Studi su Agamben 8867050265, 9788867050260

Sei saggi che interrogano la riflessione di Giorgio Agamben nel suo nesso fra estetica, teoria del linguaggio e teoria g

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Italian Pages 91 [90] Year 2012

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Studi su Agamben
 8867050265, 9788867050260

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Quaderni di ■



narraz1on1 a cura di Lucia Dell'Aia

Si fa del volteggiare un tratto tenue di lido ameno e di nudi rosei, le ninfe vagheggiate nei vapori della sospensione rarefatta; diradano le nebbie del pensiero; e si affida la memoria alle forme in movimento, coperto con la nuvola d'oblio ciò che rompe l'incantesimo giocoso di abbandono ancora nudo,

tanta dolcezza vaga e altalenante. Quasi rimbalzano membra su membra, pronte a perdersi in acqua e a risalire, per non volare, ma solo a poltrire e brillar gaudio nella calma. Mariano P almisano

Quaderni di ■



narraz1on1 • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •

Studi su Agamben • • Sommario Introduzione

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di Lucia Dell'Aia

N el mezzo della voce l_;estetica come ontologia poetica in Agamben di Roberto Talamo

Parodia e Profanazione

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di Lucia Dell'Aia

Di alcuni motivi in Giorgio Agamben di Bernd Witte

Il Messia davanti alla Legge Giorgio Agamben, Walter Benjamin e Kafka di Vivian Liska

Comicus noster Agamben e la questione del tragico

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44 61

di Ernesto Miranda

Agamben e la Shoah Fenomenologia della testimonianza e potere dell' immaginazione di Francesca R. Recchia Luciani

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"''~1)1T'll'l"'ll'''l'l'I'•' ' "'"""" ~-_,._.....-.,.............-"........~ ..,,,_=-....,----..... _ ->. L'estetica tradizionale sarebbe incapace di pensare l'arte secondo questo suo statuto proprio : [lvi, 154] ; di conseguenza resterebbe inattingibile anche lo statuto originario dell'uomo sulla terra che, come si può intuire , coinvolge anche la sua dimensione etica e politica. È questo , in estrema sintesi, il senso della prima opera di Agamben: si è cercato qui di condensarlo in pochi movimenti fondamentali per poter mostrare con precisione, e con un discorso più disteso, come questi concetti ritornino e si approfondiscano nelle opere successive, fino alla svolta politica anticipata da

La

comunità che viene [Agamben 1990] e realizzata con Homo sacer [Agamben 1995] . Questi due libri, e i successivi, non segnano l'abbandono delle premesse estetiche, ma una loro particolare curvatura nella prassi.

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Nel mezzo della voce

In Stanze - La parola e il fantasma nella cultura occidentale [Agamben 1977] , trova appro fondimento l'idea della necessità di un nuovo accordo tra gusto e genio , qui identificati in fil osofia e poesia ; si definisce il genio facendo riferimento al concetto di poeti co; ritorna il tema centrale dell'arte come >, che dovremo tener presente, come presupposto essenziale , in tutte le analisi successive. Nella prefazione a questo libro, Agamben affronta il problema della fondazione critica delle scienze umane e individua nei modi dell' ironia romantica la possibilità di un rinnovato posizionamento conoscitivo, filologico e scientifico. Nel libro precedente, a proposito dell'ironia romantica, aveva scritto: > [lvi, 85] . Nella prefazio ne a Stanze, l'ironia non è sol o modello dell'arte, ma è anche l'unico metodo che garantisce alla critica la sua scientificità: la critica è infatti definita [Agamben 1977, XII]. Attraverso un'identica definizione di arte e di critica è qui possibile aspirare a uno , che ricolleghi discorso poetico e discorso filosofico , parola poetica e parola pensante, a partire da una definizione negativa dell'esperienza occidentale dell'essere: tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un'esclusione, nel senso che il suo manifestarsi è , nello stesso tempo, unnascondersi, il suo essere presente un mancare [lvi, 160-161]. Questo è la chiave delle analisi letterarie compiute nel libro : alla divisione di poesia e filosofia, la critica oppone >, nelle diverse figu re del malinconico, dello stilnovista, del dandy, del feticist a, del collezionista, che incarnano questo comune differimento. Ciò che è recluso nella stanza della poesia e della critica > . Secondo l'ottica medievale , l'occhio è uno specchio in cui si riflettono i fantasmi, in quanto in questo organo domina

l'acqua. L'uomo medievale è così davanti a uno specchio sia se guarda all'esterno sia se guarda all'interno: amare è >, importante quanto la precedente dottrina, tanto che la cultura tra XI e XIII secolo potrebbe definirsi . La pneumologia poneva un problema all'antropologia cristiana: qual è il rapporto tra spirito e anima? Lo spirito , pur avendo un' origine astrale , è corporeo e morta]e, l'anima, al contrario , è incorporea e immortale. Tra anima e corpo il medium è il fantastico (il fantasma): non è più corpo ed è quasi anima. Questa rivalutazione del fantastico porterà, secondo Agamben, anche a una rivalutazione dell'amore, fi.no ad allora pericolosamente accostato a una patologia: ci sarà la riscoperta, nell'una e nell' altro , della preesistente > . La pneumologia stilnovistica è comprensibile solo a questo livello: gli non sono un vago riferimento a dottrine mediche del tempo, ma un organico sistema di pensiero, in

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Nel mezzo della voce

cui la poesia è « dettato d i amore spirante>>. Lo stilnovo, per Agamben, non scopre

il legame tra eros e pneuma , già noto ad Aristotele , ma intuisce la polarità positiva di un' esperienza altrimenti considerata , all' epoca, patologica. Nei trattati di medicina medievale troviamo infatti il riferimento a una patologia definita : angoscia malinconica causata dall' amore per una donna, desiderio ossess.ivo. I po eti d ' amore medievali avrebbero compiuto una [Ivi, 136] , per risolvere un problema cruciale: >. Così in Hegel il tempo e la storia non sarebbero altro che il e il dello spirito assoluto. In Marx, invece, la storia si situa in una regione completamente diversa: l'uomo non cade nella storia, ma la storia è la sua dimensione originale. In questa riflessione, la praxis è il primo atto storico, non c:'è caduta nel tempo che debba essere redenta dal ritorno all'assoluto: la storia è la natura stessa dell'uomo. Ma anche questo pensiero , nell'ottica agambeniana, non si sottrae a una possibile critica, in quanto Marx e il marxismo non sarebbero stati in grado di elaborare una teoria del tempo adeguata alla teoria rivoluzionaria della storia: > [Ivi, 109]. Questo significa [Ivi, no]. Da Benjamin e Heidegger, Agamben trae un concetto di storia come liberazione: [Ivi, III]. La riflessione sul tempo messianico sarà portata a compimento in Il tempo che resta [Agamben 2000], una (Ricreur) su struttura e formule di questa particolare idea di temporalità. Questa concezione del tempo è funzionale al pensiero estetico di Agamben, nel senso che fornisce lo sfondo per la riappropriazione da parte dell'artista del , del che riapre la sfera del mito, inteso come «trasmissione della trasmissione>>, scenario immobile per la sua «dialettica in stato di arresto>>. In Infanzja e

storia, però, non è soltanto l'arte ad accedere a una sfera mitica attraverso l 'ingresso nel , ma tutte le scienze umane: l'abolizione dello scarto fra cosa da tras:mettere e atto della trasmissione [. .. ] è fin dall'inizio il compito della filologia. E poiché questa abolizione è considerata da sempre il carattere essenziale del mito, la filologia può essere definita in questa prospettiva come una "mitologia critica". La "nuova mitologia", cui Schelling affi-

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dava il compito di mediare, nel nostro tempo, la riunificazione della poesia e della scienza e rispetto alla quale si chiedeva "come potesse sorgere una mitologia che non fosse l'invenzione di un solo poeta, 1:na di una generazione"; la nuova mitologia che i poeti moderni [. .. ] hanno invano cercato di realizzare esiste già, ed è una filologia cosciente dei suoi compiti (filologia sta qui per tutte le discipline critico-filologiche, che oggi si designano, con qualche improprietà, "scienze umane") [Agamben

1978, 147]. L'unità di filologia (scienze umane), mitologia e poesia è postulata sulla base del concetto di : l'occasione di approfondire questa tematica ce la offre il successivo lavoro di Agamben, R linguaggio e la morte [Agamben 1982], che affronta in modo specifico il problema del linguaggio e della trasmissione. In questo scritto, Agamben ritorna sull'unità di poesia e filosofia , che chiudeva il libro precedente, scrivendo: [Ivi, 93]. L'aver- luogo del linguaggio è proprio il luogo dell'abolizione dello scarto fra cosa da trasmettere e atto della trasmissione. Agamben inizia la sua analisi a partire dalla critica della certezza sensibile condotta da Hegel: secondo il filosofo tedesco la certezza sensibile appare inizialmente la conoscenza più ricca, perché non lascerebbe cadere nulla del suo oggetto, tenendolo davanti a sé nella sua intera pienezza. Ma quella che appare come la verità più concreta è in realtà, per Hegel, un universale, in quanto non appena la certezza sensibile prova ad indicare ciò che vuol-di.re, essa deve sperimentare che quanto essa credeva di poter stringere immediatamente, nel gesto di mostrare, è in realtà un processo di mediazione: se si cerca di afferrare il , in realtà, si coglie il «Questo>>, il fatto cioè che l'universale è la verità della certezza sensibile ed è solo questa verità che il linguaggio dice. Secondo Hegel, dire «questo>> è impossibile perché la certezza sensibile che si vuol dire è inaccessibile per il linguaggio che appartiene all'universale. Nel linguaggio si può dire il solo come , cioè come negazione dialettica (): > [lvi, 85]. I nomi, che vengono dati a questo argomento , possono cambiare storicamente: amore (per i provenzali) o infinito (per Leopardi), ma l'esperienza resta la stessa.

È l'esperienza dell'aver-luogo del linguaggfo come esperienza del , perché anche il nulla è uno straordinario shifter, è ciò che, al tempo stesso, è e non è, poiché è nome, ma non è cosa. La lettura de L'infinito di Leopardi, presente in questo stesso libro, è un esempio chiarissimo del metodo agambeniano: l'idillio, in questa interpretazione, compie

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incessantemente il gesto di indicare (, , , , «mio>>) e questa continua deissi fa affiorare, per i motivi che abbiamo già esposto, il livello dell'enunciazione come elemento dominante. Questo testo cioè tenterebbe incessantemente di afferrare lo stesso aver-luogo del linguaggio, come tutta la grande tradizione filosofica: >) perché la sua istanza di discorso può essere >), il come ricerca del (in ). Ci soffermeremo quindi su una sola , che ci permette di tornare a riflettere sul sistema di conoscenza adottato daAgamben e di comprenderlo più a fondo. In >). L'idea del mezzo è approfondita in modo significativo, e in relazione con la teoria letteraria, nell'articolo Holderlin--Heidegger, mai raccolto in volume, che qui citiamo per il suo carattere esemplare: si tratta dell'analisi di alcune riflessioni di Holderlin sul . Secondo Agamben, nelle idee sulla poesia del poeta tedesco non è espressa una poetica individuale, un programma personale, ma > o , che egli chiama anche . Sarebbe questo elemento, nel ragionamento di Holderlin, a conferire a un componimento rigore, saldezza e verità. Questa dimensione spiritualsensibile non appartiene né al vissuto, né al linguaggio, non è né mera tensione vitale (certezza empirica), né coscienza e riflessione (Essere). Lo spiritualsensibile di Holderlin è il puro mezzo di Agamben, è lo , a 1netà strada tra materia e anima, dei poeti provenzali, è l'aver-luogo del linguaggio nel dettato del fanciullino pascoliano, è l'istanza metrico-deittica di memoria e ripetizione ne L'infinito leopardiano, il «trait étemel> >, l'argomento originario di poesia e filosofia. Queste riflessioni servono a farci meglio intendere un lungo periodo, altrimenti oscuro, presente in un saggio, pubblicato per la prima vollta nel 1996, intitolato Corn -Dall'anatomia

alla poetica, col quale concludiamo questa parte della nostra indagine. In questo testo, Agamben giunge a una definizione in assoluto della poesia che riassume quanto abbiamo esposto in precedenza: e non è appunto questo che avviene in ogni autentico enunciato poetico, in cui il discorrere della lingua in direzione del senso è come percorso in controcanto da un altro discorso, che va dall' intelligenza alla parola, senza che nessuno dei due compia mai il suo intero tragitto per riposarsi l'uno nella prosa e l 'altro nel puro suono? Piuttosto , in un punto decisivo di scambio, è come se i due flussi , incontrandosi , imboccassero ciascULno il binario dell' altro, in modo che la lingua si trova alla fìne ricondotta alla lingua e l'intelligenza rimessa all'intelligenza. Quest'inverso chiasmo - e nient'altro - è quanto chiamiamo poesia ; e questo , al di fuori di ogni vaghezza, il suo arduo incrocio col pensiero, l'essenza pensante della poesia e quella poetante del pensiero [Agamben 1996, 45 - 46]. Noi sappiamo che, nell'ontologia poetica di Agamben, il luogo di questo e di questo «arduo incrocio>> cade nel mezzo della Voce, nel , così come lo abbiamo definito.

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Nel mezzo della voce

2. Quella di Agamben non è soltanto un'estetica o una poetica generale o normativa. Nella letteratura (e nel suo rapporto col linguaggio e la voce) il fì.losofo rintraccia una vera e propria ontologia poetica dell'uimano che, negli studi successivi rispetto alla data stabilita come terminus ad quem della nostra indagine, si converte in fì.losofì.a politica della . In Homo sacer [Agamben 1995] , è posta fì.n da subito e con chiarezza l'equazione per cui la voce sta al linguaggio come la nuda vita sta alla politica: la domanda: corrisponde esattamente a quella: . Il vivente ha il logos togliendo e conservando in esso la propria voce, così come esso abita la polis lasciando eccepire in essa la propria nuda vita [Ivi, n]. Questa traduzione politica di un'ontologia estetico-linguistica è incarnata in un "personaggio concettuale" che è, ancora una volta, un personaggio letterario. Bartleby è protagonista dei due scritti che traghettano l'analisi agambeniana dall'estetica alla biopolitica. Lo scrivano di Melville è forma paradigmatica > [Agamben 1995, 12.1]. Bartleby e la sua (I would

prefer not to) sono il deittico, lo shifter della vita; mostrano il puro aver luogo della vita come pura contingenza, la nuda vita senza identità che sarà, nella sua essenza e nel suo rapporto col potere, protagonista del successivo pensiero agambeniano, con riflessioni che, anche nelle prime formulaz.ioni, sono ricche di stimoli per pensare il presente: quale può essere la politica della singolatrità qualunque, cioè di un essere la cui comunità non è mediata da alcuna condiz,ione di appartenenza [ ... ] ? Il fatto nuovo della politica che viene è che essa non sarà più lotta per la conquista o per il controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non- stato (/'umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell'organizzazione statale [. . . ] . Le singolarità qualunque non possono formare una societas perché non dispongono di alcuna identità da far valere, di alcun legame di appartenenza da far riconoscere. In ultima istanza, infatti, lo stato può riconoscere qualsiasi rivendicazione di identità [. . . ] , ma che delle singolarità facciano comunità senza rivendicare un'identità, che degli uomini ca-appartengano senza una rappresentabile condizio-

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ne di appartenenza (sia pure nella forma di un semplice presupposto) - ecco ciò che lo stato non può in alcun caso tollerare [Agamben 1990, 58- 59]. Agamben è tornato ad occuparsi di es.tetica, e in particolare di teoria della letteratura, nella raccolta di saggi Profanazioni, pubblicata nel 2005: il testo che da questo punto di vista è il più significativo della raccolta è quello intitolato Parodia, genere letterario che si presenta qui come nuova "forma" del puro mezzo. La parodia, che nasce sempre a fianco di un altro testo, di un altro canto, che si insedia sempre in uno spazio accanto, ha origine dalla rinuncia del parodiante alla rappresentazione diretta dell'oggetto. Questo accade perché > [Ivi, 50] dello stesso, che risulta perciò

letteralmente [Ivi, ~52] . La parodia, secondo la sua stessa etimologia (parà-oiden), non può non essere "a fianco del canto", ovvero non può mai identificarsi con l 'opera parodiata e non può mai avere un luogo proprio. Le interessanti analisi letterarie condotte da Agamben intorno a questo genere sono finalizzate ad individuare, dunque, una [Ivi, 53] , dato ,che essa > [lvi,

53].

Egli scrive che [lvi, 54]. Come per i moderni la metafisica è impossibile, a meno che non la si intenda come «l'apertura parodica di uno spazio accanto all'esperienza sensibile , che deve però restare rigorosamente vuoto>>, così la parodia è , a causa delle aporie che derivano dal fatto che essa è > [lvi, 367]. La relazione fra potenza e atto nella dottrina aristotelica costituisce un saldo punto di riferimento nel pensiero di Giorgio Agamben, utile per comprendere tanto la sua teoria del linguaggio che la sua riflessione giuridico-politica, come vedremo. Egli, nello scritto intitolato La potenza del pensiero (1987), invita a misurarsi con le ambiguità e con le aporie della teoria della potenza di Aristotele, contenute nel libro Theta della Metafisica, e a valorizzare il concetto di A&namia, "impotenza", intendendolo non come > [lvi, 87]. La religione capitalista mira alla creazione di un [lvi, 94]: Se oggi i consumatori nelle società di massa sono infelici, non è solo perché consumano oggetti che hanno incorporato, in sé la propria inusabilità, ma anche e soprat-

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Parodia e Profanazione

tutto perché credono di esercitare il loro diritto di proprietà su di essi, perché sono divenuti incapaci di profanarli [Ivi, 96]. Tuttavia si possono ancora individuare dei sistemi efficaci di profanazione e Agamben trova che il gesto del gatto che gioca con il gomitolo come se fosse un topo costituisce un esempio di profanazione esistente già in natura. In questo caso il gatto [Ivi , 106]. L'espropriazione del linguaggio e lo , attuati dallo stato spettacolare, creano però anche l' occasione di fare esperienza della stessa essenza linguistica, cioè , del fatto stesso che si parli [Agamben 2008b, 69]. Agamben chiama "Profanazione" questo nuovo possibile uso della lingua, che rende intellegibile il mezzo linguistico stesso. Abbiamo già visto che l'esibizione del puro mezzo in quanto potenza del pensiero è alla base anche della parodia come struttura del medio linguistico in cui la letteratura si esprime. La letteratura, quindi, costituisce nella filosofia di Agamben uno dei modi più efficaci per pensare a ciò che nella prefazione all'edizione francese di Infanzia e storia aveva definito il contenuto esclusivo di tutti i suoi libri, sia quelli scritti che quelli non scritti: [Agamben 2001, X].

Studi su J~gamben

Note ' Fra i testi di Agamben più specificamente :rivolti all'analisi estetico- letteraria si rimanda a G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e d'i letteratura, Laterza, Roma- Bari 2010. In questa ultima edizione del volume è stato compreso anche il saggio Parodia, pubblicato originariamente in G. Agamben, Profana;joni, Notteten1po, Roma 2005. 2

Nel recente libro intitolato Altissima povertà (Homo sacer IV, 1), Agamben indica come esempio

di ontologia dell'uso quello ricavabile dalle iregole monastiche di Francesco che contengono un paradigma dell' azione umana che e perciò come [Heidegger 1976, 265 e 270]. Da questa derivazione etimologica poi nell'opera della maturità viene l'allocuzione, avvalentesi di metafore mistico-naturali, della , ch,e è >: «sciogliere dai nodi delle credenze religiose>>, oppure con il verbo /rileggere, come da Cicerone, che in De natura deorum dà un'altra etimologia della parola: . («Coloro che riconsideravano con cura e, per così dire, ripercorrevano tutto ciò ,che riguarda il culto degli dèi furono detti religiosi da relegere>> 2 . ) Agamben si associa a questa ultima interpretazione che - come prova la contorta spiegazione di Cicerone - è quella più insolita, mentre liquida la prima come [Agamben 2OO5b, 85]. Secondo lui la parola 'religio' indica

[Ibid. ]. Mentre il Dictionnaire Erymologique de la Langue Latine constata che l 'etimologia della parola resta e non ammette [Ernout 1967, 569], Agamben si esprime in modo inequivocabile. Con quale motivazione?

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Di alcuni motivi in1 Giorgio Agamben

È a partire da una fenomenologia delle usanze sacrificali greche e romane che egli deduce la sua versione sull'essenza della r,eligione. Presso gli antichi sacrifici del fuoco una parte dell'animale sacrificato - di solito quella non commestibile - viene bruciata sull' altare e così consacrata (sacrare) agli dèi , mentre la carne viene lasciata agli uomini per il consumo (profanare). La ,carne dell' animale sacrificale non viene tuttavia in alcun modo , come Agamben suggerisce, così che [Agamben 2005b, 83]. Anzi, se possiamo richiamarci alle molteplici descrizioni di questi riti sacrificali in Omero3, essa viene consumata durante una festa cerimoniale con la quale viene festeggiata la comunità di chi sacrifica. Nel terzo libro dell'Odissea, per esempio, attraverso un simile banchetto Telemaco, che alla ricerca di suo padre è giunto alla straniera Pilo, viene accolto come ospite da.I vecchio re Nestore nella sua famiglia e nella cerchia degli eroi alla sua corte. Col gesto di spargere sangue sul terreno vengono inclusi in questa comunità anche le cr,e ature del sottosuolo e i defunti , mentre il sacrificio sull'altare placa e coinvolge le creature ultraterrene. Dunque il senso del rituale sacrificale arcaico non è la separazione ma al contrario il ripristino della turbata armonia cosmica e sociale. Religione quindi come legame e conciliazione della vita umana con quella degli dèi e dei dlefunti. Già in epoca antica a proposito del sacrifì.cio non si può parlare di profanazione delle cose >. Il corretto deve - così Agamben nella frase finale del suo testo - provenire dalla >, mentre nel testo originale si intende lo En, l'Uno, il principio originario trascendente, l'arché. Damascio scrive: [Damascio 1986, 18]. La citazione di Agamben è dunque una varia-

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Studi su J~gamben

zione, una nuova interpretazione del testo citato, attraverso la quale egli fa capire al lettore che Damascio intendeva una essenziale inspiegabilità dell'essere e delle cose. Il neoplatonico invece respinge solo la domanda su una arché, che andrebbe cercata al di là dell'Uno, valido, secondo lui, come principio supremo, per poi tuttavia nel corso della sua voluminosa discussione dedurre da questo principio primo il dualismo originario, poi la triade e infine l'insieme dei fenomeni, appunto la più sterile filosofia accademica. Cosa spinge Agamben a raccontarci la storia di questo libro e del suo autore? Damascio è l'ultimo di una ultramillenaria tradizione del filosofare, che ha il proprio fondamento nel mito greco, nella s1L1a trasformazione con i presocratici, e trova in Platone e Aristotele il proprio apice. Come Agamben riferisce in modo storicamente corretto, l'imperatore cristiano Giustiniano le pone fine nell'anno 529 della nostra era, quando con un decreto chiude l'Accademia di Atene, disprezzata in quanto rifugio del paganesimo, e manda in esilio in Persia il suo ultimo scolarca. Con questo la tradizione della originaria filosofia greca è giunta alla fine. Il pensiero cristiano ha vinto ed ha continuato a esistere fino al ventesimo secolo. Nel racconto di Agamben sulla storia della accademia si può leggere che cosa significa tradizione e riferirlo alla tradizione filosofica dell'Occidente: è la riscrittura e la rielaborazione di un testo canonico, in questo caso della filosofia di Platone, che si compie nella continuità di un insegnamento. Non a caso Agamben menziona i nomi di altri neoplatonici, che oggi nessun lettore conosce più, per indicare questo concatenamento della tradizione: > e simultaneamente trasforma l'opprimente che potrebbe seguire, uno stato in cui la legge stessa va oltre i propri limiti e diventa indistinguibile dalla vita, in uno stato che r,edime, in cui il potere opprimente della legge è annullato. Questa rappresentazione, che è rivolta al dileguarsi del mondo

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Studi su J~gamben

nel suo stato presente e al credo che tutte le separazioni alla fine scompariranno, sottolinea l'intera struttura del messianismo di Agamben e delinea la sua teoria dello ..1 Riformulando antiche concezioni antinomiche situate negli interstizi fra escatologia cristiana e messianismo ebraico e applicandole alla propria visione desolata di un mondo soggiogato, Giorgio Agamben partecipa alla tradizione dei pensatori politico-teologici del ventesimo secolo. Concepisce il compito messianico dei nostri tempi come una interruzione nella continuità cronologica, contrapponendosi a tutte le illusorie richieste di un eterno stato di attesa ispirato alla tradizione ebraica o alle concezioni cristiane del presente come vita futura di un evento già avvenuto. Agamben si oppone a tutte le forme della cristianità che stabiliscono nuovi comandamenti dopo che il Vecchio Testamento è stata revocato; tuttavia la distanza che prende dalle teorie messianiche sviluppate dai moderni pensatori ebrei, da Gershom Scholem aJacques Derrida, è maggiormente elaborata nei suoi scritti. Con l'intenzione di contrastare la perpetuazione del misero stato del mondo e la continuazione della cattiva infinità che egli considera ali' opera in queste teorie, Agamben propone una figura di pensiero che interrompa l'eterno differimento della fine e l'illimitato regno della Legge. Si appella a San Paolo e a Walter Benjamin come sue guide e, in una lettura ebraica di Paolo2 e una lettura paolina di Benjamin3, fonde le loro visioni. >, che «non assomiglia tanto alla soluzione di un problema logico o matematico, quanto a quella di un enigma>> [Agamben 2005a, 56]. Ì~ il motivo per cui può essere non del tutto inappropriato cercare una risposta a questo enigma nelle letture che Agamben fa di testi letterari piuttosto che nei suoi scriltti teorici: il ricorso ripetuto ai racconti e alle parabole di Kafka illumina sia le ipotesi sia i parametri del suo progetto messianico, sottoponendolo a un esame concreto e specifico.

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Il Messia dava1nti alla Legge

Davanti alla Legge Nella sua lettera a Gershom Scholem datata 15 settembre 1934, Walter Benjamin chiama i suoi scritti su Kafka [Benjamin 1966, 620]. 4 Lo stesso si può dire del posto occupato da Kafka nell'opera di Agamben, benché in questo caso significhi non soltanto il punto in cui si incrociano strade che portano in direzioni opposte, ma anche, letteralmente, l'ultima strada intrapresa dal redentore nel suo cammino verso la croce. Nelle sue interpretazioni delle storie di Kafka, Agamben si pone a distanza da - e spesso parla esplicitamente contro - le letture di Scholem, Adorno e Derrida e, almeno dalla sua prospettiva, adotta in gran parte l'esegesi benjaminiana dell'autore di Praga. Che nell'elaborazione la posizione di Benjamin sia cambiata - anche se leggermente - in senso cristiano e Kafka sia diventato un paolino di sicuro è fra gli esiti più discutibili nell' opera di Agamben. In Stato di eccezjone [Agamben 2003, 82] , in termini che somigliano al giudizio che ne dà Benjamin, Agamben delinea i due aspetti dell' opera di Kafka che ritiene essere i più importanti: una diagnosi critica da una parte della desolata condizione del mondo, e dall' altra delle scintille nascoste di un futuro rovesciamento di queste condizioni. Nella lettera a Scholem del 12 g~ugno 1938 Benjamin scrive che rintracciabile nell'opera di Kafka di sicuro è più significativa di quanto non lo siano le possibilità positive [lvi, 763]. Lo stesso

si può dire del ruolo che Kafka gioca nelle opere di Agamben, che trova nell'opera di Kafka , nell'esilio in una legge oppressiva; allo stesso tempo i [Agamben 2003, 83]. Nelle interpretazioni delle parabole di Kafka Davanti alla Legge e Nella coloniapenale e in numerosi altri riferimenti ai racconti di Kafka - Prometeo, Il silenzjo delle sirene, Il nuovo avvocato,

Delle metafore - e altri -Agamben illustra l'idea dell' oppressivo stato d'eccezione e del suo rovesciamento attraverso una sospensione della legge. In modo spesso violento e perfino mortificante, toglie alcuni testi e figure di Kafka dalla interpretazione corrente e iscrive queste storie nel suo proprio progetto messianico. Quindi il programma - la > è esemplificata in modo paradigmatico nel «tipo di vita vissuta nel villaggio ai piedi del monte>> descritto nel romanzo di Kafka Il Castello. L'opposto simmetrico di questa situazione è la redenzione. Riferendosi alle differenze interpretative ch,e contraddistinguono gli approcci di Scholem e di Benjamin a questa condizione, Agamben scrive: Da una parte quella (è la posizione di Scholem) che vede in esso una vigenza senza significato, un mantenersi della pura forma della legge al di là del suo contenuto, dall'altra il gesto benjaminiano, per il quale lo stato di eccezione tramutato in regola segna la consumazione della legge e il suo diventare indiscernibile dalla vita che dovrebbe regolare. [Ivi, 62]

Mentre nella prospettiva diAgamben Scholem resta in soggezione del principio di sovranità, Benjamin immagina il capovolgimento redentore di tale principio. L' esempio più convincente di un simile rovesciamento dallo stato di eccezione negativo, in cui la vita è assoggettata alla legge , a un reale, messianico stato di eccezione, in cui la forza della legge è revocata, si trova nell'interpretazione di Agamben della parabola di Kafka Davanti alla Legge. In essa Agamben vede una perfetta rappresentazione della struttura del bando. La situazione dell'uomo di campagna, che è trattenuto da un guardiano al di qua della porta della legge, esprime secondo Agamben la purissima forma del potere della legge, che ha perso il significato ma continua a essere in vigore [cfr. Agamben 2005a, 63]. Nella sua interpretazione la porta aperta che non può essere varcata indica il mondo in stato di eccezione. Nessun decreto vieta l'accesso dell'uomo alla legge , ma l'uomo è letteralmente tenuto in un esilio che allo stesso tempo lo include e lo esclude; né gli accorda di accedere alla legge , né egli può allontanarsene. In contrasto rispetto alle interpretazioni tradizionali, che vedono la situazione dell'uomo di campagna come un fallimento, perché egli attende invano davanti alla porta della legge finché il guardiano e:sclama , Agamben comprende il comportamento dell'uorno come nient'altro che una [Ivi, 65]. Con la sua sorprendente lettura della pa:rabola di KafkaAgamben controbatte esplicitamente l'interpretazione che ne dà Derrida, come un'infinita forma di attesa e una trattativa in corso con i poteri in essere, e rifiuta questa visione di una . Nella costitutiva incapacità a raggiungere la fine che sta al centro della lettura di Derrida, Agamben individua una posizione che ha qualco-

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Il Messia dava1nti alla Legge

sa della nostra condizione comune [Agamben 2010, 271]. La posizione di De irrida contrasta con quella che Agamben interpreta come una provocazione all'uomo della campagna e che guida alla porta che viene chiusa. Per lui l'uomo di Kafka è una figura paolina che adempie il compito messianico di sospendere la legge e provocare l'inversione del falso nell'autentico stato di eccezione. Agamben parla esplicitamente di una strategia - un fine calcolato - a proposito dell'uomo di campagna, destinata alla chiusura della porta e alla sospensione della legge. Nonostante le affermazioni di fedeltà di Agamben, un piano così deliberato è necessariamente in contrasto con l'opinione di Benjamin di indurre l' . La figura nel testo più esplicitamente messianico, il Frammento teologico-politico, in cui e [Benjamin 2008] assumono la sembianza di due frecce parallele che puntano in direzioni opposte sospingendosi reciprocamente, non prevede una simile disattivazione diretta della legge. Non è riclb.iesta alcuna abrogazione, trasgressiva o profanatrice, della legge per attuare il regno divino, ma piuttosto la ricerca profana e terrena della felicità umana. 5 Nella sua interpretazione Agamben enfatizza invece l'impulso distruttivo e vede di buon occhio il falso messia Shabbetai Zevi, secondo il quale e [Agamben ~WlO, 266]. Agamben fonde questo credo antinomico di ispirazione mistica con la proclamazione di Paolo sulla fine della Legge scritta e con il proprio concetto di reaJizzazione escatologica del regno divino. Agamben sottolinea la sua interpretazione dell'uomo di campagna come simbolo di Cristo mostrando che egli sembra soltanto pag:are con la vita per il compimento del suo compito messianico: enfatizza il fatto che Kafka non parla della morte dell'uomo, ma piuttosto della sua fine che si avvicina. Questo dettaglio sottolinea la lettura paolina che egli fa del testo di Kafka. Il , dopo che la porta della Legge è stata chiusa, corrisponde al titolo del libro di Ag:amben sulla Lettera ai Romani di Paolo con il suo concetto chiave di età messianica com,e resto temporale [Cfr. Agamben 2000, 55 sgg]. È difficile accertare se accade qualcosa in questo tempo. Questa difficoltà è sottolineata da una glossa che Agamben prende da una miniatura in un documento del XV secolo e che è inclusa nella sua interpretazione. Inizialmente Agamben scrive: [Agamben 2005a, 66]. Poche righe dopo, tuttavia, c'è un altro riferimento all'arrivo del Messia: la prima conseguenza del suo arrivo è che >, che nello stato di eccezione negativo è diventata indecifrabile e , con trasta col linguaggio nel suo stato messianico e con > [Ibid. ], non potrebbe essere più allusiva alla dolorosa corona di spine del redentore. Che l 'ufficiale non sperimenti la redenzione nella sesta ora

-1' ora biblica della morte di Cristo - come fanno gli altri che lo hanno preceduto,

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si rivela come punto saliente della interpretazione di Agamben, che sostiene che > [lvi, 127]. Questo rigo richiama il racconto di Kafka Prometeo che inizia con le parole: [Kafka 1985, 408]. La parabola di Kafka riflette sull'ostacolato impulso umano a trovare spiegazione all'inesplicabile, sulla distanza crescente, attraverso i secoli, di queste spiegazioni dal (Wahrheitsgrund) e sulla definitiva persist,e nza dell'inesplicabile. In Kafka difeso dai suoi interpreti Agamben prova a dare una versione dell'origine e del fallimento delle spiegazioni. Come suggerisce il titolo del testo, Agamben è meno interessato a Kafka di quanto non lo sia ai suoi interpreti. Kafka difeso dai suoi interpreti è una polemica poetica contro quelle teorie ermeneutiche che nella infinita possibilità di esegesi dei testi vedono non tanto la massima approssimazione possibile al loro contenuto di verità, ma piuttosto la estrema preservazione del loro nucleo inaccessibile. I padri degli esegeti di oggi già pensavano che > perché nasce da un . Il testo di Kafka cominciava quindi da un simile fondamento nella verità: da qui Kafka sviluppa le sue spiegazioni; la leggenda- e la letteratura con essa- è per lui, nella figura di Prometeo, , che raccontando leggende e scrivendo letteratura derubò gli dèi dell'inesplicabile e lo consegnò agli uomini. Quindi, nel testo di Kafka la leggenda rimane ancora il soggetto del pensiero conclusivo. Il rifiuto messianico di Agamben delle spiegazioni e delle leggende, d'altra parte, restituisce l'inesplicabile agli dèi. Se nel Prometeo di Kafka la leggenda stessa è il bottino rubato agli dèi che consegna l'inesplicabile al genere umano, per Agamben diventa allora, come il linguaggio e il suo bando, la punizione per questo furto. Non è per caso, allora, che proprio nella sua ultima frase egli si volge a una speranza messianica e tralascia la leggenda - e tutta la. narrazione. In Kafka, pure, la leggenda finisce con l'inesplicabile; tuttavia, esattam,ente il non riuscire a conquistarlo lascia l'inesplicabile aperto a ulteriori possibilità di interpretazioni - anche a quella dello stessoAgamben. Come l'uomo di campagna davanti alla legge, come l'ufficiale nella colonia penale, Agamben emula la destituzione paolina del comandamento di interpretare la Parola, che vede come una liberazione dai guardiani del Tempio.

Gli studiosi In Idea dello studio, un altro testo di Idea dell,a prosa [Agamben 2002, 43-45], la speranza messianica di Agamben circa una fine di tutte le spiegazioni e la liberazione dai guardiani del Tempio coincide con un'invocazione alla fine dello studio in generale. Nell'introduzione a Idea dello studio, Agamhen ricorda come lo studio delle Scritture divenne, nella tradizione ebraica, un surrogato dei rituali sacrificali dopo la distru zione del Tempio. In contrapposizione ai commentatori rabbinici come Maimonide, che immaginano i tempi messianici in termini di una ricostruzione del Tempio e un rinvigorimento della Torah e dei suoi comandamenti, Agamben fa eco alle speculazioni cabalistiche sulla eventuale fine di tutti i commenti e fonde la destituzione degli attuali guardiani del tempio dell'ermeneutica con un'anticipazione messianica della fine di ogni studio. Nel corso di questa argomentazione Agar.nben accoglie, ma radicalizza e modifica leggermente, le riflessioni di Benjamin sulla missione messianica adempiuta dagli scribi e dagli studiosi nelle opere di Kafka. Queste riflessioni, che costituiscono le ultime pagine del saggio di Benjamin su Kafka, sviluppano il pensiero che [Benjamin 1976, 288]. In conformità rispetto all"interpretazione di Benjamin, Agamben

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considera lo studio della legge un proficuo rimpiazzo per la pratica della stessa e un assalto sovversivo al potere dei preti, ma nel suo progetto messianico lo studio stesso è soltanto uno stadio intermedio. Eventualmente, si risolverebbe in una rinuncia

alla ricostruzione messianica del Tempio e, alla fine, una scomparsa dalla memoria umana. Per Benjamin, d'altra parte,, gli studenti di Kafka sono gli antenati del Messia, perché sono quelli che sorvegliano affinché «il meglio>> non sia dimenticato, «poiché riguarda la possibilità della redenzione>> [Ivi , 285]. Studiare diventa, secondo Benjamin, equivalente a una resistenza redentrice contro l'avanzare del tempo e l'oblio del passato. Benjamin d,escrive il compito messianico degli studenti di Kafka come un viaggio all'indietro, come un volo verso il passato. Citando il testo aforistico di Kafka Voglia di diventare un peNerossa, Benjamin illustra la visione estatica di una simile cavalcata. Paragona il volo del cavallo alla realizzazione della , che galoppa verso il passato in un , per redimere ciò che è stato dimenticato [Ivi, 287]. Nel penultimo paragrafo del suo saggio Benjamin ancora una volta adotta il confronto tra lo studio e la . Comunque, il giudizio di Benjamin sulla cavalcata incantata cambia dopo l'osservazione che gli studenti di Kafka sono . , scrive Benjamin, [Ivi, 288-289]. Questo volo estatico senza « il collo e la testa del cavallo>>, senza peso, senza legge potrebbe essere felice , ma, Benjamin sembra dire, è anche vuoto e immaginario come una , una mera fantasia. Conseguentemente Benjamin distingue infatti il sentiero su cui si è incamminato Kafka da quello imboccato dagli studenti che hanno perso le Scritture. Diversamente da loro, scrive Benjamin, Kafka [Ivi, 289]. Benjamin trova la di Kafka espressa assai efficacemente nel racconto intitolato La

verità su Sancio Panza [Kafka 1992, 38], e chiama questa storia, che cita integralmente alla fme del suo saggio, «uno schizzo che è riuscito il di lui più perfetto non solo per il suo carattere di interpretazione>> [Ibid. ]. Dopo tutto, Kafka può essere ricondotto a una legge e, al più, produrre interpretazioni? Secondo Agamben il compito messianico degli studenti di Kafka non sta più nel praticare e osservare la legge , ma nello studio di essa, per disattivarla e in definitiva lasciarla scomparire nell'oblio. Quest'ultimo passo è assente nelle riflessioni di Benjamin. Anche per lui le opere di Kafka, come la Haggadah, la comunicazione della legge attraverso i racconti, non stanno semplicemente ai piedi della legge, la Halacha, ma invece sollevano contro di essa. Comunque, Benjamin non si spinge così lontano c:ome Agamben. Per Benjamin, Kafka non vuole avviarsi verso un viaggio allegro e inutile privo della legge e della parola scritta, ma invece, nella sua riformulazione del racconto di Cervantes, paga tributo a un testo più vecchio reinterpretandolo. Kafka riconfigura l'idealistico cavaliere di Cer-

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vantes, Don Chisciotte, nel prodotto dell'immaginazione di Sancio Panza, il suo compagno pragmatico e razionale: Sancio Panza, che del resto non se ne è imai vantato, nel corso degli anni, mettendo accanto al suo dèmone - cui diede in seguito il nome di Don Chisciotte - nelle ore serali e notturne una quantità di sllrie di cavalleria e di brigantaggio, riuscì a stornarlo talmente da sé che questi si diede a compiere sfrenatamente le azioni più folli, le quali però, in mancanza di un oggetto predestinato che avrebbe dovuto essere appunto Sancio Panza, non facevano del male a nessuno. Sancio Panza, uomo libero, seguiva imperturbabile Don Chisciotte nelle sue scorribande, forse per un certo senso di responsabilità, e ne trass:e un grande e utile svago fino alla fine dei suoi giorni>> [Benjamin 1976, ~89].

Nel desiderio di salvare il mondo che gli fa perdere il senso della realtà, Don Chisciotte è appoggiato da Sancio Panza, che ha deciso di seguire il combattivo cavaliere. Temendone le fantasie e follie distruttive, egli lo segue dappertutto e ne osserva le azioni. Così, procura a se stesso - e possiamo aggiungere altrettanto a noi- un . In una lettera a Gershom Scholem dell'n agosto 1934, Benjamin con le seguenti parole sottolinea il suo prof.::>ndo apprezzamento per il Sancio Panza di Kafka: > [Agamben 2005b, 108], chiede Agamben alla fine del suo testo finale di Profanazioni, la sua più recente raccolta di saggi. Il testo è I sei minuti più belli della storia del cinema e favorisce un commento simile alla valutazione della Verità su Sancio Panza di Kafka: potrebbe ben essere una e, non ultimo perché è una autointerpretazione, la sua cosa più riuscita. Il testo di Agamben è una descrizione lunga una pagina di una scena del film di Orson Wells Don Chisciotte, che dà l'impressione di un montaggio di scene prese da Kafka. La scena è ambientata nel cinema di una piccola città provinciale.

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Sancho Panza entra in un cinema di una città di provincia. Sta cercando Don Chisciotte e lo trova che sta seduto in disparte e fissa lo schermo. La sala è quasi piena, la galleria - che è una specie di loggione - è interamente occupata da bambini chiassosi. Dopo qualche inutile tentativo di raggiungere Don Chisciotte, Sancho si siede di malavoglia in platea, accanto a una bambina (Dulcinea?), che gli offre un lecca lecca. La proiezione è incominciata, è un film in costume, sullo schermo corrono dei cavalieri armati, a un tratto appare una donna in pericolo. Di colpo Don Chisciotte si alza in piedi, sguaina la spada, si precipita contro lo schermo e i suoi fendenti cominciano a lacerare la tela. Sullo schermo compaiono ancora la donna e i cavalieri, ma lo squarcio nero aperto dalla spada di Don Chisciotte si allarga sempre più, divora implacabilmente le immagini. Alla fine dello schermo non resta quasi più nulla, si vede soltanto la struttura di legno che lo sosteneva. Il pubblico indignato abbandona la salla, ma nel loggione i bambini non smettono di incoraggiare fanaticamente Don Chisciotte. Solo la bambina in platea lo fissa con riprovazione. [Ivi, 107] Associando frammenti da La verità su Sancio Panza e In galleria, Agamben prolunga il commento di Kafka su Cervantes e intreccia se stesso nella composizione. Diversamente dal giovane uomo > [Steiner 1976, 256]

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Comicu!; noster

3. Persona e natura L'incompatibilità di tragedia e cristianesimo è un leitmotiv del pensiero tragico contemporaneo. E se è pur vero che vi è tut1ta una tradizione che, da Kierkegaard ad Unamuno fino al nostro Pareyson, insiste nel rivendicare il carattere tragico dell'esperienza cristiana, resta il fatto che la prospettiva escatologica, entro cui vanno collocate tanto la colpa quanto la possibilità della sua espiazione, rovescia il senso specifico della visione tragica del mondo, c:he va colto nella impossibilità, da parte dell'uomo, di venire a capo delle contraddizioni e dei conflitti iscritti in un destino che non concede scampo o vie di fuga. Eppure, a giudizio di Agamben, una concezione tragica della colpa è ancora presente all'interno dell'universo cristiano [Agamben 2010a, 15]. Il peccato originale, in quanto si trasmette al singolo individuo indipendentemente da una qualsiasi responsabilità personale, implicandolo in un groviglio di colpe che non gli sono imputabili, potrebbe essere inteso come un perfetto equivalente della hamartìa greca, se non fosse che, fondando la distinzione tra colpa naturale e colpa personale, consente la neutralizzazione del dispositivo ontologico che qualifica la colpa tragica come inespiabile .. Ed è la figura del Cristo che, consentendo il rovesciamento del [lvi, 17], libera l'uomo dalla hamartìa tragica (colpa oggettiva), ,c onsegnandogli la possibilità di redimersi da un peccatum soggettivamente inrrputabile. La passione di Cristo muta radicalmente il quadro di riferimento entro cui collocare il destino dell'uomo e la sua possibilità di redenzione finale: >. Infatti, non solo la sua produzione industrializzata attraverso la fabbricazione seriale di cadaveri costituisce una irredimibile , poiché nella situazione dei Lager >: Primo Levi racconta che la regola di Auschwitz gli fu insegnata fino dal suo arrivo al campo da una guardia delle SS. > [Sontag 2003, 59]. Come Primo Levi o Robert Antelme, Jean Cayrol, un altro protagonista della (nonché sceneggiatore di Notte e nebbia di Alain Resnais) , nel raccontare la sua esperienza di Lazzaro restituito alla vita, spiegherà che anche per chi non ha vissuto direttamente quegli eventi, essi hanno l 'incontrastato potere di entrare definitivamente ad abitarne l 'im1naginario. Non c'è niente da spiegare. I campi di concentramento sono stati subiti in forme e maniere diverse dalle vittime. Alcuni sono morti, altri muoiono più lentamente, stroncati dal ritorno e invecchiano, così, in questa forma larvale del terrore, un terrore spento solo a metà. Molti sopravvivono e cercano di aprirsi una strada attraverso quel Campo Inafferrabile che, nuovamente, li circonda, li stordisce, li disorienta. Resta lo shock emotivo, più forte che mai, con tutti gli odori di quella miseria esasperata, che entrano fino negli angoli più nascosti della pace: il concentrazionario si sente più forte che mai. E tutti quelli che hanno conosciuto i campi solo per sentito dire ora cominciano ad avere i principali tic di questo universo. La , attraverso la quale Agamben fa i conti con la Shoah, il più sconvolgente degli accadimenti del Novecento, entra di diritto nel novero dei materiali costitutivi delle nostre figurazioni dell' realizzato, quell'orrore insediatosi , attraverso il potere dell'immaginazione, nel nostro immaginario e, speriamo, anche nelle nostre coscienze.

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