Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo

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Paolo Godani

SuL PIACERE CHE MANCA Etica del desiderio e spirito del capitalismo

OPERAVIVA •

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l CLOWN Ungiorno. Un giorno.forsepresto.

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Un giorno libererò l'ancora che tiene la mia nave lontana dai mari. Con quella specie di coraggio che ci vuole a non essereproprio niente, lascerò andare ciò che sembrava essermi legato indissolubilmente. Lo taglierò. lo rovescerò, lo romperò, lo farò scorrere via.

In un sorso, disciolto l'ingorgo del mio pudore miserabile, delle miserabili combinazioni e degli accoppiamenrigiudiziosi. Estratta da me la spina di essere qualcuno. tornerò a bere lo spazio fecondo. A colpi di ridicolo. di degradazioni (che cos'è la degradazione?). di

disintegrazioni, a furia di vuoto, perdissipazione-derisione-depu.razione. espellerò fuori di me la forma che sembrava cosi aderente, composta, coordinata. cos, ben inserita nella mia cerchia e tTa i miei simili, così degni, così degni i miei simili. Ridotto a u.n'umiltà di catastrofe, a un livellamento assoluto come dopo u.nafifa colossale.

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Smisura1amen1e ricondotto al mio rango reale, all'infimo rango

PREMESSA

chenonsoqualeidea-ambirionemifecedisertare. Annullato rispetto al suo rilievo, alla sua reputazione. Perdutoinunluogolontano (oancluno). senza nome. senzaidenlilà..

CWWN, clu abbatte nello se/umo, nel grottesco, in uno scoppio di

risal'immaginesublimechemierofattodeUamiarilevanza. Mi tufferò.

Senza peso nel!'infinito-spirito sostrato aperto a tutto,

Questo libro nasce dalla sensazione che noi, abitanti non pacificati delle società contemporanee, manchiamo di qualcosa di fondamentale; e che questo qualcosa che ci manca in senso essenziale (ma di cui rischiamo di non sentire più nemmeno la mancanza) sia il piacere.

aperto wstesso a una nuova incredibile brina aforzad'esserenessuno rasoierra risibile... HENRI MICHAUX

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Non si agitino coloro che ritengono le nostre vite drogate di godimento, né si rallegrino troppo gli edonisti entusiasti. Parlo di un piacere che agli uni e agli altri apparirà modesto, senza pretese, un piacere che non ha niente a che vedere con la stasi sfrenata di certe tristi feste dei nostri tempi. Parlerò di un piacere che, d'altra parte, non ha niente a che fare neppure con l'affermazione intransigente del desiderio o con la sua liberazione. e che anzi acquista il suo senso e la sua forza solo se lo si osserva, per così dire, contro o senza il desiderio. Un piacere che non è dunque il languido scioglimento di una tensione nervosa, né il soddisfacimento di qualche voglia o aspirazione. È questo piacere - di cui dirò cercando di far risuonare le parole antiche del suo maestro, Epicuro - che ci manca. E ci manca non tanto perché siamo sommersi di godimento, ma perché siamo assoggettati, forse come

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mai prima d'ora, a una macchina produttiva che fa del desiderio il suo eterno motore. Lo si è detto da tempo in ogni modo: la formazione sociale capitalistica, specie nella sua versione neoliberale, implica la messa al lavoro degli affetti e dei desideri. Ora forse iniziamo asentire che cosa sia una vita assoggettata a una macchina di desiderio divenuta sistema produttivo generalizzato. Lo sentiamo perché vediamo crescere in noi una nuova forma di ne-

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vrosi costitutiva, quella che implica non più tanto la sottomissione dei desideri alla selezione di un'istanza autoritaria, mal' assoggettamento della vita alle nostre stesse macchine desideranti. I corpi, prima ancora che le men ti, non ne possono più di questo sforzo costante per la realizzazione delle nostre ambizioni, di questa ricerca

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senza sosta del riconoscimento, di questa intensificazione ossessiva delle esperienze e delle facoltà - in una pa rola, di tutto questo lavoro del desiderio. Non ci si illuda. Avere la consapevolezza che le cose stanno in questo modo non ha letteralmente alcun effetto. Sappiamo fin troppo bene che dal disagio di questa società non si esce provandolo. Nessun malessere del genere ci impedisce di riprendere ogni giorno la medesima. forsennata routine che ci trascina esausti e insoddisfatti ogni volta sino a sera. È dall'altra parte, semmai, che possiamo trovare la forza di una resistenza. Dalla parte del piacere. dalla parte dell'estasi. Succede così che a un certo momento ci diciamo, ma a noi che importa tutto il resto? È lo stesso momento in cui l'inno di Michaux contro l'ambizione ci rivela semplicemente la sua necessità. Come ungiomoperfetto.

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Ognuno lo impara come può che accanto al godimento virile per le conquiste, le soddisfazioni, le vittorie conseguite, accanto al lavoro intermittente del desiderio esiste un piacere senza pretese, che non manca di nulla, già sempre soddisfatto. Ma certo, semmai, lo si impara a tempo perso. Nel tempo che si perde nell'amore, nello studio, nella rivolta. Consacrare tutto il nostro tempo, qualunque cosa si faccia di volta in volta, a questa sua speciale perdizione è ciò che precisamente non succede oggi nelle nostre vite, ed è pertanto ciò a cui ho cercato di dedicate queste pagine. In assenza di amici, di anime complici, questo tempo senza resto torna presto a svanire. Condividerlo è anche l'unico modo di conservarlo.

Ringrazio gli amici che hanno letto e discusso a testo in anteprima, li.aria Bussoni (a cui devo, soprattutto, ii titolo dei quinto capitolo), Mariangela Capozzi, Felice Cimatti, Dario Ferrari, Gino Giometti, Alex Pagliardini, Marcello Tarì, David Watkins.

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1. DALLO STATO DI COSE PRESENTE

a Francesca

Moltissimi film mostrano o hanno mostrato ciò che accade o ciò che potrebbe accadere in futuro. Ma troppo pochi fanno vedere quello che non. succede, e spero che il mio sia uno di quelli. Perché penso che proprio quello che non sta succeden ~o potrebbe portarci a una catastrofe totale.

Il 15 marzo 1850. dopo mesi di dibattito, il Parlamento della Seconda Repubblica francese _approva una legge sulla scuola e l'università, che non solo apre ampi spazi ali' insegnamento confessionale, ma che invita esplicitamente la Chiesa cattolica a ristabilire il suo predominio sull'educazione nazionale.

Le ragioni di questa scelta strategica sono chiaramente espresse nel dibattito delle commissioni parlamentari ed extraparlamentari a cui partecipano intellettuali e personaggi politici di primo piano: si tratta, innanzitutto, di evitare che il principio della libertà di insegnamento porti in cattedra maestri e professori socialisti o comunisti. L'insurrezione popolare del giugno 1848 ancora

turba i sogni della borghesia francese. Bisogna estirpare alla radice ogni spirito di rivolta. Per impedire che il verbo della rivoluzione torni a farsi carne, è necessario andare alla radice del problema e togliere la parola alle idee sovversive, impedendo per esempio - come dice Adolphe Thiers in commissione- i'esistenza di (Michel 1906. p . 99). Per questo-spiega ancora l'antico liberale convertito al Partito dell'Ordine - è necessario che fin dalle scuole elementari torni a farsi sentire forte e chiara la voce della Chiesa cattolica. Il compito che Thiers affida all'insegna mento confessionale non potrebbe essere formulato in termini più chiari: > e riprendeva «allegramente la tradizione pagana, glorificando la carne e le sue passioni», ora, salita al potere, , quella stessa borghesia > (ivi, p. 10). Il capitalista, ormai «getta il suo anatema sulla carne del lavoratore; assume come proprio ideale quello di ridurlo al minimo dei bisogni, di sopprimere le sue gioie e le sue passioni, di condannarlo al ruolo di macchina che produce lavoro senza tregua e senza pietà [sans)f-éve nimerci]>> (ivi, p. V). Quando Walter Benjamin, quarant'anni dopo il testo di Lafargue, scriverà che (Benjamin19~1. p. 97) non si riferirà più soltanto alla condanna del lavoro salariato, ma continuerà comunque a rilevare, nel capitalismo, gli effetti della colpa e del sacrificio. Nel mezzo dei quarant'anni che separano Capitalismo come religione da ndiritto all'ozio, precisamente nel 1905. appare L'etica protestante e to spirito del capitalismo. Per quanto sia stato nel frattempo ampiamente addomesticato, il testo di Max Weber conserva intatta, almeno nella domanda di fondo, la sua forza dirompente: com'è potuto accadere che gli uomini si siano sottomessi all'idea secondo cui (per dirla con le parole del teologo tedesco del XVIII secolo Nikolaus Ludwig von Zinzendorf) «non si lavora solo per vivere, ma si vive per il lavoro» (cit. in Weber ~016, p. 314)? Com'è potuto accadere che il lavoro, da biblica condanna dell'uomo lasso, sia diventato un compito, una vocazione (Beruf), una chiamata (calling)?

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Per spiegare la formula paradigmatica dello spirito del capitalismo, che in Benjamin Franklin suona «il tempo è denaro>> (cioè, è un delitto usare anche solo un· ora del proprio tempo in vista di qualcosa che non siano lavoro e guadagno), Weber rimanda agli scritti del predicatore inglese del XVII secolo Richard Baxter. Nella sua Christian Directory si trova la condanna di ogni godimento della ricchezza (non della sua produzione). secondo l'idea che (ivi, p. 225) dipende dal presupposto secondo il quale l'esistenza umana non può e non deve presentarsi come un'esistenza capace di fruire semplicemente del proprio essere; la vita umana non può che compiersi in un work che le è esteriore, nell'esercizio senza sosta del lavoro e nella produzione della propria vita come opera

dettata dalla parola di Dio. Non stupisce che il capitalismo al suo stato nascente abbia quantomeno approfittato di questa etica del lavoro, l'esistenza di «lavoratori che fossero disponibili allo sfruttamento economico per motivi di coscienza>> (ivi, p . 340) diminuiva la necessità del ricorso alla coercizione materiale. In età contemporanea -conclude Weber-un capitalismo (ibid.). Ma che nel mondo contemporaneo la coercizione al lavoro sia impersonale esistemica non significa, in realtà, che sia venuto meno il fattore relativo alla . Quest'ultimo, certo, non ha più a che fare con l'altra vita. ma resta nondimeno un elemento che riguarda la forma e il senso della nostra esistenza.

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Oggi si nota da più parti come le trasformazioni del capitalismo attuale portino con sé un nuovo capovolgimento della morale dell'austerità. Se non suonasse immediatamente ridicolo. si potrebbe dire che il capitalismo postfordista, con le sue ingiunzioni al godimento e al consumo. > (Castel 1981, pp. 170-71). Ormai il desiderio, l'ambizione e il lavoro sono davvero divenuti una stessa cosa: non si lavora più per qualcuno e per qualcosa, ma si lavora per sviluppare se stessi, per impegnare le proprie capacità in sfide sempre nuove, per ottenere risultati più soddisfacenti, così che il lavoro finisce per coincidere senza residui con il senso della propria vita. Come operano, concretamente, queste agenzie? Un primo indizio ce lo fornisce uno dei primi teorici del ca-

pitale umano, quando suggerisce che i dispositivi neoli berali devono assumere innanzitutto l'indiscernibilità di tempo di lavoro e tempo libero, facendo di quest'ultimo un tempo disponibile ali' accumulazione di capitale umano (cfr. Schultz 1961). In questo senso, non soltanto il tempo libero viene reso funzionale all'incremento della produttività, ma le stesse attività che occupavano quel tempo di non-lavoro vengono selezionate o trasfigurate affinché possano fungere da strumenti per il >. è perché sente e sa che in essa si nascondono si-

2. BLANDA VOLUPTAS

gnificati che detesta. E lo stesso accade per l'avversione di Deleuze nei riguardi del . In fondo, si potrebbe dire che tutto il lavoro archeologico t rovi il suo movente primo in questa specie di ripugnanza nei confronti di certi tratti di senso contenuti nelle nozioni e nei termini più comuni: non ci si lancia in un lavoro di scavo nel campo del sapere, se non per portare alla luce ciò che rende inservibili certi vocaboli. Ma che cosa porta Foucault a non tollerare la parola ? Certo, in primo luogo il significato di una

Preferirei impazzire piuttosto che provare piacere.

forza spontanea, naturale. libera. che sarebbe solo in un ANTISTENE

secondo momento assoggettata a un potere repressivo esterno. Ma c'è forse dell'altro, in quest'avversione, se è

In una lettera fatta recapitare a Michel Foucault nel 1977.

vero che l'intera Storia, della, sessualità. viene presentata

per il tramite di François Ewald, Deleuze ricorda questo

come una genealogia >, e a esso si attribuiva dunque > produttive del desiderio, l'identificazione del corpo senza organi come improduttivo, il collegamento del godimento con la nascita di qualcosa che è dell'ordine del soggetto.

L·anti-Edipo si apre in effetti con l'analisi dei concetti di macchina e processo, e procede poi con l'identificazione delle tre sintesi che definiscono l'inconscio e che caratterizzano il processo produttivo proprio delle macchine desideranti, sintesi di produzione, sintesi di registrazione, sintesi di consumo. La prima tesi è che l'inconscio è popolato di macchine, dove con questo termine si intende già un'operazione di connessione tra due macchine differenti, una che produce o emette un flusso, l'altra che opera su di esso untaglio. L'effetto del loro accoppiamento è la produzione di un oggetto parziale, secondo l'esempio del seno come prodotto da un flusso di latte e dal taglio operato su di esso da parte della bocca del lattante. Ma i flussi possono essere di ogni genere, così come i tagli e gli oggetti parziali che ne risultano. L'attività macchinica- è questa la seconda tesi-costituisce un processo di produzione che non andrà però inteso come un fine in sé. Questa precisazione, che pure appare decisiva per evitare di identificare la vita stessa con la pura e semplice continuazione di un processo di produzione, non sembra sviluppata da Deleuze e Guattari come sarebbe stato necessario. Gli autori si limitano a citare un passo, peraltro estremamente significativo, di Lawrence sull'amore: (cit. in Deleuze-Guattari 1972. p. u). La questione è decisiva. perché si tratta di evitare che, non vedendo altro fine che il processo stesso. il corpo el'anima divengano le cavie di un esperimento di intensifica zione parossistica, e si tratta di comprendere in che cosa possa consistere il compimento a cui il processo dovrebbe tendere. Deleuze e Guattari si limitano a dire che la fine del processo, cioè lasuainte1TUzione, e la sua continuazione all'infinito ottengono lo stesso disastroso risultato, quello di fossilizzare la dinamica desiderante. Ma il problema posto da Lawrence non riguarda lafine del processo, bensì il rischio di fare del processo un fine in sé. La questione ha anche una portata politica non secondaria , se è vero che Deleuze e Guattari, rispetto alla dina mica del capitalismo, suggeriscono ai rivoluzionari (citando Nietzsche) non di . ma semmai di (ivi, p. 285). È un modo per dire che il capitalismo non si abbatte a suon di nostalgia, ma è anche una strategia che rischia di santificare ogni accelerazione e ogni intensificazione del processo di produzione. Pur senza approfondire la questione, vale almeno la pena di ricordare una considerazione di Walter Benjamin. Pensare il processo rivoluzionario sotto l'egida di Nietzsche e Marx-si suggerisce in Capitalismo come religione - significa sottometterlo all'immagine di un accrescimento continuo, di un potenziamento, di un'intensificazione che si oppone a qualunque inversione di rotta- e > (EM, 12.4, 6-12.5). È il principio compendiato dalla formula tanto celebre quanto raramente meditata, secondo la quale > (RT, III). L'argomento epicureo si fonda sulla negazione di uno stato intermedio tra piacere e dolore - stato che invece, secondo Cicerone per esempio, caratterizza la maggior parte del tempo dell'esistenza. Dal punto di vista di Cicerone, che per criticare Epicuro adotta la concezione cirenaica (cfr. Bréhier 1955), il piacere si presenta come un 'aggiunta allo stato ordinario dell'esistenza (che come tale non è né piacevole né dolo-

roso) - da cui le definizioni che ne dà: >) . La seconda, che invece nega risolutamente che il corpo giochi qualche ruolo nell'immaginazione di un piacere infinito (come Epicuro spiega in CV, 59: (RT, XVIII). Questa sentenza è come il nucleo segreto della dottrina epicurea del piacere, perché implica tutte e tre le fo~e che il piacere può assumere. È, innanzitutto, la formula che ci consente di comprendere in che modo la ragione possa dare alla carne la misura dei piaceri. Il solido principio sul quale si fonda la valutazione della ragione è che il piacere del corpo, in quanto tale, presenta un limite che non può essere superato. In tal modo. la ragione mette in luce tutta la vanità insita nell'idea secondo

cui il sommarsi dei piaceri possa accrescere il piacere costitutivo. Ogni piacere supplementare, ogni piacere in più che venga a colmare una mancanza, non va a sommarsi ai piaceri precedenti, aumentando, per così dire, il livello generale del piacere corporeo, ma si presenta sempre e solo come una variazione del piacere costitutivo. È per questa considerazione razionale che l'etica di Epicuro si presenta, nonostante ciò che possano dirne i detrattori, non come un'etica del godimento smodato, ma come un'etica del minimo necessario (fondata appunto su considerazioni razionali anziché sul privilegio assiologico della frugalità). Il fatto è che, in materia di piacere, il minimo necessario è già il massimo che si possa razionalmente desiderare - idea che Epicuro formula in maniera iperbolica, > (Fallot ~015, p. 5~).

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Ai Cirenaici l'epicureo che gode del piacere costituti-

vo può apparire un dormiente. un inetto o un malato, perché essi adottano un criterio di giudizio che ha anche una valenza sociale e politica. Per loro la vita è più o meno degna di essere vissuta a seconda dei risultati che è capa ce di ottenere. Da qui all'idea di una gerarchia tra gli uomini, fondata sulla loro riu.scita sociale, il passo è breve. L'inettitudine epicurea è, in questo senso, una forma di resistenza consapevole e orgogliosa al dominio incontrastato di quel criterio e alle sue conseguenze. Quando a proposito di certi Cirenaici (Laks ritiene che la precisazione indichi Anniceride) Clemente Alessandrino dice che, contro gli Epicurei, essi «affermano che ci danno gioia non solo i piaceri, ma anche le compagnie e gli onori>> (Stromati Il. ~1) , ciò che va rilevato non è certo il riferimento alle frequentazioni amicali, che gli Epicurei riconoscono come bene supremo, ma il punto degli onori, cioè dell'ambizione e del riconoscimento sociale. Contrariamente a quello che sembra voler suggerire Clemente, il problema non è che gli Epicurei, con la dottrina dei" piacere costitutivo, riducano ogni piacere al mero piacere della carne. ma che l'affermazione del piacere costitutivo implichi una selezione dei desideri che esclude il predominio di quelli legati all'ambizione, alla concorrenza, agli onori (cfr. infra, cap. VI). Da questa esigenza selettiva, guidata dal piacere come criterio, deriva anche la classificazione epicurea dei desideri. La Lettera a Meneceo (EM, 1~7.7-1~8) spiega, innanzitutto, che esiste una prima grande divisione, quella tra desideri naturali e desideri vani. Questi ultimi. per

esempio (RT, XXIX) oppure la passione per la ricchezza (su cui vedi RT, 15), sono vani o vuoti (kenai), in quanto eccedono il limite del piacere; e questo perché sono in relazione intrinseca con la tendenza del desiderio ali'infinito (chi desidera la ricchezza, come gli onori, non ne ha mai a sufficienza). Epicuro non sottovaluta affatto la forza della presa che questi desideri possono esercitare sugli uomini, ma suggerisce che, poiché essi suscitano grandi passioni, pur senza che la loro frustrazione procuri alcun dolore effettivo, quella forza va interamente addebitata alle (RT, XXX). All'interno dei desideri non vani, ma naturali, si possono distinguere quelli semplicemente naturali e quelli che sono, al contempo, anche necessari. I desideri naturali ma non necessari sono quelli che, pur non sottraendo alcun dolore del corpo, si limitano a mettere in variazione il piacere, «come i cibi opulenti>> (ibid.). D'altra parte, i desideri naturali e necessari sono l'esatto opposto dei desideri vani, dato che la loro caratteristica è di liberarci (RT. XXIX). In verità, a proposito di questi ultimilaLettera a Meneceo presenta una partizione ulteriore, spiegando che alcuni di essi sono necessari (EM, 1~7.9-10). Si comprende a questo punto perché sia iperbolica la formulazione che riduce il piacere al mero soddisfacimento dei bisogni primari del corpo, sono infatti desideri necessari non soltanto quelli che contribuiscono alla so-

pravvivenza (mangiare, bere, ripararsi dal freddo), ma anche quelli che conservano il benessere del corpo (e che dunque non vanno semplicemente ridotti ai primi), come per esempio la ginnastica, e persino quelli che, come l'amicizia e la filosofia, sono perseguiti in vista della felicità. Si può notare come tutte tre queste modalità dei desideri necessari fondino la loro legittimità sul fatto che si rivolgono a piaceri stabili. Questo è un punto sensibile della dottrina, perché Epicuro sembra suggerire che i piaceri dinamici, quelli che risultano dalla soddisfazione di un desiderio, vadano appunto insieme ai desideri naturali, ma non necessari: sono i desideri in quanto 11aria.-

zioni del piacere. Ma in fondo anche il piacere stabile si può dire sia desiderato, essendo, come si è visto, il telos stesso della vita. Il caso dei desideri necessari resta comunque singolare, perché si tratta, se così si può dire, di desideri a loro volta statici, ovvero di desideri che non hanno il piacere fuori di loro come una meta da raggiungere, ma che si situano già all'interno dell'orizzonte dello stesso piacere costitutivo. In altre parole, ristabilire, cibandosi, l'equilibrio corporeo, conservarsi attraverso l'esercizio fisico e passare il proprio tempo nella vita comune dell'amicizia e nella meditazione filosofica, sono tutte attività che conseguono il proprio fine nel mentre si esercitano e che dunque presuppongono il piacere, invece di prospettarlo davanti a sé come un fine ancora sempre da conseguire. Si vede, dunque. come la terza forma in cui si può dare il piacere (il piacere stabile) costituisca il criterio ultimo

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della valutazione e della selezione dei desideri. Ma in che cosa consiste, più precisamente, questo piacere che la tradizione epicurea ha preso l'abitudine di chiamare catastematico (cfr. DLR, 7)?

La dottrina del piacere. che Epicuro sviluppa sin nei minimi dettagli e nelle conseguenze di carattere etico, non è senza precedenti. Nel libro IX dell'Etica nicomachea, ad esempio. Aristotele dice chiaramente non solo che «il vivere è in sé buono e piacevole>>, ma soprattutto che (1170 a-b); e nel libro Xdella stessa opera spiega che di qualche mancanza del corpo o dell'anima, perché essi in realtà non sono che dei misti di piacere e dolore (Fi!ebo. 35e). In secondo luogo. Socrate si oppone con decisione a coloro che, (ivi, 44a) confondono il piacere con l'assenza di dolore·, cioè in sostanza negano che il piacere esista affatto. Entrambe le confutazioni conducono Socrate a ricercare se esistano e quali possano essere i (ivi, 51b). Di primo acchito, la risposta può suscitare qualche perplessità. Dice infatti

Socrate che i veri piaceri sono «quelli che riguardano i colori cosiddetti belli. le figure, la maggior parte degli odori e dei suoni, e tutte quante le realtà la cui mancanza non viene awertita e non comporta dolore, e la cui presenza offre riempimenti percepibili e piacevoli. privi di dolori>> (ìbid.). È chiaro che qui Socrate allude a certi piaceri della vi-

sta, dell'udito e dell'olfatto perché risultano piaceri disint_eressati. Pare forse a Platone che gli oggetti dei piaceri veri debbano essere superflui, per evitare di ricadere nel caso in cui il piacere possa essere considerato come riempimento di una mancanza. Ma la cosa più rilevante è che questi esempi inducono a concludere che il piacere in quanto tale non può essere mescolato ad alcun dolore. Se si p1;1ò affermare che il piacere sia effettivamente qualcosa, allora questo qualcosa dovrà essere nient'altro che se stesso, piacere e basta, «puro, integro, sufficiente» (ivi, 52.d). Per discorrere di questa purezza, Socrate abbandona un momento il caso del piacere, per argomentare conl' esempio del genere . (ivi, 53 a-b). E conclude, tornando al caso del piacere, «non avremo bisogno. certo, di molti esempi simili per il nostro discorso sul piacere. ma quanto visto è sufficiente per pensare che ogni piace-

re privo di dolore, per quanto piccolo e raro, è più piacevole, più vero e più bello di uno grande e di uno frequente» (ivi, 52c-53a). Ali'epicureismo sarà sufficiente assumere la purezza ontologica del piacere, evitando di fondarla su una distinzione preliminare tra piaceri interessati e disinteressati, per avere tra le roani la nozione di un piacerecatastematico. Epicuro, dunque, riprende le riflessioni platoniche e aristoteliche sul piacere, riaffermando, da un lato, che esso è consustanziale al corpo in quanto si sente vivere, e, dall'altro, che questo piacere costitutivo è puro, non mescolato, dunque assoluto e compiuto in qualsiasi momento. Ma nella dottrina epicurea c'è un elemento ulteriore della massima importanza, che concerne il genere di re lazione sussistente tra il piacere catastematico e la molteplicità dei singoli piaceri. Bisogna evitare un errore capitale, che consisterebbe nello stabilire una opposizione tra piacere puro e piaceri particolari. Per quanto la dottrina epicurea rifiuti con decisione la riduzione cirenaica del piacere in generale al solo piacere dinamico, cioè alla serie di piaceri puntuali che si susseguono in maniera discontinua secondo l'impulso dei desideri, non si deve ritenere che per Epicuro i singoli piaceri siano d'altra natura, qualitativamente differenti rispetto al piacere puro. Ogni piacere particolare, come si è visto, non è che una variazione del piacere catastematico. E questo significa che ogni piacere particolare non è che una manifestazione, empiricamente variata,

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dello stesso piacere costitutivo. Il fatto è che i piaceri particolari rischiano di presentarsi come piaceri che dipendono dal movimento, che derivano dalla soddisfazione di un desiderio o dal riempimento di una mancanza, laddove essi, in quanto sono piaceri, sono del tutto indipendenti rispetto a ciò che è loro contrario (il dolore, la mancanza, l'insoddisfazione). In questo senso, ogni piacere particolare non è mai altro che lo stesso piacere puro. In Epicuro non c'è pertanto alcuna critica ai piaceri particolari, come testimonia un frammento dell'opera perduta Dei fine: (DLR, 21,1). E anche la critica al loro eccesso si fonda su una ragione specifica. Il problema che può sorgere nel rapporto tra i diversi piaceri discontinui e il piacere puro è che la discontinuità dei primi finisca per rendere impercettibile la sussistenza del secondo. Infatti, l'esistenza di coloro che si lasciano guidare dalla dinamica di desiderio e soddisfazione è tale che, nelle fasi che precedono e seguono la soddisfazione, il piacere stabile rischia di divenire insensibile. L'esistenza estetica dell'uomo di desiderio è criticabile non per.qualche ragione morale, ma pe:rché l'alternarsi ripetuto di tensione e soddisfazione rischia seriamente di obliterare la percezione del piacere stabile. Nella fase della tensione o del!'attesa. l'esistenza dell'uomo di desiderio è talmente proiettata verso la soddisfazione da sacrificare l'attualità del piacere; allo stesso modo, nella fase che segue la soddisfazione, sul piacere puro rischia di prevalere un senso

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di spossatezza. poi di noia, dunque di mancanza; e persino nel momento del soddisfacimento l'uomo di desiderio rischia di non percepire il piacere attuale che come un'eccezione sublime rispetto agli stati di tensione e prostrazione che precedono e seguono la realizzazione del desiderio. anziché come una variazione del piacere costitutivo. Perché ciò non accada, è necessario che alla discontinuità dei piaceri particolari sia sottesa la continuità del piacere costitutivo. E questo avviene solo se si comprende che il piacere derivante dalla soddisfazione di un desiderio non accresce. ma si limita a variare il pia cere costitutivo, cosi come la frustrazione di un desiderio nonio diminuisce. Una sentenza a prima vista piuttosto criptica suggerisce un modo ulteriore per pensare questo rapporto tra piaceri particolari e piacere catastematico: «se ogni piacere si condensasse in estensione e durata e riguardasse tutto il nostro essere o le parti più importanti della nostra natura, i piaceri non differirebbero mai tra loro>> (RT. IX). Epicuro intende forse dire che i piaceri particolari sono sempre piaceri relativi a una parte specifica del corpo, ad esempio il ventre o il sesso. mentre il piacere costitutivo è un piacere del corpo come superficie indifferenziata, è il piacere del corpo che gode del suo stesso essere. In questo senso. il corpo che si gode nel piacere puro è una sorta di corpo senza organi. nel senso preciso per cui non sono i diversi organi del corpo a sentire il piacere particolare che spetta loro. ma è il corpo in quanto tale a provare piacere o, se cosi si potesse dire. a provarsi piacere (abbiamo visto, in effetti, come Deleuze e Guattari, quando par-

!ano del corpo senza organi, non possano fare a meno di riferirsi a un godimento corporeo indifferenziato).

La nona delle Massime capitali. dunque. sembra suggerire la necessità di proiettare la molteplicità dei piaceri particolari e la loro stessa differenza sulla superficie unitaria del corpo. in modo tale da percepire ognuno di essi come una ripetizione dell'unico piacere stabile. Detto altrimenti, quella massima sembra suggerirci che il piacere ha un'unica forma ed è sempre e solo piacere del corpo in quanto tale, e che i piaceri particolari si presentano come modificazioni intrinseche di quella forma, come variazioni interne che non intaccano né mutano la forma stessa. C'è dunque un sentire che precede logicamente il differenziarsi delle sensazioni d'organo e che coincide con · l'essere stesso del corpo. Il corpo come tale, il corpo senza organi. in ogni sensazione particolare sente certo l'impressione o l'affezione che si riferisce a questo o a quell'organo, ma sente anche ognuna di esse come una variazione del suo stesso sentire in generale. E poiché questo sentire è tutt'uno con il piacere di essere, con il piacere costitutivo del corpo che vive, si dirà che ogni piacere particolare non è altro che una manifestazione del piacere costitutivo. Che il piacere catastematico non possa in alcun modo ridursi al mero piacere negativo. ovvero al contraccolpo immaginario provocato dal momentaneo sollevarsi del dolore, è testimoniato anche dal!' insistenza con la quale Epicuro lo riferisce alla vita divina. Come si accennava, la Lettera a Meneceo non solo si apre ma si conclude anche

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con il riferimento agli dei: «tutte queste cose[.. .] medita giorno e notte in te stesso e [...]vivrai come un dio fra gli uomini. Poiché non è in niente simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali>> (EM. 135. 7-8). Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, gli epicurei avrebbero sostenuto che la felicità si intende in due maniere: (Diogene Laerzio X, 1~ia). Questo non significa affatto che la felicità umana sia solo quella che ammette aggiunte e detrazioni di piaceri, ma significa che la felicità umana può o limitarsi a essere in balla di quelle oscillazioni dei piaceri, oppure accedere alla felicità suprema che è propria della divinità e che non conosce variazioni nell'intensità dei piaceri. Abbiamo visto. in effetti, come il piacere catastematico sia precisamente quella forma di piacere rispetto alla quale l' aggiunta o la sottrazione di un piacere viene percepita come una semplice variazione intrinseca, non come una crescita o una diminuzione del livello di piacere. In questo senso, il saggio epicureo che diviene capace, al di là dell'andirivieni dei piaceri discontinui, di fruire del costitutivo piacere del corpo, è un essere che, come la divinità, non manca di nulla. La mancanza, infatti, è tale sempre e solo in relazione al desiderio o al cosiddetto piacere in movimento. mentre il piacere costitutivo, coincidendo con la vita in quanto tale, non può mancare di qualcosa, salvo nel mo mento in cui venga a mancare la vita stessa. Ma c'è un elemento ulteriore che assimila il saggio epicureo alla divinità ed è il carattere ozioso della sua vita.

Con questo aggettivo non si indica semplicemente l'inattività, come maliziosamente suggeriscono i nemici dell'epicureismo. Il saggio epicureo non assomiglia a un Oblomov sdraiato sul suo divano da mattina a sera. Ma è necessario essere precisi su questo punto. È chiaro. innanzitutto, che il riferimento epicureo alla vita divina si presenta come un riferimento ideale: guardare a essa significa, per gli uomini, porre di fronte a sé un modello di felicità possibile. Gli umani possono realmente eguagliare la beatitudine divina, nel senso che, una volta acquisita. la beatitudine umana non sarà semplicemente analoga a quella divina, ma sarà la. stessa beatitudine. Nondimeno. una differenza resta, tra la vita umana e quella divina, dovuta non al carattere mortale della prima rispetto all'immortalità della seconda (dato che. dal punto di vista epicureo, a.o che gli uomini, quando conquistano il piacere stabile, diveng~mo ), ma concernente l'economia. della vita umana. Mentre gli dei, infatti, sono del tutto liberi da qualsivoglia incombenza, prima fra tutte quella di governa.re l'universo, gli umani hanno comunque bisogno di gestire la propria esistenza e di esercitare le proprie facoltà, come si dice inCV, 41. in quanto uomini dobbiamo > (Freud 1930- 1938, p. 3z1), e sebbene si riferisca esplicitamente alla vicinanza con le sue stesse speculazioni relative alla pulsione di morte, non sembra invece disposto a stabilire il nesso. così evidente, tra la pulsione di morte e le tendenza a una regressione talassale, che gli avrebbe consentito anche di immaginare una diversa configurazione del rapporto tra pulsione di morte e sentimento oceanico. Notando la relazione tra questo sentimento oceanico e la regressione talassale, Freud avrebbe potuto scoprire la dipendenza dell'una e dell'altra da ciò che egli aveva chiamato pulsione di morte. E avrebbe forse potuto percepire come a fondamento di ogni «regressione>> vi sia ancora una forma di piacere della vita, piuttosto che una pulsione di morte. Ciò che vorrei suggerire, in altre parole, è che in questo sentimento, oltre all'afflato estatico e panteistico che lo stesso Freud vi riconosce, si può rilevare una delle possibili espressioni di un piacere allo stato puro, di quel piacere connaturato alla vita stessa, eppure indipendente dalle sue tensioni e dunque autono-

mo dal desiderio, che l'epicureismo ha chiamato piacere catastematico. Uno degli assunti di base della tradizione freudo-marxista, da Reich a Marcuse (e, per certi versi, all'.Anti-Edipo), è proprio che non esista pulsione di morte. Questo assunto, inevitabile per chi fonda il proprio progetto teori-

co e politico sulla riduzione della rimozione psichica alla repressione sociale, ha condotto talvolta il freudo-marxismo a produrre l'immagine di una psiche umana naturalmente libera da conflitti. Per evitare questo esito, senza però reintrodurre l'idea di una pulsione di morte, ~arà necessario affermare che esistono certo nel contesto psichico degli effetti mortiferi, ma che questi non derivano da una pulsione fondamentale, bensì proprio dalla dinamica del desiderio. Questo non significa affatto che alla pulsione di morte vada sostituito un desiderio di morte. Non esiste desiderio di morte, ma esiste un effetto mortifero del desiderio. effetto che nasce precisamente dal conflitto che il desiderio può instaurare con il piacere costitutivo. Non ha senso chiedersi, a questo proposito, se il conflitto sia psichico o sociale, dato che non c•è desiderio che non sia immediatamente una certa declinazione del campo sociale. Questo effetto mortifero è dovuto all'alto grado di re sistenza che il desiderio, nel far valere le sue pretese, rivolge contro il piacere. Il grado estremo di questo conflitto non porta di per sé la morte. ma produce un tale stato di noncuranza nei riguardi del piacere del corpo, che in quest'ultimo, prostrato dalla mancanza, oppure esaltato

oltremisura dall'immissione di godimenti sostitutivi (le droghe, ma anche l'ambizione), si creano le condizioni per la malattia e per la morte. D'altra parte, quella passione statica che Freud attribuisce alla pulsione di morte potrebbe non essere altro che la tendenza a ricondurre la dinamica del desiderio alla stabilità del piacere con cui il corpo fruisce della propria stessa esistenza. In tal senso, paradossalmente, al di là del principio di piacere non si troverebbe la pulsione di morte, ma il piacere stesso. Più addentro alla logica del piacere rispetto a Freud. e più disponibile a confrontare la voluttà umana con il godimento e la beatitudine divina, sembra essere il Presidente della Corte d'Appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, autore delle celebri Memorie di un malato di nervi. Le fantastica teologia che egli elabora nel corso del suo delirio è da capo a fondo una teologia del godimento. L'attributo fondamentale che Schreber riconosce a Dio, infatti, non è altro che quello di un (Schreber 2007, p. 296). Questo godimento dev'essere procurato a Dio grazie al >, tuttavia - conclude imperiosamente (ivi, p. ~95). Avrebbe gioco sin troppo facile chi volesse intendere questa dichiarazione come la testimonianza della sottomissione di Schreber a un imperativo a godere. Del resto è Schreberstesso a suggerire come sia proprio Dio a volere che egli varchi i limiti dell'onesta voluttà, giacché è Lui a pretendere che, in tal modo. gli si procuri un godimento continuo. Ma in realtà l'essenziale sta altrove. Il fatto è, precisamente, che la voluttà senza limiti è, per così dire, immagine della beatitudine dell'anima e questa, d'altra parte, coincide senza residui e letteralmente con l'eterna oziosità della vita divina. La beatitudine dell'anima. infatti, consiste (ivi, p. 37). E nondimeno Schreber immagina come una possibilità desiderabile l'ozioso godimento della divinità. A questa analisi sulla natura del godimento sembra

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non mancare proprio nulla. Schrebervede perlettamente l'opposizione tra piacere continuo e interruzione della voluttà, la rela:z.ione dell'interru:z.ione con il lavoro e il nesso costitutivo tra piacere continuo e beatitudine, la differenza tra il godimento d'organo e il piacere diffuso sull'intero corpo senza organi, la distinzione essenziale tra godimento (fallico) maschile e voluttà femminile. nonché la stretta connessione di quest'ultima con lavoluttà divina - temi che, come vedremo subito, si ritrovano anche nella tarda riflessione di Jacques Lacan. A partire dal Seminario X, tenuto tra il 196~ eil 1963 e dedicato ali' angoscia, Lacan inizia a intravedere la possibilità di una jouissance slegata dal desiderio. Non, cioè, di un godimento come impossibile al di là del desiderio dell'Altro, ma come un godimento indipendente dalla stessa dinamica del desiderio, nonché dalla tensione della libido al soddisfacimento. Visto che questa seconda jouissance non coincide affatto con quella di cui, come abbiamo accennato, parlava anche Barthes, sarebbe stato forse opportuno darle un nome proprio. Questo altro godimento deve infatti distinguersi dal primo almeno per un suo tratto decisivo: perché è un godimento femminile. mentre il godimento in quanto impossibile sembra essere 1·unica forma di godimento concessa a un maschio essenzialmente sottomesso al desiderio (anche se è il ca so di avvertire che il e il non sono determinazioni biologiche, ma posizioni strutturali che ognuno può dunque occupare indipendentemente dal proprio sesso).

Prima di domandarci in che cosa consista questa secondajouissance, è importante rilevare come l'unica cosa che di essa sembra potersi dire di primo acchito riguarda appunto la sua indipendenza dal desiderio. Nel Seminario X, Lacan avvicina questa questione con qualche precauzione, dicendo per esempio che >. Com'è possibile d~re qualcosa di questo godimento in sé, di questa jouissance a cui Lacan, nel Seminario XX intitolato Encore, conferirà il paradossale attributo del!'essere Uno, se si tratta di un godimento sul quale il deside rio, con il suo stesso linguaggio, sembra non fare alcuna presa? È possibile domandarsi in che cosa consista questo

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godimento-uno? Per quanto possa apparire curioso. il Seminario ~ inizia con un confronto tra l'essenza del diritto e l'essenza del godimento. Mentre il diritto, dice Lacan, trova la sua essenza nel «ripartire, distribuire, retribuire ciò in cui consiste il godimento>> (LacanXX, p. 4), dunque ha a che fare fondamentalmente con un'economia degli utili, il godimento, per parte sua, (ibid.) e dunque anche, possiamo dedurre, ciò che non può essere soggetto a un'economia della ripartizione, della distribuzione, della retribuzione. Fin dall'inizio, dunque, il godimento si presenta come Uno, indivisibile. È questo suo essere-uno a far sì che il godimento si distingua in ogni senso dall'essere del desiderio: mentre il desiderio si pone come rapporto di un soggetto e di un altro, il godimento è essenzialmente non-rapporto. Per questo - dice precisamente Lacan - (ivi, p. 48). Mentre, in questo senso, il desiderio non si distingue dal bisogno. perché in entrambi i casi si tratta del rapporto di un soggetto con qualcosa di cui manca

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(senza considerare il fatto che per l'uomo, in quanto essere parlante, anche il bisogno più naturale si esprime già nella forma di un desiderio); l'uno e l'altro si distinguono invece dal godimento in quanto non-rapporto. Si può dire, di conseguenza, che (Pagliardini2016,p. 160). Su questa via, Lacan riprende la teoria aristotelica del piacere, non potendo che opporla a quella freudiana. Si trova infatti a stigmatizzare l'immagine freudiana del piacere come soddisfacimento di un bisogno. dunque come piacere dinamico, e a esaltare (pur con qualche riserva) l'idea aristotelica secondo cui il piacere in quanto tale è irriducibile al soddisfacimento di un bisogno, perché non va confuso appunto con il piacere in movimento. «Per quale equivoco - si domanda Lacan - in Freud il principio di piacere viene evocato solo dal sopraggiungere dell'eccitazione e dal movimento provocato da questa eccitazione al fine di sottrarsi a essa? Strano che sia questo ciò che Freud enuncia come principio di piacere, mentre in Aristotele può essere considerato solo come un'attenuazione di pena, di certo non come un piacere» (LacanXX, p. 59). Così, attraverso Aristotele, Lacan scopre l'esistenza di un piacere irriducibile al desiderio, dunque un piacere non derivante da una mancanza, che non ha, per così dire, il soggetto come proprio soggetto. È·a questo punto, nel bel mezzo di una discussione sul godimento femminile e, in particolare, sulla distinzione

tra un godimento detto c!itorid~o e un piacere (mal) detto

vaginale, che compare l'ipotesi secondo cui il godimento-uno, slegato dal desiderio, non derivante da una mancanza, abbia strettamente a che fare con l'estasi mistica (si fanno i nomi di Hadewijch di Anversa, Giovanni della Croce, Santa Teresa. mentre si esclude, forse in maniera ingenerosa, il misticismo diAngelo Silesio). Lacan, qui, è interessato soprattutto al fatto che del!'esperienza mistica e del suo piacere non se ne sa nulla e forse non se ne può dire nulla, cioè al fatto che questo piacere, appunto, non sia dell'ordine del linguaggio, del sapere, della cultura. Quello che interessa la presente ricerca, invece, è l'affermazione che esista un altro godimento, un godimento al di là del desiderio e al di là del soggetto. In effetti l'estasi di Santa Teresa. come Lacan ha imparato contemplando la scultura di Bernini. ha molto da insegnarci su che cosa sia il piacere puro. Parlando, se così si può dire, in prima persona, in un testo esoterico scritto da Pierre Klossowski, la santa spiega che il suo piacere estatico, fissato dallo scultore, è l'ap-

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parizione della sua parte migliore. In che cosa consista la parte migliore di ognuno, dice Teresa citando il Vangelo (Luca, 10, 38-42), (Klossowslci 2017, pp. 171-2). Ma il punto, continua Teresa, è che quella miglior parte di ciascuno, per quanto la si ignori. continua a essere l'unica parte che in ognuno è destinata alla salvezza, essendo già da sempre salva. L'inutile forestiero (ivi, p. 173).

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La nostra miglior parte, allora, non sarà davvero una

parte di noi stessi, un qualche tratto caratteristico della nostra persona, per esempio una certa attitudine a compiere buone azioni o a essere caritatevoli, ma risiederà semmai nel modo con cui assumiamo la nostra stessa esistenza, gli elementi del nostro carattere, nonché le forme di vita alle quali sembriamo vocati e le attività che paiono esserci date in sorte, sottoponendo tutto questo al predominio di un unico principio, quello che Spinoza ha chiamato acquiescentia in se ipso. Un principio di immanenza assoluta identico a quel principio di piacere epicureo che rende qui e ora le nostre vite indistruttibili e beate come quelle degli dei.

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cambiare, che svanisce nelle nebbie angosciose della domanda nevrotica, presentandosi nella nostra esperienza precisamente come ciò che ci manca. Né, del resto, è possibile tenere il piacere come un proprio possesso. Provare piacere, fruire della propria esistenza senza soffrire alcuna mancanza, non ha nuUa a che vedere con il compiacimento con cui talvolta osserviamo le nostre proprietà o godiamo dei nostri diritti. Provare piacere significa essere immersi in un' atmosfera che ospita soltanto la nostra parte migliore. quella comune che non ci appartiene. Per questo non esiste piacere che non sia : perché il piacere è l'atmosfera impersonale che si produce quando due esseri almeno si dissolvono temporaneamente nello spazio di una relazione.

6. IL PIACERE DELLA CARNE

tcrire est une vanité, si ce n 'estpour fomie. Pour fomie que !"on ne connatt pas encore. aussi. PSEUDD· CoMITt ll\'VISIBLE

Contrariamente a quanto può suggerire una cattiva reto - .. rica erotica, il piacere non è qualcosa che si possa dare. Il (1_ piacere non è oggetto di scambio. Come spiega Lacan in 1 un saggio del 1973. L'étourdit, (Lacanzo13, p. 464). Accade spesso che le nostre relazioni (come diceva MichelangeloAntonioni) siano l'espressione di un amore , perché continuiamo a credere che l'amore sia una faccenda di dare e avere. È precisamente quando il piacere, preso nelle maglie del desiderio, ci si presenta come un compito da conseguire o come un dono dari-

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In questo senso può essere intesa l'ostinazione con la quale Lacan pronuncia la formula > (ivi, p. 45i). D'altra parte, è possibile non solo guardare o accarezzare. ma anche denudare l'altro e denudarsi, senza che questo abbia nulla a che vedere con il godimento e senza

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che dunque produca in alcun modo un essere di carne. Ma quando una carezza inaugura l'accesso al mondo parallelo del piacere, quando si sfiora con lo sguardo il volto o con una mano il fianco di una donna o si lascia che le labbra facciano sentire la propria fantasmatica presenza prima di scivolare per un momento, quasi impercettibili, sulla superficie del collo, allora l'atmosfera che circonda i corpi muta improvvisamente, rendendo perfettamente irreali tutti i movimenti di cui pure ancora siamo gli attori. Ogni

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gesto è come circonfuso del suo stato potenziale, sta awenendo come pura possibilità; ogni mio atto, pur essendo io a compierlo, è come se si svolgesse fuori dal mio dominio, in quella zona senza giurisdizione che è costituita solo in virtù della vicinanza e dell'attrazione di due corpi. Fuori da quell'attrazione, i gesti riprendono il loro senso ordinario e tornano a essere segni, i movimenti rientrano nel campo d'azione del mio corpo. l'altro torna a essere l'insé che è sempre stato, un po' familiare un po· estraneo, ma comunque ormai privo dell'aura a cui soltanto la relazione carnale può dare luogo. È per questo che i gesti sessuali non possono essere volontari: perché non sono i miei gesti o quelli dell'altro a poter far nascere la relazione, ma questa si istituisce precisamente quando sono proprio e solo i gesti stessi ad appropriarsi di me e dell'altro. L'incontro di un desiderare e di un essere desiderati è il modo in cui si analizza, a posteriori, una relazione nella quale non ci sono propriamente né io né l'altro. Non sono io che desidero, né è l'altro a desiderarmi. Siamo su un terreno nel quale la correlazione neutralizza l'intenzionalità. Il carattere involontario dell'erezione e delle secrezioni non sono che le modalità fisiologiche nelle quali si traduce questo esser parte di una situazione che ci reclama e a cui per un lungo momento veniamo interamente affidati. Il luogo che viene a costituirsi tra i corpi, un luogo che in realtà appare come un . In verità, Sartre resta ancora per molti versi impiglia to in una concezione tradizionale, specialmente quando fa della carne la (ivi, ·p. 403) dell'altro. e quando sembra voler opporre alla fatticità del corpo di carne la grazia per la quale il corpo appare come (ivi p. 46:.i). Quando Sartre dice che normalmente la fatticità è rivestita e nascosta dalla grazia, e dunque la nudità della carne, per quanto sia sempre presentè. è tuttavia costantemente invisibile (cfr. ivi, p. 463), sembra tornar e a fare della carne una sostanza naturale e pre- esistente, anziché un prodotto effettivo del piacere; e sembra concepire la carne come il puro esserci di un corpo che sia stato privato della grazia, anziché come uno stato alterato del corpo stesso, dovuto al suo essere fuori di sé nel proprio sentire. Non si può dire che la carne dell'altro ci sia, nella mera contingenza della sua presenza, come se l'incarnazione dell'altro non implicasse la mia stessa incarnazione; la mia carne e la sua esistono solo nel mezzo dei nostri corpi, anzi quella carne che propriamente non appartie n e a nessuno è la sostanza stessa di quell'essere tra i corpi, di quel rapporto senza i termini del rapporto. Il corpo di carne non è mai, non potrà mai essere un corpo ridotto puramente e semplicemente alla sua appa -

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renza naturale o alla mera sussistenza fisiologica. Da una parte, la stessa carne del piacere, per quanto possa essere priva degli abiti, dei movimenti e delle espressioni che governano per lo più il corpo funzionale. resta nondimeno vestita, abitata e percorsa da cima a fondo da una potenza espressiva. I tremiti interiori, la lentezza dei gesti, gli spasmi improvvisi che definiscono il campo del pia cere sono le forme proprie di una vita della carne, sono le espressioni di una carnalità non semplicemente che ha luogo solo in quella sospensione dell' ordinario istituita dalla situazione sessuale. E, d'altra parte, un corpo può farsi corpo di carne pur in un contesto del tutto ordinario o addirittura formale, nel quale il vestia rio, le pose, gli atti e le parole continuino a figurare come meri segni sociali. Un modo di guardarsi, di salutarsi o sorridersi mentre, legati nell'eleganza dell'abito, ci si scambiano parole di circostanza, può già istituire la tensione di un campo carnale-la cui eterogeneità rispetto al territorio dell'agire intenzionale è testimoniata daJla nostra incapacità di sapere se quelle forze di attrazione che all'occasione di un'espressione stranamente magnetica ci hanno trasportato nelle estreme vicinanze dell'altro sussistano realmente o se non siano solo l'effetto della nostra immaginazione. In entrambi i casi, la carne del piacere è sempre gratia p!eno,. La cosmesi o la cosmicità della grazia non le sopravviene, ma costituisce il suo unico modo di apparizione. Èil sadico, semmai, che immaginando la grazia come un abito, come un segno estrinseco e supplementare, pretenderebbe di sfilarlo via per fare apparire la nudità

dell'altro in quanto tale, per ridurre l'altro al suo essere nient'altro che un involucro di carne.