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Italian Pages 138 Year 2013
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Miguel Abensour
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Emmanuel Levinas L’intrigo dell’umano Tra metapolitica e politica Dialoghi con Danielle Cohen-Levinas
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Au dedans, au dehors
Collana diretta da: Giuseppe Cantillo, Danielle Cohen-Levinas, Jean-François Courtine, Elio Matassi
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Au dedans, au dehors 3
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Miguel Abensour Emmanuel Levinas L’intrigo dell’umano
Tra metapolitica e politica Dialogo con Danielle Cohen-Levinas
Traduzione e cura di Giuseppe Pintus
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6 Titolo originale Emmanuel Levinas L’intrigue de l’humain
© 2012, Hermann, 6 rue Labrouste, 75015 Paris - France www.editions-hermann.fr © 2013, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma È vietata la riproduzione anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata. www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] ISBN – Edizione cartacea: 9788890700668 ISBN – E-book: 9788898694617 Collana Au dedans, au dehors Issn. 2281-5368 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Emmanuel Levinas © Danielle Cohen-Levinas, collection personnelle, agosto 1988, è vietata la riproduzione.
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Per Louis Janover
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Presentazione
Gli affari umani Danielle Cohen-Levinas
Miguel Abensour è un pensatore della politica? Sì, senza alcun dubbio, Miguel Abensour è un filosofo che prende molto sul serio la questione politica, cogliendola non in ciò che la legittima, ma in ciò che mira a distruggerla. Se volessimo tentare di descrivere il processo di elaborazione teorica all’opera in questa intervista, cominceremmo innanzitutto col citare la prima frase che apre il bel libro di Miguel Abensour su Hannah Arendt: «Hannah Arendt l’avrebbe scritto, un saggio Contro la filosofia politica?»1 Miguel Abensour interroga niente meno che la pertinenza a parlare di filosofia politica e le ragioni per le quali si identifica in modo troppo affrettato il pensiero di un autore con la storia universale del bio politikos, paragonata con la storia del bio theoretikos. 1. Miguel Abensour, Hannah Arendt contre la phlilosophie politique?; tr. it. di C. Dezzuto, Hannah Arendt contro la filosofia politica?, Jaca Book, Milano 2010, p. 1.
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La constatazione della Arendt permane di una straordinaria acutezza: «Ogni volta che l’età moderna aveva motivo di sperare in una nuova filosofia politica, si trovò di fronte ad una filosofia della storia»2. La questione, posta in maniera inaugurale da Abensour nel suo libro sulla Arendt, non è senza rapporto con la replica levinassiana alle aporie della filosofia politica. La rottura della totalità, per quanto si presenti come il momento nevralgico in cui le cose e la parola non sono più in sincronia in uno stesso posto, designa un mondo in cui l’umano è alterato, in cui la resistenza etica non si afferma più come potenza politica o perseveranza nell’essere. Gli affari umani non lo sono se non in quanto si tratta di uscire dalle strategie ontologiche, opponendo alla permanenza dell’io l’idea della diacronia e l’interruzione dell’evento dell’essere. Per Miguel Abensour, questa nuova economia dell’esistere è un altro modo di decostruire la filosofia politica, al punto che diviene pertinente chiedersi se l’interruzione dell’umano, che precede ogni senso politico, non esprima uno scarto irriducibile tra principio e anarchia. Anche se Emmanuel Levinas non ha scritto un Contro la filosofia politica, questi sarebbe stato comunque, per Miguel Abensour, uno dei pensatori più radicali per comprendere come una concezione politica non debba ridursi alla rappresentazione di un principio di ragione che domina e orchestra le significazioni della temporalità. Altrimenti detto, Miguel Abensour disvela in modo estremamente sottile nel proposito di Levinas ciò che, nel principio di individuazione che presuppone una tacita relazione tra temporalità e alte2. Hannah Arendt, The Human condition, The University of Chicago, 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita Activa, La condizione umana, Bompiani, Milano 1985, Nota 63, cap. VI, p. 279.
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rità, minerebbe l’assegnazione della politica all’essere, superando così la politica stessa, non per sradicarla, negarla o cancellarla, ma per tracciare un cammino inedito nel cuore dell’intersoggettività sociale e democratica. Più che di un contro la filosofia politica, si tratta di uscire dal mito del carattere finito della temporalità autentica come luogo dell’intelligibilità del bio politikos. Uscire dall’autentico e dall’inautentico, evadere dall’antitesi heideggeriana: è in questo punto che l’analisi di Miguel Abensour è tra le più preziose ed innovatrici, poiché essa difende, con Arendt e Levinas, la stravagante convinzione secondo la quale non essere un filosofo politico sarebbe una forza, se non addirittura una benedizione. Gli affari umani richiedono una giusta politica, vale a dire una politica che congeda tanto le ebrezze dell’eroismo quanto la ripresa hegeliana o i «mercanti del sonno», o anche le «cose politiche», ancora troppo tributarie dell’istituzione platonica della filosofia politica. In tutti i casi di figura, si tratta sempre di delimitare un territorio sul quale si pone una sovranità, un’azione unilaterale. Come operare una defezione dell’identità politica senza rinunciare a pensare filosoficamente i peripli e gli eventi della modernità? Questa difficile domanda, Miguel Abensour la riprende nella sua origine, dopo l’archeologia delle forme e dei linguaggi politici propri all’utopia socialista-comunista che attraversa l’insieme della sua opera – in particolare, i suoi scritti su Thomas More, Pierre Leroux, Blanqui, Marx, Benjamin, Machiavelli, Saint-Just, fino ai suoi lavori più recenti su Arendt e Levinas. Cosa significa prendere le distanze con «le cose politiche» e in cosa il pensiero di Levinas, così come esposto e commentato da Miguel Abensour, impedisce di ricadere nell’empiricità di queste «cose» e richiede tanto una
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emancipazione da ogni adesione alla storia, quanto un rinnovamento critico ed ermeneutico dei grandi testi, laddove il salvataggio della politica si realizza contro la politica stessa, contro una politica che presuppone un ordine istituito e istituente, a vantaggio di un’apertura essenziale all’alterità, agli choc delle libertà, all’inimitabile movimento dell’utopia che è in relazione con il movimento dell’evasione tanto caro a Levinas? Questo movimento è inteso come l’impossibilità di dimorare in un presso di sé che non porta lo sguardo e l’ascolto in direzione dei margini storici: «come apertura di sé senza mondo, senza luogo, l’u-topia, il non essere murato, l’inspirazione fino alla fine, fino all’espirazione»3. È importante ritornare sulla critica di Miguel Abensour e seguire il movimento attraverso il quale intende a sua volta rendere conto di un’apertura della politica che deterrebbe non «le cose», ma un’uscita verso l’utopia, in un rapporto di prossimità con l’altrimenti che essere di Levinas. Non sottrarsi ad una critica che prenderebbe in considerazione l’inquietudine democratica, l’impensato della resistenza che resiste precisamente alle ricusazioni di un potere in esercizio: è su questo punto preciso che Leo Strauss, nel suo commento di Platone, La Repubblica di Platone4, stabilisce la distinzione fondamentale tra i sofisti e i filosofi. È ancora su questo punto che Miguel Abensour sposta, sulla scia di Levinas, la formula di Leo Strauss che noi ricordiamo: «i fi3. Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Martinus Nijhoff, La Haye, 1974; tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 1983, p. 225. 4. In The city and man, The University Press of Virginia, 1964; tr. it. I. La Scala, La città e l’uomo, saggi su Aristotele, Platone e Tucidide, Marietti, Genova, 2010.
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losofi classici vedono le cose politiche con una freschezza ed una immediatezza che non sono mai state eguagliate»5. Lungi dal considerare la politica come risultante da un sapere irriducibile alla tradizione filosofico politica, Miguel Abensour introduce una dimensione di esperienza che esclude una concentrazione troppo forte dell’analitica del Dasein su queste «cose». Piuttosto che impiantarci nell’immediatezza autosufficiente della vita come della natura, queste cose pongono il rapporto con il corpo e con altri nel cuore stesso della preoccupazione politica, sottolineando così in «Un’ipotesi stravagante»6 il doppio movimento di Levinas che in questo libro viene riorganizzato in forma dialogica. Più che un parlare delle «cose politiche», Miguel Abensour sceglie deliberatamente un altro sintagma: gli affari umani, nella forma di una traduzione che chiama «l’intrigo dell’umano», la quale designa ciò che nell’alterità resta incomparabile, unico, in un movimento di trascendenza assolutamente distinto dalla negatività. Il tono è dato nell’impulso profondo di ciò che si dà e che, dandosi, suscita un’epoché che ridà vita all’umano, alla sua estrema precarietà e vulnerabilità. L’umano è dunque, per Miguel Abensour, ciò che la filosofia 5. Leo Strauss, What is Political Philosophy?, The Free Press, New York 1959; tr. it. di D. Cadeddu, Che cos’è la filosofia politica?, Il nuovo melangolo, Genova 2011, p. 32. 6. Pronunciato per la prima volta al convegno internazionale Hommage à Emmanuel Levinas: Visage et Sinaï, organizzato da Danielle CohenLevinas, College international de philosophie, 7 e 8 dicembre 1996, Parigi, pubblicato negli atti del convegno, Rue Descartes, n° 19, Paris, Puf, 1998, p. 53-84, (riedito nella collezione Quadrige, Paris, Puf, 1998). Il testo si trova oggi in Miguel Abensour, Pour une philosophie politique critique, Sens & Tonka, Paris 2009; tr. it. di M. Pezzella, Per una filosofia politica critica, Jaca Book, Milano 2011, pp. 319-354.
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politica sottrae alla vista, all’istituzione, al sociale, per giungere alla violenza dello Stato che dispiega questo processo fino ad auto-istituire le categorie inadeguate all’umano in sistema, così come ricorda questa frase sorprendente di Levinas citata da Miguel Abensour nel suo libro, Per una filosofia politica critica7: «Ci sono delle lacrime che un funzionario non può vedere: le lacrime di Altri»8. In che cosa gli «affari umani» temporalizzano la nostra esistenza e in cosa instaurano un rapporto altro rispetto a quello dettato dalla questione ontica e ontologica? Gli «affari politici», se dobbiamo ancora parlarne, restano incessantemente da fare e, seguendo l’esempio delle determinazioni politiche, essi hanno per caratteristica quella di mettere il «potere» politico tra parentesi, di provocare ciò che Miguel Abensour chiama una epoché fenomenologica sulla quale torneremo, come se la fenomenalità stessa della cosa «affare» e «da fare» facesse irruzione laddove i totalitarismi avevano distrutto l’utopia e come se l’utopia non arrivasse più ad interrompere la perseveranza dell’essere nel Male e nella guerra; come se, nonostante il Male radicale e una speranza sempre minacciata dalle necessità inumane, questa fenomenologia paradossale della politica attestasse un rinnovamento dell’utopia che non è più sinonimo di identità, ma di eterogeneità; non più esclusivamente «la cosa politica»9, ma «gli affari», in una messa a distanza, uno spostamento 7. Ibid., p. 338. 8. «Transcendance et hauteur», in Bulletin de la société française de philosophie, n°3, Paris, 1962, p. 102; ripreso in Liberté et commandement, Saint Clément de Rivière, 1994, p. 80. 9. Espressione di Stendhal, Il Rosso e il Nero.
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considerevole, irrevocabile rispetto a Leo Strauss, ed in una sicura prossimità con il pensiero di Levinas. Poiché una tale prospettiva si avvicina in realtà alla riflessione messa in opera da Levinas, di cui Miguel Abensour ricorda, sempre in «Un’ipotesi stravagante», che essa è non solo ossessionata [hantée] dagli orrori di cui si è reso colpevole il massacro della politica, ma che questa hantologie [ripresa di un termine derridiano, cfr. Spettri di Marx, p. 202, N.d.T.] non deve avere l’ultima parola e deve poter mantenere vivo un avvenire che sposterebbe la questione politica in un’ottica etica. Si tratta niente meno che di un capovolgimento, vale a dire di un rovesciamento delle priorità al fine di subordinare la politica all’etica in un movimento che tiene sveglia una resistenza al «tutto etico» come al «tutto politico». Miguel Abensour insiste su un punto cardine: il Totalitarismo è sicuramente una distruzione del politico e non un tropismo critico che si iscriverebbe in una logica storica di dominazione e di barbarie. Fine lettore della Arendt e di Levinas, interroga lo statuto radicalmente nuovo del totalitarismo. Non si tratta di una forma di dominazione tra le altre, ma piuttosto della cancellazione della condizione umana in tutte le sue dimensioni politiche. Di questa esperienza di cancellazione propria ai totalitarismi del XX secolo, Levinas trovava una eco esemplare nel libro di Vassilij Grossman, Vita e Destino. Quest’opera, grande affresco tolstojano alla maniera di Guerra e Pace, descrive, con una minuzia ed una complessità irriducibili, il passaggio dall’umano alla barbarie e dalla barbarie all’impossibile consolazione. L’insegnamento di questa disumanità – in quanto si tratta esattamente di un insegnamento consegnato nella trama narrativa – è una critica dello stalinismo e dell’hitlerismo, nella loro organizzazione e
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nel loro funzionamento concreto, clinico, strumentale di un sistema in cui il soggetto è negato, ripetutamente cancellato; laddove l’indifferenza etica, nella sua animalità più disastrosa, è anche la più ultima. Non è più questione né di Dio né del Bene, con i quali si vorrebbe elaborare un sistema capace di vincere il Male. Il Male non può essere vinto, può solo essere interrotto da ciò che Grossman chiama la «piccola bontà», la misericordia che va dall’uomo privato ad un altro uomo privato, al margine di ogni dottrina o predicazione politica o religiosa. La «piccola bontà» secondo Levinas è un idioma che attesta, diremmo, la manifestazione più alta e più santa della bontà, più alta del Bene finché essa non si lascerà circoscrivere o trasformare a sua volta in strategia predicativa, in quanto essa attesta che l’umano è ancora un umano, in quanto essa non sostituisce l’individuo alla massa, la politica quantificante agli affari umani: Cechov ha introdotto nella nostra coscienza tutta l’enorme Russia, tutte le sue classi, ceti, età… Ma non basta! Ha introdotto questi milioni di persone da democratico: lo capite? Democratico russo! Ha detto come nessuno prima di lui, neanche Tolstoj, ha detto: noi tutti prima di ogni altra cosa, siamo uomini, capite? Uomini, uomini, uomini. In Russia lo ha detto come nessuno prima di lui lo aveva detto. Ha detto: la cosa più importante è che gli uomini siano tali, e solo in un secondo tempo sono vescovi, russi, bottegai, tartari, operai. Capite? Gli uomini sono buoni o cattivi non a seconda che siano vescovi o operai, tartari o ucraini; gli uomini sono uguali in quanto uomini. (Vasilij Grossman, Vita e Destino, p. 280)
La «piccola bontà» è all’opposto dell’origine mitica del diritto. È questo il punto di convergenza tra Levinas e Benjamin. Rendere giustizia al lamento degli uomini sarebbe in
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qualche modo come rivolgere la catastrofe contro se stessa, opporle la semplicità dell’incontro, rompere il silenzio tragico degli uomini mutilati e vittime dell’odio dell’altro uomo. La generosità senza concupiscenza alla quale fa riferimento Levinas non è priva di rapporto con la «debole forza messianica» (Benjamin), con gli affari umani refrattari alle forze politiche dominanti, che si rifiutano di stabilire il rapporto con altri nel registro del dominio. In un testo intitolato «Le choix du petit»10, Miguel Abensour prende le parti di una singolarità del non identico che raffigura il fuori luogo politico, l’utopia del non assimilabile, del non addomesticabile e del non appropriabile. La meraviglia di questo pensiero politico sta nel fatto che questo «piccolo» o «piccola bontà» si vede affidato il posto dell’utopia come movimento verso l’alterità, e non l’inverso. Si potrebbe dire che questo movimento è impossibile, come lo è ogni giustizia che va al di là del diritto e dello Stato, ma nella sua impossibilità stessa, il «piccolo» fa una scelta che è richiesta da una forza redentrice. Nel ritiro del politico la «piccola bontà» può essere letta come un gesto di denudazione dell’umano, in una forma di extraterritorialità etica impensata, inaudita, che rompe la chiusura dell’ipostasi dominante o, altrimenti detta, dell’ipostasi della totalità. Uscire dal totalitarismo non è dunque di competenza di un progetto che declinerebbe un legame sociale secondo una norma ancora aristotelica del compimento formale di un contenuto. Laddove il legame sociale è in rottura di equivocità, la minaccia di normalizzazione è co10. Pubblicato per la prima volta nella rivista Passé présent, n°1, Ramsès, Paris, 1982, p. 59-72; ripreso come postfazione nell’edizione francese di Minima Moralia di Theodor Adorno, Payot, Paris, 2001.
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stante e, nel cuore di questa minaccia, gli affari umani sono trattati come il corpo proprio degli interessi comuni, come un processo di produzione nel quale i conflitti e le dissonanze trovano una risoluzione. L’analisi di Miguel Abensour ci apre a ciò che rompe con l’onnipotenza inerente alla Storia come processo di produzione attraverso il quale «gli affari umani» farebbero da marionette. Lui oppone a questa visione ciò che potremmo chiamare un’escatologia della parola politica descritta a partire dalla riflessione di Levinas sullo Stato: La scelta tra le due ipotesi non è dunque indifferente, determina forme di Stato opposte l’una all’altra; la prima persevera nella sua natura statuale, aggrappandosi ad essa fino al punto di generare il realismo e il mito dello Stato, orizzonte insuperabile; la seconda prende una distanza già sufficiente a mantenere aperta la possibilità di compiere un passo al di là, verso l’utopia11.
L’epoché fenomenologica Cosa significa «politica» dal momento che tale questione è circoscritta nell’ellisse di una riflessione filosofica, dal momento che essa è interamente attraversata dalla preoccupazione del modo di essere e di esistere nel cuore stesso della relazione sociale? L’opera di Miguel Abensour, lungi dal lasciarsi ridurre alle «res politicae»12 come oggetto di sape11. Per una filosofia politica critica, cit., 341. 12. Espressione di Leo Strauss ripresa da Miguel Abensour in «Pour une philosophie politique critique?» Tumultes, n° 17-18, Paris 2001, ripreso nel saggio omonimo; tr. it. in Per una filosofia politica critica, cit., p. 229.
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re o disciplina accademica, apre queste «cose» a ciò che fa irruzione nel pensiero, a ciò che apporta una dimensione critica laddove l’oblio, nel senso benjaminiano del termine, rischierebbe di ricoprire la stretta relazione tra l’esistere e il filosofare propria della nostra epoca moderna. Per Miguel Abensour non si tratta tanto di teorizzare le cose politiche, ma di ritornare a esse, in un movimento quasi husserliano di riduzione che l’espressione «epoché fenomenologica», spesso utilizzata nell’intervista, lascia supporre; epoché singolare sulla quale Abensour si sofferma lungamente, nata da un impeto che noi qualificheremo come sociale, anarchico, a-teologico, a misura della destituzione di ogni istituzione politica, la quale dovrebbe fondarsi sulla dominazione e lo sfruttamento. Il compito del filosofo sarebbe sempre quello di rifiutare l’assimilazione tra critica dell’economia politica e critica della politica, compito che non può non ricordare il progetto di Marx nei testi del 1843 e del 1844 che Levinas ha letto. Nessuna riabilitazione della politica nel progetto di Miguel Abensour, ma piuttosto ciò che egli chiama una «lettura politica»13, comparabile, su un altro registro, alle «letture talmudiche» di Levinas; lettura che coglie nel romanzo di Stendhal, Il rosso e il nero e che verte sullo «statuto» di Julien Sorel, il quale si adopera ad auscultare i diversi spostamenti operati da ciò che l’eroe chiama «la cosa politica». Eccoci. Vi sarebbe un faccia a faccia sottile tra «chose» e «choses», e la differenza inscritta nell’aggiunta o nel ritiro di una lettera designerebbe non solamente un’interrogazione sul segno, ma sul suo significato, sullo scarto 13. Miguel Abensour, «Le Rouge et le Noir à l’ombre de1793?», in Critique de la politique, autour de Miguel Abensour, a cura di Anne Kupiec e Etienne Tassin, Sens et Tonka, Paris, 2006, p. 556.
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tra il sensato e l’intelligibile. Lezione appresa da Husserl: il segno non è la cosa, la rappresenta, e tuttavia la cosa rinvia al segno. La modificazione ortografica non è fortuita. Essa indica lo spostamento che a sua volta opera Miguel Abensour. La modificazione è il luogo di un’invenzione, di una nuova articolazione tra la struttura etica della soggettività e la politica, tra l’uno per l’altro e il mondo dei terzi, tra politica e metapolitica. In breve, la modificazione potrebbe essere, secondo noi, il tempo di una epoché, il luogo di un passaggio: quello dalla molteplicità umana ad una struttura politica della società; quello «dalla dissimmetria della relazione etica alla reversibilità fra cittadini»14. Per cogliere l’importanza di questa epoché, del legame sociale sinonimo di movimento verso una «conversione utopica» – che designa questo momento irriducibile in cui la singolarità del libro e della scrittura incontra la singolarità dell’umano – Miguel Abensour ci consegna una meditazione filosofica sull’opera di Emmanuel Levinas15 che trae la sua radicalità da un confronto saliente tra le cose politiche, l’evento, il concetto e il faccia a faccia tra Atene e Gerusalemme; una meditazione tra metapolitica e politica nella quale la questione dell’intrigo dell’umano prende tutto il suo senso, tutta la sua ampiezza e, aggiungerei, tutta la sua forza di drammatizzazione. 14. Cfr. Per una filosofia politica critica, p. 346. 15. Questa intervista con Miguel Abensour si inscrive nella continuità degli scambi che abbiamo avuto per un numero della rivista Europe dedicato a Emmanuel Levinas, uscito nel novembre 2011. Tengo a esprimere tutta la mia gratitudine a Miguel Abensour per aver voluto proseguire questi scambi. Tengo ugualmente a ringraziare Jean-Baptiste Para per aver autorizzato la pubblicazione di una parte di questa intervista già pubblicata nella rivista Europe, della quale proponiamo qui una versione considerabilmente rilavorata e riorganizzata sotto forma di libro.
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Che cosa significa per Miguel Abensour pensare la politica con Emmanuel Levinas? Poiché è proprio qui che sta il punto. La preposizione con non designa affatto l’essere-con (il Mit-Sein o Mit-Dasein di Heidegger per esempio). Non designa una sostanza politica che farebbe da trait d’union tra un pensiero e un altro. Ciò che si gioca nel con emerge da un rapporto di prossimità, termine levinassiano del quale Abensour ci ricorda qui che non è «né uno stato, né una quiete, ma una impacificabile inquietudine»16. Abensour si adopera a descrivere questo rapporto di prossimità nell’angolo di «Un’ipotesi stravagante», la potenza di sconvolgimento che sposta e minaccia l’ordine razionale delle cose e delle idee e che, facendolo, introduce una temporalità di tutt’altro ordine rispetto a quella indotta dalla sintesi dell’intelletto. Levinas costituisce senza dubbio nell’opera di Miguel Abensour una delle figure più rappresentative e decisive per pensare una messa in opera di questa epoché che fa appello ad una uscita dall’essere in quanto essere, che sospende l’identità a vantaggio di una conversione utopica, la quale non mira nient’altro che un’apertura dell’essere al mondo di tutt’altra natura rispetto a quella richiesta dall’ontologia. Nessuna intenzionalità presiede a questa utopia, o, per riprendere un’espressione di Levinas, nessuna «mira d’intenzione», ma piuttosto una riattivazione, il risveglio di una soggettività presa nel vivente dell’esperienza. Si ritrova in questo punto il Miguel Abensour pensatore dell’inaccettabile divisione tra «padrone e servo», pensatore di una nuova «ingiunzione utopica» venuta dalle catastrofi delle quali il XX secolo fu 16. Emmanuel Levinas. L’intrigo dell’umano: tra metapolitica e politica, p. 105.
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testimone. È dunque in termini di «interruzione ontologica» (Abensour) che l’esigenza dell’utopia si pone, un «utopismo di speranza» (Levinas) che non è più santificazione della storia nel senso in cui la intendeva Hegel – la storia universale come «tribunale del mondo» –, ma utopismo che lavora nell’interrogare le faglie e le incrinature della storia per lasciar sorgere delle «brecce di esteriorità» (Abensour). Non ci si stupirà di ritrovare sotto la penna di Miguel Abensour – sotto la forma di un dialogo, di un «io» ed un «voi» che Levinas non avrebbe smentito – degli autori che, messi in relazione finiscono per tessere una cartografia, un percorso o, ancora di più, una biografia intellettuale. I nomi di Saint-Simon, Saint-Just, Thomas More, Pierre Leroux, Machiavelli, Stendhal, Marx, Benjamin, Bloch, Adorno, Arendt, Buber, ecc. scandiscono sapientemente il dialogo, ciascuno di essi costituendo l’oggetto di una interpretazione che dà all’opera di Levinas una dimensione «inattuale», nel senso in cui lo intendeva Nietzsche; una esperienza intempestiva, com’è per esempio in Levinas lo straordinario della relazione con altri la cui capacità è quella di sfuggire al compimento ed alla chiusura dell’essere. Una parola inattuale non è dunque una parola superata o anacronistica. Tutt’altro. Essa è ciò che arriva a rompere la chiusura del tempo e che rompendola detronizza la sua unicità imperiosa in vantaggio di una diacronia temporale. Una delle critiche che Nietzsche rivolge esplicitamente alla modernità consiste nel dire che questa, lungi dal rompere con il passato, non fa al contrario che riciclarlo, rilanciarlo, prolungarlo truccandolo o mascherandolo. La modernità, nella volontà di ricapitolare le età del mondo, non farebbe in definitiva che disprezzarle:
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Se un giorno ho scritto sui miei libri la parola «inattuale», ebbene, quanta gioventù, inesperienza, ristrettezza si esprime in questa parola! Oggi io comprendo che con questa specie di accusa, di esaltazione, di scontentezza, io appartenevo, proprio per questo, ai più moderni fra i moderni17.
Il tempo della modernità critica e della critica della modernità è dunque un tempo che si rompe e accresce l’urgenza di farla finita con una scienza del politico. Parlando dell’inattuale, Levinas scrive sulla scia di Nietzsche: L’inattuale significa, qui, l’altro dell’attuale, più che la sua ignoranza o negazione; l’altro rispetto a ciò che nella grande tradizione dell’Occidente si è convenuto di chiamare essere-in-atto (qualunque sia la fedeltà o l’infedeltà di questa formula allo spirito della nozione aristotelica che essa pretende di tradurre); l’altro dell’essere-in-atto, ma anche della sua coorte di virtualità o potenze; l’altro dell’esse dell’essere, della gesta dell’essere, del pienamente essere – pieno da strariparne! – che il termine in atto enunzia; l’altro dell’essere in sé – l’intempestivo che interrompe la sintesi dei presenti che costituisce il tempo rammemorabile18.
Vorrei insistere su un punto: sono rari i filosofi che come Miguel Abensour hanno saputo svelare nell’opera di Levinas, 17. Friedrich Nietzsche, Frammenti Postumi, 1885-1887, Vol. VII, tomo I delle «Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1990, p. 150 s. 18. Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier, 1972; tr. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova 1985, p. 20.
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da Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) fino ad Altrimenti che essere (1974), una dimensione così profonda ed innovatrice, che verte su un modo d’essere che non si lascia ridurre alla sola esperienza egologica. Miguel Abensour comprende presto che questa tenuta davanti all’altro – il per l’altro e «l’uno per l’altro» – era determinante per comprendere la portata politica del pensiero di Levinas. Ne emerge che, lungi dal farne un moralizzatore, Miguel Abensour vede nel rifiuto di assorbire l’Altro nel Medesimo una fonte critica stimolante, in particolare per ciò che concerne i fenomeni di «ripolarizzazione»19 che la concezione dominante della democrazia instaura come il fatto politico stesso – principi che secondo Abensour furono denunciati in modo particolare dalla Arendt e da Levinas. Gli affari politici presuppongono dunque uno stretto legame, inscindibile, tra esperienza, temporalità e alterità. Questa convergenza analizzata in modo così fine da Miguel Abensour, che non si dà senza fare un processo critico dei filosofi della Storia e della sovranità dell’homo faber, così come Hobbes, prima di Hegel, lo aveva elaborato, non ha altra esigenza se non quella di incitarci a pensare una politica che si rifiuta di assorbire il rapporto con altri e che, per pervenirvi, contro ogni principio di autorità, tenta di mantenere filosoficamente vivente l’intrigo dell’umano. Ma l’assegnazione del tempo all’utopia non è la manifestazione del semplice capovolgimento dell’assegnazione dell’utopia al tempo. Nel suo libro, Hannah Arendt, contro la filosofia 19. Cfr. La démocratie contre l’État. Marx et le moment machiavélien, Félin, Paris 2004; tr. it. M. Pezzella, La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008.
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politica?20, Miguel Abensour sviluppa una riflessione critica sull’essere per la morte a partire dalle due determinazioni della Arendt: la natalità e la mortalità. Si tratta, rispetto ad Heidegger, di una differenza dell’ontico e dell’ontologico di tutt’altro ordine, in un faccia a faccia con la filosofia politica che non assegna l’umano ad una valorizzazione della morte. Si sfiora qui la determinazione dell’eroe greco che affronta la morte come una condizione di possibilità per conquistare l’immortalità del nome. Altrimenti detto, la morte dell’eroe è la condizione della sua nascita. La polis greca risolve la dualità tra mortalità e natalità e accede così a ciò che potremmo chiamare una vita politica, a distanza dall’azione, che si dispiega nella piena luce della città. La morte dell’eroe diventa allora la scena tragica di una memoria collettiva, nella misura politica della dismisura del sacrificio. Conversione dello sguardo e immortalità del nome sono dunque legate nello stesso schema: l’eroe muore e, con il suo morire, si attesta, più che una concezione, un’organizzazione della parola e della rappresentazione dell’eroe che sempre si sottrae alla sua libertà, senza che mai gli sia data l’opportunità di riappropriarsene. La propria morte significa pienamente la vittoria del mito e l’oblio della praxis, l’impossibilità radicale che ha l’eroe di essere animato della preoccupazione per la propria esistenza nella sua dimensione d’esperienza. Gli affari umani gli sono per così dire inaccessibili, sbarrati, non come lo sarebbe un inaccessibile «utopico», ma come ciò che specifica che l’eroe non sarà mai l’autore della propria storia, che il suo compimento riguarda una determinazione politica inscritta nell’essere per la morte – ciò che 20. Op. cit.
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rifiuta esplicitamente la Arendt, per la quale l’eroe è eletto, non in virtù del suo potenziale sacrificale, ma in virtù della portata della sua azione e della sua parola nel cuore degli affari umani. Si può pertanto parlare di un eroe levinassiano? Niente ci impedisce di interrogare la pertinenza di questa domanda e di sollecitare con questo fine i testi di Levinas. Se si intende con questo un’esistenza che si strappa all’epopea dell’essere nella sua onnipotenza destinale e mitica, allora possiamo rischiare di cogliere l’apertura della natura da parte dell’umano, il dis-interessamento del per l’altro, il racconto logico della struttura della significazione che si narra deformalizzandosi, come dei registri dell’intrigo dell’umano che arrivano ad interrompere l’ineluttabilità di un dire definitivo proprio dell’eroe che, per non morire, muore, e che, morendo, nasce in una morte sinonimo di presenza. Levinas aveva già intravisto e abbozzato nell’ultima sezione di Totalità e infinito, «Al di là del volto», un altrimenti che essere-per-la-morte, opponendo al compimento del tempo assegnato dalla morte, non un’incompiutezza, ma un compimento del tempo che, come dice Levinas, «non è la morte»21, in quanto questo ricava la sua verità da un tempo simultaneamente infinito e compiuto, nella misura in cui è l’essere stesso che si segnala e si produce come tempo e non come morte. La discontinuità del tempo dell’esistenza, reso possibile dalla fecondità, l’essere per la vita potremmo dire, è di conseguenza una figura di sostituzione maggiore, che Miguel Abensour ha perfettamente analizzato quando all’essere-per-la-morte sostituisce l’essere-per-l’utopia. Ne 21. Totalité et infini, Martinus Nijhoff, La Haye, 1971; tr. it. di A. dell’Asta, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1977, p. 295.
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va di una temporalità in cui, per riprendere l’espressione di Levinas, «il definitivo non è definitivo»22. La conversione utopica di cui parla Abensour dev’essere intesa come una mise en abyme della conversione dello sguardo dell’eroe. Più la morte è impedita da un processo di infinizione, come negazione dell’essere, più l’utopia inverte il destino in avvenire. È il trionfo del tempo sull’essere per la morte, laddove l’essere per l’utopia si separa da tutto ciò che si volge in sacrificio, in gloria immortale o in essere assegnato a un luogo. È qui che lo stravagante intrigo dell’umano, debordando da tutti i lati la rappresentazione della libertà, sconvolge le determinazioni politiche e le apre all’an-archia dell’infinizione del tempo, vale a dire, agli affari umani.
22. Ibid., p. 291.
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I
L’incontro
Danielle Cohen-Levinas: Negli anni ottanta l’opera di Emmanuel Levinas non lasciava ancora intendere le sue risonanze politiche. Ora, senza essere stricto sensu un’opera di filosofia politica, alcuni dei suoi scritti tentano di articolare il primato dell’etica con l’escatologia della pace. Voi siete stato uno dei primi a rivolgere l’attenzione su questa dimensione del pensiero di Levinas, principalmente attraverso l’idea che la filosofia della storia dispiega una teleologia che Levinas analizza come una persistenza dell’ontologia manifesta nella figura della «totalità». Miguel Abensour: La questione è complessa, in quanto solleva in quel periodo di cui parlate tutto il problema della filosofia politica. Io faccio parte di coloro i quali hanno lavorato ad un rinnovamento e ad una riattivazione, non una restaurazione della filosofia politica. Dopo aver scritto Han-
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nah Arendt contro la filosofia politica? (2006)* non sono più dello stesso parere. Mi ricordo che quando ho presentato la mia candidatura al Collège International de Philosophie, a metà degli anni ottanta, il progetto che ho presentato per una direzione di programma verteva esattamente sulla filosofia politica, la quale non era, mi sembra, riconosciuta come tale dall’Università, anche se opere rilevanti di questo dominio comparivano talvolta nei diversi concorsi di reclutamento. Avevo dato vita, a Reims, ad una effimera piccola rivista, i Cahiers de philosophie politique, poi avevo collaborato a Textures con Claude Lefort, Cornelius Castoriadis, Marc Richir et Marcel Gauchet, alcuni dei quali avrei poi ritrovato a Libre, fino alla fine di questa rivista nel 1980. Appartenevo insomma a un gruppo che tentava di pensare la politica resistendo alla sua scientifizzazione, alla sua sociologizzazione, e che, nello stesso tempo, si teneva lontano dal funzionalismo – che all’epoca era uno dei pensieri dominanti nella teoria politica – ma che si situava ugualmente lontano da un marxismo concepito come contributo alla teoria della politica: penso, per esempio, al lavoro di Nicos Poulantzas che operava una sorta di sintesi tra marxismo e funzionalismo. Infine, restavo a distanza da Michel Foucault e dai foucoultiani, in quanto malgrado ciò che aveva potuto dirne Gilles Deleuze in «Écrivain non: un nouveau cartographe» (in Critique, n° 343, 1975), malgrado la mia * Per rispettare lo stile del libro, d’ora in avanti si inseriranno i riferimenti degli scritti citati nel corpo del testo tra parentesi tonde, così come nell’originale francese. Laddove è disponibile una traduzione italiana il testo sarà citato direttamente con il titolo italiano, laddove non fosse tradotto, sarà citato in lingua originale. Si rinvia alla bibliografia posta alla fine del volume per i riferimenti precisi.
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ammirazione per la Storia della follia e il mio interesse ricco di riserve per Surveiller et punir, trovavo che, sebbene vi fosse in Foucault un pensiero nuovo del potere, che si teneva alla larga dal marxismo da una parte, e dalle teorie contrattualiste dall’altra, esso riduceva in realtà la politica alla sola questione del potere. In ciò che mi concerne, le opere che costituivano allora per me dei poli positivi erano da una parte il gran libro di Claude Lefort su Machiavelli (Le travail de l’oeuvre, Gallimard, Paris 1972), e dall’altra l’opera di Pierre Clastres che ho letto in quegli anni e che ci ha fatto scoprire l’esistenza delle società selvagge come società politiche, nella misura in cui si costituivano nella lotta contro l’emergenza di un potere separato, vale a dire contro lo Stato. In seguito, quando ho incontrato l’opera di Levinas, una domanda si è posta naturalmente: quest’opera aveva qualcosa da apportare alla riflessione sulla politica o bisognava collocarla, al contrario, come si tendeva a fare, solo dalla parte dell’etica, considerando anche che vi era in questo filosofo, se non un disprezzo, almeno una mancanza di considerazione della politica? Molto presto, quest’ultima posizione mi è apparsa del tutto inesatta. Da parte mia, sono rimasto infatti impressionato dal testo che Levinas aveva dedicato alla critica dell’hitlerismo nel 1934 nella rivista Esprit, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo». Mi aveva colpito il fatto che questo filosofo, che si diceva essere estraneo o indifferente ai problemi politici, aveva visto le cose con molta più perspicacia e precisione rispetto a dei pensatori che si consideravano specialisti della politica o delle lotte sociali e che, in realtà, non avevano assolutamente misurato ciò che rappresentava l’hitlerismo. A partire da quel momento, ho sempre pensato che Levinas
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avesse un senso del politico, come avrebbero confermato ai miei occhi alcuni testi di Difficile libertà (1976). L’altra dimensione che ho colto quasi subito, in quanto ho avvicinato Levinas attraverso la questione dell’utopia, è che vi erano in qualche modo due Levinas: un Levinas ritenuto un grande pensatore liberale, attaccato allo Stato di diritto e alla democrazia nel senso più classico del termine, e un altro Levinas, pensatore dell’utopia, che si è interessato in particolare a Ernst Bloch e a Martin Buber. Presto, dunque, il respiro e il gesto di quest’opera mi sono apparsi non solamente nella loro aspirazione utopica, ma nel loro tentativo di pensare la politica secondo un altro paradigma rispetto a quelli classici. Per esempio nel 1998 ho scritto un testo per mostrare che Levinas era l’autore di un vero «Contro Hobbes». A partire da questo «Contro Hobbes», ho pensato che si potessero cercare dei pensieri della politica che, avendo preso il loro punto di partenza in un’opposizione a Hobbes, aprissero in questo modo degli orizzonti inediti. Potreste precisare cosa significa per voi questa espressione ricorrente nel vostro proposito, «pensare il politico», dal momento che Levinas non formula un discorso esplicitamente politico? Per spiegarlo posso far appello a due grandi riferimenti. Il primo è Hannah Arendt, che si definiva come una sorta di fenomenologo. Nel suo testo «Heidegger a ottant’anni» (1969), tenta di descrivere ciò che è un pensiero vivente indicando che non si tratta di pensare su Platone, ma di pensare Platone, vale a dire di pensare, in modo rinnovato e tenendo conto della differenza dei tempi, i problemi che aveva tentato di pensare Platone. Ho sempre tentato di essere fedele a questo rifiuto di pensare su, come se si
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trattasse di un oggetto a noi esteriore, allorché pensare ciò che si chiama politico è anche pensare una dimensione della nostra esistenza collettiva nella quale siamo immersi. La seconda fonte di ispirazione, che tengo a menzionare, è Claude Lefort, il quale ugualmente intrattiene stretti rapporti con la fenomenologia, per via dei suoi legami con l’opera di Maurice Merleau-Ponty. Egli si è preso a cuore di definire l’esperienza del politico, o ciò di cui abbiamo esperienza con il politico, a partire da un’interrogazione di tipo fenomenologico che tenta di ritornare alla cosa stessa, il politico, lungi da ogni sociologizzazione e da ogni psicologizzazione. Claude Lefort usa il termine politico al maschile designando così, oltre all’istituzione politica del sociale, i principi guida di un certo modo della coesistenza umana; nei suoi termini, questo schema guida si dispiega come messa in forma, messa in senso, messa in scena dei rapporti sociali. Intendiamo che questa istituzione politica della coesistenza umana è posizione, meglio, presa di posizione rispetto alla divisione originaria del sociale, vale a dire sulla scia di Machiavelli, l’opposizione dei due caratteri, dei due desideri che fendono ogni città umana, divisa tra il desiderio dei Grandi di dominare e il desiderio del Popolo di non essere dominato. Da parte mia preferisco parlare della politica al femminile. Per essere chiari: io non accetto ciò nella prospettiva di una scienza empirico-analitica della politica, né definisco la politica come la pratica del potere, né come un insieme di rapporti di forza. No, torno ad Hannah Arendt, io penso la politica come una esperienza della libertà, nata da un’azione di accordo in cui si manifesta la condizione ontologica della pluralità. La politica, così intesa, al femminile, a partire dall’azione, si arricchisce di tutti i caratteri che una
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fenomenologia dell’azione rivela. Lungi dal portare ciò che chiamiamo politica verso la traduzione moderna di ciò che gli Antichi chiamavano regime, ossia un ordine inteso come schema guida, la nominazione della politica al femminile la piega verso la considerazione di un rapporto, di un legame politico fino al punto che, tanto più questo è posto sotto il segno della libertà, tanto più la politica così pensata si concepisce come il contrario del dominio, come una lotta continua contro il dominio. «Tenersi a distanza» [se tenir à l’écart], per riprendere un’altra delle vostre espressioni ricorrenti, rappresenta per voi, come per Levinas, una delle condizioni necessarie per pensare la politica, dal momento che la dimensione di ingiunzione in Levinas, di ingiunzione eccezionale e irriducibile, rientra in una esigenza ed in una responsabilità prime, prima di ogni pensiero del politico? Come ben sapete, ho dedicato la mia tesi all’utopia e gran parte di questo lavoro consisteva nel rivalutare il rapporto esatto di Marx con l’utopia. Marx non ha mai definito il suo pensiero come «socialismo scientifico» – questa formulazione è dovuta a Engels – ma più esattamente come «comunismo critico». Tentare di ripensare la dimensione utopica in Marx negli anni ’70, voleva dire necessariamente tenersi a distanza, tanto dall’althusserismo che da altre tendenze che riproducevano la vulgata secondo la quale l’utopia sarebbe un embrione della scienza marxista della storia. Insomma, ci sarebbe stato un passaggio dall’utopia a questa scienza e, anche se si credeva di poter conservare alcuni contenuti e proposte di Fourier, d’Owen, o de Saint-Simon, l’utopia come forma di pensiero era considerata come superata. Ero talmente lontano da questo modo di vedere che mi sono
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interessato al pensiero marxiano nel senso di M. Rubel e a dei pensatori marxisti – in particolare Marcuse – che non chiudevano la porta all’utopia, ma che al contrario la reinserivano nel sociale storico. Levinas aveva una grande ammirazione per Marx, anche se non vi si riferisce direttamente. In ciò che potremmo chiamare la sua tendenza ad un materialismo come critica dell’idealismo, quando tratta per esempio del motivo del godimento in Totalità e infinito (Martinus Nijhoff, 1961). Il materialismo di Levinas – sempre se posso chiamarlo così – non si identifica unicamente con un passato o un presente, è tensione permanente verso l’avvenire. Questa tensione non è strettamente individuale, concerne anche la collettività intera, l’uomo nel mondo. Essa è in tal senso dell’ordine del politico. Come Marx, Levinas apre il passato e il presente a degli orizzonti che trasformano il mondo. L’avvenire rappresenta in tal senso un vero «evento» (Ereignis), un po’ come in Ernst Bloch che infatti Levinas ha letto e ammirava. Da sempre ho intuito quella che chiamo la seconda dimensione in Levinas, che non è senza rapporto con la «nebulosa socialista». Penso per esempio che Tolstoj sia stato estremamente importante nel suo cammino, così come Dostoevskij del quale sappiamo che è stato fourierista durante un periodo della sua vita. Ho dunque sempre pensato che ci fossero dei punti di passaggio, e voi confermate ciò che presentivo dal momento che evocate il suo grande rispetto per Marx. Non mi sono mai impegnato in una ricerca precisa di tale questione mentre sono sempre stato sensibile al lato materialista del suo pensiero. Non ho mai creduto che il suo rapporto con Ernst Bloch rientrasse in una sorta di fantasia come quelle che i grandi pensatori talvolta hanno, ma che,
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al contrario, si trattasse di un dato costitutivo. Ci ritorno tra un istante. Una delle mie preoccupazioni consisteva nel domandarmi cosa un pensiero dell’emancipazione poteva ricavare dall’opera di Levinas. Ciò che non ho potuto chiarire, invece, è il suo eventuale rapporto con la Scuola di Francoforte. Tra i pensatori collegati a questa Scuola, sono stati soprattutto Walter Benjamin e Ernst Bloch ad aver attirato la sua attenzione. Ma vorrei ora interrogarvi su un aspetto che potrebbe sembrare di primo acchito aneddotico, ma che in definitiva non lo è affatto, ossia sulle circostanze del vostro incontro con l’opera di Emmanuel Levinas. Dal momento che parliamo del rapporto di Levinas con Marx e con un pensiero dell’emancipazione, avrei piacere nel citare un aneddoto che ha per cornice una conversazione con Paul Ricoeur, durante un convegno su Levinas all’Università di Namur. Nel corso di questo convegno, uno dei partecipanti ha tentato un avvicinamento tra Levinas e Habermas. Il mattino, avevamo già dovuto subire una comunicazione su Levinas e John Rawls. Sono allora intervenuto un po’ con vigore, decisamente irritato, sostenendo che fosse più interessante leggere un autore nella sua singolarità piuttosto che cercare dei pretenziosi accostamenti con altri autori che riscuotono in un dato momento un gran successo. In quel momento ho intravisto Ricoeur e, pensando alla sua ammirazione per Habermas, mi dico che non deve senz’altro apprezzare molto questo intervento. Ma al contrario, viene subito verso di me e mi dà la sua approvazione giudicando anch’esso aberrante il rapporto stabilito tra Levinas e Habermas. «Ma sapete a chi mi fa pensare?», aggiunge. «No… », gli dico. «A Gesù… ». E per motivare il
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suo proposito mi racconta l’episodio seguente: «Un giorno eravamo alla Sorbona, in un’assemblea. Levinas era presente. Esaminavamo i problemi che ci venivano posti e Levinas, in modo molto ragionevole è intervenuto a più riprese. La sera, rientrando a casa, leggo un testo senza guardare qual è il nome dell’autore e finisco col chiedermi, un po’ stupito: “ma chi è l’‘arrabbiato’ che ha scritto questo testo?”. Verifico e mi accorgo che era Levinas!» Ma per tornare ai percorsi intrapresi per incontrare la sua opera e il suo pensiero, direi innanzitutto che sono senza dubbio un po’ insoliti. Come ho già ricordato, la mia tesi verteva sulle diverse forme dell’utopia socialista nel XIX secolo e sui rapporti tra Marx e l’utopia. Mi sono dunque sforzato di pensare alla distanza delle diverse ortodossie e di mostrare che persisteva in Marx una dimensione utopica, che non era semplicemente una ripresa di alcuni temi utopici, ma un rapporto, in quanto «previsione morfologica», con la forma stessa dell’utopia. Cosa che aveva a che vedere con ciò che Derrida chiamerà più tardi il messianismo. Nel mio lavoro sulle utopie ho incontrato, come è noto, l’opera misconosciuta del «geniale Pierre Leroux» – secondo la formula di Marx, che non aveva affatto l’abitudine di qualificare in tal modo i suoi contemporanei. Pierre Leroux vedeva nel socialismo utopico l’aurora del socialismo o ciò che avrebbe potuto chiamare «la terza ondata dell’emancipazione». Ora, quello stesso Pierre Leroux che pensava controcorrente la questione dell’utopia ha pubblicato nel 1840 due robusti volumi intitolati De l’humanité. Vedeva nell’umanità un infinito che si manifestava nella Storia e arrivava, in qualche modo, fino a raddoppiare le società umane in quanto società invisibile. È da qui che venivo quando ho incontrato l’opera
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di Levinas. Come cercavo di pensare la specificità, la positività o meglio ancora l’inventività dell’utopia, mi ero orientato verso due pensatori essenziali di questo punto di vista, Ernst Bloch, l’autore di Spirito dell’utopia (1918, 1923), Il principio speranza e Martin Buber, l’autore di Sentieri in utopia (1949). Ora Levinas ha scritto su questi due pensatori dell’utopia. A proposito di Bloch, un saggio intitolato «Sur la mort dans la pensée de Ernst Bloch» pubblicato nel 1976 nel volume collettivo Utopie, marxisme selon Ernst Bloch curato da Gérard Raulet. Levinas ha poi ripreso questo testo nella sua raccolta Di Dio che viene all’idea (1982). Su Martin Buber, Levinas ha firmato una breve ma essenziale prefazione al libro che ho già menzionato e che è stato tradotto in Francia nel 1977 con il titolo Utopie et socialisme. Anche se all’epoca non avevo colto tutta l’importanza del rapporto di Levinas con Ernst Bloch, fui colpito dal suo avvicinamento a due grandi pensatori dell’utopia del XX secolo, verso due grandi riabilitazioni dell’utopia. Credo che la lettura dei testi di Levinas mi abbia mostrato che la questione dell’utopia affiorava spesso nella sua opera, anche se in quel momento non ne avevo percepito tutte le armonie. Ciò mi bastava, grazie agli incoraggiamenti di Jacques Rolland, per tentare, alla Conferenza di Cerisy, nel corso dell’estate del 1968, in presenza di Emmanuel Levinas, di presentare una comunicazione che aveva per titolo «Penser l’utopie autrement». Questo testo compare nel Cahier de L’Herne dedicato a Levinas (1991) e curato da Catherine Chalier e me. In seguito, non mi sono fermato all’utopia. Mi sono, invece, avvicinato a temi apertamente politici come la riflessione sull’hitlerismo, o ancora la questione di un «Contro Hobbes» in Emmanuel Levinas. La dimensione politica e l’estrema acutezza
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che mi avevano colpito nelle sue «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo» (Esprit, 1934) non mi sono parse come delle meteore nel suo percorso. Se ne trovano degli equivalenti in Difficile libertà o in alcune cronache che fanno fronte all’evento. Ricordiamo il grande convegno internazionale che avete organizzato al Collège International de Philosophie su Heidegger, al quale siete riuscito a convincere Levinas a partecipare. Era nel 1987 credo, voi eravate allora Presidente del Collège International de Philosophie. Heidegger era una figura molto contestata per ragioni politiche, a causa del suo passato nazista. Se ricordo bene, far venire Levinas non fu cosa facile e voi siete riuscito a convincerlo. Ora, lui ha partecipato a quel convegno. Il titolo del suo intervento era: «Morire per». Anche in questo caso, vorrei chiedervi cosa è successo, in quanto fu un momento storicamente molto significativo e commovente. Nell’ambito del Collège international de philosophie, Éliane Escoubas ed io avevamo deciso di organizzare un Convegno su Heidegger, cosa che comportava alcuni rischi. Avevamo deliberatamente scelto come titolo «Questions ouvertes». Per riprendere le parole di Éliane Escoubas, si trattava di fare un’esperienza con Heidegger, secondo una modalità etica tale per cui noi non saremmo né gli eredi di un’autorità, né dei giudici; o ancora, si trattava di «spiegarsi con Heidegger». Ora per portare a buon fine questa esperienza con, la presenza di Emmanuel Levinas ci sembrava infinitamente preziosa nella misura in cui era un superamento in atto dell’alternativa «heideggeriano/anti-heideggeriano». È stato Jacques Rolland a riuscire a convincere Emmanuel Levinas a fare al Collège questo dono pressoché senza precedenti in quanto lui non aveva mai voluto esprimersi pub-
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blicamente rispetto ad Heidegger, ad eccezione di una volta, mi sembra alla Sorbona. Far venire Levinas non fu in effetti una cosa da poco, come avete appena ricordato. Tre giorni prima dell’apertura del convegno, mi ha telefonato per farmi sapere che lui non sarebbe venuto se io non avessi accettato di presentarlo. Esigenza tanto inattesa quanto opprimente! Che cosa poteva voler dire «presentare Levinas» al pubblico del Collège international de philosophie? Io ho tentato di argomentare con lui, ma invano. Per uscire da questo vicolo cieco, ho dovuto accettare questa condizione. Così ho tentato, in un piccolo testo che ha per titolo «Rencontre silence», di ritracciare il cammino levinassiano rispetto a ciò che Élisabeth de Fontenay chiama «torsione all’infinito». Il primo movimento di questa torsione, nel caso di Levinas, mi sembrava essere il suo abbagliamento, il suo entusiasmo giovanile, la sua ammirazione a proposito di Heidegger e del suo incontro con lui a Friburgo nel 19281929. «Ho subito capito che è uno dei più grandi filosofi della storia», dichiara a François Poirié nel 1986. Nel 1931 il suo articolo «Fribourg, Husserl et la phénoménologie» era comparso nella Revue d’Allemagne et des pays de langue allemande. L’anno precedente, di ritorno in Francia, aveva pubblicato la sua tesi, Teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl (1930). Nel 1932 aveva dato alla Revue philosophique un articolo pionieristico, «Martin Heidegger e l’ontologia». Secondo movimento della torsione: l’opacità, l’offuscamento, l’inconcepibile, perfino l’innominabile. In merito ai rapporti di Heidegger con il nazismo, Levinas dice il suo sgomento, la sua incomprensione, ma anche il rifiuto categorico della dimenticanza. Da ciò il silenzio conservato, salvo interruzioni eccezionali. Sempre nell’intervista
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con François Poirié, dichiara: «È la parte più nera dei miei pensieri su Heidegger e senza dimenticanza possibile…»; O ancora: «Io certo non dimenticherò mai Heidegger nei suoi rapporti con Hitler. Anche se questi rapporti non furono che di breve durata, sono per sempre…». Lo sgomento di Levinas è tanto più vertiginoso che, sul momento stesso, non ha rinunciato ad una volontà di intelligibilità. Direi anche che ha messo alla prova le potenzialità critiche della fenomenologia rivolgendosi verso i sentimenti elementari suscettibili di rivelare la disposizione affettiva fondamentale dell’hitlerismo, vale a dire l’accettazione dell’incatenamento radicale, l’esaltazione del fatto brutale dell’essere, del fatto di essere «inchiodato», per riprendere i termini stessi di Levinas. Da ciò l’ontologia del nazismo che si situa in rottura con la storia filosofica dell’idea della libertà in Europa. Mi riferisco all’articolo tanto innovatore, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo», pubblicato in Esprit nel novembre 1934. Durante il nostro dialogo preliminare al convegno su Heidegger, confidai a Levinas la mia intenzione di far riferimento a quel testo nella mia presentazione. Levinas reagì in modo estremamente negativo, confessandomi che dopo la catastrofe della Seconda Guerra mondiale e lo sterminio degli Ebrei da parte dei nazisti, lui non sopportava più il titolo di quell’articolo, se non il suo contenuto. A ciò io obbiettai che non vi era alcuna ambiguità in un tale titolo, e nemmeno nell’articolo: per ogni lettore in buona fede, non si trattava di analizzare la filosofia hitleriana, che non esiste, ma di tentare una interpretazione filosofica del nazismo a partire da ciò che Levinas chiama «il risveglio dei sentimenti elementari». È vero che i lettori non sono sempre in buona fede e che alcuni hanno la tendenza a confondere, per quan-
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to la differenza si mostri enorme, la filosofia dell’hitlerismo e la filosofia hitleriana. Qual è secondo voi la singolarità di Emmanuel Levinas nel contesto filosofico contemporaneo? Sappiamo che in Levinas, l’etica si dispiega fuori dal campo dell’ontologia, e il rapporto con altri, con l’uno-per-l’altro non è più nell’ordine della manifestazione, ma dell’assegnazione, al di là della tematizzazione che rischierebbe di attenuare l’an-archia, secondo una modalità che sempre disfa la coscienza auto-posizionale, che consiste del Disdire ciò per cui il Dire sarebbe ripreso nel Detto. Non vedere le implicazioni politiche, non comprendere che in Levinas la politica è lavorata dall’etica, equivarrebbe a mancare una dimensione essenziale della sua opera. Se si vuole accedere alla singolarità di Emmanuel Levinas, bisogna iniziare col «debanalizzare» la sua opera che è stata oggetto, questi ultimi anni, di una banalizzazione intollerabile. Per banalizzazione intendo il processo con il quale si riduce un’opera filosofica ad un insieme di temi o ad una tematizzazione. Ora, come ha ricordato Gilles Deleuze, la filosofia è l’arte di formare, di inventare, di creare dei concetti nuovi. Così Levinas non è il pensatore del dono di sé come lo si intende qua e là, ma è il filosofo che ha inventato dei concetti inediti come prossimità, an-archia, sostituzione, o che ha trasformato dei concetti classici come l’etica, l’al di là, il terzo. Quest’opera produce un testo filosofico in seno al quale l’esperienza del pensiero che inventa dei concetti è indissociabile da una scrittura. Se ci si attiene al fatto che la tradizione filosofica tende a ridurre l’altro al Medesimo, la scrittura di Levinas lavora per aprire delle brecce nel corpo della totalità, tali che la filosofia, sormontando la sua allergia
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all’altro, possa, all’inverso della tradizione, accogliere l’altro, lasciarlo emergere. Delle brecce di esteriorità. Si può resistere a questa banalizzazione prendendo la via di quella che Paul Ricoeur chiamava «la più grande difficoltà». Per esempio, se la relazione con altri non è ontologia, ne consegue un concetto di etica che rompe con la tradizione, la quale deduceva l’etica dalla conoscenza o dalla Ragione. Da ciò deriva in Levinas una concezione rinnovata, perfino rivoluzionaria dell’etica. Lungi dal trarre la sua origine da un universale, dalla comprensione o dalla conoscenza, l’etica appare nella relazione specifica in cui l’Io incontra il Tu: «il luogo e la circostanza originale dell’avvenimento etico» (Di Dio che viene all’idea, p. 175). Levinas dichiara: «L’etica comincia nell’Io-Tu del dialogo in quanto l’Io-Tu significa il valore dell’altro uomo… » (ibid., p. 177). Così dire solamente di Levinas che è un pensatore dell’etica, senza altre precisazioni, non significa niente, in quanto equivale a ignorare lo scarto che ha realizzato rispetto alla concezione tradizionale dell’etica. «Il fatto etico non deve nulla ai valori, sono i valori che ad esso devono tutto» (ibid., p. 175). Si potrebbero, nello stesso modo, invocare le relazioni di altri e del terzo, il loro groviglio, dato che siamo in presenza di una pluralità di intrighi che dà vita ad un tessuto di complessità. Un’altra via per resistere a questa banalizzazione è ricordare che Levinas partecipa a quello che Franz Rosenzweig chiamava «il nuovo pensiero», in rottura con la tradizione dell’idealismo. Nuovo pensiero per il fatto che esso dà infine diritto a ciò che il pensiero tradizionale teneva all’esterno di se stesso; così ne andava del linguaggio, dell’altro o della morte. La singolarità di Levinas proviene da questo, che la sua filosofia prende le distanze rispetto all’autosufficienza
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del per sé, all’autarchia della coscienza di sé racchiusa in se stessa. Allo stesso tempo scopre il dialogo non come esperienza, ma come «avvenimento dello spirito almeno altrettanto irriducibile ed altrettanto antico che il cogito» (ibid., p. 173). Questa nuova filosofia del dialogo, nel caso di Levinas, porta ad una vera scoperta. Secondo Jean-François Lyotard, si tratta di un apporto inestimabile attraverso il quale Levinas ha rotto con la tradizione dominante della filosofia occidentale: «…ogni pensiero non è sapere. È molto chiaro. E la filosofia non è necessariamente, ed in ogni caso non esclusivamente […] un genere di discorso che ha a che fare con il sapere. Il pensiero di Levinas viene da qui: perché improvvisamente scopre un dominio dell’esperienza, o della riflessione che non è oggetto di sapere; ma del quale si può dire qualcosa, anche se non potrà mai essere il sapere» (Autrement que savoir, Emmanuel Levinas, Osiris, 1988, p. 89). Così Levinas afferma: «La prossimità, la socialità stessa, è “altrimenti che sapere” che la esprime». Effettuata questa debanalizzazione, si è in una posizione migliore per resistere all’ideologizzazione del pensiero di Levinas che gli attribuisce a torto una priorità incontestata dell’etica, tanto da vederci il pensatore del «tutto etico». Ora la tesi del «tutto etico» o della priorità assoluta dell’etica fa violenza al pensiero di Levinas semplificandolo ad oltranza. A dire il vero, dietro questa tesi se ne nasconde un’altra secondo la quale l’uscita dal totalitarismo dovrebbe provocare presto un disprezzo della politica, come se il totalitarismo consistesse in un eccesso, una escrescenza della politica e non nella sua distruzione sistematica, fino a pretendere di far scomparire la condizione politica degli uomini. Evidentemente, questa cattiva interpretazione della
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dominazione totalitaria è ciò che informa e anima la squalificazione della politica che va di pari passo con una sopravvalutazione dell’etica. Ma Levinas si tiene lontano da queste semplificazioni. Il saggio del 1934, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo», traduce una sensibilità peculiare alla dimensione politica nel fatto che percepisce nell’hitlerismo una distruzione della politica che si manifesta con il rigetto dell’idea di libertà e la messa in primo piano della «concatenazione», come figura insigne dell’autenticità. Se è vero che Levinas non è un filosofo politico, è vero anche che non ha mai cessato di ricordare «l’importanza estrema nella molteplicità umana della struttura politica della società sottoposta alle leggi e quindi alle istituzioni in cui il per-l’altro della soggettività – in cui l’io – entra con la dignità di cittadino nella reciprocità perfetta delle leggi politiche essenzialmente egalitarie o tenute a diventarlo» («Pace e prossimità» in Alterità e trascendenza, p. 122). Vi ritorna con insistenza in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza al termine di una riflessione sulla giustizia: «Non è perciò senza importanza sapere se lo Stato egualitario e giusto in cui si compie l’uomo (e che si tratta di istituire, e, soprattutto, di mantenere) proceda dalla guerra di tutti contro tutti o dalla responsabilità irriducibile dell’uno per tutti, e se possa fare a meno di amicizie e di volti. Non è senza importanza saperlo affinché la guerra non divenga instaurazione di una guerra con buona coscienza» (Altrimenti che essere…, p. 199). Così pensata, la politica, con la presa in considerazione del terzo, diventa il tempo del passaggio dalla dissimmetria della relazione etica alla reversibilità, la reciprocità tra cittadini. È allora legittimo sostenere che Levinas, lungi dall’essere ricorso all’etica per svalutare la politica, inventi piuttosto, tra
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le due sfere, un’articolazione originale che miri a ridare alla politica la sua consistenza e la sua dignità, a rinnovare, in qualche modo, la questione politica. Ritorniamo alla celebre frase di Totalità e infinito: «Ma la politica lasciata a se stessa porta in sé la tirannia». La proposta levinassiana, attraverso il rapporto che instaura con la giustizia e più profondamente con la prossimità, ha per effetto quello di «relativizzare» la politica ponendola e pensandola nei confronti di un’altra istanza, l’etica, che nasce dalla responsabilità per altri. Relativizzare non equivale in questo caso a ridurre. Si effettua qui un doppio movimento, in quanto è paradossalmente da questa relativizzazione che emergono, grazie ad un effetto di ritorno, la specificità irriducibile della politica e ciò che le conferisce dignità. Invenzione di Levinas, poiché egli riesce, in seno alla modernità, ad elaborare un dispositivo almeno formalmente vicino a quello dei filosofi politici classici che, pensando la politica rispetto alla metapolitica – l’eccellenza, la ricerca del viver bene, la vita giusta – le conferisce, grazie a questa relativizzazione, irriducibilità e differenza (Michel-Pierre Edmond, Philosophie politique, Masson, 1972). Allo stesso tempo Levinas evita i due scogli che minacciano la politica, o piuttosto il pensiero della politica nella modernità: sia il tecnicismo che riduce la politica ad una téchne che permette di «gestire» le contraddizioni che attraversano una data società – ai nostri giorni «la gouvernance» –, sia l’assolutizzazione nel senso in cui la dissoluzione del complesso teologico-politico rincentra la politica rispetto al suo asse, su se stessa, la autonomizza fino a far nascere in alcuni, come Feurbach, la vertigine della politica che si trasforma in religione.
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Senza lanciarmi in uno studio dei rapporti tra Levinas e Heidegger e senza ridurre questi rapporti al contrasto tra un’ammirazione prima e un silenzio senza pecca suscitato dall’adesione di Heidegger al nazismo, formulerò l’ipotesi secondo la quale l’opera di Levinas si è costruita come una replica determinata all’opera di Heidegger e a ciò che tanto meno sembrava accettabile in quest’opera, tanto più lo impegnava in vie oltremodo pericolose. Vi ricorderete di questa critica lapidaria: in Heidegger il «Dasein non ha mai fame». Critica che non dovrebbe stupirci da parte dell’autore di una conferenza su I nutrimenti e di un articolo essenziale dedicato alla fame. Voglio dire che un lavoro dello stesso genere di quello compiuto da Jacques Taminiaux su Hannah Arendt, nel suo libro La fille de Thrace et le penseur professionnel, nel quale presenta l’opera di Hannah Arendt come una replica deliberata ad Heidegger – per esempio l’essere per la nascita opposto all’essere per la morte – potrebbe essere intrapreso con successo nel caso di Levinas, aprendo così un accesso fruttuoso alla singolarità della sua opera. Osservo con piacere che nell’intervista che Jacques Taminiaux vi ha recentemente accordato per la rivista Europe (novembre-dicembre 2011): «Une autre Phénoménologie» è esattamente nel registro della replica a Heidegger che Jacques Taminiaux presenta la differenza dell’opera di Emmanuel Levinas, in particolare in Totalità e infinito. Si scorgono abbastanza facilmente, mi sembra, quelli che potrebbero essere alcuni degli orientamenti della replica levinassiana. Levinas, lettore di Ernst Bloch, insiste con forza nei suoi corsi sulla rivoluzione filosofica effettuata dall’autore del Principio speranza, lo invita cioè a non pensare il tempo a partire dalla morte, bensì a pensare la morte a partire
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dal tempo. Gesto filosofico considerevole che è un modo di «detronizzare la morte» e di fargli abbandonare la sua posizione di «padrone assoluto», in quanto la morte, seguendo Ernst Bloch, sarebbe ormai presa, compresa nella dimensione del tempo, messa a confronto, subordinata in qualche modo al tempo, fino a permettere a Levinas di interrogare: «Morte, dov’è la tua vittoria?». Levinas dichiara, a partire da questa assegnazione del tempo all’utopia: «Non è la morte che, in Bloch, apre l’avvenire autentico, ed è in rapporto all’avvenire dell’utopia che la morte stessa deve essere compresa». («Marxismo e utopia» in Di Dio che viene all’idea, p. 59). Possiamo arrivare fino a pensare che Levinas, sulla scia di Ernst Bloch, sostituirebbe al Dasein, l’essere per la morte, l’umano utopico, l’essere per l’utopia? O ancora, consideriamo la conferenza di Levinas, «Morire per», tenuta al Convegno su Heidegger del 1987 al Collège International de philosophie. Possiamo scorgere senza fatica che questo «Morire per», o questo Morire insieme, con la preoccupazione per la morte di altri, ha di gran lunga la meglio, agli occhi di Levinas, sulla morte autentica. Lui non è indifferente all’osservare che, in questo testo, Levinas oppone alla morte – «poter essere più proprio» in cui tutti i rapporti ad altri sono sciolti – un versetto biblico secondo il quale il re Saul e suo figlio Gionatan non sono stati separati nella morte. Aggiunge Levinas: «Come se, contrariamente all’analisi heideggeriana, nella morte non si dissolvesse ogni relazione ad altri» («Morire per…» in Tra noi…, p. 242). Come se la saggezza biblica apportasse una smentita di Heidegger. Possiamo, a partire da questo punto, parlare di una critica ebraica di Heidegger? Non solo una critica, ma una critica che troverebbe la sua ispirazione nella tradizione ebraica, o
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in ciò che Levinas, a proposito di Ernst Bloch, chiama dei «motivi nettamente ebraici o ebraicamente accentuati». Anche su questo punto occorre essere estremamente prudenti e non cedere alla tentazione di ricondurre tutto al giudaismo. Ricordo che durante una serata di omaggio alla sua opera, Emmanuel Levinas ha reagito aspramente quando Jean-François Lyotard, grande ammiratore della sua opera, lo qualificò in modo elogiativo come un «pensatore ebraico». Levinas replicò nel modo più netto che lui si considerava innanzitutto un filosofo. Certo altre analisi, e perfino altri concetti, ci introdurrebbero alla singolarità Levinas. Penso, per esempio, al concetto di an-archia che lo colloca a distanza rispetto ai filosofi del nostro tempo, poco preoccupati di cercare un’idea dell’annarchia che non si riduca alla sua significazione politica.
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L’utopia e l’epoché fenomenologica
Danielle Cohen-Levinas: voi avete spesso fatto riferimento alla dimensione utopica in Levinas, più esattamente alla dimensione che si situerebbe tra l’epoché fenomenologica e l’utopia propriamente detta o, in modo diverso, tra una dialettica in sosta e un movimento ininterrotto. Vi chiedo di precisare ciò che richiede questa situazione esemplare e senza dubbio unica che Levinas occupa. D’altronde piuttosto che di dimensione utopica, voi parlate spesso della «conversione utopica». Cosa implica questa conversione come movimento, passaggio da uno stato ad un altro, da un ordine ad un altro, o ancora da un idioma ad un altro? La parola «conversione» potrebbe lasciar supporre che vi sia una sensibilità o una tonalità religiosa, perfino teologica – dimensione rispetto alla quale credo di poter affermare che voi vi dissociate radicalmente. Miguel Abensour: Permettetemi di cominciare con la domanda relativa alla conversione utopica. Arriverò a Levinas in seguito. Ho scelto il termine «conversione» che per me
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non ha alcuna connotazione religiosa – si può pensare alla conversione utopica sul modello della conversione filosofica, la riorientazione dello sguardo secondo Platone – per rompere con le definizioni dell’utopia vista dall’esterno, quelle che possiamo leggere nei dizionari. Ai miei occhi, è importante pensare l’utopia innanzitutto come un’esperienza specifica che implica un movimento di conversione all’utopia. Perché non ci interroghiamo sugli atteggiamenti, gli impulsi e gli affetti di quelle e di quelli che concepiscono una «buona novella utopica» – la speranza di una società migliore? Perché non ci interessiamo a cosa succede in loro? L’utopia è quella disposizione che grazie ad un esercizio dell’immaginazione non teme, in una data società, di trascenderne i limiti e di inventare ciò che è differente. La conversione utopica, in quanto esperienza, definisce uno spostamento, o un movimento con il quale l’uomo o il collettivo si allontana dall’ordine esistente per rivolgersi verso un mondo nuovo, verso «l’espressione immaginativa di un mondo nuovo» nei termini di Marx a proposito degli utopisti del suo tempo. Ora, questo movimento, questo spostamento, da un polo ad un altro, da una topia ad una utopia, per riprendere la tesi di Gustav Landauer in La Révolution, provoca presto una svolta che si manifesta attraverso la disaffezione per l’ordine esistente seguita da una nuova investitura per la comunità altra, a venir, o per una nuova forma di legame tra gli uomini, il legame umano. Questa svolta, nel cuore della conversione utopica, non si dà come bersaglio primario un padrone temibile, un padrone quasi assoluto per quanto sembra condividere con la morte, a torto, l’ineluttabilità? Intendo designare con questo l’ordine stabilito che, nella sua illusoria oggettività, si apparenta al regno delle cose.
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Padrone di una forza schiacciante che ci si impone con la potenza di ciò che è come è e non altrimenti. Nessun dubbio che l’influenza dell’ordine stabilito forgi delle soggettività più inclini alla rassegnazione e alla schiavitù, che all’utopia e alla passione per la libertà. Il problema, se vi è problema, è che quest’ordine stabilito non è un problema, sembra che vada da sé. Questa influenza dal volto indiscernibile rientra in ciò che potremmo chiamare un dogmatismo pratico, anche ontologico, per quanto sembra confondersi con l’essere. Impregna i nostri giorni e le nostre notti, stringe la nostra vita quotidiana, la rinchiude in confini che hanno l’apparenza dell’insormontabile e dai quali sembra inconcepibile di evadere. Questo dogmatismo freddo dell’ordine stabilito non costituisce forse la materia sulla quale deve lavorare la conversione utopica? Riprendiamo i termini di Gustav Landauer. La conversione utopica si allontana da una topia, da un ordine stabilito, dalla congiuntura di uno spazio e di un tempo determinati per rivolgersi verso l’utopia, un luogo di nessun posto e un tempo di alcun tempo, indeterminati. Come se il movimento di questa metamorfosi fosse quello di pervenire a disimparare l’attaccamento ad un certo ordine stabilito, al punto di staccarsene per investire, non un nuovo ordine, ma, grazie a questa sospensione dello spazio e del tempo, per tentare la sperimentazione aperta di un nuovo essere-nel-mondo, di un nuovo essere insieme nel mondo. Lasciare libero corso allo scarto e all’invenzione dà accesso a un «disordine nuovo» ed alla possibilità di relazioni umane che non sono mai esistite per usare un’espressione di Saint-Simon. Invenzione che è indissociabile dal crollo dei riferimenti simbolici propri all’ordine abbandonato. Se si tenta di rispondere alla domanda circa il come della conver-
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sione utopica, possiamo, in modo generale, al di là dell’idea di crisi, percepire in questa conversione utopica un movimento complesso che ogni volta mira a uscire da un «sonno dogmatico» e a conoscere finalmente la veglia o il risveglio? È allora che mi sono sforzato di valutare due vie distinte per giungere allo stesso scopo – l’uscita da un sonno dogmatico – vale a dire l’epoché fenomenologica da una parte, e l’immagine dialettica, frutto di una metamorfosi dell’utopia, dall’altra; Levinas e Walter Benjamin. Su questo punto incontriamo Levinas. Di quest’ultimo tratteniamo e meditiamo una frase essenziale per il fatto che essa getta improvvisamente una passerella tra l’epoché fenomenologica e l’utopia. Infatti Levinas chiede: «La faccia visibile di questa interruzione ontologica – di questa epoché – non coincide forse con il movimento “per una società migliore”?» (Di Dio che viene all’idea, p. 23). Questa relazione che sembra essere a senso unico non lo è affatto. Intendiamo dire che da una parte l’utopia rende percepibile e manifesta l’interruzione ontologica, l’epoché, e inversamente l’epoché fenomenologica permette di comprendere il movimento interno dell’utopia, in breve la conversione utopica. Altrimenti detto, se la faccia visibile dell’interruzione ontologica (l’epoché) è il movimento verso una società migliore (l’utopia), la faccia intelligibile del movimento verso una società migliore (l’utopia) non è forse l’interruzione ontologica (l’epoché)? Da un lato quando si va dall’epoché all’utopia, si scopre come l’epoché si manifesta, appare; dall’altra, quando si va dall’utopia all’epoché si percepisce come l’utopia funziona o il come della conversione utopica. In un caso l’interruzione ontologica, l’interruzione dell’essere che tende a perseverare nel suo essere, il conatus – ma anche l’interruzione del dogmati-
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smo ontologico dell’ordine stabilito che sembra confondersi con l’essere stesso –, rende possibile un’uscita dall’essere, un altrimenti che essere e allo stesso tempo il disinteressamento e l’avvenire del per-l’altro, della responsabilità per altri, ciò che anima e nutre la vis utopica secondo Levinas. Questi infatti strappa l’utopia alla scienza, alla conoscenza delle «leggi della storia» o della società, a ciò che rientra nell’ambito della comprensione, per situarla ormai nell’ambito dell’incontro. Nell’altro caso, grazie al confronto con l’epoché, si diventa in grado di comprendere come si mette in movimento e in opera l’utopia, il suo principio in qualche modo. L’utopia funziona o può funzionare come epoché: è grazie all’interruzione o la sospensione che effettua e che la costituisce che essa può trascendere ciò che sembra andare da sé, ma non va da sé, che essa può elevarsi al disopra del cosiddetto reale, venirne a capo, al punto da lasciare avvenire ciò che è differente. A dire il vero, possiamo concepire una utopia senza epoché? Si sarebbe quasi tentati di fare un gioco di parole con il sottotitolo dell’utopia di William Morris, «an epoch of rest» e di trasformarlo in «an épochè of rest». Qualcosa come l’epoché fenomenologica è dunque nel cuore della conversione utopica. Non sarebbe forse legittimo percepire nella conversione utopica e nella sua messa tra parentesi dell’ordine stabilito, della concatenazione delle cause e degli effetti di questo mondo, un gesto e dei movimenti analoghi a quelli della fenomenologia che sospende «la tesi del mondo»? Non avremmo delle buone ragioni, fino a un certo punto, descrivendo la conversione utopica in termini di epoché, a considerare la possibilità di una «epoché utopica»? La conversione utopica per il fatto che procede ad una sospensione dell’ordine stabilito così com’è e non al-
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trimenti, ossia ad una sospensione dello spazio e del tempo, ad una sospensione della storia, si avvicina in modo considerevole all’epoché fenomenologica, come se l’utopia a dispetto della specificità del suo oggetto inventasse a sua volta una forma di riduzione che gli è propria. Non vi è dunque motivo di stupirsi che la sospensione dell’ordine stabilito possa generare degli effetti in qualche misura comparabili a quelli della riduzione fenomenologica così come vengono descritti da Levinas nel testo «La filosofia e il risveglio». Vi mette in luce la radicalità del gesto husserliano nel fatto che si tratta per Husserl di opporsi alla degenerazione del senso, alla pietrificazione del sapere nei confronti del pensiero vivente. Levinas non ha paura di svelare il carattere rivoluzionario della riduzione facendo ricorso deliberatamente ad un vocabolario politico. Attraverso la sua radicalità, il gesto husserliano, simile a quello dei rivoluzionari, ha come mira quella di ridare vita alle voci ridotte al silenzio, represse dal sapere del mondo: «È questa la rivoluzione della Riduzione fenomenologica – rivoluzione permanente. La Riduzione rianimerà o riattiverà questa vita dimenticata o resa anemica nel sapere […]. Sotto il riposo in sé del Reale, riferito a se stesso nell’identificazione, sotto la sua presenza, la riduzione disvela una vita contro la quale l’essere tematizzato, nella sua sufficienza, avrà già recalcitrato e che esso avrà ricalcata apparendo. Intenzioni assopite risvegliate alla vita riapriranno gli orizzonti scomparsi, sempre nuovi, turbando il tema nella sua identità di risultato, risvegliando la soggettività dall’identità in cui giace nella sua esperienza». («La filosofia e il risveglio» in Tra noi..., p. 115s). Possiamo rintracciare dei movimenti analoghi nell’utopia? La riduzione utopica non ha tra le altre come mira quella
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di riattivare i sogni dei vinti, di lottare contro la debolezza d’appetenza, di ridare vita agli impulsi utopici che hanno condotto alla rivolta; non ha per oggetto di rianimare a sua volta l’esigenza di uguaglianza che attraversa la storia e di rigettare l’intollerabile divisione tra «padrone e servo»? Contro la saggezza storica, il sapere pietrificato delle nazioni che pretende di dettare legge all’umanità e di farla stare nel posto che gli si assegna, l’epoché utopica non lavora anch’essa «per risvegliare delle intenzioni assopite», per «riaprire degli orizzonti scomparsi», contro gli «orizzonti insuperabili», che le classi dominanti decretano per rinchiudere meglio i desideri delle classi dominate? Questa conversione utopica non cerca forse di risvegliare le soggettività che hanno talmente interiorizzato le costrizioni dell’ordine stabilito al punto che se gli capita di concepire dei sogni utopici, sono tentati di respingerli il più presto possibile, in nome di una pretesa ineluttabilità dell’ordine stabilito? Quando la riduzione diventa intersoggettiva, non si accontenta di infirmare, di rifiutare, ma essa può rivelare una dimensione insospettata, vale a dire «un insieme di relazioni umane appena intravisto», come se la messa a distanza dell’«odiosa ipotesi» di Hobbes – la guerra di tutti contro tutti –, incrostata, oh quanto, nella saggezza delle nazioni, lasciasse improvvisamente il campo libero all’apparizione di un’altra figura dell’umano, al contrario delle evidenze che reggono e addormentano il mondo. È ancora necessario che la riduzione arrivi a compiere un salto, a rendersi disponibile ad una nuova modalità del risveglio, in breve a concepire nella rottura con la tradizione filosofica un pensiero che non sia sapere, ma «altrimenti che sapere». Ora per coloro che come Levinas strappano l’utopia alla comprensione e la
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restituiscono giustamente alla relazione Io/Tu, dalla parte dell’incontro, ricavato dalla prossimità, dal fatto del prossimo, l’utopia raggiunge la riduzione intersoggettiva al punto da confondersi con essa, tanto essa conosce degli impulsi in affinità, la rinuncia alla primalità dell’io ed alla sua volontà egemonica. Nata dalla prossimità, l’utopia, lungi dall’essere innanzitutto un progetto intenzionale, è prova non intenzionale del «per-l’altro», prova raddoppiata in qualche modo, in quanto l’utopia intesa come avvenire di utopia è dedica all’altro: «La relazione con l’avvenire è la relazione stessa con l’altro» scrive Levinas in Il tempo e l’altro (p. 42). D’altra parte, Levinas avvisa, il nulla dell’utopia non è il nulla della morte. Dal momento che quest’ultima, oltre a suscitare l’annientamento, è l’impossibilità ad avere un progetto, l’impossibilità della possibilità come mostra Levinas. Il nulla dell’utopia, che resta speranza di realizzare ciò che non è ancora e soprattutto ciò che è differente, manifesta la sua negazione sotto forma di una messa tra parentesi dell’interessamento, del gioco del conatus essendi e dell’affaccendamento che ne deriva. Messa tra parentesi ugualmente dell’ordine stabilito che si confonde con l’essere, e questa epoché si dispiega in vista di raggiungere la possibilità di possibilità altre, di scoprire un divenire-altro, il non-identico, o il tutt’altro sociale. Pensiero più che sapere, l’utopia provata nella prospettiva di una filosofia dell’evasione che, rimettendo in discussione il sapere del mondo, accederà ad una pratica radicale dell’epoché; non si tratterà più di uscire dall’essere divenuto (Ernst Bloch), ma di uscire dall’essere in quanto essere, verso l’altrimenti che essere. Sotto il segno del disinteressamento, l’utopia è l’opera di una soggettività «che non ritorna alla tensione su di sé, alla cura d’essere –
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soggettività come offerta a un mondo futuro». (Dio, la morte e il tempo, p. 149). Qui sarebbe opportuno misurare cosa implica, cosa significa l’avvicinamento tra utopia e l’epoché sotto il segno della veglia o del risveglio. Niente meno che uno sconvolgimento dello statuto dell’utopia: allorché tradizionalmente la doxa, il sapere del mondo, assopito nelle sue evidenze, invitano a pensare l’utopia dalla parte dell’illusione, dell’immaginario e della falsa coscienza – da ciò il legame tra utopia e ideologia – del quale bisognerebbe sbarazzarsi, guarire anche per vedere il mondo finalmente così com’è, Levinas ribalta questa tendenza e mette in piazza una logica non più associativa, ma disgiuntiva tra l’utopia e l’ideologia tale che l’utopia, lungi dal nutrire illusioni, si situa ormai, attraverso la trascendenza del reale rinchiuso in se stesso nella sua identità, attraverso la sospensione che pratica, non tanto dalla parte di una coscienza accresciuta, di un allargamento della coscienza che porta a una coscienza vera, ma dalla parte di una defezione della coscienza tale che lascia avvenire la responsabilità per altri e il risveglio per l’altro. Il sapere del mondo indietreggia e permette l’emersione di verità nascoste, occultate, soffocate nel corso dei secoli e il nuovo pensiero fa rotta in direzione di relazioni umane insospettate, verso l’umano assoluto o l’umano utopico: in breve, un mondo rovesciato. L’utopista non è più un mercante di sogni, ma una forza incomparabile di veglia o di risveglio. Secondo Levinas, la chiarezza dell’utopia schiarisce la notte in cui l’uomo si dibatte. Tanto da sconvolgere tutti i conservatorismi del mondo. Voi spiegate molto bene come e perché il genere utopico è morto, ma come ugualmente l’utopia sopravvive in quanto di-
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scorso sull’utopia. Cosa che significa chiaramente che le grandi utopie sono morte. Il testo di Levinas per il quale avete scritto una considerevole postfazione, «Alcune considerazioni sulla filosofia dell’hitlerismo», non potrebbe essere un tentativo per pensare la filosofia altrimenti? Quale utopia Levinas ci permette di pensare, di augurare, di sperare? Come pensare una speranza utopica, messianica, latente ed implicita come ciò che potrebbe venire in ogni istante? Direi piuttosto che l’utopia, in quanto genere letterario, si è eclissata, ma aggiungerei anche che l’utopia non potrebbe essere ridotta ad un genere. L’utopia conosce diverse forme di manifestazione, si dispiega in varie dimensioni. Per esempio, secondo Adorno, la musica di Mahler porta in sé numerose brecce utopiche. L’utopia può ispirare delle pratiche, suscitare un pensiero dell’utopia. Non resta forse nel cuore di ogni società sotto forma di sogni del collettivo? Io non accetto la tesi della morte dell’utopia, tanto che a più riprese mi sono sforzato di farne apparire non la sopravvivenza, ma la sussistenza. Al tema conservatore dell’eterna utopia oppongo quello della persistente utopia. Due focolai di persistenza appaiono: un focolaio ontologico con Ernst Bloch, e un focolaio umano – l’intrigo dell’umano – con Levinas che considera in modo eccellente sia «l’utopia dell’umano» che «l’umano utopico». Secondo Ernst Bloch, l’essere è insieme processo e incompiutezza e sarebbe nell’incompiutezza dell’essere nel non-ancora essere che l’utopia troverebbe la sua fonte inestinguibile, il segreto della sua persistenza, il suo principio più certo. Come se l’impulso utopico si desse come compito, attraverso la sua considerazione dell’essenza, il compimento, la realizzazione dell’essere. L’utopia sarebbe insieme lo stato di incompiutezza dell’essere e lo slancio, la
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tensione ontologica verso il compimento. Dobbiamo a Levinas la determinazione di un altro focolaio rispetto all’ontologia per rendere conto della persistenza dell’utopia. È all’umano – un campo di ricerca appena intravisto – che può essere assegnata la fonte dell’utopia, per il fatto che l’umano nella sua stessa tessitura è utopico, meglio, è utopia. Levinas invita a pensare l’utopia sotto il segno dell’incontro, dello straordinario della relazione con altri che sfugge all’ontologia. È per questo che Levinas strappa l’utopia dall’ordine del sapere e la colloca dalla parte dell’altrimenti che sapere, dalla parte della prossimità e della socialità. Lungi dal darsi per mira il compimento dell’essere, il ritorno a casa propria, al «focolaio», l’utopia conosce un altro intrigo, l’uscita dell’essere in quanto essere, l’evasione. L’utopia che accede al disinteressamento è scoperta del non luogo che frequenta [vient hanter] e raddoppia ogni luogo. Possiamo considerare che è a partire dalla costellazione del 1934-1935 – il testo sull’hitlerismo e il saggio Dell’evasione, strettamente legati – e dalla svolta che vi si realizza, che nasce il tentativo di pensare l’utopia altrimenti? Possiamo già notare come una radicalizzazione dell’epoché, una sorta di enfasi, l’uscita dall’essere sotto forma di una interruzione ontologica che si sostituisce alla sospensione. D’altra parte non vi è alcun dubbio che ciò che chiamo la svolta nella mia postfazione al testo sull’hitlerismo non giunga a modificare il volto dell’utopia. Ne va così della messa in questione dell’identità e del processo di identificazione, al punto che l’utopia si guarda da ogni valorizzazione dell’identità e dal ricercare un compimento sotto la forma di un ritorno presso di sé. A ciò aggiungiamo la scoperta, al di là dell’essere-nelmondo, di una struttura che scava le sue basi al punto da far
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nascere l’essere-in-questione, messa in causa dell’essere-nelmondo fino a raggiungere l’essere nella domanda che esige dall’uomo che risponda del suo diritto ad essere. Levinas scriverà più tardi: «incapacità di avere un luogo, un’utopia profonda. Timore che mi viene dal volto di altri». («Etica come filosofia prima», p. 55). A dire il vero, non c’è un’utopia levinassiana, ma un pensiero levinassiano dell’utopia che tramite la messa in opera di gesti nuovi lavora ad allontanare l’utopia da ogni inscrizione, da ogni installazione nell’essere. Ci sarebbe come un «dislivellamento utopico» che si manifesta sotto forma di una breccia verso l’alterità. È per questo che Levinas si è interrogato su una congiunzione possibile tra la sospensione del conatus, una evasione lontana dalla sua logica, e lo slancio verso una società non indifferente alla giustizia. Per rendere conto di questo dislivellamento utopico proprio alla sfera dell’umano, Levinas concepisce la seguente ipotesi: «Come se l’umano fosse un genere che ammettesse all’interno del suo spazio logico – della sua estensione – una rottura assoluta, come se andando verso l’altro uomo si trascendesse l’umano, in direzione dell’utopia» (Nomi propri, p. 51). Due possibili figure dell’utopia secondo questo pensiero. L’utopia dei libri e l’utopia dell’umano, sapendo che un filo lega l’una all’altra, poiché secondo Levinas l’uomo, essere di linguaggio, spinge questa singolarità fino alla scrittura del libro, fino al libro, annodando così un rapporto tra l’umano e il libro. Noi non possiamo qui interrogarci sui complessi ingarbugliamenti tra le due figure dell’utopia. Tratteniamo solo che le due figure sono indissociabili, tanto indissociabili quanto il Detto e il Dire. Ma il legame tra i due non deve nascondere le differenze nate soprattutto dalla tensione tra il carattere
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non-intenzionale dell’utopia e l’intenzionalità del libro. Un segno di questa differenza è che Levinas, che non ha avuto paura di trasformare l’«utopia dell’umano» nell’«umano utopico», si guarda bene dal trasformare l’utopia dei libri in libro utopico. Non vi è forse qui un sottolineare l’ambiguità del libro, intreccio del Detto e del Dire? Il libro può sempre elevarsi all’altezza dell’utopia? Non rischia di cadere nel Detto e di chiudersi a tutte le operazioni che tendono ad aprirlo al di là della tematizzazione? Ma non dimentichiamo che il libro sottomesso all’esegesi, all’interpretazione, può essere il luogo di una rottura nell’essere, che libera l’ispirazione propria dell’uomo, animale utopico. La persistenza dell’utopia non è stata colpita in modo inappellabile, distrutta per sempre dalle catastrofi del XX secolo, smentita indefinibile all’impulso utopico? Una domanda si impone: i campi di sterminio, la Shoah nella sua unicità, i genocidi che sono seguiti nella loro specificità, non hanno per sempre messo fine all’utopia, all’idea stessa dell’utopia? Ora, se ci rivolgiamo verso Etty Hilsum, verso Adorno, verso Levinas, sembrerebbe di no. Sarebbe addirittura il contrario. La catastrofe, anziché infirmare l’utopia senza un ritorno possibile, le darebbe paradossalmente una nuova vita. Poiché dalla catastrofe sorge una nuova «ingiunzione utopica», il mai più questo si trasforma presto nell’esigenza di utopia, come se la catastrofe svelasse a contrario la necessità imperiosa dell’utopia; meglio, come se la prova della catastrofe ci facesse rinnovare i legami con l’ispirazione più profonda dell’utopia, la negazione della morte, così come emerge dall’intervista del 1964 tra Ernst Bloch e Adorno: «Manca qualcosa». Adorno dichiara: «Credo tuttavia che il punto nevralgico […] sia di fatto la questione relativa all’a-
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bolizione della morte. È la vera questione» («Manca qualcosa... Un dialogo sulle contraddizioni del desiderio utopico», in La società degli individui, n. 26, p. 17). Ispirazione simile in Levinas. L’utopia in quanto possibilità di possibilità altre, di alterità, non si erge, secondo Levinas, contro la morte, impossibilità della possibilità? Ma più profondamente, è al livello della temporalità stessa che l’utopia è pensata come opponentesi alla morte. Nella scia della rivoluzione blochiana – non pensare più il tempo a partire dalla morte, ma pensare la morte a partire dal tempo – Levinas concepisce un gesto straordinario che non si accontenta di assegnare l’utopia al tempo, come fa la modernità, ma che assegna il tempo all’utopia. Con lo stesso gesto, all’identificazione del tempo originario con l’essere per la morte si oppone il tempo pensato, provato nella chiarezza dell’utopia, come se, con la mediazione della temporalità, l’essere-per-l’utopia si sostituisse all’essere-per-la-morte. Levinas che interpreta Ernst Bloch scrive: «L’utopismo di speranza è temporalizzazione del tempo, pazienza del concetto. Il tempo come speranza dell’utopia non è più il tempo pensato a partire dalla morte. L’estasi originaria è qui l’utopia e non più la morte» (Dio, la morte e il tempo, p. 148).
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III
L’umano utopico e la stravagante ipotesi
Danielle Cohen-Levinas: Voi avete dedicato vari scritti all’opera di Emmanuel Levinas, tra i quali il testo intitolato «Un’ipotesi stravagante», che avete scritto in occasione dell’omaggio1 che organizzai con il Collège International de Philosophie nel dicembre 1996, un anno dopo la morte del filosofo. In questo testo voi spingete l’analisi della «stravagante» generosità del «per l’altro» molto lontano. Questa implica secondo voi la ricerca di un’altra pace, di una pace che non appartiene più all’ordine politico, ma etico. Il vostro testo è assolutamente considerevole e getta una nuova luce sui testi di Levinas. Questa proposta di Levinas, stravagante, relativa all’origine dello Stato, vi sembra utopica nel senso di 1. Convegno internazionale, Visage et Sinaï, la pensée d’Emmanuel Levinas, 7 e 8 dicembre 1996, Amphithéâtre Richelieu de La Sorbonne. Interventi di: Jacques Derrida, Paul Ricoeur, Giorgo Agamben, Jacques Rolland, Catherine Chalier, Simon Critchley, Miguel Abensour, Pierre Bouretz, Schmuel Trigano, Marie-Louise Mallet.
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irraggiungibile ed incessantemente rinviata o al contrario è carica di una promessa che, al di là della politica, permette di ripensare il rapporto tra la responsabilità e la prossimità nella costituzione dello Stato? Miguel Abensour: «Un’ipotesi stravagante» rientra in ciò che si chiama storia filosofica così come la possiamo trovare per esempio in Rousseau nel secondo discorso su L’origine della disuguaglianza tra gli uomini, vale a dire una ipotesi che permette di leggere la storia altrimenti, di orientarcisi ed eventualmente di intervenirvi. Così Levinas avrebbe potuto dire come Rousseau: «io scarto tutti i fatti». Si tratta per Levinas di sostituire alla visione lupina di Hobbes – l’uomo è lupo per l’uomo – una visione umana, intendendo per umano l’umano assoluto, «l’umano utopico». In termini contemporanei si direbbe che si tratta di sostituire ad un paradigma realista-cinico, nel senso volgare del termine che corrisponde alla ricezione di Hobbes oggi, un paradigma utopico, in modo da chiarire la storia altrimenti e per proporci degli altri criteri di giudizio. Due chiavi per questa ipotesi. Innanzitutto la messa in opera dell’epoché così come la intende Levinas, la lotta contro la pietrificazione del sapere e la degenerazione del senso, al fine di risvegliare le intenzioni assopite e riaprire gli orizzonti scomparsi. Se si considera che l’idea di evasione è come una radicalizzazione della riduzione fenomenologica, poiché aggiunge alla sospensione dell’epoché la categoria dell’uscita, fino a considerare l’uscita dall’essere, non si può non pensare che in un certo senso la stravagante ipotesi sia il frutto di questa filosofia dell’evasione, della quale Levinas annunciava nel 1935 che essa avrebbe come effetto quello «di rovesciare certe nozioni che al senso comune e alla sag-
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gezza delle nazioni appaiono come le più evidenti» (Dell’evasione, p. 46). Da questo gesto filosofico risulta un insieme di proposte che costituiscono un vero «Contro Hobbes», preliminare obbligato alla concezione della stravagante ipotesi. Un Contro Hobbes, cosa vuol dire? È innanzitutto l’aggiornamento di un’alternativa: lo Stato procede da una limitazione della violenza o da una limitazione della stravagante generosità del per altri? A più riprese Levinas si è impegnato a formulare questa alternativa determinante a proposito della società: «È estremamente importante sapere se la società nel significato corrente del termine è il risultato di una limitazione del principio che l’uomo è un lupo per l’uomo, o se al contrario provenga dalla limitazione del principio che l’uomo è per l’uomo» (Etica e infinito..., p. 87). Lo stesso in «Pace e prossimità»: «Non è senza importanza sapere – ed è forse l’esperienza europea del ventesimo secolo – se lo stato egalitario e giusto in cui l’Europa trova compimento procede da una guerra di tutti contro tutti o dalla responsabilità irriducibile dell’uno per l’altro» (Alterità e trascendenza, p. 122). Questione di una importanza estrema, come sempre quando si tratta di politica: per lo Stato è più opportuno limitare la violenza o la «follia etica», la guerra o l’infinito, la dismisura della relazione etica? Lo Stato procede da un principio animale, quello di Hobbes, o piuttosto da un principio umano, dell’intrigo eccezionale che si stringe nella relazione dell’uomo con l’altro uomo? A questa domanda Levinas risponde senza ambagi: è la seconda ipotesi che bisogna accettare, per quanto stravagante sia. Il sapere del mondo che nutre con le sue pseudo evidenze l’opera così apprezzata di Hobbes deve essere allontanato: «Non è affatto sicuro – scrive
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Levinas – che in principio vi fosse la guerra. Prima della guerra, vi erano gli altari» (Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 273). Levinas con il termine religione intende il legame con altri, che consiste nella sua invocazione non preceduta da una comprensione. Più profondamente, Levinas smentisce Hobbes, poiché, invocando il volto di altri, rivela una relazione umana che non è un rapporto di forze, che sfugge allo scontro di forze. Nella misura stessa in cui il volto non è del mondo, sfugge ai rapporti di forze che caratterizzano il mondo: «Il volto si sottrae al possesso, al mio potere» (Totalità e infinito, p. 203). Stiamo attenti a non fare confusione, siamo lontani dall’irenismo. Se il volto sfugge al dominio, la sua alterità si espone alla negazione totale, all’omicidio: «Altri è il solo essere che posso desiderare di uccidere», dichiara Levinas (Ibid., p. 204). È in questo punto che si apre uno straordinario intrigo nell’umano, il passaggio, laddove non vi è più passaggio. Nell’alterità del volto di altri si rivela la trascendenza di altri. Magnifica confutazione di Hobbes quella di Levinas. Per l’autore del Leviatano noi abbiamo tutti in comune di essere degli assassini in potenza, l’astuzia compensa le differenze di forza. Ma a dire il vero questo «dramma» non rientra in un rapporto di forze, in un calcolo di forze. La resistenza di altri appartiene ad un altro ordine. Altri non oppone una forza ad un’altra forza, ma l’imprevedibilità della sua reazione, meglio la trascendenza dal suo essere in rapporto alla totalità, considerata come un sistema di forze. Resistenza inedita, qualcosa di assolutamente altro, questa è la resistenza etica. È nel sovrappiù del volto sulla minaccia della lotta fino alla morte, che si realizza l’apertura di un’altra dimensione che giunge a raddoppiare il
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reale, bucarlo, e che rinvia all’evento primo della pace, della prossimità. Allo stesso tempo, Levinas ci libera da Hobbes e dalle sue pseudo-evidenze: «La guerra – conclude Levinas – presuppone la pace, la presenza preliminare e non allergica d’Altri; non rappresenta il primo fatto dell’incontro» (Ibid., p. 205). Se per di più si ammette, come fa Jacques Rolland, una ripresa della filosofia dell’evasione in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, vale a dire una ripresa del tema inimitabile dell’uscita dall’essere, si riconoscerà senza fatica in questa ripresa un altro allontanamento possibile da Hobbes. L’essenza è interessamento. A cosa conduce il rapporto tra l’essenza, la persistenza dell’essenza e il conatus, a cosa porta il confronto dei conatus, se non alla guerra di tutti contro tutti? «L’interessamento dell’essere – scrive Levinas in termini quasi di Hobbes – si drammatizza negli egoismi in lotta gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, nella molteplicità di egoismi allergici che sono in guerra gli uni contro gli altri e, così, insieme. La guerra è il gesto o il dramma dell’interessamento dell’essenza» (Altrimenti che essere…, p. 7). Procede così la ricerca di una pace altra rispetto a quella degli Imperi, pace della prossimità, come uscita dall’essere, come interruzione del gioco conflittuale degli enti, dei conatus. Avete ragione nel qualificare questa ipotesi come utopica. Lo stesso Levinas in un’intervista vi riconosce la presenza di utopia: «L’idea che l’umano prende il suo senso nella relazione dell’uomo con altri è ottimista o pessimista? È forse un proposito ironico all’indomani degli orrori del 1939-1945. Oppure è utopico. Ma questo termine non mi spaventa. Penso infatti che l’umano propriamente detto non fa che risvegliarsi nell’uomo così com’è» (Salomon Malka,
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Leggere Levinas, p. 134). Ricordiamo che il termine utopia non spaventa affatto Levinas. Occorre tuttavia sapere che cosa si intende per utopia. Non credo che vi si possa riconoscere una proposta irraggiungibile, e ciò tanto meno dal momento che questa idea di irraggiungibile, di inaccessibile, sfiora da troppo vicino l’identificazione comune e conservatrice tra l’utopia e l’impossibile. Si può piuttosto riconoscere una promessa che avrebbe la virtù di invitarci a pensare altrimenti la costituzione e l’origine dello Stato. Certo Levinas non ignora «i millenari fratricidi», ma con la stravagante ipotesi intende aprire un’altra dimensione e allo stesso tempo un altro spazio di pensiero per lasciar apparire un intrigo più antico rispetto allo scenario di Hobbes, intrigo originario, anarchico, quello della prossimità, quella al quale il filosofo accede quando pratica l’epoché utopica. Si tratta di inventare un pensiero complesso in cui l’ironia arriva a mescolarsi con l’utopia e l’utopia, con la sua potenza di evasione spinta fino all’uscita dall’essere, con la veglia. Questa visione è destinata a gettare un chiarimento nuovo sulla nascita dello Stato tale che si possa, al di là del rumore o del furore, considerare la storia nella «chiarezza dell’utopia». Non la luce dell’essere, la chiarezza dell’utopia. La chiarezza in cui l’uomo si mostra, poiché bisogna infatti che la chiarezza dell’utopia illumini al di là della notte nella quale l’uomo si dibatte – la notte dell’il y a, la notte del neutro, la notte della catastrofe e del disastro. Alla luce dell’intelligibile, dell’ontologia si oppone un’altra fonte di orientamento, la chiarezza dell’utopia. Non sarebbe senza interesse il confronto di questa posizione di Levinas con un altro Contro Hobbes venuto da altrove, venuto dall’antropologia. Penso al piccolo libro considerevole e incisivo di Marshall Sahlins,
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Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana (elèuthera, 2010) che milita in favore di un’altra concezione della condizione umana rispetto a quella ereditata da Hobbes, in grado di salvarci dal disastro che questa «visione erronea e perversa di natura umana» (ibid., p. 127) è suscettibile di provocare. Antropologo ed etnologo, M. Sahlins individua bene il problema. Grazie alla frequentazione delle tribù selvagge, considera che la visione occidentale della natura umana, lungi dall’essere universale, si dimostra una illusione regionale propria all’Occidente e in grado di provocare ancora molteplici disastri. Ma rispetto all’opera di un Levinas, autore di un Contro Hobbes, sembra che il problema sia filosoficamente mal posto. Non si tratta infatti di scambiare una concezione della natura umana con un’altra concezione di questa stessa natura, ma si tratta piuttosto di pensare l’umano, in termini levinassiani, come altrimenti che essere, vale a dire al di là dell’essenza umana, della natura umana, della condizione umana – al di là dell’ontologia – e di rivolgersi verso l’intrigo dell’umano inteso come altrimenti che essere, come anteriore al conatus essendi e anteriore al compito d’essere. Vuol dire che questa stravagante ipotesi si rivolge al di là della politica? Piuttosto che focalizzare immediatamente il modo di procedere di Levinas sull’al di là della politica, direi, come ho tentato di mostrare a proposito dell’«an-archia», che Levinas naviga con virtuosità, che si muove in uno stato intermedio tra la metapolitica e la politica, in uno spazio al di là della politica, ma che paradossalmente riconduce alla politica. Così la stravagante ipotesi aiuta a determinare le forme di Stato possibili. È estremamente importante sapere quale ipotesi, quella di Hobbes o quella di Levinas, è quella
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giusta. Ne risulta infatti un criterio per distinguere tra le forme statali. Dalla limitazione della guerra deriva lo Stato della violenza, dalla limitazione della prossimità deriva lo Stato della giustizia. Da ciò nasce la domanda critica: un dato Stato corrisponde al modello di Hobbes o piuttosto al Contro Hobbes di Levinas? Nell’opera di Levinas, ritroviamo esattamente questa alternativa sotto forma di un’opposizione tra lo Stato di Cesare e lo Stato di Davide. Lo Stato di Cesare – Roma – è costruito sul modello di Hobbes. Uno Stato che conosce la pace, ma sotto il segno del «contro» – il diritto degli umani contro i loro simili. Si tratta della pace degli Imperi, derivata dalla guerra e che riposa sulla guerra. Dall’altro lato, lo Stato di Davide – Gerusalemme – che proviene da una fraternità prima, irriducibile e che per ciò stesso è suscettibile di dare origine ad una pace della prossimità, una pace sotto il segno del «per», del per-altri. La scelta tra queste due ipotesi non è indifferente in quanto determina delle forme di Stato opposte l’una all’altra. La prima, lo Stato della violenza, molto presto in preda alla statolatria, persevera nel suo essere fino a generare il realismo e il mito dello Stato, orizzonte insuperabile. La seconda, lo Stato della Giustizia, che grazie alla sua origine prende sufficientemente le distanze, può tenere aperta la possibilità di compiere un passo al di là dello Stato. Se si vuole dunque ripensare il rapporto con la responsabilità e con la prossimità nella costituzione dello Stato, è lo Stato della Giustizia che bisogna analizzare. Quali sono le caratteristiche di questo Stato della Giustizia che raccoglie le qualità dell’epoché e della conversione che dà al «terzo», altro dal prossimo, un posto privilegiato, per non dire essenziale?
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Io direi che quattro caratteristiche definiscono questa forma di Stato: 1) Questa forma di Stato comprende in se stessa la possibilità di un’apertura critica nella misura in cui la prossimità originale dalla quale proviene è sempre in grado di trasformarla in istanza di giudizio critico. Nello Stato della Giustizia, anche se una certa violenza non gli è estranea, è possibile, se c’è bisogno, rivoltarsi contro le sue istituzioni in nome di ciò che gli ha dato origine. È questo il luogo sostanziale della legittimità. È evidente che non è lo stesso nello Stato di Hobbes, interamente immerso nella violenza e che soffre di una infermità critica. «Nella visione di Hobbes – giudica Levinas – in cui lo Stato non sorge dalla limitazione della carità, ma dalla limitazione della violenza – non si può fissare alcun limite allo Stato». (Tra noi…, p. 139 s). 2) È un’altra storia del terzo che ha luogo nello Stato della giustizia. Mentre nello Stato di Hobbes, il Leviatano interviene come un «terzo uomo» tra gli uomini, lupi scatenati, nello Stato della Giustizia, è il terzo che apre alla possibilità della giustizia. Qui inizia un intrigo complesso che attiene allo statuto ambiguo del terzo, altro prossimo oppure altro dal prossimo. Il terzo, che è sempre già presente, giunge ad interrompere l’infinito della responsabilità per l’altro uomo; esso introduce nella dismisura della «follia etica» della misura e del paragone, e allo stesso tempo la limitazione della responsabilità per altri, cosa che agli occhi di Levinas definisce la giustizia. Alla dissimmetria della prossimità si sostituiscono la simmetria e la reciprocità del legame politico. Precisiamo che se «l’entrata del terzo» dà origine allo Stato della Giustizia, in quanto limitazione della prossimità, ciò non significa assolutamente l’instaurazione di una membra-
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na impermeabile tra l’ordine della giustizia e quello della responsabilità, come se essi nello Stato cessassero di comunicare. L’intervento del terzo e i suoi effetti non chiudono comunque la via della prossimità, in quanto apportare la misura al per-altri non significa né dimenticarla, né abbandonarla, né istituire una sorta di abbassamento di livello, una neutralizzazione nata dall’omogeneità dell’ordine ragionevole. Se nella relazione spunta già il terzo, inversamente nella relazione con il terzo persiste, perdura incancellabile la relazione con altri. Da ciò l’insistenza di Levinas sulla natura plurale della giustizia che può essere sia ancillare – al servizio dell’ordine ragionevole – sia angelica, al di là di quest’ordine. A partire da questi sconfinamenti multipli, si tratta di strappare lo Stato alla propria gravitazione, al movimento centripeto, lo Sato che gira attorno a se stesso, centrato su se stesso, condotto in qualche modo dal suo stesso determinismo. 3) Il disinteressamento originale venuto dalla prossimità non cessa di frequentare [hanter] lo Stato della Giustizia. Ne consegue che lo Stato della Giustizia ha per carattere specifico quello di essere collocato in uno spazio pluridimensionale in cui si trova in qualche modo combattuto tra l’intrigo straordinario da cui procede ed il fine che persegue, la giustizia. Come se l’effettività presente dello Stato fosse, a monte e a valle, sottomessa a delle istanze che per natura la sopravanzassero e la superassero. In questa prospettiva, lo Stato della Giustizia è in modo permanente l’oggetto di una doppia interrogazione allo scopo di decidere circa la sua legittimità. Da una parte, la forma della coesistenza umana che instaura è nella continuità dell’intrigo originale? D’altra parte, questa forma è tale da permettere
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allo Stato di accedere allo scopo che lo anima, vale a dire la giustizia? La giustizia nel senso in cui la intende Levinas, nel suo rapporto incancellabile con la prossimità, ha per effetto di mettere lo Stato «fuori di sé» per così dire. L’abbiamo osservato, lo Stato della giustizia è uno Stato decentrato, combattuto, agitato dallo scambio permanente della giustizia e della responsabilità, dalla contaminazione dell’una da parte dell’altra. Con questo decentramento, lo Stato della Giustizia mira a far esplodere lo Stato inteso come totalità chiusa, a far risorgere il pluralismo primo, ad aprire così il cerchio in modo da sottomettere l’istituzione politica a delle istanze di controllo della sua legittimità che reintroducono dell’esteriorità e sono in grado di fornire dei veri criteri di giudizio. 4) Il dispositivo levinassiano che si costituisce nello Stato della giustizia comprende una struttura complessa, un al di qua che rinvia verso un al di là, un tragitto dall’uno all’altro, in modo tale che può mettersi in moto nello Stato un movimento che va al di-là dello Stato, al di là della politica ragionevole pensata sotto il segno della sintesi. Nel testo «Dio e la filosofia», Levinas descrive in modo estremamente preciso questo movimento che si situa al di là della sintesi contrattualista, matrice classica dello Stato: «La responsabilità per il prossimo è precisamente ciò che va al di là del legale e obbliga al di là del contratto, essa mi viene dall’al di qua della mia libertà, da un non presente, da un immemoriale» (Di Dio che viene all’idea, p. 94). Ciò che è ormai in gioco non è più solamente il pensare lo Stato altrimenti – lo Stato della giustizia al posto dello Stato della violenza – ma il concepire un altrimenti che lo Stato. In ragione della stravagante ipotesi, lo Stato è in permanenza attraversato, inve-
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stito da una significazione che lo sovradetermina. Lo Stato nella sua effettività stessa non cessa di indicare verso un al di là di se stesso. Ciò vuol dire riconoscere che l’ipotesi di Levinas rivela l’implicito dello Stato e in questo implicito sa far vedere, per riprendere i termini di Husserl nella «Seconda meditazione cartesiana»: «Il superamento dell’intenzione nell’intenzione stessa». Lo Stato è gonfio di un più o di un surplus che lo supera, di paesaggi dimenticati, di orizzonti sconosciuti che spetta all’analisi fenomenologica far risorgere e mettere in scena. Secondo questa sovrasignificazione [surgnification] che abita lo Stato, c’è nello Stato più dello Stato. Lo Stato è lavorato in modo permanente da questo implicito che tende a superarlo in quanto ordine ragionevole. Ed è perché vi è nello Stato più dello Stato che questo è portato a superarsi, ad auto-superarsi, ad aprire la via a questo al di qua, altrimenti detto a questo surplus che lo attraversa e lo porta a dispiegarsi al di là di se stesso. Per rendere conto dell’enigmatico movimento dello Stato verso il suo fuori, bisognerebbe analizzare la lezione talmudica alla Conferenza del 1988 che ha precisamente per titolo: «Al di là dello Stato nello Stato». Vorrei che voi ritornaste sulla questione dell’anarchia, molto importante in Altrimenti che essere..., che mi sembra si situi esattamente tra ciò che voi chiamate metapolitica e politica. L’an-archia è un motivo che si situa già al di fuori della politica. Esiste un’altra maniera di rendere conto di questo movimento in seno allo Stato al di là dello Stato: consiste nel rivolgersi verso il turbamento che l’an-archia, situata tra metapolitica e politica, è suscettibile di esercitare sulla politica. Così questo movimento enigmatico che Levinas ha saputo
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scorgere avrebbe a che vedere con la strana traiettoria che attraversa, che lavora lo Stato e che va dall’al di qua della prossimità, della responsabilità anarchica del per l’altro, ad un al di là della politica. È perché non vi è una membrana impermeabile tra giustizia e prossimità che può mettersi in moto, in seno allo Stato, questo movimento al di là dello Stato – altrimenti detto un intrigo anarchico senza principio né cominciamento – che giunge a turbare la politica fino al punto da impedire allo Stato della Giustizia di fossilizzarsi in una totalità chiusa: «L’anarchia non può essere sovrana come l’archè. Essa può solo turbare – ma in modo radicale […] – lo Stato» (Altrimenti che essere…, p. 126, nota 3). Turbato fino alle radici, «Lo Stato così non può erigersi a Tutto». Così la stravagante ipotesi, al di là dello Stato della Giustizia, stringe un legame indistruttibile con l’an-archia, l’anarchia del Bene, anarchia essenziale all’umanità.
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IV
Perché Levinas?
Danielle Cohen-Levinas: Torno un po’ indietro. Alla luce di quanto avete appena spiegato in modo così considerevole, vorrei che vi soffermaste ancora sulle ragioni per le quali vi siete interessato al pensiero di Emmanuel Levinas. So bene che ciò che vi chiedo fa appello a degli elementi di biografia intellettuale, ma questi elementi mi sembrano importanti. Lettore ed interprete assiduo dell’opera di Machiavelli, Saint-Just, Karl Marx, Thomas More, Pierre Leroux, Hannah Arendt, Stendhal, la scuola di Francoforte per citarne solo alcuni esempi, le vostre preoccupazioni erano chiaramente rivolte verso la critica della politica e della dominazione. Senza contare i vostri lavori sulle utopie, che vanno contro le idee raccolte e trasmesse in questo dominio, in particolare attorno alla questione del totalitarismo che per alcuni deriva dalle utopie. Nulla avrebbe lasciato supporre a priori che l’opera di Emmanuel Levinas avrebbe apportato quella che si potrebbe chiamare, se mi per-
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mettete questa espressione, una «piega» etica nella vostra riflessione critica sulla rivoluzione democratica. Mi sembra in particolare che nel modo di trattare la critica della politica, uno dei punti di incontro essenziali che vedo tra voi e Levinas stia nell’idea che la politica non è il risultato di un processo o di una forma compiuta, ma, come voi scrivete, «un’apertura senza fine, avventurosa, non collocata in un universo di certezze o di garanzie». Si capisce dunque perché i due saggi, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) e Dell’evasione (1935), nei quali la critica di Levinas sollecita tutto il sostrato della tradizione metafisica, o ancora la prefazione che Levinas redigerà nel 1977 al libro di Martin Buber, Utopie et Socialisme (Aubier Montaigne, 1977. Prefazione di Emmanuel Levinas, p. 7-11), abbiano attirato la vostra attenzione. Potreste ritracciare l’archeologia di questi differenti momenti di lettura in apparenza molto lontani gli uni dagli altri, che mi sembra formino una costellazione esemplare? Miguel Abensour: Capisco il vostro primo stupore e la vostra domanda sulle ragioni che mi hanno potuto spingere a interessarmi all’opera di Levinas, mentre lavoravo in un altro ambito, ossia la critica della politica e del dominio. Lo capisco tanto meglio per il fatto che mi è capitato di condividere questo stupore e di chiedermi per esempio come potessero coesistere nel mio lavoro le ricerche su Saint-Just e quelle su Levinas. Per molti levinassiani è inconcepibile. Conosco un solo autore che ha scritto a proposito di entrambi: Maurice Blanchot. Certo, non avrei mai la tracotanza di paragonarmi a lui, ma questo fatto può metterci sulla strada di una risposta possibile, in grado di rendere conto di questo assurdo. Saint-Just e Levinas non sono forse, l’uno e l’altro, certo in modo differente, uomini di utopia? Non è, inoltre, sotto il
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segno dell’eccesso, di una sensibilità all’eccesso che la mente può spostarsi dall’uno all’altro? Se si riprendono le categorie di Kant La religione nei limiti della semplice ragione (1793), Saint-Just per essersi troppo affidato alle «leggi della virtù» non ha finito per far confusione tra la «costituzione a fini etici» e la costituzione politica, al punto da minacciare la solidità di quest’ultima? Non è ugualmente sotto l’effetto di un altro eccesso debordante la coscienza – defezione della coscienza – che Levinas concepisce l’ossessione, acme della responsabilità per altri, nata dalla prossimità «in cui obbedisco come ad un ordine a me rivolto, ad un ordine che getta «un seme di follia» nell’universalità dell’Io» (Altrimenti che essere…, p. 115). Bisognerebbe qui seguire questo periglioso intrigo, questa avventura che è depossessione di sé, in rottura con la tradizione filosofica dell’Occidente, la quale, irriducibile alla coscienza, «attraversa la coscienza controcorrente, inscrivendosi in essa come estranea: come squilibrio, come delirio, disfacendo la tematizzazione, sfuggendo al principio» (Ibid., p. 126) cioè all’arché fino a che la soggettività diviene ostaggio. Sostituzione. Dunque movimento anarchico. Comunque sia, l’ispirazione utopica di Levinas è sorprendente, a lui non spaventa l’utopia. Non tener conto di questo rapporto con l’utopia, attenuarlo o minimizzarlo, equivale a mutilare nelle sue forze vive una filosofia che l’utopia illumina, porta e perfino trasporta. Questa prima risposta può sembrare viziata da una certa arbitrarietà o retorica. Per attenuare questa impressione, prima di passare in rassegna alcuni «momenti di lettura», alcune sequenze della critica della politica in cui mi è capitato di incontrare senza aspettarmelo Levinas, forse è conveniente far riferimento all’avventura di una generazione,
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quella del maggio 1968 e dell’inizio degli anni 1970. Senza pretendere di esaurire questa complessa questione, si può notare che alcuni membri di questa generazione, una volta che il movimento si è placato intorno al 1976, si sono rivolti in modo sorprendente verso l’opera di Levinas. Alcuni per rinnegare il loro «gauchisme» della sera prima e non esitando a proporre una lettura teologica di questo pensiero come per volerlo chiudere in modo abusivo nella tradizione ebraica e occultare o minimizzare la sua appartenenza alla filosofia; altri, senza rinnegare nulla della loro esperienza di ieri, si sono ugualmente rivolti verso Levinas, come se trovassero in quest’opera che sfida il nichilismo qualcosa per ripensare una politica dell’emancipazione, sapendo che era importante farsi carico della complicazione di questo progetto fino ad interrogarsi sulle condizioni di una «difficile emancipazione». La frase in esergo a Altrimenti che essere o al di là dell’essenza – «Alla memoria degli esseri più vicini tra i sei milioni di assassinati dai nazional-socialisti, accanto ai milioni e milioni di uomini di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell’altro uomo, dello stesso antisemitismo» – non è da leggere solo come esergo. A dire il vero essa forma il prisma attraverso il quale bisogna ormai leggere la storia dopo Auschwitz, scossa per sempre dall’esposizione di milioni di umani a delle situazioni estreme, situazioni peggiori della morte; il prisma attraverso il quale occorre leggere il così detto reale, strappato alla sua identità di reale dalla catastrofe, la Shoah, il disastro, lo sterminio senza pari degli ebrei d’Europa. Ora, a partire da e malgrado l’appello tante volte rinnovato al «mai più questo», i genocidi, ciascuno preso nella sua specificità, non sono mai cessati. È attraverso questo prisma che bisogna d’ora
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in avanti pensare l’emancipazione, prendere la misura della sua complicazione, sapendo che la sofferenza delle generazioni passate getterà un velo insquarciabile sulla società emancipata, se vi è una società emancipata. Perché la generazione del 1968 si sarebbe rivolta verso l’opera di Levinas, come se si trattasse di una svolta politica necessaria, o di uno spostamento? Perché alcuni della generazione del 1968 hanno compiuto questo viraggio verso l’opera di Levinas? Perché vi hanno trovato delle frasi, dei frammenti che costituiscono altrettante passerelle tra il loro radicalismo politico di ieri e un radicalismo politico, anarchico, una stravaganza che ha origine dall’umano, in breve un radicalismo metapolitico. Riportiamo alcune di queste frasi. In Umanesimo dell’altro uomo Levinas ha saputo distinguere, sulla scia dei teorici di Francoforte, come un ammaliamento, una sorta di dialettica dell’emancipazione? Andando oltre l’alienazione sociale di Marx, Levinas dichiara: «L’angoscia dei nostri giorni è più profonda, essa viene dall’esperienza delle rivoluzioni inghiottite nel gorgo della burocrazia e della repressione e delle violenze totalitarie che si spacciano per rivoluzioni. Perché in esse si aliena la disalienazione stessa» (p. 135). E Levinas ha saputo denunciare questa alienazione della disalienazione, vale a dire lo stalinismo. In «Le surlendemain des dialectiques» scritto nel febbraio 1970, dichiara: «L’esperienza più importante, la più disperante della nostra epoca, fu l’alienazione dell’opera stessa della disalienazione che si è chiamata stalinismo. La Rivoluzione non ha forse bisogno di un dopo che non sia né burocratico, né controrivoluzionario? Altro dalla rivoluzione o più rivoluzionario di ogni rivoluzione. Non ha bisogno di una libertà per non
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arenarsi nelle violenze inevitabili e per conservare la speranza?» (Les Cahiers de la nuit surveillée, p. 324). Levinas ama deformalizzare, talmente è avvertito che dietro le definizioni formali si nascondono delle concezioni fallaci e spesso mistificatrici. Lo stesso accade a proposito della rivoluzione. «Non penso – dichiara – che si debba definire la rivoluzione in modo puramente formale, come violenza o come ribaltamento di un ordine stabilito». A questo oppone una definizione che Marx, autore di una critica dell’economia politica, non avrebbe sconfessato: «Occorre definire la rivoluzione mediante il suo contenuto, i suoi valori: c’è rivoluzione là dove si libera l’uomo, cioè là dove lo si sottrae al determinismo economico» («Giudaismo e rivoluzione» in Dal sacro al santo, p. 35 s). Coloro che hanno operato questo spostamento verso l’opera di Levinas non hanno forse saputo riconoscere, in alcuni di questi passaggi, ciò che ha suscitato in loro la scelta dell’emancipazione? Difendendosi da un’accusa possibile di ideologia, Levinas replica: «Ma l’umanità meno ebbra e la più lucida del nostro tempo, nei momenti più liberi della cura che “l’esistenza si prende di questa esistenza stessa”, non ha, nella sua quiete, altra inquietudine né altra insonnia di quelle che le vengono dalla miseria degli altri e in cui l’insonnia non è che l’assoluta impossibilità di sottrarsi e di distrarsi» (Altrimenti che essere…, p. 116). Levinas non si è forse sforzato di descrivere al meglio il cuore dell’emancipazione per noi? «Il vero problema per noi altri Occidentali – scrive – non consiste più tanto nel rifiutare la violenza, quanto nell’interrogarci a proposito di una lotta contro la violenza che – senza languire nella non resistenza al Male – possa evitare l’istituzione della violenza a partire
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da questa lotta stessa. La guerra alla guerra non perpetua forse ciò che essa è chiamata a far scomparire per consacrare, nella buona coscienza, la guerra e le virtù virili?» (Ibid., p. 219). Allora come non essere sensibili al respiro di questa filosofia proveniente dalla prossimità, filosofia senza fiato, tanto essa è attraversata, ossessionata dall’intrigo dell’umano. Come abbiamo già osservato, la sospensione del conatus essendi, l’inverso del conatus o il disinteresse, sotto forma di una interruzione ontologica, sarebbe un segno di storia, in quanto sarebbe il segno di un movimento «per una società migliore». Ma a Levinas non basta ricordarci che non si debba affatto «cedere sull’inestinguibile sete di giustizia e sulla sua esigenza adesso» (Françoise Proust), di constatare dunque che «la rivolta contro una società senza giustizia esprime lo spirito della nostra epoca» (Di Dio che viene all’idea, p. 26); «rivolta per una società altra, ma rivolta che ricomincia fin dal momento in cui l’altra società si installa» (Ibid., p. 24). Sempre che riesca a cogliere la tonalità nuova di questa rivolta, «tonalità della giovinezza dentro l’antico progressismo occidentale». Tonalità nuova, radicalità della rivolta, poiché essa giungerebbe fino a rigettare l’istituzione della giustizia che istituendosi apparirebbe subito caduca. «Come se malgrado tutti i ricorsi alle dottrine, […] e alle tecniche della Rivoluzione, l’uomo fosse cercato nella Rivoluzione in quanto essa è disordine o rivoluzione permanente, rottura degli schemi, cancellazione delle qualità e, come la morte, liberazione di tutto e da tutto» (Ibid., p. 24). Al filosofo spetta il compito di mettere in scena questa tonalità fino a farne scaturire e apparire l’implicito. «Come se nell’altro uomo, attraverso la giustizia, dovesse aprirsi una dimensione che la burocrazia, fosse anche di origine rivo-
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luzionaria, soffoca in nome della sua stessa universalità… come se sotto le specie di una relazione con altri nudo di ogni essenza […] s’intravvedesse l’al di là dell’essenza o, in un idealismo, il dis-interessamento nel senso forte del termine, nel senso di una sospensione dell’essenza» (Ibid., p. 24). Il proletario, se non il perseguitato, in preda al denudamento economico, non sarebbe «questa spogliazione assoluta dell’altro come altro, la deformazione fino al senza forma» (Ibid., p. 25). Questo movimento, lungi dall’essere sospetto di ideologia, sarebbe la nascita stessa della responsabilità per l’altro. Responsabilità non assunta come un potere, ma vissuta nella de-possessione di sé fino a dare libero corso a un crescendo che va dall’esposizione come ostaggio, alla sostituzione ad altri. «Trascendere l’essere sotto le specie del disinteressamento! Trascendenza che avviene sotto le specie di un approssimarsi del prossimo senza riprendere fiato, fino ad essergli sostituito» (Ibid., p. 25). Da questi due passaggi straordinari ricaviamo che Levinas, lungi dall’essere un pensatore dell’ordine, anche nuovo, rifiuta di pensare, a differenza di Bergson, che il disordine sia un nuovo ordine che si forma. Ogni disordine non è un ordine altro, afferma Levinas. Secondo lui il disordine ha un senso irriducibile in quanto «rifiuto di sintesi». Quando rileggo queste due pagine, non posso impedirmi di pensare all’intervento, durante una conferenza, di una delle partecipanti che ci comunicò che già Emma Goldman1 era incline a pensare che l’io fosse l’ostaggio di tutti.
1. Emma Goldman (1869-1940), di origine ebraica russa. È emigrata negli Stati Uniti nel 1886 e li è diventata anarchica. Nel 1919 è stata estradata dagli Stati Uniti per il suo anarchismo nella Russia sovietica dove
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La posizione di Levinas è del tutto esemplare, per non dire unica. Messa in luce questa posizione eccentrica di Levinas, si capiranno senza fatica i molteplici e improvvisi incontri in momenti di lettura e di scrittura tra la critica della politica e questo pensiero. Così «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo» non è forse un contributo inedito alla riflessione sulla servitù volontaria in regime totalitario? Discernendo nell’hitlerismo un primato accordato all’esperienza del corpo, un primato del corpo biologico come fonte di identificazione, in grado di generare un nuovo sentimento dell’esistenza – il sentimento di essere inchiodato –; riconoscendo nell’accettazione dell’incatenamento, persino nella sua glorificazione in quanto modo di accesso all’autenticità, la Stimmung dell’hitlerismo, Levinas non ha forse individuato il luogo esatto della rottura con la civilizzazione dell’Europa, poiché ormai l’essenza dell’uomo non sarebbe più la libertà, ma una specie di incatenamento? È per questo che, nel mio commento, invitavo a ritrovare nella critica di Levinas la domanda di Spinoza ereditata da La Boétie: «Com’è possibile che gli uomini si battano per la propria schiavitù come se si trattasse della loro salvezza?» Giungevo anche fino a tentare un confronto tra l’interpretazione levinassiana dell’hitlerismo e l’ipotesi di Claude Lefort, l’immagine del corpo per rendere conto della logica interna del totalitarismo. Senza confondere una struttura simbolica e un sentimento o un modo di esistere, tentavo di articolarli ponendo la domanda: il sentimento del corpo svelato da Levinas e rimasta fino alla Rivolta di Kronštadt (1921). Nel 1934, ha pubblicato le sue Memorie (Living my live).
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nell’hitlerismo non è forse ciò che rende l’ordine sociale totalitario disponibile all’immagine del corpo, figurazione della società una e indivisibile? Domanda tanto più legittima in quanto anche se Levinas non ha fatto ricorso esplicitamente all’inconcepibile di La Boétie, accetta totalmente l’idea di servitù volontaria, in particolare in «Libertà e comando», dove, interrogandosi sulle forme della tirannide, scrive: «Essa [la tirannide] può annientare nell’animo tiranneggiato lo stesso potere di essere ostacolato, cioè perfino il potere di obbedire ad un comando. La vera eteronomia comincia quando l’obbedienza smette di essere obbedienza cosciente e diventa inclinazione spontanea. La violenza suprema sta in questa suprema dolcezza. Avere un animo da schiavo significa non poter essere ostacolato, non poter essere comandato. L’amore del padrone riempie l’animo al punto che esso non prende più le distanze» («Libertà e comando», in Etica come filosofia prima, p. 17). E cosa direste della costellazione Ernst Bloch e Levinas, e della costellazione Levinas e Walter Benjamin del quale l’immagine dialettica non è così lontana dalla conversione utopica, così come la conversione utopica non è così lontana dall’epoché fenomenologica? Due costellazioni delle quali ricordo che vi sono care e alle quali bisogna aggiungere la costellazione Adorno-Levinas? Le mie ricerche sull’utopia e i miei lavori sulla Scuola di Francoforte mi hanno condotto a costruire naturalmente una costellazione Bloch-Levinas. Come abbiamo già visto, grazie a questa costellazione, ho proposto delle alternative per pensare la persistenza dell’utopia: un focolaio ontologico con Ernst Bloch, l’incompiutezza dell’essere in lavoro verso il compimento; e l’umano, l’intrigo dell’umano con
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Levinas. Ma quando si legge il corso su La morte e il tempo, si capisce immediatamente che gli effetti della costellazione non si fermano qui. Non posso impedirmi ancora una volta di ritornare sulla folgoranza dell’incontro Bloch-Levinas e gli effetti che ne scaturiscono. Muovendo i suoi passi nella rivoluzione blochiana diretta contro Heidegger – non pensare più il tempo a partire dalla morte, ma pensare la morte a partire dal tempo – Levinas articola questo gesto rivoluzionario in un’altra inversione che, non contenta di assegnare l’utopia al tempo e non allo spazio, capovolge questa prima proposta fino ad assegnare il tempo stesso all’utopia, come se l’utopia fosse la tessitura del tempo, in modo tale che, contro Heidegger, bisogna ormai pensare la morte a partire dal tempo, ma da un tempo specifico, il tempo assegnato all’utopia. Torniamo ancora una volta all’effetto inaudito di questa assegnazione così nuova: l’utopia diventata temporalizzazione del tempo. «L’utopismo di speranza – scrive Levinas – è temporalizzazione del tempo, pazienza del concetto. Il tempo come speranza dell’utopia non è più tempo pensato a partire dalla morte» (Dio, la morte e il tempo, p. 148). Ne consegue una nuova forma di angoscia. Mentre per Heidegger la morte si annuncia nella coscienza dell’annientamento, della fine del mio essere, per Ernst Bloch, nella misura in cui l’essere contiene più o meglio dell’essere, in cui l’evento dell’essere è subordinato a un compimento, «in cui l’uomo ritrova il suo focolaio», l’angoscia si trasforma per metamorfosi in melanconia provocata dall’incompiutezza. «Nella sua mira originaria – scrive Levinas a proposito di Ernst Bloch – l’angoscia sarebbe malinconia per l’opera incompiuta» (Ibid., p. 155). Inoltre, questa assegnazione del tempo all’utopia fa sì che il tempo sia preso sul serio. In
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quanto il tempo è assegnato a ciò che non è ancora, a ciò che non sta da nessuna parte, in alcun luogo – utopia. Da qui lo scarto tra l’utopia e la filosofia della storia, così sensibile nella Prefazione di Totalità e infinito. Il presente non è gonfio di avvenire, poiché l’avvenire in quanto non avvenuto «non è virtualmente reale, non preesiste»; o ancora, «Lo slancio verso un avvenire è una relazione con l’utopia e non un cammino verso una fine della storia predeterminata nel presente che è oscuro» (Ibid., p. 144). Da questo tempo d’utopia, assegnato all’utopia, emerge che il tempo intrattiene un rapporto costitutivo con l’infinito. È solo di recente, nella prospettiva della conversione utopica, che io sono stato allo stesso tempo affascinato e intrigato dal confronto possibile tra l’epoché fenomenologica di Levinas e l’immagine dialettica di Walter Benjamin. Da molti anni questo confronto mi attirava. Poiché lì si offrivano due vie: una di sospensione del pensiero, l’altra di arresto del pensiero, che valevano l’una e l’altra come delle «tecniche del risveglio» in quanto esse permettevano, l’una e l’altra, attraverso vie diverse, di strapparsi a delle forme di sonno dogmatico. È così che sono stato portato a elaborare una costellazione Levinas-Benjamin, i quali avevano in comune di situare l’utopia dalla parte del risveglio e non dalla parte dell’illusione. Sono stato anche tentato di scrivere un saggio su Adorno e Levinas. Quando ne parlai a Levinas, mi mise in guardia con un richiamo: «Non dimenticate che io sono fenomenologo!». Al di là della ricerca di affinità elettive, del confronto con Hegel, Husserl e Heidegger, mi interessava soprattutto la mediazione di Adorno in Dialettica negativa sul filosofare dopo Auschwitz. Non potevamo forse leggere in queste
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pagine una sorta di esplicitazione dell’esergo di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza? Adorno e Levinas non hanno forse in comune innanzitutto di interrogarsi su: cosa significa pensare dopo la catastrofe? Come pensare dopo il disastro? Adorno espone una esigenza minimale: «Se esso [il pensiero] non si commisura all’estremo, che è sfuggito al concetto, è in partenza della stessa marca della musica di accompagnamento con cui le SS amavano coprire le grida delle loro vittime» (Dialettica negativa, p. 329). L’estremismo che alcuni sono così pronti a rimproverare a Levinas, tanto riducono l’innominabile a delle «circostanze», non proviene forse precisamente da situazioni estreme, non è forse il prisma necessario attraverso il quale è opportuno pensare dopo la catastrofe? Quanto alle ricerche di filosofia politica critica, esse si tengono lontane da un incontro possibile con l’opera di Levinas. Possiamo concepire un rapporto tra il Contro Hobbes di Pierre Clastres e il Contro Hobbes di Levinas? Lo stesso si dica del momento machiavelliano, della democrazia contro lo Stato. E tuttavia, è in rapporto a quest’ultimo tema che sono stato attirato dalla questione dell’anarchia nell’opera di Levinas la quale, anche se non è da confondere con l’anarchismo, non esclude l’esercizio di un effetto di sommovimento radicale sulla politica. Allo stesso modo, lo strano movimento descritto da Levinas in una lettura talmudica, il movimento al di là dello Stato nello Stato, non è forse identificabile con una certa concezione della democrazia? Un passo in più e incontriamo la «vera democrazia» del giovane Marx in lotta contro lo Stato.
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Politica e metapolitica
Danielle Cohen-Levinas: Voi insistete molto sulla necessità di distinguere «politica» e «metapolitica», come se questa distinzione vi permettesse di spostare la posta di una critica della politica in un luogo in cui le contraddizioni si sottraggano ad ogni influenza, immergendoci così in una sorta di incertezza che ci impedisce di ripiegare i segni concreti su un unico formalismo economico o giuridico. L’accento è posto su una questione essenziale: come pensare l’«umano»? Su un tutt’altro registro, penso qui al vostro bel testo «Walter Benjamin, le guetteur de rêves», che mette in scena due idiomi benjaminiani, l’immagine mitica e l’immagine dialettica. Parafrasando il vostro titolo, potremmo dire che voi siete in qualche modo «colui che attende in agguato (guetteur) l’umano», e i due idiomi dai quali voi «attendete in agguato (guettez)» sono la politica e la metapolitica. Cosa rappresenta per voi questa doppia nozione che, ancora, mi fa pensare alla Wunsch-Bild di Benjamin, quell’immagine che il tempo abita? Tra la politica
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e la metapolitica c’è l’umano che il tempo abita. Credo che anche qui la vostra riflessione incroci quella di Levinas. Miguel Abensour: Avevo, da tanto tempo, l’intenzione di scrivere un saggio sull’umano tra l’etica e la politica. Non l’ho fatto, ma poi ho scritto un articolo pubblicato nei Cahiers philosophiques de Strasbourg su «L’an-archie entre métapolitique et politique», che riprendeva lo stesso movimento, ma sostituendo la metapolitica all’etica, nella misura in cui l’umano, nel pensiero di Levinas, rinvia ad una dimensione che certo comprende l’etica, ma non si riduce ad essa e si rivela molto più profonda, più estensiva di essa. Come indica la preposizione «tra» (entre) nel titolo, si tratta di un tentativo di situare l’umano, l’intrigo dell’umano, forse insituabile, non localizzabile, che si sottrae all’assegnazione di un luogo determinato, e che allo stesso tempo indica in direzione di un non-luogo. È anche in questo senso che l’umano è utopico o che Levinas ha potuto permettersi di parlare di un’utopia dell’umano. Non occorre fare un altro passo? Non è forse perché l’umano è anarchico che intreccia dei legami con il non luogo dell’utopia? Domanda che ritroveremo. Voi mi chiedete cosa rappresenta per me questa doppia nozione? Il termine metapolitica non si trova in Levinas. Vi ho fatto ricorso per richiamare una dimensione altra dalla politica (pur mantenendo delle relazioni con essa) rifacendomi alla pluralità di significati del termine greco meta. Questa parola innanzitutto vuol dire in modo topico e tecnico dopo, oltre; ma designa anche, come insiste Heidegger nel suo corso sui Concetti fondamentali della metafisica, un movimento simile ad una svolta. Un «volgersi via da una cosa in direzione
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di un’altra». Così il nome di metafisica non designa più ciò che viene dopo le lezioni sulla fisica, ma «ciò che si volgevia [détourne nella trad. francese utilizzata, N.d.T.] dalla physika e si rivolge ad un altro ente, all’ente in generale e all’ente autentico. Questa inversione accade nella filosofia autentica» (Concetti fondamentali della metafisica, p. 55). Con questo movimento, con questa svolta, si tratta di realizzare un’uscita al di là dell’ente particolare, oltre esso verso quest’Altro. Così la metafisica designa una conoscenza al di là del sensibile che, grazie a questa svolta, diventa conoscenza del soprasensibile. E Heidegger aggiunge: «Il titolo “metafisica” ha così, in seguito, fornito lo spunto per costruzioni analoghe, che in conformità ad esso vengono intese in senso contenutistico». Così, per la politica, Von Stein ha chiamato «metapolitica» il fatto di dare «una fondazione alla politica, a partire da sistemi filosofici» (Ibid., p. 56). Applicata all’opera di Levinas, l’espressione metapolitica non rimanda alla significazione topica – ciò che viene dopo la politica. Ciò tanto meno che, secondo un celebre testo di Levinas, la politica viene dopo l’etica la quale accede al rango di filosofia prima. Essa riconduce piuttosto ad un significato legato al contenuto, evoca la svolta che consiste nel lasciare qualcosa per rivolgersi verso qualcos’altro, in questo caso un’uscita dalla politica, un passaggio al di là di questo ente particolare che è la politica verso quell’Altro che è la metapolitica. Questo è il capovolgimento che il termine metapolitica qui tenta di designare. Nel caso di Levinas, a ben vedere, quest’espressione significa un percorso complesso. Se il meta che la compone designa una svolta, un’uscita, in breve un passaggio al di là della politica, designa ugualmente una provenienza, vale a dire un al di qua che permette l’uscita, che
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apre un passaggio verso l’al di là della politica. Definendo la responsabilità per l’altro, Levinas mette in luce questa struttura complessa, questa traiettoria da un al di qua a un al di là. «La libertà di altri – scrive – non potrebbe fare struttura con la mia, né entrare in sintesi con la mia. La responsabilità per il prossimo è precisamente ciò che va al di là del legale e obbliga al di là del contratto, essa mi viene dall’al di qua della mia libertà, di un non presente, di un immemorabile» (Di Dio che viene all’idea, p. 94). Mentre Rousseau aveva osservato che «tutto dipende radicalmente dalla politica» (Le confessioni, Libro nono), Levinas, piuttosto che accordare all’istituzione politica del sociale una efficacia radicale, realizza uno spostamento significativo e introduce una dimensione nuova: l’umano, meglio, l’intrigo dell’umano nel suo dispiegamento stesso, nella sua drammatizzazione, sconvolge il gioco della determinazione politica aprendo ad un’altra traiettoria che va dall’al di qua all’al di là dell’essere. Di questa dimensione si potrebbe dire, riprendendo un termine di Levinas, che essa è l’«eccezione umana». Cosa vuol dire? In vari testi, Levinas invita a pensare l’umano altrimenti. Si può pensare l’uomo come l’individuo di un genere, il genere umano – o come «ente situato in una regione ontologica, perseverante nell’essere come tutte le sostanze» (Umanesimo dell’altro uomo, p. 152). Ma si può riconoscere un intrigo venuto anteriormente al conatus che pertanto si distingue dalla perseveranza propria a ogni essere e, in questo caso, si può pensare l’uomo nella prospettiva della responsabilità per altri. «Ma è necessario anche pensare l’uomo muovendo dalla responsabilità più antica del conatus della sostanza o dell’identificazione interiore; movendo dalla responsabilità che, chiaman-
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do sempre all’esterno, sconvolge proprio quell’interiorità». (Ibid.). Essendo l’uomo responsabilità prima che intenzionalità, lo sguardo si rivolge verso il crescendo della prossimità, l’ossessione, la sostituzione, la condizione o piuttosto la non-condizione di ostaggio. Ma è in Altrimenti che essere che Levinas invita a scoprire la stravagante estraneità dell’umano: né essenza, né sostanza, tanto meno destinazione, ma avventura, intrigo che conduce allo straordinario. Non si tratta più come in Totalità e infinito di interrogare «le nostre relazioni con gli uomini […] campo di ricerca appena intravisto» (p. 77). Ma si tratta di riuscire a isolare una costellazione complessa che invalida le definizioni classiche del fatto umano. Queste definizioni appartengono all’ordine del sapere. Ora, non si tratta più di sapere, ma di un altrimenti che sapere così come si rivela nel fatto del prossimo. «Ma – precisa Levinas – non si ha bisogno di questo sapere nella relazione in cui l’altro è il prossimo» (Altrimenti che essere…, p. 74). Così Levinas si tiene deliberatamente a distanza dalla scuola del sospetto che per diverse vie conclude con il carattere condizionato dell’umano. L’angolo di attacco di questa scuola, che si tratti di psicanalisi, di sociologia o della politica è tanto più contestabile quanto più si appoggia su una prospettiva che parte da un sapere in grado di stabilire delle relazioni causali o di far apparire una concatenazione di determinismi. «I sospetti generati dalla psicanalisi, dalla sociologia e dalla politica, pesano sull’identità umana in modo tale che non si sa mai a chi si parla e con che cosa si ha a che fare quando si costruiscono delle idee a partire dal fatto umano» (Ibid., p. 74). Ma alla scena del gioco della causalità si sovrappone un’altra scena che sfugge a questo luogo, nella misura in cui si «costruiscono delle idee» a par-
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tire dal fatto del prossimo. Ne consegue che l’umanesimo conosce uno spostamento radicale nel senso che «l’uomo per eccellenza – la sorgente dell’umanesimo – è forse l’Altro» («Transcendance et Hauteur», in Liberté et commandement, p. 59). O ancora: «Solo l’umanesimo dell’altro uomo è umano» (Dio, la morte e il tempo, p. 249). Levinas dichiara a proposito dell’anti-umanesimo moderno: «La sua intuizione geniale consiste nell’aver abbandonato l’idea di persona, scopo e origine di se stessa, in cui l’io è ancora cosa perché è ancora un essere» (Altrimenti che essere…, p. 161). Intuizione rinforzata perché l’umanesimo moderno ha sostituito all’idea di persona la condizione o la non-condizione di ostaggio. Al di là di questo spostamento dall’umanesimo, è considerevole l’insistenza sulla precedenza del fatto del prossimo che è il «perseguitato di cui io sono responsabile fino ad essere il suo ostaggio e in cui la mia responsabilità – invece di scoprirmi nella mia «essenza» di Io trascendentale – mi spoglia e non cessa di spogliarmi» (Ibid., p. 75). Precedenza che sconvolge il pensiero dell’umano, come un «miracolo» non in senso religioso, ma nel senso di Hannah Arendt quando quest’ultima riconosce all’azione il potere di bloccare i determinismi in corso o il potere di passare al di là. Un evento o l’intrigo della responsabilità che fa sfuggire l’umano ad ogni condizionamento, o ad ogni condizione, nella misura in cui l’umano, che fa appello a un intrigo anteriore al conatus essendi, è altrimenti che essere. Da qui questa affermazione decisiva: «Ci si può chiedere dunque se nulla al mondo è meno condizionato dell’uomo, fino all’assenza in lui dell’ultima sicurezza che offrirebbe un fondamento» (Ibid., p. 75). Se tale è la situazione dell’umano, ne segue che l’intrigo dell’umano tagliato, separato da ogni fondamento,
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si rivela essere un intrigo anarchico. Questo movimento di riscoperta, se non di riconquista dell’umano, prosegue con quest’altra interrogazione ugualmente decisiva: possiamo chiederci se «in questo senso, niente è meno ingiustificato della contestazione della condizione umana» (ibid., p. 75). Come se contestando l’idea di condizione umana – l’insieme dei limiti a priori dell’uomo – fosse importante congedare l’idea di limite, la quale, rinchiudendo, seppur temperata dal progetto, avrebbe per effetto di descrivere o piuttosto di designare questa condizione. In breve, sarebbe importante allontanare «le influenze, i complessi e l’occultamento che ricoprono l’umano» per meglio riscoprire in una profondità insospettabile, l’umano stesso, vale a dire ciò che Levinas chiama la santità o la separazione o ancora «umano assoluto». L’umano, in preda ad una responsabilità irrecusabile – «la lotta per l’uomo sfruttato» – o «l’impossibile indifferenza riguardo all’umano» – è disinteressamento, altrimenti che essere, al di là dell’essere, separato dall’essere e separato dal mondo. Si riconosce sempre lo stesso movimento di aggiornamento dell’intrigo dell’umano, quando Levinas invita a non nascondere il paradosso secondo il quale lo stato di alienazione che genera la responsabilità per l’altro uomo si rivela essere non-alienazione, disalienazione dell’alienazione. «Paradossalmente – scrive Levinas – è in quanto alienus – estraneo e altro – che l’uomo non è alienato» (Ibid., p. 75). L’umano lungi dall’essere «un regno dentro un regno» si separa dal mondo e dall’essere, non nell’affermazione del mondo e dell’essere, non nell’affermazione di una sovranità; si pone in una deposizione di sovranità, nell’assunzione della vulnerabilità. È quando l’umano è non ricoperto che, nell’esposizione ad altri, si scopre come una vera terra inco-
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gnita che disegna il paragrafo «Soggettività e umanità», nel segno della significazione: «Ci si accorge […] che l’umano, affrontato come un oggetto tra gli altri […], assume delle significazioni che si connettono e si implicano in modo da condurre a delle possibilità concettuali estreme e irriducibili che oltrepassano i limiti entro cui si procede alla descrizione, fosse anche dialettica, dell’ordine e dell’essere» (Altrimenti che essere…, p. 74). L’intrigo dell’umano conduce «allo straordinario al di là del possibile – come la sostituzione dell’uno all’altro, l’immemoriale passato che non ha attraversato il presente, la posizione di sé come deposizione dell’Io, il meno che nulla come unicità, la differenza in rapporto all’altro come non-indifferenza» (Ibid., p. 74). Terra incognita che costituisce «le possibilità estreme delle significazioni umane, stravaganti perché portano precisamente a vie d’uscita» (Ibid., p. 74). L’intrigo dell’umano tessuto dalle significazioni o l’intrigo della responsabilità per l’altro uomo. «Significazioni nelle quali si trattengono […] degli uomini che non sono mai stati commossi (sia che questo avvenga nella santità o nella colpevolezza) da altri uomini ai quali essi riconoscono, fino all’indiscernibile della loro presenza in massa, un’identità; davanti ai quali essi si ritrovano insostituibili e unici nella loro responsabilità» (Ibid., p. 74). In fondo non cessate di far riferimento a questa dimensione di stravaganza che avete sviluppato nel vostro testo «Un’ipotesi stravagante»; stravaganza che porta Levinas a Altrimenti che essere, opera nella quale descrive il processo che conduce all’esperienza di soggettivizzazione fuori da sé, che si situa al di là del linguaggio dell’essere, come se la prossimità così esposta davanti all’assegnazione dell’io da parte di altri potesse condurre all’ossessione, alla follia. Sarebbe questa la singolarità della metapolitica?
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Tutto ciò che è stravagante in Levinas, per esempio la stravagante ipotesi quanto all’origine dello Stato, proviene dall’intrigo dell’umano, l’umano altrimenti che essere. Lo stesso vale per questa descrizione straordinaria dello psichismo umano in Altrimenti che essere. «Lo psichismo è la forma di un insolito sfasamento – di un rilassamento o di un allontanamento – dell’identità: il medesimo impedito di coincidere con se stesso, spaiato, strappato alla propria quiete, tra sonno e insonnia ansito, fremito» (Ibid., p. 86). In una nota di questo libro, Levinas aggiunge: «L’anima è già seme di follia» (Ibid.). La forza della metapolitica in Levinas viene dal fatto che essa non deriva assolutamente dall’idealità, né da principi tratti da un sistema filosofico e che sarebbero destinati ad applicarsi alla politica. Cosa che va di pari passo, da Platone in poi, con la pretesa dei filosofi di dettar legge e di controllare la città degli uomini, di instaurare un governo dei filosofi, in nome della pretesa differenza tra coloro che sanno e coloro che non sanno. Al contrario, nell’opera di Levinas, la metapolitica emana dalla sensibilità che è insieme godimento ed esposizione ad altri, essendo i due aspetti strettamente legati, sensibilità che è condivisa da tutti gli esseri di carne e di sangue. A dire il vero, la metapolitica non descrive solamente una svolta – «volgersi via da una cosa in direzione di un’altra» –, ma designa anche un contenuto, vale a dire una regione meta-ontologica, per il fatto che essa si situa al di là del conatus essendi, e arriva fino ad un’inversione del conatus, sotto le specie della prossimità, altra via per riferirsi all’«eccezione umana», all’intrigo dell’umano. La frase che caratterizza la svolta «volgersi via da una cosa in direzione di un’altra» può essere ormai formulata in modo determi-
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nato: «lasciare il conatus o il compito d’essere per rivolgersi verso l’al di qua anarchico della prossimità». Il primo lavoro di Levinas consiste nel disoggettivare la prossimità rifiutando di intenderla in un senso puramente spaziale. Nella logica di questa disoggettivazione segue il rifiuto di pensare la prossimità come un’esperienza dell’altro; si tratta piuttosto di un’esposizione all’altro, tale da far si che si abbia ispirazione del Medesimo da parte dell’Altro. Messo così da parte il senso relativo, Levinas afferma: «Il suo senso assoluto e proprio suppone l’umanità». (Altrimenti che essere…, p. 101). Questa «supposizione» dell’umanità, questo rapporto costitutivo con l’umano esige di pensare la prossimità allontanandola dal sapere, o dalla coscienza intenzionale, come coscienza di…: «L’umanità alla quale si riferisce la prossimità propriamente detta – scrive Levinas – non deve dunque subito essere intesa come coscienza, cioè come identità di un io dotato di saperi o (che è lo stesso) di poteri. La prossimità non si risolve nella coscienza che un essere prenderebbe di un altro essere ritenuto vicino in quanto sotto i suoi occhi o alla sua portata e di cui sarebbe possibile appropriarsi, essere che potrebbe essere tenuto o con cui ci si potrebbe intrat-tenere nella prossimità della stretta di mano, della carezza, della lotta, della collaborazione, del commercio, della conversazione» (Ibid., p. 103). Partire dal sapere o dalla coscienza intenzionale espone a perdere, a mancare la prossimità consegnandola alla tematizzazione o, peggio ancora, espone la coscienza a «rimuovere» in se stessa «una soggettività più antica del sapere o del potere» (Ibid., p. 103). Come descrivereste la «prossimità»? Come si può descrivere ciò che non è tematizzabile e ciò che rientra nel campo dell’eccezione?
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La prossimità non è né uno stato, né una quiete, ma una impacificabile inquietudine. È non-luogo, fuori dal luogo della quiete, in quanto insufficientemente prossimità, come se il suo impulso più profondo fosse quello di provare senza posa un «mai abbastanza prossimo». Non-indifferenza o fraternità, la prossimità non è semplice relazione; lungi dall’essere una presa di coscienza, è una presa nella fraternità, abnegazione, instaurazione de l’uno-per-l’altro. «L’approssimarsi – scrive Levinas – è precisamente un’implicazione dell’approssimante nella fraternità […]. Questa presa nella fraternità che è la prossimità la chiamiamo significanza» (Ibid., p. 103s). Al di là del sapere, altrimenti che sapere, al di là della semplice relazione, la prossimità è ossessione, vale a dire la non reciprocità stessa, un’affezione per il prossimo irreversibile, a senso unico in cui l’«io abbia sempre una risposta in più da dare» (Ibid., p. 105); un io, o piuttosto un sé «di colpo costretto a…», come all’accusativo, di colpo responsabile e senza alcuna possibilità di scampo. Il pensiero di Levinas è in rottura con la tradizione filosofica dell’Occidente. Mentre quest’ultima associa la spiritualità alla coscienza e al sapere, Levinas, preoccupato di non ricadere nell’intellettualismo della filosofia riflessiva, parte deliberatamente dalla sensibilità che interpreta non come sapere, ma come prossimità, come uno psichismo irriducibile al sapere, come altrimenti che sapere che proviene dal fatto del prossimo. In questo caso la relazione, lungi dall’essere il frutto di una deviazione da un principio o una idealità, si costituisce nell’immediatezza dell’esposizione ad altri. «Anarchicamente – scrive Levinas – la prossimità è così la relazione con una singolarità senza la mediazione di nessun principio, di nessuna idealità» (Ibid., p. 125). La prossimità
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è una relazione con altri che non può risolversi in immagine, né esprimersi in un tema. Essa ha un modo di significare che gli è proprio. Differente dalla donazione di senso, essa si distingue dalla relazione del sapere in cui tutto si uniforma; essa si rivela essere un’assegnazione dell’io da parte di altri, «una responsabilità nei confronti di uomini che nemmeno conosciamo» («La Soggettività come an-archia», in Dio, la morte e il tempo, p. 236). Essa riceve da parte di Levinas il nome di ossessione, per significare che essa è irriducibile alla coscienza, irriducibile all’intenzionalità; per significare che, se essa si inscrive nella coscienza, lo fa in quanto estranea, per meglio rimarcare una eteronomia, un disequilibrio, «un delirio che sorprende l’origine» (Ibid., p. 237). Così, la prossimità è presentata in modo insistente da Levinas come anarchica. Questa qualità della prossimità presenta molteplici sfaccettature. Innanzitutto ciò vuol dire che la prossimità, defezione della coscienza, defezione dell’intenzionalità, è anteriore ad ogni cominciamento, rientra nel campo del preoriginale, di un passato immemoriale che non è mai stato presente. La giustizia, sebbene abbia come compito di introdurre una certa misura nell’incommensurabile, deriva da una significazione prima. Meglio, «essa deriva, più esattamente, da una significazione anarchica della prossimità» (Altrimenti che essere…, p. 101). La soggettività del soggetto che si avvicina è prima della coscienza. Nel corso su «La soggettività come an-archia», l’ossessione è presentata sotto il segno dell’anteriorità, come «un delirio che sorprende l’origine, che sorge prima dell’origine, anteriore all’arché, all’inizio, producendosi prima di ogni bagliore della coscienza. È un’anarchia che arresta il gioco ontologico nel quale l’essere si perde e si ritrova» (Dio, la morte e il tem-
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po, p. 237). Questa passione raggiunge gli estremi attraverso tre aspetti. Da essa, la coscienza è raggiunta suo malgrado; in essa, la coscienza è colta senza alcun a-priori, altri è il primo venuto; con essa, la coscienza è affetta dal non-desiderabile. Il prossimo in quanto altro non è preceduto da alcun precursore che preverrebbe la coscienza aiutandola così a innestare il movimento che riduce l’altro al Medesimo. Non è forse questo un tenersi al di qua di ogni arché? La sopravvenienza del prossimo è tanto più anarchica quanto più si tratta di un’assegnazione che non passa in alcun modo attraverso la mediazione del genere, come se il prossimo si reclamasse, al fine di provocare la riconoscenza e favorire l’incontro. La situazione è tutt’altra, infinitamente più brusca: io sono assegnato al prossimo in quanto altro in ragione della sua singolarità. L’assegnazione, lungi dal realizzarsi grazie alla mediazione di un intermediario, si realizza direttamente attraverso il volto. «Questo modo del prossimo è volto. Il volto del prossimo mi significa una responsabilità irrecusabile precedente ogni libero assenso, ogni patto, ogni contratto» (Altrimenti che essere…, p. 110). Anarchia raddoppiata, in quanto l’assegnazione ha luogo prima di ogni arché, in quanto l’invocazione della responsabilità che mi raggiunge non è preceduta da alcun accordo preliminare. Inoltre, la prossimità in quanto ossessione non reciproca fa eccezione in rapporto a un ordine razionale che tende verso un sistema di relazioni suscettibili di scambi, nella misura in cui esse sono reversibili e simmetriche, o meglio commensurabili. Ora, nella prossimità il prossimo mi assegna. Questa è la modalità dell’ossessione. Io sono sempre da meno senza potermi liberare del mio debito, «come ordinato dal di fuori, traumaticamente condannato» (Ibid., p. 108). Continuando
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la descrizione di questa eccezione, la prossimità è minaccia a un ordine razionale di cui un terzo spettatore potrebbe rendere conto mostrando come quest’ordine è intelligibile, in quanto le relazioni che lo costituiscono sono suscettibili di reciprocità fino a un certo grado, permutabili in quanto tendenti alla reversibilità e alla simmetria. Ora, rispetto ad un tale sistema concepibile, la prossimità fa eccezione, essa è «disordine». Questa esposizione della sensibilità dell’altro indica in direzione di «un al di qua del libero e del non libero», verso uno strato più profondo che designa precisamente l’anarchia del Bene. Per Levinas, il legame tra il soggetto e il Bene è anarchico; questo legame «che non si può stringere come se consistesse nell’assunzione di un principio presente […], ma vincolo anarchico che si strinse senza che il soggetto sia stato volontà» (Umanesimo dell’altro uomo, p. 124). Il bene è anteriore al male, non è questa una delle possibili matrici della stravagante ipotesi? Allo stesso modo, la responsabilità per l’altro è più antica del «conatus della sostanza», più antica del cominciamento e del principio, a partire dall’an-archico. Così definito, «l’io ridotto a Sé, responsabile suo malgrado», è ostaggio di tutti (Ibid., p. 126). L’umano, in quanto altrimenti che essere, in quanto capace di trovare un senso senza misurarlo all’ontologia, non è forse anarchico? Oltretutto, la prossimità è ancora disordine per un’altra via. In realtà, la prossimità porta una nuova minaccia a un ordine razionale attraverso la temporalità che le è propria. «La prossimità – scrive Levinas – non entra in questo tempo comune degli orologi che rende possibile gli appuntamenti. Essa è disordine» (Altrimenti che essere…, p. 111). La temporalità della prossimità è eccezionale. Non solamente essa
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sconvolge, essa mette in disordine il tempo comune degli orologi, ma essa introduce anche ad un’altra prova del tempo differente dal tempo della coscienza o della temporalità che si esprime nel Detto. Nel tempo della coscienza un Io attivo raccoglie il passato, lo recupera con la memoria o con il lavoro della storiografia. Ora ciò che vi è di più proprio per la prossimità e per la responsabilità per altri, è il fatto che esse precedono ogni impegno, non risultano da alcun impegno libero, vale a dire non derivano da alcun presente. La responsabilità per l’altro appartiene ad un tempo estraneo che è un tempo senza cominciamento. «Nella prossimità si ode un comandamento venuto da un passato immemorabile: che non fu mai presente, che non è cominciato in alcuna libertà. Questo modo del prossimo è volto» (Ibid., p. 110). Da ciò l’anarchia di questo strano tempo che per difetto di cominciamento non può raccogliersi in rappresentazioni. Stringendo una relazione con un passato che non è mai stato presente, un passato immemoriale, la prossimità «smonta il tempo recuperabile della storia e della memoria in cui la rappresentazione si svolge» (Ibid.). Qui ancora, la prossimità è disordine del tempo rimemorabile. La questione dell’an-archia è centrale per voi. Io non sono stupita del modo in cui è già inclusa sotto le specie della prossimità che arriva a disfare tutte le sintesi dell’intelletto e della rappresentazione. Forse non sarebbe inutile precisare che la parola an-archia in Levinas è totalmente distinta da anarchismo. Levinas è preoccupato di distinguere l’an-archia o l’an-archico nel senso in cui lo intende – l’intrigo dell’umano, l’intrigo della responsabilità – dall’anarchismo. L’anarchismo, dottrina politica, si costituisce e si afferma con la deviazione
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di un principio e con il ricorso ad un principio, vale a dire l’invocazione del principio di ragione contro il principio di autorità. Diverso è per l’an-archia. Questa proviene dalla sensibilità sotto le specie della prossimità e fa dunque l’economia, nella sua immediatezza, di una deviazione da un principio o una idealità. La prossimità o l’intrigo dell’umano è an-archico poiché proviene da un al di qua, da un preoriginale, non rappresentabile, non tematizzabile, supposto altrimenti rispetto ad un principio. «Al di qua an-archico» afferma Levinas: si tiene lontano da ogni arché nel senso che è anteriore ad ogni cominciamento, ad ogni impegno preliminare, ad ogni contratto. Proveniente da un passato immemoriale, non rimemorabile, questo an-archico può essere nella coscienza, ma non è posto dalla coscienza. In questo senso va assieme con una defezione della coscienza, una defezione dell’intenzionalità, e, lungi dall’essere il frutto di una posizione e di un’affermazione dell’Io, esso è al contrario deposizione della sua sovranità. L’an-archia non regna, insiste Levinas. «L’anarchia – scrive Levinas – non può essere sovrana come l’arché» (Altrimenti che essere…, p. 126, nota 3). È per questo che l’idea di principio di anarchia che Rainer Shürmann attribuisce ad Heidegger è inaccettabile nella prospettiva di Levinas. Come abbiamo osservato a proposito dello Stato della giustizia che proviene dalla prossimità, non di meno l’anarchia esercita un effetto non trascurabile sulla politica. L’anarchia turba la politica. L’anarchia non regna, ma può dirsi, accedere alla parola senza diventare parola sovrana, ma preoccupata di conservare il suo statuto ambiguo di enigma che si manifesta senza manifestarsi, essa lascia una traccia, solamente una traccia. Riprendiamo la definizione che ne dà Levinas: «Questo modo di pensare inquietando il
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presente senza lasciarsi investire dall’arché della coscienza, offuscando la chiarezza dell’ostensibile, lo abbiamo chiamato traccia» (Ibid., p. 125). A questo Dire che in quanto Dire porta in sé la dimensione dell’uno per l’altro è riconosciuta la facoltà di turbare lo Stato – lo Stato arché –, di inquietarlo, ma in modo radicale, toccandolo fino alle radici, scuotendo lo Stato nelle sue radici o nelle sue fondamenta, i suoi principi. Turbamento che apre ad una vera dialettica negativa nel senso adorniano del termine. Secondo l’apertura di Dialettica negativa, si tratta di una forma di dialettica specifica in quanto è liberata da ogni essenza affermativa, per il fatto che il gioco della negazione – la negazione della negazione – cessa di produrre del positivo. Dialettica negativa per Levinas, poiché anche se non usa il termine, ne descrive il funzionamento; essa rende possibili «degli istanti di negazione senza alcuna affermazione». Infatti, passare all’affermazione, a un registro positivo, non vorrebbe dire ricadere nella sovranità, nell’arché e, per l’an-archia, nello stesso tempo, rovinarsi? Degli istanti solamente, ma degli istanti determinanti che nella loro stessa fragilità, la fragilità della traccia, nella loro non-installazione nel tempo, impediscono la manifestazione politica dell’arché, quella che è detentrice della sovranità e lavora a erigersi a tutto. Rifiuto della sintesi: «Lo Stato così non può erigersi a Tutto» (Ibid., p. 126, nota 3).
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La giustizia, il terzo e lo Stato al di là dello Stato
Danielle Cohen-Levinas: Il gesto filosofico di Levinas è particolare in quanto, a vostro avviso, consiste nell’articolare metapolitica e politica allo scopo di non lasciare la politica a se stessa. Si ritorna sulla questione della Giustizia, per non dire dello Stato e, naturalmente, del sorgere del terzo che è sempre già presente e che dovrebbe apportare una misura alla dismisura dell’an-archia. Miguel Abensour: Il gesto di Levinas è complesso. Distingue tra metapolitica – tutto ciò che impedisce di ridurre la politica a se stessa – e la politica, non per separarle in modo rigido e dogmatico, ma per articolarle l’una rispetto all’altra o meglio per, in questa articolazione, chiarirle l’una attraverso l’altra. «La filosofia occidentale e lo Stato, originati tuttavia dalla prossimità», scrive Levinas (Altrimenti che essere…, p. 210). Certo l’ingresso del terzo, che è già sempre presente, mira a introdurre la misura nell’incommensurabile, la comparazione, che è ragione tra gli incomparabili,
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la reciprocità, la simmetria laddove regnano l’altezza e l’asimmetria. In breve l’ingresso del terzo mira a mettere ordine in questo sconvolgimento, in questa anarchia. Ma da ciò non consegue che tale passaggio alla ragione significhi la fine della prossimità, che la prossimità sia stata dimenticata e l’al di qua anarchico congedato. Da ciò non consegue che l’ordine ridotto a se stesso debba puramente e semplicemente prevalere. Vuol dire riconoscere che Levinas invita a pensare insieme due dimensioni: da una parte, l’ingresso delle relazioni interumane nella misurazione, nella comparazione, nell’ordine di un’organizzazione ragionevole, lo Stato politico orientato alla giustizia. Si tratta di una necessità dello stesso ordine di quella che lega il dire al detto. «Che il dire – afferma Levinas – debba comportare un detto è una necessità dello stesso ordine di quella che impone una società con leggi, istituzioni e relazioni sociali» (Etica e infinito, p. 91). D’altra parte, è importante non dimenticare l’intrigo pre-originale e dunque continuare a pensare una bidimensionalità, vale a dire continuare a pensare le istituzioni umane, comprenderle e praticarle nella luce, o piuttosto nella chiarezza della prossimità. Allo stesso tempo è opportuno prendere atto delle istituzioni umane, della loro esistenza necessaria, del loro tropismo verso lo scambio, il commercio umano e la reciprocità, e continuare a pensarle tuttavia a partire dalla prossimità, dimensione incancellabile, propria all’intrigo dell’umano, sola capace di prevenire le devastazioni dell’unidimensionalità. Così come il dire non si esaurisce nell’assorbimento del detto, allo stesso modo la prossimità non si esaurisce nell’assorbimento delle istituzioni. Nell’uno e nell’altro caso permane un resto irriducibile. Per meglio comprendere questa andatura complessa esaminiamo due casi: quello della giustizia e quello dello Stato.
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La giustizia. Nella prospettiva di Levinas, la giustizia è strettamente legata alla venuta o meglio alla presenza del terzo; è grazie a questa presenza che dei limiti possono essere apportati all’infinito della responsabilità per altri, nell’ambito di un’organizzazione ragionevole orientata verso la reciprocità e l’uguaglianza. «La relazione con il terzo – scrive Levinas – è una incessante correzione dell’asimmetria della prossimità in cui il volto si s-figura (dé-visage)» (Altrimenti che essere…, p. 198). Fatta questa constatazione circa la presenza del terzo, Levinas assegna presto dei limiti ai limiti, a tale correzione della responsabilità per altri. Precisa, nel modo più netto: «In nessun modo la giustizia è una degradazione dell’ossessione, una degenerazione del per l’altro, una diminuzione, una limitazione della responsabilità anarchica, una “neutralizzazione” della gloria dell’Infinito, degenerazione che si produrrebbe man mano che, per ragioni empiriche, il duo iniziale diventerebbe trio» (Ibid., p. 199). Alla ragione strumentale o soggettiva dell’individualismo possessivo di Hobbes, si sostituisce e si cerca in Levinas un’altra figura della ragione che trae la sua forza dal non aver tagliato il cordone ombelicale con l’intrigo pre-originale, con l’unoper-l’altro della prossimità. Da ciò le esigenze assegnate alla giustizia non neutralizzata: «La giustizia rimane giustizia solo in una società in cui non c’è distinzione tra vicini e lontani, ma in cui rimane anche l’impossibilità di passare a fianco del più vicino; dove l’uguaglianza di tutti è portata dalla mia disuguaglianza, dal surplus dei miei doveri sui miei diritti. L’oblio di sé muove la giustizia» (Ibid.). Non si tratta tanto di una ragione oggettiva opposta ad una ragione strumentale, quanto di una ragione utopica che non cessa di rigenerarsi alla fonte della prossimità. Ne consegue una
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concezione alta della giustizia, distante mille leghe da una tecnica che avrebbe per missione quella di stabilire le regole «di un equilibrio sociale tra forze antagoniste». «Il che significa concretamente o empiricamente – precisa Levinas – che la giustizia non è una legalità che sorregge delle masse umane» (Ibid.). Il riferimento alle masse umane è qui importante. Con questo nome essa designa un destinatario indistinto, neutro senza volto e quindi insuscettibile di suscitare o di far nascere la prossimità. Alle masse umane si oppone l’insieme degli uomini che io nemmeno conosco, dei quali io sono tuttavia prossimo o dei quali posso essere in ogni momento prossimo. Dall’insieme di queste considerazioni si ricava una regola, perfino una obbligazione: pensare le istituzioni a partire dalla prossimità, continuare a pensare a partire dalla prossimità. «La giustizia – scrive Levinas – la società, lo Stato e le sue istituzioni – gli scambi e il lavoro compreso a partire dalla prossimità – tutto ciò significa che niente si sottrae al controllo della responsabilità dell’uno per l’altro» (Ibid.). Considerato questo richiamo, non ci si stupirà che Levinas pervenga con naturalezza a ricordare la stravagante ipotesi e le poste in gioco delle differenti ipotesi quanto all’origine dello Stato. Lo Stato. Sarò breve su questo punto, poiché ne ho già ampiamente parlato a proposito dello Stato della giustizia. Quest’ultimo, come ho già osservato, proviene dalla prossimità e per questo fatto è in permanenza combattuto tra un al di qua e un al di là, tra la prossimità dalla quale proviene e la giustizia che persegue, come se l’al di là si riallacciasse con l’al di qua, a meno che non sia il contrario. Questo combattimento costitutivo ha per effetto benefico di impedire allo Stato di richiudersi in se stesso, di diveni-
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re una totalità integratrice che obbedirebbe ad una logica centripeta e cederebbe al peso dei suoi determinismi. È qui che ritroviamo l’imperativo di pensare e di comprendere lo Stato a partire dalla prossimità. «È importante – scrive Levinas – ritrovare tutte queste forme a partire dalla prossimità in cui l’essere, la totalità, lo Stato, la politica, le tecniche, il lavoro, sono in ogni momento sul punto di avere il proprio centro di gravitazione in se stessi, di pesare per conto proprio» (Ibid.). Inoltre, senza esaminare per il momento la questione dell’autosuperamento dello Stato, notiamo che è nell’al di qua anarchico, intrigo pre-originale, che sta il germe, l’innesco di questo movimento straordinario che dal seno dello Stato va al di là dello Stato. Lascio da parte gli effetti dell’anarchia sulla politica, ciò che io chiamo il turbamento della politica, e riprendo la questione delle masse umane. Levinas pensatore della prossimità non di meno è tormentato dalla molteplicità umana. Ora, attraverso la provenienza dello Stato, gli interessa concepire uno Stato che non sia una macchina che regge le masse umane. Al contrario, lo Stato deve prendere in carico la prossimità degli uomini che io nemmeno conosco, che hanno un volto e ai quali sono suscettibile di avvicinarmi in ogni momento. Ora, per evitare lo Stato macchina, è importante fare ritorno alla prossimità presa nella fraternità. Gli altri, intendiamo tutti gli altri, immediatamente mi concernono, stima Levinas. Ne conclude che «La fraternità precede qui la comunità di genere. La mia relazione con altri in quanto prossimo dà senso alle mie relazioni con tutti gli altri. Tutte le relazioni umane in quanto umane procedono dal disinteressamento» (Ibid., p. 199, corsivo nostro, M. A.). Così la fraternità è la bussola per lottare contro lo Stato macchina che concepisce tutti gli
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altri unicamente sotto forma di masse indistinte. La fraternità, al posto di essere un’appendice, o un effetto, o ancora un complemento della libertà e dell’uguaglianza, è l’evento primo che orienta secondo la prossimità e apre la via ad uno Stato suscettibile di andare al di là di se stesso. Forse dopo questo passaggio attraverso Levinas converrebbe invertire la formula repubblicana e mettere la fraternità per prima. Per rendere conto del carattere straordinario di questa filosofia, si possono riprendere, anche se esse si riferiscono a Spinoza, le parole dell’uomo di Kiev che risponde al magistrato che lo interrogava sulla sua lettura di Spinoza: «Più tardi ne ho letto qualche pagina e poi ho continuato come se una raffica di vento alle mie spalle mi spingesse». Nei suoi scritti, Levinas avrebbe saputo ancorare il pensiero ebraico e il giudaismo in una realtà storica. La realtà storica del giudaismo è la maniera in cui quest’ultimo avrebbe attraversato le vicissitudini della storia. È essenzialmente il giudaismo rabbinico che, sotto le sue forme molto diversificate ci ha trasmesso i racconti di questa traversata in modo tale che il senso di responsabilità di ogni uomo è inseparabile in Levinas dall’idea à venir, forse utopica di una società più giusta. Esiste un dialogo nel quale Levinas mette in scena un faccia a faccia tra Alessandro e dei Rabbini. Non si tratta in questo dialogo di opporre una concezione fondamentalista delle scritture ad una visione evolutiva del mondo, ma piuttosto di dare a intendere ciò che Levinas chiama «la meraviglia della convergenza». Questo dialogo fa parte dei testi che portano per voi una verità che si situa al di là del giudizio della storia. Al di là della storiografia. Penso in particolare al posto che occupa Hegel del quale sapete che è considerato da Levinas come uno dei più grandi filosofi.
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Anche se Levinas riconosce in Hegel «probabilmente il più grande pensatore di tutti i tempi», non di meno prende le distanze, in particolare nella recensione all’opera del prof. Bourgeois, Hegel à Francfort ou Judaïsme, Christianisme, Hégélianisme (Vrin, 1970). Contro la pratica dell’Aufhebung (soppressione e conservazione), contro la pratica del superamento, Levinas vi afferma che il giudaismo «rimane anche, a torto o a ragione (sicuramente) “credo” o spiritualità, o principio di solidarietà, o ragione di vivere e, in ogni caso, causa di morte per milioni dei suoi contemporanei» (Difficile libertà, p. 296). A differenza dei giovani hegeliani – per esempio Bruno Bauer, il quale dichiarava che il cristianesimo era la religione per eccellenza e quindi che l’ebraismo non aveva più motivo d’essere e che per gli ebrei era importante convertirsi – Levinas afferma che l’ebraismo continua ad esistere dopo l’avvento del cristianesimo fino a conoscere una storia autonoma, ricca, complessa, malgrado la pretesa cecità della Sinagoga proclamata dalle cattedrali cristiane e a dispetto delle persecuzioni ricorrenti e delle imprese di sterminio. Ed è all’ebraismo rabbinico che Levinas attribuisce in realtà il merito di averci trasmesso il racconto di questa traversata. Meglio ancora, è al giudaismo rabbinico che Levinas attribuisce il fatto di aver condotto Gerusalemme alla ragione rivelata da Atene. «Siamo intimamente convinti – scrive – che, in maniera autonoma e più gloriosa ancora, il mosaismo prolungato e interpretato dal rabbinismo vi condurrà Israele (alla ragione)» (Difficile Libertà, p. 139). Ma non è questo poggiare sulla tradizione rabbinica che è all’origine della severità di Levinas nei confronti di Spinoza quando scrive: «c’è un tradimento di Spinoza. Nella storia delle idee, ha subordinato la verità del
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giudaismo alla rivelazione del Nuovo Testamento» (Ibid., p. 137). Anche se è vero che nel testo «Avete riletto Baruch?», Levinas, sensibile a ciò che c’è di meno spinozista in Spinoza, riconosce a quest’ultimo che ha sostituito nell’Etica una filosofia alla religione della Bibbia, di aver saputo conservare alla filosofia «la pienezza irrecusabile delle scritture». «Lo spinozismo – scrive – sarà una delle prime filosofie in cui il pensiero assoluto si vorrà anche religione assoluta» (Ibid., p. 149). Vedo con piacere che mi invitate in qualche modo a ritornare sulla lettura talmudica, «Al di là dello Stato nello Stato». Questa lezione parte da un dialogo tra Alessandro di Macedonia, capo di un Impero, e gli «Anziani del Negev», altrimenti detto, degli interlocutori ebrei. Il testo poggia dunque sull’esame della domanda di Alessandro e delle risposte dei rabbini. Tratterrei solamente l’ottava domanda che Levinas stima essere il momento centrale del dialogo. La domanda di Alessandro, che si crederebbe venuta dall’opera di Machiavelli, è: «Che cosa bisogna fare per essere amati dal popolo?» La risposta degli Anziani del Negev, rivolta ad un imperatore conquistatore non potrebbe essere più coraggiosa e diretta, perfino insolente: «Odiare il potere e l’autorità». A questa, Alessandro replica con delle parole che hanno valore di definizione di una politica clientelistica: «Ho una risposta migliore della vostra. Bisogna amare il potere e l’autorità e approfittarne per accordare favori al popolo» («Al di là dello Stato nello Stato», in Nuove letture talmudiche, p. 63 s). Levinas, nel suo commentario sottolinea che agli occhi di Alessandro – gli occhi di un imperatore conquistatore –
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l’autorità politica implica un potere inaccessibile alle minacce del Bene, irriducibile al «dinamismo etico», come se Alessandro pensasse che l’autorità politica celasse per essenza un nucleo di tirannia. Sì, in effetti, vorrei ascoltarvi su questa lezione talmudica di Levinas, «Al di là dello Stato nello Stato», che mi sembra inscriversi perfettamente nel prolungamento del nostro dialogo. Per capire l’interpretazione di Levinas, bisogna ritornare, credo, a ciò che dice dello Stato di Cesare e dello Stato di Davide, nel modo in cui si realizza la divisione, tanto più che è in gioco qui una questione che non abbiamo richiamato e che è centrale in Levinas: la politica messianica e l’odio del potere. Rispetto alla nostra questione, il movimento in «Lo Stato al di là dello Stato», Levinas propone due interpretazioni possibili. 1. Innanzitutto, questo movimento enigmatico al di là dello Stato avrebbe a che vedere con una politica messianica inscritta nello Stato di David che rimarca la sua differenza con lo Stato di Cesare. È opportuno ritornare alla lezione del 1971 che oppone le due forme dello Stato e in cui appariva già nel paragrafo 2 una domanda sull’al di là dello Stato. Lo Stato di Cesare, ripresa della forma dello Stato pagano, ereditato dal mondo greco-romano, è geloso della sua sovranità; alla ricerca dell’egemonia, si mostra «conquistatore», «imperialista», «totalitario», «oppressore». Intendiamo che nessun impulso verso un fuori, verso un al di là dello Stato lo attraversa, né lo turba. «Incapace di essere senza adorarsi, esso è l’idolatria stessa» afferma Levinas (L’Aldilà del versetto, p. 272). Così lo Stato di Cesare è considerato come separante l’umanità dalla sua liberazione. Al contrario, lo
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Stato di Davide manifesta nel suo seno questo movimento enigmatico che cerchiamo di definire. «Alle spalle dello Stato davidico – scrive Levinas – preservato dalla corruzione che già aliena lo Stato di Cesare, si annuncia l’al di là dello Stato» (Ibid., p. 273). Un al di là dello Stato che permette di pensare insieme due idee che a prima vista possono sembrare contraddittorie: lo Stato è una istituzione necessaria, o meglio, questo cammino necessario è suscettibile di aprire la via al superamento dello Stato. Sarebbe il «Sì allo Stato» che renderebbe concepibile il «No allo Stato». Ancora questo al di là dello Stato riceve il nome di «politica messianica», al punto che Levinas è preoccupato di mostrare che il tempo del Messia è il tempo di un regno che non significa assolutamente la scomparsa della politica. «Il messia è re – scrive Levinas. Il Divino investe Storia e Stato, non li sopprime. La fine della Storia conserva una forma politica» (Ibid., p. 269). D’altra parte, lo Stato di Davide dimora nella finalità della liberazione. Ciò vuol dire riconoscere che il messianismo non è che una tappa sulla via della liberazione, verso un mondo futuro, o un «mondo che viene», vero termine dell’escatologia e per di più separato, per quanto lo riguarda, dalle strutture politiche. Secondo Levinas, la risposta degli Anziani del Negev che si riferisce ad «una politica messianica» – l’al di là dello Stato – starebbe ad indicare che l’ordine politico accettabile non può venire all’umano se non a partire dalla Torah – questa carta dell’umano – dalla sua giustizia, dai suoi giudici e dai suoi maestri sapienti («Al di là dello Stato nello Stato», in Nuove letture talmudiche, p. 64 s). L’espressione stessa di «politica messianica», che insiste sulla congiuntura del politico e del Messia e che designa nello Stato della giustizia questo movimento al di là dello Stato,
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mira ad attirare l’attenzione su un gioco complesso dell’orizzontale e del verticale; la verticalità che rinvia in questo intrigo all’esteriorità del divino. 2. Un’altra interpretazione viene alla luce a partire dall’odio per il potere e per l’autorità che porta nell’interprete alla questione della democrazia. Quest’odio non riguarderebbe solamente i parassiti del potere o i suoi clienti. Più profondamente, secondo Levinas, esso designa «un grado elevato di critica e di controllo verso un potere politico in sé ingiustificabile, a cui però una collettività umana, proprio in quanto molteplicità, è – in attesa del meglio – pragmaticamente costretta» (Ibid., p. 65). In modo molto suggestivo, Levinas associa quest’odio del potere che si manifesta in «una critica e un controllo implacabili» alla democrazia, come se quest’ultima includesse nella sua dinamica stessa un odio dello Stato, o – «un rifiuto del politico come pura tirannia». Questo movimento nello Stato al di là dello Stato potrebbe intendersi come la prefigurazione della democrazia, o detto altrimenti «di uno Stato aperto al meglio, sempre sul chi vive, sempre da rinnovare, sempre in procinto di ritornare alle persone libere che gli delegano, senza separarsene, la loro libertà sottomessa alla ragione» (Ibid., p. 65). Si farebbe violenza a Levinas se si volesse vedere qui una concezione della «democrazia selvaggia» nel senso di Claude Lefort, o un pensiero della «democrazia contro lo Stato» nel senso del giovane Marx, nel manoscritto del 1843 consacrato alla critica della filosofia del diritto di Hegel. Infatti, Levinas continua a parlare «di Stato democratico», che contiene innanzitutto lo scarto tra democrazia e Stato che ha intravisto. È tuttavia significativo osservare che pensi alla democrazia come includente l’odio del potere – «odio», la
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parola è secondo lui eccessiva – e come incarnante, forse meglio di ogni altra comunità politica, questo movimento al di là dello Stato, nato in seno allo Stato, come se la democrazia trovasse in questo «odio» l’impulso primo che gli permetterebbe di portarsi al di là della forma Stato. Malgrado il suo antihegelismo, Levinas non è forse rimasto in una certa misura sotto l’influenza dell’hegelismo del suo tempo (Alexandre Kojève, Éric Weil, Jean Hyppolite), al punto da non poter concepire un’opposizione possibile tra la politica e lo statale, tra la comunità politica e lo Stato, tanto lo Stato appariva allora come il compimento della politica? Se Levinas non ha potuto concepire fino alla fine un’opposizione tra la politica e lo statale, come avvicinare, comprendere, rendere conto del movimento dello Stato al di là dello Stato? Un’altra maniera di rendere conto di quel movimento in seno dello Stato al di là dello Stato è di rivolgersi verso il turbamento che l’anarchia situata, come l’intrigo dell’umano, tra metapolitica e politica è suscettibile di esercitare sulla forma dello Stato. Così questo movimento enigmatico che ha saputo percepire Levinas avrebbe a che vedere con la strana traiettoria che attraversa, che lavora lo Stato e che va dall’al di qua della prossimità, della responsabilità anarchica del per l’altro ad un al di là dello Stato. È perché non ci sono membrane impermeabili tra giustizia e prossimità, sebbene la giustizia si costituisca in una limitazione della prossimità, che può mettersi in moto in seno allo Stato – nello Stato – questo movimento al di là dello Stato – altrimenti detto un intrigo anarchico – senza principio né cominciamento – che giunge a turbare la politica al punto da impedire allo Stato di chiudersi in una totalità chiusa. L’anarchia non può essere ridotta ad un senso puramente politico, essa non può più a
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lungo essere presentata come un principio nel senso degli anarchici che sostengono la predominanza del principio di ragione sull’autorità, essa non può esercitare alcuna sovranità. Non impedisce che l’an-archia non lasci la politica inconcussa, che essa non la lasci immutata, abbandonandola al suo proprio determinismo. Non impedisce che la turbi profondamente, di un turbamento irreversibile, radicale. Ritorniamo ancora una volta alla nota 3 della pagina 126 di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza: «Essa (l’anarchia) non può – pena la propria smentita – essere posta come principio (nel senso in cui la intendono gli anarchici). L’anarchia non può essere sovrana come l’arché. Essa non può che turbare – ma in modo radicale, che rende possibili degli istanti di negazione senza alcuna affermazione – lo Stato» [modificata, N.d.T.]. A discapito della sua forma restrittiva, quel «non [può] che» ha delle conseguenze considerabili, vicine ad una dialettica negativa, poiché la messa in opera della negatività ne risulterebbe liberata da ogni essenza affermativa. L’abbiamo già osservato, turbato fino alle radici, «lo Stato così non può erigersi a Tutto». Il disordine vi guadagnerebbe un senso irriducibile «in quanto rifiuto di sintesi». In questo punto, forse, non è infondato il ritorno alla questione della democrazia. L’invocazione dell’anarchia non avrebbe per effetto il superamento della concezione minimale della democrazia in quanto contestazione permanente, per orientarla verso una concezione massimale che conserverebbe, grazie alla congiunzione dell’anarchia e dell’al di là dello Stato, qualcosa dell’opposizione costitutiva della democrazia alla forma Stato. Conserviamo nella memoria la magnifica, l’audace risposta dei rabbini ad Alessandro Magno: «Odio del potere
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e dell’autorità». Uomini con la testa dura, essi sapevano a partire da dove è opportuno odiare il potere e l’autorità. Sapevano anche trovare un luogo esteriore alla storia da dove giudicarla. Tratteniamo del loro atteggiamento un rifiuto di santificare la storia – e allo stesso tempo il potere dell’autorità – rispetto alla formula di Hegel: «La storia universale è il tribunale del mondo». Rifiuto tanto più determinato che questa santificazione della storia – dalla grande Caterina ai nostri giorni, per parlare come Levinas – è servita a coprire i crimini dei vincitori, nell’oblio delle promesse, nell’oblio dell’utopia dei vinti. Ma tratteniamo ugualmente nella memoria questo annuncio di Walter Benjamin che vale come annuncio della redenzione dei vinti e secondo il quale esiste un appuntamento tacito tra le generazioni passate e la nostra. A questo aggiunge: «A noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto» (Sul concetto di storia, Tesi II, p. 23).
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Indice Gli affari umani presentazione di Danielle Cohen-Levinas
p. 11
Capitolo primo L’incontro
p. 31
Capitolo secondo L’utopia e l’epoché fenomenologica
p. 53
Capitolo terzo L’umano utopico e la stravagante ipotesi
p. 67
Capitolo quarto Perché Levinas?
p. 81
Capitolo quinto Politica e metapolitica
p. 95
Capitolo sesto La giustizia, il terzo e lo Stato al di là dello Stato
p. 113
Bibliografia
p. 127
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Au dedans, au dehors
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Quando ho incontrato l’opera di Levinas, una questione si è posta naturalmente: quest’opera aveva qualcosa da apportare alla riflessione sulla politica o bisognava collocarla, al contrario, come si tendeva a fare, solo dalla parte dell’etica, considerando anche che vi era in questo filosofo, se non un disprezzo, almeno una mancanza di considerazione della politica? Molto presto, quest’ultima posizione mi è apparsa del tutto inesatta. Sono rimasto infatti impressionato dal testo che Levinas aveva dedicato alla critica dell’hitlerismo nel 1934 nella rivista Esprit, «Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo». Ciò che allora mi aveva colpito è che questo filosofo, che si diceva essere estraneo o indifferente ai problemi politici, aveva visto le cose con molta più perspicacia e precisione rispetto a dei pensatori che si consideravano specialisti della politica o delle lotte sociali e che, in realtà, non avevano assolutamente misurato ciò che rappresentava l’hitlerismo. A partire da quel momento, ho sempre pensato che Levinas avesse un senso del politico, come avrebbero confermato ai miei occhi alcuni testi di Difficile libertà. [...] Presto, dunque, il respiro e il gesto di quest’opera mi sono apparsi non solamente nella loro aspirazione utopica, ma nel loro tentativo di pensare la politica secondo un altro paradigma rispetto a quelli classici. (M. A.)
€ 9,00
ISBN E-book 9788898694617
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