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Italian Pages 320 Year 1994
ALDO MASULLO STRUTTURA SOGGETTO PRASSI
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Edizioni Scientifiche Italiane
In memoria di mio padre che /,a sua vita e /,a sua morte patì con umiltà virile
Avvertenza I materiali di ricostruzione storica e di riflessione teorica, raccolti nel presente volume, mi appaiono oggi, nella loro organicità, come il prospettico intreccio del lungo e complesso itinerario di ricerca che, delineatosi nel lontano 1960, in forte controtendenza rispetto alla cultura filosofica italiana di quel periodo, non ha mai cessato d'impegnarmi, come ancora nel 1990 documentava il libro Filosofie del soggetto e diritto del senso. Sollecitato da molti amici, italiani e stranieri, a restituire alla comune accessibilità quei materiali, mi sono ora deciso a pubblicarne la revisione. L'autorevole collega prof. Bianca Maria d'Ippolito con la fedeltà dell'antica allieva e la competenza dell'assidua studiosa si è generosamente impegnata nella selettiva e aggiornata sistemazione dell' apparato bibliografico. Le esprimo la mia viva riconoscenza. Un cordiale ringraziamento debbo alla fattiva cortesia del dott. Michele Gallo per l'attenta cura editoriale.
A.M. Napoli, maggio 1994
PARTE PRIMA
LA NOZIONE DI STRUTTURA NEI LINGUAGGI SCIENTIFICI E L'APPROCCIO AL SOGGETTO
«Qui si tratta di una effettiva protesta dell'empiria contro l'empirismo» (YORCK
I. - l
di WARTENBURG)
LINGUAGGI E IL CAPIRE
§ 1. Compito e limiti della ricerca Un illustre storico della filosofia ha osservato che «uno dei tratti più rimarchevoli del pensiero contemporaneo è certamente il regresso dei problemi di genesi, d'origine, d'evoluzione a profitto dei problemi di struttura» 1• È forse preferibile, per introdurre un discorso al proposito, tradurre questa osservazione in una forma più elementare e più guardinga, e limitarsi a dire che nella cultura contemporanea, sopratutto a partire dalla fine del secolo scorso, si è venuto sempre più intensificando l'impiego del termine struttura, «una parola - come scriveva il Russell nel 1918 - che, malgrado la sua importanza, non è stata mai definita in termini precisi da chi l'ha usata» 2• La stessa espansione del suo impiego nelle più varie discipline, all'interno quindi dei più diversi linguaggi scientifici, attesta che il termine in questione non ha fino ad ora, a quaranta anni di distanza dall'appunto del Russell, ricevuto uno status semantico ben definito. Tuttavia una così crescente fortuna della parola nel contesto di linguaggi, che peraltro tendono a farsi sempre più rigorosi, è un forte indizio che nel suo uso si nasconda una vera e propria cate-
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paginare la trama stessa del nostro essere, mettere a nudo l'intricata storia dei processi vissuti che in vario modo condizionano il processo che attualmente viviamo. Così ognuno sperimenta, nella vita quotidiana e nel linguaggio che la esprime, le «cose tanto usuali e pur tanto oscure» di cui parla S. Agostino, e di cui un esempio limite è il tempo, il quale cosa sia «se nessun~ me lo domanda lo so: se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più». Perciò, come osserva Berkeley, «alla gran massa degli uomini, che va per la strada maestra del semplice senso comune, nulla di ciò ch'è familiare sembra strano o difficile a capire; ma, non appena ci scostiamo dai sensi e dallo istinto per seguire la luce di un principio superiore, per ragionare, meditare e riflettere sulla natura delle cose, mille scrupoli sorgono nella nostra mente su quelle cose, che innanzi ci pareva di comprendere pienamente». Nella lapidaria espressione hegeliana: «il noto in genere, appunto in quanto è noto, non è conosciuto»4. Questa considerazione getta luce sul senso stesso della filosofia. Proprio perché la filosofia mette in problema la vita ch'è la più usuale di tutte le cose, il suo oggetto è il più oscuro di tutti. Ciò che si vive si esprime in un linguaggio vissuto, spontaneo e quotidiano: il linguaggio comune, proprio perché spontaneo, esprime la ricchezza della nostra realtà e delle sue leggi; ma appunto esprime tutto ciò; lo certifica, ma non lo spiega; lo presenta, ma non lo chiarisce; è in una parola altrettanto oscuro. I linguaggi scientifici sono anch'essi, come ogni linguaggio, vissuti, ma non sono spontanei e quotidiani, bensì deliberatamente escogitati per definire oggetti che non sono vissuti, appunto perché mediati dai linguaggi e da essi condizionati. Il vivere fonda il linguaggio quotidiano. I linguaggi scientifici sono invece essi che fondano i loro oggetti, gli oggetti scientifici. Pertanto gli oggetti scientifici non sono vissuti in sé, ma in quanto risolti nei linguaggi relativi: basta riferirli al lessico ed alla sintassi del linguaggio cui appartengono, per comprenderne il significato. Invece non si può interpretare il linguaggio spontaneo se non risalendo all'immediatamente vissuto che in esso si esprime, cioè proprio a ciò che, per essere la nostra stessa vita, è radicalmente irriducibile. Sono gli oggetti scientifici, attraverso i rispettivi linguaggi, che cercano il proprio senso ultimo nella totalità concreta, la vita, da cui sono stati per altrettanti processi astrattivi enucleati,
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goria, valida a caratterizzare una certa situazione culturale e definire in modo unitario un momento della storia scientifica3• Questa ipotesi, ove fosse confermata dallo sviluppo della ricerca, getterebbe luce su di un cospicuo esempio di connessione e solidarietà inter-linguistica, contribuendo a mostrare in tale connessione e solidarietà un aspetto saliente di ogni situazione culturale e specificamente scientifica: la categoria di struttura apparirebbe così come la struttura d'un certo mondo culturale; la sua presenza in contesti linguistici diversi esprimerebbe in un caso particolare la connessione e solidarietà inter-linguistica come qualità .strutturale d'ogni cultura. Di una simile indagine non si possono, in questa sede, che abbozzare, a mo' di esemplificazione, alcuni aspetti, omettendo anche solo un cenno a proposito di molti altri. La presente ricerca, esaminando la trama evolutiva di alcuni linguaggi scientifici contemporanei, intende limitarsi a chiarire la portata della nozione di struttura nella stretta misura in cui ciò può permettere alla filosofia un più efficace approccio al concreto soggetto della realtà, all'uomo operante.
§ 2. Livello dei linguaggi spontanei e livelli dei linguaggi sdentifid La nostra odierna situazione culturale è spiccatamente caratterizzata dalla pluralità dei linguaggi come pluralità di livelli analitici, variamente determinati secondo gli specifici problemi, cioè difficoltà vitali, alla cui impostazione in termini di risolvibilità quei linguaggi debbono servire. L'oggetto teoretico specifico d'ogni disciplina è invero determinato dal metodo relativo, il quale a sua volta si viene costituendo attraverso un processo di adattamento operativo del ricercante alle difficoltà vitali eh' egli avverte di dover superare. Ora, mentre il linguaggio quotidiano, cioè qualsiasi linguaggio storicamente parlato, preso a livello di uso, nella sua funzione pragmatica, è immediatamente comprensibile, purché non lo si analizzi, i linguaggi scientifici invece tanto meno immediatamente si comprendono quanto più sono formalizzati, e tuttavia, sottoposti ad analisi adeguate, quanto più sono formalizzati e quindi non immediatamente comprensibili, tanto più consentono una comprensione piena e senza residui: Analizzare il linguaggio quotidiano è scom-
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teorema di geometria, per cui occorrono speciali conoscenze. Il teorema si capisce, risolvendo i termini che vi giocano nel sistema linguistico della geometria adottata, ossia nei riferimenti ad un complesso sistema di ben determinate relazioni di significanza. Capire il dolore altrui appare, a chi ben guardi, cosà, per quanto sémplice, ben più difficile che capire il teorema di geometria, che pur è complesso: basta invero possedere determinate cognizioni opportunamente apprese per capire del teorema il significato pieno e senza residui, per risolverlo, scioglierlo, vanificarne la problematicità; per capire il dolore altrui invece, per quanto non occorrano speciali cognizioni , è necessario avere la disposizione ad assumere quello stesso atteggiamento psichico, avere la capacità di trasferirsi nell'altro e di superare il proprio chiuso egoismo: cioè non lo si può capire risolvendolo in una serie di riferimenti a ben determinate relazioni, ma soltanto vivendolo, e lasciandolo tuttavia sempre chiuso in una sua problematica oscurità! Qui, in conclusione, il semplice è proprio il più difficile a capirsi, quel che S. Agostino chiama oscuro, poiché è ciò che si vive, e in quanto tale è usuale e non formalisticamente, e cioè operativamente, analizzabile.
§ 4. Il semplice ed il complesso Un secondo caso dell'opposizione tra semplice e complesso è quello della diversa portata del capire la costituzione di una molecola di ferro e del capire la costituzione d'un tavolo di ferro: in un certo senso, il tavolo è più complesso rispetto alla molecola di ferro, eppure è enormemente più facile capire la costituzione del tavolo, del più complesso, che non quella della molecola di ferro, del più semplice. Quanto più una cosa è semplice, tanto più è difficile a comprendersi poiché una cosa complessa in linea di principio può ricondursi prima o poi a cose più semplici, mentre una cosa semplicissima non può ricondursi a cose più semplici ancora. In linea di fatto, cose semplicissime in senso assoluto non ve ne sono: una cosa semplice è solo una cosa più difficilmente riducibile a cose più semplici. Una cosa molto complessa ha la sua difficoltà solo nella scelta e nel numero delle operazioni da compiere per ridurla a cose meno complesse. Una cosa molto semplice invece ha la sua difficoltà, ben più grave, nell'inesistenza, per lo meno allo
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ma la totalità concreta non può essere ricondotta ad altro: non può essere fatta rientrare a sua volta come parte analitica di un tutto che sia esso stesso relativo, e perciò elemento di un linguaggio, all'interno del quale sia· perfettamente definito nelle sue relazioni, e perciò determinabile nel suo significato.
§ 3. Capire d'uso e capire di riferimento
Capire è possibile almeno in due modi fondamentali. L'uno è quello per cui le cose sono usuali, anche se restano oscure. L'altro è quello per cui le cose diventano chiare, anche se ciò le fa essere meno usuali che mai, a tal punto che, per acquistare un senso vitale, debbono trapassare a loro volta in cose usuali, e quindi ancora irrimediabilmente oscure. Il primo modo è un capire d'uso, cioè un ripetere la cosa capita. È un imitare. Perciò un filosofo della vita come Hamann poté scrivere che senza la legge perfetta della libertà, cioè senza lo stato naturale dei rapporti che legano l'uomo al tutto, «l'uomo non sarebbe capace di nessuna imitazione, su cui è fondata tutta la sua educazione; giacché l'uomo è, fra tutti gli animali, il più grande pantomimo»5• Il secondo modo di capire, invece, è un riportare la cosa ad altre, un esplicitarne i riferimenti ad altre, in tali riferimenti ritrovandosene il significato: ma ciò suppone che la cosa venga cifrata, secondo un sistema linguistico già definito, all'interno del quale essa assuma la .titolarità di ben determinati rapporti con altre cose cifrate in base al medesimo sistema. La cosa allora è trasformata in oggetto ideale. · L'opposizione tra capire d'uso e capire di riferimento, ch'è poi l'opposizione tra comprensione del senso e comprensione del significato, si configura variamente nella complessa fenomenologia del conoscere. In conseguenza si configura variamente l'opposizione tra il semplice, corrispondente all'usuale, ed il complesso, corrispondente a ciò il cui significato si rinviene nei riferimenti in cui esso può risolversi. Un primo caso è quello dell'opposizione tra «capire un dolore altrui» e «capire un teorema di geometria»: semplice è capire il dolore altrui, può farlo anche un incolto; complesso è capire un
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d'una ruota a, poniamo, tremila giri al minuto, poiché non riesco ad imitarlo percettivamente: la percezione è infatti intricata con il movimento soggettivo in modo tale che l'impossibilità di questo è impossibilità della percezione, secondo le acute osservazioni del W eizsacker10 • È evidente che, se a ciò che viene capito imitativamente ed appare perciò usuale e semplice si volesse applicare un'intenzione di capire nell'altra maniera, in quella che risolve la cosa da capire, mercé la cifratura, in un termine di riferimenti relazionali all'interno di un contesto linguistico formalmente determinato, allora tutto ciò che appare per eccellenza semplice diverrebbe quanto di più oscuro si possa immaginare, chiaribile solo attraverso preliminari processi di traduzione dal linguaggio comune nei linguaggi formali appropriati. Tuttavia già la scelta del linguaggio formale, e del corrispondente metodo d'analisi del linguaggio comune, implicherebbe la volontà di cercare quel tipo di soluzione del problema, condizionato dal tipo di linguaggio adottato; non si escluderebbe pertanto la possibilità di tradurre con un altro linguaggio quella stessa esperienza in un altro problema per un altro tipo di soluzione. Si precisa, a questo proposito, la distinzione tra la materia della indagine e l'oggetto dell'indagine. L'oggetto è definito dallo stesso linguaggio più o meno formalizzato della ricerca, direi che è il senso totale di questo linguaggio ed è perciò tanto più rigoroso ed univoco quanto più il linguaggio è formalizzato. La materia invece è il campo di esperienze vissute ed espresse nel linguaggio comune, entro il cui raggio operano la selezione e la cifratura di un certo linguaggio formalizzato. Le scienze cosiddette antropologiche, ad esempio, hanno tutte la medesima materia, l'uomo, ma l'oggetto dell'etnologia, quello della biologia umana e quello della psicologia esistenziale, poniamo, non sono certo un solo e medesimo oggetto. Il che spiega come sia possibile concordare il principio formale, che l'oggetto è definito dal linguaggio, con l'esperienza storica che ogni linguaggio è sempre costruito a partire da certi contenuti: ogni linguaggio formale invero, mentre condiziona logicamente il suo oggetto, è condizionato dalla sua materia, cioè dal settore del linguaggio comune, ove si esprimono alcuni problemi del vivere, alla cui soluzione quel linguaggio formale è appunto destinato. Ogni capire di tipo scientifico resta una selezione ed un impoverimento dell'esperienza per determinarla alla luce di un certo siste-
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stato attuale, d'una operazione, anche nel senso meramente mentale, atta ad analizzarla e renderne conto6• Invero, nel linguaggio quotidiano, il dislocarsi dei gradi di maggiore o minore complessità, per cui si dice che una cosa è semplice ed un'altra complessa, non dipende che da un livello di riferimento determinato, che è quello della nostra percezione: così il tavolo, essendo come tavolo al nostro livello percettivo, mentre non lo è la molecola· di ferro, vien detto più semplice a capirsi che non la molecola di ferro. Il tavolo è semplicissimo a capirsi come percezione vissuta, mentre la molecola di ferro non è comprensibile se non mediante un sistema di relazioni concettuali, condizionate da un certo linguaggio e simboleggiabile al più in un modello artificiale. Eppure il tavolo, se lo si dovesse capire analiticamente, cioè non come percezione vissuta, ma come oggetto scientifico allo stesso titolo della molecola di ferro implicherebbe un'enorme complicazione di riferimenti relazionali, esprimenti la precisa disposizione spaziale delle sue minute parti e le operazioni tempo-spazialmente determinate dei suoi costruttori e la storia, fatta di situazioni spazio-temporali in cui quel tavolo si è trovato 7 • Si viene così chiarendo come il semplice, ch'è tuttavia oscuro, altro non sia se non ciò che si può imitare mediante una tensione, un'azione, una percezione, cioè appunto quel che, essendo al livello nostro di vita, può essere vissuto, e in tal modo capito. Capisco un dolore altrui, addolorandomene, o anche solo incoando il moto di dolore: un autore, come Dufrenne, il quale pur sottolinea che «il sentimento del tragico non è tragico», in quanto concepisce il sentimento, distinto dal desiderio, quale modo ancora, malgrado tutto, disinteressato di «conoscere una qualità affettiva come struttura d'un oggetto», ammette che nell'oggetto di un siffatto sentimento «v'è qualcosa che non può essere conosciuta se non per una specie di simpatia e se il soggetto non si apre ad esso» 8 • Capisco una danza acrobatica od un'azione politica, pure restando seduto in poltrona e ristretto nel mio privato, ma incoatamente danzando od agendo politicamente, poiché l'immagine è azione incoata, e non potrei immaginare se non incominciando in qualche modo a fare, come gli psico-neurologi, ed in particolare il Buscaino, hanno sperimentalmente illustrato9• Capisco infine il movimento non veloce d'una ruota, poiché lo imito percependolo, ma non capisco immediatamente il movimento
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e dei vari gruppi umani più che del singolo uomo. Che nel linguaggio quotidiano sia stratificata la filogenesi del senso vissuto è ben espresso, sia .pure in termini ancor metafisici, dal Vico, laddove questi, mentre definisce «il senso comune un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano», afferma esservi «nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell'umana vita socievole e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanto diversi aspetti possano aver esse cose»14 • A questo livello, il capire è fondamentalmente imitare, ripetizione piena, oppure solo incoata, dell'azione e della tensione, ripetizione del movimento attraverso la percezione. È il'livello, in cui la pur minima formalizzazione del linguaggio quotidiano è sufficiente a costituire il sapere dell'artista e del «saggio», o anche del cosiddetto «uomo della strada», il livello della nostra struttura percettiva, in cui gli uomini, a mo' d'esempio, non sono costellazioni complicatissime di atomi né mutevoli ammassi di molecole, né scheletri di tipo radiografico, né canalizzazioni di arterie e di vene, né sistemi elettronici percorsi da rapidissimi impulsi, ma quegli uomini corpulenti che si chiamano Giovanni e Maria e Cosimo e Maddalena, i quali ci amano o ci odiano, collaborano con noi o ci osteggiano, nascono e crescono sotto i nostri occhi o sotto i nostri occhi inv'ecchiano e muoiono, il mondo insomma dei narratori e dei pittori, almeno alla maniera tradizionale, e ancora e sempre dei traffici, dei tribunali e delle contese politiche. È un mondo che certi scienziati chiamerebbero dei «fenomeni-involucro» in opposizione al mondo, per l'esperienza comune solo fantomatico, dei «fenomeni elementari» 15 ! La conoscenza di questo mondo a livello dell'esperienza comune «noi - scrive Ruyer - non la chiamiamo scienza, ma esperienza, uso, abitudine, iniziazione» 16 • È la conoscenza che si esprime in molte nobili opere di filosofia e, per esempio, rende così suggestive le pagine del Croce, il quale, sul suo piano, a buon diritto considera le costruzioni delle scienze positive pseudo-conoscenze, reali solo nella misura in cui esse medesime sono modi dell'agire del mondo corposo dell'esperienza quotidiana. A partire dal piano del «mondo intuitivo» e del linguaggio quotidiano, si distribuiscono i linguaggi scientifici in senso stretto se-
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ma di significati, scelto in funzione di una certa difficoltà vitale emergente. L'esperienza nella sua concretezza resta invece dotata di un senso immediatamente vissuto, ma perciò profondamente oscuro, che si esprime nel linguaggio quotidiano.
§ 5. Differenza di grado tra il linguaggio spontaneo ed i lìnguaggi scientifici
A questo punto va però fatto un rilievo importantissimo. Tra il linguaggio quotidiano ed i vari linguaggi scientifici non sussiste una differenza assoluta, ma soltanto di gradi: tutti i gradi linguistici sono più o meno formalizzati, e tutti i gradi linguistici sono meno o più spontanei, ma in misura così diversa da oscillare tra il linguaggio quotidiano, sommamente spontaneo e minimamente formalizzato, ed il linguaggio matematico, minimamente spontaneo ed altamente f ormalizzato 11 • Prima dei livelli analitici, corrispondenti ai vari linguaggi scientifici, rinveniamo così il livello dell'inanalizzato, quello del linguaggio quotidiano, in cui la spontaneità, non scompagnandosi da una certa sia pur minima formalizzazione, cioè dal costituirsi nel suo seno di «relazioni determinate tra più immagini verbali», permette la formazione di un nucleo di nozioni già abbastanza fisso da sottrarsi al flusso del vissuto: questo infatti, se fosse puro ed assoluto spontaneismo, sarebbe altresì radicalmente ineffabile, cioè non si tradurrebbe neppure nel linguaggio quotidiano che, in quanto linguaggio e quindi comunicazione, implica un minimo di costanza e di concordabilità. È questo appunto il livello che potremmo chiamare del «mondo intuitivo» - unico significato che può criticamente assumere tale espressione12 - , quel che, per dirla con Merleau-Ponty, «fa l'unità naturale ed antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio, più chiaramente che nella conoscenza obiettiva, e che fornisce il testo di cui le nostre conoscenze cercano di essere la traduzione in linguaggio esatto» 13 • Il linguaggio quotidiano esprime il vissuto non tanto ontogeneticamente, quanto filogeneticamente: attesta la storia dell'umanità
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«Come può - scrive Koffka - una causa situata in un universo di discorso produrre un effetto in un'altra? Tutte le nostre leggi causali si rapportano a degli avvenimenti interni ad un medesimo universo di discorso» 18 • Capire scientificamente non consiste nel ridurre processi, definiti ad un livello linguistico presunto più complesso, ad altri processi, definiti · ad un livello linguistico presunto più semplice, bensì nel riuscire a definire, allo stesso livello di ciò che si vuole spiegare, una più ampia e completa organizzazione processuale, in cui ciò che si vuole spiegare abbia la propria condizione come la parte nell'intero.
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REALTÀ E ORGANIZZAZIONE
§ 1. Spazio-temporalità e logicità Tutto ciò che è reale, è organizzato, qualunque sia la complessità della relativa organizzazione. Quest'asserzione non è un presupposto dogmatico, ma il risultato di un'operazione riduttiva rigorosamente critica. Ciò da cui moviamo in ogni ricerca è ciò con cui moviamo: il linguaggio. Da questa situazione di fatto emerge la norma cautelativa fondamentale di ogni ricerca: non guardare mai ad un oggetto come ad un che, trascendente in modo assoluto il linguaggio entro il quale si muove la ricerca medesima. Pertanto, se non vogliamo arbitrariamente trascendere il linguaggio, in cui, soltanto, la nostra esperienza si esprime, dobbiamo assumere come reale ciò che è descrivibile linguisticamente. La qual cosa poi non è che una tautologia: essere reale è essere descritto in un qualche linguaggio, e reale appunto nella modalità propria del piano linguistico su cui la descrizione è fatta. Ogni descrizione è un discorso, cioè un concreto processo spazio-temporale, un che di organi'.?zato, attuantesi all'interno di un campo di possibilità di discorso definite da un linguaggio. É evidente che non può essere oggetto d'una descrizione, d'un discorso che è organizzazione spazio-temporale, se non ciò che è spazio-temporalmente organizzato. Il concetto stesso, che sembre-
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condo il grado di dissolvenza dell'esperienza comune, ch'essi attuano in virtù di una preponderanza nettissima e sempre crescente accordata alla formalizzazione rispetto alla spontaneità, per cui i loro oggetti sono rigorosamente astratti, cioè sono reali solo nella misura della loro significanza nel rispettivo contesto linguistico. Restano invece sul piano del «mondo intuitivo», lasciando piena preponderanza alla spontaneità rispetto alla formalizzazione, altre maniere di linguaggio, le quali, non distaccandosi sostanzialmente dal linguaggio quotidiano se non per una selezione e maggiore univocità lessicale e per un più forte impegno logico nell'uso delle connessioni sintassiche, accettano come proprio il mondo dell' esperienza comune mutuandone, come oggetti, i comportamenti umani a livello usuale. Esse non sono che la continua ripresa riflessiva del linguaggio quotidiano, il tentativo che l'uomo mai abbandona di chiarire sé a sé senza abbandonare il livello linguistico in cui si esprime ciò eh'egli vuol chiarire. Si tratta di quelle maniere di linguaggio chiamate spesso «scienze dello spirito», o «scienze morali» o «scienze storiche». Perciò qualche studioso come .il Cantimori ha osservato che l'opera dello storico non deve eccedere la comprensione del laico, del profano, come invece avviene nelle scienze esatte, e che le discipline umanistiche in genere una volta che abbian perduto il contatto con la mentalità laica e profana sono condannate a perire17• I linguaggi invece da «chierici», esoterici, son quelli scientifici in senso stretto, le «scienze naturali» e le «scienze astratte». Mentre le cosiddette «scienze dello spirito» rientrano tutte sostanzialmente nell'ambito d'uno stesso livello linguistico, che è quello dell'esperienza quotidiana, le scienze in senso stretto costituiscono altrettanti diversi livelli d'analisi dell'esperienza quotidiana, e quindi altrettanti livelli linguistici, gli oggetti di ciascuno dei quali sono significanti esclusivamente nell'ambito del suo contesto. Date queste premesse, è chiaro che, essendo ogni linguaggio la condizione di significanza dei propri oggetti, ed avendo quindi ogni linguaggio carattere scientifico solo nella misura in cui è perfettamente coerente con sé, in cui cioè le sue affermazioni sono comprensibili pienamente alla luce del suo lessico e della sua sintassi e soltanto di questi, è illecito stabilire nessi esplicativi, e comunque nessi esistenziali, tra eventi-oggetti che abbiano significanza ciascuno all'interno di un linguaggio diverso o, come anche si dice, di un diverso «universo di discorso».
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A meno che per istante non s'intenda un valore qualsiasi della variabile t (valore sempre e soltanto approssimato)23 , l'evento non è mai nell'istante, essendo l'istante non una parte del tempo, ma un suo limite24 • Anche nel caso che si volesse considerare l'istante dal punto di vista psicologico, come il più fugace possibile esser presente alla coscienza, come «minimale percettivo» per esempio, si tratterebbe sempre di un lasso di tempo, di una lunghezza temporale, sia pure molto breve, di quella appunto la cui misura costituisce la soglia minima al di sotto della quale lo stimolo fisico non suscita alcuna percezione25 • Infine se, prescindendo dalla misura oggettivo-matematica, ci si ferma esclusivamente all'esperienza vissuta e si assume il «minimale percettivo» come unità assolutamente infima del tempo interiore, come istante psichico, ancor qui l'evento rivela un'immancabile struttura temporale, cioè un'organizzazione di termini molteplici. L'evento più semplice della esperienza vissuta, l'apparizione istantanea (cioè vissuta come tale in quanto corrispondente alla durata del minimale percettivo) di una qualsiasi immagine, implica per la coscienza almeno tre posizioni temporali: un istante, immediatamente precedente l'apparizione, ed in cui l'immagine non è ancora apparsa; l'istante dell'apparizione; un istante, immediatamente seguente l'apparizione, ed in cui l'immagine non appare più. In conclusione, anche l'istante psichico soggettivamente vissuto comporta un'organizzazione di termini, e quindi insieme pluralità ed unità. Al che corrisponde, in termini psico-fisiologici, il dire che «ciò che noi percepiamo nel tempo come nello spazio è una organizzazione di stimoli»26 • Il concetto di organizzazione è essenziale alla descrizione ed interpretazione dell'esperienza, cioè alla determinazione della realtà in ogni suo grado. La scienza contemporanea riconosce che «non vi è una fisica dell'inerte ed una fisica del vivente, vi è un mezzo semplice ed uno complesso in cui le stesse leggi giocano in condizioni differenti ... ed il mondo inanimato stesso, quello degli oggetti reali, è ben più complicato del mezzo artificiale delle esperienze di laboratorio ... che non devono far dimenticare la necessità di ritornare al concreto ed alle interazioni multiple della natura»27• In virtù del concetto di organizzazione il pensiero ha per lo più. tentato di distinguere la materia inerte dal vivente, e questo, orga-
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rebbe non spazio-temporale, altro non è se non la descrizione schematizzata di un qualche gruppo di avvenimenti spazio-temporali: la bontà, per esempio, non è che la descrizione schematizzata di un certo gruppo di comportamenti uman~ cioè le connessioni secondo cui un avvenimento spazio-temporale è organizzato, il puramente e formalmente logico, non può venire affatto descritto dal discorso, e in questo senso appunto non è reale, ma ideale, come Wittgenstein acutamente notò 19 • Reale è un'organizzazione spaziotemporale, non il sistema di connessioni che la caratterizza, proprio perché il sistema di connessioni di un'organizzazione spazio-temporale non è esso medesimo spazio-temporale2°. La tautologia si esplicita: la più comune maniera di essere reale, cioè di organizzazione, è la spazio-temporale. La forma di connessione di tale organizzazione non è spazio-temporale e, rispetto alla maniera spazio-temporale di essere reale, reale non è. Tuttavia, anch'essa, implicando delle relazioni, è un sistema di rapporti, è cioè un'organizzazione, e in quanto tale è reale, sebbene in una maniera diversa da come lo è l'organizzazione spazio-temporale: e ciò è implicitamente riconosciuto sia da c~ come Wittgenstein, afferma che il discorso sugli avvenimenti spazio-temporali non può al tempo stesso rappresentarne la forma, ma tuttavia la specchia, sia da chi, come Carnap, ricorre al principio del metalinguaggio per rendere rappresentabile quella forma degli avvenimenti spazio-temporali che lo stesso linguaggio degli avvenimenti spazio-temporali non può rappresentare21 •
§ 2. Immancabilità dell'organizzazione Nel quadro dei concetti scientifici contemporanei non trovano posto né sostanze né eventi assolutamente semplici. La nozione di sostanza semplice, che pur sopravviveva ad esempio nella psicologia di Herbart22 , implicherebbe l'ammissione di un'entità che, in quanto semplice, non fosse organizzata, non fosse quindi relativa ai propri membri come non lo fosse ad altri organismi: ciò è impensabile, essendo la pensabilità possibilità di messa in relazione. Altrettanto impensabile è la nozione di evento assolutamente semplice, che non sia cioè organizzazione spazio-temporale: è assurdo parlare di evento istantaneo quanto di evento puntuale.
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termine aristotelico «forma», legato al sostanzialismo metafisico e compromesso dall'uso pseudo-scientifico che . di esso aveva fatto l'aristotelismo di maniera, sostituire il termine «struttura» come il più adatto a caratterizzare l'esistenza di una certa realtà organizzata, di un corpo, senza ricorrere ad «una sostanza reale distinta dalla materia», e senza peraltro ridurla ad una mera aggregazione accidentale di elementi30 • In un secondo tempo, mentre un biologo come Unzer echeggia Leibniz, distinguendo macchine artificiali e macchine naturali od organiche, essendo queste ultime macchine fin nelle loro più pie~ cole parti31, un altro biologo come Whytt perviene ad intuire vigente nel corpo umano quel principio di causalità circolare che caratterizzerà la biologia strutturalistica del nostro secolo32 • Il testo leibniziano è altresì significativo perché, enunciando il concetto di realtà spaziale (corpus) come organizzazione, macchina, e quindi mai come assoluta inerzia, bensì come dinamico adattamento al continuo variare delle condizioni del mezzo in cui ogni realtà è inserita, lascia emergere la nozione di equilibrio (resilitio ), che ritornerà e sarà rigorosamente sviluppata nelle teorie strutturalistiche più recenti, come in quella del Piaget33 • Va osservato che lo sforzo leibniziano di avvicinare i due concetti di organismo e macchina trae la sua necessità dalla separazione operata da Cartesio tra i concetti di macchina e di anima. Concepito infatti il corpo come ciò che ~), assume il titolo di «associazione», senza peraltro voler avere nulla a che vedere con l'associazione naturalisticamente intesa da quella psicologia empiristica contro cui Husserl energicamente polemizza32 • L'associazione husserliana è «un concetto fondamentale della fenomenologia trascendentale», in quanto «designa una regione dell'a-priori innato, senza di cui un ego in quanto tale è impensabile» 33 : «l'ego diviene comprensibile come un insieme infinito (connesso nell'unità della genesi universale) di funzioni sinteticamente connesse attraverso gradi che debbono disporsi mediante l'universale e persistente forma della temporalità, poiché questa .medesima si struttura in una genesi continua, passiva e assolutamente universale, la quale per essenza coinvolge ogni nuovo dato» 34.
§ 2. Genesi passiva e genesi attiva Il concetto di genesi passiva ed il suo subalterno concetto di associazione esprimono bene l'impossibilità husserliana di spingere la indagine della ragione al di sotto del livello dei sensi rappresen~ tati. Genesi è, nel linguaggio husserliano della fase più matura, il processo attraverso cui l'intenzionalità non si polverizza nella di-
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fenomenologia: esse comportano soltanto la distinzione tra il senso che noi ci rappresentiamo ed il senso dell'operazione complessa, della sintesi con cui ci rappresentiamo quel primo senso, la distinzione insomma tra il senso noematico ed il senso noetico e, più ampiamente, tra il senso dell'unità oggettiva ed il senso dell'unità soggettiva. Mentre nella spontaneità irriflessa appare come oggetto intenzionale, come oggetto di coscienza, il senso noematico, il senso dell'unità oggettiva, e rimane invece nascosto il senso noetico, il senso dell'unità soggettiva, il senso insomma dell'operazione sintetica costitutiva, nella riflessione analitica al contrario può venir messo in evidenza, portato alla luce, costituito in oggetto di coscienza anche il senso medesimo di questa operazione. Perciò la fenomenologia, in quanto semplice riflessione descrittiva, si limita a sistemare «scientificamente» i sensi noematici affioranti già nella spontaneità irriflessa, a risalire cioè, per dirla con De Muralt, «dal fatto (esempio di fatto) all'esemplare ideale»45; in quanto riflessione trascendentale, invece, essa giunge a chiarire «dal punto di vista soggettivo-sintetico la motivazione» di quell'intenzionalità che, «necessariamente soggiacente nella logica obiettivo-analitica, non concludeva fin qui che a porre la necessità del termine oggettivo correlativo»46. Tuttavia una cosa è certa: lo stesso senso noetico, in virtù appunto della riflessione trascendentale, viene oggettivato; lo stesso processo genetico della costituzione viene costituito come oggetto di rappresentazione, viene ridotto in termini di sensi rappresentati, il che appunto comporta che la fenomenologia sia circolare, continuo ritorno su di sé, dal momento che l'oggettivazione intenzionale della stessa soggettività trascendentale p.on può avere altro fondamento che ancora e soltanto l'atto della soggettività trascendentale, un atto questa volta di auto-donazione di senso 47 •
§ 3. Le assolute «pre-datità» ed il loro carattere di «rappresentazioni»
La radice esser cercata sempre nella In Ideen
del senso rappresentato non può dunque per Husserl mai al di fuori dell'ambito coscienziale, ma solo e medesima sfera dei sensi rappresentati. II, la distinzione che pure Husserl fa di mondo
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ad alcuna specifica attività dell'io, ed in forza della quale si costituiscono gli oggetti che si offrono sempre già-dati all'elaborazione della genesi attiva 39 • La genesi passiva è per eccellenza il territorio dell'indagine fenomenologica, il cui compito è appunto di mettere in evidenza, di oggettivare, quelle operazioni che nella loro «spontaneità» restano nascoste, e sulla cui base peraltro si erige tutta la vita «spirituale» dell'io. Se invero la genesi passiva fornisce, ad esempio, le cose meramente percepite come già date agli atti specifici della genesi attiva, le stesse oggettività prodotte dalla genesi attiva sono destinate a trasformarsi in abitualità, cioè in disposizione dell'io a ricostituire in qualsiasi momento tali oggettività come già-date rispetto a nuovi specifici atti, sicché l'io si trovi sempre ad essere circondato di oggetti40 • Si può a questo proposito parlare appropriatamente, come fa il Paci, di una «dialettica tra genesi passiva e genesi attiva»41 • Ora, è proprio sull'intenzionalità nascosta che si rivolge l'attenzione dell'indagine fenomenologica, per esplicitare il senso nascosto délle sue operazioni: l'analisi fenomenologica, pertanto, in quanto analisi intenzionale, è con-costitutiva, costituisce sul piano dell'oggettività logica l'oggettività operazionale già-costituita nella Lebenswelt ad opera dell'intenzionalità che funge anonima42 • Diviene finalmente chiaro che Husserl, quando parla di «operazioni nascQste», non intende altro se non i processi costitutivi che, non compiendosi coscientemente, non sono analiticamente rilevabili, cioè solo attraverso la riflessione fenomenologica sono a loro volta esplicitabili in oggetti di coscienza43 • Cosicché la stessa «sensibilità» vien considerata con le sue «regole» uno «strato della ragione nascosta» (eine Schicht 'verborgener Vernunft), in quanto non solo è costitutiva della «natura», ma concorre altresì alla costituzione dello «spirito»: «l'intera vita dello spirito è - infatti - attraversata dalla «cieca» (blinde) attività (Wirksamkeit) di associazioni, impulsi, sentimenti come stimoli e fondamento di determinazione degl'impulsi, tendenze emergenti nell'oscurità (im Dunkeln) etc., che determinano l'ulteriore corso della coscienza secondo "cieche" regole» 44 • Espressioni husserliane come quelle di «operazioni nascoste», «ragione nascosta», «regole cieche», non meno del «profondo», cui s'è accennato già a pag. 88, restano pertanto perfettamente compatibili con l'ambito rigorosamente coscienziale che è proprio della
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Ora, alla traducibilità di ogni tesi non dossica in dossica, affermata in I deen I, corrisponde in I deen II la traducibilità di ogni atto non teoretico in teoretico 52 • Tuttavia, su questo piano posizionale, il teoretico il pratico ed il valutativo si distinguono nettamente l'uno dall'altro quanto alle loro rispettive modalità essenziali, anche se al teoretico possono essere convertiti il pratico ed il valutativo e non viceversa. Ma, allorché si scende al di sotto del piano posizionale, per mettere in luce le ultime e più «nascoste» operazioni, ossia quelle «sintesi, che stanno prima di ogni tesi» (Synthesen, die vor aller Thesis liegen ), il carattere teoreticistico della coscienza come «rappresentazione» si mostra in tutta la sua invalicabile dommaticità. «Percorrendo a ritroso gli strati della costituzione della cosa, noi giungiamo infine ai dati sensoriali come ultimi primitivi oggetti originari (Urgegenstande), 'che non sono più costituiti in forza di qualche specifica attività dell'Io, ma sono in senso pregnante pre-datità (Vorgegebenheiten) per ogni funzione dell'Io» 53 : se dunque dagli oggetti propri della genesi attiva, da quelli cioè che l'io costituisce con le sue prese-di-posizione di carattere specifico ed immediatamente appariscenti, si risale agli oggetti propri della genesi passiva, cioè a quelli che si costituiscono mediante prese-diposizione nascoste, evidenziabili solo alla riflessione analitica, questi .risultano come pre-dati rispetto ai primi, ma essi medesimi a loro volta suppongono strati più profondi di oggetti già-dati; al fondo di questa gerarchia, non possiamo per astrazione che riconoscere la sussistenza di oggetti, assolutamente pre-dati, tali cioè che non suppongano a loro volta altri oggetti, e non siano pertanto costituiti da «atti-di-comprensione e di-esperienze oggettivi», da conferimenti di senso ad un'oggettività coscienziale già in atto, ma dal1'esperienza nella sua originaria e radicalmente spontanea insorgenza, da un atto assolutamente originario54 • Siffatte assolute pre-datità, ultimi primitivi oggetti (Urgegenstande), sono i «dati sensoriali» (Empfindungsdata) nella loro isolata purezza e nella mera possibilità, e giammai necessità, della connessione di ciascuno di essi con gli altri e con il momento della «materialità»55 • Per esempio, un suono di violino (Geigenton) può esser preso a prescindere dalla nota della sua realtà materiale, cioè dal noema della «materialità», ed anche dalla nota della sua localizzazione, dal noema cioè di «spazio»: può essere preso insomma come mero
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teoretico, logicamente costituito dalla coscienza, e mondo valorativo e pratico, instaurato dagli atti di sentimento e di volontà, si limita comunque al piano superficiale, allo strato delle prese di posizione (Schicht der Stellungnahmen), al cui livello si rinviene la distinzione di theoretisch-wissenschaftliche Betatigung e di wertendes und praktisches Verhalten, ma non impegna il sottofondo stesso dell'io, lo strato non solo ante-predicativo, ma addirittura pre-posizionale in cui si costituiscono gli «oggetti originari» (Urgegenstande), lo strato delle assolute pre-datità, proprie esclusivamente della genesi passiva, insomma il «profondo» estremo. Già in / deen I, Husserl sostiene che tutti gli Erlebnisse intenzionali, in quanto intenzionali, sono prese-di posizione, sono quindi «posizionali», ma possono essere «dossici» o non, consistenti cioè nel credere in un modo o nell'altro alla «realtà» del proprio oggetto, oppure non consistenti in tale credenza, come gli atti di sentimento e di volontà48 • Al che, in Ideen II, ad esclusivo livello di genesi attiva, è parallela la distinzione tra la «dimostrazione teoretico-scientifica» ed il «comportamento volorante e pratico»49 • Però, già in Ideen I si ammette il privilegio delle «posizioni dossiche»: «le modalità dossiche e tra esse particolarmente la tesi dossica originaria (Urdoxa), quella della certezza di credenza, hanno il caratteristico privilegio che la loro potenzialità posizionale si estende a tutta la sfera della coscienza», sicché «ogni tesi, di qualunque genere sia, mercé le caratterizzazioni dossiche inseparabili dalla sua essenza può esser trasformata in attuale posizione dossica» ed «ogni proposizione, ad es. ogni proposizione di desiderio, può venir trasformata in una proposizione dossica, ed è allora in certo modo due in una: proposizione dossica e proposizione di desiderio contemporaneamente» 50• Proprio questo privilegio dell'onnipresenza dossica rende possibile, com'è stato osservato, l'operazione fenomenologica della neutralizzazione direttamente a carico di qualsiasi Erlebnis intenzionale, di qualsiasi «tesi». Se le «tesi» non strettamente dossiche, quelle cioè che non consistono attualmente nel credere alla realtà dell'oggetto, fossero radicalmente non dossiche, non fossero cioè almeno potenzialmente, implicitamente dossiche anch'esse, non potrebbero essere sottoposte alla neutralizzazione, alla sospensione dell'atteggiamento naturale, che è appunto sospensione della ingenua credenza nella realtà dell'oggetto, non potrebbero pertanto divenire territorio dell'indagine fenomenologica51 •
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«associazione» e in definitiva dalla «temporalità», e di una genesi attiva, le cui operazioni sono invece scoperte nell'oggettività del loro senso in quanto coincidono con specifiche attività, prese-di-posizione dell'io. In tal modo, ogni momento della genesi attiva, ogni presa-di-posizione è resa possibile nel suo esser costituzione di oggetti dal fatto che, per opera della genesi passiva, un oggetto già c'è. Nell'ambito stesso della genesi passiva, l'intenzionalità non come mera rappresentazione, ma come costituzione di oggetti tuttavia funge, sia pure in maniera anonima. Perciò anche in tale ambito si può in qualche modo parlare di prese-di-posizione e di pre-datità a lor volta rinvianti a precedenti conferimenti-di-senso 60 • Tutto questo comporta, come s'è detto, che, regredendo di conferimento-di-senso in conferimento-di-senso corrispondentemente alla regressione di pre-datità in pre-datità, si debba infine pervenire ad un'operazione costitutiva originaria, per la quale un oggetto si costituisca come materia per altre operazioni, senza che un oggetto già ci sia. È evidente che in questo caso non soltanto rimane «nascosta» l'operazione costitutiva, ma altrettanto «nascosto» rimane l'oggetto che essa costituisce, dal momento che questo è oggetto-di-coscienza, solo come pre-dato rispetto ad un successivo conferimento-disenso, ma non in sé, non potendo aver una sua datità per mancanza di una pre-costituita predatità che ne sia la materia. Ci si trova così dinanzi ad oggetti che non hanno un senso proprio, salvo quello d'esser materia di veri e propri sensi oggettivi. Ci si trova insomma dinanzi ad oggetti che non sono mai in sé, separatamente, oggetti-di-coscienza, ma lo sono sempre e soltanto in quanto inglobati in quei sensi oggettivi di cui sono materia. E, poiché il loro unico senso è quello d'esser materia di altre oggettività dotate di senso proprio, un siffatto loro senso non potrà mai essere vissuto nella Lebenswelt come senso a parte, non si darà mai in una sua propria comprensione oggettiva, in una gei,enstandliche Auffassung. Solo la riflessione fenomenologica, nella ricerca genetico-trascendentale, giunge a mettere in luce questo senso «oscuro», «nascosto», a costituirlo dunque nella sua oggettività. Nel movimento riflessivo, che è un movimento regressivo, un Ruckgang, si attua, come si sa, una con-costituzione, che nel caso della prima ed assoluta pre-datità è una vera e propria costituzione, dal momento che in sé e pre-riflessivamente questa pre-datità non
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dato sonoro. Ora, mentre nell'esempio che si è fatto, il suono è isolato perfino dalla comprensione spaziale solo per astrazione, è perfettamente pensabile un suono che faccia a meno di qualsiasi comprensione spaziale e che indipendentemente da questa sia pertanto costituito. Nel caso del «dato sensoriale» si ha dunque a che fare con una pre-datità, che sta ancor prima della costituzione dell'oggetto come oggetto56 • Ogni volgersi intenzionale (meinende Zuwendung) verso un oggetto rinvia geneticamente ad un precedente volgersi intenzionale pre-costitutivo (vorgebende): occorre dunque che ci sia un'operazione costitutiva originaria, assolutamente prima, per la quale si dia un oggetto senza che un oggetto già ci sia. Si è qui dinanzi al limite critico della nozione di coscienza come intenzionalità, allorché essa vien trasferita dal piano statico al piano genetico, dal piano cioè descrittivo al piano costitutivo della fenomenologia. Husserl stesso ci ammonisce a «distinguere l'intenzionalità: 1. come quella secondo cui oggetti sono saputi, mera coscienza, rappresentazione, e 2. come quella che determina il rapportarsi dell'atto rispetto al rappresentato, determina insomma la presa-di-posizione»57. In breve l'intenzionalità va distinta in «coscienza-di-oggetto» e «presa-di-posizione»: la prima è la struttura della coscienza, presa nella sua astratta staticità; la seconda è la vita della coscienza, il suo movimento, e comporta in definitiva la sua astratta staticità; la seconda è la vita della coscienza, il suo movimento, e comporta in definitiva la sua temporalità 58 . Invero, ogni atto di coscienza come «presa-di-posizione», costituzione di oggetti, è insieme atto di coscienza come «coscienza-dioggetti», rappresentazione di un oggetto dato: deve perciò al tempo stesso precedere il suo oggetto, in quanto lo costituisce, e tuttavia averlo già in quanto è presentarsi di un dato. In altri termini, la coscienza non può attendere di istituire un oggetto, per avere un oggetto, non essendo essa strutturalmente possibile se non come coscienza-di-oggetti; ed è perciò che l'io, che è sempre e soltanto nell'atto di coscienza, deve sempre «già al primo sguardo aver esperienza d'una cosa» 59 • Per superare questa difficoltà, Husserl ricorre nelle Meditazioni cartesiane, come s'è poco prima ricordato, alla distinzione di una genesi passiva, le cui «operazioni nascoste» sono regolate dalla
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modo attraverso l'analisi. Ora, ogni «fenomeno» d'esperienza come fondamentale sensibilità è sempre un «intero», un'organizzazione significativamente e quindi intenzionalmente strutturata: contro «l'opinione, del tutto infondata che i "dati della sensibilità" siano la datità immediata stessa», Husserl in Krisis ribadisce che «esprimendo fedelmente l'esperienza reale, noi parliamo di qualità, di proprietà dei corpi esperiti realmente, esperiti appunto in queste proprietà», ma che tali