fatto che nell’evento l’uomo esperiente e comprendente viene trascinato verso qualcosa di estraneo e di diverso che gli sta di fronte.  13

Ebbene, che cosa implica “leggere” sotto la lente d’ingrandimento del pensiero dialogico e del plesso lier et R. Calin, Œuvres complètes, t. 2, Bernard Grasset-Imec, Paris 2009; tr. it. Parola e silenzio e altre conferenze inedite al Collège philosophique, a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2012, p. 151 (d’ora in poi Œuvres 2). Si veda anche E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; Lgf, Paris 1990; tr. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dall’Asta, con un testo introduttivo di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1980, pp. 135-136. 11  Fondamentale è B. Casper, Angesichts des Anderen. Emmanuel Levinas. Elemente seines Denkens, Schöningh, Paderborn 2009. 12  Sul neues Denken cfr. l’illuminante volume di B. Casper, Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Herder, Freiburg i.Br. 1967; Alber, Freiburg i.Br. 2002; tr. it. Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2009. 13  B. Casper, Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, Morcelliana, Brescia 2008, p. 47.

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linguaggio-tempo la nozione di diacronia e quella strettamente connessa di educazione o insegnamento, maestria? In un’epoca in cui, per la prima volta, l’umanità sperimenta il fatto di vivere come se abitasse in un’unica totalità  14 dato il processo irreversibile della globalizzazione e gli effetti di cui la surmodernità  15 ne è l’espressione, mentre la paura  16 e lo sfasamento emergono come le tonalità emotive per eccellenza, degli interrogativi improcrastinabili sovvengono in tutta la loro forza: qual è il fondamento ultimo dell’umanità dell’uomo? Che cosa ha da dire e da fare l’esserci finito e mortale che è libero, e dunque sempre tentato, di iniziare-qualcosa-con-sestesso? Quale posto occupa l’Altro nella vita vissuta dell’«io sono» di carne e di sangue? E verso quale orizzonte si guarda quando si parla di avvenire? E ancora, qual è il senso della parola nel momento in cui non mi limito a parlare di qualcuno o qualcosa, ma mi rivolgo ad Altri, poiché mi riguarda, mio malgrado, e ancor prima che io l’abbia scelto: non si schiude sin da qui il carattere proprio di un’ermeneutica dell’accadimento del linguaggio che connota – ab initio – il pensiero di Levinas? Ebbene, la posta in gioco è davvero alta: facendo proprie e insieme supe-

14  Metafora della globalizzazione che dobbiamo a Casper. Si veda B. Casper, Evento della pittura ed esistenza umana. Su due opere di Vincenzo Civerchio a Travagliato, tr. it. di L. Bonvicini, pref. e cura di F. Nodari, Morcelliana, Brescia 2014, p. 70. 15  Cfr. infra, cap. I, par. 1, Lo spettro della paura e l’utopia dell’educazione, pp. 42 ss. 16  Su questo punto rinviamo al pregevole volume di M. Augé, Les nouvelles peurs, Payot & Rivages, Paris 2013; tr. it. Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?, tr. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

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rando le intuizioni di Husserl legate alla fenomenologia e, in particolare, alla trattazione dell’emersione della soggettività dell’Altro che Husserl coglie, nella quinta meditazione cartesiana, nell’appaiamento che avviene nella sfera primordinale, ma restando ancora nell’ambito di una prospettiva trascendentale,  17 e quelle di Heidegger, in particolare, per quanto concerne la differenza tra Sein e Seiendes, che Levinas non tradurrà in termini di essere ed essente, ma di esistenza e di esistente; Levinas, se così si può dire, indica nell’«altrimenti che essere», la svolta cruciale per una filosofia fenomenologico-ermeneutica: il passaggio da Essere e Tempo a Tempo e Parola.  18 Per dirla in termini più chiari – ed è questo lo sforzo e il tentativo che sorreggono la nostra ricerca – non si tratta forse di meditare sullo stretto nesso tra diacronia  19 ed educazione, se è vero come è vero che la diacronia si dà in termini di enigma, mistero, frattempo, anacronismo; mentre l’educazione fa leva innanzitutto sull’insegnamento orale, su una ragione che parla – tempo che scorre, tempo non sincronizzabile – in cui il Moi sperimenta «il non-luogo» 17  Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen, Hua I, Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it. Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970, Quinta meditazione, pp. 99168, in part. si vedano i parr. 51 e 52, pp. 124-129. 18  B. Casper, Rosenzweig e Heidegger, cit., p. 97. In proposito, nel delineare la differenza dell’interpretazione del tempo tramandata dalla grecità classica e il neues Denken, scrive Casper: «Nel nuovo pensiero, che trova il suo paradigma nella parola fattualmente parlata da uomini mortali, il tempo si mostra come la realtà che sempre da capo ha luogo tra uomini mortali senza poter essere da loro stessi dominata». 19  Sul libero darsi del tempo in quanto diacronia, cfr. ivi, pp. 97 ss.

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della soggettività,  20 che è Dire, che è diacronia? E ancora, non è proprio a partire da questo «vedersi dal di fuori»,  21 da questa rottura con la propria identità che si coglie lo scarto tra l’ontologia totalitaria e l’al di là? Uno scarto che decreta l’«impossibilità della totalizzazione» mettendo capo a «una nuova relazione, [a] un tempo diacronico che nessuna storiografia trasforma in simultaneità totalizzata e tematizzata e il cui compimento concreto sarebbe la relazione dell’uomo all’uomo, la prossimità umana, la pace tra gli uomini»  22. Del resto «ogni fuoriuscita da sé rappresenta la crepa che si apre nello Stesso verso l’Altro. Desiderio – precisa Levinas – trasformato in attitudine di apertura all’esteriorità»  23. Ora, come si può notare, ciò che fa problema è l’esplicazione dell’altrimenti che essere, questione che chiama in causa, per un verso la temporalizzazione in quanto «sfasamento dell’istante»,  24 per l’altro «la responsabilità per altri (che) è il luogo in cui si pone il non-luogo della soggettività e dove si perde il privilegio della questione: dove?».  25 Ecco allora che

20  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 12. Sulla diversa accezione di non-luogo se confrontata con quella impiegata dall’antropologo Augé: non-luogo della soggettività, da un lato, non-luogo empirico dall’altro, cfr. infra, cap. II, Quando il tempo non è una moneta falsa, par. 1, La ragione che parla, in part. nota 8. 21  E. Levinas, Œuvres 1, p. 262. 22  E. Levinas, Altérité et transcendance, Fata Morgana, Montpellier 1995; tr. it. Alterità e trascendenza, tr. di S. Regazzoni, a cura di P. Hayat, il melangolo, Genova 2006, p. 53. 23  Ivi, p. 89 (c.vo nostro). 24  Id., Altrimenti che essere, cit., p. 13. 25  Ivi, p. 15 (c.vo nostro).

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«il tempo del detto e dell’essenza lascia intendere il dire pre-originario, risponde alla trascendenza, alla dia-cronia, allo scarto irriducibile che qui si apre tra il non-presente e ogni rappresentabile, scarto che a suo modo – modo da precisare – indica il responsabile».  26 Come dire: l’intrigo della soggettività, il suo psichismo che è pazienza, separazione e invecchiamento, si dipana tra il «prima-di-ogni ricordo» della diacronia e l’accadere  27 del Moi voici nell’incontro con l’Altro. Ma ciò implica un intendimento della nozio-

26  Ibidem. 27  Insistiamo nuovamente sulla nozione di accadimento e riportiamo un passo centrale di Essere ed evento, nel quale il filosofo di Friburgo afferma: «Al posto dell’“essere”, l’orizzonte generale della vecchia metafisica, il XIX secolo scopre l’orizzonte della storia come il vero orizzonte universale in cui deve essere pensato tutto ciò che viene discusso e viene articolato dal sapere. E nel contempo con la “storia” il pensiero scopre la società come l’orizzonte trascendentale per ogni comprensione di ciò che è. E, infine, insieme a questi due orizzonti, emerge l’orizzonte del linguaggio come la condizione trascendentale per eccellenza, grazie alla quale diviene comprensibile tutto ciò che può essere conosciuto in generale dall’uomo». Poi Casper che individua nel «pensiero rammemorante» di Heidegger e nel «pensiero esperiente» di Rosenzweig i due filoni di pensiero che, pur essendo così diversi, s’imbatterono «in questa rivoluzionaria comprensione dell’incrociarsi di tempo ed essere» così prosegue, risalendo all’origine di ciò che si configura come un vero e proprio pensiero dell’evento che, troverà una sua ulteriore tappa nel pensiero di Levinas: «In questo caso, con un pensiero che vuole spingersi fino alle origini della conoscenza, il tempo non viene più concepito come un decorso che si svolge in un essere sussistente in modo a-temporale e a guisa di sostanza. Piuttosto l’essere viene pensato sulla base dell’originario accadere del tempo. Ma il tempo è essenzialmente tempo dell’esserci. È tempo dell’uomo che, nelle sue decisioni, è consegnato a se stesso» (B. Casper, Rosenzweig e Heidegger, cit., p. 28).

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ne di parola – che in ebraico si dice davar  28 e include nella sua semantica il concetto di evento – che 28  Cfr. E. Bianchi, Ascoltare la parola. Bibbia e Spirito. La “lectio divina” nella chiesa, Qiqajon, Bose 2008, pp. 31-35. Scrive il Priore di Bose: «La parola di Dio è un’energia, una realtà vivente, operante, efficace (cfr. Is 55,10-11; Eb 4,12-13), eterna (cfr. Sal 119,89; Is 40,8; 1Pt 1,25), onnipotente (cfr. Sap 18,15). Dio parla e la potenza della sua parola si manifesta negli ambiti della creazione e della storia. Dio parla e la sua parola “chiama all’essere ciò che non è” (Rm 4,17), è parola creatrice (cfr. Gen 1,3 ss.; Sal 33,6.9; Sap 9,1; Eb 11,3) ed è parola instauratrice di storia: non a caso il termine davar (“parola”) è utilizzato dalla Bibbia anche nel significato di “storia” (cfr. 1Re 11,41; 14,19.29; 15,7.23.31 e passim). La parola di Dio è dunque realtà ben più ampia della Scrittura. Il davar è essenzialmente realtà teologica, è rivelazione di Dio, “è l’intervento di Dio nell’evoluzione morale e fisica del mondo” (cfr. A. Neher, L’essenza del profetismo, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 95), è il dirsi di Dio che sempre si accompagna all’invio del suo spirito, della sua ruach – nella Bibbia infatti “lo spirito e la parola sono due forme di rivelazione costantemente contemporanee” (ibi, p. 91; cfr. anche pp. 73-141) – e diviene così un darsi, un instaurare una presenza dialogica che incontra l’uomo nella berit, nell’alleanza». Poi poco più avanti aggiunge: «Nell’economia giudaica la Scrittura è un “portaparola”, “l’interprete di una parola originaria essa stessa sottratta all’interpretazione”, “il testimone del processo per cui il davar, questa parola infinita, si è contratta nelle lettere quadrate pur senza sincronizzarsi con i segni che la captano”, senza esserne esaurita (cfr. D. Banon, La lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, Seuil, Paris 1987, p. 33). La Torà scritta è ormai codificata, un insieme definito: per aprirla (patach) occorre scrutarla, sollecitarla (darash) con l’infinito lavoro di interpretazione. La Torà stessa esige di essere interpretata, come appare dalle parole che si trovano al suo cuore: il Talmud riferisce una tradizione secondo cui il computo delle parole della Torà mostra che il suo centro è costituito dal verbo raddoppiato darosh darash (“fece intense ricerche”) di Levitico 10, 16. Da questa radice verbale proviene anche il termine midrash. I primi sapienti erano chiamati soferim perché

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vada al di là della sua mera tematizzazione, del suo assorbimento in un detto: nello scritto. La parola è innanzitutto insegnamento, oralità: Apprendere non è comunicazione di un pensiero (sarebbe ritornare alla preesistenza dei pensieri sulla parola e, di conseguenza, tornare fatalmente a un’armonia pre-

contavano (verbo safar) ogni lettera della Torà. Essi dicevano che [...] l’espressione darosh darash (Lv 10,16) segna la metà delle parole della Torà (cfr. bQiddushin 30a). Analogamente, nell’economia cristiana, la Scrittura è il testimone della parola di Dio, ma non coincide con essa. Il Figlio Gesù Cristo, parola eterna di Dio, non è contenuto solamente nella parola umana ed esaurito da essa, e anche i quattro evangeli, con parole umane differenti e da diverse prospettive, si avvicinano alla parola eterna, ma non la esauriscono. E poiché non vi è immediatezza di coincidenza tra Parola e Scrittura, ma la Parola è infinitamente più grande di tutto ciò che è nella Scrittura, essa può essere ascoltata, colta, solo grazie all’interpretazione dello Spirito, il quale deve spiegare ciò che è depositato nelle Scritture sul Figlio e sul Padre». Si veda anche M. Daniele, La narrazione. Modalità originaria ed essenziale della proclamazione della fede, in Catechesi e comunicazione, a cura di P. Padrini, Effatà, Cantalupa 2004, p. 65. Scrive l’Autore: «Lo stesso termine “parola”, che proviene dall’ebraico davar, ha un significato più ampio di quello che noi gli attribuiamo normalmente: col termine davar, che l’italiano rende sbrigativamente con “parola”, l’ebraico designa prima di tutto un “fatto”. Ciò significa che Dio parla in primo luogo attraverso i fatti, gli eventi. Per questo motivo la Bibbia greca dei LXX rende l’ebraico davar con le espressioni lógos e rêma, proprio per significare il differente valore del termine: discorso, ma anche soprattutto accadimento. Scrive J.-L. Klink: “Nella Bibbia è sempre questione di un avvenimento che riveste un significato, espresso talvolta interamente in un linguaggio immaginoso, come nelle parabole. La verità della narrazione, dunque si trova, prima di tutto, nel significato e nel messaggio che ne derivano” (cfr. J.-L. Klink, Favole e narrazioni bibliche, in G. Cravotta, Catechesi narrativa, Dehoniane, Napoli 1985, p. 55)».

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stabilita), ma relazione prima: trovarsi davanti a un’altra ragione, esistere metafisicamente. Il pensiero, dunque, non precede il linguaggio, ma è possibile solo attraverso il linguaggio, vale a dire attraverso l’insegnamento e il riconoscimento di altri come maestro.  29

Come dire: lo studio e l’approfondimento della nozione di diacronia nel pensiero di Levinas ci condurrà a toccare con mano la centralità della questione della temporalità nel suo pensiero – finora rimasta inindagata nelle sue implicazioni e cruciale per la posta in gioco che pone all’uomo disorientato del XXI secolo –, posta in gioco che fondandosi, se così si può dire, sul binomio evento-parola ha qualcosa di nuovo da dire: perché i tre fenomeni originari cui Rosenzweig fa riferimento nella Stella della redenzione  30 – uomo-mondo-Dio – non siano risucchiati dalla logica e dall’essere, occorre che venga meno «l’al-tempostesso», il tempo sincronico del Dasein-che-non-hamai-fame. Ciò apre la strada ad un pensiero esperiente proprio di un «io sono» di carne e di sangue poiché «la situazione in cui il soggetto si rapporta all’altro nel suo presente – pur conservando il proprio mistero e in cui anticipa altri senza potere su di lui – è la parola».  31 Di qui la differenza tra «parola parlata» – che si esplica in un detto in cui l’autore è in contumacia – e la «parola parlante» che presuppone «la possibilità per la ragione di essere altra per una ragione»  32

29  E.

Levinas, Œuvres 2, p. 84 (c.vo nostro). Stern der Erlösung, intr. di R. Mayer, Nijhoff, Den Haag 1976; tr. it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985. 31  Ivi, p. 93 (c.vo nostro). 32  Ivi, p. 74. 30  Der

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e che eviene nell’insegnamento, ne «la ragione come tu», nel fatto che di fronte a me c’è Altri: un paradigma che sta «alla base di tutte le relazioni sociali»  33 e che rinviene la sua «forma» originaria nella relazione erotica fondata, in ultima analisi, sul binomio erostempo o, che è lo stesso, fecondità-pluralismo. Tra la visione filologica o di profilo del maestro e il vis-àvis sta, per così dire, il frattempo irrecuperabile del linguaggio originario o oralità poiché presentarsi significando è parlare. [...] Il significato o la espressione si distingue così da ogni dato intuitivo, appunto perché significare non è dare. Il significato non è un’essenza ideale o una relazione offerta all’intuizione intellettuale, ancora analoga in questo alla sensazione offerta all’orecchio. Esso è, per eccellenza, la presenza dell’esteriorità. Il discorso non è semplicemente una modificazione dell’intuizione (o del pensiero), ma una relazione originaria con l’essere esterno. [...] Il senso non si produce come un’essenza ideale – è detto e insegnato dalla presenza, e l’insegnamento non si riduce a un’intuizione sensibile o intellettuale, che è il pensiero del medesimo. Dare un senso alla presenza è un evento irriducibile alla evidenza. [...] Si può, naturalmente, concepire il linguaggio come un atto, come un gesto del comportamento. Ma allora si omette ciò che è essenziale nel linguaggio: la coincidenza del rivelatore e del rivelato nel volto, che si attua situandosi al di sopra di noi – insegnando. [...] L’interlocutore il cui modo consiste nel partire da sé, nell’essere straniero e, tuttavia, nel presentarsi a me, è ciò che si presenta come indipendente da ogni movimento soggettivo.  34

33  Ivi,

p. 76. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 64-65 (c.vo nostro tranne insegnando). 34  E.

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Infatti, la costituzione del corpo d’Altri in quella che Husserl chiama la “sfera primordinale”, l’“appaiamento” trascendentale dell’oggetto così costituito con il mio corpo, sperimentato a sua volta dall’interno come un “io posso”, la comprensione di questo corpo d’altri come di un alter ego – nasconde, in tutte le sue tappe prese per una descrizione della costituzione, delle mutazioni della costituzione d’oggetto in una relazione con Altri – che è tanto originaria quanto la costituzione dalla quale si cerca di farla derivare. La “sfera primordinale” che noi chiamiamo il Medesimo si dirige verso l’assolutamente altro solo in conseguenza dell’appello d’Altri. La rivelazione costituisce un vero e proprio rovesciamento nei confronti della conoscenza oggettivante.  35

Non a caso Levinas sollevando il problema della reciprocità che si darebbe nel dare del tu all’Altro mostra come la pretesa di sapere e di raggiungere l’Altro, si attua nella relazione con altri, che si insinua nella relazione del linguaggio la cui essenza sta nell’interpellanza, nel vocativo. L’altro si mantiene e si conferma nella sua eterogeneità non appena lo si interpelli e foss’anche per dirgli che non gli si può parlare, per dichiararlo malato, per comunicargli la sua condanna a morte; è colpito, ferito, violentato e, nello stesso tempo, “rispettato”. L’invocato non è quello che io comprendo: non è soggetto a categorie. È quello al quale io parlo [...] l’interpellato è chiamato alla parola, la sua parola consiste nel “portare aiuto” alla sua parola – nell’essere presente. Questo presente non è fatto di istanti misteriosamente immobilizzati nella durata, ma di una

35  Ivi,

pp. 65-66.

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continua ripresa  36 degli istanti che passano ad opera di una presenza che porta loro aiuto, che ne risponde. Questa continuità produce il presente, è la presentazione – la vita – del presente. Come se la presenza di chi parla invertisse il movimento inevitabile che porta la parola detta verso il passato della parola scritta. L’espressione è questa attualizzazione dell’attuale. L’attualità unica della parola la sottrae alla situazione nella quale essa appare e che sembra prolungare. Essa porta ciò di cui la parola scritta è già priva: la maestria. La parola, molto di più che un mero segno, è essenzialmente magistrale. Essa insegna innanzitutto proprio questo insegnamento, grazie al quale essa può soltanto insegnare (e non come la maieutica svegliare in me) cose e idee. Le idee mi istruiscono a partire dal maestro che me le presenta.  37

Come si può notare ciò che, ancora una volta, emerge nella fatticità storica di un Dasein mortale e finito è la stretta connessione tra diacronia ed educazione in quanto insegnamento. Utopia questa nel senso che nella defezione del sé posto all’accusativo si dà il «non-luogo della soggettività», «non-luogo» ove eviene, in questo-andare-oltre-me-stesso nell’accadimento dell’attenzione,  38 il virare della libertà in responsabilità: un essere eletti dal Bene dove «il Di-

36  Cfr. il concetto di nascita continua o Wiedergeburt nei Carnets de captivité. Cfr. E. Levinas, Œuvres 1, pp. 59 e 60. Particolarmente illuminante ci pare questo frammento: «L’ingresso nel mondo è l’ingresso nell’essere – in questo fatto che c’è – nascita – Nascita (Naissance) di tutti gli istanti. Ricominciamento nel tempo. Interpretazione della creazione continua. Nascita – nella pigrizia d’essere» (ivi, p. 60, c.vo nostro). 37  E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 67-68. 38  Sulla temporalizzazione dell’attenzione, cfr. B. Casper, Evento e preghiera, cit., pp. 35 ss.

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re rimane, nella sua attività, passività; più passivo di ogni passività perché sacrificio senza riserva, senza ritenzione, e proprio per questo non-volontario, sacrificio d’ostaggio  39 designato che non si è eletto come ostaggio, ma, possibilmente, è eletto dal Bene di un’elezione involontaria non assunta dall’eletto».  40 Che cos’è allora la diacronia se non l’evenire stesso della gratuità integrale che è tutt’altro dal gioco dell’essere? Un inverarsi del disinteressamento che poggia su un linguaggio pre-originale? Non è forse portando a datità un non-detto che se ne va già 39  Sulla nozione di ostaggio, una della categorie etiche per eccellenza del Sé posto all’accusativo e insieme una delle esplicazioni centrali della sostituzione, si veda il fondamentale volume E. Levinas - B. Casper, In ostaggio per l’Altro, a cura di A. Fabris, Ets, Pisa 2012. Sulla locuzione «farsi-con-il-propriocorpo-ostaggio-per-l’altro», locuzione che dobbiamo a Casper, come accadimento dell’incarnazione, cfr. F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, cit, pp. 223-232. Sull’origine di questa nozione, è illuminante B. Casper, Sul senso del nostro corpo, in F. Nodari (a cura di), Corpo, Massetti Rodella, Roccafranca 2010, pp. 42-44: «Con il nostro intero esserci corporei diveniamo ostaggi per gli uomini ogni volta altri, dei quali abbiamo bisogno per essere realmente uomini. In tedesco per il termine “ostaggio” (Geisel) c’è anche il termine Leib-bürge, che si potrebbe tradurre forse letteralmente: “garante col proprio corpo”. Anche in italiano la “s” in ostaggio rimanda all’origine storica di questo termine che è nel fatto che nei trattati di pace tra due popoli nemici, ci si scambiavano i figli dei principi di questi popoli, che risiedevano come “ospiti” alla corte dei principi nemici e divenivano così garanti (Bürgen) con il loro corpo e la loro vita, pegno del fatto che la pace sarebbe stata mantenuta e sarebbe proseguita. Il senso estremo di questo “io sono corpo” è nel fatto che con il nostro esserci corporeo diventiamo pegno per l’esserci corporeo dell’altro uomo e degli altri uomini, e in questo modo diventiamo pegno del nostro futuro in comune». 40  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 20.

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in significazione, e che risuona così: «La morale – è la parola pura – la possibilità di vedere un volto dietro tutte le sue maschere»,  41 che si può risalire all’esplicazione ultima dell’etica come filosofia prima? Del suo significare in quanto «saggezza dell’amore», dove l’inversione dei termini poggia su una passività in cui riecheggia quel «profondo allora – “ ‘allora’ non ancora abbastanza – mai coglibile – ma “un allora” insegnato»?  42 Una passività che individuando nella diacronia una traccia dell’Illeità, si incammina in un movimento senza sosta, che è il suo stesso temporalizzarsi, il suo farsi-ostaggio-per-l’Altro, da cui si dischiude l’esperienza originaria di Dio quale colui che nel mio essere finito mi predestina direttamente nella storia della salvezza. Un Dio non più contaminato dall’essere, ma che chiama ciascuno a una corresponsabilità nell’opera della salvezza. Del resto, la lapidaria definizione della parola profezia intesa da Levinas come «fame dell’evento»,  43 non suona già come un monito per questa nostra società globalizzata, sempre connessa eppure sempre più sola, chiusa nel proprio individualismo indifferente, e in preda alla psicosi collettiva generata dal terrorismo praticato dall’autoproclamatosi Stato Islamico? La «fame dell’evento» non rappresenta forse una chance per questi nostri tempi bui e difficili? Non solo, l’indagine della stretta connessione tra gratuità e temporalità non ci porta forse a prendere piena consapevolezza dello scacco della sincronia e quindi della portata che sta nel passaggio da un pensiero sincroni-

41  Id.,

Œuvres 2, p. 358 (c.vo nostro). p. 173. 43  Cfr. Id., Œuvres 1, p. 80. 42  Ivi,

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co a un pensiero diacronico, che si fa pensiero esperiente; pensiero incarnato? Di qui la declinazione altra del tempo, in un corpo a corpo con Derrida, per pervenire al fatto che l’accadere stesso dell’essere è un ringraziare, un atto gratuito nel senso pieno e non dispregiativo del termine. Senso che coniuga tutt’altrimenti e a partire da una dicotomia tra creaturalità e gettatezza, la nozione stessa di dono, svincolata dalla logica totalitaria del do ut des, e incentrata su un donare ab-solutus, sotto il segno di una passività che s’accresce. Un donare liturgico, che non pretende nulla in cambio ma che si fa, in quanto sono stato donato a me stesso nel mio nascere, concrezione di una gratitudine che, per richiamare Meister Eckhart, «partorisce a sua volta».  44 Ma problematizzare e prendere davvero sul serio la nozione di diacronia significa altresì portare a datità in un corpo a corpo con un altro grande filosofo e amico di Levinas, Maurice Blanchot, l’indagine della felix culpa – o, se si vuole, che è lo stesso, del «dovere felice di amare l’altro» – attraverso l’esplicazione delle sue forme diacroniche: dalla parola plurale al mantenere la parola alla figura emblematica del supplice che significa “colui che viene”, suscitando «la più misteriosa delle domande, quella relativa all’origine».  45 Così

44  Cfr. B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken. Überlegungen im Ausgang von Emmanuel Levinas und Meister Eckhart, in S. Gottlöber - R. Kaufmann (a cura di), Gabe, Schuld, Vergebung. Festschrift für Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Thelem, Dresden 2011, p. 390. 45  Cfr. M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969; tr. it. La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», intr. di G. Bottiroli, tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 113 (c.vo nostro).

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come sostare sullo stretto legame tra temporalità e insegnamento significa far emergere la tensione squisitamente temporale che connota una questione, oggi, di particolare attualità quale quella dell’educazione: problema stricto sensu morale. E che dire poi della concrezione del bonum commune nell’esigenza storica che interpella il singolo, quell’«io sono» di carne e di sangue, che ha anche una bocca, e che nel passaggio dallo Sprächen heideggeriano all’Ansprächen levinasiano, fa di quel contro-tempo o lasso di tempo l’imperativo di un temporalizzarsi senza requie di se stesso, con tutto se stesso, fino alla denucleazione del sé, alla vulnerabilità, al dolore a fior di pelle? Fino a prendere su di sé il giogo della redenzione, fino a cogliere nella dignità l’evento stesso della responsabilità che, nella sua temporalizzazione diacronica, è un dire sì «alla vocazione e al lavoro comune alla salvezza della storia umana e della creazione».  46 Fino all’attualizzazione di quel «sapere d’angelo» nel facere misericordiam, la cui peculiarità risiede nel carattere evenemenziale e dialogico del diuturno farsi-incontro-all’Altro, che vira in un farsi-ostaggiocon-il-proprio-corpo-per-l’altro. Farsi-ostaggio che diventa condizione fondamentale perché la misericordia accada in tutta la sua autenticità svelandone la sua dimensione soteriologica, al punto da spingere il Moi a «farsi perdonare il proprio essere dalla stessa alterità d’“altri”».  47

46  B.

Casper, Dignità e responsabilità. Una riflessione fenomenologica, tr. it. S. Bancalari, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2012, p. 53. 47  E. Levinas, De l’existence à l’existant, Fontaine, Paris 1947; Vrin, Paris 1978; tr. it. Dall’esistenza all’esistente, a cura

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Come dire: la genialità di Levinas non consiste forse nel tradurre l’epékeina tês ousías di Platone (Repubblica 509b) nella seguente equazione: la temporalità sta all’umanità  48 come la diacronia sta all’«allora insegnato», al punto che il pre-originale non solo orienta il mio continuo ricominciare, ma rischiara il mio avvenire?

di F. Sossi, con una premessa di P.A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 86. 48  E. Levinas, Œuvres 1, p. 112. Scrive il filosofo: «Vive l’avvenire come un passato, il presente come un ricordo» (c.vo nostro).

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Parte prima

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Capitolo primo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Temporalità e gratuità

Parlare oggi della gratuità sembra un’impresa assai ardua poiché questa parola – come avviene del resto per molte altre: pazienza, responsabilità, perseveranza – sembra rientrare nella sezione delle nozioni demodé. Nozioni cioè che avrebbero perso la loro applicazione pratica perché molto lontane dalla nostra società liquida dove imperversa l’era dell’homo consumans, dove l’antagonismo va ben oltre l’«insocievole socievolezza» di Kant  1 e l’ipertrofia del soggetto non sembra lasciare spazio alcuno alla concrezione di un atto che è segno di benevolenza e di bontà. Ora, come è noto, gratuità viene dal latino gratuitas, da cui l’aggettivo gratuitus, mentre rintraccia il suo corrispettivo greco nella cháris o nell’agápe. Sembra, tuttavia, che la mera etimologia del termine non ci possa condurre molto lontano se è vero che in un atto di vita vissuta si possono individuare degli intendimenti, se così si può dire, che per quanto possano avere una stretta parentela con la parola in oggetto rischiano di tradirne il significato autentico specialmente quando la solidarietà si trasforma in solidarismo, la bontà in buonismo, il dono in og-

1  I.

Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784); tr. it., Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 33-34.

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getto di scambio o peggio ancora quando la gratitudine che sottende la gratuità non vuole tanto rendere umilmente grazie, ma si traveste di alleluja per meri fini utilitaristici, violando palesemente la seconda formulazione dell’imperativo categorico kantiano. 1. Lo spettro della paura e l’utopia dell’educazione Ci sia consentito, prima di procedere nella problematizzazione di una declinazione della gratuità che è strettamente correlata alla temporalità e, in particolare, alla temporalizzazione dell’«io sono» di carne di sangue, tentare di tracciare un breve profilo della nostra contemporaneità colta a partire da un metodo fenomenologico ermeneutico. Se si guarda allo stato attuale del nostro presente, nozioni quali complessità, disorientamento del soggetto, ansia da prestazione, paura, solitudine, egoismo sembrano restituirci la declinazione di ciò che oggi siamo ormai abituati a chiamare con il nome di crisi. Come afferma Casper, il soggetto si trova oggi, per la prima volta nella sua storia, a vivere come se tutti gli uomini abitassero in una medesima città: il fenomeno irreversibile della globalizzazione ha portato inesorabilmente a un mutamento delle coordinate spazio-temporali – abbattimento delle distanze e accelerazione dei trasferimenti – e a un progressivo logorio del simbolico. Se dunque la surmodernità è da intendersi come «accelerazione della storia, restringimento dello spazio, promozione dell’individuo consumatore»  2 – termine modellato su quello 2  M.

Augé, L’anthropologue et le monde global, Armand

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«di sovradeterminazione, utilizzato da Freud e da Althusser per designare la molteplicità delle cause che hanno generato la complessità delle situazioni studiate»  3 – non risulterà difficile individuare negli aeroporti, nelle stazioni, nei centri commerciali, nelle grandi arterie stradali degli spazi dove semplicemente si transita senza neppure guardare nel volto l’Altro. Si vivono vite di corsa o in vetrina  4 o ci si crea un avatar nell’enigmatico spazio del virtuale. Vite parallele che danzano nel web sotto la protezione di nick-names o false identità coltivando ingenue illusioni di ubiquità e di istantaneità. Eppure viviamo sempre in un certo luogo, e non possiamo essere qui e altrove contemporaneamente. E chi vi crede non può sottrarsi dal fare i conti con la realtà: quelle stabilite attraverso Internet – suggerisce ancora Marc Augé – sono soltanto «promesse di relazione»  5 che nascondono il dramma della solitudine.  6

Colin, Paris 2013; tr. it. L’antropologo e il mondo globale, tr. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 44. 3  Ivi, p. 25. 4  Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino2007; Id., Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma-Bari 2009. 5  M. Augé, L’antropologo e il mondo globale, cit., p. 54. Si veda anche Id. L’uno e l’altro, gli uni e gli altri, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013, pp. 30-31. 6  Su questo punto ci pare sia significativo sottolineare come, accanto a un’etnologia dell’incontro, si stagli dallo sfondo della complessità sociale planetaria una nuova forma di antropologia: quella della solitudine. Precisa l’Autore in merito: «Oggi l’osservazione antropologica deve tenere conto del fatto che, nel mondo globale, il contesto è sempre planetario e che l’osservatore fa necessariamente parte di coloro che egli osserva. Egli è

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Nel fortunato testo Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?  7 Augé sosta con grande acume sulla tonalità affettiva della nostra contemporaneità: la paura, di cui il senso di scoramento, l’ossessione del vuoto, l’incertezza, il timore di non farcela non sono altro che declinazioni della medesima Stimmung. Colpisce il ripetuto richiamo all’appello “profetico” che papa Wojtyla fece nel 1978: «Non abbiate paura!». Un imperativo che torna, in forma modificata, nel bestseller di Stéphane Hessel, nel 2010, «Indignatevi!» e che si colora di tinte scure nel suo esatto opposto: quel minaccioso «Abbiate paura!» che Bin Laden non esitò a pronunciare decretando con il doppio attacco terroristico dell’11 settembre 2001 non solo la globalizzazione del terrore, ma una forma di schizofrenia collettiva e planetaria. Augé individua forme diverse di violenza: da quella economica a quella politica, da quella tecnologica a quella naturale. Di qui l’emersione di paure che si moltiplicano e che condividono una cifra comune: l’ossessione dell’altro. Uno degli elementi costanti che percorre l’intero saggio è la denuncia delle diseguaglianze tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Diseguaglianze dove le parole chiave dell’organizzazione del lavoro quali ristrutturazione, contratto a tempo determinato, flessibilità, mobilità sono ormai percepite come miin tal modo condannato a spostare il proprio sguardo da un eccesso di senso simbolico verso il vuoto relazionale dell’individuo escluso o isolato. Con il passaggio dalla colonizzazione alla globalizzazione, l’etnologia dell’eccesso simbolico si trasforma in antropologia della solitudine» (M. Augé, L’antropologo e il mondo globale, cit., p. 125). 7  Cit. supra, p. 24, nota 16.

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nacce sia dai giovani che nel presente non mirano che alla sopravvivenza sia dagli anziani che si chiedono se qualcuno toccherà loro la pensione: La paura che stringe lo stomaco, la vergogna di sopportare l’insopportabile, è una presenza fisica, un cancro che rode: non si può più ignorare e fa di ogni mattino, di ogni uscita per andare al lavoro, l’anticamera dell’incubo. Pochi hanno coraggio da resistervi; per molti le pause dal lavoro, gli antidepressivi rappresentano un rimedio effimero e fragile. Le paratie tra vita professionale e vita privata sono saltate, o meglio hanno perduto la loro tenuta stagna, e agli uomini o alle donne che sono stati afferrati una volta per tutte da questa irreversibile sensazione di completo spossessamento non resta più un solo minuto di libertà. [...] Sperimentano una messa a nudo del loro essere intimo sotto lo sguardo degli altri e una forma di solitudine imposta che somiglia a un’espulsione da sé.  8

Per non dire del congedo dal lavoro che non è nient’altro che il riconoscimento del cedimento del corpo e della persona: al timore di invecchiare  9 si aggiunge lo sconforto di chi è ormai considerato inutilizzabile e dunque fuori uso: il tempo sociale è più spietato del tempo biologico. E che dire poi dell’allarme pandemico o alimentare: al ricomparire di malattie debellate come la tubercolosi, si aggiungono epidemie quali l’aviaria o la mucca pazza fino alle minacce degli ogm? Cosa fare dinanzi all’emergenza climatica e all’allarme ambientale? Cosa resterà alle nuove generazioni di un mondo ove si sono abbattute 8  Ivi,

pp. 20-21. questo, cfr. M. Augé, Une ethnologie de soi. Le temps sans âge, Seuil, Paris 2014; Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste, tr. it. di D. Damiani, Raffaello Cortina, Milano 2014. 9  Su

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foreste, avvelenata l’aria, inquinato l’acqua, interrato rifiuti tossici, esaurito giacimenti? Se, come si stima, alla fine del secolo il pianeta sarà popolato da 10 miliardi di esseri umani, quali rimedi porre alla desertificazione e allo scioglimento dei ghiacciai e all’innalzamento delle temperature? Paure che si sommano ad altre paure: dalla minaccia terroristica che trova la sua acme nei “martiri” che si trasformano in bombe umane – la forma più perversa di ciò che gli etnologi chiamano possessione – al vacillamento del sistema capitalistico che svela come una seconda natura tutta incentrata sulla legge della domanda e dell’offerta, sul nervosismo dei mercati, sulla fiducia dei consumatori. Sempre più ridotta fino a spingere chi è senza lavoro, senza casa, senza domani a scelte estreme: «Non sarà che, oggi, la paura della vita – si chiede Augé – abbia rimpiazzato la paura della morte?».  10 Di qui il menù quotidiano: «stress con contorno di angoscia».  11 Nell’era dell’euro e della privatizzazione dell’Europa si registra, secondo l’antropologo, una progressiva accelerazione delle nostre esistenze determinata dalle nuove tecnologie e dal capitalismo finanziario, mentre la politica è ridotta a governance, ovvero a semplice gestione di consumi e di servizi. I giovani temono di non trovare un lavoro;  12 i loro padri hanno 10  M. Augé,

Le nuove paure, cit., p. 9. p. 17. 12  Su questo punto, cfr. M. Augé, Journal d’un SDF Ethnofiction, Seuil, Paris 2011; Diario di un senza fissa dimora. Etnofiction, tr. it. di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano 2011. Per affrontare più da vicino il sempre maggior numero di persone che non hanno una casa dove dormire e tornare poiché lo stipendio non consente loro di pagare un affitto Augé immagina 11  Ivi,

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il timore di perdere la pensione e di finire in miseria. Coscienze imprigionate e senza futuro. Ciò che Augé ci invita a scrutare sotto la sua lente d’ingrandimento di etnologo è la messa in discussione del diritto che ciascun uomo (nel quale egli vede riverberarsi l’immagine dell’uomo generico) ha alla spartizione del pane quotidiano  13 e insieme la denun-

la vita di uno di questi “vagabondi” – narrandola in prima persona – gli effetti distruttivi prodotti dalla perdita di punti di riferimento spazio-temporali, inventando un genere, l’ethnofiction, che consiste nell’utilizzare la forma del racconto per evocare un fatto sociale: suo eroe, un medio funzionario messo in difficoltà da due divorzi e dall’aumento degli affitti. 13  Cfr. M Augé, Nutrire l’umanità. Per salvare l’umano, cit., pp. 24-26. Ammonisce l’Autore: «Quando nelle vie della grandi città europee, oggi, vediamo moltiplicarsi lo spettacolo di individui che dormono sdraiati per terra e che mendicano umilmente “un po’di moneta per mangiare” fra i passanti, noi proviamo un sentimento intimo di disagio e di indignazione; noi siamo umiliati in quanto esseri umani. Talvolta possono manifestarsi ulteriori reazioni, in particolare di violenza o di disprezzo nei confronti di coloro che non sono più considerati uomini; ma questi atteggiamenti di negazione testimoniano di uno stesso scandalo: come sopportare l’immagine pietosa di coloro di cui io so bene, dentro di me, che essi sono degli uomini come me? Al di là dello scandalo, v’è tra l’altro un sentimento di paura nascosta che si mescola a tutte queste reazioni: non potrei io stesso trovarmi in una situazione simile? Lo scandalo della fame o della malnutrizione nel mondo e, in maniera più ampia, della disuguaglianza profonda nell’accesso ai beni materiali, intellettuali e spirituali è, al di là di ogni considerazione morale, uno scandalo esistenziale e essenziale: esso mette in causa, in ciascuno degli individui che ne sono testimoni o vittime, la parte d’umanità generica senza il riconoscimento della quale, c’è solo solitudine o dittatura – solitudine subìta da individui mutilati e, eventualmente, dittatura di culture ripiegate su se stesse per il solo beneficio di qualche privilegio. Negare

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cia del venir meno della relazione, allorché nell’era dell’iperconnessione, è proprio l’andare l’uno-incontro-all’altro nell’unico modo che ci è proprio – ossia con tutta la nostra corporeità – ciò che viene messo in discussione preferendo l’autoreferenzialità quasi autistica e la spettacolarizzazione del proprio Körper alla temporalizzazione del proprio Leib, che può evenire se e soltanto se ci si decide-ad-iniziare-qualcosacon-se-stessi andando incontro all’altro. In questa sottile analisi di Augé non ci si può esimere dal notarne l’andamento quasi profetico, se solo pensiamo a ciò che a ragione Casper chiama fenomeni del decadimento del religioso  14. Fenomeni che si sono ripetuti con una ferocia inenarrabile e una frequenza martellante anche nel vecchio continente. Si pensi solo all’annus horribilis francese iniziato il 7 gennaio 2015 con la carneficina della redazione di «Charlie Hebdo» e l’incursione nel supermercato Kasher e terminato il 13 novembre 2015  15 con il sincronismo – che è già sinonimo di guerra – di una

l’umanità ad alcuni, significa ucciderla in tutti. Bisogna essere consapevoli di questa posta in gioco, e ancor più in questo momento in cui, con il pretesto della “globalizzazione”, si può essere tentati di ignorare o di snaturare gli imperativi dell’universale» (c.vo nostro). 14  B. Casper, Das Ereignis des Betens, cit.; tr. it. Evento e preghiera, cit., pp. 143 ss. 15  Z. Bauman, La convivenza. Un intervento dopo gli attentati di Parigi, a cura di L. Noseda, Casagrande, Bellinzona 2015, p. 24. Ci pare significativo il fatto che Bauman abbia avvertito la necessità di ricorrere alla metafora del “campo minato” dinanzi al moltiplicarsi di attentati nel Vecchio Continente. In proposito così spiega la sua scelta: «Ciò che sappiamo dei campi minati è che sotto terra ci sono degli ordigni: prima o poi esploderanno, ma dove e quando non possiamo saperlo».

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serie di attacchi portati a termine dagli uomini del Daesh e un bilancio pesantissimo: 135 vittime innocenti, tra le quali molti giovani – come dimenticare la nostra connazionale Valeria Solesin – che assistevano al concerto che si stava tenendo nel teatro «Bataclan». Giovani innamorati della vita, fiduciosi nel futuro, disposti ai sacrifici pur di raggiungere i propri obiettivi. Giovani che incarnavano quei valori di libertà, di pace, di democrazia che hanno sempre contraddistinto l’Europa. Da quel giorno è stata coniata una locuzione per i loro coetanei: «Generazione Bataclan». Diciamo pure che una svolta si è data. Da lì, altri attentati, altre barbarie da parte degli jahadisti: da Bruxelles a Dacca dove sono caduti nove connazionali per arrivare alla tragedia di Nizza: centinaia di feriti e 84 vittime (molti erano bambini) appartenenti a varie nazionalità. Anche in questo caso l’Italia ha pagato un prezzo molto alto tra caduti, dispersi e persone in gravi condizioni. Proprio nel giorno in cui si celebrava la ricorrenza della presa della Bastiglia, donne, uomini e bambini venivano investiti e falcidiati da un camion di 19 tonnellate che a folle velocità si è aperto un varco lungo la Promenade des Anglais, trasformatasi di lì a poco in un campo di battaglia. Un grande boato, una fuga disperata e poi un silenzio tombale. Solo cadaveri, il gemito di chi è tra la vita e la morte, un terrore annichilente e una bambola che racconta la dolce innocenza di quelle piccole creature travolte dalla furia del non-senso. Dopo soli 12 giorni, martedì 26 luglio, due attentatori sono entrati in azione presso la chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray, vicino a Rouen, e dopo aver preso in ostaggio padre Jacques Hamel – uomo buono e di grande carisma con 50 anni di sacerdozio alle spalle – due suore e due fedeli, hanno sgozzato barbaramente il religioso 49

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rifiutatosi di inginocchiarsi dinanzi ai suoi assassini, ferendo gravemente anche un’altra persona. Ora, dinanzi a un simile scenario, cosa fare? Augé indica una via d’uscita: darsi il sapere come fine in sé. Una proposta che egli definisce «utopia dell’educazione»  16 e che potremmo considerare non solo la bussola del suo pensiero, ma la provocazione cui la filosofia è chiamata a dare una risposta. Una proposta che intende rimpiazzare la paura con la curiosità. Le due non sono così lontane l’una dall’altra. È il desiderio di conoscenza che può permettere di passare dall’una all’altra. Questo desiderio stesso è il frutto dell’educazione. L’utopia dell’educazione sarebbe, letteralmente, la vera rivoluzione: consacrare ogni cosa, in primis, all’educazione di ciascuno condurrebbe alla prosperità economica di tutti. È l’ideale dell’Illuminismo, il solo che sia in grado di riconciliare gli esseri umani tra loro e con il loro futuro. [...] E ciascuno dal canto suo può avvertire in ciò la sua solidarietà con gli altri.  17

2. Lo scacco della sincronia In questa fase storica particolarmente travagliata ciò che emerge in tutta la sua evidenza è l’indifferenza di una realtà colta nel suo esclusivo more geometrico e l’imperversare – in un sempre possibile risveglio 16  Cfr. M. Augé, Futuro, tr. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 107 ss. Ci pare sia necessario chiarire in che termini l’antropologo parla di utopia in rapporto all’educazione: «In realtà il termine “utopia”, per l’utilizzo che ne facciamo qui, ha senso solo in rapporto alle politiche reali, che, indipendentemente dai propositi, si muovono tutte in direzioni sbagliate» (ivi, p. 108). 17  F. Nodari, «Marc Augé. Una nuova crisi e vecchie paure

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dei sentimenti elementari  18 – di una prevaricazione, in nome dell’interessamento e di un Moi egoista che fa sempre ritorno a Itaca, dell’uomo sull’altro uomo. In una contrapposizione tra «egoismi allergici», il soggetto persevera nel suo conatus in una immanenza totalitaria scandita da una contemporaneità dove «L’essenza è così l’estremo sincronismo della guerra», dove «niente è gratuito. La massa permane e l’interessamento rimane. La trascendenza è fittizia e la pace instabile».  19 Dove tutto accade solo nella misura in cui deve essere senza tempo, essenzialmente logico: «Gioco o distensione dell’essere, libero da ogni responsabilità in cui tutto il possibile è permesso».  20 In un tale orizzonte sembrano di estrema attualità le riflessioni che nel 1929 – lo stesso anno in cui in Germania venne pubblicato il Mein Kampf – , Sigmund Freud raccolse nel suo saggio Il disagio della civiltà spingendosi ad affermare che il soggetto vede nel suo prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare questa

per il mondo», in Giornale di Brescia, lunedì 3 marzo 2014, p. 17 (c.vo nostro). 18  Cfr. E. Levinas, «Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme», in Esprit, 26 (1934); tr. it. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. di A. Cavalletti, intr. di G. Agamben, con un saggio di M. Abensour (Le mal elemental, tr. di S. Chiodi), Quodlibet, Macerata 1996. 19  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 7. 20  Ivi, p. 8.

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affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie [...] essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.  21

Poi denunciando la smania di potere del sé nel tentativo blasfemo di «essere come Dio», il padre della psicanalisi avverte: Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione.  22

E aggiungiamo noi: nervosismo, impazienza, insofferenza come se il tempo della loro esistenza non potesse che essere scandito dalla folle corsa delle lancette sull’orologio; come se tutto si esaurisse nella successione di istanti sempre uguali spinti da una brama di autoaffermazione che li rende famelici tanto quanto la lupa dantesca che «dopo ’l pasto ha più fame che pria» (Inferno I, 99). Di qui lo scacco della sincronia che rende dimentichi dell’Altro e come inchiodati all’essere. Se, come abbiamo già accennato, oggi con il fenomeno della globalizzazione ci troviamo a vivere come se abitassimo in una stessa 21  S.

Freud, Das Unbehagen in der Kultur, tr. it. Il disagio della civiltà (1929), in Id., Opere, vol. 10, Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti 1924-1929, intr. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 599 (c.vo nostro). 22  Ivi, p. 630.

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città, ne viene che quanto osservato da Simmel agli inizi del ventesimo secolo nel saggio Le metropoli e la vita dello spirito (1903) possa, in un certo senso, applicarsi alla metropoli-mondo o, se si vuole, a una metropoli su scala planetaria come se quello “spirito” moderno, «diventato sempre più calcolatore»  23, avesse raggiunto e toccato la sua acme nel nostro presente: All’ideale delle scienze naturali, quello di trasformare il mondo intero in un calcolo, di fissarne ogni parte in formule matematiche, corrisponde l’esattezza calcolatrice della vita pratica che l’economia monetaria ha generato; solo quest’ultima ha riempito la giornata di tante persone con le attività del bilanciare, calcolare, definire numericamente, ridurre valori qualitativi a valori quantitativi. Il carattere calcolatore del denaro ha introdotto nelle relazioni fra gli elementi della vita una precisione, una sicurezza nella definizione di uguaglianze e disuguaglianze, una univocità negli impegni e nei contratti, come quella che è prodotta esteriormente dalla diffusione generalizzata degli orologi da tasca. Ma sono le condizioni della metropoli a essere causa ed effetto di questo tratto caratteristico. Le relazioni e le faccende del tipico abitante della metropoli tendono infatti a essere molteplici e complesse: con la concentrazione fisica di tante persone dagli interessi così differenziati, le relazioni e le attività di tutti si intrecciano in un organismo cosi ramificato che senza la più precisa puntualità negli accordi e nelle prestazioni il tutto sprofonderebbe in un caos inestricabile. Se tutti gli orologi di Berlino si mettessero di colpo a funzionare male andando avanti o indietro anche solo di un’ora, tutta la vita economica e sociale sarebbe compromessa molto a lungo [...] Di fatto, la tecnica della vita metropolitana non sarebbe

23  G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 40.

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neppure immaginabile se tutte le attività e le interazioni non fossero integrate in modo estremamente puntuale in uno schema temporale rigido e sovraindividuale.  24

Del resto, in questa sorta di metropoli globale dove interagiscono ciò che a ragione Maurice Bellet chiama il principio tecnologico: «tutto ciò che è possibile fare, lo faremo» ed economico «tutto ciò che desideriamo, lo avremo»  25, l’effetto livellatore del denaro condurrebbe persino a una sorta di promiscuità tra cose e persone che, ergendo a paradigma il mero interesse, non solo mette in discussione la dignità stessa dell’uomo secondo le magistrali parole di Kant: Nel regno dei fini – egli scrive – tutto ha un prezzo o una dignità. Il posto di ciò che ha un prezzo può essere preso da qualcosa d’altro di equivalente; al contrario, ciò che è superiore a ogni prezzo, e non ammette nulla di equivalente, ha una dignità. Ciò che concerne le inclinazioni e i bisogni generali degli uomini ha un prezzo di mercato [Marktpreis]; ciò che, a prescindere dal bisogno, è conforme a un certo gusto, cioè al compiacimento che si prova per il semplice gioco senza scopo delle nostre facoltà mentali, ha un prezzo d’affezione [Affektionspreis]; ma ciò che costituisce la condizione necessaria perché qualcosa possa essere un fine in sé, non ha soltanto un valore relativo [relativer Wert], o prezzo, ma un valore intrinseco [innerer Wert], cioè dignità;  26

24  Ivi,

pp. 40-41. Bellet, Invitation. Plaidoyer pour la gratuité et l’abstinence, Bayard, Paris 2003; tr. it. Invito. Elogio della gratuità e dell’astinenza, tr. di G. Pulit, Messaggero, Padova 2004, p. 17. 26  I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), tr. it. Fondazione della Metafisica dei costumi, a cura di N. Pirillo, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 118. 25  M.

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ma puntando su una visione economicista della società dove ciascuno è ridotto a prestazione, numero e obiettivo di quella continua creazione di nuovi bisogni foriera dell’«homo consumans», genera effetti nefasti. 3. Inter-essamento e indiffferenza L’inter-essamento diviene l’humus ideale per quell’«io sono» di ventre affamato che trova una sua trascrizione sociologica e senza dubbio oggettivante, ma pur sempre realistica, nell’individuo blasé di Simmel, la cui essenza consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze. Ma questo stato d’animo è il fedele riflesso soggettivo dell’economia monetaria, quando questa sia riuscita a penetrare fino in fondo. Nella misura in cui il denaro pesa tutta la varietà delle cose in modo uniforme ed esprime tutte le differenze qualitative in termini quantitativi, nella misura in cui il denaro con la sua assenza di colori e la sua indifferenza si erge a equivalente universale di tutti i valori, esso diventa il più terribile livellatore, svuota senza scampo il nocciolo delle cose, la loro particolarità, il loro valore individuale, la loro imparagonabilità. [...] Nell’essere blasé culmina, per così dire, l’effetto di quella concentrazione di uomini e cose che eccita l’individuo alle massime prestazioni nervose; con l’incremento puramente quantitativo delle stesse condizioni questo effetto si capovolge nel suo contrario, cioè in quel singolare fe-

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nomeno di adattamento del blasé per cui i nervi scoprono la loro ultima possibilità di adeguarsi ai contenuti e alle forme della vita metropolitana.  27

Non è questa certo la sede per una trattazione completa delle analisi condotte da Simmel a partire dal blasé, tuttavia ciò che per il nostro argomento assume notevole importanza è l’insistenza del pensatore sul logorio delle relazioni, sull’omologazione e sulla riduzione del soggetto a «una quantité négligeable, a un granello di sabbia di fronte a un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, trasferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva»  28 al punto che – e qui Simmel sembra davvero parlare dei nostri giorni – ciò che sovente si registra nell’abitare questa difficile contemporaneità «non è soltanto indifferenza ma, più spesso di quanto non siamo disposti ad ammettere, una tacita avversione, una reciproca estraneità, una repulsione che al momento di un contatto ravvicinato, e a prescindere dall’occasione, può capovolgersi immediatamente in odio e in aggressione».  29 Lo scacco attuato dalla sincronia esige una risposta, implica un esodo inevitabile da ciò che pare puro non-senso: Nel crescente smarrimento del mondo, con quella specie di buco nero che si annida nei nostri deliri di potenza e produzione, si avverte con urgenza la necessità di un’iniziativa, di una rifondazione, di una nuova partenza», per-

27  G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., pp. 43-44. 28  Ivi, p. 54. 29  Ivi, p. 45 (c.vo nostro).

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ché, insegna Bellet, «ogni essere umano, in quanto essere umano, è competente in fatto di umanità.  30

4. Non resta che il gratis? Ora, poste queste premesse, che cosa resta oggi della gratuità? Il primo ostacolo dinanzi al quale inevitabilmente ci troviamo è – in un tempo di relazioni tra solitudini che occasionalmente si incontrano  31 – 30  M. Bellet, Invito. Elogio della gratuità e dell’astinenza, cit., pp. 8-9 (c.vo nostro). 31  Cfr. M. Augé, Éloge du bistrot parisien, Payot & Rivages, Paris 2015; tr. it. Un etnologo al bistrot, Raffaello Cortina, Milano 2015. Nella sua incessante analisi sulla surmodernità, Augé ci offre una sorta di fenomenologia delle relazioni che si danno in un bistrot – una sorta di “surrogato” di ciò che eviene tra me e l’altro – dove «il bancone è il centro di uno spazio concepito, come la musica del piano bar, per non appartenere a nessuno pur facendo posto a tutti. [...] Ora, per quanto in un simile contesto il desiderio di allacciare rapporti sia inconsapevole, illusorio o superficiale, è proprio quel desiderio che ci spinge a entrare in un bistrot e a restarvi. Il bistrot – nota l’antropologo – è uno spazio convenzionale. Aggettivo ambivalente, questo: vale a definire atteggiamenti consueti, stereotipati, poco originali, ma allude anche all’esistenza di una “convenzione”, a una sorta di accordo collettivo» (ivi, pp. 39-40, c.vo nostro). Rispetto poi al tempo degli orologi «ciò che “fa” il bistrot è, pertanto, meno la funzione (caffè o ristorante) che non lo spazio o, più precisamente, uno spazio in movimento». In un tale contesto che sembra rinviare, nell’armonia tra spazio e tempo, a una totalità simile a quella del «jouir de» le parole, che sono soltanto “parlate”, costituiscono l’esito di «battute leggere che non mirano a concludere alcunché, chiacchiere che non corrispondono né all’eventuale serietà del momento né al carattere tragico della condizione umana». Si tratta dei “rapporti di superficie” che sono quelli che si instaurano con chi, al bistrot e nel bistrot, ci sta accanto o di fronte. Riprende Augé: «I rapporti

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la sua inevitabile riduzione al linguaggio economicistico. Specialmente nei momenti di affanno e di crisi dove il terrore di non arrivare all’ultima settimana del mese sembra una costante, tra le varie derivazioni della parola gratuità, quella che ai più verrebbe subito alla mente è gratis (dal latino gratiis/gratı¯s, per grazia) vale a dire: nulla è dovuto, non c’è alcunché da pagare senza peraltro valutare se veramente ne vale la pena, se dietro quel gratis non vi sia, come spesso avviene, un escamotage che porta il malcapitato e forse un po’ ingenuo consumatore a spendere ancora. Questa riduzione della gratuità al gratis non è forse la filiazione di un intendimento e confinamento di tale nozione alla logica dello scambio? Come è noto si deve a Marcel Mauss la tematizzazione, nel suo poderoso Saggio sul dono,  32 di questa logica ove lui stesso intravede dietro ciò che chiama fenomeni sociali totali «il carattere volontario, per così dire apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato di queste prestazioni».  33

di superficie sorvolano anche la superficie delle cose. Forse che per questo le ignorano? “Come va?” “Che c’è di nuovo?” “Felice di vederti”! “Da quanto tempo!” Frasi pronunciate, in genere, senza aspettarsi una vera risposta. [...] I rapporti di superficie – spiega Augé –, necessariamente, si palesano. Agli uni strappano un sorriso, mentre sul volto di altri iscrivono segni di sorpresa, stupore, protesta o persino entusiasmo, quando si fa strada la certezza di una sintonia o di una simpatia. [...] Così, in quanto spazio convenzionale, il bistrot diventa per molti anche spazio rituale» (ivi, pp. 45-51, c.vo nostro). 32  M. Mauss, Essai sur le don, Puf, Paris 1950; tr. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, intr. di M. Aime, Einaudi, Torino 1965, 1991 e 2002 (noi citeremo da quest’ultima edizione). 33  Ivi, p. 5.

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Tra queste ultime spicca il potlàc che significa “nutrire”, “consumare” e che, nella dialettica tra dono e contro-dono è pervasa da un «principio della rivalità e dell’antagonismo» arrivando «fino alla battaglia, fino alla messa a morte dei capi e dei nobili che così si affrontano. Si giunge, d’altra parte, fino alla distruzione puramente santuaria delle ricchezze accumulate, per oscurare il capo rivale e, nello stesso tempo associato (d’ordinario, nonno, suocero o genero)».  34 Se poi si pone attenzione a quanto chiarisce più avanti Mauss quando afferma che «la prestazione totale non implica soltanto l’obbligo di ricambiare i regali ricevuti, ma ne presuppone altri due non meno importanti: l’obbligo di fare regali, da una parte, l’obbligo di riceverli dall’altra»,  35 si comprende subito come quell’avverbio di modo da lui impiegato sopra – apparentemente – rinvii, per così dire, al vulnus che è implicato in queste usanze: l’obbligatorietà imposta da questa pratica esclude inevitabilmente la gratuità di un’azione. Non a caso Mauss scrive: Rifiutarsi di donare, trascurare di invitare, così come rifiutare di accettare equivalgono a una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza e la comunione. Si fanno dei doni perché si è forzati a farli, perché il donatario ha una specie di diritto di proprietà su tutto ciò che appartiene al donatore. [...] insomma, tutto, cibo, donne, bambini, beni, talismani, terreno, lavoro, servizi, uffici sacerdotali, e ranghi è materia di trasmissione e restituzione. Tutto va e viene.  36

34  Ivi,

pp. 10-11. p. 20. 36  Ivi, pp. 22-23 (c.vo nostro). 35  Ivi,

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Tutto è un costante give and take, “dare e ricevere”, al punto che Mauss stesso arriva a dire che, in fondo, il potlàc «non è altro che il sistema dello scambio dei doni. Esso ne differisce soltanto, da un lato, per la violenza, l’esagerazione, gli antagonismi, dall’altro per una certa povertà di concetti giuridici»  37. Ora, riflessioni notevoli su questo saggio di Mauss, sono state compiute da Derrida. L’intento che anima il nostro studio consiste proprio nel portare a datità ciò che potremmo chiamare la pars construens e la pars destruens del filosofo: in che termini e cosa intendiamo affermare con ciò? 4.1. Logica dello scambio e l’impossibile simultaneità del dono Mostrare, per un verso, come le obiezioni mosse da Derrida a Mauss ci consentano di fare un passo in più sullo stretto rapporto tra dono e tempo, per l’altro, andando oltre Derrida stesso, far emergere la situazione aporetica – cioè senza via d’uscita – cui giunge e attraverso questa cruciale problematizzazione, con Levinas, pervenire a una nozione altra di dono mediante un’ermeneutica della fatticità storica che ci invita, per così dire, a sostare sul come della gratuità; elemento questo che ha a che fare con il “come” ciascun soggetto possa cogliersi – ovvero in tutta la sua mortalità, finitezza e soltanto in quanto «io sono» di carne e di sangue. «Io sono» che, nell’elezione di un’eteronomia privilegiata, è già dato a se stesso come dono e che, 37  Ivi,

p. 57 (c.vo nostro).

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nello scorrere di traverso del tempo o diacronia, è come toccato dalla grazia del farsi-ostaggio-con-ilproprio-corpo-per-l’altro in un rovesciamento della coscienza intenzionale, che mi fa trovare di colpo responsabile e grato. Ciò che Derrida mette in evidenza è la complessità che sottende il double bind tra un legame (il circolo economico del dono) e un non-legame (la “follia” del dono, la sua eccedenza, il suo andare in fumo). Di quale follia si tratta propriamente? Dell’annullamento del dono nello scambio e del fatto che ciò accada contemporaneamente sotto la dittatura della sincronia ovvero dell’«essere-nello-stesso-tempo»: «Mauss – scrive Derrida – non si preoccupa abbastanza di questa incompatibilità tra il dono e lo scambio, o del fatto che un dono scambiato è un semplice rapporto di prestito e di resa», né tantomeno si interroga «su l’essere-nello-stesso-tempo, la sintesi, la simmetria, o il sistema, il syn che connette insieme due processi così incompatibili di diritto quali sono quello del dono e quello dello scambio. [...] Mauss – insiste Derrida – non prova alcun imbarazzo a parlare di doni scambiati, pensa addirittura che vi sia dono solo nello scambio»  38. Perché questa sovrapposizione e da che cosa scaturisce la sincronizzazione di dono e contro-dono? Di dare e di prendere? Derrida mostra, innanzitutto, come «il grande filo conduttore del Saggio sul dono» sta nel fatto che «l’esigenza della restituzione “a termine”, a “scadenza” ritardata, l’esigenza della dif-ferenza circolatoria è inscritta, per coloro che 38  J. Derrida, Donner le temps, Galilée, Paris 1991; tr. it. Donare il tempo. La moneta falsa, tr. di G. Berto, prem. di P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 39-42.

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partecipano all’esperienza del dono e del contro-dono, nella cosa stessa che si dona o che si scambia»  39. Ma questo non significa «cercare mezzodì alle quattordici», metafora tratta da La moneta falsa di Baudelaire, cui più volte Derrida fa riferimento nel corso delle sue analisi, non significa sostenere «l’impossibile simultaneità di due tempi [...] che non possono essere dati (donnés) nello stesso tempo?»  40. Forse che la stretta relazione semantica che nella lingua tedesca corre tra il verbo geben (dare) e il sostantivo Gabe (dono) possa aiutarci a districare l’impossibile? E che dire delle riflessioni condotte da Benveniste nel capitolo quinto del Vocabolario delle istituzioni indoeuropee dedicato a «dono e scambio»? Che cosa scaturisce dalla sua indagine e che cosa viene messo in discussione? Il fatto che la radice *do¯  significa “dare” nell’insieme delle lingue indoeuropee. Tuttavia, a turbarne singolarmente la definizione, interviene una lingua: in ittita, da¯   - significa “prendere” e pai- “dare”. [...] Bisogna proprio constatare – ribadisce il linguista – nell’itt. da¯   - “prendere” un’inversione del senso di “dare”. Per spiegarlo si invoca parallelamente la forma ¯a   -da¯   - “prendere” del sanscrito. Ma questo preverbo ¯a   - è essenziale; indica il movimento verso il soggetto; con questo preverbo e le desinenze medie, il passaggio al senso di “ricevere”, “prendere”, si spiega all’interno del sanscrito stesso. Il sanscrito non aiuta quindi direttamente a interpretare il senso da¯   - in ittita. Per spiegarlo, supporremo che si sia prodotto nelle lingue antiche, ma in direzioni opposte, uno slittamento paragonabile a quello che si è attuato in inglese con “pren-

39  Ivi, 40  Ivi,

p. 43. p. 37.

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dere” nell’espressione di to take to, “prendere (per dare)”. Questo accostamento può aiutare a ritrovare il legame tra questi opposti sensi. L’ittita e le altre lingue indoeuropee hanno specializzato diversamente il verbo *do¯ -, che, di per se stesso, si prestava all’uno o all’altro senso, secondo la costruzione sintattica. Mentre l’ittita da¯   - si è fissato per “prendere”, le altre lingue costruiscono do ¯  con l’idea della destinazione, il che porta a “dare”.  41

Ora, proprio rifacendosi a questa ricostruzione etimologica, Derrida perviene dapprima a una conclusione che non si può non condividere: il dono si configura come tale se mette in scacco l’economia, se davvero è “anaeconomico”; al contrario: Se l’altro mi rende o mi deve, o mi deve rendere ciò che gli dono, non ci sarà stato dono. [...] Diciamo dunque che, senza dubbio, se il donatario restituisce la stessa cosa, per esempio un invito a pranzo, [...] il dono è annullato. Esso si annulla ogni volta che c’è restituzione o contro-dono.  42

Poi rifacendosi alla coscienza intenzionale del soggetto, Derrida mostra come sul dono l’ego non può nulla poiché nel momento stesso in cui facesse proprio tale correlato noematico lo oggettiverebbe e, tematizzandolo, lo annullerebbe come dono essendo irriducibile al suo fenomeno: «Al limite, scrive Derrida, il dono come dono dovrebbe non apparire come dono: né al donatario, né al donatore».  43 41  É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes. I. Économie, paranté, societé, Édition de Minuit, Paris 1969; tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. I. Economia, parentela, società, a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976 e 2001, pp. 59-60 (c.vo nostro). 42  J. Derrida, Donare il tempo, cit., pp. 14-15. 43  Ivi, p. 16.

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E fin qui ciò che viene messo in discussione è il potere di ritenzione e protenzione della coscienza tipica di un ego trascendentale. Tuttavia, poco più avanti, il filosofo, a partire da ciò che chiama un’economia dell’inconscio arriva a proporre, perché vi sia dono, l’oblio assoluto del medesimo che è altra cosa dalla rimozione. Infatti, essa non distrugge né annulla niente, essa conserva mediante spostamento. [...] E conservando il senso del dono, la rimozione lo annulla nel riconoscimento simbolico: per quanto inconscio sia, esso è efficace e si verifica meglio che mai nei suoi effetti o nei sintomi che offre.  44

Si comprende, sin da subito, l’aporia cui giunge Derrida: perché vi sia dono occorre ammetterne l’oblio;  45 ma siamo proprio sicuri che l’impossibile darsi del dono ne determini il suo confinamento in un tempo senza tempo? 4.2. Dall’ ego a-temporale di Husserl all’«io sono» di Heidegger Perché si possa intendere fino in fondo la doppia mossa di Derrida, occorre problematizzare qual è il limite della ragione a-temporale di una filosofia trascendentale, la quale, non dimentichiamolo, trova il suo fundamentum inconcussum nella correlazione a-priori ossia nel fatto che siamo-già-sempre-in-re44  Ivi,

pp. 18-19. a precisare che l’intendimento della nozione di oblio che risulta dalla lettura di Derrida, non ha nulla a che fare con l’oblio quale è descritto, come vedremo più avanti, da Maurice Blanchot. 45  Teniamo

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lazione. Fondamento che conduce Husserl a postulare in questo a-priori il presupposto originario di ogni conoscenza. Forse che il suo limite risiede nel fatto che «questa correlazione, la quale grazie a uno sguardo attento e senza riserve è sempre già avvenuta e sempre avviene di nuovo – spiega Casper – è intesa da Husserl come qualcosa che si verifica in modo ovvio e puramente nella coscienza dell’uomo»? E ciò «avviene grazie all’eidénai, al sapere che vede, a cui, secondo il primo principio della Metafisica di Aristotele, è per natura orientata l’intenzionalità dell’uomo.  46 L’interrogarsi sulla realtà del tempo, interrogarsi che è guidato dall’intenzionalità dell’eidenai, porta quindi necessariamente Husserl a una “fenomenologia della coscienza interna del tempo”.  47 Nella coscienza, tutto ciò che deve essere conosciuto, e in definitiva anche il soggetto conoscente, deve divenire visibile e trasparente a se stesso».  48 Ci sembra, a questo punto, di grande rilievo il passo in più compiuto da Heidegger, per andare oltre una ragione a-temporale, passo che è consistito nell’intendimento del Dasein nella sua fatticità storica. Cruciale, in tal senso, è quanto scrive Heidegger nell’Appendice 1 al corso friburghese del semestre invernale 1921-22, pubblicato nella Gesamtausgabe (Band 61) con il titolo di Phänomenologische Inter46  Aristotele,

Metafisica 980a21. testo deriva da una lezione tenuta da Husserl nel semestre invernale 1904-05 e pubblicato nel 1928 da Martin Heidegger con la collaborazione di Edith Stein nel Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, II ed., Niemeyer, Tübingen 1980; tr. it. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 1981. 48  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 386. 47  Il

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pretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, in cui osserva che la questione del senso d’essere del faktisches Leben può anche essere intesa come una domanda sul senso dell’«io sono» («nach dem Sinn des “ich bin”»), a patto di non spostare il fulcrum quaestionis «sull’“io” anziché sul “sono”, tanto più che questo senso dell’“io” resterebbe essenzialmente indeterminato. Nella tendenza di questa interrogazione è implicito proprio il volere portare alla comprensione ciò che la metafisica dell’Io e l’idealismo egologico in tutte le sue sfaccettature, a causa della loro stessa precognizione, non possono nemmeno fare emergere: la domanda sul senso del “sono” – non dell’Io come fonte e agente di una problematica della costituzione concepita specificamente in senso trascendental-relativo o idealistico-assoluto».  49 Ed è proprio di contro alla mancata problematizzazione del sum, nell’ego sum di Cartesio, con il conseguente appiattimento del sum dell’ego nell’oggetto in un processo di reificazione che ne occulta la fatticità storica – la coscienza è ridotta a substantia, garantita nell’indubitabilità della sua auto-evidenza e priva di qualsivoglia tratto storico – che Heidegger aggiunge: «Detto in parole povere: nello specifico carattere d’essere dell’“io sono”, ciò che è decisivo è il “sono” e non

49  M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, GA 61, a cura di W. Bröcker e K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a.M. 1985, 1994 (ed. riv.); tr. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, tr. di M. De Carolis, Guida, Napoli 1990, pp. 203-204.

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l’“io”. Questa impostazione è qui dunque un’indicazione formale nel senso di una problematica radicalmente diversa: portare a esibizione la vita. Del resto, che non si tratti di nessuna di queste altre forme di interrogazione lo si dovrebbe arguire già da quanto è stato dettagliatamente esposto in precedenza, cioè che la vita è proprio in quanto fattizia, che essa vive nel suo mondo e incontra se stessa in quanto mondo. [...] L’indicazione formale dell’«io sono», che ha un ruolo conduttore per la problematica del senso d’essere della vita, diviene efficace metodologicamente nella misura in cui è portata alla sua propria genuina attuazione fattizia, ovvero in quanto si attua nell’evidenziabile carattere di problematicità (“inquietudine”) della vita fattizia come concreta interrogazione storica: “sono (io)?”, in cui il termine “io” va preso esclusivamente nel senso del rimando alla mia concreta vita fattizia nel suo mondo concreto, nella sua possibilità di situazione e condizione storica».  50

Ciò che qui è in gioco è la differenza tra l’accesso all’essere dell’ego cogito cogitatum e quella dell’«io sono» nella sua fatticità storica. Ma che cos’è che segna lo iato che si genera tra questi due accessi e cosa determina la battuta d’arresto dell’ego monadico sul Dasein? Se il primo resta confinato sul piano di un ego trascendentale, questi non potrà che rimanere nella sfera a-temporale e asfittica dell’essere ove, tutt’al più, come mostra Husserl nella quinta meditazione cartesiana, nel distinguere tra Körper e Leib, ci si trova dinnanzi all’ingresso dell’altro nella sfera primordinale dell’ego, altro che non posso ridurre a me, ma che posso cogliere attraverso una specie di appresenta-

50  Ivi,

pp. 204-205 (c.vo nostro).

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zione, «un rendere consapevole e nello stesso tempo presente», che va sotto il nome di una trasposizione appercettiva proveniente dal mio corpo. Come dire: si dà un’analogia, una somiglianza interna alla mia sfera di primordinalità tra quel corpo e il mio. L’altro corpo si costituisce attraverso questa analogia, che diviene poi appaiamento tra l’ego e l’alter ego: è un appaiamento originario,  51 che mi fa dire che posso percepire l’altro, a partire dal mio “qui”, solo nel modo del «là»  52 – ma restando pur sempre nell’ambito di un’intersoggettività monadologica. Di contro la seconda modalità di accesso all’essere riguarda l’«io sono» in quanto è temporale e dunque mortale: «Solo in quanto esserci per la morte (Dasein zum Tode) – come sottolinea Casper – (questi) ottiene accesso all’intentum della sua intentio, all’“essere”, con il quale si trova però in relazione fondamentale. Il suo “stesso essere”, di cui gliene va nel suo stesso “essere”, e che compare solo nell’esserci con un altro esserci  53, gli si manifesta

51  E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, a cura di S. Strasser, Nijhoff, The Haag 1950 (1963, 1973); tr. it. Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, p. 124. Chiarisce Husserl: «L’appaiamento, ossia il presentarsi configurato come un paio e successivamente come gruppo e moltitudine, è un fenomeno universale della sfera trascendentale (e parallelamente della sfera psicologico-intenzionale). Aggiungiamo subito che per quanto un appaiamento è attuale, per tanto si estende quel genere mirabile di donazione originaria di apprensione analogica, donazione che rimane sempre viva ed attuale; e noi abbiamo rilevato quest’apprensione come la proprietà prima ed originaria della esperienza dell’estraneità». 52  Cfr. Ivi, p. 129-130. 53  Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, GA 2, a cura di F.-W.

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nel paradosso della temporalità stessa, la quale da un lato significa che l’esserci può realizzarsi in quanto “esserci per la morte” solo grazie al rinvio, alla proroga della sua morte, ma dall’altro significa che in ciò glie ne va proprio dell’“essere”».  54

Ed è proprio insistendo sul senso d’essere della vita fattizia che Heidegger afferma come esso si dia «sempre nella sua fatticità [...], e poiché solo e innanzitutto in questo modo prende forma l’accesso all’oggetto della filosofia e con esso quindi anche quest’oggetto stesso, in tutto ciò diviene chiaro che quest’oggetto stesso (la vita fattizia) è, in un modo assolutamente proprio, nel carattere della sua temporalità»  55.

von Hermann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977 (tr. it. Essere e tempo, tr. di A. Marini, testo tedesco a fronte, Mondadori, Milano 2006), par. 26. dove Heidegger intende l’esserci (Da-sein) senz’altro come esserci-con (Mitdasein). È proprio per questo che gliene va dell’autentico essere-se-stesso dell’esserci. Cfr. ad esempio Einleitung in die Philosophie (Lezioni friburghesi, semestre invernale 1928-29), GA 27, a cura di O. Saame e I. Saame-Speidel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1996, 2001 (II ed. riv.); tr. it. Avviamento alla filosofia, a cura di M. Borghi, Marinotti, Milano 2007, p. 286 (tr. variata): «L’esserci deve poter essere essenzialmente se stesso [...] affinché possa farsi sorreggere e guidare da un altro, se deve potersi aprire all’esserci-con (Mitdasein) degli altri, se deve impegnarsi per altri». 54  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 386. 55  M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 207.

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Capitolo secondo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Quando il tempo non è una moneta falsa

Ora la questione della temporalità ci pare strettamente connessa a quella del dono: con Derrida conveniamo sul fatto che il dono non possa essere ridotto a scambio, mercificato o degradato ad oggetto, ma versus Derrida e con Levinas, che in tal modo va anche oltre Heidegger stesso, riteniamo che non si possa confinare il dono nell’oblio riducendolo a «una certa esperienza della traccia come cenere»  1 e appiattendo l’atto stesso del donare sullo scrivere: non c’è dono senza racconto, non c’è paradosso del tempo donato senza quella distruzione del tempo che è il temporeggiamento del raccontare; non c’è evento senza racconto. 1. La ragione che parla Se si vuole osare affermare qualcosa sul donare tempo, in quanto trascrizione della gratuità nell’ambito dell’ermeneutica della fatticità storica, si deve uscire sì dalla logica dello scambio, ma per andare al di là dell’aporia del doppio legame, ossia si deve cogliere il non legame non tanto nell’andare in fumo del dono dove l’evento è subordinato al racconto,

1  J.

Derrida, Donare il tempo, cit., Milano 1996, p. 19.

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bensì, con Levinas, abbandonare il piano del detto o del racconto per passare al Dire. Detto altrimenti: dall’oblio dell’oblio che comporta una desoggettivazione dell’«io sono», che peraltro sembra agire senza prendere sul serio colui che gli è di fronte, si deve passare a disdire il detto. Di qui la seconda aporia di Derrida: se per un verso, infatti, il dono si annullerebbe nel momento stesso in cui si dà – per l’altro, il fatto stesso di raccontarlo ne tradirebbe l’inevitabile inconsistenza ossia lo renderebbe passibile di tematizzazione.  2 Qual è il passo in avanti che compie il filosofo ebreo lituano per ovviare al rischio – sempre possibile – dell’oggettivazione del dono? A nostro avviso occorre sostare sull’intendimento della temporalità che man mano si dipana nel corso del suo pensiero, già a partire dagli scritti inediti 2  Cfr. E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982;

II ed. riv. e aum., con una nuova Préface, ivi 1986; Lgf, Paris

1995; tr. it. Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, tr. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983, p. 83, nota 3 (c.vo nostro). Sull’immanenza della filosofia, sul movimento inglobante dell’io penso e sulla stessa nozione di esperienza argomenta Levinas: «La presenza – essere – si dà solo come tematizzazione o raccoglimento del transitorio e, perciò, come fenomeno che è l’esibizione tematica stessa. Non tutta la significazione risale all’esperienza, si risolve in manifestazione. La struttura formale della significazione: l’uno-per-l’altro, non riguarda immediatamente il rivelarsi. [...] L’avventura della conoscenza caratteristica dell’essere, immediatamente ontologica, non è il solo modo né il modo preliminare dell’intelligibilità o del senso. Occorre mettere in questione l’esperienza come sorgente di senso. Ma è possibile mostrare che il senso in quanto sapere ha la sua motivazione in un senso che, all’origine, non ha nulla del sapere. [...] Da cui l’idea di una dia-cronia della verità in cui il detto deve essere disdetto e il disdetto ancora disdetto».

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per poi arrivare alle opere della maturità. Se, per un verso, Levinas riconosce ad Heidegger la grande intuizione della differenza ontologica ovvero della differenza che corre tra Sein e Seiendes, tra essere ed essente (termine, quest’ultimo, che Levinas tradurrà con esistente)  3 e insieme l’intuizione che riguarda la storicità dell’esserci; per l’altro va al di là introducendo il termine diacronia nella filosofia del Novecento, termine fino a quel momento appartenente al solo vocabolario della linguistica.  4 Che cosa significa meditare sulla diacronia – che è enigma, mistero, frattempo, anacronismo, ecc – e che fa leva innanzitutto sull’insegnamento orale, sulla parola (che) è la finestra attraverso la quale il pensiero si sporge al di fuori»  5 se non fare segno a «una ragione che parla, esce dal suo splendido isolamento, tradisce la sua superba indifferenza, abdica alla sua

3  Cfr. Id., Le Temps et l’Autre, in J. Wahl et al., Le Choix, Le Monde, L’Existence (Cahiers du Collège Philosophique), B. Arthaud, Paris-Grenoble 1947, pp. 125-196; II ed. immutata con una nuova Préface, Fata Morgana, Montpellier 1979; III ed. conforme alla II, Puf, Paris 1983, 1991; tr. it. Il Tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, il melangolo, Genova 1993. Scrive Levinas: «Questa distinzione, posta fin dall’inizio di Sein und Zeit, permette di eliminare certi equivoci sorti nel corso della storia della filosofia, allorché si partiva dall’esistenza per arrivare all’esistente che possiede l’esistenza nella sua pienezza, cioè Dio. Questa distinzione heideggeriana è per me la cosa più profonda di Sein und Zeit. Ma in Heidegger, c’è distinzione, non c’è separazione. L’esistere è sempre colto all’interno dell’esistente, e per l’esistente che è l’uomo, il termine heideggeriano di Jemeinigkeit esprime proprio il fatto che l’esistere è sempre posseduto da qualcuno» (ivi, p. 21, c.vo nostro). 4  Su questo punto, cfr. supra, pp. 20-21, nota 6. 5  E. Levinas, Œuvres 2, p. 65.

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nobiltà»?  6 Che cosa contempla l’accadimento stesso del parlare se non il darsi di quel «lasso di tempo»  7 – tempo che scorre trasversalmente, tempo non sincronizzabile – in cui il Moi sperimenta «il non-luogo» della soggettività  8 che è Dire, che è diacronia? E an-

6  Ivi,

p. 61 (c.vo nostro). Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 66. Si veda anche, ivi, p. 13 ove si parla della diacronia come «lasso di tempo senza ritorno», «profondo passato», «passato più antico di ogni origine rappresentabile, passato pre-originale e anarchico». 8  Ivi, p. 12. Ci pare importante far notare la diversa accezione di “non-luogo” se confrontata con quella impiegata dall’antropologo Augé: non-luogo della soggettività, da un lato, non-luogo empirico dall’altro. Nel nostro caso l’espressione in oggetto sta ad indicare l’esodo del soggetto dall’il y a o dal «troppo pieno dell’essere» ed è quindi da intendersi, lo ribadiamo: nell’ambito di una fenomenologia della fatticità storica, nei termini di un vero e proprio scollamento da sé del soggetto che pone fine all’imperialismo del medesimo, il quale attraverso il suo ingresso nell’esistenza, che è sforzo, lassitudine e insieme liberazione, constaterà a partire dalla sua stessa passività dinanzi ai dati delle sensazioni e nella situazione semel-paradisiaca della jouissance, il fatto incontrovertibile di dipendere da un fuori. Riscontrerà cioè la sua stessa «bisognosità» di altro (dall’aria che respira al cibo che si procura all’acqua che lo disseta) ovvero il configurarsi dell’ipostasi come coscienza bouleversé, che, passando attraverso la negazione dell’elementale – un ateismo che rinnega i falsi dèi per incamminarsi verso l’ad-dio: di qui la temporalizzazione del sé come procrastinazione della morte – perverrà a una «bisognosità», per così dire, di secondo grado. «Bisognosità», che a differenza della prima tipologia che potremmo chiamare del «nutrirsi di», non si esaurisce nel superamento dell’intervallo come avviene nel binomio bisogno-spazio, ma si esplica nel bisogno dell’Altro fondato sul binomio eros-tempo ovvero sull’irriducibile dualità che si dà tra me e l’Altro, Altro che potrò mai ridurre a me, Altro non tematizzabile e insieme irraggiungibile (cfr. E. Levinas, Œuvres 1, pp. 120 ss.). Altro di cui sono responsabile se davvero voglio iniziare-qualcosa-con-me-stesso e, dunque, prendere sul 7  E.

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cora, non è proprio a partire da questo «vedersi dal di fuori»,  9 da questa rottura con la propria identità che si coglie lo scarto tra l’ontologia e l’al di là? Uno sradicamento dall’essenza che significa la soggettività o l’umanità, il se stesso che respinge le annessioni dell’essenza. Io unicità, al di fuori di ogni pa-

serio il tempo. Di qui l’accadimento del darsi del non-luogo del soggetto: conditio sine qua non dell’eclissi del dominio del Moi. Apertura verso colui che mi convoca e mi invoca, incontro con l’Altro che similmente al femminile è depositario di un mistero che è l’avvenire e verso il quale ci si incammina sperando-l’uno-per-l’altro-per-il-presente. Paradossalmente – ma questo meriterebbe uno studio a sé – ciò che per Levinas è il preambolo della socialità, in chiave antropologica rappresenta l’inizio della fine della relazione. Come è noto Augé intende per non-lieux sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade rotatorie, aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, gli outlet ma anche il mondo del virtuale. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, senza parlarsi né ascoltarsi non incrociando neppure lo sguardo. E, a ragione, Augé fa notare come, poste queste condizioni il passaggio dal non-luogo al non-tempo sia inevitabile. Il soggetto finisce per abitare un eterno presente, sospinto com’è tra finzione e realtà sotto il cielo totalitario della cosmotecnologia. Si potrebbe aggiungere che il non-luogo fenomenologico di Levinas costituisca, per così dire, l’accezione autentica o positiva di tale nozione – via verso l’Altro – di cui il non-luogo antropologico rappresenta il carattere inautentico: nel primo caso l’in-vista-di-cui-finale è la relazione e l’orizzonte si schiude sull’avvenire o sul futuro, nel secondo la solitudine dei non-lieux fagocita e fa venir meno la relazione lasciando spazio all’indifferenza. Come dire: l’accadimento del non-luogo della soggettività che si temporalizza nel suo-andareverso-l’Altro costituirebbe il primo antidoto per contrastare ciò potremmo chiamare il cattivo non-luogo ovvero il venire meno del simbolico in quanto negazione stessa della prossimità. 9  Œuvres 1, p. 262.

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ragone perché al di fuori della comunanza del genere e della forma, che non trova riposo neppure in sé, in-quieto, che non coincide con sé. Unicità il cui fuori da sé, la differenza in rapporto a sé, è la non-indifferenza stessa [...] Unicità senza luogo, senza l’identità ideale che un essere trae dal kérygma che identifica gli innumerevoli aspetti della sua manifestazione, senza l’identità dell’io coincidente con sé – unicità che si ritrae dall’essenza – uomo.  10

Forse che Levinas abbia cercato di interpretare il celeberrimo passo aristotelico che parla di pollachôs léghetai  11, il fatto che l’essere si dica in più modi, nel tentativo di rendere accessibile da un punto di vista fenomenologico il modo più importante ed estremo di parlare dell’“essere”?  12 Ora, posto che l’altrimenti che essere  13 non è né una modalità onto10  E.

Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 12. Metafisica IV 2, 1003a33. 12  Cfr. B. Casper, Rosenzweig e Heidegger, cit., p. 8. Riteniamo sia significativo sottolineare in che termini la nozione di “essere” deve radicalmente essere ripensata nella sua temporalizzazione. Facciamo nostro quanto Fabris scrive nella prefazione a Rosenzweig e Heidegger per chiarire come è da intendersi la nozione di temporalità nel pensiero di Casper: «“tempo” qui va inteso come un vero e proprio temporalizzarsi, come un’esperienza di maturazione. A comprendere il legame di essere e tempo aiuta, come mostra lo stesso Casper, il riferimento alla concezione ebraica dell’essere, espressa dal verbo hajah. E dunque contro una concezione astorica largamente dominante la tradizione occidentale, il termine “essere” deve venire sempre pensato in maniera verbale: come ciò che accade storicamente, che si fa nel suo rivelarsi e che, appunto, risulta “vero”. Essere, insomma, risulta propriamente evento, accadimento» (ivi, pp. 8-9). 13  Cfr. E. Levinas, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991; Lgf, Paris 1993, tr. it. Tra noi. Saggio sul pensare all’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, p. 28. Scrive l’Autore: «Nell’economia generale dell’es11  Cfr. Aristotele,

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logica dell’essere né il non-essere, contrapponendo alla comprensione astorica e a-temporale dell’essere la signifiance di quello che è stato detto «diventando realmente parola» e di cui si parla per la salvezza dell’uomo nella sua libertà che si realizza nell’uno con l’Altro, Levinas, che più volte fa suo l’epékeina tês ousías di Platone (Repubblica 509b), non introduce forse una differenza che va oltre quella di Heidegger, trattandosi della differenza che corre tra essere e al di là dell’essere, tra sincronia e diacronia, tra Dire e detto: differenza dell’al di là o Bene  14 che non è invidioso poiché il Bene è al di sopra dell’essere? Di già sere e della sua tensione su di sé, una preoccupazione dell’altro fino al sacrificio, fino alla possibilità di morire per lui; una responsabilità per altri. Altrimenti che essere! L’evento etico è questa rottura dell’indifferenza – dell’indifferenza anche se fosse statisticamente dominante – , la possibilità dell’uno-per-l’altro. Nell’esistenza umana che interrompe e supera il suo sforzo d’essere – il suo conatus essendi spinoziano – la vocazione di un esisere-per-altri più forte della minaccia della morte». 14  Cfr. Id., Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972, 1978; Lgf, Paris 1987, tr. it. Umanesimo dell’altro uomo, intr. e tr. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1998, pp. 120 ss. Spiega Levinas: «Essere dominato dal Bene non vuol dire scegliere il Bene movendo da una condizione di neutralità e avendo dinanzi la bipolarità assiologica. Il concetto di tale bipolarità si riferisce già alla libertà, all’assoluto del presente [...] Essere dominato dal Bene, è appunto escludersi dalla possibilità della scelta, dalla coesistenza nel presente. L’impossibilità della scelta, qui, non è effetto della violenza – fatalità o determinismo – ma dell’elezione irrecusabile da parte del Bene, che, per l’eletto, è sempre sin d’ora come già avvenuta. [...] la passività, inconvertibile in presente, non è semplicemente effetto di un Bene, che sarebbe così ricostruito a titolo di causa di tale effetto; proprio in questa passività è il Bene, esso che, propriamente parlando, non ha bisogno di essere e non è, se non per bontà» (c.vo nostro, tranne effetto, essere, è).

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«intrigo di responsabilità. Ordine più grave dell’essere e anteriore all’essere?».  15 Ordine in cui il linguaggio non è relegato a un’affermazione senza tempo, sempre tematizzabile e sempre riducibile dalla noesi in noema, bensì accade in quanto Dire nell’intervallo temporale della diacronia versus il tempo sincronico dell’onto-teologia che scorre indifferente. La doppia aporia di Derrida non dipende forse da questa sudditanza al tempo degli orologi e insieme dal suo tentativo di negarla, che è già un modo per affermarla, quando egli sostiene che «affinché ci sia evento (non diciamo atto) di dono, è necessario che qualcosa accada, in un istante» – e fin qui nulla da eccepire – sennonché poi Derrida colloca questo istante «in un tempo senza tempo, in modo tale che l’oblio dimentichi, si dimentichi, ma che questo oblio, senza essere qualcosa di presente, di presentabile, di determinabile di sensato o di significante, non sia affatto un niente»?  16 Donare tempo è solo una moneta falsa o è invece, nell’essere-assegnato-a-me-stesso, che è un dono di cui devo essere grato e per il quale sono già da sempre in debito, la trascrizione nell’«io sono» di carne e di sangue del «faremo e poi udremo»? Ossia la rottura della sfera totalitaria del sé, la sua stessa messa in questione, l’irruzione dell’inquietudine che fa eco a quel «profondo allora – “ ‘allora’ non ancora abbastanza – mai coglibile – ma “un allora” insegnato»?  17

15  Id.,

Altrimenti che essere, cit., p. 8. Derrida, Donare il tempo, cit., p. 19. 17  Cfr. E. Levinas, Œuvres 2, p. 173. 16  J.

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Scrive Casper: In ogni parlare umano, in quanto parlare  18 umano, avviene, secondo Levinas, una risposta in senso diacronico, cioè in un senso che rompe quello che è soltanto il proprio tempo, e in questo modo lo trascende; è una risposta in cui l’uomo rende onore per se stesso alla “gloire de l’Infini”.  19 Ogni “discours” veramente umano si dimostra pertanto, già per il fatto stesso di accadere di fronte all’altro a cui parlo, come richiesta e, rispetto alla “gloire de l’Infini” che entra in gioco, come preghiera.  20

18  Id.,

Tra noi, cit., pp. 35-36. Argomenta Levinas: «La persona con cui sono in rapporto la chiamo essere, ma chiamandola essere io mi rivolgo ad essa. Non penso soltanto che essa è, ma le parlo. Essa è associata a me in seno alla relazione che doveva soltanto rendermela presente. Io le ho parlato, cioè ho trascurato l’essere universale che essa incarna per attenermi all’essente particolare che essa è. [...] L’uomo è l’unico essere che io non posso incontrare senza esprimergli questo stesso incontro. L’incontro si distingue dalla conoscenza proprio per questo. In ogni atteggiamento nei confronti dell’umano c’è un saluto – anche se come rifiuto di salutare. [...] questa impossibilità di accostare altri senza parlargli significa che in questo caso il pensiero è inseparabile dall’espressione. [...] essa consiste, prima di ogni partecipazione ad un contenuto comune mediante la comprensione, nell’istituire la socialità per mezzo di una relazione irriducibile, di conseguenza, alla comprensione» (c.vo nostro tranne essere e associata). 19  Cfr. anche Id., Altrimenti che essere, cit., pp. 176-191. 20  Id., Tra noi, cit., p. 20. Per questa costituzione fondamentale della condition humaine in Rosenzweig e Ebner cfr. anche il già citato B. Casper, Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber (tr. it. Id., Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber). Per Ferdinand Ebner cfr. anche F. Ebner, Schriften, a cura di F. Seyr, Kösel, München 1963, p. 293: «wird alles Sein als Gabe. d.h. im letzten Grunde als Gnade begriffen» (tr. it. «Ogni essere vie-

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Nella temporalità di questo suo stesso accadere, propria di ogni discorso seriamente umano purché sia sempre

ne compreso come dono, cioè alla fine come Grazia»); ivi, p. 301: «Daß alles Sein Gnade ist...» (tr. it. «Che tutto l’essere è Grazia...»). Sul grande tema della preghiera, che merita uno studio ad hoc, ci limitiamo a rinviare all’illuminante volume di B. Casper, Das Ereignis des Betens, cit.; tr. it. Evento e preghiera, cit. Dà a riflettere quanto scrive il filosofo di Friburgo allorché afferma «che l’essenza di ogni accadimento linguistico originario consista nell’esser preghiera (Gebet). [...] Ora, però, si può intendere la domanda come relativa a qualcosa di determinato e già presente. Ma l’originario accadimento del linguaggio comporta sempre una domanda, in un senso molto più fondamentale: la domanda, cioè, di essere ascoltati dall’Altro in quanto lui stesso. In questo senso – continua Casper – ogni parlare è sempre già costituito da una domanda, nella quale riconosco che ho bisogno dell’Altro in quanto altro per poter parlare in generale. Nel riconoscere questo vado oltre me stesso verso ciò che è in prima battuta un patire, ma che contemporaneamente è uno sperare. È così che mi temporalizzo nel parlare. L’“andaroltre-me-stesso”, che accade in ogni parlare in quanto colloquio con l’Altro, ha esso stesso un senso di temporalizzazione. In ciò non soltanto riconosco che ho bisogno dell’altro uomo in quanto Altro, ma prendo anche sul serio il tempo come tempo che accade tra l’Altro e me, come storia che accade tra gli uomini» (Id., Evento e preghiera, cit., p. 51 (c.vo nostro, tranne sempre e sperare). In definitiva, chiarisce più avanti Casper: «la preghiera si mostra come l’accadimento che, volendo utilizzare il linguaggio kantiano, potremmo chiamare l’accadimento estremo della “ragione pura pratica”» (ivi, p. 133). Inoltre, ci pare di grande importanza che, nella seconda edizione sopra citata, il filosofo di Freiburg si soffermi nella conclusione (Id., Das Ereignis des Betens, cit., pp. 153-157) sull’importanza degli scritti inediti di Levinas, in particolare, sui Carnets de captivité, dai quali emerge in tutta la sua pregnanza la storicità diacronica dell’esserci umano che ha come cifra l’accadimento diacronico della realtà che eviene a partire dall’«intenzionalità propria del linguaggio (che) è etica [...] Il linguaggio è una responsabilità» (cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 351, c.vo nostro).

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un discorso di fronte all’altro che “è come Te”, e cioè libertà fine a se stessa e che sa di se stessa, sta già però l’intenzionalità di un sentirsi obbligati. In definitiva ogni discorso umano, qualunque contenuto abbia, nell’ermeneutica della sua fatticità è un atto etico. Tale discorso si verifica nell’avere bisogno di colui che sta “fuori” e non è disponibile; verso di esso, chi parla si sente obbligato, e rispetto ad esso spera di poter essere salvo. Tale discorso ha in sé un carattere latreutico».  21

«Carattere lautreutico» da intendere nel senso di latréuein, servire in qualità di servo del Signore (cfr. Is 42, 1 ss.). 2. Creaturalità vs gettatezza Se, pertanto, «essere io – è essere creato ed eletto. L’io sovrano si scopre come creato e come eletto. [...] la sua elezione è la sua creazione»,  22 di contro alla Geworfenheit  23 (gettatezza) heideggeriana o al-

21  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 388. 22  Cfr.

E. Levinas, Œuvres 2, p. 172 questo, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., par. 29. Si tratta della di una nozione attraverso la quale il filosofo tedesco indica il fatto di essere gettato e di dibattersi in mezzo alle proprie possibilità e di esservi abbandonato. Su questo punto, si veda la critica di Levinas in Id., Il Tempo e l’Altro, cit., p. 21. Così argomenta il filosofo: «C’è una nozione – quella di Geworfenheit – “espressione di un certo Heidegger” – secondo Jankélévitch – che viene tradotta abitualmente con derelizione o abbandono. Si insiste così su una conseguenza della Geworfenheit. Bisogna tradurre Geworfenheit con il “fatto-d’esse-gettatodentro”... l’esistenza. Come se l’esistente non potesse apparire se non entro un’esistenza che lo precede, come se l’esistenza fosse indipendente dall’esistente e l’esistente che vi si trova get23  Su

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l’essere imbarcati in questa esistenza di cui par-

tato non potesse mai divenire padrone dell’esistenza. È proprio per questo che c’è derelizione e abbandono. Così si fa strada l’idea di un esistere che si fa senza di noi, senza soggetto, di un esistere senza esistente». Come è noto Levinas si rifà all’il y a, al c’è anonimo come “piove” o “fa caldo” contesto dal quale si darà l’ipostasi, che è «l’evento mediante il quale l’esistente acquisisce il suo essere» (ivi, p. 20) . Altrettanto fondamentali ci paiono le riflessioni che Levinas compie in Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; II ed. aum. ivi 1967, 1994; tr. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998 ove, se per un verso Levinas insiste sul darsi di una temporalità del Dasein che si fonda sulle tre estasi che costituiscono la Cura – Geworfenheit, Ent-wurf e Ver-fallen (deiezione), ossia essere-avantia-sé essendo-già-sempre-nel-mondo e presso-le-cose, mettendo capo all’intendimento dell’esistenza come trascendenza ove «“la temporalizzazione” del tempo è l’evento della comprensione dell’essere» (ivi, p. 65) e non esitando ad affermare come «l’apporto principale del pensiero heideggeriano» si debba individuare nel fatto che «il mio qui, il mio Da, sia l’evento stesso della rivelazione dell’essere» (ivi, p. 67) – per l’altro il filosofo ebreo lituano mostra come il compimento stesso di questa trascendenza che attiene al Dasein, il quale, nel progettare la sua esistenza la comprende, si dà a partire dall’ineludibilità del fatto che si tratta di un’esistenza gettata nell’esistenza: «Geworfenheit ed Entwurf non sono due momenti successivi o due modi distinti dell’esistenza, (poiché) caratterizzano entrambi l’assunzione dell’esistenza. Il progetto è sempre progetto di un essere gettato nell’esistenza, è un geworfener Entwurf ». E ancora: «L’apertura del Dasein su un mondo è costituita dall’“in vista di” caratterizzato come Geworfenheit. Nel suo modo d’esistenza più autentico, il Dasein esiste solo in vista di se stesso, è in un certo senso raccolto ed esclude dalla comprensione avente cura della sua esistenza tutto ciò che non è la sua esistenza. Ma tale esclusione disperata è possibile solo perché il Dasein è già sempre stato nel mondo» (ivi, p. 95). Da ciò ne viene che «la filosofia di Heidegger è dunque un tentativo di porre la persona come luogo in cui avviene la comprensione dell’essere, rinun-

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la Sartre,  24 qui ci troviamo dinanzi alla gioia della creazione che è un dono di cui essere grati, un dono che contiene il rigetto della mia indifferenza nei confronti dell’Altro che mi convoca e mi invoca, un

ciando completamente ad appoggiarsi sull’Eterno. Nella temporalità originaria, o nell’essere-per-la-morte, condizione di ogni essere, essa scopre il nulla su cui poggia, il che significa anche che essa non poggia su nient’altro che su se stessa » (ivi, p. 102, c.vo nostro). Più avanti Levinas torna ancora sulla derelizione quasi fosse un filo rosso attraverso il quale rinviare a ciò che il Dasein non potrà mai assumere allorché scrive: «L’esistenza, impotente rispetto all’origine, viene assunta nella comprensione della morte. [...] il potere dell’esistenza non consiste nel liberarsi della propria impotenza sull’origine, risalendo, attraverso un atto di reminiscenza, al di qua di quest’origine, è invece un potere nel finito stesso, è un poter finire. In Heidegger l’estasi dell’avvenire ha un primato sulle altre due. E quest’estasi è l’estasi di un essere finito; proprio mentre afferma il suo primato sulle altre due, Heidegger insiste sul fatto che le tre estasi sono comunque originarie allo stesso titolo, e cioè sul fatto che l’estasi dell’avvenire non riesce a superare il carattere finito della Geworfenheit, ma soltanto ad assumerlo attraverso il potere di morire» (ivi, p. 119, c.vo nostro). Cfr. anche: E. Levinas, Œuvres 2, pp. 79 ss. 24  Cfr. J.-P. Sartre, La nausée, Gallimard, Paris 1938; tr. it. La nausea, Einaudi, Torino 1990, p. 177. Scrive Sartre: «L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità (c.vo nostro). Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare come l’altra sera al “Ritrovo dei ferrovieri”: ecco la Nausea».

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dono che porta con sé la chiamata alla responsabilità che ci apre alla sofferenza liturgica per l’altro. Qui non si tratta tanto di ciò che non ho scelto né voluto, come se la Geworfenheit assumesse la parvenza di una condizione fatale, bensì, poiché l’«io sono» è creato, si tratta di un’elezione che trascende la mia libertà e che mi rende responsabile:  25 «Il Moi – non consiste nel fatto di essere ciò che non si è, ma essere al di fuori del potere e dell’impotenza = condizione della creatura».  26 Scrive Levinas: Sotto lo sguardo d’altri, la mia cattiva coscienza non è che orgoglio ferito, che teme di non potersi affermare abbastanza, che teme di non essere riconosciuta e di lasciarsi trattare come cosa sprovvista di libertà. [...] In questa vergogna di essere io, in questo bisogno di coprire la nudità della sua libertà, di coprirla per nasconderla e per rivestirla già di porpora che sostituisce l’investitura, si annuncia dunque un evento di giustificazione della libertà, un insediamento nell’essere che precede la libertà, una creazione, un’elezione. [...] La parola “precede” qui deve essere assunta in un senso estremamente forte: è indicato un passato assoluto, un passato di cui precisamente non può esserci ricordo, reminescenza, assunzio-

25  Cfr. E. Levinas, Œuvres 2, p. 233. Sul ribaltamento della libertà in responsabilità, scrive il filosofo: «Questa inversione è più radicale del peccato perché minaccia la volontà nella sua stessa struttura di volontà. [...] La coscienza appare allora come sempre refrattaria alla tirannia a cui la volontà rischia di soccombere e questo vuol dire come lasciandoci il tempo di fronteggiare la tirannia. La vera libertà umana è nel futuro della sua non-libertà, vale a dire nella coscienza, nella previsione della tirannia onnipotente , di conseguenza nella coscienza dell’inconsistenza della libertà, ma per questo nel tempo che ancora le resta. La coscienza è proprio avere tempo» (c.vo nostro). 26  Cfr. Id., Œuvres 1, p. 436 (c.vo nostro).

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ne, ripetizione come nel passato heideggeriano. Il modo in cui questo passato assoluto della mia elezione e della mia libertà può essere dato, lo chiamo – insegnamento.  27

Ma, si dirà, in che senso questo passato assoluto, che è tutt’altro che abbandono, mi è trasmesso dal maestro? Ora, non è questo il luogo per soffermarsi sul profondo legame che scaturisce dal rapporto maestro/allievo e sulle molteplici implicazioni che abbiamo analizzato in un lavoro dedicato  28. Basti qui un accenno sull’argomento, in particolare focalizzando l’attenzione sul rapporto tra temporalità e insegnamento, che verrà approfondito in un capitolo a se stante.  29 Resta, tuttavia, da sottolineare come la stretta connessione che si dà tra creaturalità-dialogicità e temporalità mostri – di contro alla desoggettivazione del soggetto in Derrida – che peraltro rimane nell’ambito di una struttura totalitaria e di contro al Dasein gettato di cui nell’essere, ne va del suo essere stesso – il darsi stesso di quella frattura temporale o diacronia ove fa irruzione l’alterità d’altri che non potrò mai ridurre a me. Quindi non si tratta solo e tanto dell’alterità di un alter ego, ma di quella di un «io sono» di carne e di sangue che mi chiede di non ucciderlo e di non lasciarlo solo. Siamo, pertanto, dinanzi ad un accadimento in cui l’elezione precede la libertà poiché questa si dà con la creazione. Creazione, che è insieme un dono e un imperativo: sta all’«iosono», sempre tentato poiché libero, decidersi-ad27  Cfr. 28  F.

Id., Œuvres 2, pp. 171-172 (c.vo nostro). Nodari, Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Mae-

stro, cit. 29  Cfr. infra, cap. IV, Temporalità e insegnamento, pp. 127 ss.

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iniziare-qualcosa-con-se-stesso o perdersi nel mero godimento del suo per sé. Spetta a ciascuno la scelta di ringraziare per il dono di esserci rendendosi a propria volta fecondi o di optare per un’esistenza che si ferma al «jouir de», cristallizzandosi nel proprio egoismo. Come dire: compete a ciascuno la scelta, in virtù dell’elezione della creazione, di temporalizzarsi cogliendo nella scintilla di quel «profondo allora» il paradigma della propria vita vissuta o semplicemente di restare confinato nel tempo sempre uguale degli orologi ove ogni istante segue quello successivo e la vita è solo una corsa. Si tratta, insomma, come scrive Franz Rosenzweig di avere ben chiara: La differenza tra pensiero vecchio e pensiero nuovo, tra pensiero logico e grammaticale, (che) non consiste nell’esprimersi a voce alta o a voce bassa, bensì nel bisogno dell’altro, o che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo; qui pensare significa non pensare per nessuno e non parlare a nessuno (e se a qualcuno suona meglio, al posto di nessuno si può anche mettere tutti, la famosa “collettività”), parlare invece significa parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e questo qualcuno è sempre ben preciso e non ha soltanto orecchie, come la collettività, ma ha anche una bocca.  30

Come dire: l’asimmetria che v’è tra me e l’Altro e la diacronia in cui si dà lo stare dell’in-stans mettono totalmente in scacco, non solo la logica dello scambio che si dà nella reciprocità, ma anche la stessa

30  F. Rosenzweig, Das neues Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung», a cura di R. e A. Mayer, Nijhoff, Den Haag 1984, pp. 139-161; tr. it. Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, comm. di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983, p. 58 (c.vo nostro).

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impossibilità del dono non più inteso in una logica economica o trascendentale, bensì temporale. Di una temporalità diacronica che chiama alla responsabilità nel mio farmi incontro all’altro e parlargli. Non a caso domanda Levinas: Bisogna forse chiamare creaturalità questo “al di qua” di cui l’essere non conserva la traccia, “al di qua” più antico dell’intrigo dell’egoismo annodato nel conatus dell’essere? Ritornare a sé non significa installarsi presso di sé, quand’anche il sé fosse privo di ogni attributo; significa, come un estraneo, essere inseguiti fino a casa propria, essere contestato nella propria identità e nella propria povertà stessa che, come una pelle, rinchiuderebbe ancora il sé, lo porrebbe così in un’anteriorità già raccolta su di sé, già sostanza: significa svuotarsi continuamente di sé, prosciogliersi come in un’emorragia d’emofiliaco, al di qua della propria unità nucleare – ancora identificabile e protetta – fino all’identità quasi formale di un qualcuno, ma sempre coram, messo in disordine in sé al punto di non avere più intenzioni, esponendosi al di là dell’atto dell’esporsi – parlando – e là, Uno indeclinabile, parlando, cioè esponendo la sua stessa esposizione. L’atto del parlare è la passività della passività. La passività alla quale si riconduce l’io nella prossimità è la sincerità o la veracità che lo scambio di informazioni – interpretazione e decodificazione di segni – suppone già. La prossimità o fraternità [...] non è forse, nella sua inquietudine, nel suo svolgersi e nella sua diacronia, migliore di ogni quiete, di ogni pienezza dell’istante fermato? Tutto è successivo (anche la verità), ma la diacronia non è soltanto la tristezza del fluire delle cose. La parola migliore e il Bene che enuncia fanno qui la loro irruzione rendendo forse, ogni nostro discorso sospetto di “ideologia”.  31

31  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 115-116 (c.vo nostro tranne qualcuno, coram e Uno).

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Il davanti a tutti (coram) del sé sfasato da sé conduce costui a dimenticarsi del proprio io per poi ritrovarsi nell’accadimento dell’attenzione che non può fare che da preludio a quell’incontro con l’Altro alla cui chiamata rispondo: «Eccomi!», in un movimento senza sosta che è la mia temporalizzazione incessante fino a che mi sarà data vita, in una sofferenza liturgica che procrastina la mia morte sperandoper-il-presente. Di qui un intendimento del presente che non va inteso nel senso della realtà oggettivante dalla parola latina res, che significa «cosa», bensì, grazie all’ausilio della lingua tedesca, come Wirklichkeit ove il verbo wirken significa «tessere, fare a maglia»: la nostra esistenza è inserita in quella trama o fatticità storica – che forma il mondo. E questa tessitura rinvia alla nostra temporalizzazione in un diuturno essere-sfidati nella nostra stessa precarietà di esseri mortali e finiti. Scrive Heschel: Essere uomini è una condizione del tutto precaria. [...] L’uomo è sordo interiormente, ma ha occhi acuti, avidi di vedere. La potenza che l’uomo scatena, superando quella che è la sua stessa potenza, finisce per abbagliarlo. La sua potenza è esplosiva, non conosce limiti, mentre “essere uomini” significa rispetto dei limiti. [...] La creazione non ha eliminato l’assurdo e il nulla. Ovunque è possibile incontrare le tenebre, e l’abisso dell’assurdità si apre sempre a un passo da noi. [...] L’uomo si trova sempre dinanzi alla scelta tra il dare ascolto a Dio o al serpente. È ben più facile invidiare la bestia, venerare un totem e lasciarsi dominare da esso piuttosto che stare in ascolto della Voce.

Eppure, continua Heschel, egli è più di quanto non rappresenti per se stesso. Nella sua ragione può essere limitato, nella sua volontà può essere corrotto, ma ha pur sempre un rapporto con Dio, un rap-

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porto che può tradire, ma non recidere, e che costituisce il significato essenziale della sua esistenza. L’uomo è il nodo in cui si intrecciano il cielo e la terra. Il fatto che l’uomo sia un problema per se stesso è la prova che qualcosa gli viene chiesto. L’unica via che gli resta per uscire dalla sua crisi è di riconoscere che deve perseguire un compito anziché un’infelicità fine a se stessa.  32

3. L’accadere dell’essere come ringraziare Ora, in questa sfida che chiama in causa il nostro deciderci-ad-iniziare-qualcosa-con-noi-stessi ci rendiamo conto, con tutto il nostro Dasein incarnato, che in virtù della creazione – ossia di quel rapporto con Dio dal quale originiamo e verso il quale tendiamo – sia l’essere che l’esserci non possono che venire «intesi in definitiva come dono (Gabe) e, nell’“io sono” effettivamente vissuto, come risposta ad una tale “donazione (Gebung)” infinita che è al di fuori di ogni potere».  33 32  A.J. Heschel, Who Is Man?, Standford University Press, Stanford Cal. 1965; tr. it. Chi è l’uomo?, tr. di L. Mortara e E. Mortara Di Veroli, con uno scritto di E. Zolla, SE, Milano 2005, pp. 117-119 (c.vo nostro). 33  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 388. – Per quanto concerne il termine Gebung, grati a Casper per questa preziosa indicazione, si deve tenere presente che già nel 1917 Hermann Cohen, nel suo articolo Einheit oder Einzigkeit Gottes (Unità o unicità di Dio), l’ultimo da lui stesso fatto stampare, nella sua spiegazione del termine giudaico che sta per “rivelazione”, mattan Torà (dono della Torà) cercò di superarne la comprensione oggettivante ed errata, e di interpretarla nel suo accadere: «Mattan tuttavia non è Mattanà (Mattan aber ist nicht Mattanà). Dovrebbe poter essere tradotto, se questo uso del termine fosse consueto, il dare, il donare... un dar-si di Dio, come

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Ma come è possibile chiarire, tentare di esplicare un tale rapporto senza limitarsi all’uso delle categorie scolastiche di causa efficiente o finale, ma cogliendo in questo rapporto tra l’essere dato e l’essere accolto una tensione temporalizzante e tale per cui entrano in gioco categorie quali quella di paternità/ maternità, filialità? Si deve ancora una volta a Casper l’acuta intuizione dei parallelismi che si danno tra il pensiero di Meister Eckhart e quello di Levinas. Se, infatti, riflettiamo su quanto scrive il filosofo ebreo lituano nel IV dei suoi Carnets de captivité a proposito della nozione di paternità, subito ci accorgiamo che, versus Aristotele, egli coglie in essa «una relazione originale».  34

si dà in tutto ciò che parte da Lui»): H. Cohen, Jüdische Schriften, vol. I, Schwetschke, Berlin 1924, pp. 96-97. Si veda anche Id., Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums. Nach dem Manuskript des Verfassers neu durchgearbeitet und mit einem Nachwort versehen von B. Strauß (1919), Kauffmann, Frankfurt 1929²; tr. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, tr. e note di P. Fiorato, saggio intr., scheda e nota bibliografica di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 162. 34  E. Levinas, Œuvres 1, p. 129. Per il rapporto di paternità in quanto “categoria” che si dà a livello originario, cfr. anche ivi, pp. 141,382,450. Si veda anche Id., Il Tempo e l’Altro, cit., p. 60. Scrive Levinas: «Né la nozione di causa, né la nozione di proprietà permettono di cogliere il fatto della fecondità. Io non ho mio figlio; io sono in qualche modo mio figlio. [...] C’è una molteplicità ed una trascendenza in questo verbo esistere, una trascendenza che manca persino alle analisi esistenzialistiche più ardite. [...] La paternità non è una simpatia grazie alla quale io posso mettermi al posto di mio figlio. È per il mio essere che io sono mio figlio e non per la simpatia. Il ritorno dell’io a sé che comincia con l’ipostasi non è dunque senza remissione, grazie alla prospettiva di avvenire dischiusa dall’eros. Invece di

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Di qui la centralità della nozione di fecondità da intendersi come una modalità altra di cogliere il sé, rendendo sempre più evidente la trascrizione di un pensiero che non esitiamo a chiamare incarnato. Nel secondo volume degli scritti inediti argomenta Levinas: La fecondità non indica tutto ciò che posso cogliere – le mie possibilità – ma tutti coloro che possono divenire. Non annuncia un nuovo avatar – vale a dire, in fin dei conti, una storia e degli eventi che possono accadere ad un residuo di identità, ad un’identità che dipende da un filo sottile, da un io che assicurerebbe la continuità degli avatars. E tuttavia la fecondità è la mia avventura e, di conseguenza, in un senso decisamente nuovo, nonostante la discontinuità, il mio avvenire. La nozione dell’io deve essere ripensata a partire dalla fecondità e non essere mantenuta nella struttura della posizione di un io potente e che si afferma attraverso la potenza.  35

Cosa comporta questo? Forse che si debba frettolosamente confinare ciò a una stravagante metafora oppure le definizioni di relazione che connotano la paternità, la maternità e la filialità,  36 in quanto definizioni della libertà umana, costituiscono la modalità attraverso la quale

ottenere questa remissione mediante la dissoluzione impossibile dell’ipostasi, la si realizza per mezzo del figlio. Non è dunque secondo la categoria della causa, ma secondo la categoria della paternità che si realizza la libertà e si compie il tempo». 35  Cfr. E. Levinas, Œuvres 2, pp. 302-303 (c.vo nostro tranne ho e sono). 36  Sulla nozione di paternità, maternità e filialità rinviamo al nostro F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, cit., pp. 89 ss.

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per il pensiero dell’esserci potrebbe divenire comprensibile, in un’ermeneutica della fatticità, molto di più di quanto si verifica mediante un sistema di pensiero insediato solo nella dimensione a-temporale della soggettività trascendentale, il quale riduce l’esserci umano mortale a “cose” (Sachen)? Questo ineludibile rapporto vissuto, che accade tra la “bontà” (Gutheit) infinita e increata e l’uomo buono, è stato pensato da Eckhart – sostiene Casper – in una predica su Lc 10,38 come accadere dell’essere-dato e dell’essere-accolto. In questi casi l’accadere si disvela come l’evento della widerbernde (widergebärende) Dankbarkeit, “la gratitudine, che partorisce a sua volta”.  37

In questa omelia Eckhart interpreta Luca 10,38: «Intravit Jesus in quoddam castellum et mulier quaedam, Martha nomine excepit illum in domum suam»

37  B.

Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 390 (c.vo nostro). Si precisa che il senso di wider (“a sua volta”, “di contro”) nel verbo widerbern (“partorire a propria volta”) non è quello di “nuovamente” ma quello di “incontro”, di “rimando” reso come “a sua volta”; tale suffisso wider non va confuso con l’avverbio wieder che significa, come è noto, di nuovo. Come indica Casper, per la traduzione in italiano di gebären è da preferirsi “partorire a sua volta” – e non “dare alla luce” – poiché «Levinas, nei suoi Carnets de captivité, richiama l’attenzione sul fatto che il pensiero occidentale è determinato in modo unilaterale dalla metafora della luce. Ciò vale in modo particolare dall’epoca del razionalismo tardo-occidentale. In quanto se-stesso che viene preso in esame, ciò che sta alla luce sta alla luce per tutti come ciò che è compreso e preso in esame in modo esaustivo. Partorire un bambino significa però dare la vita a un altro in quanto se stesso, un altro che mi diventa visibile, nel suo esserci, in quanto se stesso, cioè in quanto libertà, e pertanto rimane mistero insopprimibile. L’idea di origine leibniziana di una “comunità trascendentale di monadi”, così come è presentata da Husserl nella sua V Meditazione Cartesiana, è pertanto da mettere in questione» (c.vo nostro).

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(Gesù entrò in un villaggio e una donna di nome Marta lo accolse in casa sua) come un testo in cui si assiste all’esplicazione della correlazione originaria che accade tra la bontà infinita e increata e l’uomo che, con tutta l’intenzionalità del suo «io sono», vi anela. Questo pensiero eckhartiano non può che fondarsi sul principio fondamentale, assimilato dal pensiero medievale, dell’Etica Nicomachea di Aristotele: «Il bene: ciò verso cui tutto anela».  38 Ma perché possa tradursi nella nostra fatticità storica questo «tendereverso-il-bene (Zugehen-auf-das-Gute)» deve essere colto «come un mortale realizzarsi-nel-tempo».  39 Di qui la necessità del predicatore domenicano di tradurre in un duplice modo la parola mulier ossia: «fu ricevuto/era accolto da una vergine, che era una donna».  40 Che cosa vuole sottolineare Eckhart se non il fatto che solo l’uomo letteralmente «senza appropriazione», ovvero così distaccato da ogni cosa «da non essere legato ad alcuna di esse in ciò che faccio o non faccio, né al passato né al futuro» e teso soltanto «alla carissima volontà di Dio per compierla senza indugio», è un uomo che si può chiamare vergine ossia degno di accogliere Gesù, il dono incondizionato e ab-solutus (senza legami)? Di accogliere il figlio dell’Uomo che ha preso su di sé tutti i nostri peccati

38  Etica Nicomachea 1094a3: t’agathón, hoû pánt’ ephíetai. Cfr. B. Welte, Meister Eckhart als Aristoteliker, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di B. Casper, Herder, Freiburg 2006-2009, vol. II/1, Denken in Begegnung mit den Denkern. Meister Eckhart-Thomas von Aquin-Bonaventura, intr. di M. Enders, pp. 219-231. 39  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 390. 40  Cfr. Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 99.

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e, assumendo la nostra dimensione umana, ha patito e sofferto fino alla morte in croce per ciascuno di noi fino a chiedere al Padre di perdonare loro «perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 24)? V’è forse un dono più incondizionato, senza legami, e più scandaloso di quello di un Dio deriso e crocifisso? E ancora, che cosa vi lascia intendere Eckhart allorché afferma che «se l’uomo fosse sempre vergine, non produrrebbe frutti»,  41 se non il fatto che l’essere accolto del dono necessita – perché questo dono non si guasti – della fecondità del grembo materno? Ora, non si cada nell’errore di inserire all’interno di una logica della reciprocità il tema della verginità (ricezione del dono) e della fecondità (contraccambio del dono) poiché è solo nella fecondità come «gratitudine per il dono»,  42 ossia quale «widergebärende Dankbarkeit», «gratitudine, che partorisce a sua volta» e che resterà in un debito senza fine che può darsi l’accadimento del rapporto tra la Gloria dell’infinito e l’uomo buono o, come direbbe Levinas, colto all’accusativo, avendo fatto esodo da sé in una «passivité plus passive que toute passivité antithétique à l’acte». Un rapporto, questo, che fa sì che quell’«allora insegnato» riecheggi nel rapporto autentico che si dà tra maestro e allievo. Il Maestro, rispondendo in maniera incondizionata alla richiesta di aiuto dell’allievo che gli si rivolge con l’invocativo, si dona all’allievo, non si sottrae alle sue richieste – va oltre la visione filologica del maestro per aprire al vis-à-vis. L’allievo così disposto, grazie a quel dono senza condizioni, diventa attraverso la sua gratitudine a sua volta fecondo: il

41  Ivi, 42  Ivi,

p. 100. p. 101.

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Maestro lo lascia fare, si fida, ma nello stesso tempo non lo lascia mai solo per quanto non possa sostituirvisi nella difficile libertà del suo libero iniziare-qualcosa-con-se-stesso. Pertanto, come ribadisce Casper: «Il rapporto con ciò che è incondizionatamente buono deve essere “âne eigenschaft”,  43 cioè tale per cui io non mi penso con i miei progetti arbitrari e dipendenti da me, ma intendo ciò che di per sé è realmente e incondizionatamente buono. Ciò che è realmente buono si rivela pertanto un dono incondizionato. [...] Della consapevolezza di questa mancanza di presupposti propria del bene in quanto ciò che è realmente buono, in cui si mostra al contempo il suo carattere incondizionato di dono, troviamo a tutt’oggi un’impronta degna di nota in tutta una serie di lingue europee. Quando uno che riceve un regalo ringrazia chi gliel’ha fatto, costui risponde volentieri con “ma La prego...”, oppure “non c’è di che”, in modo da esprimere il fatto che l’atto di donare si è verificato davvero in forza del solo voler bene, e non di un “do ut des”. In quanto gesto, compiuto solamente per la volontà di fare un regalo, il dono non aveva nessun’altra causa che non se stesso. È stato fatto solamente in forza di se stesso, e non per obbligare l’altro per un preciso scopo. Si è dimostrato pertanto come “don du rien”,  44 e questo

43  “Senza

appropriazione”, “distaccato”. J. Duvignaud, Le don du rien. Essai d’anthropologie de la fête, Stock, Paris 1977, in part., pp. 121-171. Non ci pare casuale il fatto che l’Autore intitoli il capitolo dedicato al dono: Le défi (la sfida). Di grande acume risulta la “definizione” (parola che appartiene al regno del Detto) che dà di questo particolare dono e che recita: «Il dono, che spogliato delle nostre convenzioni di negozio o di commercio, è proprio il “sacrificio inutile”, la scommessa sull’impossibile, l’avvenire – il dono di niente. La parte migliore dell’uomo» (ivi, p. 34, c.vo nostro). Una definizione che contiene, sorprendentemente, delle evidenti 44  Cfr.

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tanto di più, quanto più era grande e puro: “Avete ricevuto gratuitamente, gratuitamente date” (Mt 19, 8).  45 Nel Fi-

assonanze con il nucleo del pensiero levinasiano: le sacrifice inutile non sembra rinviare forse a la souffrance inutile di Levinas; e ancora le pari non richiama la sfida che proviene dall’«allora insegnato» al Moi che è sempre tentato e che è chiamato a decidersi-per-l’altro in un diuturno ricominciamento? E Infine l’avenir non è ciò verso cui è votato l’«io sono» di carne e di sangue eletto da un passé che «comprende» solo ex post? 45  Questo versetto del Vangelo di Matteo non può non richiamare alla nostra memoria la figura di don Luisito Bianchi nato nel 1927 a Vescovato e ordinato sacerdote nel 1950. Di origini contadine, è stato insegnante e traduttore, prete-operaio e inserviente d’ospedale. Cappellano presso il monastero benedettino di Viboldone (Milano) dove ha concluso la sua esistenza terrena, è stato un prete contro-corrente e autore di molti libri, tra i quali ricordiamo: Come un atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia 1972; Dialogo sulla gratuità, Gribaudi, Milano 2004; Monologo partigiano sulla Gratuità. Appunti per una storia della gratuità del ministero della chiesa, Il Poligrafo, Padova 2004; e il suo capolavoro La messa dell’uomo disarmato. Un romanzo sulla resistenza, Sironi, Milano 2003, che è stato subito un vero e proprio caso letterario, apprezzato sia dalla stampa cattolica che da quella laica. Ma la storia stessa del romanzo è già di per sé interessante, perché il libro era circolato in edizione autoprodotta ed autofinanziata tra il 1989 ed il 1995 ed era diventato già in qualche modo un best seller al di fuori dei tradizionali canali editoriali grazie al passaparola di tanti lettori entusiasti. La pubblicazione del libro da parte della Sironi ha consentito di fare conoscere anche al grande pubblico questo bellissimo, commovente romanzo. La messa dell’uomo disarmato è — recita il sottotitolo — un lungo e intenso romanzo sulla Resistenza. La Gratuità è divenuta non solo cifra della sua stessa esistenza, scandita, nei tre capitoli del libro: il gemito della Parola, Il silenzio della Parola e, infine, Lo svelamento della Parola (rigorosamente scritta in maiuscolo) ma la nozione chiave che attraversa la sua produzione letteraria. Don Luisito che conserva nel nome il ricordo del nonno emigrante in Argentina,

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delio di Beethoven, ad esempio, la sposa, che con le sue azioni era disposta a sacrificare la sua vita per lo sposo,

è di origini cremonesi e porta scalfite nel suo cuore e trascritte nel suo diario, le immagini di quella terra tanto amata, tra il frumento che si tinge d’oro e i covoni di grano su cui trovava riposo dopo le fatiche della giornata. Nel suo racconto don Luisito fa emergere una sorta di divisione tra l’epopea della campagna, l’età felice dell’adolescenza e la cesura rappresentata dalla guerra e dall’incombente minaccia nazi-fascista. «“Forse – racconta in occasione di un’intervista che risale al 2006 (F. Nodari, La Resistenza della chiesa disarmata, in “Giornale di Brescia”, 26 aprile 2006, p. 26) – fu proprio guardando coloro che dal luglio del ’43 presero a salire sulle montagne e a mettersi in gioco, fino a donare la propria vita per una causa comune più alta che maturò in me questa scelta. Guardando quegli uomini e quelle donne, capii anch’io che tutti potevamo, dovevamo diventare ribelli, dovevamo resistere ad un potere violento e illegittimo che conculcava le aspirazioni di libertà. Per me – ribadisce don Luisito – la Resistenza è stata la scoperta che si poteva scegliere il proprio destino”. E lui lo scelse a 16 anni, contro la volontà del padre che vista la convinzione del proprio figlio gli disse “Se vuoi fare il prete, fallo bene”. Una sorta di monito che don Luisito non esitò a tradurre in realtà. Dalla decisione di scrivere sull’immaginetta della sua prima messa, nel ’50, il versetto in latino del Salmo 11 “propter aflictionem humilium et gemitum pauperum” al rifiuto di iscriversi all’Istituto di Sostentamento del Clero, guadagnandosi da vivere lavorando prima in fabbrica, poi in ospedale fino al ritorno nel monastero della monache benedettine di Viboldone». Come rivela nell’intervista di P. Perazzolo – in «Jesus», Il romanzo di Don Luisito, 1 marzo 2004 – «La dedizione totale alla gratuità mi permise – confessa il sacerdote – di fare un tutt’uno del mio essere uomo e del mio essere prete: oggi non mi sento affatto monco». Poi spiegando le ragioni profonde che lo portarono a scrivere questo monumentale romanzo, aggiunge: «Quegli uomini che lasciarono tutto, casa, famiglia, figli, lavoro e andarono a combattere sulle montagne per salvare la patria dall’invasore e conquistare la libertà furono l’esempio più bello di gratuità che si potesse pretendere. Fu la testimonianza di come tanti uomini erano pronti a dare la propria

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alla domanda dello sposo: “Che cosa hai fatto per me?” risponde: “Nulla, nulla, mio Florestan” (Atto II, Scena V).

vita per la costruzione di un mondo nuovo. E capii anche che quel sangue, gratuitamente versato, non era stato vano, perché ogni volta che ne facciamo memoria, come ho tentato di fare ne La messa dell’uomo disarmato, lo attualizziamo. Esattamente come accade nella Messa, quando facciamo memoria del sacrificio di Cristo». Fra le 850 pagine del volume spicca quella in cui viene riportato il contenuto della lettera fatta pervenire all’abate, da parte di Dom Luca che cum trepidatione descrive la sua pena poiché “costretto” dalla necessità delle cose ad uccidere, pur essendo stato salvato da un compagno, senza riconoscerne subito il dono e senza mai rinnegare la scelta di essersi schierato dalla parte giusta. Per pura gratuità offre la sua vita, come gratuitamente l’aveva ricevuta sia all’alba della sua esistenza che nella resistenza di quei giorni fra le rocce e i dirupi allorché un ribelle per amore lo salvò da morte certa dando prova della più alta forma di resistenza: la passività del suo «Eccomi!» fino a farsicon-il-proprio-corpo-ostaggio-per-l’altro. Allo stesso modo, per pura gratuità Dom Luca offrì la sua vita per la vita di un altro: mentre un ragazzo gli puntava il mitra al petto, lui sorrideva. Quel quindicenne gli sparò un intero caricatore di pallottole... Si legga – se se ne ha il coraggio e per intero – cosa scrive il monaco: «Seconda domenica di avvento, 1944. Sulle montagne cum festinatione... Amatissimo e venerato Padre Abate, mentre leggerà queste righe, la misericordia di Dio avrà già rappacificato per sempre il mio cuore che oggi ancora è turbato alla ricerca di questa misericordia sotto ombre parvenze fuggevoli. Il mio essere anela, come il cervo, alle fonti della misericordia; è tutto proteso verso qualche segno che me ne indichi la chiamata, come la sentinella di notte, che anche su questi monti riecheggia antichi salmi, attende l’aurora (Sal 130, 6). E il segno che vorrei affrettare con tutte le fibre della mia carne non può essere che il dare la mia vita perché un’altra ne sia risparmiata, dopo che anch’io questo dono ho ricevuto dal mio giovane amico e non l’ho riconosciuto subito come il segno della misericordia, perché ho ucciso, travolto dall’abisso che chiama l’abisso. Come posso cancellare questo sangue dalle mie mani se non purificandole col mio? Per questo, ho sospeso da quel giorno la celebra-

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In francese, chi fa un dono risponde a chi lo ringrazia con “de rien”, in italiano con “di niente”, in spagnolo con “de nada”. E anche in inglese, il senso della risposta “you are welcome” può stare nel fatto che si vuole far capire che il dono non è stato dato con l’intentio di

zione del divino sacrificio fra questi uomini che pure ne hanno il diritto. Ma come avrei potuto mescolare il sangue di Cristo, sparso perché di due popoli ne risultasse uno, con quello che la mia ottusità a riconoscere la misericordia ha fatto scaturire da carne di uomini? Il digiuno è il prezzo che debbo pagare e imporre a questi uomini sui quali ho addossato il mio peccato. È terribile dovere far pagare agli altri il proprio peccato per avere la possibilità di pagarlo personalmente. Sono turbato, e non è il turbamento del Getsemani: Cristo pagava per il peccato degli altri, lui che era senza peccato. Chi mi libererà da questa angustia mortale? Solo la misericordia di Dio che mi manifesti la sua gratuità coll’offrirmi l’occasione di dare la mia vita. Certo, non posso dare nulla gratuitamente, nemmeno la mia vita perché essa è un prezzo che debbo pagare; ma è proprio qui, in questa apparente contraddizione fra la gratuità della misericordia e il segno della sua manifestazione da me richiesto, che mi pare inizi il cammino della mia pace. Lascio a lei – conclude dom Luca – padre amatissimo, quando leggerà queste righe, valutare l’apparizione o meno nella mia carne del segno che avevo richiesto. [...] le chiedo di non abbandonare mai questi uomini che mi hanno fatto scoprire, sulla neve insanguinata, fra le rocce e i dirupi, braccati dalla forza bruta del potere o esultanti per la speranza d’un mondo nuovo, le orme di Cristo alla ricerca d’uomini liberi per renderli più liberi ancora. È stata la mia straordinaria avventura: vedere l’opera di Cristo infiltrantesi in ogni gesto d’uomo, sperimentare nei luoghi più impensati [...] la potenza misericordiosa dello Spirito, senza che Cristo chiedesse nulla, nemmeno d’essere riconosciuti! [...] Vorrei che il nostro monastero, che ho sempre tanto amato, si saldasse con questi uomini per una comunità nuova dove tutti possano sperare omnia a Patre di questo grande monastero che è il mondo. [...] Mi permetta che mi firmi, in osculo sancto, col nome nuovo di Dom Benedetto» (L. Bianchi, La messa dell’uomo disarmato, cit., pp. 647-649).

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mirare a un “contro-dono”, ma solo in forza dello stesso donato».  46

Non a caso, precisa Levinas: Io rispondo: ciò che l’altro può fare per me, è affar suo. Se fosse affar mio la sostituzione non sarebbe altro che un momento dello scambio e perderebbe la sua gratuità. Affar mio è la mia responsabilità e la mia sostituzione iscritta nel mio io, iscritta come io.  47

Come dire: nella misura in cui il dono è puro dono, esso non si fonda tanto sul nulla di presupposti finiti, ma sul rapporto che si dà tra colui che, essendo vergine, lo accoglie e il datore del dono, che è la gloria dell’Infinito. In questo essere partorito del dono l’esserci è chiamato a divenire, a sua volta, fecondo attraverso un «ringraziare rispondente». Ora, per colui che accoglie questo dono, perché tale dono sia davvero un dono buono, occorre che non si percepisca in un mero rapporto di conoscenza con il datore ossia nell’ambito trascendentale di una noesi che coglie il suo noema e lo oggettiva. Nulla di più lontano. Nulla di più sterile. Perché il dono manifesti la sua eccedenza e la sua assoluta gratuità, l’esserci deve rendere testimonianza nel suo stesso compiersi o temporalizzarsi, di una gratitudine che manifesta con tutto il suo «io sono» di carne e di sangue: solo nel ringraziare il dono c’è, davvero, in quanto dono. Il ringraziare, qualora sia vero, non consiste mai semplicemente in un dire-grazie a

46  Cfr. B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., pp. 391-392. Per un collegamento fenomenologico linguistico più ampio, cfr. Id., Angesichts des Anderen, cit., pp. 119-131. 47  Cfr. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 117.

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parole; questo lo potrei ottenere in ogni momento anche mantenendomi a distanza, mediante una mera operazione delle mie labbra. Il vero dire grazie può consistere solo in un gratias agere, in un «di cuore», cioè in un ringraziare che si realizza per mezzo di tutto l’«io sono». Solo in questo modo il dono in quanto dono è riconosciuto davvero per ciò che è: Per il fatto di essere chiamato in causa dall’altro uomo diviene però chiaro all’esserci – chiarisce Casper – il quale si realizza come essere mortale nel tempo e al quale “nel suo essere, ne va di questo essere”, che in ultima analisi non deve ringraziare se stesso, ma è dato a se stesso. Può comprendere se stesso solo come dono incondizionato. Questo, in quanto dono, perviene però completamente al suo “essere” solo nella gratitudine per il dono. Solo grazie all’essere-se-stesso che ha raggiunto la maggiore età, il quale è proprio dell’esserci mortale che si realizza nel tempo, giunge a ciò che lo caratterizza nella sua fenomenalità “appagata”.  48

Dovrebbe, pertanto, risultare chiara la ragione per cui Eckhart sdoppia la parola mulier in virgo e femina. Perché si dia davvero il dono, occorre per un verso che l’esserci sia accogliente, per l’altro – perché il dono si realizzi in tutta la sua verità – che l’«io sono» dia prova della propria fecondità portando il frutto di una umana gratitudine «che partorisce a sua volta (widergebärende Dankbarkeit)». Scrive Eckhart: Ora osservatelo bene e state attenti! Se l’uomo fosse sempre vergine, non produrrebbe alcun frutto. Per essere fecondo, è necessario essere donna. Donna è la parola più

48  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 394.

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nobile che si possa attribuire all’anima, molto più nobile che vergine.  49

Ma cos’è che eviene in questo essere-riconoscente-per-il-dono da parte dell’esserci, un essere-riconoscente del dono che egli è per se stesso in quanto creato e del dono che consiste in tutto ciò che gli è dato, dunque un essere-riconoscente che è un accadere responsoriale, se non il compiersi del «senso dell’“essere” in quanto dono (Gabe)»?  50 Dunque il nostro esserci non è tanto un essere-gettato nel senso di Heidegger (cfr. Essere e tempo, par. 29) e neppure un progetto gettato, bensì un temporalizzarsi che ha come in vista-di-cui-finale la salvezza fino a divenire ostaggio-con-il-proprio-corpo-per-l’altro. Ma risuona ancora l’interrogativo che permea questo nostro lavoro: sappiamo agire gratuitamente? Siamo capaces gratitudinis? Forse potrebbe aiutarci risalire al significato del nome dell’ebreo, che è già indice di gratitudine: jehudì/jehudà la cui radice trilittera genera i sostantivi hodaià e todà, che significano ringraziamento/lode, e non meno lo è l’espressione che troviamo nei riti religiosi del giudaismo e nella liturgia cristiana ossia: l’hallelujah, che vuol dire: «Date lode a Dio»  51 al punto che «l’hallelujah diviene – insegna il compianto Paolo De Benedetti – una formula dialogica che nasce da un reciproco dare e ricevere».  52 Ad essa

49  M.

Eckhart, I sermoni, cit., p. 100.

50  B. Casper, Das Erkennen der Gabe im Danken, cit., p. 393. 51  Cfr. Es 15 (canto di Mosè); Gdc 5 (inno elevato da Debora e Barac). 52  P. De Benedetti - M. Giuliani, Dire grazie. L’hallleluja

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è strettamente connessa un’altra locuzione comune: l’hosanna, ossia «Deh, salvaci» (cfr. Sal 118, 25). Ma per comprendere meglio la portata della gratitudine vorremmo richiamare innanzitutto un episodio narrato nel Vangelo di Luca. Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17, 11-19; c.vo nostro). Come fa notare Paolo De Benedetti, soltanto uno dei dieci lebbrosi – peraltro un Samaritano, dunque uno straniero, «un lontano» – riconosce il debito verso il Maestro e ringrazia. Gli altri nove se ne vanno senza neppure voltarsi indietro «forse perché i più vicini sono quelli più abituati ai miracoli, alle grandi cose che Dio ci dà, e diventano meno sensibili, meno pronti a ringraziare»?  53 o forse perché induriti nel loro cuore – come oggi purtroppo si riscontra in molte circostanze – abitanti di un mondo sincrono e, dunque, totalmente sordi a quell’«allora insegna-

della gratitudine, Morcelliana, Brescia 2014, p. 74 (c.vo nostro, tranne halleluja). 53  Ivi, p. 76.

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to» che ci rende debitori e, in quanto tali, chiamati a fare del gratias agere il paradigma della propria esistenza? D’altro canto a noi è lasciata la scelta tra il rispondere e il rifiutarci di farlo. Quanto più profondamente rimaniamo in ascolto – asserisce Heschel – tanto più ci spogliamo dell’arroganza e dell’insensibilità che potrebbero indurci al rifiuto.  54

Eppure continua il filosofo che sembra fare eco a Levinas e con le sue parole commentare il brano del Vangelo citato è proprio nell’essere sfidato che (l’esserci) si scopre essere umano. Esisto come essere umano? La mia risposta è: Sono comandato: perciò sono. Vi è un innato senso di debito nella coscienza dell’uomo, la certezza di dovere gratitudine, di essere sollecitati a contraccambiare, a rispondere, a vivere in un modo che sia compatibile con la grandezza e il mistero del vivere.  55

E non ha certo torto Heschel allorché afferma che la fonte della nostra ansia, del nostro disagio proviene innanzitutto dal fatto di mancare, per così dire, la nostra autenticità, di trasgredire cioè ciò che per Paolo De Benedetti è una mitzwà.  56 Non a caso egli si chiede, e noi con lui, cosa sarebbe un’hosanna, se non si facesse hallelujah? E cosa resterebbe dell’hallelujah se alla richiesta di aiuto non seguisse un ringraziamento con tutto il nostro esserci di carne e di sangue? E che cos’è l’Euca54  A.J.

Heschel, Chi è l’uomo?, cit., p. 127. pp. 126-127 (c.vo nostro). 56  Cfr. P. De Benedetti - M. Giuliani, Dire grazie, cit., p. 77. 55  Ivi,

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ristia se non ciò cui rinvia la sua etimologia ovvero un «rendimento di grazie», se è vero, come è vero che «prima della consacrazione vi è appunto una benedizione di ringraziamento sul pane e sul vino [...] che richiama sia il qiddush ebraico sia la birkat-hamazon ovvero il tradizionale ringraziamento ebraico dopo i pasti»?  57 Di qui l’importanza della berakhà che, in ogni suo specifico accadere, fa segno al ringraziare nella consapevolezza, che non deve mai essere smarrita, del nostro essere, in ultima istanza, debitori e insieme grati a Dio  58. Dovrebbe, a questo punto, risultare chiaro quanto afferma Levinas allorché scrive che «gli uomini hanno potuto rendere grazie del fatto stesso di trovarsi nello stato di render grazia, inserendosi la gratitudine attuale su se stessa come su una precedente gratitudine»  59, la grazia dell’elezione.

57  Ivi,

pp. 76-77. Heschel, Man Is Not Alone. A Philosophy of Religion, Farrar, Straus & Giroux, New York 1951; tr. it. L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, tr. di L. Mortara e E. Mortara Di Veroli, L’uomo non è solo, intr. di C. Campo, Rusconi, Milano 1970, p. 293-294. 59  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 14 (c.vo nostro). 58  Cfr. A.J.

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Capitolo terzo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Forme diacroniche della felix culpa

1. La conversazione infinita tra Blanchot e Levinas Nella sua esperienza di prigionia – cinque anni di stenti, di fame, di sete, di fatica, di dolore, di privazioni – Levinas è pervenuto all’interrogativo che sta alla base del nostro essere uomini. Mettendo capo ad una epoché esistenziale, che egli paragona all’esperienza dello Shabbat  1 si accorge che accade qualcosa: «Interrompere la storia significa situarsi nella storia»,  2 egli scrive rifacendosi a La ricerca del tempo perduto di Proust.  3 Significa rendersi conto che il fondamento ultimo della mia umanità sta in una colpevolezza preetica e pre-morale che trova il suo fondamento nella felix culpa.  4 Il «dovere felice di amare l’altro» che scatu1  E. Levinas, Œuvres 1, p. 59. Cfr. il celebre testo di A.J. Heschel, The Sabbath. Its Meaning for Modern Man, Farrar, Straus & Young, New York 1951; tr. it. Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, tr. di L. Mortara e di E. Mortara Di Veroli, Garzanti, Milano 1999. 2  Cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 73. 3  Ivi, p. 481, nota 22. 4  Ivi, pp. pp. 64, 71, 72, 81, 173, 175, 176, 184. Sul concetto di felix culpa, si veda B. Casper, La felicità, il dono e la fede, tr. it. di S. Bancalari, in F. Nodari (a cura di), Felicità, Massetti Rodella, Roccafranca 2011, pp. 165 ss. Fondamentale anche B. Casper, Dignità e responsabilità. Una riflessione fenomenologica, cit., in part. il par. 2, Il radicamento della dignità della «responsabilità illimitata» nell’accadimento del linguaggio in quanto felix culpa, pp. 28-37. Sull’argomento, inoltre, ci per-

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risce dalla messa tra parentesi del mio per sé in cui c’è qualcosa di nuovo sotto il sole, in cui eviene qualcosa: l’essere-toccato dall’Illeità, di cui Autrui è la traccia nella «perversa felicità della sofferenza»  5. Riteniamo che in aggiunta a quanto già tematizzato su questa nozione che trova la sua concrezione nell’essere ostaggio per l’altro, che è «forse solo un nome più forte per dire l’amore»  6 e alla cui piena comprensione si è pervenuti grazie alla perspicacia interpretativa di Casper, si possa problematizzarne ulteriormente la portata se la si mette in connessione con la difficile espressione che Levinas utilizza allorché vuole indicare la diacronia. E ancora: se si prendono in considerazione le riflessioni che Levinas offre sull’amico Blanchot e, viceversa, quelle contenute nel paradosso incessante dell’opera inoperosa di questo esponente della «parola poematica» si assisterà, non senza stupore, al venire all’idea di questa insolita forma della temporalità, che si deve in toto a Levinas. In Blanchot la «follia del giorno», la critica alla dialettica hegeliana, la «passione del fuori», la notte, l’istante, l’inquietudine  7 di mettiamo di rinviare al nostro saggio Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, cit., in part. pp. 71 ss. Cfr. anche B. Casper, Emmanuel Levinas. La scoperta dell’umanità nell’inferno dello Stalag 1492, tr. it. L. Bonvicini, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013. 5  Cfr. E. Levinas, L’expérience juive du prisonnier, in Œuvres 1, pp. 209-215, qui p. 213. 6  E. Levinas - B. Casper, Essere in ostaggio per l’Altro, a cura di A. Fabris, Ets, Pisa 2012, p. 22. 7  Sul nesso tra inquietudine-veglia-ispirazione ci pare significativo quanto argomenta Levinas in Di Dio che viene all’idea, cit., pp. 48-50. Scrive il filosofo: «La vivacità della vita non è essa ec-cesso: rottura del contenente da parte del non-contenibile che precisamente, così, anima o ispira? Il risveglio non sarà for-

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un linguaggio che vira in ispirazione,  8 la separazione sono delle tematiche ricorrenti che non solo si susseguono nell’opporre al discorso consueto – che già rientra nel detto – lo spazio letterario, ma insieme invitano a sostare – come provano, del resto, i continui richiami alla filosofia di Levinas nella Conversazione infinita – su quel tra che accade tra il Moi spodestato della sua sovranità e lo Straniero. Un tra che, nell’asimmetria del rapporto, trova la sua scaturigine dal dia della diacronia: un aspetto questo forse sottovalutato nello studio del pensiero di Blanchot anche per via del moltiplicarsi delle forme del paradosso, antidoto di ogni aporia, che percorrono i suoi saggi. 2. La parola plurale Che cosa intende dire Blanchot quando si serve dell’espressione «parola plurale» se non rinviare a quel distinguo che Levinas pone tra «parola parlante» o diacronica e «parola parlata»  9 o sincronica? E se ispirazione? Termini irriducibili. La vivacità della vita – incessante rottura dell’identificazione. Come se, abbagliamento o bruciatura, la vita fosse già, oltre il vedere, il dolore dell’occhio trapassato dalla luce; oltre il contatto, già scottatura della pelle che sfiora – ma senza toccarlo – l’intoccabile. [...] Disubriacatura sempre ancora da disubriacarsi, una veglia alla veglia di un nuovo risveglio, il Medesimo sempre risvegliantesi da sé – Ragione. Non-riposo o non permanenza nel Medesimo, non-stato – bisogna chiamare creatura l’altrimenti che così si disdice dall’essere? [...] Inquietudine, approfondimento o scuotimento di ogni base, e così, della presenza o della simultaneità [...] in dia-cronia, esposizione all’altro sotto forma di ferita o vulnerabilità». 8  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 176 ss. 9  Sulla differenza e la portata della «parola parlante» e della

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dunque tra l’eco anarchico dell’«allora» e il mondo tematizzante e totalitario della luce dove ci si limita a nominare le cose nell’ambito di un conatus essendi che trova nel potere e nel ricondurre tutto a sé la sua acme? Scrive Blanchot: Parlare non è vedere. Parlare libera il pensiero dall’esigenza ottica che, nella tradizione occidentale, condiziona da millenni il nostro modo di accostarci alle cose e ci invita a pensare garantiti dalla luce o sotto la minaccia dell’assenza di luce. [...] Vedere presuppone una separazione misurata e misurabile. Naturalmente, vedere è sempre vedere a distanza, ma lasciando che la distanza ci restituisca quello che ci toglie. [...] Vedere è servirsi della separazione non come mediatrice ma come mezzo di immediazione, come im-mediatrice. [...] Allora bisognerebbe scegliere: la parola o la vista. Scelta difficile,

«parola parlata», ci permettiamo di rinviare a F. Nodari, Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Maestro, cit., pp. 63 ss. Non ci possiamo, tuttavia, esimere, dal precisare la distinzione cruciale tra i due concetti: se la prima, che è il Dire, rinvia al senso stesso del linguaggio in cui mi appare Altri nella sua irriducibilità e nell’evento stesso dell’espressione; la seconda, che è il detto, rinvia al mondo della visione, dell’interiorità, della luce, del potere: mondo in cui prevale la visione filologica del Maestro di contro al faccia a faccia che eviene nell’insegnamento. Cfr. E. Levinas, Œuvres 2, p. 84. Scrive Levinas: «Apprendere non è comunicazione di un pensiero (sarebbe ritornare alla preesistenza dei pensieri sulla parola e, di conseguenza, tornare fatalmente ad un’armonia prestabilita), ma relazione prima: trovarsi davanti a un’altra ragione, esistere metafisicamente. Il pensiero, dunque, non precede il linguaggio, ma è possibile solo attraverso il linguaggio, vale a dire attraverso l’insegnamento e il riconoscimento di altri come maestro». E ancora: «La conoscenza è conoscenza di un dato, di una cosa che si disconosce e si abbandona allo sguardo, mentre conoscere che ci si conosce presuppone una situazione nuova – guardare uno sguardo» (ivi, p. 204, c.vo nostro).

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forse ingiusta. Perché una cosa dovrebbe essere divisa in cosa che si vede e cosa che si dice (si scrive)? In ogni caso l’amalgama non può rimediare alla scissione. Vedere  10 è forse dimenticare di parlare, e parlare è attingere, in fondo alla parola, l’oblio che è l’inesauribile.  11

Vale a dire scovare dietro il raddoppiamento che si dà per la parola così come si dà per l’immagine, «il piegamento, il giro della svolta, la “versione” sempre nell’atto d’invertirsi che contiene in sé il divaricarsi della divergenza. La parola – continua Blanchot – di cui tentiamo di parlare è ritorno a questa prima tornitura – termine che bisogna intendere come un verbo, l’atto del far girare, vertigine in cui si acquietano il turbine, il salto e la caduta».  12 Come dire: si dà una

10  In ciò sembra fargli eco Levinas che contestando il mondo della luce – regno della rappresentazione e del potere – scrive in Œuvres 2, pp. 69-72: «Il problema dell’uomo – prosegue Levinas – è un’ossessione del potere. Il problema dell’uomo in una collettività, che a sua volta si cerca di fissare a partire dai poteri, {a partire da rappresentazioni collettive} – consiste nell’assicurare il potere dell’uomo. [...] L’umanesimo moderno è un’aspirazione a sostituire Dio, a divenire Dio. [...] Lo spinozismo è la base della filosofia moderna. In relazione all’ipostasi e al soggetto, nell’elemento della luce – il resto della realtà diviene un gioco di luce, lo svelato, il fenomeno, l’oggetto. La stessa relazione collettiva, la relazione con l’altro si riporta a una relazione collettiva, a una rappresentazione. Qui nessun’altra relazione è possibile, perché nessun’altra relazione è possibile per il soggetto: il soggetto non si definisce che attraverso il potere» (c.vo nostro). 11  M. Blanchot, L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969; tr. it. L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«Insensato gioco di scrivere», tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977; poi La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», intr. di G. Bottiroli, tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 2015, pp. 34-36 (c.vo nostro). 12  Ivi, p. 38 (c.vo nostro).

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doppia possibilità: ridurre il linguaggio alla visione – alla follia del giorno  13 – con il rischio di subire, dopo aver fatto il proprio ingresso nell’esistenza, la minaccia del brusio dell’elementale  14 e di restare irretiti in una situazione simile a quella che precede l’ipostasi e in cui l’essente è inchiodato all’essere in «quella notte che è il dolore»  15 – oppure volgersi verso «quell’altra notte che è l’attesa. Parlare è la

13  In proposito nota Levinas in Sur Blanchot, Fata Morgana, Paris 1974; tr. it. Su Blanchot. Mondo e spazio letterario, a cura di A. Ponzio, Palomar 1994; quindi, in II ed., Su Maurice Blanchot, a cura di A. Ponzio e F. Fistetti, CaratteriMobili, Bari 2015, p. 125: «Ma il giorno non è solamente la sincronia del successivo, la presenza in cui il tempo sprofonda, in cui si avviluppa in ore, senza che, in esso, nulla s’attenui, e in cui l’attenuazione stessa ha la sua ora; il giorno non è soltanto l’enfasi di un’esistenza che, a forza d’essere, si mostra, rieccheggia ed esplode in coscienza. La coscienza, a titolo di chiarezza e visione, è anche una modalità dell’essere che si distanzia in rapporto a se stesso che, rappresentazione, non influisce più su di sé, anche se si mantiene alla sua altezza nella trasparenza della verità [...] trasparenza in cui l’essere si fa verità. Che questa apertura della verità – che questa chiarezza – raggiungendo la trasparenza del vuoto – possa ferire la retina come un vetro che si spezza sull’occhio di cui aguzza la vista e che questa ferita sia tuttavia ricercata come lucidità e disinganno: ecco di nuovo la follia del giorno». 14  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 176. Vale la pena di riprendere a tal proposito le parole di Levinas che risuonano, quasi fossero profezia, in tutta la loro attualità: «L’insistenza di questo rumore impersonale non è forse la minaccia, avvertita ai giorni nostri, di una fine del mondo? Bisogna assolutamente chiedersi se nella significazione dell’uno-per-l’altro, che si rischia o ci si ostina a considerare come un fenomeno limitato – come “l’aspetto etico dell’essere” – non si ode forse una voce che viene da orizzonti almeno altrettanto vasti come quelli nei quali si situa l’ontologia». 15  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 39.

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parola dell’attesa in cui le cose sono rivolte verso lo stato latente. [...] Là le cose non hanno modo di mostrarsi o di nascondersi, almeno nella misura in cui questi movimenti rappresentano dei giochi di luce. E nella parola che corrisponde all’attesa – qui il punto nevralgico (N.d.R.) – c’è una presenza manifesta con cui il giorno non ha nulla a che fare, una scoperta che scopre prima di ogni fiat lux».  16 Che cosa c’è dietro

16  Ibidem. Si precisa che la lettura che qui tentiamo di Blanchot, determinata dal tema della nostra trattazione, è imperniata sul fatto che nei passi presi in esame, Blanchot distingua tra le due notti, l’una permeata dal dolore, l’altra dell’attesa. Ciò che qui interessa mostrare non è tanto la stretta e nota correlazione tra il Neutro in quanto mormorio e sciabordio di Blanchot e il c’è che Levinas tematizza a partire dal saggio Dall’esistenza all’esistente, quanto semmai soffermarci sull’eccedenza dello spazio letterario, l’inquietudine che esso suscita, lo stato di veglia in cui versa chi ne è coinvolto, il fuori dal mondo, la passività del soggetto dinanzi alla presenza dell’assenza (che in Levinas è Autrui) dove viene meno il suo potere – legittimato, al contrario, dalla follia del giorno – per arrivare alla portata di nozioni quali oblio e attesa. Non a caso Levinas stesso ci indica nei testi raccolti in Sur Blanchot come «l’opera e il pensiero di Blanchot possano essere interpretati al tempo stesso in due sensi. C’è da una parte, l’annunzio di una perdita di senso, di una disseminazione del discorso, come se ci si trovasse al punto estremo del nichilismo, in cui il nulla stesso non può essere pensato tranquillamente. [...] Siamo votati all’inumano, allo spaventoso Neutro: questa è una direzione. Ma ecco, d’altra parte, il mondo da cui si esclude lo spazio letterario di Blanchot; mondo che nessuna sofferenza umana impedisce di ordinarsi, mondo che si sistema bene o male [...] mondo che si totalizza nell’indifferenza del “Tutto è perduto” di Dostoevskij [...]. A questo mondo, Blanchot ricorda che la sua totalità non è totale – che il discorso coerente di cui si vanta, non raggiunge un altro discorso che non riesce a far tacere, che quest’altro discorso è disturbato da un rumore ininterrotto, che una differenza non lascia dormire il mondo, e

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questo fiat lux se non l’eco di quell’«allora insegnato»? Imperativo che precede la mia libertà volgendola in passività che s’accresce, in dolore a fior di pelle, in trauma, in sofferenza liturgica in cui il linguaggio è inaugurato da quell’«allora»? «Allora» che annuncia «la nascita latente, poiché precisamente al di qua dell’origine, al di qua dell’iniziativa, al di qua di un presente designabile e assumibile, anche se attraverso la memoria: nascita anacronistica, anteriore al suo proprio presente, non-inizio, an-archia; nascita latente – mai presenza».  17 Quindi Levinas, rifacendosi alla distinzione tra parlare e vedere  18 presa in esame da Blanchot, osserva: «Se la visione e la conoscenza consistono nel potere sui loro oggetti, nel dominarli a distanza, il rovesciamento eccezionale che la scrittura produce comporta l’essere toccato da ciò che si vede essere toccato a distanza».  19 Di qui, secondo il filosofo ebreo lituano il darsi della scrittura nei termini di una «struttura quasi folle, nell’economia generale dell’essere, e per la quale l’essere non ha più economia, perché esso non comporta più – affrontato

disturba l’ordine in cui l’essere e il non-essere si organizzano. Questo Neutro non è qualcuno né qualcosa. [...] Tuttavia vi è in esso più trascendenza di quanta alcun secondo mondo ne abbia mai dischiusa” (E. Levinas, Su Maurice Blanchot, cit., p. 114, c.vo nostro). 17  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 174, (c.vo nostro). 18  Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., p. 195. Scrive Levinas: «Nel pensiero inteso come visione, conoscenza e intenzionalità, l’intelligibilità significa dunque la riduzione dell’Altro al Medesimo, la sincronia come essere nella sua unificazione egologica». 19  E. Levinas, Su Maurice Blanchot, cit., pp. 84-85.

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attraverso la scrittura – alcuna abitazione, non comporta alcuna interiorità. Esso è spazio letterario, cioè esteriorità assoluta – esteriorità dell’assoluto esilio. La scrittura sarebbe, da parte sua, l’inverosimile procedere di un potere che, a un certo punto chiamato ispirazione, “vira” in non-potere».  20 3. Mantenere la parola Ora «se ogni parola iniziale comincia col rispondere, risposta a ciò che non si è ancora inteso, risposta attenta in cui si afferma l’attesa impaziente dell’ignoto e la speranza ansiosa della presenza»  21, non ne viene che la parola, nella sua dimensione originaria, costituisce la risposta diacronica al «Faremo e poi udremo»? E ancora il paradosso del mantenere la parola nei confronti di ciò che non ho scelto e di cui, mio malgrado, debbo farmene carico – un essere fedeli ex post alla parola come Dire – non è forse un’altra espressione che nella sua tensione diacronica annuncia nel Dire la felix culpa ovvero il dovere felice di amare l’Altro? Nella «parola plurale», tesa tra il parlare e la violenza radicale, non risuona il monito levinasiano di non uccidere altri e di non lasciarlo morire da solo  22? E il fatto stesso che la parola consista «nel mantenere prima di tutto il movimento dell’oppure»  23 non rinvia, forse, alla fatticità storica di un «io sono» che spera-per-il-presente-con-l’altro

20  Ivi,

pp. 85-86 (c.vo nostro). Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 60. 22  E. Levinas, Tra noi, cit., p.204. 23  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 75. 21  M.

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come sospinto nel passato immemorabile di un «allora, antico profondo, allora»  24? Un’eco che non smette di risuonare neppure quando l’esserci decida di servirsi del suo potere assoluto: quello di dare la morte. Il Moi, per quanto possa restare sordo a quel richiamo, immerso com’è nella chiusura monadica del proprio sé, potrà certo ricorrere alla sua forza bruta, ma mai gli sarà dato di poter ridurre a sé – quasi fosse un noema – l’alterità d’Altri, che è sempre al di là. Comunque irraggiungibile. Come scrive Blanchot: Caino uccisore di Abele è l’io che, scontrandosi con la trascendenza di un altro [...] tenta di farvi fronte ricorrendo alla trascendenza dell’assassinio. [...] Nel momento in cui l’io non accoglie la presenza dell’altro negli altri come il movimento in cui l’infinito viene a me, nel momento in cui questa presenza si richiude sull’altro come proprietà di un altro installato nel mondo, nel momento in cui cessa di dar origine alla parola, la terra non è più abbastanza spaziosa per accogliere entrambi, e bisogna che uno dei due rifiuti l’altro – assolutamente. Ho notato – sottolinea l’Autore – che quando Caino vuole avere una spiegazione con Abele, dice: “Andiamo fuori”. Sembra cioè sapere che il fuori è il luogo di Abele, e nello stesso tempo sembra volerlo ricollocare nella povertà, nella debolezza del fuori, dove crollano tutte le difese. Può darsi; eppure nell’istante preciso in cui Caino, ossia l’approssimarsi della minaccia mortale, riduce la presen-

24  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 206. Chiarisce Levinas: «Il problema consiste solo nel chiedersi se l’inizio sia all’inizio; se l’inizio, come atto della coscienza, non sia già preceduto da ciò che non potrebbe sincronizzarsi, vale a dire da ciò che non potrebbe essere presente – dall’irrappresentabile; se l’anarchia non sia più antica dell’inizio e della libertà» (c.vo nostro).

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za alla nudità della presenza indifesa, proprio allora si rivela come ciò che la morte come potere distrugge ma non raggiunge. Ciò che essa fa sparire radicalmente, ma non afferra. Ciò che cambia in assenza, ma non tocca. Sulla sua presenza il potere non ha presa.  25

Ora, questa trascendenza dell’altro che tradisce «la parola (che) afferma l’abisso che c’è tra “me” e l’“l’altro” e valica l’invalicabile senza abolirlo né diminuirlo»,  26 che si rifà a «una parola che mantenga nella sua irriducibile indifferenza la verità estranea, quella dello Straniero il quale, nella sua parola stessa, è presenza dell’esteriorità»  27 e ancora che fa segno – poiché in essa «è presente la separazione grazie alla quale essa parla»  28 – alla distinzione tra la prima e la seconda parola: per un verso quella del potere, dell’opposizione, della tematizzazione; per l’altro quella che annuncia la distanza infinita dell’Altro,  29 non svela forse il significato originario del mantenere la parola in quanto rispondere all’impossibile di contro al nominare il possibile?  30 Un rispondere all’impossibile che accade dinanzi al volto dell’Altro come trascrizione di quel «passato immemorabile» al quale obbedisco ancor prima di aver ricevuto l’ordine e di aver potuto scegliere. Scrive Blanchot:

25  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., pp. 74-75 (c.vo nostro). 26  Ivi, p. 76. 27  Ivi, p. 77 (c.vo nostro) 28  Ivi, p. 76 (c.vo nostro). 29  Cfr. ivi, p. 78. 30  Cfr. ivi, p. 79.

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Quando un Altro [Autrui] mi parla, non parla come me. Quando mi appello all’Altro [Autre], rispondo a ciò che non mi parla da alcun luogo, e ne sono separato da una cesura tale che io e lui non formiamo né una dualità né un’unità. Questa fessura – questo rapporto con l’altro – è ciò che abbiamo osato definire interruzione d’essere. [...] Tra uomo e uomo c’è un intervallo che non è dell’essere né del non essere, e che è contenuto nella Differenza della parola, differenza che precede ciò che è diverso e ciò che è unico.  31

4. Il supplice e la rottura diacronica del Moi Ora, a che cosa rinvia questo intervallo/fessura, che è di ordine temporale, se non al «frattempo» della diacronia e qual è l’in-vista-di-cui della differenza se non lo schiudersi dell’approssimarsi  32 – espres-

31  Ivi,

p. 85 (c.vo nostro). E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 94-96. Spiega Levinas: «La prossimità del prossimo rimane rottura dia-cronica, resistenza del tempo alla sintesi della simultaneità. [...] La mia responsabilità – mio malgrado – che è la maniera in cui altri incombe su di me – o mi incomoda – cioè mi è vicino, è intesa o intendimento di quel grido. È il risveglio. La prossimità del prossimo è la mia responsabilità per esso: approssimarsi è essere custode del proprio fratello, è essere il suo ostaggio. [...] Esposizione che non assomiglia alla coscienza di sé alla ricorrenza del soggetto a se stesso, confermando l’io con se stesso. Ricorrenza del risveglio che si può descrivere come il brivido dell’incarnazione grazie alla quale il dare prende un senso – dativo originale del per l’altro in cui il soggetto si fa cuore e sensibilità e mani che donano» (c.vo nostro, tranne per l’altro e dare). Sulla relazione tra plesíos e echthrós, tra proximus e inimicus sono molto penetranti le riflessioni di M. Cacciari, in E. Bianchi - M. Cacciari, Ama il tuo prossimo, il Mulino, Bologna 32  Cfr.

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sione centrale in Levinas per Dire la sostituzione dell’esserci – e insieme il riverberarsi dell’eco diacronico della felix culpa? Allo stesso modo la Nuova Misura evocata dal supplice, «Misura con cui la potenza deve misurarsi» poiché «il supplice non è più debole e nemmeno il più debole: è così in basso da cadere del tutto fuori portata: è separato»  33, non introduce forse uno sconvolgimento dell’ordine totalitario del soggetto cui corrisponde inevitabilmente il capovolgimento della sua stessa coscienza? Il supplice «è l’uomo del venire, sempre in cammino perché non ha luogo; egli suscita – riflette Blanchot – la più misteriosa delle domande, quel-

2011, pp. 89-90 allorché, rifacendosi alla parabola del samaritano, il filosofo scrive: «Prossimo è chi si fa prossimo, chiunque egli sia, da dovunque venga e ovunque vada. Prossimo neppure è colui che è giunto ad esserci vicino, e fonda accanto alla nostra la sua casa. Il samaritano si fa prossimo, e se ne parte per la sua strada. Neppure si fa riconoscere, e nessun segno, nessun simbolo lascia affinché lo si possa ritrovare. Questo plesíos non smette di essere altro da noi. Il suo approssimarsi non comporta in alcun modo un diventare simile, un “uguagliarsi”, a colui che si avvicina. La loro distanza, da questo punto di vista, non viene mai meno. Certo, a differenza delle altre figure che si imbattono nel corpo massacrato dell’“homo quidam”, il samaritano assume appunto il carattere di colui che si arresta e lo raccoglie. Egli manifesta la propria identità in forza di tale incontro. Non esisterebbe senza la risposta che ad esso è stato capace di dare. Egli è il responsabile perché si è approssimato a quel corpo offeso – e che neppure implorava aiuto, era muto ormai, come morto. [...] L’incontro con l’altro è necessario a “designare” la persona nel suo confine – e cioè secondo quella soglia lungo la quale essa tocca l’altro (“... infundens... imponens...”), senza penetrarlo né assimilarlo». 33  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 114.

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la relativa all’origine».  34 E aggiungiamo noi: nell’asimmetria con il Moi, con la sua presenza refrattaria ad ogni presa da parte della coscienza intenzionale fa risuonare l’eco diacronico della felix culpa senza che esso ricada nel detto, manifestandosi in una singolare epifania: l’accadimento stesso del tempo che scorre trasversalmente tra me e l’altro. L’inverarsi della diacronia ove l’uno è il «portante»  35 per eccellenza e l’altro «il parlante» per eccellenza. «Il supplice – scrive Blanchot – supplica senza certezza e senza garanzie»;  36 egli può essere accolto o rifiutato e risospinto sul piano sincronico dell’essere: ridotto all’«imborghesimento del Medesimo», che «Ingrassato, recalcitra (Dt 32, 15)».  37 Dunque su che cosa si fondano le sue speranze (quelle del supplice N.d.R.)? Sul fatto di parlare. Il supplice è il parlante per eccellenza. Attraverso la parola, lui così in basso – si pensi alla vedova, all’orfano e allo straniero cui più volte Levinas fa riferimento (N.d.R.) – entra in rapporto con chi è molto in alto, e senza abolire la distanza invita il suo potente interlocutore in uno spazio [...] che è tra i due: quell’intervallo è il luogo stesso del mezzo. [...] La misura è la parola, ma non una parola qualunque. La parola del supplice esprime il dolore di chi parla e nello stesso

34  Ivi,

p.113 (c.vo nostro). E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., nota 12, p. 136. 36  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 114. 37  E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 49. Nella nota 30 della stessa pagina Levinas commenta mirabilmente il versetto citato con queste parole: «Insensibilità che non equivale all’ideologia: poiché nel pieno riposo del Medesimo, in cui la ragione legittimamente “è paga”, sonno senza influenza di alcuna pulsione, di alcun desiderio. Ma ingrassamento che certo apre la ragione alle ideologie». 35  Cfr.

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tempo rende manifesta la presenza del dio pur nella sua invisibilità.  38

Nel supplice si intravede il volto dell’Altro, la traccia dell’Illeità. Tra questi e il suo interlocutore accade qualcosa: un intervallo che inaugura un tempo altro da quello del detto dove «nella ritenzione, nella memoria e nella storia, niente è perduto, dove tutto si presenta o si ripresenta, dove tutto si consegna o si presta alla scrittura, o si sintentizza o si raccoglie»:  39 in breve si sincronizza; qual è questo tempo altro, se non quello del Dire o della diacronia che eviene attraverso un «movimento che disfa le parole ridotte al presente»?  40 Un movimento che Blanchot chiama l’Attesa, l’Oblio: Oblio contro la reminiscenza – tuona Levinas – attesa che non è attesa di qualcosa. “Attesa, che è il rifiuto di attendere niente, calma estensione rotolata dai passi”. L’Attesa, l’Oblio che si congiungono senza che alcuna congiunzione li abbia uniti in struttura. Essi non designano stati d’animo la cui intenzionalità, tramite fili innumerevoli, consoliderebbe ancora l’inestricabile trama dell’essere che si piega e si chiude su se stesso.  41

Al contrario essi tentano di aprire delle faglie nel tessuto magmatico dell’essere dove il soggetto egoista “si fa un nido” e sbarca il lunario” [...] L’istante “carico di tutto il suo passato e gravido del suo avvenire”, l’istante del presente il cui teso dinamismo rende tutto contempo-

38  M. Blanchot, La conversazione infinita, cit., p. 114 (c.vo nostro). 39  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 13. 40  Id., Su Maurice Blanchot, cit., p. 101. 41  Ibidem.

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raneo ed eterno, ritorna alla tranquillità dell’attesa. [...] E l’oblio si allontana dall’istante passato ma conserva una relazione con ciò da cui si allontana “quando dimora in una parola”. Ecco – avverte Levinas – la diacronia restituita al tempo. Tempo notturno: “la notte nella quale non è atteso nulla rappresenta questo movimento dell’attesa”.  42

Come nell’insegnamento la trasmissione del sapere non può ridursi alla reminiscenza facendo del maestro un ostetrico dell’allievo, così l’oblio senza reminiscenza restituisce all’«io sono» che si temporalizza il segreto di «quell’allora», ma a condizione che l’attesa non sia correlata a un noema, bensì divenga sinonimo di attenzione, intesa come quel movimento che facendomi andare oltre me stesso, che è poi la rottura dell’identità, per farmi incontro all’altro in una responsabilità senza requie fa sì che, perdendomi, mi ritrovi. Come dire: Diacronia senza protensione, senza ritenzione. Non attendere nulla e dimenticare tutto – il contrario della soggettività “assenza di centro”. Decontrazione dell’io – della sua tensione su di sé – di “quell’esistenza per la quale nella sua esistenza ne va di questa esistenza stessa”.  43

L’«io sono» che ha messo sotto scacco la propria egoità, passando attraverso l’oblio originario, che è l’oblio di sé, si stacca da sé come le farfalle dalla crisalide, si muove andando incontro ad altri, trova una porta, «in questo sé allentato, al di là dell’essere e, secondo una formula che riassume l’eguaglianza, la giustizia, la carezza, la comunicazione e la trascendenza – formula mirabile per precisione e grazia – 42  Ibidem 43  Ibidem

(c.vo nostro). (c.vo nostro).

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“sono insieme, ma non ancora”».  44 In fondo, in questa rinunzia ad essere contemporaneo del risultato viene alla luce, attraverso l’opera, «in quanto orientamento assoluto del Medesimo attraverso l’Altro»,  45 la sfida – che ai nostri tempi non potrebbe che risultare scandalosa e paradossale – dell’assoluta gratuità, che si configura come sofferenza liturgica, ove il sostantivo di questo aggettivo – la liturgia – sta ad indicare «l’esercizio di un ufficio che non solo è completamente gratuito, ma richiede da parte di chi lo esercita un impiego di capitali in perdita».  46 Un esercizio nel quale Levinas, lo notiamo en passant, rinviene – nella resistenza non-violenta al male  47 – l’unica risposta alla sofferenza inutile, perché essa possa diventare, almeno, sofferenza non-inutile.  48 Questo, appunto, implica «la completa gratuità dell’Azione – gratuità distinta dal gioco – (che) solleva la nostra epoca anche se gli individui possono fare torto alla sua altezza».  49

44  Ivi,

p. 102 (c.vo nostro). Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 69. 46  Ibidem, (c.vo nostro). 47  Sulla grande questione del male, in particolare nelle riflessioni di Kant e Levinas, ci permettiamo di rinviare al nostro saggio: F. Nodari, Il male radicale tra Kant e Levinas, Giuntina, Firenze 2008. 48  Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 123-135. Rinviamo, in particolare a quanto scrive l’Autore a p. 127: «C’è una differenza radicale tra la sofferenza in altri in cui essa è per me imperdonabile e mi sollecita e mi invoca e la sofferenza in me, la mia propria avventura della sofferenza la cui inutilità costitutiva o congenita può acquistare un senso, il solo di cui la sofferenza sia suscettibile, divenendo una sofferenza per la sofferenza, fosse anche inesorabile, di qualcun altro» (c.vo nostro). 49  E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 69 (c.vo nostro). 45  E.

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Parte seconda

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Capitolo quarto Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Temporalità e insegnamento

1. Dallo scritto all’orale In un precedente lavoro  1 ci siamo soffermati sulla stretta correlazione tra insegnamento e testimonianza, da un lato, bisogno dell’altro e fecondità del Maestro dall’altro. Ci siamo misurati, in una sorta di corpo a corpo con i testi levinasiani, specialmente contenuti nella seconda opera inedita sulla contrapposizione tra la visione di profilo o filologica del Maestro, e quella panim el panim, se ci è consentito utilizzare questa espressione, laddove emergeva la superiorità dell’orale sullo scritto (nel libro l’autore è in contumacia e il lettore non può misurarsi con nessuno), la richiesta di aiuto dell’allievo che si rivolge al Maestro dandogli del Lei supplicando un suo aiuto e l’accadere del rapporto fecondo tra Maestro e allievo grazie all’instaurarsi del circolo virtuoso della fiducia che consiste nel fatto che il Maestro ci considera capaci di futuro, crede in noi  2 e vuole che noi ci incamminiamo liberamente 1  F. Nodari, Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Maestro. Una questione morale, cit. supra, p. 20, nota 5. 2  Sul «fare fiducia», sul poter credere agi altri, è molto prezioso il volume di E. Bianchi, Fede e fiducia, Einaudi, Torino 2013. Si chiede il Priore di Bose: «Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi uomini, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero materno, e per venire al

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verso di esso ovvero decidiamo-di iniziare-qualcosacon-noi-stessi, ma, al tempo stesso, è sempre pronto a sostenerci. Attraverso questo accadimento della fiducia si schiude, pertanto, la possibilità che il Maestro speri-con-il-discepolo e finanche lo sopporti in una tolleranza fiduciosa  3, che è già misericordia  4.

mondo e crescere come persone, per acquisire una soggettività, abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fiducia-fede. [...] La fiducia in se stessi dipende in gran parte da questo poter credere agli altri, perché è di fronte alla parola venuta da qualcun altro che il bambino impara a situarsi. Accogliendo la parola che viene dall’altro si mette fiducia in lui e nello stesso tempo si afferma la propria identità. In questo esercizio del credere si scambia la parola, nasce la coscienza, crescono la soggettività e la relazione, che permettono agli uomini di confessare reciprocamente: “Io credo in te”. [...] La nostra società ha consapevolezza di questa dinamica che è presente in ogni uomo? È cosciente che, se non fa accedere gli uomini e le donne alla fiducia-fede, favorirà il proliferare di persone “rivoltate”, incapaci di vita sociale, private della possibilità di conoscere l’amore? Anche solo questa esperienza “fontale” ci rivela che nella nostra vicenda umana non è possibile crescere senza dare e ricevere fiducia» (ivi, pp. 12-15, c.vo nostro). Sull’argomento si veda anche il saggio di M. Marzano, Avere fiducia, Mondadori, Milano 2012. 3  Cfr. B. Casper, Sui diversi modi di intendere e vivere la tolleranza, tr. it. di S. Bancalari, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013, pp. 43-44. Spiega Casper: «Nel lasciar-si coinvolgere fiduciosi in questo nuovo futuro, non pre-programmabile, accade qui una tolleranza positivamente consenziente, nella quale chi acconsente, nel ritirare se stesso quale fondamento onnipotente, si fida della positività di un futuro inanticipabile. Una simile tolleranza fiduciosa può anche essere definita tolleranza amorevole: qualcuno si fida del fatto che l’essere un sé dell’altro – che è come l’io, cioè che può parlare, e che però non è me – ha un senso positivo infinito. Nella fiducia in questo senso infinito la tolleranza diviene un atto religioso». 4  E. Levinas, Œuvres 1, p. 436 (c.vo nostro).

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Per non dire della convinta opposizione di Levinas al ruolo del maestro confinato a mero ostetrico dell’allievo: egli si svaluta sopravvalutando la concrezione del sapere come reminiscenza piuttosto di quella che si dà nell’accadere dell’incontro tra i due. Costui  5 non si limita a far partorire le anime gravide di verità, ma è colui di fronte al quale mi trovo, chiedo aiuto e da lui apprendo poiché dal suo volto scaturisce e si irradia la verità. Scrive Levinas:

5  Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit, p. 49. Scrive Levinas: «Il rapporto con Altri o il Discorso è un rapporto non-allergico, un rapporto etico, ma questo discorso accolto è un ammaestramento. Ma l’ammaestramento non equivale alla maieutica. Viene dall’esterno e porta in me più di quanto non abbia già. Nella sua transitività non-violenta si produce proprio l’epifania del volto» (c.vo nostro). Su questo punto si veda: J. Derrida, Adieu à Emmanuel Levinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. Addio a Emmanuel Levinas, tr. di S. Petrosino e M. Odorici, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, pp. 78-79 e 88-89. È interessante notare come questo passo venga citato per ben due volte da Derrida e come rivolgendosi a Levinas, chiamandolo maestro, voglia evidenziare il fatto che egli «non separò mai il suo insegnamento di un pensiero insolito e difficile dall’insegnamento – e per la precisione dall’insegnamento magistrale nella figura dell’accoglienza, di un’accoglienza in cui l’etica interrompe la tradizione filosofica e sventa l’astuzia del maestro quando questi finge di nascondersi dietro la figura della levatrice. Lo studio di cui parliamo – prosegue Derrida – non si riduce alla maieutica. Quest’ultima, osserva Levinas, mi rivelerebbe solo ciò di cui sono già capace. [...] potremmo forse dire che la maieutica, secondo Totalité et infini, non insegna nulla. Svela solo ciò che sono in grado (à même) già di sapere io-stesso (moimême), di poter sapere di me-stesso, in questo luogo in cui lo stesso (egomet ipse, medisme, meisme, da metipse, metipsimus) raccoglie in se stesso potere e sapere, e in quanto stesso, lo stesso essere-in-grado-di (être-à-même-de) nella proprietà del suo proprio, nella sua essenzialità stessa» (cfr. ivi, p. 79).

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La teoria della maieutica misconosce il ruolo del maestro nell’insegnamento. Socrate – afferma Levinas – si sottostima. [...] Il pensiero si costruisce nel dialogo dell’insegnamento. Noi siamo a priori non davanti alle idee, ma di fronte a un maestro. L’in sé della verità non è presente nella reminiscenza, ma nel volto. Questa presenza dell’idea nella parola del maestro e questa sostanzialità della verità, attraverso la sua presenza nella parola del maestro – la chiamiamo precisamente il suo volto.  6

Come dire: questo rapporto dialogico che scaturisce da una ragione che parla apre definitivamente la strada a un intendimento altro del pensare: non più o solo com-prendere, in-tendere, discorso silenzioso dell’anima con se stessa; bensì pensiero incarnato, temporalizzantesi: Rottura del mondo solitario: relazione del sé con ciò che in me è avanti a me – pensare: sorprendersi. [...] Pensiero. Struttura della creatura. Pensiero relazione con il passato che non è reminiscenza, ma?... preghiera.  7

Solo così il Maestro diviene fecondo e il bisogno dell’altro trova il suo compimento nella condivisione di un futuro che ha il suo in-vista-di-cui-finale nella salvezza.  8

6  E.

Levinas, Œuvres 2, p. 210. Œuvres 1, p. 436 (c.vo nostro). 8  Su questo punto, cfr. B. Casper, L’essere e la salvezza. La portata dei Carnets de captivité in vista di una nuova comprensione dell’umano, e la relazione tra ebraismo e cristianesimo, in E. Levinas - B. Casper, In ostaggio per l’Altro, cit., pp. 39-60. 7  Id.,

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2. Tragicità dell’istante  9 Resta, tuttavia, da chiarire il senso profondo della fecondità dell’«io sono» che scaturisce da questo intendimento della fiducia che si dà tra Maestro e allievo. Forse, se così ci è consentito esprimerci, occorre guardare alla stretta connessione che vi è tra fecondità e istante. In proposito ci sono di vero aiuto le riflessioni che Levinas compie nel saggio intitolato La separazione, ove ciò che è messo in evidenza è la portata di questa separazione stessa che ha una connotazione innanzitutto temporale. Come dire: ciò che sta alla base della prossimità e dell’asimmetria è l’esodo dal «finta di niente» dell’il y a, la rottura della totalità che si configura – versus Plotino e la tradizione ontologica che com-prendono il tempo come sostituto imperfetto dell’eternità – nei termini del cogito inteso come istante di presenza totale a sé, strappato alla pienezza dell’essere [...]. È un Istante di separazione. {e} Separazione di un istante: l’essere che oltrepassa infinitamente la sua idea in noi – Dio nella terminologia cartesiana – sottintende, secondo la terza Meditazione l’evidenza del cogito.  10

Lo iato che accade tra Creatore e creatura è inscritto in quell’intervallo di tempo che presuppone necessariamente l’ateismo, che è «l’istante del cogito, (che) è un istante senza Dio». Che cosa vuol dire Levinas in questo punto? Il suo tentativo è quello di esplicare

9  Cfr. 10  Id.,

E. Levinas, Œuvres 1, p. 63. Œuvres 2, p. 254.

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che cosa accade – si pensi alle descrizioni relative alla fatica dell’istante  11 – nel momento stesso in cui l’esistente diviene ipostasi e fa il suo ingresso nell’esistenza: questi non è causa sui, eppure è con tutto il suo esserci che ha rotto con le maglie della totalità. Che cosa ne viene da ciò, se non il fatto che «questa separazione rispetto a un tutto e rispetto ad ogni passato» non è possibile che come psichismo {interiorità} in cui il Dopo o l’Effetto è la condizione del prima o della Causa, vale a dire in cui il prima appare ed è soltanto accolto. Così, che il presente del cogito nonostante l’appoggio che scopre a posteriori nell’assoluto che l’oltrepassa, possa sostenersi tutto solo – non fosse che per un instante – lo spazio di un cogito – che possa esserci istante di piena giovinezza, incurante del suo scivolare nel passato?  12

Di contro alla volontà interiore definita dalla libertà, Levinas, andando oltre Cartesio, rinvia ad una nozione che possiamo senz’altro affermare si chiarisce ancor meglio in questi inediti consentendoci, pertanto, di capire più a fondo gli scritti della maturità: questa nozione è lo psichismo, ossia la resistenza alla totalità, ciò che mette capo al rovesciamento dell’ordine ontologico dell’unità che è quello dell’essere senza separazione. Questo rovesciamento – precisa Levinas – è il tempo. [...] Il tempo è il fatto che l’essere non è in una sola volta, che tutto, anche la Causa del tutto, è ancora a venire.  13

11  Cfr. Id., De l’existence à l’existant, cit.; Vrin, Paris 1978, tr. it. Dall’esistenza all’esistente, cit., pp. 18-19 e 24; Id., Œuvres 1, p. 178. 12  Id., Œuvres 2, pp. 254-255. 13  Ivi, p. 255.

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Come dire: l’ex ante mi si rivela ex post, ma a patto che l’io venga ex nihilo. Argomenta ancor più incisivamente Levinas che introduce, tra «l’istante puntuale della nascita e della morte», la dimensione dello psichismo: La nascita di un essere separato deve provenire dal nulla. Il cominciamento è un evento storicamente impossibile. Chi riceve l’essere, infatti, per ricevere deve già essere – ciò che è propriamente impossibile perché l’essere che riceve non lo ha. [...] L’essere separato è separato solo perché proviene dal nulla, esiste come se traesse la sua origine da sé. Questo paradosso si compie con lo psichismo. La vita psichica come memoria permette di compiere il cominciamento. Con la memoria io fondo me stesso a posteriori, accolgo retrospettivamente quanto nel passato non aveva un soggetto per essere ricevuto.  14

Contro il processo di contabilizzazione instaurato dalla storia universale, scocca l’intervallo in cui l’ego è chez moi, in balia del «jouir de...», incline al soddisfacimento dei bisogni al punto da poter affermare che è «il godimento che compie la separazione atea».  15 Tuttavia, ben presto, l’ipostasi scopre nella vita economica, che è il risultato della separazione, il darsi di una «indipendenza attraverso la dipendenza».  16 Per quanto possa ritenersi alle porte del paradiso, l’«io sono» di carne e di sangue, nonostante il lavoro e il suo fare, è assalito da un’insicurezza che viene solo procrastinata. Che cosa glielo rivela, che cosa fa segno alla sovranità equivoca del godimento?

14  Ivi,

p. 273 (c.vo nostro). p. 262. 16  Ibidem. 15  Ivi,

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Proprio perché l’esserci si può comprendere nell’unico modo in cui gli è dato di esperirsi – ovvero nella sua incarnazione mortale e finita – è appunto nel «corpo che lavora» che risiede «l’evento originario del rinvio, quello che apre la dimensione stessa del tempo. La vita è corpo; non soltanto corpo proprio attraverso cui la vita è il dominio del luogo che abita, ma incrocio di forze fisiche, corpo-effetto. Nella sua profonda paura, la vita attesta questa inversione sempre possibile dal corpo-dominio al corpo subìto, dalla salute alla malattia. Il corpo è, da una parte, sostenersi, essere padrone di sé e, dall’altra, il corpo è mantenersi sulla terra, essere in un altro, e per questo, avere soltanto un corpo».  17 Nel suo brancolamento il corpo tradisce tutta la difficoltà che l’esserci prova nell’integrarsi nell’essere o nel rimanere nei suoi interstizi,  18 esperisce l’opacità del suo godimento e avverte tutta la solitudine di chi è a casa propria. Come dire: è proprio nella separazione e, dunque, nel generarsi dello psichismo come resistenza alla totalizzazione che si schiude un tempo morto nel quale la tragicità dello «stare» dell’istante pone il soggetto a un bivio: decidersi-ad-iniziare-qualcosa-con-se-stesso nella propria fatticità storica, spogliarsi di sé per andare incontro all’Altro oppure rifugiarsi nella cattiva interiorità di un ego che non vuole deporre la propria sovranità: detto altrimenti, divenire fecondo o restare per sempre sterile.

17  Ivi, 18  Ivi,

p. 264. p. 267.

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3. Compimento e generazione Grazie alla pubblicazione degli inediti, ci preme ribadirlo, notiamo come per Levinas la nozione di fecondità sia strettamente connessa a quella di temporalità e di storia. In che cosa consiste il tempo se non in una sorta di sistole e diastole? Infatti, come nota Levinas, l’essere non è qualcosa di definitivo e di morto ma, nel suo fondo, è il mistero del tempo, vale a dire morte e risurrezione. Il tempo è di conseguenza la dualità stessa dell’atto d’essere. Questo essere in due atti – è la sessualità. Il tempo è dunque insieme dualità d’atti, ma la sessualità in quanto prototipo di questa dualità ce ne rivela il carattere drammatico.  19

A proposito della sessualità, è nota la critica che più volte Levinas rivolge a Platone  20 allorquando quest’ultimo scorge nell’eros  21 una fusione e non la constatazione del fatto che si debba essere almeno in due, così com’è nota la sua fenomenologia del femminile che sfugge ad ogni presa e conserva il segreto «del “men che nulla” [...] sopito al di là dell’av-

19  E. Levinas, Eros, littérature et philosophie. Essais romanesques et poétiques, notes philosophiques sur le thème d’éros, volume publié sous la responsabilité de J.-L. Nancy et de D. Cohen-Levinas, établissement des textes et annotations matérielles par D. Cohen-Levinas, assistée de D. Stidler, textes russes transcrits, traduits et présentés par L. Kharlamov, préface de J.-L. Nancy, Grasset-Imec, Paris 2013, p. 195 (d’ora in poi Œuvres 3). 20  Cfr. Id., Œuvres 1, pp. 117 e 119. 21  Ivi, pp. 113-114. Chiarisce Levinas: «Sessualità costitutiva dell’egoità. Rottura con la concezione antica dell’amore» (c.vo nostro).

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venire».  22 Pena la sua violazione, la profanazione del suo pudore, l’asservimento dell’Altro a me. Ora se la sessualità sta alla base della società  23 e, dunque, del mio incontro con l’Altro, perché ciò avvenga e perché l’esserci prenda davvero sul serio il tempo, occorre pervenire al compimento del secondo istante, che presuppone il primo: quello dell’ipostasi e pertanto dell’atto d’inserzione nell’esistenza. Di contro alla filosofia classica in cui «il tempo era concepito come una degradazione dell’esistenza eterna e come ciò che imitava nel suo movimento, l’immobilità dell’eterno», per Levinas la temporalizzazione e dunque «la dualità dell’atto di essere, la possibilità per lui (il soggetto N.d.R.) di ricominciare e di risuscitare è la condizione della salvezza e della felicità».  24 Di qui la necessità per il filosofo di approfondire la nozione di accomplissement – davvero centrale per intendere la sua trattazione della temporalità. Ed è particolarmente significativo che, dopo aver precisato che «il fondo dell’io è la fecondità»,  25 l’Autore avverta che l’intendimento della fecondità sia tutt’altro che biologico  26 e, insieme, chiarisca il fatto di es-

22  Cfr.

E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 265. Levinas, Œuvres 1, p. 66. Ribadisce Levinas: «Non che vi sia la “fusione con altri” – piuttosto c’è dualità dell’io. E questa dualità sarà descritta dettagliatamente nella concupiscenza carnale – che si considera a torto un desiderio come un altro. La sessualità come origine del sociale. Poiché c’è intimità del sessuale, si dà il fenomeno sociale che è più che la “somma degli individui”» (c.vo nostro). 24  E. Levinas, Œuvres 3, p. 195 (c.vo nostro). 25  Ivi, p. 196. 26  Come è noto, Levinas conduce le sue riflessioni a partire 23  E.

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sere pervenuto a questa nozione a partire dall’analisi dell’istante. Poi spiega: L’essere è nel suo fondo un ricominciamento possibile. Questo ricominciamento possibile è il tempo. E il compimento del tempo è la fecondità dell’io. Di là si afferma non solamente la molteplicità degli istanti, ma anche la forma concreta del loro legame. Abbiamo visto che l’io non è nient’altro che la relazione di un istante con l’altro. Questa relazione è la possibilità per l’io di ricominciare nel figlio. Ma con ciò questo non è un semplice istante nuovo che è dato – ma lo spazio del tempo che abbraccia i due istanti. Poiché la paternità non è la semplice apparizione di un nuovo istante, ma il luogo che lega il padre al figlio – l’amore paterno: la relazione di un io con uno straniero che non essendo io è me – l’io con lui stesso che è straniero a me. Il figlio non è semplicemente mia opera, è me.  27

Ora, se il compimento del tempo sta nella fecondità dell’io e se la paternità – che, come sappiamo, Levinas di contro ad Aristotele non intende in termi-

dalla nozione – non biologica – della fecondità dell’io. Su questo punto, cfr. supra, cap. II, Quando il tempo non è una moneta falsa, par. 3, L’accadere dell’essere come ringraziare, p. 91, nota 35. Si vedano, inoltre, E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, cit., p. 15 e E. Levinas - B. Casper, In ostaggio per l’Altro, cit., p. 31. Nel colloquio svoltosi a Parigi l’11 giugno 1981 tra Casper e Levinas nel corso del quale, incalzato dalla domanda del filosofo tedesco: «Intende forse dire che vi possono essere uomini che non sono fecondi da un punto di vista biologico e che tuttavia sono fecondi ugualmente?», Levinas risponde così: «Certo, certo, certo. E io penso di nuovo a un versetto di Isaia... “Chi è sterile conoscerà la sua gioia”. Non è vero? Ossia conoscerà la sua gioia proprio come un uomo che ha molti figli». 27  E. Levinas, Œuvres 3, p. 197 (c.vo nostro).

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ni di causa, ma di «relazione originale»  28 – è il luogo del non-luogo del moi, ovvero l’esemplificazione dello spazio che abbraccia i due istanti, allora si può ben comprendere quanto il filosofo afferma allorché scrive che il figlio non è un evento qualsiasi che mi capita e al quale si può applicare la categoria di essere come per esempio la mia tristezza o la mia opera, o la mia morte; ciò che io sono nel caso specifico è un sostantivo, un soggetto, un’ipostasi. L’amore paterno è precisamente l’evento concreto della mia transustanziazione in un altro me che insieme è me e non è me. Di qui il tempo si compie in una maniera completa. È relazione tra due moi. È storia in quanto due generazioni.  29 È storia.  30

E poi aggiunge: La nozione di storia ordina la nozione del mondo. In questo senso la nozione della storia è una nozione d’assoluto. Suppone l’intervallo e il niente che la rendono possibile. [...] Ma noi dobbiamo studiare più attentamente le condizioni della partecipazione vale a dire della fraternità e della fecondità del moi. Nell’esplicare la significazione che l’intervallo del tempo morto riveste per i due istanti – il suo carattere di attesa e di errore – perverremo alla no-

28  Id.,

Œuvres 1, p. 129. stretto rapporto tra tempo e generazione, si veda Id, Œuvres 1, p. 391 «Il rapporto che si compie nella generazione – è quello del tempo stesso. Rapporto con ciò che non è – ma rapporto che non è la previsione o la conoscenza. Qualcosa che non è riceve l’essere. A partire dal presente verso l’avvenire – il fatto di essere l’altro. La posteriorità è la maniera in cui il moi è l’altro. Eros condizione di questa dualità e del tempo» (c.vo nostro tranne Eros). 30  Id., Œuvres 3, p. 197 (c.vo nostro). 29  Sullo

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zione di ritmo del tempo del compimento e della salvezza. Noi otterremo così la nozione di Bene.  31

Da queste righe si percepisce quanto stesse a cuore a Levinas il corretto intendimento della già menzionata tragicità contenuta nell’istante – non a caso parla di attesa e di errore – poiché dal raggiunto o mancato compimento non di un solo istante – se si limitasse al primo, il moi resterebbe mera ipostasi in balia dell’elementale – ma di entrambi, ne va della salvezza o meno dell’«io sono» di carne e di sangue. Il compimento – insiste Levinas – che nella posizione ci è apparso come l’essere più che l’essere – a causa del cominciamento dell’intervallo e dell’assunzione che ne costituisce l’economia – diventa compimento storico nella partecipazione. Non si tratta di una nuova tappa o di un ulteriore grado di compimento, ma del completamento di ciò che è già contenuto nella posizione. La posizione è un compimento – e il cominciamento di un soggetto. Ma la soggettività del soggetto essa stessa è compiuta in un evento in cui non è solamente il suo essere che è assunto, ma la soggettività del suo essere. E questo evento è la partecipazione fondata sulla paternità e in ultima istanza sulla fecondità del soggetto. Il tempo è pertanto l’evento stesso della partecipazione e del compimento.  32

4. Temporalizzazione come assunzione dell’«allora insegnato» Quindi, in una sorta di corpo a corpo tra temporalità e fecondità – quasi a voler lasciare di nuovo 31  Ivi, 32  Ivi,

p. 200 (c.vo nostro). pp. 200-201 (c.vo nostro).

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intendere che l’una non può darsi senza l’altra – Levinas si chiede in che senso la paternità (che è da intendersi anche in senso non biologico: il Maestro), relazione per antonomasia, possa conferire «al compimento il suo carattere di liberazione nei confronti dell’essere».  33 Così argomenta il pensatore: È la deipsi deipsizzazione. Essa non è un semplice oblio di sé, abnegazione, sacrificio – come la pensano “gli idealisti”. In questi filosofi l’abnegazione è pensata come un fatto psicologico e non come una partecipazione. Si configura innanzitutto come rinuncia di beni, di legami – non è sacrificio della soggettività – il disfarsi da parte del moi della sua stessa egoità. [...] La partecipazione della paternità/di contro – è l’abbandono del piano in cui il soggetto è supporto dell’evento. È un evento al di fuori dell’ipostasi o ancora si può affermare che è con la nozione di partecipazione che abnegazione, sacrificio, oblio di sé acquisiscono una portata ontologica.  34

Ora, la deipsizzazione del moi strettamente connessa con il compimento dei due istanti, non ci aiuta forse ad accostare con maggiore attenzione le categorie impiegate da Levinas, specialmente in Altrimenti che essere e inanellate in una sorta di climax ascendente che trova la sua acme nella sostituzione e, dunque, nel farsi-ostaggio-con-il-proprio-corpoper-l’altro? E dal dramma della stance dell’in-stans non si esce forse solo nel reciproco compimento dei due istanti: del seguente con l’antecedente nella storicità vissuta dell’esserci? Scrive Levinas:

33  Ivi,

p. 201 (c.vo nostro). (c.vo nostro).

34  Ibidem

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«Tutto il nostro sforzo è consistito nel mostrare che noi non veniamo da non so quale sorgente astratta ma da una relazione con gli esseri. È la relazione con altri che è il dramma stesso del tempo. Vale a dire che il tempo non è una semplice molteplicità di istanti astratti, ma che questa molteplicità non è possibile che sulla base di una storia. La dualità di atti che costituisce il dramma non è dunque esaurita attraverso la nozione di tempo, e questa ci è apparsa nello studio della nozione di “io”. L’istante “seguente” pur compiendo un ricominciamento  35 assoluto si riferisce all’istante precedente. L’io è precisamente questo parametro (référence). Non è la sintesi astratta di una molteplicità nel senso di un’unità dell’appercezione; esso dipende dall’intervallo stesso che separa gli istanti e attraverso il quale il secondo istante compie il primo. In effetti l’intervallo qui è essenziale. Il secondo istante non porta a compimento il primo come un fine. Il primo istante non è il mezzo di un fine. È il tragico dello stare stesso dell’istante che si trova risolto nel secondo.  36 Ma non perché il secondo istante è migliore del primo: è il ritmo stesso degli istanti separati attraverso l’intervallo che

35  Cfr.

E. Wiesel, Célébration biblique. Portraits et légendes, Seuil, Paris 1975; tr. it. Personaggi biblici attraverso il Midrash, Cittadella, Assisi 1978, p. 34 (c.vo nostro). Nell’analisi di alcuni personaggi biblici compiuta attraverso la lettura del Midrash, Elie Wiesel prende avvio proprio da Adamo (adam in ebraico significa uomo) per interrogarsi sul mistero del principio. A conclusione delle letture che si trovano nel Midrash è significativo quanto scrive il Premio Nobel da poco scomparso: «Secondo la tradizione ebraica, raccontata dalla leggenda, la creazione non finì con l’uomo. Al contrario, cominciò con l’uomo. Creando l’uomo, Dio gli fece dono del segreto, non del principio, ma del ricominciamento. In altre parole: all’uomo non è dato di cominciare; questo potere lo ha soltanto Dio. Ma l’uomo può ricominciare». 36  Sull’anteriorità di un istante sull’altro, cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 422: «Ainsi le temps – c’est le fait que tout {instant} est encore avant...» (c.vo nostro).

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è il bene. Il secondo istante è migliore perché è ri-cominciamento. È in questo suo carattere di ri-cominciamento che risiede la sua stretta connessione al precedente. È attraverso questo fatto d’essere l’assoluzione, il perdono dell’istante precedente che è compimento. La sua finalità di compimento non è separabile dal suo passato».  37

Dunque poiché il passato è il compimento dei due istanti,  38 il tempo in quanto fecondità dell’io non è forse l’esplicazione della temporalizzazione come assunzione dell’«allora insegnato» se è vero che l’in segnamento ha a che fare con la storia e non, in prima istanza, con il mero conoscere fondandosi sul vis-à-vis che accade tra Maestro e allievo, ovvero su una «parola parlante» che trionfa sulla «parola parlata»? In ultima istanza, che cosa inaugura l’assunzione dell’«allora insegnato» se non lo scaturire di quel tempo che scorre trasversalmente tra me e l’altro, che è la diacronia? Quasi un essere toccati dalla grazia  39 che inaugura l’a-Dieu? Questa anteriorità della responsabilità in rapporto alla libertà significherebbe la Bontà del Bene: la necessità del Bene di eleggermi per primo, prima che io sia in grado di eleggerlo, cioè di accogliere la sua scelta. È la mia susceptio pre-originaria. Passività anteriore ad ogni recettività. Trascendente. Anteriormente anteriore ad ogni anteriorità rappresentabile: immemorabile. Il Bene prima dell’esse-

37  E.

Levinas, Œuvres 3, p. 202 (c.vo nostro). nota a: «Les deux temps de l’accomplissement: Le passé» (c.vo nostro). 39  Cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 134. Appunta Levinas: «La grazia – la possibilità di disfarsi del suo fardello [...] Grazia = gratuità. [...] “orgoglio dell’umiltà” – “compiacimento nella sofferenza”». 38  Ivi,

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re. Diacronia: differenza insormontabile tra il Bene e me, senza simultaneità dei termini divisi. Ma anche non-indifferenza in questa differenza. [...] Dal Bene a me – convocazione: relazione che sopravvive alla “morte di Dio”.  40

Non sta forse nella passività che s’accresce del Moi posto all’accusativo, nel suo prendere sul serio il segreto dell’insegnamento la possibilità per l’uomo di «riscattare la creazione»  41 divenendo co-responsabile dell’azione salvifica  42 del mondo?  43 Il fatto stesso di non potersi sottrarre all’inversione della libertà in responsabilità, non sta ad indicare quanto insegnamento e fecondità siano nozioni strettamente implicate tra loro al punto da poterle assurgere ad esistenziali, specialmente in questo nostro tempo segnato da violenza e morte, dal quale si alza senza sosta il

40  E.

Levinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 154-155. Levinas, Œuvres 2, p. 269. 42  Cfr. quanto argomenta Levinas in Commentaires. Textes messianiques, in Id., Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1963, 1995, pp. 89-139; tr. it. Il messianismo, a cura di F. Camera, Morcelliana, Brescia 2002, p. 95: «La salvezza non si colloca nel punto finale della storia, nel punto conclusivo. Essa invece rimane possibile in ogni momento» (c.vo nostro). 43  Non a caso ammonisce, in proposito, Heschel: «L’interesse supremo dell’ebreo non è la sua salvezza personale, ma la redenzione universale. La redenzione non è un avvenimento che avverrà all’improvviso “alla fine dei giorni”, ma un processo che si realizza continuamente. Le buone opere dell’uomo rappresentano i singoli atti inseriti nel lungo dramma della redenzione, e ogni azione ha il suo valore. Uno deve vivere come se la redenzione di tutti gli uomini dipendesse dall’impegno della sua vita personale. Così la vita, ogni vita, può essere considerata come una preziosa opportunità di aumentare il bene che Dio ha messo nella sua creazione» (cfr. A.J. Heschel, The Insecurity of Freedom, Ferrar, Straus & Giroux, New York 1966, p. 146, c.vo nostro). 41  E.

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grido straziante dell’innocente? Se l’educazione sta all’insegnamento, come la fecondità sta al tempo diacronico, allora ci pare si debba partire da qui per dare inizio ad una ripartenza morale prestando fede a quel testo del Trattato Berakhot che Levinas riassume così: «davanti alla pienezza dell’essere che un Giusto realizza, rimane posto per una benedizione che invoca la sua fecondità: possa egli generare la sua perfezione, possa donare, il suo potere di donare».  44 È questo l’unico potere  45 ammesso, di contro al potere di potere del mondo della luce: ecco perché non può non sovvenire quel passo che segna tutta la distanza che corre tra il pensiero di Levinas e quello di Heidegger: «La salvezza  46 non è l’essere»  47.

44  E.

Levinas, Œuvres 2, p. 269 (c.vo nostro). Id., Il Tempo e l’Altro, cit, p. 15. Potremmo aggiungere: non-indifferenza come parola chiave «grazie alla quale è possibile all’io l’al di là del possibile. Ciò che, a partire dalla nozione – non biologica – della fecondità dell’io, mette in discussione l’idea stessa del potere, com’è incarnata nella soggettività trascendentale, centro e sorgente di atti intenzionali». 46  Cfr. A.J. Heschel, Israel. An Echo of Eternity, Farrar, Straus & Giroux, New York 1967; tr. it. Israele, eco di eternità, a cura di A. Lorini, Queriniana, Brescia 1977, pp. 91-92. Scrive il grande filosofo ebreo: «Ciò che si richiede a un ebreo è più che una garanzia sul futuro, è più che un’attesa passiva; gli si richiede spirito di ricerca e di aspettativa, di viva attesa della redenzione. Ci è stato detto che quando un uomo comparirà davanti al giudizio nell’al di là gli verrà chiesto: “Hai sperato ardentemente nella salvezza?” (Shabbàth, 31a). “Preparatevi per la salvezza”. La fede dell’ebreo – spiega Heschel – è fondata sull’attesa: “Dal profondo grido a te, o Signore; Signore ascolta la mia voce... Io aspetto il Signore, spera l’anima mia e nella sua parola io confido. L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora (Sal 130, 1-2, 5-6)» (c.vo nostro). 47  E. Levinas, Œuvres 1, p. 52 (c.vo nostro). 45  Cfr.

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Capitolo quinto

La diacronia del bene e l’accelerazione della redenzione

1. Dalla nozione a-temporale di bene, al bonum commune come farsi carico del giogo del regno Ma cosa lascia intendere Levinas con quest’ultima affermazione che, se così si può dire, segna lo spartiacque fra la sua filosofia e quella heideggeriana? Come possiamo interpretare questa differenza, che è la differenza, tra salvezza ed essere? Si tratta di un interrogativo di grande portata, perché ne va dell’intendimento (che andrà poi disdetto) stesso dell’«io sono» di carne e di sangue levinasiano. Se, come sostiene Levinas, non solo il bene è al di sopra dell’essere, ma è l’intervallo che, come abbiamo approfondito sopra, segna la separazione tra i due istanti, occorre intendersi sulla nozione stessa di bene – un’esigenza questa che, peraltro, ha molto a che fare con le molteplici sfide che attendono e pungolano la nostra società planetaria. Ancora una volta, si deve al grande filosofo Casper, il merito di aver saputo cogliere, a partire da un’analisi ermeneutica della nostra fatticità storica, quel non-detto che la nozione di bonum commune porta con sé e le implicazioni che ne scaturiscono di contro a quanto è avvenuto nell’antichità, a partire da Aristotele che parla di «tò koinê symphéron»:  1 1  Aristotele,

Politica 1282b14.

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quello «che è di utilità comune per tutti» per arrivare alla sua universalizzazione e sostantivizzazione con la Stoà e, in particolare, con il De otio di Seneca e quindi all’adozione di tale nozione nella sua neutralità e atemporalità, almeno in una prima fase, da parte della tradizione della scolastica filosofica entrando a far parte, di fatto, del pensiero cristiano. Dunque di un pensiero biblico che non può essere confinato nella freddezza di una terminologia chiusa in se stessa e senza tempo, bensì di un pensiero biblico che esige una sua applicazione alla storicità nella quale non può non calarsi. Ora, qual è l’esigenza biblica che sottende il bonum commune se non l’imperativo dell’amore verso Dio e verso il prossimo – sia esso l’orfano, lo straniero, la vedova? E come dare corso a questo se non attraverso la concrezione del bonum nella vita vissuta dell’esserci? Un esserci che, come sappiamo, è finito, mortale e libero di scegliere – e dunque sempre tentato – tra l’egoità e la responsabilità, tra l’adempimento o il rifiuto di questo doppio precetto. In proposito, ci viene in aiuto Agostino che sussume nel bonum commune, che si concretizza nell’esigenza storica che interpella il singolo, in quanto unico, tutto quello che il ragionevole pensiero filosofico può dedurre e dunque tradurre in un’azione concreta. Così scrive il vescovo di Ippona: Quali discussioni, quali dottrine di qualsivoglia filosofo, quali leggi di qualunque Stato si possono in alcun modo confrontare coi due precetti in cui Cristo dice che si compendia tutta la Legge ed i Profeti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e Amerai il prossimo tuo come te stesso? In queste parole è racchiusa la filosofia naturale, poiché le cause tutte di ogni elemento della natura sono in Dio creatore; è racchiusa la filosofia morale, poiché una vita buona

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e onesta non da altra fonte riceve lo specifico suo aspetto che quando le cose da amarsi, cioè Dio e il prossimo, si amano come devono amarsi; è racchiusa la logica, poiché la verità e la luce dell’anima razionale non sono se non Dio; è racchiusa anche la salvezza d’uno Stato che si può reputare fortunato, poiché un ottimo Stato non si fonda né si conserva senza il fondamento e il vincolo della fede e della salda concordia, cioè se non quando si ama il bene comune, ossia Dio che è il sommo e verissimo bene, e in lui gli uomini si amano scambievolmente con la massima sincerità allorché si vogliono bene per amor di Lui, al quale non possono nascondere l’animo con cui amano.  2

A questo punto Casper avverte: Tuttavia, questo bonum commune inteso al tempo stesso biblicamente come apertura attraverso il pensiero non potrà: a) mai essere presente sotto forma di una presenza compiuta e come tale da possedere, in quanto presuppone la libertà di coloro che vivono e sono mortali, di cui è il “bene comune”. Ed è proprio da qui che scaturisce la differenza – così centrale per il pensiero maturo di Agostino e così centrale per la sua influenza sul medioevo – tra «civitas terrena» e «civitas caelestis» oppure anche tra «regnum Dei, qualis nunc est» e «regnum Dei, qualis tunc erit».  3 b) Inoltre nell’“essere” compreso storicamente, in cui quello che si manifesta come bonum commune ha la sua sede originaria nella vita, [...] si rivela in un modo del tutto particolare la colpevolezza di ogni singolo uomo, co-costitutiva e alla base della realizzazione del “bene comune” che trae origine, in un ultima istanza, proprio anche dalla

2  Agostino, 3  Id.,

Epistola 137, 17. De civitate Dei XX, 9 (CCL 48, pp. 717 ss.).

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sua dignità nella sua originarietà: la sua unicità e insostituibilità. Come Hermann Cohen ha illustrato esaurientemente nella sua tarda opera la Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo,  4 questa comprensione dell’“essere” che si può intendere sempre solo, e al tempo stesso, come comprensione di Dio, dell’uomo e del mondo, contraddistingue proprio anche la comprensione ebraica dell’“essere” quale realtà nel suo quo maius nihil che si temporalizza nuovamente e complessivamente solo da un punto di vista storico.  5 c) Nella sua deduzione del “bene comune” che si concretizza quotidianamente facendosi carico del “giogo del regno” e si compie completamente nel regno messianico, Cohen tiene molto alla distinzione tra un’“unione con

4  H.

Cohen, Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, cit.; tr. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, cit. 5  Cfr. ivi, p. 432 (361). Così scrive Cohen: «Per il mio culto personale il regno di Dio non può essere soltanto futuro, ma deve essere un presente continuo. Questo pensiero è espresso dalla formula ebraica “prendere su di sé il giogo del regno di Dio”». Questa riflessione che attraversa il pensiero dell’intero Vecchio Testamento viene adottata da quello del Nuovo Testamento (cfr. per esempio Mt 11, 29-30) e con lui Agostino che – come mostra la sopracitata Epistola 137 – interpreta il regnum Dei con il termine filosofico del bonum commune. Non a caso, poco più avanti Cohen sottolinea come sia stato un grande merito di Maimonide distinguere tra mondo futuro e tempo futuro proprio per sottolineare il fatto che prendendo su di me il giogo del cielo collabori alla redenzione già in questo mondo, nel continuo ricominciamento del sé sfasato da sé. Insegna Maimonide: «E il fatto che i sapienti lo abbiano chiamato “mondo avvenire” non significa che esso ora non esista e che giungerà dopo che il mondo presente sarà stato distrutto: le cose non stanno così, anzi il mondo avvenire è esistente e presente» (M. Maimonide, Mishnè Torà. Hilkhot Teschuvà, 8, 8, in ivi, nota 21, p. 453).

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Dio” e “vicinanza di Dio”.  6 Nel farsi carico del “giogo del regno” non ha luogo una “unione con Dio”, bensì piuttosto una “vicinanza di Dio”. Proprio questo mantiene tuttavia la storia, intesa come quella di uomini mortali nella loro convivenza-nel-mondo, come tale aperta nella fatticità di questo loro evento diacronico. E proprio in questo modo si rivela quale condizione della possibilità di libertà e dignità del singolo uomo e del suo “esserci-fino-alla morte”. E la dignità  7 di ogni singolo uomo si rivela proprio attraverso questa conditio sine qua non della storicità anche come “libertà del bene e del male”. Solo alla luce di questa libertà storica che costituisce l’uomo nella sua umanità, una libertà che ha bisogno dell’altro per esserci veramente, possiamo trovare nel pensiero un accesso originario a quanto indicato con il bonum commune».  8

6  Cfr. H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, cit., p. 266 (190). In proposito scrive Cohen: «Tale concetto, nella sua duplicità, contiene la dottrina: avvicinamento, non unione (hitqarevut). Se questo monito vale innanzitutto, in senso teoretico e contro il panteismo così come contro tutta la mistica, esso vale anche in senso pratico per l’amore di Dio. Questo deve significare soltanto: struggimento per la vicinanza di Dio, ma non il desiderio impudico di un’unione con Dio, quale quella rappresentata dall’amore sensuale. L’amore per Dio è il tendere alla vicinanza di Dio, che viene riconosciuta e sentita come l’unico bene» p. 456 (364) (c.vo nostro). Si veda anche ivi, p. 457 (364) dove l’Autore, che cita l’autorità di Maimonide nell’aver dischiuso, a partire dalla nozione di vicinanza di Dio, quella di autoavvicinamento (cfr. M. Maimonide, Commento alla Mishnà. Otto capitoli, 4), chiarisce ulteriormente il fatto che «la vicinanza di Dio non è in sé il mio bene, ma può esserlo soltanto come mio compito, mio ideale per la mia attività di autoavvicinamento. Questo però coincide con il mio compito dell’autoperfezionamento, che Maimonide eleva a principio supremo per mezzo del quale egli infirma e mette da parte il principio aristotelico della felicità». 7  Su questo concetto si veda il paragrafo successivo. 8  B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”. Zur

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Ora, non lo potremo certo intendere come «“tò tí ên êinai” al di fuori del già esistente e dalle sue leggi “naturali” immanenti, dal momento che il reale, in cui “già siamo”, deve entrare costitutivamente in gioco nell’esserci finito del rispettivo evento storico della libertà davanti all’Altro nella ricerca del “bene comune”»  9. Com’è dunque possibile andare oltre un intendimento del bonum commune senza cadere nell’errore di coglierlo nella sua atemporalità e distanza con il rischio di “relegarlo” – come avviene per l’alta scolastica – nel «convertuntur» degli altri due trascendentali verum et ens  10 – pur ammettendo con Tommaso, che bonum «si distingue da “ens”, inteso nella sua infinità e genericità puramente astratta, in quanto può essere pensato solamente riferito a una volontà»?  11 Se poi ci volgiamo alla tradizione e, in particolare, al De anima  12 di Aristotele, come possiamo accontentarci della mera distinzione tra la parte raziona-

Hermeneutik seines Sich-Ereignens» («La diacronia del “bene comune”. Sull’ermeneutica del suo accadere»), Archivio di filosofia, 1-2 (2016), p. 289. 9  Ivi, p. 290. Per «tò tí ên êinai», si veda Aristotele, Metafisica IV, 1028b34. 10  Cfr. Tommaso d’Aquino, STh I, q. 5 e Ia-IIae, q. 18. 11  B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., p. 290. 12  Come è noto Aristotele stabilisce tre livelli dell’anima: anima vegetativa (psychè threptiké ), anima sensitiva (psychè aisthetiké ) e anima pensante (psyché dianoetiké ). Le piante hanno solo la prima, gli animali la prima e la seconda, mentre l’uomo dispone di tutte e tre. Pertanto egli solo possiede lo spirito, il noûs – che è la facoltà del dianoetikós, che si distingue in ragione speculativa e ragione calcolatrice.

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le (en tôi logistikôi) – in cui si avrebbe la volontà (boúlesis) e quella irrazionale (en tô alógo) – in cui si avrebbe il desiderio (epithymía) e l’impulso (thymós)?  13 E guardando alle due parti in cui si divide la prima: noûs theoretikós e diánoia praktiké non ci accorgiamo che Aristotele non ha indagato il rapporto reciproco che si dà tra loro nell’evento del pensiero? Egli distingue, certo, tra le due, limitandosi tuttavia a descriverne le funzioni  14 come, ad esempio, si legge nell’Etica Nicomachea: Diciamo che l’una è la parte scientifica (epistemonikón) e l’altra è la parte calcolatrice (logistikón), infatti il deliberare (bouleúestai) e il calcolare (logízesthai) sono la stessa cosa, e nessuno delibera su ciò che non può essere diversamente: quindi quella calcolatrice è una certa parte dell’anima razionale. [...] Tre sono gli elementi che determinano conoscenza vera e azione: sensazione, intelletto, desiderio. Di questi, la sensazione non è affatto principio d’azione, e ciò è chiaro per il fatto che le bestie hanno sensazione, ma non hanno nulla a che fare con l’agire. Ciò che nel pensiero è affermazione e negazione, nel desiderio è ricerca e fuga, di modo che, siccome la virtù è uno stato abituale che produce scelte, e la scelta è un desiderio deliberato, proprio per questo, se la scelta è la migliore, il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto, e l’uno deve affermare, l’altro perseguire gli oggetti. Questo è il pensiero pratico e questa la sua verità; del pensiero teorico, e non pratico né tecnico, il bene e il male sono verità ed errore (dato che questo è l’operare

13  Aristotele,

De anima III 9, 432b5-8. 432b28. «Infatti l’intelletto teoretico non pensa nulla di ciò che è oggetto dell’azione, e nulla dice su ciò che si deve evitare e perseguire, mentre il movimento è sempre proprio di un essere che evita qualcosa o persegue qualcosa». 14  Ivi,

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tipico di tutta la parte pensante dell’anima), mentre della parte intellettuale pratica il bene è la verità che si trova in accordo con il desiderio corretto».  15

Mancare, se così si può dire, di evidenziare lo stretto rapporto tra ragione speculativa e ragion pura pratica significa, a ben vedere, precludersi di addivenire a quella indispensabile esplicazione del sostantivo latino bonum che, come ha mostrato molto chiaramente Agostino attraverso un pensiero che ha a che fare con la storicità dell’uomo, è da intendersi in due modi assolutamente differenti. Da un lato, infatti, vi è il bene inteso nella sua esistenza pura e senza tempo, dall’altro si manifesta come ciò attraverso cui mi temporalizzo rispondendo dell’altro in una passività che s’accresce: in ciò sta la mia unicità e dunque l’impossibilità di sottrarmi o di farmi sostituire.  16 Altrimenti detto poiché io posso cogliermi nell’unico modo che mi è dato, ovvero attraverso la mia corporeità, metto capo ad una responsabilità incarnata. Come dire: nell’entre che si dà tra «bonum quod» e «bonum, quo quis bonus fit» si compie innanzitutto uno scarto temporale che racchiude il primo nella sincronia o tempo degli orologi e fa accadere il secondo, trasversalmentediacronicamente, come paradigma della mia temporalizzazione, della mia incessante Wiedergeburt,

15  Aristotele,

stro).

Etica Nicomachea VI 2, 1139a11-30 (c.vo no-

16  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 72. Argomenta Levinas: «Unicità dell’eletto o del richiesto che non è elettore, passività che non si converte in spontaneità. Unicità non assunta, non sus-sunta, traumatica: elezione nella persecuzione. Eletto senza assumere l’elezione!» (c.vo nostro).

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in uno sperare-per-il-presente che tende all’a-Dio. Scrive Agostino: «Ascoltami, di grazia! Non chiedere a Dio se non Dio stesso. Ovviamente, se a qualcuno egli dà un bene come questo, con ciò egli lo rende anche buono. Non si può avere in comune con i cattivi una cosa che quando la si riceve, ci separa dai cattivi. Una cosa infatti è quel dono con cui puoi fare del bene, un’altra è quel dono con cui diventi buono tu stesso. Orbene, all’infuori di Dio, tutte le cose in tanto sono buone in quanto puoi farci del bene; solo Dio è un bene che ti rende buono. Hai l’oro? È un bene, ma perché tu ci faccia il bene. Hai l’eloquenza? È un bene, ma perché tu ci compia il bene. Hai la salute fisica? Servitene in bene. In effetti, molti sono stati richiamati sulla retta via dall’infermità, mentre si sono rovinati per lo star bene. Per molti la malattia è stata un arricchimento, per molti la buona salute una disgrazia. La stessa salute fisica, che è l’unica ricchezza del povero, se non se ne fa un buon uso diventa dunque nociva. Gran dono l’acume dell’ingegno! ma anch’esso tale che i buoni possono servirsene in bene, i cattivi in male. Non è un bene che ti rende buono. Tutte le deviazioni di tutti gli errori, tutte le sette aberranti e irreligiose hanno avuto per autori uomini di grande ingegno. Non le hanno partorite uomini comuni, ma sono state combinate da uomini d’ingegno. [...] Insomma, anche l’ingegno è un bene, ma se lo si usa bene. E fin qui ho ricordato beni con i quali puoi fare il bene ma non ci diventi buono. Se ti sarà dato di raggiungere quel bene che ti rende buono, sarai in grado d’usare bene degli altri beni; se non raggiungerai quel bene che ti rende buono, come potrai tu, cattivo come sei, usare bene degli altri beni? Ma qual è il bene per cui tu diventi buono? È Dio stesso».  17

17  Agostino,

Sermo sancti Augustini habitus de epiphaniis,

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Come giustamente osserva Casper, Agostino nella sua distinzione tra «bonum, quo quis bonus fit» e «bonum quod » ha visto che c’è qualcosa di nuovo sotto il sole poiché «anticipa in un certo modo, se così possiamo dire, la tesi centrale di Kant: “Il primato della ragion pratica pura nel suo collegamento con la ragione speculativa”.  18 In tal modo egli indi-

(Discorso di sant’Agostino per l’Epifania), Sermone 374 augm., 5 (c.vo nostro). 18  Su questo passaggio cruciale cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788) A215 ss.; tr. it. Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2000, parte I, libro II, capitolo III, pp. 245 ss., in part. p. 247. Scrive Kant: «Solo se la ragion pura può essere per se stessa pratica – e lo è realmente, come mostra la coscienza della legge morale –, sarà sempre, tuttavia, un’unica e medesima ragione, quella che giudica secondo i princìpi teorici, sia in funzione pratica, sia in funzione teoretica: allora è chiaro che, se la sua facoltà, in campo teoretico, non giunge a fondare certe affermazioni che, pure, non le contraddicono, mentre queste stesse proposizioni sono indissolubilmente connesse con l’interesse pratico, della ragion pura; la ragione speculativa deve accoglierle come un’offerta estranea, non cresciuta bensì sul suo terreno, tuttavia sufficientemente accreditata; e deve cercare di compararle e di connetterle con tutto ciò che, come ragione speculativa, ha in proprio potere, pur riconoscendovi non vedute sue proprie, ma un ampliamento del suo uso in un altro rispetto, pratico. [...] Nel collegamento, dunque, in un’unica conoscenza della ragion pura speculativa con la ragion pura pratica, quest’ultima detiene il primato». Su questo punto cruciale si veda anche Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 78. Avverte il filosofo di Königsberg: «Dunque la ragione umana comune è spinta non dal bisogno della speculazione (bisogno che non sorge mai finché essa si accontenta di essere semplicemente sana ragione), ma da motivi pratici a uscire dalla sua sfera e a inoltrarsi nel campo della filosofia pratica allo scopo di procurarsi informazioni e spiegazioni chiare sulla fonte del

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ca tuttavia chiaramente che del “bonum commune” – nella misura in cui si verifichi tra gli uomini in quanto tali e quindi in comune – si può di fatto e in ultima analisi parlare innanzitutto nel contesto della “ragione pratica pura” come “ragione etica”».  19 Ci pare, pertanto, illuminante quanto scrive Kant nella Critica della ragion pura: «Pratico è tutto ciò che è possibile mediante la libertà. Se le condizioni per l’esercizio del nostro libero arbitrio sono empiriche, la ragione non può avere altro uso che quello regolativo, servendo esclusivamente a porre in atto l’unità delle leggi empiriche».  20 2. Il non-detto del bonum commune A questo punto sorge un interrogativo improcrastinabile: come possiamo oggi interpretare la nozione di bonum commune, muovendo dalla distinzione agostiniana tra «bonum quod» e «bonum, quo quis bonus fit» e dalla fondamentale intuizione kantiana che non solo mostra il collegamento tra la ragion pura speculativa e la ragion pratica, ma addirittura afferma il primato di quest’ultima sulla prima – anticipando

suo principio e sulla esatta definizione di esso in contrasto con le massime fondate sul bisogno e sull’inclinazione, al fine di liberarsi da pretese contrastanti e non incorrere nel pericolo, a causa dell’ambiguità in cui potrebbe facilmente cadere, di smarrire gli autentici princìpi morali». 19  Cfr. B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., pp. 290-291. 20  I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (1781); tr. it. Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2004, A 800/ B828, p. 604.

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a sua volta Levinas che parla di «etica come filosofia prima»? Che cosa ha da dirci e qual è il senso profondo per noi uomini e donne del XXI secolo? Ora, ci pare evidente, come insegna Bernhard Casper, che non sia possibile muovere un solo passo in avanti se non assumiamo come premessa indispensabile l’essere-temporale di tutto ciò che noi conosciamo e che noi stessi siamo. Come dire: è solo partendo dalla constatazione che l’«io sono» è mortale e finito e che è chiamato a decidersi-ad-iniziare-qualcosa-con-se-stesso, nel suo esserci-per-la-morte, che si dà la possibilità di portare a datità ciò che potremmo chiamare il nondetto del bonum commune. In che termini? cogliendone il suo accadimento temporale – il lasso di tempo diacronico – nell’incontro che eviene tra me e l’Altro, sul quale non ho alcuna presa e dal quale è proprio il mio potere di potere che mi viene contestato. In questo incontro – refrattario ad ogni sincronia – esperisco che ho bisogno dell’altro senza presupposti al punto che senza di lui e senza il rapporto con lui, non esisterei neppure. Chiarisce il filosofo di Friburgo: «Questo “rapporto” paradossale e in nessun modo da elevare a priori a sintesi e sincronia, qualunque sembianza abbia, che mi definisce innanzitutto come uomo reale ovvero mortale, si rivela poi anche nell’accadimento del linguaggio dell’uomo quale linguaggio umano. Nella sua originarietà quanto precede accade nel momento in cui un uomo in quanto se stesso parla ad un altro in quanto egli stesso di qualcosa. In questa temporalizzazione in cui necessito del bisogno dell’Altro riducibile a niente altro – in quanto dell’Altro se stesso come dell’Altro delle circostanze del mondo – si verifica l’essere-uomo storicamente concreto come “bene comune”.

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Nel suo breve articolo Il nuovo pensiero Franz Rosenzweig ha esposto nel febbraio 1925  21 che la differenza sostanziale tra il pensiero che si compie in un linguaggio umano nell’ambito di un’ermeneutica dell’evento ed il “vecchio” tramandato dalla “Jonia a Jena” non consiste in nient’altro che nel “bisogno dell’Altro e, il che è la stessa cosa, nel prendere sul serio il tempo” – un bisogno che proietta tutte le riflessioni articolate».  22

In fondo, sostenere che il tempo diventa una realtà per questo nuovo pensiero significa avere ben chiaro che «Non è che ciò che accade accada nel tempo, è il tempo stesso ad accadere».  23 Tempo e parola sono le dimensioni costitutive del neues Denken versus il vecchio pensiero in cui

21  A Casper preme ricordare – nel più volte citato «Die Diachronie des “Bonum commune”», p. 292, nota 1 – il fatto che «affetto da sclerosi laterale amiotrofica, Rosenzweig già allora non potesse più usare la sua voce e riuscì a mettere su carta questi brevi “prolegomeni spediti successivamente” del suo Stern der Erlösung (1921) solo perché sua moglie ebbe la pazienza di trascrivere le lettere di un alfabeto che lui indicava. L’articolo Das neues Denken venne pubblicato nel 1925 con una premessa di Julius Goldstein nel numero 4 del primo anno della rivista “Der Morgen”». Cfr. F. Rosenzweig, Das neues Denken, cit.; tr. it. Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, commento di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983, p. 58. Secondo quanto indicatoci da Casper, «già nel 1918 Rosenzweig aveva utilizzato, in un saggio per Margrit Rosenstock-Huessy, con riferimento alla prima frase della Bibbia, la seguente locuzione: “All’inizio – quando congiuntamente fuoriuscì essere e tempo...”. Cfr. F. Rosenzweig, Die “Gritli”-Briefe. Briefe an Margrit Rosenstock-Huessy, a cura di I. Rühle e R. Mayer, pref. di R. Rosenzweig, Bilam, Tübingen 2002, p. 828». (c.vo nostro). 22  B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., pp. 292-293. 23  F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 53 (c.vo nostro).

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l’essenza non vuole saperne del tempo. [...] Ed in che – interroga Rosenzweig –, si differenzia allora la ragione sana da quella malata, che, proprio, come la vecchia filosofia, la filosofia del “filosofico stupore” (e stupire significa stare immobili) si accanisce contro una cosa e non la vuole lasciare finché non la “possiede” del tutto? Essa può attendere, continuare a vivere, non ha nessuna “idea fissa”, essa sa: il tempo porta consiglio. Questo segreto è tutta la saggezza della nuova filosofia. Essa insegna, per dirla con Goethe, “il comprendere al momento giusto”. [...] Il nuovo pensiero – continua Rosenzweig –, sa proprio come sa il pensiero più remoto del senso comune, che non si può conoscere indipendentemente dal tempo, anche se questo era appunto il più alto titolo d’onore di cui la filosofia si era insignita.  24

E se è vero, come è vero, che non si può dare un pensiero di esperienza se ciò che viene esclusa è la dimensione temporale, allo stesso modo, questo pensiero non potrebbe davvero dirsi tale se non cogliesse nella parola l’epifania della relazione: In luogo del metodo del pensare, come è stato costituito da tutta la filosofia precedente – scrive ancora Rosenzweig –, entra in campo il metodo del parlare. Il pensiero è senza tempo, vuole esserlo, vuole porre mille collegamenti in un sol colpo, l’ultimo, l’obiettivo, è per lui il primo. Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare. Vive soprattutto della vita di altri, siano essi l’uditore della narrazione, l’interlocutore del dialogo o il membro del coro, mentre il pensare è sempre solitario.  25

24  Ibidem 25  Ivi,

(c.vo nostro). p. 57 (c.vo nostro).

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Nell’incontro tra il sé spodestato da sé e altri, nel dia della dia-cronia e del dia-logo «qualcosa accade sul serio, io non so prima che cosa l’altro mi dirà perché in realtà non so neppure che cosa dirò io, anzi non so neppure se parlerò; potrebbe anche essere l’altro a cominciare.  26 Lo stesso Heidegger, nel celebre saggio su Il concetto di tempo, ha spiegato attraverso un’ermeneutica della cura, quale intenzionalità fondamentale del Dasein, che cosa significa «prendere sul serio il tempo». In contrapposizione al pensiero della tradizione – e in particolare a quello di Aristotele che coglie il tempo come numerus motus, ossia nella sua visione d’insieme e nella sua chiusura totalitaria – Heidegger afferma che «l’esserci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo».  27 Che cosa intende dire Heidegger se non il fatto che il tempo aristotelico non è altro che il tempo calcolabile ovvero quello che «l’orologio misura [...] in quanto riporta l’estensione della durata di un accadimento a uguali successioni di stati dell’orologio e, in base a ciò, la determina numericamente nella sua quantità»?  28 Come dire, la determinazione numerica del tempo significa che il tempo ha a che fare con il movimento e che «lo si trova in ciò che è mutevole»  29 al punto che Aristotele afferma che «il tempo è questo, numero del movimento secondo il 26  Ibidem. 27  M.

Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag von der Marburger Theologenschaft (Juli 1924), a cura di H. Tietjen, Niemeyer, Tübingen 1989; tr. it. Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, con una postilla di H. Tietjen, Adelphi, Milano 1998, p. 40. 28  Ivi, p. 28. 29  Ivi, p. 27.

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prima e il poi».  30 Dunque si tratta di un tempo calcolabile, omogeneo e quindi misurabile. Il tempo, in questa visione, è la convenzione che regola le nostre vite, riempie le nostre agende, scandisce il nostro quotidiano: dopo l’alba viene sempre il tramonto. Come fa notare abilmente Heidegger ogni prima e poi è determinabile partendo da un’“ora”, che però è a sua volta arbitrario. Se si guarda a un accadimento servendosi dell’orologio, l’orologio rende esplicito l’accadimento più in relazione al suo scorrere nell’“ora” che alla quantità della sua durata. La determinazione primaria operata di volta in volta dall’orologio non è l’indicazione della durata, della quantità di tempo che fluisce nel presente, ma il rispettivo fissare l’“ora”. Se tiro fuori l’orologio, la prima cosa che dico è: “Ora sono le nove; trenta minuti dal momento in cui ciò è accaduto. Fra tre ore saranno le dodici”. Il tempo di ora, di adesso che guardo l’orologio: che cos’è questo “ora”? “Ora” che faccio questo; “ora” che, per esempio, qui si spegne la luce. [...] Sono io l’“ora”, oppure sono solo colui che dice “ora”? E lo dico con l’orologio o senza? Ora, di sera, di mattina, questa notte, oggi: ci imbattiamo qui in un orologio che l’esistenza umana si è procurata da sempre, l’orologio naturale dell’alternarsi di giorno e notte.  31

Quindi Heidegger, proprio versus Aristotele, evocando il celebre passo agostiniano in cui il vescovo d’Ippona giunge a chiedersi se l’animo stesso non sia il tempo  32, mostra come la domanda sul «che cos’è

30  Aristotele,

Fisica IV 2, 219b5-10. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., p. 29. 32  Agostino, Confessioni XI 27, 36. Ci pare importante riportare qui di seguito la parafrasi che Heidegger compie del passo 31  M.

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il tempo» non sia tanto da riferirsi «al prima e al poi» oggettivante, ma al Dasein in cui nel suo esserci ne va dell’essere stesso. Come dire: la grande intuizione di Heidegger consiste nel fatto di considerare il tempo non tanto e solo come ciò che è misurabile, bensì come il carattere costitutivo dell’esserci stesso che trova il suo senso unitario nella struttura della Sorge come «avanti-a-sé-essere-già-in (un mondo) in quanto essere-presso (l’ente che viene incontro all’interno di un mondo)».  33 Tra le strutture fondamentali dell’esserci, come è noto, il filosofo di Sein und Zeit indica primariamente l’essere-nel-mondo che «è caratterizzato come prendersi cura (Besorgen)».  34

agostiniano in Il concetto di tempo, cit., p. 30. «In te, animo mio, misuro i tempi; quando misuro te, misuro il tempo. Non turbarmi con la domanda: perché mai? Non distogliermi, con una falsa domanda, dal guardare te. Non ostacolare te stesso con la confusione di ciò da cui puoi essere affetto. In te, torno a dire, misuro il tempo; le cose transeunti ti mettono in un “sentirti” (Befindlichkeit) che rimane, mentre esse si dileguano. Io misuro il “sentirmi”. Io misuro il “sentirmi” nell’esistenza presente, non le cose che passano affinché esso sorga. È il mio “sentirmi”che misuro, ripeto, quando misuro il tempo» (c.vo nostro, tranne Befindlichkeit). 33  M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), GA 2, a cura di F.-W. von Hermann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1977; tr. it. Essere e tempo, tr. di P. Chiodi, Bocca, Milano 1953; nuova ed. riv. Utet, Torino 1969; poi Longanesi, Milano 1970, più volte rist. e, con un aggiornamento bio-bibliografico di A. Marini, ivi, 1976. Cfr. anche M. Heidegger, Essere e tempo, ed. it. a cura di A. Marini, testo tedesco a fronte, Mondadori, Milano 2006, 20133, nonché tr. it. Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2014. Si tenga presente che per le citazioni ci basiamo sull’ed. mondadoriana a cura di A. Marini: qui, par. 65, p. 919; cfr. anche par. 41, pp. 554 ss. 34  M. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., p. 32.

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Ne segue che il Dasein, in quanto essere-nel-mondo, è contemporaneamente l’essere-l’uno-con-l’altro. Ora, questo avere mondo, questo Miteinandersein trova, non a caso, il suo modo fondamentale nell’evento del parlare (Sprechen) nella sua originarietà. Resta, tuttavia, il fatto non trascurabile che questo accadimento così centrale per Levinas, risulta confinato, in Heidegger, nel Man della medietà al punto che «come in ogni parlare del mondo è insito un esprimersi dell’esserci in merito a se stesso, così ogni avere a che fare che si prende cura è un prendersi cura dell’essere dell’esserci».  35 Detto altrimenti, nel parlare l’uno con l’altro è implicita «un’autointerpretazione dell’esserci»:  36 se è vero che «l’esserci è nell’essere di volta in volta; in quanto l’esserci è ciò che può essere, esso è ogni volta mio», ne viene che «nel mio esistere io sono “ancora in cammino”».  37 Verso dove? Verso l’estrema possibilità di me stesso, quella possibilità dell’impossibilità che è la mia morte: L’esserci, sempre nell’essere di volta in volta dell’ogni volta mio, sa della sua morte, e lo sa anche quando non ne vuole sapere niente. Che cos’è – si interroga Heidegger – l’avere ognora la propria morte? È un precorrimento dell’esserci che va al suo non più (Vorbei) quale possibilità estrema di essere se stesso che è imminente nella sua certezza e completa indeterminatezza. L’esserci in quanto vita umana è primariamente un essere possibile, è l’essere della possibilità del non più, certo eppure indeterminato. [...] Siffatto “non più”, che come tale io precorro, in questo mio precorrerlo fa una scoperta: è

35  Ivi,

p. 34. p. 33. 37  Ivi, p. 36. 36  Ivi,

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il non più di me stesso. Questo non più (Vorbei-von) in quanto “come” porta l’esserci, senza indulgenza, alla sua unica possibilità di essere se stesso, lo rimette completamente a se stesso.  38

Ma siamo proprio sicuri, che il precorrere cheva-a (Vorlaufen-zu)  39 dell’esserci in quanto Sein zum Ende, «non è altro che il futuro  40 unico e autentico del proprio esserci»?  41 che il mio parlare con l’altro debba essere degradato a chiacchiera ovvero a un cattivo presente del quotidiano in cui si è semplicemente nel tempo l’uno-con-l’altro e lo si è in una dimensione inautentica dell’esserci?  42 E ancora, se è vero che

38  Ivi,

pp. 37-39. ivi, p. 41. 40  Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., par. 74, pp. 10771083. Scrive l’Autore: «Solo il precorrimento della morte scaccia ogni possibilità fortuita e “provvisoria”. Solo l’essere libero per la morte dà all’esserci la pura meta e spinge l’esistenza nella sua finitezza. Una volta accolta, la finitezza dell’esistenza strappa l’esserci dall’infinita varietà delle possibilità prossimali che si offrono: vita comoda, prender le cose alla leggera, menefreghismo e lo riporta indietro alla semplicità del suo destino. [...] Solo un ente che in quanto a-venire sia cooriginariamente essente-stato, può, tramandando a se stesso la possibilità ereditata, assumersi la propria dejezione ed essere nell’attimo per il “suo tempo”. Solo una temporalità autentica, che sia a un tempo finita, rende possibile qualcosa come il destino cioè un’autentica storicità». Poi poco più avanti argomenta: «L’autentico essere-alla morte, ossia la finitezza della temporalità, è il coperto fondamento della storicità dell’esserci». 41  Id,, Il concetto di tempo, cit., p. 40. 42  Id. Essere e tempo, cit., par. 75, p. 1097. Insiste Heidegger: «Il si elude la scelta. Cieco ad ogni possibilità, esso non è in grado di ripetere ciò-che-è-stato, ma soltanto mantiene e tiene in serbo il “reale effettuale” dello storico-universalmondano che è rimasto, 39  Cfr.

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«l’esserci che fa i conti con il tempo, che vive con l’orologio in mano, proprio questo esserci che calcola il tempo dice costantemente: non ho tempo»,  43 non è altrettanto evidente che esso mostra la sua difettività non tanto perché venga meno al suo precorrimento, che è un Sein zum Ende, bensì perché nel tempo che si schiude tra me e l’Altro nella sua alterità irraggiungibile non si accorge, se così si può dire, che accade un incontro tra due incondizionatezze, ove è il tempo stesso ad accadere come diacronico? 3. Dallo Sprächen heideggeriano all’Ansprächen levinasiano Di qui il passo in avanti che si deve a Emmanuel Levinas e che si fonda, in particolare, su due elementi basilari: l’altro  44 non è meramente colui di cui mi prendo cura nel mio essere di volta in volta,  45 ma è la conditio sine qua non perché il linguaggio non sia compreso come un semplice Sprächen  46 bensì – e in

i suoi rimasugli e le relative notizie sottomano. Perduto nella presentazione dell’oggi, esso comprende il “passato” a partire dal “presente”. Invece la temporalità della storicità autentica, è una depresentazione dell’oggi e una disabituazione dalle usualità del si ». 43  Cfr. M. Heidegger, Il concetto di tempo, cit., p. 42. 44  Cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 134. Dichiara il filosofo ebreo lituano: «Un élément essentiel de ma philosophie – ce par quoi elle diffère de la philo. de Heidegger – c’est l’importance de l’Autre» (c.vo nostro). 45  Cfr. ivi, p. 329. Scrive Levinas: «In ciò mi distinguo da Heidegger: Non si tratta di fuggire dalla Alltäglichkeit (quotidianità)verso l’esistenza autentica, ma di rispettare l’uomo della Alltäglichkeit nella sua ». 46  Cfr. ivi, p. 374. Spiega Levinas: «In Heidegger la parola

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ciò consiste il secondo elemento – come «l’Ansprächen – l’invocazione. Il riconoscimento dell’altro come tale – L’insegnamento che non è maieutica».  47 «Trasformando – riprende ancora Levinas – la solitudine in una forma dell’essere-nel-mondo Heidegger si preclude la possibilità di vedere nella solitudine un’insufficienza il niente del fatto stesso dell’essere e la via della salvezza»  48, poiché l’esserecon altri fa semplicemente parte dell’essere-al-mondo del Dasein: Come Michael Theunissen ha dimostrato nella sua opera – spiega Casper – rimasta insuperata fino ai giorni nostri: Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart  49 proprio questa partenza di comprensione dell’Altro dall’“essere-in” in quanto “essere-insieme-nelmondo” può far sì che non venga colto il rapporto originario di me stesso con l’Altro in quanto se stesso nella originarietà della sua e della mia libertà per il pensiero. “Al pari di Husserl, Heidegger vede il Miteinandersein per eccellenza nell’orizzonte del mondo”. [...] E conti-

suppone certamente già la copresenza e il rapporto preliminare con altri e di altri con il mondo stesso che mira alla parola di colui che parla – ma l’essenziale della parola è nella significazione, nel “etwas als etwas” (vedere soprattutto Holzwege e l’interpretazione di Hölderlin). La parola – in quanto invocazione – non gioca dunque alcun ruolo nel rapporto stesso col mondo» (c.vo nostro). 47  Ivi, p. 415. (c.vo nostro). 48  Ivi, p. 52. (c.vo nostro). 49  M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart (L’Altro. Studi sull’Ontologia sociale del presente), de Gruyter, Berlin 1965. Cfr. soprattutto il capitolo V, pp. 156-186: Die modifizierende Wiederholung der transzendentalen Intersubjektivitätstheorie Husserls in der Sozialontologie Heideggers.

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nua: “Di conseguenza il Miteinandersein, in modo addirittura ancora più esclusivo rispetto a Husserl, è mostrato sul modello del mio rapporto con l’Altro e non sul modello del rapporto dell’Altro nei miei confronti”».  50

Ciò che manca nell’analitica esistenziale di Heidegger è proprio il coglimento dell’Altro nella sua originarietà,  51 nella sua irraggiungibilità: l’Altro non è tanto oggetto della mia cura nella medietà inauten-

50  B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., pp. 292-293. Le cit. interne provengono da M. Theunissen, Der Andere, cit., p. 167. In proposito si veda quanto scrive Levinas in Il Tempo e l’Altro, cit., p. 62. Sottolinea Levinas: «Il Miteinandersein è pur sempre anch’esso la collettività del “con” ed è intorno alla verità che si rivela nella sua forma autentica. È collettività intorno a qualcosa di comune. Perciò, come in tutte le filosofie della comunione, la socialità in Heidegger si ritrova all’interno del soggetto solo ed è in termini di solitudine che viene condotta l’analisi del Dasein, nella sua forma autentica». 51  Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 151-152. Scrive Levinas:«In Heidegger la relazione etica, il Miteinandersein, l’essere-con-altri, non è che un momento della nostra presenza al mondo. Mit è sempre essere-accanto-a. [...] Non è l’approccio al volto, è zusammensein, forse zusammenmarschieren. [...] Si dice che nel mio modo di vedere – e me lo si rimprovera spesso – ci sia una sottovalutazione del mondo. In Heidegger il mondo è molto importante. Nei Feldwege c’è un albero: non si incontrano uomini. [...] Non potrei disconoscere la grandezza speculativa di Heidegger. Ma nelle sue analisi gli accenti sono spostati altrove. [...] Cosa significa nella sua teoria della Befindlichkeit la paura per-altri? Secondo me è un momento essenziale: io penso appunto che temere Dio significhi innanzitutto avere paura peraltri. La paura per-altri non rientra nell’analisi heideggeriana della Befindlichkeit perché in questa teoria – molto interessante della doppia intenzionalità – ogni emozione, ogni paura è in fin dei conti emozione per sé, paura per sé, è paura del cane ma angoscia per sé. E il timore per l’altro?».

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tica, ma ciò di cui ho bisogno tanto quanto del tempo che prendo sul serio: Avere bisogno di tempo – incalza Rosenzweig – significa non poter anticipare nulla, dover attendere tutto, per le proprie cose essere dipendenti da altri. Per il pensatore pensante tutto ciò è assolutamente impensabile, mentre corrisponde appieno al “pensatore della parola” (Sprachdenker).  52

Andando con Heidegger oltre Husserl e muovendo da un’ermeneutica della fatticità storica, Levinas va oltre Heidegger stesso per il darsi di una ermeneutica responsoriale ove il Dasein non è soltanto l’esserci di cui ne va del suo essere stesso nel suo precorrimento, ma un «io sono» di carne e di sangue che si coglie nell’unico modo che gli è dato: nella sua corporeità, che è indice di finitezza e di mortalità. Assumendo quale point de départ l’umanità stessa dell’uomo, Levinas contribuisce con le proprie riflessioni, e sulla base di un pensiero incarnato, a dare una risposta significativa alla domanda sul bonum commune e, dunque, al suo esplicarsi nella vita vissuta di ciascuno di noi. Ogni accesso all’“essere” dell’Altro – sottolinea Casper – presuppone la sensibilità e quindi “proximité, vulnerabilité et signifiance”.  53 Introducendo questi termini in una riflessione fenomenologica-ermeneutica sul rapporto con l’Altro in quanto Altro, Levinas inserisce consapevolmente ed espressamente il concetto guida della

52  Cfr.

stro).

53  E.

F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 58 (c.vo no-

Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 65.

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fenomenologia di Husserl, “l’intenzionalità” al fine di accedere in tal modo a un parlare ragionevole di un esserci nell’ambito di un’ermeneutica più originaria, di un esserci mortale e finito che entra in società con un esserci diverso nella diversità insuperabile. Nell’aprirsi a un nuovo accesso che trascende quello di una razionalità cartesiana astorica e senza tempo, si schiude tuttavia anche un nuovo accesso verso quello che in ultima analisi e nel senso più basilare si rivela essere il “bonum commune”. Egli non si rivela al pensiero solo intenzionale senza tempo che agisce nella sua pura attività di “anticipazione”, ma piuttosto in “una passività più passiva di ogni passività antitetica dell’atto”.  54

Come dire: ben al di là della riduzione della sensibilità alla visione, all’idea, all’intuizione ovvero nei termini di una «sincronia di elementi tematizzati e (di una) loro simultaneità con lo sguardo»;  55 declinare la sensibilità in quanto vulnerabilità significa «riconoscere un senso al di fuori dell’ontologia [...] L’immediatezza a fior di pelle della sensibilità – la sua vulnerabilità – si trova come anestetizzata nel processo del sapere».  56 E se è vero che la vulnerabilità suppone godimento e sofferenza, è altrettanto evidente che il celebre «jouir de» che fa sprofondare l’esistente nell’elementale fino alla compiacenza per la sua egoità non può che condurre il soggetto alla “denucleazione” della felicità imperfetta che è il battito della sensibilità: non-coincidenza dell’Io con se stes-

54  B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., p. 295. L’ultima cit. interna proviene da E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 90. 55  Ivi, p. 84. 56  Ivi, p. 80.

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so, inquietudine, in-sonnia, al di là del luogo di ritrovo del presente, dolore che disarciona l’io, o nella vertigine, lo attira come un abisso per impedire che, posto in sé e per sé, esso “assuma” l’altro che lo ferisce in un movimento intenzionale, il rovesciamento dell’altro inspirante il medesimo – dolore, debordamento del senso attraverso il non-senso, perché il senso superi il non-senso, il senso cioè il medesimo-per-l’altro. Fin qui deve giungere la passività o la pazienza della vulnerabilità.  57

4. Lo psichismo come resistenza alla totalità sincronica Che cosa comporta, dunque, questo intendimento della sensibilità in quanto vulnerabilità se non il fatto che la significazione originaria della sensibilità «pre-naturale fino al Materno in cui, come prossimità, la significazione significa prima di contrarsi in perseveranza dell’essere»  58 rinvia allo psichismo del soggetto che, come abbiamo visto, oppone la sua resistenza alla totalizzazione? Ossia chiama in causa quell’«allora insegnato» incitandone, se così si può dire, la sua messa in pratica che non sarebbe altro, in definitiva, che l’esplicazione incarnata di quell’ex ante come ex post? Di un passato che sfida anacronisticamente – nel senso letterale di anachronismós, comp. di aná, “contro” e chrónos, “tempo” – il tempo concepito come numerus motus assurgendolo a paradigma della temporalizzazione senza sosta dell’«io sono» di carne e di sangue?

57  Ivi, 58  Ivi,

p. 81. p. 86.

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Lo psichismo è la forma di un insolito sfasamento – di un rilassamento o di un allontanamento dell’identità –: il medesimo impedito di coincidere con se stesso, spaiato, strappato alla propria quiete, tra sonno e insonnia, ansito, fremito. Per nulla abdicazione del Medesimo, alienato e schiavo dell’altro, ma abnegazione di sé pienamente responsabile dell’altro. Identità che si accusa nella responsabilità e al servizio dell’altro. [...] Qui pro quo – sostituzione – straordinario, né inganno, né verità, intelligibilità preliminare della significazione, ma sconvolgimento dell’ordine dell’essere tematizzabile nel Detto, della simultaneità e della reciprocità delle relazioni dette. Significazione possibile unicamente come incarnazione. L’animazione, il pneuma stesso dello psichismo, l’alterità nell’identità, è l’identità di un corpo che si espone all’altro, che si fa “per l’altro”: la possibilità del dare. La dualità non ricomponibile degli elementi di questo tropo è la dia-cronia dell’uno-per-l’altro, la significanza dell’intelligibilità non debitrice alla presenza o alla simultaneità dell’essenza di cui sarebbe la diminuzione.  59

Ora, in una tale trascendenza dell’intenzionalità fondata sull’incarnazione – e dunque su una coscienza bouleversé ove l’uno-per-l’altro è la «significanza stessa della significazione»  60 – dovrebbe risultare chiaro come la stessa nozione di prossimità, nel suo rifiuto di lasciarsi addomesticare o ammansire in un tema e di essere degradata a detto, non è l’inoffensiva relazione del sapere in cui tutto si appiattisce, né l’indifferenza della contiguità spaziale; (bensì) è un’assegnazione di me per altri, una responsabilità riguardo ad uomini che non conosciamo neanche. La re-

59  Ibidem 60  Ivi,

(c.vo nostro tranne dare). p. 124.

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lazione della prossimità, non potendo essere ricondotta ad un modo qualunque della distanza e della continuità geometrica, né alla semplice “rappresentazione” del prossimo, è già convocazione, di un’urgenza estrema – obbligo anacronisticamente anteriore ad ogni impegno. Anteriorità “più antica” dell’apriori.  61

Non è forse a partire da questo anacronismo che si può esprimere il senso dell’essere leso prima che venga ridotto a tematizzazione? In fin dei conti, che cos’è l’ossessione se non «questa relazione irriducibile alla coscienza: relazione con l’esteriorità, “anteriore” all’atto che l’aprirebbe, relazione che, precisamente, non è atto, non è tematizzazione»?  62 E che dire della nozione di anarchia che, ad un primo accostamento, può sembrare enigmatica, quasi criptica, mentre se la si intende, come Levinas stesso spiega in senso pre-politico  63 si configura proprio come ciò che può turbare l’ordine non potendo «pena la sua smentita – essere posta come principio»?  64 Per quanto essa non regni e rimanga nell’ambiguità a che cosa fa segno, allorché «arresta il gioco ontologico», se non alla defezione della coscienza, all’inversione della medesima che è «senza dubbio passività»?  65 Un capovolgimento che è tradito dall’ossessione, che è persecuzione; ossessione che non solo «designa la forma secondo la quale l’Io si addolora»,  66 ma addirittura nel suo attraversare «la coscienza contro-cor61  Ivi,

p. 125. p. 126 (c.vo nostro). 63  Cfr. ibidem, nota 3. 64  Ibidem. 65  Ivi, p. 127. 66  Ibidem. 62  Ivi,

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rente» e dunque «sfuggendo al principio, all’origine, alla volontà, all’arché»  67 non fa che Dire, nel suo stesso accadere, il «lasso di tempo» della dia-cronia?

67  Ivi,

p. 126.

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Capitolo sesto Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

La bontà in quanto bonum diacronico

1. Il tempo come «sempre» della relazione Ciò che ci pare risulti essere rilevante nello studio sulla diacronia che in questo lavoro stiamo compiendo è il progressivo emergere del punto d’Archimede su cui poggia l’ermeneutica responsoriale di Levinas: ovvero la temporalizzazione dell’esserci nella sua vita vissuta; temporalizzazione che il filosofo ebreo lituano non si stanca di portare a datità – quasi fosse una voce di silenzio sottile  1 – e che cerca, per così dire, di lasciar intendere tra le righe come se ne temesse la profanazione da parte del Detto. Al punto che ci pare si possa avanzare l’interpretazione secondo la quale Levinas perviene, già a partire dagli scritti giovanili – come sembrano confermarci le opere inedite, in particolare, i Carnets de captivité – ad una trasposizione delle categorie ontologiche in quelle etiche – proprio facendo leva sulle fondamenta di un pensiero esperiente. Detto altrimenti: non si può comprendere fino in fondo la portata di un tale registro se non vi si scorge lo stretto e imprescindibile legame dell’«io sono» di carne e di sangue con la sua temporalizzazione, che è un continuo ricominciamento e che accade come «un essere rivolto all’altro».  2 Oseremmo troppo 1  F.

P. Ciglia, Voce di silenzio sottile. Sei studi su Levinas,

ETS, Pisa 2012

2  Cfr. E. Levinas, Dieu, la mort et le temps, établissement du texte, notes et postface de J. Rolland, Grasset, Paris 1993; tr. it.

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affermando che nozioni quali quella di anacronismo, an-archia, in-quietudine, in-sonnia, psichismo, prossimità,  3 senescenza, pazienza,  4 ossessione, persecuzione, ostaggio sono, in certo senso, filiazioni temporali della diacronia? V’è un passo molto celebre di Altrimenti che essere che ci pare confermare questo andamento del pensiero levinasiano:

Dio, la morte e il tempo, a cura di S. Petrosino, testo stabilito e note di J. Rolland, Jaca Book, Milano 1996, pp 161-162. Insiste il filosofo ebreo lituano: «Il tempo, più che corrente di contenuti di coscienza, è l’essere rivolto (version) dello Stesso all’Altro. Essere rivolto verso l’Altro che, in quanto altro, preserverebbe gelosamente, in questa versione non assimilabile alla rappresentazione, la diacronia temporale. [...] Essere rivolto dello Stesso e non intenzionalità che è correlazione, che si assorbe nel suo correlato, che si sincronizza con l’afferrabile, con il dato. L’essere rivolto si volta verso, ma altrimenti» (c.vo nostro). 3  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 106. Ammonisce Levinas: «Non è sufficiente definire la prossimità come rapporto tra due termini e garantita in quanto rapporto come simultaneità di questi termini. Bisogna insistere sulla rottura di questa sincronia, attraverso una differenza del medesimo e dell’altro nella non indifferenza dell’ossessione esercitata dall’altro sul medesimo» (c.vo nostro). 4  Id., Dio, la morte e il tempo, cit., pp 196 ss. Rifacendosi all’intrigo dell’altro-nello-stesso, Levinas coglie nella pazienza la passività speciale, ossia la passività che non assume ciò che patisce, di questo stesso intrigo e precisa: «Pazienza che è lunghezza, la durata stessa del tempo. “Pazienza e lunghezza di tempo” – è pazienza o lunghezza del tempo, pazienza come lunghezza del tempo. Pazienza che non è attesa. [...] E in questa attesa senza atteso, l’intenzionalità si rivolta o si inverte in responsabilità per altri. Bisogna quindi pensare insieme il tempo e l’altro. Il tempo significherebbe la differenza dello Stesso e dell’Altro. Tale differenza è non-indifferenza dello Stesso e dell’Altro e, in qualche modo, è l’Altro nello stesso. [...] Qui, con il tempo, l’Altro è nello Stesso senza esserci, esso “vi” è inquietandolo».

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Nella trascendenza dell’intenzionalità, in effetti, si riflette la diacronia – cioè lo psichismo stesso in cui, come responsabilità per altri, si articola, nella prossimità, l’ispirazione del Medesimo per l’Altro. Ma da questo riflesso bisogna risalire alla diacronia stessa che, nella prossimità, è l’uno-per-l’altro: non tale o tal altra significazione, ma la significanza stessa della significazione, l’uno per l’altro come sensibilità o vulnerabilità; passività o suscettibilità pura, passiva al punto di diventare ispirazione, cioè precisamente alterità-nel-medesimo, tropo del corpo animato dall’anima, psichismo come mano che dona il pane strappato dalla propria bocca. Psichismo come corpo materno.  5

Non a caso, nota Casper: La temporalità di questa passività, il diventare realtà di questa sofferenza, si trova piuttosto su un piano trasversale rispetto alla comprensione del tempo inteso come mero svolgimento coerente-sincrono del tempo che si può calcolare. Si rivela un’attesa  6 che va oltre qualsiasi progettualità che cede tutte le proprie capacità: “attesa senza atteso”.  7 [...] Nella diacronia dell’incontro origi-

5  Id.,

Altrimenti che essere, cit., p. 84 (c.vo nostro). Id., Dio, la morte e il tempo, cit., p. 192. Si veda anche, ibidem, nota 32. In questo passo Levinas descrive la messa in questione del Moi come il momento in cui «il tempo composto da istanti è colpito dall’inquietudine del tutto d’un colpo. [...] In tal senso apertura del tempo della subitaneità, che è il battito dell’Altro nello Stesso, il quale precisamente, agita il riposo (Ricordo – spiega il filosofo – che in ebraico il colpo e (il battito del) la campana hanno la stessa etimologia: il verbo agitare!)». 7  Id., Il Tempo e l’Altro, cit., p. 11. Prosegue Levinas: «Che la dia-cronia sia più di un sincronismo, che la prossimità sia più preziosa del fatto di essere dato, che la fedeltà all’ineguagliabile sia migliore di una coscienza di sé, non sta forse qui la difficoltà e la grandezza della religione? Tutte le descrizioni 6  Cfr.

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nario con l’Altro in quanto l’Altro stesso esperimento in un evento inteso come l’esserci-avanti-a-sé che rientra nelle mie capacità e che spezza un “trauma della trascendenza secondo una susceptio più – e altrimenti – passiva della recettività, la passione e la finitezza”  8. Io soffro di una “passività più passiva di ogni passività antitetica dell’atto”  9 l’evento di una “temporalizzazione [...] (del) lasso di tempo, tempo senza ritorno, una diacronia refrattaria ad ogni sincronizzazione”»  10.

Contro qualsiasi comprensione monadologica o ontologica dell’essere, nel mio stesso temporalizzarmi esperisco, in quanto coscienza bouleversé, che c’è qualcosa di nuovo sotto il sole. Che il non-detto da esplicare consiste «nel pensare il tempo non come una degradazione dell’eternità, ma come relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe com-prendere».  11 Se richiamiamo la differenza introdotta da Agostino tra «bonum, quo quis bonus fit» e «bonum quod» ci rendiamo subito conto del fatto che quel dono con cui si diventa buoni implica una stretta correlazione tra il bonum e la temporalità all’interno di una relazione «che non è strutturata in

di questa “distanza-prossimità” possono essere d’altronde solo approssimative o metaforiche, poiché la dia-cronia del tempo ne è il senso non figurato, il senso proprio, e il modello» (ibidem). 8  Id., Altrimenti che essere, cit., p. 2. 9  Ivi, p. 90. 10  Cfr. B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., p. 295. L’ultima citazione interna è E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 13 (c.vo nostro). 11  Cfr. Id., Il Tempo e l’Altro, cit., pp. 10-11.

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termini di sapere, cioè di intenzionalità. Quest’ultima implica la rappresentazione e riconduce l’altro alla presenza e alla com-presenza. Il tempo, al contrario, significherebbe, nella sua dia-cronia, una relazione che non compromette l’alterità dell’altro».  12 Ed è proprio nell’evenire della non-coincidenza che si dà in questa relazione asimmetrica che «il tempo significa [...] questo sempre della relazione – dell’aspirazione e dell’attesa» al punto che l’apparente paradosso di una distanza o separazione, che è anche prossimità,  13 «significa tutto il sovrappiù o tutto il bene di una socialità originaria».  14 Pertanto, come non esita a rimarcare più volte il filosofo di Friburgo, la riflessione sul bene comune può essere feconda se e soltanto se la si svolge in un’ermeneutica della fatticità storica che va decisamente oltre la monadologia a-temporale e asfittica e a partire da un «io sono» di carne e di sangue che si prende cura – secondo la struttura heideggeriana dell’«esserci-davanti-a-sé – nell’esserci-già-in... – come essere-con» – ma attraverso una Sorge, per così dire, incarnata, ovvero attraverso la mia risposta al «che cosa posso fare?», che si traduce in una diuturna messa in questione del

12  Ivi,

p. 10. Id., Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 24. Si chiede Levinas: «Non deriva l’intelligibilità, di qua dalla presenza, dalla prossimità dell’altro? Ivi l’alterità che infinitamente obbliga fende il tempo con un intervallo – un frattempo – insuperabile: l’“uno” è per l’altro di un essere che si dis-tacca, senza fare di sé il contemporaneo dell’“altro”, senza potersi mettere accanto a lui in una sintesi esponibile come un tema; l’uno-per-l’altro, in quanto l’uno-guardiano-di-suo-fratello, in quanto l’uno-responsabile-dell’altro». 14  Id., Il Tempo e l’Altro, cit., p. 11. 13  Cfr.

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mio «caro io».  15 Una messa in questione che implica, se davvero vuole essere tale, il ricominciamento dell’esserci in ogni istante; ma si badi bene: non si tratta tanto di allineare un istante dietro l’altro, ma di cogliere il fatto che in ciascun istante l’io è insieme il definitivo del presente e il definitivo del non definitivo: «ciò attraverso cui – scrive Levinas nei Carnets de captivité – il presente deve essere riparato, ciò attraverso cui c’è speranza e speranza per il presente. Di qui la dialettica della salvezza. La dialettica dell’io che si affranca dalla sua intimità. L’intimità con altri».  16 2. Dire sì all’Altro tra ricominciamento e creazione del futuro Come dire: in ogni istante l’«io sono», che è sempre tentato proprio perché libero, è chiamato a rinnovare questa dedizione al bene con tutto se stesso ribadendo il proprio sì al fatto di essere-ostaggioper-l’Altro. Nella sua sostituzione ab-soluta, l’«io sono» non solo risponde all’«allora insegnato», ma concorre all’opera stessa della redenzione. Nel suo temporalizzarsi – nell’intervallo diacronico – risuona l’eco anarchico del passato e alla sintesi passiva dell’invecchiamento  17 si sostituisce una giovinezza 15  Cfr. I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (1798); tr. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, par. 2, Dell’egoismo, in Id. Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1995, pp. 548 ss. 16  E. Levinas, Œuvres 1, p. 66 (c.vo nostro). 17  Cfr. Id., Altrimenti che essere, cit., p. 66. Questa sintesi «esplode sotto il peso degli anni e si allontana irreversibilmente al presente, cioè dalla rappresentazione. Nella coscienza di sé

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sui generis, che è l’altro dopo di me: il figlio così come l’allievo. Scrive Levinas: La vera temporalità, quella in cui il definitivo non è definitivo, presuppone dunque la possibilità, non di recuperare tutto quello che si sarebbe potuto essere, ma di non rimpiangere più le occasioni perse di fronte all’infinito illimitato dell’avvenire. Non si tratta di compiacersi in una specie di romanticismo dei possibili, non meglio identificato, ma di sfuggire alla opprimente responsabilità dell’esistenza che si muta in destino, di ricominciare l’avvenire dell’esistenza per essere all’infinito. L’Io è, nello stesso tempo, questo impegno e questo disimpegno – e, in questo senso, tempo, dramma in più atti. Senza molteplicità e senza discontinuità – senza fecondità – l’Io resterebbe un soggetto nel quale ogni avventura si muterebbe in avventura di destino. Un essere capace di destino diverso dal suo è un essere fecondo. Nella paternità in cui l’Io, attraverso la definitività di una morte inevitabile, si prolunga nell’Altro, il tempo, con la sua discontinuità, ha ragione della vecchiaia e del destino [...] Questo nuovo inizio dell’istante, questa vittoria del tempo della fecondità sul divenire dell’essere mortale e soggetto all’invecchiamento, è un perdono, l’opera stessa del tempo. [...] L’essere perdonato non è l’essere innocente. La differenza non permette di situare l’innocenza al di sopra del perdono, permette di distinguere nel perdono una sporgenza di felicità, la strana felicità della riconciliazione, la felix culpa, dato di un’esperienza abituale di cui non ci si stupisce più.  18

non c’è più presenza di sé a sé, ma senescenza. È come senescenza al di là del recupero della memoria che il tempo – tempo perduto senza ritorno – è diacronia e mi concerne». 18  Id., Totalità e infinito, cit., pp. 292-293 (c.vo nostro).

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Torna il grande tema della fecondità  19 che, ancora una volta, si mostra strettamente legato a quello della temporalità diacronica rinvenendo l’in-vistadi-cui-finale nella salvezza. Ma attenzione: il «per sempre» della non-coincidenza tra il Moi e l’Altro, non determina il «per sempre» di un bonum che, di contro, «dobbiamo cercare e ricercare ogni volta di nuovo in ogni nuovo evento diacronico. (Questi) non “è” mai concreto, nel senso che abbiamo finito di realizzarlo o che l’abbiamo per sempre, e pertanto dobbiamo solo gestirlo. In questo perenne cercare e trovare – e anche il possibile fallimento e la propria mancanza alla luce di quanto detto – bisogna tuttavia integrare proprio quello in cui noi ci troviamo già e che fa già parte di noi e con cui si tratta di andare avanti. Questo “essere-già-in” – riprende Casper – può riferirsi alla storia già accaduta tra gli uomini. Ma può fare riferimento anche al “già-essere” nelle condizioni della “natura“. Con questo duplice “già-essere-in” dobbiamo tuttavia, in quanto noi stessi, iniziare qualcosa di nuovo. Con la sua tesi del “Primato della ragion pura pratica” nel suo collegamento con la ragione speculativa” – o anche teorica – Kant ha in mente proprio questo».  20 Ma proprio in questo iniziare qualcosa-con-noi-stessi, che è un continuo ricominciare,  21 l’«io sono» di carne e di sangue non si trova, forse, nel paradosso di un

19  Cfr.

supra, cap. IV, par. 3, Compimento e generazione, pp. 135-139. 20  Cfr. B. Casper, «Die Diachronie des “Bonum commune”», cit., p. 296. 21  E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, cit., p. 52. Scrive il filosofo: «il tempo è essenzialmente una nuova nascita».

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passato che si riversa nel presente, decretandone la sua passività, e di un presente che sconfina nell’avvenire proprio perché, se da un lato, l’«allora insegnato» ne provoca lo psichismo, dall’altro, il faccia a faccia con l’Altro ne svela l’avvenire?  22 E non è, forse, a partire da questo paradosso che la diacronia in quanto «lasso di tempo», «scorrere trasversale», «contro-tempo» si rivela come la conditio sine qua non il bonum può essere inteso nei termini del platonico «agathòn epékeina tês ousías»?  23 E ancora, come ha intuito Casper, ciò che è in gioco nell’evento diacronico non è proprio il compimento del bene al di sopra dell’essere, come cifra della temporalizzazione dell’esserci con la conseguente sostituzione della nozione della tradizione metafisica – il bonum – con quella appartenente, nell’ambito di un’ermeneutica responsoriale, al pensiero biblico ovvero con la salvezza? Del resto, dinanzi all’interrogativo sul malgrado sé della responsabilità,  24 dalla quale non

22  Ivi,

pp. 49, 59. Repubblica 509b. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 24. Nota l’Autore: «L’al di là dell’essere o l’altro dell’essere o l’altrimenti che essere – qui posto nella diacronia, enunciato come infinito – è stato riconosciuto da Platone come Bene» (c.vo nostro). 24  Ivi, p. 66. Scrive il filosofo ebreo lituano: «Ora, la responsabilità per altri non potrebbe scaturire da un impegno libero, cioè da un presente. Essa eccede ogni presente attuale o rappresentato. In tal senso è in un tempo senza origine. La sua an-archia non potrebbe comprendersi come semplice risalire da un presente ad un presente anteriore, come un’extrapolazione di presenti secondo un tempo memorabile, cioè raggruppabile nel raccoglimento di una rappresentazione rappresentabile. Questa an-archia, questo rifiuto di raccogliersi in rappresentazione, ha un modo proprio di concernermi: il lasso ». 23  Platone,

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mi posso sottrarre benché sia «anteriore al confronto col logos, alla sua presenza, anteriore all’incominciare che si presenta (o si presentifica) al consenso dato o negato al logos»,  25 Levinas risponde: La soggettività si trova al di qua dell’alternativa determinismo-schiavitù. L’appuntamento della presentazione del determinante al determinato, in cui si vuol vedere l’origine della responsabilità, può essere stato impossibile, se il determinante è il Bene, il quale non è oggetto di scelta, perché esso si è impadronito del soggetto prima che il soggetto abbia avuto il tempo – ossia la distanza – necessaria alla scelta. Non c’è assoggettamento più completo di questo brivido che il Bene incute all’improvviso, un’elezione, certo. Ma il carattere oppressivo della responsabilità che oltrepassa la scelta – dell’ubbidienza anteriore alla presentazione o alla rappresentazione del comandamento che fa obbligo della responsabilità – si annulla per la bontà del Bene, cui appartiene il comandamento [...] la responsabilità indeclinabile eppur non mai liberamente assunta è bene.  26

Ora, questa responsabilità, malgré moi, eppure incedibile e che si fa passività che s’accresce come se si avesse firmato degli assegni in bianco non possiamo, forse, interpretarla come la trascrizione pratica di quella nota che troviamo nell’Opus postumum di Kant e che recita: «Il pensiero è un parlare, e questo un udire»?.  27 Questa locuzione non aiuta a portare a datità, semmai ve ne fosse ancora bisogno, la costante presenza nei testi levinasiani dell’autore della Stella della 25  Id.,

Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 118. p. 119. 27  Opus postumum, cit., p. 379 (c.vo nostro). 26  Ivi,

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redenzione? Redenzione che, man mano, si mostra come la tensione che alimenta ogni volta di nuovo il temporalizzarsi diacronico dell’esserci. Redenzione come salvezza che già troviamo – come Casper invita a notare – nella tradizione del pensiero che da Hermann Cohen arriva appunto a Rosenzweig. Se per Cohen il popolo ebraico «ha posto il futuro in luogo del presente e del passato» e se questa «creazione del futuro, come autentica realtà effettiva, è la grande opera del messianismo»  28 – visione che Cohen vede suffragata dall’affermazione della trascendenza del bene platonica – per Rosenzweig: La vita, ogni vita, deve essere divenuta totalmente temporale, interamente vivente, prima di poter divenire vita eterna. [...] L’eternità cioè dev’essere accelerata, deve sempre poter venire già “oggi”; solo così essa è eternità.  29

Questa anticipazione del futuro nell’oggi comune a Cohen e a Rosenzweig non richiama forse la diacronia in quanto scandita dal «ritmo stesso degli istanti separati attraverso l’intervallo che è il bene»?  30 Il fatto stesso che il secondo istante sia migliore del primo in quanto è un ri-cominciamento, non ci fa scorgere in questa Wiedergeburt la trasversalità, lo scorrere di traverso del tempo diacronico in una tensione crescente fino all’a-Dio? Resta un’unica via d’uscita – scrive perentoriamente Rosenzweig con parole che potrebbero essere sottoscritte

28  Cfr. H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, cit., p. 428. 29  F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., pp. 309310 (c.vo nostro). 30  E. Levinas, Œuvres 3, p. 202 (c.vo nostro).

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da Levinas – l’attimo che noi cerchiamo, nel momento stesso in cui è appena svanito, deve già cominciare di nuovo, nel suo immergersi deve già nuovamente risalire, il suo trascorrere dev’essere al tempo stesso un ricominciare.  31

Ed è proprio in questo ricominciare che l’uomo, il quale al “dove sei tu?” di Dio aveva ancora taciuto, come un sé caparbio e ostinato, ora, chiamato con il suo nome, due volte, con la più grande determinazione, quella che non si può fare a meno di ascoltare, risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto tutto... anima: “sono qui”. Ecco qui l’“io” – avverte Rosenzweig. L’io umano singolo, ancora soltanto aperto, ancora vuoto, senza contenuto, privo di essenza, pura disponibilità, pura obbedienza, tutt’orecchi. In questo ubbidiente ubbidire cade, come primo contenuto, il comandamento.  32

Pertanto l’«io» di Dio che mi dice «amami» diviene la parola matrice che attraversa la rivelazione; rivelazione che «sta sotto il segno del grande “oggi”; “oggi” Dio comanda ed “oggi” occorre prestare ascolto alla sua voce. Questo “oggi”, all’imperativo, del comandamento è l’oggi in cui vive l’amore dell’amante».  33 Dio, che è l’amante, attende dall’anima debole e vergognosa di essere confessato: «occorre invocare il Nome e confessare: io credo questo Nome»  34 e che il sé ne dia testimonianza nell’amare il suo prossimo come se stesso: «Come te, quindi non “te”. Tu rimani tu, e devi rimanere tale. Ma per

31  F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 311 (c.vo nostro). 32  Ivi, p. 188 (c.vo nostro). 33  Ivi, p. 190 (c.vo nostro). 34  Ivi, p. 201.

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te egli non deve rimanere un ille, e quindi un semplice illud per il tuo “tu”, bensì egli è come te».  35 Ora nell’essere-garanti-dell’altro nel mio «io sono qui», nel mio «me voici!», nell’ubbidire tutt’orecchi non accade forse l’«allora insegnato» che, nel frattempo dell’intervallo diacronico, diventa per così dire il paradigma della mia temporalizzazione – paradigma che sfugge ad ogni tentativo di comprensione o di tematizzazione? E la mia stessa temporalizzazione non fa segno alla «unità dell’ascoltare e del parlare (che) trova il suo compimento nell’incontro del volto»?  36 3. La dignità come evento della responsabilità In questo incontro, nel quale sono chiamato a dare una risposta all’altro, esperisco il fondarsi stesso della dignità nella relazione asimmetrica che si stabilisce tra lui e me e, allo stesso tempo, non posso che concordare sul fatto che un uomo solo non può dirsi degno. Si apre cioè la strada, a ciò che Casper a ragione chiama, rinvenendo il suo punto archimedico in quell’apriori di correlazione di cui parlava Husserl ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale,  37 l’accadimento della correlazione 35  Ivi,

p. 258. E. Levinas, Œuvres 1, p. 376. 37  E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Hua VI, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Haag 1954, 19762, pp. 161 ss.; tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il saggiatore, Milano 1987, 2015, pp. 396 ss. 36  Cfr.

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ove si danno tre condizioni fondamentali: il fatto che vi siano almeno due uomini mortali in relazione e che questo rapporto evenga tra due «soggetti di carne di sangue», nel quale si dà il libero accadimento del linguaggio. Dunque, affinché il linguaggio accada ho bisogno in effetti dell’altro uomo mortale in quanto questo altro stesso, ossia dell’altro nella sua libertà propriamente originaria per me irraggiungibile. Affinché il linguaggio accada realmente, sono rimesso all’altro/altra nella sua insostituibilità, cioè in quella originarietà per me inviolabile e irraggiungibile in cui l’altro in quanto lui stesso fa qualcosa di se stesso e delle cose del mondo proiettandosi in un futuro aperto. È in questo assoluto rapporto a sé grazie al quale un uomo fa qualcosa di se stesso e del mondo, è cioè nell’autonomia compresa in questo modo che Kant stabilisce, a ragione, la dignità dell’uomo; nel linguaggio della tradizione potremmo dire: la dignità della persona. Persona è qualcuno che ha da dire qualcosa in quanto lui stesso, ossia in quel rapporto a sé che è fondamentalmente sottratto al mio potere che dispone.  38

E se si riflette a fondo su questo aver-da-dire-qualcosa lo si trova, se ci è consentito esprimerci in questo modo, metaforicamente trasposto in quel comportamento che, secondo la psicologia evolutiva, caratterizza il «bambino oppositivo» e che riguarda quel periodo tra il secondo e terzo anno di vita in cui il bambino che impara a parlare comincia a dire: «no!». Qui non si tratta di un apriori patologico né tantomeno di un reiterato capriccio da parte del piccolo, bensì dell’ingresso in quella fase della sua crescita in cui il senso di

38  B.

Casper, Dignità e responsabilità, cit., pp. 28-29.

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questo «no» si potrebbe tradurre così: io sono qualcuno in quanto io stesso e, in virtù di questo, ritengo di poter dire qualcosa. Anzi voglio dire qualcosa. In questa capacità insuperabile e inviolabile di “bambino oppositivo” – continua Casper – si fonda la dignità dell’altro uomo. E allo stesso modo nell’accadimento del mio essere uomo si fonda la mia propria dignità, che, pensata correlativamente, consiste appunto nel fatto che in quanto me stesso posso e mi è lecito rispondere all’altro in quanto lui stesso. Questo accadimento, che accade per il fatto che rispondo all’altro in quanto lui stesso, è un evento continuamente nuovo proiettato in un futuro aperto che in generale si fa realtà soltanto in questo evento. Possiamo chiamarlo evento della re-sponsabilità; e possiamo vedere in esso la radice dell’etico. In questo evento, infatti, non ne va dell’imposizione assoluta e priva di limiti della mia autoaffermazione, ma della nostra realtà futura e comune, nella quale all’altro stesso, nella sua mortalità, è lecito essere, così come è lecito a me stesso, nei limiti della mia mortalità. Tutta questa drammatica della storia umana, che eviene come libertà umana, è stata nascosta in modo particolare dalla filosofia tardo-occidentale, per il fatto che quest’ultima ha tentato di ricondurre tutto quel che può essere colto dal pensiero ad un unico soggetto trascendentale, da comprendere in senso a-temporale-astorico e monadologico. In realtà, però, la mia dignità umana è condizionata dalla dignità dell’altro uomo – di ciascun altro uomo – ed ha luogo effettivamente soltanto nell’accadimento della re-sponsabilità verso di lui. Una volta che lo si sia capito, non si correrà il rischio di isolare il concetto kantiano di autonomia da queste sue condizioni e di comprenderlo in senso astratto ed egologico, intendendo che la mia libertà, in cui essa si radica, consisterebbe semplicemente nel realizzare me stesso senza limiti, e senza riguardo per nient’altro. Un falso liberalismo ritiene di poter comprendere l’autonomia in questo modo. E l’esistenzialismo di Sartre è un esempio

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di questa comprensione deficitaria dell’autonomia, così come lo è, in un certo postmoderno, il mondo della vita dell’anything goes. Ma una simile comprensione dell’autonomia non è affatto quella di Kant. Questi, infatti, lega la dignità dell’autodeterminazione, pensata appunto nel concetto di autonomia, proprio all’obbligazione data con l’intenzionalità della ragione pura pratica, cioè etica; obbligazione che la ragione ha di fronte agli occhi nell’imperativo categorico: “Agisci in modo tale da trattare l’umanità, tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo”.  39 La nostra vera libertà, che ci libera non soltanto formalmente, ma anche concretamente per ciò a cui dobbiamo dare il nostro assenso incondizionato, consiste in un libero fare-qualcosa-di-noi-stessi, che non è sostituibile o rimpiazzabile. Questo significa però da subito sempre far-qualcosa-di-noi-stessi al cospetto dell’altro, a rispondere al quale ci troviamo chiamati, nei confronti del quale, cioè, siamo re-sponsabili. In questo consiste la nostra dignità, e non in una autonomia pensata in modo astratto. Consiste in un’autodeterminazione dell’uomo, che si rivela nella sua realizzazione quale hétéronomie privilégiée, per utilizzare qui un termine centrale del fenomenologo ebreo francese Emmanuel Levinas.  40 La nostra dignità consiste in una responsabilité illimitée,  41 che Levinas nei suoi Carnets de captivité chiama anche felix culpa dell’esser uomo.  42 Perdo la mia dignità quando non percepisco questa situazione fondamentale, quando evito

39  I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 111. 40  E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 87 41  Id., Du sacré au saint. cinque nuove letture talmudiche, Éditions du Minuit, Paris 1977, p. 139; tr. it. Dal sacro al santo. cinque nuove letture talmudiche, tr. it. di O.M. Nobile Ventura, intr. di S. Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985, p. 125. 42  Cfr. supra, p. 107, nota 4.

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di vedere che con il mio esser uomo come tale sono in verità sempre già responsabile».  43

Ora, come non notare il fatto che questo accadimento tra due incondizionatezze, che sono già da sempre poste in correlazione tra loro, trova il suo fondamento nel diuturno trascendersi dell’esserci, un trascendersi che non mira tanto al Sein zum Tode, ma alla creazione del futuro poiché accogliendo l’altro uomo libero e mortale senza condizioni nella sua dignità e accogliendo me stesso, altrettanto finito e libero, senza condizioni, ma chiamato alla responsabilità, colgo il senso profondo della dignità nel suo evenire come rapporto religioso? Nell’altro malato, affamato, assetato, piagato, vilipeso, straniero – altro per il quale, se davvero ne riconosco la dignità, mi faccio ostaggio – riconosco la traccia dell’Illeità che è sempre al di là di qualsiasi oggettivazione. Scrive Levinas: La libertà del presente trova un limite nella responsabilità di cui è la condizione. Solo l’essere libero è responsabile, il che significa che è già non libero. Solo l’essere suscettibile di cominciamento nel presente è ingombrato da se stesso. [...] Il tragico non nasce da una lotta tra libertà e destino, ma dal virare della libertà in destino, dalla responsabilità.  44

In questa chiamata in cui si diviene come figli di Dio si schiude insieme la provocazione «alla realizzazione di una libertà storica e morale nel bisogno dell’altro».

43  B. 44  E.

Casper, Dignità e responsabilità, cit., pp. 30-34. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 72

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4. Attualizzazione di un «sapere d’angelo» Un concorrere faticoso alla salvezza: «Würde ist Bürde»: «la dignità è fardello», recita un antico proverbio tedesco  45 – una chiamata nella chiamata dove l’uomo mortale e finito partecipa attivamente all’azione redentrice e nella sua temporalizzazione diacronica dice sì «alla vocazione e al lavoro comune alla salvezza della storia umana e della creazione».  46 Ma come si può esplicare questo dire sì? Ancora una volta Casper, avvalendosi degli strumenti propri di una teologia monumentale e di una fenomenologia ermeneutica, ci conduce ad un’importante esemplificazione: se nei mosaici di Monreale Dio è posto alla sinistra dell’osservatore e dunque risulta come la causa efficiente di tutto ciò che ha creato, uomo compreso; nel portale della cattedrale di Friburgo Adamo è raffigurato in un faccia a faccia con Dio e, nella Cappella Sistina, addirittura viene in certo senso stravolto il nostro modo di leggere le opere da destra a sinistra. Se Adamo, che è stato creato e chiamato alla vita, è posto sul lato sinistro, su quello destro – che per noi rappresenta il futuro – compare Iddio che, nella tempesta degli Elohim, tocca con il suo dito quello di Adamo e

45  Non ci pare improprio notare la stretta connessione tra l’evenire faticoso della dignità e la diacronia in quanto esodo gravoso del Moi dal proprio per sé: «Questa diacronia del tempo non dipende dalla lunghezza dell’intervallo, tale che la rappresentazione non saprebbe abbracciarlo. Essa è disgiunzione dell’identità in cui il medesimo non raggiunge il medesimo: nonsintesi, stanchezza. Il per sé dell’identità non è più per sé» (cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 66, c.vo nostro). 46  B. Casper, Dignità e responsabilità, cit., p. 53.

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in tal modo lo chiama e lo provoca, nell’atto della creazione, al futuro: al futuro proprio di Adamo che però è contemporaneamente il futuro di Dio. Questa è un’altra costituzione della fondazione rispetto a quella di una mera causalità efficiente pensata in modo puramente isolato. La creazione significa qui anche: tu sei capace della e quindi provocato alla responsabilità. In ciò consiste la tua dignità. Hemmerle: “L’inizio è nel futuro e mi trascina con sé”.  47 Rende l’uomo, nella sua libertà, degno di essere egli stesso un chi. Per chi pensa in modo biblico, la dignità dell’uomo non risiede semplicemente nel suo esser creato, nel semplice fatto della sua esistenza come essere di ragione, ma nella sua chiamata. O meglio: il fatto della nostra esistenza riceve il suo senso pieno soltanto dalla chiamata,  48 unica per ciascun uomo, a quella sua partecipazione all’opera della salvezza, che solo

47  K. Hemmerle, Ausgewählte Schriften, Herder, Freiburg i.Br. 1996, vol. II, p. 226. 48  Su questo punto cfr. A.J. Heschel, God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, Farrar, Straus & Giroux, New York 1955; tr. it. Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo, tr. di E. Mortara Di Veroli, pref. di E. Zolla, Borla, Roma 2006, pp. 162-163. Scrive il grande filosofo nel paragrafo significativamente intitolato: Ritornare a Dio significa rispondergli: «Ognuno di noi stava ai piedi del Sinai e udì la voce che proclamava: Io sono il Signore Dio tuo. Ognuno di noi disse con gli altri: Faremo e ubbidiremo. [...] Nello spirito dell’ebraismo, la nostra ricerca di Dio è un ritorno a Dio; il pensare a Dio è un ricordare, il tentativo di far riemergere la profondità del nostro attaccamento represso. La parola ebraica per pentimento, teshuvà, significa ritorno, ma significa anche risposta. Perché Dio non è silenzioso. “Tornate, o figlioli traviati, dice il Signore” (Ger 3, 14). Secondo l’interpretazione dei rabbini, ogni giorno, in ogni momento, “una voce grida: Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio” (Is 40, 3) [...] L’impulso dell’uomo a rivolgersi a Dio è in realtà un “ricordo mandato da Dio all’uomo”».

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lui può realizzare; salvezza che Dio vuole operare nella storia.  49

In quel tocco non sta forse tutto il non-detto dell’«allora insegnato»? Un non-detto che, se preso sul serio, resiste ad ogni inciampo cronologico, ad ogni rifugio nel passato, ad ogni tentazione di trovare riparo nel proprio sé proprio come fece Léon Blum che, nel carcere di Bourassol, nel forte di Pourtalet, scriveva nel 1942: «Noi lavoriamo nel presente, non per il presente». Un’esemplarità così descritta da Levinas: Un uomo in prigione continua a credere in un avvenimento irrivelato e invita a lavorare nel presente per le cose più lontane delle quali il presente è irrecusabile smentita. C’è una volgarità, una bassezza nell’azione che non si concepisce se non per l’immediato, cioè, in fin dei conti, per la nostra vita. E c’è una nobiltà grandissima nell’energia che si libera dalla stretta del presente. Agire per cose lontane nel momento in cui trionfava l’hitlerismo, nelle ore sorde di quella notte senza ore – indipendentemente da ogni valutazione di “forze in campo” – è, forse, il sommo della nobiltà.  50

Ora, anteporre all’esperienza oggettiva, alla mera percezione della coscienza oggettivante l’esperienza etica non significa «mettere in questione l’ESPERIENZA come scaturigine del senso, del limite dell’appercezione trascendentale, della fine della sincronia con i suoi termini reversibili»?  51 E da questa messa in

49  B. Casper, Dignità e responsabilità, cit., pp. 61-63 (c.vo nostro tranne degno, egli stesso, chi, chiamata). 50  E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 70 (c.vo nostro tranne nel e per). 51  Ivi, p. 25.

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questione non si perviene «alla non-priorità del Medesimo, e attraverso tutte queste limitazioni» non si giunge a proclamare la fine dell’attualità; come se l’intempestivo  52 venisse a sconvolgere le concordanze della rappresentazione. Come se una strana debolezza scotesse di brividi e facesse vacillare la presenza o l’essere in atto. Una passività più passiva della passività consorte dell’atto [...] Inversione della sintesi in pazienza e del discorso in voce di “sottile silenzio” che fa segno agli Altri, al prossimo, vale a dire all’incon-

52  Ci pare significativo che un intellettuale del calibro di Giorgio Agamben nel suo Che cos’è il contemporaneo? – dopo aver ricordato come «in un appunto dei suoi corsi al Collège de France, Roland Barthes» scriva che «il contemporaneo è l’intempestivo» e che Nietzsche, nella seconda delle sue Unzeitgemässe Betrachtungen (1874) annoti che «questa considerazione è intempestiva, perché in essa cerco di intendere come danno, vizio e difetto del nostro tempo qualcosa di cui esso è giustamente fiero, la sua cultura storica, perché credo addirittura che tutti soffriamo di una febbre storica divorante e che dovremmo almeno riconoscere che ne soffriamo» (cfr. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, in Nietzsche. Le grandi opere, Newton Compton, Roma 2011, p. 337) – arrivi ad affermare che «Nietzsche situa la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in uno sfasamento. Appartiene veramente al suo tempo – scrive Agamben –, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». Poco più avanti l’Autore chiarisce: «La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (G. Agamben, Cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-9, c.vo nostro).

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globabile. [...] Scarico dell’essere che si distacca. Forse sono questo le lacrime (cfr. Gen 50, 17)».  53

E ancora, anteporre l’esperienza etica a quella oggettivante in cui il «contro-tempo» o l’«anacronismo» ha la meglio sul tempo degli orologi non significa forse – di qui la genialità di Levinas – tradurre l’epékeina tês ousías di Platone nella seguente equazione: la temporalità sta all’umanità come la diacronia sta all’«allora insegnato», al punto che quest’ultimo non solo sta prima di ogni inizio ma è ciò che, orientando di volta in volta il mio agire – che è una continua rinascita –, illumina il mio avvenire? In un pregevole commento al trattato Shabbath (pp. 88a-88b), Levinas affronta di petto una delle malattie del secolo breve – e diciamo pure anche del nostro – che si chiama «tentazione della tentazione» ovvero l’esigere, il pretendere di tutto sapere e di tutto potere,  54 per tutto disporre e tutti asservire: ci troviamo, di nuovo, nell’ambito del mondo della luce popolato da anime belle che hanno di mira soltanto il proprio conatus essendi. Un mondo in cui qualunque atto, cui non preceda il sapere, è trattato in termini peggiorativi: è ingenuo [...] a meno che la nozione d’atto, invece d’indicare la prassi come opposta alla contemplazione – un movimento nella notte – non ci conduca a un ordine in cui l’opposizione tra impegno e disimpegno non sia più determinante, un ordine che preceda – o addirittura condizioni – queste nozioni stesse.  55

53  E.

Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., pp. 25-26. Id., Œuvres 1, p. 374. Scrive Levinas: «Incontrare un essere non è potere su di lui. È parlargli. Tu non ucciderai è il senso del discorso» (c.vo nostro). 55  Cfr. Id., Quatre lectures talmudiques, Éditions de Minuit, 54  Cfr.

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Ma cosa significa ridurre la ragione stessa al sapere se non pervenire al paradosso di sottoporre l’apporto stesso della rivelazione all’ego trascendentale? Un paradosso che tradirebbe l’hýbris sonnecchiante in ogni uomo: essere come dio, benché sia mortale, finito e limitato. A meno che la nozione di atto non sia preceduta da un ordine in cui «non solo l’accettazione precede l’esame, ma la pratica precede l’adesione»  56 con l’apparente risultato di una libertà che vira in non-libertà, benché una tale adesione indichi già un-al-di-là-della-libertà. L’ordine di cui si sta parlando è quello, come è noto, del «faremo e poi udiremo» (Es 24, 7). Un ordine così paradossale, sottolinea Levinas nel testo a commento del Trattato Shabbath, da stupire senza tregua i talmudisti – un «segreto d’angelo», quello di eseguire prima di aver udito – e da far dire all’Autore che «Israele sarebbe stato un secondo Prometeo».  57 Poi Levinas introduce il passo che riteniamo sia giusto riprendere per intero: Disse Rav Chamà bar Chaninà (Cantico 2, 3): “Quale il melo tra gli alberi del bosco, tal è l’amato mio tra i giovani”. Perché Israele è paragonato ad un melo? Risposta: Per dirvi che, così come sul melo i frutti precedono le foglie, Israele s’è impegnato a fare prima di udire  58.

Ma qualcuno ha forse mai visto un albero fruttificare prima di produrre fiori e foglie?

Paris 1968, 1976; tr. it. Quattro letture talmudiche, pref. e tr. di A. Moscato, il melangolo, Genova 2000, pp. 74-76 (c.vo nostro). 56  Ivi, p. 81. 57  Ivi, p. 89. 58  Ibidem (c.vo nostro).

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Si tratta di una mirabile metafora attraverso la quale, i maestri, intendono esplicare il paradosso dell’inversione dell’ordine della conoscenza e dell’accettazione ossia il fatto che il vero della Torà si dà senza precursore, senz’annunziarsi prima [...]; e quel che si dà e si prende in tal modo è il frutto maturo, non quello che può offrirsi alla mano infantile che tasta ed esplora. Il vero che s’offre in questo modo è appunto il bene, che non lascia a chi l’accoglie il tempo di riflettere e d’esplorare; l’urgenza del quale, non solo non è un limite imposto alla libertà, ma attesta, anzi, ancor più della libertà, ancor più del soggetto isolato ch’è costituito nella libertà, una responsabilità irricusabile.  59

Al sapere della conoscenza,  60 al sapere in quanto «tentazione della tentazione» si contrappone un sapere che accade senza la mediazione di un’idea, che nel suo anacronismo anticipa la volontà del per sé tronfio di sé e che si dà come un sì incondizionato. Attraver-

59  Ivi,

p. 90 (c.vo nostro). H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, cit., p. 470 (376-377). Sull’anteriorità del «sapere d’angelo» rispetto a quello oggettivante della comprensione, lo stesso Cohen argomenta «ciò non costituisce un’infrazione contro la richiesta fondamentale della conoscenza di Dio. Questa conoscenza infatti è al tempo stesso l’amore per Dio, essa è pertanto morale, conoscenza della ragion pratica. Soltanto il compito morale, il comandamento di Dio deve essere assunto. Questo dovere viene addirittura posto prima della conoscenza; tanto più esso sarà quindi reso indipendente da ogni successo e da ogni ricompensa che potrebbe seguirne. “La ricompensa del dovere è il dovere”. [...] Il comandamento viene da Dio. Egli è l’unico bene. Il suo comandamento è dunque il comandamento della bontà » (c.vo nostro). 60  Cfr.

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so questo sapere che scardina ogni sapere eviene la Rivelazione:  61 La Torà è data nella luce di un volto.  62 L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro. [...] Il sì del “faremo” non costituisce l’impegno proprio d’un fare in quanto fare, di non so che mirabil prassi anteriore al pensiero, una prassi la cui cecità, quando pur fosse cieca fiducia, porterebbe alla catastrofe. È, al contrario, una lucidità non meno accorta del dubbio, ma impegnata come il fare – sapere d’angelo, di cui ogni sapere ulteriore sarà solo il commento. [...] Un sapere, il cui messaggero è, al tempo stesso, il messaggio.  63

Dovrebbe ora risultare chiara la portata di quell’equazione che dice che la temporalità sta all’umanità come la diacronia sta all’«allora insegnato». Se «nel volto il passato è avvenire. È sempre passato e sempre a-venire»  64 e se «la struttura del tempo – ciò per cui è fede – consiste nel fatto che siamo sempre nell’anteriorità»  65 ne viene che è solo nel temporalizzarsi liturgico in cui mi faccio ostaggioper-l’altro e in cui ci è dato, nonostante tutto, di sperare-per-il-presente, che si schiude il senso autentico

61  Cfr.

E. Levinas, Œuvres 1, p. 419. Appunta Levinas: «Il solo contenuto della rivelazione, è la rivelazione stessa: la presenza dell’Altro» (c.vo nostro). 62  Cfr. I. Kant, Opus postumum, cit., p. 392 ove il filosofo di Königsberg arriva a dire: «L’imperativo categorico [...] nell’unione della ragione teoretico-speculativa congiunta con quella etico-pratica, è l’idea di Dio». 63  Cr. E. Levinas, Quattro letture talmudiche, cit., pp. 92-93 (c.vo nostro). 64  Cfr. Id., Œuvres 1, p. 264. 65  Ivi, p. 423 (c.vo nostro).

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di un’umanità disorientata. Ed è così che l’«io sono» è chiamato nella pazienza  66 della sua stessa sofferenza  67 a farsi co-responsabile della salvezza: solo ora, forse, possiamo comprendere fino in fondo cosa intendeva Dire Levinas allorché parlava della «storia santa» come di «una liturgia sempre nuova. Nessun gesto. Sempre eventi».  68 Forse è proprio di questa fame sui generis – quella dell’evento ovvero dell’incontro con l’altro di cui sono di colpo responsabile – che soffre la nostra società planetaria. Ma occorre fare presto prima che la sincronia ci rinserri del tutto nelle sue maglie senza più alcuna possibilità di incontrarsi l’uno-con-l’altro con gli occhi puntati sul dietro le quinte di un’umanità che rischia l’autoannientamento per carestia etica e assenza di dirittura morale. Occorre reagire, ciascuno per quanto gli è possibile, mettendo capo ad una esplicazione storica – diciamo pure incarnata – di quell’«allora insegnato». Di contro allo stupore aristotelico in cui comincia il sapere filosofico ovvero il sapere occidentale che, per Levinas, non è altro che «la secolarizzazione dell’idolatria»,  69 «non ci si stupisce abbastanza del-

66  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 65. Argomenta Levinas: «La passività propria della pazienza – più passiva di ogni passività corrrelativa al volontario – significa nella sintesi “passiva” della sua temporalità» (c.vo nostro). 67  Cfr. H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, cit., pp. 265 e 346 ss. 68  Cfr. E. Levinas, Œuvres 1, p. 187 (c.vo nostro). 69  Cfr. Id., Sécularisation et faim, in E. Castelli (a cura di), Herméneutique de la sécularisation. Actes du colloque organisé par le Centre international d’études humanistes et par l’Institut d’études philosophiques de Rome, Rome, 3-8 Janvier 1976, Aubier, Paris 1976, p. 103.

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l’unicità stessa del Moi – traccia di un’impossibile fuga e così dell’inaccessibile responsabilità, che caratterizza ancora colui che, una volta sazio, non comprende l’affamato»:  70 del resto se viene meno «la fame dell’evento»  71 – che per Levinas è profezia – non può che conseguirne la negazione stessa della fame dell’altro, il rifiuto di tendergli un tozzo di pane: atto che suona come blasfemo rinnegando non solo il sapere d’angelo, ma il senso ultimo dell’etica in quanto filosofia prima, in quanto «saggezza dell’amore a servizio dell’amore».  72

70  Ivi,

p. 109 (c.vo nostro). Œuvres 1, p. 80. 72  Id., Altrimenti che essere, cit., p. 203. 71  Id.,

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Parte terza

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Capitolo settimo Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019

Per una misericordia diacronica

1. Misericordia: polisemia di una parola Uno dei grandi meriti che si devono a papa Francesco per la proclamazione del giubileo straordinario della misericordia, consiste nel fatto di indurci a riflettere su una nozione che, come spesso avviene, per altre: speranza, pazienza, perseveranza – per citarne solo alcune – sembra quasi essere caduta nell’oblio. Come è noto misericordia deriva dal latino misereo, avere pietà, e cor, cordis, cuore, indicando quell’evento in cui siamo toccati e provocati dalla miseria dell’altro. Tre sono le espressioni ebraiche che stanno all’origine di tale parola: chesed, dal verbo chasad, che rinvia a un’attitudine di profonda bontà; quindi rachamim che contiene nella sua radice semantica rechem, l’utero: si potrebbe dire misericordia delle viscere,  1 fremito o amore viscerale, syn-patheîn, tenerezza, bontà, commozione. Segue chen, dal verbo chanan, che indica una manifestazione di attenzione, un inchinarsi. Nella versione dei Settanta, se chen e chesed sono tradotti con éleos (e i suoi derivati) – che nella tradizione stoica era impiegato per numerose forme di sofferenza (per gli stoici, dunque, si trattava di un vizio o di una malattia dell’anima, non certo di una virtù) – rechem trova il suo corrispettivo greco in 1  Cfr.

Is 49, 5.

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oiktirmós e splánchna.  2 Occorre, inoltre, rammentare che, in latino, esiste un’altra parola con la stessa radice di misericordia, miseratio, e che, secondo l’uso che ne fa Cicerone designa il patetico di un discorso di contro alla misericordia che, in retorica, diveniva sinonimo di clementia e rinviava all’impietosirsi del giudice nei confronti dell’imputato. Miseratio, impiegata al plurale, indica, invece, le opere di misericordia di Dio nei confronti dell’uomo (cfr. Is 63, 7.15; Ger 16,5; Lam 3,22). Non dice forse Gesù: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36)?  3

2  Cfr. E. Bianchi, L’amore scandaloso di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, pp. 15-16. Occorre, tuttavia, precisare, come fa notare il Priore della Comunità di Bose che «nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si sia progressivamente condensata intorno al termine “misericordia”. Se in ebraico chesed è innanzitutto amore-bontà, dalle versioni antiche questo vocabolo è stato compreso molte volte, e quindi tradotto, con misericordia. Basti l’esempio del salmo 136, dove il ritornello ki le ‘olam chasdo, “perché il suo amore è per sempre”, in latino risuona: quoniam in aeternum misericordia eius. [...] Per l’ebraismo post-biblico, c’è un primato di rachamim su chesed e ahavah (altro vocabolo che esprime l’idea di amore). I rabbini arrivano a parafrasare il secondo versetto dello Shema‘ Jisra’el, “Tu amerai il Signore tuo Dio” (Dt 6, 5), con “Tu avrai misericordia del Signore tuo Dio”, e dunque: “tu avrai misericordia del prossimo tuo come te stesso”». 3  Ci sembra importante notare come nell’anno santo del Giubileo – che si è aperto l’8 dicembre 2015 e chiuso il 20 novembre 2016 – il Vangelo proclamato nelle messe festive sia stato proprio quello di Luca, definito da Dante nel primo libro della Monarchia: scriba mansuetudinis Christi. Particolarmente illuminante è il confronto tra il passo lucano sopra citato che si riferisce al discorso sulla montagna e quello corrispondente di Mt 5, 48 dove Gesù dice: «Siate perfetti, come perfetto è il Padre vostro».

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Non a caso, riferita a Dio, questa nozione indica la sua bontà smisurata, la sua clemenza che è indice di un Dio lento all’ira e grande nell’amore (cfr. Sal 103, 8).  4 Tuttavia, se riferita agli uomini, nelle prime comunità cristiane, la parola misericordia non designa solitamente l’indulgenza e il perdono, bensì la carità verso i poveri ovvero ciò che la lingua greca, riconoscendovi una forma di pietà, chiama eleemosýne.  5 Un’opera misericordiae che già impiega Tertulliano nell’Adversus Marcionem (4, 37)  6 e che sarà esplicata nella sua concretezza ed equivalenza con eleemosyna da Cipriano, il quale sulla scorta di Tb 12,8, ne La preghiera del Signore afferma che la preghiera, per essere ascoltata, deve essere accompagnata da «opere di bene».  7 Mentre si deve ad Ambrogio l’aver

4  Cfr. Es 34, 6 ove si leggono gli attributi del nome di JHWH «pietoso e misericordioso», rivelati a Mosè. 5  Su questo punto cfr. Agostino, Ser. 207. 6  Scrive Tertulliano: «Ottiene la salvezza anche la casa di Zaccheo. Per quale motivo? [...] Zaccheo, sebbene straniero, forse ispirato da qualche conoscenza delle scritture in seguito ai rapporti con i Giudei (o forse, cosa ancora più significativa, ignorava Isaia), aveva eseguito i precetti di Isaia: “Spezza il tuo pane per chi ha fame e chi è senza tetto fallo entrare in casa tua” (Is 58, 7). Zaccheo allora faceva esattamente questo, facendo entrare in casa sua il Signore e dandogli da mangiare (Lc 19, 6). “E se vedrai uno che è nudo, coprilo” (Is 58, 7); questo proprio allora prometteva Zaccheo (Lc 19, 8), offrendo la metà delle sue sostanze per le opere di misericordia, tagliando le catene di contratti troppo severi lasciando liberi gli afflitti e cassando ogni accordo ingiusto, dicendo (Is 58, 6 ss.): “E se a qualcuno ho tolto qualcosa con l’inganno, gli restituisco il quadruplo”. Perciò il Signore disse (Lc 19, 9): “Oggi c’è la salvezza per questa casa”» 7  Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 32.

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sottolineato lo stretto legame tra misericordia e giustizia ricordando che sarebbe ingiusto che il proprio simile non sia aiutato dal compagno (socius) perché il Signore ha voluto che la terra fosse possesso di tutti gli uomini. Sempre al vescovo di Milano si deve l’esortazione a non ridurre le opere di misericordia ad un mero elenco legalistico o, peggio ancora, ad una casistica. Così ammonisce: Sarebbe una grave colpa se un fedele, pur essendone tu informato, versasse nel bisogno; se tu sapessi che egli è senza mezzi, patisce la fame, soffre tribolazioni, specialmente se si vergogna della sua indigenza; sarebbe grave colpa la tua se, ridotto in schiavitù dai suoi o calunniato, tu non lo aiutassi; se un giusto si trovasse in carcere per debiti, tra pene e tormenti, e non ottenesse nulla da te nella sua sofferenza; se nel momento del pericolo, quando viene condotto a morte, per te fosse di maggior valore il tuo denaro della vita di chi sta per morire  8.

2. Dimentichi di sé, dimentichi dell’Altro Ora, questo breve excursus sull’etimologia del termine è, a nostro avviso, particolarmente prezioso poiché non solo ci aiuta a comprendere più profondamente ciò che prescrive la prima delle opere di misericordia corporali: «Dar da mangiare agli affamati», ma ha il pregio di problematizzare il senso profondo che scaturisce da questi imperativi, cui l’uomo, dotato di libero arbitrio può rispondere o astenersi dal farlo.

8  Ambrogio,

De officiis (I doveri) 1, 30, 148.

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Il nostro esserci, si sa, è sempre tentato e spetta a lui decidersi. Un decidersi per l’altro che non può dirsi fino in fondo tale se resta la mera esecuzione di un precetto, come avviene tutte le volte che si tende frettolosamente la mano per dare una moneta a chi ci chiede aiuto, mentre noi già volgiamo lo sguardo altrove e oltre quel volto scarno e vergato dalle lacrime. Quegli occhi in cerca di un sorriso. Quella mani che invano attendono una carezza.  9 E invece nulla: solo silenzio, abbandono, solitudine. Non a caso uno dei vizi più diffusi nella nostra società planetaria è l’indifferenza, mentre la tonalità emotiva dominante è la paura.  10 Di qui lo sgretolarsi del simbolico, l’ipertrofia del soggetto, l’imperversare di quel delirio di onnipotenza che ci rende doppiamente dimentichi: per un verso della nostra finitezza e mortalità, per l’altro dell’alterità irraggiungibile di Autrui. Ma è solo divenendo consapevoli di questo duplice oblio – che può essere rimpiazzato soltanto da quello originario: l’oblio della propria ipseità – che si prende davvero sul serio la misericordia. In tal senso ci pare estremamente illuminante l’analisi che di essa ne fa Agostino poiché, in più passi, mostra come non si possano portare a compimento le opere di misericordia se prima non la si usa verso se stessi: Chi vuol fare elemosina in modo ordinato, deve cominciare da se stesso e farla prima di tutto a se stesso. L’elemosina è infatti un’opera di misericordia e sono assolutamente vere le parole: “Abbi misericordia della tua anima per piacere a Dio” (Sir 30, 24). Per questo rina-

9  E.

Levinas, Œuvres 1, cit., p. 186. supra, cap. 1, Temporalità e gratuità, pp. 41 ss.

10  Cfr.

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sciamo: per piacere a Dio [...] È questa la prima elemosina che noi ci facciamo, poiché abbiamo ricercato la nostra miseria grazie alla misericordia di Dio misericordioso.  11

Ciò a cui richiama Agostino è la conversione del cuore  12 che, dal punto di vista di una fenomenologia ermeneutica della fatticità storica, è strettamente collegata a quella rinascita o Wiedergeburt, cui più volte abbiamo fatto riferimento in questo lavoro, che riguarda l’«io sono» mortale e corporeo, il quale, nella fatica dell’istante,  13 nel suo decidersi-ad-iniziarequalcosa-con-se-stesso è coinvolto in un movimento senza posa o temporalizzazione il cui in-vista-di-cuifinale è la salvezza. Un movimento che può essere fecondo se e soltanto se, dopo aver fatto l’elemosina alla mia anima, mi faccio incontro all’Altro fino a farmi suo ostaggio: Fa’ l’elemosina all’anima tua – ammonisce Agostino – con il praticare la giustizia e la carità. Che significa “praticando giustizia”? Rifletti bene e troverai; dispiaci a te stesso, condanna te stesso. Ama il Signore Dio, con

11  Agostino,

Enchiridion de fide spe et charitate 20, 76.

12  Non a caso Rabano Mauro (XI secolo) ispirandosi ad Ago-

stino scrive: «Quando ci convertiamo dai peccati alle opere buone, dalla superbia all’umiltà, dalla lussuria alla temperanza, dall’astio e dall’invidia alla carità e all’amore, dall’ira e dalla contesa alla mansuetudine e alla pazienza, dalla gola alla sobrietà, dall’avarizia alla generosità, dalla tristezza mondana alla gioia dello spirito, dall’accidia temporale allo zelo del bene, che altro facciamo se non elargire elemosine a noi stessi, poiché abbiamo pietà di noi stessi? [...] Esercita dunque bene e con ordine l’arte della misericordia (artem misericordiae) chi non lascia mancare innanzitutto a se stesso le buone opere, una santa condotta e i frutti delle virtù» (Id., La formazione dei chierici 2, 28; c.vo nostro). 13  Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., pp. 23 ss.

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tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; ama il prossimo tuo come te stesso (Mt 22, 37-39), e così avrai fatto prima l’elemosina all’anima tua nella tua coscienza. Se invece tralascerai di fare questa elemosina, da’ pure ciò che vuoi, offri pure tutto quel che vorrai [...] non farai nulla, dal momento che non fai l’elemosina a te e rimani povero con te stesso.  14

Come dire: è solo passando attraverso il riconoscimento della nostra miseria e pochezza che possiamo dare corso al comandamento più grande (Mc 12, 31); ancora, è solo amando Dio «con quella carità che egli stesso ci ha donato»  15 che potremo amare il prossimo.  16 Del resto, non sta proprio nello scoprire nella felix culpa – teologumeno interpretato da Levinas in chiave precristiana – o «dovere felice di amare l’altro», come il filosofo ebreo lituano ha magistralmente notato nei suoi Carnets de captivité, il fondamento ultimo della nostra umanità?  17 3. Facere misericordiam come concrezione dell’«allora insegnato» Fondamento che sta alla base di ciò che potremmo chiamare l’evento della misericordia – il che presuppone che si debba essere almeno in due – e nel 14  Cfr. Agostino,

Sermone 106, 4-4. Enchiridion de fide spe et charitate 20, 76. 16  Particolarmente illuminante in proposito per la tensione tra l’approssimarsi con amore, da un lato, e la drammaticità della prossimità dall’altro, il volume di E. Bianchi - M. Cacciari, Ama il prossimo tuo, il Mulino, Bologna 2011. 17  Cfr. supra, cap. III, Forme diacroniche della felix culpa, pp. 107, nota 4. 15  Cfr. Agostino,

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quale accade, per così dire, un tempo che si dà trasversalmente, che non ha nulla a che fare con il tempo dell’orologio, con la sincronia dell’onto-teologia, con il totalitarismo asfittico di un ego trascendentale. Semplicemente si manifesta senza che lo si possa tematizzare. Porta con sé il segreto della differenza tra essere e altrimenti che essere, tra ousía e Bene:  18 Bisogna che nella temporalizzazione recuperabile, senza tempo perduto, senza tempo da perdere e dove avviene l’essere della sostanza, si segnali un lasso di tempo senza ritorno, una diacronia refrattaria ad ogni sincronizzazione, una diacronia trascendente. [...] Ma se il tempo deve mostrare l’ambiguità dell’essere e dell’altrimenti che essere, conviene pensare la sua temporalizzazione non come essenza, ma come Dire. [...] il Dire, in forza del suo potere d’equivocazione – cioè in forza dell’enigma di cui detiene il segreto – sfugge all’épos dell’essenza che lo ingloba, e significa al di là secondo una significazione che esita tra l’al di là e il ritorno dell’épos dell’essenza».  19

Se dunque, «la soggettività è precisamente il nodo e lo scioglimento dell’essenza», il Dire come «equivoco o enigma» risuona nella «relazione con un passato al di qua di ogni presente e di ogni rappresen-

18  Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 24-25. Scrive Levinas: «L’al di là dell’essere o l’altro dell’essere o l’altrimenti che essere – qui posto nella diacronia, enunciato come infinito – è stato riconosciuto da Platone come Bene. [...] L’al di là dell’essere, la sua resistenza all’assembramento, alla congiunzione e alla congiuntura, alla contemporaneità, all’immanenza, al presente della manifestazione, significa la diacronia della responsabilità per altri e di un profondo passato, più antico di ogni libertà che la ordina, nonostante che – nel presente enunciato – essi si sincronizzino». 19  Ivi, pp. 13-14.

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tabile» che si dà «nell’avvenimento straordinario e quotidiano della mia responsabilità per le colpe o la disgrazia d’altri». Una responsabilità che non può aver avuto origine nel mio impegno, nella mia decisione. La responsabilità illimitata in cui mi trovo mi viene dall’al di qua della mia libertà, da un “prima-diogni-ricordo”, da un “oltre-ogni-compimento” del non presente [...] La responsabilità per altri è il luogo in cui si pone il non-luogo della soggettività [...] Il tempo del detto e dell’essenza lascia intendere il dire pre-originale, risponde alla trascendenza, alla diacronia, allo scarto irriducibile che si apre tra il non-presente e il rappresentabile, scarto che a suo modo – modo da precisare – indica il responsabile.  20

Che cosa significa, dunque, essere colpiti «dalla miseria altrui» se non il fatto di essere toccati in un dolore  21 a fior di pelle dall’alterità di altri che mi

20  Ivi,

pp. 14-15. limitiamo in questa sede a sottolineare come Levinas, constatata la deflagrazione di qualsiasi teodicea, non esiti a porre in primo piano «il problema del rapporto tra la sofferenza dell’io e la sofferenza che un io può provare per la sofferenza di un altro uomo». Quindi anticipando la formulazione matura che elaborerà nel saggio sulla Sofferenza inutile, si chiede: «Non vi è nel male, nell’intenzione di cui in modo così esclusivo sono nel mio male il destinatario, uno sfondamento del Bene?» (cfr. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 161). Nel negativo, la teofania? Proprio così, ossia: «Dio mi fa male per sradicarmi dal mondo in quanto unico ed eccezionale: in quanto anima» (ivi, p. 158; c.vo nostro). Notiamo come la ventesima delle Poesie alla notte di Rilke possa apparire, se così si può dire, come una sorta di commento poetico a quanto Levinas qui sopra scrive: «Ma il dolore, quando il vomere condotto con perizia raggiunge un nuovo strato non è, il dolore, buono? E cosa sarà l’ultimo che ci strapperà ad ogni dolore? Tanto è ancora da 21  Ci

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chiama in causa in quanto eletto? Di qui il venir meno dell’«al tempo stesso» del sincronico, lo squarciarsi della realtà more geometrico in cui abita il cogito, l’accadere della diacronia, che è evento di misericordia, che implica un movimento, un temporalizzarsi: la misericordia, nello stesso linguaggio biblico, si fa (cfr. Gen 19, 19; 21, 23; 24, 12; 40, 14; Es 20, 6; Dt 5, 10; Rt 1, 8; ecc.). «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10, 37), dice Gesù al dottore della Legge al quale ha narrato la parabola del samaritano.  22 La misericordia non è un’abitudine, né tanto meno può essere degradata a solidarismo: nel facere misericordiam risuona quel «profondo allora – “allora” non ancora abbastanza – mai coglibile – ma “un allora” insegnato»,  23 che è un temporalizzarsi con tutto se stessi dando corso al comandamento di Cristo: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34); «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15, 9). La prima Lettera di Giovanni lo ricorda più volte: «Non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (in opere et veritate)» (Gv 3, 18); «Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui

soffrire. Quando fu tempo di concederci all’altro, più morbido sentire? Eppure io, ancor più di tanti tra coloro che un dì risorgeranno, scorgo la beatitudine» (R.M. Rilke, Poesie alla notte, a cura di M. Specchio, Passigli, Firenze 1999, p. 73; c.vo nostro). 22  Commentando questo passo, Agostino scrive: «Il Signore Gesù volle farsi vedere in quel Samaritano. Il termine: “Samaritano” significa: “Custode”[...] Dunque: il Signore è molto vicino (Fil 4, 5), perché il Signore si è fatto prossimo per noi» (Sermone 171, 1-2; c.vo nostro). 23  Cfr. E. Levinas, Œuvres 2, p. 173.

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l’amore di Dio?» (1Gv 3, 17); «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4, 20). Ma anche nell’Antico Testamento non mancano riferimenti a questo accadere della misericordia allorché si legge: «Dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo (Is 58, 7)».  24 Ma questo accadere si dà soltanto se si riconosce nell’Altro la traccia dell’Illeità, della trascendenza; soltanto se ne riconosco l’inafferrabilità poiché Altri è proprio colui che contesta il mio «potere di potere», il desiderio di ricondurre tutto a me attraverso l’intenzionalità. Di qui ha luogo, come ha evidenziato Casper, l’accadimento dell’attenzione che si fonda sul paradosso di consistere, per un verso, nell’andare oltre me stesso: il che presuppone un’attività; per l’altro sul fatto che questa intenzionalità sospende se stessa: «l’essere attento» si esplica qui nella passività «dell’essere chiamato in causa da ciò che è altro».  25 In questo «vedersi dal di fuori» dell’«io sono» di carne e di sangue eviene il ribaltamento della coscienza intenzionale in coscienza bouleversé, l’io è posto all’accusativo, la sua libertà vira in responsabilità  26 rispondendo: «Eccomi!» all’invoca-

24  Cfr. Gb 29,12-13 : «Io soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo gioia». 25  B. Casper, Evento e preghiera, cit., pp. 38-39. 26  E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 192. Nota Levinas: «La responsabilità per il prossimo è prima della mia libertà in un passato immemoriale, non-rappresentabile e che non fu mai presente, più “antico” di ogni coscienza di... Sono impegnato nella responsabilità per altri secondo lo schema singolare designato da una creatura che risponde al fiat della Genesi, che

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zione dell’altro, che è innanzitutto un atto linguistico diacronico. Questa diacronia del tempo non dipende dalla lunghezza dell’intervallo, tale che la rappresentazione non saprebbe abbracciarlo. Essa è disgiunzione dell’identità in cui il medesimo non raggiunge il medesimo: non-sintesi, stanchezza. Il per sé dell’identità non è più per sé.  27

Ma, a questo punto, è essenziale intendersi sul senso profondo della nozione di prossimità, che certamente non può essere ridotta al mero rapporto tra due termini. Anche due punti stanno in relazione tra loro... 4. Essere toccati dalla miseria dell’altro: l’eccezione della prossimità La significazione autentica della prossimità la si può intendere soltanto se si ha il coraggio di «insistere sulla rottura di questa sincronia, di questo insieme, attraverso la differenza del Medesimo e dell’Altro nella non-indifferenza dell’ossessione esercitata dall’Altro sul Medesimo. L’eccezione della prossimità rispetto ad un ordine razionale tendente in linea di principio verso un sistema di pure relazioni, è l’ipostasi della relazione in soggettività ossessionata, di un’ossessione non reversibile dal prossimo, soggettività che non si riduce ad un incrocio qualunque di queste relazioni. [...] Rapporto che non è ritorno a sé: rapporto – che incessante esigenza, incessante contrazione, ricorrenza del rimorso – libera,

ascolta la parola prima di essere stata mondo e al mondo». Su questo punto, cfr. anche Cfr. E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 205 ss. 27  E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 66 (c.vo nostro).

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come termine, l’uno che nulla potrebbe precisamente raggiungere e ricoprire. La soggettività non precede la prossimità per poi impegnarsi successivamente in essa. È, al contrario, nella prossimità, che è rapporto e termine, che si annoda ogni impegno.  28

Ora, questa anteriorità della prossimità alla soggettività ci consente di incamminarci, se così si può dire, sul percorso non facile che conduce alla pratica stessa della misericordia autentica. Perché affermiamo che si tratta di un percorso in salita e faticoso? Perché si tratta di mettere capo alla sovversione del Medesimo, al suo passare dal nominativo all’accusativo che implica una presa in carico con tutto il nostro esserci corporeo – d’altro canto è questo l’unico modo in cui ci possiamo cogliere – della richiesta di aiuto che ci viene dall’Altro. Richiesta, invocazione che è improcrastinabile e che, nostro malgrado, ci rende da cima a fondo responsabili. La mera esecuzione di un’opera buona senza che con tutto il nostro da esserci usciamo da noi stessi e, nel perderci ci troviamo, senza la presa di consapevolezza di un debito inestinguibile verso l’altro – che certo non può essere saldato da alcun una tantum – non può che tradursi in una sorta di automatismo che svilisce il senso profondo della misericordia. Esemplare, in tal senso quanto esprime Agostino laddove si legge: Quando il tuo cuore è toccato,  29 colpito dalla miseria altrui, allora quella è misericordia. Fate attenzione per-

28  Ivi,

p. 106 (c.vo nostro, tranne l’uno). in proposito quanto scrive Pascal nelle Provinciali, riaffermando il valore della libertà dell’uomo accanto all’effica29  Cfr.

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tanto, fratelli miei, come tutte le buone opere che facciamo nella vita riguardano veramente la misericordia. Ad esempio, tu dai del pane a chi ha fame; daglielo con la partecipazione del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l’uomo a te simile. Quando dunque compi un atto di misericordia comportati [così]: se porgi un pane, cerca di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dai da bere, partecipa alla pena di chi ha sete; se dai un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti [...] Quando semini, poiché fai un’opera di misericordia, se sei partecipe del dolore di colui che ne è l’oggetto, semini tra le lacrime (cfr. Sal 125, 6) [...] Seminiamo tra le lacrime, cioè con fatica e dolore. Pertanto non venite meno alle opere di misericordia perché riceverete la ricompensa della vostra seminagione (cfr. Gal 6, 9).  30

5. La misericordia come a-Dio Ora, è noto come Aristotele nella Retorica chiami compassione quella «sorta di dolore per un male cacia della grazia a partire dal profondo intreccio fondato sulla misericordia: «Quando piace a Dio di toccare (l’uomo) con la sua misericordia, gli fa fare ciò che vuole nella maniera che vuole, senza che questa infallibilità dell’operazione di Dio, distrugga in alcun modo la libertà naturale dell’uomo, grazie ai modi segreti e meravigliosi per cui Dio opera tale cambiamento, che S. Agostino ha spiegato così eccellentemente, e che dissipano tutte le contraddizioni immaginarie che i nemici della grazia efficace si figurano tra il potere sovrano della grazia sul libero arbitrio e la facoltà che ha il libero arbitrio di resistere alla grazia» (B. Pascal, Dix-huitième Lettre au Révérend Père Annat, Jésuite, in Id., Œuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, p. 887; tr. it. in A. Perathoner, Pascal. Libertà e liberazione, in C. Vigna [a cura di], La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 273). 30  Cfr. Agostino, Sermone 358A (= Morin 5).

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pace di distruggere e di arrecare sofferenza che risulta capitare a chi ne è immeritevole, male che anche il soggetto potrebbe inoltre opinare di patire».  31 Ed è proprio rifacendosi al Filosofo che Tommaso d’Aquino affronta con grande slancio la portata di questa nozione che non rientra né nelle virtù cardinali né in quelle teologali, che è senz’altro più di un’affezione e che d’altro canto non può essere derubricata a mera passione. Ciò che stupisce, nel corso dell’analisi che ne fa l’Aquinate, sono due elementi che riteniamo centrali: per un verso il fatto che «la misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo: non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti [che produce]» poiché «misericordioso si dice colui che ha in certo qual modo un cuore misero, nel senso che alla vista delle altrui miserie è preso da tristezza come se si trattasse della sua propria miseria. E da ciò proviene che egli si adoperi a rimuovere la miseria altrui come la sua propria miseria. E questo è l’effetto della misericordia»;  32 per l’altro, il fatto che proprio partendo dall’assunto agostiniano che recita: «Di gran lunga più giustamente e più umanamente e più conformemente al sentimento religioso parlò Cicerone in lode di Cesare là dove disse: “Nessuna delle tue virtù è più ammirevole o più gradita della tua misericordia”»  33 e dalla constatazione che «la misericordia viene preferita nella Scrittura al culto divino, secondo quelle parole: “Io voglio misericordia e non sacrificio” (Os 6, 6; Mt 12, 7)»  34 egli per-

31  Cfr. Aristotele,

Retorica II, 8, 1385b10-15. d’Aquino, STh I, q. 21, a. 3, 2 (c.vo nostro). 33  Cfr. Agostino, De civitate Dei IX, 5. 34  Tommaso d’Aquino, STh IIa-IIae, q. 30, a. 4, 1. 32  Cfr. Tommaso

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venga alla conclusione che «il compendio di tutte le virtù consiste nella misericordia».  35 Dunque, da un lato ciò che ne costituisce la peculiarità è l’effetto che determina la conversione del cuore di colui che prova dolore per la miseria altrui, dall’altro ciò la distingue è la suprema concrezione di quanto il Signore ci chiede e l’avvio di quel dis-interessamento, che è la conditio sine qua non del nostro approssimarci all’Altro. Tuttavia Tommaso aggiunge un’ulteriore precisazione mostrando come se è vero che «è proprio di Dio usare misericordia: nella qual cosa specialmente si manifesta la sua onnipotenza», allora ne viene che «per colui invece che la possiede la misericordia non è la virtù più grande. [...] Infatti per chi ha sopra di sé qualche altro – prosegue Tommaso – è cosa migliore stabilire un legame col suo superiore che supplire ai difetti dei propri inferiori. Quindi nell’uomo, che ha come superiore Dio, la carità, che unisce a Dio, è superiore alla misericordia, che supplisce alle deficienze del prossimo. E conclude: «tuttavia fra tutte le virtù che riguardano il prossimo la prima è la misericordia, e il suo atto è il più eccellente: poiché soccorrere la miseria altrui è per se stesso un atto degno di chi è superiore e migliore».  36 Ma perché Tommaso afferma che la carità è superiore alla misericordia? Premesso che non è questo il luogo per affrontare una trattazione sistematica sull’argomento, va tuttavia chiarito che per l’Aquinate la carità ha per oggetto Dio, «mentre il prossimo è amato per amore di Dio»  37 poiché «Dio è la

35  Ivi,

a. 4, 2 (c.vo nostro). a. 4, 3 (c.vo nostro). 37  Ivi, q. 23, a. 5. 36  Ivi,

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prima regola, da cui deve essere regolata la stessa ragione umana. Di conseguenza le virtù teologali, che consistono nell’adeguarsi a questa prima regola, avendo esse Dio per oggetto, sono superiori alle virtù morali e intellettuali, che consistono nell’adeguarsi alla ragione umana. Perciò è necessario che tra le stesse virtù teologali sia più nobile quella che meglio raggiunge Dio. [...] Perciò la carità è più nobile della fede e della speranza, e quindi di tutte le altre virtù».  38 Non solo, aggiunge più avanti Tommaso, «non ci può essere alcuna vera virtù senza la carità»  39 al punto che come afferma Paolo: «Se anche distribuissi tutte le mie sostanze, e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1Cor 13, 3). Ci sembra, tuttavia, che un passo in più possa essere fatto: senza misericordia non sarebbe pienamente realizzabile il comandamento supremo dell’amore che la carità porta con sé, per un verso perché nel praticare la misericordia attivo quella conversione del cuore che mette capo alla deflagrazione dell’io solo,  40 38  Ivi,

q. 23, a. 6. q. 23, a. 5. 40  Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistenza, cit., p. 77. Scrive Levinas: «La solitudine non è maledetta per se stessa, ma per il suo significato ontologico di definitività. Raggiungere “altri” non è un fatto che trova in se stesso la propria giustificazione, non scuote la mia noia. Ontologica­mente è l’evento della rottura più radicale delle categorie stesse dell’io, poiché per l’io, questo evento significa non essere in sé, essere altrove, essere perdonato, non essere un’esistenza definitiva. La relazione con “altri” non potrebbe essere pensata come un incatenamento a un altro io; e nemmeno come la comprensione d’“altri” che toglie a quest’ultimo la sua alterità o come una comunione» (c.vo nostro). 39  Ivi,

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dell’«io sordo di ventre affamato»;  41 per l’altro perché questo atto, che diviene il paradigma della mia temporalizzazione, mi fa scorgere nell’altro cui mi faccio incontro la traccia dell’Illeità al punto che il mio patire-per-l’altro, il mio provare compassione è già un a-Dio e il farmi ostaggio-con-tutto-il-miocorpo-per-l’altro è già una risposta alla chiamata a una corresponsabilità nell’azione salvifica. Come dire, l’amore verso Dio è strettamente connesso e inseparabile da quello verso il prossimo:  42 non a caso scrive Agostino: «L’uomo di Dio (2Tim 3, 17), dunque, vaso santificato in onore, utile al Signore, pronto per ogni opera buona (2Tim 2, 21), tutto ciò che fa nella sua vita non è se non un’opera di misericordia, o verso se stesso o verso il prossimo».  43 A tal proposito riteniamo colga davvero nel segno il card. Walter Kasper, allorché nel suo celebre saggio, cui papa Francesco più volte si è riferito, scrive che dobbiamo tirar fuori la misericordia «dalla sua esistenza di cenerentola, in cui essa era caduta nella teologia tradizionale».  44 Ad essa viene riservato uno spazio inadeguato benché «secondo la testimonianza di tutta la Scrittura, dell’Antico come del Nuovo Testamento» essa costituisca «la proprietà di Dio che occupa il primo posto nell’autorivelazione storica divina. Perciò essa non

41  E.

Levinas, Œuvres 1, p. 127. XVI, non a caso, sottolinea «l’interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo» (Deus caritas est I, 18). 43  Agostino, Sermone 350D. 44  W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo, chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013, p. 26. 42  Benedetto

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può essere, come avviene nei manuali di dogmatica, solo una proprietà divina accanto alle altre [...] La misericordia è piuttosto il lato visibile ed efficace verso l’esterno dell’essenza di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4, 8.16); essa esprime l’essenza di Dio benignamente disposta verso il mondo e verso gli uomini e di continuo storicamente piena di premure per essi, esprime la sua specifica bontà e il suo specifico amore».  45 Come dire: la misericordia si svela nella sua autenticità allorché viene colta in quanto accadimento che eviene tra il Moi e Autrui, in una sorta di sfasamento temporale che, di colpo, mi fa dire: «Eccomi!»  46 dinanzi all’altro, un evento diacronico in cui traspare la misericordia stessa di Dio,  47 nella sua tenerezza e nel suo soffrire con noi verso la salvezza. Nel suo saggio La preghiera senza domanda Levinas esplica con acume in che termini si possa parlare di una compartecipazione divina al dolore umano.

45  Ivi,

pp. 135-136. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, cit., p. 83 47  Nella tradizione ebraica, come ricorda M. Ventura Anzinelli nel suo Fare orecchie alla Torà. Introduzione al Midrash, Giuntina, Firenze 2004, p. 44: «Il trono del Giudizio e il trono della Misericordia corrispondono ai due attributi divini del Rigore e della Grazia, che nel Talmud e nel Midrash vengono chiamati middot (misure) e riferiti ai diversi nomi divini». Poi riporta questo apologo (cfr. Sifrè a Dt 26), che riteniamo valga la pena riprendere: «Diceva Rabbi Yehudà in nome di Rav: “Dodici ore ci sono nel giorno: nelle prime tre il Santo, benedetto sia, si dedica alla Torà; nelle seconde tre giudica tutto il mondo e, quando vede che questo meriterebbe la distruzione, si alza dal trono del Giudizio e si siede su quello della Misericordia; nelle terze tre provvede ad alimentare tutto il mondo, dai bufali alle uova degli insetti; nelle quarte tre gioca con il Leviatàn, come è detto: “Ecco il Leviatàn, che tu hai formato per scherzare con lui” (Sal 104, 26)”. 46  Cfr.

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Nella misura in cui la sofferenza di ogni io è già la sofferenza di Dio che soffre per questa “mia sofferenza”, l’io che soffre può pregare: prega per la sofferenza di Dio che soffre nella mia sofferenza umana. Non ho affatto bisogno di pregare per la mia sofferenza umana. Dio, prima di ogni domanda, è già con me. Non dice forse (Sal 91, 15): sono con lui nella sofferenza? E Isaia (63, 9) non parla forse di Dio che soffre nella sofferenza dell’uomo?  48

Una sofferenza che, per noi cristiani, trova la sua acme nel Figlio dell’Uomo che porta su di sé tutti i peccati del mondo fino alla morte in croce. Ora, un Dio fatto uomo che viene umiliato, denigrato, vilipeso, oltraggiato e che nella sofferenza più atroce grida «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22, 42), non manifesta con il suo stesso sacrificio l’infinita compassione che Dio ha dell’uomo?  49 In proposito possiamo ricordare la parabola del buon samaritano ove

48  E. Levinas, «De la prière sans demande. Note sur une modalité du judaïsme», Études philosophiques, 38/12 (1984), pp. 157-163; tr. it. di F.P. Ciglia, Della preghiera senza domanda. Nota su una modalità dell’ebraismo, in G. Moretto - D. Venturelli (a cura di), Filosofia, religione, nichilismo. Studi in onore di Alberto Caracciolo, Morano, Napoli 1988, p. 64. 49  Cfr. Agostino, Sermone 207, 1. Scrive il vescovo di Ippona: «Ci poteva essere misericordia maggiore di questa: il Creatore viene creato, il Signore serve, il Redentore è venduto, colui che innalza è umiliato, colui che risuscita è ucciso? A noi vien comandato di fare elemosine, cioè di dare il pane a chi ne ha bisogno; egli, per dare se stesso a noi che ne avevamo bisogno, anzitutto si consegnò per noi ai carnefici. A noi vien comandato di accogliere il viandante: egli per noi venne nella sua casa ma i suoi non lo accolsero» (c.vo nostro) 

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alla domanda: “Chi è il mio prossimo?”, Gesù – scrive Kasper – non risponde con una deduzione da alti principi, ma immagina la situazione di un uomo che soffre e che non può più essere d’aiuto a se stesso, un uomo che io trovo e incontro in mezzo alla strada. Quest’uomo sofferente è l’interpretazione della volontà concreta di Dio per me [...] alla fine Gesù ha sacrificato la sua vita “per riscattare molti”, cioè per ognuno di noi e per tutti noi (cfr. Mc 10, 45; 1Tm 2,4).  50

A differenza del sacerdote e del levita, quello sconosciuto si fa incontro al suo fratello, altrettanto sconosciuto perché «ne ebbe compassione», ove il verbo splanchnízomai è associato alla misericordia delle viscere cui sopra abbiamo accennato. E ancora, a differenza del fariseo Simone e dei commensali che mostravano tutto il loro disappunto e stupore perché Cristo, indirizzando lo sguardo verso la donna che gli lavò i piedi cospargendoli di profumo, le perdonò i suoi peccati «perché ha amato molto», Gesù dà una prova concreta del suo amore misericordioso  51 (cfr.

50  W. Kasper, La sfida della misericordia, pref. di M. Cacciari, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2015, p. 34. Sulla parabola del buon samaritano si veda anche E. Bianchi, Raccontare l’amore. Parabole di uomini e di donne, Rizzoli, Milano 2015, pp. 17-58. 51  Benedetto XVI, Deus caritas est I, 12. Scrive il papa emerito: «Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale» (c.vo nostro).

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Lc 7,44b-47) così come non esita a provare compassione allorché, tra le laute offerte dei ricchi gettate nelle ceste al tempio, spicca quella della povera vedova che raccoglie i pochi spiccioli che possiede per offrirli con tutta se stessa (cfr. Lc 20, 45–21, 4).  52 6. Provocati da un volto che ci parla: attualità della misericordia Ma un interrogativo si fa impellente: che cosa ha da dire oggi, agli uomini e alle donne del XXI secolo, questo facere misericordiam? Perché, oggi più che mai, suonano come un imperativo le parole che Giovanni XXIII, proclamò aprendo il Concilio Vaticano II allorché disse che «la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore»?  53 Crediamo che il tentativo di formulare una risposta possa prendere le mosse da un’intuizione fondamentale che papa Francesco esplica nell’Enciclica Evangelii Gaudium quando afferma che «il tempo è superiore allo spazio» e quando poco più avanti invita ciascuno di noi ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare pri-

52  Per

un’analisi profonda di queste parabole, si veda il bel libro di C. Albini, L’arte della misericordia, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2015, pp. 29 ss. 53  Giovanni XXIII, Allocuzione di apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962).

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orità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.  54

Come dire: il pontefice ci esorta a uscire dall’ego autocentrato e monadico che ha solo di mira il proprio profitto e inter-esse – una sorta di «particulare» guicciardiniano – per volgerci a una dimensione che va oltre la totalità dell’ontologia abitata da un ego puramente trascendentale, ovvero quella della nostra fatticità storica ove ci cogliamo come esseri finiti, mortali e incarnati provocati da un volto che ci parla.  55 Il volto dell’affamato, dell’assetato, dell’ignudo, dell’ammalato, del carcerato, dell’afflitto, del dubbioso, del peccatore e finanche del persecutore. In realtà, il paradosso cui si assiste è apparente soltanto se si è disponibili a passare dall’orizzonte dell’essere e dello spazio a quello del tempo. Da que-

54  Francesco,

Evangelii Gaudium IV, 3, 222 (c.vo nostro). E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, p. 29. Scrive Levinas: « L’“io parlo”è sottinteso in ogni “io faccio”, e anche: nell’“io penso” e “io sono”. Identità ingiustificabile, un puro far segno agli altri; segno fatto della sola donazione del segno, il messaggero essendo il messaggio, il significato – segno senza figura, senza presenza, fuori dell’esperito, fuori della civiltà» (c.vo nostro). Si veda anche ivi, p. 75. 55  Cfr.

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sta possibilità, che implica una scelta e, dunque un doversi-decidere, dipende il senso della nostra stessa esistenza, poiché ne va della nostra salvezza. Non a caso Francesco afferma che «la nostra epoca è un kairós di misericordia, un tempo opportuno»  56 perché la nostra società planetaria è abitata da un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde. Non sa come curarle o crede che non sia proprio possibile curarle. E non ci sono soltanto le malattie sociali e le persone ferite dalla povertà, dall’esclusione sociale, dalle tante schiavitù del terzo millennio. Anche il relativismo ferisce tante persone: tutto sembra uguale, tutto sembra lo stesso.  57

Ma come è possibile cogliere questo kairós, in altre parole in che modo il facere misericordiam può davvero accadere e non meramente essere oggetto delle mie mire intenzionali o ridursi alla pratica frettolosa di un’opera di misericordia, quasi fosse un automatismo? A nostro avviso due sono le condizioni fondamentali perché evenga la misericordia: per un verso, il fatto che la misericordia in quanto vulnerabilità è la precondizione stessa dell’amore; per l’altro il fatto che prendere sul serio la misericordia significa ergerla a paradigma della nostra esistenza o forse, sarebbe meglio dire, della nostra temporalizzazione, che è costantemente attraversata dall’enigma della diacronia. Ovvero dal frapporsi di un intervallo che squarcia il corso dell’esistere scandito dal tempo dell’orologio. Argomenta Levinas:

56  Francesco, Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Milano 2016, p. 22. 57  Ivi, p. 33.

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Giace dunque nella vulnerabilità una relazione con l’altro che la causalità non esaurisce; relazione anteriore all’eccitazione prodotta dallo stimolo. L’identità del sé non pone limiti al subire – neanche quell’ultima resistenza che la materia “in potenza” oppone alla forma che la investe. La vulnerabilità è l’assillo che mi danno gli altri, la vicinanza degli altri. Essa è per gli altri, che spuntano dietro l’altro dello stimolo. Vicinanza che non si riduce né alla rappresentazione degli altri né alla coscienza della prossimità. Soffrire per causa di un altro è averlo a carico, essere al suo posto, consumarsi per cagion sua. Ogni amore, ogni odio del prossimo presuppone questa vulnerabilità preliminare: misericordia, “commozione di visceri”. Sin dalla sensibilità, il soggetto è per l’altro: sostituzione, responsabilità, espiazione.  58

7. Dimensione diacronica della misericordia Ora, posta questa premessa, non possiamo forse affermare che l’enigma stesso della diacronia sta tra «la fatica del futuro»  59 e la «fame dell’evento»,  60 fame che è simile a quella avvertita, in Delitto e castigo, da Sonja Marmeladova al cospetto di Raskolnikov al punto che Dostoevskij parla non tanto di «inesauribile compassione, bensì di insaziabile compassione»?  61 Non sta forse in questa tensione tra movimento e compimento la dimensione diacronica della misericordia? E il vulnus della filosofia classica non sta, come osserva di nuovo il filosofo ebreo lituano, nel fat-

58  E.

Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., pp. 144-145. Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 23. 60  Id., Œuvres I, p. 80. 61  Id., Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 73. 59  Id.,

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to di aver sottovalutato «l’alterità d’“altri”, in quanto riteneva che esistesse un dialogo silenzioso dell’anima con se stessa»?  62 Ora, avvertire il dolore a fior di pelle dinanzi ad Autrui, significa riconoscere, da un lato, la vulnerabilità del sé, dall’altro, l’esteriorità radicale dell’altro fino ad ascoltare la sua invocazione. Di qui il carattere evenemenziale e dialogico di questo farsi incontro che diventa condizione fondamentale perché la misericordia si dia, accada, in tutta la sua autenticità fino a scovarne la sua dimensione soteriologica, fino a «farsi perdonare il proprio essere dalla stessa alterità d’“altri”».  63 Solo facendo leva sulla diacronia del facere misericordiam si potrà andare oltre «l’ipocrisia» di una «carità ben ordinata»  64 apprestandoci così a cogliere quel kairós che, nella complessità del nostro presente – crisi a ogni livello, iperindividualismo, solitudine, isolamento, violenza di ogni genere perpetrata soprattutto su donne, anziani e bambini, persecuzione delle minoranze etniche e religiose (tra le quali spiccano quelle dei cristiani e degli yazidi), antisemitismo, moltiplicazione dei focolai di guerra, proliferazione di attentati terroristici che mietono centinaia di vittime in nome del fondamentalismo islamico, paura diffusa, disorientamento – non ammette ulteriori procrastinazioni. Si tratta, pertanto, di cogliere la sfida della misericordia, ma per fare questo «ci vuole motivazione [...], ci vuole un cuore (cor) per i miseri, un cuore aperto che tiene le mani aperte e mette in

62  Id.,

Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 86.

63  Ibidem. 64  Ivi,

p. 87.

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moto le nostre gambe per aiutare chi ha bisogno».  65 E per quanto il contributo della misericordia individuale non possa sostituire la giustizia sociale, questa «può essere l’ispirazione e la motivazione a darsi da fare».  66 Un illuminante detto dei Pirqè Avot recita: «non spetta a te portare a termine l’opera, ma non sei nemmeno libero di sottrartene».  67 Proprio perché chiamati alla responsabilità, il nostro orecchio deve essere costantemente teso all’ascolto di chi ci chiede aiuto, di chi bussa alla nostra porta per un tozzo di pane, una parola, un gesto che proviene dalla nostra commozione delle viscere perché – come avverte il card. Kasper – «la nostra società non può cavarsela senza misericordia».  68 Perché – aggiungiamo noi – senza l’altro, la nostra vita perderebbe di senso e ogni percorso intrapreso non sarebbe altro che un sentiero interrotto.

65  W.

Kasper, La sfida della misericordia, cit., p. 48.

66  Ibidem. 67  Pirqè Avot II, 19 (16) in Detti di Rabbini, intr., tr. e note a cura di A. Mello, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 1993, p. 97. 68  W. Kasper, La sfida della misericordia, cit., p. 49.

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Postfazione

Uno dei compiti precipui della filosofia è, parafrasando Hegel, quello di apprendere il proprio tempo con il pensiero e insieme, per rifarci a Gadamer, mettere in discussione i presupposti che si rendono necessari se davvero si vuole interpretarne e farne emergere il senso alla luce della fatticità storica in cui ci troviamo. Il testo qui presentato indica già nel titolo i due elementi basilari dell’intero lavoro: temporalità e umanità; essi rimandano alla nozione di diacronia – termine introdotto nel pensiero filosofico da Levinas e fin d’ora esclusivamente impiegato nell’ambito della linguistica – la quale rappresenta il filo rosso che attraversa l’intero contributo. La pubblicazione delle opere inedite a partire dal novembre 2009 a Parigi ha suscitato immediatamente l’interesse degli studiosi per ciò che Levinas – in questo i Carnets de captivité costituiscono un esempio emblematico – vergò su carta sin dai cinque interminabili anni di prigionia. Frammenti, appunti che lasciano intendere un non-detto assai prezioso e che chiede di essere esplicato per comprendere sempre più profondamente l’intera opera del filosofo ebreo lituano. Il rischio, infatti, a cui ci si potrebbe esporre allorché si tentasse di dire qualcosa su una tale filosofia prescindendo da una tale «officina filosofica», sarebbe quello di ribadire un già detto e di appiattirne 231

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il guadagno teoretico sul Volto dell’Altro. In realtà, come di capitolo in capitolo emerge da questo volume, si potrà pienamente coglierne il senso profondo soltanto se si sarà in grado di calarsi tra le pieghe degli scritti inediti al fine di chiarire e interpretare ancor più intensamente quanto Levinas ha scritto nelle opere della maturità: Totalità e infinito. Saggio sul pensare all’Altro e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza.  1 Alla luce del pensiero di Bernhard Casper, a cui si devono gli stimoli cruciali legati al pensiero di Levinas, nel quale, a partire dal doppio filone: ermeneutico-fenomenologico e del nuovo pensiero, ha messo in evidenza la portata della nozione di Ereignis, l’autrice cerca di far emergere come sia determinante la comprensione della temporalità e la declinazione della vita vissuta dell’esserci in quanto temporalizzazione al punto da suggerire la stretta correlazione, diciamo pure, l’intrinseca compenetrazione di temporalità e umanità lasciando che sia la nozione di diacronia a fare da bussola nel corso dell’intera indagine. Ma si badi bene: una bussola che riguarda non tanto l’ego trascendentale dell’intersoggettività monadologica di Husserl e neppure il Dasein che-nonha-mai fame di Heidegger, bensì l’«io sono» di carne e di sangue che si coglie nell’unico modo che gli è dato: nella sua corporeità, nell’estrema vulnerabilità della carne di un Leib, che è chiamato a decidersiad-iniziare-qualcosa-con-se-stesso. Mai come oggi, del resto, questo ammonimento suona in tutta la sua urgenza: le analisi sulla nostra contemporaneità pre-

1  E. Levinas, Totalité et infini. Essai sur l’extériorité (1961) e Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (1974).

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sentate nella prima sezione del libro, mostrano nel loro nitore fenomenologico, lo spaccato dell’odierna società planetaria in preda al disorientamento, alla paura, alla solitudine. Di qui, in linea di continuità con un altro testo che molto deve alla filosofia di Levinas: Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Maestro. Una questione morale  2 (Giuntina, Firenze 2013), il forte richiamo all’«utopia dell’educazione»,  3 come ha sottolineato Marc Augé, e che rinviene il suo point de départ nell’accadimento che si dà tra due incondizionatezze: l’accadimento del linguaggio, da cogliere in tutta l’intensità del suo evenire, al punto da chiamare l’accadere stesso dell’essere un ringraziare.  4 Tra la «parola parlante» – che può darsi esclusivamente nel dia del dialogo e della diacronia – e la «parola parlata» – figlia di un autore in contumacia e di un pensiero che resta totalitario – si misura tutta la distanza che separa il vecchio pensiero dal nuovo e che Franz Rosenzweig riassume nel «bisogno dell’altro, o che è lo stesso , nel prendere sul serio il tempo».  5 Tra le due si dà come uno iato che conduce ad un bivio inevitabile dinanzi al quale, come accadde per i viandanti di cui narra Cartesio nel Discorso sul metodo, ci si deve decidere se andare da una parte o dall’altra, cioè: se continuare a perseverare nel proprio conatus essendi oppure farsi-incontro-all’altro,

2  Giuntina,

Firenze 1913. Augé, Futuro, cit., pp. 107 ss.; Id., Nutrire l’umanità per salvare l’umano, cit., p. 22. 4  Cfr. supra, pp. 89 ss. 5  F. Rosenzweig, Das neues Denken, cit., pp. 139-161; tr. it. Il nuovo pensiero, cit., p. 58. 3  M.

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che mi convoca e mi invoca. La prima conduce ad un vicolo chiuso: ci fa rimanere nei confini del proprio ego dediti soltanto al proprio inter-esse e perlopiù indifferenti all’altro; la seconda, invece, conduce ad un esodo definitivo dal proprio sé che consente di «vedersi dal di fuori» poiché «Volere è come se si avesse parlato con altri»  6. È la strada che imbocca l’io sono di carne e di sangue che diviene consapevole, in quanto creato, della sua elezione, che è già un virare della libertà in responsabilità. È la strada ove gli istanti non sono tutti uguali, ma un lasso di tempo che scorre trasversalmente tra me e l’altro mi fa dire che c’è qualcosa di nuovo sotto il sole: ovvero che la domanda centrale della filosofia non è: “Perché c’è qualcosa e non il nulla” – questione leibniziana tanto commentata da Heidegger –, ma “Essendo io non uccido?” [...] Io ho il diritto d’essere? Essendo nel mondo occupo il posto di qualcuno?  7

Interrogativi che ci conducono a quell’epoché esistenziale esperita da Levinas durante la sua prigionia. Situazione fatta di privazioni totali, di dolore, di sofferenza ove, come sostiene Casper, egli coglie il fondamento ultimo dell’umanità stessa dell’uomo: la felix culpa, il “dovere felice di amare l’altro” che nel 6  E.

Levinas, Œuvres 1, p. 262 et infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard et Radio France, Paris 1982; Lgf, Paris 1986; tr. it. Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a cura di E. Baccarini, intr. di G. Mura, La provocazione etica di Emmanuel Levinas, Città Nuova, Roma 1984; poi tr. it. di M. Pastrello, a cura e con un saggio di F. Riva, La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale, Castelvecchi, Roma 2012, p. 108 (c.vo nostro). 7  Éthique

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mio essere inquietato dall’altro che mi incombe, mi rende responsabile da cima a fondo, mio malgrado. Scrive Casper: Qui, in questa prigionia, e in considerazione del fatto che forse domani non vivrò più, mi trovo adesso io stesso in una situazione di riduzione fenomenologica. Non un qualche contenuto del sapere, ma io stesso nella mia nuda esistenza mi trovo radicalmente messo in questione in quanto me stesso. Non ho più nient’altro che me stesso, ed anche questo vale solo per questo istante, e allora devo chiedermi: perché mai posso essere qui in quanto me stesso? che cosa mi dà il diritto di vivere in quanto me stesso? [...]. Levinas in quanto se stesso, cioè nel rapporto con se stesso, che lo costituisce in quanto se stesso, in quanto persona unica,si trova del tutto solo con se stesso, come un uomo che sta da solo in un deserto senza strade e si chiede: «Perché mai ora sono qui? Dove sta il senso del fatto che io, io e nessun altro, ci sono? Perché mi è dato di esistere in quanto me stesso, nella mia unicità insostituibile?». Nel momento in cui si lascia interpellare da questa domanda, diventa tuttavia chiaro a Levinas che con questa domanda radicale riguardo a se stesso si trova però contemporaneamente di fronte ad altre persone. Nella domanda radicale riguardo a me stesso, mi trovo di fronte all’altra persona, all’Altro che «è come me», ma che, nella sua libertà, in quanto se stesso è completamente sottratto ad ogni mio poter-disporre di lui. Io infatti non posso mai mettermi al posto in cui c’è lui stesso, e in cui decide da se stesso ciò che vuole intraprendere con se stesso. E solo di fronte a questo altro in quanto altro se stesso insostituibile, si pone in tutta la sua pienezza e in tutta la sua serietà la questione: perché mai posso esserci in quanto me stesso? La risposta a questa domanda, trovata da Levinas nel radicale essere-messi-in-questione in quanto se stessi nello Stalag 1492, è la seguente: puoi essere te stesso perché sei chiamato a questo, sei designato, sei eletto, per rispondere all’Altro in quanto se stesso. Tu solo infatti

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lo puoi. In ciò consiste la tua dignità, che nessuno ti può togliere. E ciò rimane vero anche se ti si uccide.  8

Ma questo fondamento ultimo della mia umanità, che mi porta a farmi-ostaggio-con-tutto-il-mio-corpoper-l’altro, che cos’è se non l’esplicazione pratica di quel «profondo allora – “ ‘allora’ non ancora abbastanza – mai coglibile – ma “un allora” insegnato»  9? che, scrive Nodari, «nel frattempo dell’intervallo diacronico, diventa per così dire il paradigma della mia temporalizzazione – paradigma che sfugge ad ogni tentativo di comprensione o tematizzazione?»;  10 che è ciò che fonda il rapporto tra Maestro e allievo, tutt’altro che reminiscenza, controtempo anarchico. Che è la cifra di quel ex ante che mi si rivela solo come ex post? Scrive Levinas: Al fondo della concretezza del tempo, che è quello della mia responsabilità per altri, c’è la dia-cronia di un passato che non si unifica in ra-presentazione. [...] Dia-cronia senza pari del passato. Assoggettamento che precede l’ascolto dell’ordine – il che attesta o misura un’autorità infinita. [...] Passato che si articola – o che “si pensa” – senza ricorrere alla memoria, senza il ritorno dei “vissuti presenti”: passato che non è fatto di (rap) ri-presentazioni. Passato che significa a partire da una responsabilità irrecusabile che incombe all’io.  11

E non è, forse, in questa «significazione imperativa del futuro»,  12 in questa attualizzazione di un sa8  B. Casper, Emmanuel Levinas. La scoperta dell’umanità nell’inferno dello Stalag 1492, cit., pp. 41-44. 9  E. Levinas, Œuvres 2 , p. 173. 10  Cfr. supra, p. 185. 11  E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 206-207 (c.vo nostro). 12  Ivi, p. 208.

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pere d’angelo  13 che il facere misericordiam  14 tocca la sua acme? Non sta, forse, nell’io posto all’accusativo, nella sua coscienza bouleversé, nell’esercizio diuturno di una responsabilità che s’accresce il concorrere dell’uomo alla redenzione salvifica? Del resto Levinas non arriva ad affermare che è proprio a partire dalla rottura con il tempo sincronico, e dunque dalla «rottura dell’ordine naturale dell’essere» che si può «intendere un ordine che sarebbe la parola di Dio o, più esattamente ancora, la venuta stessa di Dio all’idea [...] il tempo come l’ad-Dio»? Non a caso, argomenta poco più avanti il filosofo: «La responsabilità per l’altro uomo, che risponde della morte d’altri, si vota ad un’alterità che non appartiene più alla rappresentazione. Questa maniera di essere votato – o questa devozione – è tempo».  15

Come dire: con l’autrice possiamo, davvero, concludere che «la temporalità sta all’umanità come la diacronia sta all’“allora insegnato”».  16 Un’equazione che svela l’intrigo diacronico della nostra esistenza e concorre a rendere fecondo il nostro «io sono» di carne e di sangue. Armando Savignano

13  Cfr.

supra, pp. 190 ss. supra, pp. 209 ss. 15  E. Levinas, Tra noi, cit., pp. 208-209 (c.vo nostro).. 16  Cfr, supra, pp. 38, 194, 197. 14  Cfr.

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Bibliografia

1. Bibliografia primaria 1.1. Opere di Levinas Eros, littérature et philosophie. Essais romanesques et poétiques, notes philosophiques sur le thème d’éros, volume publié sous la responsabilité de J.-L. Nancy et de D. Cohen-Levinas, établissement des textes et annotations matérielles par D. Cohen-Levinas, assistée de D. Stidler, textes russes transcrits, traduits et présentés par L. Kharlamov, Préface de J.-L. Nancy, GrassetImec, Paris 2013 (= Œuvres 3). La compréhension de la spiritualité dans les cultures française et allemande, pref. di D. Cohen-Levinas Payot & Rivages, Paris 2014. Théorie de l’intuition dans la phénomenologie de Husserl, Alcan, Paris 1930; tr. it. La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, tr. di V. Perego, a cura di S. Petrosino, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 2002. «Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme», in Esprit, 26 (1934); tr. it. Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. di A. Cavalletti, intr. di G. Agamben, con un saggio di M. Abensour (Le mal elemental, tr. di S. Chiodi), Quodlibet, Macerata 1996. «De l’évasion», in Recherches Philosophiques, 5 (193536), pp. 373-392, riedito in volume da J. Rolland, Fata Mor-gana, Montpellier 1982; tr. it. Dell’evasione, a cura di G. Ceccon e G. Francis, Elitropia, Reggio Emilia 1983.

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Carnets de captivité, sous la responsabilité de C. Chalier et R. Calin, Œuvres complètes, t. 1, Bernard GrassetImec, Paris 2009 (= Œuvres 1); tr. it. Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2011. De l’existence à l’existant, Fontaine, Paris 1947; Vrin, Paris 1978; tr. it. Dall’esistenza all’esistente, a cura di F. Sossi, con una premessa di P.A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986. Le Temps et l’Autre, in J. Wahl et al., Le Choix, Le Monde, L’Existence (Cahiers du Collège Philosophique), B. Arthaud, Paris-Grenoble 1947; II ed. immutata con una nuova Préface, Fata Morgana, Montpellier 1979; III ed. conforme alla II, Puf, Paris 1983, 1991; tr. it. Il Tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, il melangolo, Genova 1993. Etre juif. Suivi d’une Lettre à Maurice Blanchot (1947), pref. di D. Cohen-Levinas, Payot & Rivages, Paris 2015. En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; II ed. aum. ivi 1967, 1994; tr. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998. Parole et silence et autres conférences inédites au Collège philosophique, sous la responsabilité de C. Chalier et R. Calin, Œuvres complètes, t. 2, Bernard GrassetImec, Paris 2009 (= Œuvres 2); tr. it. Parola e silenzio e altre conferenze inedite al Collège philosophique, a cura di S. Facioni, Bompiani, Milano 2012. La laïcité et la penséè d’Israël, in A. Audibert et al., La laïcité, Puf, Paris 1960; tr. it. Laicità e pensiero giudaico, in Dall’altro all’io, a cura di A. Ponzio, tr. di J. Ponzio, Meltemi, Milano 2002, pp. 85-98. Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; Lgf, Paris 1990; tr. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dall’Asta, con un testo introduttivo di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1980 (II ed. 1990). Difficile liberté. Essai sur le Judaïsme, Albin Michel, Paris 1963; II ed. rifusa e completata (sono stati tolti alcu-

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ni saggi e altri nuovi sono aggiunti), ivi 1976; III ed. conforme alla II, Lgf, Paris 1984: IV ed. Albin Michel, Paris 1995; tr. it. parziale Difficile libertà. Saggi sul giudaismo (scritti scelti), tr., intr. e note a cura di G. Penati, La Scuola, Brescia 1986; tr. it. integrale Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004. Commentaires. Textes messianiques, in Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1963, 1995, pp. 89-139 (cfr. infra); tr. it. Il messianismo, a cura di F. Camera, Morcelliana, Brescia 2002. Quatre lectures talmudiques, Minuit, Paris 1968, 1976; tr. it. Quattro letture talmudiche, pref. e tr. di A. Moscato, il melangolo, Genova 2000, pp. 74-76. Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972, 1978; Lgf, Paris 1987, tr. it. Umanesimo dell’altro uomo, intr. e tr. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 1998. Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, 1978; Lgf, Paris 1990; tr. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, con intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983. Sur Blanchot, Fata Morgana, Paris 1974; tr. it. Su Blanchot. Mondo e spazio letterario, a cura di A. Ponzio, Palomar 1994; II ed. Su Maurice Blanchot, a cura di A. Ponzio e F. Fistetti, CaratteriMobili, Bari 2015. Noms propres, Fata Morgana, Montpellier 1976; Lgf, Paris 1987; tr. it. Nomi propri, intr. e tr. di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984. Du sacré au saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977, p. 139; tr. it. Dal sacro al santo. Cinque nuove letture talmudiche, tr. it. di O.M. Nobile Ventura, intr. di S. Cavalletti, Città Nuova, Roma 1985. L’au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, Minuit, Paris 1982; Lgf, Paris 1986; tr. it. L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, a cura di G. Lissa, Guida, Napoli 1986.

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De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; II ed. riv. e aum., con una nuova Préface, ivi 1986; Lgf, Paris 1995; tr. it. Di Dio che viene all’idea, a cura di S. Petrosino, tr. di G. Zennaro, Jaca Book, Milano 1983. Éthique et infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard et Radio France, Paris 1982; Lgf, Paris 1986; tr. it. Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a cura di E. Baccarini, intr. di G. Mura, La provocazione etica di Emmanuel Levinas, Città Nuova, Roma 1984; poi tr. it. di M. Pastrello, a cura e con un saggio di F. Riva, La distrazione da sé, ovvero: la prossimità, il sociale, Castelvecchi, Roma 2012. Transcendance et intelligibilité. Suivi d’un entretien, Labor et Fides, Genève 1984; tr. it. Trascendenza e intelligibilità, a cura di F. Camera, Marietti, Genova 1990. «De la prière sans demande. Note sur une modalité du judaïsme», Études philosophiques, 38/2 (1984), pp. 157-163; tr. it. di F.P. Ciglia, Della preghiera senza domanda. Nota su una modalità dell’ebraismo, in G. Moretto - D. Venturelli (a cura di), Filosofia, religione, nichilismo. Studi in onore di Alberto Caracciolo, Morano, Napoli 1988. Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987; tr. it. Fuori dal Soggetto. Buber de Waelhens Jankélévitch Leiris Marcel Merleau-Ponty Rosenzweig Wahl, a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Genova 1992. À l’heure des nations, Minuit, Paris 1988; tr. it. Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, tr. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000. Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991; Lgf, Paris 1993, tr. it. Tra noi. Saggio sul pensare all’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998. Dieu, la mort et le temps, établissement du texte, notes et postface de J. Rolland, Grasset, Paris 1993; tr. it. Dio, la morte e il tempo, a cura di S. Petrosino, testo stabilito e note di J. Rolland, Jaca Book, Milano 1996. Les imprévus de l’histoire, pref. di P. Hayat, Fata Morgana, Montpellier 1994.

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Liberté e commandement, pref. di P. Hayat, Fata Morgana, Montpellier 1994. Altérité et transcendance, Fata Morgana, Montpellier 1995; tr. it. Alterità e trascendenza, tr. di S. Regazzoni, il melangolo, Genova 2006. Nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1996, tr. it. Nuove letture talmudiche, tr. di B. Caimi, Se, Milano 2004. Violence du visage, tr. it. Violenza del volto, tr. di A. Bianchi e intr. di G. Ripanti, Morcelliana, Brescia 2010 (intervista a Levinas – corretta e ampliata dall’autore stesso nei confronti della registrazione orale – pubblicata per la prima volta in Hermeneutica 1985; poi in Altérité et transcendance, cit. (1995), pp. 172-183). (con B. Casper), In ostaggio per l’Altro, a cura di A. Fabris, ETS, Pisa 2012 (il volume raccoglie il testo del colloquio di B. Casper con E. Levinas svoltosi a Parigi l’11 giugno 1981, quasi trent’anni prima della pubblicazione dei Carnets de captivité; si tratta della trascrizione di un’intervista ripresa e trasmessa dall’emittente Südwestfunk a cura di B. Casper e D. Rümmele; il dialogo è preceduto dall’introduzione che Casper aveva premesso nella trasmissione televisiva trasmessa dalla Südwestfunk e seguito dal testo della conferenza L’essere e la salvezza. La portata dei Carnets de captivité in vista di una nuova comprensione dell’umano, e la relazione tra ebraismo e cristianesimo, tenuta da Casper nella Facoltà di Teologia dell’Università di Lugano l’11 novembre 2011, nell’ambito di un workshop sul tema L’essere e la salvezza). (con G. Marcel e P. Ricœur), «Il Pensiero dell’altro», a cura di F. Riva, Revue de Métaphysique et de Morale, 4 (ottobre 1954); tr. it. di M. Pastrello, Edizioni Lavoro, Roma 1999 (il dialogo tra E. Levinas e P. Ricoeur, in appendice, è tratto dal programma curato da Emmanuel Hirsch, Le bon plaisir de Paul Ricoeur, trasmesso da France Culture il 21 febbraio 1985; il testo è pubblicato nel volume collettivo Emmanuel Levinas phi-

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losophe et pédagogue, Editions du Nadir de l’Alliance Israélite Universelle, Paris 1998, pp. 13-28). (con A. Paperzak), Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989; poi Éthique comme philosophie première, Payot & Rivages, Paris 1998. (con X. Tilliette e P. Ricœur P., Jean Wahl et Gabriel Marcel, pres. de J. Hersch, Beauchesne, Paris 1976.

1.2. Opere su Levinas Amodio P., Diacronie. Arendt, Celan, Levinas, Giannini, Napoli 2001. Baccarini E., Levinas. Soggettività e infinito, Studium, Roma 1985. — «Emmanuel Levinas. Intenzionalità e trascendenza a partire da Husserl», Teoria, 2 (2006), pp. 7-18. Barone R., Emmanuel Levinas. Meditazioni sull’alterità, Aracne, Roma 2012. Bensussan G., Etica ed esperienza. Levinas politico, Mimesis, Milano 2010. Bernasconi R. - Critchley S., Re-reading Levinas, Athlone Press, London 1991. Borsato B., L’alterità come etica. Una lettura di Emmanuel Levinas, EDB, Bologna 1995. Botwinick A., Emmanuel Levinas and the Limits to Ethics. A Critique and a Re-Appropriation, Taylor and Francis, Routledge, Abingdon 2016. Bouretz P., Con Emmanuel Levinas. La storia giudicata, in Id., Testimoni del futuro. Filosofia e messianismo nel Novecento, tr. di A. Rizzi, Città Aperta, Troina 2009, pp. 597-662. Bruno G.C., Levinas. Etica o metafisica della fede? Appunti di etica e teologia, Euroma-La goliardica, Roma 1988. Burggraeve R., Emmanuel Levinas, une bibliographie primaire et secondaire (1929-1989) avec complément (1985-1989), Peeters, Leuven 1990.

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— Emmanuel Levinas et la socialité de l’argent, Peeters, Louvain 1997. Cabri P.L., La lettura infinita. Interpretazioni talmudiche di Emmanuel Levinas, Garamond, Roma 1993. — Sulla difficile arte di amare. Con Levinas e oltre Levinas, pref. di B. Salvarani, EDB, Bologna 2011. — Il caffè dell’oblio. Emmanuel Levinas e la saggezza ebraica, EDB, Bologna 2015. Calin R., L’exception du soi, PUF, Paris 2005. Camera F., L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morcelliana, Brescia 2001. Casper B., «Illeité. Zu einem Schlüssel“begriff” im Werk Emmanuel Levinas», Philosophisches Jahrbuch, 91 (1984), pp. 273-288. — Die Seinsfrage, der Andere und die Zeitigung des religiönes Verhältnisses, in Olivetti M., Philosophie de la religion entre éthique et ontologie, Cedam, Padova 1996, pp. 259-269. — Die Identität in der Nichtidentität der Erwählung zur Verantwortung für den Anderen, in M. Laarmann - T. Trappe (a cura di), Erfahrung – Geschichte – Identität. Zum Schnittpunkt von Philosophie und Theologie. Festschrift für R. Schaeffler, Herder, Freiburg-BaselWien 1997, pp. 363-373. — «Die Zeitigung des Leibes in der Diachronie des “pour l’autre”», in Archivio di filosofia, 1998, pp. 159-170. — Wieder-gebärende Dankarbei. Geben und Schulden in dem Ereignis der Sprache, in M. Olivetti (a cura di), Le don e la dette, Cedam, Padova 2004, pp. 103-114. — «Autrement que» Husserl et «au-delà de Heidegger». Zur Bedeutung von Emmanuel Levinas für eine künftige Geschichte des Denkens, in I. Kajon - E. Baccarini E. Brezzi - J. Hansel (a cura di), Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, cit. (2006), pp. 399-414. — Der Andere, der Dritte und die Bürgshaft für die Gerechtigkeit, in «Archivio di Filosofia», 2007, pp. 185194.

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— Erleiden und Transzendenz, tr. it., Passività e trascendenza nel pensiero di Emmanuel Levinas, in D. Venturelli (a cura di), Etica, religione e storia. Studi in memoria di Giovanni Moretto, il melangolo, Genova 2007, pp. 209-216. — L’esistenziale della tentatio, in A. Molinaro (a cura di), Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, Urbaniana University Press, Roma 2008, pp. 31-55. — Angesichts des Anderen. Emmanuel Levinas. Elemente seines Denkens, Schöningh, Paderborn 2009. — Das Erkennen der Gabe im Danken. Überlegungen im Ausgang von Emmanuel Levinas und Meister Eckhart, in S. Gottlöber - R. Kaufmann (a cura di), Gabe, Schuld, Vergebung. Festschrift für Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Thelem, Dresden 2011. — Emmanuel Levinas. La scoperta dell’umanità nell’inferno dello Stalag 1492, tr. it. L. Bonvicini, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013. Chalier C., Figures du féminin. Lecture d’Emmanuel Levinas, La nuit surveille, Paris 1982; nuova ed. aggiornata Edition des femmes, Paris 2006. — Judaïsme et altérité, Lagrasse, Paris 1982. — Les Matriarches. Sarah, Rebecca, Rachel et Léa, pref. di E. Levinas, Cerf, Paris 1985; tr. it. Le Matriarche. Sara, Rebecca, Rachele e Lea, tr. di O. Ombrosi, La Giuntina, Firenze 2002. — La persévérance du mal, Cerf, Paris 1987. — L’alliance avec la nature, Cerf, Paris 1989. — Levinas. L’utopie de l’humain, Albin Michel, Paris 1993. — L’inspiration du philosophe. «L’amour de la sagesse» et sa source prophétique, Albin Michel, Paris 1996. — La trace de l’Infini. Emmanuel Levinas et la source hébraïque, Cerf, Paris 2002. — Des anges et des hommes, Albin Michel, Paris 2007; tr. it. Angeli e uomini, tr. di V. Lucatini Vogelmann, intr. di O. Ombrosi, La Giuntina, Firenze 2009.

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e con saggi di O. Abe. S. Agacinski, G. Basterra, G. Bensussan, P. Bouretz, J. Butler, R. Calin, M. CalleGruber, C. Chalier, J.-L. Chrétien, B. Clément, J. Cohen, D. Cohen-Levinas, J.-F. Courtine, S. Crichley, A. David, M. de Launay, M. Deguy, M. Faessler, D. Franck, E. Grossman, C. Malabou, M.-L. Mallet, J.-L. Marion, A. Montefiore, S. Mosès, J.-L. Nancy, F. Noudelmann, S. Petrosino, D. Pradelle, F.-D. Sebbah). Cohen-Levinas D. - Guggenheim A., L’antijudaïsme à l’épreuve de la philosophie et de la phéologie, Seuil, Paris 2016 (= Le Genre humain, n. 56-57). Cohen-Levinas D. - Schnell A. (a cura di), Relire Autrement qu’être ou au-delà de l’essence d’Emmanuel Levinas, Vrin, Paris 2016. Conesa D., «Urimpression husserliana y diacronía levinasiana ¿Continuidad o ruptura?», Revue philosophique de la France et de l’étranger, 4 (2010), pp. 435-454. Courtine J.-F., Levinas. La trama logica dell’essere, Inschibboleth, Roma 2013. Davis C., Levinas. An Introduction, Polity Press, Cambridge 1988. Derrida J., Adieu à Emmanuel Levinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. Addio a Emmanuel Levinas, tr. di S. Petrosino e M. Odorici, intr. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998. — «Violence et métaphysique. Essai sur la pensée de Levinas», Revue de métaphysique et de la morale, 3 e 4 (1964), pp. 322-354 e 425-473; poi in L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967; tr. it. Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, tr. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990, pp. 98-198. Descombes V., Le même et l’mutre. Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978), Minuit, Paris 1979. Di Castro R., Il divieto di idolatria tra monoteismo e iconoclastia. Una lettura attraverso Emmanuel Levinas, Guerini e Associati, Milano 2013. Doukhan A., Emmanuel Levinas: A Philosophy of Exile, Bloomsbury, London 2014. Fabris A. (a cura di), «Levinas in Italia», Teoria 2 (2006)

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(con saggi di A. Fabris, E. Baccarini, F. Ciaramelli, P. Fiorato, M. Vitali Rosati, F.L. Marcolungo, G. Ferretti, F.P. Ciglia, S. Petrosino, F. Camera, S. Labate, C. Meazza, G. Bruni, E. Bonan, G. Lissa, K. Seeskin). Facioni S. - Labate S. - Vergani M., Levinas inedito. Studi critici, Mimesis, Milano 2015. Ferretti G., La filosofia di Levinas, alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, 20092. — Il bene al-di-là dell’essere. Temi e problemi levinassiani, ESI, Napoli 2003. — Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, Queriniana, Brescia 2016. Ferro F., Alterità e infinito, Aracne, Roma 2014. Fifield P., Late Modernist Style in Samuel Beckett and Emmanuel Levinas, Palgrave Macmillan, Basingstoke UK 2013. Finkielkraut A., La sagesse de l’amour, Gallimard, Paris 1984. — La défaite de la pensée, Gallimard, Paris 1987. Forte B., Ontologia e rivelazione. Heidegger e Levinas, in Id., In ascolto dell’Altro, Morcelliana, Brescia 1995, pp.131-149. — Ostaggi dell’Altro. Levinas e la trascendenza etica. in Id., L’uno per l’altro. Per un’etica della trascendenza, Morcelliana, Brescia 2003, pp.151-167. Forthomme B., Une philosophie de la transcendance: la métaphysique d’Emmanuel Levinas, La Découverte, Paris 1984. Frogneux N., Mies Françoise, Emmanuel Levinas et l’histoire, Cerf, Paris 1998. Fulco R., Essere insieme in un luogo. Etica, politica, diritto nel pensiero di Emmanuel Levinas, Mimesis, Milano 2013. Garrido-Maturano Á.E., «Sincronía, diacronía y tiempo mesiánico. Génesis y evolución de la noción de tiempo en la fenomenología de Emmanuel Levinas», Enfoques (Universidad Adventista del Plata Libertador San Martín, Argentina) 14/1-2 (2002), pp. 57-71.

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Domuni-press-Presses Universitaires de l’Institut Catholique de Toulouse, Toulouse 2016. Morgan M.L., Cambridge Introduction to Emmanuel Levinas, Cambridge University Press, Cambridge 2011. Mréjen A., La figure de l’homme. Hannah Arendt et Emmanuel Levinas, Éditions du Palio, Paris 2012. Mura G., Emmanuel Levinas. Ermeneutica e “separazione”, Città Nuova, Roma 1982. — La riscoperta dell’etica, in A. Giordano (a cura di), La questione etica. Una sfida dalla memoria, Città Nuova, Roma 1990, pp. 45-67. — Senso e valore dell’etica di Levinas, in M. Martini (a cura di), La filosofia del dialogo da Buber a Levinas, Pro Civitate Christiana, Assisi 1990, pp. 175-194. Nodari F., Il male radicale tra Kant e Levinas, Giuntina, Firenze 2008. — Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, prem. di B. Casper, Morcelliana, Brescia 2011. — Il bisogno dell’Altro e la fecondità del Maestro. Una questione morale, Giuntina, Firenze 2013. Nordmann S., Philosophie et judaïsme. Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Emmanuel Levinas, PUF, Paris 2008. Oliver P., «Diaconie et diacronie. De la phénoménologie à la théologie», in Noesis 3 (2000): La métaphysique d’Emmanuel Levinas, online noesis.revues.org. Ombrosi O., L’umano ritrovato. Saggio su Emmanuel Levinas, Marietti, Genova-Milano 2010. Organisti J., L’ intenzionalità in Levinas, Vita e Pensiero, Milano 2012. Palumbo G., Inquietudine per l’altro. Crisi dell’ontologia e primato dell’etica in Emmanuel Levinas, Fondazione Nazionale Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001. Paris A., Trauma e sostituzione. Emmanuel Levinas tra esperienza ed etica, Aracne, Roma 2012. Perez F., Apprendre à philosopher avec Levinas, Ellipses, Paris 2016. Petrosino S., La verità nomade. Introduzione a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1980.

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— Fondamento ed esasperazione. Saggio sul pensare di Emmanuel Levinas, Marietti, Genova 1992. — La topologia di Levinas, in Kajon I. - Baccarini E. - Brezzi F. - Hansel J. (a cura di), Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, cit. (2008), pp. 19-33. — La scena umana. Grazie a Derrida e Levinas, Jaca Book, Milano 2010. — Emmanuel Levinas. Le due sapienze, Feltrinelli, Milano 2017. Poirié F., Emmanuel Levinas, qui êtes-vous?, La Manufacture, Lyon 1987. Ponzio A., Responsabilità e alterità in Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1995. — I segni dell’altro. Eccedenza letteraria e prossimità, ESI, Napoli 1995. Ponzio J., «I segni dell’“evasione” in Emmanuel Levinas», Annali della Facoltà di lingue e letterature straniere dell’Università di Bari, 1999, pp. 437-449. — Il presente sospeso. Alterità e appropriazione in Heidegger e Levinas, Cacucci, Bari 2000. — «Linguaggio e alterità in Emmanuel Levinas», «PLAT. Quaderni del Dipartimento di Pratiche linguistiche e analisi», 1, Edizioni dal sud, Bari 2002, pp. 339-350. Ponton L., Philosophie et droits de l’homme de Kant à Levinas, Vrin, Paris 1990. Porretti A., Il volto tra alterità e intercultura. Un confronto filosofico-pedagogico tra Jacques Maritain ed Emmanuel Levinas, Rubbettino, Roma 2015. Rae G., The Problem of Political Foundations in Carl Schmitt and Emmanuel Levinas, Palgrave Macmillan, London 2016. Rey J.-F., La mesure de l’homme, l’idée d’humanité dans la philosophie d’Emmanuel Levinas, Michalon, Paris 2001. Ricœur P., Temps et récit, 3. voll., Seuil, Paris 1983 (vol. I, Temps et récit, 1983; vol. II, La configuration du temps dans le recit de fiction, 1984; vol. III, Le temps raconte, 1985; tr. it. Tempo e racconto, a cura di G. Grampa, 3 voll., Jaca Book, Milano 1986-1988 (vol. I, Tempo e

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racconto, 1986; vol. II, La configurazione nel racconto di finzione, 1987; vol. III, Il tempo raccontato, 1988). — Lectures I. Autour du politique, Seuil, Paris 1991. — Lectures II. La contrée des philosophes, Seuil, Paris 1992. — Lectures III. Aux frontières de la philosophie, Seuil, Paris 1994. — Autrement. Lecture d’«Autrement qu’être ou au-delà de l’essence» d’Emmanuel Levinas, PUF, Paris 1997; tr. it. Altrimenti. Lettura di «Altrimenti che essere o al di là dell’essenza» di Emmanuel Levinas, tr. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2007. Robbins J., Altered Reading. Levinas and Literature, University of Chicago Press, Chicago 1999. — Parcours de l’autrement. Lecture d’Emmanuel Levinas, PUF, Paris 2000. Ronchi R., Bataille, Levinas, Blanchot. Un sapere passionale, Spirali, Milano 1985. Rossi F., Politica, etica e religione nel pensiero di Emmanuel Levinas, in A. Babolin (ed.), Politica e filosofia della religione, Benucci, Perugia 1995, vol. II, pp. 183-229. — «Un “paradosso che nulla lascia intatto”. L’“infinita responsabilità per altri” in Emmanuel Levinas», Philologica. Rassegna di analisi linguistica e ironia culturale, 5/9 (1996), pp. 61-79. — Il problema filosofico della preghiera in Emmanuel Levinas, FrancoAngeli, Milano 2007. Rovatti P.A. Il declino della luce, Marietti, Genova 1987. — La posta in gioco, Bompiani, Milano 1987. — (a cura di), «A partire da Levinas. La passività del soggetto, l’ombra dell’essere, l’enigma dell’etica», aut aut, n.s. 209-210, settembre-dicembre 1985. — (a cura di), Scenari dell’alterità, Bompiani, Milano 2004. Rovatti P.A. et al., Intorno a Levinas, Unicopli, Milano 1987. Sansonetti G., L’altro e il tempo. La temporalità nel pensiero di Emmanuel Levinas, pres. di X. Tilliette, Cappelli, Bologna 1985.

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— Emmanuel Levinas. L’ebreo errante e il cristianesimo, in S. Zucal (a cura di), Cristo nella filosofia contemporanea, vol. II, Il Novecento, San Paolo, Milano 2002, pp. 837-868. — Levinas e Heidegger, Morcelliana, Brescia 1998. — Emmanuel Levinas. Tra filosofia e profezia, Il Margine, Trento 2009. Schnell A., En face de l’extériorité. Levinas et la question de la subjectivité, Vrin, Paris 2010. Schillaci G., «Relazione senza relazione». Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Levinas, Galatea, Acireale 1996. Sebbah F.-D., Levinas. Ambiguïtés de l’alterité, Les Belles Lettres, Paris 2000. — L’épreuve de la limite. Derrida, Henry, Levinas et la phénoménologie, PUF, Paris 2001. — Le vocabulaire de Levinas, Ellipses, Paris 2011. Severson E., Levinas’s Philosophy of Time, Gift, Responsibility, Diachrony, Hope, Duquesne University Press, Pittsburg PA 2013. Signorini A., Percorsi della singolarità. Scritti sulla filosofia morale di Emanuele Levinas, Jovene, Napoli 1989. Speccher T., Urgenze messianiche. Quattro studi intorno alla filosofia di Emanuel Levinas, Aracne, Roma 2008. Srajek M.C., In the Margins of Deconstruction. Jewish Conceptions of Ethics in Emmanuel Levinas and Jacques Derrida, Kluwer, Dordrecht-Boston 1998. Stizza F., Pensare altrimenti. Levinas e l’umano, EUM, Macerata2012. Stone I.F., Reading Levinas /Reading Talmud. An Introduction, Jewish Pubblication Society, Philadelphia 1988. Strasser S., Jenseits von Sein und Zeit. Eine Einführung in Emmanuel Levinas’ Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1978. Tahmasebi-Birgani V., Emmanuel Levinas and the Politics of Non-violence, University of Toronto Press, Toronto 2014. Thayse J.-L., Eros et fécondité chez le jeune Levinas, L’Harmattan, Paris 2000.

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Tura M., Infinito e molteplice. Etica e religione in Emmanuel Levinas, Mimesis, Milano 2015. Valevi cˇ ius A., From the Other to the Totally Other. The Religious Philosophy of Emmanuel Levinas, Lang, Frankfurt a.M. 1988. Veling T.A., For You Alone. Emmanuel Levinas and the Answerable Life, Cascade Books, Oregon 2014. Vergani M., Levinas fenomenologo. Umano senza condizioni, Morcelliana, Brescia 2011. Vinci P., Ebraismo e filosofia in Emmanuel Levinas, in K. Tenenbaum - P. Vinci (a cura di), Filosofia e ebraismo. Da Spinoza a Levinas, Giuntina, Firenze 1993. Wall T.C., Radical Passivity. Levinas, Blanchot, and Agamben, State University of New York Press, New York 1999. Weber E., Verfolgung und Trauma. Zu Emmanuel Levinas’ «Autrement qu’être ou au-delà de l’essence», Passagen, Wien 1990. Zarader M., La dette impensée. Heidegger et l’héritage hébraïque, Seuil, Paris 1990; tr. it. Il debito impensato, a cura di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995.

2. Bibliografia secondaria 2.1. Letteratura di riferimento Abbagnano N., Dizionario di filosofia, vol. ix, La filosofia contemporanea, a cura di G. Fornero, F. Restaino e D. Antiseri, in part. Levinas. Dal medesimo all’altro. L’etica come filosofia prima, di G. Fornero, pp. 245268, Utet, Torino 1994; Tea, Milano 1996. Agamben G., Cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008. Agostino di Ippona, Opera omnia, Nuova Biblioteca agostiniana, Città Nuova, Roma 1965– (d’ora in poi Opera omnia).

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— Città di Dio (De civitate Dei) I-IX, intr. di A. Trapè, R. Russell e S. Cotta, tr. e note di D. Gentili, Opera omnia V/1, 1978, 19902; XI-XVIII, intr. e note di D. Gentili e A. Trapè, tr. di D. Gentili, Opera omnia V/2, 1988; XIX-XXII, intr., tr. e note di D. Gentili, indici di F. Monteverde, Opera omnia V/3, 1991. — La vera religione. Manuale sulla fede, speranza e carità (Enchiridion de fide, spe et charitate liber unus), intr. part., tr.. e note di G. Ceriotti, L. Alici e A. Pieretti, indici di L. Alici e F. Monteverde, Opera omnia VI/2, 1995. — Lettere (Epistolae) 124-184/A, tr. e note di L. Carrozzi, Opera omnia XXII, 1995. — Discorsi su argomenti vari (Sermones de diversis) [341-400], tr. e note di V. Paronetto e A.M. Quartiroli, indici di F. Monteverde, Opera omnia XXIV, 1989. — Discorsi sul Nuovo Testamento (Sermones de Scripturis de Novo Testamento) [86-116], tr. e note di L. Carrozzi, indici di F. Monteverde, Opera omnia XXX/2, 1983. — Discorsi su i tempi liturgici (Sermones de tempore) [184-229/V], tr. e note di P. Bellini, F. Cruciani e V. Tarulli, Opera omnia XXXII/1, 1984. — Agostino, Le confessioni, intr. di C. Mohrmann, tr. it. di C. Vitali, Rizzoli, Milano 2001. Albini C., L’arte della misericordia, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2015. Ambrogio di Milano, I doveri, a cura di G. Banterle, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1977. Aristotele, Politica e costituzione di Atene, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino1992. — L’anima (De anima), a cura di G. Movia, Bompiani, Milano 2001. — Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004. — Retorica e Poetica, a cura di M. Zanatta, Utet, Torino 2004. — Le tre etiche, a cura di A. Fermani, Bompiani, Milano 2008. — Fisica, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011.

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Augé M., Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, Paris 1992; tr. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 1996. — Le sens des autres. Actualité de l’anthropologie, Fayard, Paris 1994; tr. it. Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, tr. di A. Soldati, Bollati Boringhieri, Torino 2000. — Où est passé l’avenir?, Panama, Paris 2008; tr. it. Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, tr. di G. Lagomarsino, Elèuthera, Milano 2009. — Pour une anthropologie de la mobilité, Payot, Paris 2009; tr. it. Per una antropologia della mobilità, tr. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2010. — Journal d’un SDF Ethnofiction, Seuil, Paris 2011; tr. it. Diario di un senza fissa dimora. Etnofiction, tr. di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano 2011. — La felicità ha un luogo?, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2011. — Futuro, tr. it. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2012. — Degno, indegno, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2012. — L’anthropologue et le monde global, Armand Colin, Paris 2013; tr. it. L’antropologo e il mondo globale, tr. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2013. — Les nouvelles peurs, Payot & Rivages, Paris 2013; tr. it. Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?, tr. di C. Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2013. — L’uno e l’altro, gli uni e gli altri, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013. — Une ethnologie de soi. Le temps sans âge, Seuil, Paris 2014; Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste, tr. it. di D. Damiani, Raffaello Cortina, Milano 2014. — Fiducia in sé, fiducia nell’altro, fiducia nel futuro, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2014. — Éloge du bistrot parisien, Payot & Rivages, Paris 2015; tr. it. Un etnologo al bistrot, tr. it. di M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano 2015.

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— Nutrire l’umanità. Per salvare l’umano, tr. it. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2015. Banon D., La lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, Seuil, Paris 1987. Bauman Z., La convivenza. Un intervento dopo gli attentati di Parigi, a cura di L. Noseda, Casagrande, Bellinzona 2015. Bellet M., Invitation. Plaidoyer pour la gratuité et l’abstinence, Bayard, Paris 2003; tr. it. Invito. Elogio della gratuità e dell’astinenza, tr. di G. Pulit, Messaggero, Padova 2004. Benedetto XVI (Ratzinger J.), Deus charitas est, LEV, Città del Vaticano 2006. Bergson H.L., Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. di F. Sossi, Raffaelo Cortina, Milano 2001. — Materia e memoria, tr. it. di A. Pessina, Laterza, Roma-Bari 1996. — Introduzione alla metafisica, tr. it. di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1963. — L’evoluzione creatrice, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002. — Le due fonti della morale e della religione, tr. it. di M. Perrini, La Scuola, Brescia 1996. Bianchi E., Ascoltare la parola. Bibbia e Spirito. La “lectio divina” nella chiesa, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2008. — Fede e fiducia, Einaudi, Torino 2013. — Raccontare l’amore. Parabole di uomini e di donne, Rizzoli, Milano 2015. — L’amore scandaloso di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016. Bianchi E. - Cacciari M., Ama il tuo prossimo, il Mulino, Bologna 2011. Bianchi L., Come un atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia 1972. — La messa dell’uomo disarmato. Un romanzo sulla resistenza, Sironi, Milano 2003. — Dialogo sulla gratuità, Gribaudi, Milano 2004.

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— Monologo partigiano sulla Gratuità. Appunti per una storia della gratuità del ministero della chiesa, Il Poligrafo, Padova 2004. Bident C., Maurice Blanchot, partenaire invisible, Champ Vallon, Seyssel 1998. Blanchot M., L’entretien infini, Gallimard, Paris 1969; tr. it. La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», intr. di G. Bottiroli, tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977; poi La conversazione infinita. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», intr. di G. Bottiroli, tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 2015. — L’amitié, Gallimard, Paris 1971. — L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1987; tr. it. La scrittura del disastro, a cura di F. Sossi, SE, Milano 1990. — La communauté inavouable, Minuit, Paris 1983; tr. it. La comunità inconfessabile, a cura di M. Antonelli, Feltrinelli, Milano 1984. Bodei R., Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002; — La filosofia nel Novecento, Donzelli, Roma 2006. — Piramidi di tempo. Storie e teorie del «déjà vu», il Mulino, Bologna 2006. — Generazioni. Età della vita, età delle cose, Laterza, Roma-Bari 2014. Brunetti Luzzati S. - Della Rocca R., Ebraismo (I dizionari delle religioni), Electa, Milano 2007. Buber M., Il principio dialogico, tr. it. di F. Facchi e U. Schnabel, Edizioni di Comunità, Milano 1958. — L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, tr. it. di U Schnabel, Edizioni di Comunità 1961 (nuova ed. con intr. di P. Stefani 1983); con intr. di S. Quinzio, Mondadori, Milano 1990. — Il problema dell’uomo, a cura di F.S. Pignagnoli, Patron, Bologna 1972; nuova ed. con intr. di A. Rizzi, LDC, Torino-Leumann 1983. — Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, tr. it. di A.M. Pastore, San Paolo, Milano 1993.

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— Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, ed. it. a cura di S. Sorrentino, postf. di D. Flusser, San Paolo, Milano 1995. Busi G., Simboli del pensiero ebraico, lessico ragionato in settanta voci, Einaudi, Torino 1999. Caramore G., Pazienza, il Mulino, Bologna 2014. Carucci Viterbi B., Le luci di Shabbat, a cura di G. Caramore, Morcelliana, Brescia 2009. Casper B., Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber, Herder, Freiburg i.Br. 1967; Alber, Freiburg i.Br. 2002; tr. it. Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2009. — L’ermeneutica e la teologia, Morcelliana, Brescia 1974. — Zu Rilkes «Fünf Gesängen». Eine Vorbesinnung auf das Phänomen des Idolischen, in Id., Phänomenologie des Idols, Alber, Freiburg-München 1981. — Das Ereignis des Betens. Grundlinien einer Hermeneutik des religiösen Geschehens, Alber, Freiburg-München 1998, 20162; tr. it. Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso, a cura di S. Bancalari, Cedam, Padova 2003. — Zeit und messianische Zeit. Zu einer Grunddimension des religiösen Geschehens, in R. Kaufmann - H. Ebelt, (a cura di), Scientia et Religio. Religionsphilosophische Orientierungen. Festschrift für Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Thelem, Dresden 2005, pp. 97-110. — Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, a cura di A. Fabris, Morcelliana, Brescia 2008. — L’esistenziale della tentatio, in A. Molinaro (a cura di), Heidegger e San Paolo, Urbaniana University Press, Roma 2008, pp. 31-55. — L’uomo disorientato e la ricerca della sua vera libertà, in F. Nodari (a cura di), Vizi e virtù, Massetti Rodella, Roccafranca 2008, pp. 71-94. — Sul senso del nostro corpo, tr. it. di S. Bancalari, in F. Nodari (a cura di), Corpo, Massetti Rodella, Roccafranca 2010, pp. 23-46.

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— La felicità, il dono e la fede, tr. it. di S. Bancalari, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2011. — Dignità e responsabilità. Una riflessione fenomenologica, tr. it. di S. Bancalari, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2012. — «Kleine Archäologie des Vertrauens» (Piccola archeologia della fiducia), in Vertrauen, Das Prisma. Beiträge zu Pastoral, Katechese und Theologie, 1 (2013), pp. 21-23. — Sui diversi modi di intendere e vivere la tolleranza, tr. it. di S. Bancalari, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2013. — Grundfragen des Humanen. Studien zur Menschlichkeit des Menschen, Schöningh, Paderborn 2014. — Evento della pittura ed esistenza umana. Su due opere di Vincenzo Civerchio a Travagliato, tr. it. di L. Bonvicini, intr. e cura di F. Nodari, Morcelliana, Brescia 2014. — Fidarsi. Cibo della nostra vita. Momenti del suo accadere, tr. it. di L. Bonvicini, intr. e cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2014. — «Die Diachronie des “Bonum commune”. Zur Hermeneutik seines Sich-Ereignens» [La diacronia del «bene comune». Sull’ermeneutica del suo accadere: non esiste ancora una tr. it. del testo], Archivio di filosofia, 1-2 (2016), pp. 287-298. Cipriano, Preghiera del Signore, in A. Hamman, Preghiere dei primi Cristiani, Vita e Pensiero, Milano 1954. Codeluppi V., La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino2007; Id., Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma-Bari 2009. Cohen A., Il Talmud, Laterza, Roma-Bari 1999. Cohen H., Jüdische Schriften, 3 voll., a cura di B. Strauß, con una Introduzione di F. Rosenzweig, Schwetschke, Berlin 1924. — Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums. Nach dem Manuskript des Verfassers neu durchgearbeitet und mit einem Nachwort versehen von B.

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Strauß (1919), Kauffmann, Frankfurt 1929²; tr. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, tr. e note di P. Fiorato, saggio intr., scheda e nota bibliografica di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994. Collin F., Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1971. Daniele M., La narrazione. Modalità originaria ed essenziale della proclamazione della fede, in P. Padrini (a cura di), Catechesi e comunicazione, Effatà, Cantalupa 2004. De Benedetti P., Introduzione al Giudaismo, Morcelliana, Brescia 1996. — Quale Dio? Una domanda dalla storia, Morcelliana, Brescia 1996. — Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2001. — La memoria di Dio, a cura di F. Nodari, Massetti Rodella, Roccafranca 2012. De Benedetti P. - Giuliani M., Dire grazie. L’hallleluja della gratitudine, Morcelliana, Brescia 2014. Derrida J., Donner le temps, Galilée, Paris 1991; tr. it. Donare il tempo. La moneta falsa, tr. di G. Berto, prem. di P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 1996. Detti di Rabbini, intr., tr. e note a cura di A. Mello, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 1993. Dosse F., Le sens d’une vie, La Découverte, Paris 2001. Dostoevskij F., Delitto e castigo, tr. di S. Polledro, intr. di C. Strada Janovic, Rizzoli, Milano 1997. — I fratelli Karamazov, intr. di A. Dall’Asta, note a cura di E. Lo Gatto, Rizzoli, Milano 1998. Duvignaud J., Le don du rien. Essai d’anthropologie de la fête, Stock, Paris 1977. Echkart M., I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002. Dyckhoff P., Pregare con il corpo. Alla scuola di San Domenico, pres. di A. Gentili, Ancora, Milano 2005. Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1967; Bompiani, Milano 2010.

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Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane, De Agostini, Novara 1996. Fabris A., Filosofia, storia, temporalità. Heidegger e i problemi fondamentali della fenomenologia, ETS, Pisa 1988. — Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996, 2002. — «Essere e Tempo» di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000. — TeorEtica. Filosofia della relazione, Morcelliana, Brescia 2010. Fabris A. - Cimino A., Heidegger, Carocci, Roma 2009. Francesco (Bergoglio J.M.), Evangelii Gaudium. Esortazione Apostolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013. — Il nome di Dio è Misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Milano 2016. Freud S., Das Unbehagen in der Kultur, tr. it. Il disagio della civiltà (1929), in Id., Opere, vol. 10, Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti 1924-1929, intr. di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1989. Gandillac M., Le siécle traversé. souvenirs de neuf décennies, Albin Michel, Paris 1998. Geffré C., Profession théologien. Profession theologien. Quelle pensee chretienne pour le XXI e siecle?, Albin Michel, Paris 1999. Giuliani M., Il pensiero ebraico contemporaneo. Un profilo storico-filosofico, Morcelliana, Brescia 2003. Goethe W., Faust, intr. e pref. di I. Alighiero Chiusano, sommario, tr. e note di A. Casalegno, vol. I, Garzanti, Milano1994. Grossman V., Vie et destin. Roman, traduit du russe par A. Berelowitch, Julliard-L’âge d’homme Paris 1983; tr. it. Vita e destino, a cura di C. Buongiorno, Jaca Book, Milano 1998. Hayyim de Volozhyn, L’âme de la vie, présentation, traduction et commentaires par B. Gross, préface de E. Levinas, Verdier, Paris 1986. Heidegger M., Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a.M. 1972– (d’ora in poi GA).

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— Sein und Zeit (1927), GA 2, a cura di F.-W. von Hermann, 1977; tr. it. Essere e tempo, tr. di P. Chiodi, Bocca, Milano 1953; nuova ed. riv. Utet, Torino 1969; poi Longanesi, Milano 1970, più volte rist. e, con un aggiornamento bio-bibliografico di A. Marini, ivi, 1976; inoltre Essere e tempo, ed. it. a cura di A. Marini, testo tedesco a fronte, Mondadori, Milano 2006, 20133 (da noi utilizzata per le citazioni); nonché tr. it. Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2014. — Kant und das Probleme der Metaphysik (1929), GA 3, a cura di F.-W. von Hermann, 1991; tr. it. Kant e il problema della metafisica, a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, 2006 (V ed.). — Holzwege (1935-46) (GA 5), a cura di F.-W. von Hermann, 1977, 2003 (II ed.); tr. it. Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2002. — Vörträge und Aufsätze (1936-39), GA 7, a cura di F.-W. von Hermann, 2000; tr. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985. — Was heisst Denken? (1951-52), GA 8, a cura di P.-L. Coriando, 2002; tr. it. Che cosa significa pensare?, tr. di U. Ugazio e G. Vattimo, 2 voll. SugarCo, Milano 1978-79. — Wegmarken (1919-1961), GA 9, a cura di F.-W. von Hermann, 1976, 1996 (II ed. riv.), 2004 (III ed.); tr. it. Segnavia, a cura e con un glossario di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, 2002 (IV ed.). Comprende Fenomenologia e teologia (1927), Dall’ultimo corso di lezioni di Marburgo (1928), Che cos’è metafisica (1929), Dell’essenza del fondamento (1929), Dell’essenza della verità (1930), La dottrina platonica della verità (1931/32, 1940), Sull’essenza e sul concetto della physis. Aristotele, Fisica B, 1 (1939), Poscritto a «Che cos’è metafisica?» (1949), La questione dell’essere (1955), Hegel e i Greci (1958), La tesi di Kant sull’essere (1961), Note sulla «Psicologia delle visioni del mondo» di Karl Jaspers (1919/21).

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— Lettera sull’«umanismo» (da GA 9), a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, 2006 (VII ed.). — Unterwegs zur Sprache (1950-59), GA 12, a cura di F.-W. von Hermann 1985; tr. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973. — Zur Sache des Denkens (1962-64; 1927-68), GA 14, a cura di F.-W. von Hermann, 2007; tr. it. Tempo ed essere, a cura di C. Badocco, Longanesi, Milano 2007. — Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs (Lezioni marburghesi, semestre estivo 1925), GA 20, a cura di P. Jaeger, 1979, 1988 (II ed. riv.), 1994 (III ed. riv.); tr. it. Prolegomini alla storia del concetto di tempo, a cura di R. Cristin e A. Marini, il melangolo, Genova 1991. — Logik. Die Frage nach der Wahrheit (Lezioni marburghesi, semestre invernale 1925-26), GA 21, a cura di W. Biemel, 1976, 1995 (II ed. riv.); tr. it. Logica. Il problema della verità, a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1986. — Die Grundprobleme der Phänomenologie (Lezioni marburghesi, semestre estivo 1927), GA 24, a cura di F.-W. von Hermann, 1975, 1989 (II ed.), 1997 (III ed.); tr. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, il melangolo, Genova 1989. Milano 2007. — Einleitung in die Philosophie (Lezioni friburghesi, semestre invernale 1928-29), GA 27, a cura di O. Saame e I. Saame-Speidel, 1996, 2001 (II ed. riv.); tr. it. Avviamento alla filosofia, a cura di M. Borghi, Marinotti, Milano 2007. — Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (Lezioni friburghesi, semestre invernale 1929-30), GA 29-30, a cura di F.-W. von Hermann, 1983, 1992 (II ed.), 2004 (III ed.); tr. it. Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, tr. di P.-L. Coriando, il melangolo, Genova 1992. — Einführung in die Metaphysik (Lezioni friburghesi, semestre estivo 1935), GA 40, a cura di P. Jaeger, 1983;

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tr. it. Introduzione alla metafisica, tr. di G. Masi, pres. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1979. — Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen (Lezioni friburghesi, semestre invernale 1935-36), GA 41, a cura di P. Jaeger, 1984; tr. it. La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, a cura di V. Vitiello, Guida, Napoli, 1989. — Grundbegriffe (Lezioni friburghesi, semestre estivo 1941), GA 51, a cura di P. Jaeger, 1981, 1991 (ed. riv.); tr. it. Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, il melangolo, 1989. — Phänomenologie des religiösen Lebens. I. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (Prime lezioni friburghesi, semestre invernale 1920-21, a cura di M. Jung e T. Regehly) – II. Augustinus und der Neoplatonismus (Prime lezioni friburghesi, semestre estivo 1921, a cura di C. Strube) – III. Die philosophischen Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (Prime lezioni friburghesi, 1918-19, non tenute, a cura di C. Strube), GA 60, 1995; tr. it. Fenomenologia della vita religiosa, a cura di F. Volpi, tr. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003. — Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung (Lezioni friburghesi, semestre invernale 1921-22), GA 61, a cura di W. Bröcker-Oltmanns, 1985, 1994 (ed. riv.); tr. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, tr. di M. De Carolis, Guida, Napoli 1990. — Ontologie. Hermeneutik der Faktizität (Lezioni friburghesi, semestre estivo 1923), GA 63, a cura di K. Bröcker-Oltmanns, 1988, 1995 (II ed.); tr. it. Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, a cura di E. Mazzarella, tr. di G. Auletta, Guida, Napoli 1992, 1998 (II ed.). — Feldweg-Gespräche (1944-45), GA 77, a cura di I. Schüßler, 1995, 2007 (II ed. riv.); tr. it. Colloqui su un sentiero di campagna, a cura di A. Fabris, il melangolo, Genova 2007.

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— Zollikoner Seminare. Protokolle – Gespräche – Briefe (1959-1969), GA 89, a cura di M. Boss, 1987; Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali-Colloqui-Lettere, a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano, Guida, Napoli 1991, 2003 (III ed.). Hemmerle K., Ausgewählte Schriften, vol. II, Herder, Freiburg 1996. Heschel A.J., The Sabbath. Its Meaning for Modern Man, Farrar, Straus & Young, New York 1951; tr. it. Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, tr. di L. Mortara e di E. Mortara Di Veroli, Garzanti, Milano 1999. — Man Is Not Alone. A Philosophy of Religion, Farrar, Straus & Giroux, New York 1951; tr. it. L’uomo non è solo. Una filosofia della religione, tr. di L. Mortara e E. Mortara Di Veroli, L’uomo non è solo, intr. di C. Campo, Rusconi, Milano 1970. — God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, Farrar, Straus & Giroux, New York 1955; tr. it. Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo, tr. di E. Mortara Di Veroli, pref. di E. Zolla, Borla, Roma 2006. — Who Is Man?, Standford University Press, Stanford Cal. 1965; tr. it. Chi è l’uomo?, tr. di L. Mortara e E. Mortara Di Veroli, con uno scritto di E. Zolla, SE, Milano 2005. — The Insecurity of Freedom, Ferrar, Straus & Giroux, New York 1966. — Israel. An Echo of Eternity, Farrar, Straus & Giroux, New York 1967; tr. it. Israele, eco di eternità, a cura di A. Lorini, Queriniana, Brescia 1977. Husserl E., Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Hua I, a cura di S. Strasser, Nijhoff, The Haag 1950 (1963, 1973); tr. it. Meditazioni cartesiane e Discorsi parigini, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1960; tr. it. Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1970; Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi parigini, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 2002.

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— Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, Hua VI, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Haag 1954, 19762; tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il saggiatore, Milano 1987, 2015. — Logica formale e trascendentale, a cura di G. Neri, Laterza, Bari 1966. — Ricerche logiche, voll. I e II, tr. it. a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968. — Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. di A. Marini, FrancoAngeli, Milano 1981. — Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. di V. Costa, a cura di P. Spinicci, Guerini e Associati, Milano 1993. — Fenomenologia e teoria della conoscenza, tr. it a cura di P. Volontè, Bompiani, Milano 2000. — Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro I. Introduzione generale alla fenomenologia pura, a cura di V. Costa, intr. di E. Franzini; Libro II, Ricerche sopra la costituzione, tr. it. di E. Filippini, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002; Libro III. La fenomenologia e i fondamenti delle scienze, tr. it. di E. Filippini, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002. — I problemi fondamentali della fenomenologia, tr. it. e cura di V. Costa, Quodlibet, Macerata 2008. Kant I., Kritik der reinen Vernunft (1781); tr. it. Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2004. — Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784); tr. it., Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995. — Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785); tr. it, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di N. Pirillo, Laterza, Roma-Bari 1992. — Kritik der praktischen Vernunft (1788); tr. it. Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani, Milano 2000.

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— Anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst (1798); tr. it. Antropologia dal punto di vista pragmatico, in Id., Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1995. — Opus postumum, a cura di V. Mathieu, Laterza, RomaBari 1984. Kasper W., Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo, chiave della vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013. — La sfida della misericordia, pref. di M. Cacciari, Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2015. Kierkegaard S., Timore e tremore, tr. di F. Fortini e K.M. Guldbransen, Edizioni di Comunità, Milano 1948. — La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Constantin Constantius, Edizioni di Comunità, Milano 1954. — Aut-aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, tr. di K.M. Guldbransen e di R. Cantoni, postf. di R. Cantoni, Mondadori, Milano 1956. — La malattia mortale, in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972. Klink J.-L., Favole e narrazioni bibliche, in G. Cravotta, Catechesi narrativa, Dehoniane, Napoli 1985. Jankélévitch V., La coscienza ebraica, tr. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 1986. — La morte, tr. it. di V. Zini, a cura di E. Lisciani Petrini, Einaudi, Torino 2009. Jaspers K., La filosofia dell’esistenza, tr. di G. Penzo e U. Penzo Kirsch, pref. di G. Penzo, Laterza, Roma-Bari 1995. Jonas H., Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, intr. di C. Angelino, il melangolo, 1989. Laras G., Meglio in due che da soli. L’amore nel pensiero di Israele, Garzanti, Milano 2009. Lucas Lucas R., L’uomo. Spirito incarnato. Compendio di filosofia dell’uomo, San Paolo, Milano 1993. Magris A., Fenomenologia della trascendenza, Guerini e Associati, Milano 1992. — Nietzsche, Morcelliana, Brescia 2003.

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Marion J-L., Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001. — Il fenomeno erotico, Cantagalli,Siena 2007. — Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 2007. — Dialogo con l’amore, a cura di U. Perone, Rosenberg & Sellier, Torino 2008. Martini C.M., Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000. Marzano M., Avere fiducia, Mondadori, Milano 2012. Mauss M., Essai sur le don, Puf, Paris 1950; tr. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, intr. di M. Aime, Einaudi, Torino 1965, 1991 e 2002. Merleau-Ponty M., Senso e non-senso, Il saggiatore, Milano 1962. — Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1965. — L’occhio e lo spirito, Il saggiatore, Milano 1979. — Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993. Musil R., L’uomo senza qualità, tr. it. di A. Rho, 2 voll., Einaudi, Torino 1972. — Diari 1899-1941, tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1980. Nancy J-L., Corpus, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1995. — L’essere abbandonato, tr. it. di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1995. — L’intruso, a cura di V. Piazza, Cronopio, Napoli 2000. — Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo, Bollati Boringhieri, Torino 2005. — Ego sum, a cura di R. Kirchmayr, Bompiani, Milano 2008. — Indizi sul corpo, a cura di M. Vozza, Ananke, Torino 2009. Neher A., L’exil de la Parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, Seuil, Paris 1970, tr. it. L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato 1983. — L’essenza del profetismo, Marietti, Casale Monferrato 1984.

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Nietzsche F., Le grandi opere, Newton Compton, Roma 2011. — Umano, troppo umano, 2 voll., nota intr. di M. Montanari, tr. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1965 e 1981. — Cosi parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, nota intr. di G. Colli, tr. e appendici di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968 e 1976. — Al di là del bene e del male, nota intr. di G. Colli, tr. di F. Masini, Adelphi, Milano 1968 e 1977. Pascal B., Dix-huitième Lettre au Révérend Père Annat, Jésuite, in Id., Œuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, p. 887; tr. it. in A. Perathoner, Pascal. Libertà e liberazione, in C. Vigna [a cura di], La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998. Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. Rabano Mauro, La formazione dei chierici, a cura di L. Samarati, Città Nuova, Roma 2002. Ravasi G., Il silenzio di Dio, San Paolo, Milano 1988. — La Bibbia. Risposta alle domande più provocatorie, San Paolo, Milano 1998. Rilke R.M. Elegie duinesi, tr. di M. Ranchetti e J. Leskien, Feltrinelli, Milano 2007. — Poesie alla notte, a cura di M. Specchio, Passigli, Firenze 1999. Rosenzweig F., Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, Nijhoff, Haag-Dordrecht 1976-1984. — Der Stern der Erlösung, intr. di R. Mayer, Nijhoff, Den Haag 1976; tr. it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985. — Briefe und Tagebücher, a cura di R. Rosenzweig e E. Rosenzweig-Scheinmann, coll. di B. Casper, 2 voll., Den Haag 1979. — Das neues Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum «Stern der Erlösung», a cura di R. e A. Mayer, Nijhoff, Den Haag 1984; tr. it. Il nuovo pensiero, a cura di G. Bonola, comm. di G. Scholem, Arsenale, Venezia 1983.

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— Die “Gritli”-Briefe. Briefe an Margrit RosenstockHuessy, a cura di I. Rühle e R. Mayer, pref. di R. Rosenzweig, Bilam, Tübingen 2002. Rovatti P.A., Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2007. — Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale, Forum, Udine 2007. Sartre J., L’essere e il nulla, Saggio di ontologia fenomenologia, tr. di G. Del Bo, rev. di F. Fergnani e M. Lazzari, Il saggiatore, Milano 1997. — L’esistenzialismo è un umanismo, tr. di G. Mursia Re, Mursia, Milano 2010. — La nausea, tr. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1990. Saussure F. de, Cours de linguistique générale, a cura di Ch. Bally, A. Riedlinger e A. Sechehaye, Payot, Lausanne-Paris 1916; tr. it. Corso di linguistica generale (1967), a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2009 (cfr. T. De Mauro, Introduzione a F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1992). Simmel G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995. Talmùd, il trattato delle benedizioni (Berakhot), a cura di S. Cavalletti, Utet, Torino 2003. Tertulliano, Adversus Marcionem (Contro Marcione), libri v, in Opere scelte di Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, a cura di C. Moreschini, Utet, Torino 1999. Theunissen M., Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart (L’Altro. Studi sull’Ontologia sociale del presente), de Gruyter, Berlin 1965. Tommaso d’Aquino, La somma teologica (Summa theologiae), ed. integrale, 4 voll., Studio Domenicano, Bologna 2014. Ventura Anzinelli A., Fare orecchie alla Torà. Introduzione al Midrash, Giuntina, Firenze 2004. Wiesel E., Célébration biblique. Portraits et légendes, Seuil, Paris 1975; tr. it. Personaggi biblici attraverso il Midrash, Cittadella, Assisi 1978. Zoja L., La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.

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Indice dei nomi

Agamben G. 193 Agostino d’Ippona (s.) 146, 147, 152-154, 160, 176, 207-209, 215-217, 220, 222 Aiello M.T. 14, 22 Aime M. 58 Alberto Magno (s.) 17 Albini C. 224 Althusser L. 43 Ambrogio (s.) 205-206 Amodio P. 20 Archimede 173 Arendt H. 20 Aristotele 16, 65-66, 76, 90, 93, 137, 145, 150-152, 159-160, 216-217 Arthaud B. 73 Augé M. 19, 20, 24, 26, 42-48, 50, 57-58, 74-75, 233

Beethoven L. van 97 Bellet M. 54, 57 Benedetto XVI 220, 223 Benveniste É. 62-63 Berto G. 61 Bianchi E. 28, 118, 127, 204, 209, 223 Bianchi L. 96-99 Biemel W. 185 Bin Laden O. 44 Blanchot M. 36, 64, 107-117, 119-121 Bloch E. 21 Blum L. 192 Bonola G. 16, 86, 157 Bonvicini L. 24, 108 Borghi M. 69 Bottiroli G. 36, 111 Bröcker W. 66 Bröcker-Oltmanns K. 66 Buber M. 23, 79

Baccarini E. 76, 234 Bally Ch. 19 Bancalari S. 19, 21, 37, 107, 128 Barthes R. 193 Baudelaire Ch. 62 Bauman Z. 48 Banon D. 28

Cacciari M. 118, 209, 223 Calin R. 20, 22, 23 Camera F. 143 Campo C. 105 Capra F. 11 Caracciolo A. 222 Casper B. 18-19, 21, 23-27, 33-34, 36-37, 42, 48, 65,

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68-69, 76, 79-81, 89-90, 92-93, 95, 100-102, 107108, 128, 130, 137, 145, 147, 149-150, 154-157, 166, 168-172, 175-177, 180-181, 183, 185-187, 189-190, 192, 213, 232, 234-236 Castelli E. 198 Celan P. 20 Chalier C. 22 Chevalier J.216 Chiodi P. 17, 155, 161, 178 Cicerone 204, 217 Ciglia F.P. 73, 173, 222 Ciocan C. 20 Cipriano di Cartagine (s.) 205 Civerchio V. 24 Codeluppi V. 43 Cohen H. 89-90, 148, 183, 196, 198 Cohen-Levinas D. 135 Conesa D. 21 Cartesio (cfr. Descartes R.) Costa F. 25, 68 Costa V. 13 Cravotta G. 29 Dall’Asta A. 23 Damiani D. 45 Daniele M. 29 De Benedetti P. 102-104 De Carolis M. 66 De Mauro T. 19 de Saussure F. 19 Derrida J. 16, 36, 60-64, 71, 72, 78, 85, 129

Descartes R. 66, 132, 233 Dostoevskij F. 113, 227 Duvignaud J. 95 Ebner F. 23, 79 Eckhart di Hochheim (Meister Eckhart) 36, 90, 92, 93-94, 101-102 Enders M. 93 Esposito C. 13 Fabris A. 21, 34, 76, 108 Facioni S. 23 Ferrara R. 36, 111 Filippini E. 13, 185 Fistetti F. 112 Fiorato P. 90 Francesco (papa) 203, 220, 224-226 Freud S. 43, 51-52 Gadamer H.-G. 11, 231 Garrido-Maturano Á.E. 21 Gerl-Falkovitz H.-B. 36 Giovanni XXIII (s.) 224 Giovanni Paolo II (s.) 44 Giuliani M. 102, 104 Goethe J.W. 158 Gonnelli F. 41 Gottlöber S. 36 Gregorio M. 46 Hamel J. (p.) 49 Hansel G. 20 Hegel G.W.F. 231 Hemmerle K. 191 Heschel A.J. 88-89, 104-105, 107, 143-144, 191

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Hessel S. 44 Heidegger M. 12-13, 16-17, 21, 23, 25, 27, 64-69, 71, 73, 77, 81-83, 102, 144, 159-167, 232-234 Hölderlin F. 165 Husserl E. 12-13, 15, 25, 32, 64-65, 67-68, 82, 92, 165168, 185, 232 Isaia 137, 205, 222 Kant I. 11-13, 15, 18, 41, 54, 123, 154-155, 178, 180, 182, 186, 188, 197, 211 Kasper W. (card.) 220, 223, 229 Kaufmann R. 36 Kharlamov L. 135 Klink J.-L. 29 Landucci S. 11 Leibniz G.W. 13 Levinas E. passim Liborio M. 63 Lorini A. 144 Maimonide M. 148, 149 Marini A. 65, 69, 161 Marzano M. 128 Mathieu V. 15, 154 Mauss M. 58-61 Mayer A. 16, 86 Mayer R. 16, 86, 157 Mazzarella E. 66 Mello A. 229 Milani C. 20 Moretto G. 21, 222

Mortara L. 89, 105, 107 Mortara Di Veroli E. 89, 105, 107, 191 Moscato A. 77, 195 Mura G. 234 Nemo Ph. 234 Nancy J.-L. 135 Neher A. 28 Nietzsche F. 193 Nobile Ventura O.M. 188 Nodari F. 15-20, 22, 24, 34, 37, 43, 47, 50, 85, 91, 97, 107-108, 110, 123, 127, 128, 211, 236 Noseda L. 48 Odello L. 43 Odorici M. 129 Paolo (s.) 219 Padrini P. 29 Pascal B. 215-216 Pastrello M. 234 Perazzolo P. 97 Perathoner A. 216 Petrosino S. 14, 22-23, 72, 129 Pirillo N. 54 Platone 77, 135, 181, 194, 210 Plotino 131 Poma A. 90 Ponzio A. 112 Proust M. 107 Pulit G. 54 Rabano Mauro 208

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Riedlinger A 19 Rilke R.M. 211-212 Riva F. 234 Rolland D. 20 Rolland J. 173-174 Rosenstock-Huessy M. 157 Rosenzweig F. 18, 21, 23, 27, 79, 86, 158, 167, 183184, 233 Rosenzweig R. 157 Rovatti P.A. 38, 61 Rühle I. 157 Saame O. 69 Saame-Speidel I. 69 Sartre J.-P. 83, 187 Savignano A. 237 Scholem G. 16, 86, 157 Sebbah F.-D. 20 Sechehaye A. 19 Seyr F. 79 Seneca 146 Severson E. 21 Simmel G. 53, 55-56 Socrate 130 Solesin V. 49 Sossi F. 38, 82 Specchio M. 212 Stein E. (s.) 65

Stidler D. 135 Strasser S. 68 Tartarini C. 19, 24, 50 Tertulliano 205 Theunissen M. 165-166 Tietjen H. 159 Tommaso d’Aquino 17, 150, 217-219 Tornielli A. 226 Vannini M. 93 Ventura Anzinelli M. 221 Venturelli D. 21, 222 Vigna C. 216 von Hermann F.-W. 69, 161 von Strauß B. 90 Volpi F. 161 Wahl J. 15, 73 Welte B. 93 Wiesel E. 141 Wojtyla K. (cfr. Giovanni Paolo II) Zolla E. 89, 191 Zennaro G. 72 Zucal S. 23

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Index rerum

«allora insegnato» 8, 38, 94, 96, 114, 139, 142, 169, 178, 181, 185, 192, 194, 197-198, 209, 236-237 a-Dieu /a-Dio 9, 74, 153, 183, 217, 220, 237 allievo 85, 94, 122, 127, 129, 131, 142, 179, 236 alterità 5, 14, 37, 85, 116, 164, 170, 175, 177, 207, 211, 220, 228, 237 anacronismo, contro-tempo 25, 37, 73, 171, 174, 181, 193-194, 196, 236 anarchia, anarchico 74, 110, 116, 171, 178, 236 anteriorità 87, 141-142, 171, 196-197, 215 appaiamento 25, 32, 68. asimmetria 86, 109, 120, 131 ateismo 74, 131 attenzione (accadimento dell’) 33, 88, 122, 213 attesa 52, 112-113, 115, 121-122, 138-139, 144, 174-175, 177 Autrui (Altro/altro/altri) 56, 8-9, 14, 16, 18, 20, 22, 24-27, 30-32, 34-37, 4344, 48, 51, 57-58, 61, 63,

67-69, 72-77, 79-81, 8388, 90, 92, 95-96, 100102, 107-110, 112-123, 127-130, 134, 136-138, 140-142, 144, 149-150, 152, 156-159, 162-167, 169-170, 173-183, 185189, 192, 194, 197-199, 203, 206-215, 218-221, 223, 225, 227-228, 232237 avvenire 24, 38, 75, 83, 9091, 95, 121, 138, 148, 179, 181, 194, 197 bene, sommo bene 6, 8, 17, 21, 33-34, 77, 87, 93, 95, 113, 139, 142-143, 145, 147-153, 156, 177-178, 181-183, 196, 205, 208, 210-211, 216 bisogno dell’altro, bisognosità 18, 20, 34, 74, 8081, 85-86, 110, 127-128, 130, 149, 156-157, 167, 186, 189, 233 blasé 55-56 bontà (Gutheit) 8, 16, 41, 77, 92-93, 142, 173, 182, 196, 203-205, 221

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bonum commune 8, 16, 21, 37, 145-150, 152, 154157, 166-168, 173, 176, 180-181 carezza 122, 207 compassione 217, 220, 222, 223, 224, 227 compimento (accomplissement) 8, 82, 128, 135137, 139-142, 180-181, 185, 207, 211, 227 conatus essendi 51, 77, 87, 110, 194, 233 corpo (Leib/Körper) 34, 48, 67, 232 corpo, corporeità, corporeo, corporale 32, 34, 37, 48, 61, 68, 98, 102, 119, 134, 140, 152, 167, 170, 175, 206, 208, 215, 219, 220, 232 coscienza bouleversé 74, 170, 176, 213, 237 coscienza intenzionale 61, 63, 120, 213 creatore 131, 146, 222 creatura, essere creato, creaturalità 8, 36, 81, 84-85, 87, 102, 109, 130-131, 190-191, 214, 222 creazione, creazione del futuro 8, 28, 33, 37, 81, 8386, 88-89, 141, 143, 178, 183, 189-191 cura (Sorge), prendersi cura (Besorgen)17-18,82,161162, 164, 166, 177

Dasein, Mitdasein 22, 30, 33, 65, 67-69, 82-83, 85, 89, 159, 161-162, 165167, 232 definitivo/non definitivo 135, 178-179 diacronia, dia-cronia 6, 8, 16, 19-22, 24-27, 30, 3336, 38, 61, 72-74, 77-78, 85-87, 108-109, 118, 120122, 142-143, 148, 150, 159, 170, 172, 173-177, 179, 181, 183, 190, 194, 197, 210-212, 214, 226228, 231-233, 236-237 diacronico/a 7-9, 15-16, 20, 36-37, 79-80, 87, 109, 115, 118-120, 144, 149, 152, 156, 164, 173, 178, 180-181, 183, 185, 190, 203, 214, 221, 227, 236237 differenza ontologica 25, 73, 77 dignità 8, 37, 54, 107, 148149, 185-192, 233 Dire, detto, non-detto 8, 22, 26-27, 29-30, 34, 72, 7778, 95, 109-110, 115, 119121, 145, 155-156, 170, 172-173, 176, 192, 198, 210-211, 231 dolore, dolore a fior di pelle 37, 107, 109, 112-114, 120, 169, 211, 212, 216218, 222, 228, 234 donazione (Gebung) 68, 89, 225

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dono (Gabe), contro-dono, dono incondizionato 7, 36, 41, 58-64, 71-72, 78, 80, 83-87, 89, 93-95, 98102, 107, 141, 153, 176 dramma, drammatico 43, 135, 140-141, 143, 179, 187 «Eccomi!» 88, 98, 213, 221 educazione 7, 19-20, 24-25, 33, 37, 42, 50, 144, 233 Ego trascendentale, monadico, atemporale 22, 64, 67-68, 195, 210, 223, 225, 232, 234 egoismo, egoità, egoista, ego «chez moi», «io sordo di ventre affamato» 42, 51, 55, 81, 86-87, 114, 121122, 129, 133, 135, 140, 146, 168, 178, 187, 220 elezione, eletto 34, 60, 77, 81, 84-86, 96, 105, 152, 182, 212 ermeneutica dell’accadimento (dell’incarnazione, del linguaggio, della misericordia, religioso), ermeneutica dell’evento, della cura, responsoriale, ermeneutica della fatticità storica, metodo fenomenologico-ermeneutico, fenomenologia ermeneutica 17, 20-21, 23-25, 27, 29, 34, 60, 71, 7576, 80-81, 92, 145, 150,

157, 159, 167-168, 173, 177, 181, 190, 208, 232, 233 esistenza/esistente (Sein / Seiendes) 24-25, 37, 7374, 77, 81-83, 86, 88, 112-113, 122, 132, 136, 161, 168, 179, 189, 208209, 219-220, 227-228, 237 esodo dal «finta di niente», dal non-senso, dal sé 20, 56, 74, 94, 131, 190, 234 esposizione, esporsi 87, 109, 118 essenza 16, 26-27, 31, 51, 75, 158, 170, 184, 210, 211 esteriorità 26, 31, 115, 117, 171, 228 etica, relazione etica, etica come filosofia prima 19, 35, 80, 129, 155-156, 166, 188, 192, 194, 199, 234 evento (Ereignis), della responsabilità, della mia transustanziazione in un altro me, della partecipazione, del compimento, del parlare, della misericordia, accadimento diacronico, fame dell’evento 8, 23, 27-28, 30-31, 35, 37, 71, 76-78, 80, 82, 84, 92, 110, 134, 138-140, 149-151, 157, 162, 176, 180-181, 185, 187, 198199, 201, 209, 212, 219, 221, 227

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fatica, fatica dell’istante, fatica del futuro 107, 132, 208, 216, 227 fecondità 20, 31, 90-91, 94, 101, 127, 131, 135-139, 142-144, 179-180, 233 felix culpa 7, 16, 36, 107, 115, 119-120, 179, 188, 209, 234 filialità 90-91 finitezza, mortalità 60, 163, 167, 176, 187, 207 frattempo 25, 31, 73, 118, 177, 185, 236 futuro 12, 14, 18, 34, 47, 4950, 75, 84, 93, 127-128, 130, 144, 148, 163, 178, 183, 186-191, 227, 233, 236 generazione 8, 135, 138, 180 gettatezza (Geworfenheit) 7, 36, 81-84 giogo del regno, giogo della redenzione 8, 37, 145, 148-149 globalizzazione 12, 24, 42, 44, 48, 52 gloria dell’Infinito, render gloria 94, 100, 103 godimento, «jouir de» 57, 86, 133-134, 168 gratis 7, 57-58 gratitudine (Dankbarkeit) 36, 42, 92, 94-95, 100-105 gratuità 5, 7, 16, 34-35, 4142, 54, 57-60, 71, 83, 96100, 123, 142, 207

hallelujah 102, 104 hosanna 103-104 identità 26, 43, 75-76, 87, 91, 119, 122, 128, 170, 190, 214, 225, 227 il y a (c’è) 74, 82, 131 Illeità 22, 35, 108, 121, 189, 213, 220 impegno/disimpegno 143, 171, 179, 181, 194, 197, 211, 215 incarnazione 34, 118, 134, 170 Incondizionatezze 164, 189, 233 Indifferenza, non-indifferenza 26, 55-56, 73, 7577, 83, 113, 117, 143144, 170, 174, 207, 214 Inquietudine, in-sonnia 52, 67, 78, 87, 108-109, 113, 169-170, 174-175 insegnamento 8, 16, 20, 2425, 29-31, 33, 37, 73, 85, 110, 122, 127, 129-130, 142-144, 165 intenzionalità 5, 17, 65, 8081, 93, 114, 121, 159, 166, 168, 170, 174-175, 177, 188, 213 interesse, inter-esse, interessamento, disinteressamento 13, 34, 51, 54, 143, 154, 218, 225, 234 intervallo temporale/diacronico 74, 78, 118, 120121, 131, 133, 138-139,

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141, 145, 177-178, 183, 185, 190, 214, 226, 236 invocazione 165, 215, 228 ipostasi 74, 82, 90-91, 111112, 132-133, 136, 138140, 214 ispirazione 108, 109, 115, 175 istante 8, 26, 78, 86-87, 108, 116, 121-122, 131-134, 136-137, 139, 141-142, 178-179, 183, 208, 235 lasso di tempo 6, 37, 74, 156, 172, 176, 181, 210, 234 libertà 13-16, 33, 45, 49, 77, 81, 84-85, 91-92, 95, 97, 114, 116, 132, 142143, 147, 149-150, 155, 165, 186-189, 191, 195196, 210-211, 213, 216, 234-235 linguaggio 5, 14-15, 24, 27, 29-32, 34, 58, 78, 80, 107, 109-110, 112, 114, 156157, 164, 186, 212, 233 liturgia, liturgia cristiana 102, 123, 198, luce, mondo della luce, elemento della luce 92, 109111, 113, 144, 194 Maestro 20, 30-31, 33, 85, 94-95, 103, 110, 122, 127-131, 140, 142, 233, 236 Male, (male) elementale 74,

112, 139, 149, 151, 153, 168, 211, 217 Malgré moi (mio/nostro malgrado, malgrado sé) 24, 115, 118, 181, 215, 234 maternità 90, 91 misericordia 8-9, 17, 37, 9899, 128, 203-209, 212213, 215-224, 226-229, 236 Moi /Medesimo 7, 26-27, 3132, 37, 51, 74-75, 84, 96, 109, 114, 116, 118, 120, 123, 129, 133, 138-140, 143, 169-170, 174-175, 180, 182, 190, 193, 199, 214-215, 221 movimento 16, 31, 35, 62, 88,115-116,121-122,136, 151, 159, 169, 194, 208, 212, 227 non-luogo (non-lieux), nonluogo empirico, non-luogo della soggettività 6, 19-20, 26, 33, 74-75, 138, 211 notte 108, 112, 122, 192, 194 nuovo pensiero (neues Denken) 16, 18, 23, 25, 86, 157-158, 167, 232-233 oblio 64, 71-72, 78, 111, 113, 121-122, 140, 203, 207 ontologia 17, 26, 75, 112, 165, 168, 225

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orale, oralità /scritto 8, 25, 29, 73, 127 origine 34, 72, 74, 83, 114, 120, 133, 172, 181 ossessione 44, 46, 111, 171, 174, 214 ostaggio (Leib-bürge), divenire/farsi-ostaggio-conil-proprio-corpo-perl’altro, ostaggio per l’Altro 34-35, 37, 61, 98, 102, 108, 118, 130, 137, 140, 174, 178, 189, 197, 208, 220, 236 parola, «parola parlante», «parola parlata» «parola plurale» «parola poematica» 7-8, 23-25, 28-30, 32-33, 35-36, 73, 77, 84, 87, 95-96, 108-110, 113, 115-118, 120, 122, 128, 130, 142, 144, 157-158, 164-165, 184, 214, 229, 233, 237 passato, «profondo passato», «passato più antico di ogni origine rappresentabile, passato preoriginale e anarchico», «passato assoluto», «passato immemorabile» 33, 38, 74, 84-85, 93, 116117, 121-122, 130, 132133, 142, 164, 169, 178, 181, 183, 192, 197, 210, 214, 236 passività 6, 21, 34-36, 74,

77, 87, 98, 113-114, 142143, 152, 168-169, 171, 174-176, 181-182, 193, 198, 213 paternità 90-91, 137, 139, 140, 179 paura 7, 24, 42, 44, 45-47, 50, 134, 166, 207, 228, 233 pazienza/impazienza 6, 27, 41, 52, 169, 174, 193, 198, 203, 208 pensiero dialogico 23, 79 pensiero incarnato 16, 22, 34, 36, 91, 107, 130, 167 perdono 142, 179, 205 passività 6, 21, 34-36, 74, 77, 87, 98, 113-114, 142143, 152, 168-169, 171, 174-176, 181-182, 193, 198, 213 persecuzione, persecutore 152, 171, 225, 228 potere del sé, potere di potere 30, 52, 64, 83-84, 89, 97, 99-111, 113-117, 129, 141, 144, 154, 156, 186, 194, 210, 213, 224225 preghiera 21, 33, 48, 79, 80, 130, 205, 213, 221-222 prendere sul serio il tempo 86, 157, 159, 226, 233 profezia 35, 112, 199 prossimità/approssimarsi 5, 9, 26, 75, 87, 116, 118119, 131, 169-171, 174177, 209, 214-215, 227

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prossimo 5, 51, 118-119, 146-147, 171, 184, 193, 204, 209, 212-213, 215, 218-220, 223, 227 psichismo 8, 27, 132-134, 169-170, 174-175, 181 ragion pura 13, 154-55 ragion pura-pratica, Ragion pratica 11, 13, 154-155, 196 rappresentazione 111-112, 171, 174, 177-178, 181182, 190, 193, 214, 227, 236-237 recettività 142, 176 redenzione 8, 30, 37, 143145, 148, 178, 183-184, 237 relazione originaria, asimmetrica, con altri, etica 8, 26, 30-32, 43, 48, 68, 75, 79, 90-91, 110-111, 113, 128, 130, 137-138, 140-141, 158, 160, 166, 171, 173, 176-177, 185, 210, 214, 220, 227 reminiscenza 83, 121-122, 129-130, 236 resistenza alla totalità, resistenza non-violenta 8, 96-98, 118, 123, 132, 134, 169, 210, 227 responsabilità 5, 8, 14, 26, 33, 35, 37, 41, 51, 77-78, 80, 84, 87, 100, 107, 118, 122, 142-143, 146, 152, 170, 174-175, 179, 181-

182, 185-186, 189-192, 196-197, 199, 210-211, 213-214, 220, 227, 229, 234, 236-237 risveglio 51, 108-109, 118 rivelazione 28, 32, 82, 89, 184, 195, 197, 221 salvezza (salut) 12, 14-15, 35, 37, 77, 102, 130, 136, 139, 143-145, 147, 165, 178, 180-181, 183, 190192, 198, 205, 208, 221, 226 sapere 5, 12, 27, 32, 65, 72, 122, 129, 162, 168, 170, 177, 194-198, 235 «sapere d’angelo» 8, 37, 190, 196, 197, 199, 236 scambio, logica dello scambio (do ut des) 7, 24, 36, 58, 60-62, 71, 86, 95, 100 sé/Moi/io posto all’accusativo 33-34, 94, 143, 213, 215, 237 sensibilità 55, 118, 167-169, 175, 227 separazione 27, 73, 109-110, 117, 131-134, 145, 177 sfasamento 24, 26, 170, 193, 221 Shabbat (Sabato) 107, 194195 significazione 35, 72, 112, 138, 169-170, 175, 210, 214, 236 simultaneità 7, 60, 62, 109, 118, 143, 168, 170, 174

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sincronia/sincronismo/tempo sincronico 7, 19, 35, 48, 50-52, 56, 61, 77-78, 112, 114, 152, 156, 168, 174-175, 192, 198, 210, 214, 237 socialità 75, 79, 166, 177 sofferenza, sofferenza liturgica, sofferenza inutile/ non-inutile, sofferenza di Dio 52, 84, 88, 108, 113-114, 123, 142, 168, 175, 198, 203, 206, 211, 217, 222, 234 solitudine 42-45, 47, 75, 134, 165-166, 207, 219, 228, 233 sostituzione 34, 100, 119, 140, 170, 178, 227 speranza, sperare, Sperareper-il-presente 18, 80, 99, 115, 153, 178, 197, 203, 219 storicità del pensiero, storicità dell’esserci 11, 73, 80, 140, 146, 149, 152, 163-164 straniero 31, 103, 109, 117, 120, 137, 146, 189, 205, 207 supplice 7, 36, 118-121 surmodernità 20, 24, 42, 57 temporalità 3, 7, 14-16, 20

30, 35, 37, 38, 41-42, 69, 71-72, 76, 80, 82-83, 85, 87,108,127,135-136,139, 146, 150, 163-164, 175176, 179-180, 194, 197198, 207, 231-232, 237 temporalizzazione (Zeitigung) 8, 19, 21, 26, 33, 37, 42, 48, 74, 76, 80, 82, 88, 136, 139, 142, 152, 156, 169, 173, 176, 181, 185, 190, 208, 210, 220, 226, 236 umanità 12-16, 18-19, 24, 26, 38, 47-48, 57, 75, 107, 149, 167, 188, 194, 197198, 209, 226, 231-237 visione filologica vis à vis 31, 94, 110, 127 Volto 5, 9, 22, 31, 35, 43, 58, 117, 121, 129-130, 166, 185, 197, 224-225, 232 vulnerabilità 37, 109, 168169, 175, 226-228, 232 Wiedergeburt (rinascita)/nascita continua, ricominciamento 8, 33, 38, 96, 114, 133, 137, 141, 148, 152, 173, 178, 180, 183, 208

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