Keynes e l'instabilità del capitalismo

Formulando un'interpretazione alternativa della "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e

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Italian Pages viii, 233 [242] Year 1981

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Keynes e l'instabilità del capitalismo

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HYMAN P. MINSKY

KEYNES E L'INSTABILITÀ DEL CAPITALISMO

© 1981 Editore Boringhieri società per azioni Torino, corso Vittorio Emanuele 86 CL 74-9137-9

Titolo originale John Maynard Keynes © 197> Columbia University Press

-

Traduzione di Manfredi La Manna

New York

Indice

Prefazione

VII

Introduzione

3

1

La 'Teoria generale' e la sua interpretazione

9

2.

L'interpretazione tradizionale dell'opera di Keynes

31

Tre fondamentali prospettive d'analisi

75

Meccanismo di finanziamento capitalistico e determinazione del prezzo dei beni capitali

92

3

4 5

6 7

8

9

La teoria degli investimenti

124

Istituzioni finanziarie, instabilità finanziaria e andamento degli investimenti

155

Alcune implicazioni dell'interpretazione alternativa

172

Filosofia sociale e politica economica

190

Le implicazioni di politica economica dell'interpretazione alternativa

209

Bibliografia

221

Indice analitico

223

AVVERTENZA

I

nomi d'autore seguiti da data, citati nel testo o in nota, rimandano alla

data

quella dell'edizione originale, mentre le eventuali indicazioni di

Bibliografia alla fine del volume. Nel caso di opere tradotte in italiano, la

è

pagina si riferiscono alla traduzione. La sigla TG

è

l'abbreviazione di Teoria generale dell'occupazione, del­

l'interesse e della moneta.

Prefazione

_Ciò che fa di ]()hn Maynard Keynes un economista del tutto particolare è il carattere "rivoluzionario " della sua opera princi� pale: la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta ( 1936 ). Il presente studio è dedicato all'analisi di quel­ l'operae-"1ntefiììe verificare se essa costituisca veramente, come riteneva Keynes, una "rivoluzione " del pensiero economico; nelle pagine che seguono cercheremo di dimostrare che la Teoria generale contiene davvero elementi capaci di rivoluzionare la scienza economica, ma che nel processo interpretativo conclu­ sosi con l'odierna versione ortodossa della teoria keynesiana quelle potenzialità rivoluzionarie sono andate completamente smarrite: sarà nostro compito tentare di recuperarle. In questo libro ci concentreremo sulla Teoria generale, igno­ rando sia ropera precedente di Keynes in materia di economia monetaria sia l'enorme letteratura che ha sviluppato, interpretato, spiegato e sistemato formalmente il pensiero keynesiano. Se ab­ biCflno deciso di non tener conto né dell'una né dell'altra non è perché riteniamo che un'analisi rigorosa e documentata dell'in­ tera opera di Keynes e del dibattito che ne è scaturito non sia significativa, ma perché, così facendo, verremmo meno al com­ pito che ci siamo prefissi: dimostrare cioè che, nascosta nei meandri meno frequentati della Teoria generale, c'è una teoria dei processi capitalistici molto più pertinente ai problemi odierni di teoria e di politica economica di quella offertpci dalla dottrina convenzionale. L'interpretazione di Keynes avanzata in queste pagine è il

VIli

PREFAZ:ONE

frutto di un ripensamento durato parecchi anni, al quale hanno contribuito sia i miei precedenti lavori sull'instabilità finanziaria sia l'opera di quegli economisti che, ciascuno a suo modo, hanno assunto una posizione critica nei confronti dell'inter­ pretazione corrente del pensiero keynesiano: Joan Robinson, G. L. S. Schackle, Nicholas Kaldor, Sidney Weintraub, Pau/ Davidson, Robert Clower e Axel Leijonhufvud sono gli espo­ nenti più rappresentativi di quella schiera di studiosi "dissidenti " che ha influenzato il mio pensiero in modo più diretto. Se avessi voluto precisare i punti in cui mi trovo in accordo o in disac­ cordo con questi miei colleghi, avrei dovuto scrivere un libro ben più lungo di questo e il messaggio che intendo far giungere al lettore si sarebbe smarrito in una selva di dispute teoriche e di dettagli. Un ulteriore contributo all'evolversi del mio pensiero è ve­ nuto dalle discussioni avute a Cambridge dove, in temporaneo congedo dalla mia università, ho trascorso un anno tra i più pia­ cevoli. In particolare vorrei ringraziare, per i preziosi colloqui avuti con lui, Dona/d Moggridge il quale, al tempo del mio sog­ giorno, stava iniziando l'opera di edizione dei manoscritti di Keynes che sono stati poi pubblicati come volume 13 (The Ge­ nerai Theory and After: Part l, Preparation) e volume 1.4 (The Generai Theory and After: Part Il, Defence and Deveiopment) dei "Co/lected Works of fohn Maynard Keynes". In questo libro però non ho tenuto conto in modo esplicito del materiale apparso in detti volumi, in quanto al momento della loro pub­ blicazione il mio manoscritto era già pronto per la stampa; senza contare che analizzare in dettaglio tale materiale avrebbe richie­ sto la stesura di un lib1·o affatto diverso. Oltre che verso Dona/d Moggridge, sono in vario modo debi­ tore verso molte altre persone ed enti, nessuno dei quali ovvia­ mente ·va ritenuto responsabile degli errori e dei fraintedimenti co ntenuti nelle pagine che seguono. A tutti comunque il mio più sincero ringraziamento. H . P. M.

Keynes e l'instabilità del capitalismo

Introduzione

Nella storia intellettuale di una disciplina scientifica vi sono periodi durante i quali le strutture teoriche su cui essa poggia sono salde e sicure, mentre al contrario durante altri esse ap­ paiono deboli e precarie. Nel primo caso si registra un'ampia convergenza di opinioni circa i tratti caratteristici della disci­ plina stessa e la teoria generalmente accettata viene considerata capace di offrire sia un'interpretazione soddisfacente dei dati empirici, sia indicazioni utili per applicazioni pratiche sul piano sociale o tecnologico. Nel secondo caso invece i membri della comunità scientifica non si trovano d'accordo neppure sui principi fondamentali della disciplina in questione: esistono teorie contrastanti, ciascuna delle quali non riesce a spiegare adeguatamente determinati fenomeni, dimostrando così di non avere validità universale . Le eccezioni sembrano sostituirsi alla regola. Solo qualche anno fa, all'inizio degli anni sessanta, la teoria monetaria e macroeconomica si presentava come una disciplina scientifica ormai ben consolidata e priva di anomalie. L'apparato concettuale ritenuto più appropriato per svolgere lavori di ri­ cerca teorici e applicati e capace di fornire diagnosi e prognosi di politica economica era quello offerto dalla sintesi neoclassica, ovvero dalla sintesi tra le innovazioni teoriche di Keynes e il sistema analitico dell'economia classica. Questa almeno era l'opi­ nione allora più diffusa tra gli economisti, fatta eccezione per quei pensatori eretici e dissidenti la cui esistenza sembra essere una caratteristica insopprimibile delle scienze sociali. Oggi invece

4

INTRODUZIONE

la teoria monetaria e macroeconomica versa in uno stato di crisi profonda, soprattutto perché i mancati successi di politica eco­ nomica, considerati come banco di prova della teoria, ne hanno messo in luce le gravi deficienze sul piano analitico. La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della mo­ neta, l'opera più famosa di Keynes, si conclude con una frase che troviamo citata assai spesso : " Le idee degli economisti e dei filo­ sofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all'infuori di quelle " ( TG p. 5 54) . Poco sopra Keynes notava: "Nel momento presente ci si attende, con un'intensità quale raramente fu raggiunta nel passato, una diagnosi più fondamentale; si è più particolarmente pronti a ri­ ceverla; e si è ansiosi di metterla in atto, se essa fosse appena plausibile " (TG p. 5 54). Al momento attuale negli Stati Uniti è assai diffuso un atteg­ giamento simile a quello descritto da Keynes, suscitato non, come allora, da una grande crisi su scala mondiale, ma da tutta una serie di fenomeni allarmanti. Ci si è resi conto che opulenza e povertà non solo possono coesistere, ma che la prima può es­ sere la causa della seconda; il processo inflazionistico sembra de­ stinato a perdurare; i mercati finanziari attraversano nuovamente una fase di instabilità, con conseguenze poco rassicuranti; l'in­ certezza regna sul commercio e sulla finanza internazionale. Tutto ciò ha provocato un clima di profondo scontento nei con­ fronti sia del sistema economico che della teoria economica; · le misure pratiche adottate per migliorare lo stato dell'economia vengono viste con sempre maggiore sfiducia. È necessario perciò riprendere in esame l'apparato teorico che ha suggerito l'ado­ zione di misure di politica economica rivelatesi inefficaci. Così, dopo quarant'anni, ci sembra che negli ambienti intel­ lettuali siano maturate le condizioni per una nuova " rivoluzione culturale", simile a quella suscitata dalla Teoria generale negli anni trenta. In questo libro, il cui scopo è interpretare i principali apporti di Keynes alla teoria economica, sostengo la tesi che, se si riva­ lutano certi aspetti della Teoria generale solitamente trascurati e se si elaborano ulteriormente le idee di Keynes, è possibile rivo­ luzionare per la seconda volta il modo tradizionale di analizzare

INTRODUZIONE

5

un sistema capitalistico avanzato. A mio parere, la teoria econo­ mica ortodossa ha recepito e divulgato solo una parte del sistema keynesiano, accettando unicamente le idee facilmente inseribili nel vecchio sistema di pensiero (ciò che Keynes definiva l'eco­ nomia classica) e. direttamente rilevanti per la soluzione dei pro­ blemi economici del periodo compreso tra la fine degli anni trenta e l'inizio degli anni quaranta, cioè lo stato di stagnazione succeduto alla Grande Crisi e la mobilitazione economica prece­ dente la seconda guerra mondiale. È mia opinione inoltre che gli elementi della Teoria generale comunemente trascurati o addi­ rittura ignorati ne costituiscano invece il nucleo analitico fon­ damentale: sono proprio questi, infatti, da una parte a segnare una netta rottura con la dottrina classica e dall'altra a essere i più direttamente attinenti ai problemi odierni delle società avan­ zate. Si può quindi affermare che la sintesi neoclassica, ovvero la teoria risultante dal connubio tra idee keynesiane e struttura analitica classica� tradisce lo spirito e la sostanza dell'opera di Keynes. Tre sono gli elementi principali ignorati dalla sintesi neoclas­ s!ca: la formazione delle decisioni in condizioni d'incertezza; il carattere ciclico del processo economico capitalistico; i rapporti finanziari tipici delle economie capitalistiche avanzate. L'impor­ tanza attribuita da Keynes ai fenomeni di disequilibrio, cioè al "fatto che è nella fase di transizione [tra posizioni d'equilibrio mai raggiunte ] che viviamo realmente " (TG p. 513, nota e), è completamente trascurata dalla sintesi neoclassica. I modelli di quest'ultima infatti sono essenzialmente atemporali, in stridente contrasto cor la grande attenzione prestata da Keynes alla dimensione del tempo, alla natura transitoria delle varie fasi ci­ cliche, all'attività economica intesa come processo dinamico. L'interpretazione tradizionale inoltre astrae totalmente dalle spe­ cifiche caratteristiche istituzionali dell'economia, oggetto invece di attento esame nella Teoria generale. Più in particolare, i mec­ canismi finanziari, che Keynes riteneva importantissimi, vengono il più delle volte trattati in modo assai approssimativo dai mo­ delli della sintesi neoclassica. Proprio tenendo conto degli elementi della Teoria generale sinora ignorati è possibile formulare un modello del processo ca­ pitalistico migliore di quello offerto dalla teoria tradizionale, sia

6

INTRODUZIONE

in termini di potere esplicativo nei confronti dell'andamento ci­ clico dell'economia statunitense e di altri paesi capitalistici avan­ zati, sia per la sua capacità di proporre politiche economiche ef­ ficaci. L'opera di Keynes, debitamente reinterpretata, vuole mettere in discussione la validità dei due strumenti analitici del sistema neodassico che stanno alla base del pensiero economico contemporaneo (funzione della produzione e sistemi di prefe­ renze individuali immutabili), aprendo così la strada a nuovi tipi di politica economica, rivolti a risolvere problemi nuovi, quali la distribuzione del reddito e la qualità del lavoro. Secondo la teoria convenzionale la composizione del prodotto globale e la sua distribuzione sono determinati dal tipo di tecno­ logia esistente e dalle preferenze individuali: la politica econo­ mica che, stando all'interpretazione ortodossa del pensiero key­ nesiano, va intesa come manovra fiscale e monetaria, può solamente affrontare il problema del raggiungimento della piena occupazione. Secondo l'interpretazione alternativa della teoria di Keynes qui proposta è possibile invece andare al di là di una generica politica di piena occupazione : la composizione e distri­ buzione del prodotto non sono determinate da fattori tecnologici e psicologici, ma decise in base a considerazioni politiche. Alla politica economica vengono assegnati nuovi compiti. Nella Teoria generale possiamo individuare linee di pensiero tra loro diverse e divergenti. Alcune sono intimamente legate alla tradizione classica e testimoniano il fatto che Keynes non riuscì a liberarsi completamente da quei "modi abituali di pensiero e di espressione " ( TG p. 1 4 7 ) verso i quali egli stesso ci meuteva in guardia nella introduzione della Teoria generale·. Seguendo altre linee di pensiero invece Keynes riuscì effettivamente a li­ berarsi delle vecchie idee tradizionali. Queste due diverse anime convivono nella Teoria generale e Keynes non ne precisò mai con chiarezza le profonde differenze. Soltanto in un'occasione, e precisamente nella sua replica alla recensione della Teoria gene­ rale da parte di Jacob Viner (replica a nostro avviso assai signi­ ficativa e sulla quale torneremo), Keynes discusse apertamente la validità di una delle interpretazioni che i critici avevano dato del suo libro. Nel suo articolo Viner ( 1936) poneva in stretta con­ nessione la nuova " teoria generale " e le vecchie idee classiche: Keynes negò apertamente la correttezza di una tale interpreta-

INTRODUZIONE

7

zione. Nei confronti degli altri critici di orientamento ortodosso, Keynes assunse un atteggiamento dista ccato, elargendo tutt'al più un assenso poco convinto. In manca nza di una netta presa di posizione da parte di Keynes, l'interpretazione ortodossa, se­ condo la quale, paradossalmente, la teoria di Keynes appartiene a quella tradizione classica che intendeva soppiantare, può van­ tare oggi una certa pretesa di legittimità. Questo tipo di inter­ pretazione, legittimo o meno che sia, ha però ignorato comple­ tamente proprio quei tratti della Teoria generale dai quali possiamo ricavare un nuovo modo di analizzare un'economia ca­ pitalistica avanzata e che rappresentano il momento di distacco di Keynes dalla teoria economica ortodossa. Nelle pagine che seguono non prenderò in esame la vastissima produzione scientifica di Keynes precedente la Teoria generale, in quanto il mio principale interesse consiste nell'individuare gli elementi nuovi e originali contenuti in quest'opera. (Comunque, delineando la filosofia sociale della Teoria generale e le implica­ zioni di politica economica che ne deriva no, mostrerò come le idee di Keynes siano del tutto coerenti con l� posizione che a tale riguardo egli aveva assunto negli anni venti .) Non prenderò neanche in esame i molteplici altri volti della sua personalità scientifica . Come ho già più volte indicato, il mio interesse è cir­ coscritto alla Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta intesa come tentativo di rivoluzionare la scienza economica. In ciò che segue mi limiterò, come ha fatto Keynes nella Teo­ ria generale, a considerare un'economia chiusa. Ovviamente, vo­ lendo applicare praticamente la teoria sia in versione tradizionale che in versione rivista, è necessario tener conto delle ripercus­ sioni internazionali. La mia reinterpretazione di Keynes pone in primo piano il ruolo che le interrelazioni finanziarie, con la loro instabilità e facile perturbabilità, svolgono nel determinare le varie fasi del ciclo economico. Alla luce delle esperienze degli anni sessanta e dei primi anni settanta è chiaro che nel sistema semiaperto di scambi vigente tra le economie capitalistiche avan­ zate l'importanza dell'instabilità e delle perturbazioni finanziarie è senza confronto più significativa di quanto non sarebbe in cia­ scuna economia considerata singolarmente. È quindi per como­ dità di esposizione che nello svolgimento della nostra analisi trat-

8

INTRODUZIONE

teremo i meccanismi finanziari di un'economia chiusa. Entro tale ambito infatti è possibile evidenziare gli aspetti salienti di un'in­ terpretazione della Teoria generale centrata sull'instabilità dei mercati finanziari e sulla ciclicità dell'andamento economico. Vo­ lendo estendere l'analisi a un sistema di economie capitalistiche tra loro interdipendenti si potranno trovare elementi che confer­ mano, non ceno riducono, la validità della nostra tesi.

Capitolo

1

La 'Teoria generale' e la sua interpretazione

Si può affermar-e - che Keynes appartien� aiSieme a Marx, Dar­ win, Freud ed Einstein, a quella ristretta cerchia di pensatori che ha fatto scoppiare le rivoluzioni intellettuali del nostro tempo, per il contributo fondamentale apportato dalla Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta all'economia po­ litica, intesa sia come scienza teorica che come guida pratica alla gestione dell'economia. La Teoria generale venne pubblicata nel febbraio del 1936, quando Keynes aveva cinquantadue anni. Il suo primo lavoro scientifico, Recent Economie Events in India, aveva visto la luce nel 1909 e trattava delle conseguen�e della depressione mon­ diale e degli squilibri finanziari degli anni 1907-oS sull'economia indiana; già in quell'occasione Keynes dava particolare risalto a un fenomeno monetario: il meccanismo d'emissione della rupia. A partire da questo articolo fino al r 93 5 Keynes scrisse moltis­ simo in materia di economia, rivolgendosi sia agli economisti di professione sia all'opinione pubblica in generale, mostrando di prediligere la problematica dell'economia monetaria. Infatti an­ che i suoi importanti lavori di economia internazionale trattano essenzialmente problemi finanziari e monetari. Nel quarto di secolo precedente la stesura della Teoria gene­ rale l'opera di Keynes, seppure per certi aspetti indubbiamente originale, spesso fonte di controversia e, fatto significativo, già su posizioni eterodosse circa la politica economica, si era sempre mossa all'interno della teoria economica tradizionale. Volendo esprimere in una sola frase il contributo dato da Kevnes alla teo-

IO

CAPITOLO PRIMO

ria economica prima della comparsa della Te oria generale, si po­ -tr ebbe dire che in quel periodo la sua attività era .rivolta princi-palmente a chiarire il meccanismo di funzionamento della teoria della moneta allora dominante: la teoria quantitativa. Le asserzioni fondamentali della teoria quantitativa della mo­ neta sono: a) in uno stato di equilibrio la moneta è neutrale, nel senso che i prezzi relativi, il reddito e la produzione non dipen­ dono dalla quantità di moneta; b) il livello generale dei prezzi è determinato dalla quantità di moneta; c) un'economia decentra­ lizzata è fondamentalmente stabile. Keynes, prima della Teoria generale, riteneva che queste proposizioni fossero sostanzialmente valide, ma che la teoria quantitativa fosse vaga e imprecisa circa i meccanismi e i processi mediante i quali il sistema raggiunge una posizione di equilibrio di lungo period o . Quindi, prima di abbracciare appieno il credo quantitativo, Keynes riteneva ne­ cessario capire meglio il comportamento dell'economia tra uno stato d'equilibrio e l'altro, vale a dire nel breve periodo (definito come situazione transitoria, di disequilibrio). La Teoria generale segnò una brusca svolta nell'atteggiamento assumo da Keynes nei confronti della teoria quantitativa. Lì Keynes attaccava con fervore e con evidente compiacimento i fondamenti logici ed empirici del pensiero economico tradizio­ nale. Poneva alla teoria economica nuovi problemi, primo fra tutti la determinazione nel breve periodo del livello della do.­ I]}anda aggregata, e quindi dell'occupazione, in un contesto a'n'i= Etico chè�iicorwsceva esplicitamente come proprio oggetto d'e­ same un'economia capitalistica, soggetta a fasi di boom e di crisi. Introduceva nuovi strumenti d'analisi, quali la funzione del con­ sumo e la preferenza per la liquidità� e utilizzava concetti estranei all'economia tradizionale, come Tìncertezza. La sua teoria inten­ deva dimostrare che la moneta non è neutrale; contrariamente alla teoria tradizionale essa sosteneva: a) che le variabili reali di­ pendono in modo essenziale dalle variabili monetarie e finan­ ziarie; b) che il livello dei prezzi non soltanto non dipende esclu­ sivamente dalla quantità di moneta, ma ne è influenzato solo marginalmente; c) che in un'economia capitalistica non pianifi­ cata (dove cioè non si prendono adeguate misure di politica economica) i processi di transizione tra stati di equilibrio non danno vita affatto a un sistema autoregolantesi tendente a stabi­ lizzarsi su una posizione di equilibrio di piena occupazione. Nella

LA ' TEORIA GENERALE'

Il

nuova concezione di :Ke.Y!J�S anche la piena_o_ccupazione si con-

figu rava come uno stato transitorio.

-----·

_

·· La Teoria generale apparve improvvisamente sulla scena come

un'opera importantissima, lanciata da un'attenta campagna pub­ blicitaria condotta da Keynes e dai suoi giovani discepoli di Cambridge (e altrove). Così scriveva Keynes a George Bernard Shaw: " Ritengo fermamente di star scrivendo un libro di econo­ mia che rivoluzionerà sostanzialmente ( ...) il nostro modo di ragionare sui problemi economici " (Harrod, 1 95 1 , p. 642). E come opera rivoluzionaria fu in effetti accettata da molti suoi colleghi e soprattutto dagli economisti più giovani, sia in Inghil­ terra che negli Stati V niti. Come notava Pau l M. Sweezy ( 1 964) nella sua commemorazione di Keynes, la Teoria generale aveva prodotto "un senso di liberazione e uno stimolo intellettuale ( ...) tra gli insegnanti e gli studenti più giovani di tutte le principali università inglesi e americane ( .. .)-Keynes- proseguiva Sweezy­ dischiuse a tutta una generazione di economisti nuovi spazi e sconosciuti sentieri " (p. 301 ). La Teoria generale ebbe un successo fulminante. Eppure, già all'indomani della sua pubblicazione, si avviò un processo ancora oggi in atto, tendente a sminuire e a svilire il profondo significato del contributo teorico keynesiano: un processo che è stato fa­ vorito sia da studiosi apparentemente aperti alle nuove idee, quali per esempio John R. Hicks, sia da nemici dichiarati del nuovo, come Jacob Viner. Oggigiorno l'opinione più diffusa tra gli economisti è che il modello descritto da Keynes costituisca un interessante caso par­ ticolare della teoria classica che, di tanto in tanto, può rivelarsi di una certa utilità pratica: in generale si ritiene che Keynes ab­ bia fallito nel· suo tentativo di sostituire il vecchio paradigma classico con un nuovo schema teorico. Gardner Ackley, membro ( 1 962-64) e poi presidente ( 1 964-68) del " keynesiano " Comitato dei Consiglieri economici del presidente durante l'era Kennedy­ Johnson, ne11a prefazione al suo fortunato manuale Teoria ma­ croeconomica ( 1 96 1 ) afferma che " l'opera di Keynes anziché una rivoluzione delle idee 'classiche' ne rappresenta una semplice estensione " e che " la ricerca economica post-keynesiana ha fatto avanzare la macroeconomia ben oltre il limite raggiunto da Keynes con la sua opera originale ".

CAPITOLO PRIMO

Il giudizio espresso da Ackley sull'apporto teorico keynesiano è tipico di gran parte della critica contemporanea, la quale lascia intendere che il rivolgimento intellettuale seguito alla comparsa della Teoria generale fu ingiustificato o comunque sproporzio­ nato. Oggi è sempre più comune l'opinione che quanto nella Teoria generale è corretto non è originale e che quanto è origi­ nale non è corretto. Delle due contrastanti interpretazioni del modello keynesiano solo una può essere valida: bisogna scegliere tra l'opinione corrente, di cui l'affermazione appena citata di Ackley è un tipico esempio, e l'interpretazione della Teoria ge­ nerale come "rivoluzione intellettuale " prop osta da Sweezy e da altri studiosi. A parere di chi scrive Keynes e i suoi contemporanei avevano ragione a considerare rivoluzionaria la Teoria generale: quest'o­ pera contiene effettivamente i germi di un rivolgimento coperni­ cano nella teoria economica e nel modo di guardare la realtà socioeconomica. Questi germi però non si sono mai sviluppati completamente. La rivoluzione scientifica, esistente a livello em­ brionale, ha abortito, in quanto le idee originali del testo keyne­ siano sono state mal interpretate da molti studiosi accademici, gli stessi che le hanno poi applicate alla politica ec;onomica go­ vernativa. Ancor prima della pubblicazione ufficiale della Teoria gene­ rale, basandosi sui corsi tenuti da Keynes a Cambridge e sulle bozze di stampa già in circolazione, gli economisti accademici avevano cominciato a riannodare le nuove idee al filone tradizio­ nale, ovvero alla teoria quantitativa della moneta. li risultato ' di questo processo di depurazione interpretativa è stata la vittoria pressoché totale della tradizione sia negli ambienti accademici che nell'apparato amministrativo statale. La sintesi neoclassica, l'interpretazione oggi dominante, che trova espressione nelle opere di economisti americani quali Samuelson, Patinkin, Modi­ gliani e Friedman, appartiene più al campo classico che non a quello keynesiano in quanto riafferma la vàlidità generale, o "in linea di principio ", della teoria quantitativa della moneta. Grazie a questa vittoria del paradigma classico la teoria economica in­ segnata oggi nelle università ha riconquistato gran parte della sterilità e dell'astrattezza tipiche della scienza economica prece­ dente la pubblicazione della Teoria gemrale. Don Patinkin, uno degli artefici della visione oggi prevalente, ha scritto il panegirico

LA 'TEORIA GENERALE'

I]

della non rilevanza pratica. del pensiero economico quando, nella prefazione al suo famoso e autorevole testo Moneta, interesse e prezzi ( 1 965), ha affermato che:

I predicati della teoria quantitativa della moneta sono validi in condi­ zioni assai meno restrittive di quelle che normalmente vengono ritenute necessarie dai suoi stessi sostenitori, e quindi a fortiori dai suoi critici. Per

converso, i postulati della teoria monetaria keynesiana sono assai meno generali di quanto (...) vorrebbero farci intendere la Teoria generale e alcune delle interpretazioni che di essa sono state date. Questa circostanza però non sminuisce affatto la rilevanza della teoria keynesiana della disoc­ cupazione per quanto concerne la formulazione di una possibile e realistica politica di piena occupazione.

Il fulminante successo che la Teoria generale ha goduto negli anni trenta va attribuito alla sua rilevanza pratica: l'anno in cui fu pubblicata coincise con il settimo anno di una gravissima crisi economica che aveva colpito il mondo intero e soprattutto gli Stati Uniti. Nelle cronache del tempo leggiamo che la Grande Crisi era stata scatenata dal crollo di Wall Street del 1 929 e resa ancora più grave da una serie di ulteriori crisi e penurbazioni finanziarie. Il momento culminante fu il collasso del sistema ban­ · cario americano avvenuto nella primavera del 1 9 3 3 , contempora­ neamente all'elezione alla presidenza di Franklin Roosevelt, che succedeva a Herbert Hoover. Nel tormentato periodo che va dal 1929 al 1 936 gli economi­ sti accademici, esponenti della dottrina ortodossa, non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente ac­ cettabile circa un piano d'azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità di autoregolazione del meccanismo di mercato. Secondo l'opinione allora prevalente l'e­ conomia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall'adozione di una errata politica economica, inclusa la manovra fiscale. All'inizio degli anni trenta c'erano però economisti che, sep­ pure ortodossi in questioni di teoria, suggerivano soluzioni di politica economica non convenzionali. Durante la seconda metà . degli anni venti, periodo durante il quale l'Inghilterra viveva in condizioni di disoccupazione cronica, i consigli di politica eco­ nomica dati da Keynes non erano certo ortodossi. In occasione delle elezioni politiche del 1 929, per esempio, egli ( 193 1 a) sostenne

I4

CAPITOLO PRIMO

la candidatura di Lloyd George il quale suggeriva come rimedio per la disoccupazione un programma di opere pubbliche finan­ ziate da emissioni del debito pubblico. L'analisi di Keynes sulle conseguenze di un tale programma di spese pubbliche era però assai confusa, come sempre succede quando un efficace consiglio di politica economica non è sorretto da una struttura teorica coerente. Negli Stati Uniti durante l'era della Grande Crisi il più im­ portante gruppo di economisti accademici i cui consigli pratici divergevano da quelli suggeriti dalla teoria convenzionale, ope­ rava nell'ambito dell'Università di Chicago. Nel periodo più cupo della Grande Crisi questi economisti propugnarono ciò che oggi chiameremmo una politica monetaria e fiscale di tipo espan­ sivo. I loro suggerimenti pratici però non derivavano da un mo­ dello del processo capitalistico capace di spiegare il modo in cui le caratteristiche intrinseche dell'economia avessero prodotto quei fenomeni negativi cui si intendeva porre rimedio. L'economista più convincente di tale gruppo, Henry C. Simons ( 1 948), riteneva che le strozzature dell'economia americana re­ sponsabili della Grande Crisi fossero dovute essenzialmente a determinate deficienze istituzionali del sistema bancario e a errori commessi dalle autorità pubbliche, non alle caratteristiche interne di un'economia capitalistica. Poiché dopo un crollo o una crisi è sempre possibile addossarne la colpa a errori umani o a disfun­ zioni istituzionali, la posizione di Simons è pressoché inattac­ cabile. I suoi suggerimenti pratici, sebbene si movessero nella giusta direzione da un punto di vista "keynesiano ", non rapp're­ sentavano affatto la logica conclusione di un modello teorico ben articolato. Se Simons e altri come lui proponevano misure di politica economica efficaci, ciò era dovuto più alla loro capacità di osservazione e al loro intuito che non alle conoscenze teoriche a loro disposizione. Prive di un qualsiasi fondamento teorico, le intuizioni di Simons non erano in grado di avanzare alcuna pre­ dizione; inevitabilmente le ragioni addotte a sostegno dei suoi consigli pratici di politica economica suonavano poco convin­ centi. Simons, per così dire, affrontava i sintomi e non le cause di quelle che allora sembravano le evidentissime contraddizioni interne dell'economia capitalistica. Franklin Roosevelt, pur essendo un convinto interventista de­ sideroso /di agire in favore di una ripresa economica, in un primo

LA

' ' TEORIA GENERALE

15

tempo si fece accompagnare alla Casa Bianca da una schier{l di consiglieri economici del tutto incapaci di fornirgli un qualsiasi serio suggerimento su come comportarsi. Sotto la loro influenza egli adottò una raffazzonata politica di manovra sul prezzo del­ l'oro espresso in dollari, mirante a far salire i prezzi soprattutto dei prodotti agricoli. Sarebbero dovuti · passare due-tre anni prima che un circolo di giovani consiglieri economici si guada­ gnasse una certa autorità e cominciasse a propugnare, ancor prima della comparsa della Teoria generale, l'impiego della po­ litica fiscale come strumento per far espandere l'economia. Va detto però che tali consigli si tramutarono in azione pratica solo durante il secondo mandato di Roosevelt e che fino alla seconda guerra mondiale non vennero mai superati i radicati pregiudizi nei confronti della politica di spesa pubblica e deficit di bilancio. A causa dell'incoerenza delle politiche adottate durante la prima presidenza Roosevelt, l'economia dopo una breve ripresa dalla profonda crisi degli anni 1 929- 3 3 , si trovava in uno stato di de­ pressione che avrebbe potuto essere evitato ricorrendo a una coerente politica espansiva. Dato il prolungato periodo di rista­ gno nella spesa del settore privato seguito al grande shock fi­ nanziario degli anni 19 29-3 3 , il successivo periodo ( 1 9 3 3 -39) sarebbe stato il più adatto per attuare un programma espansivo che avrebbe potuto rivelarsi oltremodo efficace (Galbraith, 1 972, pp. 1 3 8-52). La più significativa alternativa all'economia tradizionale era quella offerta dalla scuola marxista. A Cambridge, patria intellet­ tuale di Keynes, le teorie marxiste avevano notevole seguito tra gli studenti universitari e i giovani ricercatori: a ben considerare la Teoria generale è stata scritta proprio nel " decennio rosso " 1 930-40. Per i marxisti ortodossi la Grande Crisi rappresentava una conferma dell'idea di un'intrinseca instabilità del capitalismo. Così, nei periodi più cupi della crisi, economisti tradizionali e marxisti erano giunti alla stessa conclusione: in un'economia ca­ pitalistica non esiste alcun sistema per mitigare gli effetti delle depressioni. Negli anni trenta dunque tutti gli studiosi, conser­ vatori, liberali o radicali che fossero, sembravano concordi su un punto: in un contesto capitalistico è inevitabile la comparsa di fasi di depressione, e l'intera società deve adattarsi al susseguirsi periodico di tempi duri.

CAPITOLO PRIMO

Da un punto di vista ideologico Keynes non apparteneva né all'area marxista né a quella tradizionalista. Figlio dell'illuminismo edwardiano e socio fondatore del circolo Bloomsbury, egli aveva un atteggiamento istintivamente scettico nei confronti delle idee comunemente accettate. Sebbene fosse "di sinistra ", Keynes non si accodò ai giovani aderenti del circolo Bloomsbury quando essi, negli anni trenta, si spostarono su posizioni politiche più radicali e dottrinarie, forse anche perché intendeva tener fede al proprio impegno di economista di analizzare la società da un punto di vista scientifico. Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, Keynes, sebbene uomo del sistema, non entrò mai a far parte dell'apparato governativo, mantenendo una posizione progressista e, in un certo senso, indipendente e prendendo, sem­ mai, il partito liberale come proprio punto di riferimento. Que­ sto orientamento ideologico di centro, lievemente tendente a sinistra, unito alla convinzione che la sinistra paniva da una impo­ stazione critica esatta senza però essere poi in grado di dare ri­ sposte positive ai problemi, ispirò la stesura della Teoria generale. Si può forse dire che la Teoria generale fu il frutto dell'unione tra la fredda razionalità dell'economista di professione e l'impe­ gno dell'uomo animato da una convinta fede di tipo riformista. Con la Teoria generale Keynes proponeva un'alternativa sia sul piano teorico sia su quello delle applicazioni politiche alla grigia visione degli economisti ortodossi e marxisti. Gli avveni­ menti del 1 9 29 e degli anni successivi erano, nella sua analisi, il risultato di fattori interni al sistema e non di casuali eventi eso­ geni. Keynes spostava il centro d'interesse della teoria economica dal problema dell'allocazione delle risorse a quello della determi­ nazione della domanda aggregata. La sua nuova teoria introdu­ {:eva la possibilità di agire sulle varia5lli del sistema mediante ma­ novre di politica economica: la domanda aggregata era definita in modo tale che la domanda del settore privato e quella del set­ ,tore pubblico fossero complementari in condizioni di sottoccu­ pazione e sostituibili in uno stato di piena occupazione. L'idea che in periodi di crisi un programma di opere pubbliche, scelte più o meno accuratamente, possa portare al raggiungimento della piena occupazione (idea che fino allora economisti politici e in­ tellettuali avevano sostenuto basandosi esclusivamente sul proprio "fiuto") trovava nel sistema keynesiano una giustificazione ra­ zionale. L'analisi di Keynes legittimava l'impiego di uno stru-

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TEORIA GENERALE

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mento di politica economica (la manovra fiscale) che assicurava se non l'eliminazione, per lo meno il controllo del ciclo econo­ mico. Keynes sostituiva così lo sterile apparato teorico e le pes­ simistiche conclusioni pratiche degli economisti sia ortodossi che marxisti con qualcosa di nuovo e di diverso, riportando " l'eco­ nomia a contatto con il mondo reale " (Sweezy, 1 964, p. 299). Un ulteriore elemento che contribuì all'immediato, seppure temporaneo, riconoscimento della Teoria generale come opera effettivamente rivoluzionaria fu il fatto che essa, sebbene segnasse una netta rottura con la teoria precedente, era stata scritta da Keynes, cioè da un economista che con la sua personalità e la sua opera rappresentava una certa garanzia di continuità nell'analisi economica tradizionale. .;\ Keynes nel Trattato sulla moneta ( 1 930), la sua opera più im­ portante prima della Teoria generale, si era occupato essenzial­ mente della determinazione in un contesto dinamico dei mecca­ nismi di funzionamento della teoria quantitativa della moneta. Il problema lì affrontato è quello della dehmz10ne esatta del pro­ cesso mediante il quale variazioni nella quantità di moneta si pro­ pagano nel sistema economico in modo tale da rendere veri i teoremi fondamentali della teoria quantitativa. La quale, nella sua formulazione tradizionale, ipotizzava che, nel lungo periodo, la moneta fosse semplicemente un velo neutrale che non influisce in modo significativo sull'andamento del sistema economico; per­ ché poi questo postulato dovesse essere necessariamente vero, la teoria tradizionale, priva di un modello di breve periodo, non lo aveva mai spiegato in modo esauriente. Il paradigma cui si rifà la teoria quantitativa convenzionale è quello di un'economia sta­ tica di scambio e di produzione semplice, dove le transazioni tra i diversi agenti avvengono per baratto. La teoria ortodossa in­ troduce la moneta come uno strumento efficiente per facilitare le transazioni che altrimenti sarebbero possibili solo quando i con­ traenti manifestassero il bisogno reciproco dei beni scambiati. La reciprocità dei bisogni è necessaria perché abbia luogo il ba­ ratto, nel caso non esistano intermediari commerciali specializzati che assumano posizioni creditizie o debitorie o che detengano stock di merci. In un modello i n cui la dimensione temporale, le attrezzature produttive e le stesse imprese sono introdotte in modo artificiale e che utilizza un concetto di moneta del tutto astratto, variazioni nella quantità di moneta influiscono unica-

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mente sul livello dei prezzi: l'ammontare e la composizione della produzione e dell'occupazione sono determinate esclusivamente dal settore reale di baratto. Nel Trattato sulla moneta Keynes utilizzava un concetto di moneta più verosimile di quello postulato dalla teoria tradizio­ nale, in quanto la moneta creata dalle banche rappresentava in­ direttamente un credito commerciale. Egli sosteneva che, nel breve periodo, il meccanismo, mediante il quale variazioni nelle variabili monetarie si ,ripercuotono sul livello dei prezzi senza modificare sostanzialmente le variabili reali, funzionasse agendo inizialmente sul finanziamento degli investimenti delle imprese. Un aumento nella quantità di moneta tende in primo luogo a far aumentare gli investimenti finanziati da posizioni debitorie e fa quindi aumentare la quota degli investimenti nel prodotto glo­ bale. L'incremento degli investimenti, a sua volta, provoca un eccesso di domanda aggregata rispetto all'offerta esistente. L'ec­ cesso di domanda, non potendo influire sull'ammontare del pro­

dotto, agjsce suj prezzi Va aggjunto che, una volta arrestata

la manovra creditizia espansiva, il rapporto tra investimenti e prodotto ritorna al livello precedente. Nella Teoria generale il principale interesse di Keynes non è più il meccanismo mediante il quale la . moneta influisce sulla quota degli investimenti, qualora il prodotto globale sia fisso, ma l'individuazione dei fattori fondamentali che determinano il li­ vello della domanda e del prodotto aggregati. La quantità di mo­ neta rappresenta uno solo dei vari elementi che contribuiscono a determinare la domanda aggregata; e talvolta può verificarsi che variazioni nella quantità di moneta non abbiano nessun effetto sulla domanda aggregata. Fintantoché non si raggiunge un livello di piena occupazione, è la domanda aggregata a determinare il rapporto tra risorse utilizzate e risorse disponibili. In tal modo Keynes allarga il campo d'azione della teoria economica moneta­ ria facendo rientrare nel suo ambito l'esame delle determinanti, fiscali e non, della domanda aggregata : la teoria economica mone­ taria diventa macroeconomia. Il suo obiettivo non è più quello di stabilire il livello dei prezzi, ma la determinazione congiunta di produzione, occupazione e prezzi. Volendo definire la natura del contributo teorico di Keynes, bisogna affrontare una questione fondamentale e cioè decidere se la Teoria generale rappresenti un semplice " abbellimento ", otte-

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nuto con l'aggiunta di definizioni più appropriate e pittoresche, delle idee contenute nel Trattato sulla moneta e in altri lavori del filone quantitativo, o se essa costituisca invece una brusca rottura rispetto alle teorie precedenti. È nostra opinione che la Teoria generale risponde a esigenze teoriche non riconducibili a quelle che ispirano il Trattato sulla moneta, anche se questi lavori hanno entrambi come oggetto d'esame i processi mediante i quali si ve­ rificano determinati fenomeni empirici (produzione e prezzi). Nel Trattato sulla moneta il livello della produzione e dell'oc­ _cupazione è invariabilmente determinato da fattori reali indipen­ denti da influssi monetari; si ipotizza che i meccanismi di mercato di una economia capitalistica decentralizzata portino ineluttabil­ mente a uno stato che possiamo definire di piena occupazione ; si presume inoltre che i periodi di caduta dei livelli di occupazione abbiano una natura transitoria e che siano imputabili ad aberra­ zioni non intrinsecamente proprie del sistema capitalistico, quali per esempio errate manovre monetarie da parte della Riserva Fe­ derale o un sistema bancario poco stabile. Nella Teoria generale si ritiene che in un'economia capitalistica non esista affatto un meccanismo automatico capace di raggiun­ gere e di mantenere uno stato di piena occupazione; l'andamento di una economia capitalistica è essenzialmente ciClico. Nel Trattato sulla moneta il comportamento del sistema eco­ nomico è determinato da un apparato teorico che utilizza stru­ menti analitici quali la funzione della produzione ed elementari sistemi di preferenze individuali; nella Teoria generale tale appa­ rato viene completamente abbandonato o comunque confinato a occupare una posizione di secondo piano. Nella Teoria generale la produzione di beni d'investimento è determinata in primo luogo dalla natura speculativa delle scelte di portafoglio concernenti il finanziamento c il possesso di attività reali e finanziarie e non dalle caratteristiche tecnologiche del pro­ cesso produttivo. Uno dei temi di fondo della Teoria generale è che il fattore che più direttamente influisce sugli investimenti va individuato nel processo di valutazione delle attività reali e fi_ nanziarie; Keynes afferma che queste ultime, oltre ad avere le ca­ ratteristiche proprie delle annualità (cioè di titoli che annualmente rendono un certo interesse), forniscono a chi le possiede, per il semplice fatto di essere facilmente vendibili, un certo grado di protezione nel caso debbano insorgere eventi sfavorevoli, contro

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i qu�li sia impossibile assicurarsi. Questa posizione teorica rap­ presenta un radicale cambiamento di analisi e di prospettiva ri­ spetto alla dottrina neoclassica degli investimenti; tale fatto però, durante il processo interpretativo cui è stata sottoposta la Teoria generale, è stato dapprima oscurato e poi del tutto ignorato. Così nella letteratura economica contemporanea non sono infrequenti lavori che, nel tentativo di determinare i parametri di funzioni "keynesiane " degli investimenti, sottopongono a esame econome­ trico modelli formulati in base a postulati tipici dell'approccio della " funzione della produzione ". Ricerche siffatte, proprio perché fondate su premesse sbagliate, non possono necessaria­ mente riuscire a individuare funzioni degli investimenti economi­ camente significative. Grazie però all'abilità degli econometrici a manipolare i dati empirici e alla simultaneità e multicollinearità tipiche delle relazioni economiche, è possibile che persino studi così mal formulati riescano a sembrare soddisfacenti da un punto di vista meramente statistico. Nel Trattato sulla moneta Keynes mostra di essere piena­ mente consapevole di quanto siano complessi i fenomeni reali che la teoria monetaria è chiamata a spiegare; egli avverte la necessità di sostituire i rapporti meccanicistici della teoria quantitativa con un'analisi delle decisioni e dei meccanismi di collegamento esi­ stenti sul mercato, che riesca a rendere intelligibili le osserva­ zioni empiriche. Il tentativo di chiarire il processo di determina­ zione del livello dei prezzi senza però abbandonare lo schema di pensiero basato sull'assunzione di un'economia di baratto, porta Keynes a compilare nel Trattato sulla moneta - così comé era accaduto a D. H. Robertson ( 1 926) - una complicata classifi­ cazione comprendente molte variabili, un insieme di definizioni assai elaborate e sottili distinzioni circa le possibili varianti dei concetti principali. Nella Teoria generale Keynes spezza il legame fino allora esi­ stente tra teoria monetaria e teoria classica dei prezzi: i fenomeni monetari cessano di avere un ruolo meramente passivo e diven­ tano invece uno degli elementi chiave nella determinazione del comportamento dell'economia. Keynes è così in grado di spie­ gare l'andamento di un sistema capitalistico complesso in modo molto più chiaro e conciso rispetto alla teoria classica: nel suo . modello il ciclo economico non si configura più come fatto ano­ malo del quale la teoria non sa offrire spiegazione alcuna. Una

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volta chiarito il vero significato dei fenomeni monetari, molte delle sottili classificazioni introdotte nel Trattato sulla moneta diventano superflue. Adesso il compito degli economisti non è più quello di elencare gli innumerevoli sentieri di sviluppo lungo i quali può muoversi l'economia, bensì quello di analizzare un numero limitato di specifici stati sistemici, ciascuno dei quali ca­ ratterizzato da una particolare serie temporale. In un certo senso i temi toccati dal Trattato sulla moneta e dalla Teoria generale sono gli stessi: entrambi questi lavori vo­ gliono fornire una spiegazione del medesimo insieme di osserva­ zioni empiriche. Nessuna meraviglia quindi che molti passaggi del Trattato sulla moneta sembrano già prefigurare la Teoria gene­ rale, anche se naturalmente questa circostanza non deve far di­ menticare la soluzione di continuità esistente fra questi due lavori. Sebbene esamini le implicazioni derivanti da determinati com­ portamenti delle istituzioni finanziarie e abbia senso solo se ap ­ plicata a un'economia capitalistica finanziariamente assai sofisti­ cata, la Teoria generale non contiene una descrizione dettagliata delle istituzioni bancarie e finanziarie, presente invece nel Trat­ tato sulla moneta. Nel decidere se, e in che modo, queste due opere si integrino a vicenda, è necessario rendersi conto che l'a­ nalisi delle istituzioni finanziarie contenuta nel Trattato sulla moneta fornisce lo sfondo per impostare i problemi finanziari di un sistema capitalistico, oggetto di studio della Teoria generale. Dunque, volendo "sintetizzare " le due opere, bisogna inserire l'analisi istituzionale del Trattato sulla moneta nella struttura teo­ rica della Teoria generale. La sostanza del messaggio keynesiano in materia di politica economica (c cioè che i periodi di crisi, che rappresentano uno spreco di risorse umane e non, possono essere evitati) è diven­ tato l'assioma politico fondamentale nella gestione dell'econo­ mia, anche se l'analisi in base alla quale Keynes aveva formulato quel messaggio viene oggi rifiutata dagli esponenti della teoria economica dominante. Questi ultimi, sebbene suggeriscano combinazioni diverse di strumenti di politica economica e uti ­ lizzino definizioni diverse di " piena occupazione ", sono una­ nimemente concordi nell'affermare che esiste un numero ri­ stretto di strumenti di politica economica, concertando i quali

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è possibile garantire il raggiungimento (o quasi) della piena occupazione. Comunque, questa vittoria di Keynes sul piano pratico non deve farci dimenticare che la sua analisi, seppure implicitamente, pona a concludere che un'economia capitalistica è intrinseca­ mente contraddittoria. II sistema finanziario necessario per ga­ rantire al capitalismo forza e vitalità, il sistema cioè che traduce la "voglia di agire " degli imprenditori in domanda effettiva di beni di investimento, può dar luogo a un'espansione economica esplosiva, messa in moto da un boom degli investimenti: in ciò consiste l'elemento contraddittorio del capitalismo. L'espansione esplosiva si arresta in quanto ostacolata dalla fragilità stessa del sistema finanziario, nel quale l'accumularsi di tensioni fa sì che variazioni anche modeste nelle grandezze finanziarie possano provocare gravi difficoltà. L'analisi di Keynes sul modo di ope­ rare dell'economia capitalistica, frutto com'è di un esame dei problemi decisionali in condizioni di estrema incertezza, porta a concludere che la stabilità, anche quando sia il risultato di una consapevole manovra di politica economica, ha effetti de­ stabilizzanti. Ammesso che la politica economica riesca a evitare lo spreco di risorse provocato dalle crisi, le caratteristiche fi­ nanziarie proprie del capitalismo provocano la ripetizione pe­ riodica di momenti durante i quali è assai difficile contenere, e poi sostenere, il livello della domanda aggregata. Secondo Key­ nes i problemi derivanti da questo stato di instabilità cronica possono essere risolti dirottando la domanda del settore privato e di quello pubblico sempre più verso i settori dell'economia controllati dallo Stato, così da ridurre gli effetti potenzialmente disastrosi derivanti dall'instabilità dei mercati finanziari e degli investimenti privati. La teoria di Keynes, dunque, ha dato avvio a una rivoluzione nel pensiero economico subito abortita o comunque mai com­ pletata. Keynes volle riformulare completamente la teoria eco­ nomica in risposta all'incapacità da pane della teoria tradizio­ nale di fornire una spiegazione coerente e univoca di ciò che negli anni trenta sembrava essere una delle caratteristiche più evidenti del sistema capitalistico: la tendenza a dar vita a pe­ riodi di stagnazione produttiva e di profonda crisi economica, accompagnata da crolli finanziari. La sua nuova teoria non solo

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forniva una spiegazione organica del ciclo e dei concomitanti fenomeni finanziari, trasformando ciò che per la teoria tradizio­ nale era eccezione in regola, ma suggeriva altresì un insieme di misure di politica economica destinate a controbilanciare gli effetti negativi delle crisi. Inoltre, sebbene Keynes preferisse una versione riformista del capitalismo a un puro regime socia­ lista, la sua teoria muoveva una profonda critica al capitalismo. L'analisi contenuta nella Teoria generale doveva, secondo Key­ nes, indurre a concludere che il sistema economico allora vi­ gente andava sostituito con un'economia della distribuzione molto più egalitaria, fondata sul controllo sociale degli investi­ menti. Dal momento che il settore privato, mosso dal profitto, non è in grado di garantire il livello degli investimenti necessa­ rio per mantenere uno stato di piena ( o quasi) occupazione, si rende necessaria "una socializzazione di una certa ampiezza del­ . l'investimento " (TG p. 549). La rivoluzione keynest ana è abortita per vari motivi; innan­ zitutto la Teoria generale, come del resto molte altre opere dal contenuto originale e innovatore, non è un lavoro ben artico­ lato. La presenza delle vecchie idee incombe sulla nuova teoria, che è in gran parte espressa in modo poco accurato e spiegata in maniera spesso insoddisfacente. Sebbene Keynes nella prefa­ zione affermasse che " la composizione di questo libro è stata per l'autore una lunga lotta d'evasione ( ... ) da modi abituali di pen­ siero e di espressione " (TG p. 1 47), non riuscì mai a liberarsi completamente dalla tradizione. Del resto egli stesso ricono­ sceva che le vecchie idee si ramificano "in tutti gli angoli della mente " (ibid.); così ha pagato un tributo troppo alto alle vec­ chie teorie proprio in alcuni passaggi cruciali della sua analisi, soprattutto in riferimento agli .investimenti, ai tassi d'interesse e alla valutazione delle attività reali e finanziarie. Per compren­ dere in che cosa consista la novità dell'approccio keynesiano è necessario, rileggendo criticamente la Teoria generale, da un lato ampliare e completare l'analisi di Keynes, traendo nuove in­ ferenze dagli elementi innovatori in essa contenuti, dall'altro trascurare completamente le concessioni teoriche fatte alla dot­ trina tradizionale. Keynes infatti vuoi per il fascino discreto dalle vecchie teorie sulle sue idee vuoi per il desiderio di vedere adottata se non l'analisi teorica almeno la sua proposta di poli-

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tica economica, fu portato, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento acquiescente nei confronti del pen­ siero economico tradizionale. Un secondo motivo per cui la "rivoluzione " è abortita può essere ascritto al fatto che Keynes rimase quasi completamente estraneo al dibattito seguito alla pubblicazione della Teoria ge­ nerale e ancor oggi in corso. Gran parte delle rivoluzioni intel­ lettuali della nostra epoca sono state opera di studiosi giovani, come Marx, Darwin, Freud ed Einstein, i quali, dopo la pub­ blicazione delle proprie opere, hanno avuto a disposizione un lungo arco di tempo durante il quale partecipare in prima per­ sona al processo di affinamento delle proprie teorie, riuscendo così a dare alla versione originale, solo abbozzata e oscura, una forma definitiva precisa e ben delineata. Questi studiosi pote ­ rono, all'occorrenza, far rilevare particolari dati empirici a com­ prova delle loro idee, contraddire interpretazioni che ritenevano errate, e far notare che le implicazioni delle loro teorie erano più vaste di quanto essi stessi avessero supposto in un primo mo­ mento. Il decennio intercorso tra la pubblicazione della Teoria ge­ nerale e la scomparsa di Keynes non fu un periodo pacifico, de­ dicato alla ricerca scientifica. Solo nei primi mesi successivi alla comparsa della Teoria generale Keynes si impegnò a chiarire il proprio modello rifiutandone certe interpretazioni: la replica alla recensione di Viner, 1 un saggio sui tassi d'interesse apparso in un libro in onore di Irving Fisher (Keynes, 1946) e una re­ plica a Ohlin sull"' Economic Journal " (Keynes, 1 937b) SOilO le tre occasioni più importanti nelle quali egli tentò di spiegare e chiarire il suo pensiero. Alla luce di questi brevi saggi di commento alla Teoria ge­ nerale, riesce difficile capire come abbia potuto guadagnare cre­ dito l'interpretazione oggi corrente della teoria keynesiana - in­ terpretazione che può essere fatta risalire al modello proposto da J. R. Hicks ( 1 93 7) - secondo la quale l'introduzione della 1 Keyncs (r937a). Le sole recensioni alle quali Keynes diede risposta erano ap­ parse sul numero dd novembre 1936 del " Quarterly Journal of Economics " ; Keynes , nella sua replica, prese in esame soprattutto la lunga recensione di Viner, che ddinì "il più importante dei quattro articoli di commento " alla T�oria g�n�ralc , riser­ vando agli altri tre (scritti da Leontief, Taussig e D. H. Robertson) solo qualche pa­ rola di circostanza.

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preferenza per la liquidità nell'analisi di Keynes equivale all'in­ troduzione della nozione di velocità di circolazione variabile nella teoria quantitativa tradizionale. Forse la spiegazione di ciò va ricercata nel modo in cui Hicks ha formalizzato e sempli­ ficato il modello di Keynes: Hicks infatti ha offerto agli econo­ misti una spiegazione chiara e semplice, utilizzando diagrammi formalmente identici a quelli comunemente impiegati nell'ana­ lisi della domanda e offerta di beni. Keynes invece, nella sua replica a Viner, aveva delineato in modo chiaro ma conciso, senza diagrammi o calcoli algebrici, un modello di valutazione delle attività reali e finanziarie in situazioni di incertezza che i suoi colleghi economisti avevano giudicato bizzarro e più astruso delle semplici formule di Hicks. Se si vuole cogliere l'essenza della Teoria generale, è necessario quindi tener ben presenti i saggi successivi ad essa, dove Keynes ha chiarito la struttura lo­ gica, il contenuto teorico e le implicazioni pratiche della sua opera. All'inizio del 1937, poco dopo la pubblicazione della Teoria generale, un grave attacco cardiaco pose fine alla partecipazione di Keynes al dibattito sull'interpretazione del contenuto scienti­ fico della sua "rivoluzione ". Quindi, col sopraggiungere della seconda guerra mondiale, Keynes, ripresa la propria attività (ma lontano dal foro accademico), diventò un'eminenza grigia nell'ambito dell'apparato amministrativo statale. Nel nuovo con­ testo bellico, l'analisi teorica sull'utilizzazione delle risorse e della spesa, che nella Teoria generale era stata sviluppata in riferi ­ mento a una situazione in cui il rapporto tra domanda aggregata e prodotto globale disponibile è variabile, venne adoperata come strumento per pianificare l'uso complessivo delle risorse in un'e­ conomia di guerra. Le idee di Keynes, . per poter essere appli­ cate praticamente, dovettero essent riformulate in modo affatto diverso in quanto, in uno stato di guerra, il problema principale non è costituito da una domanda aggregata non sufficientemente sostenuta (il caso originariamente considerato da Keynes), ma dalla scarsità delle risorse disponibili. Per la teoria economica di un periodo di guerra il problema della determinazione di un livello soddisfacente degli investimenti privati e delle relazioni tra questi ultimi e le variabili finanziarie, monetarie e psicologiche (le aspet­ tative) non sussiste, in quanto gli investimenti privati sono stret-

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tamente vincolati da diretti controlli statali ed è lo Stato stesso a garantire le fonti di finanziamento alle attività produttive ri­ tenute indispensabili. Nell'ambito di un'economia di guerra, l'apparato teorico di Keynes poteva essere usato per stabilire come contenere i consumi in modo da rendere disponibili mag­ giori risorse per impieghi bellici. L'applicazione della teoria keynesiana ai problemi pratici posti dal conflitto fece sì che la funzione del consumo diventasse da elemento passivo uno dei fattori chiave della teoria stessa. In guerra, così come in una economia socialista, la questione di fondo è l'allocazione di ri­ sorse scarse, ovvero un problema economico che la teoria neoclassica riesce ad affrontare in modo esauriente : è quindi ovvio che le prime applicazioni dell'analisi keynesiana siano state riservate a quei suoi aspetti più vicini al paradigma clas ­ sico. L'analisi quantitativa degli aggregati economici espressi come flussi (di reddito, per esempio), felicemente sperimentata nella pianificazione bellica, avrebbe dato vita nel dopoguerra alle previsioni econometriche. Negli anni sessanta gli econome­ triei utilizzavano ancora, nei loro modelli di previsione, teorie della moneta, degli investimenti e del settore finanziario che si attagliano più a un'economia vincolata dal lato dell'offerta e priva di problemi finanziari che non a un'economia dove la do­ manda aggregata determina il grado di utilizzazione delle risorse ed è a sua volta fortemente influenzata da problemi di carattere finanziario. Sia in Inghilterra che negli Stati Uniti il finanziamento dello sforzo bellico comportò un sostanziale incremento nell'ammon­ tare di debito pubblico e di crediti bancari nelle mani delle fa­ miglie, delle imprese e delle istituzioni finanziarie non bancarie. Il risultato fu, nel primo dopoguerra, un considerevole raffor­ zamento del sistema finanziario che negli anni trenta si era di­ mostrato , così fragile. I problemi di fronte all'economia mon­ diale nei primi decenni del dopoguerra non erano quelli presi in esame da Keynes nella Teoria generale: moneta e finanzia­ menti non rappresentavano un fattore decisivo nella determina­ zione della domanda reale aggregata. Negli anni sessanta, molti economisti di dichiarata fede " key­ nesiana ", soprattutto quelli addetti alla formulazione delle poli­ tiche economiche dei vari governi, proclamavano che il ciclo

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economico e le crisi finanziarie prodotte endogenamente dal sistema costituivano ormai solo un ricordo del passato, ora che erano finalmente noti i segreti della politica economica. Nei trent'anni successivi alla pubblicazione della Teoria generale non si verificò nessuna di quelle " anomalie " che la teoria tradi­ zionale non aveva saputo spiegare e che avevano provocato quel periodo di crisi della scienza economica da cui era scaturita la teoria di Keynes. In tutta la storia degli Stati Uniti dalla presi­ denza di George Washington a quella di Franklin D. Roosevelt, è impossibile trovare un arco di tempo trentennale durante il quale non si siano verificate gravi crisi economiche e pericolosi tracolli finanziari. Nel dopoguerra invece la prima crisi finan­ ziaria di una certa importanza avvenuta in America risale al­ l'autunno del 1 966, vale a dire dopo oltre trentatré anni l'elezione di Roosevelt a presidente. Relativamente ai fenomeni empirici " anomali", le scienze naturali sperimentali si differenziano dalle scienze sociali, i cui ' dati di ricerca sono un prodotto storico; nel caso delle scienze naturali infatti, una volta che sia stato elaborato un esperimento i cui risultati non siano spiegabili in base alla teoria tradizionale, è sempre possibile per qualsiasi studioso della materia ripetere l'esperimento e ripro.durre quei risultati. Nel caso dell'economia invece, se per trent'anni la storia non genera fenomeni che pur vagamente somiglino a una crisi finanziaria o a una profonda depressione, può facilmente farsi strada l'ipotesi che, in realtà, crisi e depressioni siano solo miti, anomalie del passato dovute a errori di misurazione, a sbagli di politica economica, a tempo­ ranee disfunzioni istituzionali, cui è stato posto prontamente rimedio. Si diffonde cioè l'idea che in effetti Io scomodo pro­ blema per rispondere al quale in passato si era avvertito il bi­ sogno di trovare nuove teorie, non sia "mai " esistito. In tal modo una teoria imperniata sulla nozione di ciclo economico, che spiega l'andameJ1tO del sistema in termini di instabilità finanzia­ ria, può venir facilmente rimpiazzata da un'altra che analizza la realtà economica in termini di equilibrio e di crescita uni­ forme, in quanto è impossibile reperire i dati empirici necessari per convalidare la teoria del ciclo. Questo è quanto è accaduto negli anni quaranta, cinquanta e sessanta, anni di successi econo­ mici, ottenuti grazie al concorso di politiche fiscali e monettrie apparentemente efficaci.

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La responsabilità dell'aborto della "rivoluzione keynesiana " e della mancanza di una teoria keynesiana esauriente e formal­ mente elegante può essere inoltre parzialmente attribuita alla falsa convinzione che la teoria tradizionale, assorbite alcune delle proposizioni di Keynes, abbia compiuto effettivi progressi scientifici. Anche se gli economisti hanno sempre accettato come teoricamente validi e scientificamente comprovati i postulati della teoria del laissez-faire (secondo la quale il bene comune viene assicurato da un regime di liberi mercati concorrenziali, grazie all'intervento di una "mano invisibile "), solo dopo la fine della seconda guerra mondiale gli economisti matematici sono riusciti a provare in modo formalmente impeccabile la validità di questi postulati in un'economia di mercato. Per fare ciò, tut­ tavia, hanno dovuto imporre condizioni talmente restrittive da mettere in dubbio la rilevanza pratica dei loro esercizi teorici. In base alla presunta dimostrazione della validità del postulato liberoscambista, si è ritenuto che, se la teoria monetaria (o ag­ gregata) può trovare sostegno nella teoria matematica dell'equi­ librio economico generale, allora anche il comportamento di una economia monetaria può godere di proprietà ottimali. Per quanto riguarda lo studio di un'economia capitalistica avanzata con una struttura finanziaria assai complessa, i suc­ cessi teorici della teoria economica pura degli anni cinquanta e sessanta si dimostrano essere alquanto fittizi. Allo stato attuale delle ricerche è impossibile applicare anche uno solo dei prin­ cipali teoremi della teoria dell'equilibrio economico generale a un sistema che ammetta l'esistenza del tempo e quindi dell'in­ certezza e dove moneta e finanza vengono definite in termini realistici e sensati, tenendo cioè conto del fabbisogno di fondi per finanziare investimenti in attività reali e finanziarie (Hahn, 1 97 3). Così quei teorici che hanno inseguito il miraggio di una relazione coerente tra teoria microeconomica, formalmente im­ peccabile e scientificamente valida, e teoria macroeconomica, ritenuta invece approssimativa e grossolana, si sono trovati in mano un pugno di mosche: la microeconomia è tanto grezza quanto la macroeconomia. II successo dell'una o dell'altra di­ pende dalla capacità di astrarre dalla realtà in modo sensato; nes­ suna delle due è in grado di dare una spiegazione esaustiva di tutta la realtà economica.

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Infine un ulteriore fattore al quale si può ascrivere il man­ cato completamento della " rivoluzione keynesiana " è stato l'i­ niziale successo delle politiche economiche ispirate dalla inter­ pretazione neoclassica del pensiero keynesiano. Nell'immediato dopoguerra la politica economica doveva mantenere una sola promessa: evitare il ripetersi della Grande Crisi, il cui ricordo era ancora assai vivo. Alcune semplici prescrizioni di politica fiscale (intesa come sostegno della redditività dei beni capitali tramite agevolazioni fiscali e appalti pubblici) riuscirono a far sì che fosse raggiunta e mantenuta una situazione molto vicina alla piena occupazione. L'interpretazione tradizionale della dot­ trina keynesiana portò così alla conclusione, di stampo conserva­ tore, che per evitare il succedersi delle crisi e per mitigarne la durezza, bastassero delle riforme puramente "cosmetiche " delle istituzioni del sistema capitalistico. Questioni concernenti la di­ stribuzione del reddito, la qualità del lavoro e il significato stesso di " piena occupazione " rimanevano nel cassetto; nessuno dubitava che i risultati positivi ottenuti dalla politica economica tradizionale non si mantenessero indefinitamente. La "rivoluzione keynesiana " è abortita forse anche perché le ricette di politica economica proposte dall'interpretazione tradizionale garantivano il livello minimo di attività economica allora ritenuto accetta­ bile, senza con ciò richiedere un radicale cambiamento della società. Ci sembra che nella storia economica contemporanea si stiano ripetendo alcuni fenomeni già verificatisi negli anni venti e trenta: sono ricomparsi periodi di relativo ristagno economico, nonché crisi e squilibri finanziari, oggi eufemisticamente defi­ niti " strette creditizie " e " scricchiolii del sistema finanziario ". L'inflazione sembra essere un malanno cronico persino dei paesi più avanzati. L'economia mondiale si sta comportando in u n modo che, dal punto d i vista della teoria economica tradizionale, appare del tutto anomalo. In tali circostanze una radicale reim­ postazione del pensiero economico, simile a quella tentata da Keynes, ritorna ad essere un obiettivo allettante. La sintesi di idee classiche e apparato analitico keynesiano, che Joan Robin­ son ha denominato "keynesismo bastardo ", sembra sul punto di disintegrarsi. Alla luce di questi recenti sviluppi, ci sembra opportuno e fruttuoso estrarre dalla teoria keynesiana quegli

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CAPITOLO PRIMO

elementi che mirano a una radicale revisione del pensiero eco­ nomico e verificare se sia possibile partire proprio da essi per formulare una teoria alternativa a quella tradizionale. Nelle pagine che seguono ci proponiamo: 1 ) di esporre la versione convenzionale della dottrina keynesiana, concludendo con una presentazione della cosiddetta sintesi neoclassica: 2 ) di derivare un'interpretazione alternativa del pensiero keynesiano, basata su quegli elementi della Teoria generale che privilegiano gli investimenti, in un sistema ciclico, segnato dall'incertezza; 3) di analizzare le implicazioni filosofiche e più immediatamente pratiche derivanti da un'interpretazione alternativa della teoria keynesiana.

Capitolo 2 L'interpretazione tradizionale dell'opera di Keynes

Introduzione

Per comprendere a fondo perché il progetto di Keynes di rivoluzionare il pensiero economico non si sia realizzato, è ne­ cessario individuare quali concetti della Teoria generale sono stati recepiti dall'odierna teoria macroeconomica ortodossa; bi­ sogna inoltre mostrare come proprio dalle idee keynesiane oggi cadute in oblio derivi una visione del funzionamento del sistema, dei limiti e delle potenzialità della politica economica del tutto diversa da quella suggerita dalla macroeconomia tradizionale. Ciò significa che in questo capitolo dovremo dare forma com­ piuta a quanto nella Teoria generale appare solo in abbozzo, colmando alcune lacune presenti nel discorso keynesiano. Que­ sto compito si rende indispensabile in quanto, nel corso del di­ battito accademico, alle idee keynesiane meno familiari all'e­ conomia ortodossa non è stata data una formulazione precisa e dettagliata, come è invece avvenuto per quelle proposizioni della Teoria generale assorbite dalla teoria macroeconomica conven­ zionale. Prima di proporre una lettura alternativa della teoria di Keynes è opportuno passare in rassegna le varie interpretazioni che ne sono state date, in modo da mettere in risalto quale sia l'opinione corrente dalla quale intendiamo prendere le distanze. I modelli macroeconomici che possono vantare un certo ri­ scontro nella Teoria generale si possono suddividere in tre gruppi. Il primo di questi si basa sulla funzione del consumo e trascura in modo pressoché totale ogni altro elemento della

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CAPITOLO SECONDO

Teoria generale. Il secondo gruppo vuole dare veste formale alla condizione di equilibrio simultaneo sul mercato dei beni e su quello monetario. Da questo gruppo ne deriva un terzo i cui modelli, introducendo versioni assai semplicistiche di funzioni della produzione e di sistemi di preferenza individuali, tentano di rinvenire non solo, come i modelli del secondo gruppo, le condizioni di equilibrio sul mercato dei beni e su quello mo­ netario, ma anche le condizioni di equilibrio sul mercato del lavoro. Nei modelli del terzo gruppo può accadere che le condi­ zioni di equilibrio sui vari mercati non siano soddisfatte tutte contemporaneamente. In linea di principio questa contraddi­ zione può essere risolta in svariati modi. La soluzione che ha trovato più favore nella letteratura consiste nell'introdurre, tra gli argomenti della funzione del consumo, la moneta e i titoli finanziari. Questo tipo di analisi ci conduce a formulare un mo­ dello squisitamente " neoclassico ", nel quale l'equilibrio sul mer­ cato del lavoro svolge un ruolo predominante nella determina­ zione dell'equilibrio dell'intero sistema economico. Quest'ultima modifica del sistema " keynesiano " convenzionale non solo fa violenza allo spiriro della Teoria generale, ma ci riporta anche indietro nel tempo, al mondo dell'economia "classica ". L'elemento chiave della cosiddetta sintesi neoclassica è rap­ presentato dall'introduzione della moneta e di altre variabili fi­ nanziarie, intese come parametri determinati endogenamente, il cui compito è quello di stabilire (e di far slittare) la posizione delle relazioni funzionali di un modello che utilizza idee e · stru­ menti di derivazione keynesiana. Prima dell'introduzione di que­ sto tipo di relazioni finanziarie, i vari modellì basati su concetti tratti dalla Teoria generale avevano portato a concludere che un'economia capitalistica non pianificata è intrinsecamente con­ traddittoria, in quanto non dispone di meccanismi interni capaci di far raggiungere al sistema una posizione d'equilibrio di piena occupazione. Il modello al quale si perviene introducendo va­ riabili finanziarie nella funzione del consumo, è invece privo di una tale contraddizione di fondo, anche se molti dei suoi stessi sostenitori ammettono che il meccanismo di regolazione finan­ ziaria è troppo labile e lento per poter essere utilizzato pratica­ mente nella gestione dell'economia. Se, nonostante tutto, il ca­ pitalismo rimane un sistema pieno di contraddizioni (soprattutto

L ' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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per quanto riguarda il lato della domanda e dell'occupazione), il motivo va cercato - questo è il messaggio di tale modelli­ stica - al di fuori delle relazioni prese in esame dal modello. Ecco quindi che l'evidente incapacità di un sistema economico capitalistico di raggiungere e mantenere una situazione di piena occupazione viene attribuita a certe " rigidità" d'aggiustamento che impediscono il libero dispiegarsi dei processi di mercato (salari rigidi, per esempio), oppure a certe disfunzioni istituzio­ nali (sistema bancario imperfetto, cattiva gestione dei sistemi monetari) che smuovono il sistema dal suo naturale stato di equilibrio e ostacolano il processo di riaggiustamento. La con­ clusione di questo ragionamento è che le contraddizioni del ca­ pitalismo possono essere eliminate con misure di politica eco­ nomica o con cambiamenti minimi nelle istituzioni, tali da superare la non-flessibilità di certe variabili e da evitare gli scos­ soni destabilizzanti. Questi modelli forniscono così il fonda­ mento logico in base al quale si nega la necessità di riformare profondamente un'economia capitalistica e si giustifica d'altro lato un intervento attivo nella gestione dell'economia. Il primo gruppo di modelli (basati sulla funzione del con­ sumo) qui di seguito preso in esame prescinde completamente dai fenomeni monetari. Sebbene da questi modelli si possano dedurre i teoremi del bilancio in pareggio e del drenaggio fi­ scale, d'altra parte essi non ci permettono di esaminare fino in fondo le conseguenze derivanti dal fatto che parte della spesa pubblica è finanziata da prestiti. La funzione del consumo inol­ tre si presta facilmente ad essere accoppiata a teorie degli inve­ stimenti basate sull'acceleratore o sul coefficiente di capitale: dal connubio scaturiscono dei modelli di ciclo economico piut­ tosto meccanicistici (modelli acceleratore-moltiplicatore) e mo­ delli di crescita la cui variabile chiave è il coefficiente di capitale. La funzione del consumo non solo rappresenta un elemento chiave dei modelli dinamici, ma costituisce anche il fondamento teorico della maggior parte dei modelli econometrici strutturali, utilizzati a scopo previsionale. Il dibattito sulla cosiddetta poli­ tica economica keynesiana è dominato dai modelli imperniati sulla funzione del consumo, senza menzione alcuna di quei mo­ delli più raffinati che invece considerano le interazioni tra pro­ cessi monetari e processo d'investimento.

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CAPITOLO SECONDO

Keynes però era essenzialmente un economista monetario, e così nel secondo gruppo di modelli di derivazione keynesiana alla funzione del consumo vengono aggiunte relazioni funzio­ nali attinenti alle scelte di portafoglio e d'investimento. Il mo­ dello più rappresentativo di questo gruppo è un'elaborazione di un modello originariamente proposto da ]. R. Hicks ( I 93 7) per tentare di spiegare quali a suo parere fossero i collegamenti esi­ stenti tra la Teoria generale e i cosiddetti classici (cioè la scuola marshalliana). II modello di Hicks introduce esplicitamente nel meccanismo di determinazione del reddito la domanda e l'of­ ferta di moneta. Questo schema teorico (usualmente definito IS-LM) ispirò l'opera di Alvi n Hansen ( 1 949), nella quale veni­ vano suggerite le misure di politica economica ritenute neces­ sarie per risolvere i problemi dell'economia statunitense nel pe­ riodo a cavallo della seconda guerra mondiale; di solito ci si riferisce a questo tipo' di approccio come al modello Hicks­ Hansen. Aggiungendo al mercato dei beni e della moneta (presi in esame dallo schema Hicks-Hansen) una versione aggregata del mercato del lavoro è possibile dare una formulazione esplicita del modello classico, nel quale proprio il mercato del lavoro svolge un ruolo dominante. II modello così allargato ci consente di dimostrare come sia possibile ottenere un equilibrio dinamico di non piena occupazione, in quanto un eccesso di offerta sul mercato del lavoro può non comportare un aumento della do­ manda aggregata. Lo schema Hicks-Hansen può essere ulterior­ mente arricchito introducendo nella funzione del consumo la ricchezza e altre variabili monetarie. Grazie a questa modifica introdotta originariamente da Don Patinkin ( I 965), si perviene alla conclusione che la moneta è neutrale nel senso che, date certe condizioni, si dimostra che il valore d'equilibrio di tutte le variabili economiche (escluso i l livello dei prezzi) è indipen­ dente dall'offerta di moneta. Le condizioni necessarie per pro­ vare la validità di questa asserzione sono fondamentalmente due: I ) l'offerta di moneta deve essere di tipo " esterno " (consistere cioè di debito pubblico o di moneta metallica); 2) un eventuale eccesso di offerta sul mercato del lavoro deve dar luogo a una riduzione dei prezzi e dei salari monetari. La teoria macroeconomica sembra così tornata al punto di

L' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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partenza in quanto riatfenna, in linea di principio, la neutralità della moneta, cioè il teorema centrale della teoria quantitativa classica. Nel recensire la Teoria generale Wassily W. Leontief ( 1 936, p. 1 93) scriveva che una delle assunzioni fondamentali della teoria dell'equilibrio economico generale è che "tutte le funzioni di domanda e di offerta, dove i prezzi rappresentano le variabili indipendenti e la quantità la variabile dipendente, sono funzioni omogenee di grado zero ". Nella sua breve replica di commento Keynes ( 193 7a) negò assolutamente la validità di tale postulato dell'omogeneità, argomentando che "l'esperienza ci fornisce innumerevoli prove che contraddicono questo po­ stulato " e che "in ogni caso sta a coloro che fanno questa as­ sunzione assai restrittiva giustificarne la validità, piuttosto che a coloro che non la fanno, provarne la non-generalità" (p. 209). Keynes aggiunge che il postulato secondo il quale le funzioni di domanda sono omogenee di grado zero " fa la propria com­ parsa nello schema teorico ortodosso ( ... ) a proposito del ruolo svolto dalla quantità di moneta nella determinazione del saggio d'interesse " (ibid.). Nel modello di Keynes quindi il saggio d'interesse non è una funzione omogenea di grado zero rispetto alla quantità di moneta, mentre nello schema tradizionale que­ sta assunzione svolge un ruolo decisivo. La teoria quantitativa della moneta, che Keynes aveva ten­ tato di seppellire, ha fatto la sua ricomparsa trionfale, arric­ chita di nuovi elementi teorici apparentemente keynesiani, tra gli economisti accademici. Dalla fine degli anni sessanta all'ini­ lio degli anni settanta una versione semplicistica della teoria quantitativa ha vissuto, sotto le vesti di dottrina monetarista, un breve periodo di splendore come base teorica per la politica economica. In questo capitolo esporremo i vari modelli keynesiani tra­ dizionali nonché la sostanza del modello neoclassico, mentre in quelli successivi cercheremo di portare alla luce quelle idee pre­ senti nella Teoria generale e negli altri scritti di Keynes ad essa successivi solitamente ignorate dalla tradizione ortodossa. Com­ binando le idee di Keynes cadute in oblio e alcuni concetti tratti dai modelli tradizionali, saremo in grado di avanzare una nuova interpretazione della Te oria generale, radicalmente diversa da quella corrente.

CAPITOLO SECONDO

l

modelli basati sulla funzione del consumo

Nella Teoria generale Keynes elaborò la funzione del con­ sumo allo scopo di identificare la componente passiva, cioè pre­ determinata, della domanda aggregata: la funzione del consumo non è assolutamente, per riprendere un'espressione di Gardner Ackley ( r 96 r ) , " il cuore della macroeconomia contemporanea", se per macroeconomia contemporanea si intende Keynes. Se­ condo Keynes infatti la funzione del consumo non è null'altro (se vogliamo utilizzare un'analogia anatomica) che lo scheletro inerte della macroeconomia, scheletro che d'altronde condi­ ziona la reazione del sistema economico agli stimoli esterni. Il carattere passivo della spesa per consumi ha due aspetti. Per le classi lavoratrici, prive di risorse finanziarie, è necessario che i salari (o i contributi sociali) siano già stati pagati (o siano pagati simultaneamente o comunque ne venga assicurato il pa­ gamento futuro) perché possa avere luogo una spesa per con­ sumi. Per le classi detentrici di ricchezza, piene di risorse finan­ ziarie, l'ideologia del non intaccare il capitale fa sì che la spes-a, per i consumi tende a dipendere dal reddito netto piuttosto che da quello lordo. Quindi, poiché, si assume che il finanziamento , esterno non abbia pressoché nessun influsso sulla spesa per con­ sumi, quest'ultima non dà luogo a nessun residuo finanziario, sotto rorma di impegni di pagamento futuri. La validità di questa concezione di consumo non è assoluta, in quanto dipende dall'assetto e dai costumi sociali. Se, · e in quale misura, considerazioni di carattere fi!lanziario influenzino il consumo dipende dalle circostanze : lo sviluppo di sistemi di vendite rateali (iniziatosi negli anni venti e continuato nel se­ condo dopoguerra) ha fatto sì che la connessione tra redditi dei lavoratori e spese delle loro famiglie sia oggi molto più labile che in passato. Lo sviluppo degli schemi assistenziali e dei contributi sociali ha allentato il legame tra occupazione e spesa . per consumi. Inoltre, tenuto conto della distribuzione dei red­ diti in un'economia capitalistica come quella degli Stati Uniti, una quota molto cospicua della spesa globale per consumi (che una stima per difetto fa ammontare al 20 per cento) viene effettuata da quel 5 per cento dell'intera popolazione che si trova nella parte alta della distribuzione dei redditi . . Que-

L' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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�ço 5 per cento_ Q�lla popolaziont:_dispone di ampie risorse finan­ ziarie e quindi le sue decisioni di consumo vengono influenzate dal valore dello stock di beni capitali determinato sul mercato azionario. Quindi la dipendenza funzionale della spesa per con­ sumi dal reddito d:l l:lvoro, pur essendo e restando una buona prima approssimazione a Itvello teorico, è a livello empirico una proposizione la cui validità per un paese come gli Stati Uniti è certo minore oggi rispetto a trentacinque anni fa. Perché l'economia possa espandersi è necessario si verifichi un processo di accumulazione: questo è quanto ci dice la teoria economica, la quale afferma altresì che il diverso grado di pro­ sperità goduto nei vari paesi dipende dalla possibilità di utiliz­ zare per la produzione i frutti dell'attività di accumulazione svolta in passato. L'accumulazione a sua volta dipende dall'esi­ stenza di un sovrappiù, vale a dire dall'esistenza di una diffe­ renza (positiva) tra prodotto globale e la somma di consumo immediato e di ammortamento. Secondo Marx esiste un sovrap­ più in quanto i lavoratori rion possono riacquistare per intero ciò che essi stessi hanno prodotto. Secondo Keynes la fonda­ mentale legge psicologica che governa l'andamento del con� sumo determina il modo in cui il sovrappiù varia al variare di altre grandezze (in primo luogo il reddito) l Sebbene nella Teo ­ ria generale vi siano passi che accennano 'itia relazione tra classe sociale e consumo e sebbene nelle opere di economisti keyne­ siani (quali Nicholas Kaldor e Joan Robinson) la connotazione di classe del reddito influisca sulle propensioni al risparmio, in generale però la letteratura keynesiana tradizionale fissa la legge che stabilisce l'ammontare del sovrappiù (cioè la funzione del consumo) in modo tale che il consumo è determinato da un'en­ tità omogenea e indistinta definita reddito. L'affermazione che "la funzione del consumo è il cuore della macroeconomia " può vantare una qualche plausibilità in tanto in quanto la ricerca econometrica è riuscita a stimare empirica­ mente con discreto successo alcune funzioni del consumo. Que­ ste ultime, una volta stimate, servono come base a modelli il cui scopo è prevedere o addirittura controllare l'andamento del­ l'economia. La stima delle funzioni del consumo fornisce il punto d'appoggio archimedeo a tutta una generazione di mo­ delli econometrici il cui interesse è rivolto alla gestione dell'e­ conomia. Il fatto stesso che il consumo si presta così bene

CAPITOLO SECONDO

all'analisi econometrica rappresenta una comprova che esso co­ stituisce la componente passiva della spesa globale endogena, quella dall'andamento più facilmente prevedibile. È quindi molto più agevole individuare le leggi che regolano le reazioni di tale componente passiva che non quelle assai più complesse sotto­ stanti alle attive forze motrici che determinano il livello del reddito. Dall'idea che il consumo sia una determinata funzione del reddito, pressoché indipendente da fattori finanziari e monetari, deriva un modello economico a�sai elementare che la maggior parte dei libri di testo presenta come il " primo " esercizio della teoria della determinazione del reddito. Siccome il consumo può essere suddiviso in consumo di prodotti durevoli, non durevoli, di automobili, di servizi, di abitazioni ecc., questo semplice mo­ dello di partenza può venir " complicato" a piacere, senza che con ciò aumenti il suo grado di raffinatezza intellettuale. Negli anni cinquanta e sessanta, nell'ambito della modellistica macro­ economica, i modelli basati sulla funzione del consumo (dove i consumi venivano suddivisi in varie categorie) vennero a costi­ tuire uno dei principali elementi dell'armamentario econometrico. Questi modelli semplicistici basati sulla funzione del con­ sumo trovano assai scarso riscontro nella lettera keynesiana. Keynes infatti non dedicò molto spazio alla funzione del con­ sumo: il libro terzo (''La propensione al consumo ") occupa solo 45 pagine della Teoria generale, mentre il libro quarto (" L'in­ centivo a investire ") consta di ben 1 2 7 pagine. Secondo Keynes (TG p. 273) l'occupazione nel settore degli investimenti è di primaria importanza, mentre quella nel settore dei beni di con­ sumo ha un carattere secondario, non autonomo. La base teorica della funzione del consumo è, nelle parole di Keynes, la seguente: La legge psicologica fondamentale, sulla quale siamo autorizzati a ba­ sarci con grande fiducia, sia a priori per la nostra conoscenza della natura umana, sia per i fatti particolareggiati dell'esperienza, è che, di norma e in media, gli uomini sono disposti ad accrescere il loro consumo con l'au­ mentare del reddito, ma non tanto quanto l'aumento del loro reddito (TG p. 2 5 6 ) .

L'esatta entità numerica di tali aumenti varia sia al variare del­ l'arco temporale preso in esame che al variare di altre variabili più

L ' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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strettamente economiche. La "legge psicologica fondamentale " è valida soprattutto " quando si considerano periodi brevi, come nel caso delle cosiddette fluttuazioni cicliche dell'occupazione, du­ rante le quali le abitudini ( ) non hanno il tempo necessario per adattarsi al mutare delle circostanze oggettive " (TG p. z 56). " Così un reddito crescente sarà spesso accompagnato da un risparmio crescente, e un reddito discendente da un risparmio discendente, su più vasta scala all'inizio che successivamente " (TG p. 257). Durante il ciclo la relazione tra reddito e consumi, secondo Keynes, si articola così : in un primo momento il livello del consumo, in termini assoluti, rimane stabile e costante, per poi adeguarsi a un nuovo livello di lungo periodo, stabilito in base all'andamento del reddito; ovvero il rappono consumo/reddito aumenta (diminuisce) quando il reddito si mantiene su livelli elevati (modesti) per un lungo periodo di tempo. Questo sfasa­ mento temporale tra variazioni del consumo e variazioni del reddito durante il ciclo economico ha indotto alcuni economi­ sti posteriori a Keynes a ritenere che il consumo sia connesso, piuttosto che al reddito corrente effettivamente percepito, a un diverso concetto di reddito (spesso etichettato " reddito perma­ nente ") il cui valore numerico si ottiene ponderando una serie di redditi passati. Nel corso del dibattito accademico seguito alla comparsa della Teoria generale si è verificato un considerevole cambia­ mento di prospettiva nei confronti del concetto stesso di con­ sumo e delle sue determinanti. Nella teoria keynesiana dell'oc­ cupazione, il consumo non è che una componente della domanda effettiva aggregata. Introducendo quest'ultima nell'inverso della ...

funzione dell'offerta aggregata si ottiene la domanda di lavoro;

quindi secondo Keynes il consumo va sempre riferito al livello corrente dell'attività produttiva. Nel mondo ipotizzato dall'economia neoclassica i sistemi di preferenze suppongono che gli individui " consumino " il flusso di servizi ottenuti dai beni di consumo durevole (dalle autovet­ ture, per esempio) nonché i servizi abitativi (derivanti cioè dallo stock di case per abitazione). Il concetto di consumo implicito in questa teoria comprende, oltre la quota di prodotto consu­ mata nel periodo corrente, il flusso di servizi che scaturiscono dall'accumulazione passata di beni di consumo durevole e di

CAPITOLO SECONDO

edifici per abitazione. Secondo questa definizione di consumo perciò gran parte della produzione di beni di consumo durevole e di abitazioni viene considerata come una particolare forma d'investimento. La concezione di consumo come flusso di ser­ vizi, seppure soddisfacente dal punto di vista della teoria eco­ nomica neoclassica (in quanto coerente con il concetto di con­ sumo utilizzato nell'ahalisi microeconomica), è però fuorviante se applicata alla teoria dell'occupazione. Per quest'ultima in­ fatti è necessaria una teoria che spieghi la spesa delle famiglie in "prodotti", la cui produzione corrente richiede l'impiego di lavoro, e che prescinda dal periodo in cui tali prodotti verranno effettivamente consumati e dal modo in cui verrà finanziato il loro acquisto. Nella letteratura economica il concetto di reddito più ade­ guato per la funzione del consumo è stato oggetto di un vivace dibattito. Secondo alcuni studiosi la spesa per consumi non è determinata dal reddito corrente ma dal reddito permanente o dal reddito percepito durante tutto l'arco dell'esistenza in vita. Tali concetti di reddito implicano che l'orizzonte temporale in base al quale ciascun nucleo familiare pianifica la propria spesa in beni di consumo è molto esteso o addirittura comprende l'in­ ter� arco di esistenza in vita. Questi due tipi di reddito dipen­ dono sostanzialmente dal rendimento ricavato dalla proprietà di fattori produttivi utilizzati nel processo economico. Siccome la " produttività marginale " di un fattore produttivo, in un mondo dove regna la piena occupazione, non è soggetta a variazioni · re­ pentine, ciascun nucleo familiare può farsi un'id.ea abbastanza precisa sull'ammontare di reddito in termini reali che i fattori produttivi in suo possesso potranno percepire in futuro. Si as­ sume quindi che: a) ciascun nucleo familiare, e tutti gli agenti che con esso hanno rapporti finanziari, possa stimare abbastanza accuratamente i propri redditi reali attesi; b) il consumo si adegui al reddito reale atteso. Non appena però si ammette che le varie unità economiche hanno solo un'idea incerta e soggetta a variazioni cicliche dei propri redditi futuri e si nota altresì che parte delle spese per consumi vengono finanziate ricorrendo a prestiti esterni, si vede come l'usuale concetto di reddito permanente o di reddito per­ cepito durante il ciclo di vita sia poco adatto per stabilire il li-

L' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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vello corrente dei consumi. A tale scopo si dimostra invece più adeguata una versione modificata di reddito permanente, che tiene conto dell'incertezza e delle condizioni finanziarie dei vari nuclei familiari. Mentre il concetto tradizionale di reddito per­ manente presume che, nel corso del ciclo, il consumo agisca da fattore stabilizzante, al contrario la versione alternativa di red­ dito permanente ammette la possibilità che il consumo abbia un andamento prociclico. Keynes riteneva che, a prescindere da variazioni di breve periodo del livello del reddito, un aumento nel livello assoluto del reddito tendesse, di norma, ad allargare il divario tra red­ dito e consumo: Per queste ragioni - scrive Keynes (TG p. 257) - la frazione del red­ dito che viene risparmiata aumenterà di norma col crescere del reddito reale. Ma aumenti o no la frazione risparmiata, assumiamo come legge psicologica fondamentale di qualsiasi collettività moderna che, quando il suo reddito reale aumenta, essa non aumenterà il suo consumo per un eguale ammontare assoluto.

Proprio perché il consumo non è un fattore attivo e deter­ minante (anzi è passivo e determinato), è importante stabilire con precisione il modo in cui esso si adatta a fattori economici obiettivi. Una volta compreso il meccanismo del consumo sarà possibile conoscere, in termini quantitativi, gli effetti di varia­ zioni dei fattori determinanti, vale a dire investimenti e spesa pubblica. Keynes, oltre alle variazioni del livello del reddito, ha elen­ cato molti altri fattori obiettivi che influiscono sulla propensione al consumo. Di particolare importanza per sviluppi teorici suc­ cessivi è stata la definizione di reddito data da Keynes a pro­ posito delle classi non a reddito fisso, laddove spiega la differenza tra reddito lordo e reddito netto (ovvero reddito disponibile) e il modo in cui guadagni e perdite in conto capi­ tale (non incluse nella misurazione del reddito) influiscono sul consumo. Keynes inoltre ha esaminato gli · effetti sul consumo dei saggi d'interesse, delle variazioni attese del livello dei prezzi, della politica fiscale e finanziaria sia del governo che del settore privato, delle aspettative sui redditi futuri. Dopo aver elencato ...,... \ sommariamente questi fattori, Keynes conclude:

CAPITOLO SECONDO

La propensione al consumo può essere ritenuta una funzione abbastanza stabile (. ..) Variazioni accidentali dei valori capitali potranno variare la propensione al consumo, e variazioni considerevoli del saggio d'interesse e della politica fiscale possono provocare qualche differenza (. .. ) Ciò non­ dimeno il reddito complessivo misurato in termini di unità di salario è di norma la variabile principale dalla quale dipenderà l'elemento consumo della funzione di domanda complessiva (TG pp. 255 sg.).

La funzione del consumo, secondo Keynes, è importante in quanto tramite essa si ottiene il moltiplicatore, cioè quel mecca­ nismo che spiega in che senso

la variazione del volume dell'occ upazione sarà una funzione della varia­ zione netta dell'ammontare dell'investimento ( ... ) Bisogna rivolgersi al principio generale del moltiplicatore ( ... ) per spiegare come fluttuazioni dell'ammontare dell'investimento, le quali rappresentino una parte relati­ vamente piccola del reddito nazionale, possano generare fluttuazioni del­ l'occupazione e del reddito di ampiezza tanto maggiore di esse stesse (TG pp. 17 3 e 282 ) .

Ecco quindi che l a relazione di lungo periodo tra consumo e reddito viene relegata in secondo piano: ciò che a Keynes inte­ ressava era la funzione del consumo ciclica, in quanto ciò che intendeva spiegare erano proprio le oscillazioni cicliche del­ l'economia. Il modello basato sulla funzione del consumo può essere scritto in una .semplice forma lineare: Y = C+ l C = a0 + a1Y l = 10

dove a1 indica la propensione marginale al consumo, Y il reddito, C i consumi, l gli investimenti. Poiché in questo modello le va­ riazioni del livello dei prezzi non possono esercitare influenza alcuna sull'andamento del sistema economico, possiamo igno­ rarle del tutto: che Y, C e l siano espressi in termini reali o nomi­ nali non ha conseguenza alcuna. Possiamo ora derivare la relazione del moltiplicatore Y=

a0 +l

z - a1

---

dove

I

r - a1

---

=

k

rappresenta tl mo lup 1.1catore .

.

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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cosicché Y = ka0+ kl .

Questo modello può essere ampliato con estrema facilità: i con­ sumi, per esempio, possono divenire funzione del reddito dispo­ nibile, Yo , definito come la differenza tra il reddito, Y, e le imposte, T, nella domanda aggregata possiamo includere la spesa pubblica, G : Y = C+l+G Yo = Y - T C = ao + a1 Yo ovvero C = ao + «1(Y- T) .

In questo · modello la o rma: f Y=

dove

relazione del moltiplicatore assume la

«o + l + G - a1T 1 - a1

1

. • - a1 pu bbl1ca e mendo che -

Af =

è il m oltiplicatore degli investimenti e della spesa a1 · · 1 ·1catore de11 e Imposte. Assue 1· 1 mo lttp I -a1

AG

1 - a1

'

a 1 -AT - -1 -a 1 '

e

AG = AT,

otteniamo Af = AG ,

ovvero la versione più elementare del teorema del bilancio in pareggio, secondo il quale un incremento di pari entità della spesa pubblica e delle entrate fiscali provoca un incremento di eguale valore nel livello del reddito. Inoltre, se vogliamo tener conto delle imposte sui redditi, le entrate fiscali diventano una funzione del reddito: T = ro + r1 Y

dove Yo e Y1 sono dei parametri decisi a livello dello diventa:

politico; il mo­

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CAPITOLO SECONDO

Y = C +l + G Yv = Y - yo - Yr Y C = aa+a 1 (Y - yo - YIY) .

In questo caso la relazione del m oltiplicatore è la seguente : Y

= ao - a"rYo + l + G I - a1 + y 1a1 .

Siccome I - a1 + y1a1 > I -ah il moltiplicatore in un modello dove le imposte sono funzione del reddito è minore del moltiplicatore in un modello dove quest'ultime sono indipendenti dal reddito. Quindi un sistema di imposte connesse al reddito contribuisce a limitare l'effetto espansivo (recessivo) di un aumento (diminu­ zione) degli investimenti o della spesa pubblica. Alla funzione Ct = a0 + a1 Y si può aggiungere una teoria degli investimenti basata su una relazione tecnologica del tipo Y = vK oppure À Y = vÀK, cioè I = ( I /v) AY = {JÀY, dove v indica il prodotto per unità di coefficiente di capitale e {3 indica il capitale per unità di prodotto. La connessione tra investimenti e reddito può assumere la seguente forma funzionale: /1 = {J(Yr _ 1 - Yr-2) dove ( Y1_ 1 - Y,_l) indica la più recente variazione del reddito registrata al tempo t . Per simmetria scriviamo C, == aY,_ 1 cosic­ ché il consumo dipende dal più recente valore del reddito il cui incasso sia stato registrato al tempo t; Mettendo insieme queste due ultime relazioni otteniamo: Yr = ( a + {J)Yr-r -!l Yr-2

ovvero una versione del modello acceleratore-moltiplicatore. Come risulta dalla figura 2. r , questa equazione alle differenze finite del secondo ordine è in grado di generare tutta una gamma di diverse serie temporali del reddito a seconda dei valori assunti dai parametri a e {3. Se ( a + f3)2-4P è minore (maggiore) di zero, la serie temporale avrà un andamento ciclico (monotonico). Se P è maggiore (minore) dell'unità, la serie temporale avrà un andamento esplosivo (smorzato). Per questa sua versatilità il modello acceleratore-moltiplicatore può essere utilizzato come punto di partenza per esporre in modo meccanicistico l'anda­ mento ciclico dell'economia. Nei prossimi capitoli mostreremo

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

Monotonico;f 1 smorzato 1

o

l l l l l l l l Ciclico I smorzato

-- ,

45

' ..._

.....

(a + �� · - 4� = o _...., ' �

Mono�onico esplOSIVO

'

Ciclico •piOiivo

' ' ' \ \ \

\

4

Figura 2 . 1

Serie temporale generata dai modelli acceleratore-moltiplicatore.

come una tale spiegazione meccanicistica del ciclo economico contraddica lo spirito dell'opera di Keynes. La funzione del consumo può essere usata anche per generare dei modelli meccanicistici del processo di crescita. Assumiamo che per produrre un'unità di prodotto siano necessarie v unità di capitale e assumiamo che, in condizioni di piena occupazione, una percentuale s di reddito venga risparmiata. Avremo quindi e

l = sY

Y = vK

cosicché

ovvero

�y -- = sv '· y

� Y = vl

cioè otteniamo �y -- = sY v

ch'1amato

g

. d'1 cresctta . 1'l sagg1o

�y

y avremo:

g = sv .

Ecco quindi che la funzione del consumo nella sua versione più elementare può essere utilizzata come punto di partenza per due gruppi di modelli apparentemente dinamici: i modelli acceleratore-moltiplicatore e i modelli di crescita unisettoriali. Il modello base di funzione del consumo può essere ulterior­ mente elaborato, classificando i l consumo in varie sottocategorie.

CAPITOLO SECONDO

Per esempio, C 1 ... Cn possono indicare vari tipi di consumi (servizi, beni durevoli e non ecc.) e I1 In possono indicare vari tipi di investimenti (abitazioni, servizi pubblici, scotte, prodotti industriali). Certe categorie di beni di consumo e di investimento possono essere espresse come funzioni dei redditi percepiti in passato, dei saggi d'interesse eccetera. Il modello però, a prescin­ dere da quanto complicata possa essere la classificazione dei beni di consumo e di investimento, rimane sempre della forma •••

Y = 'f.k;X;

dove k; è il moltiplicatore associato alla variabile esogena (o pre­ determinata) X; . Volendo applicare praticamente tali concetti, il passo succes­ sivo dovrebbe ovviamente essere la stima empirica delle varie funzioni del consumo e degli investimenti che compaiono nel modello così da determinare i vari moltiplicatori k 1 kn. Questi modelli però, a causa dei postulati di partenza, possono dirci ben poco sulla realtà che ci circonda. La stima empirica delle varia­ zioni di breve periodo degli investimenti non può essere anno­ verata tra i successi della ricerca econometrica. Molti dei modelli comunemente impiegati hanno addirittura rinunciato del tutto al compito di stimare gli investimenti partendo da relazioni fun­ zionali intese a cogliere sottostanti regolarità economiche; al con­ trario essi, per ottenere stime degli investimenti, /, si basano su risultati di inchieste (risposte degli imprenditori a questionari sulla situazione economica). I primi modelli econometrici di previsione, pur con diverse sfumature, avevano tutti appurato che i saggi d'interesse, i fe­ nomeni monetari e i rapporti finanziari non svolgono un ruolo statisticamente significativo nel determinare il livello del red­ dito. Questi modelli tendevano a dare della realtà un quadro dal quale risultava che l'efficacia della politica fiscale non dipende affatto dalle condizioni finanziarie. Essi facevano riferimento solo a uno dei molteplici aspetti della Te oria generale e quindi, rappresentandone una ipersemplificazione, tradivano lo spirito delle idee di Keynes. Il fallimento, o il successo, dei modelli econometrici di previsione che non analizzano a fondo il settore finanziario, non costituisce affatto un test della validità della teoria di Keynes. •••

·

L ' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

47

Un concetto chiave della Teoria generale è la nozione di in­ certezza, intesa come uno dei principali fattori che determinano le scelte di portafoglio e quindi gli investimenti. I modelli eco­ nometrici basati sulla funzione del consumo invece fanno perno sull'assunzione che, se gli strumenti di politica economica sono fissati a un panicolare livello, l'economia può essere perfetta­ mente regolata così da mantenersi in un perpetuo stato di piena occupazione. Secondo la visione di Keynes, al contrario, ammesso si riesca a raggiungere per un ceno periodo uno stato di piena occupazione, gli imprenditori e i proprietari di ric­ chezza cambieranno opinione circa l' " incerto " futuro che li attende; di conseguenza, raggiungere e mantenere la piena oc­ cupazione implica un aumento esplosivo della domanda. Per Keynes la stabilità di ogni fase del ciclo economico viene pertur­ bata dagli effetti dell'incertezza e dalle conseguenti ripercussioni finanziarie. Tutto ciò è completamente assente nei modelli ele­ mentari basati sulla funzione del consumo e nei semplicistici (anche se spesso assai complicati) modelli econometrici di pre­ visione che da quelli sono stati derivati. Lo schema

15-LM

Hicks, in un articolo esplicitamente mirante a riconciliare Keynes e i " classici " ( 1 93 7), ha introdotto nella teoria macro­ economica contemporanea l'apparato analitico ed espositivo più celebre e usato, il diagramma 15-LM. Questo apparato venne utilizzato come impalcatura teorica da Hansen, il quale ha por­ tato con la sua opera il contributo più rilevante al keynesismo onodosso in versione americana. L'approccio 15-LM viene spesso definito come lo schema Hicks-Hansen. L'idea centrale del­ l'articolo di Hicks è che Keynes nella Teoria generale ha for­ nito una versione più precisa della teoria classica, senza con ciò ripudiarne il contenuto. La posizione di Hicks è molto simile, come vedremo in seguito, a quella presa da Viner ( 1 9 3 6) nella sua recensione della Teoria generale, ovvero l'unica recensione alla quale Keynes volle replicare per esteso. Keynes negò espli­ citamente la validità dell'interpretazione data da Viner alla strut­ tura teorica della Teoria generale. Nell'articolo di Hicks ( 1 937) vengono presentate varie idee

CAPITOLO SECONDO

di Keynes, senza ricorrere però a citazioni o fornire spiegazioni esaurienti. Hicks osserva che l'aspetto satirico della Teoria ge­ nerale aumenta considerevolmente il piacere della lettura; ma la sua esposizione ignora aspetti fondamentali dell'opera, quali l'incertezza, le relazioni flussi-stock, il rilievo dato al carattere intrinsecamente ciclico degli investimenti, il continuo riferi­ mento alla realtà fattuale (si ricordi l'importanza attribuita a particolari aspetti istituzionali dell'economia). Dopo aver rile­ vato che la teoria classica si trova in difficoltà allorché viene ap­ plicata all'analisi delle fluttuazioni industriali, Hicks assume che lo scopo primario della Teoria generale sia quello di rendere applicabile la teoria classica all'analisi, presumibilmente poco im­ portante, del ciclo economico, introducendovi a tale scopo le modifiche minime indispensabili. Prima di passare a esporre il modello formale di Hicks, con­ viene fare due osservazioni. Innanzitutto va precisato che Hicks tratta la funzione della preferenza per la liquidità come una mera modificazione delia funzione marshal!iana della domanda di mo­ neta, dove la domanda di contante appare come funzione non solo del volume delle transazioni, ma anche del saggio d'inte­ resse. Preso atto che la domanda di moneta in Keynes ha come argomenti sia il reddito che il saggio d'interesse, Hicks nota come con questa modifica Keynes faccia un grosso passo verso la tradizione marshalliana e diventi difficile distinguere la sua teo­ ria da una versione riveduta e corretta del modello marshalliano. In secondo luogo Hicks introduce la domanda d'investimenti in un modo assai sbrigativo. Trattando il modello " classico " Hicks ( 1 93 7) scrive : " Per determinare lx (gli investimenti) ab­ biamo bisogno di due equazioni. La prima ci dice che il volume degli investimenti (visti come domanda di capitale) dipende dal saggio d'interesse : fx = C(i) .

Questa relazione è ciò che nel libro di Keynes compare come curva dell'efficienza marginale del capitale. " (La seconda equa ­ zione necessaria per determinare gU investimenti è la funzione del risparmio.) Nel modello classico e in quello keynesiano, nella ve::rsione datane da Hicks compare la stessa funzione di domanda di investimenti. Per ottenere un modello " keynesiano ",

L'INTERPRETAZIONE TRADlZIONALE

49

Hicks prende il modello classico modificandone semplicemente la specificazione della domanda di moneta e delle funzioni del risparmio-consumo. Usando una terminologia che sarebbe diventata in seguito assai comune, possiamo dire che Hicks utilizza un sistema si­ multaneo di due equazioni, dove due mercati vengono esami­ nati esplicitamente: il mercato della " moneta " e il mercato dei " beni e servizi". Per raggiungere uno stato d'equilibrio bisogna che in ciascun mercato vengano simultaneamente soddisfatte le appropriate condizioni necessarie. Nella versione Hicks-Hansen della teoria keynesiana il mer­ cato della moneta viene incapsulato in una relazione funzionale di domanda "endogena " secondo la quale la domanda di mo­ neta, M v, è una funzione, L( ), del reddito, Y, e del saggio d'interesse, i, cioè: Mv = L(i, Y). (L'articolo di Hicks non spe­ cifica a cosa venga applicato il saggio d'interesse.) L'offerta di moneta viene determinata "esogenamente " dalle competenti " autorità ", presumibilmente trami te operazioni di mercato aperto. Stabilita una data quantità di moneta in circolazione, Ms , la funzione di domanda individua il luogo di punti (le cui coordinate sono date dal saggio d'interesse e dal reddito reale) che soddisfano il vincolo imposto dalla funzione di domanda di moneta. Questa funzione, chiamata funzione LM, normalmente viene rappresentata da una curva a pendenza positiva, sebbene per livelli molto bassi (alti) di reddito si presume che essa abbia un segmento pressoché orizzontale (verticale) (fig. 2 . 2 ) . Il mercato dei beni e servizi consiste di due parti: la prima è data dalla domanda di investimenti, ottenuta dalla funzione che abbiamo precedentemente analizzato: I = /(i) (utilizzando i simboli oggi convenzionali). Questa è una funzione del saggio d'i nteresse a pendenza nega­ tiva. La seconda parte è costituita dalla funzione del consumo; è meglio però riferirsi alla funzione del risparmio (risparmio = = reddito - consumo). Dato che S = S( Y) e I = S, otteniamo /(z) - S(Y) = O, vale a dir� un luogo di punti, di coordinate (i, Y) a pendenza negativa: la funzione IS (vedi fig. 2 . 2) . Nella figura 2 . 2, dall'intersezione delle due curve IS e LM, riferite a una data quantità di moneta, otteniamo il saggio d'interesse e il livello del " reddito monetari o ".

so

CAPITOLO SECONDO

i

IS

Figura z . z

Reddito

Lo sé hema IS-LM.

y

Hicks assume esplicitamente che w, cioè il saggio di salario monetario pro capite, possa essere considerato come dato; egli inoltre assume implicitamente che il livello dei prezzi, P, sia eguale a Àw; in questo modo otteniamo una relazione assai sem­ plice tra reddito reale e reddito monetario. Le implicazioni sull'occupazione dei vari livelli di reddito non vengono trattate in modo esplicito, né sono prese in esame le condizioni del mercato del lavoro. Questo articolo, dunque, che ha così tanto influenzato il pensiero economico, presenta un'analisi incom­ pleta: di fatto, esso ci dice ben poco. Comunque, dato che prezzi e salari sono fissi, possiamo trasformare la domanda ag­ gregata " monetaria ", ovvero il reddito, Y, in domanda di ' la­ voro, determinando in tal modo il livello dell'occupazione. Lo schema /S-LM introduce nell'elementare modello basato sulla funzione del consumo tre nuove relazioni: l'equazione della domanda di investimenti, la relazione funzionale tra moneta e saggi d'interesse, l'offerta di moneta determinata esogenamente. Per verificare se questo schema possa essere considerato un'in­ terpretazione corretta dell'analisi di Keynes, è necessario vedere quali siano le assunzioni riguardanti la moneta imposte dal mo­ dello, vedere cioè come sia determinata l'offerta di moneta e il ruolo di quest'ultima nella determinazione del reddito e del saggio d'interesse. Nella Teoria generale Keynes esamina essenzialmente tre tipi di attività. Nel capitolo 1 2, " Lo stato dell'aspettativa a lungo

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

5l

termine ", Keynes tratta il problema della valutazione dello stock di beni capitali, ovvero di attività che danno origine a una serie di rendimenti futuri attesi (flussi di contante, diremmo oggi). Questo problema viene affrontato assumendo che " le variazioni dei valori degli investimenti [ovvero dei beni capitali] ( ... ) siano dovute soltanto a variazioni dell'aspettativa dei loro rendimenti prospettici e non ( ...) a variazioni del saggio di interesse al quale questi rendimenti prospettici sono capitalizzati" (TG p. 3 09). Il saggio d'interesse, d'altro canto, " in sé stesso non è altro che l'inverso del rapporto fra una somma di moneta e ciò che può ottenersi per l'abbandono della disponibilità della moneta stessa in cambio di un credito per un determinato periodo di tempo " (TG p. 3 2 7). Tuttavia " possiamo tirare la linea di sepa­ razione fra 'moneta' e 'crediti' in qualsiasi punto sia più conve­ niente per trattare un problema particolare " (TG p. 3 2 7, nota a). Keynes quindi ha in mente un processo a due stadi: in una prima fase la moneta e i debiti monetari determinano il saggio d'interesse che "in discussioni generali ( ... ) è l' Ìnsieme dei vari saggi di interesse correnti per periodi di tempo diversi, ossia per crediti aventi diverse scadenze " (TG p. 3 27, nota b) ; in una seconda fase il saggio d'interesse, assieme al rendimento futuro atteso dei beni capitali, determina il valore dei beni capitali. Keynes non chiarisce esplicitamente quale sia la parte debitoria nei contratti finanziari che determinano il saggio d'interesse : non ci dice cioè se i debiti in questione siano buoni del Tesoro, cambiali commerciali o debiti contratti da imprenditori per finanziare acquisti di capitale reale. Per i nostri scopi è sufficiente far rilevare che Keynes ha preso in esame tre tipi di attività: a) la moneta che " di regola si assume comprenda tutti i depositi presso le banche " ( TG p. 3 27, nota a); b) debiti non meglio precisati, vale a dire con­ tratti nei quali si scambia m oneta oggi per moneta domani; c) beni capitali reali, caratterizzati da rendimenti futuri attesi (flussi di contante) la cui entità, per svariate ragioni, è soggetta a variare nel tempo cosicché un agente razionale non può mai essere certo dell'ammontare dei flussi di contante da essi deri­ vanti. �ella Teoria generale dunque gli investimenti vengono de­ terminati da un processo a quattro stadi: 1) la moneta e i debiti determinano il " saggio d'interesse "; z) le aspettative di lungo

CAPITOLO SECONDO

periodo determinano il rendimento (i flussi di contante futuri attesi) dei beni capitali e degli investimenti correnti (cioè dello stock di capitale); 3) tale rendimento, assieme al saggio d'inte ­ resse, concorre a determinare il prezzo dei beni capitali ; 4) si investirà sino al punto in cui il prezzo d'offerta dei beni d'inve­ stimento sarà uguale al valore attuale del flusso dei rendimenti futuri attes!.:) È quindi evidente come il semplice schema IS-LM faccia violenza al complesso meccanismo di determinazione de­ gli investimenti ehlborato da Keynes. L'enigma proposto da Keynes circa la determinazione degli investimenti è stato igno­ rato, non risolto, dalla letteratura economica successiva alla Teo­ ria generale. Per )l momento però ci serviremo dello schema IS-LM per presentare l'approccio macroeconomico tradizionale, riservan­ doci di esaminare nei capitoli successivi i fondamenti della teo­ ria degli investimenti. Ci rimane qui da vedere come sia possi­ bile inserire lo schema IS-LM nell'apparato teorico neoclassico. Lo schema IS-LM è ben p iù sofisticato dei rudimentali mo­ delli basati sulla funzione del consumo, in quanto tiene conto della moneta e analizza gli effetti sul reddito delle elasticità (ov­ vero della configurazione e della posizione) delle varie funzioni. In particolare in questo schema è possibile - grazie all'identifi­ cazione della funzione della preferenza per la liquidità con una relazione funzionale attinente alla domanda di moneta - im­ maginare casi particolari nei quali la domanda di moneta può essere infinitamente elastica rispetto a variazione del saggio d'in­ teresse; vale a dire la relazione MD = L(i, Y) è tale che, in un intervallo di dati valori di reddito, variazioni dell'offerta di mo­ neta non hanno alcun effetto sul saggio d'interesse. Si presup­ pone che questo caso, chiamato della trappola della liquidità, si verifichi spesso in seguito a una grave crisi o a un tracollo fi­ nanztano. Nella letteratura sull'apparato IS-LM sono state individuate sul piano cartesiano (i, Y) tre zone differenti, a seconda dei di­ versi effetti della politica monetaria. Nella zona della trappola della liquidità (zona LT nella fig. 2.3) un aumento dell'offerta di moneta non ha alcun effetto né sul reddito né sul saggio d'in­ teresse; nella zona Q ogni incremento sull'offerta di moneta si riflette completamente sul livello del reddito monetario; nella zona intermedia (zona LM nella fig. 2.3) una variazione della

53

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

i

Q

LT

Reddito Figura 2.3

y

La curva LM.

quantità di moneta influenza sia il reddito che il saggio d'inte­ resse. Ecco quindi che nello schema IS-LM le conseguenze di una variazione nella quantità di moneta non sono inequivoca­ bilmente " neutrali ": il saggio d'interesse può essere influenzato dall'offena di moneta. Che cosa accada in realtà in seguito a una variazione nella quantità di moneta, dipende dalla configura­ zione della funzione della preferenza per la liquidità. Il fondamento teorico in base al quale la domanda di moneta viene considerata elastica rispetto al saggio d'interesse è duplice: da un lato la domanda di moneta per transazioni è sensibile a variazioni del saggio d'interesse; dall'altro la domanda di moneta in quanto attività finanziaria (scelte di portafoglio) influenza, o determina, il saggio d'interesse sulle altre attività. A questo punto il modello di Hicks si dimostra particolar­ mente vulnerabile proprio per la sua incapacità di definire in modo chiaro quale sia il preciso saggio d'interesse preso in esame. La ragione normalmente addotta per giustificare la circo­ stanza che la curva LM ha un segmento orizzontale (trappola della liquidità) è che, in seguito a un aumento dei saggi d'inte­ resse, vi è il potenziale pericolo di subire perdite in conto capi­ tale: ciò implica che il saggio d'interesse impiegato nella fun­ zione della preferenza per la liquidità è il saggio d'interesse a lungo termine. D'altro canto, i naturali sostituti della moneta

54

CAPITOLO SECONDO

contante tesorizzata sono le attività finanziarie a breve termine , la qual cosa sembrerebbe presupporre che il saggio d'interesse utilizzato nella funzione della preferenza per la liquidità sia un saggio a breve termine. Un modo per aggirare questa difficoltà consiste nell'assumere che la struttura dei saggi d'interesse sia costante nel tempo: circostanza però che, purtroppo, non trova riscontro nella realtà. Reinterpretando la funzione della prefe­ renza per la liquidità come la funzione che determina il prezzo di domanda dei beni capitali, riusciremo nelle pagine che se­ guono a trovare una soluzione alle difficoltà sollevate dall'inter ­ pretazione hicksiana. Oltre agli intoppi connessi alla trappola della liquidità, è possibile che la curva /S sia anelastica rispetto al saggio d'inte­ resse cosicché una diminuzione di detto saggio può non com­ portare un sensibile aumento degli investimenti. Lo schema IS­ LM quindi identifica due possibili diaframmi tra il proverbiale cavallo (il reddito) e l'acqua (la politica monetaria) : un aumento della quantità di moneta può non far diminuire il saggio d'inte­ resse o, ammesso ci riesca, tale diminuzione può non avere in­ flusso alcuno sugli investimenti. Il modello Hicks-Hansen dà un quadro più verosimile del pensiero di Keynes di quello fornito dagli elementari modelli basati sulla funzione del consumo, in quanto tratta in modo esplicito l'interdipendenza, tanto cara a Keynes, tra mercato monetario e mercato dei beni e servizi. Ciò nonostante esso of­ fre una descrizione poco fedele e ipersemplificata delle idee di Keynes, che al contrario sono assai sofisticate e complesse, in quanto non esamina in modo esplicito l'importanza dell'incer­ tezza sulle scelte di portafoglio e sull'andamento degli investi­ menti, dando del modello keynesiano un'interpretazione in ter­ mini di equilibrio statico anziché di processo dinamico. Il mercato del lavoro e lo schema IS-LM

Il passo successivo compiuto dalla teoria macroeconomica tradizionale è stato quello di aggiungere allo schema Hicks­ Hansen un'analisi esplicita del mercato del lavoro. Dall'esame simultaneo del mercato del lavoro, della moneta, dei beni e ser­ vizi si può derivare tutta una gamma di modelli, da quelli le cui

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

55

proprietà teoriche hanno forti reminiscenze keynesiane a quelli di stampo prettamente classico. Dall'integrazione del mercato del lavoro entro lo schema !S-LM è derivata la cosiddetta sin­ tesi neoclassica, il modello fondamentale della macroeconomia ortodossa. La sintesi neoclassica (argomento del prossimo paragraf o) rappresenta il momento finale di un processo di allontanamento dalla Teoria generale, in quanto il fondamentale teorema sul quale essa poggia - e cioè che i processi di mercato sono in grado di raggiungere uno stato d'equilibrio di piena occupa­ zione - nega ogni validità teorica ("generale ") all'analisi di Keynes. Questo è vero anche se la sintesi neoclassica ammette la possibilità che insorga e perduri uno stato di disoccupazione, dovuto a certe rigidità d'aggiustamento, e si dichiara a favore di politiche " keynesiane ", qualora tali rigidità dovessero rivelarsi altrimenti insormontabili. Una volta presa in esame la sintesi neoclassica saremo in grado, nei capitoli successivi, di capire in che senso essa rap­ presenti la conclusione di un viaggio nella " direzione sbagliata ". Potremo così accingerci a costruire un modello che sia più fe­ dele allo spirito della Teoria generale. Nell'analisi a livello aggregato il mercato del lavoro viene so­ litamente introdotto generalizzando l'approccio utilizzato dalla teoria dei prezzi tradizionale per l'esame di specifici mercati del lavoro. A tale scopo viene impiegata una funzione aggregata della produzione dalla forma : O = e(K, N)

dove O rappresenta il prodotto globale, K lo stock di capitale, N la forza lavoro, tale che:

de

--

dN

>0

e

(tali diseguaglianze stanno a significare che il prodotto margi­ nale del lavoro, de/dN , è positivo per tutti i valori di N e decresce all'aumentare di N). La funzione aggregata della produzione viene utilizzata per determinare sia la funzione di domanda di lavoro sia il prodotto globale (reddito reale) asso­ ciati a ciascun livello d'occupazione. La funzione della domanda

s6

CAPITOLO SECONDO

di lavoro è data dalla curva della produttività marginale del lavoro con il capitale (l'altro fattore produttivo) fissato a un dato livello: poiché la produttività marginale del lavoro decre­ sce all'aumentare dell'occupazione, tale curva avrà una pen­ denza negativa. Nella Teoria generale il principale interesse di Keynes era quello di determinare il livello dell'occupazione; egli comunque fu assai attento a non utilizzare una funzione aggregata della produzione per ottenere la domanda di lavoro. Innanzi tutto egli definì una funzione aggregata d'offerta, Z = rp(N), dove Z rappresenta " il prezzo complessivo di offerta della qu antità dì prodotto derivante dall'occupazione di N lavoratori " (TG p. 1 8 3), la cui funzione inversa è N = rp- 1 (Z). In tanto in quanto la domanda aggregata D (vale a dire la somma di domanda per consumo, investimenti e spesa pubblica) è uguale all'offerta ag­ gregata, l'occupazione può essere scritta come una funzione dipendente dal livello della domanda aggregata: N = rp- 1 (D). Partendo dall'assunzione che la composizione della domanda ag­ gregata, a qualsiasi livello essa sia, mantiene una relazione ben definita nei confronti dei vari tipi di prodotti, Keynes giunse a concludere che le varie funzioni dell'occupazione potevano essere legittimamente aggregate in una funzione dell'occupa­ zione globale. Il livello della domanda aggregata, nello schema IS-LM, vi�ne fissato in termini reali. Introducendo la domanda aggregata nella funzione dell'occupazione otteniamo il livello dell'occupazione. Per evitare complicazioni possiamo assumere che la curva del­ l'offerta di lavoro sia infinitamente elastica rispetto a un dato livello del salario monetario determinato esogenamente. Sebbene Keynes non abbia utilizzato l'apparato concettuale della funzione della produzione per determinare il livello del­ l'occupazione, egli usò quell'apparato per stabilire il livello dei prezzi associato a ciascun saggio di salario monetario e per determinare il modo in cui il livello dei prezzi vari al variare dell'occupazione, dato un certo saggio di salario. Keynes assu­ meva che la funzione dell'offerta aggregata o aumentasse li­ nearmente all'aumentare dell'occupazione o aumentasse più rapidamente dell'occupazione, una volta che quest'ultima avesse

L'I NTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

57

raggiunto un particolare livello, a causa della progressiva dimi­ nuzione dell'efficienza produttiva dei lavoratori. In tanto in quanto il ricavo marginale delle vendite dovuto all'assunzione di nuovi lavoratori deve essere uguale o maggiore del saggio di salario, argomentava Keynes, il livello dei prezzi è proporzio­ nale al saggio di salario diviso per l'efficienza della forza lavoro: questa è una nozione tipica della teoria della produttività mar­ ginale. Utilizzando i simboli di quest'ultima, scriveremo, se­ guendo Keynes, che: P=

Wo (dE>/dN) (NE)

--

--

P,

cioè il livello dei prezzi, dato un ceno saggio di salario mo­ netario W0 , è inversamente proporzionale al prodotto marginale del lavoro, dE>/dN, al livello vigente di occupazione, NE . Se d®/dN diminuisce all'aumentare di NE , il livello dei prezzi, quale che sia il livello dato del salario monetario, aumenterà all'aumentare dell'occupazione. Nella formulazione di Keynes il fattore determinante imme­ diato del livello dei prezzi è il comportamento del mercato del lavoro, che stabilisce l'andamento di W0 • Pur ammettendo che queste affermazioni non contraddicono l'idea di fondo della teoria quantitativa della moneta (secondo la quale

P= M;, dove sia

V (velocità di circolazione) che O

(prodotto globale) sono fissi, cosicché otteniamo

P=yM)

l'analisi di Keynes attribuisce a questa relazione tra prezzi e moneta solo un valore condizionale: un aumento della quantità di moneta agisce sul livello dei prezzi in tanto in quanto agisce sul mercato del lavoro. Il comportamento di quest'ultimo di­ venta così il circuito attraverso il quale le variazioni monetarie agiscono sulle variazioni del livello dei prezzi. Per di più, nella misura in cui le condizioni del mercato del lavoro possono com­ portare variazioni nei salari monetari indipendentemente da cambiamenti dell'offerta di moneta, le variazioni del livello dei prezzi sono indipendenti da quei cambiamenti . Ne segue che

sB

CAPITOLO SECONDO

l'idea classica, secondo la quale il livello dei prezzi è determi­ nato dall'offerta di moneta, non è né precisa né attendibile. Secondo l'ipotesi di Keynes circa la determinazione del livello dei prezzi, la produttività marginale del lavoro (dE>/dN) (NE), diminuisce all'aumentare dell'occupazione cosicché, fissato un dato saggio di salario, il livello dei prezzi aumenta all'aumentare dell'occupazione. In tal modo il salario reale dei lavoratori oc­ cupati diminuisce all'aumentare dell'occupazione, anche se i sa­ lari monetari rimangono inalterati. È importante rilevare che in un'economia capitalistica, anche se le transazioni economiche e i contratti commerciali sono espressi in termini monetari, i termini reali di un qualsiasi contratto o transazione, qualunque durata temporale essi abbiano, dipendono dall'andamento dei prezzi. Bisogna tener conto che questa circostanza (ovvero che i termini reali di contratti commerciali fissati in termini nomi­ nali o monetari dipendono dall'andamento del sistema economico) introduce nelle decisioni economiche un elemento di incertezza che sfugge al controllo dei singoli agenti economici. È altresì ovvio che questo fatto è vero non solo per i contratti salariali, ma anche per quelli finanziari. D'altro canto, se nell'intervallo dei valori dell'occupazione preso in esame il prodotto marginale del lavoro è costante, al­ lora anche il livello dei prezzi sarà costante ; possiamo perciò scrivere: dove f.1. indica il margine percentuale di profitto (mark-up) appli­ cato ai costi �alariali. È questa un'assunzione assai comune nella letteratura. Va osservato però che nel processo evolutivo conclusosi con la comparsa della teoria neoclassica contemporanea il mercato del lavoro non è stato inserito nello schema /S-LM (Hicks­ Hansen) seguendo le indicazioni di Keynes, secondo il quale l'andamento del mercato del lavoro e la stessa produttività del lavoro influiscono in primo luogo sui prezzi. Invece si è attri­ buita validità generale (cioè anche a livello aggregato) all'assun­ zione che viene normalmente fatta a proposito dell'analisi dei mercati concorrenziali, secondo la quale ciascuna impresa con ­ tinua a occupare forza lavoro fino al punto in cui il salario mo-

L' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

59

netario è uguale al valore del prodotto marginale, cioè fino al punto m cm dei W· = P· ' ' d N· l secondo una relazione valida per qualsiasi tipo di prodotto (9;) e di lavoro (Ni). Tale assunzione, trasferita a livello aggregato, suona dunque così: il numero di lavoratori occupati nell'econo­ mia sarà tale che il prodotto marginale di un lavoratore sia pari al salario reale, W/P:

cosicché

ND =

9;1(K, �).

La curva ND ha una pendenza negativa. Nel breve periodo si as­ sume che lo stock di ca pitale, K, sia fisso; esso compare quindi come una costante, K. A questa curva di domanda viene solitamente aggiunta una curva di offerta, basata sull'ipotesi che il salario reale sia la varia ­ bile chiave in considerazione della quale ciascun lavoratore decide quanto tempo dedicare all'attività lavorativa e quanto al tempo libero. Ecco quindi che

Ns =

g( �).

dove Ns indica l'offer�a di lavoro.

Tale curva d'offerta ha una pendenza positiva, cioè dN

s -- >

O

d(�) L'intersezione delle curve No e Ns determina i valori d'equi­ librio sia del salario reale che dell'occupazione (vedi fig. 2 .4). La teoria economica classica assume a cuor leggero che in ciascun mercato esistano processi d'aggiustamento grazie ai quali questi valori di equilibrio dell'occupazione e del salario reale vengorio effettivamente raggiunti. Una volta fatta questa assunzione pos-

6o

CAPITOLO SECONDO

W/P Q)

iii Q) .... o

.... ca

iii

"'

"' o

·g; ca Cf)

No NE

Occupazione

Figura 2 .4

N

Il mercato del lavoro secondo i classici.

siamo tranquillamente inserire l'occupazione, NE , nella fun­ zione della produzione, così da ottenere il prodotto globale: o = e(K, NE) . Questo valore del prodotto globale, ricavato dalle condizioni di equilibrio sul mercato del lavoro, può adesso venir " sostituito " nelle funzioni dello schema /S-LM (la fun­ zione degli investimenti, del risparmio e della preferenza per la liquidità), ottenendo così una versione classica dell'apparato teorico hicksiano. Grazie a questa trasformazione, le funzioni del consumo, degli investimenti e della preferenza per la liqui­ dità appaiono tutte in termini reali. In questa maniera, dal mo­ mento che la quantità di moneta è, per definizione, una grandezza espressa in termini nominali, si introduce in modo esplicito il livello dei prezzi nella funzione della preferenza per la liquidità, cioè: Mo

- =

p

L (t,. O ) .

L a curva /S del modello di Hicks (vedi fig. 2.2), ottenuta tra­ mite le funzioni degli investimenti e del risparmio, indica le varie combinazioni di saggio d'interesse e reddito reale (prodotto glo­ bale) compatibili con uno stato d'equilibrio sul mercato dei beni e servizi. Poiché il modello classico assume che il prodotto glo-

L ' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

baie sia determinato dalle condizioni d'equilibrio sul mercato del lavoro, allora al mercato degli investimenti e del risparmio non resta che determinare il saggio d'interesse. Giacché il saggio d'interesse e il prodotto globale vengono determinati sul mercato dei beni e su quello del lavoro, alla curva della preferenza per la liquidità spetta un unico " compito ": sta­ bilire il livello dei prezzi. Mentre nello schema IS-LM la fun­ zione della preferenza per la liquidità indica le combinazioni di saggio d'interesse e di reddito reale compatibili con l'equilibrio sul mercato monetario, nel modello classico essa trasforma il red­ dito reale (derivato dal mercato del lavoro) in reddito nominale. Ecco che alla preferenza per la liquidità, che Hicks aveva tramu­ tato in curva di domanda di moneta, non rimane ora altra funzione se non quella di determinare il livello dei prezzi. Siccome la fun­ zione della preferenza per la liquidità pone il livello dei prezzi in relazione con l'offerta di moneta (determinata "esogena­ mente "), arriviamo così a ottenere una teoria quantitativa della moneta: l'unica differenza tra questo modello e l'ingenua versione M V= PT della teoria quantitativa consiste nel fatto che la velocità di circolazione è una variabile che dipende dal saggio d'interesse. Questo modello, nel quale il prodotto globale viene essenzial­ mente determinato sul mercato del lavoro, non è che il modello classico in veste moderna. La sua soluzione completa è data dalla sequenza di soluzioni ottenute dall'esame isolato di ciascun mer­ cato. Il mercato del lavoro, cioè Ns = ç

(�)

.

N0 = 9; 1

(�)

,

e No = Ns

determina l'occupazione e quindi (tramite la funzione della pro­ duzione) il reddito reale, O = ®(K, N). Una volta dato il reddito reale, la funzione del risparmio, S = S(i, 0), e quella degli inve­ stimenti, I = l(i, 0), determinano sia il saggio d'interesse, t, che la ripartizione del prodotto globale in consumi e investimenti. Una volta dati il reddito reale e il saggio d'interesse, la funzione della preferenza per la liquidità, Mn/P = L(T, 0), congiunta all'offerta esogena di moneta, Ms = M, determina il livello dei prezzi. Tenuto conto che Ms = Mo , otteniamo: P=

-

M

L(i, O)

, relazione equivalente a P =

kW -M O

62

CAPITOLO SECONDO

Il livello dei prezzi è determinato dalla quantità di moneta. L'u­ nica raffinatezza teorica rispetto all'ingenua versione della teo­ ria quantitativa dove la velocità di circolazione è costante, è che quest'ultima è ora una variabile determinata dal saggio d'inte­ resse. Nel modello classico l'equilibrio viene determinato da consi­ derazioni di carattere tecnologico (rappresentate dalla funzione della produzione) e dal sistema di preferenze delle famiglie. La funzione della produzione determina le funzioni della produt­ tività marginale del lavoro e del capitale, che a loro volta de­ terminano le funzioni della domanda di lavoro e d'investimenti. Possiamo affermare che nel modello classico i sistemi di prefe­ renze delle famiglie rappresentano la tecnologia delle famiglie, in quanto trasformano il tempo libero e i risparmi in soddisfa­ zione personale. Ecco quindi che le curve d'offerta di lavoro e di risparmi vengono ottenute trasformando i sistemi di prefe­ renze in modo del tutto analogo a quello in cui vengono deter­ minate le domande di lavoro e d'investimenti. Il modello classico - nel quale l'offerta esogena di moneta determina il livello dei prezzi - e il modello /S-LM con l'ag­ giunta di un mercato del lavoro in versione keynesiana - in cui il saggio di salario, fissato esogenamente, determina il livello dei prezzi - sono dunque due costrutti analitici paralleli. Nel mo­ dello classico, è il mercato del lavoro ad avere un ruolo predo­ minante: esso determina l'occupazione e il prodotto globale; il mercato del risparmio e degli investimenti determinano il sag­ gio d'interesse, mentre l'offerta di moneta, fissata esogenameiue, determina il livello dei prezzi. Nel modello IS-LM con mercato del lavoro " keynesiano ", il ruolo decisivo è svolto dal simulta­ neo rispetto delle condizioni d'equilibrio del mercato dei beni e di quello monetario, sui quali vengono fissati reddito e saggio d'interesse. Il reddito così determinato stabilisce (tramite la fun­ zione dell'occupazione) il numero di lavoratori occupati, deter­ minando così la produttività del lavoro la quale, assieme al sag­ gio di salario esogeno, determina a sua volta il livello dei prezzi. Sia il modello classico che quello " keynesiano " JS- LM pos­ sono essere ulteriormente allargati, rendendo endogena l'offerta di moneta (o il suo saggio di variazione percentuale) oppure il saggio di variazione percentuale dei salari. Nel modello classico, infatti, possiamo introdurre una funzione dell'offerta di moneta

L'INTERPRETAZIONE TRADIZI ONALE

che colleghi variazioni della quantità di moneta a determinate caratteristiche dei saggi d'interesse e del sistema bancario. Ana­ logamente possiamo aggiungere al modello keynesiano /S-LM una curva di Phillips ( 1 958) che colleghi variazioni dei salari monetari al saggio di disoccupazione (o al saggio di variazione percentuale di quest'ultimo). Il modello classico in effetti vuole dimostrare troppe cose. Secondo la sua ottica fluttuazioni considerevoli e prolungate nella occupazione non rappresentano una caratteristica intrin­ seca del sistema, ma solo un fenomeno accidentale e transitorio. Se si vuole che le variazioni dell'occupazione, riscontrate empi­ ricamente, rispecchino sottostanti fenomeni sistemici, è neces­ sario escogitare un qualche altro metodo per riconciliare il com­ portamento del mercato del lavoro con la determinazione della domanda aggregata da parte del mercato degli investimenti, del risparmio e della moneta, un metodo insomma affatto diverso da quello postulato dal modello classico, che assegna priorità assoluta al mercato del lavoro. Un modo per riconciliare la visione classica dei mercati del lavoro con quella keynesiana consiste nel postulare una se­ quenza di stati d'equilibrio, affermando che i processi d'aggiu­ stamento verso l'equilibrio impiegano tempo per realizzarsi. Secondo questa visione, la disoccupazione e i processi d'aggiu­ stamento dello schema teorico /S-LM diventano fenomeni di disequilibrio. Volendo costruire una teoria che affronti adeguatamente la questione della possibilità di disoccupazione, una soluzione può essere quella di accoppiare lo schema di determinazione della domanda aggregata di Hicks-Hansen con la determinazione del salario reale sul mercato del lavoro. A tale riguardo si può as­ sumere che il livello dell'occupazione venga in primo luogo de­ terminato dalla domanda di lavoro (derivata dalla domanda ag­ gregata), anziché da considerazioni attinenti alla produttività marginale e alle preferenze delle famiglie. Quindi, se dallo schema IS-LM scaturisce un livello di reddito che comporta un eccesso positivo (negativo) di domanda di lavoro rispetto al livello d' " equilibrio" (ovvero il livello determinato dall'imer­ sezione delle curve di domanda e offerta sul mercato del lavoro), si metterà in moto un processo dinamico che farà aumentare (diminuire) l'occupazione in modo tale che quest'ultima sia

CAPITOLO SECONDO

eguale alla domanda di lavoro che scaturisce dallo schema IS­ LM. Al termine di questo processo, i salari monetari inizieranno a variare in modo da raggiungere lo stato di " equilibrio ", deter­ minato dall'intersezione della curva d'offerta e di domanda (que­ st'ultima ottenuta introducendo nella funzione della produzione il livello della domanda reale aggregata determinato dalle curve

IS-LM).

Nella figura 2 . 5 il punto A rappresenta l'equilibrio " classico ", ovvero l'equilibrio parziale del mercato del lavoro, e le rette NDEF e NEx indicano la domanda di lavoro ricavata dalle funzioni che determinano la domanda aggregata nello schema /S-LM: NvF:F (N �;x) indica una domanda di lavoro inferiore (superiore) al livello d'equilibrio. In un primo momento assumiamo che le variazioni nelle variabili provocate dal processo di riequilibrio sul mercato del lavoro non abbiano ripercussione alcuna sui mercati il cui andamento è rappresentato dallo schema /S-LM. Quindi, supposto che NDEF(NEx) sia la domanda di lavoro effet­ tiva, domanda e offerta saranno in equilibrio nel punto C (nel punto E) (vedi fig. 2.5). Nel punto C la quantità di lavoro domandata (desunta dal­ l'equilibrio del mercato dei beni e di quello monetario) è pari alla quantità offerta. Proprio perché il mercato dei beni e della mo­ neta sono in equilibrio, da essi non può derivare alcuna tendenza ad alterare lo status quo. Inoltre, poiché tutti i lavoratori disposti a lavorare al saggio di salario reale vigente trovano occupazione, la tendenza al cambiamento non può originare dal mercato del lavoro. È ben vero che, considerato il salario reale e le rispettìve funzioni della produzione, gli imprenditori vorrebbero assumere C' lavoratori, facendo aumentare produzione e occupazione. Essi però, prendendo contatti coi probabili acquirenti, riscontrano che, in aggregato, non esiste un mercato per questo eventuale incre­ mento della produzione. I beni domandati dai lavoratori, determi­ nati dal reddito percepito da questi ultimi, pari a NDEF( W / P) h sommati alla domanda di beni di investimento, sono esattamente pari alla produzione derivante dall'impiego di NnEF lavoratori. Il punto C, una volta raggiunto, costituisce un punto di equilibrio che però non soddisfa le condizioni circa la produttività sotto­ stanti alla funzione classica della domanda di lavoro, 'secondo la quale a un salario reale (W / P)1 dovrebbe corrispondere una do­ manda di lavoro pari a C'.

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NF

Occupazione

Figura 2. 5

Ne' NEx

N

Il mercato del lavoro con aggiustamenti delle quantità.

Esaminiamo questa domanda di lavoro C' alla luce dello schema IS-LM. Se il salario reale è (W /P)r , allora, affinché siano soddisfatte le condizioni per la massimizzazione del profitto delle imprese, è necessario venga prodotto un ammontare pari a O = e(K, Ne·). Considerato però il modo in cui la domanda viene determinata dalle funzioni attinenti al risparmio, agli inve­ stimenti e al mercato monetario, la produzione derivante dal­ l' impiego d i Nc· lavoratori non potrà in alcun modo trovare una domanda su fficientemente grande da assorbirla del tutto. La situazione indicata dal punto C (vedi fig. z.5), sebbene rappresenti una posizione di disequilibrio sul mercato del lavoro secondo la definizione classica di equilibrio, non mette in moto alcun pro ­ cesso dinamico tendente a eliminare l'eccesso di domanda di lavoro, C'- C. L'eccesso di domanda C'- C non è effettivo, ma puramente nozionale. Perché la posizione indicata dal punto C possa essere mantenuta nel tempo è necessario semplicemente che i redditi delle imprese siano sufficienti a far fronte ai loro vari impegni finanziari; è sufficiente cioè che quando l'economia si trova in C, gli imprenditori non vadano in bancarotta. Se q�e.sta

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CAPITOLO SECONDO

condizione finanziaria è soddisfatta, non sussiste alcuna tendenza endogena che possa smuovere il sistema. In linea di principio, il punto C rappresenta un equilibrio di piena occupazione, in quanto si trova sulla curva d'offena di lavoro. Questo punto d'equilibrio non verrà però considerato uno stato completamente soddisfacente dell'economia, giacché in passato l'occupazione era maggiore (NF), così come la pro­ duzione globale e i profitti. Il punto C, anche se non caratte­ rizza un'economia in profonda crisi, può caratterizzare assai bene un'economia in fase recessiva o che attraversa un periodo di stagnazione produttiva. Se la domanda di lavoro, derivata dalla domanda aggregata determinata dal mercato dei beni e da quello monetario, è su­ periore al livello d'equilibrio di piena occupazione, i salari reali e l'occupazione tenderanno ad aumentare. Supponiamo che si raggiunga il punto E (vedi fig. 2.5): le condizioni d'equilibrio sul mercato dei beni e su quello monetario, come quelle del­ l'offerta di lavoro, sono tutte " soddisfatte ". Nel punto E, però, il prodotto globale è tale che la produttività marginale del la­ voro è inferiore al salario reale; è quindi legittimo supporre che si tenderà a ridurre il livello dell'occupazione e della produzione. Ma tale tendenza darà effettivame nte luogo a una riduzione della produzione? Ricordiamoci che stiamo assumendo che i vari cambiamenti sul mercato del lavoro non si ripercuotono affatto sulla domanda aggregata e che i redditi delle imprese sono sufficienti a far fronte ai loro vari impegni finanziari. Se vogliamo che diminuisca la produzione dobbiamo assu­ mere che le imprese, i cui profitti siano a un livello soddisfa­ cente, respingano certe ordinazioni d'acquisto e riducano la loro produzione, anche se l'impresa marginale vende le ultime unità di prodotto in perdita. Facendo appello a considerazioni " fattuali", possiamo vedere come le imprese siano in effetti assai riluttanti a non soddisfare le ordinazioni correnti dei clienti se questo fatto può, in futuro, far perdere loro clientela. Inoltre, se le imprese si trovano nella situazione descritta dal punto E della figura 2.5, ciò significa che esse stanno attuando un pro­ gramma d'investimenti che contribuirà a far aumentare la loro capacità produttiva (così da poter soddisfare la domanda sotto­ stante al livello di occupazione NEx), ottenendo così una pro­ duttività del lavoro maggiore di quella corrente.

L 'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

Bisogna ammettere che la definizione del punto C (punto E) come equilibrio di sottoccupazione (sovraoccupazione) lascia a desiderare; ma il problema di fondo non è tanto ciò che accade quando l'economia si trova nel punto C o nel punto E, quanto se sia possibile raggiungere questi punti. Dobbiamo verificare se uno slittamento della domanda di lavoro, poniamo da N" a NvEF , può mettere in azione dei processi tendenti a raggiungere il punto d'equilibrio C (vedi fig. 2. 5). Ciascun processo di dise­ quilibrio ha due facce: le reazioni che hanno luogo sul mercato in esame e la retroazione sulle curve IS e LM dello schema Hicks-Hansen. Rimane quindi da chiedersi se il sistema di curve IS-LM, una volta influenzato d a questi processi di disequilibrio, sia in grado di generare uno slittamento delle curve NvEF o NEx tale da riportare il sistema in equilibrio. In altre parole: se le forze dinamiche di ciascun mercato isolato non sono in grado di far spostare l'economia da una posizione di disequilibrio a una di completo equilibrio, l'interazione tra i vari mercati può dar vita a un processo dinamico che riassesti completamente l'economia? L'equilibrio completo: la sintesi neo classica

Uno dei principali contributi apportati da Keynes all'analisi dei processi di disequilibrio è stata l'intuizione che gli effetti più significativi prodotti da una situazione di disequilibrio in un ceno mercato non sono tanto quelli diretti e immediati quanto quelli derivanti dalle ripercussioni che l'iniziale disequi­ librio ha avuto su tutti gli altri mercati; vale a dire, la reazione di un particolare mercato a una situazione di disequilibrio può indurre situazioni di disequilibrio in altri mercati. Sorge quindi la questione se questo sistema di reazioni reciproche tra i vari mercati conduca verso una nuova posizione d'equilibrio o se invece il processo di azione e retroazione non faccia che aggra­ vare l'iniziale stato di disequilibrio. Secondo la teoria dei prezzi, se in un mercato di dimensioni limitate e completamente isolato dagli altri mercati accade che, a un dato prezzo, la quantità offerta è superiore alla quantità domandata, il prezzo di quel prodotto su quel particolare mer­ cato tenderà a diminuire. Una tale riduzione di prezzo avrà un effetto riequilibratore sul mercato in questione, senza per altro

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CAPITOLO SECONDO

comportare alcuna conseguenza percettibile sugli altri mercati. Questo è il tipo di ragionamento che sta alla base delle analisi di equilibrio parziale. Il modello classico esamina il mercato del lavoro proprio in questo modo, anche se è assai probabile che in un'analisi a livello aggregato (quale quella del mercato del lavoro) le variazioni di prezzo e di quantità dovute a uno stato di disequilibrio abbiano ripercussioni significative sugli altri mercati. Il sentiero di riaggiustamento percorso dal sistema è de­ terminato sia dalle reazioni interne di un particolare mercato a uno stato di disequilibrio sia dall'insieme di azioni e retroazioni derivanti dall'interdipendenza tra il mercato originariamente penurbato e gli altri mercati. Nella figura 2 . 5, se supponiamo di partire da una iniziale posizione di equilibrio (punto A), una caduta della domanda farà diminuire l'occupazione; assumendo costante il saggio di salario, si verificherà quindi uno spostamento verso il punto B. Nell'esempio che segue analizzeremo il caso di una iniziale ca­ duta della domanda: nel caso opposto l'analisi è perfettamente simmetrica. A questo punto è essenziale tener presente che in un'economia capitalistica "salario" significa "salario monetario ", non salario reale. Assumiamo che il vuoto di domanda provochi una diminuzione dei salari monetari. In questo caso, poiché il livello dei prezzi è dato dal rapporto tra salario monetario e produttività del lavoro, i prezzi tenderanno a diminuire in linea con i salari. II salario monetario rientra nella determinazione del prezzo dei beni in una duplice veste: da un lato come costo, dall'altro come fonte di reddito. La diminuzione dei salari monetari per un verso tende a far aumentare la quantità di prodotto che gli imprenditori sono disposti a immettere sul mercato a ciascun livello dei prezzi, per un altro fa diminuire la quantità di pro­ dotto che ciascun lavoratore occupato può acquistare a un dato livello dei prezzi. Una deflazione salariale può dar vita a un av­ vitamento tra prezzi e salari monetari: entrambi possono variare nella stessa direzione e in proporzione pressoché identica. Vo­ lendo riassestare uno stato di disequilibrio tra salario reale e occupazione mediante reazioni interne al mercato del lavoro, una deflazione dei salari monetari rappresenta una soluzione as­ sai inefficiente: una volta avviatasi verso il livello di occupa-

L'INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

zione indicato nella figura 2 . 5 dal punto B, l'economia potrebbe rimanervi incagliata a lungo. La diminuzione del salario monetario e del livello dei prezzi avrà però un effetto sul valore reale sia della moneta (la cui quantità è fissata in termini nominali) che dei debiti. Se la mo­ neta è costituita essenzialmente dalle passività delle banche, rap­ presentate dai depositi del pubblico, allora ad essa corrisponderà un ammontare pressoché eguale di debiti privati in possesso delle banche (questa viene chiamata moneta interna). Ad ogni guadagno in termini reali dovuto a una diminuzione del livello dei prezzi e goduto da chi possiede moneta, corrisponde una perdita in termini reali a carico di chi si trova in posizione de � bitoria nei confronti delle banche. L'aumento dell'onere reale dei debiti privati dovuto a una diminuzione del livello dei prezzi induce il pubblico a ridurre la sua posizione debitoria. In tal modo possiamo osservare un processo parallelo di diminuzione dei prezzi e dei salari monetari da un lato e della quantità nomi­ nale di moneta dall'altro (soprattutto se l'offerta di moneta è di natura " interna "). Possiamo essere certi che le variazioni del salario e del livello dei prezzi (in seguito alle quali la quantità di moneta bancaria deflazionata per il livello dei prezzi tenderà ad aumentare) avranno un certo effetto sulla domanda aggregata solo se facciamo una particolare assunzione : se assumiamo cioè che mentre i creditori delle banche alterano il proprio compor­ tamento in seguito alla v·ariazione del valore reale delle loro attività finanziarie, i debitori delle banche al contrario riman­ gono indifferenti alla variazione del valore reale delle loro pas­ sività finanziarie. Vi è però una componente dell'offerta di moneta alla quale non corrisponde un pari ammontare di debiti privati verso le banche: la moneta metallica usata come circolante e riserva bancaria, le banconote emesse dal Tesoro, le emissioni di vario tipo del Tesoro in possesso delle banche e, per estensione, dei privati (banconote, monete metalliche ed emissioni del Tesoro vengono definite moneta esterna). Il valore reale di queste atti­ vità finanziarie auménta al diminuire del livello dei prezzi. L'incremento del valore reale di quella parte di moneta in possesso del pubblico cui non corrisponde un debito privato di pari ammontare è uno dei canali attraverso i quali un disequi­ librio sul mercato del lavoro si ripercuote sugli altri mercati e

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CAPITOLO SECONDO

quindi altera l'equilibrio generale raffigurato nel diagramma JS-LM. Una delle vie mediante le quali un aumento nel valore reale della moneta agisce sui mercati del modello IS-LM è dato dal­ l'aumento della quantità di moneta in termini reali della curva LM, provocandone cioè uno slittamento verso destra. Se non ci troviamo in una situazione di trappola della liquidità, tale slit­ tamento tenderà a far diminuire i saggi d'interesse, il che a sua volta può provocare un aumento degli investimenti e quindi del reddito. Talvolta ci si riferisce a questo fenomeno come al­ l' " effetto Keynes": esso può dar luogo a uno slittamento " rie­ quilibratore " della funzione della domanda di lavoro verso i l punto d'equilibrio determinato, secondo i princìpi dell'economia " classica ", dall'intersezione delle curve d'offerta e di domanda di lavoro. Tale processo può tuttavia rivelarsi poco efficiente. Un tipo di obiezione che si può sollevare a tale proposito (e che è va­ lida per ogni tipo di domanda di carattere speculativo) è che la diminuzione del livello dei prezzi può dar vita ad aspettative deflazionistiche, secondo le quali, cioè, ci si attende una costante diminuzione dei prezzi. Ciò a sua volta può provocare l'insor­ gere di aspettative deflazionistiche sul livello dei prezzi dei beni d'investimento. Poiché in una situazione come quella descritta dalla retta NDEF della figura 2. 5 gli imprenditori non solo si trovano a disporre di un potenziale eccesso d'offerta di lavoro, ma anche di un effettivo eccesso d'offerta di attrezzature pro­ duttive, durante una fase recessiva essi non. avranno difficoltà alcuna nel posticipare l'ordinazione di beni d'investimento. Quindi in una situazione di eccesso d'offerta, ogni processo di espansione della domanda che dipenda dall'andamento delle or­ dinazioni di beni d'investimento può, almeno in un primo mo­ mento, non concretizzarsi affatto. I dati sull'andamento dei consumi apparsi nel periodo a ca­ vallo del 1 940 hanno una specifica caratteristica in comune: i dati riferentisi all'andamento dei consumi durante il ciclo eco­ nomico rivelano una tendenza alla diminuzione della propen­ sione media al consumo, mentre i dati di lungo periodo mostrano che il rapporto consumo/reddito è rimasto pressoché costante. Secondo una delle spiegazioni addotte per giustificare il fatto che la propensione media al consumo è rimasta costante, la ric-

L'INTERPRETAZIONE TRADI:Z.IONALE

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chezza in termini reali sarebbe aumentata con il reddito e tale incremento avrebbe controbilanciato la tendenza del rapporto risparmio/reddito ad aumentare all'aumentare del reddito. Que­ sto fenomeno è stato interpretato come una prova che la fun­ zione del consumo di breve periodo (cioè durante il corso del ciclo) slitta verso l'alto allorché è in atto un processo di accu­ mulazione. Assumendo che un aumento della ricchezza nomi­ nale abbia gli stessi effetti sul consumo di un aumento della ric­ chezza reale possiamo affermare che la funzione del consumo slitta verso l'alto allorché la deflazione fa aumentare il potere d'acquisto in termini reali della moneta esterna e delle attività finanziarie. L'effetto sul consumo esercitato dal potere d'acqui­ sto delle attività monetarie viene chiamato "effetto saldi reali " (real-balance effect). L'assunzione chiave della sintesi neoclassica stabilisce che, volendo far diminuire il livello desiderato della frazione di reddito risparmiato, un aumento della ricchezza car­ tacea dovuto a un processo deflazionistico è tanto efficace quanto un aumento della ricchezza reale dovuto a un processo accumulativo. La deflazione del livello dei prezzi avrà l'effetto di far slittare verso destra la curva JS nel piano cartesiano (i, Y), facendo quindi aumentare la domanda aggregata. Riassumendo, diremo che la deflazione ha sulla domanda ag­ gregata due effetti di segno positivo e un effetto di segno nega­ tivo. Da un lato essa fa aumentare il valore reale della quantità di moneta (con corrispondente diminuzione dei saggi d'interesse) nonché il potere d'acquisto in termini reali di una componente della ricchezza monetaria, riducendo così il risparmio (questi due effetti tendono a far aumentare la domanda aggregata); d'altro canto la deflazione fa diminuire il livello degli investi­ menti a causa delle aspettative deflazionistiche che essa alimenta. In linea di principio gli investimenti non possono andare al di sotto di un certo limite: dato un cerro livello di utilizzazione delle attrezzature produttive, c'è un limite massimo di disinve­ stimento oltre il quale non si può andare. Per di più, lo spirito della sintesi neoclassica poco si addice a un'analisi esplicita dei possibili effetti destabilizzanti delle aspettative. A causa della trappola della liquidità, anche l'effetto sui saggi d'interesse eser­ citato da un aumento della quantità di moneta può rivelarsi di portata poco significativa. Ad ogni modo, però, il potenziale influsso che una diminuzione del livello dei prezzi può avere

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CAPITOLO SECONDO

sui risparmi è pressoché illimitato: in linea di principio questo processo, una volta messo in moto, potrebbe " piazzare " la fun­ zione del risparmio in una posizione tale che il reddito di piena occupazione potrebbe venir interamente consumato (o quasi). Ecco quindi che l'introduzione della quantità reale di moneta nella funzione del risparmio ci assicura che la funzione del­ l'occupazione (ricavata invertendo la funzione dell'offerta ag­ gregata) possa essere " costretta " a passare per il punto in cui si intersecano le funzioni " classiche " della domanda e dell'offerta di lavoro (punto A della fig. 2. 5). Ovvero il processo deflazio­ nistico ci assicura il raggiungimento di uno stato di equilibrio di piena occupazione. Uno stato di disoccupazione può protrarsi nel tempo solo se l'esistenza di lavoratori disoccupati non pro­ duce una riduzione nei salari monetari, se cioè i salari monetari sono rigidi. L'equilibrio ottenuto facendo slittare la funzione del rispar­ mio in modo tale che la quantità di lavoro domandata, ricavata invertendo la funzione dell'offerta aggregata, sia uguale al va­ lore d'equilibrio dell'occupazione sul mercato del lavoro, rap­ presenta dunque uno stato di equilibrio completo, nel senso che in esso tutte le funzioni del modello JS-LM e le condizioni di equilibrio del mercato del lavoro vengono contemporaneamente soddisfatte. Se la " perturbazione " iniziale che ha fatto muovere il sistema da uno stato di equilibrio completo verso uno di di­ soccupazione è dovuta a una variazione nell'offerta di moneta (dove per offerta di moneta si intenda moneta esterna o una combinazione di moneta interna ed esterna le cui proporzioni relative non variano), allora il processo deflazionistico, grazie al quale il sistema ritorna in posizione di piena occupazione ha effetti " neutrali ", cioè i valori reali del modello rimangono im­ mutati: la teoria quantitativa, secondo la quale livello dei prezzi e offerta di moneta variano nelle medesime proporzioni, sì dì­ mostra valida. Coloro che hanno sviluppato questo tipo di modellistica non necessariamente intendono trasformare in prescrizione di poli­ tica economica la dimostrazione teorica che, nel caso vi sia di­ soccupazione, un processo deflazionistico può far ritornare il sistema economico in posizione d'equilibrio di piena occupa­ zione (definita da parametrici meramente " tecnologici "). Queste teorie non escludono però la possibilità che la politica fiscale e

L' INTERPRETAZIONE TRADIZIONALE

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monetaria possa porre rimedio a eventuali cadute della domanda aggregata più rapidamente di una politica di deflazione. Anche se il sistema è in grado di autoregolarsi, il sentiero che pona all'equilibrio può rivelarsi troppo arduo, troppo lungo, o ad­ dirittura senza sbocco alcuno (se i salari sono rigidi). Una buona dose di politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano può ri­ velarsi utile anche se, in linea di principio, non è strettamente necessaria: secondo la sintesi neoclassica propugnare un'attività politica di piena occupazione non è in contraddizione con la convinzione teorica che l'economia possiede un automatico mec­ canismo riequilibratore. Keynes, sebbene sconfitto da un punto di vista scientifico e teorico, occupa pur sempre - secondo la sintesi neoclassica - un posto di rilievo come studioso "pratico", la cui opera cioè si rivela utile e valida per quanto concerne la politica economica. Conclusione

A conclusione del nostro viaggio attraverso vari modelli tra­ dizionali che hanno assimilato alcuni elementi della Teoria ge­ nerale, possiamo affermare che tali modelli " keynesiani " o sono banali (i modelli basati sulla funzione del consumo) o incom­ pleti (i modelli /S-LM senza mercato del lavoro) o intrinseca­ mente contraddittori (i modelli /S-LM con mercato del lavoro ma senza l'effetto saldi reali) o portano a risultati pressoché identici a quelli desunti dalla vecchia teoria quantitativa (i mo­ delli della sintesi neoclassica). Bisogna però riconoscere che il processo d'equilibrio descritto . dalla sintesi neoclassica implica una serie di variazioni simultanee c tra loro concatenate nei di­ versi mercati; la sintesi neoclassica non è un'analisi banale ed elementare, non postula uno stato d'equilibrio sul mercato del lavoro e il prodotto globale di piena occupazione non viene da essa meccanicamente introdotto nelle funzioni del mercato dei risparmi, degli i nvestimenti e della moneta. Il processo di tran­ sizione da un iniziale stato di d isequilibrio a una posizione d'e­ quilibrio può rivelarsi assai lento, in quanto i diversi mercati interreagiscono tra loro e ciascuno di essi, forse per motivi isti­ tuzionali, può non reagire affatto o reagire in modo destabiliz­ zante. Più in particolare, se il mercato del lavoro è caratteriz-

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CAPITOLO SECONDO

zato da una certa vischiosità o rigidità (dovuta probabilmente al potere dei sindacati), un eccesso d'oifena di lavoro può non tramutarsi in una riduzione dei salari monetari. Ecco quindi che la rigidità dei salari è la causa della disoccupazione: la di­ soccupazione involontaria, nel mondo neoclassico, non esiste. Additare n èlla rigidità (o nella non sufficientemente rapida velocità d'aggiustamento) dei salari la causa di tutti i mali non è certo una posizione keynesiana: Keynes, infatti, riteneva che un ipotetico regime di salari flessibili avrebbe assai probabil­ mente peggiorato la situazione. Questa opinione non si fondava esclusivamente sulla natura speculativa della domanda degli in­ vestimenti, fattore che pur riduce l'efficacia di una politica di deflazione salariale: Keynes faceva anche riferimento al processo mediante il quale il sistema bancario produce moneta interna. Una continua caduta dei salari, dei prezzi e dei flussi di cassa delle imprese fa sì che i potenziali clienti delle banche debbano sopportare per tutta · la durata dei debiti da loro contratti un onere assai più pesante. La caduta del livello dei prezzi e dei sa­ lari tende a innescare un processo deflazionistico creditizio tale da ridurre la quantità di moneta, il che non fa che aggravare la situazione sul mercato del lavoro: prezzi e salari flessibili hanno effetti destabilizzanti. Ora che abbiamo presentato in sufficiente dettaglio i mo­ delli di derivazione keynesiana che sono entrati a far parte del pensiero economico tradizionale, possiamo passare ad 11nalizzare quegli aspetti della Teoria generale che sono stati invece �ra­ scurati o ignorati completamente dagli economisti ortodossi, aspetti dai quali emerge un'immagine del processo capitalistico del tutto diversa da quella offertaci dall'economia tradizionale .

Capitolo 3 Tre fondamentali prospettive d'analisi

Introduzione

Secondo l'interpretazione del pensiero keynesiano oggi do­ minante, così come espressa dalla sintesi neoclassica, la Teoria generale proporrebbe un modello d'equilibrio che non si di­ scosta malto da quello che un raffinato discepolo di Marshall avrebbe potuto accettare ai tempi in cui scriveva Keynes. In quest'ottica, se quella che viene considerata la più importante e meno ortodossa delle affermazioni di Keynes (e cioè che in un'economia capitalistica è possibile il perdurare di uno stato di disoccupazione) è vera, lo è perché si assume che abbiano vali­ dità empirica cene rigidità (in primo luogo dei salari monetari) o certe particolari forme di relazioni funzionali (per esempio la trappola della liquidità). Una posizione ormai ortodossa è quella secondo la quale la sintesi neoclassica - cui si perviene introdu­ cendo nell'apparato keynesiano l'effetto saldi monetari reali, così da assicurare che l'equilibrio simultaneo sul mercato delle merci e su quello monetario sia coerente con l'equilibrio sul mercato del lavoro - era già implicita nel pensiero economico prekeyne­ siano. Una volta introdotto l'effetto saldi monetari reali, la teo­ ria tradizionale passa a mostrare che il meccanismo di mercato non è intrinsecamente viziato: i processi di mercato raggiungono e mantengono la piena occupazione. Inoltre, nel caso si sviluppasse e persistesse una situazione di disoccupazione, provocata da errori di politica economica o da disfunzioni istituzionali o da particolari rigidità, la teoria orto!

CAPITOLO TERZO

dossa postula la scelta tra due strade: lungo la prima l'impiego oculato della politica fiscale e monetaria fa superare gli ostacoli che impediscono il raggiungimento di uno stato di pieno equi­ librio ed elimina gli errori passati, causa di disoccupazione; lungo la seconda, invece, si possono apportare delle modifiche alle caratteristiche strutturali dell'economia che rimuovano quelle rigidità e quelle deficienze istituzionali che provocano e fanno perdurare scostamenti dalla piena occupazione. Secondo l'interpretazione neoclassica quindi l'imperituro con­ tributo apportato da Keynes riguarda essenzialmente la politica economica governativa: le sue proposizioni teoriche hanno reso intellettualmente rispettabile propugnare un atteggiamento at­ tivamente interventista nella gestione dell'economia. Se si rico­ nosce che ceni processi d'aggiustamento sono piuttosto lenti, così prosegue l'interpretazione neoclassica, si vede come una politica di intervento di tipo aggregato, ad esempio la politica fiscale e monetaria, fosse già implicita nella teoria economica classica, pur orientata in senso liberista. Ma Keynes, come mostra la sua replica alla recensione di Viner della Teoria generale, rifiutò esplicitamente una tale in­ terpretazione del proprio pe nsiero. Viner ( 1 9 3 6, p . 1 51·) asseri va che " la propensione al tesoreggiamento viene generalmente trat­ tata dalla teoria monetaria moderna come un fattore tendente a ridurre la 'velocità' della moneta, con risultati che sono in so­ stanza qualitativamente identici a quelli di Keynes ". Secondo Viner la teoria di Keynes consiste essenzialmente nell'integrare nel modello marshalliano una descrizione particolareggiata d ei meccanismi che determinano la velocità di circolazione. Non dissimile dall'interpretazione di Viner è quella fornita da Hicks ( 1 93 7), secondo cui la teoria di Keynes " è difficilmente distin­ guibile da quelle teorie marshalliane rivedute e corrette che, come abbiamo visto, non sono affatto nuove ". Keynes respinse senza mezzi termini le idee di Viner: " non posso trovarmi d'accordo con l'interpretazione di Viner", scrive Keynes e aggiunge di essere " convinto che quei teorici di eco­ nomia monetaria che tentano di trattare [la domanda di moneta] in tal modo [come Viner] sono totalmente sul binario sbagliato " ( 1 93 7a, p. 2 1 1). In questo capitolo e nei quattro che seguono proporremo un'interpretazione della Teoria generale alternativa rispetto a

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quella fornita dalla sintesi neo classica e m linea · con le idee espresse da Keynes nella sua replica a Viner. Questa interpre­ tazione alternativa mette in particolare risalto il fatto che Key­ nes ha elaborato una teoria intesa a spiegare il comportamento di un'economia capitalistica le cui istituzioni finanziarie siano estremamente raffinate. Una tale economia è intrinsecamente tarata in quanto è inevitabile che abbia un andamento ciclico: essa non è in grado, di per sé, di mantenere un regime di piena occupazione e, nel succedersi dei cicli, ciascuno stadio è transi­ torio nel senso che il sistema mette in funzione meccanismi che alterano il successivo comportamento dell'economia. Un'economia capitalistica è caratterizzata da investimenti pri­ vati e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. In un'e­ conomia capitalistica avanzata, sono le istituzioni monetarie e finanziarie a determinare il modo in cui si rendono disponibili i fondi necessari sia per l'appropriazione di attività capitali sia per la produzione di nuovi beni capitali. L'economia capitali­ stica presa in esame da Keynes è un sistema dove il settore pri­ vato dispone di portafogli finanziari, dove attività capitali e ti­ toli finanziari speculativi sono, per certi aspetti essenziali, pres­ socché equivalenti, dove le banche (definite genericamente come istituzioni specializzate in operazioni finanziarie) svolgono un ruolo importante. Nella teoria di Keynes la causa immediata di ciascuna fase ciclica è l'instabilità degli investimenti, ma la causa di fondo del ciclo economico, in un'economia dalle istituzioni finanziarie proprie del capitalismo, va individuata nell'instabilità della composizione dei portafogli e delle interrelazioni finan­ Ziane. In quelle parti della Teoria generale alle quali il pensiero eco­ nomico ortodosso (il cui momento culminante è rappresentato dalla sintesi neoclassica) è stato sempre sordo, Keynes proponeva da un lato una teoria basata sugli investimenti per spiegare le fluttuazioni della domanda reale e dall'altro una teoria basata sui rapporti finanziari per spiegare le fluttuazioni degli investi­ menti reali. La composizione desiderata dei portafogli e quindi, in generale, i rapporti finanziari sono i più evidenti ambiti deci­ sionali in cui mutamenti d'opinione sull'andamento futuro del­ l'economia possono alterare con effetti assai rapidi il compor­ tamento degli operatori. Questa estrema sensibilità è presente non solo nelle unità economiche primarie come le imprese com-

CAPITOLO TERZO

merciali e il settore famiglie, ma anche in istituZ:ioni specifica­ mente finanziarie, quali banche di investimento, banche di cre­ dito ordinario ecc. Ma il futuro è incerto. Per capire Keynes è necessario capire innanzi tutto la sua raffinata concezione del­ l'incertezza e l'importanza di quest'ultima nella sua visione del processo economico. Keynes senza incertezza è come l'Amleto senza il Principe. In questo capitolo la nostra analisi si muoverà lungo tre di­ verse prospettive che riteniamo fondamentali per interpretare e capire Keynes: la ciclicità dell'andamento economico, l'incer ­ tezza e la natura degli investimenti. In opposizione al paradigma dell'economia classica e della sintesi neoclassica, basato su un ideale sistema di baratto (l'immagine che viene in mente è quella di un contadino o di un artigiano che scambia i propri prodotti al mercato del villaggio), la teoria keynesiana si fonda su un paradigma finanziario-speculativo, che suggerisce, al con­ trario, l'immagine di un banchiere che compie le proprie transa­ zioni in una Wall Street. Seguendo queste prospettive d'analisi nei prossimi quattro capitoli deriveremo una teoria keynesiana degli investimenti e dell'andamento del sistema economico, mettendo in particolare risalto le determinanti finanziarie e speculative della realtà eco­ nomtca. La prospettiva analitica del ciclo economico

Keynes, quando spiega il motivo per cui non può accettare l'interpretazione data da Viner alla preferenza per la liquidità, ragiona in termini di ciclo economico. Il suo articolo di risposta si apre con queste parole: " Quando, come succede in un periodo di crisi ... " ( I 9 3 7a, p. 2 I I ) . Per dirla con le parole di J oan Ro­ binson ( I 97 I ), le rigidità del sistema non fornivano una spiega­ zione della disoccupazione: La tesi di Keynes non era quella che gli è stata attribuita dai "keynesiani bastardi" e cioè che i salari monetari sono rigidi per motivi istituzionali. La sua tesi era che, in un periodo di crisi, una possibile ri­ duzione dei salari non avrebbe fatto che peggiorare la situazione.

La Teo'fia generale è tutta costellata di prove che ne legit­ timano l'interpretazione come teoria di un sistema economico

TRE PROSPETTIVE D' ANALISI

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che, proprio per le sue stesse istituzioni, ha un andamento ci­ clico. Richiami a fenomeni ciclici non si trovano solo nel capi­ tolo n della Teoria generale ('' Note sul ciclo economico "), dove il tema viene affrontato in termini espliciti, e nella replica a Viner (pubblicata nel febbraio 1 93 7 sul " Quanerly Journal of Economics"), ma sono presenti in tutto il testo . Se la Teoria generale viene letta accettando come prospettiva d'analisi il fatto che l'oggetto d'esame lì considerato è un'economia capi­ talistica avanzata per la quale, in passato come in futuro, il ci­ clo economico è un tratto ineliminabile, i riferimenti che san­ ciscono la validità di un'interpretazione in termini di cicli economici appaiono evidenti in ogni pagina. Nella prefazione Keynes scriveva:

Questo libro ( ... ) è finito per diventare in sostanza uno studio delle forze che determinano variazioni nel volume della produzione e dell'oc­ cupazione in complesso ( ... ) un'economia monetaria è essenzialmente un'economia nella quale le mutevoli aspettative sul futuro influenzano non soltanto la direzione, ma anche il volume dell'occupazione ( TG p. 146).

Il primo paragrafo del capitolo 2 2 suona così: Se è fondata la nostra pretesa di aver mostrato nei capitoli precedenti i fattori che determinano, in qualsiasi momento, il volume dell'occupa­ zione, la nostra teoria d�;ve essere in grado di spiegare i fenomeni del ciclo economico ( TG p. 48 1 ) .

Analogamente Keynes, concludendo la sua replica a Viner scriveva: " Ciò che propongo quindi è questo: una teoria che spiega il motivo per cui la produzione e l'occupazione sono così soggette a fluttuare " ( 1 93 7a, p. 2 2 1). Nel 1 93 6, anno in cui apparve la Teoria generale, l'econo­ mia mondiale viveva il settimo anno della Grande Crisi. Seb­ bene vi fosse stata una considerevole ripresa rispetto al punto di svolta del 193 3 e sebbene il susseguirsi di shock e di crisi fi­ nanziarie che aveva contraddistinto gli anni 1 929- 3 3 sembrasse acqua passata, i tassi di disoccupazione rimanevano assai elevati. Negli Stati Uniti non era stato ancora raggiunto il livello re­ cord del reddito nazionale esistente alla fine degli anni venti. L'economia mondiale era stagnante e lentà a riprendersi; lo spi­ rito imprenditoriale era vivo sì, ma non certo vigoroso. La teoria economica ortodossa di quegli anni, quella che

So

CAPITOLO TERZO

Keynes chiamava la scuola " classica", non era stata in grado né di prevedere l'arrivo della crisi, né di capire perché fosse soprag­ giunta, né di spiegarne la gravità e la durata, né infine di fornire un qualche suggerimento utile di politica economica; 1 per essa gli eventi accaduti negli Stati Uniti nel periodo 1 9 29-3 3 erano inspiegabili. Keynes prese come spunto proprio quegli eventi: il suo nuovo modo di vedere la realtà avrebbe fatto dell'ecce­ zione la regola. Ovviamente in precedenza economisti (classici e non), pub­ blicisti e uomini politici avevano avanzato delle spiegazioni sulla Grande Crisi in corso. Sovrainvestimenti, sottoconsumo, ecces­ sivo indebitamento, i postumi di un'orgia speculativa, il sistema bancario a riserva parziale, errori della Banca Centrale, i sinda ­ cati (pressoché inesistenti negli Stati Uniti), l'opposizione de­ gli operai a tagli salariali, il basso livello dei prezzi agricoli, una crisi di fiducia: queste erano le spiegazioni della Grande Crisi offerte da studiosi e da sapientoni. Ciascuna di queste spiegazioni unidimensionali venne facilmente screditata; esistevano sì de­ scrizioni precise di situazioni e di processi ciclici, ma non erano inserite in un apparato analitico complessivo. Keynes propose con la T eo·ria generale un modello in grado di spiegare ogni stato ciclico del sistema economico. Questo mo­ dello inseriva certi aspetti delle svariate spiegazioni unidimensio­ nali del ciclo in una struttura analitica multidimensionale e ben integrata : Esaminando nei particolari qualunque esemp i o concreto di ciclo eto­ nomico, troveremo che è molto complesso e che ogni elemento della no­ stra analisi sarà necessario per spiegarlo completamente. In particolare troveremo che le fluttuazioni della propensione al consumo, dello stato della preferenza di liquidità e dell'efficienza marginale del capitale vi hanno tutte la loro parte ( TG p. 48 1 ) .

1

Come è stato detto sopra , alcuni economisti di scuola classica al tempb della

Grande Crisi diedero suggeriment i di politica economica che oggi considereremmo del tutto adeguati, mentr e altri loro colleghi proposero misure che oggi giudiche­ remmo insensate. I buoni consigli, però, erano basati su intuizioni e osservazioni casuali (sul buonsenso) piuttosto che su una qualsiasi teoria ben articolata. Se gli economisti che davano buoni consi gl i costituissero la maggioranza o la minoranza degli economisti di scuola classica è una questione priva di importanza. Ciò che conta è che i loro consigli, pur validi, non erano coerenti con la teoria che ess i proclamavano di seguire; come economisti non erano in grado di portare argomenti convincenti sulla val idità dei loro suggerimenti pratici.

T!IE PROSPEtTIVE D'ANALISI

BI

L'accento posto sul sottoconsumo da precedenti teorie del ciclo veniva ora inglobato nella funzione del consumo; la te­ matica del sovraindebitamento e delle imperfezioni del sistema monetario veniva riproposta in termini di preferenza per la li­ quidità, mentre la curva dell'efficienza marginale del capitale teneva conto della tesi del sovrainvestimento. Inoltre lo stato di fiducia del pubblico, ora riproposto in termini di una raffinata discussione sull'incertezza e sulle aspettative, veniva a far pane integrante della teoria come " parametro di slittamento " delle altre funzioni del sistema, delle quali determinava la posizione. Anche le precedenti disquisizioni sulla rigidità dei prezzi veni­ vano ora prese in considerazione, in quanto si riconosceva la lentezza del processo di aggiustamento dei salari e degli altri costi, cosicché, nella determinazione del livello dei prezzi, il saggio di salario reale diventava il naturale numeraire (o punto fisso). La Teoria generale non è una teoria del ciclo economico in quanto tale; è piuttosto una teoria su come viene determinato ogni esistente stato transitorio del ciclo economico e su come viene messa in crisi la stabilità di tali stati transitori. Ciascuno stato esistente è il risultato dell'interazione degli elementi di un determinato e immutabile insieme di forze di mercato, rap­ presentate dall'andamento e dalla posizione di un ristretto nu­ mero di relazioni funzionali fondamentali. Per di più, se trascu­ riamo di introdurre l'incertezza, che Keynes non formalizzò mai in misura pari a quella di altre relazioni funzionali, è pos­ sibile mettere ciascuna delle nuove e originali funzioni da lui introdotte sotto una forma simile (o analoga) a quella delle re ­ lazioni che compaiono nelle versioni formalizzate dei modelli classici. Qualora cioè si ignori l 'incertezza e la prospettiva ana­ litica del ciclo, il che è cosa da non poco, la nuova teoria po­ trebbe essere riformulata in termini di costrutti analitici già noti, prima modificati e poi rimontati in modo nuovo e origi­ nale. I concetti che di norma vengono ignorati e la cui importanza viene sminuita dalle varie interpretazioni di Keynes, vale a dire i rapporti tra gli investimenti e gli apparati finanziari, la pro­ spettiva del ciclo e l'incertezza, sono invece elementi essenziali per afferrare appieno il significato dell'apporto teorico keyne­ siano. Forse una ragione per cui la rivoluzione keynesiana è

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CAPITOLO TERZO

abortita sta nel fatto che idee nuove venivano proposte in un contesto che utilizzava gran parte degli strumenti analitici tra­ dizionali; forse ciò avvenne perché Keynes stesso non riuscì a liberarsi completamente di quei "modi abituali di pensiero e di espressione " dai quali ci metteva in guardia nella sua prefazione (TG p. 147). Nel seguito del testo cercheremo, tra l'altro, di mostrare come la profonda importanza dell'incertezza e delle variabili finanziarie nel processo d'investimento sia stata smi­ nuita dall'assunzione dell'esistenza di una curva dell'efficienza marginale del capitale con pendenza negativa. Più in partico­ lare, l'aver posto la questione del livello dei prezzi delle attività capitali in termini di tassi d'interesse ha reso meno limpido il messaggio keynesiano circa i fattori determinanti gli investi­ menti. Le relazioni funzionali della Teoria generale generano tutte quelle posizioni di breve periodo identificate come stati d'equi­ librio. Per sua intrinseca natura un equilibrio di breve periodo è transitorio. Nel caso dell'equilibrio marshalliano di breve pe­ riodo in un particolare mercato, è in atto un processo di accu­ mulazione o di decumulazione di capitale cosicché, col passare del tempo e ammesso che il processo non venga interrotto, ven­ gono soddisfatte le condizioni riguardanti lo stock di capitale necessarie per raggiungere un equilibrio di lungo periodo. Nel­ l'equilibrio marshalliano di lungo periodo non esistono forze economiche endogene in grado di provocare ulteriori cambia­ menti. Variazioni demografiche esogene, innovazioni tecnolo­ giche e cambiamenti istituzionali possono, come pure certi 'svi­ luppi politici, modificare la posizione di equilibrio di lungo periodo verso la quale tende il sistema e quindi far uscire l'eco­ nomia dal suo stato d'equilibrio; la visione di Marshall è quella di un sistema che tende verso uno stato di quiete. Ogni rimando fatto da Keynes a stati d'equilibrio va quindi interpretato come un riferimento a un insieme transitorio di variabili del sistema verso le quali converge l'economia; ma, al­ l'opposto di Marshall, non appena l'economia si accinge a rag­ giungere un tale insieme di variabili, hanno luogo delle varia­ zioni determinate endogenamente che modificano l'insieme di variabili del sistema verso le quali converge l'economia. Volendo ricorrere a un'analogia, si può immaginare un bersaglio mobile che, ammesso che sia mai raggiunto, viene colpito solo per un

TRE PROS PETTIVE D ' ANALIS I

attimo fuggente. Ogni stato del ciclo è transitorio, si tratti di boom o di crisi, di deflazione creditizia, di stagnazione o di espansione. Nel corso di uno stato di equilibrio di breve pe­ riodo, secondo Keynes, sono all'opera processi che disequili­ brano il sistema; non solo la stabilità è una meta irraggiungibile, ma non appena ci si approssima a qualcosa di simile alla stabilità, subito entrano in azione dei processi destabilizzanti. Keynes non elaborò, alla maniera di Marshall, un semplice modello con due stati di equilibrio (cioè con un equilibrio di breve e uno di lungo periodo): nel suo modello il sistema può trovarsi in uno qualsiasi dei vari stati possibili, ciascuno dei quali contiene in sé le cause della .propria distruzione. I vari stati nei quali può trovarsi il sistema sono il boom, la crisi, la deflazione, la stagnazione, l'espansione e la ripresa. Ciascuno di questi stati sistemici è menzionato nella Teoria generale e ciascuno di essi è connesso allo stato precedente e a quello successivo. Ogni stato sistemico è caratterizzato dalla forma (cioè dalla elasticità) e dalla posizione delle varie funzioni. Va dettò però che la Teoria generale non fornisce una trattazione precisa degli stati di boom, di crisi, di deflazione e di espansione. Questi stati si­ stemici sono determinati in massima parte dal comportamento del settore finanziario, ma, a parte qualche accenno, gli speci­ fici dettagli delle istituzioni finanziarie dell'economia non sono esaminati da un punto di vista sistemico. Questi sono solo alcuni aspetti dei problemi sollevati dalla Teoria generale e dalla replica a Viner che le interpretazioni e gli sviluppi dell'economia keynesiana ortodossa hanno sempre ignorato. L'economia keynesiana convenzionale è qualcosa di simile a un modello mutilato a due stati nel quale l'equilibrio di sottoccupazione tipico di una fase recessiva sfocia, con uno sfa­ samento temporale più o meno lungo, in una posizione di equi­ librio di piena occupazione. L'errore insito nell'asserzione di Hicks ( 1 93 7), secondo cui "la teoria generale dell'occupazione è la teoria economica della depressione ", venne generalmente accettato da tutti, in quanto si vedeva nello stato di sottoccu­ pazione sia il tratto " originale " della Teoria generale sia l'aspetto più significativo da un punto di vista pratico nella situazione esistente nell'economia mondiale dell'epoca. La Teoria generale non sempre espone in modo chiaro la successione ciclica dei vari stati sistemici; vi sono anzi due ben

CAPITOLO TERZO

distinte idee di ciclo economico: da un lato un ciclo debole, che possiamo identificare con il ciclo smorzato del modello accele­ ratore-moltiplicatore, dall'altro un ciclo assai accentuato con violente oscillazioni tra boom e crisi. Nel capitolo r 8 della Teo­ ria generale (pp. 4 1 0-19) Keynes traccia a grandi linee un mo­ dello di ciclo economico debole che potrebbe essere a ragione considerato come il prototipo dei vari modelli di interazione moltiplicatore-acceleratore ad andamento non esplosivo. Il ci­ clo economico lì descritto si basa su un meccanismo moltiplica­ tivo non eccessivamente potente e sull'idea di un rendimento prospettivo degli investimenti che presenta fluttuazioni non troppo marcate. Tale modello moltiplicativo degli investimenti è considerato adeguato a spiegare le caratteristiche salienti della nostra esperienza concreta: che cioè il nostro mondo economico oscilla, evitando i più gravi estremi delle fluttuazioni dell'occupazione e dei prezzi in ambo i sensi, intorno a una posizione intermedia, sensibilmente al di sotto dell'occupazione piena e sensibilmente al di sopra di quel livello minimo dell'occupazione, al di sotto del quale si metterebbe in pericolo l'esistenza (TG p. 419) .

I l ciclo economico del capitolo 1 8 non contempla né boom né crisi. Nei capitoli 1 2 e 2 2 , nella replica a Viner e in vari passi della Teoria generale viene invece descritto un ciclo assai sostenuto, con i suoi boom e le sue crisi. Va detto però che né la Teoria generale né i pochi articoli di Keynes successivi ad essa (nei quali spiegava la sua nuova teoria) contengono una definizione e una spiegazione adeguate del boom e della crisi. Quegli svi­ luppi finanziari che nel corso del boom fanno sì che l'eventua­ lità di una crisi sia, se non cena, assai probabile, vengono solo accennati senza essere esaminati in modo esauriente. È questo il vuoto logico, il passaggio mancante della Teoria generale così come !asciataci da Keynes nel 1937 dopo la sua replica a Viner. La tradizione interpretativa che ha dato vita all'odierna teoria macroeconomica ortodossa non ha tenuto in considerazione proprio le specifiche articolazioni finanziarie keynesiane e quindi quegli stati sistemici le cui caratteristiche sono più spiccata­ mente finanziarie, vale a dire il boom, la crisi e la deflazione creditizia. Se si vogliono afferrare appieno le potenzialità proprie

TRE PROSPETTIVE D' ANALISI

·

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della Teoria generale per interpretare e comprendere il capitali­ smo contemporaneo, bisogna dare forma compiuta a ciò che Keynes ha trattato solo in modo frammentario e non rigoroso. Anche se boom e crisi non sono stati esaminati in modo siste­ matico nella Teoria generale sono proprio essi gli elementi chiave per capire le indicazioni di Keynes. Il fatto che Keynes non abbia discusso esplicitamente e con precisione i particolari concernenti b oom e crisi non deve distoglierci dall'affrontare il tema. All'inizio degli anni trenta, periodo durante il quale fu con­ cepita la Teoria generale, il grande crollo di Wall Street era impresso nella memoria di tutti: per rendere accette le proprie idee non era necessario riferirsi esplicitamente e ripetutamente al grande crollo. Alla fine della prima guerra mondiale, per l'Inghilterra (in buona parte a causa dell'inopportuno ritorno della sterlina alla parità prebellica, ritorno cui Keynes, come è noto, si oppose strenuamente) era iniziata una fase di disoccupazione cronica e di funzionamento ridotto dell'apparato produttivo. La stagna­ zione degli anni venti trovava facile spiegazione da parte della tradizione classica in termini di contraddizione tra il livello in­ terno dei prezzi espresso in sterline e il livello dei prezzi dei beni inglesi espresso in dollari, definito dal tasso di cambio. La sta­ gnazione inglese del decennio 1 9 20-30 non suscitò il bisogno di una nuova teoria economica: per rendere coerente la vecchia teoria bastava far presente il fatto che i salari e la composizione della produzione industriale si adeguavano con lentezza a una situazione mutata in modo radicale. Infatti, con la svalutazione della sterlina del I93 I , l'Inghilterra visse un breve periodo di "piccolo boom ", sebbene stesse progredendo una depressione su scala mondiale. La stagnazione degli anni venti poté essere spiegata senza uscire dai confini delle vecchie teorie: il saggio sulle Conseguenze economiche di Winston Churchill ( I 92 sa), ove Keynes tratta del ritorno della sterlina alla parità prebellica, non si discosta dal filone classico. Il fatto anomalo che fece venire alla luce la nuova teoria fu dunque il grande crollo di Wall Street e ciò che ad esso seguì. Mentre il periodo in cui fu concepito il TratttTto sulla moneta ( I 9 3 ob) coincise con il periodo di stagnazione cronica dell'In­ ghilterra (il Trattato si muove all'interno della tradizione clas-

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CAPITOLO TERZO

sica), la Teoria generale fu concepita negli anni della Grande Crisi, fatta scattare da una depressione economica cui seguì un processo deflazionistico creditizio che dagli Stati Uniti si estese a tutta l'economia mondiale. Keynes però non ci presenta al­ cuna teoria esplicativa della crisi. Per completare il quadro dob­ biamo dunque colmare questa lacuna: senza un modello che ge­ neri endogenamente boom, crisi e deflazioni creditizie, la teoria di Keynes resta incompiuta.2 L'i11c;ertezza

La descrizione dell'incertezza e del processo decisionale in condizioni d'incertezza rappresentavano per Keynes interessi intellettuali di vecchia data. Egli lavorò per quindici anni, con varie interruzioni, al suo Trat1:J11iJ sulla probabilità pubblicato nel I Q 2 J . In questo lavoro Keynes affronta il problema di quelle "assenioni che ( ...) sono razionali e che, senza pretendere di essere certe, rivendicano però una certa importanza" (p. 3), ar­ gomentando che " diverse quantità di informazioni ci consen­ tono di avere diversi gradi di convinzione razionale circa una data proposizione " (ibid.). Nell'opera Keynes distingue tra la probabilità di una certa proposizione e il peso ad essa attribuito: A mano a mano che aumentano le comprove pertinenti a nostra di­ spusizione il valore quantitativo della probabilità di una data asserzione può aumentare o diminuire, a seconda che l'informazione ottenuta raf­ forzi le prove a favore o a sfavore di quella asserzione, ma in ambo i casi qualcosa sembra essersi accresciuto ( ... ) in quanto la disponibilità di nuove comprove fa aumentare il peso dell'asserzione in esame ( 1 92 1, p. n).

L'idea di Keynes qui espressa è che a, cioè il grado di con­ vinzione razionale (o probabilità) attribuito a una proposizione, è condizionale rispetto alle comprove esistenti h; una proposi­ zione probabilistica viene qu'indi indicata come a/ h. Anche 2 Possiamo assumere che l ' idea di fondo della descrizione data da Irving Fìsher ( 1933) del periodo successivo a una crisi sia stata accettata da Keynes come prìm� approssimazione del comportamento post-crisì del sistema economico. t lecito assu­ mere inoltre che allora sì ritenesse che un andamento simmetrico del sistema avesse ì uogo dur ante un periodo di boom . Va aggiunto infine che Fisher non fu in grado di offrire nessuna spiegazione teorica della crisi.

TRE PROSPETTIVE D'ANALI SI se

in alcuni casi assai semplici (ciò che accade, ad esempio, su un tavolo da gioco non truccato), possiamo assegnare ad a/h un preciso valore numerico, tenendo presente le circostanze obiet­ tive, e scrivere quindi O � a/ h � 1 , in tutti gli altri casi - i più diffusi in realtà e i più impananti per la teoria economica non esistono criteri obiettivi (sui quali cioè osservatori di con­ sumata abilità possano trovarsi completamente d'accordo) che ci consentano di giungere a un tale grado di precisione nume­ rica. Eppure è necessario prendere decisioni anche in quei casi in cui non è possibile attribuire con obiettività un qualche pre­ ciso valore numerico a una data asserzione. Tali decisioni ven­ gono prese come se tuttavia fosse possibile attribuire oggetti­ vamente un qualche valore alle diverse probabilità: possiamo denominare questo tipo di probabilità, definita senza avere a disposizione informazioni sufficienti, " probabilità soggettiva ". Essa, essendo basata su una conoscenza incompleta, va soggetta

a variazioni repentine e sostanziali; i processi decisi in base a t �li stime possono quindi mostrare cambiamenti rapidi e mas­ _ stcct. Secondo Keynes, oltre alla probabilità assegnata a una pro­ posizione condizionale in base a considerazioni oggettive o sog­ gettive, esiste un altro fattore soggettivo nel processo decisio­ nale: se le varie probabilità attribuite a dati eventi vengano effettivamente utilizzate o meno come guida all'azione, dipende infatti dal grado di sicurezza (o peso) ad esse assegnato. Nel

Trattato sulla probabilità Keynes riteneva che un incremento nelle comprove a disposizione facesse aumentare il peso, o grado

di sicurezza, attribuito a una proposizione. Ma nel contesto dei problemi economici trattati nella Teoria generale, riguardanti il processo mediante il quale le imprese, le banche e le famiglie prendono decisioni sul futuro, vi sono eventi, per esempio le crisi, che possono far diminuire in modo radicalé il grado di si­ curezza assegnato alle varie opinioni sull'andamento futuro del sistema. Fatti nuovi possono sia alterare le distribuzioni proba­ bilistiche soggettive associate a determinati eventi futuri, sia ac­ crescere o ridurre il grado di sicurezza che ciascuno attribuisce alle proprie opinioni. Non è imponante per il nostro ragionamento verificare se lo schema di decisione dualistica avanzato da Keynes nel Trat­

tato sulla probabilità

(cioè da u n lato stime soggettive delle pro-

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CAPITOLO TERZO

babilità in esame e dall'altro un'autonoma attribuzione di pesi alle comprove a disposizione) sia il modo più appropriato di formulare il processo decisionale in situazioni d'incertezza. Forse questo problema potrebbe essere affrontato in modo mi­ gliore da uno schema diverso, assumendo per esempio che le distribuzioni probabilistiche soggettive siano variabili e che le funzioni di preferenza rispetto all'incertezza possano cambiare. Ciò che invece è significativo, anzi fondamentale, quando si voglia interpretare Keynes, è tenere presente il fatto che egli giunse ad analizzare i problemi di scelte economiche dove com­ pare la dimensione temporale (e quindi l'incertezza) e a studiare il componamento di un sistema economico dove tali scelte svol­ gono un ruolo importante, armato di un apparato filosofico as­ sai sofisticato che gli consentiva di esaminare decisioni prese in base a una conoscenza incompleta della realtà. È bene ricordare che questo schema intellettuale permea tutta la sua teoria eco­ nomica. Keynes inoltre riteneva che non vi fosse alcun modo di rimpiazzare l'incertezza così definita con proposizioni cene ad essa equivalenti; egli credeva che le proposizioni probabili­ stiche in questione e il peso ad esse attribuito fossero soggetti a variazioni non casuali e imprevedibili, ma rispondenti agli eventi della realtà. Il processo decisionale in situazioni di incertezza, tema affron­ tato da Keynes nel Trattllto sulla probabilità, è un argomento centrale della Teoria generale. Nella sua replica a Viner Keynes tenne moltissimo a distinguere le proprie idee sull'incenezza · da quelle dei suoi maestri e colleghi, Marshall, Edgeworth e Pigou. La teoria di questi ultimi, secondo l'interpretazione di Keynes ( 1 937a, pp. 2 1 2 sg.), assumeva che, a ogni dato istante fatti e aspettative fossero fissati in modo chiaro e suscettibile di calcolo; si supponeva che il rischio - del quale, pur menzionandolo, non si teneva conto - potesse essere sotto­ posto a un calcolo attuariale esatto. Secondo tale teoria il calcolo della probabilità - menzionato sì ma poi lasciato sullo sfondo - sarebbe in grado di ridurre l'incertezza alla stessa stregua della certezza, attribuen­ dole cioè un carattere misurabile.

Keynes passò poi a definire che cosa egli intendesse per cono­ scenza " incerta" :

TRE PROS PETIIVE o' ANALI SI

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Quando parlo di conoscenza "incerta" mi riferisco semplicemente alla distinzione tra ciò che si sa per certo da ciò che è solo probabile. Il gioco della roulette non è in questo senso soggetto a incertezza, né lo è la pro­ spettiva che venga estratta una particolare cartella delle obbligazioni Victory. La durata della nostra esistenza è anch'essa solo parzialmente incerta. Persino le condizioni atmosferiche sono incerte solo in misura assai moderata. Io uso questo termine nello stesso senso in cui si può dire che è incerta la prospettiva di una guerra europea o sono incerti il prezzo del rame o il livello del tasso d'interesse che vigeranno tra vent'anni o sono incerte l'obsolescenza di una nuova invenzione o la posizione che avranno nel sistema sociale del 1 970 i proprietari privati di ricchezza. Riguardo tali questioni non esiste nessuna base scientifica sulla quale co­ struire un qualsivoglia tipo di probabilità suscettibile di misurazione pre­ cisa: non ne sappiamo semplicemente nulla. Nondimeno la necessità di agire e di prendere decisioni ci costringe, in quanto uomini pratici, a fare del nostro meglio per non tener conto di questa scomoda circostanza e a comportarci come faremmo se avessimo a nostro sostegno il buon con­ teggio benthamiano di una serie di vantaggi e di svantaggi futuri - cia­ scuno moltiplicato per la sua appropriata probabilità - in attesa solo di essere sommati gli uni agli altri ( 1937a, pp. 2 1 3 sg.) .

L'uso di far equivalere a proposizioni incerte altre proposi­ zioni note con certezza - così caro agli studiosi accademici - è per gli uomini pratici una mera convenzione, rispettata solo a parole, e abbandonata non appena emergano prove che la con­ traddicono. Di fronte all'incertezza e alla " necessità di agire e di prendere decisioni" noi ricorriamo a delle convenzioni: assumiamo che il presente sia una "guida utile per il futuro ", assumiamo che le attuali condizioni di mercato ci forniscano buone norme di con­ dotta riguardo ai mercati futuri e " ci sforziamo ad adeguarci al comportamento della maggioranza o della media della gente " (Keynes, 1937a, p . 2 1 4). Con fondamenta così fragili, le nostre opinioni sul futuro "sono soggette a variazioni repentine e vio­ lente " (ibid., pp. 2 1 4 sg .) : "Tutte queste graziose .tecniche deci­ sionali fatte per le pareti ben rivestite di un· Consiglio d'Ammi­ nistrazione e per un mercato che si comporta a dovere sono destinate a crollare di schianto " (ibid., p. 2 1 5). È quindi l'incertezza a sminuire l'importanza che la teoria tra­ dizionale attribuisce alle funzioni di produzione e a stabili fun­ zioni di preferenza quali fattori determinanti il comportamento

CAPITOLO TERZO

del sistema. L'incertezza interviene in modo decisivo nella deter­ minazione del comportamento economico in due casi: nelle scelte di portafoglio delle istituzioni finanziarie, delle imprese e delle famiglie e nelle opinioni che hanno circa il rendimento fu­ turo dei beni capitali imprese, proprietari di beni capitali e isti­ tuti di finanziamento industriale. Quando si interpreta la Teoria generale bisogna tener pre ­ sente che Keynes è stato, innanzitutto, l'autore del Trattato sulla probabilità. Investimenti e disequilibrio

Nella replica di Keynes a Viner la domanda effettiva, con le sue fluttuazioni, è costituita da due componenti: consumi e inve ­ stimenti . Il "volume di beni di consumo che è profittevole pro­ durre ( . ) è connesso, tramite la formula del moltiplicatore, ( ... ) al volume di beni di investimento " ( 1 937a, p. 2 20), così che " la Teoria può essere riassunta in poche parole dicendo che, dato l'atteggiamento psicologico della gente, il livello della produzione e dell'occupazione aggregate dipende dal volume degli investi­ menti " (ibid., p. 2 2 1 ) La teoria di Keynes è la teoria di un ciclo generato dall'andamento degli investimenti, in cui il consumo mette in moto un processo di amplificazione passivo, cosicché le fluttuazioni degli aggregati economici sono determinate dalle fluttuazioni degli investimenti. Il volume degli investimenti è destinato a fluttuare per .

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motivi del tutto diversi a) da quelli che determinano la propensione degli individui a risparmiare parte di un dato ammontare di reddito e b) dalle condizioni tecniche di miglioramento della produzione in termini fisici, condizioni che sono state usualmente considerare come quelle aventi la ' maggiore importanza nel regolare l'efficienza marginale del capitale (ibid., p. 2 ! 8).

I cambiamenti nell'andamento degli investimenti, causa im­ mediata delle fluttuazioni economiche, non sono dovuti a cam­ biamenti nella produttività tecnica del capitale o nell'amore per il risparmio delle famigli"e: persino se questi due fattori fossero stabili e ben definiti, gli investimenti sarebbero nondimeno sog­ getti a fluttuare. Quei " motivi del tutto diversi" fanno perno sulle preferenze

' TRE PROSPETTIVE D ANALISI

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di portafoglio, sulle condizioni di finanziamento e sull'incertezza. La teoria economica keynesiana differisce da quella neoclassica in quanto introduce in un modello di comportamento sistemico l'incertezza propria di un'economia capitalistica decentralizzata, un'economia cioè dove ciascuna famiglia e, cosa più importante, ciascuna impresa commerciale (comprese le banche e le altre istiruzioni finanziarie) non solo prende decisioni circa l'impiego immediato del reddito, ma anche circa l'allocazione intertempo­ rale di portafoglio. L'introduzione esplicita della dimensione temporale fa sì che venga assai sminuita l'importanza sia della funzione di produzione - in quanto fattore determinante la pro­ duzione, gli investimenti e la distribuzione del reddito dell'eco­ nomia - sia dell'idea stessa di equilibrio. Per Keynes il più importante punto di riferimento immediato, in base al quale vengono prese le decisioni di investimento e di portafoglio, è costituito da valutazioni soggettive sulle opzioni di scelta lungo un certo orizzonte temporale, valutazioni che pos­ sono mutare col tempo. Innanzitutto, "gli uomini d'affari giocano una partita mista di a.bilità e di fortuna, i cui risultati medi per i giocatori non sono noti a coloro che entrano nel gioco " ( TG p. j 1 0). Eppure imprenditori e proprietari di ricchezza devono prendere delle decisioni. Di conseguenza, l'effetto sull'andamento dell'economia derivante dalla necessità di decidere in condizioni di informazione incompleta è che gli investimenti delle imprese possono avere un andamento instabile persino se le sottostanti relazfoni produttive rimangono stabili. Gli effetti dell'incertezza sulla composizione preferita di portafoglio e le conseguenze de­ rivanti dal progressivo aggiustamento dei portafogli verso la composizione desiderata possono essere tali che l'equilibrio verso il quale converge il sistema non solo vari in continuazione, ma anche assai rapidamente. Il comportamento dell'economia è dun­ que caratterizzato dall'azione di tendenze equilibratrici piuttosto che dal raggiungimento di un definitivo stato d'equilibrio. L'eco­ nomia keynesiana, in quanto teoria economica del disequilibrio, è la teoria del disequilibrio permanente.

Capitolo 4 Meccanismo di finanziamento capitalistico e determinazione del prezzo dei beni capitali

Introduzione

Il funzionamento di un'economia capitalistica è direttamente influenzato dall'incertezza in quanto quest'ultima incide profon­ damente sulla struttura finanziaria, ovvero sulle relazioni esistenti tra i portafogli-titoli delle varie unità economiche. Un portafoglio ­ titoli (che consiste di attività delle quali si mantiene il controllo o la proprietà e di passività emesse appunto per finanziare l'acqui­ sto e la gestione di attività) implica, per sua stessa natura, l'esi­ stenza di unità decisionali la cui posizione corrente rispecchia le opinioni che esse hanno avuto (e hanno) circa le prospettive di successo di determinati agenti economici e circa l'andamento dell'economia in generale. Nel quarto libro della Teoria generllle (" L'incentivo a investire ") Keynes affronta il tema dell'incidenza dei rapporti finanziari sull'andamento della domanda aggregata. Sfortunatamente la sua discussione sui meccanismi di finanzia­ mento e sulle scelte di portafoglio, nonché sul modo in cui questi due fattori sono connessi alla determinazione dei prezzi dei beni capitali e all'andamento degli investimenti, non brilla ceno per chiarezza. Questa oscurità è in parte dovuta alla sua decisione di togliere il prezzo dei beni capitali dagli argomenti della funzione di preferenza per la liquidità; Keynes, invece di introdurre espli­ citamente il prezzo dei beni capitali e le condizioni del credito nella sua trattazione della scelta di portafoglio, ha elaborato la propria analisi unicamente in termini di tassi d'interesse. Inoltre, proprio nell'affrontare il problema chiave della determinazione

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del prezzo relativo delle varie attività reali e finanziarie, egli ha abbandonato la prospettiva analitica del ciclo (predominante in ogni altra sezione del libro) per adottare l'ottica della crescita in condizioni d'equilibrio. A causa di questi errori analitici, gli interpreti dell'opera di Keynes hanno sminuito o addirittura ignorato la reale pregnanza del suo discorso teorico. In questo capitolo in primo luogo analizzeremo brevemente i rapporti finanziari capitalistici in termini di flussi di contante; successivamente riformuleremo la funzione della preferenza per la liquidità introducendovi esplicitamente i prezzi dei beni capi­ tali; infine esamineremo la relazione esistente tra la valutazione delle attività reali e finanziarie e finanziamento delle posizioni di portafoglio. Flussi di contante e domanda di moneta

In un'economia capitalistica è possibile caratterizzare ciascuna unità economica in base al tipo di portafoglio che questa detiene, ovvero all'insieme di attività finanziarie e reali di cui è proprie­ taria e all'insieme di passività finanziarie cui deve far fronte. (l contratti di nolo e di affitto rappresentano anch'essi attività e pas­ sività finanziarie : esattamente come nel caso di titoli obbligazio­ nari essi mettono in essere flussi di contante.) In linea di principio ciascuna unità economica può " piazzare " sul mercato le attività di cui è proprietaria e assumere ulteriori passività finanziarie. Ogni agente economico effettua scelte di portafoglio e ogni scelta di portafoglio consiste di due elementi interdipendenti: da un lato bisogna decidere quali attività vadano cedute, quali rite­ nute e di quali si debba mantenere il semplice controllo; dall'altro bisogna scegliere il modo in cui finanziare la posizione di porta­ foglio assunta (ovvero l'eventuale proprietà o controllo delle atti­ vità in questione). Volendo rimanere fedeli alla terminologia usata da Keynes diremo che attività e passività rappresentano delle annualità: esse cioè danno origine a entrate e uscite di con­ tanti lungo un certo intervallo temporale (che può essere fisso o variabile). In termini più moderni possiamo dire che attività e passività mettono in essere una successione datata di flussi di con­ tante attesi, cioè incassi o esborsi in contante. Le varie attività e passività possono essere classificate in modi diversi a seconda del tipo di flussi di contante che esse mettono

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' CAPITOLO QUARTO

in essere: tali flussi, infatti, possono aver luogo a date precise oppure dietro semplice richiesta o essere condizionali rispetto a qualche evento particolare; possono dipendere dal funzionamento generale dell'economia o essere privi di clausola alcuna; possono essere connessi all'impiego o al possesso (oppure all'acquisto o alla vendita) di una certa attività patrimoniale, e così via. Nelle economie capitalistiche contemporanee la gamma di possibili tipi di pagamenti in contante è assai ampia: tutti i pagamenti ai fattori di produzione (salari, rendite, interessi, profitti) rappresentano flussi di contante, così come lo sono tasse e trasferimenti, acquisti di beni finali e intermedi, nonché pagamenti su strumenti fi­ nanzian. I flussi di contante inoltre variano a seconda del loro grado di certezza. I flussi di contante che un impianto specializzato nella produzione di determinati prodotti chimici è in grado di gene­ rare, �na volta in funzione, a favore dell'impresa che ne mantiene la proprietà, dipendono da costi e ricavi. Questi ultimi, a loro volta, dipendono dal successo dell'impresa nel proprio settore industriale, dall'andamento dell'industria e, più in generale, dalla congiuntura economica. Inoltre, in linea di principio, un flusso di contante potrebbe scaturire anche dalla vendita dell'intero impianto chimico. Forse la vendita di un intero impianto chimico specializzato è un fatto inconsueto, ma, se si tiene conto delle transazioni concernenti il trasferimento di filiali operative, l'im­ piego di beni patrimoniali per rastrellare contante non è dopo tutto un caso tanto raro da consentirci di ignorarne la possibi­ lità al momento di stabilire il valore di una data attività. N è gli Stati Uniti, passata la mania dell'accentramento di gestione de­ gli anni sessanta, molte organizzazioni industriali hanno rastrel­ lato contante o comunque hanno alterato la propria posizione di cassa mediante la vendita di proprie consociate. Esistono inoltre alternative meno drastiche della vendita totale di attività patrimoniali: si può infatti ottenere contante dando in pegno o ipotecando beni capitali sui quali non penda alcun precedente impegno e dei quali si sia proprietari; senza contare che, in un'e­ conomia nel cui sistema finanziario siano presenti società azio­ narie conglomerate e gruppi finanziari di controllo, è sempre possibile ottenere contante vendendo o impegnando le azioni ordinarie di una consociata. I flussi di contante che il proprietario di un'attività patrimo-

FlNAN'l.lA.MEN'IO CAPl'IALlS'IlCO E BEN I CAPlTA.Ll

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niale operativa (quale un impianto chimico) può ricavare dalla vendita o dall'ipoteca di quest'ultima sono soggetti a un enorme grado di variabilità. L'ammontare di contante ricavabile dalla vendita o dall'ipoteca di un impianto chimico dipende dalle opinioni degli operatori (esistenti e potenziali) di altri impianti chimici, nonché dalle opinioni dei direttori delle banche di credito ordinario e d'investimento circa la capacità dell'im­ pianto chimico in questione (sotto l'attuale gestione o con un'amministrazione diversa) di generare flussi di contante, te­ nuto conto delle previsioni sull'andamento generale dell'econo­ mia. Le fortune di una normale impresa commerciale non di­ pendono solo dall'andamento del mercato del bene che essa produce e dalle condizioni alle quali essa può assumere forza lavoro e altri fattori produttivi, ma anche dall'andamento dei mercati finanziari e dalle condizioni alle quali essa può prendere a prestito, vendere le proprie attività patrimoniali o emettere nuove azwm. In contrapposizione al carattere condizionale dei flussi . di contante ricavabili dalla vendita o dall'impiego di u n impianto chimico , l'ammontare dei flussi di contante generato da uno strumento di debito pubblico (un buono del Tesoro, per esem­ pio) è pressoché certo, almeno in termini nominali e ammesso che vengano rispettate le clausole del contratto. È però risaputo che, al di là di ogni ragionevole dubbio, lo Stato onora semp re gli impegni descritti nel contratto. In un'economia capitalistica avanzata, inoltre, gli strumenti del debito pubblico e soprattutto i buoni del Tesoro a breve vengono trattati su mercati ad ampia partecipazione (il numero dei proprietari di buoni cioè è assai alto), dove il volume degli scambi è molto cospicuo; tali mer­ cati hanno un andamento elastico, nel senso che il prezzo di un qualsiasi strumento del debito pubblico, qualora venga alterato da momentanei eccessi di domanda o di offerta, ritorna sempre al suo livello originale. In caso di impellente necessità il proprie­ tario di uno strumento del debito pubblico a breve può vendere e ottenere contante pari all'incirca al valore nominale dei titoli venduti. Nella decisione circa l'acquisto o meno di strumenti del debito pubblico a più lunga scadenza, invece, incidono an­ che elementi speculativi, sebbene anche qui il rispetto delle clau­ sole contrattuali sia fuori dubbio. Infatti il potere d'acquisto dei flussi di contante può variare in seguito a variazioni nel livello

CAPITOLO QUARTO

generale dei prezzi. Ricordiamo infine che il prezzo di mercato di uno strumento del debito pubblico di non breve scadenza riflette, ad ogni istante di tempo, la struttura dei tassi d'inte­ resse di mercato. Il denaro liquido - la moneta in senso stretto - rappresenta dal punto di vista dei flussi di contante un'attività finanziaria del tutto particolare, un pianeta con impegni finanziari assai complessi. A differenza dei depositi a risparmio e dei titoli del Tesoro, la moneta è un'attività finanziaria che non dà al suo possessore alcun rendimento pecuniario netto. La circostanza che la moneta e le altre attività finanziarie espresse in termini nominali possano accrescere il proprio valore reale in seguito a una diminuzione del livello generale dci prezzi non è pertinente al nostro discorso. Lo specifico valore della moneta consiste nel fatto che essa ha una forma tale da consentirci di effettuare pa ­ gamenti in contante. Se un agente economico deve effettuare un certo pagamento e dispone di buoni del Tesoro è necessario, nella stragrande maggioranza dei casi, prima vendere i buoni del Tesoro per poi utilizzare il ricavato per effettuare il paga­ mento richiesto. Il possesso di moneta contante elimina la stessa ragion d'essere di una tale transazione : è comodo di­ sporre di " attività nello stesso riferimento nel quale possono venire a scadenza passività future " (TG p. 40 1 ). In un mondo in cui le posizioni debitorie del pubblico sono espresse in moneta, la moneta è un'attività finanziaria sicura per far fronte a tali impegni. Per la moneta esiste sempre un mercato in quanto gli agenti economici i cui impegni finanziari siano espressi in moneta sono costretti a cercare attivamente di procurarsela. La moneta non è un'attività il cui valore sia in­ variante rispetto al reddito in quanto il livello dei prezzi dei beni esistenti è soggetto a variazioni. Né il valore della moneta è invariante rispetto ad altre attività (incluso il capitale reale), in quanto il valore monetario delle attività finanziarie e reali può cambiare. Il valore della moneta è invariante solo rispetto ai contratti e agli impegni di pagamento espressi in termini mo­ netari, siano essi debiti, tasse o transazioni correnti. Una volta ammesso che l'incrociarsi di rapporti finanziari rappresenta un fattore di fondamentale importanza per il fun­ zionamento dell'economia, viene naturale considerare la moneta e il sistema monetario come punto di partenza della teoria eco·

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nomica. L'importanza del tutto speciale della moneta in un'e­ conomia capitalistica non discende dal fatto che essa è il mezzo per effettuare i pagamenti: anche in un'economia socialista la moneta è un mezzo di pagamento, senza per questo essere un elemento chiave per la determinazione del livello della produ­ zione, dell'occupazione, degli investimenti e dei prezzi, in quanto un'economia socialista è priva delle interrelazioni finanziarie proprie del capitalismo; speculare sul valore dell'apparato pro­ duttivo è una caratteristica esclusiva del sistema capitalistico. Il paradigma analitico adatto per lo studio di un'economia capita­ listica non è quello tipizzato da un sistema di baratto, ma quello in cui vi sia una City o una Wall Street, in cui il possesso di attività finanziarie e le transazioni correnti vengono finanziate da prestiti. Solo in certi casi, osserva R. W. Clower ( 1 969), è vero che l'aspetto specifico di un'economia monetaria consiste nel fatto che ad alcune merci (nel contesto ora in esame, a tutte le merci tranne una) non viene riconosciuto il ruolo di possibile o effettivo mezzo di pagamento. Con un aforisma diremo: la moneta acquista merci e le merci acquistano moneta, ma le merci non acquistano merci.

L'aforisma di Clower non riesce a cogliere l'aspetto carat­ terizzante della moneta in un'economia capitalistica. In un mondo dove le passività finanziarie in mano a privati vengono utilizzate per acquistare il controllo o la proprietà . di attività, sono proprio queste passività finanziarie ad " acquistare " i beni capitali. Chi dispone di un conto in banca indirettamente finan­ zia l'acquisto o il controllo di beni capitali da parte di altri. Le passività finanziarie in mano ai privati mettono in essere tutta una serie di impegni di cassa. Famiglie e imprese normal­ mente ottengono il contante necessario per far fronte ai propri impegni grazie alla loro attività d i produttrici di reddito, ovvero grazie a Bussi di contante quali i salari, i ricavi delle vendite e i profitti lordi. Il possesso di moneta - e di quelle attività finan­ ziarie che costituiscono la quasi-moneta (vale a dire i depositi al risparmio, i certificati di deposito ecc.) - funge da " polizza d'assicurazione " nel caso l'economia - (o ceni mercati partico­ lari) dovesse funzionare in modo irregolare e indesiderato, nel caso cioè i Bussi di contante derivanti dall'attività economica

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oppure ottenibili mediante transazioni finanziarie dovessero di­ mostrarsi insufficienti per far fronte ai bisogni. Bisogna infine ricordare l'esistenza di unità economiche quali gli istituti di credito e le compagnie d'assicurazione il cui nor­ male funzionamento necessita di un regolare introito di contanti; quest'ultimo viene assicurato, ammesso che i mercati finanziari abbiano un andamento regolare, dalla vendita di attività finan­ ziarie di cui tali unità sono proprietarie e dall'emissione di nuove passività. Banche e compagnie assicurative inoltre incas­ sano contanti allorché scadono i termini dei contratti finanziari di cui esse sono beneficiarie (ammesso che i contraenti onorino i propri impegni). Per unità finanziarie di questo tipo, così come per le imprese e le famiglie, il mero possesso di moneta contante agisce da polizza assicurativa contro eventuali " buchi " negli introiti di contante dovuti a inadempienze contrattuali con­ cernenti i titoli in loro proprietà o all'andamento irregolare dei mercati sui quali esse prendono moneta a prestito o vendono le proprie attività. Le equazioni della domanda di moneta ovvero della preferenza per la liquidità

In un'economia contraddistinta da rapporti finanziari assai elaborati e complessi, l'insieme di transazioni che determina la domanda di moneta è molto più vasto dell'insieme di transazioni fistche dalle quali dipende il reddito disponibile, la cui impor­ tanza è stata invece sottolineata dalla teoria quantitativa tradi­ zionale. Di particolare importanza sono le transazioni che si ri­ feriscono agli impeg�i di pagamento in contanti stipulati nei contratti finanziari, all'acquisto e alla vendita di attività, nonché agli strumenti di pagamento necessari per finanziare tali opera­ zioni. Il fatto che la moneta, in un mondo incerto, possa avere usi diversi da quello transazionale sta alla base della teoria della preferenza per la liquidità di Keynes. La versione fisheriana dell'equazione fondamentale della teoria quantitativa - cioè l'equazione degli scambi M V = PT, dove M = moneta; V = velocità di circolazione; P = livello dei prezzi; T = insieme di transazioni per e ffettuare le quali è necessaria la moneta - riesce a cogliere gli aspetti finanziari dell'uso di moneta meglio della " versione di Cambridge " dell'equazione della teoria

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quantitativa, e cioè: Mv = kPO, dove Mv = domanda di moneta; k = proporzione del reddito domandato in moneta; P = livello dei prezzi dei beni finali; O = beni finali in termini reali. Infatti se scriviamo la formula di Fisher per esteso, e cioè l:M; V; = l:Pi Ti (dove l'indice i si riferisce ai diversi tipi di moneta e di velocità di circolazione e l'indice j si riferisce ai diversi tipi di livello dei prezzi e di transazioni economiche), possiamo mettere in risalto l'importanza degli scambi in cui non vengono transatte merci fi_ siche, ovvero le transazioni finanziarie. La formula di Fisher espressa in termini di reddito ( M V = PO) nonché la normale versione della formula di Cambridge (M v = kPO) si limitan o invece a porre in risalto la connessione tra domanda di moneta e domanda di beni finali: queste due equazioni quindi, proprio perché formulate in termini di merci fisiche, ignorano completa­ mente l'effetto esercitato dalle transazioni finanziarie sulla do­ manda di moneta. Nella Teoria generale Keynes distingue tre diversi motivi per tenere moneta: quello transazionale, quello precauzionale e quello speculativo. Egli prende come punto di partenza la for­ mula di Cambridge (cosa più che naturale, visto il suo retroterra culturale), il cui scopo analitico è, secondo Keynes, di eviden­ ziare i motivi per cui si detiene moneta. Si tiene moneta a scopo transazionale per " superare l'intervallo fra la percezione e l'e­ rogazione del reddito" (TG p. 3 5 8) e per coprire " l'intervallo fra il tempo nel quale si sostengono i costi dell'impresa e il tempo nel quale si ottengono i ricavi di vendita " (TG p. 35 8). Quando passa ad analizzare il motivo precauzionale, Keynes fa rilevare l'importanza di disporre di " un'attività avente un valore fisso in termini di moneta allo scopo di far fronte a una succes­ siva obbligazione, anch'essa fissa in termini di moneta " (TG p. 3 59). Introducendo la domanda di moneta a scopo specula­ tivo, afferma che essa è dovuta allo " scopo di trarre profitto dal conoscere meglio del mercato ciò che il futuro arrecherà " (TG p. 3 30). Nella Teoria generale però Keynes non segue fino in fondo le indicazioni analitiche che discendono da questa defini­ zione in quanto non sottolinea il fatto che fare profitti mediante operazioni speculative implica un apprezzamento, o un deprez­ zamento, delle attività. L'elemento chiave sul quale fa perno la domanda speculativa di moneta è costituito dalla misura in cui si ricorre a prestiti per finanziare l'acquisto di attività il cui

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prezzo è soggetto a oscillazioni: i prezzi attesi di tali attività e le condizioni alle quali si prende moneta a prestito sono le due variabili che determinano la domanda speculativa di moneta. Keynes formulò la domanda di moneta nei seguenti termini ( TG p. 362): dove L1 indica la funzione della liquidità corrispondente a un certo livello di reddito Y e " L2 è la funzione di liquidità del saggio d'interesse r " (TG p. 362). In questa formula L1 rappre­ senta il motivo transazionale e L2 quello speculativo: Keynes elimina così il livello atteso dei prezzi dei beni capitali dall'in­ sieme di elementi che determinano la domanda speculativa di moneta. A nostro avviso è invece essenziale introdurre esplicita­ mente il livello dei prezzi dei beni capitali, PK , quale fattore determinante la domanda di moneta. In tal modo è possibile te­ ner conto degli effetti sul p rezzo dei beni capitali dovuti a va­ riazioni nella quantità di moneta (che danno luogo a spostamenti lungo la funzione della preferenza per la liquidità) o nello stato delle aspettative (che provocano uno slittamento di tutta la fun­ zione). La domanda di moneta va quindi scritta nel modo se­ guente:

[ l '] dove r sta a indicare il saggio d'interesse sui prestiti monetari. Accettando questa formulazione, se M è data, la domanda spe­ culativa di moneta può fungere da determinante del livello dei prezzi dei beni capitali. Attenendosi alla definizione keynesiana di domanda di mo­ neta per scopi precauzionali, la domanda di moneta, in un'eco­ nomia dove il rapporto tra reddito e ammontare degli effetti finanziari in circolazione è variabile, andrebbe scritta così: dove L3 rappresenta il motivo precauzionale connesso all'esi­ stenza di effetti finanziari in sospeso a carico di privati, indicati dal simbolo F. Volendo, potremmo aggiungere a questa for­ mula la domanda di moneta per finanziamenti che Keynes, nel suo scambio con Ohlin, ammise essere un elemento importante.

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In tal caso F aumenterà all'aumentare del livello desiderato ( ov­ vero ex ante) degli investimenti (Keynes, 1937b, c); l'espansione degli investimenti fa aumentare gli impegni futuri di pagamento dando così luogo a una domanda di fondi liquidi a scopo pre­ cauzionale. La domanda di moneta a scopo precauzionale e assicurativo può inoltre venir soddisfatta da certi strumenti finanziari che potremmo chiamare quasi-moneta, QM. La domanda netta di moneta, in definitiva, può essere formulata come segue: M = M1 + Mz + M3 - M4 = = L1(Y) + L2(r, PK) +L 3( F) - L4 ( QM)

dove L4 rappresenta l'effetto liquidità dovuto alla presenza di quasi-moneta, QM. Secondo l'equazione [ 1 ] , data una certa quantità di moneta, quanto più elevato è il livello del reddito, tanto più è alto il saggio d'interesse. Secondo l'equazione [ r '] , data una certa quantità di moneta, quanto più elevato è il reddito, tanto più alto è il saggio d'interesse e tanto più basso è il prezzo dei beni capitali, nel caso si verifichi un movimento lungo la curva della preferenza per la liquidità. Ma se per reddito più elevato in­ tendiamo un maggior grado di certezza nei proventi ricavabili dalla proprietà di beni capitali, allora avremo uno slittamento dell'intera funzione della preferenza per la liquidità, cosicché, per una data quantità di moneta, a un livello più elevato di red­ dito corrisponderà un livello più alto sia del saggio d'interesse che dei prezzi dei beni capitali. Secondo l'equazione [ 2 ] , dati il livello del reddito e la quan­ tità di moneta, quanto maggiore è il livello di F (cioè l'ammon­ tare degli impegni finanziari dei privati), tanto più alto sarà il saggio d'interesse e tanto più basso il prezzo dei beni capitali. Secondo l'equazione [ 3 ] infine, dati il livello del reddito, la quantità di moneta e l'ammontare degli impegni finanziari (com­ preso il livello desiderato degli investimenti), quanto maggiore è la quantità di quasi-moneta (depositi al risparmio e buoni del Tesoro) tanto minore è il saggio d'interesse e tanto maggiore il prezzo dei beni capitali. Nel momento in cui si introduce la quasi-moneta, si intro­ duce del pari un meccanismo per la determinazione endogena della quantità effettiva di moneta, in quanto si ammette l'esi-

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stenza di istituzioni finanziarie per le quali la quasi-moneta co­ stituisce una passività. Nella misura in cui la creazione di quasi­ moneta riflette un fabbisogno di finanziamenti, un periodo di innovazioni finanziarie può dar luogo al contemporaneo rialzo sia del prezzo dei beni capitali sia del saggio d'interesse sui pre­ stiti monetari. Ecco quindi che in un sistema dove la quantità effettiva di moneta è determinata dalle scelte delle banche e degli istituti finanziari, si può assumere che il saggio d'interesse " sia determinato dall'interazione tra le condizioni alle quali il pubblico desidera essere più o meno liquido [cioè prendere a prestito ] e le condizioni alle quali le banche sono disposte a rendersi più o meno illiquide [cioè dare a prestito] " (Keynes, 1 9 3 7c, p. 666). La natura multidimensionale della domanda di moneta è ac­ cennata nella Teoria generale senza però venir esaminata a fondo. Si potrebbe essere tentati di dire che Keynes, nel mo­ mento in cui tiene conto della natura poliedrica della domanda di moneta, non si discosta molto dalla visione di Fisher della domanda di moneta a scopo essenzialmente transazionale. Ma l'a­ spetto veramente originale introdotto da Keynes, che ha reso la sua formulazione della domanda di moneta molto più pre­ gnante del mero elenco dei vari tipi di transazioni possibili sti­ lato da Fisher, consiste nell'aver connesso la domanda specula­ tiva di moneta ai saggi d'interesse e al prezzo dei beni capitali. È un peccato che Keynes abbia formulato la funzione della pre­ ferenza per la liquidità in termini di saggio d'interesse, inteso sia come saggio d'interesse sui prestiti bancari sia come indice indiretto del livello dei prezzi dei beni capitali (che così scom­ paiono dalla scena), incorrendo in ambiguità che hanno reso meno comprensibile la sua teoria. Valore delle attività e finanziamento delle posizioni di portafoglio

Rispondendo alle critiche di Viner, Keynes ( 1 9 3 7a, pp. inizia la propria descrizione delle funzioni della moneta notando che 2 r 5 sg.)

la moneta, come è noto, assolve due funzioni principali. In primo luogo essa, fungendo da unirà di conto, favorisce il processo di scambio pur senza

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mai comparire come oggetto concreto: essa rappresenta un utile strumento che però non ha alcun effetto reale. In secondo luogo la moneta è una scorta di valore ; almeno questa è la storia che ci viene raccontat a senEa una parola di spiegazione. Nel mondo dell'economia classica è difficile im­ maginare un impiego della moneta più insensato di questo! Una caratteri­ stica propria della moneta in quanto scona di valore è che essa non è fruttifera, mentre al contrario praticamente tutti i modi per accu mulare

ricchezza fruttano un certo interesse o profitto. Perché mai dovrebbe esi­ stere una persona, esclusi i pazzi rinchiusi nei manicomi, desider osa di utilizzare la moneta come scorta di valore? (Corsivo mio.)

La risposta di Keynes a tale interrogativo è che il mondo nel quale viviamo non corrisponde a quello ipotizzato dall' " eco­ nomia classica " ; la realtà è incerta in quanto esiste un p assato, un presente e un futuro. Non solo: la realtà in esame è que lla di un sistema capitalistico nel quale gli agenti economici possi edono portafogli-titoli, cioè attività e passività nelle quali sono cristal­ lizzate le opinioni passate degli operatori e dalle quali s caturi­ scono gli incassi e gli obblighi di pagamento presenti e futuri. In una realtà segnata dall'incertezza i portafogli devono necessa­ riamente avere una natura speculativa. La gente domanda mo­ neta come scorta di valore perché in un sistema dove è impos­ sibile non speculare (dove cioè prendere una decisione significa fare una scommessa) la moneta non è infruttifera. Come ab­ biamo notato poco sopra, la moneta, al giorno d'oggi, assomiglia a una polizza assicurativa, nel senso che possederla significa porsi al riparo dalle ripercussioni dovute a particolari eventi sfavorevoli. Ecco quindi che teniamo moneta perché "il pos­ sesso di moneta liquida acquieta le nostre inquietudini e la ricompensa necessaria per indurci a privarci di moneta è l'in­ dice del grado delle nostre ansie " (Keynes, 19 37a, p. 2 1 6). Come, allorché aumentano i premi assicurativi ha luogo un processo di sostituzione nei confronti delle assicurazioni stesse, analoga ­ mente quando aumenta il costo del denaro, cioè il saggio di interesse, ha luogo un processo . di sostituzione nei confronti della moneta. Keynes aggiunge: L'importanza di questa caratteristica della moneta è stata solitamente trascurata; i pochi autori che hanno esaminato questo fenomeno, ne hanno descritto gli aspetti fondamentali in modo inadeguato, in quanto si sono

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soffermati essenzialmente sulla quantità di moneta tesorizzata. Essi hanno supposto che tale grandezza svolgesse un ruolo importante, poiché ritene­ vano che essa, agendo sulla velocità di circolazione, avesse un effetto di­ retto sul livello dei prezzi. La quantità di moneta tesorizzata può venir modificata solo se varia la quantità complessiva di moneta o se varia il livello del reddito monetario corrente (volendo porre la questione in ter­ mini schematici) . Le fluttuazioni nel grado di fiducia del pubblico invece possono avere conseguenze del tutto diverse ; esse cioè, invece di alterare l'a!lliTlontare di moneta effettivamente tesorizzato, possono modificare il livello della ricompensa necessaria per indurre il pubblico a non tesoriz­ zare. Le variazioni nella propensione al tesoreggiamento (ovvero in ciò che ho definito come lo stato di preferenza per la liquidità) incidono diretta­ mente sul saggio d'interesse e non sul livello dei prezzi; quest'ultimo può invero variare, ma solo al termine di una serie di ripercussioni provocate dalla variazione del saggio d'interesse (ibid. ).

Ricordiamoci però che ovviamente " un aumento nella pro­ pensione al tesoreggiamento fa aumentare il saggio d'interesse e quindi riduce il prezzo di tutti i beni capitali esclusa la moneta " (Keynes, 1 937b, p. 2 5 1 ). Nella sua replica a Viner Keynes afferma che la domanda di moneta a scopo speculativo influisce sul prezzo dei beni capitali in modo indiretto, mediato dall'effetto sul saggio di interesse: La prima ripercussione del saggio di interesse, fissato in base alle quan­ tità di moneta e alla propensione al tesoreggiamento, è quindi sui prezzi dei beni capitali. Ciò non significa naturalmente che il saggio d'interesse sia l'unico fattore che può influire sull'andamento di questi prezzi. Le opinioni circa il rendimento futuro atteso dei beni capitali sono a loro volta sog­ gette a fluttuazioni assai marcate proprio per il motivo che abbiamo testé ricordato, ossia perché tali opinioni si fondano su conoscenze oltremodo aleatorie: Il prezzo dei beni capitali viene quindi determinato in base a queste opinioni e al saggio d'interesse ( 1937a, p. 2 1 7).

Keynes tratta il rapporto tra il saggio di interesse e il prezzo dei beni capitali facendo riferimento a due mercati: su un mer· cato vengono determinati i l livello dei saggi di interesse e l'am· montare di prestiti monetari, sull'altro vengono determinati i prezzi dei beni capitali. La nostra analisi invece tratta i rapporti tra queste grandezze finanziarie in termini sequenziali, nel senso che un disequilibrio o una variazione in un mercato influisce st� ll'altro e ciascuno di essi ha un suo particolare periodo di ag· giUstamento.

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Segue quindi che il valore delle attività la cui proprietà frutta un ceno rendimento in termini di flussi di contante dipende dal premio che i proprietari di ricchezza sono disposti a pagare per una polizza che li assicuri contro l'incertezza, polizza che prende la forma di moneta liquida. La gente infatti, forse in base a ra­ gionamenti poco fondati, crede che la moneta abbia un potere assicurativo maggiore di tutti gli altri tipi di attività. Non appena ci si rende conto che la moneta rappresenta anche una polizza d'assicurazione e che l'insieme di transazioni per le quali si impiega moneta include sia pagamenti finanziari che pagamenti connessi al processo produttivo, sorge però un interrogativo: qual è l'evento contro il quale la moneta ci as­ sicura? Una ragione per la quale un percettore di reddito detiene moneta liquida è la possibilità che sopravvengono " tempi duri" durante i quali i flussi di contante derivanti dal reddito perce­ pito possono subire una riduzione inaspettata. Esistono però attività liquide, quali depositi al risparmio e titoli obbligazionari, che assolvono tale compito cautelativo molto meglio della mo­ neta, ammesso che il pubblico li consideri titoli "sicuri ". Un'al­ tra ragione per tenere moneta è che il suo possesso allontana il pericolo di dover vendere titoli per ottenere contanti a condi­ zioni sfavorevoli, qualora il ponafoglio-titoli e le operazioni produttive non generino abbastanza contante per far fronte ai pagamenti sulle passività. È quindi possibile che determinate at­ tività debbano essere vendute per fronteggiare certi impegni di pagamento. A questo punto sorge però un'altra questione: per­ ché la struttura delle passività di un'organizzazione economica dovrebbe essere tale che gli impegni di pagamento in contante non possano essere coperti dagli introiti derivanti dalle sue ope­ razioni produttive e dai ricavi sui quali le attività finanziarie in suo possesso le danno diritto? Che tipo di pagamenti possono costringerla a vendere le proprie attività? Nel capitolo 1 7 della Teoria generale (" Le proprietà essen­ ziali dell'interesse e della moneta") Keynes analizzò questi pro­ blemi in profondità, ma in modo piuttosto oscuro. Lì egli tratta il meccanismo di valutazione delle attività: la sua analisi, per quanto suggestiva e penetrante, è tuttavia errata in quanto egli tralascia di esaminare le varie strutture delle passività e gli im­ pegni di pagamento che queste comportano, questioni che pure

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CAPITOLO QUARTO

aveva trattato nella sua definizione di domanda di moneta a fini precauzionali. Il capitolo I 7 risulta poco chiaro anche per un'al­ tra ragione : in esso Keynes ricade, seguendo per così dire un secondo istinto nascosto, nel mondo dell'economia classica. Se­ condo l'analisi contenuta in questo capitolo il processo d'accu­ mulazione provoca una diminuzione del rendimento dei beni capitali, forse perché assume che la produttività diminuisca al variare della proporzione in cui vengono utilizzati i fattori pro­ duttivi. Di conseguenza arriva un momento nel quale il rendi­ mento implicito che la moneta offre per le sue caratteristiche di liquidità sarà maggiore del rendimento esplicito ottenibile dai beni capitali di nuova produzione. In queste pagine le vec­ chie idee, contro le quali Keynes stesso ci aveva messo in guar­ dia nell'introduzione, prendono il sopravvento, almeno in parte. Proprio in un punto cruciale dell'analisi Keynes abbandona la prospettiva analitica del ciclo economico (secondo la quale gli investimenti, i portafogli, le strutture delle passività sono tutti determinati in base a considerazioni speculative) per abbracciare invece l'ottica delle teorie del ristagno secolare e dell' esauri­ mento delle possibilità d'investimento. Noi cercheremo di riproporre l'analisi esposta nel capitolo I 7 della Teoria generale in modo tale da far emergere in tutta la loro portata le idee originali di Keynes, e a tal fine condur­ remo la nostra analisi in un contesto ciclico speculativo, intro­ ducendo esplicitamente le varie strutture delle passività. Così modificata l'analisi keynesiana ci fornisce gli elementi per spie­ gare il fenomeno dei boom speculativi degli investimenti e 'per sviluppare una teoria delle crisi che ci permetta di capire per­ c?é questi boom contengano in sé i semi della propria distru­ ZIOne. Il capitolo 1 7 non esamina in modo esauriente il processo di valutazione delle attività dal quale dipende il succedersi degli stati transitori del sistema, ovvero il tragitto del ciclo economico. Qui Keynes riprende la nozione classica di processo economico come processo d'equilibrio di crescita e di accumulazione. L'e­ lemento assente in questo capitolo della Teoria generale è la nozione di ciclo, con boom e crisi, che invece costituisce un con­ cetto chiave di tutta l'opera e della replica di Keynes a Viner. Secondo le idee espresse nel capitolo I 7, quando ha luogo u n processo d i accumulazione, l'efficienza marginale (ovvero il

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rendimento) delle attività reali diminuisce cosicché, prima o p oi, l'efficienza marginale di tutti i tipi di mezzi di produzione ri ­ producibili cade al di sotto del rendimento implicito (l'efficie nza marginale) reso dalla moneta sotto forma di liquidità. Con il progredire dell'accumulazione il rendimento atteso di ogni at­ tività reale riproducibile deve necessariamente andare al di sotto del rendimento non pecuniario ricavabile dal possesso di mo­ neta (cioè in termini di liquidità). Non appena il rendimento (cioè le quasi-rendite) di un particolare bene capitale scende sotto la soglia segnata dal rendimento implicito della moneta, la pro­ duzione di tale bene, cioè la produzione di beni d'investime nto, viene immediatamente sospesa. Keynes afferma che quando il rendimento atteso dei beni capitali diminuisce, è la moneta ad assumere un ruolo dominante, perché, se vogliamo che il saggio di rendimento monetario sui capitali reali sia eguale al saggio d'interesse implicito sulla moneta, allora alle quasi-rendite dob­ biamo aggiungere l'incremento atteso del valore dei beni capi­ tali. Il prezzo corrente di questi ultimi deve raggiungere un li­ vello così basso (ovvero l'incremento atteso del prezzo di tali beni deve essere così elevato) da essere inferiore al livello atteso dei costi di produzione dei beni capitali. St entriamo nell'ottica del ciclo economico e se teniamo conto esplicitamente dei flussi monetari, possiamo ottenere in un modo molto più naturale lo stesso risultato derivato da Key­ nes nel capitolo I 7, ovvero possiamo mostrare come il prezzo corrente di mercato dei beni capitali possa essere inferiore a l loro costo di produzione. Così facendo non solo arriviamo alla stessa conclusione di Keynes, ma rimaniamo più aderenti alla sua concezione del processo capitalistico quale emerge dalla Teoria generale e dalla sua replica a Viner. Il capitolo I 7 è dedicato all'analisi del prezzo relativo delle attività, o meglio, al prezzo relativo dei beni facenti parte dello stock di capitale. Keynes distingue " tre attributi che i diversi tipi di beni capitali posseggono in grado diverso ": Alcuni d i essi ( ... ) producono un reddito o prodotto q ( . . .) Inoltre essi, salvo la moneta, vanno perlopiù soggetti a un certo deperimento o impli­ cano qualche costo a causa del semplice trascorrere del tempo ( ... ) ossia implicano un costo di mantenimento c ( ... ) Infine il potere di disporre di un bene capitale durante un certo periodo può offrire una comodità o

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sicurezz.a potenziale (. .. ) L'ammontare ( ... ) [in termini di flussi di contante ai quali si è rinunciato] che la gente è disposta a pagare per la comodità ' o sicurezza potenziale data da questo potere di disponibilità (escluso il reddito o il costo di mantenimento di quel capitale), sarà da noi chiamato il suo premio di liquidità l ( . .. ) Il provento totale atteso dalla proprietà di un bene capitale in un ceno periodo è dunque uguale al suo rendimento meno il suo costo di mantenimento più il suo premio di liquidità, ossia è uguale a q - c + l ( TG pp. 3 89 sg. ) .

I rendimenti totali attesi dalla proprietà dì differenti beni capitali sono dati dalla somma, in proporzione diversa, di questi diversi tipi di remunerazioni:

È caratteristica di ogni bene capitale utilizzato, sia un capitale strumen­ tale ( ... ) o un capitale di consumo (. .. ), che il suo reddito supera normal­ mente il costo di mantenimento, mentre il suo premio di liquidità è proba­ bilmente trascurabile ( ... ) Al contrario, è caratteristica della moneta che il suo reddito è zero, e il suo costo di mantenimento trascurabile, ma il suo premio di liquidità notevole ( ... ) Pertanto una differenza essenziale fra la moneta e tutti o quasi tutti gli altri beni [è] che per la prima il premio d i liquidità supera d i molto i l costo d i mantenimento, mentre per i secondi il costo di mantenimento supera di molto il premio di liquidità (TG pp. 390 sg.).

I flussi di contante espliciti e imp l iciti q- c + l vengono ca­ pitalizzati in modo da ottenere il valore del bene capitale, ov­ vero il suo prezzo di domanda. Key n es ritiene che " in equili­ brio, i prezzi di domanda ( . ..) in te rmini di moneta saranno tali che non vi sarà da scegliere un'alternativa più vantaggiosa dél­ l'altra " (TG p. 392); l rappresenta un reddito non pecuniario, mentre q - c è un flusso monetario, quindi per ottenere il prezzo di domanda dei beni capitali con rendimento q è necessario ca­ pitalizzare a un saggio comune una combinazione di flussi mo­ netari impliciti (l) ed espliciti (q - c). Comunque il rapporto tra q e il prezzo di domanda dei beni capitali che rendono q varia inversamente rispetto al rendimento implicito l del bene capi ­ tal e in questione. La somma dì interessi e profitti ricavabili da una certa attività divisa per il suo valore di mercato rappresenta un flusso di contante che sarà tanto maggiore quanto più illi­ quida è l'attività. Il saggio di rendimento pecuniario varia in­ versamente rispetto a quelle variabili che indicano la facilità con la quale si può vendere una certa attività e la certezza del suo

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prezzo di vendita, come ad esempio la qualità del mercato sul quale viene scambiata l'attività in questione e il periodo tempo­ rale mancante alla sua scadenza. È bene notare che capitalizzando q nel caso di un'attività illiquida (cioè un'attività per la quale l è uguale a zero) otte­ niamo un valore che non rappresenta il prezzo di vendita sul mercato: il valore ottenuto non è che una stima del flusso di contante atteso derivante dalle operazioni produttive. Esso non può essere considerato come un potenziale prezzo di mercato perché in tal caso l'attività in questione avrebbe un certo grado di liquidità e quindi, nella determinazione del prezzo di mer­ cato, bisognerebbe tener conto del fattore l. Dobbiamo esaminare . più da presso questi flussi di contante e in particolare quelli percepiti dai proprietari di attività, non­ ché il flusso di contante derivante dal "potere di disporre di un bene capitale " (TG p. 390), che Keynes considerava molto importanti. Dobbiamo soprattutto concentrarci sul modo in cui il prezzo relativo di mercato delle attività varia al variare del valore attribuito al fattore liquidità l. Un agente economico può generare un flusso di contante a su·o favore tramite la vendita di un'attività in suo possesso. Que­ sto flusso può e ssere un multiplo, molto maggiore dell'unità, del flusso dei rendimenti futuri attesi (q) ricavabili da quell'at­ tività. Il valore preciso di questo multiplo dipende sia dal valore del saggio al quale vengono scontati i rendimenti futuri attesi, sia dalla durata del periodo durante il quale ci si attende che essi affluiscano. Nel caso esista un mercato vivace sul quale u n agente economico può vendere l e attività i n suo possesso, i l po­ tere di disporre di tali attività permette a ciascun proprietario di vendere, se lo vuole, le proprie attività ricavandone un flusso di contante. Questo fatto offre una comodità o sicurezza potenziale che non è uguale per le diverse specie di capitali, anche se abbiano uguale valore iniziale ( ... ) L'ammontare (sem­ pre misurato in termini del berie medesimo) , che la gente è disposta a pa­ gare per la comodità o sicurezza potenziale data da questo potere di d ispo­ nibilità (escluso il reddito o il costo di mantenimento di quel capitale), sarà da noi chiamato il suo premio di liquidità (TG p. 390).

È bene notare che nel passo citato il premio per la liquidità non corrisponde alla differenza tra i prezzi di due diverse atti-

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vità, ma piuttosto rappresenta la differenza nei flussi di contante attesi (o stipulati per contratto) di attività diverse, il cui valore di mercato è identico. Keynes distingue tre diversi tipi di attività: i beni strumen­ tali, la moneta e lo stock di merci liquide. I beni strumentali fruttano un certo rendimento q; lo stock delle merci liquide comporta certi costi di mantenimento e di deterioramento c; la moneta non frutta niente né comporta costi di mantenimento, ma è liquida, l, ovvero possiamo disporne con estrema facilità. · Il rendimento q di una attività è il flusso di contante ottenibile dal suo impiego produttivo o sancito da un contratto. Nel caso degli impianti produttivi in senso stretto q rappresenta la quasi­ rendita marshalliana, ovvero la differenza tra ricavi totali e co­ sti vivi. Le spese d'ammortamento non sono altro che una parte delle quasi-rendite, da cui vengono distinte per ragioni mera­ mente contabili. Esse fanno parte del flusso di cassa disponibile al quale siamo qui interessati. Secondo Keynes il prezzo d'offerta del prodotto finale è maggiore della somma dei costi vivi margi­ nali, persino nelle industrie concorrenziali, in quanto a questi ultimi bisogna aggiungere i costi delle utilizzazioni (user costs) , definiti come il massimo valore attuale delle quasi-rendite future attese alle quali si rinuncia utilizzando nel periodo corrente gli impianti produttivi, cosicché essi non possono essere utilizzati in futuro. La natura delle quasi-rendite può essere illustrata ricorrendo alle curve dei costi che appaiono nei manuali di teoria dei pre:z,zi. Nella figura 4. 1 abbiamo tracciato il solito insieme di curve dei costi di breve periodo, basato sui costi vivi dell'impresa che opera su un mercato concorrenziale. Essa ha di fronte una curva di domanda infinitamente elastica, rappresentata nella fi­ gura 4. 1 dalla retta C-C'-C": al prezzo OC l'impresa può ven­ dere qualsiasi ammontare di prodotto. La curva dei costi varia­ bili medi (C VM) rappresenta la somma dei costi vivi totali (per l'acquisto di forza lavoro e materie prime) divisa per il volume della produzione. Questa analisi non tiene conto delle spese fisse e generali; tracciando la curva C VM non abbiamo considerato l'ammortamento del capitale, ovvero ciò che Keynes chiamava costo delle utilizzazioni. Questo ultimo non è un costo vero e proprio: esso in realtà fissa, per ogni tipo di prodotto, il livello

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minimo di quasi-rendite, tale da indurre le imprese a util izzare i propri impianti produttivi anziché !asciarli inattivi. Il volume della produzione che massimizza i profitti dell'im­ presa è indicato nella figura 4. 1 dal valore 00'. La differenza tra ricavi totali e costi variabili totali rappresenta la quasi­ rendita; nella figura 4. 1 il rettangolo OC x OO' rappresenta il ricavo totale e il rettangolo OA X OO' i costi variabili totali, perciò l'area tratteggiata ACC'A' costituisce la quasi-rendita, ossia ciò che Keynes chiamava q. Nel caso l'impresa abbia una certa struttura debitoria allora, nel periodo temporale preso in esame nella figura 4. 1 , essa dovrà ripagare in contanti l'interesse sui propri debiti. È assai probabile che i pagamenti degli inte­ ressi siano indipendenti dal livello della produzione; co nseguen­ temente la curva C VM + interesse viene ottenuta sommando ai costi variabili medi i pagamenti degli interessi. L'area ABB'A ' costituisce quindi i pagamenti totali degli interessi, ovvero ciò che, secondo noi, Keynes intendeva per c. La differenza tra quasi-rendite lorde e pagamenti degli interessi rappresenta il profitto totale al lordo delle tasse. Se il contratto stipulato dall'impresa per ottenere un prestito prevede la costituzione di un fondo d'ammortamento, allora gli impegni di pagamento in contante saranno maggiori del puro

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e semplice pagamento degli interessi ABB'A'. In base a tali con­ siderazioni finanziarie, l'impresa è costretta a utilizzare pane dei profitti al lordo delle tasse per far fronte ai propri impegni fi­ nanziari. Nel caso infatti i contratti finanziari abbiano una sca­ denza sufficientemente breve, i pagamenti in contante richiesti per onorare gli impegni finanziari dell'impresa possono essere superiori alle quasi-rendite complessive. Quali implicazioni tale eventualità abbia per le imprese e per i mercati finanziari, lo esamineremo nel seguito della nostra analisi. La quasi-rendita q è dunque un flusso di contante indipen­ dente dalla struttura delle passività dell'impresa: è questo il concetto di reddito usato per stabilire il valore di mercato dei beni strumentali gestiti dall'impresa. In un mercato perfetto del capitale, dove incertezza e liquidità non hanno influsso alcuno sulla valutazione delle attività, è presumibile che vengano sod­ disfatte le seguenti eguaglianze: il valore attuale dei flussi q- c sarà uguale al valore di mercato delle azioni ordinarie; il valore attuale di c sarà uguale al valore di mercato dei debiti e la somma di queste due grandezze sarà sempre uguale al valore attuale di q , ovvero la struttura dei debiti di un'impresa non influisce sul valore assegnatole dal mercato. Se invece entriamo nel contesto analitico del ciclo economico e se vogliamo stabilire il valore della liquidità, dobbiamo tener conto, nel concetto di profitto lordo liquido, delle spese connesse al finanziamento· dell'attività produttiva e degli oneri fiscali. Lo stock di merci liquide - Keynes lo ammette esplicita­ mente - comporta ceni costi di mantenimento e deperimento: non a caso in un esempio egli parla di grano, chiarendo subito che, perché sia profittevole immagazzinarlo, è necessario che l'incremento atteso del prezzo del grano sia abbastanza cospi­ cuo da coprire perlomeno le spese dovute al deterioramento del prodotto, all'affitto del magazzino e all'interesse sul costo del grano maturato in tutto il periodo in cui esso viene immobiliz­ zato. Ovviamente parlando di beni immagazzinabili, come il grano, si pensa subito alle spese di finanziamento. Tali spese però non vengono menzionate esplicitamente nel capitolo 1 7 anche se Keynes, nell'esempio nel quale determina il saggio d'interesse implicito in termini di grano, utilizza il saggio d'interesse mone­ tario (vèdi TG p. 397). Prendiamo ora in esame un bene strumentale che rende una

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quasi-rendita q e uno stock di merci liquide il cui possesso com­ porta un costo di mantenimento c. Il prezzo di domanda cor­ rente di una merce liquida deve essere inferiore al prezzo che ci si attende prevalga al termine del periodo durante il quale la merce in questione viene tenuta immobilizzata cosicché l'incre­ mento atteso nel valore del capitale investito sia maggiore delle spese di finanziamento e di deterioramento È importante rile­ vare che la variabile d'aggiustamento, le cui variazioni, cioè, fanno sì che la quantità esistente della merce venga utilizzata direttamente o aggiunta alle scorte, è rappresentata dal prezzo corrente della merce deperibile in esame. Se al prezzo iniziale esiste un eccesso d'offerta, allora il prezzo continuerà a dimi­ nuire fintanto che tale eccesso non viene assorbito da acquisti per l'utilizzazione immediata della merce o per l'aumento delle scorte. Allo stesso tempo sono i prezzi correnti e futuri ad agire da bussola di orientamento per la produzione. Se i costi di man­ tenimento sono particolarmente elevati, in quanto esiste un livello al di sotto del quale il saggio d'interesse non può scen­ dere per motivi di preferenza per la liquidità, allora la produ­ zione corrente di tali merci sarà influenzata dal prezzo, parti­ colarmente basso, dello stock esistente delle merci stesse. Lo stesso discorso vale per un bene strumentale : se con l'ac­ cumulazione del capitale q diminuisce, allora il prezzo di que­ sto bene capitale deve diminuire in modo che il suo saggio di rendimento interno sia pari a quello implicito sulla moneta. Nel capitolo 1 7 Keynes delinea un processo di accumulazione degli stock di merci liquide e dei beni strumentali che rallenta progressivamente per poi arrestarsi del tutto. Ma le fasi di boom, descritte da Keynes in questo capitolo e nella sua replica a Viner si concludono con il tonfo in uno stato di crisi e non con il lento scivolamento in uno stato di stagnazione. Keynes definisce c come i costi di mantenimento e dichiara di volersi " occupare nelle pagine seguenti esclusivamente di q - c " (TG p. 390). Esplicitando quanto voleva affermare Keynes, diremo che q - c è la differenza tra quasi-rendite e costi di manteni­ mento. Per quanto concerne l'insieme di attività rappresentate da un'impresa, c costituisce in primo luogo il flusso di contante messo in essere dalla struttura degli impegni di pagamento del­ l'impresa stessa. All'indomani della Grande Crisi i critici della struttura ist.i. .

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tuzionale dell'economia presero come proprio bersaglio le pas­ sività a breve termine e il grado di liquidità che esse, assieme alle attività del mercato azionario, conferiscono a chi le possiede. Agli occhi di Henry C. Simons, la principale causa del cattivo funzionamento del sistema capitalistico andava individuata nelle passività a breve emesse da banche e da altre istituzioni finan­ ziarie sotto forma di depositi a vista. Infatti se tali depositi ven­ gono ritirati, l'ammontare di contanti che la banca (o un altro ente) è impegnata a versare può essere superiore alla somma di incassi di contante e di riserve iniziali di contante in possesso della banca. Un'organizzazione con un grosso volume di pas­ sività a breve, ogniqualvolta sopraggiunge la scadenza di un debito a breve, si trova a rifinanziare in modo più o meno espli­ cito la propria posizione finanziaria, " piazzando " altri debiti così da ottenere contanti con i quali ripagare il debito originaria­ mente scaduto. Una banca di credito ordinario è un tipico esempio di un'or­ ganizzazione i cui debiti, rispetto alle attività di cui è proprie­ taria, hanno una scadenza a breve. Un deposito a vista rappre­ senta .un debito a vista: ogniqualvo!ta un assegno viene spiccato su una certa banca, si verifica un'emorragia di contante. Le at­ tività in possesso della banca le assicurano determinati introiti di contante secondo lo schema di pagamento stabilito nei con­ tratti. Con l'avvicinarsi della data di scadenza un'attività finan­ ziaria in possesso di una banca le garantisce un certo flusso di contante. In un qualsiasi giorno dell'anno però il flusso di moneta "riti­ rato dai depositanti di una banca può essere molto superiore agli incassi di contante che affluiscono nelle casse della banca in se­ guito al rispetto delle clausole contrattuali delle attività di sua proprietà. Se il sistema bancario funziona in modo regolare l'in ­ cremento dei depositi bancari può generare in aggregato un flusso di contante che controbilancia perfettamente il flusso do­ vuto ai prelievi dei depositanti. Se una banca si trova ad essere in una posizione di disavanzo netto, essa può vendere sul mer­ cato monetario parte delle cosiddette attività di riserva seconda­ ria, ricavandone moneta liquida, oppure può prendere moneta a prestito mediante l'emissione di debiti a proprio carico. In li­ nea di principio nel sistema bancario esistono sempre le risorse necessarie per acquistare le attività ed emissioni di cui sopra, in ·

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quanto a l disavanzo netto d i una certa banca deve necessaria­ mente corrispondere un avanzo di una qualche altra banca (si tratta di una questione di aritmetica). In realtà può accadere che disavanzi e avanzi non si annullino in aggregato giacché i coef­ ficienti di riserva non sono eguali per tutti i tipi di depositi e di banche. Ogniqualvolta una banca (o un'altra istituzione) vede assal­ tati i propri sportelli (fatti del genere non sono cose del pas­ sato, come testimoniano alcune recenti esperienze statunitensi : durante la stretta creditizia del 1 966 vi furono corse frenetiche per sbarazzarsi di certificati di deposito bancario negoziabili e nel 1 970 lo stesso è accaduto per gli effetti commerciali), l'am­ montare di contanti richiesto da certe banche e da certi istituti finanziari (e non) per far fronte ai prelievi dei propri clienti può essere superiore all'ammontare di contante che affluisce presso altre banche e altri istituti finanziari sotto forma di depositi o equivalenti. In tali circostanze gli operatori in difficoltà sono co­ stretti a vendere pane delle attività in loro possesso, oppure deb­ bono prendere a prestito da altri enti a condizioni particolar­ mente penalizzanti o addirittura falliscono, perché incapaci di far fronte ai propri impegni. Anche le società per azioni e le famiglie vanno considerate come istituti bancari in quanto an­ ch'esse devono far fronte a impegni di pagamento (flussi di contante) e dispongono di fonti di contante derivanti dalle loro operazioni (cioè dalla loro partecipazione al processo di produ­ zione del reddito), dalle attività finanziarie in loro possesso, dai prestiti e dalla vendita di attività. In un'economia capitalistica la fondamentale decisione spe­ culativa consiste essenzialmente nello stabilire la proporzione del flusso atteso di contante derivante dalle operazioni normali che un'impresa, una famiglia o un'istituzione finanziaria è di­ sposta a impegnare per il pagamento degli interessi sulle passi­ vità e per la loro estinzione. Le passività (i debiti) vengono emesse per finanziare (ovvero per pagare) certe posizioni del proprio portafoglio-titoli; nel caso delle imprese produttive, tali titoli sono rappresentati dagli impianti e dai macchinari. Le pas­ sività mettono in essere impegni di pagamento in contanti di vario tipo: i pagamenti cioè possono avere luogo a date precise, oppure a vista, oppure condizionatamente (cioè solo nel caso accada un certo evento). Ogni impresa, non appena assume que-

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CAPITOLO QUARTO

sci impegni di pagamento, si trova a svolgere un'attività specula­ tiva: essa cioè prefigura certe situazioni nelle quali potrebbe es­ sere effettivamente in grado di rispettare i propri impegni e altre nelle quali farvi fronte potrebbe rivelarsi impossibile o comunque oltremodo costoso. Un'impresa quindi, quando ac­ cetta una certa struttura delle proprie passività in modo da con­ servare la propria posizione di portafoglio, in realtà non fa che scommettere che la situazione futura sarà tale da consentirle di rispettare i propri impegni di pagamento in contante; ovvero presume che il futuro, seppure incerto, le sia favorevole. Anche chi acquista una passività si trova impegnato, così facendo, in un'attività speculativa giacché assume (come d'altro canto fa l'impresa che emette tali passività) che gli impegni di pagamento in contante verranno onorati. (Dobbiamo aggiungere che l'ac­ quirente di passività, ossia chi dà a prestito, può includere nel contratto certe clausole che lo proteggano da insolvenze.) In una struttura finanziaria stratificata l'unità che acquista passività può a sua volta emetterne; la sua capacità di onorare i propri impegni viene a dipendere dal flusso di contante che essa deriva dalle proprie attività, ovvero dalle passività di altre unità eco­ nomiche. :t del tutto possibile comunque che un'impresa abbia una se­ rie di impegni di pagamento in contante lungo un certo periodo di tempo, il cui ammontare è superiore ai ricavi liquidi attesi derivanti dall'attività produttiva: in una fase di investimento in impianti e macchinari, un'impresa può facilmente trovarsi in tale congiuntura. Poiché i pagamenti in contanti devono e ssere assolutamente liquidati, l'impresa può vendere le proprie attività finanziarie, ridurre le sue riserve di contanti oppure vendere i propri debiti. Un'impresa inoltre può trovarsi a dover ripagare l'intero im­ porto di un suo debito, senza d'altronde avere a disposizione contante o attività liquide con le quali far fronte al suo impegno. In tale caso essa può trovare il denaro necessario per ripagare i propri debiti emettendone altri. Questa è una manovra spesso impiegata da quei governi che hanno debiti a breve termine (buoni del Tesoro, per esempio) o dalle società per il credito al consumo, le quali finanziano parte della propria posizione di portafoglio con tratte commerciali a breve termine e con pre­ stiti bancari. Le imprese non finanziarie, inoltre, ripagano molto

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spesso un debito a una banca contraendo contemporaneamente un nuovo prestito con essa oppure, come avviene comunemente negli Stati Uniti, un'impresa che sia cliente di varie banche può ripagare il proprio debito con la banca A grazie a un prestito concessole dalla banca B e così via. Come mai le unità economiche possono trovarsi in situazioni in cui gli esborsi in contanti per rispettare i propri impegni sono maggiori delle entrate liquide percepite nel corso del processo produttivo? Ciò può avvenire in base a un calcolo predetermi­ nato, come per esempio nel caso di un'impresa impegnata in un programma di espansione degli investimenti per il quale è ne-. cessario ricorrere a finanziamenti esterni. Oppure può verificarsi per errore di calcolo: gli operatori possono sovrastimare ad esempio gli introiti netti liquidi oppure avanzare previsioni troppo ottimistiche circa l'andamento delle vendite o dei costi. O infine può succedere a causa dell'inadempienza contrattuale dei propri debitori, il che, in una struttura finanziaria stratifi­ cata e strettamente interrelata, provoca reazioni a catena. È possibile inoltre che le imprese svolgano attivamente e delibera­ tamente operazioni speculative, basandosi sulla rischiosa assun­ zione che in futuro sia possibile ottenere rifinanziamenti a saggi ragionevoli. Esse si impegnano in tali attività speculative nel caso in cui vengano offerte loro condizioni di finanziamento più favorevoli sulle passività a breve scadenza che su quelle a lunga, o nel caso in cui le condizioni di finanziamento sulle passività a lunga scadenza siano considerate indebitamente costose e quindi ci si attenda una loro riduzione in futuro. Se una certa unità economica vuole acquistare attività il cui valore di mercato eccede il valore del patrimonio netto dell'u­ nità essa deve emettere debiti. Un modo per finanziare una tale posizione di portafoglio consiste nell'emettere debiti che com­ portano impegni di cassa sincronizzati con gli incassi di contante attesi (le quasi-rendite). Un operatore fortemente avverso al ri­ schio utilizzerà questa forma di finanziamento (a riporto stac­ cato). Esistono però istituzioni in grado di offrire finanziamenti, le quali attribuiscono un valore assai elevato alla liquidità e per­ ciò offrono condizioni più favorevoli su quegli strumenti finan­ ziari per i quali il rimborso del capitale produce flussi di con­ tante maggiori dei flussi attesi di contante derivati dal possesso di attività. Tali istituzioni creditrici assegnano un valore assai

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CAPITOLO QUARTO

elevato ai flussi di contante derivati dal rimborso dei capitali prestati; esse desiderano disporre sia del grado di liquidità con­ ferito dalla proprietà di attività a breve scadenza sia di quella libertà di manovra che consenta loro di riallocare le proprie ri­ sorse senza dover correre alcun rischio " di mercato". L'impresa che decida di prendere a prestito dovrà quindi soppesare da un lato il risparmio atteso sui costi finanziari dovuto ai ridotti saggi d'interesse sui finanziamenti e dall'altro il rischio che, qualora sia necessaria u n'operazione di rifinanziamento, i liquidi richie ­ sti vengano resi disponibili solo a saggi o a condizioni oltremodo sfavorevoli. Ogni impresa ha un suo stato patrimonialc, cioè un insieme di attività e passività che da un lato fruttano un certo flusso di contanti q, derivato dall'attività produttiva e dal rispetto delle scadenze contrattuali, dall'altro comportano un flusso dì con­ tanti c, connesso alle passività insolute dell'impresa. Tra le par­ tite di bilancio sono incluse certe attività che dispongono di buoni mercati secondari, cosicché l'impresa sa di poterle ven­ dere a un prezzo ragionevolmente stabile. La vendita di queste attività inoltre non incide sul rendimento q derivante dal pro­ cesso produttivo. Un'impresa produttiva deve quindi speculare su q - c, nonché sulle attività da tenere in base alla facilità con la quale si possono convertire in moneta, ovvero sulle attività che fruttano un rendimento implicito non pecuniario l. Un'im­ presa può acquistare ulteriori beni capitali (che rendono q) sia aumentando le proprie passività (il che fa aumentare c) sia di­ minuendo la propria scorta di attività liquide (il che fa diminuire l). Essa può inoltre aumentare il proprio l facendo aumentare il proprio c; non è insolito trovare imprese e famiglie che hanno debiti e contemporaneamente possiedono attività liquide. Questa scelta di portafoglio rappresenta una decisione in condizioni d'incertezza del tipo di quelle così eloquentemente descritte da Keynes nella sua replica a Viner. I rendimenti q vanno alle imprese; la proporzione di tali rendimenti destinata al rimborso delle passività c e la proporzione dì attività che frut­ tano un rendimento implicito non pecuniario l sono entrambe stabilite in base a decisioni speculative. Gli investimenti rappre­ sentano un tipo di allocazione delle risorse produttive tale da far aumentare lo stock esistente di beni capitali che fruttano un rendimento q; l'impresa investitrice acquista tali beni capi-

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tali emettendo passività (il che fa aumentare il c che essa si è impegnata a pagare) oppure riducendo il livello di attività li­ quide .(che rendono f). La decisione di investire implica dunque l'emissione di passività o la riduzione di liquidità: la moneta con­ tante con la quale pagare l'acquisto di beni d'investimento viene ottenuta in cambio degli impegni di pagamento c. Analogamente, acquistare beni capitali di seconda mano - e acquistare il controllo di altre società per azioni - significa decidere di emettere passività (che implicano obblighi di paga ­ mento c) o di ridurre la propria posizione liquida. Durante le manovre di fusione, di riassembramento, di trasferimenti di pac­ chetti azionari che caratterizzano una fase di boom, il flusso di impegni di pagamento c aumenta relativamente al flusso di rendimenti attesi q. Inoltre, grazie all'euforia che regna in pe­ riodi d'espansione, quando gli operatori fanno previsioni otti­ mistiche sul futuro, assistiamo a una diminuzione del rapporto tra il prezzo di mercato delle attività che fruttano un premio di liquidità l e il prezzo di mercato di altre attività il cui rendi­ mento è c : i saggi d'interesse sulle anività liquide aumentano relativamente ai saggi sulle altre attività. Il meccanismo speculativo fondamentale di un'economia ca­ pitalistica è dunque composto da due elementi: l'acquisizione di beni capitali e la produzione degli obblighi di pagamento in contanti, implicita nell'emissione di passività necessarie per fi­ nanziare l'acquisto di tali beni capitali. Se l'operazione specula­ tiva ha successo allora i flussi di contante (compresi quelli deri­ vanti dall'aumento del valore dei beni capitali in seguito al loro acquisto da parte delle imprese) saranno più che sufficienti per far fronte agli impegni di pagamento sulle passività. Ciò farà salire il valore capitale dell'impresa: il valore di mercato di q - c + l aumenterà in misura maggiore del costo dell'investi­ mento. In un mondo dove esiste una borsa valori, questo tipo di ope­ razioni speculative da parte delle imprese comporta, nel caso abbia successo, un aumento nel valore delle azioni delle imprese. Nelle economie capitalistiche contemporanee il benessere dei dirigenti industriali è strettamente connesso all'andamento dei titoli azionari delle imprese per le quali lavorano, non solo per­ ché essi stessi possiedono tali titoli, ma anche perché ricevono gratifiche e concessioni speciali in titoli azionari. Quindi uno

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CAPITOLO QUARTO

degli obiettivi perseguiti dai manager è quello di riuscire a spe­ culare in acquisti di beni capitali (che rendono più cospicui e sicuri i rendimenti q). Gli uomini d'affari, in tanto in quanto giocano quella partita mista di abilità e di fonuna chiamata bu­ siness, sono inevitabilmente degli speculatori. Tuttavia come ci ricorda Keynes: Gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d'aria in un flusso continuo di intraprendenza; ma la situazione è seria quando l'intra­ prendenza diviene la bolla d'aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casino da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene (TG p . 3 1 9) .

Con il boom del mercato azionario che solitamente accom­ pagna il boom degli investimenti, assistiamo a un processo di retroazione positiva tra speculazione in borsa e speculazione da parte delle imprese. Se sulla borsa valori ha luogo un rialzo del prezzo di mercato dello stock di azioni ordinarie di un'impresa, ciò significa che è aumentato il valore di mercato dell'impresa stessa, in quanto diminuisce il rapporto tra impegni di paga­ mento in contante c e il valore di mercato dell'impresa. Dal punto di vista dei banchieri e di altri finanzieri l'aumentato va­ lore di mercato implica che l'impresa è adesso in grado di emet­ tere nuove passività (cioè sottoscrivere ulteriori impegni di pagamento in contante c). Bisogna inoltre ricordare che spesso i mezzi di pagamento utilizzati per acquistare beni capitali o per assorbire altre imprese sono costituiti da pacchetti di azioni ordinarie (emissione di nuove azioni o cessioni di azioni prece­ dentemente emesse). Ne deriva che durante un boom della borsa valori possiamo assistere alla diminuzione del prezzo dei beni capitali e dei beni d'investimento in termini relativi ai mezzi di pagamento utilizzati per il loro acquisto (cioè le azioni ordina­ rie), sebbene il loro prezzo in termini di moneta sia aumentato. Un aumento della quantità di moneta relativamente alle al­ tre attività e agli impegni di pagamento in contante c fa dimi­ nuire il premio di liquidità sulla moneta e quindi il valore della liquidità stessa, posseduto in misura diversa da tutte le altre at­ tività e dai debiti. Questo fatto da un lato tenderà a fare aumen­ tare il prezzo in termini monetari sia dei debiti (il cui rendi­ mento è c) che dei beni capitali (il cui rendimento è q), dall'altro

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comporterà l'aumento del prezzo dei beni capitali e dei debiti che inglobano un premio di liquidità l relativamente modesto rispetto a quei beni capitali e a quei debiti il cui valore di mer­ cato è in gran parte dovuto al loro grado di liquidità. Se indi­ chiamo con Px il valore capitalizzato dei rendimenti futuri at­ tesi q di un bene capitale, avremo Px = K(M, q)

dove Px rappresenta il prezzo di un bene capitale esistente e M l'offerta di moneta. Questa funzione ha le due seguenti caratte­ ristiche: dPx >O dq

--

e

È ragionevole presumere che la capacità della moneta di far au­ mentare il prezzo dei beni capitali non sia illimitata, ovvero che esista un livello massimo di Px : Px = lim K(M, q). M-+ oo

Oltre all'effetto dell'offerta di moneta (che rappresenta un'at­ tività sicura) sul prezzo dei beni capitali, possiamo introdurre nel nostro modello il meccanismo speculativo della determinazione del prezzo di K, meccanismo che riflette la composizione deside­ rata (o accettabile) della struttura delle passività, cioè riflette la disponibilità ad acquisire beni capitali mediante l'emissione di de­ biti che implicano ;.Jagamenti futuri c. (Questi debiti rappresen­ tano il tipo di "moneta " utilizzata specificatamente per l'acquisto di beni capitali.) Una volta fissati i flussi dei rendimenti futuri attesi q e una certa struttura delle passività (comprendente gli impegni di pagamento t), quanto maggiore è il livello accettabile degli impegni di pagamento c, relativamente ai flussi dei rendi­ menti futuri attesi q, tanto maggiore sarà il prezzo dei beni capi­ tali espresso in moneta. Perciò avremo: Px = K(M, q, c-c)

dove

dPx >O. dc

Il valore di c ritenuto accettabile, dati i flussi q, è il parametro di slittamento della nostra funzione di valutazione; c sta a indicare gli elementi speculativi inerenti al finanziamento di posizione di

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CAPITOLO QUARTO

portafoglio in beni capitali, in quanto ingloba le opinioni degli operatori circa la probabilità sia che l' " attività produttiva " riesca a generare un flusso di contante sufficiente per far fronte agli im­ pegni di pagamento sui debiti, sia che i mercati finanziari abbiano un andamento regolare. Nella misura in cui PK (cioè il prezzo di un bene facente parte dello stock di capitale ) fa parte dell'in­ sieme di fattori che determinano il prezzo di domanda di un bene capitale di nuova produzione, cioè di un bene d'investimento, variazioni di PK costituiscono una delle cause immediate delle variazioni nel volume degli investimenti. PK può variare in se ­ guito a una variazione di M (ammesso che la funzione PK sia stabile) o in seguito a uno slittamento dell'intera funzione. Que­ st'ultima può slittare se gli operatori cambiano le loro idee sog­ gettive circa i rendimenti futuri attesi q e il valore della liqui­ dità l. Poiché questi due elementi q e l riflettono congetture sul futuro, sia le opinioni degli operatori che il grado di fiducia ad esse attribuito saranno soggetti a quelle "variazioni repentine e violente " descritte ci da Keynes. Bisogna quindi ricordarsi che la funzione PK , sebbene rappresenti un utile strumento di esposi­ zione, non è affatto stabile : essa si sposta verso l'alto in fasi di boom, verso il basso dopo un periodo di crisi. Nel seguito della nostra analisi utilizzeremo la funzione PK anziché la convenzionale funzione della preferenza per la liqui­ dità. Riteniamo infatti che la funzione PK sia preferibile alla funzione della preferenza per la liquidità in quanto da essa è possibile derivare in modo assai semplice e diretto i prezzi dei beni facenti parte dello stock di capitale, nonché delle attività finanziarie. Non solo: essa, per il modo stesso in cui è stata ot­ tenuta, tiene conto, nella valutazione delle attività, della facilità con la quale queste ultime possono essere convertite in moneta, cioè tiene conto della loro liquidità. Siccome il premio che gli operatori sono disposti a pagare per la facilità di vendita in contanti delle attività varia, la misura in cui variazioni delle grandezze monetarie riescono a influenzare l'economia dipende dall'andamento dei premi di liquidità. Nell'analisi svolta nelle pagine precedenti abbiamo derivato sia i prezzi relativi delle varie attività che il livello generale dei prezzi dei beni capitali. Questi ultimi (che fruttano rendimenti sotto forma di q e l) e i debiti (che fruttano rendimenti sotto forma di c e l) sono, seppure in diversa misura, connessi all'of-

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l l3

ferta di moneta, ovvero di un'attività che frutta un rendimento non pecuniario l e il cui prezzo, per definizione, è pari all'unità. I prezzi così ottenuti sono quelli delle varie componenti dello stock di attività reali e finanziarie. Tuttavia è possibile produrre nuovi beni capitali e sottoscrivere nuovi debiti: ci rimane quindi da esaminare la relazione che intercorre tra il prezzo dei beni capitali e la loro produzione, ossia la funzione degli investimenti. Bisogna ricordare che fin qui abbiamo assunto implicita­ mente costanti sia il saggio di salario che il livello dei prezzi dei prodotti finali. Il nostro è un modello " a due livelli dei prezzi ", dove, nel breve periodo, i prezzi dei prodotti finali e dei beni capitali dipendono dall'andamento di mercati diversi. Mentre i processi d'aggiustamento dei salari e degli altri costi di produ­ zione (e quindi del prezzo d'offerta dei prodotti finali) sono piuttosto lenti, i prezzi dei beni facenti parte dello stock di ca­ pitale e ancor più i prezzi delle azioni scambiate in borsa sono invece soggetti a mutamenti repentini. Di conseguenza il rap­ porto tra questi due livelli dei prezzi può cambiare assai rapida­ mente; mentre, in linea di principio, il livello dei prezzi dei pro­ dotti finali è molto lento a modificarsi, il livello dei p rezzi dei beni capitali è al contrario suscettibile di variazioni improvvise e sostanziali.

Capitolo 5 La teoria degli investimenti

Introduzione Keynes presentò la Teoria generale come "una teoria che spiega perché la produzione e l'occupazione sono çosì soggette a fluttuare " ( 1 93 7a, p. 2 2 1 ). Nel contesto della teori:,t " pura ", dove cioè si ignorano la spesa pubblica e il commercio estero, l'oc­ cupazione dipende dalla domanda dei beni di consumo e d'in­ vestimento. La domanda dei beni di consumo svolge un ru olo passivo, in quanto essa, osserva Keynes ( 1 93 7a, p. 2 1 9), "di­ pende soprattutto dal livello del reddito ", vale a dire dalla somma della domanda di beni di consumo e di investimento. Nella teoria di Keynes gli investimenti costitui scono la forza motrice attiva, la causa di ciò che si vuole spiegare : il ciclo eco.: nomico. La mia teoria - scrive Keynes ( 1937a, p. z z 1 ) - si può riassumere di­ cendo che, dato l'atteggiamento psicologico della gente , il livello della produzione e dell'occupazione aggregate dipende dal live llo degli investi­ men ò . Uso questa espressione non perché gli investime(l ti siano l'unico elemento dal quale dipende la produzione aggregata, ma perché è p ra òca corrente, quando si è alle prese con un sistema assai comp)esso, considerare come causa causans quell'elemento che più di ogni altrO è soggetto ad ampie e violente oscillazioni. Più precisamente, la prodv zione aggregata dipende dalla propensione al tesoreggiamento, dalla po liò ca economica delle autorità monetarie concernente la quantità di monet a, dallo stato di fiducia del pubblico circa i rendimenti furori attesi dei beni capitali, dalla propensione a spendere e dai fattori sociali che agiscono �ul livello dei sa-

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l ari monetari. M a tra questi svariati elementi sono quelli che determinano

gli investimenti ad essere i meno attendibili, in quanto sono quelli mag­ giormente influenzati dalle nostre opinioni sul futuro, futuro del quale sappiamo così poco. (Corsivo mio.)

Dunque il nucleo della Teoria generale è costituito dalla teo­ ria degli investimenti e più in particolare dalla spiegazione della loro tendenza a fluttuare. Quando Hicks, nella sua presenta ­ zione della teoria di Keynes, assume a cuor leggero che esista una semplice funzione a pendenza negativa la quale, tenendo conto della produttività degli incrementi dello stock di capitale, collega gli investimenti al saggio d'interesse, in realtà fa una ca­ ricatura della teoria keynesiana degli investimenti. In questo capitolo noi tenteremo di dare una formulazione precisa alla teoria degli investimenti di Keynes, che colleghi l'andamento degli investimenti non solo ai rendimenti futuri attesi, ma anche alla prassi finanziaria esistente. InveStimenti e interesse

La teoria degli investimenti di Keynes pone l'andamento ciclico degli investimenti (cioè un concetto di natura reale, con­ nesso al processo produttivo) in relazione con variabili deter­ minate sui mercati finanziari. Riguardo a questi ultimi l'atten­ zione di Keynes è concentrata sul saggio d'interesse : " L'interesse sulla moneta sta a indicare esattamente ciò che ci dicono i testi di aritmetica; esso cio·è è semplicemente la ricompensa derivante dal possesso immediato di contanti rispetto al possesso futuro di contanti " (Keynes, 1 946, p. 41 8). Il saggio d'mteresse, quindi, si riferisce sempre a contratti finanziari, quali titoli obbligazio­ nari, ipoteche, prestiti bancari, depositi ecc.; per contante im­ mediato si intende l'ammontare del prestito, mentre per con­ tante differito nel futuro si intende l'insieme di pagamenti di · interessi e il rimborso del capitale, così come stabilito nel con­ tratto. Se con PL indichiamo l'ammontare del prestito (il con­ tante immediato) e se il contratto prevede una serie di paga­ menti ci o allora il saggio d'interesse è quel fattore aritmetico di 5eonro tale da eguagliare queste due grandezze. Il settore reale, ove ha luogo il processo produttivo, fornisce due fondamentali tipi di informazioni che concorrono a deter-

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CAPITOLO QUINTO

minare il livello degli investimenti. Il primo è il rendimento fu­ turo atteso (o reddito prospettiva): Quando una persona acquista u n investimento o un'attività capitale, acquista il diritto alla serie di ricavi futuri che si aspetta di ottenere dalla vendita del suo prodotto, dedotte le spese correnti per ottenere tale pro­ dotto durante la vita di quel capitale. Chiameremo reddito prospettiva dell'investimento questa serie di annualità Q . , Q, , . . Q. ( TG p. 295, cor­ sivo di Keynes) . .

Va notato che quando Keynes si riferisce a i rendimenti fu­ turi attesi di un bene capitale utilizzato nel processo produttivo egli adopera come simbolo la lettera Q maiuscola, mentre si ri­ ferisce ai rendimenti di beni capitali facenti parte di un porta­ foglio-titoli utilizzando come simbolo la lettera q minuscola (anche noi ci siamo adeguati a questa convenzione nel capitolo precedente). È ovvio che i rendimenti Q e q rappresentano dei flussi di contante. I rendimenti futuri attesi derivanti dalla proprietà di un bene capitale sono determinati dall'interazione tra due fattori prin­ cipali: da un lato l'andamento dei custi (che rispecchia relazioni produttive note con certezza), dall'altro una stima sul compor­ tamento futuro dell'economia e dell'unità produttiva in que­ stione. I rendimenti Q, dunque, incorporano opinioni correnti sul futuro e quindi cambiano al cambiare di quelle. Il settore reale (la sfera della produzione) fornisce inoltre un secondo elemento che determina il livello degli investimenti: il prezzo d'offerta dei beni d'investimento. Scrive Keynes: In contrapposto a\ reddito prospettive dell'investimento abbiamo i\ prezzo di offerta di quel capitale. intendendo con ciò, non il prezzo di

mercato al quale si può effettivamente acquistare nel mercato un capitale del tipo in questione, ma il minimo prezzo sufficiente a indurre un produt­ tore a produrre una nuova unità aggiuntiva di tale capitale, ossia quello che si chiama talvolta costo di sostituzione ( TG p. 295, corsivo di Keynes) .

Il modo migliore di interpretare il prezzo d'offerta di un bene capitale è visualizzarlo come una curva in cui tanto mag­ giore è il prezzo al quale vengono domandati i beni capitali, tanto maggiore è la produzione dei beni di investimento. As­ sumiamo che questa curva sia, nell'arco di tempo che ci inte­ r�ssa, stabile: nel breve periodo dunque essa subirà slittamenti

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

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sostanziali solo in seguito a variazioni nel saggio di salario; se conduciamo la nostra analisi in termini di unità-salario, nel breve periodo questa curva non sarà soggetta a variazioni signi­ ficative. ( Variazioni nel costo delle utilizzazioni possono alte­ rare il prezzo d'offerta: per il momento però non consideriamo questa complicazione.) In un arco temporale più esteso questa curva d'offerta slitterà in seguito a cambiamenti nella produt­ tività, ma questo caso non ci interessa in quanto abbiamo adot­ tato l'ottica analitica del ciclo economico (di breve periodo). Nella teoria di Keynes vi sono due funzioni stabili: la curva di offerta dei beni capitali e la funzione del consumo, entrambe misurate in unità-salario. In termini nominali queste funzioni slittano ogniqualvolta varia il saggio di salario. Tutte le altre funzioni, che incorporano direttamente le nostre opinioni cor­ renti sul futuro, non sono stabili, ma sono anzi soggette a slit­ tamenti. Visto che gli investimenti hanno un andament o ciclico e considerato che uno degli elementi fondamentali dell'analisi de ­ gli investimenti (e cioè la curva d'offerta dei beni di investi­ mento) è una funzione stabile, bisogna desumere che le fluttua­ zioni osservate empiricsmen� sono dovute a variazioni: 1) nella composizione dei rendimenti futuri attesi degli investimenti, determinata dal processo produttivo e dallo stato delle aspet­ tative; 2.) nel saggio d'interesse, determinato sui mercati finan­ ziari; 3) nel legame che connette il fattore di capitalizzazione adoperato nel calcolare i rendimenti futuri attesi dei beni capi­ tali e il saggio d'interesse sui prestiti monetari, legame che ri­ specchia lo stato di incertezza così come percepito dagli impren­ ditori, dalle banche e dalle famiglie. Keynes in effetti utilizza tutti e tre questi fattori per spiegare l'andamento ciclico degli investimenti. I rendimenti futuri attesi - le nostre Q rappresentano delle quasi-rendite e non degli indici della produttività margi.. nale del capitale. Keynes, ragionando in termini di ciclo econo­ mico, trovava ambiguo il concetto stesso di produttività margi­ nale del capitale; i rendimenti Q sono una conseguenza della scarsità del capitale: -

Invece di dire che il capitale è produttivo, è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua vita, un reddito maggiore del suo costo origi-

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CAPITOLO QUINTO

nario. Infatti l'unica ragione per la quale un bene capitale offre una pro­ spettiva di rendere, durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore al suo prezzo di offerta .iniziale è perché esso è scarso (. .. ) Se il capitale diviene meno scarso, diminuirà il suo rendimento in eccedenza del costo, senza che il capitale sia divenuto meno produttivo, almeno in senso fisico ( TG p. 376, corsivo di Keynes) .

A ciò si aggiunga che i rendimenti Q non sono l e produttività marginali utilizzate nella teoria della distribuzione. Leggiamo infatti: La teoria ordinaria della distribuzione, nella quale si suppone che il ca­ pitale ottenga attualmente la sua produttività marginale ( in un senso o nell'altro), è valida soltanto in uno stato stazionario. Il rendimento corrente complessivo del capitale non ha alcuna rela;z:ione diretta con la sua efficienza marginale ( TG p. 299).

Mentre secondo la teoria ortodossa la produttività di un bene capitale è determinata dalla tecnologia esistente, il rendi­ mento corrente dovuto alla scarsità di un bene capitale dipende dalle alterne fortune dei vari settori industriali e degli affari in genere. Infatti, nell'arco del ciclo economico, la " scarsità " del capitale varia: nei periodi di depressione, operai e macchinari rimangono inutilizzati, mentre nei periodi di boom vi è fabbi­ sogno insoddisfatto sia di forza lavoro che di capitali. I flussi di contante attesi dall'impiego produttivo dei beni capitali e la curva di offerça dei beni capitali di nuova produ­ zione (cioè i beni d'investimento) sono le due fondamenta sulle quali Keynes costruisce la propria teoria dell'influsso del set­ tore reale sull'andamento degli investimenti. Mentre i flussi di contante rappresentano, come è ovvio, un flusso lungo un certo arco temporale, il prezzo di offerta è un valore corrente: così come sono questi due concetti fondamentali sono tra loro in­ commensurabili. Il problema che sorge è come porli in relazione. La Teoria generale suggerisce due vie per risolvere il pro­ blema. Una soluzione, adott:ita poi nei modelli ortodossi, è quella di postulare l'esistenza di una curva a pendenza negativa · che ponga in relazione funzionale gli investimenti da un lato e un saggio di sconto dall'altro, la cosiddetta curva dell'efficienza marginale del capitale. L'alv-a soluzione è quella di capitalizzare la serie di Q; così da ottenere il prezzo di domanda dei beni

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d'investimento. Keynes evidentemente riteneva che questi due criteri fossero equivalenti, due modi diversi di esprimere un me­ desimo concetto. Mentre la curva a pendenza negativa è ampia­ mente utilizzata nella Teoria generale, il metodo alternativo del prezzo di domanda dei beni di investimento compare nella re­ plica a Viner. Però, come accade per molte scelte che, una volta fatte, sem­ bran o insignificanti, così Keynes non si rese conto delle conse­ guenze negative derivanti dall'adozione del primo di questi due criteri. Prima di cercare di provare la validità di questa nostra tesi, è bene esaminare come Keynes ha derivato la curva del­ l'efficienza marginale del capitale e il modo, invero alquanto approssimativo, nel quale ha spiegato il criterio alternativo della· capitalizzazione. Entrambi questi criteri richiedono u n minimo di calcolo arit­ metico; per derivare la curva dell'efficienza marginale del capi­ tale disponiamo di una curva di offerta degli investimenti la quale ci dice che il prezzo di offerta, Pr , è una funzione cre­ scente degli investimenti, l: Inoltre abbiamo la seguente relazione: Q Pr ( I) = r(KJ . Y1) + Ql(Kz , Y2) + . . . + Q,.(K,. , Y,.) . 1 +r1 ( 1 + r,.) " ( 1 + r2)2

[ z]

L'equazione [ z J non è nient'altro che la formula aritmetica che collega il prezzo di offerta degli investimenti ai rendimenti fu­ turi attesi. Se le varie Q rimangono costanti e Pr aumenta, i vari r devono diminuire affinché l'equazione [ z] sia soddisfatta. Se assumiamo che r = r1 = r2 = r3 = . . . = r ,. , otteniamo un'equazione polinominale in r di grado n, equazione che, in linea di principio, possiamo risolvere, ricavandone una o più soluzioni economica­ mente significative. Se invece non assumiamo che tutti gli r siano uguali, dobbiamo risolvere, con l'aiuto di ulteriori equazioni, un altro problema assai complicato: la determinazione della strut­ tura per scadenza dei saggi d'interesse. Se assumiamo che tutte le Q siano uguali, che n sia uguale a infinito e che tutti gli r siano uguali, allora è valiaa una semplice formula di capitaliz­ zazione:

IJO

CAPITOLO QUINTO

Q Pr = - ,

ovvero:

r

r=

Q Pr

-

.

Notiamo che la dimensione di r è identica a quella del saggio d'interesse che appare, implicitamente o esplicitamente, nei con­ tratti di prestito. Nelle formule [ 1 ] e [ 2 ] il prezzo d'offerta dei beni capitali di nuova produzione è stato rappresentato esplicitamente come una funzione degli investimenti. Oltre a ciò sappiamo che

dPr >O. d/ Inoltre, siccome le quasi-rendite Q dipendono dalla scarsità di capitale, la seguente diseguaglianza è valida a prescindere dal­ l'andamento del ciclo economico: aQi(K� , Y,) < O aK�

·

·

[s ]

Se assumiamo che l'ammontare di capitale, K� , che avremo a di­ sposizione in futuro (ovvero i> 1) è positivamente connesso agli investimenti fatti nel periodo 1 , allora nell'equazione [ 2] quanto maggiore è il livello degli investimenti, /, tanto maggiore sarà il loro prezzo, P, , e tanto minori saranno le quasi rendite, Q . I valori di r che risolvono l'equazione [ 2] (che cioè rendono il prezzo corrente di offerta dei beni capitali pari ai rendimenti futuri attesi) diminuiscono all'aumentare degli investimenti.; r viene normalmente definito come saggio di sconto. Keynes defi­ nisce l'efficienza marginale del capitale come " quel saggio di sconto al quale il valore attuale della serie di annualità, rappre­ sentate dai ricavi attesi del capitale durante la sua vita, eguaglia esattamente il prezzo di offerta del capitale medesimo " (TG p. 295)· Nella citazione che segue vediamo come Keynes ricava la funzione a pendenza negativa tra investimenti e saggi d'in­ teresse:

Se vi è un aumento dell'investimento in un qualsiasi tipo di capitale in

un qualsiasi periodo di tempo, l'efficienza marginale di quel tipo di capitale diminuirà c�m l'aumentare dell'investimento in quel tipo, in parte perché

il reddito prospettive discenderà con l'aumentare dell'offerta di quel tipo

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

IJI

d i capitale, e i n parte perché di regola una pressione sulle possibilità di produzione di quel tipo di capitale ne provocherà

un

aumento del prezzo

di offerta (. .. ) Dunque per ciascun tipo di capitale possiamo costruire una tabella che indichi di quanto dovrà aumentare nel periodo considerato l'investimento in tal tipo affinché la sua efficienza marginale discenda a un dato valore. Possiamo poi sommare insieme queste tabelle per tutti i di­ versi tipi dì capitale ( ... ) Chiameremo questa tabella, tabella di domanda

( ... ) In altre parole quell'ammontare di investimento sarà spinto a quel punto

dell'investimento, oppure tabella dell'efficienza marginale del capitale

nella tabella di domanda dell'investimento, al quale l'efficienza marginale del capitale in generale è uguale al saggio di interesse del mercato (TG pp. z9(i sg. ) .

Kevnes dunque, per collegare il saggio d'interesse determi­ nato sui mercati finanziari al volume degli investimenti, � co­ costruito una curva a pendenza negativa me�� �nsieme da _ un lato i rendimenti futuri attesi (i quali, per il processo di ac­ cumulazione, hanno un andamento decrescente) e dall'altro il prezzo d'offerta dei beni capitali (che invece ha un andamento crescente). È assai probabile che egli abbia scambiato l'influenza di differenti livelli dello stock dei beni capitali con l'influenza di differenti livelli dell'ammontare dei beni capitali prodotti. L'aver individuato questa curva a pendenza negativa portò Keynes a concludere erroneamente che " non vi è nemmeno una differenza sostanziale ( ... ) fra la mia tabella dell'efficienza marginale del capitale o tabella di domanda dell'investimento e la curva di domanda di capitale contemplata da alcuni fra gli scrittori classici " (TG p. 3 39). Questa costruzione analitica fuor­ viante, nella quale il saggio di sconto derivato nelle formule [ 1 ] e [ 2 ] viene identificato con il saggio d'interesse sulle attività fi­ nanziarie, indusse Keynes a fare la seguente affermazione, che può essere facilmente fraintesa : "La creazione di ricchezza nuova dipende interamente dalla condizione che il rendimento prospettiva della ricchezza nuova raggiunga il livello posto dal saggio corrente di interesse " ( TG p. 3 75). L'aver scelto questo tipo di costruzione analitica portò Key­ nes ad attribuire un rilievo spropositato al saggio d'interesse (che per Keynes rappresenta sempre un attributo dei prestiti monetari) e ad accettare senza riserve l'identità sostanziale tra la curva dell'efficienza marginale del capitale e le curve di do-

132

CAPITOLO QUINTO

manda di investimenti a pendenza negativa contemplate dagli economisti classici. Immediatamente dopo il passo appena citato nel quale Key­ nes deriva la curva dell'efficienza marginale del capitale, tro­ viamo queste frasi: La stessa cosa può anche esprimersi come segue. Se Q, è il reddito pro­ spettiva da un· dato capitale nel tempo T, e se d, è il valore attuale, al saggio correme di interesse, di un'unità monetaria pagabile fra T anni, L.Q,d, è il prezzo di domanda dell'investimento ; e l'investimento sarà condotto fino al punto in cui L.Q,d, diventa uguale al prezzo di offerta dell'investimento, definito come sopra. Se d'altra parte L.Q,d, è inferiore al prezzo di offerta, non vi sarà più investimento corrente nel tipo di capitale in questione (TG p. 297 ) .

Queste osservazioni, sebbene si muovano nella giusta dire­ zione, contengono tuttavia una affermazione ambigua in quanto non è chiaro se d, stia a indicare il fattore di capitalizzazione ap­ plicato su tutti i tipi di beni capitali oppure solo su quel tipo specifico che frutta particolari rendimenti Q . Nondimeno, il passo citato ci suggerisce una costruzione analitica alternativa per la determinazione della domanda di beni capitali di nuova produzione, una costruzione basata sulla capitalizzazione dei rendimenti futuri attesi. Interpretata correttamente, essa ci con­ sente di tener conto in modo esplicito di due elementi che ren­ dono più tenue la relazione tra investimenti e produttività: la variabilità dei rendimenti futuri attesi e la variabilità della rela­ zione tra valore attuale - ovvero il saggio di capitalizzazione d, appena citato sopra - e il saggio d'interesse di mercato sui prestiti monetari. Con il criterio della capitalizzazione si possono introdurre le preferenze rispetto al rischio dei proprietari di attività nella determinazione degli investimenti in modo più naturale che non utilizzando il criterio della curva dell'efficienza marginale, che Keynes e i suoi interpreti hanno malaccorta­ mente accostato alle funzioni degli investimenti della vecchia teoria tradizionale, funzioni nelle quali la variabile determinante è la produttività. Dopo la pubblicazione della Teoria generale Keynes, nei brevi saggi in cui ne tspose il contenuto, tenne a sottolineare l'importanza del prezzo dei beni capitali:

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

133

I beni capitali hanno l a tendenza ad essere scambiati in equilibrio a va­

lori proporzionali alle proprie efficienze marginali espresse in termini di una eguale unità di misura. Ciò sta a significare che, se r è il tasso di inte­ resse monetario (cioè r è l'efficienza marginale della moneta in termini di moneta) e y rappresenta l'efficienza marginale in termini monetari di un bene capitale A, allora A verrà scambiato in termini di moneta a un prezzo tale che y sia uguale a r ( 1 946, p. 4 1 9 ) .

Poco più avanti Keynes scrive:

Se il prezzo di domanda del nostro bene capitale A determinato nel modo appena descritto non è inferiore al suo costo di sostituzione, allora avranno luogo nuovi investimenti in A (. .. ) Dunque il volume complessivo degli investimenti viene determinato dal sistema dei prezzi che scaturisce dai rapporti tra le efficienze marginali dei vari beni capitali (inclusa la moneta) misurati in termini di un'eguale unità di misura (ibid. ) .

Nel passo citato Keynes afferma chiaramente che il prezzo di domanda di un particolare bene capitale dipende. dalla capita­ lizzazione dei suoi rendimenti, ciò che sopra abbiamo definito Q. Keynes però rimane legato alla convenzione che formula il problema della capitalizzazione in termini di saggi di interesse: egli innanzitutto trasforma i rendimenti futuri attesi in termini di saggio interno di rendimento, presumibilmente assegnando un qualche prezzo al bene capitale. La variabile da determinare però è il prezzo di domanda; conseguentemente, assegnare in primo luogo un prezzo al bene capitale per stabilirne il rendi­ mento in termini monetari non fa che generare confusione . Il problema delle fluttuazioni degli investimenti può essere affrontato in modo più diretto facendo ricorso al processo di capitalizzazione dei rendimenti futuri attesi (mediante il quale si determina il prezzo di domanda dei beni capitali) piuttosto che ricorrendo al criterio della curva dell'efficienza marginale del capitale; un metodo diretto che utilizza i rendimenti Q e specifici fattori di capitalizzazione è certo più preciso di un metodo basato sulle efficienze marginali relative. lnnanzitutto nel primo caso si tiene esplicitamente conto dei rendimenti Q, che invece nel secondo caso sono soppressi dall'analisi; inoltre, il fattore di capitalizzazione viene esaminato in termini espliciti dal primo metodo il quale ammette la possibilità che, a causa dei diversi gradi di preferenze per la liquidità, il rapporto tra fattore di capitalizzazione e saggio di interesse di mercato sui

1 34

CAPITOLO QUINTO

prestltl garantm possa variare. Inoltre il valore capitalizzato dei rendimenti Q ha le stesse dimensioni di due prezzi determinati dal mercato: il prezzo di mercato dei beni che fanno parte dello stock di capitale e quello delle azioni ordinarie. I prezzi delle azioni influiscono sull'efficienza marginale del capitale in quanto "una quotazione alta per le azioni esistenti implica un aumento dell'efficienza marginale del capitale in que­ stione " (TG p. 3 I I , nota a). In modo più diretto diremo che i prezzi delle azioni, congiuntamente al valore di mercato dei de­ biti, determinano una valutazione di mercato dell'insieme dei beni capitali che compongono un'impresa. Se questa valutazione di mercato è elevata rispetto al prezzo di offerta dello stesso tipo di beni capitali di nuova produzione, allora è plausibile as­ sumere che gli investimenti in questo tipo di beni capitali ver­ ranno aumentati. Quindi se adottiamo l'approccio capitalizza­ zione, possiamo introdurre senza difficoltà il prezzo di mercato delle azioni nella nostra analisi: dato un certo livello del saggio di interesse e un certo insieme di rendimenti futuri attesi, quanto più alto è il valore di mercato delle azioni tanto mag­ giore sarà il fattore di capitalizzazione sui rendimenti futuri attesi. La relazione fondamentale della teoria degli investimenti è rappresentata dal prezzo di domanda dei beni capitali determi­ nato dalla capitalizzazione dei rendimenti futuri attesi. Nella nostra esposizione geometrica assumeremo che i rendimenti fu­ turi attesi, Q, di un certo bene capitale siano costanti (vedi fig. 5. I : ricordiamo che tale figura ha valore puramente espositivo; in realtà non abbiamo abbandonato la tesi centrale del nostro discorso, secondo la quale i rendimenti futuri attesi sono sog­ getti a fluttuare). Una volta fissato il flusso di rendimenti futuri attesi, Q, il prezzo di domanda di un bene di investimento tipico sarà dato dal prezzo dello stock di tale bene capitale, fKt · Cioè possiamo scrivere PKI = C;( Q;), dove cf sta a indicare il fattore di capita­ lizzazione, identificato da Keynes con " il valore attuale di un'unità monetaria pagabile fra r anni" (TG p. 297). Nella figura 5· I ia funzione PK1 è una retta in C1 ; se C; = C1o allora il prezzo di questo bene capitale sarà PKto . In questo caso il fattore di capitalizzazione sarà specificatamente riferito al particolare rendimento Q1 . Ammesso esista un mercato perfetto del capi-

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TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

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Saggio d i capitalizzazione

Figura 5 . 1

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Beni d'investimento

L'investimento e il prezzo dei beni capitali.

tale, sul quale è possibile ottenere ammontare illimitati di risorse finanziarie per l'investimento a condizioni indipendenti dall'am­ montare richiesto, e ammesso che tali condizioni siano coerenti con il saggio di capitalizzazione Co , allora il prezzo di offerta del bene di investimento Pr10 sarà uguale al prezzo di domanda Px10 , ovvero verrà prodotta una quantità del bene di investimento pari a /io · A questo punto sorge però un interrogativo: che cosa deter­ mina il saggio di capitalizzazione ? Nella nostra analisi assumeremo che il �aggio di interesse sui prestiti monetari (il prezzo della moneta oggi in termini di moneta domani) sia dato. Quindi, se i rendimenti futuri attesi rappresentassero degli impegni di paga­ mento in contante fissati in un contratto di prestito in moneta, allora il prezzo di tale contratto sarebbe Pz = Cz(CC), dove Cz è il saggio di capitalizzazione sui prestiti monetari e CC sta a indi­ care gli impegni di pagamento in contante fissati dal contratto.1 Il rapporto tra C; e C1 dipende dal valore che il mercato as­ segna alla garanzia derivante dalla proprietà di un titolo che dà 1 Nel capitolo 4 abbiamo trattato tre attributi delle attività che abbiamo lì indicato con q (i rendimenti futuri attesi), c (il costo di mantenimento) e l (il rendimento non pecuniario in termini di liquidità). In questo capitolo il saggio di capitalizzazione sui prestiti monetari è indicato da C1 per sottolineare il fatto che il rendimento s u tali attività include rendimenti non pecuniari i n termini di liquidità (se però l' unico rendimento fosse quello di liquidità , allora i contratti di pagamento in contante sa­ rebbero venduti alla pari).

n6

CAPITOLO QUINTO

diritto a incassare con certezza (o quasi) un flusso di impegni di pagamento in contante CC rispetto a quella derivante dalla pro­ prietà di un titolo che dà diritto a un rendimento di mercato Q inceno e fluttuante. Il prezzo di uno strumento finanziario che prevede pagamenti in contanti riflette sia il grado di sicurezza derivante dalla certezza dei pagamenti in contante sul debito, sia il grado di liquidità derivante dalla facilità con la quale si può piazzare sul mercato il debito stesso rispetto alla difficoltà di ven­ dita di un bene capitale. Se per stato d'incertezza intendiamo il fatto che gli operatori si rendono conto che esistono svariate possibili eventualità e la circostanza che essi valutano le conseguenze derivanti da ciascuna di esse, allora, per un dato stato d'incertezza, possiamo scrivere C = pC1 , ovvero il saggio di capitalizzazione dei beni capitali è una frazione J.l, compresa tra zero e uno, del saggio di capitaliz­ zazione sui crediti monetari. Se nel diagramma di sinistra della figura 5 . r sostituiamo sulle ascisse C; con C1 (ottenendo la figura 5.2), vedremo che il prezzo dei beni capitali relativamente al prezzo dei crediti di­ pende dallo stato d'incertezza indicato da J.l. Quando J.l varia, la retta PK subisce una rotazione: un aumento di J.l, ovvero una diminuzione dello stato d'incertezza, farà rotare, per così dire, la retta PK in senso antiorario, facendo salire il prezzo dei beni capitali rispetto al prezzo dei crediti. Volendo esprimere lo stesso concetto in altre parole diremo che il valore tanto dei beni capi­ tali quanto dei crediti dipende dal valore attribuito alla liquidità 'ii

·a ....

"' u

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'iii "C o N N tU ... Cl..

Saggio d i capitalizzazione sui cred iti monetari Figura 5 .1

Il prezzo dci beni capitali.

1 37

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

di una certa attività, ovvero al flusso di contante implicito l, che abbiamo trattato nelle pagine precedenti. Se i beni capitali sono meno liquidi dei crediti e se il valore della liquidità decresce, al­ lora il prezzo dei beni capitali aumenterà rispetto sia alla moneta che ai debiti. La posizione di Keynes riguardo alla determinazione del sag­ gio d'interesse sui crediti monetari è assai chiara: Il saggio corrente di interesse dipende ( ) non dall'intensità del deside­ rio di detenere la ricchezza, ma dall'intensità del desiderio di tenerla ri­ spettivamente in forme liquide e in forme non liquide, oltreché dalla rela­ zione fra l'ammontare dell'offerta di ricchezza in una forma e fotferta di ricchezza nell'altra forma (TG p. 376, corsivo mio). •..

Dunque il saggio d'interesse su un ammontare fisso di crediti monetari varierà inversamente all'offerta di moneta, mentre il tasso di capitalizzazione varierà direttamente con l'offerta di moneta. Bisogna infine ricordare che, secondo Keynes, l'effetto del­ l'offerta di moneta sul saggio d'interesse monetario diventa sem­ pre meno rilevante allorché diminuisce il rapporto tra crediti monetari e moneta. In linea di principio, il saggio d'interesse sui crediti monetari può raggiungere un livello così basso che ulte­ riori incrementi dell'offerta di moneta non sarebbero in grado di farlo diminuire ulteriormente: È possibile ( ... ) che, dopo che il saggio di interesse è caduto a un dato livello, la preferenza di liquidità divenga virtualmente :Jssoluta, nel senso che quasi tuni preferiscano detenere contante in luogo di un credito che fruna un interesse così basso (TG p. 370).

Passata una certa soglia, un aumento del quoziente moneta/ crediti monetari non avrà pressoché nessun effetto sul saggio d'in­ teresse sui crediti monetari. Bisogna aggiungere che per quanto riguarda i crediti commerciali il saggio di interesse che il debitore tipico deve pagare può discendere più lentamente del saggio puro di interesse e, dati i metodi dell'organizzazione bancaria e finanziaria esistente, può darsi che sia impossibile portarlo al di sono di una certa cifra minima ( TG p. 3 7 1 ) .

CAPITOLO QUINTO

Così C� , il saggio di capitalizzazione sui crediti monetari, è una funzione dell'offerta di moneta - funzione che scriveremo come C1 = Q (M) - tale che ac1 0 > ' aM

--

e

. c1 . l 1m = un certo numero 6 mto. M

M -+ 00

Quindi, dato un certo stato delle preferenze per la liquidità (che determina CI) e dato un certo differenziale tra i saggi di capitalizzazione sui beni capitali e sui crediti monetari (anch'esso determinato dallo stato della preferenza per la liquidità), possiamo trasformare un dato rendimento futuro atteso su un certo bene capitale, Qi> in una relazione funzionale tra il prezzo di domanda del bene capitale in esame e la quantità di moneta. Questa fun­ zione sarà tale che e

PK, . hm -- = PK" M-+ oo M •

Ovvero: il prezzo di domanda di questo bene capitale aumen­ terà all'aumentare della quantità di moneta, ma a un saggio de­ crescente ; per ogni insieme di rendimenti futuri attesi Q, esiste un livello massimo del prezzo di un bene capitale ottenibile fa­ cendo aumentare la quantità di moneta. Quindi per ogni specifico bene capitale avremo che PK, = PK,(M, Q;). Sottostante a questa funzione vi è una relazione tra saggio puro di interesse e la quantità di moneta e un certo differenziale tra il saggio di capitalizzazione implicito nel saggio puro d'interesse e il saggio di capitalizzazione su uno specifico bene capitale K; . Tale differenziale rispecchia da un lato lo stato d'incertezza connesso al flusso dei rendimenti futuri attesi Qi> dall'altro il valore attribuito al bene capitale K; in base alla sua liquidità. Possiamo fare l'assunzione, forse non eccessivamente eroica, che questi attributi di liquidità e di incertezza dei beni capitali ab­ biano la tendenza a rimanere in relazione pressoché fissa lungo tutta la gamma di beni capitali o che, se tale relazione varia nel corso del ciclo economico, le variazioni relative tra i diversi beni capitali seguano uno schema noto e prevedibile. Quindi possiamo passare dall'affermazione che il prezzo di un panico-

1 39

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

Quantità di moneta

Figura 5·3

M

La moneta e il prezzo dei beni capitali.

lare tipo di bene capitale dipende dalle quasi-rendite che esso frutta e daila quantità di moneta, all'affermazione più generale che il liveiio dei prezzi dei beni capitali dipende dalle quasi­ rendite attese aggregate e dalla quantità di mQneta. Nella figura 5. 3 abbiamo tracciato una curva dove il livello dei prezzi dei beni capitali e la quantità di ·moneta sono connessi in modo tale da non contraddire il rapporto esistente tra i prezzi dei singoli beni capitali e la moneta. La caratteristica fondamentale di questa funzione aggregata Px(M, Q) è la sua instabilità: " Se ( ...) ci venisse la tentazione di asserire che la moneta è la bevanda che stimola l'attività del si­ stema, dovremmo rammentarci che vi possono essere parecchi diaframmi fra il bicchiere e le l abbra " (TG p. 3 3 3 ). Secondo la nostra analisi, la "bevanda " può non finire in bocca a causa di "diaframmi " dovuti: r) al legame tra quantità di moneta e sag­ gio d'interesse sui crediti monetari; 2) al legame tra saggio d'in­ teresse sui credici monetari e saggio di capitalizzazione su speci­ fici flussi di rendimenti futuri attesi; 3) alle fluttuazioni dei rendimenti futuri attesi dovute a variazioni delle aspettative di lungo periodo. A causa di questi " diaframmi", anche se esistono situazioni nelle quali la moneta può fungere da strumento di politica eco­ nomica, nel senso che modeste variazioni della quantità di mo­ neta possono dar luogo a modeste variazioni degli investimenti

CAPITOLO QUINTO

e quindi della domanda aggregata, esistono tuttavia altre situa­ zioni nelle quali il potere della quantità di moneta di influen­ zare l'andamento dell'economia è pressoché nullo. Variazioni nei legami che abbiamo testé elencato, nonché fluttuazioni dei rendimenti futuri attesi, possono annullare completamente l'in­ flusso della moneta sul sistema. Keynes dunque ci ha fornito una spiegazione sia del motivo per cui gli investimenti non sono direttamente connessi a fattori tecnologici (come affermavano invece le teorie della funzione della produzione) sia del motivo per cui l'offerta di moneta non è uno strumento affidabile per stimolare gli investimenti. Key­ nes, anche se spesso ha accennato alle varie fasi dell'attività eco­ nomica che si alternano in un susseguirsi irregolare (il ciclo economico), non ha tuttavia elaborato esplicitamente una teoria dei boom e delle crisi. E questo perché, a parte brevi digressioni e accenni affrettati, Keynes non ha mai formulato un modello (o avanzato una spiegazione) sul modo in cui si sviluppa la strut­ tura delle passività delle imprese, delle banche e delle altre isti­ tuzioni finanziarie e sul processo di generazione endogena della moneta e dei suoi sostituti.

Strutture delle passività e investimenti degli operatori econ01nici Keynes, sebbene non abbia affrontato dettagliatamente il pro­ blema del modo in cui il meccanismo di finanziamento incide sull'andamento del sistema economico, ha tuttavia sottolineato che, in un'economia dove gli operatori chiedono e danno a pre­ stito, il meccanismo di finanziamento riveste un'importanza del tutto particolare: Sul volume dell'investimento influiscono due tipi di rischio che comu­ nemente non sono stati distinti, mentre è importante distinguerli l'uno dall'altro. Il primo è il rischio dell'imprenditore o debitore e sorge da dubbi nella mente di questo, riguardo alla probabilità di conseguire effet­ tivamente il rendimento prospenivo che egli spera di ottenere. Se un im­ prenditore arrischia denaro proprio, questo è il solo rischio che conta. Ma dove esiste un sistema di dare e prendere denaro a prestito, inten­ dendo con questo la concessione di prestiti con un margine di garanzia reale o personale, acquista rilievo un secondo tipo di rischio, che possiamo chiamare rischio del creditore. Questo può esser dovuto a eventi morali,

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

ossia alla inadempienza volontaria o ad altri mezzi, possibilmente legali, per sottrarsi all'adempimento dell'obbligazione; oppure all'eventualità che il margine di garanzia si riveli insufficiente, ossia alla inadempienza involon­ taria dovuta a delusione delle aspettative (TG p. 304 ) .

Le imprese commerciali, quando acquistano beni capitali o sul mercato azionario o da produttori di beni d'investimento, utilizzano come valuta sia direttamente che indirettamente ( ov­ vero trasformandoli preventivamente in moneta) i seguenti mezzi di pagamento: prestiti, ipoteche, obbligazioni e azioni ordinarie. Le imprese che finanziano così l'acquisto di nuovi beni capitali si impegnano per contratto a onorare gli impegni di pagamento in contante CC derivanti dall'incremento delle proprie passività, utilizzando i rendimenti futuri attesi Q deri­ vanti dall'utilizzo dei nuovi beni capitali. Tranne che nel caso delle emissioni azionarie questo impegno di pagamento è fissato per contratto, con clausole penalizzanti in caso di inadem­ pienza; per quanto riguarda le emissioni azionarie ogni devia­ zione der-dividendi dal loro valore atteso inciderà sul prezzo delle azioni stesse. Ciascuna acquisizione di beni capitali, mediante acquisto sul mercato azionario o direttamente dai produttori di beni capi­ tali, qualora venga finanziata nel modo sopra descritto comporta un certo margine di garanzia. Gli acquisti di beni capitali addi­ zionali nella maggior parte dei casi vengono finanziati ricor­ rendo in parte a fondi interni, in parte a fondi esterni o presi a prestito (tra i fondi esterni includiamo anche i proventi otte­ nibili mediante l'emissione di nuove azioni). Come abbiamo no­ tato poco sopra, la decisione speculativa fondamentale di ogni impresa riguarda il modo in cui finanziare il controllo dei beni capitali dei quali essa abbisogna : essa riguarda insomma la pro­ porzione tra fondi interni e fondi esterni. In base a tale scelta viene determinata sia l'entità stessa dell'impresa (un indice della quale è dato dal fatturato o dal capitale fisso) sia il, suo tasso di crescita. Esaminiamo ora come un'impresa tipo finanzia i propri inve­ stimenti. Supponiamo che la nostra impresa si attenda di ottenere al termine del periodo corrente un utile lordo di esercizio, dedotti i pagamenti degli interessi sui prestiti e dei dividendi agli azionisti, pari a Q i ; Q i è indipendente dal livello degli investimenti._ diretti

CAPITOLO QUINTO

dell'impresa, anche se il livello aggregato degli investimenti (poi­ ché incide sul livello del reddito) ha una cena influenza sul valore aggregato Q. Quindi Ot rappresenta l'ammontare di fondi in­ terni per il finanziamento che l'impresa si attende di ottenere alla fine del periodo. Supponiamo inoltre che il prezzo d'offerta del bene capitale che l'impresa intende acquistare, Prp fissato dal produttore di questo tipo di bene capitale, non dipenda dal volume degli acquisti della nostra impresa, le cui dimensioni come acquirente di beni capitali sono troppo limitate per far sì che la propria domanda di beni capitali ne faccia variare il prezzo. Quindi la quota di investimenti che possono essere finanzjati facendo ri­ corso esclusivamente a fondi interni è pari a 11 == Q;/P1" cioè PrJ; == Q; . Il vincolo del finanziamento interno è rappresentato s�l piano cartesiano (Pr, l) da un'iperbole equilatera (la curva O cQ; della fig. 5.4). Nella figura 5 ·4• se l'impresa vuole acquistare beni d'investi­ mento pari a l al prezzo P1 , potrebbe finanziare l'intero acquisto esclusivamente con f�ndi interni. Se l'impresa acquista beni d'inve­ stimento pari a 11 > 1 al prezzo Pr , allora la differenza Prl, - Q dovrà essere finanziata prendendo a prestito: per ottenere subito liquidi pari a Prl1 - Q, l'impresa si impegna a pagare in futuro vari flussi di contante (ciò che precedentemente abbiamo chia­ mato CC, ossia impegni di pagamento in contante). Esiste però un'eccezione : l'impresa può disporre di una riserva di moneta contante o di titoli trasferibili con la quale finanziare i prop!i acquisti in beni d'investimento. In un mondo denso di incertezza, ci sono valide ragioni in base alle quali un'impresa o una famiglia in posizione debitoria possono decidere di detenere una riserva di moneta contante o di altre attività finanziarie (cioè debiti di altre unità economiche). Tale riserva di liquidi e di altre attività finan­ ziarie protegge parzialmente la regolare attività produttiva del­ l'impresa dalle vicissitudini di mercato. Quando essa attinge da questa riserva di attività liquide, riduce il proprio grado di prote­ zione. Da un punto di vista analitico una diminuzione nei cusci­ netti di riserve liquide equivale a un aumento nella posizione de­ bitoria dell'impresa: in ambedue i casi si è allargato l'insieme di eventi che mettono in pericolo la capacità dell'impresa di far fronte ai p ropri impegni o di portare a termine i propri progetti; in altre parole, il margine di garanzia diminuisce.

143

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

Per capitalizzare il flusso di rendimenti futuri attesi Q1 (che include dividendi, interessi e altri pagamenti in contante sui prestiti, escluse le imposte) l'impresa utilizza un saggio K. Ciò significa che lo stock di beni capitali dell'impresa è pari a PK1 • K; = K(Q1), valore indipendente dalla struttura finanziaria dell'impresa. L'impresa inoltre capitalizza anche i propri impegni di pagamento in contante, CC, connessi alla liquidazione dei di­ videndi, di interessi, rimborso dei prestiti ecc. Possiamo assumere nel prosieguo della nostra analisi che il saggio di capitalizzazione su CC sia K, anche se sarebbe più realistico supporre che esso sia maggiore di quello utilizzato per capitalizzare i rendimenti futuri attesi Q. Chi prende a prestito sa che i flussi di contante sui pre­ stiti, CC, sono sicuri, mentre i flussi di contante derivanti dai beni capitali, le quasi-rendite Q, non lo sono. Affinché possa aver luogo un investimento è necessario che PK1> K(Q;)!K,;;::: Pr , ovvero è necessario che il prezzo dì un'unità dì capitale sia màggiore o uguale al prezzo di un'unità di bene d'investimento. Se l'impresa decide di non attingere a fondi esterni, allora avremo i = Q;o/Pr (vedi fig. 5.4). Affinché l'acquisto di beni capitali venga finanziato mediante . profitti non distribuiti, Q� o o mediante prestiti, è necessario che K(Q1 - CC;) > 0 . In un ipotetico pianeta ideale dove l'offerta di fonti di finanziamento alle imprese è infinitamente elastica, dove

E,

Rischio del 1 creditore margina l e PK

Rischio del creditore

o

Figura 5 -4

i l, Beni d'investimento

Come si finanzia un'impresa tipo.

' 44

C.\PlTOLO QUINTO

tutti 1 prezzi e i rendimenti futuri attesi non dipendono dalle dimensioni delle imprese, dove rischio e incertezza non fanno mai capolino, se i flussi di contante CC necessari per finanziare l'acquisto di un'unità di capitale fossero inferiori al flusso dei rendimenti futuri attesi, allora un'impresa sarebbe disposta ad acquistare un ammontare illimitato, anzi infinito, di beni capi­ tali. Ma nel mondo più prosaico sul quale viviamo, l'incertezza e il rischio si fanno sentire (sotto forma di rischio del creditore e del debitore), per non parlare dell'esistenza di situazioni di mo­ nopolio e di monopsonio, cosicché, anche se J((Q - CC) > O, l'im­ presa è disposta ad acquistare soltanto un ammontare finito e limitato di beni capitali. Il rischio del debitore ha due aspetti principali. I ) In un mondo segnato dall'incertezza, dove i destini dei vari beni capi­ tali e delle varie imprese differiscono l'uno dall'altro, un opera­ tore avverso al rischio adotterà una politica di diversificazione. Ciò significa che, passata una certa soglia, il cui livello dipende dall'entità delle risorse reali e finanziarie dell'operatore o della società in questione, il saggio di capitalizzazione, utilizzato su uno specifico bene capitale impiegato in un particolare settore industriale, diminuisce a mano a mano che aumenta la quantità di tale bene capitale posseduta dall'operatore. 2) Siccome chi prende a prestito ritiene che i flussi di contante sui prestiti CC siano certi, mentre i rendimenti futuri attesi Q non lo siano, un aumento nella proporzione dell'investimento finanziato ester­ namente fa diminuire il margine di garanzia e quindi riduce il saggio al quale chi prende a prestito capitalizza le quasi­ rendite Q. A causa del rischio del debitore, quindi, il prezzo di domanda dei beni capitali " cade " dalla retta PK (vedi fig. 5 .4): possiamo assumere che tale " caduta" sarà tanto più veloce quanto mag­ giore è l'impiego di questo particolare tipo di bene capitale e quanto maggiore è la quota di fondi presa a prestito. Di norma il prezzo PK inizierà a cadere a partire da un punto alla destra di i (Ì = ammontare di investimenti finanziato internamente, vedi fig. 5.4), anche se talvolta è possibile che esso inizi a cadere a partire da un punto alla sinistra di f. Questa ultima possibilità avrà luogo quando l'impresa incomincia a credere (in seguito a certi eventi) che la situazione ereditata dal periodo precedente

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

145

è caratterizzata da un'eccessiva specializzazione su un partico­ lare tipo di bene capitale e da un bilancio dove la quota di fondi esterni è troppo elevata. In modo analogo può succedere che, in seguito ad altri eventi, l'impresa ritenga invece di dover optare per una politica di maggiore specializzazione e di aumento della quota di fondi esterni. Il rischio del debitore ha un carattere soggettivo : non lo si trova mai citato nei contratti di finanziamento. Esso rappresenta però un elemento centrale per spiegare la volatilità delle aspet­ tative e l'imprevedibilità dello spirito imprenditoriale. Ciò che invece troviamo nei contratti di finanziamento è il rischio del creditore. Data una certa situazione di mercato, il ri­ schio del creditore implica che, a mano a mano che aumenta il rapporto tra fondi esterni e attività complessiva, l'impresa debi­ trice si troverà a dover sborsare un ammontare sempre maggiore per il pagamento dei propri impegni contrattuali. Nei contratti finanziari il rischio del creditore assume svariate forme, tra le quali possiamo menzionare le seguenti: saggi dì interesse più a�ti, scadenze più ravvicinate, il pegno di certe specifiche attività a garanzia del prestito, restrizioni sui dividendi distribuiti e su ulteriori prestiti. Il rischio del creditore aumenta all'aumentare del rapporto tra fondi presi a prestito e capitale netto e all'au­ mentare del rapporto tra impegni di pagamento e rendimenti futuri attesi. Possiamo ora affermare che il prezzo corrente di offerta di un bene capitale per un possibile acquirente non è il prezzo unitario al quale il bene capitale viene acquistato. Il vero prezzo di offerta è dato dalla somma tra il prezzo al quale il produttore ( o il proprietario) è disposto a vendere il bene ca­ pitale e il valore capitalizzato della differenza tra gli impegni di pagamento previsti nel contratto di finanziamento esterno e gli impegni di pagamento impliciti, cui l'impresa avrebbe dovuto far fronte se avesse finanziato internamente la spesa d'investi­ mento. Questa " aggiunta " non è altro che il valore capitalizzato del reciproco dell'assicurazione. Quanto maggiore è il saggio dì ìndebitamento (leverage) e cioè quanto maggiore è il rapporto tra prestiti esterni e fondi interni, tanto maggiore sarà questa " aggiunta ", cioè la differenza in eccesso degli impegni contrat­ tuali di cassa. Quindi la curva del prezzo effettivo Pr presenterà

CAPITOLO QUINTO

una discontinuità in corrispondenza del livello degli investi­ menti finanziabile facendo ricorso unicamente a fondi interni, cioè i nella figura 5 + Dopo che l'impresa ha provveduto a fi­ nanziare parte del proprio investimento ricorrendo a prestiti, è ragionevole prevedere che la curva Pr non solo inizierà a salire, ma salirà a un saggio sempre più elevato. Per di più, all'aumen­ tare del saggio di indebitamento contrattuale, tutti i prestiti emessi dall'impresa dovranno conformarsi al contratto margi­ nale, allorché vengono rifinanziati: in virtù di questo fatto, dopo un ceno periodo di tempo, la relazione chiave in base alla quale l'impresa prende le proprie decisioni di finanziamento (relazione nella quale è inglobato il rischio del creditore) sarà quella rap­ presentata dalla curva marginale rispetto alla parte crescente della curva di offerta, equivalente alla curva di offerta di " mo­ nopsonio" (cioè la curva tratteggiata " rischio marginale del creditore " della figura 5.4). La caratteristica fondamentale comune al rischio del debitore e a quello del creditore è che entrambi riflettono opinioni sog­ gettive. Due imprenditori messi di fronte alle stesse circostanze obiettive possono, in base ai loro diversi temperamenti personali, avere idee opposte circa il rischio del debitore; uno di essi può decidere di investire, diciamo l� o l'altro potrebbe essere disposto a investire di più o di meno. I dati statistici sull'andamento dei saggi di interesse sui prestiti (che le agenzie specializzate pub­ blicano nelle loro " graduatorie di merito" circa la solvibilità di imprese, private e municipalizzate, che chiedono a prestito) pos­ sono essere spiegati in termini di rischio del creditore, così come il fatto che le imprese devono spesso pagare alle banche un saggio di interesse superiore a quello normale (prime rate). Ad ogni dato istante, sembra che sul " mercato " vi sia un certo consenso tra gli operatori circa gli. investimenti che è possibile finanziare mediante prestiti (per ciascuna impresa in una certa "graduatoria di merito " di solvibilità). Tale consenso d i opi­ nioni è però soggetto ad alterarsi, in senso restrittivo o espan­ sivo: durante le varie fasi del ciclo economico possiamo infatti notare come variano in modo regolare e sistematico sia il livello accettabile che quello effettivo del rapporto tra prestiti e capi­ tale netto. Il volume degli investimenti viene determinato dall'interse­ zione della curva di domanda (tenuto conto del rischio del debi-

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

1 47

tore) con la curva di offerta (tenuto conto del rischio del credi­ tore). Nella figura 5·4 le due curve (debitamente aggiustate onde tener conto del rischio del creditore e del debitore) si incrociano nel punto D� . cui corrispondono un investimento pari a /1 e un prezzo per unità di bene capitale pari a PI . La spesa complessiva di investimento (pari all'area OPrPr'/1) verrà finanziata in parte ricorrendo a fondi interni (l'area OAA 1/1), in parte utilizzando fondi presi a prestito (l'area A A 1Pr'P1). Per quanto riguarda i rendimenti futuri attesi per unità di capi­ tale, a causa del ricorso a prestiti esterni, l'impresa dovrà impe­ gnare flussi di contante proporzionali ad A1Cd/1E� t mentre l'azionista della società si attenderà di incassare flussi di contante proporzionali a (/1A1 + C1E1 ) // 1E 1 • Una volta che i beni capitali così acquisiti sono stati inseriti nel processo produttivo dell'impresa e ammesso che essi fruttino le quasi-rendite Q c_?me previsto, allora i beni capi�ali 0/1 , capi­ talizzati al saggio K, avranno un valore pari a Px . Il valore totale dei beni capitali sarà quindi pari a OPxE1/1 : chi ha investito in questa impresa avrà fatto un guadagno in conto capitale. I pre­ stiti, il cui ripagamento è adesso più certo, genereranno un flusso di contante proporzionale a A 1 C 1 , ma saranno capitalizzati a un saggio di interesse inferiore a quello iniziale, in quanto l'inte­ resse aggiuntivo dovuto al rischio del creditore si sarà mostrato essere troppo elevato. Di conseguenza anche chi ha prestato con­ tante a questa impresa avrà realizzato un guadagno in conto capitale. Gli azionisti vedranno salire il valore del loro investi­ mento Q, da un livello iniziale pari a OAA 111 a un nuovo valore pari a (OAA 1/1 + CPxE1C1). Tale circostanza dovrebbe avere ovvie conseguenze sul prezzo al quale verranno scambiate le azioni dell'impresa. Il fatto che l'ammontare degli investimenti sia li­ mitato dalla presenza del rischio del debitore e del creditore fa sì che dai risultati positivi ottenuti con l'impiego dei beni capi­ tali scaturiscano dei guadagni in conto capitale tanto per i credi­ tori che per i debitori. Il detto shakespeariano: "Non essere né creditori né debitori" non tiene conto che sia gli uni che gli altri possono accaparrarsi buoni guadagni in conto capitale. L'andamento degli investimenti è oltremodo sensibile al rischio del creditore e del debitore. Se la curva di domanda (che ingloba il rischio del debitore) "cade " assai rapidamente dalla retta Px

CAPITOLO QUINTO

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Sensibilità degli investimenti ai preventivi di rischio.

e se la curva di offerta (che ingloba il rischio del creditore) si " alza" assai rapidamente dalla retta PK , allora la maggior parte della spesa d'investimento verrà finanziata con fondi interni. Se invece queste due curve hanno una pendenza piuttosto moderata (anziché molto accentuata come nel caso appena descritto), allora si ricorrerà essenzialmente a fondi esterni. In ogni periodo l'impresa eredita dal passato sia una certa struttura delle passività sia un certo insieme di beni capitali. Se gli effetti dell'esperienza sulle preferenze e sulle aspettative sono tali da far diminuire il livello del rischio del debitore e del cre­ ditore, in modo tale che per un dato Q si faranno spese d'inve­ stimento pari a /2> / 1 (vedi fig. 5-s), allora dovrà aver luo go uno slittamento nel valore del rapporto prestiti/capitale netto accettabile in relazione allo stock di beni capitali posseduto dal­ l'impresa. Questa circostanza metterà in luce il fatto che l'im­ presa può adesso finanziare i propri investimenti mediante pre­ stiti, utilizzando la garanzia rappresentata dallo stock di beni capitali in suo possesso. Ciò significa che, in base allo stock di beni capitali dell'impresa, il rapporto tra CC (il contante dovuto per far fronte ai debiti) e Q (gli utili lordi al netto delle tasse) è basso rispetto al livello ora ritenuto accettabile. In un periodo durante il quale gli operatori diminuiscono la propria avversione

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

1 49

al rischio, la quota dei fondi esterni per il finanziamento degli investimenti, ottenuta dando in garanzia i profitti futuri attesi (saggio d'indebitamento) può essere molto elevata, in quanto l'incremento di valore del capitale aumenta la capacità di pren­ dere a prestito da parte dell'impresa. Se la diminuzione nell'avversione al rischio influisce sulle scelte delle famiglie proprietarie di titoli azionari nello stesso modo in cui influisce sulle scelte dei manager e dei banchieri (ovvero coloro che stabiliscono il valore accettabile dei coeffi­ cienti di indebitamento), allora le famiglie saranno maggiormente disposte ad acquistare nuovi titoli azionari, contraendo dei pre­ stiti che i banchieri saranno dispostissimi a concedere. Questo fatto provocherà un aumento nel prezzo dei titoli azionari. Se­ condo l'interpretazione di Keynes questo incremento nel prezzo di mercato delle azioni implica "un aumento dell'efficienza mar­ ginale del capitale in questione " (TG p. 3 r 1 , nota a), ovvero, usando la nostra terminologia, implica un aumento di Px ri­ spetto a date Q. Keynes notava che " durante una violenta espansione econo­ mica la valutazione comune della grandezza di entrambi questi rischi, sia il rischio del debitore che ìl rischio del creditore, può diventare eccezionalmente e imprudentemente bassa " (TG p. 305). Questo implica che, durante una base di boom, il rapporto tra crediti per il finanziamento degli investimenti e volume de­ gli investimenti aumenta, come testimoniano le statistiche dispo­ nibili sui debiti delle società. L'investimento aggregato

Fin qui abbiamo condotto la nostra discussione in termini di una singola impresa o di una singola famiglia. Per poter gene­ ralizzare le conclusioni finora raggiunte a ll'economia nel suo complesso è necessario svolgere un ceno lavoro di aggregazione. Dall'analisi precedente è emerso che, dato un ceno stock di beni capitali, le scelte di portafoglio ci forniscono una relazione funzionale tra prezzo di mercato dei beni capitali in generale e quantità di moneta tale che il prezzo di mercato di un partico­ lare bene capitale è connesso positivamente alla quantità di mo-

1 50

CAPITOLO QUINTO

neta. In questa funzione, che abbiamo scritto come P�r = P�r (M, Q), sono presenti i tre " diaframmi " menzionati da Keynes: quello tra ,moneta e saggio d'interesse sui prestiti monetari; quello tra saggio d'interesse sui prestiti monetari ed efficienza marginale del capitale (ovvero i fattori di capitalizzazione sui beni capitali); quello, infine, tra efficienza marginale del capitale e rendimenti futuri attesi dei beni capitali . Data una certa quan­ tità di moneta, questa relazione determina la curva del prezzo di domanda dei beni d'investimento. La derivata della funzione di domanda dei beni capitali rispetto alla quantità di moneta ha segno positivo. Nella figura 5.6 abbiamo rappresentato la relazione esistente tra i fondi di finanziamento e l'im;estimento aggregato. La curva d'of­ ferta dei beni d'investimento è una funzione crescente del volume degli investimenti. Il livello atteso dei fondi interni è dato da Q(i). L'ammontare effettivamente realizzato di investimenti è determinato dall'intersezione delle curve P11L e Px;B , rispettiva­ mente la curva del prezzo d'offerta dei beni d'investimento (con­ dizionale al rischio del creditore, L, calcolato dai banchieri) e la curva del prezzo di domanda dei beni d'investimento ( condizio­ nale al rischio del creditore, B, calcolato dalle imprese). Le im­ prese prevedono di finanziare la spesa complessiva in beni d'in­ vestimento (pari a OBB1/1 della fig. 5.6) in parte utilizzando fondi interni (OAA 1/1) in pane ricorrendo a prestiti esterni (ABB1A 1). Supponiamo che le imprese abbiano redatto il proprio piano di investimenti pari a /1 in base ai profitti che esse si attendevano di ricavare nell'ipotesi che il livello del reddito fosse sufficiente a finanziare un ammontare aggregato di investimenti pari a i. In realtà gli investimenti globali sono pari a /1 : questa differenza positiva tra investimenti pianificati e investimenti realizzati pro­ duce un livello di reddito aggregato maggiore del previsto e quindi anche un flusso di fondi interni, Q(I1), superiore alle pre­ visioni. Di conseguenza, il flusso di fondi interni è tale che adesso la quota d'investimenti finanziata internamente è pari a Oi:l..ìl 1/1 (il resto, pari a .i4.BB1:4 1 ! viene finanziato con fondi esterni). Nel caso illustrato nella figura 5 .6, il maggior livello di profitti fa venir meno il bisogno dell'impresa di ricorrere a prestiti per finanziare i propri investimenti e nel contempo rafforza la dispo­ nibìlità di banchieri e imprese a finanziare, mediante prestiti, ulte-

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

151

riori acquisti di beni d'investimento. Questa capacità d i prendere a prestito rimane così inutilizzata e disponibile per finanziare pro­ getti futuri d'investimento. Inoltre, siccome il costo del prestito è minore del previsto, i dividendi saranno più pingui; senza contare che tali incrementi nel flusso di fondi interni avranno effetti positivi sul prezzo delle azioni. La visione degli investimenti che ricaviamo da quest'esem­ pio sottolinea il fatto che l' " opinione degli operatori " circa il rischio del creditore e del debitore (opinione chiaramente in­ fluenzata dalle recenti congiunture economiche) regola l'anda­ mento degli investimenti e quindi, in ultima istanza, dell'intera economia. Ogniqualvolta aumenta la disponibilità a finanziare gli investimenti mediante prestiti e ogniqualvolta tale disponibi­ lità viene utilizzata nel modo illustrato dalla figura 5. 5, aumenta anche il rapporto CC/Q. Non appena CC cresce a un saggio maggiore di quello al quale aumenta Q, i profitti lordi al netto delle tasse e degli impegni di pagamento sulle passività inizie­ ranno a salire a un saggio inferiore a quello al quale aumentano gli investimenti e i prestiti. Creditori e debitori cercheranno quindi nuovi modi di finanziamento e i debitori marginali si troveranno a doversi rivolgere sempre più spesso a creditori che a ttribuiscono un valore sempre più alto alla liquidità: le condi­ ZiOni alle quali sarà possibile prendere a prestito diventeranno

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Finanziamento e investimenti a livello aggregato.

CAPITOLO QUINTO

via via più onerose. Ciò significa che i fondi liquidi generati da Q potranno dimostrarsi insufficienti a coprire il fabbisogno di liquidi di breve periodo necessario per. ripagare i prestiti. Que­ sta spiacevole circostanza è dovuta al fatto che la maggior pane dei prestiti contratti in periodo di boom sono a breve scadenza: la loro estinzione richiede un afflusso di liquidi più veloce di quello generato dallo svolgimento dell'attività produttiva. Gli agenti economici che ricorrono a questo tipo di prestiti si tro­ vano costretti, quando essi vengono a scadenza, a rifinanziarsi contraendo ulteriori prestiti. Un boom, una volta scoppiato, vive un'esistenza piuttosto precaria. La sua permanenza in vita dipende dal realizzarsi o meno delle ottimistiche aspettative sui rendimenti degli investi­ menti, cosicché chi ha investito in azioni, in beni strumentali e in prestiti possa godere un guadagno in conto capitale. Per tutta una serie di motivi (quali una tendenza all'aumento dei salari o dei costi di produzione; le conseguenze negative sul valore dei prestiti a lunga scadenza derivanti dalla tendenza al rialzo dei saggi d'interesse ; l'elevato onere di rifinanziamento dei prestiti venuti a scadenza) può darsi il caso che una vasta massa di ope­ ratori sia costretta contemporaneamente a tentare di rastrellare contanti, utilizzando la liquidità che si presume sia inglobata in certe attività finanziarie in loro possesso; in altre parole tali operatori tenteranno di rendere " liquide " le loro attività finan­ ziarie. Per alcuni di loro inoltre l'onere dei prestiti (l'ammon­ tare di contanti che si sono impegnati a versare) può diventare così pesante da costringerli a vendere o a impegnare i propri beni capitali in modo da ottenere contanti con i quali far fronte ai propri debiti. Questo può succedere tanto alle imprese indu­ striali quanto alle organizzazioni finanziarie. Un'attività si considera liquida fintantoché i venditori non prevalgono sui compratori. Ogniqualvolta si diffonde il bisogno di sbarazzarsi di titoli, i prezzi possono crollare rovinosamente a meno che non vi sia un robusto mercato di sostegno attivabile in caso di necessità (per esempio una banca centrale armata di buona volontà). Quando cadono i prezzi dei titoli, incluse le azioni, cade anche la corrispondente efficienza marginale o, al­ ternativamente, il corrispondente prezzo di domanda dei beni capitali.

TEORIA DEGLI INVESTIMENTI

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Gli investimenti e le condizioni di finanziamento.

INSTABILITÀ FINANZIARIA

per il processo produttivo; per le imprese finanziarie, la " posi­ zione" è costituita invece da attività con mercati secondari sca­ denti. Man mano che si sviluppa un periodo di boom, famiglie, im­ prese e istituzioni finanziarie sono costrette a imbarcarsi in ope­ razioni sempre più rischiose per assumere determinate posizioni di portafoglio. Una volta esaurita la possibilità di prendere a prestito da Tizio per ripagare un debito contratto con Caio, agli operatori economici non restano che due alternative : ven­ dere parte delle loro posizioni di portafoglio o ridurre (del tutto o in parte) l'acquisto di attività. Per le imprese produttive ciò significa ridurre il saggio d'indebitamento utilizzato per finan­ ziare nuovi investimenti. Nella figura 6. 1 il livello desiderato d'investimenti da parte dell'impresa slitta da I 1 a I2 allorché banchieri e imprese diventano più ottimisti, mentre slitta da I2 a I1 nel caso contrario, quando cioè imprese e banchieri si sen­ tono maggiormente vincolati dalle condizioni di finanziamento. Quando la domanda di moneta a scopo speculativo subisce un aumento a causa dell'accresciuto pericolo derivante da strut­ ture delle passività considerate poco rassicuranti, allora le im­ prese, le famiglie e le istituzioni finanziarie tentano di vendere le proprie attività onde poter ripagare i propri debiti. Questo fatto provoca una caduta del prezzo dei beni capitali; assiste­ remo cioè a uno slittamento verso il basso della funzione PK 1 (M, Q)

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Figura 6.2

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La relazione tra la funzione PK e la moneta.

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CAPITOLO SESTO

Px(M, Q) da Px, a PK, (vedi fig. 6.2): una caduta dei corsi azio­ nari è un fenomeno tipico di situazioni di crisi. Il processo di deflazione creditizia - quale quello descritto da Fisher ( 1 933) - successivo a un periodo di crisi trae origine da due particolari situazioni: nella figura 6. 3 abbiamo illustrato una di esse, riferita a una singola impresa. Il prezzo di domanda dei beni capitali desunto dalla capitalizzazione di mercato delle quasi-rendite è maggiore del prezzo di offerta, ma il rischio del debitore è così grande che l'investimento è minore del livello finanziabile ricorrendo unicamente a fondi interni. Nella figura 6.4 abbiamo illustrato la seconda situazione: il prezzo di do­ manda dei beni capitali è inferiore al prezzo di offerta; in que­ sto caso gli investimenti tenderanno a zero. Tutti i fondi interni vengono utilizzati per ripagare i debiti dell'impresa. In una si­ tuazione come questa uno dei principali obiettivi perseguiti dalle imprese, dalle banche e dagli intermediari finanziari è quello di mettere a posto i propri stati patrimoniali. In situazioni come quelle descritte nelle figure 6. 3 e 6.4, le imprese spesso tenteranno di " consolidare " i loro debiti a breve, emettendo debiti a lunga, con i quali sostituire i debiti a breve venuti a sca­ denza. In tale modo vengono ridotti gli impegni di pagamento in contante a breve termine presenti nella struttura delle paso

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Beni d ' i n vestimento

Figura 6.3

Deflazione creditizia e rischio del debitore.

INSTABILITÀ FINANZIARIA

sività. Questa politica di " consolidamento " tenderà a far per­ manere su livelli elevati (se non addirittura a far salire) i saggi di interesse a lunga anche se i saggi a breve diminuiscono: le banche dispongono di fondi d a dare a prestito, ma i debitori (e le banche stesse) non sono disposti a utilizzarli. La situazione descritta dalle figure 6. 3 e 6.4 non è più quella di un periodo di boom, ma quella di un processo deflazionistico creditizio. Gli sviluppi sui mercati finanziari si ripercuotono sulla domanda di beni di investimento e quindi, mediante il moltiplicatore, sulla domanda di beni di consumo: al termine di questo processo di retroazione, l'economia si trova in uno stato di disoccupazione e di depressione. Esiste però una serie di fattori che pone fine al processo de­ flazionistico creditizio e alla caduta di reddito che esso com­ porta: l'azione di stabilizzazione di breve periodo delle spese per consumi, della spesa pubblica e del prelievo fiscale; l'influsso di quelle attività monetarie cui non corrisponde un debito equiva­ lente; gli interventi della banca cenuale in quanto creditore di ul­ tima istanza. Il processo deflazionistico creditizio però, a causa dei suoi effetti sugli investimenti e sul livello desiderato di inde­ bitamento (tali effetti non solo hanno conseguenze immediate, ma anche influssi assai prolungati nel tempo), provoca il perdu­ rare di uno stato di disoccupazione. Al processo deflazionistico creditizio cioè segue una fase di stagnazione produttiva di dug P, c: CII

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Beni d'in vestimento

Figura 64

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Prezzo di offerta maggiore del prezzo di domanda.

168

CAPITOLO SESTO

rata e d'intensità ignote, segnata da modesti livelli di reddito e da un'elevata disoccupazione. Allorché sfumano le ripercussioni psicologiche soggettive le­ gate alla deflazione creditizia, allorché ha luogo un processo di disinvestimento e gli operatori riassestano le proprie posizioni finanziarie, l'economia comincia a riprendersi e a crescere. Du­ rante la fase di ripresa nella memoria degli operatori saranno ancora impressi i ricordi delle gravi difficoltà passate durante la deflazione creditizia, a causa di posizioni debitorie troppo sbilanciate, e le strutture delle passività saranno quindi carat­ terizzate da un basso saggio di indebitamento. II successo dà alla testa e induce a rischiare : così i ricordi delle passate calamità svaniscono. La stabilità, persino durante una fase espansiva, ha effetti destabilizzanti in quanto gli operatori (prima i più pronti, poi tutti gli altri) vedono che è profittevole impegnarsi in ope-_ razioni di finanziamento degli investimenti più audaci. L'espan­ sione diventa sempre più marcata e sfocia in un vero e proprio boom. Come osservava Keynes, in un'economia capitalistica, " in misura significativa, sono le strutture 'finanziarie' a determinare l'andamento di nuovi investimenti" ( 1 93 7b, p. 248), e ricordiamo che quest'ultimo determina il livello del reddito e dell'occupa­ zione. Keynes scriveva che di fronte a una situazione di incertezza '' in pratica si è tacitamente convenuto, di regola, di ricorrere sostanzialmente a una convenzione " (TG p. 3 1 2 , corsivo di Key­ nes). In un'economia capitalistica l'aspetto meno legato a consi­ derazioni tecnologiche o a caratteristiche psicologiche della natura umana, l'aspetto dove più evidente è l'influsso della " con­ venzione " o della "moda ", soggetto a ondate di ottimismo e pessimismo, attento alle predizioni degli indovini, è quello co­ stituito dalla struttura delle passività delle imprese industriali e finanziarie. In una economia dove la gente può dare e prendere a prestito, l'ingegno degli operatori viene applicato allo sviluppo e all'introduzione di nuove tecniche sia finanziarie che di pro­ duzione e di distribuzione. I finanziamenti sono spesso fondati sulla ipotesi " che lo stato di cose esistente continuerà indefini­ tamente " ( TG p. 3 1 2 ) , ipotesi che evidentemente si rivela in­ fondata. Durante un periodo di boom, lo "stato di cose esi­ stente " significa guadagni in conto capitale e rivalutazioni delle

INSTABILITÀ FINANZIARIA

! 60

durante un periodo di normale espansiOne 1»0 durante un boom (violenta espansione) 1 � O durante una recessione 1«0 durante una deflazione creditizia.

Q sta a indicare i profitti non distribuiti durante il periodo in esame, mentre ,l. indica un coefficiente variabile di indebitamento applicato ai profitti non distribuiti (i simboli » e « vanno letti come "di gran lunga superiore " e "di gran lunga inferiore "): M) quindi è l'ammontare di finanziamenti esterni. Il vincolo di bilancio della spesa per consumi delle famiglie è il seguente : C = W+aD a è la frazione di reddito non salariale che

dove le famiglie spen­ dono in beni di consumo. Il vincolo globale di bilancio è la somma dei bilanci delle spese di consumo e di investimento: �

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W+aD + ( 1 + 1)Q.

Una , f raziotte del fr-� a)D, non viene

reddito percepito dalle famiglie, pari a destinata a finanziare l'acquisto di beni �i consumo; mediante il processo di intermediazione finanziaria una frazione di questo risparmio delle famiglie, pltti !l�uç I-"""1t}U,. _yjene resa disponibile per finanziare gli investimenti. Il rima_: nente, pari a ( r -u)(r - a)D, ra_p_presenta quindi la domanda i_�crementale di moneta per usi di portafoglio da parte delle: famiglie . Dal momento che le famiglie con redditi da capitale sono le uniche a detenere portafogli con attività finanziari a frazione u rappresenta la domanda incrementale di moneta per usi di portafoglio. Possiamo assumere che quest'ultima sia pari alla domanda media di moneta per usi di portafoglio, anche se, volendo essere più precisi. u dovrebbe essere una variabile di­ pendente dallo stato d'incertezza e dal saggio d'interesse sui prestiti monetari.



1 IMPLICAZIONI DELL INIERPRETAZIONE ALTERNATIVA

I 77

Qualora .ii Q> u( I - a )D, allora una certa quota di investimenti dovrà venir finanziata con fondi non derivanti dal riciclaggio del risparmio delle famiglie da parte degli intermediari finan­ ziari. La differenza fra domanda di fondi per finanziare gli inve­ stimenti e l'offerta di fondi derivanti dal risparmio delle famiglie, pari a M)-u( I - a) D , può ve11ir çolmata da un aumento del� _l'offerta di moneta oppure da una diminuzione della quantità di moneta tenuta per usi di portafoglio (cioè un aumento della velocità di circolazione) o da entrambe. In ultima analisi, la teoria keynesiana degli investimenti concerne da un lato i meccanismi mediante i quali l'offerta di · moneta reagisce alla domanda di fondi per il finanziamento degli investimenti, dall'altro il mod-oi n cui i portaf�gli reagiscono alle condizioni \rigenci sui mercati finanziari (nonché il meccanismo mediante il quale variazioni nell'incertezza e nelle condizioni dei mercati fi­ nanziari influiscono sul gio di indeb��a_ITJen_s� . Se traduciamo le ioenti1T contabiTI. . sopra descritte in equa­ zioni espresse in termini di variabili ex post ed ex ante, che spesso ritroviamo nelle analisi dei modelli aggregati elementari, pos­ siamo esaminare un po' più attentamente come la determinazione del reddito dipenda da variazioni degli investimenti e delle grandezze monetarie. Supponiamo che la spesa per consumi pianificata per un qualsiasi periodo t dipenda dal reddito sa­ lariale e da capitale percepito dalle famiglie nel periodo pre­ cedente, ovvero



C,

ex ante

=

_

W,_1 + a D, _ 1 •

Gli investimenti pianificati sono pari agli utili non distribuiti moltiplicati per un certo saggio di indebitamento: !, ex ante = ( I + À)Òr- 1

cosicché otteniamo

Y,ex ante = W,_ , + aDI-t + ÒI- t + ÀQ,_, . Siccome

Yr- 1 ex post = wl-l + D1-1 + 0, _ , Y, ex ante > Y,_ 1 ex post

CAPrrOLO SETIIMO

178

qualora aD,_1 + ..1.Q,_1 > D,_1

ovvero qualora ..1.Q,_ 1 > ( 1 - a) D1_1 ,

_Affinché cresca il reddito è quindi necessario che l'ammontare di investimenti finanziato con fondi esterni sia superiore al risparmio delle famiglie. Assumendo che una percentuale u dei risparmi delle famiglie venga resa disponibile per il finanziamento per gli investimenti, abbiamo che ..1.Q,_l = �M, + u( I - a)D,_ 1

cosicché, per avere Y, ex ante > Y,_ 1 ex post

· dovrà essere soddisfatta la seguente diseguaglianza: �M1> ( I - a)D,_ 1 - U( I - a)D,_1

ovvero �M, > ( I - U)( I - a)D,_ 1

dove �M, può essere interpretato come un aumento sia dell'of­ ferta di moneta che della velocità di circolazione. Nel modello che abbiamo descritto a grandi linee l'andamento del reddito, interpretato come vincolo aggregato di bilancio, di­ pende essenzialmente da due fenomeni: la determinazione della domanda complessiva di investimenti, ( 1 + ..l) Ò , e il finanziamento esterno degli investimenti, effettuato mediante variazioni delle grandezze monetarie, .dM,. La domanda e l'occupazione aggre­ gate dipendono dunque dalle opinioni che banchieri e uomini d'affari hanno circa la struttura considerata accettabile dei rap­ porti finanziari. Tali opinioni sono assai volubili: reagiscono all'andamento passato dell'economia e cambiano continuamente nel processo di transizione tra i diversi stati sistemici tipici del capitalismo (boom, crisi, deflazione creditizia, stagnazione, espan­ sione relativamente sostenuta).

IMPLICAZIONI DELL ' INTERPRETAZIONE ALTERNATIVA

1 79

Deflazione e inflazione in un'economia dai meccanismi di finanziamento capitalistici La teoria keynesiana degli investimenti è basata su due stTY.:: menti analitici fondamentali: r) la funzione di portafoglio, che connette il prezzo di domanda di beni capitali alla struttura cìèi portafogli detenuti dalle �anche, dalle imprese � dalle famigl z ) la funzione di offerta dei beni di investimento, che connette prezzo di offerta e volume prodotto di beni di investimento. Il collegamento tra il prezzo di domanda dei beni capitali e il prezzo di offerta dei beni di investimento è costituito dalle condizioni alle quali è possibile finanziare l'acquisto di beni di investimento e di beni capitali, condizioni che dipendono dalle opinioni che ban­ chieri e uomini d'affari hanno circa il rischio insito nel dare e prendere a prestito. Finora ci siamo concentrati esclusivamente sul meccanismo mediante il quale l'incertezza influenza la p osizione della fun­ zione che determina il prezzo di domanda dei beni capitali, esa­ minando al contempo gli effetti dell'incertezza sul modo (e la misura) in cui i fondi interni e il valore patrimoniale delle im­ prese vengono utilizzati per prendere a prestito. Abbiamo sin qui assunto che la funzione di offerta dei beni di investimento sia fissa. Nelle pagine seguenti invece esamineremo il modo in cui i salari e ciò che Keynes ha definito il " costo delle utilizzazioni " (user cost) determinano la posizione di questa funzione su un piano cartesiano le cui coordinate indicano il prezzo e il volume dei beni di investimento. Secondo Keynes il saggio di salario mo­ netario e il costo delle utilizzazioni determinano la posizione della curva di offerta dei prodotti finali: variazioni in questo tipo di costi influiscono direttamente sul livello dei prezzi. Inoltre, in un mondo dove incombono sempre il passato e il futuro (sotto forma di impegni finanziari assunti in passato o sottoscritti di recente), i processi di inflazione e di deflazione salariale si auto­ alimentano e hanno effetti destabilizzanti. Ecco quindi che, �pa­ rere di Keynes, il suggerimento degli economisti classici di curare l�- disoccupazione mediante tagli salariali (suggerimento la ciii validità è riaffermata dalla sintesi neoclassica, grazie all'effetto saldi reali) tende a far aumentare, anziché diminuire la disoc­ cupazione.

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1 Bo



CAPITOLO SETIIMO

Una volta introdotti i salari monetari e i costi delle utilizzazioni nelle funzioni di offerta dei beni di investimento e di consumo, potremo studiare la natura e le ripercussioni delle inflazioni e delle deflazioni salariali: risulterà così evidente sia l'inefficacia dei tagli salariali per eliminare la disoccupazione sia il ruolo chiave nel processo inflazionistico svolto dal saggio di salario monetario vigente nell'industria dei beni di investimento. Più in particolare, se la politica economica fa degli investimenti la variabile centrale per il sostegno della piena occupazione e se si verifica un aumento salariale "nell'industria dei beni di investimento, allora la politica fiscale e monetaria si adeguerà passivamente alla pressione sui prezzi, anziché esserne la causa iniziale; questa infatti va ricer­ cata nel processo di determinazione dei salari. I ricavi ottenuti dalle vendite dei prodotti finali possono es-· sere suddivisi in tre categorie: costo del lavoro, costo sostenuto per l'acquisto di merci da altre imprese e rendite imputate ai beni capitali. Un imprenditore, al momento di fissare il prel.zo di of­ ferta del proprio prodotto, stabilisce l'ammontare della differenza tra tale prezzo e la somma del costo marginale del lavoro e del ·costo marginale dei materiali. Questo ammontare (o livello mi­ nimo accettabile della quasi-rendita attesa) è ciò che Keynes de­ finisce " costo delle utilizzazioni ": esso rappresenta " la riduzione del valore degli impianti e delle scorte dovuta alla loro utilizza.: zione in confronto al loro valore nel caso di non utilizzazione ( ...) Quindi esso deve essere determinato calcolando il valore at­ tuale del maggior reddito atteso che potrebbe ottenersi in futura, se gli impianti e le scorte non fossero impiegati presentemente " (TG p. 2 3o) :'· Il costo delle utilizzazioni introduce dunque nella determina­ zione del prezzo di offerta sia l'ammortamento, sia una versione particolare del saggio di profitto normale (o atteso). L'assunzione che sta alla base della teoria del costo delle utilizzazioni è che se un bene capitale viene utilizzato oggi per produrre beni, esso non sarà disponibile per la produzione di beni in futuro. Si assume inoltre che in futuro verranno prodotti beni capitali del tipo at­ tualmente in uso e che ciò avverrà solo se le quasi-rendite attese da tale tipo di bene capitale, scontate a un saggio di interesse po­ sitivo, saranno superiori al suo prezzo di offerta. L'idea � stante"_.a qut:stFt�a è che se i servizi di un bene capitale non vengono impiegati oggi, in futuro da essi si potranno ricavare le

IMPLICAZIONI DELL' INTERPRETAZIONE ALTERNATIVA

_guasi-renditç_ sopra . menzion,ate;_ il valore attuale di tali quasi­ rendite attese rappresenta il limite minimo di quasi-rendite che si è disposti ad accettare oggi; il prezzo di offerta del prodotto fi­ nale includerà tale remunerazione. Possiamo affermare che il li­ vello minimo accettabile delle quasi-rendite rappresenta un " prezzo di prenotazione " (reservation price), al di sotto del quale il valore del mercato non può scendere. Le quasi-rendite minime accettabili dipendono da tre fattori: .. d�!Jivell() di quasi-rendite necessario per indurre gli industriali a produrre beni di investi­ mento; dalla data futura nella quale si prevede di incassare que­ ste quasi-rendite; dal saggio di sconto applicato nel calcolarne il valore attuale. Teniamo presente che se un'impresa si trova in una situazione difficile quanto a liquidità, allora il saggio di sconto applicato ai rendimenti futuri sarà assai elevato. Conseguente­ mente ogni livello corrente delle quasi-rendite maggiore di zero porterà all'impiego del bene capitale in esame. La curva di offerta dei prodotti finiti rispecchia non solo l'andamento .ciclico del­ l'economia, ma anche il clima finanziario corrente. Se un bene capitale non è soggetto a logorio (se cioè si adegua alla definizione ricardiana di " terra " come qualcosa che possiede un originale e indistruttibile potere di produrre), allora esso rap­ presenta un bene-che-frutta-una-rendita-pura, nel senso che né il reddito atteso né il costo di sostituzione determinano l'ammon­ tare di servizi forniti dal bene stesso. Se un bene capitale è scarso, ciò darà luogo a una rendita pura. In un'economia dall'anda­ mento ciclico la scarsità relativa dei vari beni capitali in ogni istante del tempo dipende dalla particolare fase ciclica nella quale ci si trova; per quanto riguarda quei beni capitali che invece sono soggetti a logorio, l'esistenza di un livello minimo accettabile di quasi-rendite provocherà il ritiro da impieghi produttivi di certi beni capitali. In un senso assai profondo, disoccupazione signi­ fica non pieno impiego dei beni capitali. Se .assumiamo che i processi produttivi abbiano coefficienti fissi, allora l'ammontare di servizi da capitale che gli imprendi­ tori intendono utilizzare determina l'ammontare di forza lavoro da assumere. Mentre i servizi da capitale, se non vengono utiliz­ zati oggi, sono disponibili domani, i servizi da lavoro, se non vengono impiegati ora, sono persi per sempre. L'andamento ci­ clico della disoccupazione è attribuibile più al fatto che la do-

CAPITOLO SETTIMO

manda complessiva è insufficiente per generare quasi-rendite suf­ ficientemente allettanti che non al fatto che i redditi salariali non raggiungono un ceno livello. Dal momento che non esiste un " prezzo di prenotazione " per la forza lavoro (fatta eccezione per il costo del viaggio di andata e ritorno dal posto di lavoro), l'eccesso di offerta di lavoro esi­ stente quando i servizi da capitale vengono riservati per impie­ ghi futuri dovrebbe provocare, se i processi di mercato funzio­ nassero regolarmente, una diminuzione dei salari monetari. Tale diminuzione fa slittare verso il basso la curva di offerta dei beni di consumo, ma d'altro canto riduce anche il reddito salariale as­ sociato a ciascun livello di occupazione. Una riduzione salariale fa diminuire inoltre i costi di sostituzione attesi dei beni capitali vigenti nel periodo in cui ci si attende di riutilizzare pienamente gli impianti. Se dunque il tasso di sconto non cambia, anche la componente " costo delle utilizzazioni ", inclusa nel prezzo di of­ ferta dei prodotti finali, subirà una diminuzione .(Am messo che il valore monetario degli acquisti dei beni di investimento finan­ ziati da variazioni nelle grandezze monetarie (�M) non subisci mutamenti, gli investimenti in termini reali potrebbero aumen­ tare. Tale aumento, tramite il moltiplicatore, fa aumentare il red­ dito firpntoché esso non raggiunge un livello .�0. cui la spesa per nuovi beni di investimento è pari alla fJMt..'Hìi risparmiata di pro.fitti non distribuiti, di interessi e di dividendi) In questa analisi abbiamo fatto un'assunzione cruciale, e cioè che la domanda di beni di investimento finanziata da variazioni monetarie non diminuisce al diminuire dei salari monetari. Quando i salari diminuiscono, se si vuole che i lavoratori possano acquistare lo stesso ammontare di prodotti (in termini reali) di prima, è necessario che anche le quasi-rendite seguano i salari nel loro movimento al ribasso. Ricordiamoci però che stiamo esami­ nando un'economia in cui esistono fondi esterni di finanziamento e quindi esistono debiti. Le quasi-rendite attese costituiscono la fonte di risorse con le quali far fronte agli impegni relativi sia ai debiti contratti in passato sia ai debiti appena stipulati. Siccome, quando reddito salariale e quasi-rendite diminuiscono, gli impe­ gni contrattuali su debiti passati non diminuiscono, la propor­ zione dei redditi salariali e delle quasi-rendite destinata a sod­ disfare precedenti impegni contrattuali subisce un aumento: du-

IMPLICAZIONI DELL' INTERPRETAZIONE ALTERNATIVA

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rante una deflazione aumenta l'onere imposto dai debiti. In tali circostanze è ragionevole presumere che le imprese siano meno disposte a indebitarsi per finanziare acquisti di beni di investi­ mento, il cui ammontare perciò diminuisce. Inoltre, quando prezzi e salari iniziano a diminuire, si dif­ fonde tra gli operatori la sensazione che sia possibile fare guada­ gni speculativi in conto capitale mediante la semplice detenzione di moneta: la velocità di circolazione tenderà conseguentemente a decrescere. Invece di utilizzare i profitti non distribuiti per fi­ nanziare spese di investimento, le imprese utilizzeranno tali fondi per far diminuire la propria posizione debitoria (il coefficiente À. del paragrafo precedente diventerà negativo). Si può presumere che una deflazione salariale faccia cadere gli investimenti reali al di sotto del livello in cui inizialmente esisteva un eccesso di offerta di lavoro. Quando ci si trova in una situazione di disoc­ cupazione, il fatto che i salari sono flessibili verso il basso non fa che peggiorare le cose. 1. n un 'economia in cui le autorità pubbliche siano seriamente impegnate a mantenere una situazione di quasi piena occupazione e a tale fine adottino una politica di sostegno degli investimenti privati, un aumento del prezzo di offerta dei beni di investimento, dovuto a un aumento dei salari monetari nell'industria che pro­ duce tali beni (in primo luogo l'edilizia), provocherà un aumento generalizzato d{ prezzi e salari di pari entità. In un'economia di piena occupazione ruotante sugli investimenti privati, un pro­ ' cesso inflazionistico può essere facilmente generato dal processo di determinazione dei salari nell'industria produttrice beni di in­ vestimento e può agevolmente diffondersi su tutti i restanti mer­ cati, grazie alle misure fiscali e monetarie adottate per mantenere la piena occupazione...) Volendo sostenere il livello degli investimenti privati allor­ ché si verifica uno slittamento verso l'alto nella curva di offerta dei beni di investimento, è necessario che abbia luogo o un aumento n�lle qua'si-rendite future attese oppure una diminu­ zione nel saggio di sconto utilizzato per capitalizzare queste ul­ timè� Come abbiamo notato in precedenza,(éntrambi questi feno­ meni si verificano quando l'economia si- muove verso una posizione di piena occupazione e la mantiene per un certo lasso di tempo. çiò avviene in quanto si diffonde l'idea che i cicli .�ano

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CAPITOLO SETTIMO

cose del passato e perciò ci si attende che le quasi-rendite future saranno in media più cospicue e certe. Data la relazione esistente tra prezzo dei beni capitali e prezzo di offerta dei beni di inve­ stimento, è possibile che, all'aumentare di quest'ultimo, il livello degli investimenti rimanga invariato o addirittura aumenti. Una volta però che si sia esaurito l'influsso ciclico sulle quasi­ rendite future attese e sul saggio di capitalizzazione, è necessario controbilanciare ulteriori aumenti nel prezzo di offerta dei beni di investimento (dovuti ad aumenti dei salari monetari), facendo aumentare le quasi-rendite, o in termini relativi (aumentando la quota di quasi-rendite nel reddito di piena occupazione) o in termini assoluti (aggiungendo un certo margine fisso di profitto sui crescenti costi di lavoro di tutti i prodotti)._ Nella misura in cui esiste un limite all'aumento della quota delle quasi-rendite nel reddito, in un'economia di piena occupazione gli aumenti Ael costo del lavoro dell'industria dei beni di investimento pos­ sono essere garantiti soltanto da un'inflazione generale. Esaminando il meccanismo di finanziamento degli investimenti privati in un'economia che da lungo tempo si trova in piena oc­ cupazione è facile capire perché, in un'economia dove la piena occupazione dipende dagli investimenti privati, sia necessario un processo inflazionistico generalizzato. Durante tale processo non solo quote sempre maggiori di investimenti vengono finanziate mediante prestiti, ma anche le posizioni di portafoglio in beni facenti parte dello stock di investimenti privati vengono sempre più finanziate in modo analogo. Una maniera per far sì che il va­ lore capitalizzato delle quasi-rendite si tenga in linea con il cre­ scente prezzo d'offerta dei beni d'investimento è quello di aumentare la quota di posizioni di portafoglio in beni capitali fi­ nanziate mediante prestiti. Siccome sono le quasi-rendite a for­ nire i fondi mediante i quali far fronte agli impegni di cassa sui debiti, banchieri e uomini d'affari saranno concordi nel voler aumentare il rapporto tra fondi esterni (prestiti) e fondi interni di finanziamento, ammesso essi ritengano con sufficiente fiducia che le quasi-rendite in futuro subiranno un aumento, ovvero ritengano che vi sarà inflazione. Le conseguenze sugli investimenti dovute ad aumenti salariali nell'industria produttrice di beni d'investimento possono essere il­ lustrate facendo ricorso a un tipo di rappresentazione grafica che

' IMPLICAZIONI DELL INTERPRETAZIONE ALTERNATIVA

s,

M,

Quantità

di

M,

moneta

M

·a; ., o N N �

Il..

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Beni d'investimento

Figura 7.1 Gli investimenti e i salari monetari dell'industria produttrice di beni d 'investimento.

abbiamo già usato (vedi fig. p ). Se la curva d'offerta dei beni d'investimento inizialmente si trova nella posizione S1-SI J la spesa per investimenti sarà pari a /h finanziata in parte con fondi interni ( 11), in parte con fon di esterni (/1 - 11). In seguito a un aumento salariale nell'industria dei beni d'investimento, la curva d'offerta di tali beni slitterà verso Nord-Ovest (vedi curva SrS2 della fig. 7 . 1 ) e quindi, dato un volume di fondi interni QI J gli investi­ menti finanziati con fondi interni (e presumibilmente gli investi­ menti globali) saranno pari a 12 • Se /1 è il livello d'investimenti necessario per il mantenimento della piena occupazione allora, affinché l'economia non cada in uno stato di disoccupazione, è necessario che il prezzo dei beni facenti pane dello stock di capi­ tale sia superiore a PK, e perché ciò avvenga bisogna che si verifi­ chi o una diminuzione dei saggi d'interesse o un aumento delle quasi-rendite future attese. Ciò è vero perché, se si vuole che il livello degli investimenti sia pari a /1 , con fondi interni pari solo a Q1 , è necessario che aumenti sia il volume che la quota di finanziamenti esterni: ovvero, mentre inizialmente solo Ic11 doveva essere finanziato con fondi esterni, nella nuova situazione, con una curva d'offerta SrS2 , è necessario (se si vuole mantenere la piena occupazione) che lr - 12 venga finanziato esternamente. Per far sì che questo maggiore ammon­ tare di finanziamenti esterni possa essere reso disponibile, le auto­ rità monetarie devono fare in modo che il sistema bancario possa

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CAPITOLO SEITIMO

allargare il credito, ovvero-è necessario un aumemQ__!l� ll'otferta ' di m�neta�uperiore a M1 • Un aumento del valore monet��lo degli Tnve stìménti finanziati esternamente e un aumento dell'offerta di moneta rispetto al valore dei beni capitali implicano un aumento della domanda di beni di consumo e un aumento di domanda d( lavoro nell'industria che produc� ��li 1?�1:'!:- Ciò a sua volta com­ porta un aumento sia dei salari che delle quasi-rendite dell'in­ dustria produttrice di beni di consumo: assistiamo dunque a un processo inflazionistico generalizzato messo in moto dall'accop­ piamento di aumenti salariali nell'industria produttrice di beni d'investimento e dell'impegno delle autorità pubbliche di mante­ nere la piena occupazione mediante il sostegno degli investimenti: Questo fatto provoca uno slittamento verso l'alto della funzioné PK , che quindi si assesta su PK(K, 02). Probabilmente, con un'of­ ferta di moneta pari a M2 e grazie alla nuova posizione della fun­ zione PK(K, 02) , si ricreano le condizioni necessarie affinché venga finanziato un volume d'investimenti pari a /1 • Se lo stimolo monetario non è sufficiente a indurre l'ammon­ tare richiesto di investimenti sarà necessario, se si vuole mante­ nere la piena occupazione, ricorrere a una qualche combinazione di sgravi fiscali e di aumento della spesa pubblica. In un'economia imperniata sugli investimenti è assai probabile che la spesa pub­ blica sia essenzialmente diretta su beni d'investimento e che gli sgravi fiscali siano tali da stimolare innanzitutto gli investimenti (ovvero tali da far aumentare i profitti lordi non distribuiti al netto delle tasse). In entrambi i casi assisteremo a .u n processo di creazione di moneta e di finanziamento esterno degli investimenti, processo che farà aumentare la domanda di consumi e quindi spingerà verso l'alto i salari dell'industria produttrice di beni di consumo. A prescindere quindi dalle specifiche manovre fiscali e monetarie adottate dalle autorità pubbliche, l'iniziale spinta in­ flazionistica originante dall'industria dei beni d'investimento si estenderà inevitabilmente a tutto il resto dell'economia. In un'economia dove i sindacati dell'industria dei beni d'in­ vestimento (soprattutto l'edilizia) sono molto potenti e dove la politica economica mira a sostenere la produzione di tale settore, le variazioni del livello dei prezzi sono determinate essenzialmente dall'andamento dei salari dell'industria dei beni d'investimento. In un'economia siffatta, perché una politica antinflazionistica ab-

' IMPLICAZIONI DELL I�RPRETAZIONE ALTERNATIVA

187

bia successo, è necessario stabilire una qualche forma di controllo istituzionale sugli incrementi salariali in questo settore chiave del­ l'apparato produttivo. Sommario conclusivo dell'interpretazione alternativa Ciascuno stato del sistema è meramente transitorio e in esso sono impliciti gli sviluppi finanziari che assicurano la transizione allo stato successivo: questa è la nozione che sta alla base della nostra interpretazione alternativa. In essa un ruolo di centrale im­ portanza è svolto dal boom, ovvero da quello stato sistemico che costruisce una struttura delle passività dall'andamento esponen­ ziale utilizzando come fondamenta i flussi dei rendimenti futuri attesi dei beni capitali i quali, sia per i vincoli imposti dalla tecno­ logia sia per l'impossibilità di comprimere oltre un certo limite i salari dei lavoratori, al massimo possono crescere, in termini reali, in progressione lineare. La base creditizia, invece, non è soggetta a questi vincoli e durante il boom cresce a saggi sempre più elevati. A mano a mano che aumentano i debiti e il costo dei finanziamenti, si rendono necessari sempre maggiori fondi, fondi che, in ultima analisi possono crescere in termini reali soltanto a un saggio costante; in tali circostanze gli incassi derivanti dalle quasi-rendite non sono sufficienti a fornire il contante necessario per far fronte ai debiti. Ulteriori elementi speculativi derivano dall'esistenza di un si­ stema stratificato di intermediari finanziari che operano nel pro­ cesso di finanziamento. Che il sistema bancario sia per sua stessa natura speculativo deriva dal fatto che le banche fanno prestiti a lunga scadenza e ricevono crediti .a breve. Durante un boom, i ban­ chieri indirizzano tutti i loro sforzi e la loro abilità a trasformare ogni possibile fonte di contante temporaneamente inutilizzata in una fonte di finanziamento per attività produttive o per acqui­ sti di titoli finanziari. Si tende quindi a creare endogenamente una struttura di impegni di pagamento che prevede una sempre mag­ giore sincronizzazione tra incassi ed esborsi di contante, nella quale una quota sempre maggiore di operatori è costretta a con­ trarre nuovi debiti per ripagare quelli venuti a scadenza. Le sorti dell'economia dipendono in misura sempre maggiore dalla rego­ larità non solo dei mercati delle merci e del lavoro, ma anche dei

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CAPITOLO SETTIMO

mercati finanziari. Quando diventa impossibile rìfinanziare le po­ sizioni di portafoglio, ha luogo una brusca inversione di rotta: la funzione PK(M) subisce una marcata trasposizione verso il basso e il rischio del debitore e del creditore aumentano vertiginosa­ mente. In situazioni siffatte è assai probabile (e infatti spesso effet­ tivamente accade) che gli investimenti decelerino precipito­ samente. Abbiamo cercato di dare una formulazione esplicita di un mo­ dello di comportamento dell'economia che sia in linea con la Teoria generale, in cui Keynes ha voluto sottolineare l'impor­ tanza della natura ciclica e " finanziaria " del sistema capitalistico da lui esaminato. La Teoria generale, secondo la nostra interpre­ tazione, è quindi coerente con un'opinione assai diffusa negli anni trenta: la radice dei problemi dell'epoca andava ricercata nelle disfunzioni del sistema monetario e finanziario. Ciò che fa della Teoria generale un'opera straordinaria è che lì Keynes con­ cepì tali disfunzioni come una caratteristica interna del capita­ lismo, non come un attributo casuale o accessorio. Egli si rese conto che era impossibile diagnosticare (e, quindi, a fortiori, porre rimedio a) i malanni di un sistema economico intrinseca­ mente contraddittorio se la teoria economica ad esso applicata non ammetteva l'esistenza di una tale contraddizione. Solo una teoria esplicitamente ciclica ed espressa in termini finanziari po­ teva, secondo Keynes, rivelarsi utile. Mentre gli economisti monetari più attenti del suo tempo, come Henry C. Sìmons, Jacob Vìner e Dennis Robertson, cerca­ vano di aggiungere a un modello classico tradizionale (il cui scopo di fondo è determinare l'allocazione delle risorse) certi tocchi più realistici in materia finanziaria, Keynes invece ruppe con la tradizione e introdusse direttamente considerazioni di carattere finanziario nella determinazione dei vincoli di bilancio dei vari settore dell'economia. II modello Hicks-Hansen e la sintesi neo­ classica, grazie al rilievo dato alle determinanti della domanda aggregata e soprattutto grazie all'integrazione tra domanda di mo­ neta e domanda di beni d'investimento, si sono rivelati molto mi­ gliori dei modelli classici sia come strumenti analitici che come guida pratica alla gestione dell'economia. La reale portata delle intuizioni di Keynes, però, è rimasta estranea a questi modelli formali che oggi rappresentano l'ortodossia in campo economico.

' IMPLICA7.10N I DELL INTERPREìAZIONE ALTERNATIVA

Dal punto di vista di questi modelli, alcune delle recenti espe­ rienze si configurano come fenomeni anomali. Facendo riferi­ mento proprio a quegli aspetti del pensiero keynesiano che noi abbiamo cercato di evidenziare, e che invece l'interpretazione tradizionale ha ignorato completamente, è possibile invece dare una spiegazione a tali apparenti anomalie. Una teoria keynesiana senza restauri posticci è più pertinente ai problemi contemporanei della teoria convenzionale; non solo: da essa discendono implica­ zioni di politica economica che vanno oltre alle . solite indicazioni di manovre fiscali e monetarie.

Capitolo 8 Filosofia sociale e politica economtca

Introduzione Il lungo titolo dell'ultimo capitolo della Teoria generale suona piuttosto modesto: "Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la te oria generale potre be con�u rre " ��go tutto l'arco . . della sua vita Keynes fu un ammale pohnco. mmterrottamente legato al partito liberak_sia nel suo periodo di ascesa precedente la prima guerra mondiale, sia nella sua fase declinante successiva alla guerra. Volendo interpretare il pensiero di Keynes sulle implicazioni sociali (in senso lato) della Teoria generale e sul modo migliore per mettere in pratica le nuove idee là espresse, bisogna tener conto dei suoi scritti politici e sociali antecedenti alla Teoria generale. Infatti, mentre da un punto di vista teorico la Teoria generale segna una netta rottura con il passato, le im ­ plicazioni di "filosofia sociale " che Keynes derivò da quest'opera sono, al contrario, in linea cort le opinioni espresse nei suoi lavori precedenti. La Teoria generale può essere vista come un tentativo per giustificare, in base ad argomentazioni strettamente teoriche, quelle idee che Keynes, quando era ancora un devoto economista " classico ", aveva sostenuto solo in base alle proprie convinzioni morali e all'intuizione. In un saggio scritto nel 1 926 e volto ad analizzare la fine del laissez-fttire, Keyne� ( 1 926a, p. 246) osserva: " In questo mo­ mento può darsi che Ie nostre stmpatie e i nostri giudizi siano reciprocamente agli antipodi, il che si traduce in uno stato d'a­ nimo increscioso e paralizzante. " Negli scritti politici ed econo-

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FILOSOFIA SOCIALE E POLITICA ECONO MICA

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miei degli anni venti - periodo durante il quale tentò di adattare le teorie economiche tradizionali a quelli che gli sembravano essere i reali problemi del tempo - Keynes invariabilmente pro­ poneva l'adozione di misure di politica economica del tutto incon­ ciliabili con quelle che la maggior pane dei suoi colleghi ricavava dalla stessa teoria economica. Le misure di politica economica derivanti dalla Teoria generale erano coerenti sia con le sue ante­ riori prese di posizione sia con la filosofia sociale descritta nell'ul­ timo capitolo del libro. Il presente capitolo è suddiviso in due sezioni: nella prima trat­ teremo la filosofia soci'ale di Keynes, mentre nella seconda esami­ neremo quali profonde conseguenze questa comporti in materia di politica economica, a pane il richiamo alla necessità dell'inter­ vento attivo dello Stato per assicurare la piena occupazione. Nel capitolo successivo infine verificheremo, alla lu ce della nostra in­ terpretazione, l'importanza della Teoria generale per la politica economica contemporanea. Filosofia sociale Negli anni venti Keynes si considerava di sinistra: " Sono certo di essere tendenzialmente meno conservatore dell'elettore labu­ rista medio ( ... ) La repubblica di cui coltivo l'immagine è all'e­ strema sinistra dello spazio celeste " ( 1 926b, p. z6o}._ Keynes non si sentiva però di aderire al partito laburista, in quanto non si iden­ tificava in nessuna delle tre fazioni componenti quel partito: Vi sono i "sindacalisti", una volta oppressi oggi tiranni, e alle cui pretese settoriali ed egoistiche occorre opporsi eroicamente ; vi sono ( ... ) i "comu­ nisti ", impegnati dalla loro fede a creare il male da cui dovrebbe venire il bene ( ... ) e vi sono poi i "socialisti" i quali credono che le fondamenta economiche della società moderna siano cattive mentre potrebbero essere buone (ibid.) .

Keynes rifiutava sdegnosamente i fini e i programmi dei sinda­ calisti e dei comunisti, esprimendo invece simpatia verso le aspi­ razioni dei socialisti, sebbene egli fosse a dir poco scettico circa l'efficacia dei metodi che questi suggerivano. Dieci anni prima della Teoria generale Keynes affermava:

I pensatori costruttivi del partito laburista e i pensatori costruttivi di quello liberale [tra i quali egli certamente si includeva] stanno cerca:aftlll

1 92

CAPITOLO OTTAVO

di sostituire quelle fedi [le teorie e i programmi tradizionali dei socialisti] con qualche cosa di meglio e di più pratico. Da entrambe le parti le no­ zioni sono ancora un po' nebulose, ma vi è una rispondenza reciproca e un'analoga tendenza di pensiero. Ritengo che queste due correnti stabili­ ranno un collegamento sempre più amichevole nell'opera costruttiva, con il passare del tempo ( 1926b, p. 2 6 1 ) �::)

Terminata la stesura della Teoria generale Keynes ritenne di aver trovato ciò che questi "pensatori costruttivi " avevano cer­ cato invano; era convinto di aver mostrato che l'analisi e i pro­ grammi del radicalismo tradizionale erano antiquati e non neces­ sari; la sua nuova teoria rendeva obsoleta l'economia marxista che egli considerava confusa e abborracciata. Mentre provava simpatia per gli ideali, se non proprio per i metodi, dei socialisti, Keynes considerava invece i conservatori una vera e propria maledizione:

(t

Come potrei acconciarmi ad essere un conservatore? un partito che non mi dà né da bere né da mangiare, cioè né interesse intellettuale né consolazione morale.' Non ne sarei divertito, né entusiasmato, né edificato Tutto ciò che si confà all'atmosfera, alla mentalità, all'impostazione di vita, di... beh, non facciamo nomi, non serve né al mio particulare, né all'interesse pubblico. Non ha prospettive, non soddisfa alcun ideale, non si conforma ad alcun modello intellettuale; non riesce neppure a evitare i rischi o a salvare dai vandali quel tanto di civiltà che abbiamo già rag­ giunto ( 1925b, p. 248 ) .



In particolare egli non era disposto ad allearsi completamente con il capitalismo in una lotta contro il socialismo: Ritengo che se quanti credono (. .. ) che la giusta definizione del pros­ simo scontro politico dovrebbe essere capitalismo contro socialismo, e che coerenti con questa impostazione intendono morire nell'ultima trincea per il capitalismo, ci lasciassero, sarebbe un bene per il partito ( 1 926b, p. 261 ) .

La sua visione politica precedente la Teoria generale palesa un certo invaghimento per un socialismo decentralizzato dal volto umano, temperato però dal rigore dell'economista. Egli infatti non poteva accettare i metodi suggeriti dai socialisti per conseguire fini che egli pur condivideva. Nel r 926 a Keynes la questione di fondo appariva chiara: Il problema politico dell'umanità consiste nel mettere insieme tre ele­ menti: l'efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale.

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Alla prima sono necessari senso critico, prudenza e conoscenza tecnica; alla seconda spirito altruistico, entusiasmo e amore per l'uomo comune; alla terza tolleranza, ampiezza di vedute, apprezzamento dei valori, della varietà e dell'indipendenza, che preferisce soprattutto dare una chance illimitata all'elemento eccezionale e ambizioso ( 19z6b, pp. z6z sg.).

Nell'ultimo capitolo della Teoria generale Keynes torna a par­ lare della triade costituita da efficienza economica, giustizia so­ ciale e libertà individuale. Per quanto concerne l'efficienza eco­ nomica, egli nota che i processi decentralizzati di mercato svol­ gono l'importante compito di determinare ciò che viene prodotto e il modo in cui viene prodotto: " Non trovo motivo di ritenere che il sistema esistente impieghi seriamente male i fattori di pro­ duzione che sono utilizzati ( . ..) t: nel determinare il volume, non la direzione dell'occupazione effettiva, che il sistema presente è mancato alla sua funzione " TG p. 550 II meccanismo di mer­ cato tuttavia manca alla propria unzione nella misura in cui esso comporta una distribuzione socialmente oppressiva del reddito e della ricchezza. Come mostreremo più avanti in questo capitolo a proposito della " eutanasia del rentier ", distribuzione del reddito e determinazione della composizione del prodotto globale pos­ sono essere connessi in modo tale che, volendo accettare il mer­ cato come meccanismo determinante l'andamento dell'occupa­ zione, è necessario in primo luogo " far saltare " la distribuzione del reddito determinata proprio dalle forz.e di mercato. Per quanto riguarda la giustizia sociale, secondo Keynes sono necessari programmi che garantiscano da un lato un volume ac­ cettabile di occupazione e dall'altro una più appropriata distri­ buzione del reddito e della ricchezza. Efficienza e giustizia ri­ chiedono che alla socializzazione degli investimenti, necessaria per garantire la piena occupazione, si ac,compagni da un lato l'eliminazione della scarsità del capitale, così da ottenere una marcata riduzione dei redditi da capitale, e dall'altro un sistema di tassazione diretta (imposte sul reddito e di successione) tale da ottenere una distribuzione del reddito accettabile. Per quanto concerne la libertà individuale, Keynes sosteneva che un sistema individualistico (termine che per lui stava a indi­ care un meccanismo di mercato decentralizzato) se lo si può mondare dei suoi difetti e dei suoi abusi, è la migliore salva­ guardia della libertà personale; nel senso che, in confronto a qualunque

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altro sistema, esso allarga grandemente il campo all'esercizio della scelta personale. t pure la migliore tutela della varietà della vita, che deriva pro­ prio da questa ampiezza del campo di scelta personale, e la cui perdita è la massima fra tutte le perdite dello stato omogeneo o totalitario. Giacché questa varietà preserva le tradizioni in cui si sostanziano le scelte più sicure e più felici delle generazioni passate ; colora il presente con la sua variata fantasia; e, ancella dell'esperimento oltreché della fantasia e della tradi­ zione, è lo strumento più potente per un futuro migliore (TG p. 5 5 1 ) . S

Keynes si riferiva al proprio programma politico (articolato in tre punti: socializzazione degli investimenti, modifica della distribuzione del reddito e adozione di un meccanismo di mer­ cato decentralizzato) nei seguenti termini : Mentre l'allargamento delle funzioni di governo, richiesto dal compito di equilibrare l'una all'altro la propensione al consumo e l'incentivo a inve­ stire, sarebbe sembrato a un pubblicista del diciannovesimo secolo o a un finanziere americano contemporaneo una orribile usurpazione ai danni del­ l'individualismo, io lo difendo, al contrario, sia come l'unico mezzo attua­ bile per evitare la distruzione completa delle forme economiche esistenti, sia come la condizione di un funzionamento soddisfacente dell'iniziativa individuale (ibid.).

Keynes, dunque, prese sì posizione a favore del sistema capi­ talistico, ma non senza seri dubbi circa le sue virtù e a condizione che esso venisse riformato in modo sostanziale. Implicazioni per la politica economica Introduzione

Keynes fu sempre molto attivo sul piano politico, perenne­ mente intento a delineare schemi e programmi nuovi. A un tale impegno agonistico lo portava del resto la sua stessa visione del mondo. Non è vero che gli individui dispongano per diritto di una " libertà naturale " nel loro operare economico. Non esiste contratto naturale che conferisca diritti perpetui a "quelli che hanno " o a "quelli che acquisiscono ". Il mondo non è governato dall'alto in modo tale da far coincidere sempre l'interesse privato con quello sociale; né è amministrato quaggiù in modo che i due interessi coincidano in pratica. Non è corretto dedurre dai prin­ cipi dell'economia che un "illuminato " interesse particolare operi sempre nell'interesse del pubblico. E non è neppure vero che l'interesse particolare

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sia in genere illuminato: il più delle volte gli individui che agiscono in pro­ prio per perseguire fini personali sono troppo ignoranti o troppo deboli perfino per conseguire questi loro fini ( 1 926a, p. 2 40) .

Secondo Keynes ciò che mancava all'economia classica tradi­ zionale era una teoria dei meccanismi economici capitalistici ca­ pace di mettere in luce l'inade gu atezza del laissez-fttire inteso come prescrizione di politica economica. Una tale teoria avrebbe fornito strumenti di politica economica che uomini animati da un forte desiderio di giustizia sociale avrebbero potuto utilizzare per realizzare i propri fini. L'obiettivo doveva essere quello di regolare l'economia in modo tale da far procedere . l'efficienza economica mano nella mano con la giustizia sociale e la libertà individuale. La Teoria generale rappresentò la proposta teorica di Keynes a tale riguardo: la nuova teoria rimuoveva la necessità di un radi­ cale cambiamento in senso rigidamente socialistico, fornendo la giustificazione razionale (e suggerendo i metodi) per un'efficiente politica d'intervento sul sistema economico, la cui struttura ri­ maneva però intrinsecamente capitalistica. Nel capitolo conclusivo della Teoria generale, Keynes, oltre alla politica per l'occupazione, affronta tre altre questioni " poli­ tiche " pertinenti al nostro discorso : la distribuzione del reddito, la socializzazione degli investimenti e le tensioni internazionali. La distribuzione del reddito

L'ultimo capitolo della Teoria generale inizia con queste pa­ role : I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l'incapacità a provvedere la piena occupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Quanto alla prima, la portata della teoria sopra esposta è ovvia. Ma vi sono anche due aspetti importanti sotto i quali essa ha rilievo anche nei riguardi della seconda (TG p, ;41 ) .

La Teoria generale è pertinente ai problemi della distribu­ zione del reddito in quanto da un lato essa nega che la disegua­ glianza dei redditi sia necessaria per favorire il risparmio, dall'altro essa addita un assetto sociale nel quale, come conseguenza di un periodo di accumulazione in condizioni di piena occupazione, la scarsità del capitale verrebbe sostanzialmente ridotta. Nella mi-

J g6

CAPITOLO OTTAVO

sura in cui il reddito percepito dai rentier grazie al loro possesso di capitali rispecchia la scarsità di questi ultimi, un processo di accumulazione in condizioni di piena occupazione provoca in breve tempo una drastica diminuzione del reddito puro da capitale. Keynes riteneva che vi fossero " giustificazioni sociali e psicologiche di diseguaglianze rilevanti dei redditi e delle ric­ chezze, ma non di disparità tanto foni quanto quelle oggi esi­ stenti" ( TG p. Egli riteneva inoltre che le ragioni addu­ cibili per g:msnficarc disparità nella distribuzione dei redditi " non si applicano anche alla diseguaglianza delle eredità " ( TG p. 5 :l::ill Una ragione comunemente addotta a favore della disegua­ glianza dei redditi è che i ceti abbienti risparmiano una quota del reddito maggiore di quel risparmiata dai ceti indigen!i.J cosicché tale diseguaglianza, facendo aumentare il rapporto ri­ sparmio/reddito, rende disponibile per la crescita del capitale una maggiore quota di reddito. Tuttavia la teoria di Keynes di­ mostra che un livello basso della propensione al consumo fa­ vorisce la crescita del capitale soltanto in condizioni di piena occupazione. In mancanza della certezza che il livello degli in­ vestimenti sia tale da assicurare il raggiungimento della piena occupazione, un .livello poco elevato della propensione al con­ sumo, rendendo difficoltoso il raggiungimento stesso della piena occupazione, costituisce un ostacolo alla crescita delle ricchezze:

545f.



Nelle condizioni contemporanee lo sviluppo della ricchezza, lungi dal dipendere dall'astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, ne è pro­ babilmente ostacolato. Viene qui a cadere una delle principali giustificazioni sociali delle forti diseguaglianze di ricchezz



Nondimeno Keynes riteneva r ) che "vi sono pregevoli at­ tività umane [soprattutto di natura imprenditoriale] le quali, per esplicarsi completamente, richiedono il movente del guada­ gno e l'ambiente del possesso privato della ricchezza " .s.IQ._p... 54 s)!r 2) che " l'esistenza di possibilità di guadagni monetari e di arricchimento privato può instradare entro canali relativamente innocui, pericolose tendenze umane " (ibid.). D'altro canto, "per stimolare queste attività [tendenti al guadagno] e per soddisfare queste tendenze [al dominio] non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso " (ibid.). Quindi, poiché

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" non si deve confondere il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima " (ibid.), Keynes sosteneva che " può essere punuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita [mi­ rante a far fonuna] si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni " (ibid.). A parere di Keynes la diseguaglianza del reddito derivante dall'abilità imprenditoriale (soprattutto dai gua­ dagni in conto capitale) era del tutto giustificabile, mentre quella risultante dalla proprietà " pura " della ricchezza (i redditi dei ren­ tier) non lo era affatto. Secondo Keynes, quindi, l'esistenza di modesti differenziali di reddito (minori di quelli vigenti allora e oggigiorno) era so­ cialmente desiderabile, mentre al contrario accentuati differen­ ziali di reddito (soprattutto quelli dovuti a lasciti ereditari) erano superflui e dannosi. Keynes era dunque favorevole alla tassa­ zione diretta di redditi ed eredità così da rendere socialmente meno opprimente la distribuzione del reddito: una modifica di quest'ultima in senso egalitario avrebbe al contempo reso più agevole (grazie all'intervento di un'ipotetica e benevola mano invisibile) il conseguimento e il mantenimento della piena oc­ cupaziOne. Keynes quindi, in base alla sua concezione teorica e alla sua visione dei bisogni umani, riteneva che in uno stato di piena oc­ cupazione, senza guerre e senza crescita demografica, il volume degli investimenti sarebbe stato tale da provocare ben presto " l'eutanasia del rentier e di conseguenza l'eutanasia del po­ tere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale " (TG p. 6 !'!/ Keynes credeva che a e eutanasia fosse inevitabile poiché "la domanda di capitale è strettamente limitata, nel senso che non sarebbe difficile accrescere la consistenza del capitale fino al punto in cui la sua efficienza marginale cadesse a un livello Una volta che il volume del capitale molto basso " sia aumentato m modo che "questo non sia più scarso, cosicché l'investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito " fJ-fi p. 547, corsivo mjiJ) :.sil reddito dei rentier non avrà più ragione di esistere. Sommiamo questa prognosi sul futuro del reddito da capitale a " un sistema di imposizione diretta tale da consentire che l'intelligenza e la determinatezza e la capacità



IC)S

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direttiva del finanziere ( ...) siano imbrigliate al servizio della col­ lettività, con un compenso a condizioni ragionevoli " (TG pp. 547 sg.) e otterremo una distribuzione del reddito compatibile con la triade di efficienza, giustizia e libertà. Alla base della convinzione di Keynes che il capitale avrebbe potuto cessare di essere scarso vi è una precisa visione della na­ tura dei bisogni umani. Gli anni giovanili di Keynes coincisero con l'era dell'illuminismo edwardiano, un'epoca segnata dall'ot­ timismo, durante la quale ci si stava liberando dai vincoli intel­ lettuali e le ipocrisie sociali del periodo vittoriano; un effettivo avanzamento verso una società apena ed egalitaria sembrava certo e sicuro. Nei circoli di Cambridge e di Londra frequen­ tati da Keynes, i " beni " di primaria importanza erano i rapponi umani e gli affetti personali ; la mancanza di ricchezze, posizione e stato sociale non rappresentava un ostacolo al soddisfacimento della vera natura umana: a chiunque era aperta la possibilità di conquistarsi affetto, amore, integrità personale e realizzazione interiore. Keynes riteneva che, una volta soppressa la duplice calamità della povertà e della guerra, sarebbero stati sufficienti, per raggiungere uno stato di genuina opulenza, beni " terreni " poco maggiori a quelli allora già esistenti. La vera opulenza sa­ rebbe potuta diventare la condizione di ogni essere umano, a prescindere dalla sua situazione " materiale " : nel mondo idealiz­ zato da Keynes, i limitati differenziali di reddito personale esi­ stenti non avrebbero costituito un ostacolo al raggiungimento delle vere soddisfazioni umane, persino per i cittadini meno abbient Keynes, quando tratta la questione del volume " finale" dello stock di capitale socialmente necessario, parte dal presupposto che i bisogni umani, per quanto concerne beni che richiedono un sostanziale impiego di risorse in capitali, siano limitati e suscettibili di soddisfazione:

iJ

·

È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li

sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri 11imili. I bisogni della seconda cate­ goria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il li vello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo

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raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici ( 193oa, p. 278). te;:;

La convinzione di Keynes circa la possibilità di soddisfare quei bisogni umani che richiedono l'impiego di risorse in capi­ tali implica però un ragionamento circolare in quanto ne fanno parte essenziale proprio i suoi personali parametri di valore e la sua filosofia. Il soddisfacimento dei bisogni assoluti di tutta la popolazione concernenti prodotti alimentari, abitazioni e altri beni e servizi essenziali per la sussistenza e la salute è un'obiet­ tivo alla portata dei paesi ricchi, quali gli Stati Uniti e l'Europa occidentale di oggi (tale obiettivo era tecnicamente raggiungi­ bile o quasi anche all'epoca in cui scriveva Keynes). Recen­ temente sono stati proposti sistemi di tassazione negativa del reddito e di assegni familiari ch'e mostrano come, da un punto di vista fiscale, sia possibile eliminare la povertà "primaria " me­ diante schemi di moderata redistribuzione del reddito ( trasfe­ rimenti). Eppure il capitale continua ad essere scarso, anche oggi che i bisogni " assoluti" sono abbondantemente soddisfatti. Nono­ stante il rapido processo di accumulazione in corso sin dalla seconda guerra mondiale, la scarsità del capitale non accenna a diminuire. Il possesso di capitali frutta un cospicuo rendimento e il rentier sembra più lontano che mai dall'esalare il suo ultimo respiro. Una ragione di questo fatto può essere vista nella cre­ scita di quelli che Keynes definiva bisogni relativi, bisogni che, per essere soddisfatti, hanno richiesto l'impiego di capitale. Men­ tre nel saggio del 1 930 sulle " Prospettive economiche per i no­ stri nipoti ", Keynes supponeva che la saturazione dei bisogni assoluti avrebbe dato vita a una situazione nella quale " prefe­ riamo dedicare le restanti energie a scopi non economici", in realtà nelle economie avanzate odierne le energie rimanenti'�:; dopo aver soddisfatto i bisogni assoluti, sono dedicate al soddi­ sfacimento di bisogni relativi i quali, per quanto riguarda il fabbisogno di capitale, possono avere un'intensità di capitale ad­ dirittura maggiore di quella dei tradizionali bisogni assoluti. La " profezia " di Keynes sulla scomparsa dei rentier era ba­ sata su una generalizzazione delle sue preferenze personali. Pos­ siamo domandarci come mai le preferenze della gente si siano

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indirizzate in una direzione che un intellettuale raffinato, umano e, in un certo senso, egalitario come Keynes, con parametri di valore tipici dell'illuminata era edwardiana, non avrebbe mai immaginato. Un motivo può essere che i ceti più abbienti, in­ vece di consumare filosofia e cultura, hanno consumato beni ad alta intensità di capitale, dando poi il cattivo esempio ai ceti medi. Si è diffusa' così tutta una serie di consumi " vistosi " che ha provocato uno stato di permanente bisogno insoddisfatto di capitali. Può ben darsi il caso che sia stato proprio il tipo di distribuzione del reddito connesso alla scarsità di capitale a de­ terminare il tipo di consumi che hanno poi provocato uno stato di "fame " di capitali. Per ottenere l'eutanasia del rentier può quindi mostrarsi necessario conseguire innanzitutto il tipo di distribuzione del reddito che, secondo Keynes, sarebbe prevalso dopo la scomparsa dei rentier. Inoltre la direzione verso la quale si è incanalata la crescente massa di bisogni relativi è stata suggerita da (o addirittura è stata il prodotto di) un processo " educativo" celato sotto le spoglie di "pubblicità ". Ai giorni nostri lo stato di opulenza non ha fatto aumentare la domanda di piacevoli attività intellet­ tuali, ma anzi ha favorito l'incremento della domanda di beni la cui produzione necessita di beni capitali. La strada imboccata dalla domanda privata nel periodo successivo a quello in cui scri­ veva Keynes, è stata fortemente influenzata dalla creazione di po­ sizioni di mercato che favoriscono una sempre maggiore scarsità di capitale. Un ulteriore motivo per cui nel periodo postbellico il red­ dito da capitale non è scomparso può essere individuato nella struttura dei programmi adottati dai vari governi per mantenere la piena occupazione. Durante il drammaticofperiodo della Grande Crisi, i programmi governativi a favore dell'occupa­ zione erano specificamente indirizzati verso l'impiego diretto di forza lavoro disoccupata. Durante la seconda guerra mondiale venne sviluppata tutta una serie di sistemi contrattuali per pro­ duzione bellica, in base ai quali venivano utilizzate fabbriche private per la manifattura di materiale bellico. Terminate le ostilità, questi contratti vennero rinnovati, per la produzione sia di armi sia di beni di tipo non militare. Questi contratti preve­ dono immancabilmente un generoso margine di profitto per le imprese in questione. Nel dopoguerra non solo la struttura de-

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gli interventi di politica economica a sostegno del reddito ha favorito decisamente bisogni bellici ad alta intensità di capitale, ma anche la politica sociale sottostante tali interventi ha sempre teso a sovvenzionare i redditi da capitale. Inoltre in tanto in quanto spese belliche e massicci trasferimenti redistributivi (si­ stemi di previdenza sociale ecc.) richiedono una cospicua en­ trata fiscale, diventa possibile escogitare espedienti fiscali a fa­ vore dei redditi da capitale e a spese dei redditi dei consumatori; non stupisce che nel dopoguerra, in base a politiche economiche sostanzialmente conservatrici, tali espedienti siano stati e siano tuttora effettivamente utilizzati. Possiamo forse affermare che per provocare la eutanasia del rentier così come ipotizzata da Keynes è innanzitutto necessario porre vincoli alla crescita dei bisogni relativi, vincoli che a loro volta dipendono da una distribuzione del reddito basata su red­ diti da capitale nulli o minimi, vale a dire sulla preventiva euta­ nasia dei rentier. La We ltanschauung di Keynes (che lo porta a immaginare un mondo dove il capitale non è più scarso) prevede una distri­ buzione del reddito tale da scongiurare il diffondersi di consumi sempre più folli e ipotizza un tipo di parametri " culturali" di valore che regoli e controlli lo sviluppo dei bisogni relativi in modo tale da scoraggiare consumi ad alta intensità di capitale. In un mondo però dove gli uomini desiderano soltanto l'accu ­ mularsi illimitato di armamenti e di oggetti di consumo sempre più complessi, è difficile che si raggiunga presto uno stato di saturazione degli investimenti. Secondo Keynes, accanto all'esigenza di controllare e indi­ rizzare i bisogni umani è necessario soddisfare altre due condi­ zioni affinché la scomparsa della scarsità del capitale implichi l'eutanasia del rentier: bisogna scongiurare i conflitti armati e la popolazione deve assestarsi su un livello stabile. Né l'una né l'altra di queste condizioni è stata soddisfatta nel periodo suc­ cessivo alla seconda guerra mondiale. La guerra comporta la distruzione di attrezzature produttive: in termini economici la frenetica corsa agli armamenti alla quale assistiamo fin dalla se­ conda guerra mondiale è equivalente a una situazione di con­ flitto armato. Non solo la produzione di materiale bellico è ad alta intensità di capitale, ma anche la dinamica della corsa agli armamenti, e cioè lo sviluppo di armi sempre più complesse e

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sofisticate, fa sì che le attrezzature produttive utilizzate per sfornare armi subito sostituite da nuovi e più avanzati prodotti diventano a loro volta obsolete. Il rapido succedersi di nuove generazioni di apparecchiature belliche è equivalente alle distru­ zioni e ai bombardamenti del tempo di guerra: entrambi questi fenomeni distruggono i frutti del processo di accumulazione. I decenni successivi alla seconda guerra mondiale hanno as­ sistito a un cospicuo incremento della popolazione dei paesi ric­ chi, fenomeno probabilmente ormai concluso. Questa e splosione demografica ha reso necessario un processo di accumulazione di capitale, così da poter disporre di macchinari cui adibire un numero crescente di ·lavoratori. Un minor saggio di incremento demografico dovrebbe tendere a far diminuire, anche di fronte a una sostenuta dinamica del progresso tecnologico, il fabbi­ sogno di capitali e dovrebbe portare quindi a una riduzione delle rendite da capitale. La visione di Keynes che l'eutanasia del rentier (vista come fenomeno che scaturisce necessariamente dal processo accumu­ lativo) avrebbe ridotto drasticamente, se non addirittura elimi­ nato, il reddito derivante dal mero possesso di risorse capitali scarse, poggiava su tre precondizioni fondamentali: bisogni umani regolati, popolazione stabile e scomparsa dell'onere della guerra. Nessuna di queste · condizioni è stata soddisfatta com­ pletamente e tra esse quella la cui realizzazione appare più lon­ tana nel tempo ci sembra essere l'autoregolazione dei bisogni. Keynes avanzò due motivi a spiegazione del perché il red ­ dito da capitale avrebbe potuto e dovuto diminuire relativa­ mente al reddito globale. In primo luogo non è affatto neces­ sario disporre di redditi elevati per ottenere un'elevata propen­ sione al risparmio. Anzi, un'elevata propensione al risparmio è controproducente, in quanto fa diminuire la propensione a in­ vestire. In secondo luogo è possibile raggiungere in un breve lasso dì tempo una situazione dì saturazione degli investimenti se ci si mantiene in uno stato di piena occupazione e se si rego­ lano i bisogni. Una volta raggiunta la saturazione degli investi­ menti, potrebbe emergere un nuovo ordine sociale giacché: Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza, e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti

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i costi, per quanto di per sé sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l'accumulazione del capitale ( 193oa, p. 2 8 1 ). (!::; La socializzazione degli investimenti

La Teoria generale è un frutto del " decennio rosso " 1 9 3 0-40. La Grande Crisi aveva messo in mostra i punti deboli del ca­ pitalismo e tra le possibili vie di uscita dalla crisi la soluzione offerta da un regime rigidamente socialista inc()ntrava ampi fa­ vori. Contrariamente a tale soluzione, Keynes riteneva che " la teoria precedente è piuttosto conservativa nelle conseguenze che implica " infatti una volta che un'oculata politica degli investimenti abbia assicurato la piena occupazione e un'o­ culata politica di tassazione diretta abbia redistribuito il reddito in modo equo, allora un regime socialista, in senso più o meno stretto, diventa superfluo. Keynes asseriva di non trovare " motivo di ritenere che il si­ stema esistente impieghi seriamente male i fattori di produzione che sono utilizzati " �; cosicché se " le nostre autorità centrali di controllo rmscissero a stabilire un volume comples­ sivo di produzione corrispondente ( ...) alla piena occupazione " �: %i potrebbe lasciare via libera alle forze di mercato. Compito delle "autorità di controllo" è influenzare la propen­ sione aggregata al consumo e all'investimento. Il consumo può essere influenzato in parte "mediante il ( ... ) sistema di imposi­ zione fiscale, in parte fissando il �aggio di interesse e in parte, " ,1 Questi " altri modi " presumi­ forse, in altri m odi ".J..TG p. 54911 bilmente includono i consumi finanziati da trasferimenti redi­ stributivi, assieme a una maggiore produzione di beni di con­ sumo collettivo. Tuttavia, poiché la politica bancaria non è in grado di in­ durre un livello di investimenti sufficiente a far perdurare la piena occupazione



una socializzazione dì una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà

l'unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. Ma oltre a questo non si vede nessun'altra necessità di un sistema di socialismo di Stato che abbracci la maggior parte della vita economica della collettività. Non è importante che lo Stato si assuma la proprietà degli strumenti di produ­ zione. Se lo Stato è in grado di determinare l'ammontare complessivo delle

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risorse destinate ad accrescere gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che le possiedono, esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre le necessarie misure di socializzazione possono essere applicate gradatamente e senza introdurre una soluzione di conti­ nuità nelle tradizioni generali della società (TG p. 549) .

Inoltre una volta che le nostre autorità centrali di controllo riuscissero a stabilire un volume com­ plessivo di produzione corrispondente per quanto possibile alla piena occu­ pazione, la teoria classica si affermerà di nuovo da quel punto in avanti. Se supponiamo che il volume della produzione sia dato, ossia determinato da forze all'infuori dello schema classico di pensiero, allora non vi è alcuna obiezione da opporre all'analisi classica del modo in cui l'interesse indivi­ duale privato determinerà ciò che si produce in particolare, in quali pro­ porzioni i fattori di produzione verranno combinati nella produzione stessa e in che modo il valore del prodotto finale si distribuirà fra di essi

(ibid.).

Vi è un'evidente contraddizione tra la convinzione di Key­ nes che per ottenere la piena occupazione sia necessario socia­ lizzare gli investimenti e la sua concezione che il mercato svolge in modo soddisfacente il proprio compito di allocatore delle ri­ sorse, cosicché è possibile non rinunciare al controllo e alla pro­ prietà privata dei capitali. Questa contraddizione può essere par­ zialmente risolta allorché si pongano le idee di Keynes nel loro contesto storico e culturale. Negli anni trenta, come abbiamo già ricordato, con l'inasprirsi della crisi mondiale, la soluzione offerta dal socialismo era più che mai in auge. Allo stesso tempo però l'intellighenzia guardava con orrore al regime stalinista ed era in corso un vivace dibattito sulle tendenze intrinseca­ mente totalitarie del socialismo in senso stretto. All'inizio degli anni trenta gli economisti di simpatie socialiste parlavano di socialismo di mercato e di vari altri sistemi misti nei quali i set­ tori guida venivano socializzati mentre il resto dell'economia restava in mano ai privati. Questi tipi di socialismo sono, in li­ nea di principio, del tutto compatibili con l'ottica keynesiana; la soluzione del problema dell'organizzazione della vita econo­ mica offerta da tali sistemi misti avrebbe probabilmente conse­ guito il duplice successo di raggiungere uno stato di piena oc­ cupazione, o quasi, e di eliminare, o quasi, i redditi privati derivanti dalla proprietà di ricchezza.

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Tuttavia nel periodo postbellico, allorché venne assimilata e applicata praticamente la lezione keynesiana, non venne percorsa la via " socialista ", neppure in paesi come l'Inghilterra dove par­ titi almeno nominalmente socialisti ebbero il potere per lunghi periodi. Il messaggio keynesiano pienamente recepito , in parte grazie al successo della politica economica bellica nel raggiungere la piena occupazione, può essere così formulato: un ampio settore pubblico, finanziato parzialmente ricorrendo a deficit di bilancio, è in grado di raggiungere e mantenere una condizione assai pros­ sima al pieno impiego. Si è così sviluppata e diffusa l'idea che non è necessario socializzare il settore industriale privato. La pro ­ prietà delle attrezzature produttive può essere " tranquillamente " lasciata ai privati fintantoché il settore pubblico (soprattutto il bilancio statale) è di proporzioni abbastanza vaste. La spesa pub­ blica, nei programmi di politica economica necessari per far per­ durare la piena occupazione, prese la forma di prelievi sulla capacità produttiva (costruzione di autostrade, spese p er l'istru­ zione e la salute, armamenti, viaggi spaziali ecc.), di trasferimenti redistributivi e di sovvenzionamenti al consumo (sist ema della previdenza sociale, assistenza sociale, buoni alimentari, mutua ecc). Settore pubblico di vaste dimensioni significa pesanti oneri fi­ scali, cosicché la scelta dei coefficienti di tassazione è diventata uno strumento per sovvenzionare (cioè far espandere) o tassare (cioè vincolare) vari tipi di attività. Poiché, se si vuole mantenere la piena occupazione, è necessario colmare il divario tra consumo (tenendo anche conto dei trasferimenti alle famiglie) e prodotto globale di piena occupazione mediante investimenti privati o spesa pubblica, è stato ed è possibile introdurre nel sistema fi­ scale e di spesa misure che favoriscono gli investimenti facendone aumentare la redditività . È stata così messa in piedi un'economia caratterizzata da profitti e investimenti assai elevati, nella quale le misure di governo sull'imposizione fiscale e la spesa pubblica vengono giudicate a seconda del loro influsso sugli investimenti privati anziché del loro influsso sul consumo o del raggiungi­ mento di un'equa distribuzione del reddito. La politica per la piena occupazione ha così assunto una sfumatura conservatrice in quanto è riuscita a conseguire ciò che si può a ragione definire il " socialismo per i ricchi". Tuttavia, poiché tutte le misure fiscali tendenti a favorire gli investimenti spostano la distribuzione del reddito a favore. dei

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settori risparmiatori, si è messo in moto un processo autoavvitan­ tesi nel quale per mantenere la piena occupazione è necessario disporre di sempre maggiori quantità di investimenti, per indurre le quali bisogna offrire incentivi sempre più cospicui sotto forma di profitti e di sussidi alla produzione. Il sistema economico si è dunque evoluto lungo direttive in evidente contrasto con il messaggio di Keynes secondo il quale se gli investimenti si rivelano insufficienti a garantire la piena occupazione, allora non bisogna accrescerne il volume offrendo facilitazioni e sgravi agli investimenti privati, ma è necessario piuttosto prendere " misure per la redistribuzione dei redditi in modo da tendere a elevare la propensione al consumo " (TG � Secondo Keynes infatti tali misure tendenti a in corag:­ giare il consumo possono " dimostrarsi chiaramente favorevoli all'aumento del capitale " (ibid.); l'intervento dello Stato al di fuori del settore socializzato degli investimenti deve essere essenzial­ mente diretto a far aumentare le propensioni al consumo, me­ diante politiche miranti a ottenere una più equa distribuzione del reddito. Conflitti tra nazioni

Keynes inoltre riteneva che " se le nazioni possono imparare a crearsi una situazione di occupazione piena mediante la propria politica interna ( ... ) non è più necessario che forze economiche importanti siano rivolte al fine di contrapporre l'interesse di un paese a quello dei suoi vicini " (TG p. 55 ù? §econdo Keynes, ·le tensioni tra i paesi ricchi europet e americani scaturivano dal ra­ dicato bisogno di esportare onde difendere l'occupazione interna o aumentarne il volume mediante aggressive politiche d'esporta­ zione ad ogni costo (beggar my neighbour). Nel quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale questa intuizione di Keynes è stata confermata dal tipo di rela­ zioni instaurato tra i paesi capitalistici avanzati. Fatta eccezione per certi reraggi del passato coloniale, quali per esempio l'im­ pegno prima francese e poi americano in Vietnam, i rapporti tra i paesi capitalistici avanzati sono stati caratterizzati dall'assenza di tensioni o di conflitti armati. La guerra fredda tra ideologie non è un esempio di conflitto economico. Il successo delle poli­ tiche fiscali e monetarie nel sostenere il mercato interno ha evitato

FILOSOFIA SOCIALE E POLITICA ECONOMICA

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il pericolo che le varie nazioni entrassero in " concorrenza" per il controllo dei mercati o per assumere posizioni favorevoli nel commercio internazionale. Can elusione

Keynes riteneva che le implicazioni di politica economica de­ sumibili dalla sua teoria fossero di assai vasta portata; la Teoria generale non solo additava metodi mediante i quali mantenere una situazione assai prossima alla piena occupazione, ma lasciava in­ tendere che un prolungato periodo di piena occupazione, accom­ pagnato da politiche miranti a sostenere i consumi privati e so­ ciali, avrebbe potuto mutare la distribuzione del reddito in senso egalitario. La rendita da capitale sarebbe scomparsa, men­ tre la sezione superiore della distribuzione cumulativa dei redditi sarebbe stata " sfoltita " da adeguate misure fiscali. Secondo Keynes, per mantenere la piena occupazione era necessario socia­ lizzare gli investimenti e far slittare verso l'alto la funzione del consumo: due obiettivi, questi, altamente desiderabili da un punto di vista sociale. Due lezioni di fondo

Dal sommario della Teoria generale presentatoci da Keynes risulta che egli riteneva che fossero due le lezioni di fondo desu­ mibili dalla sua opera. La prima, e più ovvia, lezione è che le manovre di politica economica sono in grado di far assestare l'economia in una posizione assai più prossima alla piena occupa­ zione di quanto, in media, non avverrebbe altrimenti. La seconda, e più sottile, lezione è che la politica economica è in grado di far prevalere una distribuzione del reddito più logica ed equa di quella altrimenti prevalente. A tutt'oggi possiamo dire che la prima lezione è stata assimi­ lata, seppure in una versione tale che il conseguimento del pieno impiego dipende sostanzialmente da un particolare tipo di spesa pubblica (produzione di armamenti) e da investimenti privati che sacrificano abbondanti risorse oggi in cambio di discutibili bene­ fici in futuro. Il sistema economico, almeno sinora, è stato imbri­ gliato; il gioco chiamato vita economica è stato manipolato in modo da far prevalere una ragionevole approssimazione alla pieilil

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occupazione. Sviluppando però manovre di politica economica tese a raggiungere il pieno impiego, la seconda lezione di Keynes è andata smarrita: non solo ci si è dimenticati della necessità di disporre di politiche che riportino giustizia ed eguaglianza nella distribuzione del reddito, ma ci si è mossi in direzione opposta. La modesta tendenza egalitaria rilevabile nel sistema fiscale vi­ gente al termine della seconda guerra mondiale è stata attenuata. Forse la celebre affermazione di Keynes che " le idee degli eco­ nomisti e dei filosofi politici ( ...) sono più potenti di quanto co­ munemente si ritenga Il e che " in realtà il mondo è governato da poche cose al di fuori di quelle " (TG p. 554),-dcve essere modifi­ cata in modo da tener conto det tlifto che il processo politico sceglie di essere influenzato solo da quelle idee che sono congrue rispetto agli interessi dei ricchi e dei potenti. Una cosa è certa : solo una delle due lezioni di fondo della Teoria generale è stata assimilata nella mentalità di coloro che determinano la politica economica. Quando una classe politica conservatrice abbraccia il keynesismo, allora è probabile che le politiche fiscali e di spesa vengano utilizzate per dar vita ai rentier piuttosto che a favorirne l'eutanasia.

Capitolo 9 Le implicazioni di politica economica dell'interpretazione alternativa

Nel quarto di secolo succeduto alla seconda guerra mondiale le economie capitalistiche avanzate riuscirono a evitare periodi di grave depressione. Negli anni sessanta negli Stati Uniti persone di dichiarata fede " keynesiana " occuparono importanti cariche pubbliche sia come consiglieri economici che come funzionari statali.Jl ciclo economico - così proclamavano costoro - era 9rJl1ai stato debellato: grazie all'impiego di adeguate politiche fiscali e monetarie, l'economia poteva essere regolata in modo tale da evitare recessioni e depressioni. - - Secondo l'analisi presentata nelle pagine precedenti, il modello che tali economisti impiegavano per analizzare teoricamente l'economia o per determinare le necessarie manovre di politica economica non solo violava lo spirito e l'essenza della Teoria ge­ nerale, ma strutturava il sistema economico in modo totalmente inadeguato. Il loro modello infatti prescindeva completamente dall'incertezza e dai meccanismi di finanziamento e, quindi, non era assolutamente in grado di introdurre in modo significativo la speculazione nel processo di determinazione dell'andamento del sistema economico. A causa di questa grave inadeguatezza teo­ rica, il modello dal quale derivavano le loro prescrizioni di poli­ tica economica era basato sull'assunzione che i processi dinamici dell'economia non danno luogo a cicli bensì a un processo di cre­ scita uniforme. L'andamento dell'economia durante i primi anni sessanta, quando cioè si verificò un processo di costante espansione, sem­ brava dar ragione alle pretese teoriche di tali economisti. La

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CAPITOLO NONO

strategia di fondo in questo periodo mirava a far aumentare gli fnvestjmenti privati in ll)odo da ottenere un più rapido saggio m crescita. A tale scopo era necessario in primo luogo assicurare livelli elevati e crescenti di profitti. Il costante processo di espan­ Sione dei primi anni sessanta e le misure fiscali miranti a stimolare gli investimenti, congiunte all'assenza di una qualsiasi crisi dalla tine della guerra in poi, fecero sì che, alla metà degli anni sessanta, si innescasse un violentò processo espansivo degli investimenti. 'f.ale boom era stato reso possibile dall'aumento dell'attività spe­ culativa da parte di imprese industriali e di istituti finanziari sulla struttura delle proprie passività: l'incremento della domanda ag­ gregata e soprattutto degli investimenti privati era stato finanziato da un meccanismo speculativo. Poiché una quota cospicua degli investimenti venne finanziata, con fondi esterni, si verificò un aumento__del rapporto tra paga­ menti sui prestiti privati e redditi privati; ciò significò che i pa:­ gamenti sulle passività venute a scadenza diventarono ancor più sincronizzati con gli incassi di contante. Inoltre il panicolaré� modo in cui istituti finanziari, imprese e famiglie gestivano le proprie passività fece sì che le fortune di un numero sempre più vato di operatori economici dipendessero strettamente da1 " regolare " funzionamento dei mercati fi_!!anziari� Nella stima delle entrate e nel decidere la quantità di attività liquide da dete­ nere, di norma si tiene conto di possibili errori di stima e della variabilità statistica: nel periodo in esame si verificò una diminu­ zione di questi margini di sicurezza. Durante l'espansione degli anni sessanta il solido sistema finanziario si trasformò in una strut­ tura assai fragile. Di conseguenza nel 1 966 e nel 1 969-70 ebbe luogo negli Stati Uniti una serie di crisi finanziarie provocate da shock che il precedente sistema finanziario, con la sua stabilità, avrebbe invece assorbito senza ripercussioni significative. Nel 1 966 e nel 1 969-70 tali crisi non sfociarono in una defla­ zione creditizia su larga scala grazie al pronto intervento del si­ stema della Riserva Federale; essa però, per scongiurare il pericolo della deflazione, fu costretta a prendere misure che provocarono un'espansione sempre più accentuata dell'offerta di moneta. A causa dell'aumento dell'offerta di moneta e della posizione assunta dal governo in materia fiscale, le tensioni finanziarie si risolsero nel 1 966 in un temporaneo arresto della crescita economica e nel 1 970-7 1 in un periodo di lieve, ma persistente, ristagno produr-

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IMPLICAZIONI DI POLITICA ECONOMICA

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tivo. L'intervento consapevole della Riserva Federale i n campo finanziario e del governo in campo fiscale sono dunque riusciti a modificare l'andamento del ciclo (i punti di svolta inferiore non toccano mai livelli pericolosi e il periodo tra una recessione e l'altra è relativamente breve), anche se oggi è evidente che la politica economica non può eliminare l'esistenza dei cicli econo­ mici. Oggidì è anche evidente che l'economia si comporta in modo totalmente diverso a seconda che il sistema finanziario sia solido o fragile; la solidità di quest'ultimo dipende sia dal rap­ porto tra pagamenti sui prestiti e redditi derivati dall'attività pro­ duttiva nei vari settori dell'economia, sia dalla misura in cui le fonune degli operatori dipendono dal processo mediante il quale posizioni di portafoglio comprendenti titoli a lunga scadenza ven­ gono rifinanziate con titoli a breve trattati su mercati finanziari dall'andamento uniforme e regolare. Pressioni inflazionistiche di dimensioni sempre più consistenti sono comparse per la prima volta nel 1 966 e da allora in poi non hanno accennato a diminuire; esse sono attribuibili in parte al fatto che la Riserva Federale, per scongiurare il pericolo di crisi finanziarie e di deflazioni creditizie, è costretta ad aumentare costantemente l'offerta di moneta e in parte al particolare mecca­ nismo di determinazione dei salari monetari. Jd�n�Jisi 9il