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Italian Pages 336 Year 1972
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* WITHDRAWN-UNL
Raccolta Pisana di saggi e studi, n. 31
A cura dell’Istituto di Storia dell'Arte dell’Università
con il contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche
di Pisa
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https://archive.org/details/urbanisticastori0000pier
Piero
Pierotti
Urbanistica: storia e prassi
Marchi & Bertolli
© 1972 Marchi & Bertolli editori, Firenze Distribuzione:
Centro Di, piazza de’ Mozzi
1r, 50125 Firenze
A Laura
WCeoENURA
DELLE CITTÀ
« Gli uomini savi e che apprezzano giustamente le leggi del vivere civile abbelliscono con opere d’arte le città che ne sono ancora prive; gli uomini stolti invece le spogliano dei loro ornamenti e così senza vergogna tramandano ai posteri il ricordo della loro indole malvagia. Di tutte le città sotto il sole Roma è la più grande e la più bella, perché è nata non dal potere di un solo uomo, ma perché la lunga serie degli imperatori, la convergenza dell’opera degli uomini più illustri, impiegando ricchezze infinite in una lunga serie di anni l’hanno abbellita dei capolavori
di artisti raccolti da tutto il mondo. « È questa città, quale tu ora la vedi, edificata a poco a poco, che quegli uomini lasciarono ai loro posteri, a simbolo della cultura del mondo. Perciò colui che rovinasse tante grandezze si renderebbe reo di un grave delitto verso tutti gli uomini del futuro, poiché priverebbe gli avi delle testimonianze del loro valore e ai nipoti impedirebbe di godere la vista delle eccelse opere degli antenati... Distruggendo Roma non perdi una città di altri, tu perdi la tua stessa città... Conservandola ti arricchirai
facilmente del più splendido possedimento del mondo... ». In questi termini, secondo quanto riferisce Procopio, Belisario si ap-
pellava al goto Totila, che aveva conquistato Roma e aveva cominciato a smantellarne le difese. Sarebbe difficile stabilire quanto questa lettera rispecchiasse il pensiero del generale bizantino e quanto, più probabilmente, le idee del suo segretario Procopio; certamente però essa è condivisa da Piero Maria Lugli, che la sottoscrive entusiasticamente riportandola nella sua Storia
e cultura della città italiana
(Bari,
1967,
p. 10) e la
assume a sostegno del suo obiettivo « di dimostrare come in una comunità civile, la quale intende la tradizione come uno strumento di attivazione della cultura e un termine di confronto per l’operare moderno, nel continuo processo di trasformazione e di adeguamento dell'ambiente debba sempre avere grande importanza la conservazione e la salvaguardia delle testimonianze lasciate dalle passate generazioni » (p. 9).
Appunto per questo motivo l’ammonimento del civile Belisario al bar-
baro Totila deve intendersi immediatamente girato ai barbari moderni, giacché, come il Lugli sostiene, oggi « il passato è morto e il suo cadavere viene fatto a pezzi e fagocitato dalla civiltà dei consumi, il vero futuro non esiste neppure nelle più fertili fantasie e nessuno si preoccupa di preordinare un minimo di strutture sulle quali potrà svilupparsi la nostra civiltà negli anni a venire » (p. 9). Il Lugli sottolinea anche esplicitamente la corresponsabilità dell’utbanistica italiana in questo misfatto (essa infatti « sembra non esistere al di fuori di un limbo di accademiche astrazioni ») e quindi è chiaro il proposito di additare proprio agli urbanisti, con loro presumibile ludibrio, l'esempio di questo generale greco. A conforto degli urbanisti contemporanei occorre tuttavia rilevare che qualche cosa di non molto chiaro nella lettera di Belisario c’è, anche se il
Lugli non lo approfondisce e anzi neppure lo segnala. Indubbiamente, presa così da sola, la lettera è nobile, oggettiva, difficilmente confutabile. Ma un sospetto può nascere sulla sua sincerità quando si ricordi che Totila aveva strappato allora allora Roma ai bizantini e che Belisario era lì appunto per riprenderla. Forse, volendo proprio rapportare la lettera di Belisario a una situazione contemporanea, sarebbe più giusto confrontarla con gli altrettanto nobili ma non del tutto disinteressati sermoni di quei bravi e colti borghesi che, avendo per sé già risolto il problema della villa al mare o della baita panoramica, si danno poi un gran da fare a organizzare convegni sulla difesa delle pinete, sulla conservazione del paesaggio, sulla protezione della fauna montana, facendo della cultura scudo contro le nuove schiere di barbari semicivilizzati che reclamerebbero anch'esse il diritto al giardino col pino o alla terrazza sul Rosa. Probabilmente, però, anche questo tipo di paragone non sarebbe calzante. Infatti le cronache (sempre che siano veritiere) dicono che Totila si lasciò convincere dalla lettera di Belisario e che sospese lo smantellamento della città, limitandosi ad evacuarla. È vero che Belisario un mese
e mezzo dopo, approfittando della facile occasione, la riprese e ricostituì le fortificazioni abbattute da Totila; ma come non interpretare questo intervento nell’ambito di un piano di tutela artistica e di restauro conservativo della città eterna? Occorre però anche chiedersi che cosa era allora Roma, cioè quel misterioso agglomerato che Belisario decantava come pieno di glorie e di ricchezze, e che Totila invece considerava più importante evacuare che possedere. Il comportamento di Totila, infatti, appare fortemente contraddittorio: prima si lascia convincere dal generale greco che, non distruggendo Roma, si sarebbe « arricchito del più splendido possedimento del mondo »; poi si limita a vuotare la città di quanti la occupavano e se ne va con gran degnazione, lasciando sul monte Albano solo un piccolo presidio, del quale Belisario avrà ragione con estrema facilità. È mai possibile che l'intelligenza mediterranea, sia pure sostenuta dalla proverbiale furbizia ellenica, avesse un tale margine di vantaggio sulla indubbia rozzezza del barbaro re goto? Oppure è più legittimo pensare che, per
i due contendenti, Roma rappresentasse due cose assolutamente diverse? Certamente la città che i romani cacciati da Totila rioccuparono nel 547 non era la stessa di Augusto, né quella di Nerone, e neppure quella di Costantino.
Tuttavia,
se
Belisario
si rifaceva
nella
sua
lettera
alle
glorie e alle bellezze della città imperiale, ciò significa che sotto questo aspetto essa era ancora valida, e che così gli premeva di conservarla, anche se può essere legittimo mettere in dubbio che il bravo generale avesse accettato di scendere in Italia con un esercito da mantenere a proprie spese avendo come scopo principale quello di difendere dalla barbarie gota i marmi e la cultura dell’urbe. Forse perciò, per capire meglio che cosa in realtà Belisario difendesse, è opportuno rifarsi ai tempi migliori della città, attraverso la stessa analisi che Piero Maria Lugli, con l’aiuto del padre Giuseppe, conduce in proposito più avanti (pp. 109 e sgg.). Scrive dunque il Lugli che «la tipologia dell’edilizia residenziale romana presenta la più ampia varietà di tipi e di organismi. Forse il più
antico è la casa con patio centrale di tipo greco che corrisponde perfettamente alla descrizione di Vitruvio e che possiamo identificare con le case
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1. Domus pompeiana. Rotondo.
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- 2. Ostia:
35 domus
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di stile pompeiano.
- 3. Ostia:
domus
del Tempio
4. Pompei: casa del Fauno (A ingresso, B bottega, C cortile, D posticum, E lararium, F alae, G cucina, L latrina, P_ peristilio, R triclinio, S stanza, T tablinum).
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di Pompei e con le ‘ domus priscorum ducum’ delle famiglie aristocratiche ed abbienti. Già dalla fine della repubblica esistevano però a Roma abitazioni plurifamiliari di notevole altezza e densità. Sappiamo infatti che Augusto nella sua legge De modo aedificiorum urbis del 6 a. C. limitò l'altezza dei fabbricati a 70 piedi (m. 20,72). Questo tipo di edifici residenziali, intensivi e generalmente affittati alle classi popolari, è quello che Cicerone chiama ‘insula’ nella difesa di Celio Rufo accusato di pretendere un affitto esoso per un alloggio (Pro Caelio, 17). « Molto si è discusso — prosegue Piero Maria Lugli — da parte di eminenti studiosi sulla tipologia edilizia romana e soprattutto sulla definizione dell’insula e della taberna, cioè dell’altro tipo di abitazione intensiva e d’affitto del quale faceva menzione lo stesso Cicerone quando scriveva ad Attalo (XIV, IX, 1) lamentandosi
che a causa
del cattivo stato
delle tabernae di sua proprietà erano fuggiti non solo gli inquilini, ma anche i topi! Secondo la valida dimostrazione di Giuseppe Lugli e secondo le risultanze di alcuni studi svolti insieme su questo argomento, io ritengo che in definitiva le parole insulae e tabernae, già dalla fine dell’epoca repubblicana, stessero ad indicare lo stesso tipo di organismo edilizio, anche se tale organismo si era formato attraverso due diversi processi di trasformazione. Ambedue i termini indicano la casa d’affitto intensiva, sviluppata in altezza, suddivisa in piccole unità immobiliari, cioè quell’organismo che Svetonio contrappone tipologicamente alla domzus quando, narrando l’incendio di Nerone (Nero, 38, 2), sottolinea l’immenso
numero di insulae che bruciarono rispetto alle domus. « Del resto anche nei ‘Cataloghi regionali’ (il cui originale probabilmente risale al tempo di Diocleziano e che sono riportati nel Curiosur Urbis Romae Regionum XIII, una specie di guida annonaria di Roma del tempo di Costantino) vengono elencate accanto al numero dei vici (strade),
borrea
(magazzini-mercato),
balnea
(terme),
lacus
(fontane)
e
pistrina (forni), le insulae e le domus di ogni Regione; in totale 44.850 insulae e 1.781 domus ». Il Lugli non si sofferma oltre a sottolineare la sproporzione tra il numero delle domus e il numero delle insulae; eppure proprio il rapporto tra le due cifre è l’elemento che può chiarire il carattere sociale della Roma del IV secolo. La differenza fra domus e insula non è infatti solo una questione di struttura architettonica o di caratteri distributivi. Essa segna invece in maniera assai netta il confine tra « famiglie aristocratiche ed abbienti » e classi popolari. Se così non fosse, assai male si potrebbero spiegare le stesse diversità strutturali tra i due tipi edilizi. « L’insula — precisa infatti Piero Maria Lugli — secondo la denominazione tardo-imperiale deve identificarsi con la minima unità proprietaria e funzionale alla quale corrispondeva una superficie fondiaria di circa 200-220 mq. e che aveva un numero di piani fuori terra variabili, a seconda
dell’affollamento
nelle varie città, da tre a sei ». Ma, a
dire il vero, non sembra che i sei piani fuori terra possano essere assunti come limite assoluto. Dentro i venti metri e passa di altezza massima
Il
fissati dalla legge augustea potevano
starci comodamente
anche sette o
otto piani, e forse anche di più, riducendo adeguatamente l’altezza dei solai. La tecnica costruttiva romana era del tutto in grado di far stare in piedi simili costruzioni. D'altra parte, se già Augusto aveva trovato
necessario limitare l'altezza degli edifici, ciò significa che era tecnicamente e praticamente possibile, fin dal I secolo a. C., superare la misura dei settanta piedi. Esclusi i cavedi, i cortili e le aree comunque lasciate vuote all’interno dell’isolato — prosegue il Lugli — l’insula « aveva una superficie lorda di piano dai 120 ai 180 mq. e poteva quindi accogliere una o due famiglie a piano (ossia da cinque a 10 abitanti). Questo tipo edilizio, che si iden-
tifica facilmente con la Casa sulla Semita dei Cippi di Ostia Antica, era sempre disposto con la fronte minore (larga 8-9 m.) sulla strada, e lo sviluppo maggiore (lungo 15-20 m.) in profondità dell’isolato. Esso aveva due variazioni che Axel Boéthius chiama tipo a fronte ridotta e tipo d’angolo: il primo era costituito da due maglie murarie accoppiate lungo la strada e formato da due tabernae con scala interna alle fabernae stesse, ovvero da una taberna e da un androncino che immetteva nel vano-scala;
il tipo d’angolo invece era generalmente formato da una o due maglie su una strada e da due, tre o quattro maglie sull’altra, oltre l’angolo. Talvolta il tipo a fronte ridotta si presenta con la fronte accoppiata e
Ss
casi = = = = =
6. Ostia: case Ganimede).
con
giardino
(casa del Bacco
Fanciullo,
casa
dei Dipinti,
casa
di Giove
e
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ribaltata specularmente, ovvero disposto secondo serie continue con assoluta omogeneità di tessitura e di spartimento planimetrico ed architettonico. Questo organismo edilizio costituiva il tipo standard dell’abitazione popolare di tutte le città romane». Per quanto riguarda poi l’otigine di questo organismo, il Lugli ricorda che «esso deriva dalla trasformazione di due diversi impianti strutturali romani. Dall’impianto delle fabernae, cioè di file di botteghe con abitazione disposte in serie lungo le strade, che risalgono al più antico periodo repubblicano e che furono a poco a poco sopraelevate di uno o più piani destinati prima all’abitazione dei proprietari, poi ad essere affittati man mano che la popolazione aumentava. Ma lo stesso tipo edilizio deriva anche stranamente dalla trasformazione di altro impianto strutturale romano, e cioè da quello dei blocchi edilizi unitari e unificati: delle vere e proprie irsulae (del tipo di quelle di Ostia), con le quali furono rinnovate molte città romane durante il II e III secolo d.C., e che col tempo, nelle varie successive riedificazioni e trasferimenti ereditari, si suddivisero fino a ridursi alle dimensioni di una unità funzionale e proprietaria minima, compatibile con il diritto romano che contemplava il diritto di proprietà ‘ab imo usque ad coelum’, non ammettendo quindi il condominio su piani sovrapposti ». Anche in questo caso il Lugli evita l’analisi politica e non si sofferma a considerate quanto efficace fosse per mantenere la speculazione immobiliare la legge « ab imo usque ad coelum » e, per contro, quale formidabile ostacolo essa rappresentasse per le classi popolari residenti nelle insulae che eventualmente avessero aspitato alla proprietà dell’alloggio. Il Lugli si diffonde invece sulla questione della utilizzazione di queste insulae e sostiene che essa, nelle età successive, non subì sostanziali mo-
difiche ed era già quella stessa che troviamo anche oggi nel tessuto antico delle nostre città. Il piano terreno, secondo il Lugli, era « destinato a botteghe, laboratori artigiani, osterie, lupanari, lavanderie »; le botteghe
erano « spesso fornite di un soppalco in legno o di un mezzanino, che prendevano luce da un’apertura sopra al portone della taberza ed erano usati come abitazione dai commercianti e dagli artigiani »; i piani superiori, invece, erano « destinati ad abitazione e formati da stanze che si affacciavano sulla strada e sul cortile interno, e che venivano affittati
come vani separati, talvolta anche a più famiglie ». Quanto all’aspetto formale e funzionale delle insulae, il Lugli afferma che « all’esterno la facciata era semplice e presentava una tessitura architettonica razionale ed unitaria: al piano terreno le aperture più ampie delle tabernae (arricchite da mostre di prodotti, insegne e scritte) e quelle più piccole degli androncini d’ingresso che immettevano nella scala, mentre gli altri piani erano dotati di finestrature razionalmente distribuite: finestre più piccole per le scale e i mezzanini, più grandi per gli altri vani, con qualche terrazzino e balcone chiuso da strutture in legno e pareti di tamponatura leggera, tipo bow-window ». Sono particolari molto importanti, questi che il Lugli fornisce. Essi
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infatti danno un'immagine efficace della Roma imperiale: un’immagine molto diversa da quella idealizzata e certamente parziale contenuta nella lettera di Belisario. Un dato solo sarebbe sufficiente a rendere chiara una realtà sociale che il Lugli non avrebbe dovuto esitare a definire dram-
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7. Ostia: casette-tipo. 9. Ostia: casa sulla Semita dei Cippi.
11. Ostia: insula di Diana (M mi treo, P pozzo).
8. Ostia:
casa dei Soffitti Dipinti.
10. Ostia:
insula dei Triclini.
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insula sotto la galleria Colonna (F fogne).
matica: su un milione e mezzo circa di abitanti che Roma contava ai tempi di Costantino, non più di 15.000, verosimilmente, abitavano nelle
1.781 domus. Tutti gli altri risiedevano nelle insulae, cioè in quegli edifici che il Lugli indica come destinati alle classi popolari. Il rapporto è di
uno contro cento. Che poi esistesse la speculazione edilizia fin dall’età repubblicana lo dimostra l’accusa mossa
a Celio, e lo conferma la difesa che ne fa Cice-
rone, anch'egli proprietario fondiario e collega dell’accusato. E che la speculazione ‘immobiliare in età imperiale fosse diventata un regime al punto da essere imposta per legge lo dimostra l’applicazione del principio della proprietà obbligatoria « ab imo usque ad coelum », che in pratica escludeva la proprietà unifamiliare nelle insulze. Se questa legge, come il Lugli riporta, era operante al punto di costringere i romani a ristrutturazioni interne per effetto delle ripartizioni ereditarie (ristrutturazioni costosissime, poiché dovevano avvenire sulla verticale dell’edificio), si può
immaginare quanto essa fosse efficace e scoraggiante nei confronti di coloro che avessero aspirato, avendone le possibilità economiche, a possedere un unico appartamento dove abitare. Dunque, o si era proprietari di immobili o si era affittuari:
non c’era alternativa, nelle insulae.
Collegando l’immagine così formata della Roma imperiale al contenuto della lettera di Belisario si possono aggiungere anche altre osservazioni. Intanto ci si può chiedere che cosa rappresentassero, in questa città « popolare » al novantanove per cento, gli « ornamenti » e le « grandezze » che il generale greco si trovò più tardi a decantare. Gli archi di trionfo,
13. Ostia:
planimetria degli scavi.
i templi, le basiliche, i monumenti celebratòri non erano certo espressione degli abitanti delle insulae; l’anfiteatro Flavio e gli altri luoghi di spettacolo erano il simbolo di una partecipazione massiva e passiva a manifestazioni
spesso esecrabili, e di esaltazioni
collettive
avvilenti;
le terme,
sempre più colossali, avevano le miserevoli funzioni sociali che tutti conoscono. Ma, anche se volessimo non considerare questo significato sociologico delle grandi realizzazioni imperiali e valutare semplicemente la cultura architettonica presente nei singoli edifici, il quadro generale della società romana non ne risulterebbe modificato, bensì confermato. Gli archi trion-
fali restano pur sempre mostre militaresche rivestite di sculture talvolta taccattate in fretta dove capitava. Il Colosseo, che esalta indubbiamente la capacità costruttiva degli ingegneri romani, si raffredda e si avvilisce nella decorazione grecizzante dei tre ordini sovrapposti: dimostrazione chiara di come una cultura architettonica indigena tecnicamente e plasticamente autonoma venisse poi contaminata e contraffatta dalla moda di lustrare alla greca tutto ciò che non brillava abbastanza agli occhi degli incolti mecenati latini. Lo stesso Pantheon, serena e nel medesimo tempo audace realizzazione del 27 a. C., viene agghindato con un inutile pronao timpanato, forse aereo e leggero se lasciato su un colle battuto dal sole meridionale dove la cultura greca lo aveva concepito, ma opprimente e smisurato qui, nelle bassure del Campo Marzio, dove non riesce a parte-
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cipare né dello spazio urbanistico che lo avvolge né dell’ampio polmone interno del tempio, di cui contraddice il grande respiro. Se il tempo e i Barberini non avessero spogliato dei loro rivestimenti costosi la massima parte dei monumenti imperiali, forse oggi sarebbe ancora più evidente il fanatico autolesionismo culturale di questa gente crapulonesca che trapiantava a Roma, senza capire, opete e forme greche, barbariche, egizie, gandhariche, in un miscuglio babelico dove presumibilmente il prezzo venale era l’unico valore riconosciuto. Non senza significato, dunque, Belisario ricordava «la lunga serie degli imperatori », «l’opera degli uomini più illustri », l’impiego di « ricchezze infinite » come gli elementi che avevano costruito i caratteri della Roma che egli difendeva: una Roma presentata al barbaro Totila nel suo aspetto aristocratico, grandioso, monumentale, stupefacente, poiché grandiose, monumentali, stupefacenti erano le opere che l’aristocrazia dei 15.000 abitanti delle dorzus aveva costruito e con le quali aveva sbalordito e soggiogato culturalmente il restante milione e mezzo di romani. Belisario apparteneva appunto a questa aristocrazia, e senz'altro in buona fede riteneva che quelli presentati a Totila fossero valori reali e assoluti, che anche un barbaro doveva imparare a rispettare, come già centinaia di migliaia di barbari prima di lui li avevano rispettati, sottomettendosi ai fasti dell’impero. Ma insieme con gli « ornamenti » Belisario difendeva anche la struttura sociale che li aveva espressi, e particolarmente quell’aristocrazia fondiaria che aveva generato la speculazione edilizia nelle città e il latifondo nelle campagne. Per il generale si trattava di una cosa sola, al punto che non era capace di sentitvi una distinzione, ma per il re goto si trattava di due questioni distinte e diverse. Di fronte agli « ornamenti » Totila era indifferente, ed era perciò anche disposto a prendere per buona la lettera di Belisario, ma di fronte all’aristocrazia fondiaria era decisamente
ostile. Su questo punto si scontravano infatti due concezioni antitetiche. Belisario era il generale di Giustiniano, l’imperatore che non pet caso aveva riorganizzato il diritto romano. La proprietà privata, comunque determinata, era uno dei pilastri di questo diritto. Garantirla e difenderla era compito e dovere dell’autorità costituita. Belisario, che doveva riscattarsi dopo un periodo di quarantena politica, aveva accettato di scendere in Italia senza
che l’imperatore
gli desse né un
soldo né un
soldato, ma
tuttavia portava con sé il crisma di quel diritto e di quell’autorità. L’appoggio concreto che non gli era stato concesso da Giustiniano l’avrebbe certamente trovato presso coloro di cui si apprestava a difendere le proprietà e la ricchezza. Egli rappresentava la continuità politica e giuridica dell'impero, e quindi anche la continuità della struttura sociale che sotto l'impero aveva dominato. Chi a questa struttura apparteneva non poteva che vedere in Belisario il suo naturale alleato, e viceversa.
Il diritto che Totila praticava non era quello del Corpus juris civilis. La proprietà privata del suolo non poteva rientrare fra i princìpi di un popolo che aveva praticato il nomadismo. Nella tradizione barbara c’era
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tutt'al più una sorta di diritto di superficie, strettamente collegato al fabbisogno familiare o tribale. La differenza giuridica era sostanziale, poiché il costume barbaro subordinava il diritto di possedere al diritto di esistere, mentre lo jus romano subordinava il diritto di esistere al diritto di possedere. Perciò, per un re barbaro e rozzo che ragionava d’istinto e aveva un popolo da sfamare, l’intangibilità del latifondo era una raffinatezza giuridica non facilmente apprezzabile. Anche se da quasi un secolo Roma non era più la capitale dell’impero, essa occupava però ancora il centro di quella tela di ragno che si era andata allargando per l'Europa, portando sterminate porzioni di territorio a gravitare su un’unica città. Questo era stato il capolavoro urbanistico
dei romani, che fin dalle prime conquiste territoriali avevano capito V’importanza di organizzarle spazialmente in funzione di un unico centro politico. L'apertura di veloci vie di comunicazione radianti da Roma, la crea-
zione di capisaldi intermedi con la deduzione di colonie nei punti strategici, la centuriazione dell’agro, la distribuzione delle terre ai veterani erano tutte meravigliose invenzioni che concorrevano ad un unico proposito: l’acquisizione stabile di tutti i territori assoggettati mediante l’instaurazione di un ferreo regime di proprietà, controllato dal centro e rigidamente garantito dalla stessa autorità statale. Totila aveva afferrato d’istinto questo stretto legame tra struttura urbanistica e mantenimento del regime di proprietà, per la ragione ovvia che questa organizzazione del territorio apparteneva ad una civiltà di cui non condivideva il costume giuridico e politico, e che conseguentemente combatteva in tutte le sue manifestazioni concrete. Se Totila fosse stato un forte ideologo forse avrebbe trovato nella lettera di Belisario tutti i motivi per distruggere Roma, e particolarmente per abbattere quei simboli aristocratici del potere fondiario che il generale greco incautamente gli presentava come simulacri di civiltà. Invece il re ostrogoto, che è ricordato dalle storie appunto per aver cercato di continuare la politica di Teodorico contro la grande proprietà fondiaria, prese l’unico provvedimento che gli consentiva di essere coerente con la sua politica: l’evacuazione di Roma. Ciò che verosimilmente gli interessava infatti non era di sostituirsi ai romani nei loro possedimenti, come Belisario gli suggeriva, ma di sradicarli dalla centrale del loro potere facendone un popolo disperso e nomade, allontanando i padroni dalle domus ma anche i fittavoli dalle insulae, e magari volgendo questi ultimi alla ricerca di una terra dove vivere e quindi alla lotta contro il latifondo. Per il civile Belisario questa poteva essere una sana lezione di barbarie; ma egli non la capì, come del resto Totila non aveva capito il valore ideologico degli « ornamenti » romani. Perciò riprese la città, ritardando la storia ancora di un poco. Neppure il Lugli, però, mostra di avere capito la lezione della storia. È strano che egli non si accorga, dopo una descrizione così accurata e precisa delle isul4e, che queste rassomigliano in maniera impressionante, sia nella struttura che nelle funzioni, agli edifici di civile abitazione che
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affollano oggi le periferie delle nostre città, Roma inclusa. Invece egli esplode in una approvazione entusiastica. « Questa edilizia minore — egli scrive — così unitaria tipologicamente e pur così variata nella infinita episodicità della tessitura e della grana architettonica, costituiva nelle città romane il riempimento di un tessuto urbano regolare e compatto, arricchito e finalizzato alla massima valorizzazione delle grandi emergenze spaziali degli edifici pubblici sempre fortemente incidenti, per volume, massa e altezza, sull’edilizia residenziale. La città si presentava dunque al provinciale e allo straniero bella e imponente attraverso l'architettura pubblica e monumentale, ordinata e ben comprensibile come impianto urbanistico, funzionale e confortevole per la ricchezza dei servizi e delle attrezzature pubbliche, ben amministrata per l’autorità e l’efficienza della magistratura e dei corpi di sorveglianza, di sicurezza e di vigilanza urbana. La città fu dunque nell’Impero la vera e propria ‘facciata’ dello Stato romano, il suo simbolo e il suo sostegno » (pp. 115, 116). Certamente Piero Maria Lugli, considerata anche l’autorevole consulenza paterna di cui dichiara d’aver fruito, è molto informato circa la situazione interna delle città romane; però dimentica di aggiungere che Roma era ben lontana dal modello di ordine e di funzionalità che egli descrive. La planimetria stessa di Roma non era regolare, ma alquanto caotica, né la situazione migliorò di molto dopo il radicale espediente dell'incendio neroniano. Per una città di un milione e mezzo di abitanti anche le colossali opere pubbliche realizzate dagli imperatori erano insufficienti (anzi, erano insufficienti proprio perché colossali e quindi mal distribuite). Ma soprattutto è difficile dimenticare l’esistenza delle 44.850 insulae, ognuna con le caratteristiche che il Lugli descrive e con il significato sociale che egli invece ignora. Non sono queste 44.850 insulae forse paragonabili alle « informi aggregazioni edilizie che nel nostro paese stanno sostituendo e fagocitando le antiche città »? E i disastri urbanistici provocati dalla speculazione edilizia nella Roma imperiale saranno poi così distanti da quelli lamentati dal Lugli per certe « nostre città storiche come Verona, Ferrara, Napoli, Palermo, Catania », dove «i tessuti
architettonici più coerenti, continui e preziosi vengono ogni giorno di più lacerati e distrutti dalla squallida e pretenziosa edilizia di sostituzione »? E i patrizi romani non usavano forse costruirsi anch'essi la seconda casa nelle pinete, nei boschi, nelle riserve naturali più preziose? E il diffondersi del latifondo non vedeva « territori di alta tradizione agricola e culturale abbandonati e disertati dalle popolazioni »? E Roma non era il simbolo tangibile del « formarsi di paurose ed incontrollate concentrazioni demografiche nelle grandi aree metropolitane »? E con questo non si aveva « un continuo abbassamento dei valori formali dello spazio nel quale si vive »? (cfr. pp. 7, 8). Nessuno, però, presumerebbe di poter richiamare il Lugli a un tale genere di raffronti se egli stesso non dichiarasse il proposito di riportare alla tematica del presente lo studio storico delle città, affermando esplicitamente che « l’approccio all'ambiente storico deve essere da parte del-
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l'architetto sviluppato anzitutto come presa di coscienza della propria responsabilità di operatore » (p. 6), e nessuno pretenderebbe da lui un approccio storico-politico del problema se egli stesso non avesse premesso che l’espressione « cultura della città » da lui adottata deve essere intesa nell’accezione mumfordiana di « lettura ed interpretazione delle manifestazioni urbanistiche dell’insediamento umano mediante analisi integrate sulle sue modificazioni dipendenti dalle implicazioni storico-politiche ed
economiche » (p. 1). È vero che il Lugli avverte anche che egli tratta la materia sotto l’angolazione della cultura figurativa: ma potrebbe questo valere a giustificare eventuali parzialità storiche o l’assenza di un giudizio ricavato, in quanto possibile, da quelle stesse « implicazioni storico-politiche ed economiche »? Tanto più che — lo si è visto — anche sotto il profilo strettamente figurativo la situazione culturale dell’età imperiale non era poi così imparziale e asettica come il Lugli lascerebbe trasparire. L’agnosticismo del Lugli di fronte alla situazione politica romana è quindi fortemente equivoco. Ma, a conti fatti, non è difficile appurare che esso non è casuale. Infatti il Lugli sta dichiaratamente dalla parte di Belisario e, come lui, non capisce il valore politico positivo di una barbarie distruttrice della proprietà terriera e immobiliare. Soprattutto, per lui, 44.850
insulae fanno
solo statistica, non
urbanistica,
ed è normale
che
solo una persona su cento, nella Roma imperiale, avesse la possibilità concreta di costruirne e di rappresentarne la cultura. Tradotta sul piano operativo, questa « cultura (atistocratica) della città italiana » rivela perciò in pieno la sua matrice intellettualistica e falsamente sociale. Il Lugli arriva, per vie tortuose, ad ammettere che occorre
estendere l’istituto dell’espropriazione ed applicarlo perfino « come deterrente e alternativa coercitiva in tutti quei casi in cui l’iniziativa privata cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità » (p. 298); ma non rinnega la proprietà privata del suolo, né si accorge che concedere preventivamente garanzie a tutela della proprietà fondiaria significa poi trovarsi puntualmente di fronte ad ostacoli giuridici insormontabili tutte le volte che si cerca di limitare quelle stesse garanzie che sono state prima concesse. Non se ne accorge però lo presente. « Sarebbe difatti colpevolmente
ingenuo — egli dichiara a conclusione del volume — attendersi che nuove leggi ed interventi pubblici, dei quali continuamente si richiama l'esigenza, possano operare efficacemente, qualora tali leggi ed interventi non costituiscano l’espressione pubblica di una coscienza diffusa negli individui della comunità. L’esempio di tante località storiche italiane saccheggiate senza ritegno e quello della pressione, esercitata demagogicamente in sede politica, per ricattare le amministrazioni e le autorità responsabili (minacciando disoccupazione e crisi edilizia e denunciando perdite di finanziamenti e di sovvenzioni), la cavillosità e la difficoltà procedurale che svuotano di efficacia l’azione diretta intentabile contro i trasgressori, sono tutte esperienze che debbono rendere scettici quanti ancora sperano di risolvere il problema della salvezza del paesaggio e dell’antico attraverso l’azione normativa e repressiva » (pp. 301, 302).
20
È singolare: anche qui il Lugli evita la conclusione politica. Anche qui egli non si chiede chi è che non fa funzionare le leggi, chi saccheggia senza ritegno le località storiche, chi fa pressioni demagogiche per difendere i propri interessi, chi ricatta le amministrazioni e le autorità, chi minaccia la disoccupazione, chi rende cavillose e difficili le procedure contro i trasgressori. Saranno forse i fittavoli delle moderne insulae? L’ipotesi, per quanto apparentemente paradossale, non sembrerebbe da escludere. Infatti, secondo il Lugli, « le leggi e i controlli pubblici saranno sempre inefficaci fino a quando non si sarà diffuso nella coscienza nazionale un naturale disgusto e repulsione verso il deserto di cemento che si sta dovunque diffondendo nel nostro spazio vitale » (p. 302). E, in questo modo, sarebbe tutto chiaro. La coscienza popolare, evocata qui per la prima volta, avrebbe la responsabilità vera del disastro urbanistico. Una responsabilità passiva, nata non dall'azione ma dall’inazione, e tuttavia determinante nella versione del Lugli, al quale i nomi e cognomi degli altri possibili responsabili restano chissà perché nella penna. Senonché dalla stessa penna freudianamente distratta del Lugli è caduto nel testo un lapsus chiarificatore. Infatti, se è vero che l’unico rimedio al disastro urbanistico è il risveglio nella coscienza popolare di un naturale disgusto verso il deserto di cemento, è vero anche, per conseguenza, che questo deserto di cemento si deve in ogni modo realizzare. Altrimenti, che cosa potrebbe risvegliare questo naturale disgusto, se l'oggetto del disgusto non fosse lì bello e esistente? La conclusione politica del Lugli è quindi chiara e coerente con le
14. Chicago:
Auditorium.
È
21
premesse. Il disastro urbanistico non è da imputare agli speculatori, che fanno il loro mestiere e forse neppure esistono, né agli architetti, che sono tante povere cassandre stanche di predicare la verità senza essere condivise dalle masse. La colpa è del popolo che, come il barbaro Totila, non capisce. Perciò si vada avanti. Quando l’educazione cementizia degli italiani sarà completata, la nuova era urbanistica potrà cominciare. Eppure, date le premesse mumfordiane, ci si poteva aspettare dal Lugli una conclusione completamente diversa. Non è dato di sapere se il Lugli fosse presente nell’aula magna della facoltà di architettura dell’università di Roma
il 26 maggio
1967,
quando
fu conferita la laurea
honoris causa a Lewis Mumford, cioè a colui che nel 1938 pubblicò un libro intitolato The Culture ot the Cities. Il Mumford, come d’uso, pronunciò un breve discorso, molto bonario, ma disse cose che negli orecchi
del Lugli potevano diventare di fuoco. « Come saprete — disse Lewis Mumford — non possiedo nessuna qualifica professionale di architetto o di urbanista; posso andare anche oltre e affermare che, nonostante cinque anni di studi universitari, non possiedo neanche una seria preparazione di storico. Coloro che tracciano nuove strade debbono essere maestri di se stessi, come lo furono Galileo nella fisica, Burckhardt nella storia della cultura e Freud nella psicologia. Sicché non vi infastidirà sapere che io non ho frequentato neppure un corso di architettura; ma forse vi sorprenderà sapere che sono stato introdotto nella grande arte della costruzione fin dai giorni in cui, costretto ad
15. Chicago:
Monadnock
(prima
fase).
16. Monadnock
(seconda
fase).
22
abbandonare gli studi per la malferma salute, ho passato le giornate vagabondando per la mia città natale, New York, visitando ciascuno dei suoi quartieri, osservando coi miei occhi le strade, gli edifici, i monumenti, i parchi, e registrando quel che avevo visto e pensato al mio ritorno a casa. Una di quelle prime osservazioni è stata da me usata persino in The City in History. «La
New
York
di cinquant'anni
fa era
come
Roma,
un
immenso
museo di edifici che raffiguravano, anche se soltanto in imitazione, tutti i grandi periodi dell’architettura occidentale, dalla Grecia del quinto secolo in poi. L'antica battaglia degli stili si combatté allora, per l’ultima volta, nella mia mente;
e senza
alcun aiuto da parte dei critici che in
seguito conobbi (a eccezione, forse, di Ruskin), scopersi da me lo stile nascente e le forme tipiche della nostra epoca. Devo affrettarmi ad aggiungere che questi non erano i mediocri grattacieli di New York, che non reggono il paragone coi classici esempi di Chicago sui quali in seguito posai l’attenzione, in un periodo in cui quasi nessuno nel mio paese apprezzava la qualità estetica del Monadnock o dell’ Auditorium. Quello che a New
York
m'interessava
erano
i magazzini,
le costruzioni
industriali,
i ponti, soprattutto quello di Brooklyn, prima espressione della nuova tecnologia. « Non fu la parte minore della mia istruzione architettonica quella che mi provenne dalle passeggiate attraverso la parte bassa dell’East Side, dove le case congestionate, buie, sporche uguagliavano o addirittura sorpassavano quelle della Roma di Giovenale. La mancanza di spazio, di ordine, di progetti intelligenti e perfino di sole e di aria, la sensazione di tutte le qualità umane che ivi mancavano, m’insegnarono per contrasto che cosa dovessi esigere in ogni opera dell’architettura umana. Quegli edifici resero sensibile il mio occhio alle minime differenze estetiche, sicché dopo un po’ riuscivo perfino a datare quelle costruzioni miserabili con l’approssimazione di un anno, secondo il tino dei cornicioni di lamine di ferro pressato o il motivo decorativo delle facciate di mattoni e di pietra. Sebbene sinistti e brutti, quegii edifici conservavano ancora un resto di individualità architettonica, che le odierne case di rapida fabbricazione hanno perduto. « Quelle passeggiate solitarie furono i fondamenti della mia istruzione architettonica, e se ho trovato qualcosa di nuovo da dire sull’architettura moderna
o sull’urbanistica,
ciò è stato
perché
ho continuare
a fare di
simili passeggiate durante tutta la mia vita, non come un curioso o un turista in cerca di edifici importanti degni di almeno due asterischi sulla guida turistica, ma come un uomo che cerca di comprendere visivamente e di fare il più ampio uso possibile della vita intorno a lui. Secondo il mio ideale schema di educazione questo modo di vedere e di conoscere deve precedere e completare le conoscenze che trasferiamo nei libri, nelle
statistiche e negli eleboratori elettronici. « Anche i peggiori edifici che possiamo trovare in questo mondo rappresentano documenti umani; quanto ai maggiori fra essi, sono fatti della
23
sostanza di cui sono fatti i poemie le sinfonie, e non soltanto vivificano la nostra personale e limitata esperienza, ma ci collegano con una tradizione che dal punto di vista architettonico risale almeno alle caverne dipinte di Lascaux e di Altamira, e probabilmente, se possedessimo documenti di culture più antiche, anche più oltre. Alla fine mi sono trovato a riconoscere soltanto un’arte suprema, l’arte di diventare umani, l’arte di esprimere e intensificare la propria coscienza con azioni, fantasie, pensieri e opere appropriati. Secondo me la forma estetica, il carattere morale e la funzione pratica sono uniti così strettamente che la mancanza dell’una o dell’altra di queste qualità in qualsiasi opera architettonica la rende un guscio vuoto, come le cupole tetraedriche di Buckminster Fuller, e non come un edificio pienamente dimensionato che risponda a ogni richiesta di vita ». Molto bene ma soprattutto molto male gli architetti italiani hanno
detto di Lewis Mumford. L’ultimo in ordine di tempo ad unire agli apprezzamenti una forte critica nei confronti delle idee mumfordiane è Paolo Sica, secondo il quale « mentre la sua opera di storico è assai più vicina all’apostolato filosofico-culturale, il regionalismo che emerge dalle sue indicazioni teoriche — anche quando resta al di qua dell’utopismo — è più ansia verso un ‘paesaggio moralizzato’ che espressione di una
chiara metodologia » (L'immagine della città da Sparta a Las Vegas, 1970, Polt98)
È vero. Il Mumford non arriva a costruire una « chiara metodologia ». Però gli architetti italiani, in fatto di metodologia, avrebbero lo stesso molto da imparare dal Mumford.
Per il Lugli Piero Maria, figlio di un
padre archeologo e informatissimo sulle cose di Roma antica, le insulae dalle quali scappavano gli inquilini e perfino i topi sono monumenti da
due stelle sulla guida turistica. Il Mumford, che si è formato negli slums e sulle banchine di Manhattan, non ha difficoltà a capire che nella Roma di Giovenale si poteva vivere come nei dormitori di Bowery o come nel ghetto negro di Chicago. Non c'è dubbio che, rispetto al Lugli, il Mumford vede con un occhio in più. Può darsi, come spesso gli si rimprovera, che il Mumford sia storicamente impreciso, o che addirittura forzi la storia alle sue tesi. Però il suo metodo di indagine e il suo modo di concepire la cultura delle città, se non lo consacrano perfetto accademico, almeno lo redimono dall’asservimento ideologico al capitalismo fondiario, al quale invece si concede, sia pure neghittosamente, la gran parte delle nostre querule cassandre. Non è vero, come il Sica mostra di ritenere, che il Mumford non tragga dalla sua analisi conclusioni politiche. Sia pure stranamente mescolate con la loro matrice biologica, venate di accenti mortalistici, espresse in forma non sistematica e non portate all’estremo della chiarezza e della convinzione, vi sono proposte politiche, nella vasta produzione del Mum-
ford, estremamente attuali. Queste proposte non sono neppure utopiche, come lo stesso Sica sostiene. Ma per capirle occorre rovesciare l’ottica che il Lugli, il Sica e altri con loro sono soliti adottare.
24
Negare negli slums città negare tecnologica ogni giorno
la metropoli è una proposta politica. Per coloro che vivono e vedono la loro miseria ingigantirsi con l’ingigantirsi della la metropoli è una necessità, non un'utopia. Negare la follia è pure una proposta politica. Dal punto di vista dell’operaio più alienato dallo strapotere delle macchine e sempre più
stordito dai tempi della catena di montaggio, negare la follia tecnologica è un problema vitale. « Consumi obbligati, spreco obbligato, direzione obbligata, distruzione obbligata sono i contrassegni della nostra epoca », affermava polemicamente il Mumford, sempre nel suo discorsetto di Roma. Ebbene, proporci la liberazione dal consumismo sfrenato che ci inchioda tutti a un tenore di vita obbligatorio per tutti non è una proposta politica? Certo, se il Mumford fosse stato un più forte ideologo e un politico più profondo avrebbe potuto probabilmente andare più in là di queste enunciazioni, che forse sono solo le premesse di un discorso ancora tutto da fare. Ma, d’altra parte, si è visto a quali conclusioni si arriva adottando
il concetto di cultura delle città usato dal Lugli. Si arriva a una grandissima capacità di stabilire come la gente deve vivere e a una parallela profonda incapacità di capire come
la gente vive. Questo è appunto ciò
che serve alle società immobiliari, e ad esse sole.
255)
Gi
#PONTANEE
E CITTÀ: FONDATE
Era impossibile che gli urbanisti, soli fra tutti, si sottraessero
alla
smania positivistica delle classificazioni. Del resto si deve riconoscere che, quando
la storia urbanistica
era ai suoi primi passi (cioè, in Italia, nel
ventennio fra le due guerre), non sarebbe stato facile sfuggire al problema di dare un qualche ordine alla materia, suddividendo, come appunto fu fatto, le città secondo tipologie. Ciò avveniva anche quando (è il caso, ad esempio, del Piccinato) si avvertiva con chiarezza che tale tipo di classificazione era criticamente
inadeguato.
La cosa ha anche una spiegazione psicologica. Dare un ordine di comodo alla realtà è per noi un bisogno quotidiano. Questo bisogno si fa più evidente appunto quando il disordine regna in ciò che ci sta intorno, O, per essere più esatti, quando esiste la difficoltà di imprigionare negli schemi consueti, e quindi di conoscere praticamente, l’oggetto del nostro interesse. Non è quindi per superficialità o per beffa della sorte, ma per
una precisa ragione gnoseologica, che il metodo della schematizzazione è stato più frequentemente applicato dai primi studiosi di storia urbani. stica proprio laddove era più difficile applicarlo, cioè all’analisi dei centri medievali. Perciò si sono talora istituite, unicamente per ragioni di co-
modo, analogie formali che analogie non sono se non nella mente di chi trova utile che lo siano. Una volta accettato, dunque, che il criterio della classificazione non ha in se stesso nessun valore storico, non è escluso che lo si possa applicare in via pratica. Basta tenere presente che, quando noi ordiniamo le parole in un dizionario, non
pretendiamo che esse, lette in fila, formino
un discorso. Così è per le città. Messe una accanto all’altra perché hanno la stessa forma, possono benissimo non avere la stessa storia, o la stessa origine, o la stessa problematica. Ma c’è un tipo di classificazione che è intollerabile e pericoloso: la distinzione fra città spontanee e città fondate. Il problema si potrebbe
liquidare in due parole: l’espressione « città spontanea » è una contrad-
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dizione in termini, giacché la città è per sua natura
una creazione del-
l’uomo e quindi non può essere « spontanea ». Ma la questione è più grossa, anche perché non si può dimenticare che l’aggettivo « spontaneo »
usato da alcuni storiografi italiani è la pessima traduzione del participio tedesco « geworden » che, contrapposto a « gegrindet » (« fondato »), vuol dire tutt’altra cosa. L’equivoco, suddivisione —
sostanzialmente, comincia in Italia col Giovannoni. «Una egli scrive — che trovasi in tutti gli autori di Urbanistica,
è quella in città naturalmente sorte, nate dal caso ed ingrandite successivamente, e città artificiali immaginate e tracciate dal pensiero e dalla volontà di un uomo. I tedeschi adoperano a tal uopo i termini di gewordene (divenuta) e di gegrundete (fondata)... Nelle città naturalmente e spon-
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17. Tell-el-Amarna:
villaggio operaio costruito da Amenofi
IV (1382-1358
a. C.).
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taneamente
sorte, il rapporto,
Ma0VaRA951,
ece., ecc. » (cfr. Vecchie
città ed edilizia
pp. 9, 10).
Certamente la distinzione fra centri di fondazione e città che sono man mano venute crescendo su se stesse, sostenuta particolarmente dal Brinkmann e così malamente interpretata dal Giovannoni, era all’origine più coerente e corretta. Ma, purtroppo, questa cattiva interpretazione non è stata priva di conseguenze critiche, almeno in Italia. E inoltre, a ben guardare, un grosso equivoco esisteva già nella impostazione tedesca del
problema. Infatti dietro la questione delle « città fondate », o « a schema preordinato », o comunque le si voglia chiamare, c'è un falso modo di concepire la città e l’urbanistica in genere. Prendiamo, ad esempio, il caso
delle città a schema ortogonale. Per ricordare solo i casi più noti, possiamo citare come appartenenti a questa categoria i villaggi operai dell’antico Egitto, le colonie elleniche in Sicilia e nella Magna Grecia (e più tardi
alcune
città
della
stessa
Ellade),
Pechino,
le colonie
romane,
la
massima parte delle città franche medievali, quasi tutte le città ideali del XV, XVI e XVII secolo, le città operaie del secolo scorso, le città americane, molti piani di città del nostro secolo in tutto il mondo. Si può osservare, per inciso, che questo schema, beffeggiato da Camillo Sitte
quasi un secolo fa come inadeguato al traffico della città ottocentesca, in buona parte dell'opinione comune figura ancora come il più moderno ed attuale.
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Nelle trattazioni generali di storia urbanistica le città a schema ortogonale hanno sempre un posto di rilievo, appunto perché esse si prestano a una schematizzazione assai facile, ma con il risultato non proprio lodevole di dare rilievo e importanza a un fenomeno che di importanza urbanistica non ne ha, o ne ha in misura molto relativa. Infatti, se si verificano in concreto le ragioni dell’adozione di un simile schema, si scopre quasi sempre che esso ha avuto un’otigine puramente catastale o agrimensoria, assai poco (o per niente) condizionata dalla fantasia dei fondatori o anche « dal pensiero e dalla volontà di un uomo ».
L’equivoco dell’istituire omologie strutturali sulla base dell’adozione dello schema ortogonale è già stata chiarita da Lewis Mumford e non merita insistervi oltre; al massimo, approfondendo politicamente le conclusioni del Mumford attraverso una verifica del valore ideologico che questo schema assunse di volta in volta presso i vari popoli che lo applicarono, si può arrivare alla conclusione che in molti casi esso fece da supporto a un disegno autoritario, espresso urbanisticamente in una struttura rigida e immutabile, fisicamente e psicologicamente condizionante. Dai Faraoni ai Krupp.
Se fosse lecito istituire una scala di valori urbanistici, si potrebbe dunque
dire che le città fondate
a schema
ortogonale
(e sono
la stra-
grande maggioranza) andrebbero poste all’ultimo gradino di questa scala. Più concretamente
si può affermare che in ogni caso la pianta ortogonale
di una città, per quanto possa essere legata a precise ragioni culturali e
19. Nicola (Massa-Carrara).
29
politiche che possono essere storicamente accertate e verificate, è in se stessa priva del più elementare significato urbanistico e non ci pone in
questo senso nessun problema, se non in forma negativa. È il caso, per esempio, delle città medievali cresciute attorno a un nucleo reticolare romano, che fa problema appunto nella misura in cui questo viene negato e inglobato in un diverso sistema urbanistico. Nicola, presso Carrara, è un esemplare pressoché integro di centro medievale. Vi si è conservato perfino il selciato antico. Esso non è annoverato
dal Morini
tra
i « nuclei
urbani
a schema
preordinato », bensì
tra le «città sorte su colli », alla pagina 141 del suo AMlante di storia dell'urbanistica. « Caratteristica borgata ad anelli concentrici — didascalizza il Morini — attorno all'elemento generatore rappresentato dalla chiesa ». In effetti il piccolo centro sorge alla sommità di un colle abbastanza aguzzo, isolato in un breve tratto di campagna tra il mare e le prime pendici delle Apuane. La piazza ampia, il sagrato sopraelevato, la chiesa ne costituiscono il nucleo. Tre anelli approssimativamente ellittici di edifici, sfalsati fra loro in altezza, compongono l’abitato. Non vi sono mura, ma solo una porta ad arco in corrispondenza dell’unico accesso, appoggiata a una piccola fortificazione che porta su uno spigolo lo stemma mediceo. In base a queste caratteristiche il Morini dunque ritiene che Nicola non abbia uno schema preordinato. ma abbia derivato direttamente e naturalmente dal colle su cui è sorta il suo schema avvolgente. Ma è esauriente questo tipo di classificazione? Ci sono infatti dei problemi che il Morini non si pone. Per esempio: chi ha fondato il piccolo centro? FE perché proprio su quell’acrocoro? E con quali intenzioni? E con quali prospettive?
20. Nicola:
sezione est-ovest
dell’abitato e del colle.
Se noi assumiamo il principio, suggerito dal Morini, che la forma dell’abitato sia stata generata deterministicamente dalla natura del luogo (e soltanto questo principio infatti può giustificare il parallelismo che egli istituisce con altri centri di forma analoga nati in situazioni corografiche simili) non rispondiamo a nessuno di questi interrogativi. In primo luogo,
infatti, non si giustifica la scelta del sito. Perché mai, avendo a un chilo: metro di distanza pendici ricche d’acqua, scegliere una vetta isolata sprovvista di sorgenti?
È vero
che, in casi simili, di solito si dà la colpa ai
pirati o alla malaria, ma qui tale spiegazione lascia largamente insoddisfatti: come potevano essere preminenti le condizioni di sicurezza militare in un centro costruito senza mura? E la mancanza d’acqua corrente non è forse igienicamente altrettanto pericolosa quanto l’esistenza (non dimostrata)
della
malaria
nelle zone
di pianura?
E infine,
anche
accet-
tando che la planimetria dell’abitato possa essere stata determinata dall’isometria, come spiegare la centralità della chiesa e soprattutto l’esistenza di una piazza ben proporzionata alla popolazione del piccolo centro, se non attraverso un intervento programmatore preciso e circostanziato? La risposta ai quesiti che si sono posti può invece essere questa: la nascita di Nicola avvenne secondo un piano non meno preordinato di
quello delle città a scacchiera. Ma le generatrici del piano non furono di carattere geometrico o soltanto geometrico. Esso nacque invece in ma-
niera globale da tutte le ragioni di vita della piccola comunità. Partiamo dalla scelta del sito e dalla mancanza d’acqua: L’acqua, com'è noto, non è indispensabile solo per l’uomo, ma anche per le piante. La
differenza sta nel fatto che l’uomo può spostarsi per cercare l’acqua, le
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21. Nicola:
planimetria.
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31
piante no. E siccome l’uomo muore senz'acqua ma muore anche senza il cibo, diventa logico costruire l’abitato nella parte più arida del colle e riservare tutte le pendici alle colture. All’acqua si provvede con le cisterne, o scavando un pozzo, che è sufficiente nella stagione umida, quando è più facile che la gente stia in casa o in paese; durante l’arsura si provvede diversamente, trasportandola negli otri sui muli e conducendo le bestie direttamente all’abbeveraggio. Ai piedi del colle di Nicola scorre un torrente, che fino a pochi anni fa aveva acque limpidissime. Se si segue la via rotabile costruita di recente il percorso è lungo ma, se si prende la vecchia mulattiera, dalla cima del colle al torrente si arriva in pochi minuti. D'altra parte, la lontananza dell’acqua è l’unico inconveniente di un certo peso che deriva dalla ubicazione del paese, compensato dal fatto che i suoi abitanti trascorrevano la massima parte della loro giornata fuori dell’abitato, al pascolo o al lavoro nei campi. Al contrario la centralità del villaggio rispetto al suo territorio consente notevoli vantaggi per la facilità con cui lo si può raggiungere da ogni parte del colle (che evidentemente costituisce l’unità economica su cui si regge la vita della piccola comunità), e quindi per lo stallaggio, per il ricovero degli attrezzi, per la rapidità in genere dei collegamenti. Le giustificazioni di carattere militaresco, care a coloro che concepiscono la storia come un succedersi di guerre e di battaglie, sono le meno importanti: anche la piccola fortificazione con lo stemma mediceo che
22. Nicola:
la piazza.
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presidia l'ingresso è posteriore alla nascita del paese. Le case del terzo anello, disposte a schiera verso l’esterno, costituiscono una sorta di barriera
continua che fa di per se stessa da chiusura, ma molte di esse comunicavano (e comunicano tuttora) direttamente con i campi. Tutto dunque indica che Nicola è un centro di fondazione, nato in funzione della organizzazione comunitaria di un piccolo gruppo di coltivatori. Lo testimoniano la centralità della chiesa e l’esistenza di una piazza davanti ad essa proporzionata alla consistenza della comunità. Forse i tre anelli ellittici nacquero tutti insieme o forse si formarono modularmente uno dopo l’altto; ma è certo che la grandezza del paese fu e rimase rigorosamente
correlata alle risorse economiche che provenivano dallo sfruttamento agricolo del colle. Anche l’adeguamento delle abitazioni all'andamento delle isoipse non è casuale ma funzionale. Tutti gli edifici che danno sulla piazza hanno infatti un interrato che si apre direttamente sulla via anulare immediatamente successiva alla piazza. Fsso fa da cantina, o ricovero, o stalla, a seconda delle necessità. Così è anche per le case del secondo anello. Per il terzo anello la situazione è meno chiara, anche per le trasformazioni recenti che vi sono state; alcuni spazi lasciati liberi fra casa e casa possono però far pensare che l’interrato fosse raggiungibile dalla via superiore, con ingresso sul fianco dell’abitazione anziché sul retro come negli altri due casi. Nicola è dunque uno dei più fedeli esempi di organizzazione comunitaria che l’urbanistica medievale ci abbia tramandato. Tutte le esigenze, formali e funzionali, economiche e sociali, sono qui rigorosamente rispettate e puntualmente attuate. È chiara la maturità tecnica di un simile impianto rispetto alla sommarietà degli schemi di città a scacchiera, ed è altrettanto chiara l’intenzionalità di chi ha preordinato il tutto, incluso ovviamente lo schema, che però è il risultato (e non la generatrice) di un discorso assai più vasto e complesso. Quindi non c'è dubbio che Nicola possa essere annoverata fra le città « fondate », come del resto moltissimi altri centri che, avendo forse una matrice troppo complessa, non vengono di solito riconosciuti per tali. Il concetto di città « spontanea » viene applicato soprattutto a quei centri medievali, di fondazione romana o di origine altomedievale, che particolarmente sotto l’impulso della fervida economia dell’età comunale avevano
avuto uno sviluppo intenso e (così si ritiene) non coordinato e
programmato. In realtà questo è un modo, magari non avvertito, di costruire la storia a posteriori, cioè di estendere i problemi di Londra, di Manchester d di tutti gli altri centri europei che ugualmente subirono il collasso della rivoluzione industriale ad altri periodi storici, col consueto salto acritico di chi crede fermamente in certi schemi mentali e solo in quelli. Ma forse è proprio partendo dai giorni nostri che si può tentare di chiarire la questione delle città cosiddette spontanee. Probabilmente più nessuno fra noi si illude che i piani regolatori, le leggi di tutela del paesaggio e del patrimonio artistico servano realmente a regolare o a tutelare qualcosa. Gli episodi negativi sono ormai tanti, e
355
talmente disastrosi, che anche denunciare
gli scempi urbanistici è diven-
tata un’industria, quando non è una copertura di altri scempi similari. Siamo dunque in un periodo di libera e spontanea espansione urbanistica. Eppure tutti siamo convinti che il disordine delle città non è dovuto a cause
immateriali
o metafisiche,
ma
a precise
ragioni
di carattere
econo-
mico: prima fra tutte la speculazione sulle aree e sui fabbricati. Nei risultati urbanistici si potrà vedere il disordine e il caos, ma certamente nei piani d’investimento delle società immobiliari non potremo trovare che ordine e rigotosa programmazione. E poiché la programmazione edilizia, anche se fatta dalle società immobiliari, fa parte della programmazione urbanistica, ne consegue che il cosiddetto caos urbanistico è semplicemente la forma urbanistica dei nostri tempi. L’urbanistica di oggi — l’urbanistica reale, s'intende, non quella degli inventori di città ipotetiche — si esprime così appunto perché così si esprime la nostra società economicamente, socialmente, politicamente. E il fatto che questo non ci piaccia non significa che non sia vero. Veniamo ora ai centri medievali. In che senso potremo intendere la « spontaneità » del loro sviluppo? È chiaro, a questo punto, che al massimo si potrà parlare di casualità per certi limitati aspetti della topografia urbana, ma sempre avendo presente che tale casualità è, di regola, effetto di circostanze economiche, sociali, politiche storicamente definibili e quindi niente affatto casuali. In altri termini: accertato che la regolarità geome-
trica è tutt'altro che un postulato per l’urbanistica medievale, ne consegue che le matrici del disegno urbano devono essere ricercate in altri motivi non formali e non astratti, e appunto per ciò strettamente pertinenti al tema urbanistico inteso nella sua concretezza e nel suo significato globale. Ciò vale, ovviamente, sia per i centri di nuova creazione, come
Nicola, che per i centri in via di ampliamento o di trasformazione interna: non esiste nessuna ragione critica per tenere distinti i due problemi. Se poi desideriamo fare la conttoprova, possiamo tornare per un momento a considerare le città ufficialmente riconosciute come « fondate » in virtù della regolarità della loro planimetria. Prendiamo, ad esempio, le città a scacchiera, che sono tra queste il tipo più diffuso, e analizziamone il valore urbanistico. Abbiamo visto che il loro disegno non presup-
pone uno sforzo inventivo: difficile trovare uno schema più banale. Possiamo aggiungere che, anche ai fini militari, il perimetro quadrangolare non offre le migliori garanzie: lo si sapeva fin dal tempo di Vitruvio, che aveva indicato come ottimale la pianta radiale e la cinta circolare o poligonale, opportunamente bastionata. Ma la cosa più interessante è che uno schema così rigoroso in senso geometrico in realtà non è affatto rigoroso in senso urbanistico. Intanto esso non definisce un centro urbano, poiché la massima parte delle strade corre lontano dal centro geometrico della scacchiera. Per la stessa ragione non vi sono tracciati interni obbligati o preferenziali, né isolati o blocchi edilizi ai quali lo schema attribuisca in partenza determinate funzioni. Le dimensioni dell’abitato sono indifferenti: esso può infatti ampliarsi in maniera indefinita da ogni lato senza
34
mutare
schema, come
è avvenuto
appunto per le città americane. Le vie
che si collegano alla città possono allacciarsi in qualunque punto al suo tracciato ortogonale
e cercare
all’interno
di esso
sia un attraversamento
rettilineo e diretto che un percorso trasversale a zig-zag. Quantitativamente e qualitativamente, petciò, anche i rapporti col territorio sono almeno all’origine indeterminati e indifferenti. Ciò che ne consegue
è chiaro:
fatta la planimetria (a scacchiera), la
città è ancora tutta da fare. Se invece consideriamo qualche macroscopico esemplare di città « spontanea », come per esempio Siena, nata in tre tronconi sul crinale di tre colli, percotsi dai tre assi stradali principali che s’incernierano nella piazza del Campo, ci accorgiamo che qui, fin dall'origine, non
c’era nulla di indeterminato,
e che la forma
della città e
la sua funzionalità urbanistica erano intimamente collegate e strettamente necessitate.
35
La piacevolezza finale a cui condurrebbe
tutto il discorso potrebbe
essere dunque questa: nelle città « spontanee » non c’è di regola spontaneità di sviluppo, mentre nelle città « a schema preordinato », una volta preordinato lo schema, il vero quadro urbanistico della città è ancora tutto da preordinare. Ma, evidentemente, è più semplice e più serio cancellare
la discriminazione fra città spontanee e città fondate dai libri e dagli atlanti di storia urbanistica. Così sarà anche più chiaro che, oltre ai grandi urbanisti, ai faraoni e ai Krupp, anche una comunità di lavoratori può essere in grado di fondare una città perfettamente funzionale,
cioè rispondente spontanea.
a certe sue esigenze di vita, e perciò niente affatto
Dil
CITTA
MURATE
Quando
un’organizzazione
struire, compie un’operazione
immobiliare tipicamente
sceglie un terreno ed esclusivamente
dove cospeculativa,
nel senso che la scelta si lega immediatamente alla rendita fondiaria e solo subordinatamente alle esigenze abitative. La stessa forma degli edifici e delle unità di abitazione che verranno costruite è funzione di un calcolo rigidamente contabile, al punto che gli stessi materiali, rivestimenti, arredi o annessi della costruzione sono prescelti in rapporto al prezzo di vendita o di affitto che sarà fissato per l’immobile. Quando un contadino sceglie il luogo dove costruire la propria casa colonica, compie un’operazione economica. La posizione del nuovo edificio viene stabilita in rapporto a quello che sarà il futuro lavoro dei campi, al tracciamento
delle
carrarecce,
all'andamento
dei fossati,
all’esistenza
di
falde acquifere, alla raggiungibilità delle vie di maggiore comunicazione, e così via. Anche la forma dell’edificio è subordinata al tipo di uso che se ne farà, alla struttura della famiglia agricola, alla natura delle colture, al modo di conservare i raccolti, al genere di macchine che si intende adoperare, all’esistenza di bestiame, eccetera. Il costo materiale dell’immobile è subordinato a queste scelte, le quali incideranno strettamente sulla stessa rendita del lavoro futuro, e pertanto diventano determinanti e prevalenti rispetto alla quantità di denaro impiegato e al frutto immediato che esso può procurare. Nel primo caso, dunque, si compie un’operazione puramente finanziaria, basata su un investimento di capitale; nel secondo caso si compie un’operazione economica nel senso pieno del termine, basata sulla stima del frutto che offrirà un lavoro compiuto per un lungo periodo in determinate condizioni. Il primo genere di operazione può essere condotto a buon fine con una conoscenza
estemporanea
delle condizioni
di mercato,
contenuta entro i limiti di un’analisi della situazione esistente nel campo degli investimenti di capitale e della rendita fondiaria. Il secondo genere
di operazione richiede invece un cospicuo bagaglio di conoscenze
sulla
38
natura del clima, sulla produttività del suolo, sulla natura geologica di esso, sulla convenienza di certe colture e sul loro avvicendamento, sul comportamento delle piante, eccetera; occorre inoltre conoscere bene la
tradizione e la storia del territorio, saper valutare
a lungo termine la
situazione finanziaria generale e possedere insieme la capacità di vagliare estemporaneamente l'andamento dei mercati agricoli. Queste differenze contribuiscono a spiegare perché un contadino è infinitamente più colto
di un banchiere o di un impresario edile. A livello di storia urbanistica non è possibile trascurare questa discriminante, soprattutto perché essa indica il confine fra chi ha fatto la storia del territorio e chi ai giorni nostri metodicamente la distrugge. Ma anche in altre epoche storiche la stessa discriminante ha assunto contorni molto marcati e lo stesso fenomeno è stato operante. Ciò è avvenuto soprattutto
quando lo sviluppo capitalistico, e in particolare il commercio del denaro, hanno consentito interventi più pesanti e hanno lasciato tracce più rilevanti del consueto nell’assetto delle città e del territorio, poiché appunto la concentrazione dei capitali lascia di sé le memorie più vistose e imponenti. Tale discriminante è perciò valida storicamente anche se proiettata all'indietro nel tempo, poiché non è raro che, adottandola come strumento critico, essa serva a modificare il giudizio su manifestazioni individuali stiche legate a un investimento di capitale ma presentate come episodi urbanistici individuanti, magari a danno delle fonti reali della cultura e della vera storia delle città e del territorio. Infatti chi ha il potere politico ed economico di costruire una città non fa urbanistica solo per questo. Sarebbe facile dimostrare che in genere proprio le città nuove, popolate di solito con grande fatica (valga a questo proposito l’esempio di Palmanova), hanno inciso meno profondamente sulla storia del territorio sul quale gravitavano, e certamente
sono
sempre
state le meno
collegate alla cultura urbanistica
di questo
stesso territorio. Se la Sforzinda del Filarete fosse stata realizzata (e poteva essere
realizzata
in qualunque
parte
fisiche adatte, poiché le condizioni
del mondo
storiche non
esistessero
erano
le condizioni
determinanti),
la
storia urbanistica non ne avrebbe tratto altro contributo che quello di poter verificare nella pratica il comportamento di qualche centinaio di cittadini sradicati dai loro ambienti ed esposti a fare da cavia per questo esperimento
intellettualistico
e militaresco.
Ciò vale, a maggior ragione,
per interventi parziali o singolari all’interno delle città, come pure per i loro ingrandimenti, quando questi sono dovuti a iniziative di potere o a speculaziohi immobiliari. Il problema è quindi di qualificare storicamente le singole situazioni urbanistiche mai dimenticando che in questo campo il contadino produce
di regola più cultura del banchiere. Va da sé che, fra i due estremi, vi è tutta una serie di situazioni intermedie che riguardano soprattutto gli agglomerati urbani, dove i ceti si mescolano e le trasformazioni sociali sono più rapide e frequenti; ma importante è fissare il principio che la storia di una città o di un paese non coincide né con quella di chi ne
DI
controlla le ricchezze né con quella di chi sa leggere, scrivere e far di conto. Non si capisce perciò con quanta utilità critica Edoardo Detti, Gianfranco Di Pietro e Giovanni Fanelli introducano in un loro studio una nuova categoria di centri urbani: le città murate. « Il volume — avverte il Detti — documenta e completa una esposizione tenuta a Lucca per iniziativa del Centro Internazionale per lo Studio delle Cerchia Urbane, intitolata Città murate e sviluppo contemporaneo. La mostra, avendo dunque come tema una testimonianza illustrativa e critica dei rapporti fra gli sviluppi edilizi, ed in genere urbanistici, con gli antichi insediamenti fortificati, ha offerto la possibilità di un incontro tra le consuete manifestazioni del Centro e una ricerca più sistematizzata, quale si va conducendo presso l’Istituto di Urbanistica dell’Università di Firenze, per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, sulle strutture storiche Giella Toscana. L’ampiezza del tema prescelto — le cerchia urbane — ha infatti suggerito di riferire le esemplificazioni ad un campo come quello della regione toscana, nel quale meglio potessero essere raffrontabili gli esempi e le situazioni prescelti, e dove il tessuto storico di fondo poteva offrire più organiche testimonianze » (Città murate raneo - 42 centri della Toscana, 1968, p. 7).
e sviluppo contempo-
E probabile quindi che la nuova categoria delle città murate sia stata introdotta più per l’esistenza del CISCU che per scelta deliberata dei tre architetti autori dello studio in questione; ma non per questo essa diventa storicamente accettabile e meno necessaria di precisazione, tanto più che il lavoro del Di Pietro e del Fanelli (l’intervento del Detti è contenuto alla presentazione del volume) non si presenta affatto con le caratteristiche di uno studio, superficiale o provinciale, che la storiografia urbanistica
24. Filarete: pianta di Sforzinda.
25. Genesi geometrica della pianta di Sforzinda da due quadrati ruotati di 45° e inscritti nel medesimo cerchio.
40 potrebbe anche trascurare o non curare, ma tende anzi ad aprire un nuovo indirizzo critico e a sostenerlo con una consistente quantità di documenti
e di argomenti. Molto positivo, in particolare, è che la parte più consistente della ricerca sia rappresentata da 42 schede relative a 43 centri toscani (Massa e Cozzile, che danno
un’unica
scheda,
sono
insieme
il nome
in realtà
due
al loro comune
e sono
centri
e distinti)
separati
almeno come affermazione di principio, queste la base per la elaborazione dei due saggi di quali — fa rilevare il Detti — «hanno fra essere nati da un lavoro di compilazione, anche ma
di essere
direttamente
scaturiti e maturati
trattati in
e che,
schede abbiano costituito contenuto più generale, i l’altro il merito di non se criticamente meditato, dalla ricerca dal vivo, e
cioè sul rilievo e l’analisi degli insediamenti in corso di studio, di cui appunto il libro presenta una serie di significativi esempi » (p. 8). Le 42 schede sono corredate da un’ottima illustrazione fotografica e da rilievi nella quasi totalità originali; per la parte storiografica, invece, i due architetti si sono avvalsi della bibliografia già esistente per i singoli centri (e ciò, com’è logico, ha generato scompensi nella qualità come nella quantità delle notizie di volta in volta riportate), aggiungendo tuttavia considerazioni e interpretazioni personali in relazione ad ogni situazione urbana che veniva presa in considerazione. Ma proprio questa ricchezza
di documentazione e l’impegno posto nel lavoro fanno rimpiangere alcune occasioni perdute, che il metodo adottato avrebbe invece invitato a perseguire.
La prima occasione perduta, infatti, è dovuta proprio a una mancanza di fiducia nel valore autonomo di una ricerca storico-urbanistica. « Come si può presumere — scrive appunto il Di Pietro, delineando gli indirizzi della sua indagine — di poter prendere posizione (e sarebbe utilissimo per una definitiva comprensione degli assetti territoriali storici) tra le ipotesi di sviluppo della scuola economico-giuridica e quelle della scuola politico-liberale, tra la funzione genetica della borghesia e quella dell’aristocrazia fondiaria nello sviluppo urbano? « Riteniamo — spiega il Di Pietro — che la via d’uscita disciplinare, propriamente urbanistica, e la sua empirica legittimità, si possa realizzare attraverso la chiave del differenziato assetto gerarchico, della discriminante tipologica, a livello della residenza e della distribuzione geografico-territoriale, come verifica e riscontro, via via nella casistica urbana,
delle formulazioni teoriche degli storici, come individuazione non del prima e del dopo, ma del corze » (p. 23). Perché « verifica e riscontro delle formulazioni teoriche degli storici »? Non è forse possibile che la storia urbanistica consenta (come in effetti consente) di fare giustizia a proposito di parecchi pregiudizi storiografici, o « formulazioni teoriche » che dir si voglia? E questo, si badi bene, non per una pretesa superiorità della storia urbanistica rispetto alla storia tout court, bensì perché ogni nuovo metodo storiografico (e la storia urbanistica è appunto uno di questi) ha sempre proposto nuovi e auto-
41
nomi indirizzi, consentendo
di arrivare
per questa via anche
a nuovi
risultati. L’interpretazione in chiave economica dei fatti della storia, tanto
per fare l’esempio più banale, ha praticamente consentito di scoprire la civiltà comunale, precedentemente nascosta dietro un paramento cronachistico di faide cittadine;
allo stesso
modo
il maturare
di una
coscienza
politico-sociale e il filone storiografico in cui essa si è manifestata hanno condotto a una diversa analisi della rivoluzione francese che ha consentito di rovesciare il giudizio tra questa e il successivo avvento di Napoleone,
ristabilendo
il giusto equilibrio storico ed umano
tra le teste
cadute di Robespierre e le smargiassate funeste di questo buffonesco e non tanto involontario alleato della restaurazione monarchica europea. Perché anche la storia urbanistica, che sta nascendo adesso perché proprio in questi nostri stessi giorni la necessità di una piena coscienza urbanistica
si sta evidenziando,
non
dovrebbe
proporre
anche
su
que-
stioni già conosciute interrogativi nuovi? In quale, delle fonti storiografiche a cui il Di Pietro attinge, l’assetto urbanistico di una città o del territorio entra ed è valutato come elemento di giudizio determinante? E sarà proprio un urbanista a dire che questo assetto determinante non è, a livello storiografico, c che al massimo il farne elemento di
giudizio servirà solo a « verificare e riscontrare » ciò che in quelle fonti era già contenuto? Questo atteggiamento rinunciatario e quasi reverente del Di Pietro di fronte alla storia dei libri di storia senera immediatamente la seconda
delle occasioni perdute. « Si può stabilire — il riconoscimento
di differenziati
egli infatti afferma —
assemblassi
tipologici,
strutturati
che se-
condo diversi gradi di gerarchia interna, è il criterio specifico di lettura e quindi di classificazione degli insediamenti medioevali » (p. 20). È singolare che in questa convinzione circa la validità di una classificazione dei centri medievali (sia pure concepita sotto il nuovo criterio dei « diversi gradi di gerarchia
interna ») il Di Pietro
si trovi
in dissenso
proprio
rispetto al Detti; ma soprattutto è sconcertante che il Di Pietro, dopo aver redatto diciannove delle quarantadue schede sui centri toscani, non condivida l’impossibilità concreta, sostenuta dal Detti con buona ragione, di costringere l’originalità dei fenomeni urbanistici (e particolarmente di quelli medievali) in schemi o in elenchi di schemi (p. 18). Non si accorge cioè il Di Pietro che nessuno, e nemmeno il Detti, giudica le schematizza-
zioni illegittime in se stesse, purché però esse non costituiscano un ostacolo al capire. Ma questo è appunto il caso. Ciò che sostiene a questo stesso proposito il Sestan, e che il Di Pietro riprende, è senz’altro fuori discussione. È vero infatti che « anche la storiografia, come ogni altra scienza, sia della natura che dello spirito, ha bisogno di concetti generalizzanti. Fra i due rischi, quello di cadere e di smarrirsi nella molteplicità dell’individuale concreto, e quello di scivolare nella generalizzazione tipicizzante, ma astratta, nel senso di non
essere
perfettamente
aderente
a nessun
caso
concreto,
questo
secondo
rischio è ancora il minore; e lo corriamo anche noi, come lo corre ogni storico,
42 a dispetto della pura logica della conoscenza storica » (in Italia medioevale, 1968, pp. 91-92). Ma la validità di questo principio va verificata caso per caso in rapporto alle tematiche che si stanno affrontando, altrimenti si arriva alla generalizzazione della generalizzazione. Certamente il secondo tipo di rischio di cui parla il Sestan viene corso molto spesso e molto volentieri dagli storiografi di cui il Di Pietro si propone di confutare o di comprovare i risultati. Ma accanto a questa storiografia costruita sui libri dei contabili, dei notai, dei giuristi, dei cronisti,
aristocratica per vizio d’origine, è possibile costruire un’altra storiografia, ricavata da un’analisi condotta città per città, borgo per borgo, casa per casa, vigna per vigna, e quindi popolare per vocazione. In altri termini, non si tratta di stabilire in questo caso se un tipo di schema sia preferibile a un altro, ma di ricercare quale sia il metodo di indagine che può realmente fornire contributi nuovi e quali le fonti su cui una storia urbanistica si può conseguentemente fondare. Gli schematismi non sono mai serviti per conoscere meglio cose
cose nuove, bensì, al massimo, per organizzare
che già si sapevano;
e comunque,
anche
nella più rigorosa
delle classificazioni scientifiche, è sempre saltato fuori qualche ornitorinco a ingarbugliare le schede. L’uomo non è un mammifero anfibio con il becco d’anatra che respira a due polmoni
fa la tana
sott'acqua
e vi depone
le uova:
è qualcosa
di ancora più complicato da classificare, almeno storicamente. Già dobbiamo superare un grosso ostacolo snoseologico quando ci proponiamo di valutare
con
gli strumenti
di oggi il comportamento
di gente
vissuta
sette o otto secoli fa; aggiungere a questo, in via previsionale, anche l’approssimazione metodologica degli « assemblaggi tipologici » è come mettere i paraocchi a una talpa. Manifestamente è impossibile trattare di problemi storici senza generalizzare; ma generalizzate programmaticamente
è sciocco.
Per esempio.
il Di Pietro
raccoglie
dal Sestan (p. 22)
che « nessuna città che non sia stata città vescovile di antichissima data mai raggiunse un grado singolarmente alto di sviluppo comunale » e si appoggia su questa generalizzazione per ricavarne una prima distinzione. nella casistica urbana della Toscana medievale, « tra città come Firenze, Lucca, Pisa, Arezzo, Siena, di fondazione o ristrutturazione romana, che mantengono nel medioevo fondamentalmente l’unità territoriale originaria (la figura giuridica della civitas comprende indistintamente l’urbs e lager), e che attraverso l'insediamento e la giurisdizione territoriale vescovile, pervengono all’assetto comunale come soggetti attivi di un’autonoma politica territoriale, e le città o aggregati intermedi, centri minori
di una rete territoriale ‘ spontanea ’, di origine o sviluppo propriamente medioevali, posti all’interno del contado (che mantiene attraverso la diocesi la dimensione della civitas romana) nel raggio d'influenza delle città egemoni ».
Pertanto,
presumibilmente,
centri
come
San
Gimignano
o
Prato, che non sono « di fondazione o ristrutturazione romana » né sede
di diocesi da antichissima data, precipiterebbero automaticamente nella tipologia di quei centri che, oltre a essere « di non alto sviluppo comu-
43
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26. Distretto di Prato in età feudale (Fiumi).
44
nale », risulterebbero anche collocati « all’interno del contado nel raggio d’influenza delle città egemoni ». Enrico Fiumi sente invece il bisogno di problematizzare di più. « Vi sono — egli scrive — alcune città-stato che, dopo avere esteso la loro sovranità su tutta la diocesi (salvo qualche isola di resistenza feudale) si accrescono a spese dei comitati più deboli. Tra quelle città emergono Pisa,
che
si inoltra
nei
territori
volterrano,
populoniese,
lucchese,
e
Firenze, la quale, assimilato il comitato fiesolano, penetra nelle diocesi volterrana,
pistoiese,
senese,
aretina.
Né
Pisa
né Firenze
tollerano
che
nel loro territorio si consolidi, sia per impulso proprio, sia per eredità di giurisdizioni feudali, l'indipendenza dei comuni minori. Cosî vediamo, per esempio, che nel comitato volterrano si formano i comuni di Colle Valdelsa e di San Gimignano; in quello lucchese i comuni di Pescia e San Miniato; in quello aretino i comuni di Montepulciano e di Cortona, ecc. È perciò un fatto eccezionale che il distretto di Prato sia venuto componendosi a spese del comitato di Firenze, e più eccezionale ancora è che nel periodo consolare e podestarile i fiorentini non si siano seriamente imposti la rivendicazione del territorio diocesano della valle del Bisenzio. È evidente che, al sorgere ed all’espandersi vigoroso del comune di Firenze, il distretto pratese si presentava già come un nucleo politica-
mente ed amministrativamente omogeneo, dotato di forza e tradizioni proprie, non facilmente intaccabili » (Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato, dall’età comunale ai tenzpi moderni, 1968, pp. 3, 4).
Nella rigida regola stabilita dal Di Pietro col concorso basata
sostanzialmente
sulla continuità
diocesi e del contado comunale,
tra territorio
del Sestan,
della civitas,
della
non rientrerebbero dunque né l’espan-
sionismo egemonico di Pisa e Firenze né l’autonomia, conservata per lunghissimo tempo, di centri come Prato, San Gimignano, Colle Valdelsa, Pescia, San Miniato, Cortona, Montepulciano, ecc. Se la regola è valida,
le eccezioni sono molto pesanti. Ma, in realtà, non è difficile capacitarsi che approfondendo l’analisi avpena un poco al di fuori degli schemi preconcetti si scoprono
aspetti più vari, e assai più interessanti sotto il
profilo dell’organizzazione politica del territorio, di quelli troppo frettolosamente sintetizzati dal Di Pietro. Probabilmente però la tendenza a chiudere in schemi alcuni problemi che invece sarebbe più utile trattare in maniera più aperta deriva al Di Pietro da una precisa (ma forse non del tutto consapevole) scelta storiografica. Infatti gli autori su cui egli si appoggia e dei quali riassume i risultati Critici si sono distinti proprio per essersi affrontati sulla defini-
zione di alcuni parametri storici generali di cui, a lungo andare, si è rivelata la sostanziale inutilità scientifica. Infatti tali parametri tendevano a variare solo che si desse maggiore o minore importanza a questa o a_ quella fonte documentaria, e perciò agoiungevano ben poco alla comprensione interna dei fatti, poiché non portavano altri elementi nuovi di giudizio oltre a quelli che potevano servire in senso stretto alla dimostrazione di una determinata tesi. Il Di Pietro riferisce infatti ampiamente
45
sul dibattito
intorno
ai rapporti
tra
feudo,
castello,
contado
e città,
svoltosi tra il Caggese, il Volpe, il Vaccari, l’Ottokar, il Plesner, il Cusin (cfr. pp. 23-30); ma da questo dibattito egli raccoglie proprio le conclusioni più generiche e meno utili per una ricerca urbanistica, cioè proprio quelle « tesi storiche » che, prima ancora di costituite il risultato di un'indagine, spesso l’avevano diretta e condizionata. Invece la storiografia
toscana
è particolarmente
ricca di studi meno
schematici e più analitici che possono fornire contributi più significativi di quelli raccolti dal Di Pietro, solo che si guardi più alle notizie concrete che alle teorie generali. Singolare, per esempio, è che il Di Pietro non attinga già dal Davidsohn dati di particolare interesse come quello, ripreso polemicamente dal Plesner, riguardante il numero dei castelli nel contado fiorentino: uno o due prima del 900, undici prima del 1000, 52 prima del 1050, 130 prima del 1100, 205 nel 1200 (cfr. PLESNER J., L’érigration de la campagne è la ville libre de Florence au XIII° siècle, 1934, pp. 1, 2). La Storia di Firenze del Davidsohn è un lavoro che, inevitabilmente, mostra il peso degli anni (1896-1908 l’edizione berlinese), ma resta ugualmente uno dei capisaldi della storiografia sulla Toscana e una fonte preziosa
di notizie.
Quanto
al Plesner,
il suo
contributo
va assai
al di là di un « ribaltamento » delle posizioni del Caggese (e del Davidsohn):
a tale ribaltamento
infatti
egli arriva
non
contrapponendo
alla
« trovata romantica » della fuga dei servi della gleba dalla campagna verso la città « libera » qualche altra sua personale idea, ma rovesciando il metodo
di ricerca,
testimonianze
cioè analizzando
documentarie
sino
allora
minutamente poco
e ricostruendo
considerate
su
le migrazioni
interne avvenute nel contado fiorentino. Il Plesner apre quindi una nuova via storiografica, feconda di risultati e ancora oggi seguita metodologicamente. Non per caso al Plesner si richiama spesso uno degli studi recenti di maggior rilievo sulla storia sociale della Toscana: l’opera di Emilio Cristiani su Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa, che il Di Pietro ignora, forse considerandola troppo specifica, e perciò non pertinente alla sua ricerca. Eppure in quest'opera vengono toccati assai da vicino parecchi argomenti ripresi dal Di Pietro; anzi, il Cristiani prende le mosse proprio da uno spunto polemico nei confronti di certe conclusioni del Volpe, il quale. in un suo studio del 1902, aveva affermato che nella seconda metà del XIII e nella prima metà del XIV secolo la residua nobiltà era
ormai « esausta economicamente. abbattuta politicamente dalle leggi della borghesia, con poche terre feudali rimaste dopo la vendita o la forzata cessione
al Comune,
con
le consorterie
minate
dai vari ordinamenti
di
giustizia », aggiungendo più avanti che « mentre altrove, per esempio a Firenze, il massimo esodo dalle campagne alla città si ebbe nel primo secolo della vita comunale, attorno a Pisa invece. dopo la grande immigrazione del secolo XI che quadruplicò
in pochi decenni
l'ampiezza
dell’abitato,
non mai le cagioni che spingevano a cercare entro le mura una maggior sicurezza della persona e dei beni furono così forti come nella seconda
46 metà del secolo XIII » (Pisa, Firenze, Impero al principio del 1300 e gli inizi della Signoria, in Studi storici, XI, pp. 200, 201 e pp. 293, 295). Il Cristiani, in relazione a queste tesi del Volpe, si propone di « indicare alcuni nuovi risultati, in base ai quali questa visione della storia comunale di Pisa si dimostra inesatta ed appare deformata soprattutto per effetto degli orientamenti storiografici allora prevalenti, per quanto riguarda altri Comuni,
e particolarmente
Firenze » (Nobiltà, ecc.,
1962,
p. 15). Anche il Cristiani, come il Plesner, contrappone agli schemi del Volpe un metodo storiografico meno teorico, più analitico e capillare. L’esigenza di un approfondimento —
egli osserva —
si avverte non solo
per il limitato periodo che il Volpe affronta, ma « anche da un punto di vista più generale, poiché questi stessi problemi sono andati soggetti a riesame nei decenni che corrono dagli studi del Volpe ad oggi; di particolare importanza è il fatto che siano state confutate le tesi del Salvemini che al Volpe avevano fornito una delle principali fonti di ispirazione. Occorre oggi tener conto di quanto è stato scritto per Firenze
dall’Ottokar e dal Plesner, per Bologna dalla Fasoli, per Modena, Siena, Vicenza e altri Comuni dal De Vergottini, etc. Sposteremo la ricerca sulla
vita delle singole famiglie cittadine osservando se il loro comportamento, le condizioni della proprietà, della vita economica e dei rapporti fra i rami delle diverse consorterie convalidano o negano quanto è stato affermato in sede di interpretazione storica generale » (p. 17). È possibile non vedere quanto una ricerca così condotta possa costituire un valido
elemento
di confronto
per un’indagine
storico-urbanistica
che si pro-
ponga di studiare una città casa per casa?
Ma, anche senza
discostarsi
dalla interpretazione
storica generale, il
Di Pietro avrebbe avuto modo di ricavare da questo studio interessanti indicazioni. Per esempio, il Cristiani mette in rilievo alcune esagerazioni o generalizzazioni dello stesso Plesner, facendo tra l’altro notare la fretta con cui l’Einaudi, dando ad esse completo affidamento, aveva considerato senz’altro « demolita » la leggenda della fuga dei servi verso la città. Tuttavia, muovendo proprio dalla ricerca del Plesner, il Cristiani ne svolge e approfondisce tre aspetti fondamentali: l’esistenza, accanto ad una migrazione verso la città di nullatenenti, di una migrazione spontanea di proprietari terrieri; il fatto che molti attigiani, già poco dopo l’inizio dell’esercizio del loro mestiere, risultino proprietari terrieti del contado
e proprietari di immobili
cittadini;
infine, la constata-
zione che, prima della metà del XIII secolo, si era già in larga misura verificata la suddivisione o la dispersione delle maggiori proprietà di origine feudale che avevano un’estensione di tipo latifondiario (cfr. pp. 176-179). Ma soprattutto
interessante
per
la storia
urbanistica
è la tesi
di
fondo sostenuta dal Cristiani e dimostrata via via con tutta una serie di documentazioni dettagliate, cioè l’illegittimità di distinguere economicamente, socialmente e perfino fisicamente gli abitanti della campagna da quelli della città e, all’interno della città stessa, l’illegittimità della
47 contrapposizione sistematica dei concetti di popolo e di nobiltà. « Nobiltà e popolo, magnati e popolo — scrive il Cristiani — non sono due entità assolutamente distinte e contrapposte. Esistono, nonostante le proibizioni più solenni, i punti di contatto; esistono zone di passaggio, azioni di compromesso tra gli uni e gli altri, che troppo spesso non sono state sufficientemente messe in luce » (p. 73). E ciò si verificava quando nel Comune i vari gruppi di potere avevano già sufficientemente delineato la loro conformazione politica. Ma agli inizi del XII secolo la situazione sociale era ancora più ibrida, poiché « non va dimenticato che proprio il concetto e la struttura della nobiltà vengono formandosi in questi anni e che, d’altra parte, alla fine del secolo è già sicuramente consolidata una tradizione
di potenza
di queste
famiglie,
che, ad un
certo
momento,
vengono, esse stesse, definendosi nobiltà » (p. 65). Come non cogliere dunque in senso globale il valore di questa problematica riportando al tema urbanistico la questione dello stretto legame esistente
tra città e territorio,
coinvolti
entrambi
nelle
stesse
sociali? E come non vedere, parallelamente, il pericolo di un’analisi urbanistica secondo lo schema del « riconoscimento renziati assemblaggi tipologici strutturati secondo diversi gradi chia interna », come vorrebbe appunto il Di Pietro, quando tale già sul piano sociale, tende a rivelarsi fittizia? Di particolare rilievo, a questo proposito, è l’osservazione stiani che le attività commerciali delle famiglie magnatizie pisane contemporaneamente a quelle della borghesia, avevano rapporti mercio
terrestre
e
specialmente
col
commercio
marittimo)
vicende
condurre di diffedi gerargerarchia, del Cri-
(le quali, col com-
« sono
una
riprova che non esisteva una chiusura della nobiltà di fronte alle attività della borghesia; non esisteva quella frattura fra il capitale mobile e il capitale immobiliare che fu tanto nettamente schematizzata nel giudizio dei rapporti tra magnati e popolo » (p. 158). Infatti la confutazione della distinzione assoluta tra capitale mobile e capitale immobiliare, cui erano ancorati studi ormai classici come quelli del Sombart, per gli aspetti più generali, e del Salvemini, per la storia comunale del XIII secolo, raggiunge il risultato non di rovesciare il problema dei rapporti tra proprietari terrieri o proprietari di immobili e commercianti o artigiani, tra nobiltà
e popolo, tra campagna
e città, ma di qualificarlo meglio, invitando a
cogliere più concretamente i reali termini economico-politici della storia comunale non tanto in un’astratta separazione o contrapposizione di classi
sociali, quanto piuttosto negli effettivi rapporti tra cittadino e cittadino, o meglio, in definitiva, nel problema dell’incostante equilibrio tra l’organizzazione
istituzionale
della società
comunale
e la ricerca perenne
di
posizioni di sempre maggiore privilegio da parte delle consorterie, delle famiglie o dei singoli individui economicamente più consolidati. Mancava infatti nella qualificazione di nobile. secondo il Cristiani, « una rigorosa distinzione di classe rispetto alle altre categorie sociali, e il significato suo era ravvicinabile a quel generico concetto di potenza e di prepotenza insito nel termine magnate » (p. 89). Contro tali forme di prepotere,
48
quindi, e non contro un astratto ceto nobiliare si volgevano le norme statutarie specifiche. La difficoltà maggiore nell’applicarle derivava proprio dal fatto che « tutte le leggi magnatizie avevano un largo margine di aleatorietà e di relatività, poiché variavano di anno in anno le caratteristiche del gruppo sociale da colpire, e veniva meno un elemento essenziale della loro validità: la netta individuazione delle persone cui dovevano applicatsi e riferirsi » (p. 75).
Anche senza che vi fossero « temperamenti » del tipo di quelli famosi introdotti agli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella, le vie che avevano
i magnati per inserirsi negli organi che teoricamente
dovevano
escluderli, o comunque per accedere alle leve del potere politico ed economico confondendosi in qualche modo tra le attività della borghesia, erano molteplici. Riferendosi a una constatazione del Volpe, che rimarcava la frequenza dei notai e dei giudici fra le famiglie designate con nomi indicanti la loro provenienza dal contado, il Cristiani fa osservare che « questi giudici e questi notai non nascono dal nulla, non sono nullatenenti che, venendo in città, prendono ad esercitare questo tipo di professione per crearsi una forma di sostentamento. Proprio il Volpe stesso ricorda che ‘in maggioranza’ essi risultano stanziati nel quartiere di Chinzica, quello appunto che conteneva gli strati sociali ‘più ricchi’ immigrati nei secoli XII e XIII. « Abbiamo ricordato — insiste il Cristiani — che il Plesner ha messo in rilievo che una grande maggioranza dei notai fiorentini provengono dal contado e appartengono alle categorie che possiedono già una certa e talora notevole agiatezza. Analogo è il caso di Pisa; anche qui molte famiglie di proprietari terrieri e di mercanti hanno tra i propri membri almeno un notaio o un giudice, e talora ne hanno parecchi, e sono famiglie di gente immigrata in città da tempo o di recente, o da qualche decennio. L’analogia con le altre osservazioni del Plesner vale anche per altre professioni artigianali. Non dimentichiamo che per le famiglie magnatizie l'esercizio di un’artte poteva essere lo strumento adatto per arrivare a qualche carica di governo. Anche per il Comune di Pisa, le notizie di
famiglie di artigiani recentemente immigrate dal contado non devono necessariamente prendersi come esempi di famiglie venute in città solo per sfuggite ad uno stato di miseria. D'altra parte, la presenza della immigrazione di forti proprietari è pure documentabile. A questo stesso elemento fa pensare la cura con cui il Comune
cittadino, come
il Plesner
notava, si preoccupava di discaricare i comuni rurali delle quantità estimali riguardanti le famiglie che si trasferivano. Questa preoccupazione sarebbe stata meno sentita se si fosse trattato soltanto di famiglie povere » (pp. 184, 185).
Volendo svolgere in senso urbanistico queste osservazioni, assumendone che alla crescita delle città fu tutt’altro che estraneo il contributo economico delle campagne, diviene lecito porsi il problema di quale relazione potesse correre tra la forma delle città medievali (particolarmente nel XII e XITI secolo) e la consuetudine di una vita rurale diversa-
49
mente organizzata, costituzionalmente più libera e per certi aspetti anarchica, non legata comunque
come
a vincoli sociali così precisamente
quelli esistenti nelle principali città. Mentre
chiaro, ad esempio,
che la trasformazione
articolati
infatti è abbastanza
della casa-torte
in casa vera
e propria, con ambienti distribuiti in orizzontale anziché in verticale, seguì di pari passo il rafforzamento dell’istituto comunale (quali che siano poi le implicazioni politiche e anche urbanistiche di questo fatto), più problematiche sono le cause del sorgere e del moltiplicarsi delle totti, almeno al di fuori di questa relazione tra città e campagna, visto che sarebbe assai difficile poter spiegare il fenomeno come originato e alimentato esclusivamente dalla rivalità degli artigiani e dei primi piccoli commercianti, che secondo gli storiografi di una volta sarebbero stati i primi propulsori della rinascita delle città. In secondo luogo, anche quando il possesso di una torre risulta in stretta relazione con una
proprietà fondiaria
« nobiliare », come
spesso
avviene, diventa assai difficile spiegarne l’esistenza con giustificazioni di carattere meramente formale, o anche come un sistema escogitato da un feudatario inurbato per sottolineare la propria persistente autonomia e il proprio isolamento anche all’interno della cinta muraria. In realtà la torre fa sempre parte del tessuto organico della città non solo in senso urbanistico ma anche in senso politico, poiché la sua presenza testimonia la volontà del proprietario di inserirsi di fatto nella vita sociale del comune, sia pure con spiegabili pretese di egemonia militaresca. A Pisa, fra le famiglie nobili che nella seconda metà del XIII secolo conservavano proprietà fondiarie nel contado, « molte possedevano una torre e la conservarono fino in pieno Trecento; altre una /oggia, un palazzo, una piazza o un chiasso. Il prestigio che ne derivava è attestato dal fatto che a questi tipi di immobili aspiravano le più importanti famiglie di Popolo, e specialmente quelle che, per posizione sociale o in virtù delle parentele, erano molto vicine al ceto nobiliare-magnatizio. Vedremo fra queste proprio le famiglie che prendono maggior parte alla vita politica, come i Gambacorta, pp. 146, 147).
gli Alliata,
i Raù, i Dell’Agnello,
etc. » (Nobiltà,
Un discorso analogo è possibile anche per San Gimignano. Il Di Pietro pone San Gimignano tra le « città dell’aristocrazia agraria inurbata » (p. 32); ma anche in questo caso egli non concorda col Fiumi, il quale, pur avendo un’impostazione ideologica diversa rispetto al Cristiani,
ma suffragando anch'egli il suo lavoro coi risultati di un’analisi condotta famiglia per famiglia, arriva su questi temi a conclusioni strettamente affini. « La tradizione popolare — afferma infatti il Fiumi — si compiace di ravvisare nei costruttori delle poderose torri dei secoli XII e XIII uomini di origine nobiliare, mossi da sentimenti ideali e cavallereschi, estranei a tutto ciò che sapesse di bottega e di traffici. Tutte fantasie, che cominciarono a maturare, qui come altrove, nella mente dei poeti e dei cronisti trecenteschi, pervasi dall’ambizione di nobilitare le origini proprie e delle famiglie che dominavano la vita politica e sociale del loro
50
tempo. Eccettuati pochi e circoscritti casi, le generazioni che elevarono e munirono le belle torri sangimignanesi sono generazioni di mercanti e di usurai » (Storia economica e sociale di San Gimignano,
1961, p. 91).
Il Di Pietro non può non conoscere questa posizione del Fiumi, perché la scheda relativa a San Gimignano (redatta però dal Fanelli, pp. 298311) attinge abbondantemente a questo suo studio. Eppure egli tratta San Gimignano, insieme con Colle Valdelsa e Sansepolcro, alla stregua di un consorzio di nobili riuniti dal giuramento di castellanza, posto, almeno in origine, « a costituire monopolio delle possibilità economiche offerte dalla città ». Anzi, secondo il Di Pietro, « anche se nel loro seno si sviluppano le grandi casate di mercanti e banchieri, il ceppo originario è quello aristocratico-feudale ed è questa la nuova classe egemone che, in quanto classe e non più come singolo signore, come nel castello, genera la città. Il rapporto strutturale non è più tra la corte e il tessuto omogeneo, ma tra le case torri dei nobili e un tessuto minore, di servizio, che comincia a stratificarsi nella misura in cui queste città diventano mercantili e imprenditoriali » (Città murate, p. 32).
Con quali argomenti il Di Pietro giustifica il suo dissenso dal Fiumi o, per meglio dire, rispetto al più serio e argomentato lavoro storiografico sinora pubblicato su San Gimignano? Semplicemente con nessuno. Neppure le cinquanta pagine di « cenni » sulla genealogia e sulle condizioni sociali ed economiche delle più note famiglie sangimignanesi (circa 140 in tutto), che il Fiumi riporta in appendice e che confermano analiticamente quanto la monografia contiene, lo inducono a convincersi dell’opportunità di inserire almeno una parentesi dentro la rigida casistica degli assemblaggi tipologici.
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27. San Gimignano.
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Anche il più recente studio su Prato dello stesso Fiumi arriva del sul medesimo problema, a conclusioni non diverse. « Esiste per — egli scrive — una importante documentazione circa l’intensità emigrazione rurale verso il capoluogo. Tra il 1138 e il 1144 le distrettuali
di S. Giusto,
S. Paolo, S. Ippolito,
S. Maria
resto, Prato della pievi
a Colonica
e
S. Maria a Filettole, l’abate di Grignano ed il priore di S. Fabiano sono in conflitto con il proposto ed i canonici di S. Stefano. Quei pievani, l'abate e il priore, vedendo grandemente scemare le loro entrate pei effetto dell’inurbamento delle classi rurali, pretendevano di continuare a ricevere le decime e le oblazioni dagli antichi parrocchiani, i quali,
essendosi stabiliti in Prato, le pagavano invece al proposto di S. Stefano. La contesa, alla quale parteciparono, oltre la propositura e le pievi di contado, i consoli di Prato ed il vescovo
di Pistoia, assunse
toni molto
aspri. Il papa, davanti al quale la controversia era stata portata, sentenziò ripetutamente a favore della chiesa madre di Prato. È il conflitto che, ad un certo momento della storia comunale, sorge in ogni municipio toscano tra coloro i quali, temendo un danno per le proprie finanze, ostacolano l’inurbamento e coloro, specie la classe mercantile rappresentata dai consoli, che lo incoraggiano. Il documento pratese comprova
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28. Ampliamento medievale della città di Prato (Fiumi).
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che la corrente dell’immigrazione urbana è costituita borghesia di contado: prestatori, commercianti, notai, prietari terrieri. Tutti costoro, disponendo di redditi vano la fonte degli introiti fiscali degli enti religiosi
in gran parte dalla quasi sempre pronotevoli, alimenta» (Derzografia, pp.
13, 14).
È ovvio (poiché altrimenti non vi sarebbe stata la materia del contendere) che questi immigrati
avevano
conservato
nel contado
i loro beni
e i loro possedimenti, né è illegittimo presumere che, con l’arricchirsi dei proprietari, anche tali beni e possedimenti tendessero ad accrescersi piuttosto che diminuire. Ciò conferma quindi l’interscambio economico esistente tra città e contado, ma sottolinea anche la progressiva importanza che andava assumendo la disponibilità di capitali insieme con la possibilità di manovtarli. Tale movimento di capitali e di interessi investe così sia la città che la campagna; il problema può essere di stabilire come e in che misura. Confesso di essere stato io stesso un troppo fedele partigiano del Plesner quando scrivevo che « le torri e le case torti possono giustificarsi solo se si pensa che persone già potenti altrove vennero a misurare il loro prestigio politico nella città, trasferendo in essa i modi di vivere che avevano quando vivevano nella campagna: abituati allo splendido isolamento dei loro possedimenti terrieri, quando si spostarono in città continuarono pet un certo tempo a vivere, l’uno a fianco dell’altro, isolati uno dall’altro per mezzo delle muta delle loro torri » (Lucca Edilizia,
urbanistica medievale, 1965, p. 22). A questo aspetto del problema, infatti, ritengo ormai che si debba affiancare l’ipotesi di un riflusso dell’economia cittadina verso le campagne e, conseguentemente, di una serie di interventi urbanistici provocati in queste dagli accumuli di capitale cittadino in cerca di investimenti, oppure, più direttamente ancora, da cittadini proprietari terrieri che desideravano rafforzarsi politicamente anche nei loro possedimenti fondiari, magari a danno della libertà e dell’autonomia dei villani. In altri termini, può essere legittimo supporre che certe cinte murarie, certe fortificazioni, certi castelli del contado possano essere il risultato di operazioni politiche cittadine del tutto estranee rispetto alla storia edilizia di un determinato centto rurale, nel quale invece noi saremmo oggi propensi a leggerli come impianti urbanistici di rilievo omogenei con l’abitato, se non addirittura come generatrici della forma urbana. Abbiamo visto che gli studi del Salvemini su Magnati e Popolani (1900), i quali tenevano conto precipuamente degli Ordinamenti di Giustizia fiorentini, ossia della più rigida e compatta organizzazione delle Arti e delle istituzioni di popolo esistente in Toscana, hanno generato grosse deviazioni storiografiche negli altri studi riguardanti altre città, nonché la stessa Firenze, che poi li hanno seguiti muovendosi su binari paralleli. Sarebbe in effetti impossibile studiare la vita politica fiorentina del XIII-XIV secolo senza tenere presenti gli Ordinamenti di Giustizia, come sarebbe assurdo non considerare gli altri testi giuridici esistenti prati-
53
camente in tutti i centri toscahi, maggiori e minori. Ma l’equivoco sorge quando di una norma si tende a dare un’interpretazione assoluta,
considerandola,
solo perché vigente, universalmente
applicata e attuata.
Molto spesso, invece, una verifica fatta capillarmente sul comportamento dei singoli cittadini rivela che essa era piuttosto universalmente disattesa
0 comunque
abbondantemente
elusa o frodata.
In certi casi, addi-
rittura, ci si rende conto che una determinata norma deve essere intesa alla rovescia, poiché la sua esistenza sta solo a significare che la massima parte dei cittadini si comportava al contrario di quanto veniva prescritto.
Ciò non deve sorprendere. La giurisprudenza medievale ricostruiva a poco a poco i princìpi del diritto romano (nella sostanza, anche se non sempre nella forma) attorno al cardine dell'impegno collettivo a tutelare e garantire la proprietà privata individuale. Ma ciò non avveniva sotto l’autorità di un unico garante né attraverso l’esercizio di un’unica magistratura.
Esistevano
curie regie, marchionali,
comitali e vicecomitali,
che
furono gradatamente esautorate nelle città dalle autorità comunali; esistevano giudici imperiali e papali, che potevano o non potevano amministrare la giustizia nell’ambito dei comuni a seconda che questi lo consentissero
o no;
a Pisa, che è la più antica sede toscana
del diritto,
in un primo tempo i giudici cittadini venivano nominati dai consoli e dal popolo,
successivamente
solo dai consoli, e potevano
stioni, a loro arbitrio, sia secondo (cfr. A. D’AMIA,
Diritto e sentenze
la legge che secondo
dirimere
le que-
le consuetudini
di Pisa ai primordi del rinascimento
giuridico, 1960, pp. 89 e segg.). Abbiamo già visto anche che le famiglie più importanti avevano nel loro seno giudici e notai, sia a Pisa (Volpe e Cristiani) che a Firenze (Plesner). Non è quindi arbitrario affermare che, non per ragioni astratte o legate a particolari fenomeni di corruzione, ma per la stessa natura
del diritto che allora si applicava, i margini di discrezionalità del giudice rispetto ai testi scritti erano assai sensibili, mentre probabilmente, anche per la dipendenza diretta dell’esercizio giuridico dal potere politico o
addirittura dall’esecutivo, i giudici avevano minore libertà di azione di fronte a coloro che li avevano nominati e in rapporto agli interessi di famiglia o di casta che in qualche modo essi rappresentavano. Non è
il caso, d’altra parte, d’idealizzare sotto questo profilo la società medievale. Una valutazione realistica della situazione economica e politica di allora tenderebbe a indurre la convinzione che la vera legge allora vigente fosse quella del miglior profitto, e che i testi scritti costituissero piuttosto
delle trappole tese per coloro, politicamente meno difesi, che la convenienza o l’opportunità inducevano a prevaricare o ad emarginare. Questo in senso generale. In particolare, si può dire che gli Ordinamenti di Giustizia testimoniano la volontà e la capacità politica di porre un freno alla « superbia » (il termine
è negli Statuti fiorentini) di quei
signori che si avvalevano delle loro torri per guerreggiare con i loro vicini e per risolvere alla maniera forte le contese cittadine. Ma occorre rilevare che, anche in questo caso, la norma riflette per evidenti motivi una situa-
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zione politica già consolidata, piuttosto che crearla, cioè tende a spostare sul piano del diritto quelle questioni che sino allora erano state risolte preferibilmente attraverso la contesa armata. Però, se cambia la gestione del potere negli strumenti e, forse, negli uomini, non è detto che cambi anche la base del potere, cioè la ricchezza. A meno che non si vogliano interpretare le torri come effusioni architettoniche di aristocratici votati al suicidio economico, esse vanno considerate alla stregua di necessari
investimenti edilizi attuati per difendere e consolidare i propri capitali, comunque formati. Un fenomeno può essere quindi preso in considerazione: la coincidenza cronologica nella costruzione delle torri cittadine e delle pievi o cappelle nelle campagne. Il periodo di massima intensità di questo fenomeno non è il medesimo nei vari comprensori toscani, ma approssimativamente si sta fra i primi decenni del XII secolo e i primi decenni del XIII. Il problema cronologico delle torri non è stato studiato sinora con sufficiente rigore, ma le norme statutarie concernenti la loro limitazione in altezza da un lato e i numerosi documenti testimonianti il possesso di una torte o di una casa con torre dall’altro non lasciano grossi margini di insicurezza riguardo alla periodizzazione di massima. Vi sono, natural-
mente, come
le eccezioni, e spesso si tratta proprio delle torri più celebri, quella alberata
dei Guinigi
a Lucca, che è del XIV
secolo;
ma
proprio le diverse modalità costruttive, come in questo caso l’impiego esclusivo del laterizio in luogo della pietra, ne sottolineano talvolta l’appartenenza ad un diverso periodo. Invece tra alcune torri cittadine e alcune pievi o chiese non battesimali del contado non è raro riscontrare affinità costruttive,
come
l’uso di bozze estratte
dalle medesime
cave di
pietra e lavorate secondo la stessa tecnica di taglio, se non addirittura secondo le stesse misure. Questo parallelismo, anche sulla scorta della contesa pratese citata dal Fiumi, non può che ricollegarsi, per le pievi, al buon andamento della riscossione delle decime nelle campagne e al contemporaneo rafforzamento politico ed economico dei possessori delle torri cittadine. Questo può essere un altro elemento, posto ormai che ve ne sia bisogno, a conferma della simbiosi economica e politica esistente fra città e contado. Veramente superata e incredibilmente generica appare oggi l’affermazione del Gutkind che « le cittadine del Medioevo europeo crebbero in opposizione alla campagna » e che « esse costituivano luoghi di libertà, per la soppressione della signoria feudale » (Comunità in un mondo senza stati, in « Urbanistica », 1950, 6, p. 21); ugualmente tramontata è da considerare la convinzione, espressa dallo stesso Gutkind, che « il commercio tra i vari territori urbani si sviluppò lentamente, ma, verso la fine del Medioevo, esso aveva raggiunto un alto grado di intensità » (ibiderz, p. 22). A parte l’indeterminatezza della cronologia, studi neanche troppo recenti hanno dimostrato che opinioni di questo genere traevano origine da un difetto di informazione, piuttosto che da elementi storici concreti. « Una diffusa concezione storiografica — scrive Ottorino Bertolini —
95:
vide nell’età degli stanziamenti germanici l’avvio all’affermarsi ed al prevalere nell’Occidente europeo di un tipo di economia chiusa, fondata sulla forzata ricerca dell’autosufficienza dei singoli centri locali, nel senso che in ciascuno di essi produzione e consumo formavano un ciclo il quale si esauriva nel suo ambito interno. Sarebbe stato un tipo di economia in cui pesava soprattutto l’attività dei centri aziendali delle campagne, delle curtes, onde si parlò e si parla di sisterza curtense. I centri rurali di produzione e di consumo si sarebbero resi pienamente indipendenti dalle città, le quali si sarebbero invece ridotte a centri di puro consumo. I pagamenti in denaro sarebbero andati scomparendo per deficienza di specie metalliche, e sarebbero stati sostituiti con i pagamenti mediante scambi di generi in natura.
« È tuttavia una concezione — dai risultati
di studi (fondamentali
osserva
il Bertolini —
quelli del Dopsch),
contraddetta
che dimostrano
la documentabilità continua, anche nei territori di stanziamento germanico, dei traffici interni e fra paesi anche distanti, anche separati dal mare, attraverso le vie sopravvissute della mirabile rete stradale ereditata dall’età imperiale e le tradizionali rotte marittime, fluviali e lacuali. Continuavano ad esserne oggetto vini, olio, profumi, spezie, vesti e stoffe di lusso, preziosi. Gli stanziamenti germanici agirono anzi come fattore di più sentiti o di nuovi bisogni, valido incentivo dei movimenti delle merci e dei prodotti desiderati nell’ambito del mondo che era stato romano. Neppure i movimenti dell’oro e dell’argento subirono una flessione tale da determinare la scomparsa del denaro come mezzo di pagamento » (I Germani, in Storia universale, III, 1, 1965, pp. 319, 320).
La situazione non si modificò né in età longobarda né in età carolingia; e non c'è dubbio che durante l’alto medioevo, per via di terra o per via d’acqua, le merci viaggiassero. Insieme con le merci viaggia-
vano i tramiti del sapere: i libri, i dipinti, le sculture e perfino gli elementi architettonici. Il particolarismo intellettuale cominciò molto dopo: un fenomeno autoctono e chiuso in se stesso come il Quattrocento fiorentino
sarebbe stato inusitato ai tempi di Lupo di Ferrières. Parallelo al particolarismo intellettuale fu il particolarismo economico. Il potere delle grandi casate di banchieri toscane crebbe sul regresso demografico, sulla rovina economica delle campagne, sul commercio di un bene fittizio (il denaro) in luogo dei beni reali, costituiti dai manu-
fatti e dai prodotti agricoli. Se vi fu un indebolimento reale dei traffici commerciali, questo si verificò (se non in Europa certamente in Toscana)
dal XIV secolo in poi: lo testimonia la stotia economica di Pisa, di Prato, di San Gimignano, di tutti quei centri toscani che, per conquista violenta o per lenta asfissia, gli usurai senesi e soprattutto fiorentini consumarono
fino al crollo politico e sociale. Ciò che determinò, in realtà, l'aumento della ricchezza sia nelle città
che nelle campagne, almeno fino ai primi decenni del XIII secolo, non fu la ricomparsa ectoplasmatica del commercio come sistema economico, bensì il ricostituirsi di una forma di plusvalore collegata verosimilmente
56
alla maggiore disponibilità di generi sottratti o sottraibili all’immediato consumo, e quindi commerciabili. Questa maggiore disponibilità di beni di consumo era possibile ad una sola condizione: che si ricostituisse e si stabilizzasse la proprietà fondiaria. Infatti proprio intorno a questo tema ruotano le vicende e le lotte della prima età medievale, dai processi fittizi per usucapione promossi dai monasteri alle investiture feudali rese possibili dal ricostituirsi dell’autorità imperiale che ne garantiva i diritti. Non per caso il fenomeno esplode soprattutto nel momento in cui il feudo, che è pur sempre una concessione in uso, si trasforma in diritto di proprietà. Solo la piena e indiscussa disponibilità del fondo consentiva infatti di imporre ai naturali abitanti delle campagne di produrre di più rispetto al loro fabbisogno reale oppure di comprimere i loro consumi per destinare al commercio un’aliquota dei prodotti. Ne consegue che, essendo assai labile e parziale l’amministrazione del diritto, essendo altresì impossibile interpretare le torri cittadine come facezie architettoniche, ed essendo perciò manifestamente necessario acquisire e garantire la proprietà fondiaria con qualcosa di meno cartaceo che una concessione imperiale o marchionale o comitale o vicecomitale, molto probabilmente, nello stesso periodo in cui nelle città le torri si infittivano, anche nelle campagne doveva cominciare a verificarsi qualcosa di analogo, destinato ugualmente a stabilizzare le proprietà dei signori e il loro diritto di farle fruttare. Si può presumere che questo qualcosa fosse diretto soprattutto a limitare le libertà dei naturali abitanti delle campagne, il cui lavoro era ovviamente alla base della formazione dei surplus commerciabili e quindi dell'accumulo di ricchezza da parte dei loro proprietari. Non c'è dubbio quindi che anche parecchie idealizzazioni del sistema feudale e del regime che ne conseguì, esistenti nella storiografia corrente, vadano rivedute in maniera quanto meno più realistica. Nelle storie generali si legge che il sistema feudale raggiunse la sua maturità tra il X e il XII secolo. Definirlo, da un punto di vista istituzionale, non sembra difficile. Esso consiste « in una gerarchia di vincoli di dipendenza da uomo a uomo, in cui i gradini più alti sono occupati da una classe di guerrieri di professione ed il vertice è tenuto. dal re. Vi si accompagna un frazionamento territoriale, dal quale hanno preso il via istanze autonome locali, che esercitano secondo i propri fini ed a proprio vantaggio poteri normalmente attribuiti e riservati allo stato, portando così al frazionamento,
oltre che del territorio, del potere e del-
l’autorità pubblica » (G. FasoLi, universale;
‘LV, 1; 1960x-p.
Il mondo
feudale europeo,
in Storia
104).
Ma forse appunto in questo sta la caratteristica principale del feudalesimo, cioè nella facilità con cui esso può essere definito schematicamente e nella parallela difficoltà di valutare le conseguenze specifiche del citato frazionamento sia del territorio che dell’autorità e del potere, restando indefinita la casistica delle situazioni politiche, sociali e personali che un ordinamento del genere era suscettibile di generare. Ben precisati potevano essere i vincoli che legavano l’inferiore al superiore, fissati all'atto della con-
DI)
cessione del beneficio, ma al di fuori di questi l’arbitrio era completo. « Assolto il loro dovere nei confronti del signore — osserva ancora la Fasoli a proposito di questo, trattando delle occupazioni dei feudatari — essi si ritenevano liberi di fare tutto ciò che a loro pareva. Se potevano ammettere qualche limitazione alla loro volontà, al proprio capriccio, era in senso ascendente, nei confronti del loro signore diretto, ma non mai in senso
orizzontale
nei confronti
dei loro pari e non
mai
in senso
discendente, nei confronti degli inferiori. « Guerrieri di professione — spiega ancora la Fasoli —
amavano la guerra come gli sportivi amano lo sport; mirabile occasione l’una e l’altra
di dare prova di robustezza, di agilità, di coraggio, di virile accettazione della fatica, della sofferenza, del pericolo, della morte. Le guerre tra signori nemici erano frequenti e feroci. Ben di rado avevano vasti e profondi motivi, politici ed economici, di interesse generale. Per lo più nascevano da questioni particolari, individuali, che si sarebbero facilmente potute
risolvere
davanti
a una
sentenza
di tribunale.
Ma
molto
spesso
la guerra scoppiava improvvisa per il più futile dei motivi, per un’offesa o una mancanza di riguardo vera o presunta, pet questioni di puntiglio, per una vecchia o nuova rivalità, per affermare la propria potenza. Erano scontri, zuffe, colpi di mano, ma soprattutto devastazioni di terre coltivate e di villaggi di coltivatori dipendenti dall’uno o dall’altro dei contendenti, o di terzi che ci si trovavano in mezzo; razzie di bestiame, saccheggi,
uccisioni di povera gente che non si poteva difendere. Quando non c’era guerra aperta, il passatempo preferito erano le battute di caccia e i tornei: vere battaglie che finivano con morti e feriti e prigionieri da riscattare a tutto vantaggio di chi aveva avuto la fortuna di catturarli » (ibiderz,
pp. 120, 121).
Va bene. Ma, se queste erano le attività dei feudatari, sia pure in aggiunta ai servizi (per lo più militari) resi al rispettivo signore, quali erano le forze produttive che avevano il compito di provvedere, oltre che a se stesse, anche a nutrire e mantenere allegri questi giocherelloni? Chi ricostruiva i villaggi, chi ridava vita alle campagne devastate e razziate, chi reintegrava le perdite demografiche provocate dalle loro scorribande? La Fasoli, sintetizzando l’opinione di molti suoi colleghi, sostiene che «l'autorità dei signori feudali crebbe ancora quando guerre private, incursioni saracene, normanne, ungare fecero sorgere un po’ dappertutto dei castelli, intorno a cui si polarizzarono le popolazioni angustiate e terrorizzate, chiedendo protezione e disposte a sottostare alle pretese dei castellani, che erano guerrieri di professione, inclini ad usare ed abusare della forza per imporsi a chiunque. I castelli divennero così centri di formazione di altrettanti distretti, ben definiti nei loto confini, nei quali tutti i poteri pubblici erano esercitati dal castellano: amministrazione della giustizia, riscossione delle multe, imposizione dei servizi militari di guardia, di tributi diretti e indiretti, di prestazioni d’opera, con un’arbitta-
rietà che solo alla fine del sec. XI e agli inizi del XII cominciò ad essere
58
limitata e regolamentata sia dalla resistenza organizzata dei dipendenti, sia dalle autorità centrali, intente a ricomporre sotto di sé l’unità dello Stato » (ibidem, p. 114). Entrano così in giuoco i famosi servi della gleba, « ces pauvres serfs des livres d’histoire », come
li definisce bonariamente
il Plesner.
L’im-
magine dei coloni spauriti, che si rifugiano sotto la protezione del castellano come i pulcini sotto le ali di una chioccia buona, ha intenerito generazioni di sedicenni sui banchi liceali. Ma non è difficile cogliere qualche contraddizione negli argomenti della Fasoli. Infatti la chioccia buona, così provvida e difensiva all’arrivo dei predatori, subisce un’improvvisa metamorfosi e si trasforma in ignobile sanguisuga quando si ripaga disponendo a proprio comodo del lavoro, dei beni, della stessa libertà personale dei suoi protetti, fino al punto da indurre seri dubbi sulla salute mentale di questi villani che, per ripararsi dalle sporadiche razzie dei saraceni, incappavano volontariamente nelle estorsioni legalizzate e continue dei feudatari. Ma sarà mai possibile che questi poveri servi dei libri di storia, dei quali il Plesner dice di non trovare traccia fra gli immigrati cittadini, non esistessero neppure nelle campagne?
Intanto può nascere il sospetto che il concetto del feudatario-chioccia e del colono-pulcino abbia un’origine unicamente visiva, cioè derivi proprio dall’immagine di tanti castelli (che poi, in realtà, sono più spesso rocche, cioè corti recintate e munite e quindi non destinate all’abitazione del signore) appollaiati sulla cresta di un colle con il paese ai piedi, fatto di umili case, sostanzialmente indifeso. Infatti una cosa è sicura: questi
poveri servi dei libri di storia, che non facevano baruffe né guerre personali, che non avevano tra i congiunti né giudici né chierici, che non avevano modo di litigare con i potenti davanti ai tribunali, che al massimo troviamo a far da vittime in qualche scorreria o da teste prezzolato in qualche processo per usucapione, hanno lasciato una minima traccia di sé nelle cronache e in tutti gli altri documenti cartacei sui quali si basano i libri di storia. La loro presenza, più che documentata, è stata intuita. In un mondo fatto di gente occupata continuamente a dare le più svariate dimostrazioni di litigiosità oppure, nei momenti di pausa, ad ammazzarsi per burla, qualcuno che lavorava bisognava pure che ci fosse. E chi poteva essere, se non appunto i servi della gleba, a provvedere di cibo e di svaghi sì nobili padroni, in cambio delle belle ricompense che la Fasoli descrive? E quale poteva essere la loro residenza abituale, se non il paese ai piedi del castello, ultimo visualizzato gradino della piramide gerarchica che aveva per vertice il sovrano?
Quanto poi ai decreti di affrancazione emanati dai comuni, i quali, più di ogni altro documento, hanno contributo alla costruzione del mito dei servi della gleba nella sua accezione più rigida e schematica, essi sono pochi e sospetti. Il Lopez li definisce « bene intenzionati, anche se non disinteressati ». Il primo di questi, secondo quanto il Lopez riporta, sarebbe la Concordia giurata nel 1210 sulla piazza di Assisi: i cittadini
>)
« maggiori » e « minori » aboliscono tutti i diritti feudali e le prestazioni servili sull’intero territorio del comune. Gli antichi padroni ricevono però un indennizzo dagli antichi servi e hanno la proprietà della terra. In questo modo, evidentemente, il vero beneficiario del provvedimento era proprio il padrone, il quale riceveva un compenso dai suoi ex-servi in cambio di un atto puramente formale (i coloni, allontanati dalla terra, non avrebbero avuto prospettive concrete di sopravvivenza e quindi avrebbero dovuto continuare, sia pure sotto diverso nome, il precedente rapporto di lavoro), ma soprattutto si vedeva confermata o conferita la proprietà del fondo, che agli effetti pratici era l’unico strumento valido per mantenere i coloni in un rapporto di dipendenza e di sfruttamento. « Il Memoriale bolognese del 1257 — scrive il Lopez — ‘ che a buon diritto si deve chiamare del Paradiso ’, fa un passo avanti: come nel Paradiso, prima del peccato originale, l’uomo è nato libero, così devono essere liberi tutti gli abitanti dello stato di Bologna. Il comune, ‘che ha sempre combattuto per la libertà’, pagherà agli antichi padroni a titolo di riscatto dieci lire per ogni adulto e otto lire per i minori di quattordici anni; dopodiché, iscriverà gli affrancati nei ruoli dei contribuenti. Paradiso, sì — conclude il Lopez — ma con le tasse » (La nascita dell’Europa, 1966, p. 309). L’interesse del comune a tassare questi « servi » dipendeva dal fatto che essi non erano degli schiavi nullatenenti ma persone legate alla terra, talora fornite di propri beni, o comunque tassabili sui redditi da lavoro. Essi, a quanto risulta da parecchi documenti privati, potevano sì essere venduti, permutati, donati, dati in pegno, ma sempre in stretto legame col tipo di attività che svolgevano e in una col fondo che essi coltivavano o addirittura col territorio nel quale risiedevano (nel 1226 i conti Guidi vendettero al vescovo di Firenze Monte di Croce « et omnes homines et fideles et masseritias dicte terre »). Al limite, questa forma di mercato delle braccia poteva diventare una garanzia per i coloni che, col passaggio della proprietà, non avrebbero perduto il legame con la loro terra e quindi ogni possibilità di lavoro e di sostentamento. Da parte padronale ciò che più contava erano le possibilità concrete di appropriazione e di sfruttamento del lavoro agricolo; le forme giuridiche atte
a
questo
scopo
avevano
importanza
molto
minore
e
un
carattere
spesso occasionale. Il Fiumi riporta un documento apparentemente paradossale, con il quale un certo Ragionerio vende nel 1086 per cento soldi
« partem quod est zzedia pars de una persona servo iuris mei nomine Ugo cum filiis et filiabus... et cum omnibus servitiis et peculiis suis ». È da rilevare che i « peculia » sono « sua », cioè di Ugo, e Ragionerio li vende lo stesso; ma soprattutto, che specie di servo era questo, che poteva essere venduto per metà come si trattasse di una casa o di un terreno? Evidentemente ciò che poteva essere diviso in due non era la sua persona, ma erano i « servitia », ossia le prestazioni d’opera, e presumibilmente i frutti
concreti di queste prestazioni. Il Fiumi riporta tutta una serie di documenti analoghi, egualmente significativi. Nel 1092 alcuni « vendunt et tradunt... unam personam no-
60
mine
Petrus »; nel 1158
altri « tradunt...
integram
terram
vineam
et
homines residentes in eis »; nel 1207 Ruggero e Iacopo d’Ugo Giandonati vendono al vescovo di Firenze un resede posto a Petriolo, nel piviere di Giogoli, con i coloni, gli uomini e ogni loro avere; nel 1226 c’è la citata cessione di Monte di Croce al vescovo di Firenze con tutto quello che vi stava sopra; in territorio senese, nel 1185, si ha la cessione di « quendam meum villanum cum eius toto tenimento »; nel 1212 si ha la vendita
di due villani con le famiglie, i loro beni e le loro prestazioni d’opera; nel 1220 si ha la vendita di Brunetta « villanam meam cum toto podere »;
nel 1224 un certo Pagano del fu Paltonerio di Romena « donat, dat, tradit... personam Iacobi de Martino Rubeo de Mandriolis coloni et residentis sui cum heredibus et cum resedio et tenimento cum eius rebus et bonis et cum servitiis et redditibus »; nel 1247 a Torniella, nelle Maremme, « vendo et trado meos homines et villanos cum podere et tenimento ».
Ma in ogni caso la questione va vista, oltre che nell’ambito della già ricordata precarietà del diritto, anche in rapporto alla complessa politica comunale, che poteva portare ad atteggiamenti contraddittori in occasioni politiche che richiedevano diversità di comportamento e potevano quindi portare all’assunzione di deliberazioni o alla stesura di norme giuridiche contrastanti tra loro in via di principio. Il Fiumi fa rilevare appunto tutta una serie di contraddizioni di questo tipo e, rifacendosi agli statuti senesi e fiorentini, sostiene che come norma generale in realtà il comune riconosceva e sanciva il pieno dominio del padrone sui villani e garantiva il diritto di costui a ricondurli sul fondo, quando essi ne fossero fuggiti; in caso contrario, il peculio e i beni del villano sarebbero passati al padrone. Nei fatti, invece, non mancano
esempi di diverso comportamento
(ne
vedremo alcuni anche più avanti), quando il Comune si fa garante delle libertà e dei beni di « fideles » altrui che decidano
di passare sotto la
protezione (e sotto il fisco) comunale. In ogni caso, anche a giudizio del Fiumi le affermazioni di principio contenute nel Paradisus voluptatis bolognese del 1257 o nella provvisione fiorentina del 1289 vanno ridimensionate e ricondotte alla volontà di creare strumenti giuridici che, pur facendo appello a princìpi universali di libertà, nella sostanza servivano a soddisfare limitate esigenze politiche municipali, spesso specificamente dirette contro questo o quel signore che si cercava per varie ragioni di indebolire (cfr. Fioritura e decadenza dell'economia fiorentina, II, pp.
482-487).
Può essere invece interessante osservare che tutti i provvedimenti pubblici e parecchi dei documenti privati citati dal Fiumi, che testimoniano sia queste occasionali affermazioni di principio pseudo-libertarie sia, soprattutto, quel particolare tipo di colonìa garantito dagli statuti comunali che veniva a configurarsi come un vero rapporto di servitù personale, appartengono al XIII secolo, ossia al periodo di più intensa trasformazione produttiva e di più fervido incremento dell'economia delle campagne.
61
Inoltre il Fiumi rileva che, con il consolidarsi delle istituzioni comunali,
lo strumento fiscale viene applicato anche nel contado « con sempre maggiore frequenza e autorità »; addirittura « infittiscono le file di coloro che davanti al notaro, preposto a censire gli uomini del comitato, si dichiarano di condizione servile », e ciò dipenderebbe, secondo il Fiumi, dalla convenienza fiscale di non figurare come alloderi ma come lavoratori dipendenti (ibidem, pp. 489-491). In realtà, c'è materia sufficiente per sospettare che questo tipo di colonìa tanto simile alla condizione servile fosse più specifico della società comunale che non della società feudale, almeno se si guarda alle cose concrete e non alle affermazioni cartacee. La vecchia corrente storiografica, alla quale era così cara l’immagine del villano che con dedizione si sottomette spontaneamente al feudatario munifico e protettivo finché non arriva il comune democratico che lo scioglie anche da questo vincolo liberatamente assunto, sostanzialmente non è mai stata in grado di penetrare in chiave economico-politica i fatti della società medievale. Il mito dei servi della gleba va senza dubbio interamente ridimensionato, probabilmente anche a livello di storia europea. Il Lopez ricorda che il termine inglese krighf (« cavaliere ») ha la stessa radice del tedesco Krecbt (« servo »). Tutta la poesia trovadorica, dalla Provenza al Portogallo, è la monotona ripetizione del medesimo tema: il poeta che si offre di « servire » la donna che ha eletto a sua « signora » esattamente
nella stessa
forma,
sia pure idealizzata,
con
cui un
« cava-
liere » si offre di « servire » il suo signore e padrone. C’è da chiedersi quanto questo tipo di rapporto servile avrebbe potuto essere idealizzato o magari confuso
con la cavalleria
se esso
avesse
avuto
la concretezza
del rapporto di colonìa dugentesco, oppure quanto nobile esso sarebbe apparso se fosse stato dettato dalla paura di normanni, ungari, saraceni,
eccetera. In realtà si può pensare che chi ha costruito l’immagine del feudalesimo partendo dai documenti
cartacei si sia trovato quasi inavvertita-
mente e suo malgrado a considerare questi problemi con la visuale rovesciata. Prendendo come base di partenza il feudo, ossia la concessione di vari e non sempre precisati diritti di sfruttamento su una determinata porzione di territorio, ne sono venute di conseguenza la teoria del rapporto servile, più o meno volontariamente assunto dai villani, e quindi
la mitografia dei servi della gleba poi liberati dal comune democratico. Se invece si assume come punto di partenza l’esistenza di comunità agricole autonome alle quali il vincolo feudale veniva imposto da un’autorità autocostituitasi come sovrana, allora la visuale si rovescia, poiché si andrà non dalla schiavitù feudale verso la libertà comunale, bensì da una
situazione di autonomia dei villani, resa possibile dalla piena disponibilità della terra, verso un loro progressivo assoggettamento che passa attraverso la concessione feudale per arrivare al pieno diritto di proprietà del suolo garantito ai padroni dall’organizzazione politica comunale. Non considerare la possibilità di un tale rovesciamento della visuale storiografica o semplicemente continuare a idealizzare la società medievale
avendo fiducia che l'aumento della ricchezza sia andato di pari passo con la conquista di sempre maggiori libertà può indurre seri equivoci anche nelle ricerche di chi si occupa di storia urbanistica, almeno quando la storia dei libri di storia viene presa per un a priori. Così il Di Pietro, dopo avere passato in rassegna le tesi storiche generali del Caggese, del Volpe, del Vaccari, dell’Ottokar, del Plesner, del Cusin, ne ricava che non è dato
di riscontrare « un’esatta corrispondenza tra la ricca fenomenologia di assetti sociali messi in luce dagli storici e gli assetti fisici permanenti » degli agglomerati urbani; e tuttavia, nonostante questa constatazione che avrebbe potuto indurlo a rimeditare in senso urbanistico l’intera materia, finisce per assumere come proprio schema quello gerarchico-feudale, accettando quindi di fatto, anche se non a parole, l'impostazione storiografica più vieta e discutibile. Egli riduce infatti a tre tipi fondamentali i quarantatre centri presi in esame: il castrum omogeneo, « connesso probabilmente a un’unica classe di coltivatori, liberi o meno », il castello-residenza feudale, « ove la strut-
tura urbana è risolta dalla contrapposizione di un tessuto residenziale omogeneo, privo di gradazioni interne, e di un polo emergente, la rocca o resi-
denza feudale, nucleo formativo di tutto l’assetto urbano », e un « tipo intermedio », corrispondente « alla fase storica dell’usurpazione del castello e successiva costruzione del cassero o della torre da parte del dominus
loci».
Quest'ultimo
tipo intermedio
però, secondo
il Di Pietro,
sarebbe « meno significativo, in quanto tale manufatto emergente rappresenta un innesto successivo alla formazione del castello, privo del potenziale organizzativo che si manifesta nella residenza feudale originaria » (Città murate, pp. 30, 31). E chiaramente questa fiducia nella capacità pirgopoietica del potenziale organizzativo che si manifesterebbe nella residenza feudale deriva al Di Pietto proprio dall’aver accettato, senza discutere, la tesi del feudatario come produttore di civiltà a tutti i livelli e perciò, nel caso specifico, conditor urbis. Invece, se mettiamo quanto meno un punto interrogativo alle tesi del Volpe e dei suoi epigoni, si aprono delle prospettive di analisi che il Di Pietro sembra non vedere. Al Di Pietro sfugge, pet esempio, la sostanziale identità fra i tre tipi di castrum che egli ipotizza solo che si faccia astrazione dalla presenza delle fortificazioni. Gli sfugge anche la sostanziale diversità di tessuto urbano tra centri nati sicuramente per ragioni di strategia militare e altri centri (« omogenei », « usurpati » 0 « castelli-residenze feudali ») di cui non è documentariamente accertabile l’ori-
gine. Gli sfugge infine che, fra i tre tipi, il più interessante storiografici (è anche urbanistici, evidentemente) è proprio « usurpato », poiché esso prova l'inserimento entro un tessuto presumibilmente connesso « a un’unica classe di coltivatori (ma coltivatori?), liberi o meno
infrastrutture militari. Se in zioni, che questo fenomeno e cioè che la massima parte
agli effetti il castrum omogeneo, perché solo », di un elemento estraneo, costituito dalle ipotesi risultasse, sia pure con le dovute ecceè più generale di quanto il Di Pietro accerti, delle fortificazioni o delle residenze fortificate
63
è posteriore alla nascita dei villaggi che le contengono, non solo diventerebbe impossibile considerare la rocca o residenza feudale come « nucleo formativo di tutto l’assetto urbano », e conseguentemente il relativo feudatario come provvido pirgopoieta, ma crollerebbe anche l’intera costruzione storiografica dei servi della gleba che ai piedi della rocca o residenza feudale avrebbero cercato difesa e protezione. Proprio le quarantadue schede di catalogo del volume sulle città murate, lette in maniera diversa o integrate quando del caso, possono invece fornire indizi, se non prove, della necessità di rivedere tutto il problema
al di fuori delle tradizionali mitografi e molto spesso in contrasto con queste. Naturalmente non tutti i centri elencati nel catalogo sono suscettibili di dare indicazioni utili a questo tipo di rilettura, per cui un certo numero di essi possono essere esclusi o al massimo presi come termine di riferimento cronologico per le fortificazioni che essi contengono. Portoferraio e Fivizzano, ad esempio, sono di formazione o di consolidamento troppo recente per rientrare nel problema, né è possibile ricavare contributi utili da centri come Signa o Montevettolini la cui lettura, per dichiarazione degli stessi autori delle schede, è assai problematica. Anche Lucignano, in definitiva, non pone problemi per ragioni opposte, cioè per la limpidezza del suo impianto, che non dovrebbe lasciare dubbi circa l’autonomia del suo sviluppo. D'altro canto grossi centri come Colle Valdelsa, San Gimignano, Pescia, che hanno una storia urbanistica assai complessa, non consentono di essere presi a testimonianza per una questione che in defi-
nitiva è definibile con una certa precisione solo in nuclei abitati di ridotte dimensioni.
29. Càscina.
30. Buonconvento.
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Vi è poi una serie di schede riferite a centri di pianura o di fondovalle, come Bientina, Cascina, Buonconvento,
Sansepolcro e altri, che sa-
rebbe ugualmente difficile ricondurre al tema dei centri fortificati di origine
31. Scarperia.
33. Figline.
34. Lastra a Signa.
65
feudale. Bientina, ad esempio, sorgein pianura, in una posizione strategicamente
importante
per i rapporti
tra Pisa e Lucca, posta tra l'Arno
e il lago semiprosciugato che da essa prendeva il nome; ha planimetria ortogonale, « tipica dei centri di colonizzazione », torri angolari nelle mura e un edificio fortificato in mattoni a nord-est, « forse sede del capitano ». Ma non c’è niente che possa testimoniare una presenza feudale, nonostante l'interesse antico che quei luoghi offrivano alle frequenti beghe intercomunali e interdiocesane che parecchi documenti testimoniano. Egualmente, Cascina non offre spunti di rilievo: la cittadina sta a cavallo della via fra Pisa e Firenze, sulla riva sinistra dell'Arno, ha planimetria ortogonale e perimetro quadrangolare. Può essere confrontata con Bientina e Buonconvento anche per le sue difese, che furono realizzate dai pisani verso la fine del XIV secolo, quando la decadente repubblica marinara aveva pressante bisogno di munirsi contro i fiorentini (la pieve di S. Maria, però, è del XII secolo). Come
Cascina, Buonconvento
occu-
pava una posizione di grande rilevanza politica, sulla via Cassia, alla confluenza dell’Arbia con l’Ombrone; ha planimetria regolare, salvo la curva della via principale che l’attraversa. Il paese forse preesisteva alle fortificazioni: le mura sono del 1366 e la rocca del 1372, secondo quanto riferisce il Repetti. Così anche Sansepolcro, che si è sviluppato ordinatamente, con vie ortogonali, lungo la via Maestra, con il carattere di centro
mercantile. Analoghi a questi sono altri centri, con schema interno geometricamente regolare e fortificazioni per solito tarde, come Figline, Lastra a Signa, Malmantile,
Montevarchi.
La loro forma urbana
non
si discosta
molto da quella di alcune città fondate di cui conosciamo con buona esat-
35. Castelnuovo Garfagnana.
5.
36. Pratovecchio.
66
tezza la data di nascita, come Pietrasanta (1242), San Giovanni Valdarno (1296), Scarperia (1306), Montecarlo (1333; ma si tratta in realtà della
rifortificazione di un centro già esistente). Leggermente più complesso è l’assetto di Castelnuovo Garfagnana, posto fra il Serchio e un suo affluente e delimitato su tre lati dai due corsi d’acqua. Il paese è organizzato intorno alla piazza centrale (piazza delle Erbe); la rocca, che si fa risalire al XII secolo, è periferica rispetto al nucleo delle case, essendo
collocata all’esttemo ovest dell’abitato, cioè sull’unico lato non protetto dai due corsi d’acqua. Chiaramente il paese non si è organizzato in funzione
di essa, ma
viceversa.
A Pratovecchio,
poi, nonostante
lo stretto
legame esistente con la politica dei Guidi, non vi sono rocche interne alla cinta muraria, ma conventi;
le mura
sono comunque
del 1334.
Vi è poi una serie di piccoli centri nati per esigenze esclusivamente strategiche, come Serravalle Pistoiese che, secondo quanto riporta il Di Pietro, « ha avuto nel tempo un ruolo territoriale univoco di caposaldo militare:
ancora
nell’Ottocento
(cfr. vecchio catasto) la funzione era evi-
denziata chiaramente dalla struttura urbana fatta essenzialmente di un vasto, irregolare recinto murato contenente un esiguo aggregato residenziale di non più di trenta case » (Città murate, p. 360). Non diverso è il caso di Monteriggioni, tipico castello, come vuole il Plesner, posto dai senesi a guardia della Cassia verso gli inizi del XIII secolo, il quale appunto per questo motivo non ha avuto mai la funzionalità di un paese. Anche per Staggia, a detta del Di Pietro, « il carattere fondamentale di caposaldo militare si evidenzia anche oggi nel rapporto tra la dimensione rilevantissima delle opere di difesa e il tessuto edilizio interno, connesso alla funzione successiva e attuale di modesto centro agricolo, come pure nel rapporto tra le parti costruite e le ampie porzioni interne di suolo coltivato, destinate ad assicurate una certa autosufficienza durante gli
37. Serravalle Pistoiese.
38. Monteriggioni.
67
assedi » (p. 372). Però qualche dubbio può sorgere circa questa presunta origine militare di Staggia perché, a differenza di Monteriggioni, di Serravalle e di altri centri nati come presidio militare lungo un percorso stradale importante, qui la via Cassia entra dentro l’abitato e quindi alle fortificazioni. Comunque
la cinta muraria è tarda (1372), mentre
il castello
è distaccato dall’abitato e collocato tra questo e il ponte con il quale la Cassia attraversava lo Staggia. Calenzano sorge su un colle isolato in mezzo alla pianura. Il Plesner lo cita come tipico esempio di castello ghibellino, il Di Pietto lo classifica come « castrum con cassero », collocandolo cioè tra i « castelli usur-
pati ». A dire il vero non si capisce bene che cosa ci fosse da usurpare, perché il paese non c'è. Anche oggi gli spazi verdi compresi entro il recinto fortificato superano le aree costruite. L’omogeneità e il tono sostenuto delle architetture non militari, l’impiego diffuso dell’alberese ben squadrato (materiale non certo alla portata di eventuali servi della gleba) testimoniano piuttosto un intervento unitario fatto dalla mano di un potente. Comunque le poche case che ci sono formano un insieme del tutto disorganico e non funzionale, molto lontano come qualità dal tessuto rigoroso degli agglomerati nati e modellati sulle necessità pratiche di una comunità organizzata. Anche per Vertucole, che fu centro politico importante e dove le fortificazioni che sovrastano l’actocoro sono preponderanti rispetto all’esiguo filo di case che si svolge più in basso, si potrebbe forse parlare di centro nato come caposaldo militare; ma la qualità archi-
39. Staggia.
40. Calenzano.
68
41. Verrucole
(Lunigiana).
tettonica delle poche abitazioni rustiche, simili alle case senza tempo di altri piccoli nuclei non fortificati della Lunigiana e della Garfagnana, potrebbe anche nascondere una vicenda opposta. In ogni caso, le fortificazioni rimaste sono trecentesche. Vi sono poi due centri, Albiano e Massa, sorti su un colle ma sprovvisti di rocca, insieme con altri quattordici che hanno invece la rocca o
la residenza feudale: da questi appunto si possono trarre le indicazioni più interessanti. Albiano, che il Di Pietro classifica « castrum omogeneo », non presenta problemi particolari, nel senso che esso testimonia già nella sua struttura l’esistenza di una comunità che si organizza autonomamente in un villaggio non dominato dalle infrastrutture militari di un feudatario. Esso ha una forma ordinata, pianta ellittica, abitazioni omogenee, chiesa esterna al nucleo più antico. Sorge su uno sperone, incassato su tre lati dentro una specie di vallea e aperto sul quarto verso il Magra, in corrispondenza del più antico ponte costruito sul fiume. Riguardo all’origine di Albiano, il Di Pietro ripotta le opinioni del Conti, che appellandosi al toponimo farebbe risalire il paese all’età romana, e del Volpe, che la riconduce alla politica vescovile, tendente a creare nuove « sedi di lavoro, di ricchezza, di forza militare ». Ma si può essere molto più precisi. Il Codice Pelavicino contiene l’atto di fondazione di Albiano, che fra l’altro è abbastanza tardo (1266). L’iniziativa della costruzione del nuovo
« castrum» era partita da un gruppo di abitanti della zona, non nuovi a un’esperienza del genere, poiché appena trentacinque anni prima (la data — 1231 — si ricava dallo stesso documento) avevano cominciato a co-
struire il « castrum » di Belvedere, abbandonando poi probabilmente l'impresa a causa delle troppe difficoltà. Il documento del Codice Pelavicino, di cui do tradotta la parte iniziale, recita così:
« In nomine Domini
amen. Nell’anno
1266, indizione
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42. Albiano (Lunigiana).
IX, 15 di luglio, Mazzolo, capitano degli uomini di Albiano, e Ferro, sin-
daco degli uomini della detta campagna di Albiano secondo quanto contenuto nell’atto pubblico scritto di sua mano da Iacobino di Santo Stefano notaio e rogatario, venendo in presenza del signor Guglielmo per grazia di Dio vescovo di Luni, alla cui giurisdizione e signoria essi e i detti uomini della campagna di Albiano dicevano di appartenere, come gli altri uomini del comitato lunense, chiesero umilmente che, essendo appunto assai difficile spianare (‘ retificare ’) e abitare il ‘castrum’ che era detto Belvedere a causa delle asperità del luogo e non potendo lì agevolmente vivere e rimanere, si degnasse di dare a loro autorità e licenza di congregarsi in un altro luogo più adatto e di fortificarvisi con mura, fossati e altre difese adeguate, e di abitare e stare perpetuamente essi e i loro eredi come castellani e vassalli e fedeli della chiesa lunense e di stare e abitare in essa liberamente. A questo scopo il signor vescovo deve con-
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siderarli come considera o deve considerare gli altri ‘castra’ e gli altri castellani del comitato lunense, ed essi tutti insieme e singolarmente e i loro eredi siano tenuti in perpetuo a servire e a obbedire al signor vescovo e ai suoi successori in tutto e nelle singole cose, così come sono tenuti gli altri uomini e vassalli e castellani del comitato lunense. In conseguenza di ciò il medesimo
signor vescovo, in accoglimento delle loro
umili preghiere, avendo presente il vantaggio di essi e della chiesa lunense, concesse loro la licenza richiesta nel modo predetto. Il luogo dove si devono stabilire è il Groppo, che sta sopra la chiesa di S. Martino di Albiano, dove abiteranno;
e lì avranno
le case dallo stesso signor vescovo
e dai suoi successori come veri castellani e fedeli della chiesa lunense e in feudo, e per queste case e per l’altro territorio necessario per costruire il detto ‘ castrum’ il medesimo
signor vescovo sia tenuto a dare un con-
trovalore a coloro ai quali appattiene secondo la stima di onesti uomini, e la stessa cosa sia per l’altro monticello lì presso che si chiama Castiglione; e il ‘castrum’
sia chiamato Albiano » (cfr. Il Regesto del Codice
Pelavicino, 1912, pp. 417, 418). Le mura
dazione
(con qualche torrione) e il fossato di cui parla Patto di fon-
furono
effettivamente
costruiti;
la chiesa di S. Martino,
che è
appunto auella oggi esterna al nucleo più antico, evidentemente gli preesisteva.
La tarda datazione
non
consente
di inserire
in pieno Albiano
nella problematica dei centri nati in età feudale, ma l’episodio costituisce egualmente un raro esempio di come poteva nascere e con quale forma un « castrum omogeneo », sia pure fortificato. Qui infatti le difese si col-
43. Massa (Pistoia).
44. Cozzile.
71
legano organicamente alla forma dell’abitato e non costituiscono un fatto emergente rispetto ai rimanenti edifici. Come struttura Albiano ricorda assai da vicino il paese di Nicola, distante non più di un’ora di mulattiera, ed è probabile che tale affinità strutturale corrisponda anche ad un’analoga storia urbanistica. Per Massa e Cozzile sappiamo che le mura castellane furono imposte dai lucchesi dopo le contese del 1331 con Firenze. Il Di Pietro classifica Massa « castrum omogeneo » e Cozzile « castrum con cassero » (il castello attuale, però, è una
ricostruzione
sopra Massa esiste un hanno occupato: segno tazioni nella posizione a una certa distanza da Se Cozzile
avesse
avuto
in stile). Interessante
è osservare
che
falsopiano discretamente ampio che le case non che non si era sentito il bisogno di costruire abipreminente. Cozzile si trova ancora più in alto, Massa e collegato con questa da una mulattiera. anche
in origine una
rocca
o un castello (ma
purtroppo non è dimostrabile), ne risulterebbe che la gente di questi posti preferiva starsene nei centri non fortificati, poiché Massa, castrum senza
45. Caprìgliola.
72
cassero, ha una consistenza più che doppia rispetto a Cozzile. Si tratta, in ogni caso, di centri che conservarono una lunga autonomia. Caprigliola sta di fronte ad Albiano, sulla riva sinistra del Magra. Il Di Pietro scrive che, a differenza di Albiano, unità omogenea realizzata in una sola fase, Caprigliola presenta nella propria struttura i segni delle diverse fasi della sua storia civile. « AI suo interno sono riconoscibili tre distinte operazioni di formazione urbana: gli avanzi del cassero vescovile con la bellissima torre militare romanica (accanto alla quale sorgerà nel 1681 la nuova parrocchiale, poderoso volume a conclusione dell’assetto
formale della compagine urbana), in posizione emergente con il sottostante borgo (‘borgo soprano ’) caratterizzato dall’estrema irregolarità della formazione
fondiaria
‘a incastro ’; il successivo
borgo lineare,
forse
connesso alle iniziative del vescovo Enrico, strutturato su due strade pa-
rallele culminanti
in un unico punto difeso; il grandioso coronamento
delle fortificazioni medicee, ordinate da Cosimo I nel 1556 a consolidamento del ruolo strategico della città » (p. 90). Il vescovo Enrico, che
avrebbe fatto fare in Caprigliola « case e cassero », operò nella seconda metà del XIII secolo; circa un secolo prima (1183) Federico Barbarossa aveva concesso Caprigliola al vescovo Pietro. Si può quindi presumere che il paese esistesse prima del cassero. Perfettamente aderente all’icnografia stereotinpa del borgo feudale è Cetona, disposta ad avvolgimento intorno a un’emergenza tufacea sulla quale sono impostati la rocca e il suo ampio girone fortificato, libero da
costruzioni. Ma anche in questo caso né dall’esame delle strutture archi-
tettoniche né da testimonianze documentarie il Di Pietro è in grado di
46. Cetona.
47. Castiglione Garfagnana.
lE,
ricavare la preesistenza della tocca rispetto al paese, che ha in essa il suo centro geometrico, ma non il suo centro
urbanistico.
In Castiglione Garfagnana la rocca è posta nella parte più alta del colle e, secondo il Fanelli, essa costituisce « probabilmente » un primo nucleo, sotto il quale si è poi organizzato il paese. In realtà di ciò non vengono addotte prove, ma vi sono caso mai elementi contrari a una simile versione. Infatti la rocca è del tutto estranea alla viabilità interna e alla struttura urbanistica del paese, che sta a cavallo di una via medievale oggi non più praticata, dalla quale prendono orientamento anche le altre vie minori. Inoltre i torrioni circolari che corredano le fortificazioni hanno struttura assai simile a quelli, pure circolari, delle mura, che sono databili a dopo il 1371. Infine il nome di Castiglione è ricordato per la prima volta in un documento dell’VIII secolo e le fortificazioni che noi possiamo vedere non possono in alcun modo risalire a quel periodo, nel quale invece venne fondata la chiesa di S. Pietro. Per Coreglia il problema è più complesso. Sulla ubicazione della rocca attuale, che si trova in posizione più elevata rispetto al paese, non vi è discussione possibile: essa è tanto chiaramente periferica che soltanto recentemente (e purtroppo in maniera indecorosa) è stata raggiunta dall'abitato. La più antica rocca
peraltro
insicure,
sarebbe
dei Rodalinghi,
stata
poi costruita
sulla quale, secondo
la chiesa
fonti
di S. Michele,
avrebbe invece occupato una posizione nodale. Ma questa chiesa si inserisce così malamente nel tessuto viario, interrompendolo e deviandolo, che possono sussistere dubbi sulla consistenza delle fortificazioni indicate appunto col nome di rocca dei Rodalinghi. alle quali la viabilità, se avesse avuto uno sviluppo coerente col resto della trama urbana, avrebbe lasciato lo spazio di pochi metri quadri. Comunque, anche in questo caso, niente prova che la rocca preesistesse all’abitato. La pieve di S. Martino, costruita come di consueto fuori dell’abitato lungo la principale via di accesso al
paese, viene datata al IX secolo.
48. Coreglia.
ke
ce
49, n
74 Per Fosdinovo il Detti scrive che il castello, posto su un cocuzzolo roccioso facilmente difendibile, « è il nucleo primario e l’elemento generatore del paese come sede di abitazione.
Il notevole sviluppo del centro,
in rapporto alla sua posizione alta e isolata, oltre che al fatto di trovarsi lungo una strada che valicando poco sopra il monte conduce verso l’alta Lunigiana e la Garfagnana, si deve prevalentemente a una causa politica: Fosdinovo è stata infatti la sede stabile di un feudo che, come abbiamo veduto, mantiene la sua sovranità dal Duecento fino al Settecento » (p.
154). L’ipotesi del Detti potrebbe essere accolta, in considerazione della bassa cronologia, ma sempre tenendo presente che, anche in questo caso, non vi sono prove della preesistenza della cittadella rispetto all’abitato e che, comunque, staccando dal tutto la parte fortificata, che occupa una posizione estrema, la funzionalità del paese, quanto alle attività non mili-
tari, non ne verrebbe modificata né distorta. Con evidenza ancora maggiore a Pontremoli il castello del Pagnaro, che secondo il Fanelli avrebbe fatto parte del nucleo orginario, sta in disparte rispetto all’abitato, il quale si allunga per proprio conto lungo la via di fondovalle di qua e di là dal Magra. « Sarteano — scrive il Fanelli — ha origini antichissime, protoetrusche e italiche; nel periodo etrusco faceva parte dell’area d’influenza di Chiusi » (p. 346);
a ovest del centro
collinare fu scoperta una necropoli, che conferma l’antichità dell’insediamento. Perciò la forma attuale del paese non dovrebbe avere origini medie-
vali, ma assai più antiche: l’acrocoro sul quale sorge la rocca presumibilmente ospitava all’inizio l’acropoli. Ma il paese si sviluppa con percorsi tortuosi e involuti ai piedi di tale acrocoro, senza che questo venga coinvolto dalla viabilità, sia pure secondaria. Il Fanelli riporta che della fortezza si hanno notizie risalenti all’XT secolo, mentre quella che vediamo è del XIII. Come Sarteano, anche Monte San Savino avrebbe precedenti etruschi e perciò avrebbe potuto già alle origini costituire un’ottima sede per un insediamento di tipo castellare; invece tutte le fortificazioni, in-
terne e periferiche, risalgono al XIV secolo. Vicopisano presenta caratteristiche comuni
a molti altri centri colli-
nari: le case sono in basso, quasi a livello della pianura, mentre sulla sommità del colle vi sono ampi spazi verdi, dominati dalla rocca fatta
costruire dai fiorentini nel XV secolo. La presenza di torri private nell’abi-
50. Pontremoli.
75
51. Sarteano.
52. Vicopisano.
53. Poppi.
tato rende però assai improbabile l’esistenza di una fortificazione di data anteriore che le dominasse dall’alto. È molto interessante invece che l’unico edificio civile sorto accanto alla rocca sia il palazzo pretorio. Anche per Nozzano, situato in un punto nodale fra i territori di Pisa e Lucca e gemello di Vicopisano sia per forma che per posizione corografica e politica, non è possibile stabilire se le fortificazioni siano o no posteriori all’abitato: quelle rimaste sono comunque piuttosto tarde. Problemi più complessi pongono Poppi, Montopoli e San Miniato. Sono noti gli stretti rapporti esistenti tra le vicende di Poppi e la politica
76
dei Guidi (il Di Pietro classifica il centro casentinese tra le capitali feudali); eppure l’abitato si sviluppa tangenzialmente al colle sul quale si arrocca il castello dei Guidi. La strada che lo attraversa e lo definisce sfiora il nucleo castellare e prosegue fino al convento di S. Fedele (secolo XII). Una situazione non molto diversa è quella di Montopoli e San
Miniato, per i quali l'accostamento è inevitabile. Ambedue i centri sono infatti posti a breve distanza dal medesimo nodo stradale (l’incrocio fra la via Francigena-Romea
e la via Pisana-Fiorentina),
ambedue
si disten-
dono in un lungo nastro che segue il crinale di un sistema di colline, in ambedue la rocca è collocata in posizione emergente rispetto all’abitato, ma estranea rispetto alla viabilità principale. In entrambi i casi, con maggiore evidenza per Montopoli, risulta assai difficile pensare che la forma urbana sia stata determinata o comunque condizionata da esigenze difensive: che cosa vi può essere di più vulnerabile dei fianchi di un lungo serpente di case disteso su un crinale collinoso coltivato a campi, vigne ed orti lungo le sue pendici? Il Repetti, citando un capitolo degli Statuti del 1360, con il quale « si obbligano i proprietari delle case che hanno l'appoggio sulle mura castellane di mantenere a loro spese quel muro pubblico », ne deduce
che « Montopoli
era circondata
di muraglie » (Dizio-
nario geografico, fisico, storico della Toscana, 1835-46, v. « Montopoli »). In realtà ciò dimostra solo che nel 1360 Montopoli era fortificata, ma non che era « circondata » di mura, sia pure nel solo « borgo vecchio ». Anzi, l'appoggio diretto delle case sulle mura castellane, che esclude l’esistenza di un pomerio, prova che il loro valore strategico era assai relativo. Per San Miniato al Tedesco conviene fare riferimento diretto all’ampio e documentato studio della Cristiani Testi, al quale il Fanelli dichiara di
attingere. Scrive la Cristiani Testi che « i lineamenti topografici del sobborgo rivelano chiaramente l'attrazione centripeta esercitata dal castello il quale, caratterizzando sempre di più le sue funzioni difensive, diminuiva le possibilità di incremento demico, ma esercitava nel contempo una viva forza d’attrazione sul sobborgo stesso, garantendone la sicurezza da invasioni esterne. Un complesso rapporto di opposizione ed insieme di interazione legava dunque i due poli preurbani » (San Miniato al Tedesco, 1967, p. 24). Tuttavia è assai difficile trovare negli stessi argomenti addotti dalla Cristiani Testi una conferma circa l’« attrazione centripeta » del castello nei confronti del borgo: non c'è una conferma visiva, poiché lo sviluppo tangenziale dell’abitato rispetto alle fortificazioni, se trarre immagini dalla dinamica ha un senso, indica un’azione centrifuga, non centripeta; non c’è una giustificazione sociale, poiché la stessa Cristiani Testi riporta che nel XII secolo « la borgata, cioè il castrum, accoglieva le nuove classi agricole mercantili e artigianali, che vedevano nella ingerenza dell’autorità imperiale insediata nella Rocca un ostacolo alle proprie libere attività, e allo sviluppo economico del Comune, di cui proprio in quell’anno
(1172)
resta
menzione »; non
c’è il suffragio
di particolari
vicende storiche, le quali testimoniano piuttosto di un feroce conflitto d’interessi tra i borghigiani e gli imperiali, culminato in un accordo se-
Dari
greto fra i comuni di San Miniato, Firenze e Pisa per impadronirsi della rocca; vi è, anzi, un indizio contrario in un documento del 1172 (« castrum
intelligimus recuperatum, etiam sine superiore incastellatura »), che sottolinea la distinzione tra i due nuclei, in una con le loro diverse vicende politiche (cfr. op. cit., ibidem). Se si considera che San Miniato fu, per molti aspetti, un prototipo di insediamento feudale (gli stessi imperatori, in varie occasioni, vi stanziarono nel corso del XII e XIII secolo) tale distinzione assume un rilievo
particolare, poiché rappresenta in termini urbanistici il conflitto che si poteva creare (come in effetti si creava) fra il potere feudale e le organizzazioni politiche locali quando i rapporti fra impero e cittadini resi-
54. Montopoli.
78
denti erano mediati da una limitata scala gerarchica 0, come in questo caso,
addirittura
diretti.
Le vicende
militari
di San Miniato
dimostrano
d’altra parte che la presenza del castello o cassero (sempre ricordato come
« imperiale ») anziché fungere da deterrente contro eventuali aggressioni finiva spesso per attirare anche sugli innocenti borghigiani le ire dei nemici dell'impero. Inoltre la distinzione contenuta nel documento del 1172 tra « castrum » e « incastellatura » chiarisce anche nella terminologia la parallela distinzione di significato urbanistico che occorre in ogni caso istituire tra i due impianti urbani (civile e militare), coerenti spazialmente ma non necessariamente interdipendenti o subordinati l’uno all’altro. Perciò, in conclusione, dei quarantatre centri elencati nel catalogo delle città murate, non uno testimonia con assoluta certezza il mito storio-
grafico del castello feudale come elemento generatore del borgo ad esso collegato; al massimo, come per San Miniato, si può arrivare a verificare uno sviluppo parallelo nel tempo del castrum e dell’incastellatura, ma con indirizzi politici e urbanistici contrastanti, se non opposti. Quando un centro si forma per ragioni di carattere strategico, e nasce cioè come
fortezza, esso ha uno sviluppo abitativo condizionato e rachitico: Monteriggioni, Serravalle, Calenzano dimostrano che erano ben pochi i borghigiani disposti a vivere entro un recinto murato, nato come tale. La massima parte delle cinte murarie e delle fortificazioni elencate nel catalogo sono trecentesche; solo per via documentaria si riesce ad andare più addietro del XIII secolo. Quando in aderenza a un centro abitato c’è una rocca, sorga essa nel suo centro o alla periferia, mai può essere considerata un polo di attrazione o un centro urbanistico per le attività
degli abitanti; talora si ha invece l’impressione che il paese sfugga per la tangente rispetto alla base militare. Non esiste nessuna prova storica reale che la strategia della forza proposta dai feudatari come metodo di soluzione di problemi che tra l’altro i coloni non avevano esercitasse su questi una tale attrazione da indurli ad aggregarsi alla struttura castellare. Se si eccettuano i castelli espressamente costruiti come presìdi strategici, in tutti gli altri casi possono essere individuate precise ragioni economiche e sociali valide da sole a giustificare la nascita e la crescita di un paese,
55. San Miniato al Tedesco.
49
indipendentemente dall’esistenza delle fortificazioni che goli fanno da corredo. E non bisogna dimenticare che il catalogo del Di Pietro e del Fanelli è un elenco di « città murate », anche se ovviamente
non
vi sono
con-
tenuti tutti i centri fortificati della Toscana. Ne resta fuori una considerevole quantità di villaggi, nati e cresciuti senza la protezione di un muro, di una rocca e neppure di una chiesa. Se dalla questione delle città murate ci spostiamo al problema di questi villaggi, nascono altri interrogativi ancora, ai quali la storiografia tradizionale non può dare una risposta facile. Per esempio: qual è stato l’« elemento generatore » di questi paesi? E come si difendevano dalle aggressioni di slavi, ungari, normanni e saraceni? Di chi erano servi i loro abitanti, e a quale nobile signore essi oftrivano i frutti della gleba, senza chiedere in cambio neppure la costruzione di un torrazzo? Oppure è possibile che, per quanto avessero cercato, non avessero trovato neppure un munifico signore disposto a prenderli in servitù? Le coste sono concordemente indicate come le zone più esposte alle scorrerie dei saraceni, ultima genìa di barbari indicata come causa politica della nascita dei castelli feudali. A differenza delle vie di grande comunicazione, tramite consueto delle discese dei popoli invasori, le coste non consentono di stabilire in precedenza quali saranno i percorsi e i
probabili approdi dei predatori. Ovunque ci sia una rada o una lingua di sabbia i pirati possono sbarcare, effettuare le loro scorrerie e ripartire rapidamente senza possibilità di essere inseguiti e raggiunti. Perciò la tesi dell'origine difensiva del castello feudale dovrebbe trovare una conferma immancabile nella fortificazione degli insediamenti costieri, con particolare
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56. Primo sviluppo di San Miniato al Tedesco (Cristiani Testi).
80
riguardo a quelli sorti in prossimità delle foci dei corsi d’acqua o dei tratti di costa che offrono facile approdo. Ma questa è tutt'altro che la regola. Sopra Massa, nella forcella formata dal torrente Frigido e da un suo affluente, è insediata una serie di villaggi, che sembra costituire un. unico sistema abitativo. La città di Massa, erede della Taberna Frigida ricordata dalla Tabula Peutingeriana, sorge in pianura, giusto all'imbocco della valle, tra le ultime propaggini delle Apuane e una larga fetta di terreno alluvionale che prospetta il mare. Il castello dei Malaspina, isolato su un cocuzzolo, la sovrasta da sud-est; ma in questo caso non c’è dubbio che un piccolo nucleo urbano si fosse formato molto prima della costruzione della fortezza. Sulle pendici delle vallate interne, a mezza costa, sorgono i villaggi: San Carlo Po (appena un filo semiellittico di case), Pariana, Altagnana dalla parte sud, Caglieglia a nord-ovest occupano le creste di altrettanti speroni che avanzano verso il torrente; Antona più a sud, Le Casette più a nord si collocano, alla stessa quota, su gobbe delle pendici,
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57. Il bacino del Frìgido (Massa-Carrara).
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a costituire i punti terminali sulla forcella di cui San Carlo Po è il primo avamposto sopraelevato. Nel fondovalle vi sono altri due villaggi: Canevara e Forno. Gli abitati che sorgono a mezza costa sono uno in vista dell’altro; nessuno poteva imboccare la valle senza che la sua presenza fosse avvertita ed eventualmente segnalata ai paesi più interni. Ognuno di questi piccoli centri occupa una posizione di eccezionale valore strategico, e d’altra parte la vallata rappresentava un vero invito per chi avesse deciso di approdare, con buone o con cattive intenzioni, alla foce del Frigido. Eppure in nessuno di questi villaggi vi è traccia di fortificazioni. La chiesa vi è in tutti, ma è periferica rispetto all’abitato, oppure occupa una posi-
sizione indifferenziata all’interno di esso, confusa fra le case. Un’origine feudale o religiosa di questi villaggi dovrebbe pertanto essere esclusa. Ma importante è che gli abitanti di questi luoghi non abbiano sentito il bisogno di fortificarsi, neanche per loro autonoma iniziativa. Stabilire quali popoli abbiano dato origine a questi insediamenti non è impossibile. Infatti essi (o almeno i villaggi posti a mezza costa del
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58. Centri di mezza costa nel bacino del Frigido:
schema delle visuali.
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82
monte)
hanno
tra loro in comune
alcuni caratteri, sia architettonici
che
distributivi che corografici, i quali consentono di formulare un’ipotesi sufficientemente precisa. Intanto, le case non sono semplicemente accostate al pendio, ma incassate nel monte. Il loro piano più basso, che in molti casi è perciò interrato per tre quarti, è di solito abitabile o adattato ad altri usi; non è cioè obbligatoriamente una cantina o un ricovero, come a Nicola o in altri paesi costruiti a terrazze. La consuetudine dello scavo ha probabilmente determinato una distribuzione delle abitazioni non rigorosamente condizionata dall’isometria e quindi del tutto irregolare. La viabilità interna (posto che di viabilità sia il caso di parlare) ne risulta estremamente articolata. Alle straducole principali, così strette da far escludere che gli abitanti di questi villaggi usassero portare dentro il paese bestie da soma o tanto meno da traino, si intreccia un complicato sistema di passaggi, rampe, calvacavia, cortiletti, portici e scalinate che intersecano gli interni delle stesse abitazioni, al punto che qualunque rilievo planimetrico dell’abitato darebbe una versione completamente falsa della situazione. Sotto i villaggi il pendio scoscende verso il torrente, mentre è più dolce al di sopra di essi. Nonostante questo, tutti i villaggi erano raggiungibili dal fondovalle, come avviene ancora oggi per Caglieglia e Le Casette; la via che collega a mezza costa del monte San Carlo Po, Pariana, Altagnana e Antona è di tracciamento recente. Territorialmente essi costitui-
scono un sistema di poli urbani distribuiti organicamente entro un com-
59. Pariana, Altagnana,
Antona
da San Carlo Po.
83
prensorio unitario che ha per limite superiore il crinale degli spartiacque che delimitano il bacino del Frigido e per limite inferiore la riva del mare. «Non vi è settore geografico della nostra penisola — scrive il Sereni — per il quale la costituzione interna e la delimitazione esterna del pagus in età preromana e romana siano illustrate da documenti così perspicui quali son quelli che la Liguria offre con la Tavola della Polcevera e con la Tavola ipotecaria di Veleia » (La comunità rurale e i suoi confini nella Liguria antica, in « Rivista di studi liguri », XX, 1, genn.-marzo 1954, p. 13). Si tratta in effetti di un caso fortunato, che ci consente di verificare con esattezza inconsueta
un fenomeno
di organizzazione
territoriale
legato ad una civiltà preromana; e, a dire il vero, la stessa possibilità che
oggi abbiamo di documentarci su tale fenomeno deriva proprio dalla tenace resistenza che un simile organismo oppose alla colonizzazione, al punto che lo stesso ordine territoriale romano, altrove costantemente imposto dai vincitori, dovette qui adeguarsi, e legalizzare al suo interno questa discrasia imposta dai popoli soggetti. « L’insediamento
per pagi —
prosegue il Sereni —
non è una carat-
teristica esclusiva delle popolazioni liguri, pur se fra di esse conserva, anche in epoca storica, un particolare rilievo. Questa forma d’insediamento si ritrova, sia pur con nomi diversi e con caratteristiche differenziate, fra le più diverse popolazioni italiche, elleniche, celtiche, germaniche, slave; impronta di sé, nei paesi più lontani, il periodo del passaggio dalla costituzione gentilizia alla costituzione territoriale. Ma che
60. Pariana.
61. Pariana: sviluppo di un percorso interno su gradinate.
62. Pariana: spazi semipubblici esterni-interni con passaggio fra le case a misura d’uomo.
è, come si configura, particolarmente nell’area ligure, il pagus? In che senso esso può essere definito come l’unità territoriale d’insediamento di queste genti?
« E sul carattere ‘ naturale’ della delimitazione del territorio del pagus che hanno particolarmente posto l’accento i ricercatori francesi, come il Jullian, il Grenier, il De Pachtère: ed a questo carattere ‘ naturale’ si è sovente voluta riferire la capacità di resistenza che, nell’area ligure, la strutturazione per pagi ha rivelato attraverso i secoli, talora attraverso i millenni. E certo, per la costituzione del pagus (a differenza di quel che avviene pet i più tardi organismi di tipo statale, come la romana civitas, o la medioevale contea, o la moderna provincia) vale ancora, come ha ben
scritto Marx, quella ‘ingenua immediatezza’ con la quale le primitive comunità si atteggiano di fronte alla terra come ‘di fronte ad una proprietà della comunità stessa’, come di fronte a ‘il grande laboratorio, l’arsenale che fornisce e il mezzo di lavoro, e il suo materiale, e il luogo dell’insediamento,
la base della comunità’:
sicché, nella sua configura-
zione e nei suoi limiti, il pagus tende effettivamente configurazione del paesaggio geologico e vegetale. È pagus appare, sovente, come un ‘canton naturel’ (per del De Pachtère), che si può all’ingrosso sovrapporre
ad adeguarsi alla vero, così, che il usare l’espressione ad una unità geo-
grafica (ad esempio una vallata, un bacino fluviale o una conca montana)
‘ naturalmente’ definita. Un esempio caratteristico, in questo senso, è quello che la Tavola di Veleia ci fornisce con il pagus Ambitrebius, che,
85
come
indica il nome
stesso, era situato ai due lati del fiume Trebbia, e
correva probabilmente dalle alture di Travo verso la pianura. Sempre secondo i dati fornitici dalla Tavola ipotecaria, i pagi A/bensis e Domitius coprivano rispettivamente, a quanto sembra, il territorio dell’alta e della media val di Nare, il pagus Statiellus, quello dell’alta val d’Arda, e così via; mentre,
in un
altro settore
dell’area ligure, i pagi o i conciliabula
degli Ectini occupavano l’alta valle della Tinea, quelli dei Vesubiani la valle della Vesubia, quelli degli Esturi la valle Stura, quelli dei Quairates il Quevras, e così via.
« Sarebbe profondamente errato — fa rilevare tuttavia il Sereni — confondere la costituzione e la configurazione del pagus con quella di un vago territorio di caccia, che un’orda primitiva o una nomade tribù temporaneamente frequenta ed occupa. In quest’ultimo caso, il rapporto con quel dato territorio resta, per quella data tribù, la momentanea localizzazione di una storia, che è davvero ancora quasi tutta naturale, sicché il dato geografico e geomorfico bruto marca ancora con la sua impronta decisiva i limiti entro i quali quell’aggruppamento umano si muove. Per il pagus, invece, il rapporto tra il dato aggruppamento umano e il territorio ove esso ormai stabilmente s’insedia resta, sì, un rapporto immediato, nel senso che
nessun agente di tipo statale interferisce, dapprima, nella sua configurazione; ma, lungi dal conservare un suo carattere puramente e semplicemente naturale, tale rapporto ci si presenta come la conclusione di un lungo e complesso processo storico e sociale. Prima ancora che da una determinata dislocazione di valli e di cime, insomma, di frumi di boschi di praterie, la costituzione del pagus risulta da determinati rapporti tra gli uomini, e dai rapporti che questi uomini associati (nel corso del processo di un loro stabile insediamento) ai fini delle loro attività produttive son venuti stabilendo col paesaggio geologico e vegetale » (La comunità, pp.
14-16).
63. Pariana:
sezione est-ovest dell’abitato
e del monte.
86
Da altre fonti sappiamo che la zona delle Apuane era abitata dai Liguri detti, appunto, Apuani. Livio scrive che essi « circa flumen Macram incolebant » (XL, 41), ma
non c’è dubbio che il loro territorio si esten-
desse ben a sud del Magra, fin quasi all’Arno: nel periodo caldo della lotta contro i romani essi si spinsero fino ad assalire Pisa, trasformata in caposaldo da Quinto Minucio Filippo che per due decenni tentò invano di domarli. Trattando dei liguri in genere (ma è molto probabile che in realtà si trattasse proprio dei liguri apuani, i quali assai più degli altri dettero da fare agli invasori romani) Livio parla di « itinera ardua, angusta, infesta
insidiis », descrive
l’avversario
come
« hostis levis et velox
et repentinus, qui nullum usquam tempus, nullum locum quietum et securum esse sineret », aggiunge, a proposito del modo di affrontarli, che « oppugnatio necessaria munitorum castellorum laboriosa simul periculosaque », e infine, descrivendo
le loro terre,
le presenta
come
« inops
regio, quae parsimonia astringeret milites, praedae haud multum praeberet » (XXXIX,
Sono
42).
informazioni
preziose.
Livio
le aveva
raccolte
ovviamente
in
ambiente romano, riportate molto probabilmente come scusanti da coloro che per lungo tempo avevano tentato invano di sottomettere questa gente indomabile, riuscendovi infine, almeno per quanto riguarda gli apuani, solo con un espediente che ripugnava allo stesso costume degli invasori, ossia con la deportazione in massa nel Sannio e nell’Irpinia; ma nessun elemento ci induce a dubitare che queste informazioni non corrispondessero alla verità. L’asprezza delle vie di comunicazione, che Livio considera solo sotto il profilo strategico, indica invece anche l’esistenza di un’economia non basata sui traffici e sugli scambi commerciali, bensì, come appunto avveniva nel pagus ligure, sullo sfruttamento delle risorse locali, derivanti dall’agricoltura e dalla pastorizia, con tendenza al massimo dell’autosufficienza. Questi popoli non avevano una tradizione imperialistica, come i romani, poiché il loro sistema associativo non si basava sulla proprietà terriera, né sul concetto di proprietà in genere, né tanto meno sull’espansionismo e sulla continua conquista di nuove terre. Non avevano quindi bisogno di mantenere un esercito in armi, e appunto pet questo opposero
agli invasori non la guerra ma la guerriglia, come Livio riferisce. Anche i « castella munita » erano probabilmente fortezze improvvisate per l'emergenza, se non addirittura difese naturali. Certamente non erano
i centri abitati:
infatti, durante una
delle molte non
felici sortite,
le truppe di Quinto Minucio rimasero imbottigliate e riuscirono a salvarsi solo con un diversivo, cioè assalendo i villaggi e costringendo gli apuani a lasciare le loro posizioni munite per accorrere in difesa delle famiglie (cfr. M. Lopes PEGNA, I Liguri Apuani e le loro drammatiche vicende, in « La provincia di Lucca », suppl. al n. 2, apr.-giugno 1962). Quanto alla povertà della regione, che costringeva i soldati romani alla parsimonia perché non c’era molto da predare, essa doveva apparire agli invasori come la cosa più stupefacente, se considerata alla luce della tenacia con
87
la quale gli indigeni la difendevano. In effetti gli apuani non possedevano pressoché niente, all'infuori del diritto consensuale di coltivare i campi e di praticare i pascoli comuni, vivendo di questo lavoro e non accumulando. Per un romano sempre avido di nuove terre e di nuove conquiste ciò era plausibilmente incomprensibile, fino al punto da apparire incivile. Nelle Apuane, ricche di grotte, i primi abitanti furono cavernicoli; gli spechi sotto la Gabellaccia probabilmente erano ancora abitati in epoca storica. Ciò coincide con la tradizione archeologica che vuole i primi liguri abitanti delle caverne, e inoltre può spiegare la consuetudine di costruire abitazioni in parte scavate nella roccia e di sopra coperte artificialmente, come elemento di passaggio tra la grotta e la casa. Questo tipo di abitazione potrebbe essere la matrice architettonica dei villaggi della valle del Frigido; più importante è però considerare in questi vil laggi altri elementi, come l’omogeneità delle abitazioni che li compongono, e l’assenza di un centro del paese, che testimoniano di una società non vincolata a particolari gerarchie. L’assenza di un centro urbano dentro
il villaggio esalta per contrasto la centralità dello stesso villaggio rispetto al proprio territorio e sottolinea il suo legame con questo. L’asprezza del paesaggio non solo richiama le difficoltà itinerarie ricordate da Livio, ma giustifica anche le angustie dei passaggi dentro gli abitati, come se essi fossero destinati al transito delle sole persone. La possibilità, quindi, che i loro originari abitanti non usassero bestie da soma né da traino coinciderebbe con la tradizione economica di un popolo che praticava in vicinanza dei paesi solo limitati ed essenziali tipi di colture, adottando la tecnica del debbio (che escludeva l’impiego dell’aratro e quindi delle bestie da lavoro), mentre esercitava la pastorizia più in alto, nei « compascua », ossia nei pascoli comuni
situati sui crinali dei colli, ai confini
fra pagus e pagus. Ma, soprattutto, questo tipo di viabilità fa escludere l’esistenza di una tradizione commerciale; e si sa che i liguri non praticavano il commercio che in misura estremamente ridotta. Se non bastassero queste relazioni a giustificare l’ipotesi che la valle
64. Altagnana:
sezione est-ovest dell’abitato
e del monte.
88
del Frigido fosse in origine un pagus ligure e che i villaggi buiti a mezza costa del monte rappresentassero i poli urbani di pagus, il contrasto fra l’assetto interno di questi paesi con quello centri viciniori varrebbe da solo a definire la peculiarità di un sociale retto da regole comunque singolari. Pochi chilometri più Fontia, che si affaccia sulla vallata parallela del Carrione e ha una urbanistica
analoga ad Antona,
sta in contrappunto
distriquesto di altri ordine a nord forma
stridente con Orto-
novo, che occupa il versante opposto del medesimo acrocoro distendendosi lungo il pendio terrazzato in semicerchi concentrici imperniati sulla torre cilindrica. Sarebbe piuttosto difficile pensare che due nuclei sociali dislocati sulla stessa altura e praticamente
contermini
avessero
trascritto
nei
loro villaggi due modi così differenti di vivere e di abitare, senza ipotizzare l’esistenza di due tradizioni diversamente radicate nella storia e tra loro non confondibili. La tenacia con la quale gli apuani contrastarono la colonizzazione romana giustifica l’ipotesi che, anche qui come altrove, dopo la crisi dell'impero si siano ricostituite quelle comunità che già prima dell’occupazione avevano assunto carattere stanziale. La persistenza di forme urbane e di un assetto territoriale che nei loro caratteri richiamano la civiltà ligure induce a ritenere che anche il regime sociale ed economico primitivo si fosse qui riprodotto e conservato. Probabilmente non per caso il castello dei Malaspina occupa la sommità di un poggetto sopra Massa, defilato rispetto all'imbocco della valle del Frigido, mentre nessuno dei paesi interni, nonostante che tutti occupino una posizione strategica formidabile, reca traccia di fortificazioni. Non è quindi arbitrario pensare che questa gente avesse opposto alla nuova colonizzazione feudale una resistenza meno tenace di quella contro cui si erano scontrati i romani.
non
Non è affatto il caso di appellarsi a Marx, come fa il Sereni, per presumere l’« ingenua immediatezza » di queste « primitive comunità ». Non c’è niente di ingenuo né di primitivo nell’assetto sociale costruito dalla gente ligure, come del resto lo stesso Sereni chiarisce. Un popolo che, in un paese già interamente occupato, oppone all’ imperialismo romano una guerriglia disperata e che finisce per imporre ai vincitori il proprio ordine
territoriale,
si batte
evidentemente
in difesa di una
civiltà né
ingenua né primitiva. Si può quindi ritenere che i postulati fondamentali di questa civiltà, basata sulla comunanza dei beni fondiari, fossero talmente radicati nel costume di questi popoli da sopravvivere alla parentesi imperialistica e da riproporsi in forme analoghe non appena la ranocchia romana scoppiò tumefatta dalla propria superbia. La crisi dell'impero segnò contemportaneamente la fine politica per i dominatori e il ritorno alla storia per le civiltà degli oppressi. Ma la storia di questi popoli non poteva essere scritta sui libri. Essi non possedevano manipoli di scribi né di segretari prezzolati, non avevano nelle loro file storici né logografi, non avevano ricchezze per attirare nelle loro dimore filosofi e poeti, nessun cicerone si vantò per iscritto di avere salvato la patria per loro conto, nessun architetto si mosse apposi-
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65, 66, 67. Antona.
68. Antona:
sistema di gradinate.
69. Antona: d’uomo.
passaggio sotto le case a misura
70. Antona: gradinata che congiunge il paese al monte. 71. Antona:
passaggio sotto le case.
tamente dalla Grecia per innalzare templi ai loro dei, essi non procrearono martiri né eroi. La loro storia fu scritta sui campi dove lavoravano e nelle case dove abitavano: è lì che noi possiamo leggerla. Abbiamo ancora (e ancora per poco) gli orti, le vigne, i terrazzi, gli uliveti, i fossati, i sentieri, i valichi, i villaggi, ossia i capitoli del volume che essi ‘compilarono in secoli di lavoro sistematico e libero. Nostra colpa sarebbe non saperli interpretare. Se noi assumiamo
come metodo questo tipo di lettura e proviamo a ribaltare il punto di osservazione, spostandolo dalla parte dei villani, e mettendo per un momento da parte le fonti consuete della storia feudale, possiamo arrivare a formulare un’ipotesi schematica diversa da quella
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tradizionale. Supponiamo cioè che una comunità imprecisata decida di organizzarsi territorialmente sulla base di un assetto sociale analogo a quello degli abitanti antichi della valle del Frigido. Supponiamo anche che essa scelga a questo scopo un territorio di collina o di mezza montagna. Il villaggio, sede della comunità, dovrà avere i seguenti requisiti fondamentali: essere al sicuro dalle frane, dai dilavamenti, dalle alluvioni in genere; essere centrale rispetto al territorio prescelto, o comunque consentire un'agevole raggiungibilità dai luoghi di lavoro; permettere un ampio dominio visivo e acustico sia del territorio che delle vie di accesso, di passaggio o di collegamento, allo scopo di poter rimediare rapidamente ad ogni eventuale emergenza. Nessuno di questi requisiti ha per presupposto
preoccupazioni
di carattere
militare,
eppure
si può essere
certi che questo ipotetico villaggio non potrebbe sorgere che su una gobba, uno sperone, un acrocoro, una sella o comunque in una posizione tale da far pensare, a posteriori, che la sua localizzazione possa essere dipesa da ragioni di carattere strategico. Supponiamo ancora, sempre in via di ipotesi schematica, che questo villaggio abbia occupato la più ovvia delle localizzazioni, cioè un acrocoro. Poiché ci troviamo di fronte ad una comunità senza gerarchie, nessuno dei villani avrà l’interesse politico di dominare gli altri occupando la vetta del colle. Perciò a nessuno verrà in mente di costruirsi l’abitazione proprio là in cima, esposta ai venti di tutti i quadranti, con l’aggiunta di essere più lontana di tutte dal luogo di lavoro o dalle vie che ad esso conducono.
Al contrario,
72. Caglieglia.
lasciare
libero un belvedere
sulla sommità
del colle
SL
presenta indubbi vantaggi per la comunità: da qui si può infatti controllare a volo d’uccello un vasto brano di paesaggio, da qui si possono inviare e ricevere segnali, da qui si può controllare il bestiame al pascolo senza bisogno di seguirlo, qui si può conservare incontaminata l’acqua piovana raccolta in una cisterna.
Infine, supponiamo che questa comunità riesca a consolidare un soddisfacente regime produttivo. Naturalmente, poiché non rientrano nel suo costume sociale né l'accumulo né il commercio dei surplus, essa produrrà lo stretto necessario al suo fabbisogno. Ma è possibile che qualcuno, più pratico di libri e più esperto di affari, si renda conto che questa situazione può essere volta a suo vantaggio, sfruttando non le ricchezze (che non ci sono) ma il lavoro di questa gente. Per condurre a buon fine il suo proposito la società in cui vive gli offre due vie: quella laica o quella confessionale. Nel primo caso, si tratterà di ottenere un diritto di sfruttamento del suolo, che avrà appunto il carattere dell’investitura feudale. Così egli prometterà fedeltà al sovrano o al marchese o al conte o al visconte e gli garantirà un certo numero di servizi, in cambio dei quali acquisirà il diritto di farla da padrone su una certa porzione di territorio. L’unica difficoltà sta in questo: mentre il sovrano o il marchese o il conte o il visconte dispongono dell’autorità e degli strumenti del diritto ma non costituiscono una fonte di reddito, i villani rappresentano l’unica fonte di reddito possibile, ma sono completamente al di fuori del diritto regale, marchionale, comitale o vicecomitale. Perciò compito del nuovo signore sarà essenzialmente quello di fare da intermediario fra l’autorità degli uni, della quale egli stesso si trova investito, e la produttività degli altri, con lo scopo più o meno dichiarato di ricavare il maggior frutto possibile da questo speciale tipo di mediazione. La sua prima preoccupazione sarà pertanto quella di introdurre nelle menti equalitarie dei suoi nuovi soggetti il concetto di gerarchia, possibilmente materializzandolo per renderlo più facilmente assimilabile. Così costruirà la sua fortezza proprio sul belvedere, a testimoniare in maniera inequivocabile la sua vocazione di padrone effettuale del villaggio, e anche per dominare di fatto in una volta sola villaggio e territorio. Qui appunto una delegazione militare avrà il compito di amministrare i suoi interessi, pertcependo i canoni da lui stabiliti. Da ora in avanti sarà infatti lui a condizionare i livelli di produzione, poiché i glebani sanno che, da quel momento in poi, oltre a quanto serve loro per il fabbisogno immediato, dovranno raccogliere anche quello che serve a quel padrone inventato per loro da chi manovra le carte, affinché questo sovrappiù possa essere ammassato, commerciato, messo a frutto. Se invece chi ha deciso di approfittare del lavoro dei villani sceglie la via ecclesiale, dovrà adottare sistemi di esazione di un altro tipo. Egli costruirà perciò la pieve (o, se è già pievano, una cappella) fuori del paese, possibilmente sulla strada che gli zotici percorrono più frequentemente. Qui riscuoterà le decime, autorizzato e garantito dall’autorità
95 »
vescovile, come corrispettivo dell’amministrazione dei sacramenti e delle funzioni del culto, o per qualunque altro motivo spirituale che sia possibile addurre. Rispetto al signore laico, egli avrà il vantaggio di non dovere organizzare in maniera forzosa l’esazione del tributo, poiché a
questo fine sarà sufficiente il consueto armamentario di promesse e di paure, che i soliti libri di storia fanno derivare dall’ignoranza dei rustici, ma che più verosimilmente costituiva il bagaglio professionale degli amministratori del culto. Una terza via sarebbe teoricamente possibile, suggerita dalla figura del vescovo-conte; ma, a livello locale, essa è meno probabile. La fusione del potere laico con quello ecclesiale, in sede di riscossione dei tributi, non era conveniente: due esattori potevano introitare più di uno e, in
ogni caso, di fronte ai villani l’unificazione in una persona delle due forme di autorità rischiava di renderle entrambe meno credibili. Conveniva invece unificare gli strumenti della vessazione, per renderli meglio efficienti. In questo caso, alleandosi cioè signore e pievano, sarà possibile che la pieve o una nuova chiesa vengano edificate presso la rocca o comunque dentro il paese, magari su terreno di proprietà del signore e col suo materiale aiuto. Ma, per semplicità, conviene per ora fermarsi sui due primi casi solamente, e confrontarli con l’altra ipotesi schematica di solito proposta dalle storie generali, cioè con la teoria della rocca intesa come elemento generatore del paese. Ragionando astrattamente, cioè senza pretendere che nessuna delle ipotesi riferite trovi un cotrispettivo fedele in qualche caso concreto, davvero risulterà più convincente l’idea di un signore che, tutto solo, si costruisce un castello in cima a un colle e attende lì dei contadini, provenienti chissà da dove in cerca di protezione, salvo poi a tormentarli con tutte le angherie che la Fasoli riporta? O non sarà piuttosto accettabile l’immagine di una comunità che, approfittando della dispersione del latifondo romano e della crisi dell’autorità imperiale, si organizza socialmente e giunge a un livello di autosufficienza economica, finché non si ritrova sulla pelle le ventose di due sanguisughe, investite di potere l’una feudale l’altra ecclesiale? Non c'è dubbio che la seconda ipotesi, ancorché più irrispettosa, abbia più concretezza della prima. Anche per quanto riguarda le mura cittadine occorre rivedere lo schema comunemente accettato che esse avessero una funzione difensiva. Non c’è dubbio che di regola le porte delle mura venissero chiuse ogni sera e riaperte la mattina, ma non è detto che questo avvenisse solo per ragioni protettive. Almeno per quanto riguarda i centri maggiori, si sa con cer-
tezza che delimitare con esattezza la « terra dentro le mura » era un atto, se così si può dire, di politica interna assai più che di politica estera, poiché serviva a individuare con esattezza i cittadini residenti e a con-
trollare le loro attività, con riguardo particolarmente al loro assoggettamento a un determinato regime fiscale. Inoltre in questo modo il comune si garantiva che certe attività non gradite non si svolgessero nella città e che certi personaggi egualmente sgraditi non vi avessero accesso (anche
\Dad
se, a dire il vero, nei borghi che si sviluppavano al di fuori delle mura trovavano immancabilmente ricetto persone e attività semiclandestine che il comune
teoricamente
non
accettava
ma
di fatto
tollerava).
Inoltre
occorre ricordare che le mura venivano erette dopo che la città si era formata e ampliata, non prima. La storia delle tre cerchie di Firenze è emblematica, poiché testimonia la necessità, avvertita dal comune ma non sempre dai cittadini, di inglobare quelle costruzioni che a più riprese si erano andate massicciamente formando fuori delle porte, in aderenza alle vie di traffico maggiore. Per i centri
minori
il discorso
è diverso, nel senso
che, dovendosi
controllare un flusso assai inferiore di traffici e di persone, la necessità delle mura castellane doveva essere avvertita ancora meno, almeno da parte di coloro che abitavano normalmente un villaggio. Anche per le mura castellane, naturalmente, la storiografia tradizionale adduce le mede-
sime giustificazioni usate per le fortificazioni in genere, cioè le scorrerie di ungari, saraceni, normanni e altri barbari eventualmente di passo. In realtà si sa che anche i centri maggiori (come per esempio Pisa nel 1155, contro Federico Barbarossa, le cui intenzioni non apparivano bene-
vole) ricorrevano in questi casi a fortificazioni lignee costruite lì per lì. Non si vede perché anche le piccole comunità non potessero fare la stessa cosa, evitando di sobbarcarsi l’onere della costruzione di una strut-
tura permanente
che, tutto sommato,
alla gente dei villaggi faceva più
scomodo che comodo. Del resto, a loro che conoscevano la terra zolla per zolla, abituati a interpretare il fruscio nella macchia o il silenzio improvviso
degli uccelli o l'ombra contro il riflesso del torrente, quanta sicurezza in più potevano offrire le mura castellane? E quante possibilità di resistere offrivano in più a loro, gente di marra e di forcone, queste strutture militaresche costruite per la gente d’arme? Quanti agguati avrebbero saputo trovare
invece essi, nella loro terra, in posti sconosciuti
all’assa-
litore non pratico dei luoghi, ricorrendo magari non alla guerra ma alla guerriglia, come avevano fatto i liguri loro antenati? Vi sono
al contrario motivi molto più seri e soprattutto molto più
realistici per cercare di stabilire la ragione vera della costruzione delle mura nei centri minori. In primo luogo non bisogna dimenticare che chi costruisce le mura ha il diritto di mettere sue guardie alle porte e di controllare così chi entra e chi esce, ma soprattutto di controllare che cosa entra e che cosa esce. Anche in questo caso, volendo, si possono
confrontare due astratte ipotesi schematiche. La prima ipotesi vede il signore o il comune maggiore (il fenomeno della costruzione delle muraglie esplode in piena età comunale), premurosi della sicurezza e dell’incolumità personale dei loro soggetti, cingete le loro abitazioni di mura o addirittura costruire in territorio vergine cinte murate destinate ad accogliere futuri cittadini bisognosi di protezione. La seconda ipotesi vede invece il signore o il comune
prattutto
dei propri
interessi,
maggiore,
rinchiudere
premurosi
in questo
gli abitanti
di un
caso
so-
centro,
95
già florido economicamente, dentro la gabbia di un muro di cinta con lo scopo di controllarli meglio politicamente e fiscalmente. Verso la prima ipotesi inclina la storiografia tradizionale, seguita nella formulazione più estrema ancora dal Gutkind, il quale, dopo avere affermato (in sostanziale contrasto col Davidsohn) che il grande periodo della costruzione
del « castello » va dall'VIII
la procedura di fondazione
in Italia non
al XII secolo, sostiene che
era dissimile da quella degli
altri paesi e perciò prende ad esempio le « bastides » della Francia meridionale. Conclusione: secondo il Gutkind un signore feudale cercava di attirare i contadini di un distretto e a questo fine prometteva loro alcune concessioni in cambio della costruzione di un « castello »: le loro case e i loro piccoli appezzamenti di terreno sarebbero stati esenti da tasse e da vendite (cfr. International History of City Development,
IV:
Urban Development in Southern Europe: Italy and Greece, 1969, p. 74).
Ottimo esempio di fantastoria, questo, contro il quale cozza non solo il buon senso ma anche un mosaico di testimonianze e di provvedimenti
che la storiografia più recente, soprattutto toscana, sta ricomponendo, fino a costruire l’immagine di una società capitalistica e borghese meno mitica, più concreta e sicuramente poco propensa a certi romantici altruismi. Da un punto di vista economico, l’idea di un signore feudale che, dopo aver brigato per ottenere l’investitura, esenta i suoi sudditi dalle tasse come primo atto di governo e si sobbarca in più l’onere della fondazione di un castello (con case, cassero e mura, evidentemente), fa sorridere al solo pensiero. E dal punto di vista sociale l’immagine di un gruppo di contadini che accetta spontaneamente di ridursi in servitù del nuovo signore, in cambio dell’esonero dalle tasse (che però presumibilmente prima non pagava) e della sicurezza del posto di lavoro, apre a malinconiche considerazioni sul tipo di opinione che il Gutkind (ma non solo lui) può avere dei lavoratori delle campagne
di allora, e molto probabil-
mente di tutti i lavoratori di oggi. È evidente che quei documenti (pochi e menzogneri) su cui si basano teorie come questa di Erwin A. Gutkind vanno quanto meno riletti; ma soprattutto si deve imparare a leggere per quello che sono gli altri documenti, non scritti ma costruiti pietra su pietra, affinché si cessi una buona volta di confondere uno strumento di potere con un’opeta di beneficenza. Prendiamo dunque le mura per quello che sono: un investimento politico ed economico insieme, per il quale si prevede un tipo di ammortamento e di uso che è anch'esso, contemporaneamente, politico ed economico. Chiediamoci anche le ragioni di questo investimento, e scopriremo con facilità che la difesa dei cittadini compresi dentro la cerchia murata è spesso il movente ufficiale, ma anche il meno attendibile e reale. Sappiamo bene che i villani, quando sorgeva qualche bega fra paese e paese, oppure per l’eterna rivalità tra pastoti e agricoltori, se la sbrigavano a legnate. Non erano loro che avevano bisogno di mura, e certamente non ne ebbero bisogno finché i loro problemi restarono quelli
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di qualche rivendicazione di confine o di qualche contesa circa l’uso di un ponte, di una via, di un compascuo. La chiave della risposta è senz’altro da ricercare nella completa integrazione tra città e campagna, e quindi tra politica economica cittadina e politica economica rurale, con questa unica differenza: che la città era la sede del dirigismo politico, mentre la campagna era il luogo dove si svolgevano le attività produttive pri-
marie. Appunto su questo tema la storiografia toscana ha dato un contributo fondamentale,
stiani.
soprattutto
Il Fiumi,
con
gli studi del Plesner,
in proposito,
del Fiumi,
è esplicito. « Tutto
quanto
del Cri-
è stato fin
qui detto e dimostrato — egli scrive, a conclusione di un capitolo sulla demografia e sul movimento urbanistico nel territorio fiorentino e toscano in genere — renderà persuasi della compenetrazione politica ed economica tra città e contado, che espressasi in età romana nel ‘ municipium ’, sopravvisse nel medioevo nella diocesi, per cementarsi ancor più saldamente nella ‘polis’ dell’età comunale. La classe dirigente del comune, la quale, sia di parte magnatizia o popolana, guelfa o ghibellina, è sempre espressione della borghesia capitalistica, personifica la fusione dell’economia rurale con il capitalismo cittadino. L’antagonismo tra città e campagna, lo ‘sfruttamento del contado da parte della città dominante’, su cui ancora si basa la storiografia economica dell’epoca comunale, è impostazione vana ed irreale. Nata dall’esegesi estensiva ed anacronistica di una serie di disposizioni statutarie dettate da particolari e momentanee esigenze di mercato, questa interpretazione della politica economica dei comuni
medievali
sempre
stata:
della
Toscana
si rivela
per
quello
che, in verità,
è
un fortunato sproposito » (Fior. e dec. dell’ec. fior., IL,
Demografia e movimento PRASOSZLO)
urbanistico, in « Arch. Stor. Ital. », 1959, IV,
Se accogliamo questo principio, insieme con l’analisi in chiave capitalistica e borghese della civiltà comunale, molti elementi escono dal generico
e trovano
una
spiegazione
assai
più concreta
e convincente. -
Il Fiumi tende a fare del fenomeno capitalistico un fatto corale, nel senso che egli vede ovunque piccoli proprietari, o individui anche nominalmente soggetti
ma
di fatto autonomi
e tutto
sommato
protagonisti,
seppure
in minima parte, della generale crescita economica. Però non nasconde affatto l’esistenza di famiglie o gruppi che di fatto detenevano e gestivano gran parte del potere economico e politico. Proprio queste famiglie o gruppi avevano i loro massimi punti di forza nei castelli, e contro di loro il comune talvolta doveva ricorrere alle stesse armi, costruendo
altri castelli « per scemare la forza de’ nobili e de’ potenti di contado », come annota il Villani (Cron., VIII, 17, a. 1296). « Guidi, Pazzi, Ubaldini, Ubertini — scrive il Fiumi — alimentarono per tutto il secolo XIV
ribellioni e contrarietà alla repubblica fiorentina. I loro castelli e i castelli dei loro consorti, scaglionati lungo V’'Alpe fiorentina e le terre del Valdarno di Sopra, sono
focolai di resistenza
e asilo di fuorusciti, ribelli,
sbanditi. Per tenere a freno gli Ubertini e i Pazzi, fu decretata la fonda-
97
zione, nel Valdarno
di Sopra, delle terre di Castelfranco,
S. Giovanni,
Terranuova. Nel Mugello, per fronteggiare gli Ubaldini, furono fondate le terre di Scarperia e di Firenzuola, esentando dalle tasse e liberando dal vassallaggio tutti i ‘ fideles’ dei nobili che fossero andati ad abitarvi. Le scorrerie dei Pazzi e degli Ubaldini rendevano malsicure le strade di grande comunicazione. Per togliere di mezzo i conti Guidi non si trovò di meglio che comprarne, nel corso della metà del trecento, castelli e giurisdizioni, e stipendiare, in cambio dell’accomandigia, i superstiti rappresentanti di quella grande casata » (Fioritura, I, Nobiltà feudale e borghesia mercantile, in « Arch. St. It. », 1958, IV, pp. L’opposizione che queste famiglie facevano al comune di differenza di altre che si erano completamente integrate e che avevano trovato lo strumento adeguato della loro crescita
428, 429). Firenze (a
nel comune economica) dipendeva, secondo il Fiumi, « dal sopravvivere di prerogative giurisdizionali che ancora si opponevano all’espansione della sovranità comunale nel contado e nel distretto ». Ma queste prerogative giurisdizionali che cosa erano, se non il diritto di impotre tasse, gabelle e prestazioni d’opera in un determinato distretto, al quale diritto, un tempo concesso e garantito dall’autorità imperiale, il comune si sforzava di subentrare? Il « vassallaggio » di cui il Fiumi parla va inteso in senso molto relativo. Per attirare dentro le nuove mura di San Giovanni in Valdarno e di Castelfranco di Sopra i « fideles » delle casate sopracitate il comune di Firenze non promise ad essi altro che l’esenzione da ogni gravezza per dieci anni. Ciò lascia supporre che questi ex-fideles potessero ancora disporre delle loro rendite e che, con questo cambio di residenza, essi si sottraessero semplicemente all’obbligo di pagare i tributi ai loro antichi
signori.
In caso
contrario
non
si vede
quale interesse
avessero i fiorentini a chiamare lì proprio i fideles dei conti né quale interesse avessero
questi a trasferirvisi. Tutto si riconduce quindi a un
problema fiscale, probabilmente non per caso collegato alla costruzione di nuove città murate o alla recinzione di centri già esistenti da parte del comune. In questo il comune non faceva che seguire l’esempio di quegli stessi signori feudali che si trovava a contrastare, i quali a suo tempo lo avevano
di molto
anticipato,
esattamente
con
gli stessi stru-
menti e con gli stessi fini. L'esenzione da ogni gravame per dieci anni, che troviamo sancito anche in molte altre città per i nuovi venuti, non è da considerare un atto di benevolenza fine a se stesso, bensì, se così
lo possiamo definire, un investimento a lungo termine, poiché questo provvedimento consentiva di individuare meglio i soggetti da tassare, rendendoli cittadini residenti dentro le mura. Si trattava solo di pazientare dieci anni. La teoria del Gutkind si può quindi tranquillamente rovesciare. Le mura non servivano a contenere cittadini che non pagavano le tasse, bensì a impacchettare adeguatamente entro un ben delimitato e invalicabile recinto persone dotate di propri possedimenti e di propri redditi affinché alle tasse, gabelle e prestazioni d’opera non potessero sfuggire.
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Quando poi si trattava di villani inermi che vivevano del proprio lavoro,
si può pensare che il signore feudale non fosse solito ricorrere a metodi opzionali come quelli messi in atto dal comune fiorentino, o ad altri sistemi altrettanto gentili, per convincerli a risiedere dentro la cinta murata, e che comunque molto difficilmente fosse disposto ad aspettare dieci anni prima di riscuotere i frutti della sua attività di costruttore di muraglie. I perché delle torri nelle città, delle pievi nelle campagne, delle fortificazioni nei villaggi hanno quindi una risposta sola e univoca: l’espandersi del capitalismo borghese, rinato dal ricostituirsi della pro-
prietà fondiaria e riorganizzatosi definitivamente
sulla base dell’istituto
comunale. A questo porta sostanzialmente la convinzione che non vi sia rottura tra economia di città ed economia rurale. In questo senso non solo non vi è opposizione tra feudalesimo e istituzioni comunali, ma anzi,
a parte le logiche e del resto mai sopite faide private tra famiglie o consorterie rivali, ambedue i fenomeni si svolgono nell’ambito di un unico disegno economico e politico. Non si tratta quindi di denunciare un generico accumulo di ricchezza e di potere che, in una visione moralistica e peraltro idilliaca della società, avrebbe potuto anche consentire il mantenimento consensuale del regime di proprietà. Si tratta invece di verificare se proprio il passaggio da un regime di libera e comune disponibilità dei suoli a un regime di proprietà individuale abbia determinato il nascere dell’accumulazione della ricchezza e la sua trasformazione, per porre il problema in termini marxiani, da accumulazione originaria in accumulazione capitalistica, e se questa accumulazione si sia formata proprio sulla base del nascere di un plusvalore legato allo sfruttamento della forza lavorativa agricola. Certamente, nei confronti della teoria capitalistica marxiana intesa in senso stretto, una simile impostazione del problema potrebbe apparire ereticale. È noto infatti che, secondo Marx, perché denaro e merce vengano trasformati in capitale devono sentirsi circostanze molto precise. Occorre cioè che si trovino di fronte ed entrino in contatto due sorte assai diverse di possessori di merce: da un lato, proprietari di denaro e di mezzi di produzione e sussistenza, interessati ad acquistare forza lavorativa altrui per valorizzare con essa la somma di valore che possiedono, dall’altro liberi lavoratori, ossia venditori della propria forza lavorativa e perciò venditori di lavoro. « Liberi lavoratori », secondo Marx, nel duplice senso che essi non fanno direttamente parte dei mezzi di produzione (come gli schiavi, i servi della gleba, ecc.), né sono proprietari dei mezzi di produzione
(come
i contadini
coltivatori
diretti, ecc.),
ma anzi ne sono liberi e spogli. Evidentemente, il caso della società agricola medievale non è questo. Tuttavia, a parte la categorica definizione della posizione sociale dei servi della gleba che Marx aveva mutuato dalla storiografia a lui contemporanea e che va evidentemente riveduta, è importante cogliere il
22
legame che esiste fra nascita della proprietà privata individuale e accumulazione di ricchezza, tanto più che quest’ultima presenta i chiari sintomi dell’accumulazione capitalistica, nonostante abbia modalità di formazione diverse da quelle che Marx individua nella società industriale. Ma non si tratta semplicemente di aggiornare o di integrare le fonti a cui Marx poteva attingere oltre un secolo fa. Si sa, d’altra parte, che Marx di regola strumentalizzava gli storiografi del suo tempo, utilizzando le loro indagini e le loro affermazioni per rovesciarne le conclusioni o per denunciare il vizio ideologico che all’origine aveva condizionato e indirizzato sia le indagini che le conseguenti deduzioni. Inoltre Marx attingeva in buona parte a fonti di prima mano. È vero invece che la situazione politica, economica e sociale del mondo medievale è troppo complessa e differenziata perché si possano prendere per buone le rapide impressioni che Marx ne trae, senza approfondire un problema che del resto
per lui aveva
un’impottanza
storiografica
e pragmatica
piuttosto
relativa e poteva servire al più come digressione esemplificativa. La tesi di fondo sostenuta da Marx nel capitolo ventiquattresimo del libro primo del Capitale è che, nella storia dell’accumulazione originaria, fanno epoca i momenti nei quali grandi masse di uomini improvvisamente e violentemente vengono separate dai loro mezzi di lavoro e buttate sul mercato del lavoro come proletariato messo al bando. L’espropriazione dei produttori agricoli, dei contadini, e il loro allontanamento dalle terre, costituiscono, secondo Marx, la base dell’intero processo. Per quanto riguarda poi in maniera specifica la situazione italiana nel corso
del Medioevo, Marx afferma che qui la produzione capitalistica si sarebbe sviluppata prima che in altri paesi, in correlazione con il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba, avvenuto anch’esso qui prima che altrove. In conseguenza di questo fatto il servo della gleba verrebbe affrancato prima di essersi assicurato un diritto di prescrizione sulla terra, e perciò la sua emancipazione lo renderebbe immediatamente proletario messo
al bando.
Esso
troverebbe
petciò,
secondo
Marx,
i suoi
nuovi padroni già belli e pronti nelle città, rimaste vitali in massima parte fin dall'epoca romana. Quando, alla fine del XV secolo, la rivoluzione del mercato mondiale spezzò il predominio commerciale dell’Italia settentrionale, iniziò un movimento in senso contrario che, sempre secondo
il quadro storico tracciato da Marx, ributtò in massa nelle campagne gli operai delle città, che incrementarono in maniera straordinaria la piccola coltura, basata sull’esempio dell’orticoltura. Ma questa analisi marxiana, da tutto quello che si è visto, risulta profondamente inesatta. L’affrancamento dei servi della gleba, che Marx postula come anello iniziale dell'intera catena di accumulazione originaria e poi di accumulazione capitalistica, è un fenomeno in sé fortemente dubbio, e comunque non così generalizzato da muovere la storia nella direzione indicata da Marx. Dal Plesner in poi nessuno storiografo prende più sul serio la « trovata romantica » della fuga dei servi della gleba verso la città «libera ». C'è invece materia per credere che l’accumulo di
100
ricchezza che si registra nelle città abbia la sua origine proprio nelle campagne.
In ogni caso, non vi è opposizione
tra economia
di città ed eco-
nomia di contado — giova ripeterlo — né è documentabile l’abbandono dei campi da parte di masse di « liberi lavoratori » che trovino impiego nelle industrie cittadine. C’è invece un incremento demografico che interessa in misura parallela le campagne e le città. Il processo di sviluppo dell'economia medievale in Italia entra in crisi, nei suoi aspetti generali, già verso la metà del XIV secolo, cioè molto prima dell’epoca indicata da Marx, e quindi non in correlazione con la rivoluzione mondiale del commercio. Resiste soltanto il commercio del denaro, ad attestare che ormai il fenomeno capitalistico è alla svolta finale. Non vi è, infine, nessuna prova che il successivo riflusso della mano d’opera dalle città alla campagna (posto che vi sia stato) abbia portato alla piccola proprietà agricola e all’orticultura. Non vi è traccia consistente di frammentazione agricola nell’Italia settentrionale (e particolarmente nella pianura Padana-Veneta) durante il periodo indicato da Marx;
in Toscana si va chiaramente
nella direzione del lati-
fondo, ecclesiastico o granducale. Vi è invece un sensibile regresso demografico, a partire dalla metà del XIV secolo (ma non dovuto soltanto alla pestilenza del 1348), che investe sia la campagna che la città. La forma di embrionale capitalismo che Marx vede nelle città comunali italiane può invece avere altre origini ed altre forme. L’idea dell’allontanamento violento dalle terre di grandi masse di agticoltori che vengono così proletarizzati e trasformati in venditori di mano d’opera disponibili per il processo di produzione e di accumulo capitalistico viene a Marx, com'è noto, dalle espropriazioni (o meglio: dalle appropriazioni) che allontanarono dalla terra la popolazione rurale inglese dalla fine del XVIII secolo in poi. La svendita delle terre di stato, le leggi sulla recinzione dei fondi comuni sancirono di fatto la privatizzazione del suolo; la rivoluzione agraria e la trasformazione in pascolo della massima parte di questi territori privatizzati o recintati provocarono di fatto quello sradicamento violento dalla terra e la proletarizzazione dei contadini di cui Marx tratta. Ma non è detto che questa sia l’unica via possibile per innescare la reazione che porta all’accumelazione capitalistica. Il sistema feudale fu anch’esso un metodo di appropriazione giuridica delle terre, e più spesso di terre libere, in nulla diverse dagli « open fields » inglesi. La differenza sta in questo: mentre la privatizzazione realizzata in Inghilterra con la complicità della corona portò a una trasformazione dei metodi di sfruttamento del suolo in senso estensivo e quindi a una fuga di mano d’opera, il sistema feudale portò invece a un supersfruttamento del suolo e della mano d’opera che su di esso già si trovava senza allontanarla dalla terra e senza provocarne la fuga. In sostanza, senza che si avesse la rottura dei legami tra contadino e suolo, si provocò ugualmente la 1ascita di una forma di pluslavoro nel momento in cui i legittimi abitanti delle campagne furono forzati dai nuovi strumenti giuridici e politici a produrre un surplus di prodotti
101 »
in aggiunta
a ciò che era direttamente
necessario
per il loro sostenta-
mento. Anche se in condizioni completamente diverse, si realizza perciò ugualmente lo stesso processo che Marx individua nella fabbrica, dove il pluslavoro origina un valore superiore a quello corrispondente al fabbisogno ordinario del lavoratore e quindi crea un plusvalore destinato a trasformarsi in capitale. Il surplus di prodotti agricoli realizzati nei campi è infatti perfettamente equivalente, in senso economico, al surplus di prodotti industriali realizzati nella fabbrica, destinati alla commercializzazione e quindi alla materializzazione del plusvalore. In altri termini, nelle campagne assoggettate al feudo si realizza un processo inverso rispetto all’Inghilterra del XVII-XVITI secolo. In Inghilterra vi sono dei capitali disponibili, provenienti da un’accumulazione originaria nata dalla speculazione fondiaria, e dei venditori di lavoro altrettanto disponibili, liberati dal realizzarsi di questo stesso fatto speculativo. Si tratta perciò di creare lo strumento produttivo capace di legare dentro di sé questi due elementi basilari del processo capitalistico. Questo strumento è l’industria. Nelle campagne del primo Medioevo esiste invece già lo strumento produttivo, che è l’agricoltura. Per innescare il processo capitalistico occorre invece rendere disponibili le forze lavoratrici e iniziare il processo di accumulazione. Questo obiettivo viene raggiunto attraverso espedienti giuridici (il feudo, i diritti di esazione delle decime, i processi per usucapione) garantiti dal ricostituirsi dei poteti centrali (impero e papato). Con l’appropriazione giuridica della terra si consegue anche l’approptiazione della forza lavorativa che a questa stessa terra è collegata: così l’anello si chiude. È un po’ come se il capitalismo nascente del XVIII secolo avesse trovato delle fabbriche autogestite, nelle quali gli operai non realizzavano pluslavoro e quindi non producevano plusvalore, e se ne fosse appropriato costringendo gli operai a lavorare oltre il limite iniziale di produzione e quindi a produrre plusvalore. Questo accade, in effetti, sulle terre in età medievale.
La differenza è,
sotto questo aspetto, solo nella natura della merce: prodotti agricoli anziché industriali. Perciò, da questo punto di vista, la nascita e non la fine della servitù della gleba (posto che si voglia continuare a chiamarla così) sarebbe da considerare all’origine della trasformazione capitalistica dell'economia medievale. Va da sé, comunque, che il processo di accumulazione capitalistica non è così facilmente schematizzabile per l’età medievale come per l’età industriale. Si può confermare però che l’istituto comunale, ben lungi dal costituire un’antitesi alla struttura feudale, ne fu invece la logica propaggine. La città era il luogo cruciale in cui si realizzava la trasformazione del plusvalore in capitale e il suo reimpiego in attività terriere, nonché il normale accantonamento di una quota parte destinata alle attrezzature militari che ogni buon regime capitalistico deve sempre considerare fra le spese ordinarie di gestione. L’identificazione dell’usuraio con il proprietario terriero e con il ‘possessore delle torri, ben documentata dal Fiumi per San Gimignano, è chiarificatrice a questo proposito. E certo
102
non meraviglia che il potere politico sia poi gradatamente confluito nelle mani delle grandi casate di banchieri, e infine dei Medici, usurai a livello
continentale. La grande crisi economica e demografica che attanaglia in particolare la Toscana a partire dal XV secolo mentre i capitali medicei foraggiano le più grosse operazioni di potere in tutta Europa, è espressiva della stessa identità che Marx pone alla base del regime capitalistico ottocentesco: l’identità tra ricchezza nazionale e povertà popolare. Più peculiare è invece il problema sotto il profilo sociale e politico. La complessità e la varietà delle situazioni giuridiche, l’incertezza del diritto, il sovrapporsi delle competenze, l’estemporaneità degli interventi politici, le interferenze continue tra gruppi di potere, la commistione dei ceti, la precarietà o la polivalenza di ogni posizione personale contribuiscono a creare un quadro generale che non consente di analizzare la società medievale in termini rigorosamente classisti. Chi produce plusvalore può produrlo per altri e contemporaneamente anche per sé. Il lavoro serve all’autosostentamento e contemporaneamente a finanziare le attività imprenditoriali del padrone (che è il signore feudale, o il pievano, o il potentato che esige tributi attraverso l'istituto comunale, o più spesso tutte queste cose insieme), ma può servire anche ad un accumulazione personale, destinata a redimere in parte la propria posizione di lavoratore soggetto acquistando terre e, con esse, la forza lavorativa che su queste risiede. In questo senso ha ragione il Fiumi di estendere ad ogni livello della produzione il concetto di capitalismo borghese. Le contraddizioni esistono dunque, ma solo in questo modo confuso, e non sono per lo più facilmente distinguibili e valutabili. Il conflitto, al limite, passa attraverso una stessa persona, che può contemporaneamente sfruttare, essere sfruttata e autosfruttarsi. Questo conflitto non può originare coscienza di classe, né diventare conflitto di classe. E, infatti,
la storia politica dell'età comunale è la storia delle faide cittadine o delle faide familiari, non degli scontri fra classi sfruttate e classi dominanti. Questo è senza dubbio l’ostacolo che ha impedito a Marx e alla storiografia marxista in genere di portare fino in fondo l’analisi politica della società feudale e comunale. Ma vi è un ultimo fantasma storiografico, che anche la storiografia più aggiornata non arriva a distruggere completamente, ossia la convinzione che questo capitalismo borghese dell’età medievale possa essere cresciuto su se stesso, quasi generato dal nulla come una nube di caldo nell’afa dell’estate. In questo la storia urbanistica è determinante, poiché soltanto attraverso di essa si possono raggiungere le prove dell’esistenza di comunità organizzate, sostanzialmente equalitarie e libere, che come forze produttive esistevano già prima dell’avvento della nuova organizzazione capitalistica, espressasi appunto
in maniera
pesantemente
concreta
attraverso la costruzione di pievi, torri, fottezze e mura. Perché la storia urbanistica possa dare un contributo nuovo in questa direzione occorrono però sostanzialmente tre cose: cessare di considerare mura e fortezze e chiese come episodi urbanistici individuanti e di assu-
103 »
merlî come base per la « tipizzazione » dei villaggi; precisare la natura reale, e non supposta o presunta per effetto delle divulgazioni storiografiche di maggiore risonanza, dei rapporti che intercorrono tra « castrum » e «incastellatura », ossia tra villaggio e fortificazioni; leggere la struttura di questi villaggi casa per casa, via per via, e arrivare con questo a ricostruire la vita e la storia, non banale né vuota, delle comu-
nità che li abitavano: una storia, giova ripetere ancora, scritta sulle pietre e nelle zolle, che non ha lasciato traccia di sé nelle cronathe e nelle carte notarili. Per arrivare,
su questa
strada, a risultati concreti,
occorre
portare
fino in fondo un discorso critico che da non molto tempo è stato avviato. Si ricorderà che, per parecchi decenni, le opere di architettura civile sono rimaste escluse dai compendi di storia dell’arte (e in buona parte lo sono ancora); a poco a poco anche l’edilizia civile medievale ha cominciato a trovare il suo spazio in questo genere di pubblicazioni, ma limitatamente agli edifici considerati più insigni, come palazzi pubblici, case torri, fortificazioni. Ciò ha nuociuto non poco anche alla stessa conservazione dell’edilizia civile medievale, appunto perché in un primo tempo ci si è indirizzati verso la tutela dei soli edifici di culto, trattando senza
nessun riguardo e spesso demolendo tutto il resto, e poi salvando qualche episodio isolato di costruzioni civili, che finiva per restare senza significato e mera attrazione turistica perché distaccato dal contesto urbanistico nel quale in origine era stato pensato. Oggi infine opere come
quelle del Di Pietro e del Fanelli, unitamente agli studi da altri condotti sui castelli romani e a qualche simile lavoro su temi affini, contribuiscono ad accrescere la consapevolezza che sulle città, sui villaggi, sul paesaggio medievale si deve avviare un discorso urbanistico completo, che tenga conto criticamente di tutti gli elementi che compongono il quadro e non solo di alcuni di essi, presuntivamente più importanti. Ma questo non basta. Se questo tipo di analisi globale continua ad avvalersi dei vecchi strumenti storiografici e precipita anch’essa negli equivoci di una lettura aristocratica dei centri urbani, allora niente di nuovo si aggiunge né si acquista sul piano della prassi storiografica, salvo un platonico riconoscimento della validità « artistica » o « for-
male » di questa urbanistica villareccia; il quale riconoscimento, tutto sommato, conduce anche a un pericoloso rovesciamento del problema critico. Infatti, per tale via, si finisce per accreditare la convinzione che questi villani, sia pure nel loro piccolo mondo, fossero o avessero tra
loro degli artisti e degli urbanisti in sedicesimo, le cui opere pertanto richiederebbero di essere lette con canoni non molto diversi da quelli che noi adottiamo di solito per un palazzo Pitti o un palazzo Rucellai. Così facendo si avallerebbe ancora, sia pure senza magari averne l’intenzione, la convinzione che l’urbanistica di questi villaggi sia « urbanistica minore » (così in effetti titolava il Detti un suo articolo: Urbaristica medievale minore, in « Critica d'Arte », nn. 24, 25-26, 1957-58);
104
donde poi l’attribuzione del massimo dell'importanza critica e storica a torri, mura, pievi e fortilizi, che sono espressione delle forze parassitarie, lasciando
invece in sottordine
case, corti, orti e mulattiere, che
sono espressione dell’attività delle forze produttive. La grande occasione perduta dal Di Pietro e dal Fanelli è infatti proprio
nuova
questa:
essere
stati
sull'orlo
di seguire
una
via
e avere invece ripreso gli errori di impostazione
storiografica
e di metodo
della vecchia storiografia. La prova di questa occasione perduta non è forse tanto nell’analisi che viene offerta del problema nel suo insieme, quanto piuttosto nelle proposte operative che ne conseguono. Quando cioè dalla storia di questi villaggi si passa alla indicazione di una prassi, ossia ci si pone il problema di attualizzare il discorso e di inserire questi stessi villaggi nelle esigenze della società di oggi, allora si evidenzia il carattere aristocratico di tutta l'impostazione di fondo data alla ricerca dai due architetti. Così, per quanto lodevole sia il proposito di abbinare allo studio delle città murate il problema del loro « sviluppo contemporaneo », le conclusioni finiscono per contraddire le premesse di tutto il lavoro. Vediamo come e perché. Se cerchiamo, in calce alle singole schede dei quarantatre centri descritti, proposte concrete e pertinenti di intervento in vista di uno « sviluppo contemporaneo », in realtà ne troviamo
ben poche. Si tratta, in massima parte, della denuncia di scempi già perpetrati o del ricorso sporadico alle indicazioni contenute in alcuni piani regolatori già elaborati ed evidentemente nati nell’entourage degli autori del volume. Si deve quindi prendere per valida l’indicazione generale che il Fanelli dà, su questo tema, nella parte dedicata al problema dell’analisi della forma urbana. Dopo avere escluso la possibilità di « inserimenti » 0 « sostituzioni » nei centri storici e avere
affermato
storico deve essere considerato unità funzionali da considerare
(con buona
come come
ragione) che «il centro
costituito da una, o più d’una, organismo integrale », il Fanelli
sostiene il concetto, anch’esso indiscutibile,
« che non si tratta di riuscire
a trasformare la struttura del centro storico per inserirla nella pianificazione, ma si tratta invece di verificare la possibilità di recuperarla nella sua integrità e di considerarla un punto fisso nel territorio ». « Una possibilità — prosegue però il Fanelli — che meriterebbe di essere studiata attentamente ed elaborata attraverso esperienze di intervento nell’ambito della pianificazione è quella di costituire alcuni centri storici come città-museo dando al secondo termine un significato diverso da quello con cui è stato in alcuni casi impiegato (di congelamento di forme e funzioni) e cioè di offerta della possibilità di un’esperienza di certezze e che si sono tradotte in forma, possibilità di esperienza inserita nella strategia di attribuzione delle funzioni nel territorio. Considerando l’enorme interesse che le testimonianze del passato suscitano e susciteranno ancor più in avvenire nella cultura contemporanea a tutti i livelli, interesse le cui ragioni vanno al di là delle giustificazioni e
105
forme,
spesso
superficiali
(turismo
come
moda,
prestigio,
ecc.), e della
mancanza di coscienza che spesso caratterizza la partecipazione dell’uomo comune — la possibilità di realizzare tali ‘ città-museo ’ appare come una razionale
attivazione
di un
potenziale
enorme
attualmente
alienato
o
abbandonato a se stesso o ignorato » (Città murate, p. 41). Per chiarire questo concetto, il Fanelli cita Giuseppe Samonà, il quale proponeva di « vedere quale trasformazione dovrebbe subire l’idea che abbiamo oggi di museo e dell’attività museografica in genere, se volessimo immergerla nella vita, facendo in modo che le opere architettoniche, di pittura o di scultura, ci siano presenti ogni giorno e in ogni momento per una consuetudine, che non è la breve contemplazione dell’amatore, né quella
fugace delle folle guidate, che senza vedere nulla cercano di vedere ogni cosa » (Il problema urbanistico dell’intervento nei centri storici, in « Siprauno », 6, 1966).
In realtà la proposta del Samonà, per quanto riferita al problema urbanistico dei centri storici anziché ai fatti della cultura in genere, non è né nuova né originale. Croce e delizia di tutti gli accademici del buon tempo andato, nonché dei numerosi ancora viventi sotto mentite spoglie, il desiderio di vedere gli altri diventare partecipi degli stessi valori culturali in cui ognuno di noi singolarmente crede è vecchio come la poesia, o forse come la parola. Ma proposto agli altri, come regola di vita e di comportamento, questo desiderio si tinge di una patina sottilmente autoritaria, poiché propone alle masse di accettare per valori universali
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SH Su di un antico disegno del lago di Sesto, annesso al « Libro delle misure pubbliche » el 1412.
i
od
gione in tutte le stagioni dell’anno. I pesci che ivi si alimentano consistono in luccio, perso, scalbatra, tinca, muggine, reina, barbo, lasca, cheppia, lattaja, gavedano e varie qualità di anguille, fra le quali il gavorchio, il marchione, il martinello, il musino e la lampreda. Fu notato che molte delle surriferite specie di pesci fanno la loro cova dentro il lago, piuttosto che nella porzione palustre. Il luccio e il pesce perso si pescano in maggior copia nel marzo, che è il tempo della loro fregola. Le scalbatre sogliono pescarsi in numero copiosissimo dentro il palude nei mesi di ottobre e novembre: nel quale tempo quel pesce va a refugiarsi in alcuni determinati luoghi dalle qualità delle piante che ivi allignano, chiamati Papèe. In minor quantità compatiscono i muggini, le reine, i barbi, le
lasche ed altri di simil sorta, che dall’Arno per l’emissario s’introducono nel lago. Forse la stessa via tengono anche le anguille, alcune delle quali provenienti probabilmente da quelle piccole anguillette che alle mense dei pisani s'imbandiscono, sotto il vocabolo di cieche. Questo pesce, che forma il più ricco prodotto del padule, abbonda più che altro nel recinto dei Proventi. Si pesca in tutte le stagioni, ma con più successo in ottobre e novembre. Il modo di pescarlo è singolare; esso suol praticarsi generalmente di notte tempo, quando la luna è in decrescenza, o allorché le acque
del lago, in conseguenza di abbondanti pioggie, di venti o di tempo burrascoso, s’intorbidano e acquistano un movimento e una corrente maggiore. La pesca delle anguille si fa dentro il padule esclusivamente nei pagliereti o intorno ai pollini. Gl’instrumenti a tal uopo impiegati sono i
99. Bacino del lago di Sesto, da un disegno risalente probabilmente al secolo XVIII.
9
tramagli, le lensi, altre reti di simile maniera, e la fiocina. Ma fra tutti gli
arnesi pescatorj, il goro è quello col quale si prende nel lago il maggior numero di pesci, anche i più minuti, con sommo pregiudizio della loro moltiplicazione. La pesca de’ gamberi suol praticarsi a preferenza nel canale della Serezza. Non dirò di quella delle ranocchie che è copiosissima per ogni dove nei bassi fondi e in tutta la pianura bientinese. « La rendita di questo padule, essendo in libertà di chiunque il pescare senza render conto della sua preda, non può esattamente calcolarsi. È altresì vero che i Proventi, ossia la parte riservata alla Comunità, frutta un’entrata non minore di mille scudi per anno. Fa meraviglia però che i bientinesi in tanta copia di pesci non usino di alcun metodo atto a conservarli, onde ricavarne un maggior profitto in tempi di minore raccolta. Ai prodotti animali del lago di Bientina sono da aggiungere gli uccelli acquatici, fra i quali le folaghe, che abbondano costà in modo prodigioso » (Dizionario, v. « Bientina », I, pp. 323, 324).
Non c’è che da rimpiangere questo paradiso perduto. Ma, per dire il vero, l’oppottunità di una sistemazione idraulica del bacino del Bientina era indiscutibile ai tempi di Leopoldo II. Basta ricordare che, allora, il lago occupava 6.615 ettari in tempo di piena, 2.863 ettari in regime ordinario e 1.675 ettari nei periodi di magra massima. Tale situazione
era chiaramente Ma, a parte
insostenibile e giustamente
ogni altra considerazione
si pensò di porvi rimedio.
di ordine
sociale
ed economico,
7 @ ALTOPASIO
100. Lago di Sesto e corso dell’Arno e dei Serchio nel XIV-XV
secolo.
155
anche a livello tecnico il progetto Fantoni dimostrò le sue gravi carenze già pochissimo tempo dopo la sua realizzazione. Si legge infatti nella relazione degli ingegneri Antonio Corsi e Enzo Battaglia, rimessa in Pisa sui problemi della bonifica il 20 giugno 1950, che, « dopo pochi decenni di esercizio, si vide come aleatorie fossero le speranze di mantenere le zone all’asciutto a mezzo dell’emissario, perché da un lato non era facile la manutenzione di esso e degli altri fossi e canali anche per le forti spese necessarie, mentre dall’altro i terreni di più facile compressibilità tendevano, una volta prosciugati, ad abbassarsi, e non era possibile seguire il loro movimento con l’alveo dell’emissario perché ogni abbassamento del pelo d’acqua di quest’ultimo andava a detrimento della poca cadente disponibilità. Tutto ciò, naturalmente, in rapporto alle forti portate da defluire. « Nei primi anni dopo il 1900 le condizioni si erano talmente aggravate da impedire nei mesi invernali ogni coltivazione e il lago riappativa ogni anno di più nei suoi vecchi confini; allora coraggiosamente per iniziativa privata si mise mano alla costruzione di bonifiche meccaniche in talune circoscritte zone di gronda che per la loro altimetria facevano appatire meno grave l’impresa. Tali bonifiche nei primi decenni hanno avuto ottimi risultati. Ma la bonifica dei terreni di gronda aggravò le condizioni degli altri, che pure andavano abbassandosi, e così gli allagamenti si accentuarono in queste altre zone e progredirono di anno in anno, per quanto
già nel 1914 si sentisse la necessità di procedere ad una generale escaF, SERCHIO
i Cole
@ ALTO p#ScIo O22E%,
I 9 BIENTINA
F. ARNO
101. Situazione attuale.
Ii
134
vazione dell’emissario per limitare le escrescenze delle sue piene che minacciavano gli argini di difesa delle bonifiche stesse; in questa occasione si procedette anche al disinterro della botte sotto l'Arno che fu trovata ostruita per metà della sezione. « Oggi, dopo un secolo dall’inizio della costruzione dell’emissario, non si può certo dire di avere raggiunto la bonifica delle zone interessate, e gli allagamenti coprono periodicamente l’intero alveo del lago di Bientina allargandosi anche a parte delle gronde. Anche le bonifiche meccaniche hanno perduto gran parte della loro primitiva efficienza, perché i terreni si sono talmente depressi, oltre ogni più ragionevole previsione, da mettere in difficoltà gli impianti idrovori, costruiti con caratteristiche relative ad una sistemazione trasformatasi. Anche alcuni argini, ed in modo particolare quelli delle bonifiche delle gronde, hanno subìto l’influenza della depressione generale, e questa circostanza si è dimostrata tanto più grave in quanto ha coinciso con l’elevarsi continuo delle punte
di piena delle acque esterne; conseguentemente alcuni consorzi si sono trovati costretti ad abbandonare la pompatura nei mesi invernali, limitandosi a praticare colture estive, che danno sempre più scarsi risultati
per la mancanza degli avvicendamenti, del bestiame e di ogni buona norma di coltivazione. E non basta: d’estate si coltiva, sia pure limitatamente, ma
manca
l’acqua e le colture soffrono
l’aridità, perché è noto che in
terreni sciolti o torbosi occorre una buona irrigazione, senza la quale non si possono ottenere adeguati risultati ». E si ricava
ancora,
dalla relazione
svolta
dal dottor
Paolo
Tenconi
al convegno di Bientina del 23 giugno 1966 per conto dell’amministrazione provinciale di Pisa, che « oltre 3.000 su 8.875 ettari di terreni, e cioè quelli facenti parte della bonifica dei Fossi di Padule, di Orentano, della zona di Levante del Tiglio, di Badia Pozzoveri, di Butori, Badia di Castelvecchio e Botronaie, oltre alle zone demaniali depresse, sono sog-
getti ad inondazioni periodiche e ricorrenti e tali comunque da impedire la messa a coltura di gran parte dei terreni stessi. La bonifica meccanica, che qui viene attuata, interessa soltanto 1.795 dei 3.000 ettari in parola e non sempre produce i risultati desiderati in quanto, a causa dell'avvenuto abbassamento degli argini dei canali, l’invaso degli stessi è sensibilmente diminuito, costringendo alcuni dei consorzi preposti alla bonifica meccanica a sospendere, nei mesi invernali in cui si verifica la massima pieria delle acque, l’uso degli impianti idrovori, e ciò per evitare il rischio di esondazioni dei suddetti canali, ormai incapaci di contenere tali volumi d’acqua ». Dunque in quindici anni, dal 1950 al 1966, la situazione non era migliorata, ma era andata progressivamente peggiorando, soprattutto sotto il profilo della possibilità di smaltimento delle acque in regime di piena. E infatti — osservava ancora il Tenconi nella sua relazione — « la situazione è andata via via aggravandosi con il trascorrere degli anni. Ciò è possibile documentarlo con i dati in nostro possesso, che costituiscono un elemento probante e che si riferiscono all’attività agricola manifestata
J05)
dal 1957 ad oggi da alcune proprietà cooperative agricole dell’associazione nazionale combattenti e reduci, appunto operanti nella plaga del Bientina. La società cooperativa agricola di Santa Maria a Monte, ad esempio, che nell’anno 1957 aveva assegnati in affitto dal demanio 112 ettari di terreno, dei quali soltanto 40 coltivabili, mentre i rimanenti 72 erano soggetti ad inondazioni periodiche e pertanto non suscettibili di coltivazione, ha visto aumentare, nel 1965, ad ettari 160 la superficie assegnata in affitto, ma di questa è stato possibile sottoporre a normale avvicendamento soltanto 52 ettari, dato che i restanti 108 risultano invasi dalle acque. Dal che si deduce che, per la cooperativa in esame ed in termini
percentuali, si è registrato dal 1957 ad oggi un aumento della superficie sommersa dalle acque dal 64,2% al 67,5%.
« Ancora peggiore è il quadro che presenta la società cooperativa agricola di Bientina che, nell’anno 1957, aveva assegnati in affitto, sempre dal demanio, 135 ettari di terreno e che, in quell’epoca, era in grado di sottoporli integralmente a coltivazione. Alla data attuale possono rilevarsi i seguenti dati: superficie assegnata in affitto, ettari 135; terreni sommersi dalle acque, ettari 59, pari al 43,7% della superficie complessiva. Infine, relativamente ad una terza società cooperativa agricola, quella di Orentano, si constata che, sin dall'anno 1957 ed a tutt’oggi, dei 131 ettari assegnati in affitto 76 ettari, pari al 58% circa della superficie complessiva, risultano invasi dalle acque. È questo un caso caratterizzato da una notevole staticità, per quanto concerne l’entità dei terreni sommersi, con stretto riferimento al suo aumento nel tempo, ma che comunque
lascia chiaramente
trasparire
come,
stanti
tali condizioni,
sia com-
promesso in misura sensibile l’intero processo produttivo aziendale ». Dunque il fallimento della cosiddetta bonifica è pressoché completo, da qualunque punto di vista la si voglia considerare. Perfino gli impianti idrovori sono inadeguati a proteggere dagli allagamenti una parte soddisfacente dei terreni « bonificati », poiché il loro impiego nei periodi di piena (cioè proprio quando ve ne sarebbe maggiore necessità) comporta l’esondamento
dell’acqua di deflusso
dai canali con
conseguente
allaga-
mento di altre zone asciutte. D'altra patte non vi è certezza che il deflusso delle acque possa essere accelerato nei momenti in cui ve ne sarebbe bisogno. La notevole lunghezza dell’emissario, la sua limitatissima pendenza, la sezione obbligata della «botte » sotto l'Arno, le forti spese di manutenzione necessarie per mantenerlo pulito sono elementi concorrenti che portano l’imponderabilità a livelli economicamente non sostenibili. Mentre non vi è sicurezza che nuove o più profonde canalizzazioni che si adeguassero alla generale depressione del suolo servirebbero veramente a-smaltire le acque di piena in questo bacino imbrifero a forte regime torrentizio, è certo che esse aumenterebbero l’emungimento dei terreni sciolti e torbosi che costituiscono la principale caratteristica geopedologica del Bientina, favorendone ulteriormente la compressione e l’inaridimento durante i mesi di calura. Naturalmente l’aleatorietà e l’insicurezza della situazione ecologica si riflette direttamente sulla redditività
136
delle attività agricole, già di per sé incostante e depressa, e quindi sulla situazione sociale di coloro che sono legati alla vita dei campi, costretti ad affrontare una crisi dentro la crisi. Dal punto di vista territoriale, il confronto fra il quadro tracciato dal Repetti e quello descritto dal Corsi, dal Battaglia e dal Tenconi indica efficacemente, in termini quantitativi e qualitativi, la perdita di valori che vi è stata dall’inizio della « bonifica » in poi. Questa situazione, però, non è da considerare senza rimedio, almeno se si parte dalla considerazione che essa non è casuale, ma frutto di errori che possono essere individuati e corretti. Occorre cioè, a questo fine,
prendere in esame la possibilità di un restauro territoriale, che elimini gli inconvenienti derivati dagli interventi compiuti senza avere rispetto del quadro urbanistico che si era costruito nel tempo fino a raggiungere una sua maturità economica e sociale. Ma prima di toccare il quadro da restaurare bisogna prendere adeguatamente coscienza di che cosa si nasconde dietro le ridipinture e dei motivi che hanno mosso la mano che impugnava il pennello ridipintore. L’intervento lorenese sul padule di Bientina fu infatti solo l’ultimo episodio di una politica agraria attuata su tutta la Toscana e che per certi aspetti rappresentò l’avanguardia di un determinato
mazione si insediò
territoriale.
Il regime
nel granducato
dei Lorena,
subentrando
indirizzo di trasfor-
fin da quando la dinastia
ai Medici
(1738),
è conosciuto
come un regime illuminato. In effetti i nuovi granduchi presero in mano le redini del governo in maniera decisa, avvalendosi della consulenza dei maggiori dotti del tempo (non solo toscani) soprattutto nel campo dell’economia e dell’ingegneria. La base politica del regime lorenese fu l’economia agricola. Per questo motivo sin dagli inizi i Lorena combatterono la mano morta ecclesiastica e recuperarono allo stato parecchi beni di amministrazione
vescovile.
Ma, accanto
a questo
recupero
politico, essi
portarono avanti anche un recupero fisico del territorio, appunto bonificando quelle zone che non si prestavano a uno sfruttamento agricolo. Parlare di rivoluzione agricola in Toscana forse è eccessivo. Tuttavia è un fatto che i Lorena, pet trasformare fisicamente e quindi economicamente grosse fette di suolo da sfruttare estensivamente, richiesero l’intervento dei più noti ingegneri d’Europa. Così si realizzarono, per la prima volta in maniera massiccia e sistematica, grosse trasformazioni ter-
ritoriali, volute dal potere centrale e progettate per suo conto dalla classe colta. In questo modo si sottraeva la politica del territorio agricolo dalle mani dei coltivatori e dei proprietari fondiari per trasferirla nelle mani degli ingegneri che progettavano e del governo centrale che programmava la sua economia. Naturalmente questo trasferimento di potere non avvenne senza traumi.
Vi furono contrasti, com'è noto, tra i Lorena
e i vescovi
e, meno spesso, tra i Lorena e i grossi proprietari fondiari. Ma vi furono anche conseguenze rilevanti sull’assetto che il territorio assunse, quando la competenza della sua organizzazione fu trasferita da coloro che vivevano
157,
sulla terra o per mezzo della terra a coloro che studiavano a tavolino i problemi della terra e dell'economia terriera. In alcuni casi le conseguenze di questo
trasferimento
di competenza
furono
assai gravi anche
sotto
l’aspetto tecnologico. Emblematico, in questo senso, è ciò che avvenne nella pianura grossetana, dove i Lorena portarono a compimento la più grossa bonifica allora intrapresa in Italia. Anche qui, come a Bientina, esisteva una peschiera largamente produttiva, ma anche qui il regime delle acque era talmente precario da generare grossissimi inconvenienti di ordine idrologico e igienico. In questo caso, anzi, le acque erano state arginate e venivano rego-
late nel loro deflusso verso il mare — vicinissimo — appunto per mantenere efficiente la peschiera; ma questo provocava inevitabilmente l’impaludamento dei terreni coltivabili circonvicini, che non erano adeguatamente
102. Area della bonifica del Bientina.
138
protetti. Già nel 1629 il problema era stato posto a Ferdinando II, che aveva manifestato l’intenzione di vietare la chiusura delle bocchette che contenevano il deflusso delle acque e lasciare in questo modo che parte della terra si prosciugasse naturalmente. Ma, allora, il parere degli esperti fu che la pesca era più vantaggiosa della coltivazione del grano, e le cose restarono come erano. Dall’affitto della peschiera si ricavavano infatti 3.500 scudi l’anno. Essa era in appalto a grosse famiglie fiorentine che non
avevano
alcun
interesse
a un
cambiamento
della situazione,
questa fu probabilmente la causa principale del ripensamento
e
di Fede-
FICONLIE Anche i Lorena si trovarono a contrastare con questo gruppo di potere
e rinviarono per parecchio tempo l’attuazione della bonifica, benché il problema della regimazione delle acque si presentasse sempre più pressante. Il tentativo di trapiantare nella zona un migliaio di lorenesi, affinché provvedesseto essi a una nuova sistemazione del territorio, si risolse nel nulla. Leopoldo I, infine, accettò il piano del gesuita Leonardo Ximenes e lo mise in pratica. Il piano dello Ximenes, idraulico e matematico, faceva
a pugni col comune buon senso. Esso consisteva in una semplice (e semplicistica) trovata: alzare il livello delle acque, in modo da sommergere completamente e permanentemente le zone paludose, ponendo fine in questo modo a tutti gli inconvenienti igienici che esse originavano. Ma, come qualunque contadino maremmano avrebbe potuto spiegare all’idraulico e matematico Ximenes, la terra non è un materiale impermeabile ma,
anzi,
notevolmente
filtrante.
Così
accadde
l’inevitabile:
il rialza-
mento del livello delle acque, realizzato attraverso un poderoso di chiuse costruite a circa due chilometri da Castiglione della provocò l’impaludamento di nuove aree circonvicine. Questo niente, superabilissimo con l’impiego delle idrovore, era invece rabile con gli strumenti di cui lo Ximenes poteva disporre. chiuse vennero
aperte e tutto tornò come
sistema Pescaia, inconveinsupeCosì le
prima.
Il problema fu perciò ripreso in mano da Leopoldo II, con una larghissima consultazione di esperti. Furono interpellati il conte Fossombroni,
il cavalier
Paleocapa,
l'idraulico
bolognese
Fantoni,
il francese
barone Lacuée, gli ingegneri Capei, Manetti e Grandori. Il Fossombroni presentò la sua relazione al granduca il 10 agosto 1828. Egli proponeva di eliminare la palude secondo natura, cioè facendovi defluire parte delle acque di piena dell’Ombrone e di alcuni suoi piccoli affluenti, affinché vi depositassero i loro detriti. Il progetto fu accolto e la bonifica si realizzò (cfr. C. MAJORANA,
1970, ms., pp. 125-135).
Storia urbanistica di Castiglione della Pescaia,
Per il padule di Bientina, fatto oggetto anch’esso di un’ampia consultazione fra esperti, non si poté o non si volle attuare la bonifica per colmata, nonostante la vicinanza dell’Arno. Si preferì invece l’intervento grandioso, la « botte » che sottopassa l'Arno, il lungo emissario che raggiunge direttamente il mare. Così la natura, invece che assecondata, fu
159
violentata. E questa violenza si aggiunse all’altra, che comunque si sarebbe compiuta, contro la comunità dei pescatori bientinesi. C’è stato, in qualcuno dei ripetuti convegni sul Bientina, anche chi ha proposto la difesa a oltranza del paesaggio, abbandonando la bonifica e lasciando tornare tutto allo stato naturale. Questo genere di proposte, che talora si sentono fare da intellettuali definiti di idee avanzate, potrebbe essere idoneo pet risolvere i problemi degli ultimi indios dell’ Amazzonia, ma non quelli del padule di Bientina, dove da millenni il paesaggio è condizionato e modificato dalla presenza e dall’intervento dell’uomo. D'altro canto, l'alternativa agli errori urbanistici non è mai il deserto, o il deserto delle idee. Se è vero, come tutto ormai sta a dimostrare, che si è sbagliato vedendo nelle acque il nemico da respingere, il problema del Bientina potrà essere quello di bonificare non più le terre ma le
acque. Proviamo
a fare un’ipotesi. Una peschiera non dà un reddito infe-
riore a un terreno coltivato di pari estensione.
Si è visto, del resto, che
la trasformazione delle peschiere in terreno coltivo rispondeva a un disegno economico preciso e certamente non più attuale. Inoltre, assodato ormai
che la malaria
non
si combatte
con
le bonifiche
(le « paludi li-
neari », ossia i 1800 chilometri di canali dell’agro pontino fecero più vittime delle paludi vere e proprie, almeno finché non fu sterminata l’anofele), tutta la materia viene rimessa
in discussione, poiché si consi-
derano i riflessi negativi che ha sul clima, con particolare riguardo alla piovosità, il prosciugamento di vaste estensioni di territorio palustre o comunque coperto dalle acque. Rispetto all’agricoltura, la pesca ha il vantaggio di consentire una migliore distribuzione del lavoro e di possedere una minore aleatorietà. Utilizzando argini e chiuse della bonifica per trattenere una certa quantità di acqua, anziché per farla defluire, sarebbe possibile ricavarne un certo numero di valli da pesca opportunamente orientate e distribuite, tali da costituire nel loro complesso un vasto bacino di raccolta. Tale bacino, oltre a dare un proprio non trascurabile reddito, sarebbe di notevole giovamento per quei terreni che resterebbero destinati all’agricoltura. Più in concreto: dei 3000 ettari attualmente soggetti agli allagamenti periodici, corrispondenti grosso modo alla superficie del vecchio lago in regime normale, circa la metà, ossia approssimativamente l’area alla quale il lago di Sesto si riduceva nei periodi di massima magra, potrebbe essere arginata opportunamente e destinata alla pesca. Per le valli da pesca il rialzamento di un metro o due del livello delle acque durante i periodi di massima piovosità, purché previsto, non costituirebbe un inconveniente pregiudizievole, ma agli effetti della bonifica ciò significherebbe poter raccogliere e lasciar defluire successivamente con ogni tranquillità venti o trenta milioni di metri cubi d’acqua. Qualche altro centinaio di ettari adeguatamente arginato e lasciato a palude potrebbe poi costituire un ulteriore polmone di riserva per la sicurezza delle stesse valli da pesca nei casi di piovosità eccezionale. L’azionamento delle idrovore impe-
140
direbbe l’inconveniente che determinò il fallimento della soluzione dello Ximenes per Castiglione della Pescaia. Con una soluzione del genere si verrebbe intanto a correggere il regime torrentizio delle piene, dovuto alle peculiari caratteristiche del bacino imbrifero e in particolare della massima parte dei corsi d’acqua afferenti, che defluiscono dalle vicine alture con andamento rapido e precipitoso, e si normalizzerebbe anche il flusso del canale emissario, riducendone di molto l'interramento per effetto della preventiva decantazione delle acque. Non
si può ritenere che l’acqua raccolta nelle valli da pesca potrebbe essere utilizzata a scopo irriguo nei periodi di siccità, tuttavia l’opporttuna dislocazione delle valli stesse (il lago di Sesto aveva una forma assai allungata e irregolare che sarebbe inevitabile ripetere) potrebbe senza dubbio contribuire a ridurre la disidratazione
dei terreni, con tutti i fenomeni che
ne conseguono. L’economia della zona non ne verrebbe impoverita, ma complessivamente potenziata. Si eviterebbe nel contempo il rischio di spingere i costi di manutenzione della bonifica verso indici non remunerativi. L'agricoltura potrebbe praticarsi seguendo i normali avvicendamenti su un terreno più ricco di umidità e più stabile. La pesca creerebbe, o tornerebbe a creare, una nuova attività produttiva nel Bientina. Se i progettisti cui si affidò il granduca di Toscana avessero posseduto i nostri elementi di giudizio e magari avessero potuto disporre come noi dell’esperienza del dopo, probabilmente non avrebbero adottato la soluzione della bonifica integrale; soluzione che invece gli enti cosiddetti competenti continuano
a mantenere
il rischio di aggravare ancora
nei loro programmi
e a finanziare, con
di più la situazione. Ma, al di là delle
possibili conclusioni pratiche della vicenda, la lezione che ci viene dal Bientina è piuttosto importante. La natura ha le sue leggi. La simbiosi tra natura e uomo è possibile nella misura in cui questi cerca di interpretarla, non di violentarla. Se questo principio poteva valere per Leopoldo II e per i suoi ingegneri, a maggior ragione deve valere per le opere dei nostri giorni, condotte con sistemi assai più efficaci e distruttivi. In ogni caso, commesso l’errore, lo strumento più valido per rimediare è quello di riprendere pazientemente la storia urbanistica del territorio là dove un intervento inopinato l’ha interrotta, per cercare di individuare
le cause e le conseguenze di quell’errore. Nel caso del Bientina si tratta di capire perché ogni anno il lago di Sesto torna beffardamente a riformarsi là da dove per più di un secolo e con tutti i sistemi si è cercato inutilmente di cancellarlo.
.
141
URBANISTICA E CIBERNETICA
« Se è pur vero che ogni città rappresenta un unicum per la nostra cultura, ed in essa sia i singoli elementi nella loro strutturazione, sia le loro forme di aggregazione rispondono a leggi singolari, tuttavia esistono fenomeni che si ripropongono, sia pure con diverso grado d’intensità, in molte città o regioni urbane. Pertanto ogni ricerca parzializzata o settoriale, svolta con riferimento ad una patte di una città, può assumere, sotto il profilo metodologico, un valore che trascende i dati puramente contingenti ed offrire un modello suscettibile di essere applicato su scale più estese ». Chi così si esprime è Giuliano Forno, in un lavoro del 1967 (L'indagine urbanistica. Esempi di metodologia, p. 10). Questa affermazione, assai generica in se stessa, non richiederebbe una particolare attenzione se il Forno non si fosse prima richiamato all’uso di « modelli » ai quali fare riferimento appunto « per la verifica di particolari situazioni della realtà urbana », intendendo per « modello », così come il Wiener nella sua Introduzione alla cibernetica, « una disposizione caratterizzata dall’ordinamento degli elementi di cui si compone, anziché dalla natura intrinseca di questi elementi ». Conseguentemente, i temi di base attorno ai quali il Forno dichiara di avere articolato le ricerche sono i seguenti: l’aspetto strutturale, volumetrico, materico degli edifici, la loro consistenza statica, la loro rispondenza alla normativa igienica, il particolare grado di vitalità di una struttura urbana, inteso come rispondenza alle esigenze dell’organizzazione delle comunità cittadine. Tutto ciò « con alcune integrazioni di carattere storico-conoscitivo »
(ibidem). L'indagine ha per oggetto il centro storico di Albenga e la via Paglia in Genova Sestri. Il problema che il Forno si pone è dunque chiaro e di portata metodologica non trascurabile. Si tratta, in sostanza, di codificare alcuni aspetti di una realtà urbana in modo da poterli elaborare secondo procedimenti omogenei e conseguentemente riducibili a un’espressione numerica. Non è superfluo aggiungere che la ricerca del Forno, per alcuni aspetti esemplare, non è stata la sola a muoversi in questa direzione.
142
Infatti in molte città l’esigenza di disporre di dati agili e facilmente consultabili ha indotto particolarmente le amministrazioni pubbliche a tentare analisi consimili sui centri storici, anche se di solito con risultati
piuttosto discutibili. È forte, comunque, la necessità di far collimare le esigenze della progettazione e della pianificazione con un’analisi adeguata delle situazioni preesistenti. La cibernetica sembra essere la grande risposta a queste necessità.
Del resto, a parte i moderni e sempre più perfetti strumenti di calcolo, il problema è antico quanto l’uomo. Individuare nella realtà delle costanti e trarne regole di comportamento fa parte della nostra attività di tutti i giorni. La novità consiste caso mai nel tentare di applicare la cibernetica non alla realtà esterna all’uomo ma all'uomo stesso e alle sue opere. Ciò equivale a ritenere positive e concrete alcune costanti individuabili nell'uomo, aderendo cioè a quelle teorie che in Italia sono state diffuse con la pessima traslitterazione di « behaviorismo » (0 « comportamentismo »). Occorre quindi discutere preventivamente questo problema prima di stabilire se la cibernetica possa essere applicata all’analisi dei centri storici. Non c’è dubbio che nel modo di agire dell’uomo, preso singolarmente e ancor più come massa, ci siano atteggiamenti e reazioni che rispondono
a costanti ben definibili. Si può anche ammettere atteggiamenti e di queste reazioni debbano
che parte di questi
la loro origine a situazioni
inconsce, e che pertanto non possa intervenire un atto di volontà (che presuppone sempre un atto di coscienza) a modificarle. Non è su questo
terreno che i « behavioristi » possono problemi molto più importanti sui quali tenzione: il valore reale di queste azioni che di essi può fare l'umanità. Per ciò che concerne il primo punto
essere confutati. Vi sono due invece è necessario fermare l’ato atti comportamentistici e l’uso non è difficile capire che l’abitu-
dinarietà, l’assenza di coscienza e di volontà, il meccanicismo delle azioni,
l’incontrollabilità delle reazioni sono gli elementi costitutivi della nostra natura animale. Tale natura non è, ovviamente, un aspetto negativo in assoluto, in quanto può essere in ogni momento riscattata da un nostro atto consapevole. Il « comportamentismo » appartiene al nostto quoti-
diano modo di vivere. Non vi sarebbe niente di più assurdo che pretendere la piena coscienza o la continua ridiscussione di tutto ciò che giornalmente facciamo. .Il punto di crisi si verifica invece nel momento in cui, trattandosi di compiere delle scelte, noi facciamo prevalere il cosiddetto istinto sulla volontà e sulla consapevolezza. Se un giudizio di merito vi deve essere, quindi, esso dovrà interessare la natura di tali scelte, in quanto istintive oppure consapevoli, e non altro. Gil alganche diret ida problema. Le scelte di cui un uomo può essere capace sono teoricamente infinite nella misura in cui egli può disporre liberamente dei suoi atti. Perciò sono anche imprevedibili. Per avere un margine qualunque di prevedibilità occorre agire nel campo delle azioni istintive, che sono per loro natura ripetitorie,
1
i
143
oppure nel campo delle azioni condizionate, limitando a questo scopo la gamma delle scelte possibili. Arrivati a questo punto, però, occorre distinguere nettamente fra teoria e pratica. Sul piano teorico è la stessa metodologia del conoscere ordinario che ci porta a selezionare la gamma delle scelte possibili accogliendo solo quelle probabili, o apparentemente più probabili. Questo genere di limitazione o di autolimitazione non comporta altra conseguenza che quella di un’approssimazione nei giudizi che possono scaturire da un’analisi così condotta. Ma quando si pretende di trasferire sul piano pratico tale limitazione, o i risultati dell’analisi che da essa sono scaturiti, allora si compie un’operazione anch’essa limitativa della personalità di coloro che nell’operazione vengono coinvolti. Non è qui il caso di porre di nuovo in discussione le teorie di J. B. Watson e sue derivate. Sarà sufficiente ricordare che, all’atto pratico, il « behaviorismo » si riconduce sempre ad una schematizzazione delle azioni umane e quindi a una limitazione della libertà di agire. La pubblicità, per esempio, studia il comportamento degli individui e cerca di fissarne le relative motivazioni: in questo non vi è nulla di negativo. Ma quando,
sulla base di tale studio, scatta il messaggio pubblicitario, esso tende per sua natura a perequare entro il suo ambito sia un certo tipo di comportamento sia il merito delle scelte, che ne vengono condizionate e unificate. Se una cosa del genere dovesse essere programmata anche in fatto di urbanistica la cosa sarebbe evidentemente ancora più grave. In urbanistica presupporre che vi siano schemi fissi di comportamento o comunque proporli significherebbe voler obbligare in questi schemi anche coloro che eventualmente
aspirerebbero a starne al di fuori; cioè, di regola, proprio
gli elementi più creativi di una società. E, in ogni caso, le scelte urbanistiche non sono così facilmente reversibili come l’acquisto di un detersivo o di un dentifricio. Se gli uomini fossero formiche certi problemi non si porrebbero. Ma dobbiamo rassegnarci al fatto che l’uomo rappresenta il più grosso e forse non più rimediabile errore di madre natura. Il « behaviour » di una formica è tale che noi potremmo con tutta facilità ricorrere a un computer per costruirgli un formicaio. L’analisi di un centinaio di formicai e del relativo comportamento delle colonie di formiche ivi residenti sarebbe più che sufficiente per fornire all’elaboratore i dati idonei per la progettazione di un formicaio tipo, il quale avrebbe un valore perenne e non solo contingente, perché le formiche non hanno storia (o meglio, hanno una storia puramente genetica, che è appunto l’unica storia a cui
danno valore J. B. Watson e i suoi seguaci). Nella realtà, com’è noto, le formiche non hanno bisogno del computer per costruirsi il loro formicaio. Il disegno strutturale che un digital plotter potrebbe tracciare in pochi minuti esse lo hanno acquisito in decine di migliaia di anni, ma qualitativamente il processo è il medesimo. L’unica cosa che cambia è la rapidità del calcolo. Viceversa, l’uomo ha una sua storia, che non è solo genetica. Imperdo-
144 nabile distrazione biologica, esso è l’unico essere imprevedibile di cui si abbia notizia. Ciò significa che la sua storia di oggi non è quella di ieri né quella di domani, e significa anche che l’uomo è largamente padrone della sua storia, o quanto meno ha la possibilità di esserlo. Ciò equivale anche a dire che, accertato come costante un certo tipo di comportamento, nessuno può essere sicuro che questo prima o poi non venga rinnegato, in un momento
di liberazione.
Inversamente,
chi presuppone
e impone
agli altri un certo tipo di comportamento, ne nega praticamente la libertà e la capacità creativa. Ciò premesso, quasi saranno le possibili applicazioni della cibernetica all'urbanistica? A questo proposito non bisognerebbe dimenticare neppure che il calcolo matematico è sempre un’astrazione, realizzata per risolvere alcune nostre esigenze pratiche, ma anche ben delimitata nel suo campo di azione. Due più due non fa sempre quattro. Due pere più due mele non fa né quattro pere né quattro mele, ma semplicemente due pere più due mele. Perché la somma sia valida nella sua entità numerica occorre che il confronto fra le varie grandezze avvenga entro un insieme omogeneo, che è possibile immaginare appunto attraverso un’astrazione. Parlerò cioè di quattro frutti, o di quattro elementi, con soddisfazione delle mie esigenze di calcolo ma con evidente perdita di qualità. Il problema non muta passando, come vuole il Wiener, dalla natura intrinseca degli elementi al loro ordinamento. Anche in questa formulazione, evidentemente, l’astrazione è programmatica.
Ciò non toglie, ovviamente, nessuna
validità al « modello » che ne può risultare, a patto però che non si dimentichi la perdita di contenuti e di significati impliciti nell’operazione iniziale. Anche le attività e le opere dell’uomo possono quindi rientrare in insiemi omogenei, ma sempre pet via di astrazione. Anche certe situazioni urbanistiche, conseguentemente, possono essere analizzate sulla base
di modelli esemplati sull'ipotesi del Wiener, ma ancora per via di astrazione. L’abuso si verifica nel momento in cui noi pretendiamo di dare concretezza, ponendoli a fondamento di scelte operative, ai risultati di tali analisi, come se la qualità intrinseca degli elementi che convenzionalmente abbiamo assommato in un unico insieme all’inizio dell’operazione si fosse anch’essa resa omogenea, rispecchiata fedelmente dai risultati finali. È invece evidente
che, al termine
dei nostri calcoli, le mele
saranno rimaste mele e le pere pere: fare marmellata non è nei compiti della cibernetica, ne dovrebbe rientrare nella vocazione degli urbanisti. L’indagine dettagliata condotta da Giuliano Forno negli anni 1965-66 su parte del centro storico di Albenga è dunque utile. Il Forno verifica in primo luogo le persistenze planimetriche ed accerta « un’esatta coincidenza fra i perimetri degli edifici e i tracciati settecenteschi, in massima parte di netta origine medioevale », aggiungendo che risulta ampiamente confortata « l’ipotesi del permanere del disegno del castrum romano nell'impianto planimetrico di Albenga » (p. 16); successivamente
egli tratta
(in realtà troppo succintamente) -della variazione funzionale degli edifici,
145
definisce il carattere funzionale attuale della zona urbana presa in esame, indaga sulle percorrenze veicolari e pedonali, rileva la situazione della fognatura e della rete idrica, appura che la densità demografica media è di due o tre unità per alloggio, individua il carattere architettonico e ambientale dell’area soggetta a ricerca, riconoscendo valore ambientale anche alle zone sprovviste di edifici di rilievo (« spazi a misura d’uomo, notevoli valori
di grana
e di accenti,
interessante
disegno
delle coperture
profili contro il cielo », p. 26), traccia quindi un quadro delle condizioni igieniche e statiche degli edifici attraverso una schedatura condotta alloggio per alloggio. Non si può quindi negare validità ai risultati di analisi raggiunti dalla ricerca. Purtroppo, però, il Forno ritiene che tali risultati siano tali da consentirgli di formulare una proposta operativa. « Ogni esame e ogni ricerca svolta sopra una struttura urbanistica ed edilizia — egli scrive — porta necessariamente alla esplicita formulazione di proposte operative dettate da un raffronto fra una situazione esistente ed una situazione ipotetica
ed ideale ispirata alle esigenze ed agli standards individuati dalla dottrina e dalla scienza urbanistica. Nel caso in oggetto appare pressoché impossibile, secondo l’attuale disciplina dei centri storici, ritenere che possa essere mantenuta la struttura edilizia. Infatti un risanamento edilizio comporterebbe tali interventi strutturali che snaturerebbero il carattere, spesso coloristico, delle fabbriche nelle quali ben scarso, salvo in alcuni complessi monumentali, è il disegno architettonico. Si ritiene pertanto che una proposta di risanamento dovrebbe formularsi come ristrutturazione edilizia che, con nuovi edifici, mantenesse però integri i profili sia planimetrici, sia altimetrici. Gli spazi urbani in tale ipotesi sarebbero presenti, così come oggi sono, nel nuovo volto urbano, che verrebbe ad essere caratterizzato dalla conservazione dei singoli elementi di architettura dei comparti B - C - H - M (opportunamente restaurati) e troverebbe motivi di alta qualificazione formale nella radicale opera di restauro e valorizzazione della chiesa e del convento di S. Domenico e nel palazzo e nella torre della famiglia Oddo » (p. 76).
La proposta del Forno è dunque chiara: ristrutturazione integrale in otto dei dodici comparti presi in esame, con rispetto unicamente delle planimetrie e delle altimetrie, e « conservazione dei singoli elementi di architettura » nei quattro rimanenti; restauto di due complessi considerati di particolare interesse formale. Poiché, in questi casi, è sempre legittimo
chiedersi che cosa si perde, converrà seguire la pur sommaria descrizione che il Forno dà dei « caratteri architettonici » di ogni singolo comparto. Per il comparto A, esso « comprende i resti della chiesa e del convento di S. Domenico, attualmente compresi entro edifici per abitazione. I preesistenti elementi architettonici di cui è possibile immediata lettura sono le
due absidi (l’abside di destra è andata perduta) ed il chiostro con pilastri in pietra e capitelli romanici del quale si individuano solo due lati contigui. Su via Mameli sono nettamente visibili le mura rinascimentali e su piazza S. Domenico il già citato pottale con colonne. L'edificio adibito a scuola 10.
146
conserva scalone in marmo con balaustra di disegno tardo-rinascimentale » (p. 30). Nel comparto B « la parte su via Medaglie d’Oro fa parte di una unità immobiliare di notevole decoro edilizio con suddivisione dei piani tipica dei palazzi gentilizi, fronte con spartito settecentesco con stucchi e decorazioni
ad affresco. Scalone in marmo
con balaustra » (p. 36). Il
comparto C « comprende alcune unità edilizie collegate fra loro. L’assieme è caratterizzato per la presenza di palazzo Rolandi Ricci, dal notevole decoro architettonico con facciata a stucco. Scalone con balaustra in marmo » (p. 40). Nel comparto D « sono compresi i pubblici lavatoi. Il complesso è privo di alcun valore architettonico ed assai scarsi appaiono i valori ambientali » (p. 44). Nel comparto E « non si ravvisano particolari elementi di carattere architettonico; notevoli invece i valori ambientali su piazza S. Siro e vico Miranda » (p. 46). Nel comparto F il Forno
registra « notevoli valori d'ambiente su vico Miranda e piazza S. Siro. La primitiva destinazione (abitazione popolare) non è mutata » (p. 51). Nel
comparto G «i caratteri architettonici non presentano alcuna rilevanza; di apprezzabile carattere ambientale la zona posta a ridosso del camminamento delle mura » (p. 54). Nel comparto H «i caratteri architettonici dell’edificio sito al n. 26 di via Roma presentano qualche interesse (scalone)
e notevole valore di ambiente assume il camminamento lungo via Trento » (p. 56). Nel comparto
I, « nullo il valore
architettonico,
un
archivolto
lungo le mura » (p. 60). Nel comparto L un unico edificio, che s’identifica col comparto stesso: « notevole il valore architettonico della parte su via Roma con fronte seicentesca, affrescata. Incorporata nell’edificio la torre medievale detta degli Oddo, con merlatura ghibellina. Edificio nato quale sede di collegio ed attualmente occupato dalla civica biblioteca, da sedi di associazioni ed in piccola parte (15% del volume) da abitazioni » (p. 65). Nel comparto M è incorporata la chiesa di S. Carlo, collegata a palazzo Oddo, oggi sconsacrata. Si notano decorazioni a stucco sulle fronti di via Roma » (p. 67). Infine, nel comparto N, « la parte destinata alle residenze non presenta nessun carattere architettonico. L’ospedale appare trasformazione di antico edificio (ospedale dei Calzolai o monastero). Vi è traccia, nel sottosuolo, di strutture romane. Per quanto si riferisce alle abitazioni, [97205
condizioni
assai
precarie
con
pessime
scale
(ripide) »
Tre osservazioni si possono dunque fare all'impostazione che il Forno ha dato alla sua proposta operativa. In primo luogo si può rilevare l’ingenuità insita nella scelta di un risanamento inteso come ristrutturazione edilizia che conservi integri i profili altimetrici e planimetrici primitivi. Tale proposta, in se stessa contraddittoria perché intesa contemporaneamente sotto l’aspetto eversivo e conservativo, è anche piuttosto superficiale. Infatti la ristrutturazione dei fabbricati sulla base delle volumetrie preesistenti teorizzata dal Forno prescinde da un minimo di analisi storica per valutare e distinguere almeno l’entità delle eventuali aggiunte o superfetazioni che potrebbero essere ‘utilmente eliminate. In altri termini, la
i
pur
deprecata
situazione
147
di fatto non
viene
discussa,
ma
assunta
per
quello che è, e quindi riprodotta nelle nuove strutture. La seconda osservazione che si può muovere al Forno è la sua posizione di retroguardia rispetto a buona parte della problematica sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni riguardo alla questione dei centri storici. La pretesa di isolare alcuni edifici ritenuti di maggior pregio abbattendo e ristrutturando tutto il resto era combattuta già dal Piacentini e dal Giovannoni (anche se, come si ricorderà, con risultati pratici non del tutto corrispondenti alla teoria).
La terza e ultima osservazione riguarda il tipo di scelta che il Forno compie tra le varie forme di architettura. Salvando facciate con stucchi,
balaustre di marmo, torri nobiliari e ristrutturando larghi brani di edilizia popolare, in sostituzione della quale evidentemente
si propongono
edifici
più consoni alla società del benessere, il Forno compie una scelta di classe. E non si tratta, si badi bene, di contestare o meno (almeno per il momento)
il valore di questa scelta. Si tratta più semplicemente di constatare che essa viene proposta senza che se ne abbia la piena consapevolezza politica, quasi cioè come questione da non discutere perché già scontata o risolta. E in effetti il nodo è appunto qui: senza esserne consapevole, il Forno aveva già impostato nelle premesse quelle soluzioni a cui crede di arrivare attraverso un processo di analisi e di comparazione schematica. Ciò accade perché il Forno ha escluso in partenza un esame storico, e conseguentemente politico, del problema. A questo è stato appunto costretto dalla necessità di raccogliere i suoi dati entro un insieme omogeneo che rendesse confrontabili i singoli elementi. I dati storici, invece, non consentono
di essere elaborati per via di astrazione se non rinunciando a buona parte dei loro significati, e in particolare a quei significati originali che sono poi i veri moventi della storia. Più in generale, il procedere per astrazioni o per schematismi impedisce la valutazione degli spunti creativi dell’uomo, intesi sia a livello di singoli che a livello di comunità. È anche per questo motivo che, nello studio del Forno, persino gli stucchi, le scale con balaustra, le architetture di conventi e palazzi nobiliari si riducono a puri « oggetti » da conservare, senza nessun’altra ulteriore qualificazione. Ma soprattutto è per questo che al Forno sfugge la possibilità di qualificare, insieme con le strutture
architettoniche
del centro
storico di Al-
benga, le componenti culturali e sociali che le giustificano. Al Forno sfugge, per esempio, che gli edifici da lui proposti per la conservazione e il restauro sono proprio quelli che più radicalmente hanno subìto trasformazioni funzionali rispetto al primitivo uso per il quale essi erano stati costruiti, mentre proprio l’edilizia « povera » e « minore » ha conservato nella massima parte dei casi immutato il suo originario rapporto tra forma e funzione. Così il Forno finisce per proporre di conservare i primi e demolire i secondi, cioè mantenere e anzi ripulire e lustrare quelle strutture che non hanno più nessun significato sociale e distruggere gli edifici che lo hanno ancora. Il risultato pratico dell’operazione sarebbe dunque quello di dovere, da un lato, inventare funzioni nuove
148
per strutture architettoniche che non hanno più nessuna giustificazione urbana, e dall’altro provocare il trasferimento della popolazione residente dalle zone ristrutturate, oppure in ogni caso provocarne lo sradicamento culturale e sociale, poiché la nuova edilizia si rivolgerebbe inevitabilmente a un ceto diverso per censo, per cultura, per costume di vita. Questo
fenomeno
di sradicamento
sociale, più o meno
imposto, ma comunque sempre condizionato stanno a monte della volontà dei singoli e dramma più colossale della nostra civiltà, in i livelli sociali. Di dramma si deve appunto
accettato
o
da ragioni economiche che non dominate da essi, è il tutti i continenti e a tutti parlare, perché l’alternativa
ad esso è la miseria. Ma, nonostante questo, c'è una domanda che inevita-
bilmente ci dobbiamo porre, se vogliamo tentare di sottrarci alla spirale di tale ricatto:
ciò a cui rinunciamo
in nome
dell’igiene,
del decoro, del
benessere, vale più oppure meno di quello che acquistiamo? Questa domanda, però, non trova spazio nella ricerca del Forno, poiché egli vi aveva già risposto impostando il programma iniziale, e la risposta era chiaramente già data in favore dell’igiene, del benessere, del decoro. Antonio Gramsci, come si ricorderà, sostiene che l’Italia non ha mai avuto una letteratura nazionale-popolare, ma una letteratura aristocratica
per vocazione e per costume, con tutti gli inconvenienti di caratte culturale che ne conseguono. Ma può esistere un’urbanistica nazionale-popolare? In realtà, corrotti da una concezione accademica dell’arte e dell’architettura, per secoli abbiamo continuato a considerare fonti di cultura e oggetto di studio soltanto i cosiddetti monumenti architettonici, ossia i palazzi con stucchi, le scale con balaustre, le chiese, i conventi, le torri nobiliari, che sono le superfetazioni dispendiose di una società che cercava di qualificarsi culturalmente per quello che forse tendeva ad essere, ma che certamente non era. Abbiamo cioè enucleato da ogni contesto urbanistico,
dimenticando tutto il resto, la rappresentazione della pulizia, del decoro, del benessere,
del successo,
e ce ne siamo
fatti specchio per le nuove
progettazioni e per le nuove invenzioni architettoniche. Invece un’urbanistica nazionale-popolare esiste. Se le circostanze storiche che Gramsci denunciava possono distrarre un popolo dal crearsi una sua letteratura, così non è per il problema dell’abitare, che è di tutti. Ma la condizione principale perché ciò si realizzi è la partecipazione della popolazione residente alla determinazione della struttura abitativa della propria casa e del proprio ambiente urbano. Ne consegue che, sotto questo aspetto, il più sperduto paese di pastori dell’ Appennino è meglio rispondente e più
funzionale del più razionale complesso Tesidenzialé realizzato più prestigioso degli architetti. Questo dunque si perde, nel tipo di analisi condotta dal Forno: l’esistenza e la permanenza di una cultura urbanistica popolare che la società del benessere propone di distruggere attraverso i propri allettamenti o per mezzo dei propri ricatti, poiché il prezzo che in realtà si chiede di pagare in cambio dell’appartamento igienico e decoroso è una miseria spirituale profonda fino all’abbrutimento. L’alternativa effettiva che si propone non
149
è perciò fra case cadenti e case stabili, come il Forno presume, bensì fra una vita sempre più difficile in case povere e una vita da formiche in formicai ben costruiti. Questa alternativa non rientra nella problematica del Forno, per la sola ragione che gli strumenti di ricerca e di analisi da lui adottati non la presupponevano, e anzi la discriminavano, dandola già per risolta. Prescindere dalla natura intrinseca degli elementi e basarsi sul loro ordinamento, d’altra parte, vuol dire introdurre nel problema una tale riduzione della qualità e del valore politico dei dati da rendere estremamente improbabile l’applicabilità urbanistica di qualunque risultato che ne derivi. A meno che, appunto, non si diano per risolte in partenza certe questioni di ordine politico, riducendo il procedimento alla ricerca tecnica della via migliore per applicare alcuni postulati. Si può pertanto pensare che l'applicazione della cibernetica all’urbanistica, in quanto tenda ad escludere programmaticamente dalla elaborazione tutti gli elementi di origine storica, culturale e sociale, o a valutarli per via di astrazione,
sia
lo strumento più idoneo per appoggiare e sostenere le scelte operative dei sistemi dominanti.
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URBANISTICA E STORIA URBANISTICA
Volendo porre la questione di una problematica comune tra pittura, scultura, architettura, urbanistica, si può pattire da una constatazione senz’altro ovvia: mentre l’esistenza di un guadro o di una scultura può essere materialmente ignorata, anche in assoluto, la stessa cosa non è allo stesso modo possibile per un’opera di architettura o per una sistemazione urbanistica. Da questa considerazione, per quanto in se stessa scontata, discende però una serie di conseguenze di importanza non secondaria, le quali pongono per l’architettura e particolarmente per l’urbanistica dei problemi del tutto peculiari, che non sono comuni alle altre attività cosiddette artistiche. Una di queste conseguenze è, ad esempio, che il passato architettonico e urbanistico sono costantemente
presenti, almeno nella loro consistenza
materiale, a chiunque si disponga ad un nuovo intervento in un ambiente già preformato, e potranno pertanto essere discussi o anche negati, ma non ignorati (il che presuppone sempre, quanto meno, un’aperta posizione polemica: cosa che non si verifica obbligatoriamente per le altre arti plastiche e figurative). Altra conseguenza è quella del contatto continuo che una struttura architettonica o una sistemazione urbanistica hanno con la vita quotidiana degli uomini, e della permanente verifica che ne deriva soprattutto per ciò che concerne il rapporto tra forma e funzionalità, il quale viene sottoposto così al controllo severissimo non solo del critico, ma anche e particolarmente dell’utente. È vero: sarebbe errato trarre da queste premesse la conclusione che l’architettura e l’urbanistica pongano problemi critico-estetici diversi rispetto alla pittura o alla scultura, nel senso di attribuire, per esempio, una peculiare e quasi esclusiva importanza al problema dello spazio o della spazialità, quasi che problemi analoghi non si pongano, almeno in questo senso, anche per le altre arti figurative o plastiche (è evidente, per esempio, che non c’è nella facciata di S. Maria Novella più tridimensionalità di quanta non ve ne sia nella Annunciazione di Simone Martini, come è chiaro che la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca richiede
2
una lettura tipicamente spaziale, anche più che certe architetture coeve). Sarebbe però un errore ancora più grave dimenticare o non vedere quegli altri problemi che si pongono all'architettura e all’urbanistica con l’imperiosità che deriva loro dall’essere problemi contingenti e quotidiani della società.
Non meraviglia nessuno che un affresco etrusco o una statua romana siano arrivati fino a noi custoditi nel tempo dal segreto della terra o dallo zelo degli uomini di cultura; ma il fatto che impianti urbanistici egualmente più che bimillenari siano pervenuti invariati fino a noi merita la massima attenzione, per un duplice ordine di motivi: perché evidentemente
nessun
rinnovamento
sociale, per quanto
intenso,
è stato
così
forte da negarli assolutamente, e soprattutto perché essi sono diventati ormai parte necessaria della nostra cultura e quindi della nostra vita sociale. Sono diventati cioè abitudini, o addirittura bisogni quotidiani, dai quali non può prescindere né il singolo individuo né tanto meno l’organismo sociale che intorno ad essi si è creato. In molte città italiane o europee di fondazione romana, per esempio, il foro è tuttora un centro urbanistico, ed esperienze recenti insegnano che chi ha cercato di ignorare questo fatto, trascinato da una visione cosiddetta autonoma del problema urbano, è andato incontro a risultati rovinosi. Forse un palazzo della Borsa perfettamente organizzato potrebbe distogliere i borghigiani lucchesi dalla consuetudine di trattare i loro affari all’aperto, sulla piazza di S. Michele in Fòro; il problema è però vedere
se sarebbe
urbanisticamente
corretto
(e socialmente
produttivo)
forzare una situazione del genere, cancellando con un tratto di pennarello secoli di storia, e rinunciando a sfruttare positivamente un dato di fatto che reca con sé la forza tenace della tradizione. Il problema è cioè stabilire se converrebbe spostare o dirottare altrove questo centro di interesse, 0 non piuttosto raccogliere intorno ad esso altri interessi, presumibilmente più nuovi e più attuali, che ne verrebbero così rafforzati e potenziati.
Il rapporto
tra urbanistica
e storia urbanistica
può dunque
porsi
intanto in questi termini, cioè come metodo di utilizzazione di situazioni urbanistiche predeterminate per nuove e più attuali realizzazioni; ma assai più necessitato e condizionato si fa il problema quando si tratta
del rapporto fra centri storici ed architettura nuova, a meno che non si presuma di poter rinunciare tranquillamente e per sempre ad un patrimonio ultramillenario, che non è soltanto un piacevole collage di strutture venerande o di preziosi ruderi da far vedere ai turisti, ma è soprattutto una proprietà sociale della nostra età, alienabile solo a costo di gravi sacrifici e di notevoli squilibri. È comprensibile che l’intervenire in un centro storico o nelle pertinenze di esso ponga dei gravi problemi e desti delle serie preoccupazioni negli urbanisti; ma è assurdo ciò che in taluni casi accade, cioè che i vecchi
nuclei cittadini vengano considerati alla stregua di ostacoli da sormontare o, nella migliore delle ipotesi, da ‘isolare. I centri storici non sono ghetti,
(85
né devono quindi essere considerati tali in fase di progettazione urbanistica, né tanto meno devono diventarlo in futuro, e per nostra deliberata scelta. E bene quindi stabilire con assoluta chiarezza che anche sotto l’etichetta del rispetto (che è poi un falso rispetto) dell’antico si cela di regola la non conoscenza del problema, oppure la volontà decisa ma non palesata di ignorarlo. Solitamente invece uno studio storico-urbanistico preventivo non complica, ma anzi facilita i compiti dell’architetto; non gli moltiplica cioè i problemi, ma gliene risolve una parte, fornendogli nel contempo gli strumenti per rendere il preesistente tessuto urbano parte vitale del nuovo tessuto ed elemento veramente determinante per la futura impostazione urbanistica. Non è difficile, a questo proposito, fare degli esempi, poiché non c’è praticamente in Italia situazione urbanistica che non presupponga
problemi di tal genere. Possiamo petciò esaminare le vicende dei piani regolatori di Lucca e di Pisa, nati in relazione a situazioni storico-utbanistiche assai simili e maturati con risultati decisamente opposti, premettendo che nel caso di Lucca si è trattato di un’esperienza soprattutto negativa, mentre per Pisa il discorso è stato avviato su indicazioni più ricche di prospettive. La tesi naturalmente è questa: mostrare come, pet gli urbanisti, l’essere costretti ad operare su centri storici o in relazione ad essi non è una mala ventura, né tanto meno un vincolo alla loro libertà, ma in primo luogo un aiuto per ridurre le possibilità di errore, e conseguentemente un banco di prova valido anche per la loro sensibilità architettonica e per la loro inventiva. Le vicende di Lucca in fatto di piani regolatori non erano mai state fortunate. Le proposte di sventramenti del centro storico e di avvolgimento a tenaglia della città murata si erano succedute e integrate nei vari piani
elaborati fino al 1960, tutti fortunatamente saltati per un motivo o per l’altro. Finalmente, nel 1963, sembrò che il Comune volesse prendere la questione di petto: la redazione di un nuovo piano regolatore fu affidata a Ludovico Quaroni, Fernando Clemente e Lionello De Luigi. Gli inizi furono confortanti, almeno nelle dichiarazioni dei tre architetti, che parteciparono a un dibattito in palazzo Orsetti il 3 luglio di quello stesso
anno proponendo temi di notevole interesse. Ma ben presto tutte le buone intenzioni andarono a lastricare le famose vie dell’inferno, perché Quaroni, che si era assunto il compito precipuo di studiare i problemi del centro storico, non lavorò, mentre Clemente e De Luigi, pressati dalla legge 167 e dall'esigenza di dare comunque alla città uno schema di piano regolatore, pensarono bene di pianificare tutto intorno alle mura, senza però occuparsi di ciò che poteva o doveva avvenire all’interno di esse. Così nel piano regolatore di Lucca il centro storico restò un'isola bianca. La situazione di crisi che si venne a creare si rivelò per la prima volta in maniera consistente quando, nel 1966, la stampa locale ospitò un lungo dibattito sul tema della chiusura al traffico del centro storico. Naturalmente sia la tesi favorevole che quella contraria, con tutte le possibili sfumature intermedie, trovarono abbondanza di argomenti e di
154
sostenitori. Ma gradatamente si fece strada la consapevolezza che il problema della esclusione del traffico motorizzato dalla cerchia murata non poteva essere risolto solo con l'installazione di qualche divieto di accesso sulle porte della città. Bastavano, per capirlo, queste poche considerazioni: la Manifattura Tabacchi, cioè l’industria con il maggior numero di addetti
esistente
nel comune,
si trovava
nel centro
storico;
la caserma
103. Infittimento delle abitazioni intorno a Lucca durante l’ultimo secolo, dedotto dalle carto-
grafie e dalle aerofotografie dell’Istituto Geografico Militare (Bedini): situazione al 1897.
104. Situazione al 1920.
;
del 3° Reggimento
Artiglieria era irremovibilmente
155
collocata
di fronte
alla chiesa romanica di S. Romano; il deposito delle ambulanze e dei carri funebri era ancora situato presso la chiesa della Misericordia, con parcheggio dei furgoni esattamente sotto l’architrave di Biduino; i vigili del fuoco avevano la loro caserma proprio di fronte a villa Guinigi, cioè ancora entro il perimetro murato; il capolinea delle autolinee interurbane
106. Situazione al 1968.
156
era situato in piazza S. Martino, di fronte al duomo, con biglietteria, bar
e sala d’aspetto in una chiesa profanata e adattata alla bisogna; il mercato ortofrutticolo all’ingrosso alloggiava ancora dove più di un secolo prima lo aveva
trasferito
Carlo Ludovico
di Borbone,
cioè dentro l’anfiteatro;
e così via. Non ci voleva molto per rendersi conto che, a meno di non togliere i semoventi agli artiglieri, le ambulanze alla misericordia, i furgoni ai necrofori, le autopompe ai vigili, i camioncini agli ortolani, gli autobus alle autolinee e i rifornimenti di tabacco al Monopolio, chiudere il centro storico al traffico era un’utopia. Si poté così toccare con mano che nel piano regolatore nessuno si era preoccupato di indicare quali
funzioni sociali o economiche o culturali potevano restare nel centro storico e quali dovevano invece essere trasferite altrove, o quali ancora richiamate nel centro storico stesso. Non l’aveva fatto Quaroni, per inerzia,
né l'avevano fatto Clemente e De Luigi, per non competenza. La tipicità del caso di questa città che ha avuto un piano regolatore elaborato nella deliberata ignoranza dei problemi del centro storico può dunque essere messa a frutto. La singolare imprevidenza degli amministratori lucchesi, unita alla volontà altrettanto singolare dei tre urbanisti di perseguire divisi un unico obiettivo, può infatti, al limite, diventare uno strumento critico utile per verificare in corpore vili quali possano essere le conseguenze estreme di una così fatta (e così temeraria) metodologia urbanistica. La prima conseguenza dell’aver impostato uno studio di piano regolatore nel modo che si è visto è del tutto ovvia e naturale: Clemente e De Luigi, non potendo contare su uno studio storico-urbanistico e quindi non potendo valutare adeguatamente il significato delle esperienze urbanistiche precedenti, sono stati costretti a proiettare tutta la loro ricerca
107. Lucca nel suo piano (veduta aerea zenitale).
108. Lucca: piano del 1958.
regolatore
Clemente-Pera
157
verso il futuro. Così il loro piano si è trovato ad avere le sue premesse in ipotesi pure, alcune delle quali fra l’altro assai difficilmente concretabili. Si postulava, ad esempio, la possibilità che l'economia della Versilia venisse a saldarsi con quella lucchese (mentre fino allora era avvenuto esattamente il contrario); si postulava che l'economia pisana potesse collegarsi a quella lucchese attraverso il territorio di Vecchiano (mentre Pisa cercava la sua espansione economica esattamente in direzione oppo-
sta); si postulava che gli sbocchi autostradali esercitassero, in questo e in altri casi, una sorta di promozione industriale (mentre il terminal della Firenze-Mare, benché connesso con l’Aurelia e con la stazione ferroviaria
di Migliarino, aveva promosso in trent'anni niente più che qualche distributore di carburante: solo successivamente la solita legge sulle aree de-
presse ha richiamato nelle sue vicinanze alcune fabbrichette dal futuro assai incerto);
e così
via.
In sostanza,
si fondava
sulle nuvole
l’avve-
nire di una città. Pensiamo ad Agrigento. Quando la città franò perché era costruita sul vuoto, l’Italia intera gridò allo scandalo (governo incluso). Sulle città teoriche dei nostri urbanisti, che a decine ogni anno franano perché ugualmente costruite sul vuoto, si diffonde subito un opportuno silenzio. Eppure il danno esiste anche in questo caso, ed è reale, anche se meno facilmente contabilizzabile di quello capitato agli akrageni. Ma la pudicizia dei politici copre sempre tempestivamente le vergogne degli architetti,
E
AT
AIAW
109. Lucca: piano regolatore Clemente-De Luigi.
alare
mi
si
Di
158
e viceversa, con quell’operazione che tecnicamente ha preso il nome
di
« revisione ». Non per niente Clemente e De Luigi stavano appunto ope-
rando una « revisione » del precedente piano regolatore di Luigi Pera, deceduto anch’esso nella culla perché egualmente fondato sulle nuvole. Nessuno pretendeva tuttavia che Clemente e De Luigi seguissero pedissequamente il solco tracciato dalla storia; però è grave che essi abbiano rovesciato il corso dell’urbanistica lucchese senza mostrarne consapevolezza. La città, in passato, si era sempre sviluppata verso nord-est, e non per un caso né per un capriccio del destino. Infatti a sud Lucca è chiusa dai monti Pisani, a ovest dalle rampe del Quiesa, a sud-ovest dalla stretta gola in cui s’insinua il Serchio pet raggiungere il mare. In questa posizione felicissima il centro lucchese esercitava la posizione del filtro nel
collo dell’imbuto:
raccoglieva i traffici che provenivano dall’alta valle del
Serchio e dalla Valdinievole e li lasciava poi defluire attraverso la gola, in direzione del mare o delle principali linee di traffico litoranee, dopo
averli opportunamente decantati. La storia urbanistica del centro lucchese si legge così, con estrema facilità, anche su una piantina al diecimila: la città si è sempre accresciuta verso nord-est, andando incontro alle fonti della propria ricchezza. Clemente e De Luigi avevano previsto il nuovo più grosso insediamento residenziale a ovest e la nuova zona industriale a sud del centro. Perché? Nel 1966 l’ITRES condusse, per conto dell’amministrazione provinciale di Lucca, uno studio sugli aspetti dell'economia industriale lucchese, con particolare riguardo alla localizzazione delle unità produttive. Da questo studio risultò inequivocabilmente che tutti indistintamente i comuni situati a nord e ad est di Lucca avevano registrato tra il 1951 e il 1961 un forte incremento nel grado di industrializzazione, a differenza del
comune di Lucca (che occupa nel comprensorio l'estrema posizione di sudovest), il quale solo aveva registrato invece un lieve regresso (— 2,88%).
Ciò significa che, sia pure trasformando la propria economia da agricola in agricolo-industriale, la vitalità di questi centri poteva ancora costituire un valido polmone pet il centro lucchese, se essa veniva opportunamente coordinata. Perciò il corso storico dell’urbanistica lucchese poteva non essere invertito.
Invece, constatato che la nave imbarca acqua, si decide che il mezzo migliore per vuotarla è quello di fare un buco nella carena. Pertanto si sfonda il Quiesa con un’autostrada,
mettendo
in comunicazione
diretta
Lucca con la Versilia, e si crea un cosiddetto porto autostradale (a cinquecento metri dai bastioni) che faciliti la comunicazione rapida con tutto il litorale, Livorno inclusa; tutto ciò nella prospettiva di trarre dei vantaggi dal collegamento del capoluogo — sostengono i redattori del piano — «con la parte più ricca della provincia ». Ma l’ipotesi di Clemente e De Luigi è chiaramente reversibile (e gli stessi urbanisti, a dire il vero,
lo avvertono). La legge dei vasi comunicanti ha di regola in economia gli effetti opposti che in idraulica: sono le aree più ricche che assorbono le attività di quelle più povere, non il contrario. Nel caso specifico, il disor-
|
159
dinato affarismo dei versiliesi può avere ragione con facilità della deliquente economia lucchese, mentre il « porto » autostradale può rappresentare, nei confronti dei centri già economicamente tributari di Lucca, una comoda via per saltare la città senza fermarsi nella gola dell’imbuto. Tiriamo dunque le somme. Partiti da ipotesi non verificate, Clemente e De Luigi hanno elaborato un piano privo di fondamenta storiche ed economiche; per questa stessa ragione non hanno inteso di quale natura fosse il legame tra città e territorio e l’hanno inconsapevolmente sovvertito. Con ciò hanno posto in discussione anche il diritto all’esistenza della vecchia Lucca, che viene privata della sua naturale capacità di drenaggio nei confronti dei traffici provenienti dall’interno e quindi della sua principale risorsa di vita. In più, Clemente e De Luigi hanno previsto di costruire ad ovest della città, in dieci anni, un numero doppio di vani rispetto al fabbisogno ipotetico stabilito sulla base del normale tasso di incremento demografico, programmando in questo modo anche lo svuotamento del centro storico e quindi il suo progressivo degradamento. Tutto ciò avviene in una città che non ha inteso fare tesoro della sua storia urbanistica e per opera di due urbanisti, non certo privi di esperienza progettuale, che hanno sistematicamente ignorato questa storia. Si tratta dunque, come prima si diceva, di un caso particolarmente chiaro e utile
per il suo valore esemplificativo. A Pisa Luigi Dodi e Luigi Piccinato si trovarono ad operare, presso a poco in quegli stessi anni, su una situazione non certo meno pregiudicata di quella lucchese. C’era già stato un concorso di piano regolatore nel 1931,
vinto
da Paniconi,
Pediconi,
Petrucci,
Susini
e Tufaroli;
ma
il
progetto relativo non aveva avuto seguito, perché l’amministrazione fascista l’aveva sollecitamente insabbiato. C’era stata la ricostruzione, con un piano affrettato e infelice tra l’altro in più punti violato, e nel 1960 era stato elaborato un nuovo piano da Fernando Clemente e Luigi Pera, fortunatamente non approvato dal consiglio superiore dei lavori pubblici. Anche Dodi e Piccinato, per ragioni politiche non difficili ad intuirsi, furono invitati ad operare una « revisione » del precedente piano Pera: Clemente. Naturalmente anche in questo caso uno dei problemi più grossi da affrontare fu quello del centro storico e della sua destinazione, problema che del resto già in passato aveva avuto varie indicazioni di soluzione. L’amministrazione fascista, disattendendo tra l’altro lo stesso suo piano regolatore del 1931, aveva ovviamente optato per la maniera forte, demolendo un ettaro di case medievali (vedi combinazione, vecchie e malsane) e progettando al loro posto l’attuale palazzo di giustizia: monumento esemplare alla retorica marmorea e all’insipienza costruttiva (per inciso: l’edificio fu poi realizzato senza modifiche dopo la guerra e inaugurato nel 1954). Le bombe angloamericane che piovvero su Pisa dal ’43 al 44 proseguirono adeguatamente l’opera fascista di risanamento, i tedeschi in ritirata si vendicarono sui ponti che i piloti americani non erano riusciti a centrare e il genio civile ne completò l’opera spazzando via ciò che era
160
rimasto del ponte di Mezzo e del ponte alla Fortezza, i più antichi di Pisa (l’unico ponte che il genio suddetto volle ricostruire dov'era e presso a poco com'era —
il ponte Solferino,
1886 —
crollò invece nel febbraio
1967,
in conseguenza dell’alluvione del novembre 1966). Ma qualcosa era sopravvissuto e, di conseguenza, era rimasto vecchio e malsano; perciò Luigi Pera e Fernando Clemente si dettero da fare per cercare ai residui isolati medievali una destinazione che non fosse né vecchia né malsana, ma presumibilmente nuova e salubre. Perciò l’opera di « risanamento » prevedeva l’isolamento di alcuni « importanti complessi monumentali » e la destinazione delle zone medievali di piazza dei Facchini, piazza Gambacorti e di S. Andrea a « funzioni commerciali e amministrative » (per S. Andrea
anche « culturali »:
intuizione finissima, che
deve essere apprezzata sapendo che S. Andrea sta a Pisa come S. Frediano sta a Firenze). Poiché la nuova destinazione creava problemi di traffico, « con qualche demolizione » si aprivano nuovi itinerari stradali dentro il centro storico. Ed ecco fatto il risanamento. Dodi e Piccinato, che avevano il vantaggio di essersi occupati sostanziosamente di storia urbanistica oltre che di progettazione urbanistica (Piccinato, inoltre, aveva già partecipato al concorso del 1931) ebbero anche l’umiltà di non voler mutare né la planimetria né la destinazione degli isolati medievali, limitandosi ad indicare il tipo di intervento che in essi
era
necessario
(risanamento
igienico
o
restauro
conservativo)
pet
ricollegarli in maniera valida al resto del tessuto urbano. Naturalmente niente demolizioni,
anche dell’edilizia « minore ».
Questa soluzione, apparentemente semplicistica, non è invece la più ovvia: la storia dei precedenti interventi e dei precedenti piani lo dimostra. Ma non è neanche la più difficile da scoprire e da indicare. Fissato infatti che mutare la destinazione degli edifici di un centro storico è sempre un’incognita (ma trasformare un quartiere medievale con caratteri residenziali in un centro commerciale e amministrativo era qualcosa di più di un’incognita: era la certezza del caos), un esame appena un poco più attento e storicamente consapevole del problema suggerisce spontaneamente la soluzione. Intervenire su una casa torre non è difficile né sacrilego: infatti le case torri pisane (e non solo pisane) sono per lo più strutturate secondo
un sistema portante costituito da un telaio leggero non dissimile, per concezione, dalle nostre gabbie di cemento
armato;
all’interno di questo te-
laio la sistemazione degli interni avveniva del tutto ad libitum, realizzata con tavolati o paretine in mattoni. Perfino i solai non facevano parte della struttura portante, ma poggiavano liberamente su mensole sporgenti dalla muratura. Inoltre, già verso il 1300, quando cioè dalla casa torre si passò alla casa per abitazione vera e propria, si cominciò a rendere comunicanti più case torri contigue, passando con relativa facilità dalla disposizione verticale dei vani a quella orizzontale. Oggi il problema non si presenta in maniera molto diversa da allora. Dove i telai portanti si sono conservati, nulla osta a che gli interni ven-
161
gano svuotati (si tratta di solito di appesantimenti di epoca tarda) e ristrutturati secondo nuove esigenze; dove un prospetto sia compromesso senza possibilità di restauro, invece di inventare una polifora o sistemarvi qualche anemica finestrina in pietra serena è senz’altro preferibile inserire sotto un arco di scarico medievale anche delle imposte in profilati di alluminio (ché anzi, più estesa in larghezza sarà l’apertura più ci si avvicinerà alla funzione della polifora, senza incorrere nel falso restauro d’ambiente).
Conservare poi il carattere residenziale delle zone medievali è assai più proficuo che ricavarvi uffici o altro: anche a Pisa infatti una politica sbagliata di edilizia popolare e operaia, relegando ai confini della città grappoli di alloggi burocraticamente definiti economici, ha finito per creare dei quartieri poveri là dove non esistevano senza peraltro eliminare quelli che già c’erano all’interno del centro storico. È qui invece che un inter-
PIANO REGOLATORE DELLA
PROGETTO sec: ARCHITETTI
MARIO PANICONI GIVLIO PEDICONI CONCEZIO PETRVCCI ALFIO SVSINI MOSE” TUVFAROLI-LVCIANO
acovenano
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110. Pisa: piano regolatore del 1931.
11.
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ETZIONNEGIARDINI PRIVATI FERROVIE
E PAQCHI FEQROVIARI
162
vento adeguato può creare un’edilizia di livello medio, accessibile al salariato e certamente a lui più gradita, perché non collegata alla spiacevole sensazione di chi si sente respinto ai margini del consorzio umano (cosa che nel Medioevo poteva l’aria, o ai ramai, perché esigenze si contemperano, Analoga situazione si
capitare soltanto ai pellai, perché appuzzavano facevano troppo baccano). In questo modo, due due problemi si risolvono a vicenda. presentava per parecchi palazzi rinascimentali o
tardorinascimentali, molto belli e prossimi al disfacimento. Anche qui, un
esame della funzione sociale che questi edifici avevano svolto e della vita che un tempo in essi si svolgeva aiuta a indicare una soluzione più idonea al problema. Si tratta infatti di costruzioni destinate contemporaneamente alla vita privata e alla vita di relazione, con ambienti adatti al ritiro familiare oppure ai rapporti sociali oppure all’alta rappresentanza. Questo tipo di funzionalità non è oggi più ricostruibile, o comunque è assai pericoloso da ricostruirsi. Ma questi edifici possono andare piuttosto bene per sistemarvi gli studi, i seminari e le aule di dipartimenti universitari che
non abbiano bisogno di laboratori scientifici e che (come dovrebbe accadere in ogni università ben congegnata) non abbiano neppure bisogno di acco-
gliere folle oceaniche. Dodi e Piccinato avevano in un primo tempo pensato di prevedere una nuova città universitaria discosta dal centro urbano, ubicata nei pressi della pineta di Tombolo. Era un errore, che sarebbe costato miliardi ed avrebbe avuto come unico risultato quello d’impoverire il centro storico della vita sociale che in esso portano parecchie migliaia di studenti. Al sogno ambizioso e allettante di creare ex novo un intero nucleo universitario, che poi avrebbe immancabilmente procreato al suo interno l’apartheid tipico del campus, si preferì il criterio meno avveniristico ma urbanisticamente più corretto di incoraggiare l’affiatamento tra università e città. Inutile infatti creare una nuova città universitaria quando essa già esiste, ed è Pisa stessa: la vecchia Pisa, cioè, raccolta e tranquilla, che
dopo la rovina economica e politica subìta per opera dei fiorentini negli anni che seguirono al 1406, trovò nuovo impulso proprio nella riforma medicea dello studio pisano. Il problema più grosso era però, ovviamente, quello degli indirizzi generali del piano, e in modo particolare l’ubicazione delle nuove zone di espansione. Il piano del 1931 dava indicazioni coerenti da un punto di vista tecnico ma in realtà assai generiche, prevedendo un’espansione della città più contenuta verso ovest e verso sud, più estesa verso est. Il piano del 1960 situava invece i nuovi insediamenti tra il nucleo già esistente e la costa, ritenendo in questo modo di interpretare le aspirazioni dei pisani a ricollegarsi idealmente alle glorie della vecchia repubblica marinara tramite un avvicinamento della città al mare. Il piano del 1965 prevedeva invece uno sviluppo organico della città e dei suoi servizi verso l’interno. Con questa soluzione si contrapponeva alle indicazioni tecnicistiche del 1931 e alle velleità retoriche del 1960 una visione più
»
163
concreta che inseriva i nuovi sviluppi precedente storia urbanistica della città I problemi connessi al rapporto Pisa particolarmente interessanti. Pisa
del centro urbano nel solco della e del suo territorio. città-territorio sono in effetti per nacque praticamente sul mare, in
una zona dove la confluenza di due fiumi (l’Arno e il Serchio) creava una
vasta laguna che proteggeva l’insediamento nei confronti delle popolazioni interne.
Finché
ebbe
per
territorio
il mare,
Pisa
restò
autonoma
e si
rafforzò. Ciò avvenne in due riprese: dalla fondazione fino all’occupazione romana e, dopo la crisi dell'impero, per tutto il primo Medioevo. Quando invece la città subì o cercò rapporti col suo entroterra, prima in epoca romana, poi nel secondo Medioevo, rinunciò di fatto o fu costretta a rinunciare all'autonomia politica, ponendo anche le premesse della propria decadenza. Tuttavia, per quanto limitato possa essere stato il peso politico di Pisa in epoca romana o dopo il 1406, e per quanto modesta sia stata la sua incidenza economica sul complesso delle attività della regione durante gli ultimi secoli, è chiaro che da settecento anni a questa parte la città si è avvinta sempre più fortemente al suo entroterra, divenendone il più importante centro gravitazionale. Infatti gli scambi commerciali tra la re-
pubblica marinara e i centri viciniori, nonostante che la impegnassero in una logorante lotta risoltasi poi infelicemente, crearono intorno alla città uno sviluppo tentacolare di vie di comunicazione ed un complesso di in-
frastrutture tali da conferirle la morfologia territoriale di un centro commerciale: morfologia che, ad esempio, non è caratteristica di una città come Livorno, oggi economicamente e commercialmente più ricca ma priva
di un passato importante come quello di Pisa. Non sfruttare questo passato, rinunciare a porre in valore le infrastrutture
già esistenti
per inventare
funzioni
nuove
e strutture
nuove
sarebbe stato un grave errore urbanistico. Oggi, una volta posto il pro-
vinneccio
VACQIMIEVIE - ripenso
111. Lucca:
rio.
schema della viabilità del territo-
112. Pisa: schema della viabilità del territorio.
164
blema in termini storici, nessuno mette più in discussione lo sviluppo della città verso l’entroterra; ma le incertezze precedenti, sia che dipendessero da una
impostazione
eccessivamente
tecnicistica,
sia che derivassero
da
un sogno superficiale e retorico di allacciamento ad un passato non più risuscitabile, stanno a dimostrare che l’ultima impostazione data al piano era tutt’altro che ovvia, e confermano la necessità di vedere i problemi urbanistici non solo entro una dimensione tecnica, bensì entro una dimen-
sione più vastamente storica. Nel 1968 una relazione di Edoardo Detti in sede di esame dei problemi urbanistici del comprensorio Pisa-LivornoPontedera confermava non solo che l’orientamento di Dodi e Piccinato era sostanzialmente giusto, ma che ia storia urbanistica dell’intero territorio induceva a riconoscere il formarsi, per il momento disordinato e incoerente, di una città lineare che collega in maniera sempre più stretta i poli urbani di Firenze e Prato con Pisa e Livorno lungo la valle dell’Arno. Ciò significa che, in una prospettiva di pianificazione globale del territorio, una delle soluzioni urbanistiche senza dubbio più avanzate si ren-
derà possibile senza rinnegare il passato ma anzi ricavando da esso una quantità considerevole di elementi già preformati. Tutto male a Lucca e tutto bene a Pisa, dunque? Non è questa la
morale della storia, né è il caso di encomi pubblici o di pubbliche condanne. La lezione che si può ricavare da questi due esempi, ognuno a suo modo utile e indicativo, è un’altra: una città infatti si può anche inventare, ma è assurdo inventarla quando essa già esiste. La stessa « fantasia » di un urbanista (la fantasia vera, non la fantasticheria, che è cosa
molto diversa) può rivelarsi in realtà e prendere corpo assai meglio quando egli opera in contatto con le cose reali o in stringente relazione con situazioni urbanistiche già preformate che non quando inventa in assoluto o immagina città che solo un nuovo ratto delle Sabine potrebbe presumibilmente popolare. È nota la discussione accesasi sul problema delle new towns e alle difficoltà di adattamento e di ambientamento che in molte di esse gli abitanti incontrano. Ma le new towns, per quanto complessi possano essere
i problemi che Lloyd Rodwin ha puntualmente registrato nel suo noto volume, non sono obbligatoriamente città sbagliate. Sono, semplicemente,
città che devono farsi una storia, essendo sorte unicamente per ovviare ad una necessità economica contingente, abbastanza forte da giustificarne la nascita, ma non sufficiente ad esaurire il significato intero della loro esistenza. E dovrebbe essere questa una prova in più che avere delle esigenze semplici da soddisfare non significa affatto avere semplificato il problema urbanistico, poiché nelle città noi portiamo a vivere uomini interi e non monconi di uomini, per i quali l’aver risolto il problema del posto di lavoro, della casa, del supermarket e della chiesa non è tutto.
Dovrebbe essere questa anche una prova che operare in ambienti urbanistici preformati, ossia in città che hanno già una loro ragione di esistere perché hanno già una storia, non significa affatto esser costretti a subire delle imposizioni o dei vincoli, ma vuol dire invece disporre in partenza
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di un buon numero di strumenti per programmare le fasi successive di sviluppo. La necessità quindi che storia urbanistica ed urbanistica procedano di pari passo, che studi di carattere storico accompagnino costantemente la
elaborazione dei piani urbanistici, almeno finché le condizioni politiche generali non consentano uno strumento più popolare di programmazione urbanistica, non deriva solo dall’esigenza di conservare o rispettare un patrimonio di arte o di civiltà tanto decantato quanto comunemente malversato, bensì dallo stesso carattere fondamentale della pianificazione urba-
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113. Londra e le città satelliti (1 città suscettibili di espansione, 2 new towns, 3 blocchi di abi-
tazioni prebelliche esterni alla county, 4 blocchi di abitazioni postbelliche esterni alla county, 5 London County Council, 6 City e West End, 7 limiti della courty, 8 limiti della greater London, 9 schema della rete fondamentale delle comunicazioni).
166
nistica, nella quale il passato di una città o di un territorio rientrano come parte vitale e come elemento integratore delle nuove funzioni e delle nuove strutture. Come un attore non recita la sua parte senza conoscere l’intero copione, così anche un urbanista non può interpretare adeguata-
mente le nuove esigenze senza metterle in relazione con tutto un passato che nessuno, neppure il più incivile dei civili, può ignorare in assoluto o dimenticare. Un quadro o una scultura, si diceva, possono al limite interessare solo il critico o l’esteta. Un’architettura pone subito al suo appatite dei problemi, non
solo al critico o all’esteta, ma
anche
all’utente.
Questi
pro-
blemi, affrontati e risolti nel tempo a livello di vita quotidiana, tradotti di regola in un differente e continuamente rinnovato modo di vivere e di abitare, diventano patrimonio coinune ed esigenze normali di una società, spesso non meno forti di altre esigenze più chiaramente o dichiaratamente sociali. Appunto in questo senso la storia urbanistica non solo si giustifica ma si dimostra necessaria. Il compito di una ricerca storico-urbanistica potrà essere dunque, in quest'ambito, quello di cogliere il delicato e irripetibile rapporto che in ogni singolo centro urbano si è creato tra forma architettonica e vita quotidiana, e in un contesto più vasto fra infrastrutture, paesaggio e uomo, mostrando come questo rapporto si sia fuso con determinate funzioni e consuetudini che della vita quotidiana fanno ormai integralmente parte e che di una certa forma architettonica o urbanistica sono diventate connaturali. Resta inteso che la storia di una città non è obbligatoriamente la stessa storia dei libri di storia. In centri urbani che hanno duemila anni di esistenza (e tanta ne hanno la massima parte dei centri italiani) ogni pietra porta segnata la sua biografia; e per gli spiriti sensibili le pietre parlano. Ma deve essere chiaro che tenere separate urbanistica e storia urbanistica vuol dire quanto meno correre l’alea di tornare a porre all’infinito problemi e quesiti che, in determinate situazioni, sono state già affrontate e risolte da secoli. In via pratica, ciò vuol dite anche non riconoscere la città come struttura espressiva di una cultura popolare vecchia di millenni, e quindi porsi in rapporto con essa da posizioni per loro natura intellettualistiche e autoritarie.
167
L'IMMAGINE DELLA CITTA
Secondo Kevin Lynch «l’uomo primitivo era obbligato a migliorare la sua immagine ambientale adattando la sua percezione ad un dato paesaggio. Egli poteva effettuare nel suo ambiente alcune alterazioni minori con mucchi di pietre, totem o incendi, ma le modificazioni più notevoli, ispirate alla chiarificazione o alla interrelazione visiva, erano confinate ai luoghi di residenza o di culto ». Invece, a giudizio del Lynch, « soltanto civiltà potenti possono cominciare ad operare in dimensioni significative sull’intero ambiente »; di conseguenza, « la trasformazione dell’ambiente fisico a grande scala è divenuta possibile solo recentemente, e pertanto il problema della figurabilità (« imageability ») dell'ambiente è un problema nuovo. Tecnicamente, noi siamo oggi in grado di formare in breve tempo paesaggi interamente nuovi, come i Polder olandesi. In questi casi i desi gners sono ormai alle prese col problema di configurare la scena totale
in modo che in essa risulti agevole all’osservatore sia l’identificazione delle parti che la strutturazione D9 35).
dell’insieme » (L'immagine
della città, 1969,
Può darsi che si tratti solo di un’ingenuità storica. Ma non c’è dubbio che in questa convinzione del Lynch sia contenuto tutto intero l’americano della nuova frontiera, che si sente membro e parte attiva di una « civiltà potente », capace di muovere montagne con strumenti assai più concreti ed efficienti della fede di menzione evangelica. Forse però proprio la fede nel potere delle macchine e dell’organizzazione del progresso giuoca al Lynch questo brutto scherzo, poiché lo induce a trascurare un dato di fatto non proprio trascurabile, cioè che da alcune migliaia di anni ormai la massima parte della popolazione del pianeta vive in un paesaggio com-
pletamente
umanizzato,
ossia trasformato
dall’uso che l’uomo
fa delle
cose e delle forme della natura, e non solamente riempito di qualche spo-
radico totem, incendio o mucchio di pietra. Si potrebbe pensare che questo giudizio un po’ frettoloso del Lynch derivi da due fattori: la tendenza a concepire le trasformazioni dell’ambiente naturale solo in tempi brevi e l’incapacità di valutare l’importanza
168
di quelle modifiche ambientali che si realizzano in scala ridotta, cioè a misura d'uomo. Ma probabilmente saremmo sulla via sbagliata. Infatti il Lynch, almeno in The Image of the City, che è del 1960, non trascura affatto quei particolari anche minimi, che potremmo definire di arredo
urbano, i quali contribuiscono a creare l’immagine della città e spesso diventano punti di riferimento importanti per chi cerca di riconoscersi e di ritrovarsi in un determinato ambiente; inoltre in un suo saggio successivo, Site Planning, che è del 1962, egli precisa ancora i suoi interessi, che non sono gli interventi su larga scala, ma piuttosto le limitate trasformazioni d’ambiente. « Site planning — scrive infatti il Lynch, professore associato di City Planning al Massachusetts Institute of Technology — è l’arte di ordinare le costruzioni e le altre strutture nel territorio in armonia con tutto il
resto ». « Site planning — egli precisa più avanti — è l’arte di sistemare un ambiente fisico esterno in ogni dettaglio... I site planners possono interessarsi ad un’area piccola come un gruppo di cinque o sei case unifamiliari, o anche ad intervenire su una pleta. Site planning praticata come una
un singolo edificio con il suo terreno, oppure possono scala grande come il piano di una piccola città comnon è una professione separata, benché possa essere specializzazione. È un problema progettuale che sta
fra l’architettura, l'ingegneria, la pianificazione urbana e l'architettura del paesaggio, ed è praticato dai Planning, 1969, prefaz. e p. la specificazione dell’interesse lare, con caratteri peculiari
professionisti di tutti questi settori » (S7fe 3). Appare evidente, qui, la limitazione e verso un tipo di progettazione più particoanche se con respiro interdisciplinare, che
sostanzialmente continua il discorso già cominciato sull'immagine della città e non sembra perciò orientarsi verso la progettazione di imprese di portata colossale. Però permane anche qui l’equivoco di fondo sulla struttura delle civiltà pretecnologiche. C'è una lacuna storica che il Lynch sembra non voglia colmare. « In passato — egli scrive — la conoscenza di un luogo era spesso più profonda di oggi. Poiché i popoli primitivi avevano meno possibilità di trasformare un luogo, essi erano per forza di cose più acutamente consapevoli delle limitazioni che esso presentava. Le credenze magiche avevano un’influenza ancora più grande. Se una località era abitata da uno spirito locale, si evitava di disturbare la sua casa senza le necessarie
precauzioni.
Queste
precauzioni
comprendevano
atti rituali e
appassionati studi della configurazione del luogo e comportavano l’accurato adeguamento delle strutture umane a questa configurazione. Lo sviluppo era di conseguenza strettamente legato alla natura del luogo. Per la maggior parte delle civiltà il paesaggio è sacro: è una cosa che non può essere violata da nessun pretenzioso intervento umano. Esso è durevole, potente, ampio; è la casa degli spiriti e dei morti; è la fertile madre da cui dipende la vita degli uomini. « Da che abbiamo scartato queste idee religiose e accresciuto la nostra possibilità di imporre trasformazioni all'ambiente, tendiamo a smar-
169
rire l’utile derivato di queste antiche attitudini: noi non produciamo più, inconsapevolmente, forme di sviluppo che agiscono in armonia con il loro ambiente né costruzioni espressive di una certa località » (Site Planning, p. 14).
Evidentemente il passaggio macchine, così come lo presenta tiene presente lo sviluppo della mente lo scontro fra la civiltà
dalle civiltà primitive alla civiltà delle il Lynch, è troppo repentino. Forse egli nazione americana, nella quale effettivadei totem e i paladini della nuova fron-
tiera fu bruciante, e conseguentemente
traumatico.
Ma ciò non giustifica
la sua convinzione di fondo che, almeno in senso urbanistico, i problemi posti dalla tecnologia industriale siano assolutamente nuovi. Se infatti si prescinde dalla rapidità con cui il progresso tecnologico ha reso possibili certe
trasformazioni,
non
è difficile ricordare
una
serie considerevole
di
macroscopici interventi modificativi dell'ambiente naturale o del paesaggio già umanizzato, che si collocano cronologicamente tra le età primordiali e l’età tecnologica, e che rispondono egualmente a un disegno assai preciso, anche se articolato in lunghi periodi di tempo. Si tratta peraltro di cose non proprio sconosciute. Si va dalle piramidi egiziane alla muraglia cinese, dal letto pensile dell'Eufrate ai gradoni rupestri di Machu Picchu, per non parlare dell’immensa ristrutturazione territoriale attuata dall’imperialismo romano. Se una distinzione è possibile, dunque, questa non dovrebbe essere istituita tra gente primitiva, che aveva paura di abbattere un albero perché dentro c’era uno spirito, e gente cosiddetta civile, che di alberi ne abbatte quanti desidera perché negli spiriti non crede e perché per di più sa usare la sega a motore. Questa distinzione va fatta piuttosto tra popoli la cui cultura, la cui organizzazione sociale, la cui struttura politica ed economica non comportavano trasformazioni colossali dell'ambiente, e altri popoli che invece di queste trasformazioni facevano e fanno uno strumento operativo coerente con gli indirizzi politici e con gli interessi economici che essi perseguivano o perseguono. Poiché è impensabile che il Lynch non abbia mai sentito parlare delle piramidi egiziane o dell’ordine territoriale romano (i gradoni di Machu Picchu sono riprodotti a pagina 6 di Site Planning) è legittimo supporre che in realtà al Lynch i precedenti storici dei nostri problemi di oggi non interessino affatto e che quindi l’omissione sia, se non proprio voluta con determinazione, quanto meno coerente col genere di discorso che egli porta avanti. Così sembra che in effetti stiano le cose, se anche Gian Carlo Guarda,
nella sua introduzione
a L'immagine
della città, sente la necessità
di
premettere che al lettore italiano questo primo saggio del Lynch sulla « figurabilità.» urbana può rivelarsi per alcuni aspetti sconcertante, appunto perché « Lynch non ha mai nascosto la sua diffidenza per l’astrazione intellettuale di quella cultura che noi diciamo umanistica e non crede che un efficiente riordinamento operativo del disegno urbano possa nascere da un indirizzo storicistico. Pur riconoscendo l’interesse accade-
170
mico dei numerosi contributi critici e storiografici di cui è stata oggetto l’urbanistica moderna — sottolinea il Guarda — egli ne ha sempre lamentato il vizio idealistico, la limitazione all'ambito interpretativo o descrittivo, l’incapacità di tradursi in reali suggerimenti di lavoro. Da buon americano, egli rifiuta di separare l’interpretazione estetica della città dalla concretezza della sua esperienza pratica » (p. 11). Non
c'è dubbio
che, da buon
americano,
il Lynch
abbia
il diritto
di occuparsi di urbanistica senza preoccuparsi di storia urbanistica. Ma non deve sfuggire che questa particolare metodologia comporta delle conseguenze, anche pesanti, proprio nel campo della progettazione urbanistica o dei risultati politici generali che in fatto di urbanistica si possono
conseguire. In linea di massima occorre quindi segnalare un pericolo che molto probabilmente i nostri colleghi americani non avvertono per ragioni intrinseche di cultura e di storia, ma che non deve sfuggire a noi europei. La massima parte dei ricercatori americani, infatti, vive solo nel presente e per il presente, come gli animali, e per di più si dà un gran da fare perché tutto il resto del mondo si convinca a comportarsi come loro e impari a chiamare tutto questo « civiltà». Tra questi ricercatori è appunto il Lynch. Ignorare il passato, vivere nel presente e vedere problemi unica-
mente nel futuro è perfettamente coerente con il carattere dell’uomo della nuova frontiera. Certamente, se i pionieri che un secolo fa sterminarono i pellirosse e le altre popolazioni americane indigene avessero preso coscienza e si fossero preoccupati del passato e della storia di questi popoli, prima di denirli sbrigativamente « selvaggi », molto probabilmente la nuova frontiera sarebbe ancora ferma a Buffalo. E anche oggi che la nuova frontiera ha debordato oltre i confini degli USA e dà nuove prove di sé in terre d’oltreoceano le cose non sono molto diverse. Vogliamo immaginare, per pura ipotesi, un comandante pilota americano che prima di sganciare il quotidiano carico di tritolo in qualche parte del Viet-Nam o della
Cambogia medita sul passato del popolo annamita o del popolo khmer e si dispone a riconoscere un alto grado di civiltà in quelli che stanno per ricevere sulla testa le sue bombe? Non è più semplice, e più tranquillante per la coscienza, considerare « selvaggia » questa gente che i dispacci del comando consacrano allo sterminio indiscriminato? È possibile che il vizio idealistico di cui si sono macchiati gli studi di storia urbanistica elaborati da ricercatori europei abbia reso difficile la loro applicazione pratica alla progettazione urbanistica. È anche possibile che questo vizio si sia trasferito nelle ricerche di studiosi americani, come Lewis Mumford, non certo insensibili alla necessità di calare la storia
urbanistica nella prassi urbanistica. Ma tutto questo, posto che corrisponda a verità, che cosa significa? Se il Lynch avesse davvero avvertito questo vuoto storiografico avrebbe cercato di colmarlo. In realtà egli non lo avverte, appunto perché la cosa non gli interessa; quindi la difesa d’ufficio che ne tenta il Guarda sembra fuori luogo. Lynch è un « designer », non dobbiamo dimenticarlo, sia pure comprendendo nel termine
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la vasta gamma di interessi che esso copre nell’accezione americana. Non per caso egli ricorda la stretta collaborazione con Gyorgy Kepes (« un nome dovrebbe comparire sulla copertina col mio, se questo non lo rendesse corresponsabile dei difetti del libro. Questo nome è quello di Gyorgy Kepes »). La progettazione d’ambiente (« site planning ») è per lui «a design problem », che sta fra « architecture, engineering, city planning and landscape architecture », e il cui impatto con la realtà è di carattere biologico, sociale e psicologico. La storia proprio non c'entra, anche se per il Lynch l’ambiente è un aspetto cruciale del problema urbanistico generale e « segna i limiti alle cose che la gente può fare e rende possibili quelle cose che altrimenti non lo sarebbero ». Ci troviamo quindi di fronte a una proposta molto chiara e precisa: non importa che i « site planners » tengano conto della storia di un popolo o di una comunità, e tuttavia essi devono agire su una struttura che segna i limiti di ciò che la gente può o non può fare, e che quindi interferisce profondamente nella loro vita e nella loro storia, modificandole. Su questa linea, la parola giusta per bollare questo modo di pensare e di agire sarebbe una sola: autoritarismo. Ma il problema non è di mandare il Lynch al rogo o di buttare alle ortiche tutto il suo lavoro. In fondo il Lynch ha avvertito una cosa importante,
cioè la relazione
che corre
tra l’ambiente,
inteso
soprattutto
sotto l’aspetto visivo, e la capacità dell’uomo di ritrovarsi e riconoscersi in esso a seconda dei caratteri che esso possiede o assume. I limiti entro cui questo problema viene affrontato e trattato sono invece quelli che lo stesso
Guarda
definisce
(involontariamente),
quando
afferma
che per
il Lynch l’assetto formale della città è innanzi tutto « il risultato dell’intervento dell’uomo sull'ambiente naturale, un fenomeno umano e naturale a un tempo, riconducibile quindi alla semplice e fattuale analisi della sua esperienza percettiva » (L’imzzzagine, p. 12). E infatti il Lynch non esce di lì, cioè dall'ambito dell’esperienza percettiva. È vero che il Lynch si preoccupa soprattutto dei risvolti pratici che può avere il suo tipo di analisi, sia dal punto di vista procedurale che dal punto di vista progettuale; ma proprio in questo sta il pericolo. Infatti il Lynch, da buon americano, è convinto che per fare della buona politica basta fare della buona amministrazione e di conseguenza non si avvede che le sue sono vere proposte politiche, che in realtà vanno molto più in là dei suoi stessi obiettivi, radicate come sono in una storia assai più antica della storia yankee e confortate da un tipo particolare di cultura
della quale egli, pur senza rendersene storicamente conto, è pienamente partecipe.
La tendenza a risolvere i problemi in chiave psicologica, sociologica, antropologica è tipica della cultura americana e di coloro che a questa
cultura si sono assimilati; ciò appunto dipende dalle ragioni che si dicevano, ossia soprattutto dalla tendenza dell’uomo della nuova frontiera a vivere nel presente e dalla sua sostanziale incapacità di affrontare la realtà in chiave storica. Questo non significa che, per tale via, non si
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siano raggiunti alcuni risultati positivi. Però anche i pericoli sono grandi, soprattutto su un piano politico e sociale.
Per esempio: è importante che il Lynch avverta la differenza tra il modo di sentire l’ambiente da parte di un primitivo, per il maggior senso di sicurezza che la stabilità del luogo offriva, e il senso di smarrimento di un cittadino americano, che vede ogni anno sparire dalla sua città una buona parte dei punti di riferimento o dei luoghi ai quali egli attribuiva un certo carattere individuante e che erano perciò alla base della sua identificazione (psicologica, sociologica, culturale) col suo ambiente. Tuttavia la proposta operativa che ne consegue lascia sgomenti.
Creiamo nella città — suggerisce sostanzialmente il Lynch — quei punti di riferimento, quelle visuali costanti, quei particolari di ambiente che una
serie di inchieste fra i cittadini, o altri strumenti
di ricerca, ci
abbiano indicato; in questo modo si può pensare che il senso di smarrimento dovuto alla mancanza di questi caratteri sparirebbe e che il cittadino, sotto questo aspetto, potrebbe considerarsi appagato. Ma dentro a quale tipo di città, dentro a quale tipo di società, dentro a quale sistema politico, dentro a quale ambiente poste? Un
avverbio,
storico il Lynch inserisce queste pro-
« unconsciously », ci aiuta a capire la difficoltà che il
Lynch ha di penetrare questo genere di problemi, anche a livello semplicemente antropologico. « Inconsapevolmente » noi avremmo cessato di modificare l’ambiente con opere che agivano in armonia con ciò che le circondava, e in questo modo dato origine all’attuale disarmonia. Ma è proprio possibile pensare che questo sia avvenuto inconsapevolmente, o che inconsapevolmente le genti primitive inventassero spiriti per conservare certe caratteristiche ambientali? Leggendo la grande massa di lavori, neanche tutti recenti, pubblicati sull'argomento, sembrerebbe di no. Se
un dato comune emerge dai numerosi studi che gli antropologi culturali hanno dedicato alle civiltà arcaiche, estinte o viventi, esso è la necessità
(logica, critica e storica) di distruggere il vecchio mito del « selvaggio » o del « primitivo », che sostanzialmente
rappresentava
l’unico ostacolo
alla comprensione più vera di queste civiltà. Proprio gli studi condotti sulle popolazioni indigene nordamericane hanno portato alla convinzione che la stessa organizzazione interna dei villaggi fosse insieme lo specchio della complessa cosmogonia nella quale quei popoli credevano e l’espressione urbanistica dell'ordine sociale che essi si erano dato e che concordemente rispettavano. Fede religiosa, organizzazione della comunità, assetto del villaggio rispondevano sostanzialmente agli stessi immutabili princìpi ed erano quindi ognuno garanzia della persistenza degli altri due. È chiaro che queste civiltà erano sostanzialmente statiche e che le evoluzioni a cui esse si assoggettavano (per esempio da comunità nomade a comunità
stanziale
e viceversa)
erano
molto
lente, a meno
che non
intervenissero fattori traumatici legati alla stessa possibilità di esistenza del gruppo o comunque tali da mettere in discussione le basi di quell’equilibrio naturale e cosmologico sul quale essi avevano costruito il loro equi-
173
librio sociale e urbanistico. Tale staticità, determinata appunto dalle regole universali e immodificabili che regolavano la vita di queste comunità, corrispondeva anche ad un equilibrio interno nel quale ognuno si ritrovava e che quindi nessuno aveva l’interesse (o la possibilità) di turbare. Di solito lo stesso capo del gruppo non aveva quelle caratteristiche giurisdizionali che noi siamo
abituati ad attribuire
a chi comanda,
ma
era
investito di compiti precisi, come guidare la tribù alla caccia o alla guerra, che non implicavano obbligatoriamente una dipendenza gerarchica dalla sua volontà per gli altri membri della comunità, al di fuori di queste occasioni. Sarebbe estremamente difficile, per noi, giudicare se il regime di queste comunità fosse autoritario o democratico, paritario o gerarchico. I nostri schemi mentali e soprattutto politici non si attagliano a questo problema. Al massimo, la spiegazione che noi saremmo in grado di dare potrebbe essere dello stesso tipo di quella che Dante ipotizza, per bocca di Piccarda Donati, riguardo alla struttura del Paradiso: la gerarchia non è più una gerarchia quando essa corrisponde alla volontà di tutti coloro che ne fanno parte, in quanto garantita dalla corrispondente volontà di un essere supremo immateriale e universale (Par., III, 70-87). E questo è appunto un sistema assai sottile per giustificare qualunque tipo di gerarchia che si presenti (o venga presentato) come indiscutibile. Ma per quei popoli tribali l'equilibrio sociale non si reggeva su un così raffinato postulato teologico. Per essi, in realtà, questo tipo di giustificazione non avrebbe alcun senso, poiché fra loro la religione non è, come per noi, una sovrastruttura che necessita di determinati supporti logici o psicologici. Essa fa invece parte della struttura, o meglio, è la struttura. È interessante vedere che cosa può accadere quando questo equilibrio si rompe, cioè quando qualcuno, di solito per ragioni di potere personale, trasforma la religione in sovrastruttura. Uno degli esempi più signifi cativi che si possano portare a questo proposito, soprattutto con riguardo ai suoi agganci urbanistici, è quello del popolo etrusco. La città etrusca è stata sino ad ora assai poco studiata, e forse è stata studiata più sulle fonti documentarie scritte che sui documenti urbanistici reali. Tuttavia quello che i gromatici hanno tramandato circo il rito etrusco di fondazione delle città è fortemente indicativo, anche se è legittimo pensare che Igino, Frontino e gli altri si siano riferiti più all’appropriazione e alla trasformazione romana dell’uso etrusco che non all’uso etrusco stesso. I « gromatici veteres », le cui opere risalgono al I secolo dopo Cristo, in sostanza descrivono le modalità con le quali si quadripartiva il territorio secondo due assi perpendicolari orientati: il « cardo » (nord-sud) e il « decumanus » (est-ovest). In realtà, se questo genere di quadripartizione
si attaglia bene ai canoni urbanistici romani, che venivano applicati soprattutto in zone pianeggianti sia per la fondazione delle città che per la centuriazione dell’agro, essa non trova facilmente rispondenza nelle città etrusche, che sorgono di regola su un acrocoro o comunque in territorio montuoso. È molto probabile che l'orientamento degli assi, in quanto rife-
174
rito alla città etrusca, debba essere inteso più nel senso della disposizione delle porte di accesso alla città che non come base della trama viaria urbana. Tuttavia il costante riferimento che i testi latini fanno ai «rituales » etruschi testimonia che nella tradizione di questo popolo c’era l’uso di fondare le città secondo un procedimento collegato a credenze religiose di carattere cosmogonico (il percorso del sole e della luna) e che garanti dell’assetto urbanistico della città erano quei sacerdoti che avevano appunto il compito di intendere i fenomeni celesti e di tradurli in atti politici concreti.
Ma c’è un elemento che male si inserisce in questo quadro: l’acropoli. Una parte delle città di origine etrusca hanno l’acropoli esterna, altre l'hanno invece interna, e ciò rappresenta già una forte incrinatura in un sistema che, essendo predeterminato secondo princìpi di ordine univer-
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114. Veio: pianta della città, mura e acropoli.
95
sale, non avrebbe dovuto consentire questo genere di oscillazioni o di eccezioni. Giuseppe Lugli si limita a scrivere che «l’acropoli interna è più rara ed è scelta quando nel luogo della città si trova una collina soltanto di forma un po’ più scoscesa » (in L’urbanistica dall’antichità ad oggi, 1943, p. 33); ma il problema è evidentemente di portata assai più rilevante. Non si capisce perché proprio l’ubicazione dell’acropoli potrebbe essere un fatto accidentale o comunque determinato da fattori puramente ambientali, mentre
tutto il resto veniva rigorosamente fissato. Ma soprat-
tutto è ancora da stabilire se l’acropoli, almeno nella forma architettonica e nella funzione che conosciamo, nascesse con la città oppure si formasse dopo, a testimonianza della presa di potere da parte della classe religiosa, o in conseguenza della trasformazione in potere dispotico di quelle particolari attribuzioni che la comunità aveva conferito ai sacerdoti e agli altri collegati con la loro casta. In ogni caso, tuttavia, l’acropoli, occupata di regola dalle infrastrutture cultuali, testimonia
in maniera
incontrovertibile
l’esercizio
di fatto
di un potere politico da parte di una classe (quella sacerdotale, presumibilmente) che per questo scopo costruiva una sua cittadella dentro la città o sul limite di essa. La recinzione dell’acropoli rispetto al resto dell’abitato, la sua emergenza, la concentrazione su di essa degli edifici di maggior pregio architettonico, di maggiore costo e di maggiore prestigio, la conservazione del tesoro nei templi, non possono di certo essere attribuiti al capriccio di dei sempre più esigenti e pretenziosi. Ma anche se questo non bastasse a testimoniare l’esistenza di una classe che si avvaleva del-
l'elemento religioso per dominare gli altri, possiamo trovare facile conferma di ciò nelle tombe ipogee, sempre più riccamente affrescate e decorate, sempre più riempite di monili preziosi, sempre più architettonicamente complesse, dove i resti mortali dei signori erano conservati in urnette cinerarie finemente scolpite, recanti sul coperchio l’effige del defunto. Tali tombe, organizzate in vere città dei morti fuori delle città dei vivi, testimoniano senza possibilità di smentita la nascita di un’aristocrazia capitalistica, con molta probabilità appoggiata politicamente dalla casta religiosa, e certamente egemone sulle fonti di ricchezza della società
etrusca. La fusione tra strumenti cultuali e strumenti politici è dunque per molti indizi evidente anche nell’organizzazione sociale etrusca esattamente come in quella degli indigeni nordamericani o di molte altre civiltà arcaiche, ma la sostanza del fatto è completamente diversa. Tra gli etruschi, in un certo momento della loro storia, qualcuno non sta al gioco e deborda dalle sue attribuzioni a fini di potere personale. Ciò fa sì che da un sistema statico si passi a una corsa progressiva verso il potere, il quale si fonda sulla ierocrazia e si esplica attraverso l’accumulo della ricchezza, che si riflette a sua volta nel sempre maggior decoro degli edifici religiosi, delle sepolture, degli strumenti del culto in genere, diventati appunto anche strumenti di prestigio e quindi di predominio politico. Perciò, se dovessimo seguire fino in fondo il ragionamento del Lynch,
176
che tutto sommato è di carattere prettamente formale anche se viene inteso come calato nella realtà viva della città, non c’è dubbio che strutture emergenti e caratteriali come l’acropoli etrusca dovrebbero godere di un giudizio di maggiore riguardo, rispetto a forme urbanistiche sostanzialmente uniformi come un villaggio indiano o un paesaggio indiano. Ma tale maggiore riguardo, evidentemente, non comporterebbe una indicazione di carattere solo formale, bensì anche politica, senza tuttavia che
di ciò si raggiungesse la piena consapevolezza. Questo accade perché in sostanza il Lynch, facendo un ragionamento rigorosamente tecnico e del tutto astorico, favorisce di fatto l’obnubilazione del fattore politico che anche l’elemento formale più umile porta in sé. Egli dimentica troppo facilmente che i veri autori della forma delle città, in regime dispotico e tanto più in regime capitalistico, non sono né la gente comune né, a conti
fatti, i tecnici stessi, bensì coloro che hanno in mano la gestione del potere e il libero accesso alle fonti di ricchezza. Vero è che il Lynch deriva la sua cultura assai più dagli ierocrati etruschi o dagli imperialisti romani che non dagli indigeni nordamericani, non per caso sterminati dagli uomini della nuova frontiera e infine ridotti a fare la danza della pioggia per turisti in vena di antropologia. Infatti tutta la nostra cultura, europea e quindi americana, ha senso solo se vista storicamente all’interno di una serie di rotture di equilibri sociali, avve-
nute più spesso a vantaggio o per iniziativa di classi avide di potere. Del resto, lo stesso equivoco della commistione di strumenti cultuali e di strumenti politici non durò a lungo, presso gli etruschi: già fra PVIII e il VI secolo, integrandosi la cultura etrusca nel mondo latino, l'evoluzione fu profonda. Il fatto che, secondo la tradizione, Roma fosse stata fondata « etrusco ritu », insieme con il succedersi di re etruschi alla guida della città, testimonia quanta influenza o interferenza vi fu tra i due tipi di società. Ma la società romana si fondò su riti meno cosmogonici e più concreti di quelli dei cugini etruschi: primo fra tutti la fame di nuove terre, che dette origine a una serie di conquiste territoriali senza precedenti nella storia del bacino del Mediterraneo, sia per estensione che per durata. Il buon americano Kevin Lynch, anche se non riesce a prenderne coscienza storicamente, ha ereditato come tutti noi questo spirito di conquista, che ci spinge ad andare sempre più avanti, costi quel che costi, a noi o (preferibilmente) agli altri. I primi americani che conquistarono nuove terre a quella che loro chiamavano civiltà, sterminando gli indiani, non facevano niente di più e niente di diverso rispetto agli spagnoli, ai portoghesi o ai francesi che avevano operato in quello stesso continente un secolo o due prima di loto; e questi ultimi non facevano che esportare oltre Atlantico i metodi politici così bravamente inaugurati dalla romanità e rivissuti prima attraverso il sacro (proprio così: « sacro ») romano im-
pero, poi attraverso le ambizioni egemoniche delle monarchie Proprio questo radicato e antico spirito della nuova frontiera ci capaci di capire come una tribù indiana potesse darsi un capo farsi guidare da lui nella caccia al bufalo, e per di più riesce a
nazionali. rende insolo per farci con-
A;
siderare pura coincidenza la puntuale corrispondenza della centuriatio e della castrametatio romane con la Land Ordinance di Thomas Jefferson sulla ripartizione delle terre conquistate in porzioni di un miglio quadro e con la scacchiera altrettanto rigorosa delle metropoli americane. Eppure il parallelo storico è stringente. Da una patte, in ambedue i casi, c’è della gente bene armata e bene organizzata militarmente, avida di terre, che suddivide razionalmente i territori di nuovo acquisto fra i protagonisti della conquista, mentre dall’altra ci sono popoli definiti dai conquistatori barbari o selvaggi, e perciò destinati a soggiacere o a scomparire. Naturalmente il Lynch non propone di costruire nelle città americane solo acropoli. Il suo intento è sinceramente democratico, nel senso che egli si preoccupa del modo di vivere della gente comune e non della necessità di pinnacoleggiare le città americane per conto dei gestori del capitale. « La città — scrive appunto il Lynch — non è costruita per una sola persona,
ma per grandi numeri
di persone,
con origini, tempe-
ramenti, occupazioni, ceti largamente variabili. Le nostre analisi indicano sostanziali variazioni nel modo in cui persone differenti organizzano la propria città, negli elementi sui quali essi fanno maggiore affidamento, o nelle qualità formali che sono loro più congeniali. Il designer deve pertanto creare una città che sia quanto più possibile riccamente dotata di petcorsi, margini, riferimenti, nodi e distretti, una città che utilizzi non soltanto una qualità formale, ma tutte. Se così sarà, osservatori diversi
potranno trovare materiale percettivo congeniale al loro particolare modo di guardare il mondo. Mentre un individuo riconoscerà una strada dalla sua pavimentazione
a mattoni, un altro ricorderà la sua ampia curva, ed
un terzo avrà situato lungo la sua lunghezza i riferimenti (L'immagine, p. 124). Ma appunto perché questa genuina popolare è del tutto vana e, a ben guardare, niente affatto va corretta. Non si capisce come si possa partire dal presupposto
più minuti » impostazione popolare, essa
che la città è
costruita « non per una sola persona, ma per grandi numeri
di persone,
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Regio dextrata
115. Centuriatio romana
a 36 ripartizioni.
116. Centuriatio romana a 100 ripartizioni.
178
con origini, temperamenti, occupazioni, ceti largamente variabili », e poi ricondurre tutto all’attività del designer, il quale avrà sempre una sua personale
idea
della città, culturalmente
arricchita
quanto
si vuole, ma
certamente non coincidente con quella che della città hanno i « grandi numeri di persone » di cui il Lynch parla. Paolo Sica ha tracciato una storia dell’idea di città, comprendendo in essa tutta una serie di fattori culturali che frequentemente non vengono considerati. « Introducendo — scrive il Sica — nell’esame della formazione urbana l’importante componente della idea di città non basta limitarsi, come più spesso è stato fatto, alla trattazione dell’utopia nella sua accezione corrente più ristretta, ma si devono toccare i temi del rapporto
tra la forma fisica e la sua trasfigurazione mitica religiosa o fiabesca, e cioè, in tutti gli scambi possibili, fra realtà, pensiero teorico, e immaginazione popolare. In quanto momento del pensiero umano localizzato e
SNA
SIRIA
DEMBXISTSE RVA 117. Schema
base della ripartizione
fondiaria romana
(centuriatio
e castrametatio).
d79
datato anche l'immaginazione nelle sue varie forme rappresenta una realtà della quale è necessario tener conto, nella continua oscillazione pendolare tra città reale e città sognata. La forma urbana, se non altro nel momento in cui è fruita e vissuta, non è appunto che una specie di sintesi dei due termini, dove alle proiezioni dell'immagine non spetta di necessità un posto di retroguardia » (L'immagine della città da Sparta a Las Vegas, 1970, p. 4).
Ma quale tipo di immaginazione? « Quale funzione — si chiede il Sica a conclusione della sua ricerca — e quali obiettivi restano ancora all'’immaginazione umana per la città di domani? Nient'altro e niente di più, a nostro avviso, che il campo che si apre a una immaginazione razionale, radicata nelle situazioni storiche. Non l'immaginazione onirica, né quella emotiva, ma una immaginazione che fa a meno dell’immagine come suggestione e come rifugio » (p. 342). A
SECTION
OF
LAND=640
ACRES. 10 chaius.
A rod is 16% feet. A chain is 66 feet or 4 rods.
730 a
Ca
A mile is 320 rods, 80 chains or 5,280 fl.
CREOAA
6 ch.
|20 rods
A square rod îs 2724 square feet.
An acre contains 13,560 square feet.
a
ca
Se ‘160 square rods, ‘© is about 208% feet square. ‘© 158 rods wide by 20 rods long; or any two numbers (of rods) whose product is 160:
È 660 feet.
MEO.
25x125 fect equals .0717 of an acre.
CENTER Sectional Map ofa Township with adjoning Seetions,
feet. 660
10 chains.
40 acres.
OF
20 chains.
1,320 feet.
SECTION.
160 acres,
40 chains,
160 rods or 2,640 fect.
118. Schema-base della ripartizione fondiaria negli U.S.A. (Land Ordinance di Th. Jefferson).
180
La ricerca del Sica può ben apparire il frutto di quello storicismo idealistico da cui, secondo il Guarda, il Lynch rifugge. E in effetti, se un limite c'è nel lavoro del Sica, esso consiste nella mancanza
continuo
di un raffronto
e stringente tra l’idea di città e la corrispondente
città reale.
Manca, in sostanza, l'elemento drammatico, cioè lo scontro, che è sempre
scontro di forze attive nella società e non semplice accademia, tra città pensata e città vissuta. Le stesse conclusioni del Sica, che richiamano la necessità di riportare il discorso su una immaginazione razionale « radicata nelle situazioni storiche », nascono forse più dalla delusione per la vanificazione pratica delle idee urbanistiche contemporanee che per la concreta consapevolezza della possibilità di soluzioni che queste stesse situazioni storiche possono offrire. Eppure, anche per questa via parziale, cioè storicamente articolata ma non integrata di tutti gli elementi del problema, il Sica denuncia con chiarezza quei pericoli che il Lynch non avverte. « Al limite — fa rilevare il Sica — la città, fra tante cose da comunicare, comunica solo la sua sovrastruttura, anzi la contrabbanda come struttura.
È evidente l’uso reazionario dell’immagine, della quale si sfruttano, all’inizio del circolo vizioso, le possibilità di incontro con un terreno psico-sociologico carico, ai vari livelli culturali, di confuse esigenze evasive. L’immagine funziona a livello sociologico come fuga dalle contraddizioni, dalle promesse
inevase » (p. 325).
Questa consapevolezza dei limiti politici del concetto di immagine delle città, presente nel Sica, manca invece del tutto nel Lynch. Egli non avverte né la limitazione concettuale insita nella stessa espressione «immagine della città » né tanto meno la particolare carica storica che questo concetto è venuto assumendo. Eppure non è difficile verificare che, allorquando l’immagine della città non è stata costruita dall’intera comunità urbana ma da pochi a ciò demandati, la struttura urbanistica nel suo complesso ne è uscita sempre deformata in senso autoritario. Ciò di regola avviene non in quanto il nuovo disegno della città è in se stesso autoritario, come qualità intrinseca, bensì perché è autotitario il quadro politico generale che consente
(e, anzi, richiede) interventi pia-
nificatori costruiti da pochi e imposti ai più. In questo quadro, com'è naturale, trova spazio un certo tipo di attività urbanistica, e soltanto quello. Perciò anche una registrazione della situazione urbanistica come quella condotta dal Lynch, pur contenendo una sufficiente dose di oggettività, non è in se stessa imparziale, ma fortemente caratterizzata in senso politico, e precisamente in senso autoritario.
Il concetto di immagine della città non è un dato permanente dell’urbanistica o della storia urbanistica. Esso in certi periodi o in certe civiltà tace, e nasce e sistematicamente si ripropone quando la situazione del potere è tale da richiedere che il concetto globale dell’abitare, carico per sua natura di contenuti sociologici, politici, formali, psicologici, etici, ecc., venga ridotto per astrazione a una parte di sé, ossia alla sua pura espressione formale. i Tuttavia — è bene precisarlo — non è neanche la pura espressione
181
formale di per sé autoritaria. Autoritaria è la riduzione o la del concetto globale a una sua parte. Egualmente autoritario durre il concetto dell’abitare a una pura espressione politica o o religiosa, e così via. Infatti con questa limitazione si finisce
limitazione sarebbe ripsicologica sempre per
conferire a un’unica élite culturale (quella dei designers o degli psicologi o dei sacerdoti, ecc.) l’esclusiva della progettazione urbanistica. E il discorso non cambia quando queste élites culturali, invece di operare singolarmente, lavorano in organismo di gruppo. Infatti esse, tutte insieme, costituiscono la classe culturale dirigente, ma non rappresentano il popolo, il quale resta destinato ad essere l’utente passivo delle scelte urbanistiche programmate da altri, di qualunque genere esse siano. L’immagine della città, nella migliore delle ipotesi, serve dunque come occultamento di una struttura urbana che ha un significato profondamente diverso da quello che i designers cercano di proiettare all’esterno. E non è detto, in ogni caso, che questo compito di occultamento percettivo delle reali ragioni politiche che condizionano un organismo urbano debba essere affidato a monumenti altisonanti come una piramide faraonica, un colosseo, una chiesa cattedrale, un palazzo gentilizio, un campidoglio. Questo compito può essere affidato anche a quegli elementi minuti che il Lynch chiama « riferimenti », e tra questi anche ai più localizzati, come un’insegna o una fronte di negozio, alberi, maniglie di porte o altri dettagli del genere. Sono appunto questi i « riferimenti » che al Lynch risultano essere « frequentemente usati come indizi di identità e persino di struttura, e sembrano offrire affidamento crescente, mano a mano che un itinerario diventa più familiare » (L'immagine, p. 67). È il caso limite, evidentemente. La possibilità che il designer intervenga anche su questi caratteri, che appartengono all’intimità urbana e rappresentano la risorsa ultima di chi desidera intervenire individualmente sulla città per identificarsi in qualche modo con l’ambiente in cui vive, può essere presa in considerazione solo quando il distacco tra città e abitante tende a diventare assoluto. Così è, infatti, per la massima parte dei cittadini americani. Ma il Lynch non si propone di verificare le cause reali di questo distacco, e soprattutto non si sente di discutere la città americana come struttura. Infatti il mito della grande città è parte integrante del sistema politico americano. Esso fa parte della nuova teologia capitalistica che così pochi intellettuali negli USA accettano di mettere in discussione. Perciò anche il Lynch non discute il mito megalopolitano, ma si propone di adottare alcuni accorgimenti visivi per renderlo percettivamente più accettabile alle masse. Un cittadino di Los Angeles, descrivendo il proprio modo di spostarsi nella « sua » città, così rispondeva ai questionari del Lynch: « È come spendere un sacco di tempo per andare in un certo posto e, arrivandoci, scoprire che, dopo tutto, là non c’è niente » (L'immagine, p. 58). Si tratta di un grido di allarme, evidentemente. È la constatazione del vuoto urbanistico in cui si muove un’intera comunità. Ma il Lynch non lo raccoglie.
182
O meglio, egli lo raccoglie solo come richiesta di perfezionamento di un mito che gli sembra imperfetto nel suo modo di manifestarsi, e quindi non completamente credibile, ma in sé assolutamente valido. Perciò la
necessità che egli più sensibilmente avverte è quella di introdurre nelle grandi città quegli mito gli increduli, crollare. Infatti, se totem di Manhattan da buon americano,
ingredienti visuali che consentano di coinvolgere nel i recalcitranti, i riottosi, affinché il mito non abbia a il crollo avvenisse, non c'è dubbio che anche i grandi
resterebbero coinvolti nella caduta, e questo il Lynch, non può porlo nei suoi programmi.
183
bWbANISTICA
E POLITICA
In che senso si può parlare di autonomia dell’architetto in fatto di urbanistica? Ed è legittimo teorizzarla, questa autonomia, quando siamo coscienti che la soluzione di un problema urbanistico comporta l’adesione a tutta una serie di interessi di altra natura e dai quali non si può prescindere? D'altra parte, non è oggettivamente troppo semplicistico tacciare di reazionari coloro i quali sostengono che, anche in fatto di urbanistica, l’architetto deve avere la possibilità di operare autonomamente rispetto alla situazione politica in cui vive e che perciò lo condiziona? Lo spunto per trattare di questo problema può venire da un volumetto di Leonardo Benevolo, Le origini dell'urbanistica moderna, pubblicato pet la prima volta nel 1963. Il Benevolo, com’è noto, non è uno storico,
ma ama cimentarsi egualmente con gli eventi storico-politici. Nel volume in questione egli ricollega le origini dell’urbanistica moderna alle istanze del socialismo utopistico del primo ’800, nelle quali vede i primi tentativi di risolvere, anche e soprattutto su un piano urbanistico, i problemi creati dalla rivoluzione industriale. Come capita per la massima parte delle opere del Benevolo, non si può dire che questo lavoro sia del tutto inutile, ma sulle conclusioni a cui egli perviene (e anche sulle premesse, a dire il vero) c'è molto da
discutere. È innegabile infatti che non si fa storia urbanistica senza fare anche storia economico-politica (e il Benevolo espone, compilando con una larghezza anche eccessiva e quasi scolastica, le dottrine del socialismo utopistico, dal concretarsi della rivoluzione industriale fino al 1848); ma si può veramente essere convinti che i socialisti utopisti avessero inteso
e sentito il problema in senso propriamente urbanistico, o che comunque si fossero proposti di risolverlo come tale? D'accordo infatti che certi problemi di particolare rilievo, sui quali si è poi prodotta l’attività di architetti e urbanisti moderni, hanno incominciato a porsi dopo la rivoluzione industriale, e che in questa luce vanno pertanto considerati; ma non si può solo per questo far discendere da essi le « origini » dell’urbanistica moderna, intendendo con ciò impli-
184
ZA (0)
TTARTI,LE
119. Fourier: condo
planimetria
la ricostruzione
del falansterio
se-
del Benevolo.
120. Fourier: sezione del falansterio secondo la ricostruzione del Benevolo (1 sottotetto con le camere per gli ospiti, 2 serbatoi
3
3
3
3
:
idrici, 3 appartamenti privati, 4 stradagalleria, 5 scale di riunione, 6 mezzanino con gli alloggi per i ragazzi, 7 piano terreno con passi carrabili, 8 passerella coperta).
|
ì - de
121. Godin:
| L| pianta del familisterio.
122. Godin: sezione del familisterio (A sotterraneo: b cantine, c corirdoi, d canalizzazioni, e ingresso estetno, f cantina sot-
to il cortile, g gallerie di ventilazione, i condotti di ventilazione; B corte interna, piano terreno e piani superiori: j entrate alle gallerie, passaggi, scale e idranti, k gallerie di circolazione generale, 1 porte
d’ingresso agli appartamenti; C copertura in vetro sul cortile e sulle gallerie: m scarichi pluviali, n padiglione sull’apertura in vetro per la ventilazione; D interno degli appattamenti: o porta d’ingresso del vestibolo, p dispensa e ripostiglio, q armadio, r armadio o apertura nel muro, s canali corridoi).
d’aria;
E
sottotetto:
t
citamente che gli architetti moderni non potrebbero avere (o avere avuto) altra problematica che quella. Il Benevolo
è invece categorico a questo proposito.
« Conviene
co-
gliere — egli scrive — le origini dell’urbanistica moderna nel momento in cui le situazioni di fatto si sono concretate in misura sufficiente per provocare non solo il disagio, ma anche la protesta delle persone che vi sono coinvolte; qui il discorso storico deve necessariamente essere allargato dalle forme di insediamento alla problematica sociale di quel tempo, mostrando la giusta collocazione dell’urbanistica moderna come parte del tentativo in corso per estendere a tutte le classi i potenziali benefici della rivoluzione industriale » (Le origini, 1963, p. 54).
Dunque, secondo questa interpretazione, la rivoluzione industriale avrebbe creato senz’altro dei benefìci, reali per alcune classi, potenziali per le altre. Estendere questi benefici a tutte le classi sarebbe il problema sociale fondamentale e l'urbanistica moderna dovrebbe rendersi « parte del tentativo » di risolverlo. Presumibilmente, al di fuori di questa pragmatica, per il Benevolo non c’è urbanistica che possa dirsi moderna. Senonché l’intero ragionamento si basa su un presupposto storicamente
ast
123. Godin:
veduta del familisterio.
inesatto o, comunque, tutt’altro che definito e appurato. La rivoluzione industriale creò, è vero, dei benefìci, ma non dei benefìci estensibili a tutte le classi. Questa fu, caso mai, la benemerita illusione dell’Utopia,
che il marxismo confutò, in quanto venata di moralismo e basata sul tentativo di ridistribuire una forma di accumulazione che doveva invece essere colpita alla sua origine. La rivoluzione industriale creò, invece, notevoli inconvenienti di carattere generale: primo fra tutti l’urbanesimo. Parlare di origini dell’urbanistica in un periodo di dirompente urbanesimo è molto ambiguo. Non vi può essere pianificazione dove dominano l’arrivismo e la speculazione da un lato, il bisogno immediato e la miseria dall’altro, e quando, conseguentemente, tutte le proposte urbanistiche o provengono dalla classe dominante (e allora si attuano, perché sono parte essenziale di quel determinato disegno politico che essa persegue) oppure restano,
come
in effetti restarono,
pura
teoria,
senza
nessun
aggancio
apprezzabile con la situazione sociale. Il problema, come del resto il Benevolo raccoglie senza trarne però le conseguenze, eta di natura essenzialmente politica, e in questo senso fu affrontato, anche se non risolto. Inoltre la rivoluzione industriale mise definitivamente in crisi l'economia delle campagne: crisi che anche oggi perduta ed ha raggiunto, in certe nazioni, il suo acme, tanto che il problema sociale di fondo dei nostri giorni, in Europa, può essere quello di provocare un rallentamento della produzione industriale, favorendo la riconversione di parte del lavoro operaio in lavoro agricolo. Perciò, probabilmente, se volessimo ad ogni costo integrare l’architetto moderno in una visione politica predeterminata, dovremmo caso mai invitarlo a pianificare nelle campagne piuttosto che nelle città, combattendo l’urbanesimo, non aiutandolo a diventare fenomeno
esclusivo. Ed è esattamente
la direzione opposta a quella in cui si muove tutta l'esposizione del Benevolo. All’origine del problema, tuttavia, c'è una questione teorica di fondo, sulla quale il Benevolo basa in larga misura la sua impostazione critica, non solo in quest'opera sulle origini dell’urbanistica moderna, ma anche in buona parte della sua rimanente produzione. Tale questione possiamo trovarla formulata per la prima volta con una certa decisione nella pro-
186
lusione tenuta dal Benevolo al convegno « Facoltà di architettura e territorio», svoltosi a Torino il 6 e 7 maggio 1962, e pubblicata poi in appendice a Introduzione all'architettura (1966) con qualche ritocco. Il tema di fondo è appunto quello dei rapporti tra urbanistica e politica e del modo di inserire l’urbanistica entro il quadro politico attuale. « Invece di domandarsi — vi sosteneva fra le altre cose il Benevolo — come deve essere l’architettura per esprimere il carattere del nostto tempo, bisogna chiedersi se il compito dell’architettura sia proprio quello di esprimere un carattere o di mescolarsi alle azioni concrete che formano e fanno mutare questo carattere. Così, non è corretto presentare i maestri del movimento moderno come singoli artisti nel modo tradi zionale, dal momento che la loro opera è servita appunto a mettere in discussione quel modo di vedere l'architettura come arte pura, e come prodotto individuale... « Possiamo tranquillamente accantonare le soluzioni elaborate nel ventennio fra le due guerre, che sono relative a problemi diversi dai nostri e riflettono situazioni in gran parte superate; l’ampiezza e la velocità delle trasformazioni in corso pongono oggi nuovi problemi che esigono soluzioni nuove. L’unico genere di continuità del passato può essere quello della metodologia, che però diventa importantissimo tenere ferma per innestare fra loro molte successive esperienze e incidere durevolmente sulla realtà. Altrimenti, non resta che rassegnarsi al perpetuo fluire delle tendenze e ricominciare da capo ogni cinque anni, lasciando che il solco fra intenzioni e risultati si approfondisca sempre più... « Non ci sentiamo di collocare l'architettura in una sola zona di interesse — delle forme dello spirito — come si diceva una volta. La discussione se l’architettura sia un’arte, una tecnica o una sintesi di arte e tecnica ci sembra veramente remota: non crediamo più, infatti, che le
attività umane si distinguano secondo le categorie del pensiero astratto, ma secondo il punto di applicazione concreto, e i valori tradizionali — arti, scienze, tecnica e così via — appaiono modi diversi di verificare una stessa realtà, anzi partizioni categoriche della realtà stessa. « L’idea che lo scopo dell’architetto sia particolarmente di ordine espressivo, anzi il concetto
medesimo
dell’arte come
atto contemplativo,
separato dalle responsabilità pratiche, è comprensibile solo in una società gerarchica, in cui la cultura artistica sia di fatto dipendente dalla classe dominante. « Ma quando vien meno la gerarchia riconosciuta per tradizione, e se si sostituisce un’altra in cui la classe dominante non detiene più contemporaneamente il potere e la cultura, come avviene appunto nella società borghese dal ’700 in poi, la pretesa autonomia dell’arte interrompe di fatto i legami fra gli artisti e la società e confina l’architettura, che continua ad essere vista in questa prospettiva, in un ruolo puramente acces-
sorio, sempre disponibile per gli scopi della classe dirigente, ma questa volta al servizio di interessi particolari, non più generali ». Come si vede, il problema è appunto quello dell’inserimento dell’ar-
i
187
chitetto dentro il quadro politico del suo tempo, collegato all’altro problema dell’autonomia dell’arte, considerata dal Benevolo come un fattore negativo, almeno in rapporto alla possibilità concreta di mantenere unitario e non frammentario tale quadro. A dire il vero, però, la crociata del
Benevolo contro l’autonomia dell’arte rischia di fare una strage di cadaveri. Vi è una certa confusione logica, nelle cose che egli afferma, soprattutto quando mette insieme l’arte come atto espressivo e l’arte come atto contemplativo, che sono due cose completamente diverse e, anzi, pet molti aspetti opposte. Trattando dell’arte come atto espressivo il Benevolo sembra infatti riferirsi alle teorie crociane. Ma Croce fu appunto un deciso avversario delle teorie romantiche (e romantiche di bassissima lega)
che facevano dell’arte un oggetto da contemplare.
La teorizzazione
del-
l’arte come atto espressivo comporta invece come presupposto un arricchimento di contenuti dell’attività artistica (anche di contenuti politici),
il quale perciò, pur lasciando pieno spazio all'autonomia dell’artista, non lo confina affatto in una sola zona di interesse (delle forme dello spirito), come sembrerebbe intendere il Benevolo.
Il Ragghianti, che più tenacemente degli altri ha sostenuto, su queste premesse, il principio dell'autonomia dell’arte e degli artisti, è esplicito a questo proposito. « La cosa più straordinaria —
egli scrive —
è questa:
che per ogni dove si è cercato industriosamente il contenuto delle opere d’arte, anziché nelle opere d’arte stesse, nella loro intrinseca costruzione,
che è e denota (se letta come si deve) un atteggiamento umano. Atti spirituali, le opere d’arte hanno prima di tutto in se stesse le loro ragioni etiche ed intellettuali e pratiche: e perché mai le vogliamo riempire dall’esterno, e per analogia, e con forzature e violenze, di questo contenuto, invece di appurare quello che è ogni volta loro proprio ed autentico? » (II pungolo dell’arte, 1956, p. 87). In sostanza, secondo questa concezione, non si nega affatto, ma anzi si sostiene con decisione che l’arte (e quindi a maggior ragione l’archi-
tettura) appartiene al numero delle « azioni concrete » che formano e fanno mutare il carattere di un determinato periodo storico. Il problema, caso mai, starebbe nel vedere se la collocazione dell’arte nella storia viene
considerata come un atticchimento dei contenuti anche sociali o eticopolitici della storia stessa, o se piuttosto non si presume che l’arte debba forzosamente assumere da un certo momento storico contingente dei contenuti etico-politici predeterminati, e tradurli o applicarli. Il Ragghianti, affrontando il problema a livello urbanistico, stabilisce una distinzione tra « urbanistica » e « pianificazione ». « Di urbanistica — egli scrive — non si potrà parlare sempre latitudinariamente, genericamente o in astratto, e la determinazione di un piano (economico-politico) in una formulazione urbanistica non potrà essere considerata, almeno
in modo corretto e adeguato, senza tener conto della forzz4 urbanistica particolare, delle modalità espressive che essa ha assunto nel concretarsi. Per essere del tutto chiari, di urbanistica si potrà parlare e giudicare anche in termini generali, teorematici o didascalici, come
si parla di gramma-
188
tica e di sintassi e di metrica rispetto alla poesia, ma delle concrete realtà urbanistiche non si potrà parlare né giudicare (salvo si tratti di anonime applicazioni di formule) prescindendo dall’attività che dà la sua forma peculiare all’attenzione urbanistica. Quando la concezione o piano e la determinazione urbanistica si sono impersonati in una forma caratterizzata e visibile, nell’attiva risoluzione o creazione di un protagonista, l’urbanista o architetto » (op. cif., p. 279). La concezione crociana, ampliata dal Ragghianti e applicata all’urbanistica, presuppone quindi la figura di un artista, o di un architetto o di un urbanista, che in quanto elemento creativo collegato direttamente e storicamente con il tessuto sociale dentro il quale opera, possieda già in sé, e in altissimo grado, quei contenuti che invece il Benevolo vorrebbe ricavati da un interscambio sociale permanente. Secondo questa concezione crociana e ragghiantiana, che poi non è da considerare pura teoria in quanto affonda le sue radici nella storia delle forme e nella storia dell’estetica, l’arte, in definitiva, per avere diritto a questo nome, non deve solo avere
vita, ma
essere
vita, e non
solo aspirare ad avere
storia, ma
essere storia. L’arte come prodotto di ispirazione o come oggetto di contemplazione assumono dunque il valore di residui concetti romantici. La separazione dell’attività artistica (o intuitiva o espressiva) dalle altre forme
dell’umano operare non viene considerata come implicita nel fare poetico, ma esattamente il contrario, appunto perché si parte dalla considerazione che l’artista, come tale e soprattutto quando opera, sia non una parte di uomo, ma uomo integro e intero, cioè nel pieno della consapevolezza delle sue azioni, pensieri, affetti.
In sostanza, dunque, parlare di autonomia dell’arte non significa per ciò stesso presentare gli artisti come una schiera di evirati cantori o come
monadi chiuse dentro di sé e del tutto immuni da esigenze e da problemi di carattere
etico-sociale;
al contrario, invece, l’artista viene considerato
come una persona capace di cogliere più di altri l'essenza di ogni tipo di problema e di esprimerla in una forma che, essendo appunto autonoma e originale, può trovare solo gradatamente il suo posto nella comprensione degli altri uomini e quindi nel cosiddetto « ideale democratico ». Perciò quando il Benevolo si scontra con il problema (o il falso problema) dell’arte « contemplativa », combatte di fatto contro una realtà arcaica e superata. Forse appunto per questo motivo egli finisce per con-
trapporre ad essa una concezione bassamente pragmatica ed altrettanto superata della funzione dell’architetto, la quale, a conti fatti, può risultare estremamente pericolosa, sia per la confusione che ingenera sul piano teorico, sia per le prospettive che può aprire sul piano politico. Sembra infatti che il Benevolo riesca a considerare il fatto artistico solo alla stregua di una sirena ammaliatrice, messa lì dalla classe dominante appunto per piegare il popolo ai suoi voleri, anche se non con la forza ma con gli allettamenti. Perciò, alla fine, tutto il problema si ridurrebbe a questo: convincere o costringere la sirena ammaliatrice dell’arte a comportarsi in maniera meno frivola, anche se più compiacente. È difficile in-
189
fatti intendere diversamente il Benevolo quando, sempre nel convegno di Torino del 1962, diceva che « l’architettura non deve risultare suggestiva, ma persuasiva, non deve afferrare lo spettatore in un momento
di tempo-
ranea disponibilità sentimentale, ma convincere l’utente facendo appello ai suoi interessi quotidiani e permanenti, aiutandolo a vedere chiaro nelle sue esigenze e offrendo per ciascuna una proporzionata soddisfazione. Le
esigenze di ordine intuitivo e emotivo — proseguiva il Benevolo — devono risultare ragionevolmente mediate con le altre, anziché spinte deliberatamente al livello massimo. In questo senso l’architettura moderna non può cessare di essere architettura razionale ».
Tornando più tardi sullo stesso tema, in un articolo pubblicato nel 1968 su « Città e società », il Benevolo ripeteva sostanzialmente gli stessi concetti. « L’idea che esista in uno stesso settore — egli scriveva — una responsabilità artistica distinta da quella pratica è comprensibile solo in una società gerarchica, in cui la cultura artistica sia controllata dalla
classe dominante; allora l’integrazione fra i due aspetti si stabilisce attraverso i rapporti funzionali fra le classi, in quanto le forme di vita della classe dominante, rese correnti dall’arte, diventano i modelli di comportamento di tutta la società. Ma quando questa gerarchia viene meno, o ne subentra un’altra in cui questi rapporti di solidarietà non esistono più, esigenza dell'autonomia interrompe di fatto i legami tra gli artisti e la
società; il loro lavoro resta disponibile per gli scopi della classe dirigente, che può pagare il suo prezzo, ma questa volta al servizio di interessi particolari, non più generali » (Le facoltà di architettura e l'architettura delle città, in L'architettura
p. 187).
delle città nell’Italia contemporanea,
1968,
Come si può vedere, il Benevolo combatte l’autonomia dell’arte perché, sostanzialmente, non vi crede in nessun caso, né quando essa è integrata in una società gerarchica e « controllata dalla classe dominante », né quando questa gerarchia viene meno e il lavoro degli artisti resta così disponibile, a pagamento, « per gli scopi della classe dirigente » (e, a dire il vero, la differenza è piuttosto sottile, all’atto pratico). Non c’è evidentemente nel Benevolo la capacità critica di cogliere che, in certi periodi storici facilmente individuabili, gli artisti si sono posti non come strumento della classe dominante, ma come effettiva classe dirigente, e proprio in questo hanno sostanziato la loro esigenza di autonomia. Facciamo un esempio. Lo stesso Benevolo ricorda che, per i primi artisti del ‘400, « ogni problema di progettazione è pensato come caso particolare di un problema astratto, e tra i fattori di cui tener conto ne entra uno nuovo di carattere metaempirico, cioè la necessità di adeguarsi ad una serie di regole permanenti... Gli artisti quattrocenteschi cercano nei monumenti antichi i princìpi di un metodo perduto, non un repertorio di modelli costruttivi e distributivi che non li interessano più. Perciò studiano gli elementi del linguaggio antico, considerano con attenzione speciale la casistica dei rapporti fra gli ordini e le strutture murarie, e gli accorgimenti per misurare, attraverso gli ordini, i rapporti spaziali, ma
190
non indugiano a riprodurre gli organismi antichi, perché non intendono riportare alla luce né le ricerche tecniche né le preoccupazioni stilistiche dei romani; si propongono invece di applicare il metodo ricevuto dagli antichi agli organismi e ai problemi del loro tempo... Il margine individuato dagli antichi fra le regole ideali e le applicazioni concrete serve ora per svolgere un compito nuovo, cioè per circoscrivere con esattezza l’infinita varietà di sviluppi insita nello spazio medievale » (Introduzione all'architettura, 1966, pp. 162, 163). Ma tutto questo (e il Benevolo non se lo chiede) ha anche un valore politico? Può, cioè, essere considerato anche per le conseguenze che
comporta, al di fuori del campo delle atti figurative, e quindi come un a priori rispetto a determinate correnti di pensiero o a particolari eventi storici? Il Benevolo
ha avuto
il merito
indubbio,
nella sua Storia dell’archi-
tettura del Rinascimento, di ampliare il quadro politico e culturale in cui inserire l’attività degli architetti, e delle arti plastico-figurative in genere. Però tale ampliamento della materia, che poi è un ampliamento di contenuti, resta a monte della trattazione. L’impressione che si ricava dalla lettura di quest'opera (e l'impostazione teorica del Benevolo riguardo all’autonomia dell’arte confermerebbe che non si tratta di semplice impressione) è che gli architetti e gli artisti in genere della prima metà del ’400 siano stati tributari di molte cose al loro tempo, ma non abbiano lasciato nessuna eredità di sé ai loro posteri, al di fuori del loro campo specifico, architettonico o artistico in genere. Perciò si configura, nell’esposizione cri-
tica oltre che nella teoria benevoliana,
una
strana figura di architetto
(o di artista) che sarebbe ampiamente ricettivo quanto ai rapporti con il suo ambiente, ma poi assolutamente univoco nel tipo di produzione.
Bisogna però chiedersi se tale univocità di produzione sia un fatto reale o non derivi piuttosto dalla nostra incapacità critica di far parlare anche in termini filosofici, etici, politici le opere cosiddette d’arte. Da un secolo e mezzo a questa parte gli artisti (e non soltanto quelli delle avanguardie) ci annegano in un diluvio di manifesti, programmi, proclami, dichiarazioni, polemiche verbali, alle quali la critica dedica un’attenzione estremamente generosa, che si fa ancora più fervida quando i manifesti, proclami, ecc. contengono agganci (o velleità di aggancio) con le realtà politico-sociali. Questo accade appunto perché si tratta di documenti verbali. Ma vi»sono opere plastico-figurative che sono veri manifesti programmatici e investono problemi globali della cultura, nonché della politica e della società, per i quali, invece, di solito non si va più in là di
una lettura formale o comunque circoscritta ai problemi plastico-figurativi. Eppure dovrebbe essere chiaro che, se il linguaggio degli artisti plasticofigurativi è di carattere visivo, sarà appunto in termini visivi, e non verbali, che essi sapranno trasmettere in maniera più adeguata il loro pensiero e le loro convinzioni. Una di queste opere-manifesto. è senz’altro la formella con la quale il Brunelleschi partecipò al concorso per la seconda porta del battistero
191
fiorentino.
Se si considera
che il concorso
è del
a qualunque viaggio a Roma fatto dal Brunelleschi la chiarezza con la quale sono affrontati certi temi temi di cui il Benevolo fa cenno) devrebbe servire vinzione che Filippo sia stato tributario all’arte di fondo. Il significato della formella si coglie subito.
1402,
cioè
anteriore
di cui si abbia notizia, (e particolarmente quei da sola a fugare la conclassica delle sue idee
Si sa che la cornice mistilinea era stata imposta dal bando di concorso unicamente per ragioni di uniformità con la prima porta, già scolpita da Andrea Pisano. Il Brunel-
leschi però interpreta immediatamente la cornice nel suo significato geometrico (un rombo con i lati interrotti da quattro archi di circonferenza). Perciò colloca le figure dentro gli schemi geometrici che la cornice suggerisce, o consente. Il ginocchio sinistro di Isacco diventa il centro geometrico della composizione. Sulle diagonali del rombo si allineano elementi rigidi che le definiscono o le tracciano all’interno della formella. Le intersezioni dei lati del rombo con gli archi di cerchio definiscono anch’esse delle fasce diagonali e assiali in rapporto alle quali si sistemano altri elementi rigidi. Vi sono figure, come il ciuco, la disposizione delle cui membra è dettata unicamente da ragioni geometrico-compositive. Il richiamo alla geometria euclidea è immediato in ogni parte della composizione e addirittura provocatorio. La volontà di ridurre o di ricondurre a uno schema così determinato tutti gli elementi della formella è altrettanto chiaro. Ma che cosa vuol dire questo, al di là del significato figurale dell’opera? Non siamo forse di fronte alla volontà manifesta di costruire un sistema rigoroso e autonomo, entro il quale ogni elemento abbia la sua unica ragione e la sua unica spiegazione? Non è chiara l’intenzione di sganciare la composizione, e quindi anche il fatto figurativo in sé, da ogni richiamo o aggancio esterno? E che cosa significa questo, nella storia generale delle idee? Se vogliamo cercare un parallelo o una conseguenza politica di questa impostazione, dove o in chi possiamo sperare di trovarlo? Certamente non possiamo trovare un riflesso politico dell'idea brunelleschiana nella politichetta dei banchieri fiorentini, che in quello stesso momento lasciavano andare a catafascio l'economia toscana per speculare
sul denaro e farsi ricchi con le guerre degli altri. Per avere una scienza politica che, come la figurazione brunelleschiana, abbia solo in se stessa le ragioni e le spiegazioni del suo modo di essere, dobbiamo arrivare a Machiavelli, cioè un secolo dopo. E per vedere attuato questo tipo di scienza, come tutte le scienze teoricamente perfetta e perciò completamente amorale, dobbiamo aspettare che i gesuiti prendano le redini della politica europea. i Così anche per la ricerca naturalistica di Masaccio. Il suo affresco perduto della processione del Corpus Domini, che i fiorentini andavano in frotte a vedere, per riconoscervisi, nel chiostro del Carmine, era una ricerca sperimentale sull’umanità che lo circondava. Perché questo tipo di ricerca si affermi nel campo scientifico bisogna passare prima attraverso
I92
la meteora Leonardo e poi arrivare a Galileo. Dunque il fatto che Masaccio rappresenti gli uomini e le cose così come sono, invece di ricavarne i moduli dalle teorie filosofiche o da canoni prefissati, e facendo in questo
modo il maestro di se stesso, non è cosa ovvia ma, rispetto alla cultura allora corrente, fortemente innovatrice e anticipatrice. Né Brunelleschi né Masaccio hanno lasciato nulla di scritto, ma non era necessario. Le opere parlano per loro, solo che le sappiamo intendere,
e rivelano
con
relativa
facilità anche
i propri significati e le proprie
124. Brunelleschi, formella del concorso per la seconda porta del Battistero di Firenze: pretazione schematica sulla base del rombo.
inter-
:
195
implicazioni filosofiche, etiche, politiche, scientifiche che immancabilmente
contengono. Questo appunto significa che Masaccio e Brunelleschi si pongono, sia pure a loro modo e nella loro lingua, come classe dirigente. Perciò, con chi avrebbe dovuto « mediare » le sue idee Filippo Brunelleschi? Forse con i mercanti dell’arte della lana, che finanziarono la sua cupola? Oppure con gli operai di Santa Maria del Fiore? Oppure col Ghiberti, che gli fu affiancato più come controllore che come collabora-
tore? Ed era giusto che egli mediasse qualcosa con qualcuno, visto che
125. Brunelleschi, formella del concorso:
13
interpretazione schematica sulla base del quadrato.
194
le sue teorie precorrevano i tempi e scavalcavano la comprensione della grande massa dei suoi possibili interlocutori? Dopo
tutto, lo stesso Benevolo,
che riprende dal Morris
il discorso
sull’« arte del popolo per il popolo » e parla di « necessario legame tra architettura e politica » o di « parentela del movimento architettonico con l’ideale democratico », quando deve fare delle proposte concrete finisce col riproporre lo schema della ville radieuse di Le Corbusier, cioè di uno fra i più diretti discendenti di Filippo Brunelleschi, anch’egli notoriamente alieno dal « mediare ragionevolmente » le sue idee urbanistiche con chicchessia. La negazione dell’autonomia dell’architetto, l’incapacità di cogliere i contenuti filosofici e politici di una proposta espressa in termini figurali, il mediocre pragmatismo che il Benevolo in definitiva suggerisce, rivelano dunque di avere un fondamento storico e politico assai meno profondo di quelle stesse teorie sull’autonomia dell’arte che il Benevolo vorrebbe confutare. Anche
Antonio
Gramsci,
del resto, aveva
sperimentato
questa carat-
teristica degli artisti di anticipare storicamente determinate ideologie o eventi politici. Riferendosi a Gherardo Casini, a proposito di una polemica tra « contenutisti » e « calligrafi », Gramsci scriveva: « Egli non sa politicamente indicare come possa essere impostata e condotta una lotta o aiutato un movimento per il trionfo di una nuova cultura o civiltà, né si pone
il problema
del come
possa
avvenire
che una
nuova
civiltà,
affermata come già esistente, possa non avere una sua espressione letteraria
e artistica, possa non espandersi nella letteratura, mentre è sempre avvenuto il contrario nella storia: che ogni civiltà, in quanto era tale, anche compressa,
combattuta,
in tutti i modi
impastoiata,
si sia precisamente
espressa letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni intellettuali e morali per l’espressione legislativa e statale » (Letteratura e vita nazionale,
1954, p. 79).
Gramsci, come si sa, ebbe spesso la preoccupazione politica di ricollegare l’arte al progresso culturale e sociale; ma, appunto richiamandosi alle radici dello storicismo, avversò il pragmatismo come dottrina. « Il filosofo individuale tipo italiano o tedesco — annotava occupandosi di William James — è legato alla pratica mediatamente (e spesso la mediazione è una catena di molti anelli), il pragmatista vi si vuole legare subito, e in realtà appare così che il filosofo tipo italiano o tedesco è più pratico del pragmatista che giudica della realtà immediata, spesso volgare, mentre l’altro ha un fine più alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende ad elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce). Hegel può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell’800. I pragmatisti, tutt'al più, hanno giovato a creare il movimento del Rotary Club o a giustificare tutti i movimenti conservatori e retrivi: a giustificarli di fatto, e non solo per distorsione polemica, come è avvenuto per Hegel e lo Stato prussiano » (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto. Croce, 1955, p. 45):
195
Questo giudizio, espresso da Gramsci in un preciso e significativo momento storico, è di particolare importanza per intendere quanto sia non solo acritico, ma perfino pericoloso in senso politico l’echeggiamento pragmatistico del Benevolo. Non è affatto il caso di « tranquillamente accantonare le soluzioni elaborate nel ventennio fra le due guerre »: quando la storia registra un arresto di tal genere, il minimo che si possa fare è cercare di trarne degli insegnamenti. E la storia dell’architettura del ventennio
(o almeno,
del
ventennio
italiano)
è ricchissima
di esempi
— negativi — per chi presumesse di predestinare gli artisti ad un « necessario legame tra architettura e politica ». Prendiamo,
considerano,
ad
a buon
esempio,
l’architetto
Marcello
diritto, il neoeversore
Piacentini.
di Roma
antica.
Molti
lo
Eppure
il
Piacentini, citato entusiasticamente dal Giovannoni, scriveva nel 1918: « Per conservare una città non basta salvare i monumenti ed i bei palazzi,
isolandoli ed adattandovi intorno un ambiente tutto nuovo: occorre anche salvare l’ambiente antico con cui essi sono intimamente connessi... Scongiuriamo quest’ultima rovina! C’è ancora tanto da salvare! È ancora Roma così ricca di tesori d’ambiente, che, pur com’è oggi, sarà sempre la più suggestiva città del mondo! Ma per carità fermiamoci; siamo in tempo, ma guai se si fa un altro passo! Lasciamo la città vecchia così come si trova!... ». Eccetera. (Sulla conservazione delle bellezze di Roma e sullo sviluppo della città moderna, 1918, passim). Leggiamo: « Mentre la scienza urbanistica, matura
e vittoriosa in quasi tutti i paesi più evoluti, aveva altrove i suoi fedeli numerosi e convinti, da noi la tragica pigrizia mentale dei dirigenti politici amministratori
126. Roma: piazza S. Pietro con la chiusura della Spina dei Borghi (piazza Rusticuc-
ci), prima dell’apertura di via della Conciliazione. 127. Progetto berniniano per piazza S. Pietro col « nobile impedimento » che ne chiudeva il perimetro (da un’incisione di
G. B. Falda).
196
e tecnici inerte
del vecchio
impotenza
regime
contro
continuava
ogni nobile
a gravare
iniziativa,
col peso
della sua
e improntava
di sé le
opere pubbliche di sventramento e di ampliamento delle nostre città, con quelle realizzazioni ufficiali che furono tra le più banali e sbagliate operazioni edilizie dell’ultimo ventennio». Di chi sono queste forti e nobili rampogne contro i misfatti urbanistici del passato regime? Non ci sarebbe neppure da chiederlo: esse sono del presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Attenzione alla data, però: maggio 1931, anno IX dalla marcia
su Roma
(A. CaLza
Bini, in G. GiovaNnNONI,
Vecchie
città ed edilizia nuova, 1931, p. Vi). Prendiamo ancora un’opera dell’architettura ufficiale del regime: della Conciliazione,
il Verzite, adoremus
di Achille Ratti
via
e Benito Musso-
lini. Il progetto fu studiatissimo. Ma proptio perché era troppo « necessario » il legame tra architettura e politica non si intese (o non si poté intendere) la funzione sociale secondo cui il Bernini aveva costruito il loggiato, concepito come ambiente vasto ma circoscritto e raccolto, collegato alla città per osmosi e non per comunicazione diretta, continuando l’antica funzione del quadriportico paleocristiano. Scrive Roberto Pane: «La via della Conciliazione rappresenta oggi il più compiuto fallimento dell’architettura ufficiale italiana. Essa risolve male quella esigenza urbanistica che servì come fondamentale pretesto alla distruzione dei borghi perché ha tracciato uno spazio vuoto e desolato e lo ha definito secondo un falso classicismo in nome di una malintesa tradizione. Che se poi si vuol considerare quest'opera come espressione di un determinato clima morale, nessun’altra immagine plastica appare, quanto
questa, rivelatrice di un rispetto e di una fede ostentati ma non vissuti » (Bernini architetto, 1935, pp. 33, 34).
128. Carbonia:
veduta aerea zenitale (1940).
197
Consideriamo infine una delle realizzazioni più decisamente sociali dell’urbanistica del ventennio nero: Carbonia. Trent'anni dopo la sua fondazione, la città sarda è una delle più squallide realizzazioni urbanistiche che sia dato di vedere e di meditare. Eppure potrebbe sembrare che tutte le premesse sociali che il Benevolo ricava dalle istanze dell’Utopia e pone all'origine dell’urbanistica moderna fossero state rispettate costruendo
Carbonia. « Ogni casa della cité — scriveva il Fourier, ma sembra di leggere la relazione al piano regolatore di Carbonia — deve essere dotata di spazi liberi, a cortile o a giardino, equivalenti almeno all’area costruita... Tutte le case devono essere isolate e formar facciata regolare su tutti i lati... Il minimo distacco fra due edifici deve essere di tre tese... Le recinzioni non potranno essere che muri bassi, sormontati da griglie o palizzate che lascino liberi alla vista almeno i due terzi del loro sviluppo. Il distacco
130. Carbonia: una piazza (1940).
198
sarà sempre calcolato in proiezione orizzontale, anche nei terreni in pen-
denza, e dovrà essere uguale alla metà dell’altezza della facciata che lo fronteggia, sia sui lati sia sul retro... Le strade dovranno avere come sfondo una veduta campestre o un monumento di architettura pubblica o privata: la monotona scacchiera sarà bandita. Alcune strade saranno curvate e serpeggianti per evitare l’uniformità. Le piazze dovranno superare almeno 1/8 della superficie... » (Traité de l’association domestiqueagricole, 1822). Carbonia aveva molti di questi caratteri, con singolare corrispondenza; aveva
anche molte altre cose, studiate per conferire alla città un
preciso carattere sociale in una struttura quanto più possibile « razionale ». Eppure ciò non è valso a fare di Carbonia un organismo vitale, soprattutto socialmente: i giardini brulli che isolano gli edifici, i cortili senza
voci, le piazze enormi
e deserte, l’edilizia rachitica e amorfa cre-
sciuta negli spazi riservati all’iniziativa privata, danno l’immagine di una città eternamente moribonda, dove tutt'al più si abita, ma non si vive. Colpa del regime? Nequizia degli architetti che non seppero sottrarsi a certi canoni loto imposti? Può darsi. Ma sarebbe troppo facile limitarsi a questo giudizio e « tranquillamente accantonare » siffatte esperienze. Perché anche il falansterio di Fourier e il familisterio di Godin portavano avanti istanze simili e, come Carbonia, morirono senza mai essere venuti in vita. Il vizio era alla radice: Owen, Fourier, Godin affrontavano dei pro-
blemi contingenti e li risolvevano in maniera contingente. Le loro istanze pianificattici non ebbero seguito proprio perché, destituite di un reale e autonomo carattere urbanistico, tramontarono con l’ideologia astratta che le aveva espresse. Marx ed Engels avevano altri problemi politici, nei quali tali istanze non rientravano immediatamente: naturale quindi che le lasciassero cadere. Ciò non tolse niente all’urbanistica, e poco alla politica.
In realtà, è sempre una politica reazionaria quella che chiede agli artisti di adeguare alle sue istanze le loro forme, ed è sempre un’arte priva di linfa vitale quella che cerca nelle ideologie altrui i propri contenuti. La storia del ventennio fascista denuncia a chiare note questi pericoli del pragmatismo, del contenutismo, dello strumentalismo in genere. L’esigenza di calare l’architettura nell’ideale democratico non si può risolvere integtando gli architetti nella politica, sia pure come « una parte del tutto », e poi distinguendo «i due ordini di responsabilità », come suggerirebbe il Benevolo (Le Facoltà, pp. 191, 192). Ciò equivarrebbe a impostare una battaglia per la democrazia impiegando gli stessi strumenti già messi in atto dal fascismo, ed è superfluo dire quanto, su questa strada, il risultato sarebbe dubbio. Se vogliamo affrontare il problema dei rapporti tra architettura e democrazia siamo costretti a porlo in termini radicali. Ma se risulta che questa radicalizzazione del problema corrisponde a un'esigenza reale, niente vieta che la proponiamo anche in termini di prassi.
199
Il concetto
di arte, come
quello di artista, non
è né universale
né
eterno. Vi sono state civiltà che non ne hanno avuto bisogno, nel senso che non hanno sentito la necessità di enuclearlo dal contesto delle loro attività né di qualificarlo logicamente rispetto ad altre categorie spirituali o pratiche. Per esempio, il buio medioevo, che è buio nella misura
in cui non vi sappiamo vedere, non ebbe bisogno di artisti, ma non fu per questo un periodo alieno da trasformazioni sociali altamente civili. La stessa cosa si può dire della quasi totalità delle civiltà arcaiche che gli antropologi culturali vanno sempre meglio documentando. Perciò, se accertiamo che nel nostro ideale democratico può non rientrare la figura dell’artista o dell’architetto o dell’urbanista, anche noi possiamo tranquillamente cancellare questi vocaboli dal nostro dizionario politico. Infatti non vi è nulla di più inconcepibile di un artista democratico. Come si può conciliare la personalità dell’artista con quella del mediatore degli ideali e delle esigenze popolari? E comunque non è cosa da far raccapriccire al solo pensiero questa nuova figura di tribuno della plebe incaricato di raccogliere dalla massa, incapace di esprimersi, idee e aspirazioni, per trasferirle in quella forma artistica o architettonica o urbanistica che a lui solo è dato di plasmare? Se una battaglia democratica vi deve essere, dunque, essa può volgersi unicamente a restituire al popolo la piena responsabilità culturale, in ogni campo e senza limitazioni. La « parentela del movimento architettonico con l’ideale democratico » si realizza soltanto restituendo all'operaio o al bracciante o all’agricoltore la possibilità reale di costruirsi la casa come vuole e dove vuole, in rapporto soltanto alle esigenze sue e della comunità in cui sceglie di organizzarsi, senza obbedire alle imposizioni di un datore di lavoro, senza subire condizionamenti economici, sociali e culturali, e infine senza dover delegare a un architetto o a chiunque altro le scelte urbanistiche che invece riguardano solo lui e la comunità in cui vive, e delle quali scelte solo lui deve perciò essere responsabile e protagonista.
La mediazione dell’architetto o dell’urbanista è concepibile in una società che tenga volutamente il popolo al di fuori delle scelte fondamentali in base alle quali essa si organizza e vive. Questa è appunto la società nella quale si affermano le esigenze del capitale, del consumismo, dell’egemonia tecnologica e industriale, in conformità delle quali noi ci organizziamo anche territorialmente. In questo tipo di società l'artista, l’architetto, l’urbanista sono dei protagonisti, come lo erano nella società dei banchieri fiorentini e come lo sono stati in tanti altri periodi storici. Dunque, per chiarezza critica, storiografica e politica, non possiamo fare a meno di considerarli per quello che essi sono, cioè come classe dirigente, e quindi contrastarli in quanto tendano ad affermare sul popolo la loro egemonia. Conseguentemente, quando si teorizza intorno ad un modello di società democratica e non egemonica, nel quale si mostra di credere, proporre funzione
di conservare la figura dell’architetto o dell’urbanista con la di tribuno artistico della plebe equivale a un tentativo di
200
inganno,
che squalifica il concetto
di popolo,
squalifica il concetto
di
urbanista, squalifica la stessa idea politica che si afferma di voler portare avanti.
Per inquadrare storicamente il problema è utile riprendere il discorso sul Brunelleschi. Un’altra delle questioni che il Benevolo non affronta, nella sua Storia dell’architettura del Rinascimento (e i silenzi molto
spesso sono qui più significativi delle parole), è il significato dell’applicazione della geometria elementare alle arti figurali, in luogo di altre geometrie che pure avrebbero potuto essere studiate e applicate. Il problema è importante perché molto spesso, ingenuamente, si è portati a qualificare l’applicazione di queste formule geometriche all’arte come una forma di progresso, nel senso che gli artisti rinascimentali avrebbero dato prova di una maggiore maturità culturale rispetto all’empirismo o ai richiami metafisici degli artisti che li avevano preceduti. Invece si tratta, generalmente parlando, di una semplificazione degli schemi o, per meglio dire, della riduzione a schema di un linguaggio potenzialmente assai più ricco, e che infatti fino a quel momento aveva avuto una quantità di implicazioni molto più varia e molto meno control. lata. Quindi la scelta della geometria euclidea non porta a un perfezionamento del linguaggio, se non nel senso di una riduzione dei termini espressivi, che conseguentemente ingenera una migliore comprensibilità e una (apparente) universalità del fatto artistico. Se quindi da un lato, come si è visto, l'ideologia brunelleschiana anticipa metodi e posizioni
di pensiero che si sarebbero concretate molto più tardi, dall’altro questo tipo di adattamento e di riduzione dei termini linguistici fa pensare all’esigenza di adeguare l’espressione a un livello di comprensione meno elevato e più circoscritto.
E in effetti è così. Se noi fermiamo l’attenzione sull’arte del primo medioevo,
vi troviamo
una
tale e tanta
varietà
di elementi
fantastici,
spesso per noi scarsamente comprensibili nel loro pieno significato, da ricondutci col pensiero a una base di comprensione popolare aperta a un'infinità di elementi di linguaggio e quindi a una grande ricchezza di temi culturali. Nei confronti di questa base popolare di comprensione il fenomeno autoctono e chiuso in se stesso del ’400 fiorentino diventerebbe caso mai un elemento di regresso, e non di progresso, nel campo della conoscenza. In altri termini, la gente fiorentina del ’400, ivi inclusi quei mercanti:che si compiacevano di mecenatismo, doveva essere assai più rozza e incolta dei villani che praticavano le pievi di campagna due o tre secoli prima. Non sembra però che questo aspetto della questione possa conside-
rarsi sufficientemente chiarito, allo stato attuale degli studi. Benché la critica corrente si sia sbarazzata del concetto di progresso nell’arte, sottilmente tale concetto rinasce a livello di impostazione storiografica dei problemi della cultura. Magnificando il ’400 fiorentino e ignorando il distacco che progressivamente aumentava tra cultura di pochi e cultura di popolo, si finisce per classificare altamente civile un periodo e una
201
città che, sotto
molti
rispetti, dovrebbero
invece
essere
classificati come
profondamente incivili. Nel momento in cui Firenze dimezzava la popolazione rispetto a un secolo prima, abbatteva la libertà degli altri centri toscani, distruggeva l’economia agricola e artigianale perché questi centri non avessero la possibilità di risollevarsi, conseguiva con questo strumento il risultato di concentrare il potere nelle mani di coloro che speculavano sul denaro, dava spazio a questi stessi usurai affinché si
arricchissero finanziando le guerre e le rivalità degli stati italiani ed europei, demoliva la città medievale per fare largo a enormi palazzi rappresentativi della ricchezza e delle capacità di spreco dei loro proprietari, materializzava in questo modo il distacco che parallelamente si creava tra a
e cultura da un lato, miseria e ignoranza dall’altro, elevava
conseguentemente pochi banchieri a rappresentare il potere e pochi illuminati a rappresentare la cultura, sarà proprio l'accumulo di denaro conseguito da poche famiglie a farci definire « ricca » questa città? E sarà
proprio il distaccarsi dalle masse di questi pochi illuminati che ci consentirà di definire « civile » e « colta » la Firenze del ‘400? La verità è che i limitati strumenti di cui dispone una critica, erede non sempre confessa di quella stessa cultura su cui essa si esercita, finiscono per delimitare il campo di indagine entro un ambito molto circoscritto e quindi per creare una scala di valori sostanzialmente tautologica, in base alla quale si fa pregio di ciò che si riesce a conoscere e di null’altro. Il progresso di valori introdotto da Giorgio Vasari, che vedeva nell’arte
medievale la barbarie e in Michelangelo “il raggiungimento sommo, per quanto concordemente contestato si tiproduce così a livello di siudizio culturale generale. Di conseguenza il Rinascimento viene considerato il periodo altisonante dei valori culturali, mentre il medioevo resta il periodo della barbarie, o di una barbarie che gradatamente si risolve e si riscatta. La singolarità del giudizio che deriva da una critica così chiusa entro i suoi stessi schemi è però questa: non solo esso non arriva a qualificare quei fenomeni
che si muovono
al di fuori di tali schemi, ma
non
riesce neppure a definire in piero il significato dei fenomeni che si svolgono al loro interno. Considerare invece gli artisti come classe dirigente e accentratrice del potere culturale porta invece a due conseguenze parallele: togliere la cosiddetta arte dagli intermundia dell’universalità e collocarla nelle responsabilità della storia, assegnandole una data di nascita e, se si vuole,
destinandole una data di morte; sempre
esercitato
ed esercita,
intendere il peso politico che essa ha in rapporto
ai singoli
momenti
storici.
Si è già visto che, nel buio medioevo, anche a livello di pura figuratività gli elementi e i temi di linguaggio erano infinitamente più ricchi che nel °400, quando il richiamo all’oggettività perseguito con l’introduzione della prospettiva e della geometria euclidea ridusse i termini della conoscenza figurale ai motivi più ovvi della percezione visiva e legò il linguaggio delle forme alla possibilità di una loro contabilizzazione. Ancora più chiaro è il fenomeno a livello urbanistico e architettonico. Le
202
città, i villaggi, il paesaggio, nel buio medioevo erano un fatto corale, non nel senso banale di una partecipazione di tutti alle determinazioni urbanistiche, ma nel senso fondamentale della possibilità di ognuno di essere per la sua parte architetto o urbanista, collegata a una effettiva capacità culturale di esserlo. Passo per passo si può seguire l’accentramento del potere, politico da un lato e culturale dall’altro, che gradualmente si realizzò, fino a concludersi e trovare la sua più compiuta espressione nel XIV secolo. Soprattutto al tempo della falsa democrazia comunale, che mascherava di fatto la presa di potere da parte delle famiglie economicamente più consolidate, questo fenomeno assunse i suoi connotati più precisi. Del resto la stragrande maggioranza degli artisti di questo periodo proveniva dalle file di quella stessa borghesia che stava consolidando la propria egemonia politica. Enrico
Fiumi,
seguendo
il Davidsohn,
fa una
sistematica
rassegna
di scrittori e artisti che gravitarono su Firenze in quel periodo cruciale. « I genitori di ser Brunetto Latini, figlio di Bonaccorso di Latino, venivano di presso a Reggello; il nonno di Guido Cavalcanti, il poeta, era Schiatta di Cavalcante, console dei mercanti di Calimala nell’anno 1228. Il cronista Dino Compagni, ascritto all’arte di Por Santa Maria, era a
capo della società mercantile Dino Compagni e soci che, bene avviata, lasciò al figlio Bartolomeo e ai fratelli. Mettendo da parte le favole dei crociati e delle origini romane, Dante Alighieri è figlio di generazioni di mercanti e di prestatori. Il cronista Giovanni Villani fu socio della compagnia Peruzzi dal 1300 al 1308 e ne diresse la filiale di Bruges; fu poi socio con il fratello Matteo, continuatore della Crorica, della compagnia Bonaccorsi. Il padre dei cronisti, Villano di Stoldo, era socio della compagnia di Bindo de’ Cerchi. Francesco Petrarca discendeva da una sequela di notai dell’Incisa. Suo padre, ser Petracco di ser Parenzo, fu notaio alle riformagioni del comune di Firenze. Giovanni Boccaccio, d’origine certaldese, fece pratiche nel fondaco del padre Boccaccio di Chellino, fattore della compagnia dei Bardi a Napoli dal 1327 al 1338. Il cronista messer Donato di Berto Velluti discende da una delle maggiori case mercantesche del sesto d’Oltrarno; il novelliere Franco Sacchetti, la cui famiglia Dante ricorda fra le principali della cerchia antica, era dedito alla mercatura come suo padre Benci del Buono, ed altri suoi ascendenti e parenti. Il padre del cronista Marchionne di Coppo Stefani de’ Bonaiuti era stato socio della compagnia Acciaioli. Trascurando altri minori, ricordiamo ancora, tra poeti ed annalisti: Chiaro Davanzati, Gianni Alfani, Zanobi da Strada, Neri Strinati, Lapo Gianni,
Francesco da Barberino, Matteo Frescobaldi, Gino Capponi, Cino Rinuccini, Goro Dati, tutti di famiglie originarie di contado o mercantesche. Con questi si chiude il trecento fiorentino. Nel campo delle arti figurative, non possiamo non rammentare Cenni Pepi — Cimabue — indubbiamente di una famiglia della piccola borghesia. Giotto, figlio di Bondone, se ne venne a Firenze da Vespignano in val di Sieve, dove il padre possedeva
delle terre, e, da buon
fiorentino,
non
disdegnò
arrotondare
203
i proventi di artista ricercatissimo con qualche operazione usuraria. I cele-
brati artisti fiorentini Coppo di Marcovaldo,
Buonamico
di Cristofano,
al quale si dette il nome di Buffalmacco, Gaddo, Taddeo e Agnolo Gaddi,
Bernardo Daddi e suo figlio Daddo, Andrea di Cione Orcagna e i figli Nardo, Jacopo e Matteo escono tutti dalle file artigiane e della piccola borghesia. Arnolfo di Cambio, cui Firenze deve i più grandiosi edifici monumentali della seconda metà del dugento, è un piccolo borghese, originario di Colle val d’Elsa » (E. Fiumi, Fiorit. e decad. dell'economia fiorenalli
Arch. Stor. Ital. », a. CXV,
1958, IV, pp. 437-439).
L’appartenere alle file della borghesia in ascesa non comporta, per questi scrittori e artisti, il possesso di una volontà egemonica chiaramente espressa in termini politici. Ciò significa però che essi partecipavano interamente delle trasformazioni sociali di quegli anni, e lo facevano da protagonisti. Non si tratta infatti di stabilire, come sembra voler fare il Benevolo, se e in che misura l’arte dipendesse dalla politica; se un legame di questo tipo vi era, esso esisteva sul piano delle commissioni, poiché opere sempre più grandiose e costose come quelle che veni-
vano eseguite potevano
essere finanziate solo da persone o consorterie
potenti e ricche, le quali a loro volta si avvalevano di questi strumenti di prestigio, costruiti per loro dagli artisti, per visualizzare il loro potere di fronte ad avversari e sottoposti. Ma questo è solo uno degli anelli della catena che lega i due fenomeni, e forse proprio il più banale. Il problema di fondo sta nella delega di potere in mani di cerchie sempre più ristrette che si verificava a tutti i livelli, e quindi sia a livello economico che a livello politico e a livello culturale. A ognuno di questi livelli c'è chi la fa da protagonista e quindi confina nella sudditanza coloro che vengono estromessi dai settori di potere di cui egli assume il controllo. Ciò avviene anche nel campo della cultura. I temi fantastici, patrimonio della cultura popolare, vengono rinnegati e abbandonati, per costruire nuovi schemi di origine libresca, che sono meno ricchi e più rigidi, ma che hanno la caratteristica di essere appannaggio esclusivo di quei figli della borghesia che hanno la possibilità di lavorare sui libri, siano essi i testi antichi riscoperti e divulgati oppure i libri contabili delle compagnie, ai quali il matematico pisano Leonardo Fibonacci aveva fornito l’agile strumento della numerazione araba. Da questa cultura restano per forza di cose tagliate fuori le genti di campagna e tutti coloro che erano soliti riversare la loro spiritualità nelle piccole cose pratiche della vita, dagli oggetti minimi dell’artigianato di tutti i giorni al tracciamento delle mulattiere, dalla costruzione della casa contadina al gradinamento della collina per trarne uliveti e vigne, dalla strutturazione del villaggio agricolo-pastorale alla regimazione dei fiumi. La loro arguzia paesana riempie di sé le pagine del Boccaccio, e i paesaggi costruiti da loro completano, ricopiati, gli affreschi e le tavole dei pittori. Ma essi non sono più i protagonisti, perché ad altri è stato delegato il compito di fare cultura. Brunelleschi, Masaccio, Donatello, che nelle storie dell’arte tradizionali aprono un nuovo periodo, segnano in realtà
204
l'epilogo di un processo di trasformazione culturale, durante il quale immensi valori andarono perduti a vantaggio del prepotere di una ristretta schiera di dotti, poeti e artisti, abilitati
a determinare
per conto di tutti
i canoni e i contenuti della cultura. Vi sono dunque due ordini di problemi che non vanno confusi fra loro. Noi possiamo apprezzare l’abilità politica di Lorenzo de’ Medici, e contemporaneamente non condividere il tipo di politica che egli conduceva. Così possiamo tranquillamente riconoscere l’importanza e la profondità del pensiero e dell’attività brunelleschiana, e contemporaneamente non condividere l’indirizzo di politica culturale che essa sostanziava. Per la stessa ragione non dobbiamo confondere con la battaglia per la democrazia l’eventuale contrasto che si possa verificare (e che spesso si verifica) tra artisti e regime politico. Quando la classe dirigente culturale
invade il campo della classe dirigente politica o viceversa, si verifica un conflitto di potere. Naturalmente, quando la classe dirigente culturale si sente confinata o contrastata dalla classe dirigente politica, fa appello alla libertà della cultura. Ma la cultura di chi? Quando il Brunelleschi si trovò solo a difendere la sua cupola contro le perplessità del consiglio dell’arte della lana e contro gli operai di Santa Maria del Fiore, difendeva la sua personale cultura, e non quella di altri. La solitudine dell’artista, che nel periodo romantico ha finito per mitizzarsi, è un fatto che ha rilevanza politica, oltre che critica. L’isolamento dell’uomo di cultura non deriva dalla ignoranza degli altri, ma dal distacco che egli stesso crea fra sé e le masse. Ciò comporta, come conseguenza immediata, l’impossibilità di mettere l’artista al servizio delle masse,
se non a costo di una loro disperata
e improbabile rincorsa per raggiungere (ma a che fine?) colui che, per sua iniziativa, si è preso su di loro quel certo vantaggio. L’idea del Benevolo di mettere l'architetto e la classe politica allo stesso tavolino per mediare le loro posizioni è, sotto questo profilo, assolutamente irrealistica. Suscitare un tale tipo di incontri significa semplicemente evidenziare l’interferenza di poteri tra élite politica ed élite culturale. « Urbanistica e architettura — scrive il Benevolo — si affiancano a altri tipi di intervento sull'ambiente umano (la pianificazione economica, la pedagogia, il servizio sociale, ecc.) da cui ricevono importanti contributi, e tutti insieme entrano
in rapporto
con la politica, cioè col
sistema generale di questi interventi; la politica non si affianca all’urbanistica come un altro tipo di intervento, ma la coinvolge come una parte
del tutto. Questo rapporto dà un senso preciso alla responsabilità dell’architetto; inoltre la forma di questo rapporto (una parte del tutto) distingue i due ordini di responsabilità e esclude la possibilità di dedurre i programmi dell’architettura dai programmi politici già formulati » (La Facoltà, pp. 191, 192).
Ma sono nominalismi. All’atto pratico, se l’architetto o l’urbanista hanno una loro precisa visione urbanistica, questa comprende già una altrettanto precisa visione politica. Viceversa, una visione politica, per
205
attuarsi, ha bisogno di un’altrettanto precisa struttura urbanistica. È quindi la mediazione è impossibile. È possibile il compromesso, ossia la rinuncia delle due controparti a una porzione di « responsabilità ». In questo modo si risolve il conflitto di potere fra le due élites dirigenti, ma resta insoluto il problema di fondo, cioè il non trascurabile dato di fatto che, qualunque decisione possa scaturite da questo incontro, essa verrà sempre presa sulla pelle dei più, che ne verranno coinvolti senza avere avuto nessuna possibilità reale di iniziativa né alcuna capacità d’intervento. In alcuni comuni, come sfoggio di democrazia, si arriva perfino a recitare la farsa della presentazione al popolo del piano regolatore generale e della sua discussione in piazza. A un popolo che vive in case di serie, che compra mobili e soprammobili di serie, che alla televisione vede programmi di serie, che viaggia in automobili di serie su strade sempre più uguali,
che mangia
della creatività
e beve
e del potere
roba
confezionata,
di iniziativa
che
è stato
privato
a tutti i livelli e in tutti i
momenti della sua vita, a questo popolo si chiede di intervenire e di esprimersi su una questione già pesantemente condizionata dalla situazione economico-politica, scontrandosi inoltre con le idee comunque preformate di coloro che da diversi secoli, anche con suo consenso, detengono il monopolio degli interventi architettonici e urbanistici. Evidentemente, se questa non è utopia, è frode. Esiste la democrazia in architettura, nel senso che il popolo può possedere, o tornare a possedere, capacità economica, politica, culturale, di costruirsi case, città, paesaggi, ambienti; ma l’architetto democratico non esiste. Sarebbe come dire che il re può essere democratico, che l’imperatore può essere democratico, che il dittatore può essere democratico. Al massimo il re, l’imperatore, il dittatore possono essere paternalisti. E questa figura, dell’architetto paternalista appunto, sembrerebbe essere quella che in definitiva il Benevolo indica come modello. È singolare però che, quando il Benevolo si imbatte in uno di questi architetti paternalisti che con serietà propone una forma di architettura popolare nelle forme e nei metodi costruttivi, non vi si soffermi come la materia meriterebbe. Trattando di Antoni Gaudì nella sua Storia dell’architettura moderna il Benevolo se la cava in meno di una paginetta. « Ai margini idell’art nouveau
—
egli scrive —
ma
certamente
in connessione
con
lo
spitito innovatore che percorre tutta l’Europa, opera in Spagna A. Gaudì. Egli parte dal tradizionale eclettismo, mostra uno spiccato interesse pet il gotico e per i problemi strutturali (secondo l’insegnamento di Viollet le Duc) e fin dai primi lavori mostra un temperamento
ardito, un amore
per gli effetti sensazionali, una capacità di comprensione immediata, quasi fisica, della qualità dei materiali (specialmente i più scabri, i meno lavorati) che non hanno riscontro nella tradizione recente mentre si collegano alla tradizione remota dell’architettura moresca e churrigueresca ». Dopo un rapidissimo accenno (otto righe) al parco Guell, alle case Battlò e Milà e alla Sagrada Familia (cominciata nel 1884 « in stile gotico
206
e condotta avanti modificando sempre più liberamente i riferimenti storici »), il Benevolo così conclude: « Gaudì è una personalità di prim’ordine, e in una trattazione diversa si dovrebbe parlarne più a lungo, ma la sua esperienza è rimasta isolata in un ambiente ostile o indifterente e non ha avuto un’influeaza proporzionata sul progresso dell’architettura né in Spagna né altrove » (pp. 438, 439). Questo, due clichés a retino e uno a tratto, e poi niente d’altro su Gaudì, in oltre mille pagine di testo. Ma come avrebbe dovuto essere la « trattazione diversa » nella quale Gaudì avrebbe potuto trovare uno spazio meno proporzionato all’ostilità e all’indifferenza degli architetti novecenteschi e, evidentemente, anche all’ostilità o all’indifferenza dell’architetto Leonardo Benevolo? La risposta è nello stesso tipo di classificazione che si vuole fare dell’architettura di Gaudì: « ai margini dell’art nouveau » (che in Spagna, a dire il vero,
si chiama
modernismo),
« spirito innovatore », « tradi-
zionale eclettismo », « interesse per il gotico », « insegnamento di Violletle-Duc », « architettura
moresca
e churrigueresca », sono
tutte
attribu-
zioni che si muovono nel solco tradizionale della critica architettonica e della cultura architettonica, ma che nel caso specifico non servono a chiarire
assolutamente
nulla, come
l’imbarazzo
dello stesso Benevolo
di-
mostra doviziosamente. Nessuna di queste attribuzioni è la chiave per aprirci alla comprensione dell’architettura di Gaudì. Esse invece servono, per contrappasso, a qualificare il tipo di cultura che condiziona i giudizi di cui riesce a rendersi capace il Benevolo. La cosa più sorprendente è che la massima parte degli esegeti dell’architettura gaudiana ne hanno cercato le ragioni e i precedenti dapperttutto fuorché nel posto più ovvio, cioè nei manuali di architettura. Così sono nati i giudizi e i paralleli stilistici che il Benevolo raccoglie e sbrigativamente enumera. In realtà alla base delle costruzioni di Gaudì vi sono prima di tutto ragioni strutturali. Non per caso egli fu il primo che in Spagna impiegò il cemento armato e intuì il vantaggio di porre in trazione preventiva il ferro nelle strutture, anticipando di cinquant’anni il principio su cui si basa la tecnica del cemento precompresso. Pure d’impiego comune in Gaudì è il laterizio armato, che troviamo accanto a tecniche di antichissima tradizione, come la volta in foglio (« bòveda tabicada ») e la
catenaria. — i La libertà e la complessità d'impiego che Gaudì fece di queste tecniche costruttive, insieme con l'adozione dei più inconsueti tipi di rivestimento, sono
in fondo
all’origine dei vari accostamenti
stilistici che sono
stati
proposti per la sua architettura. Così la varietà della composizione strutturale ha fatto sì che lo si accostasse al modernismo (ma Gaudì sprezzava la vacuità delle forme moderniste, le cui curve definiva ironicamente « curvas de sentimiento »); l’impiego dei rivestimenti di ceramica frantumata e impiegata come puro elemento di colore l’ha fatto avvicinare all'arte moresca, in realtà senza altro punto di contatto stilistico che la
i
207
ricchezza cromatica; la tendenza a spingere i suoi archi verso l’ogiva ha fatto tirare in ballo gli studi di Viollet-le-Duc e l’amore per il gotico. « Ma — osserva Roberto Pane — piuttosto che preferire le curve ellittiche a quelle ribassate, le parabole alle ogive, egli era persuaso che gli archi e le volte dovessero venir determinati dalla migliore rispondenza alle funzioni statiche, e non da una scelta preconcetta quale era stata appunto quella dei cosiddetti stili storici; in altre parole, la prima determinazione non doveva essere dettata da una legge geometrica ma da una legge meccanica, alla quale le definizioni geometriche necessariamente avessero da subordinarsi in funzione del raggiungimento dell’unità plastica. In tal senso riesce molto significativo il rapporto da lui indicato tra una catenaria, corrispondente a un arco che sostiene solo il proprio peso, ed altri tipi di curve ad essa inscritte o circoscritte o secanti: il confronto fra la catenaria c e la ellisse e, l’ogiva equilatera 4 e le tre curve meccaniche fra cui la parabola Po di secondo grado, la parabola cubica Pc e l’iperbole Ps; Gaudì non concepiva le funicolari come fili irreali (inesistenti e senza peso) ma come catene il cui peso proprio è uniforme (cate-
DANN
naria) oppure aumenta verso la chiave, determinando così il profilo della parabola di secondo grado e dell’iperbole; o diminuisce verso il vertice,
nel qual caso si determina la parabola cubica. Come si vede, dunque, la differenza maggiore risulta essere quella tra la catenaria e l’iperbole, mentre per le prime due si può rilevare che l’ellisse e corrisponde alla sezione di certe cupole sassanidi e l’ogiva a quella di archi e volte gotiche. Dunque tra gli archi suggeriti dagli ‘ stili storici’, soltanto questi ultimi sono molto prossimi alla catenaria » (Antoni Gaudì, 1964, p. 107). Per i non iniziati il riferimento a parabole di secondo grado, parabole cubiche, iperboli, catenarie, paraboloidi iperbolici, cioè a figure che non appartengono alla geometria elementare ma alla geometria analitica, può far pensare a un’estrema complessità della meccanica strutturale dell’architettura di Gaudì. In realtà, a parte la relativa semplicità delle equazioni algebriche con cui queste curve vengono espresse, esse sono tutte vicine a fenomeni fisici di percezione comune. Per esempio, un corpo lanciato in aria obliquamente descrive, nel ricadere, una parabola; forma di iper-
bole può avere la forcella di un albero e pure forma di iperbole ha il bumerang, che pare fosse noto in antico agli egizi, ai babilonesi e, ancor prima, alla cultura capsiana dell’Africa del Nord; quanto alla catenaria, essa è, come dice il nome stesso, la curva descritta da una catena fissata a
due supporti e abbandonata al proprio peso. La volta catenaria è quella che offre maggiore sicurezza statica; una grotta che si apre nella roccia,
208
una breccia che si apre in un muro
si assestano spontaneamente
secondo
il profilo strutturale della catenaria. Quanto alle « funicolari », esse costituiscono appunto il modellino empirico su cui Gaudì fondava i suoi calcoli e formava la costruzione. Abbozzata l’idea iniziale, egli sospendeva un telaio di cordicelle secondo il disegno che aveva immaginato, appesantendole nei punti opportuni con sacchetti di sabbia dal peso calibrato, che rappresentavano proporzionalmente
i carichi portati. Le cordicelle,
così sottese,
assumevano
determi-
nate curvature e disegnavano, rovesciata, la struttura portante dell’edificio progettato. Questi ritorni alla progettazione empirica, l’impiego di curve note al primitivo che lancia un sasso o giudica dalla sua forma la portanza di
S 1524 Barcellona, parco Giell: sezione di un viadotto con il diagramma dei carichi e delle spinte,
da un disegno, autografo di Gaudî pubblicato da Bergòs.
209
un ramo d’albero, sono dunque agli antipodi della concezione classica dell’architettura. Per contrasto, il discorso torna dunque al Brunelleschi e al significato dell'impiego della geometria euclidea o elementare. L’estrema razionalizzazione della geometria è appunto quella trovata da Euclide. Non esiste un’altra geometria che si basi su un numero altrettanto o più ristretto di postulati (cinque). Tutto il resto del sistema matematico euclideo è astratta costruzione deduttiva basata su queste cinque iniziali premesse. Il passaggio dalla geometria elementare alla geometria analitica ne rappresenta un ulteriore sviluppo, se considerato nella linea tracciata da Euclide, ma segna anche la possibilità di un riaccostamento ai fenomeni empirici, dei quali consente la traduzione in termini algebrici o trascendenti. Non per caso questa geometria si sviluppò, con Cartesio, Galileo, Keplero, Newton, quando il metodo sperimentale e la diretta osservazione
dei fenomeni fisici e celesti sostituirono le astratte deduzioni filosofiche e astrologiche codificate da secoli e fideisticamente seguite fino allora. L’architettura, tre secoli dopo, riscopre con Antoni Gaudì il metodo
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133. Barcellona, la Sagrada Familia: terzo e quarto stadio del progetto.
210
sperimentale. Ma è ancora troppo presto. « Ostilità o indifferenza » accompagnano questa ardita innovazione. Anche il Benevolo, per il quale « l’architettura moderna non può cessare di essere architettura razionale », non
ne intende il significato, coerentemente. Ma non si tratta, evidentemente, di una semplice modifica di canoni costruttivi. Come per Brunelleschi, anche per Gaudì il discorso deve essere spinto molto più in là della semplice invenzione tecnica o formale. Piantare due chiodi nel muro
alla distanza voluta, farvi penzolare in
mezzo una corda allentata fino al punto voluto, disegnare sul muro il percorso della corda, costruire su quel disegno il profilo della centina, appoggiare su questa centina l’arco o la volta, essere certi che in questo modo si avranno le migliori condizioni di carico possibili: questo vuol dire adottare il sistema della catenaria. Non lasciare nulla all’improvvisazione del capomastro, coordinare fra loro gli elementi architettonici sulla base di misure
modulari,
adottare
figure elementari
come
il quadrato,
il rettan-
golo, il cubo, il parallelepipedo, la semicirconferenza, la semisfera, subordinare le stesse capacità di portanza alla regolarità geometrica del disegno, poter disegnare tutto in progetto e affidare ad altri, senza altri problemi, l’esecuzione: questo vuol dire razionalizzare l’architettura. C'era, nello stare continuo
sui cantieri che Gaudì faceva, qualcosa di
più profondo e radicato che la semplice passione per il lavoro. C'era la contestazione del sistema di progettare l’architettura a tavolino. C’era la volontà di tornare all’architettura medievale, non nel senso superficiale e dotto del richiamo goticheggiante di alcuni suoi archi, bensì per l’aggancio all’empiria e al carattere di organicità di questa architettura, che era poi il risultato ultimo della completa integrazione del costruttore nella meccanica del suo lavoro. Su questa strada Gaudì indicava la fine dell'architetto da tecnigrafo. Per questo incontrò « ostilità o indifferenza ». Il suo cosiddetto « naturalismo » era la capacità straordinaria di far somigliare cose strutturalmente assai complicate a oggetti della vita comune. Così succede per i loggiati del parco Giiell, che sembrano grotte naturali. Così succede anche per le guglie della Sagrada Familia, che potrebbero essere i pinnacoli di uno di quei castelli effimeri che tutti sappiamo costruire sulla spiaggia del mare facendo colare la sabbia bagnata in mezzo alle dita
appena aperte. L’arricchimento cromatico delle sue architetture, che Gaudì personalmente curava adottando i sistemi più disparati e riscoprendo tecniche antichissime, era esso stesso un invito alla fantasia. Per esempio, le estre-
mità dei campanili della Sagrada Familia sono decorate con cocci di bottiglia. Ma la cosa più sorprendente è che la spiegazione, data dallo stesso Gaudì,
è di carattere
funzionale:
a quella altezza, la maiolica
avrebbe
perduto la pellicola superficiale. Era dunque una strana architettura, questa, inventata non da un architetto, ma da un bravo capomastro che aveva imparato parecchie cose sui manuali di architettura. Ed era un’architettura destinata ad avere presa facile e immediata sulla fantasia popolare. Ma era sempre il risultato
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di un’elaborazione individuale. Non la accettarono gli architetti, che la via indicata da Gaudì minacciava nella loro qualità di legittimi eredi di Brunelleschi e di Leon Battista Alberti, cioè come membri di quella élite dirigente abilitata a decidere per conto di tutti il modo di vivere e di abitare. Non ebbe dal popolo altro consenso che quello di una occasionale attenzione,
che restò sostanzialmente
passiva, appunto
perché proveniva
da un membro della élite culturale e non era nata dal popolo. Le opere di Gaudì sono già monumenti, e fanno turismo di massa, più di altre opere coeve di architetti altrettanto grandi, ma più direttamente integrati nella cultura dominante. A questo risultato ha concorso in notevole misura la critica corrente che, giudicando Gaudì secondo i canoni tradizionali, non ne ha apprezzato la modernità, ha evitato di capirne i sottintesi polemici e lo ha risospinto frettolosamente verso il passato, sistemandolo fra il gotico e il churrigueresco. Ma, evidentemente, non è nelle opere di un architetto illuminato e seriamente paternalista come Gaudì che possiamo trovare la via per la democrazia in architettura. Per quanto possa apparire strano, questa via possiamo trovarla invece
più facilmente dove più evidenti sono i segni della miseria e del bisogno
materiale. La spiegazione di questo fatto, però, è semplice. La società consumistica ha reso strumentale il bisogno. Inventare bisogni sempre nuovi e indurre tutti a soddisfarli è uno strumento di potere. Perciò coloro che non hanno la possibilità materiale di stare al gioco si sottraggono, sia pure loro malgrado, al richiamo dei bisogni artificiali e conservano quindi un margine di autonomia nei confronti delle sollecitazioni o delle costrizioni del potete esercitato attraverso il consumismo. Ciò vale anche a livello culturale, naturalmente.
La fabbrica dei desi-
deri soddisfatti toglie o limita sempre più a ognuno di noi la possibilità di iniziativa e tende ad annullare la nostra creatività nel momento in cui si propone di risolvere per tutti, e per tutti allo stesso modo, ogni problema. Ma questa fabbrica non può vendere i suoi prodotti ai miserabili, almeno nel senso che questi non hanno la possibilità di comprare. Vi sono dunque comunità completamente fuori legge, che non hanno soldi per pagarsi la consulenza di un urbanista o di un architetto né possono sperare, essendo fuorilegge, di vedere risolti i loro problemi dalle autorità costi-
tuite. In queste comunità, che sono costrette a reinventarsi da sole urbanistica e architettura, rinascono la capacità di iniziativa e la creatività urbanistica come fatto individuale e quindi come patrimonio collettivo. Isabelle Herpin e Serge Santelli hanno studiato una bidonville, « fenomeno urbano diretto », nata presso Nanterre, lungo la rue des Prés. Le bidonvilles di Nanterre sono popolate al novanta per cento da stranieri (nordafricani, portoghesi, spagnoli) che hanno risorse personali inesistenti all’inizio, e molto limitate in seguito. Esse sorgono su terreni per i queli il piano regolatore di Nanterre non prevede la possibilità di costruire. Si tratta quindi di terreni non soggetti alla speculazione, che i proprietari privati non utilizzano. In pratica, perciò, le bidonvilles sorgono in regime di piena disponibilità delle aree.
134. Herpin-Santelli:
planimetria della bidonville di rue des Prés presso Nanterre.
245
La bidonville di rue des Prés, che la Herpin e il Santelli hanno studiato nel 1966 quando ospitava 1.101 persone, si era formata tra il 1954 e il 1964 su un terreno appartenente alla Compagnie des Eaux e su sei appezzamenti privati. Il nucleo iniziale era stato costituito da quattro case in mattoni di proprietà della Compagnie des Eaux; a queste si erano man mano aggiunte altre costruzioni delimitate a ovest da un campo da gioco e a est da un muro, poi superato dalle costruzioni per occupare anche i terreni di proprietà privata « non aedificandi ». Gli altri due limiti erano
la rue des Prés e la Senna. Due vie a fondo chiuso attraversano la bidonville nel senso della latitudine, innestandosi sulla rue des Prés. La prima in ordine di tempo, nata in connessione con l’occupazione delle case in mattoni della Compagnie des Eaux, ha un andamento a baionetta; l’altra è approssimativamente rettilinea. Su ognuna delle vie si innesta una serie di ulteriori articolazioni. La Herpin e il Santelli vi distinguono una rete di vie pubbliche, una rete di vie semipubbliche e dei vicoletti privati. Caratteristica originale della bidonville è di essere costruita interamente al pianterreno (salvo che nelle case già edificate dalla Compagnie des Eaux). L’organismo che in questo modo si è creato non è indifferente in ogni
sua parte, ma contiene specializzazioni funzionali. Gli impianti commerciali o altri si localizzano alle estremità, presso la « porta » della bidonville. Lungo la rue des Prés e lungo la via a baionetta si trovano appunto le attività commerciali, come se la popolazione volesse affermare il carattere privato dei suoi quartieri, localizzando l’animazione all’ingresso. La porta, luogo di passaggio, è lo spazio a vocazione pubblica per eccellenza, e incoraggia le attività commerciali e i luoghi di riunione a installarvisi vicino. La porta di transito tra il mondo esterno e la bidonville diventa
allora supporto di attività e di scambio. La via principale a baionetta, dalla rue des Prés alla Senna, ha un fronte commerciale e dei caffé. La baionetta, dovuta al modo di sviluppo della bidonville, è stata anche usata come mezzo per « privatizzare » lo spazio pubblico e per differenziare, attraverso la visuale e il tipo di passaggio, la faccia interna della bidonville dalla sua faccia esterna. La curva della strada è, in questo senso, una soglia: da questa strada, una volta passata la soglia, non si ha più alcuna vista verso il mondo esterno e l'impressione di essere in casa propria ne viene confermata. Dall’altra parte della bidonville, cioè dall’altra parte del muro, le corrisponde una via parallela che alimenta tutti i vicoletti, vicoli ciechi e passaggi che conducono alle abitazioni. Questa via ha due drogherie al suo ingresso, ma è secondaria, per il minimo di attività che contiene: è soprattutto residenziale. I vicoletti si raccordano direttamente e perpendicolarmente alla via principale e danno accesso sia ai passaggi semipubblici che ai cortili privati. Fssi non consentono altro che l’accesso alle case, e in questo senso sono
già semipubblici, poiché usati solamente dagli abitanti delle case così disimpegnate. Ma tutti possono accedervi, poiché nessuna porta o altro segno
214
materializza una privatizzazione. Se questi vicoli appartengono allo spazio pubblico, essi sono tuttavia usati anche in maniera privatistica, soprattutto quando i cortili delle case sono troppo piccoli: per esempio, il vicoletto che s’inizia sotto il pilone (all’estremità nord della via principale) è utilizzato come spazio di lavaggio e di giochi. La semiprivatizzazione di un vicolo è quindi l’appropriazione multifamiliare di uno spazio pubblico. La rete semipubblica e privata si differenzia dalla precedente per il fatto che una porta segna la separazione fra la via pubblica e il passaggio o il vicoletto di pertinenza delle abitazioni. Ma ciò non è una regola, e spesso una viuzza aperta direttamente sulla strada permette l’accesso ai cortili privati o ai cortili semipubblici di coloro che vivono da soli. Solo quando c’è necessità di un passaggio stretto per accedere a due o tre case
le famiglie interessate hanno sistemato una porta all’entrata del passaggio,
. Herpin-Santelli: schema-tipo delle abitazioni della bidonville di rue des Prés (A cortiletto, B cucina, C, D camere,
1
letto dei genitori, 2 letto dei ragazzi, 3 letto a castello, 4 tavola, 5 stufa, 6 scaffale, 7 sedia, 8 armadio, 9 tappeti, 10 tenda, 11 buffet, 12 lavatrice, 13 pila di
cemento sotto i rubinetti dell’acqua, 14 deposito del combustibile).
ZI5
e si sono così semipubblico. vivono soli, la in origine con in stanze
appropriate Per ciò che Herpin e il le abitazioni
per persone
del corridoio, che diventa perciò uno spazio riguarda i cortili semipubblici di coloro che Santelli ipotizzano che essi siano stati costruiti contigue per le famiglie, in seguito convertite
sole, con un
affitto più vantaggioso.
Le persone
che vivono sole, infatti, sono raramente proprietarie della loro abitazione, mentre le famiglie lo sono quasi tutte. I luoghi pubblici di discussione per gli uomini sono all’ingresso della via a baionetta e sulla piazzetta dopo il gomito della baionetta, dove si trovano soprattutto i giovani.
Gli spazi della casa si iscrivono logicamente nella continuazione degli spazi della via, secondo questa gerarchia di privatizzazione crescente. Ma interviene un cambiamento radicale: mentre lo spazio esterno è lo spazio dell’uomo, lo spazio della casa è lo spazio della casalinga. Il mondo degli uomini e delle donne è separato radicalmente, ma vi è visibile la stessa organizzazione, che dimostra una continuità strutturale. Non potendo la donna uscire, essa ha bisogno di uno spazio esterno che sia suo. È il cortile: essa potrà così essere all’esterno restando in casa sua. Il cortiletto è a un tempo una transizione fra la via (spazio pubblico o semipubblico) e lo spazio privato interno: è uno spazio privato esterno.
Praticamente
mai si può accedere a uno
spazio privato interno
direttamente dalla strada. Solo i negozi o i caffè, in quanto spazi pubblici, danno direttamente sulla strada. Il passaggio dall’esterno all’interno si fa attraverso l'appropriazione privata dell’esterno. Una volta oltrepassata la porta del cortiletto, si è spesso costretti a fare un angolo di novanta gradi per raggiungerne il centro. Questo è un sistema per rafforzare l’intimità, poiché si rende impossibile la vista dalla strada anche quando la porta è aperta (cfr. Le bidonville, phénomène urbain direct, in « L’architecture d’aujourd’hui », n. 153, La ville, dic. 1970 - genn. 1971, pp. XXI-XXIV). Riguardo alla struttura delle case, la Herpin e il Santelli danno lo schema che qui si riporta. Anche per gli interni, benché si tratti di abitazioni infime, risulta evidente l’organicità dell'impianto, che continua il
discorso della strada. In sostanza, questa bidonville ha una sua cultura, ha una sua tradizione, sintetizza un certo modo di vivere e organizza in un assetto unitario persone di diversa provenienza e di diversa nazionalità che, in questo ambiente, si rendono comunità.
È difficile chiedere di più, in fatto di soluzioni urbanistiche. Se confrontiamo la situazione umana della bidonville con quella di un qualunque condominio o di un qualunque isolato urbano, l’unico punto di vantaggio che troveremo qui è il livello (consumistico) di vita. Ma quanto a possibilità di vivere in una comunità che abbia in qualche modo il diritto di attribuirsi questo nome, non c’è dubbio che il margine di vantaggio della bidonville è incommensurabile. Perciò sorprende assai che la Herpin e il Santelli, dopo aver condotto un'analisi che mostra di penetrare con ammirevole comprensione i caratteri urbanistici e sociologici della bidonville, facciano delle proposte di intervento. E ancor più sorprende il tipo di intervento che essi propongono.
216
Si è visto che, pur nell’unitarietà dell'impianto generale e delle sue singole componenti, la bindoville di rue des Prés presenta una considerevole articolazione di elementi e quindi una varietà di funzioni che, in se stessa, sarebbe già una caratteristica importante e significativa di un sistema urbanistico, ma che nel caso specifico corrisponde anche alla necessità di rapportare ad un impianto organico esigenze tra loro eterogenee. Invece la Herpin e il Santelli propongono una struttura tipo, da moltiplicare modularmente fino a coprire (si presume) tutte le esigenze della bidonville. Si è visto anche che la continuità tra ambiente interno ed ambiente esterno, pur nella diversa specializzazione funzionale e sessuale che i due giovani architetti verificano, è un elemento essenziale del sistema ed è garantita dal fatto che tutte le abitazioni hanno il solo piano terreno. Invece la Herpin e il Santelli prevedono abitazioni a due piani (piano terreno e primo piano), articolati mediante un sistema di terrazze raccor-
date a terra da scale. Le terrazze sopraelevate del piano terreno dovrebbero sostituire il cortiletto privato, mentre quelle del primo piano rappresenterebbero lo spazio semipubblico, cioè comune a più abitazioni. In questo modo il sistema dei percorsi, unitario nella bidonville reale, diventerebbe nella bidonville di progetto un vero sistema di montagne russe. Presumibilmente, in questo modo, gli abitanti degli attuali tuguri non sarebbero più assillati dal problema del deflusso delle acque pluviali, ma la loro vita di tutti i giorni ne verrebbe sicuramente stravolta. In realtà, se un intervento non è necessario, ed è anzi chiaramente da rifiutare per questa bidonville, è quello dell’urbanista. Intanto, non si
tratta di un intervento risolutore. Esso lascia insoluti tutti i problemi di carattere economico che condizionano alla miseria gli abitanti della bidonville, poiché tali problemi hanno le loro ragioni molto al di fuori e
molto lontano da essa. Al massimo questo intervento potrebbe presentarsi come un intervento caritativo, nel senso che due giovani architetti offrono gratuitamente la loro consulenza per migliorare le condizioni abitative di un migliaio di persone; oppure potrebbe presentarsi come un intervento paternalistico, nel senso che questi medesimi giovani architetti cercano di insegnare a questo stesso migliaio di persone come potrebbero vivere meglio organizzandosi secondo canoni urbanistici più rigorosi. Ma, in realtà, si tratta di un intervento autoritario (almeno in senso culturale).
Gli abitanti della bidonville hanno costruito il loro villaggio usando le loro concezioni urbanistiche e adoperando i mezzi tecnici e il materiale di cui ognuno era in grado di disporre. Perciò l'organismo abitativo che essi hanno costruito appartiene a loro, da ogni punto di vista. Esso si adatta nel modo più esatto alle loro costumanze (quelle che avevano nei paesi di origine e quelle nuove che si sono formati nel nuovo insediamento) ed è per loro, in ogni parte, perfettamente intelligibile. Attuare la proposta Herpin-Santelli significherebbe togliere di mano agli abitanti della bidonville la loro costruzione; togliergliela di mano a livello di ideazione, a livello di reperimento
dei materiali, a livello di edificazione, a
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livello di interventi modificativi, a livello di fruibilità, a livello di intelli-
gibilità del sistema urbano. Significherebbe anche distruggere il frutto del loro potere di iniziativa, il risultato della loro creatività, per sostituirvi un
lavoro da tecnigrafo. AI contrario, questa bidonville, come molti altri insediamenti nati dal-
l’indigenza e dalla miseria, è un esempio singolare di urbanistica democratica. Operando al di là dei limiti della speculazione fondiaria, su terreni che il capitale privato può permettersi di sprecare, gli abitanti della bidonville hanno in pratica agito in regime di piena disponibilità delle aree e non hanno dovuto sottostare a vincoli di piano regolatore. L’infimo livello delle costruzioni ha, d’altra parte, consentito loro di provvedere da soli al reperimento dei materiali e alla costruzione delle loro case, godendo quindi di una seconda libertà: la libertà di progettazione e di esecuzione delle opere murarie. Godendo di queste singolari condizioni di autonomia e di possibilità di iniziativa, hanno dato vita a un impianto urbanistico perfettamente
commisurato
alle loro esigenze abitative, sociali, culturali,
di tradizione. È il massimo risultato che si possa pretendere, in fatto di urbanistica democratica. Si vuol dire con questo che la bidonville è il modello ideale per una democratizzazione dell’urbanistica? Evidentemente no. Si vuol dire piuttosto che la democratizzazione dell’urbanistica passa forzosamente attraverso la bidonville, nel senso che questa segna il limite oltre il quale la società tecnologica e consumistica non consente né libertà né capacità di iniziativa, costringendo ognuno a delegare le proprie possibilità creative all’élite culturale (in questo caso agli architetti e agli urbanisti) che sola è abilitata a decidere per conto di tutti come si deve abitare e quindi come si deve vivere socialmente. Sorprende che a difendere il mestiere di architetto o di urbanista (o di artista, o di poeta: il problema evidentemente non cambia) vi siano intellettuali che si professano marxisti. Ma se si accetta, ragionando appunto
in termini marxisti, che la produzione intellettuale si trasforma di pari passo con la produzione materiale e che le idee dominanti di un’epoca sono sempre state quelle della classe dominante, allora, coerentemente, si deve anche accettare che i problemi sociali relativi a questi due tipi di produzione abbiano, nella prassi, soluzioni parallele e concordanti, ossia
dirette allo stesso fine. Perciò, accanto alla restituzione al popolo dei mezzi di produzione materiale, si dovrà rivendicare anche la restituzione al popolo dei mezzi di produzione culturale (e certamente non nel senso ipocrita di mettere a disposizione di un popolo implicitamente considerato ignorante e incapace le prestazioni d’opera di architetti, urbanisti, artisti, poeti presuntivamente « democratici »). Nel caso specifico, accanto alla richiesta della piena disponibilità delle aree e della piena possibilità economica e politica di intervento sul territorio, occorre porre con altrettanta decisione il problema della rivendicazione della piena capacità culturale di ognuno di concorrere insieme con gli altri a tale organizzazione del territorio.
218
Se questo significa la morte dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica, ben venga questa morte, perché in realtà questa sarebbe la morte dell’arte aristocratica e borghese, o del concetto aristocratico e borghese dell’arte che la classe culturale dirigente fa valere per conservare il proprio potere. Né vi sarebbe luogo a compianti per un simile trapasso. Infatti avremmo perduto qualche migliaio di artisti, architetti, urbanisti, e ne avremmo ritrovati qualche miliardo.
ZAC)
URBANISTICA E SEMIOLOGIA
La conferenza con la quale Roland Barthes propose una semiotica della città fu tenuta a Napoli il 16 maggio 1967. La rivista « Op. Cit. » ne pubblicò il testo, in italiano, nel numero 10 del settembre di quello stesso anno, sotto il titolo Serziologia e urbanistica. Quasi contemporaneamente, nel numero di giugno-luglio della rivista « L’architecture d’aujourd’hui », Francoise Choay pubblicava un articolo sul medesimo tema dei rapporti fra urbanistica e semiologia (Sérziologie et urbanisme). Si può presumere che ambedue gli autori attribuissero una certa importanza alle idee espresse nei due scritti, poiché questi risultano ripubblicati entrambi, sia pure in lingua diversa e con qualche modifica. L’articolo della Choay, riveduto nelle premesse e nelle conclusioni, è infatti riapparso in inglese, nel 1969, nella raccolta di saggi Meaning in Architecture, mentre la conferenza del Barthes è stata riproposta dalla medesima rivista « L’architecture d’aujourd’hui » nel numero 153 (dicembre 1970 - gennaio 1971) con il titolo immutato (Sérziologie et urbanisme) e qualche minima cor-
rezione formale. Il tema di fondo della conferenza del Barthes è il seguente: a quali condizioni, o meglio, con quali precauzioni e con quali preliminari sarebbe possibile una semiotica urbana? Il Barthes premette che lo spazio umano (e quindi non solo lo spazio urbano) è sempre stato significante, e che l’habitat umano costituisce un vero discorso, con le sue simmetrie, opposizioni di luoghi, sintassi, paradigmi. L’isonomia, coniata da Clistene per l’Atene del VI secolo, è per il Barthes una concezione veramente strutturale. Sulla base di queste premesse, che al Barthes appaiono ovvie, egli esprime meraviglia per il fatto che le elaborazioni teoriche degli urbanisti abbiano dato finora (« jusqu’à présent »: l’espressione è conservata nella traduzione del ’70-71) uno spazio molto ridotto ai problemi della significazione, e cita a questo proposito L’urbanisme. Utopies et réalités della Choay. Kewin Lynch, a giudizio del Barthes, si è avvicinato più degli altri a questo genere di problemi, ma le sue ricerche, dal punto di vista
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semantico, restano ambigue, poiché la concezione che egli ha della città rimane più gestaltica che strutturale. Tuttavia si fa viva, quasi suo malgrado, una coscienza crescente della funzione dei simboli nello spazio urbano. Gli urbanisti si trovano perciò costretti ad approfondire il concetto di modello, scoprono a poco a poco che esiste una specie di contraddizione tra il funzionalismo di una parte della città e il suo contenuto semantico, o il suo potere semantico. Così, secondo il Barthes, si sarebbe alla fine notato, anche se un po’ ingenuamente, che Roma offre un conflitto perenne tra le necessità funzionali della vita moderna e la carica semantica che proviene dalla sua storia. E questo conflitto tra senso e funzione sarebbe la disperazione degli urbanisti. Si delineerebbe così anche un conflitto fra senso e ragione, poiché non tutto in realtà nella città è pianificabile (almeno sotto il profilo dell’identità tra pianificazione e razionalizzazione), insieme con un conflitto fra senso e realtà stessa, intesa quest’ultima come geografia oggettiva (cioè
quella delle carte). A tale proposito il Barthes porta l’esempio di quartieri contigui, che sono tali solo « se facciamo affidamente sulla carta, cioè sul reale, sull’oggettività, mentre, dal momento che ricevono due sensi differenti, vengono radicalmente separati nell'immagine della città: il senso è vissuto in opposizione completa con i dati oggettivi » (« ... si nous fions à la carte, c’est-à-dire au ‘réel’, à l’objectivité, alors que, à partir du moment où ils recoivent deux significations differentes, ils se scindent radicalement dans l’image de la ville: la signification est vécue en opposition complète aux données objectives »). Se dunque la città è un discorso, e questo discorso è un vero linguaggio, per mezzo del quale la città parla ai suoi abitanti e gli abitanti parlano alla città, il problema è quello di fare uscire dallo stadio metaforico l’espressione « linguaggio della città », esattamente come Freud fece uscire dalla metafora l’espressione « linguaggio dei sogni ». A giudizio del Barthes, per giungere a questo risultato occorre unificare in un modello i dati che agli specialisti dei problemi urbani provengono dalla psicologia, dalla sociologia, dalla geografia, dalla demografia. Ciò, a suo dire, non sarebbe stato possibile fino ad oggi appunto perché manca l’ultima tecnica, quella dei simboli. Per aggiornare il campo dei problemi su qualche questione che. potrebbe spianare la strada a una semiologia urbana, il Barthes introduce alcune osservazioni. In primo luogo egli ricorda che il « simbolismo » non è più concepito attualmente dai semiologi, almeno in linea generale, come una corrispondenza regolare tra significante e significato; non soltanto pet effetto della spinta della storia, ma anche perché i significati sono come esseri mitici e di un’esttema imprecisione, che a un certo momento diventano sempre i significanti di un’altra cosa, accade che i significati passano e i significanti restano. Così i vari elementi sono intesi come significanti per la loro specifica posizione correlativa prima ancora che per il loro contenuto.
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La seconda osservazione, che consegue direttamente alla prima, è che il simbolismo deve essere definito essenzialmente come il mondo dei significanti, delle correlazioni, e soprattutto delle correlazioni che non si pos-
sono mai rinchiudere dentro La terza osservazione è l’esistenza di un significato sono sempre dei significanti
una significazione piena e ultima. che attualmente i semiologi non pongono mai definitivo, e ciò vuol dire che i significati per gli altri e viceversa. Su questa via, il Barthes introduce un concetto che a suo dire non figura mai, chiaramente citato, nelle ricerche di urbanistica: la dimensione erotica della città. L’erotismo della città, secondo il Barthes, è l’insegnamento che possiamo trarre dalla natura infinitamente metaforica del linguaggio urbano, intendendo naturalmente il termine « erotismo » nella sua accezione più larga (il Barthes afferma di adoperare indifferentemente i termini « erotismo » e « socialità »). Per esempio, il centro della città è vissuto come un luogo di scambio delle attività sociali, e il Barthes direbbe quasi delle attività erotiche, nel senso più largo della parola. In conclusione, a giudizio del Barthes, per capire la città non è importante moltiplicare le indagini funzionali quanto moltiplicare i lettori della città, per arrivare alla ricostruzione di una « langue » o di un codice della città stessa, come primo passo verso indagini di natura più scientifica (ricerca delle unità, sintassi, ecc.). Senza dimenticare, però, che non
si dovrà mai cercare di fissare o di rendere rigidi i significati delle unità così ritrovate, poiché storicamente questi significati sono estremamente imprecisi, ricusabili, non dominabili. Per noi la città è costruita, secondo
il Barthes, come la nave Argo al termine del suo viaggio, quando era ormai completamente costituita di parti di ricambio sostituite ai pezzi originali, ma tuttavia restava sempre la nave Argo, cioè un insieme di significazioni facilmente leggibili e identificabili. In questo sforzo di avvicinare semanticamente la città — sostiene il Barthes — noi dobbiamo tentare di comprendere il ruolo dei segni e di capire che qualsivoglia città è una struttura; ma non bisogna mai cercare di riempire, né volere riempire, questa struttura. La città, secondo il Barthes, è un poema, ma non un poema classico, ben centrato su un soggetto: è un poema che dispiega il significante, ed è appunto questo dispiegamento che alla fine la semiologia della città dovrebbe cercare di afferrare e di far cantare (« faire chanter » nel testo francese, ma solo « cantare » nel testo italiano, peraltro piuttosto impreciso). La Choay, nel suo articolo sullo stesso tema, parte dalla premessa che noi attualmente ci troviamo in questa contraddizione: dall’inizio della rivoluzione industriale siamo i figli di quella che molto impropriamente possiamo chiamare città e, nel medesimo
tempo, inconsciamente, noi cer-
chiamo in vario modo di camuffare la sua enormità e lo stretto controllo che essa esercita su di noi. Occotre perciò che gli urbanisti riescano a liberarsi da questa repressione e ad accedere al loro inconscio nascosto; ma la cosa non è facile. Per avviare il problema, la Choay si propone di
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verificare se il quadro urbano
può essere
considerato
un sistema semio-
logico, come altri prodotti umani. Il parere della Choay è che, come base generale, certi agglomerati costituiscano un materiale di rilievo per un’analisi semiologica e che la cruda materialità dei loro elementi e la loro destinazione pratica non li renda inadatti a un discorso sistematico di questo tipo. La Choay porta come esempio le analisi dedicate da Claude Lévi-Strauss in Tristes Tropiques ai villaggi di alcune società astoriche dell’ America del Sud e ricorda in particolare i Bororo, presso i quali la struttura del villaggio non solo permette lo svolgersi delle istituzioni, ma rinnova e assicura i rapporti tra uomo e universo, tra società e soprannaturale, tra la vita e la morte, investendo e determinando, in sostanza, la totalità del comportamento sociale.
La Choay, sempre riprendendo da Lévi-Strauss, ricorda che una prova per via negativa di questo fatto si ebbe quando i missionari salesiani si proposero
di convertire
i Bororo
al cristianesimo.
Essi non
fare altro che cambiare la pianta del villaggio da circolare in Disorientati, privati del loro piano che era uno strumento di sione, i Bororo rapidamente perdettero il senso delle tradizioni, collegate allo schema del villaggio. La Choay fa anche osservare laggio Bororo, benché sistematicamente demolito e ricostruito anni in terra vergine per ragioni di sopravvivenza,
dovettero
rettilinea. comprenche erano che il vil ogni tre
finisce per radicare i
suoi abitanti al territorio in maniera assai più profonda che non i monoliti di cemento delle nostre città industriali. Così impostata, la questione non muta sostanza se trasferita alle società coinvolte in un processo storico: questa è la convinzione della Choay, che riporta a questo proposito alcuni esempi di « città», così comunemente definite anche se inserite ognuna in contesti storici assolutamente differenti. Il primo esempio è quello della città greca alla fine del VI
secolo, « nel momento in cui compare l’agorà e scompare il focolare individuale » (così testualmente la Choay). La struttura della città è, a parere
della Choay, la stessa del sistema politico, cioè l’isonomia (l’eguaglianza politico-giuridica dei cittadini). Il secondo esempio che la Choay porta è quello della città medievale, caratterizzata a suo giudizio dalla doppia connessione che lega gli elementi fondamentali l’uno con l’altro e tutti insieme con gli elementi semanticamente pesanti, come il castello, la chiesa e le mura difensive. Secondo la Choay, nonostante che il primo esempio (i Bororo) sia « astorico » e gli altri due « storici », in tutti e tre i casi si può parlare di sistema chiuso, che non presenta trasformazioni, o soltanto trasformazioni molto lente. Si tratta di sistemi costruiti in se stessi « specifici e puri », ma che hanno stretta correlazione con un importante numero di altri sistemi e devono essere riferiti a un comportamento globale comprendente risposte mentali e spirituali: per questo motivo la Choay li definisce « ipersignificanti ». In questi sistemi costruiti gli spazi vuoti sono nondimeno significativi. Lo dimostra, secondo la Choay, il fatto che
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nella lingua greca non ci sarebbe una parola corrispondente al nostro concetto astratto di spazio, ma esisterebbe soltanto il termine « luogo » (« topos »). E ciò starebbe a significare che un sistema semiologico puro può contemplare solo « luoghi » e non « spazi ». Per le città moderne, a giudizio della Choay, il discorso è molto diverso. Contrariamente ai casi precedenti, non c'è molto da decifrare nel nuovo sviluppo urbano, perché queste nostre città sono « iposignificanti » e hanno perduto la loro primitiva purezza. L’accelerazione della storia rivela il vizio implicito in ogni sistema costruito:
una permanenza
e una
rigidità che gli rendono impossibile il trasformarsi continuamente secondo il ritmo proprio dei sistemi meno « radicati », come il linguaggio, la tecnologia, la moda o la pittura. Invece di cambiare con lo stesso passo e con la stessa sottigliezza delle altre strutture sociali, il sistema urbano, secondo la Choay, è minacciato nella sua stessa esistenza (cioè l’apertura al senso)
e perciò condannato a un permanente anacronismo. Contro questa mi. naccia la nostra insufficiente difesa è quella di parziali ristrutturazioni, ossia, in termini semiologici, della inclusione di sintagmi ormai logori in sintagmi nuovi e attualissimi. Il parere della Choay è che siamo in un circolo chiuso. Più il sistema costruttivo presenta l’esigenza di sistemi supplementari, più dimostra di essere obsoleto, e il suo primitivo compito di informazione gli viene sottratto, attraverso la stampa e le telecomunicazioni, da altri sistemi di informazione, il cui sviluppo sembra essere allo stesso tempo la causa e l’effetto dell’obsolescenza del sistema costruito. Precisamente quando questo sistema cessa di avere relazione con l’intera catena del compor-
CLAN BADDOGEBA XOBUGUIUGUE
CLAN APIBOREGUE
CLAN QUIE
CLAN BADDOGEBA ‘XEBEGUIUGUE 136. Lévi-Strauss:
CLAN IVUAGUDDUDOGUE
schema sociale del villaggio Bororo (da Tristes Tropiques).
224
tamento sociale si ha, secondo la Choay, il passaggio dal « luogo » allo « spazio ».
La Choay vede nella città barocca la prima fase di questa trasformazione. L’organizzazione della città barocca, infatti, viene contaminata da quella dello spazio pittorico: estetizzandosi, diventando spettacolo, la città comincia
a prendere una
dimensione
ludica, a essere
vissuta in un
rapporto di distanza che è l’antitesi del tipo di impegno implicato dai sistemi chiusi (la Choay parla, in questi casi, di « sistemi misti »). Tuttavia, secondo
la Choay, la città barocca non è vissuta sul modo
dello spettacolo dalla massima parte dei suoi abitanti, ma da una frazione privilegiata di essi. Ciò accade perché nelle società ad evoluzione accelerata non soltanto il sistema costruito è minacciato
d’anacronismo,
ma ha
esso stesso un ruolo anacronizzante, come si vede del resto nelle grandi città di oggi, dove sopravvivono interi lembi di sistemi costruiti appartenenti a età passate (preindustriali o contemporanee agli inizi dell’industrializzazione). Ciò genera una persistente diacronia culturale che permane all’interno della sincronia cronologica. L’esistenza di questi diversi livelli semantici (la Choay li chiama « livelli politologici ») è fondamentale per capire e affrontare il problema urbanistico. La Choay riporta due esempi cruciali di questo fenomeno. Il primo è quello della ristrutturazione dei centri urbani, al quale fanno opposizione raggruppamenti di persone (per solito minoranze di classe o di razza) che continuano
a vivere in sistemi sintagmatici il cui modello sem-
bra essere quello del villaggio: non per caso Herbert Gans ha intitolato « The Urban Villagers » il suo studio sugli slums. Il secondo esempio è quello dell’industrializzazione dei paesi sottosviluppati. A questo proposito la Choay osserva che, quando allo spazio semiologicamente pesante e inglobante di certe culture o microculture gli urbanisti sostituiscono il nostro spazio operativo, essi finiscono per fare danno agli interessati. Ciò avviene perché questo sistema di sostituzione non è immediatamente significante: la sua adozione presupporrebbe infatti che, in un medesimo colpo, potesse essere adottato anche l’insieme degli altri sistemi (più astratti) di informazione e di comunicazione propri delle società industriali. La Choay avverte, tuttavia, di non voler pronunciare un giudizio di valore ma solo precisare una situazione storica, quando esprime a propo-
sito delle città moderne concetti come « iposignificante » o « riduzione semantica ». Iposignificante non vuol dire privo di signicato, ma sta semplicemente ad indicare che il sistema costruito non è più riferibile alla totalità del comportamento culturale. Più precisamente, iposignificante vuol dire che il sistema costruito ha solo un senso preciso e limitato. Dalla rivoluzione industriale in poi esso è stato collegato esclusivamente col nuovo tipo di produzione, nei suoi aspetti sia tecnologici che economici. Così, nel corso del secolo passato, il nuovo tipo di produzione determinò la spaccatura delle città industriali in due parti, una destinata alle funzioni economiche della produzione e alla classe sociale dei produt-
225
tori, l’altra alla funzione economica
consumatori.
del consumo
e alla classe sociale dei
Questo fu appunto, secondo la Choay, il nuovo, esclusivo,
unico significato:
il sistema dell’efficienza economica.
L’opinione della Choay è che questa trasformazione abbia avuto effetti traumatici e frustranti in due direzioni complementari. Nell’epoca preindustriale gli agglomerati urbani (paesi, villaggi, città) erano elementi sperimentati e rassicuranti, nei quali l’uomo si riconosceva e che egli stesso costruiva in opposizione alla natura. Dalla rivoluzione industriale in poi l'organismo urbano ha cominciato ad apparire alla coscienza collettiva
come un’altra natura, un misterioso mondo selvaggio che minaccia l’esistenza dell’uomo. Questo è il primo effetto. Il secondo effetto, secondo la Choay, si ha a livello meno emozionale.
La proliferazione di agglomerati urbani, i quali non esprimono altro che l’elementare, unisignificante nuovo ordine, ha dato origine a un fenomeno compensativo: una razionalizzazione interminabile dello spazio urbano, al quale un’analisi discorsiva ha attribuito diversità di scopi e di significati. Così un « commento » (« logos ») si è inserito fra l’agglomerato urbano e i suoi abitanti, come uno schermo, creando fra loro una distanza insor-
montabile. La riduzione semantica, alla fine, comporta una contaminazione irreversibile del sistema costruito da parte del linguaggio verbale, il « logos », e la completa definitiva perdita della sua primitiva purezza. L’idea stessa di un sistema non verbale viene definitivamente distrutta da questo metalinguaggio. L’insuperabile schermo verbale tirato su fra noi e il nostro attuale spazio urbano, secondo la Choay, spiega l’astratta qualità di quest’ultimo molto più che il privilegio accordato alle attività visive sostenuto dal McLuhan. A questo punto la Choay si richiama ad alcuni concetti da lei sviluppati in L’urbanisme. Utopies et réalité. Poiché, a giudizio della Choay, ciò che è sentito come disordine richiama la sua antitesi, ossia l’ordine, accade che si vedano opporre allo pseudodisordine della città industriale proposte di ordinamenti urbani liberamente costruite da una riflessione che si dispiega nell'immaginario. Non potendo dare una forma pratica a questo modo di mettere in discussione la società, la riflessione si colloca
nella dimensione dell’utopia. Essa vi si orienta secondo le due direzioni fondamentali del tempo, il passato e il futuro, per prendere l’aspetto della nostalgia o del progressismo (cfr. L’urbanisme, 1965, p. 15). Da questa base —
sostiene
ancora
la Ghoay —
si originano
due
tipi d'immagine della città futura, due modelli: quello « culturalista » e quello « progressista ». Il modello progressista si fonda, secondo la Choay, sulla concezione dell’individuo umano come tipo, indipendente da tutte le contingenze e «differenze di luogo e di tempo, e definibile secondo bisognitipo scientificamente deducibili. Un certo razionalismo, la scienza, la tecnica dovrebbero permettere di risolvere i problemi posti dai rapporti degli uomini col mondo e fra loro. Questo pensiero, che la Choay giudica ottimista, è orientato verso l’avvenire, dominato dall’idea del progresso (cfr. L’urbanisme, p. 16). A questo modello progressista la Choay fa corri15.
226
spondere una fase preurbanistica, nella quale colloca Robert Owen, Charles Fourier, Victor Benjamin Ward
Considerant, Étienne Cabet, Pierre-Joseph Proudhon, Richardson, Jean-Baptiste Godin, Jules Verne, Herbert
George Wells, e una fase urbanistica Tony Garnier, Georges Benoit-Lévy, Stanislas Gustavovitch Stroumiline. Il modello culturalista invece, che dalla Choay nascerebbe dalle opere e che si ritroverebbe
ancora
in senso proprio, nella quale pone Walter Gropius, Le Corbusier e
secondo questa bipartizione coniata di Ruskin e di William Morris
alla fine del secolo in Ebenezer
Howard,
avrebbe come punto di partenza critico non più la situazione dell’individuo, ma quella del raggruppamento umano, ossia della città. All’interno di questo raggruppamento, l’individuo non è un’unità intercambiabile come nel modello progressista; per le sue particolarità e per la sua originalità specifica ogni membro della comunità ne costituisce al contrario un
elemento
non
sostituibile.
Lo
scandalo
storico
da cui, secondo
la
Choay, partono i seguaci del modello culturalista basato sulla « nostalgia » è la scomparsa dell’unità orgarica della città, sotto la pressione disintegratrice dell’industrializzazione (cfr. L’urbanisme, p. 21). Anche nell’ambito di questo modello la Choay distingue una fase preurbanistica, in cui sistema Augustus Welby Northmore Pugin, John Ruskin e William Morris, e una fase propriamente urbanistica, nella quale colloca Camillo Sitte, Ebenezer Howard e Raymond Unwin. Facendo appunto riferimento a queste sue idee espresse in L’urbanisme. Utopies et realité la Choay sostiene che il modello progressista è attualmente
meno
utopico di quanto
appaia. Esso mira infatti a promuovere
un nuovo modello costruttivo in base al quale, dentro la struttura di uno spazio neutrale e privo di significati, gli elementi dello spazio urbano vengono classificati e associati secondo similarità funzionali. La Choay chiama questa struttura paradigmatica o metaforica. Questo accostamento metaforico, secondo la Choay, ha progressi vamente sostituito alla originale bipartizione della città industriale del secolo scotso una tripartizione « più razionale », che tende a eliminare dal significato del sistema spaziale gli agganci sociali, a vantaggio di un’analisi operativa condotta in chiave economica. La segregazione sociale cessa di essere un principio strutturale; l’opposizione tra zone dove si vive e zone dove si lavora è superata dall’esistenza di un « centro ». I tre poli metaforici del nuovo sistema (abitazione, industria, centro) sono legati da una complessa serie di « circuiti » il cui significato è l’efficienza. Il sistema urbano diventa allora uno spazio operativo. L'informazione data da questa rete di connessioni (il suo spirito nascosto) è la trasfor-
mazione della natura, la sua metamorfosi nel corso del processo produttivo, le cui sequenze sono scolpite nel suolo. In questo modo il sistema « progressista » è ancora più monosemico
(cioè con un significato unico,
contrapposto a « polisemico ») che lo pseudodisordine del diciannovesimo secolo. Ma tale monosemia è in armonia con un mondo in continua evo-
221
luzione e con una società organizzata secondo i princìpi della produzione e del consumo. Non
si tratta, secondo
tale monosemia costruttivi
in nome
polisemici,
la Choay, di criticare o anche di combattere
del cosiddetto umanesimo.
riferibili
a un
« uomo
I tempi dei sistemi
totale », sono
finiti
per
l’uomo occidentale. Il suo mondo è ed è già stato per un certo tempo in briciole. Il suo destino è quello di affrontare la situazione così come sta. Se non lo fa, egli non può aspettarsi nessun aiuto per la sua perduta unità nella tendenza degli attuali sistemi costruiti. E con questa convinzione la Choay conclude il suo saggio. Non sono, questi della Choay e del Barthes, gli unici tentativi di
offrire un contributo allo studio dell’urbanistica da parte dei semiologi, o comunque non sono gli unici tentativi di interpretare i problemi urbanistici in chiave semiologica.
Tuttavia
essi costituiscono
un test più che
valido, perché comprensivo di buona parte della tematica corrente sull'argomento, per analizzare le possibilità effettive di uno studio semiologico del problema urbano. Il primo momento di imbarazzo però che sempre in genere si prova quando si cerca di accostare due problematiche che hanno origini e storia completamente diverse (in questo caso urbanistica e semiologia) è quello dell'adeguamento del linguaggio. Urbanisti e semiologi, fra l’altro, non sono certamente fra coloro che lesinano in termini e in espressioni gergali; e non è certo un caso (ma anzi è molto significativo) che Charles Jencks e George Baird abbiano avvertito l’utilità di premettere alla prima parte (Sezziology and Architecture) della raccolta di saggi da loro curata (Meaning
in Architecture)
un glossarietto di termini
semiologici.
D'altra
parte questa stessa raccolta, insieme con il saggio già ricordato della Choay, contiene anche uno scritto piuttosto polemico di Geoffrey Broadbent (Meaning into Architecture) il quale, facendo riferimento a una definizione non proprio perspicua degli scopi della semiologia data dal Barthes, insinua il sospetto che, se le idee fossero state più chiare, questa definizione sarebbe stata formulata meglio, e, parafrasando Shaw, osserva maliziosamente che «chi può, comunica, e chi non può vi scrive sopra una teoria » (Meaning in Architecture, 1969, p. 51). Ma le difficoltà sono reciproche, evidentemente. Se vi è disagio per il comune lettore di saggi architettonici o urbanistici nell’abituarsi ai nuovi significati attribuiti dai semiologi a termini d’uso (come, appunto, « significato », « senso », « contesto » e simili) o ai neologismi da essi coniati (come « significante », « connotazione », « metalinguaggio » e altri), vi è anche, da parte dei semiologi, una scarsa capacità di penetrazione dei termini e dei problemi architettonici e urbanistici, talvolta anche nelle loro accezioni più elementari. È forte, insomma, il rischio di un dialogo fra sordi, e non è d’altra parte ingiustificato il sospetto che, fino ad un certo limite, il nuovo glossario della semiologia corrisponda a un’effettiva necessità di trovare modi nuovi di esprimere idee nuove, ma che in
228
parecchi casi questo limite venga cose vecchie con parole differenti.
superato
per ripetere semplicemente
Per esempio, quando Roland Barthes, come si è visto, chiama « reale » e « oggettività » l’urbanistica delle carte, e poi scopre che due quartieri, contigui sulla carta, acquistano due « sensi » differenti e risultano radicalmente separati « nell’immagine della città », afferma una cosa ovvia con la terminologia rovesciata. Nel linguaggio corrente infatti l’immagine della città sarà piuttosto la sua
rappresentazione
soggettiva,
ma,
soprattutto,
il « dato oggettivo » sarà appunto la città « reale », così come essa è e come essa vive, e non quale essa può essere rappresentata cartograficamente. Perciò, per un urbanista, sentire che la realtà viva della città può avere un senso del tutto diverso o addirittura di segno opposto rispetto ai significati deducibili dalla sua rappresentazione grafica è del tutto ovvio e irrilevante. Egualmente superfluo, per altri aspetti, è lo sforzo che il Barthes si dichiara pronto a compiere per fare uscire dallo stadio metaforico l’espressione « linguaggio della città ». Può darsi che questo problema, nel campo
degli studi urbanistici,
non
sia ancora
del tutto maturo,
ma
non si può neppure dire che esso sia nuovo, almeno in senso generale. Ormai stanno compiendo il secolo correnti di pensiero che hanno elaborato il problema dello stile, nel campo delle arti plastiche o figurative, come linguaggio individuato. Queste correnti, sviluppatesi soprattutto in Austria con la scuola viennese di storia dell’arte e in Italia particolarmente attraverso la propedeutica del Ragghianti, non hanno mai presupposto che « linguaggio visivo » fosse un’espressione metaforica. La capacità di comunicare in termini visivi, del resto, può essere una scoperta solo per chi non si sia mai posto prima questo problema a livello teorico; ma a livello pratico il parlare per immagini è consuetudine comune e quotidiana di tutti noi. E siamo appunto noi tutti che popoliamo le città e le riempiamo di oggetti, che hanno anche (ma si potrebbe dire soprattutto) un valore visivo e dei significati (psicologici, sociologici o come altro si vuole) che si palesano appunto attraverso la visione, intesa come strumento di comunicazione. Ma, anche senza allontanarsi molto dall’Île de la Cité, e restando quindi nel campo delle presumibili conoscenze del Barthes, è possibile ricordare esperienze utili a dare una interpretazione più precisa di alcune presunte scoperte dello strutturalismo, delle quali i semiologi per solito si fanno forti. L’antropologia strutturale ha avuto il grande merito di contri buire a recuperare in senso globale le culture di popoli comunemente detti barbari o selvaggi e perciò considerati inferiori; ma non può menarne il vanto assoluto. Quando Henri Matisse, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani e altri, verso la fine del secolo scorso o agli inizi del secolo corrente, si rivolgevano alla cosiddetta arte negra e ne riprendevano i modi e gli schemi fin quasi a ripeterla, indubbiamente sentivano in essa dei fattori di civiltà che andavano ben oltre il puro fatto estetico; per non parlare poi di Paul Gauguin, che si integrò nella vita degli abitanti di
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Tahiti fino ad assumerne costumi e maniera di pensare, e scelse alla fine di morire fra loro. « Tu non puoi capire la mia Eva nera — egli scriveva
a Strindberg — per colpa della civiltà di cui soffri ». L’antropologia strutturale, in questo campo, ha quindi colmato un vuoto che esisteva, soprattutto a livello di cultura aristocratica e borghese, tra valori così detti estetici e valori culturali in senso pieno, ma si è anche spesso macchiato di scientifismo, trasformando dei soggetti umani in oggetti di studio. C'è un certo peccato di presunzione, alla base di tutto questo, che induce anche il Barthes ed altri semiologi a credere di possedere il monopolio del linguaggio come scienza e di potere, per contro, affrontare qualunque tipo di problematica sub specie serziologiae. È inevitabile, quindi, che prima o poi avvenga l’incontro con tematiche già largamente dibattute, ma dai semiologi non perfettamente conosciute, alle quali essi rischiano di offrire soltanto il discutibile apporto di una nuova terminologia. Addirittura, in certi casi, si ha l'impressione di ripercorrere a ritroso vicende filosofiche vecchie di secoli, se non di millenni. L’uso che talora si fa della contrapposizione o della distinzione fra significato e significante sembra rimandare al platonico mondo delle idee opposto alla concezione aristotelica del reale, oppure agli universalia ante rem contrapposti agli universalia post rem, oppure al noumeno contrapposto al fenomeno, oppure al contenuto contrapposto alla forma. Questo tipo di dualismo, che ha angustiato per quasi tre millenni il pensiero occidentale, sembra tornare fuori con la semiologia e riproporre di nuovo i medesimi problemi. Per esempio, quando il Barthes avverte che oggi la semiologia non concepisce più il simbolismo come corrispondenza regolare fra significato e significante ma piuttosto come un mondo di correlazioni tra significanti, non sembra di risentire, mutatis mutandis, la critica hegeliana alla cosa in sé? Meno evanescente e più concreta di quella del Barthes è la posizione della Choay. Ma qui emergono altri problemi, per molti aspetti non meno gravi. È noto, intanto, che i semiologi non
amano
l’esercizio
della storio-
grafia e, tenendo ferma la scientificità del loro metodo di indagine, preferiscono affrontare ogni tematica al presente. Questo metodo, che non è appropriato in assoluto come non è assolutamente inappropriato, richiede, come
tutti i metodi di ricerca, di essere valutato soprattutto in base ai
risultati che esso effettivamente consegue. Però il distacco programmatico dalla storia che ne deriva in certi casi può portare perfino alla distorsione dei fatti, quando la storia, come
a volte capita, viene tirata
in ballo per fare da supporto alla teoria. Per esempio, non è facile seguire la Choay quando affronta i problemi della città greca alla fine del VI secolo. C'è da chiedersi, prima di tutto, di quale città greca la Choay voglia trattare, perché in quegli stessi anni la situazione generale di Sparta non era certamente quella di Atene, né quanto ad assetto politico né quanto ad assetto urbanistico. Tl riferimento all’isonomia, alla quale come si è visto anche il Barthes si richiama, sembra
230
rimandare all’Atene di Clistene, ed è qui che riesce difficile comprendere che cosa realmente intenda la Choay, quando afferma che la struttura della città era la stessa del regime politico. In realtà sappiamo che la situazione di fatto era molto diversa da quella che la Choay sembra presumere, e d’altra parte nessuno può illudersi, verosimilmente, che l'emanazione della nuova costituzione ateniese da parte di Clistene (508 a. C.) comportasse l’immediata ristrutturazione urbanistica della città. L’unità politica di Atene, notoriamente, non coincideva con l’unità della sua
struttura
urbanistica,
almeno
a livello
di città.
Il fenomeno
del sinecismo va inteso appunto come un atto politico, cioè come unificazione sociale ed economica di un certo numero di abitanti dell’Attica che si trovarono ricondotti a una medesima struttura amministrativa. Ma la massima parte di costoro continuarono ad abitare nelle campagne, almeno fino all’inizio della guerra del Peloponneso (431 a. C.). Tucidide, trattando di questo periodo storico e ricostruendo sinteticamente le vicende politico-urbanistiche di Atene che lo avevano preceduto, ci lascia un quadro sufficientemente chiaro della situazione (Storie,
TI, 13-17). Fu appunto quale, come
Pericle, secondo
si sa, visse gli eventi
quanto
che narrò),
riferisce Tucidide a richiamare
dentro
(il la
città gli ateniesi che dimoravano nelle campagne. Ma fino al 431 la situazione era stata molto diversa. Sotto Cecrope e gli altri re la popolazione dell’Attica viveva in villaggi separati, che avevano propri pritanei e magistrati e si riunivano presso il re a deliberare per scopi comuni solo quando qualche pericolo li minacciava. Le singole comunità avevano perciò una larga autonomia. Al mitico re Teseo si attribuisce appunto l’unificazione politica dell’Attica, realizzata attraverso l’abolizione dei pritanei e delle magistrature dei singoli villaggi e la istituzione di un unico consiglio e di un unico pritaneo. Gli abitanti dei villaggi — precisa però Tucidide — non cambiarono residenza. Essi costituirono bensì un’unica popolazione e un’unica polis, la quale, confluendovi i tributi di tutti, acquistò importanza.
Così Teseo lasciò Atene ai suoi successori e così la città restò fino al 431. Pericle volle evitare quanto era già avvenuto con le guerre persiane, cioè che la massima parte degli ateniesi (nati e cresciuti fino allora — insiste Tucidide — con le famiglie del contado) venissero direttamente coinvolti nelle vicende belliche che si stavano preparando, in conseguenza delle rivalità esistenti fra la lega delio-attica e la lega peloponnesiaca (originate, soprattutto, dalla prepotenza ateniese e dalle smanie egemoniche dello stesso Pericle). Tucidide riferisce che gli ateniesi non si trasferirono tanto volentieri dentro le mura. Provavano dolore e malcontento nell’abbandonare le case e i santuari che da sempre erano stati i loro beni aviti. Si apprestavano a cambiare sistema di vita e ognuno di essi — sottolinea Tucidide — lasciava né più né meno che la propria città. Quando essi giunsero ad Atene, solo pochi vi possedevano case o un rifugio presso parenti o amici. I più si stabilirono nelle parti della città
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non ancora edificate e nei santuari degli dei e degli eroi, tranne l’acropoli, l’Eleusinio e gli altri luoghi rigorosamente vietati. Fu completamente adibito ad abitazione il cosiddetto Pelargico, alle falde dell’acropoli. Parecchi si adattarono perfino sulle torri delle mura, ma, poiché la città non poteva contenere tutta la popolazione che vi era stata raccolta, in seguito furono occupate anche le Mura Lunghe, a lotti, e gran patte del Pireo. Perciò, almeno fino al 431, la realtà urbanistica ateniese è da consi-
derare abbastanza dispersa e frammentata, anche se politicamente unitaria. Già questo contrasta quindi con quanto la Choay riporta. Quanto poi alla struttura interna della città, anche qui non c’è assolutamente nessun elemento che confermi la corrispondenza fra assetto politico e forma urbanistica. Secondo la Choay, che riprende questi concetti da J. P. Vernant (Mythes et pensées, pp. 161-169), l’agorà sarebbe « la piazza santificata, il centro, il maggior elemento che dà senso e in connessione con la quale un nuovo tipo di organizzazione viene data agli elementi minori, le case, che sono da allora in poi identiche e cariche di un identico significato semantico. Questa struttura del sistema della città è la stessa del sistema politico, cioè l’isonomia (l’eguaglianza giuridico-politica dei cittadini) pPIr29),
ed è riferita
e condiziona
il suo
funzionamento » (Mearing,
Ma l’organizzazione dello spazio nella città greca, secondo la Choay,
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137. Atene, le Lunghe Mura, il Pireo, il Falero.
È
252
non ha riferimento soltanto con il costume politico, né soltanto con i situali religiosi, ma anche con il modello della conoscenza, con l’esperienza matematica che aveva allora elaborato i concetti di eguaglianza, di simmetria, di reversibilità,
e con la cosmologia,
derivata dalla filosofia ionica.
In sostanza, la Choay vede in tutto questo una completa omologia strutturale. Senonché la storia delle città greche (la storia vera, non quella sognata dai semiologi e dagli strutturalisti o forzosamente incastrata dentro i loro schemi) sembra andare in tutt’altra direzione. Il quadro politico e urbanistico che Tucidide traccia a proposito di Atene è sommario ma molto preciso. L’isonomia, se realmente essa è mai esistita come modello strutturale, è esistita al tempo di Cecrope, quando ogni villaggio aveva di fatto (anche se apparentemente non di diritto) la sua autonomia e poteva di conseguenza autogestirsi, sia politicamente che economicamente.
Si può scommettere che, in quel periodo, anche le case degli abitanti dell’Attica fossero realmente « identiche e cariche di un identico signifi-
cato semantico », visto che non esistevano gerarchie di fatto fra coloro che le abitavano. Teseo compì la prima opera di accentramento politico, che fu un atto di potere all’interno e di potenza all’esterno. Il sinecismo fu in effetti la prima tappa sia del rafforzamento politico degli organi centrali sia dell’espansione dell’influenza ateniese al di fuori dei confini dell’Attica. Questo processo, per la sua stessa natura, non poteva che creare squilibri, essendo volto perennemente a nuove conquiste e a nuove operazioni di potere, culminate appunto nella guerra del Peloponneso e nella tirannide di fatto (anche se non di diritto) di Pericle.
Se verifichiamo queste vicende in concreto nel tessuto urbanistico di Atene noi troviamo delle conferme, e non delle smentite. Intanto c’è da
138. Atene: la parte centrale della città. |
139. Atene: ALE
pianta della città nel V secolo
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chiedersi su quali basi la Choay e il Vernant poggino la loro convinzione che esistesse una isonomia spaziale accanto all’isonomia giuridica. È vero che le colonie greche del Mediterraneo avevano un impianto regolare e ordinato, basato sul principio della ortogonalità delle strade e sulla suddivisione in lotti degli isolati, che rendeva equivalenti le varie parti della città e quindi poteva suggerire l’idea di una « isonomia » urbanistica. Ma per le città madri dell’Ellade la cosa era diversa. Per quanto se ne sa, la loro struttura era alquanto caotica e confusa, le vie erano strette, le fogne a cielo aperto, le case umili, i contrasti sociali evidenti.
« Conosciamo dalle fonti — scrive Antonio Giuliano, occupandosi di Atene — quartieri di abitazione lungo ’’Ilisso, tra l’Areopago e la Pnice, nel Ceramico,
tra l’Areopago
e il Kolonos
Agoraios;
essi erano
collegati da vie che si modellavano sulla realtà topografica del luogo. « Purtroppo dei quartieri più antichi della città — prosegue il Giuliano — ben pochi sono stati esplorati; due di essi sono più comprensibili, come pianta: quello di Limnai, tra l’Areopago, la Pnice e la collina delle Ninfe; l’altro, industriale, sui fianchi ovest e nord dell’ Areopago. « Caratteristico il quartiere industriale dell’Areopago dove una via segue la sinuosità del terreno e presenta, al centro, un canale di scarico, scoperto, destinato alla eliminazione delle acque; le case presentano facciate non allineate, frequenti sono i vicoli chiusi e le piazzette. La larghezza delle strade, che raggiungono i quattro metri, presenta continue varianti a causa del mancato allineamento delle fronti delle case, costruite di pietra nei soli filari inferiori (a protezione dall’umidità del suolo), e di fango nell’alzato. « Non esiste il concetto di spazio pubblico. Progressivamente però si impone la necessità di un’area che debba essere sfruttata per pubblica utilità e si arriva alla sempre maggiore importanza dell’agorà. Ai piedi dell’acropoli (considerata santuario e fortezza), nel punto di passaggio e di incontro di vari quartieri, fornita di acque nelle vicinanze, l’area, a contatto con quartieri socialmente eterogenei, è destinata per la sua stessa natura topografica a essere il centro ideale di Atene » (Urbanistica delle città greche, 1966, pp. 72-75).
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140. Atene: quartiere industriale presso l’Areopago.
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234
Dunque l’agorà e l’acropoli sembrano costituire effettivamente elementi di ordine nella città. Ma di quale ordine? Non sembra che si tratti di ordine urbanistico, se è vero, come sostiene
il Giuliano, che « ad Atene, dopo la distruzione persiana del 480, al momento della ricostruzione, i motivi tradizionali ebbero il sopravvento e il tessuto urbano riprese quell’aspetto disordinato che sarà caratteristico in tutta la vita della città » (p. 78). D'altra parte, si dovrà spiegare proprio ai semiologi che l’emergenza qualitativa di alcuni elementi architettonici, come appunto i templi dell’acropoli e gli edifici « pubblici » dell’agorà, è segno evidente del prevalere di una classe (in questo caso la classe mercantile) e quindi della fine di fatto della democrazia? E possiamo dimenticare che Aristotele, nella Politica, classificherà come
« tirannica »
la città con acropoli? Tra Teseo e Pericle, lungo la strada dell’accentramento del potere e della concentrazione della ricchezza in poche mani, c’è una serie coerente e conseguente di passaggi, dei quali il periodo che sta a cavallo fra il VI e il V secolo è uno di quelli determinanti. In questo quadro la costituzione di Clistene resta un atto formale, che concede al popolo dei poteri solo nominali e serve a coprire la realtà di fatto, cioè il passaggio delle leve di comando
nelle mani di coloro che controllano
la ricchezza,
i quali sono poi anche gli stessi che vedono i rapporti sociali solo in termini di egemonia personale e alimentano a questo fine le rivalità e le contese nell’Egeo, camuffando poi di gloria patria le guerre feroci che ne conseguono. Si chiede, la Choay, chi ha voluto gli splendidi opifici dell’Acropoli, che proprio nell’età di Clistene si comincia a costruire, e che cosa questi opifici rappresentano? Sarà verosimile che a volere questi costosissimi signacoli del potere, o comunque a provocarne la costruzione, siano stati gli abitatori delle case di fango? Si potrebbe dire per assurdo (ma non tanto per assurdo) che la situazione spartana era strutturalmente assai più omogenea di quella ateniese, a dispetto della rigida divisione in classi degli abitanti della città. È vero infatti che vi era una netta distinzione di compiti e di poteri fra spartiati, perieci e iloti, e che questi ultimi vengono di solito paragonati agli schiavi perché teoricamente privi anche della loro libertà personale. Però è vero anche che mancava, in Sparta, lo strumento
reale del potere, cioè la pro-
prietà individuale. La classe degli spartiati, che costituiva la classe politica dirigente e il nerbo dell’esercito, era anche quella per la quale era più rigida la disposizione di non esercitare un mestiere e di non possedere ricchezze. La classe dei perieci, che invece aveva il diritto-dovere di praticare i mestieri e il commercio, non poteva accedere alle cariche politiche, mentre la classe degli iloti, considerata la più infima perché destinata a coltivare la terra, non indossava le armi in battaglia. Si trattava quindi, nella sostanza, di una suddivisione di compiti, nell'ambito della quale ognuno conosceva senza possibilità di equivoco la propria destinazione personale. Ma neppure la classe che deteneva il potere politico e le
225
responsabilità militari aveva la possibilità teorica (e, stando ai fatti, anche pratica) di valicare i confini giuridici che la costituzione le aveva assegnato. La volontà di primeggiare era del resto così lontana dalla mentalità degli spartiati che essi, nonostante si allenassero continuamente alle pratiche belliche, deliberatamente non partecipavano alle Olimpiadi. A differenza di Atene, che cinse di mura se stessa, il Pireo e il lungo corridoio che collegava la città al porto, Sparta non aveva mura di cinta. Le case di Sparta erano sparse per la campagna, presso a poco come quelle di Atene prima del 431, e non vi erano edifici di rilievo. Così, mentre di Atene restarono e si conservano tutt'oggi le testimonianze dello splendore e della potenza, di Sparta non si è conservato nulla, e la cosa più impressionante è che Tucidide, descrivendo la struttura di questa città e valutando l’assenza di elementi in essa emergenti, lo aveva previsto. Non per caso si dice che Sparta fu sconfitta dalle sue vittorie. Infatti, trovandosi a rivaleggiare con Atene nelle guerre del Peloponneso e riuscendo ad appropriarsi di parte delle ricchezze di questa, Sparta vide sorgere al suo interno prima in embrione e poi in maniera consistente la proprietà individuale. Era quanto bastava per incrinare la sua struttura politica. Da allora in poi la sua decadenza fu progressiva. C'è dunque materia abbondante per concludere che è assai vacuo istituire postulati di omogeneità strutturale senza avere almeno un poco approfondito il significato storico-politico delle strutture che si vogliono prendere in considerazione.
A coloro
che si soffermano
sulla facciata
delle cose,
cioè sul sistema dei segni, può infatti capitare un singolare infortunio: quello di restare ingannati dagli stessi strumenti di parata messi in opera dalle classi dominanti per imbrogliare le classi soggette. Quanto poi all’accordo esistente fra la dottrina giuridica dell’isonomia e le teorie scientifiche la cosa non può sorprendere, facendo parte i teorici della classe dominante e non delle classi soggette. In questo caso, però, la Choay deve mettersi d’accordo con se stessa. Infatti, poco dopo aver fatto rilevare questo esattissimo particolare, essa afferma, come già si è visto, che presso i greci non sarebbe esistito il concetto astratto di spazio,
il quale non avrebbe in greco una parola corrispondente, mentre vi esisterebbe soltanto il concetto concreto di « topos » (« luogo »). Affermare che non esisteva il concetto astratto di spazio nella terra di Pitagora e di Euclide sembra in effetti un po’ audace. A parte che in greco esiste il termine « cosmos », il quale sta a indicare appunto
lo spazio ordinato e non per caso l’ordine universale, e che gli stessi semiologi dovrebbero rinunciare alla loro sintassi e ai loro sintagmi se non esistesse in greco il verbo « tassein » col significato di «mettere a posto » o « ordinare » (anche in senso astratto), riuscirebbe comunque
molto difficile capire come un sistema matematico come quello euclideo possa essere stato intuito e poi costruito fino a raggiungere i risultati che tutti conosciamo senza partire da una concezione astratta dello spazio. Anzi, tale concezione doveva essere anche troppo radicata, se Zenone si
236
indusse a farne la critica con i suoi famosi paradossi di Achille che non riesce a superare la tartaruga o della freccia che non raggiunge mai il bersaglio. Un legame concretamente documentabile tra teorie geometriche e struttura politico-urbanistica esiste, presso i greci, ma non al tempo di Clistene,
bensì quasi un secolo dopo, nelle idee di Ippodamo di Mileto, il quale immaginò una città di diecimila abitanti divisa in tre classi (artigiani, agricoltori, armati), secondo un modello molto simile alla costituzione
spartana. Triadico, secondo le teorie di Ippodamo, doveva essere anche il sistema di divisione del territorio: una parte di esso avrebbe dovuto essere consacrata agli dei e da questa si sarebbero dovute trarre le spese per il culto; una seconda parte, pubblica, doveva servire a fornire i mezzi
di sussistenza per i guerrieri; una terza parte, destinata alla proprietà individuale, avrebbe dovuto appartenere agli agricoltori. Triadico era inoltre il sistema delle leggi, basato su tre tipi di reato: l’ingiuria, il danno, l'omicidio. I magistrati, secondo Ippodamo, avrebbero dovuto essere tutti di elezione popolare. A questo tipo di dottrina politica corrisponde anche un criterio regolare di suddivisione
della città, che di solito
viene
identificato
con
la
griglia ortogonale. A _Ippodamo vengono appunto attribuiti schemi urbanistici di questo tipo, come il piano del Pireo, la colonia panellenica di Thurii e il piano di Rodi, sia pure con parecchie riserve. E in verità, nonostante l’attendibilità di Aristotele, che è la principale fonte da cui possiamo ricavare notizie sulle teorie ippodamee, come un sistema sociale triadico potesse accordarsi con la griglia ortogonale non è chiaro. Ma il vero problema è un altro. Le colonie greche già nell’VIII secolo avevano pressoché tutte un piano a griglia. Questa griglia aveva origini presumibilmente agrimensorie, dettate dalla necessità o dalla volontà di privatizzare il suolo suddividendolo in lotti e assegnandolo ai singoli coloni. Non è quindi il caso di collegare il problema dell’ortogonalità delle città greche all’isonomia di Clistene o alle stesse teorie ippodamee, perché, come minimo, si rischia di restare nel vago e nel generico. Per la cosiddetta urbanistica ippodamea (cioè per quelle città a planimetria ortogonale che nascono o vengono ricostruite a partire dal IV secolo), così come
per le teorie
aristoteliche
sulla costituzione
politica della città, così come per gli stessi edifici di prestigio che sempre più emergono e si qualificano nei centri urbani, si potrà invece parlare con maggiore ragione di « commento » o di «logos » o di « metalinguaggio », esattamente come di commento, logos o metalinguaggio la Choay parla per le vicende delle città durante i due ultimi secoli. La Choay, come si è visto, pur considerando « astorico » il villaggio Bororo e « storiche » le città greche e medievali, accosta i due fenomeni
in un’unica dimensione di giudizio e li distingue dall’epoca attuale. Ma la scelta di questi due periodi « storici » è veramente infelice, poiché, se è vero che relativamente all’era tecnologica la velocità, o meglio, l’accelerazione degli eventi vi può apparire contenuta, si tratta tuttavia di due
254
periodi estremamente densi di trasformazioni sociali ed urbanistiche e, per molti aspetti, certamente meglio confrontabili con l'epoca attuale che non con la vita e i costumi dei Bororo. Invece, proprio il problema del metalinguaggio che si introduce nel sistema urbano merita di essere proiettato storicamente oltre i limiti della rivoluzione industriale, non tanto per sterile gusto storiografico, quanto per rendere politicamente contemporanee altre situazioni storiche in cui questo medesimo problema si è presentato in termini confrontabili con quelli attuali. La Choay torna sulla questione e precisa meglio il suo punto di vista in Remarques à propos de sémiologie urbaine (in « L’architecture d’aujourd’hui », n. 153), riprendendo alcuni esempi storici, sia pure molto generalizzati, e distinguendo fra lo spazio medievale e lo spazio « classico » o rinascimentale. Secondo la Choay il primo sistema, cioè quello dello spazio medievale, è generale e concerne sia la società nella sua globalità sia l’individuo attraverso la totalità delle sue facoltà percettive e delle sue attività. Il secondo sistema, al contrario, è « ristretto », poiché interessa solo una classe particolare, dominante e minoritaria, e si basa essen-
zialmente sulla percezione visuale. Più precisamente, il sistema
« classico » (ossia rinascimentale)
secondo la Choay,
è « iconico », il suo
modo
di significare è analogo a quello di un quadro e, parallelamente, è per la prima volta opera di un « artista ». Le piazze programmate, vie e prospettive di questo spazio teatrale a dominante metaforica (opposto allo spazio medievale
di contatto,
a dominante
metonimica)
sono
anch’essi
quadri dell’epoca. L’opposizione dei due sistemi, a parere della Choay, può essere ripresa in termini di comunicazione e d’informazione. Nel primo caso il messaggio
è decifrabile da tutti, nella sua interezza. Dal punto di vista della teoria della comunicazione il suo grado di significazione è ottimale. Il suo coefficiente d’improbabilità tende a zero nella misura in cui il sistema è stabile (statico) e la libertà dei « locutori » (abitanti)
è mantenuta
in
rapporto ai limiti che il codice s'impone. Importante è dunque la ridondanza dell’informazione, supporto della pratica sociale, « che prescrive iscrivendosi sul suolo ». Nel secondo caso, invece, in conseguenza della natura del codice iconico e del ruolo assegnato all’individuo, l’improbabilità dell’organizzazione cresce. La comunicazione perde la sua trasparenza ma la quantità d’informazione aumenta, benché essa si riferisca a un ambito meno vasto.
Un inizio di metalinguaggio appare appunto, secondo la Choay, fin da quando il sistema urbano diventa iconico, ossia fin da quando esso si estetizza. Ma la compatsa dei discorsi « sulla » città si avrebbe tuttavia
con il nuovo taglio che consegue alla rivoluzione industriale, a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il discorso « sulla » città sostituisce il discorso « della » città: questo è il significato fondamentale che la Choay attribuisce al termine « metalinguaggio », applicandolo alla tematica urbanistica (cfr. Remzarques, p. 9).
238
Se tale dunque è il problema (e in effetti si tratta del problema di fondo dell’urbanistica contemporanea) esso può apparire nuovo o relati vamente recente solo se lo consideriamo attraverso le lenti polarizzanti della semiologia, ma in termini socio-politici esso si è già proposto innumerevoli volte nella storia dell’umanità. Esso si è proposto cioè tutte le volte in cui si è avuta una forte concentrazione di potere in poche mani, accompagnata immancabilmente dalla concentrazione della cultura, della scienza, dell’arte nella prerogativa di pochi, per quanto sommi. In questo senso la rivoluzione industriale non ha aggiunto altro che un’accentuazione, per quanto macroscopica, del fenomeno, senza però mutare la qualità e la sostanza del problema. Del resto la stessa Choay, introducendo la tematica dello spazio rinascimentale, che è spazio d’autore, avvia il discorso su questa strada. La tematica delle città ideali, considerevolissima da Leon Battista Alberti
in poi, non è forse l’avvio di un metalinguaggio urbano? Gli inserti architettonici che cambiano
il volto a Firenze, l’inserto urbanistico che tra-
sforma Corsignano in Pienza, il piano rossettiano che duplica Ferrara nell’Addizione Erculea non sono forse un discorso « sulla » città che sostituisce
il discorso
« della » città?
E chi, in definitiva,
e in quale
modo, e per quali motivi ha deferito agli architetti la prerogativa di trattare e di programmare gli interventi urbanistici? E per quali ragioni alla classe politica dominante sono graditi interventi architettonici o urbanistici nati nella mente di gente educata alla vita delle forme, e non al problema della vita in senso globale? Se ben si guarda, le difficoltà di interpretazione storica, su questa via, sorgono soltanto se si cerca di tenere distinti i due momenti (cioè il momento politico e il momento tecnico-culturale), cercando nell’uno le ragioni o le spiegazioni dell’altro. In realtà, l’unica maniera per penetrare senza distrazioni possibili il problema, sia in fase di esegesi storica che in fase di prassi politica, è quella di tenere uniti questi due momenti, avendo presente che essi sono non tanto complementari, quanto concorrenti allo stesso fine. La cultura tradizionale ama farsi rappresentare dalle grandi personalità della storia (politiche,
scientifiche,
artistiche),
sottolineandone
il valore
dell’azione e della produzione, così come in epoca più recente è diventata cosa comune l’esaltazione dei grandi passi che la tecnologia compie con un'accelerazione progressiva. Nell’un caso e nell’altro resta ai margini del discorso la questione del distacco che si crea tra i pochi che si distinguono (e che in tal modo si rendono non solo protagonisti ma anche egemoni) e il popolo, che fa massa come strumento ricettivo dell’azione e dell’attività di quei pochi. Quando ciò si verifica, è normale che anche il discorso « della » città, che per sua natura è un discorso di popolo, si trasformi in un discotso « sulla » città, cioè in un discorso a comando,
controllato dai gruppi di decisione. In questo senso, Ippodamo di Mileto non è distinguibile da Le Corbusier, né la Carta di Atene dall’isonomia di Clistene, né i piani rego-
259
latori comunali dalla castrametatio romana, né il Colosseo dall’apparato olimpico di Monaco di Baviera, se non per la diversità delle contingenze storiche in cui i vari fenomeni hanno preso forma. Ma in tutti questi casi l’alternativa,
univoca,
è la rivoluzione
culturale,
cioè la restituzione
al
popolo dell’intero potere di iniziativa, anche a livello di creatività tecnica,
scientifica, artistica, e anzi soprattutto a questo livello. Appunto in questa direzione il riesame di molti fatti in chiave economico-politica vale a smascherare l’inganno, storicamente permanente, di apparati, giurisprudenziali o di altro tipo, teoricamente democratici come l’isonomia di Clistene, ma di fatto attuati a copertura del trasferimento del potere effettivo nelle mani di un’oligarchia o di un’aristocrazia o addirittura di un’egoarchia. D'altra parte, anche senza travalicare i termini semiologici della questione, dovrebbe essere chiaro che un messaggio o un sistema di segni sono tanto più comprensibili a tutti quanto più tutti hanno contribuito a elaborarli o a codificarli. Il problema urbano è un test notevolmente significativo, da questo punto di vista. La Choay, segnalando l’importanza della questione, attribuisce gli scompensi sociali della città post-industriale alla sua desemantizzazione. Ma è sufficiente una risposta semiologica, o soltanto semiologica, a questo tipo di problema? « Il fatto — scrive appunto la Choay — che la città-strumento del XIX secolo sia oggetto di appropriazione da parte di una classe che se n'è servita per il suo interesse e per il dominio e lo sfruttamento dell’altra classe è, per uno slittamento logico, interpretato come una condanna radicale della città-oggetto. Lo scandalo non risiede nel nuovo statuto semantico della città, ma in questo tipo di appropriazione. È ugualmente scandaloso che una parte della popolazione urbana resti fissata a uno spazio qualitativo — reale o nostalgico — anacronistico in ogni caso, per frustrazione economica o epistemologica (che è la stessa cosa). Così la necessaria collettivizzazione dei suoi urbani non implica con ciò stesso
una risemantizzazione dello spazio urbano. « Città e democrazia, prassi urbana e prassi politica hanno coinciso quando la città funzionava come sistema semiologico. La politica non può essere la dimensione o piuttosto il problema maggiore della città quando lo spazio urbano è diventato uno strumento sempre più astratto. Qualunque sia il loro regime politico, l'insieme delle società industriali è oggi raffrontato con la denaturalizzazione dello spazio e con una desemantizzazione la quale, benché richiamata dallo sviluppo delle scienze e delle tecniche, fa problema » (Remarques, p. 10). Ma se questo è il problema, cioè il distacco che si è creato tra città e democrazia, tra prassi urbana e prassi politica (però, a dire il vero, i due tipi di rapporto dovrebbero essere tenuti distinti), qual’è la risposta che ad esso si può dare? Secondo la Choay esso « può essere chiarito se si considera che l’uomo delle società industriali è preso simultaneamente in due sistemi di temporalità. Da una parte una cronìa rapida, leggera, cronìa della nostra storia
240
accelerata che vede succedersi le mutazioni delle nostre istituzioni, ridurre
l'influenza dello spazio grazie allo sviluppo delle comunicazioni e delle telecomunicazioni. Dall’altra parte sussiste una cronìa lenta, pesante, implicante tutt’altri tagli: cronìa che sfida l’azione dei mass-media e che i comportamenti neoarcaici rivendicano. E nell’esplorazione della quale gli storici si appoggiano alla linguistica e all’antropologia strutturale, alla psicanalisi » (p. 10). Dalla individuazione di tale dualismo la Choay fa derivare la sua proposta e sostiene pertanto che, « utilizzando questa distinzione, l’approccio semiologico del problema urbano potrebbe contribuire a una pratica nuova dello spazio, esplorando due direzioni, definendo due compiti: a) costituzione di uno spazio accordato con la cronìa rapida, integrata nella stessa configurazione delle nostre culture pratiche di punta: spazio che non
sia più lo strumento
di circolazione
sorpassato,
eredità
del XIX secolo, ma lo strumento di connessione che l'insieme delle nostre
reti di comunicazione reclama. Sistema dunque di trasmissione il cui senso proprio non è intelligibile che come elemento di un insieme auto-
nomo. (Questo punto di vista permette egualmente di mettere in discussione il significato attuale del termine città. Esso deve altresì essere completato con un’analisi della dialettica città-campagna); b) costituzione di uno spazio corrispondente a strati di comportamento più arcaici, a configurazioni segrete che persistono sotto la super-
ficie leggera e mutevole delle configurazioni squillanti della cultura. «A questo livello — conclude la Choay — risorge la semiologia. Certe soglie di denaturalizzazione non sembrano, in effetti, ancora affran-
cabili e, in particolare, il distacco dallo spazio simbolico. L’apprendistato della nostra condizione di persone sociali continua apparentemente a dover passare attraverso sistemi significanti i cui segni si spiegano nelle tre dimensioni » (p. 10).
Ma proprio prendendo atto della irreversibilità di questo processo e istituzionalizzando di conseguenza tale dualismo sarà possibile risolvere il problema urbano, anche così come lo delinea la Choay? Secondo la Choay, la domanda che alla fine ci si deve porre è quella della concezione di questi due sistemi, e soprattutto della loro modalità d’instaurazione. Come sottrarli — si chiede la Choay — alla dittatura dei gruppi di decisione e all’illusione dei metalinguaggi? E come, per cura di questa pratica locale, collocare l'autonomia individuale
o—
meta-
foricamente — sistemare la possibilità di una parole? Ma è una domanda alla quale la Choay non dà una risposta, in queste note di semiologia urbana. Ed è forse una domanda che non può avere una risposta, perché l’unico modo di rispondere è quello di contestare la premessa. Se fosse vero, cioè storicamente dimostrabile, che la desemantizzazione dello spazio urbano e quindi la scissione della coincidenza fra prassi urbana e prassi politica sono caratteristiche peculiari delle città postindustriali, e che conseguentemente richiedono di essere affrontate con
241
mezzi altrettanto peculiari e specifici, allora la Choay potrebbe sperare di trovare una risposta alla sua domanda assecondando entrambe le cronie (rapida
e lenta)
e cercando
all’interno
di esse
la contemperazione
fra
due tipi di spazio accordati con entrambe. Ma purtroppo è assai improbabile che un tentativo del genere possa riuscire, poiché proprio tale dicronia, ossia proprio l’accelerazione spinta deliberatamente al parossismo della nostra storia quotidiana e individuale, fa parte integrante del disegno autoritario che, come la Choay ricorda, vede una classe dominare e sfruttare l’altra. Anzi, proprio questo dualismo è di fatto il principale strumento di attuazione di tale disegno politico; lo è oggi come lo è stato sempre nel passato, del resto, quando una classe si è imposta su un’altra con intenti di egemonia e di sfruttamento sociale ed economico. Mantenere le due cronie significa riconoscere ad alcuni, cioè ai gruppi decisionali, il diritto di spingere al massimo l'acceleratore degli eventi e agli altri, ossia alle masse, destinare il compito di una continua Il dualismo fra le due cronie proposto dalla Choay non natura. Esso è un artificio politico, messo sistematicamente in distanziare e quindi sottomettere una classe di persone che si
rincorsa. esiste in atto per trova (0 viene messa) nella condizione di non reggere il passo dell’altra. Teorizzato, esso diventa una distorsione logica, che va a tutto vantaggio della conferma del potere nelle mani dei gruppi di decisione che gestiscono la cronia rapida, e in danno di chi si trova preso nella cronia lenta. Questo è forse l’aspetto più pericoloso degli studi semiologici, in quanto basati su esperienze di antropologia strutturale che, in se stesse, hanno una loro validità metodologica ma, proiettate nel sistema politico vigente, valgono soprattutto a sostenerlo, con l’aggravante di un’apparente contestazione mossa nei confronti di esso. E tuttavia forse riprendendo il problema proprio dagli inizi, cioè dai termini bio-antropologici della questione, si può arrivare a chiarire il pericoloso equivoco in cui incorre un discorso semiologico tendenzialmente astorico o comunque non fondatamente storico. Si sa che i gruppi antropologicamente più omogenei sono anche quelli socialmente più stabili. Ciò dipende anche da precise ragioni genetiche. Teoricamente dall’unione di un uomo e di una donna potrebbe nascere un
individuo con caratteri assolutamente diversi dal padre e dalla madre. Infatti le possibilità di permutazione dei 46 cromosomi, portatori del messaggio genetico, sono praticamente illimitate (siamo nell’ordine di alcune migliaia di miliardi di miliardi). Però, nella realtà, le cose vanno diversamente, poiché il codice genetico tende a stabilizzarsi, dando appunto luogo al fenomeno della ereditarietà. La stabilizzazione del codice genetico è ovviamente più forte in quei gruppi che non hanno contatti riproduttivi ‘con altri gruppi, o ne hanno di molto limitati. È il caso, per riprendere un esempio già ricordato, dei Bororo studiati da LéviStrauss. In questi gruppi, che poi sono in realtà grossi nuclei familiari, la petsistenza dei caratteri somatici è molto sensibile. Ma la stabilizzazione
16.
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del codice genetico tende a realizzarsi non solo per i caratteri somatici, bensì in assoluto, cioè con riguardo anche ai caratteri intellettivi, e
quindi alle modalità di reazione e di giudizio di fronte a determinati fatti. Ciò significa che, presso questi gruppi, la stabilità dell’assetto sociale è mantenuta non solo dalla scelta di un comune modo di vivere, di solito rapportato a fattori ambientali persistenti, ma anche dalla omogeneità culturale, geneticamente determinata, dei componenti di uno stesso gruppo. Anche in questo campo, infatti, interviene la memoria genetica, che è una specie di archivio individuale dei comportamenti istintivi. Tuttavia questo principio ammette delle eccezioni consistenti. La stessa teoria evoluzionistica si basa sull’ipotesi di « errori » della natura, commessi nella trasmissione del messaggio genetico, che poi avrebbero originato le nuove specie animali e le avrebbero moltiplicate, in rapporto alle possibilità effettive di adattamento e quindi di sopravvivenza di ogni essere nato in modo originariamente improprio. Ciò è vero, a maggior ragione, in campo antropologico. Non esiste gruppo omogeneo o famiglia, per quanto di antichissima origine e per quanto costante sia stato il suo isolamento, che non conosca una forma di dialettica interna, equilibrata appunto dai costumi sociali costruiti nel tempo. In ogni caso, i rapporti fra individuo e individuo o fra individuo e ambiente, anche all’interno di questi gruppi omogenei, sono da considerare dinamici, e non statici.
Quando si ha la mescolanza dei gruppi e quindi l’unione fra individui non affini, la stabilità del codice genetico tende ad affievolirsi. Si differenziano quindi anche i caratteri intellettivi e aumentano di conseguenza le possibilità di incomprensione, sia pure a livello « naturale », fra i componenti
di una stessa comunità.
Il fenomeno
si accentua
quando ai
fattori genetici si aggiungono fattori di trasformazione ambientale. È ovvio che il luogo comune dello sviluppo dei traffici come fattore di maggiore comprensione fra i popoli è, appunto, solo un luogo comune. Man mano che le affinità genetiche si affievoliscono, che si attenua l’affiatamento con l’ambiente, che si disperdono i gruppi sociali omogenei, diminuiscono le capacità naturali di mutua conoscenza e di omologo comportamento fra individuo e individuo. Subentra così la necessità di creare nuove strutture, che possiamo genericamente definire politiche, in sostituzione dei vincoli naturali gradatamente perduti. Sarebbe assurdo rinnegare questo processo, che è alla base della storia dell’umanità, per rifugiarsi nel sogno antropologico di comunità rette da soli vincoli naturali. È impossibile però ricavare dalle ricerche antropologiche la convinzione che esistano e siano effettivamente distinguibili due temporalità, di cui una, tendenzialmente statica, caratteristica di gruppi naturalmente omogenei, e l’altra, dinamica, propria dei comportamenti dell’uomo post-industriale. È vero invece che l’accelerazione della storia dell'umanità, sia pure considerata entro questo schema, è continua e graduale, e inizia, se vogliamo, proprio dalla storia genetica dell’uomo. Ma
esistono periodi nei quali al moto
uniforme
o uniformemente
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accelerato degli eventi vengono applicati violenti e improvvisi impulsi. Sono questi i periodi in cui le masse rimangono sistematicamente addietro e pochi individui, o gli esponenti di una sola classe, che costituiscono in quel momento il motore della storia, si rendono egemoni. Appunto in questi periodi i vincoli e gli strumenti naturali della comprensione entrano sistematicamente in crisi, e con essi anche le strutture politiche che li avevano man mano integrati. Entrano in crisi anche gli strumenti ordinari
della comprensione, ossia gli elementi semantici. si ha perciò una desemantizzazione della città.
A livello urbanistico
Questa desemantizzazione è dunque un sintomo del male, non il male. Essa si può verificare solo in quanto i contenuti semantici della
città siano patrimonio esclusivo della classe dominante e vengano imposti alla classe dei fruitori della città da ben determinati gruppi di decisione. A questo livello, mentre può effettivamente verificarsi una frattura fra città e democrazia, non c’è nessuna frattura fra prassi politica e prassi urbana. Se noi cerchiamo nelle città post-industriali i segni della concentrazione capitalistica, della speculazione edilizia, del consumismo, dell’oligopolio culturale, del gap tecnologico, possiamo trovarceli tutti, e chiaramente affermati. Questi segni, che sono quelli politicamente prevalenti, appartengono alla cronia rapida di cui parla la Choay. Mantenere il dualismo delle cronie significa perciò confermare nei fatti il diritto della classe egemone a determinare il linguaggio della città e quindi a stabilizzare la condizione delle masse come destinatarie del messaggio urbano e come fruitrici di esso. È chiaro che, nell’ambito di tale dualismo, il discorso
sull’autonomia
individuale o sulla possibilità di una « parole » è pura
velleità, se non puro inganno.
Facciamo la controprova. Roland Barthes non ha le stesse preoccupazioni di ordine politico che troviamo invece frequentemente nei testi della Choay e conseguentemente non avverte neppure, a quanto sembra di capire, l’esistenza del dualismo, e quindi del problema che la Choay propone. Tuttavia la sua analisi non può essere definita imparziale in senso politico, anche se il suo angolo visuale è monodimensionale anziché bidimensionale. Infatti il Barthes, pur mescolando tutto in un’unica forma di approccio semiologico, finisce inevitabilmente per dare un giudizio che ha il suo peso politico, anche se a fortiori. Il Barthes, per esempio, si richiama per tre volte ad alcuni aspetti di Tokyo e abbozza su di essi un’embrionale analisi semiologica, mostrando quali ne potrebbero essere le direttive, se applicate appunto su larga scala alla capitale giapponese. La prima volta il Barthes si serve di Tokyo per mostrare quale importanza possa assumere, nell’analisi di una città, «il significato vuoto, il posto vuoto ». 106. che per il Barthes è uno dei complessi urbani più avvincenti che si possano immaginare dal punto di vista semantico, « ha effettivamente una specie di centro, ma questo centro, occupato dal palazzo imperiale, a sua volta cinto con un profondo fossato e nascosto nel verde, è vissuto come un centro vuoto ».
244 La seconda volta, sempre nella sua conferenza napoletana del 1967, il Barthes citava Tokyo per mostrare che, « quando si vorrà fare la semiotica della città, bisognerà spingere molto avanti, probabilmente, e con una
minuzia
immensa,
la divisione
significante ».
Infatti, per esempio,
«a Tokyo alcune parti di uno stesso quartiere sono, dal punto di vista funzionale, molto omogenee: praticamente uno vi trova soltanto bar, o tavole calde, o locali per il divertimento. Orbene — ne ricava il Barthes — sarà necessario andare oltre questo primo aspetto e non limitare la descrizione semantica della città a queste unità; sarà necessario cercare di individuare le micro-strutture, nello stesso modo in cui si possono isolare piccoli frammenti di frase in un lungo periodo; occorre dunque prendere l’abitudine di condurre un’analisi molto fine, che si estende fino alle microstrutture, e inversamente abituarsi ad un’analisi molto larga, che andrà
veramente fino alle macro-strutture. Sappiamo tutti che Tokyo è una città polinucleata: possiede parecchi nuclei intorno a cinque o sei centri; bisogna imparare a differenziare semanticamente questi centri, che sono segnalati del resto da stazioni ferroviarie ». Infine il Barthes assume come esemplificazione dell’aspetto erotico della città proprio le stazioni ferroviarie di Tokyo. « Le grandi stazioni — argomenta il Barthes — che sono i punti di riferimento dei principali quartieri, sono anche grandi negozi. È certo che la stazione giapponese, la stazione negozio, ha fondamentalmente un unico senso, e questo senso è erotico:
compera o incontro » (in « Op. cit. », n. 10, pp. 13-16).
Ma è proprio sulla strada indicata dal Barthes che si riuscirà a cogliere la realtà urbanistica di Tokyo? O non si coglierà soltanto una sola realtà, cioè quella della dimensione « rapida » della città, con il rischio di presentarla come realtà urbanistica tout court? Effettivamente Tokyo è un enorme campo d’indagine per un semiologo. Però proprio il Barthes finisce per dimostrare, sia pure senza volere, quanto possa diventare equivoco un approccio semiologico di questa città rispetto ai veri problemi che essa contiene. Per esempio, la prima immagine che si ha di Tokyo è quella di una città a fotti contrasti, dove il progresso tecnologico più avanzato non ha avuto ancora ragione della tenacia delle tradizioni,
e dove anzi l’una cosa e l’altra sembrano
avere
trovato una
inusitata forma di convivenza. E ciò, benché in buona parte corrisponda all'immagine stereotipa che il Giappone ama costruirsi addosso, è anche per molti aspetti vero. Ma a quale prezzo questa simbiosi fra antico e nuovo si è realizzata? Si è realizzata, appunto, a prezzo, cioè commercializzando gli ele.menti della tradizione nell’industria del divertimento o nel folklore a scopo pubblicitario. Perfino la Festa delle Lanterne Galleggianti, ossia la celebrazione dei morti secondo il rito buddista, è diventata una regata pubblicitaria i cui protagonisti, autentici nei costumi e nelle attribuzioni, sono tutti pagati dai ristoranti che hanno una terrazza affacciata sul fiume Sumida. Il quale fiume Sumida, sia detto per inciso, è uno dei più inquinati del mondo.
245
La stessa passione dei giapponesi per la pulizia, che si concretava nel rito quotidiano del bagno, si è mitizzata e si è trasformata in incre-
dibili immersioni collettive in piscine stracolme di gente, o in frettolose docce altrettanto collettive nei pochi momenti di pausa disponibili durante una giornata lavorativa frustrante, con rispetto formale della tradizione e nessun rispetto dell’igiene. Anche le fastose cerimonie nuziali volute dal rito scintoista sono rimaste fastose, ma vengono organizzate in serie dai grandi magazzini, che affittano tutto, inclusi i celebranti e la torta
nuziale; torta che si finge di tagliare ad uso delle foto ricordo, ma che va lasciata intatta perché ha da servire per qualche altra decina di matrimoni. C’è materia, come
si vede, per sospettare che di fronte a situazioni di tal genere la semiotica potrebbe diventare più utile per non capire che per capire. Infatti buona parte dei segni che la Choay farebbe appartenere alla cronia lenta sembrano essere del tutto assorbiti dalla cronia rapida, che essi in apparenza contraddicono ma che in realtà assecondano. In cifre, la realtà di Tokyo è questa: una città regione, costituita da nove città medie, ventotto città piccole, quattordici villaggi e sette isole. Ha un diametro di cinquanta chilometri. In venticinque anni ha moltiplicato per quattro la sua popolazione, raggiungendo i dodici milioni di abitanti dai tre milioni che ne aveva nel 1945. Vi sono seimila abitanti per chilometro quadrato, due milioni di veicoli che circolano per le sue strade e sei milioni di pendolari che raggiungono il lavoro ogni giorno sui treni. Ma al Barthes interessa arrivare fino alle macrostrutture. Vediamo dunque la principale. Un quarto delle aziende giapponesi hanno la loro sede in Tokyo. Vi sono mezzo milione di uffici e 85.000 industrie dentro l’abitato. Vi lavorano un milione e mezzo di operai e quattro milioni di burocrati. Non sono certo ragioni semantiche, dunque, quelle che tengono in piedi la macrostruttura, ma una precisa volontà
di accentramento
industriale, burocra-
tico, demografico. Tre quarti della mano d’opera, cioè circa 1.200.000 unità, è femminile. Si tratta per lo più di ragazze di campagna inurbate, che lavorano con paghe molto più basse degli uomini e non hanno nessuna prospettiva di carriera. Sono destinate ai lavori più meccanici e frustranti, specie nell’industria elettronica. Anche la ragione del loro inurbamento non è però semantica. Il bassissimo reddito in agricoltura ne è la causa. Quanto poi ai quartieri specializzati di cui parla il Barthes, in cui si trovano bar o tavole calde o locali per il divertimento, è possibile che anche qui il compito del semiologo si rivelerebbe ingrato, nonostante la cospicua semanticità dell'argomento. Infatti è costume delle aziende destinare una grossa fetta dei loro bilanci alle spese di rappresentanza, cioè all’offerta di mangiare, bere o altro svago al personale particolarmente sfibrato. Su questo tipo di finanziamento particolarissimo si tengono per buona parte in piedi i 50.000 ristoranti, i 7.000 bar, i 500 cabaret e le 20.000 ragazze che lavorano in questi quartieri, le quali hanno una parte
246
fondamentale nella ricostruzione psicologica dei lavoratori più provati da una vita stressante e senza scopi. Il compito del semiologo sarebbe ingrato anche perché le attività del tempo libero sembrano avere lo stesso ritmo del tempo lavorato, e sono talmente legate con questo che riesce difficile fare delle distinzioni che abbiano un qualche valore positivo. In realtà, in una città dove tutto è convulso, tanta gente che tutta insieme decide di cercare un poco di tranquillità costituisce un ulteriore elemento di convulsione. L’architettura,
ovviamente,
può
avervi
una
rilevanza
solo per con-
venzione culturale, poiché in pratica non ne ha. Le vecchie case di legno e di carta sono ancora parecchie, ma esse non hanno più nessuna ragione abitativa in un che queste case di distribuzione temporanei qui
sistema di vita così profondamente trasformato. Il fatto abbiano fatto scuola come esempio di stile e come sistema interna degli spazi per buona parte degli architetti connon conta assolutamente nulla. Il costo sempre crescente
delle aree su cui insistono è un altro fattore che le condanna inesorabilmente alla scomparsa. Il terzo fattore è la miseria dei quartieri costituiti da queste case di legno e di carta, che spinge gli abitanti a trasferirsi, quando possono, nelle città satelliti, costruite a una quarantina di chilometri da Tokyo. Comunque le case sono dormitori. Nel centro, ossia più vicino al posto
di lavoro, si deve parlare di stanze singole, più che di appartamenti, anche nei grattacieli di recente costruzione. Fuori si tratta di miniappartamenti, che non superano di regola i cinquanta metri quadri. In cima agli edifici, sulle coperture a terrazza circondate da grandi gabbie di rete, si gioca a tennis, a pallavolo, a pallacanestro. Ma anche in questo non c’è nessun significato semantico.
È che, di sotto, non c’è posto.
Anche gli edifici costruiti qui dai più noti architetti del mondo sono puri episodi, soffocati da tutto il resto ma soprattutto rapidamente dimenticati in una dimensione di vita troppo rapida perché sia possibile per qualunque elemento, anche semanticamente pesante, interferire in essa. Soffocati lo sono anche in senso letterale, dentro la coltre di fumi dome-
stici e industriali che incombe su Tokyo per buona parte dell’anno. Molto difficilmente perciò i noti studi del Barthes sulla moda potrebbero tornare utili per spiegare il nuovo costume, non più considerato strano o ridicolo, di camminare per le strade con una specie di maschera da chirurgo sulla faccia. Non è infatti semiologica, ma tecnologica, la ragione del fenomeno, come del resto è tecnologica la ragione dell’adozione sempre più comune della bomboletta di ossigeno da passeggio, indispensabile per i più deboli di bronchi o di polmoni nel caso di inversioni termiche. Le stazioni, come giustamente dice il Barthes, non sono certamente dei significati vuoti. Esse sono realmente dei punti d’incontro e rappresentano il momento erotico della città. Ma incontro con chi e erotismo per che cosa? Le ferrovie giapponesi sono l’orgoglio della nazione. I treni giapponesi sono i più veloci del mondo, e anche i più precisi, quanto a orario.
247
Dalle stazioni di Tokyo partono 2.500 treni il giorno. Partono gremitissimi. Una delle mansioni più singolari del personale delle ferrovie è quella di spingere a forza i passeggeri dentro le pottiere automatiche, in modo che il treno possa partire senza ritardi. L’amministrazione delle ferrovie lamenta che questo servizio si rende difficile nella stagione invernale, a causa dell’aumentato ingombro delle persone dovuto ai soprabiti. Non c’è dubbio quindi che le stazioni di Tokyo sono il luogo dove i contatti sociali sono più pressanti. I treni devono essere precisi perché nessuno deve arrivare con ritardo al lavoro. Però, nei momenti in cui aspetta il treno, ognuno deve impiegare il tempo in maniera utile. Ma non per incontrarsi con i suoi simili o avere scambi sociali con loro, come sembra pensare il Barthes, bensì per incontrarsi con gli oggetti del consumo, nei negozi appunto, e avere con questi oggetti il momento erotico di cui Barthes parla. Il Barthes proponeva anche, a conclusione della sua conferenza napoletana, che la semiologia della città ne cantasse (o ne facesse cantare) il
significante dispiegato. Il Barthes non prende a esempio Tokyo, in questo caso. Eppure Tokyo si presta assai bene a questo fine. Infatti proprio in senso letterale Tokyo canta ogni mattino, dispiegandoli, il suo significante e il suo significato. Tutte le mattine, fuori orario e senza compenso, nelle 85.000 fabbriche della capitale gli operai e le operaie si riuniscono e in coro, accompagnandosi a una musichetta mandata in onda appositamente dalla radio, cantano così: « Per costruire un nuovo Giappone uniamo le nostre forze e le nostre anime. Cresci, industria, cresci ».
249
GRECA
SENZA
STORIA
La scena era questa: tre grandi tavoli disposti a ferro di cavallo nella sala-riunioni della sede bolognese della Johns Hopkins University, i convegnisti su due lati, al centro la relatrice, che rispondeva al nome gentile di Jewel Bellush. Si parlava dei problemi delle città americane. Accanto a Mistress Bellush svolgevo il mio intervento. Sia dalla documentazione
che ci era stata fornita, sia dalla relazione
introduttiva, era scaturita una serie di problemi di notevoli dimensioni, presentati del resto con apprezzabile sincerità. Dopo avere premesso che non avevo un'esperienza diretta delle città americane, formulai un'ipotesi. Mi rifeci alla nascita della nazione americana,
alla distruzione del terri-
torio precedentemente umanizzato dalle popolazioni indigene come premessa al successivo sviluppo della società americana, alla rapida crescita delle città dovuta soprattutto a fattori speculativi, alla sostanziale mancanza di una linea storica nello sviluppo urbanistico di queste, e chiesi perciò se molti degli inconvenienti sino a quel momento segnalati non dipendessero dal fatto che praticamente i nostri colleghi americani si trovavano ad operare in città senza storia.
Parlavo lentamente, seguendo in cuffia la cadenza dell’interprete che traduceva le mie parole. La situazione di due persone che, sedute una a fianco dell’altra, si parlano per interposta persona, è sempre un po’ imbarazzante, anche se non rara in questo genere di convegni. Perciò quando la mia interlocutrice con un impulso improvviso si distaccò dal tavolo con la sua poltrona a ruote e si piantò contro la parete, io attribuii la cosa a qualche interferenza nell’ascolto, del resto ovvia. Ma quando arrivò la risposta mi dovetti ricredere. Con inaspettata veemenza la gentile signora respinse l’accusa che gli Stati Uniti fossero un paese senza storia,
ironizzò sulla sorte di suo marito, professore di storia americana che secondo la mia versione sarebbe stato professore di niente, mi fece osservare che comunque la storia dell'America era anche quella dell'Europa, aggiungendo che appunto essi, gli americani, avevano ereditato anche i nostri difetti, e che quindi molti loro problemi erano i nostri stessi problemi. Ebbi l'impressione di non essere stato capito. Ripetei la domanda,
250
precisando che la mia ipotesi riguardava la storia urbanistica e non la storia generale della nazione americana, e seguii in cuffia anche la traduzione per essere certo che non vi fossero errori in questo senso. Errori non
vi furono, ma la controreplica fu dello stesso tenore e il tono egualmente sostenuto. Probabilmente non mi ero saputo spiegare o forse qualcosa di ciò che avevo detto aveva fatto inquietare oltre misura Mrs. Bellush.
Tuttavia vari elementi emersi fino a quel momento mi sembrava inclinassero verso un’ipotesi del genere. Intanto il problema in sé è di dimensioni enormi. Tre quarti degli abitanti degli USA vivono nelle città o in vicinanza
di esse;
si prevede che diventeranno
quattro quinti verso
gli
anni ottanta, quando la popolazione sarà aumentata di altri cinquanta milioni di unità. Tutta queste gente viene amministrata in una maniera che definire confusa è semplice eufemismo. Il 12 dicembre 1968 fu presentato al presidente e al congresso degli USA il rapporto della commissione di indagine sui problemi urbani. Una delle questioni più grosse che in esso si affrontavano era quella degli insediamenti suburbani, che avevano proliferato una cospicua quantità di quei piccoli enti autonomi privi di competenze territoriali in senso proprio, ai quali il sistema amministrativo
statunitense demanda incombenze specifiche, che vanno dalla organizzazione della scuola pubblica alla raccolta dei rifiuti e alla illuminazione delle strade. Definendo area metropolitana (« standard metropolitan statistical area ») una contea o più contee limitrofe comprendenti una o più città con almeno 50.000
abitanti, con il censimento
nazionale del 1967
erano state individuate 228 di queste aree metropolitane, che coprivano circa i due terzi dell'intera popolazione. All’interno di esse erano state censite più di 20.000
amministrazioni
autonome
di questo tipo, con una
media di novanta per ogni area. A Chicago ne risultavano 1.113, a Philadelphia 871, a Pittsburgh 704, a New York 551. Un terzo di queste amministrazioni interessavano ognuna un migliaio di abitanti o meno, mentre la metà circa di esse copriva un’area di competenza inferiore al miglio quadrato. Poiché proprio su questa situazione amministrativa si era insistito come su una delle cause delle molteplici difficoltà esistenti nelle metropoli americane, non era forse lecito chiedersi le ragioni per cui questi mastodonti urbani non riuscivano a cementare i cittadini, vecchi
e nuovi, se non intorno a problemi così contingenti e comunque in maniera tanto frammentaria? E, ragionando forse con una mentalità eccessivamente europea, era proprio uno sgarbo cercare le origini di questo problema nel modo in cui si sono formate la massima parte (per non dire la totalità) delle grandi città americane, nelle quali è sempre facile trovare il legame economico che tiene unito l’abitante all'ambiente in cui vive, ma sempre molto difficile trovare un legame parallelo tra i cittadini e un qualsiasi genere di cultura o di storia urbana? Ma evidentemente questo tipo di problema interessava soprattutto a chi partiva da un punto di vista europeo, e cioè dal contrasto che in Europa esiste fra la città storica e la città industriale, mentre per i nostri colleghi americani la questione fin dalle origini si era posta in termini
ZI
radicalmente diversi. Su questo, senza colpa di nessuno, esisteva dunque un vuoto nella discussione al convegno bolognese; un vuoto che si rivelò meglio ancora nei tre giorni di dibattito, dal 13 al 15 novembre 1970. Ma, tutto sommato, il fatto che da parte americana su questo problema non venisse nessun genere di risposta, poteva confermare il dubbio di una sostanziale astoricità del problema urbanistico di quel paese.
Come sia nata la massima parte delle città americane è noto. L’idea di Thomas Jefferson era che il futuro degli Stati Uniti poggiasse sullo sviluppo agricolo, che l'immensa disponibilità di mente indefinito. In questa idea il concetto di città tato della cultura europea, contro la quale era più del XVIII secolo, un processo di rigetto da parte
terre rendeva rientrava come che vivo, sullo degli ex coloni,
praticaun porscorcio protesi
a dare un futuro alla nuova nazione e contemporaneamente a distruggere tutti quei residui di vecchia Europa che essi avevano portato con sé. Leggi
come l’Embargo Act del 1807 (abrogato però due anni dopo) testimoniano della volontà concreta di raggiungere un regime di autosufficienza basato
sullo sfruttamento
delle risorse
naturali,
cioè, in sostanza,
sul-
l’agricoltura. Quanto questa idea fosse utopica lo dimostrarono gli eventi successivi. Forse, però, non è stato chiarito ancora a sufficienza quale responsabilità nel fallimento dell’idea di Jefferson abbiano avuto gli stessi jeffersoniani. La verità è che i territori del continente nordamericano, con particolare riguardo al « Wild West », non erano del tutto disponibili.. Essi dovevano essere sottratti alle popolazioni indigene, e lo furono difatti, a prezzo di continui eccidi e di patti mai rispettati. La fame di nuove terre si risolse nella eliminazione di ogni resistenza che si opponeva ai pionieri della nuova frontiera. Questa fu la prima colpa. La seconda colpa, conseguenza diretta della prima, fu la messa all’asta degli immensi territori demaniali che il governo si trovò fra le mani e che non riuscì o non s’impegnò ad amministrare. Questo provvedimento non solo consegnò in mani private la gestione della politica agricola, che avrebbe dovuto essere il cardine dell'economia federale, ma mise in opera un movimento a spirale di speculazione sulle aree che creò, nelle città dell’est, un flusso e riflusso di capitali in cerca di profitti sempre più lucrativi. Le conseguenze di questo fatto furono subito chiare e concomitanti fra loro: in primo luogo, la massima parte dei capitali si riversò soprattutto dove la rendita fondiaria era maggiore, cioè sulle aree urbane, e in secondo luogo la circolazione di capitali in cerca d’investimento rese fatale l’industrializzazione delle città dell’est, la quale giustificò e intensificò ulteriormente la speculazione sui terreni pertinenti alle città, dei quali aumentava continuamente la richiesta. Avvenne così quello che Jefferson e i suoi seguaci più temevano, ossia il riprodursi su suolo americano dei guai che già avevano cominciato ad affliggere in maniera avvertibile il vecchio continente e soprattutto l’Inghilterra. Ma qui c’era un’aggravante. Mentre in Europa la rivoluzione industriale e il capitalismo nascente incontravano comprensibili resistenze,
2592
neppure oggi sopite, in una struttura economica e sociale già preformata e quindi, a conti fatti, poco propensa a ricevere queste novità, negli Stati Uniti le immense prospettive di sviluppo in un territorio vergine, fatto
ancora più vergine dall’insensato e inumano sterminio degli indiani, resero virulento il fenomeno, non contenuto dagli anticorpi che il vecchio continente invece possedeva. Le grandi città americane sono nate tutte così, cioè da un fenomeno puramente speculativo, e ne portano il marchio impresso nella planimetria, la quale rispecchia unicamente il sistema di lottizzazioni che era alla base di lucrose operazioni fondiarie. La famosa scacchiera, da alcuni ignobilmente lodata come simbolo di ordine territoriale, non deriva che dalla necessità di disporre di lotti uniformi da assegnare all’asta o comunque da cedere a prezzi di mercato.
Certamente in un primo tempo, ossia fino alla guerra civile, le città americane, legate al commercio dei prodotti agricoli e sede dei maggiori gruppi imprenditoriali, ebbero carattere terziario. Allan R. Pred ha elaborato una teoria molto stimolante circa le modalità del loro sviluppo, attribuendolo a un processo circolare e cumulativo che praticamente avrebbe fatto crescere le città su se stesse, con una progressione inarrestabile. « In un certo senso — spiega il Pred — tutto ciò che è stato detto al riguardo delle funzioni economiche della città mercantile, le limitazioni alle industrie degli inizi dell’800 e la composizione di queste industrie, è servito, contemporaneamente, come spiegazione del perché il processo circolare e cumulativo dello sviluppo urbano non abbia operato come operò nel periodo successivo alla guerra civile, e come suggestivo approccio a uno dei problemi che ci siamo proposti, e cioè: in mancanza di stimoli primari dall’industria, come funziona il processo di ampliamento urbano, e come si attua uno sviluppo urbano selettivo all’interno di un rudimentale sistema di città? » Secondo
il Pred, se la descrizione
delle funzioni
economiche
della
città commerciale si combina con l’interazione, generalmente accettata, tra sviluppo della città e struttura delle attività urbane, allora l’espansione delle maggiori città americane dal 1800 al 1840 può appunto essere interpretata attraverso un modello descrittivo di cause circolari e cumulative. Una possibilità di questo genere era presagita nel 1837 in queste parole, che il Pred riporta, pronunciate da un critico assai attento: « Le città continuano a crescere non perché la loro situazione è intrinsecamente van-
taggiosa, ma perché esse hanno già acquisito un certo sviluppo che contiene in se stesso gli elementi per un ulteriore incremento ». « Si immagini dunque — propone il Pred — una città commerciale dislocata in uno spazio indeterminato e non impegnata in un’area di mercato o in competizioni territoriali con altre città (benché essa possa scambiare i prodotti locali con altri centri urbani). L’adozione di queste condizioni aspaziali e monopolistiche consente di concentrarci sul processo di sviluppo in sé e pone in secondo piano le considerazioni sull’interfe-
INS)\A 1U0
renza di altre zone di sviluppo e la crescita di alcune città a spese di altre. Inoltre si immagini in questa città l'evento dell’incremento positivo di almeno uno degli elementi che compongono il complesso delle attività commerciali di intermediazione (esportazione all’esterno delle merci del comprensorio, riesportazione delle derrate del trasporto-merci, ridistribuzione lungo la costa o all’interno dei prodotti del comprensorio, o distribuzione allo stesso modo dei prodotti di importazione). Questa espansione commerciale, che può assumere indifferentemente la forma dello sviluppo delle imprese mercantili esistenti al loro interno oppure la creazione di nuove imprese di affari, alla fine provoca una tipica sequenza ideale di eventi la cui origine causale è circolare e cumulativa ».
Espansione
del
commercio all'ingrosso
Guadagni
locali
Attività immobiliari
e
costruzioni
Industrie
Pi
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Effetto
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schema economico di espansione di una città commerciale U.S.A.
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254
La teoria del Pred è che le nuove funzioni mercantili diano origine a un iniziale impiego di personale, che ha poi un effetto moltiplicatore. Infatti la nuova domanda locale creata dalle imprese richiamerà opportunità di lavoro aggiuntive per carrettieri, stivatori, pesatori, impiegati di banca e delle compagnie di assicurazione, personale d’albergo e altri addetti di vario genere. L’effetto combinato della nuova occupazione commerciale e di un iniziale moltiplicatore sarà l'incremento della popolazione (o dell'aumento della dimensione urbana) e la probabile realizzazione di una o più nuove vendite al dettaglio, di servizi, di iniziative professionali o industriali collegate al commercio o al mercato interno, che a loro volta aumenteranno ancora la popolazione della città attraverso il meccanismo del lavoro degli immigrati. Questa successione di eventi però, a giudizio del Pred, si inceppa presto se il suo circuito non si completa e se le sue batterie non sono ricaricate ripetutamente dai reinvestimenti derivanti dai proventi delle funzioni mercantili, nuove o ampliate, e di altre attività speculative già esistenti all’interno del sistema commerciale. Comunque ogni reinvestimento nel commercio o incremento in almeno uno dei settori del sistema commerciale causerà un altro moltiplicatore iniziale e il presumibile conseguimento del livello-base in altri settori dell'economia urbana, rendendo il processo di sviluppo perpetuo e autogenerantesi, a meno che o fino a che non intervengano forze esogene di sgretolamento. « Ma — aggiunge il Pred — lo sviluppo circolare e cumulativo nella città commerciale non è privo di altre complessità aggiuntive, poiché il processo è rinvigorito e accelerato dallo sviluppo interno a due settori. In primo luogo, alcuni proventi delle attività commerciali verranno distolti verso la speculazione
sulle aree e nelle costruzioni,
con una
diversione
incoraggiata di fatto dall’incremento della popolazione. Ogni investimento causerà un moltiplicatore di se stesso (nuovi posti di lavoro per imbianchini, carpentieri, copritori, stuccatori e altri lavoratori edili, più altre possibilità di lavoro nelle industrie legate all’edilizia), e contribuirà al raggiungimento del livello-base nel commercio al dettaglio, nelle industrie legate al mercato locale, e in altri settori. Inoltre una parte dei profitti realizzati coi beni immobili e con le costruzioni più che verosimilmente darà impulso allo sviluppo, rifluendo nel sistema commercio-affari, facendo esplodere un altro giro di guadagni e di effetti moltiplicatori. In secondo luogo, una frazione indeterminata di profitti manifatturieri potrebbe in prospettiva rifluire anch’essa nel sistema commercio-affari, ringiovanendo ancora il processo di sviluppo circolare. I centri commerciali manifatturieri stimoleranno in maniera analoga lo sviluppo partecipando direttamente all’espansione commerciale. La catena di reazioni dalle attività immobiliari e di costruzioni e dalle attività manifatturiere, con le loro conseguenze progressivamente composte, si rinnoverà fino a che non sarà
deviata o ostacolata; e il funzionamento dell’intero schema dipenderà dal rafforzamento delle attrattive che la scala di sviluppo delle città e l’apparato dell’organizzazione commerciale esercitano sui forestieri e sugli abi-
255
tanti del comprensorio in cerca di uno sbocco commerciale o di una fonte di acquisti » (The Spatial Dynamics of U.S. Urban-Industrial Growtb, 1800-1914: Interpretative and Theoretical Essays, 1966, pp. 177-180). L’ipotesi schematica del Pred è fortemente attendibile. Ma non può sfuggire un dettaglio, che il Pred sottolinea dal punto di vista economico, e che invece ha una notevole rilevanza anche politica e sociale. Il meccanismo che il Pred descrive si incepperebbe se cessasse il processo di reinvestimento dei capitali comunque accumulati o realizzati, ma esso non si metterebbe neppure in moto se non potesse contare già in partenza su
una riserva illimitata di energia destinata ad alimentarne la propulsione. Questa riserva di energia non è altro che la forza-lavoro resa continuamente disponibile dal flusso immigratorio in costante incremento. In questo senso l’ipotesi schematica del Pred serve soprattutto a dimostrare che nella città mercantile americana esistevano già le premesse perché il lavoratore potesse essere sfruttato non solo sui luoghi di lavoro ma anche sui luoghi di consumo. Dopo la guerra civile, a partire dal 1840, ma soprattutto dal 1860 in poi, l'industria si legò in maniera sempre più consistente a questo giro di capitali e di mano d’opera, contribuendo a sua volta in maniera determinante all’ingigantimento delle città con un nuovo processo circolare e cumulativo. Anche in questo nuovo processo, la propulsione veniva assicurata dalla inesauribile riserva di mano d’opera disponibile e pronta a inserirsi nel sistema di accumulazione capitalistica. La struttura urbana è da considerarsi, sotto questo profilo, l'elemento catalizzatore che consente la combinazione fra la forza-lavoro e i capitali in cerca di impiego. Per questo la città è il luogo nel quale capitali e popolazione si concentrano al massimo grado. Industrie o
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ampliate
Effetto iniziale
Nuovo
moltiplicatore
Accresciute di
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innovazioni
livello—-base
locale
Invenzioni
o regionale
o
innovazioni
142. Pred: schema economico di espansione di una città industriale U.S.A.
possibilità o
256
Il Pred fornisce i seguenti dati demografici relativi ad alcune città americane
(p. 23): Popolazione 1860
New York Chicago
Popolazione 1910
Popolazione del distretto metropolitano 1910
1.174.779 24172
4.766.833 2.185.283
6.474.568 2.446.921
565.529 177.840
1.549.008 670.585
1.972.342 1.520.470
Pittsburgh
49.211
DIDO
1.044.743
St. Louis
160.773
687.029
828.733
56.802
416.912
686.873
212.418 43.417 45.619
558.485 560.663 465.766
658.715 613.270 500.982
4.385
319.198
438.226
Philadelphia Boston
San Francisco Baltimora Cleveland Detroit
Los Angeles
Come si vede, il fenomeno è di dimensioni considerevoli. Si deve an-
che aggiungere che, mentre dal 1860 al 1910 la popolazione degli Stati Uniti era aumentata del 193,2 per cento, la popolazione urbana era aumentata, nello stesso periodo, del 575,6 per cento, e la popolazione nelle città con più di 100.000 abitanti addirittura del 669 per cento. A ciò contribuì in notevole misura l’afflusso di immigrati dall’estero, che si concentrava soprattutto nelle città maggiori. Il Pred ricava dal dodicesimo censimento degli Stati Uniti i seguenti dati, relativi all'andamento dell’immigrazione nell’anno 1900 (p. 133): Nati all’estero Stati Uniti New York Chicago Philadelphia St. Louis Boston Baltimora Pittsburgh
Cleveland San Francisco
% sul totale della popolazione
Di origine straniera (1)
% sul totale della popola zione
10.460.085
19.27
26.198.939
34,3
1.270.080 DIL 295.340 111.356 19729 68.600 115.094
37,0 34,6 22,8 19,4 DAI 16519) 239)
2.643.957 1.315.307 2953697 350.777 404.999 194.223 284.246
76,9 TTÀ 54,9 61,0 72,2 38,2 63,0
124.631 116.885 96.503 19.964 30.325
32,6 34,1
288.491 257.784
33,8
221.281
195 10,6
46.311 108.010
75,6 15?) ID 45,2 STEG
Louisville
21.427
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Albany Charleston, S. C. Mobile
17.718 DI5IN ZAN
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58,0 14,2 20,9
Detroit
Los Angeles New Orleans
(1) Comprende i nati all’estero e la loro prima generazione nata negli Stati Uniti.
200
Sempre nel cinquantennio compreso fra il 1860 e il 1910 la produzione industriale aumentava del 975 per cento, mentre lo sviluppo delle ferrovie passava da 30.626 miglia nel 1860 a 266.185 miglia nel 1910, con un aumento del 769,1 per cento. Soprattutto lo sviluppo delle ferrovie, per il modo in cui fu perseguito, agì in maniera traumatica sia all’interno delle città che riguardo all’assetto dell’intero territorio statunitense. Prima ancora di legarsi al processo di industrializzazione, tuttavia, la creazione e l'ampliamento della rete dei trasporti su rotaia si legò alla speculazione fondiaria. Fino dal 1850 alcune società private avevano concluso con il governo federale un accordo, sulla base del quale esse si impegnavano a costruire le strade ferrate in cambio di enormi territori, ceduti ad esse gratuitamente nel‘ tllinois | ———
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143. Chicago: espansione delle ferrovie.
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l’ovest a titolo di incentivo (la proprietà e la gestione delle nuove linee, ovviamente, restavano a queste società). In tale modo si mise in moto uno
spaventoso meccanismo speculativo che aveva per base la rendita fondiaria. Infatti le società ferroviarie, per autofinanziarsi, mettevano all’asta i loro appezzamenti di terreno, che acquistavano valore appunto per essere
raggiunti o attraversati dalla ferrovia. La spregiudicatezza dei gruppi che facevano
capo
a queste
società
è passato
alla storia. La stessa fame
di
denaro li portava a sterminare i pellirosse dei quali attraversavano i territori come a frodare gli stessi cittadini americani, ai quali vendevano lotti edificabili nei cantieri ferroviari, che rimanevano attivi finché l’avanzare della linea ferrata non induceva la compagnia a spostarli altrove insieme con tutte le attività che dalla presenza del cantiere traevano una giustificazione. Le « città morte », nate, vendute e poi abbandonate in questo modo lungo la via ferrata, le « città di carta » vendute all’asta nell’est e mai realizzate nell’ovest, facevano parte del normale bagaglio professionale di questi disincantati affaristi. Nei confronti delle città già esistenti nell’ovest, come San Francisco o Los Angeles, prese corpo una catena di ricatti che consistevano nel richiedere
concessioni
(aree urbane,
diritti portuali, diritti di attraversa-
mento gratuiti) dietro la minaccia di far passare altrove la ferrovia e di soppiantare con qualche città di carta le città già vive e funzionanti. In questi nuclei urbani già preformati (nelle città dell’est il ricatto fu meno pesante ma la manovra,
nella massima
parte dei casi, riuscì lo stesso) le
ferrovie poterono pertanto occupare le posizioni centrali con stazioni, de-
144. New York nel 1797.
259
positi e scali merci, mettendo così una grossa ipoteca sui gangli vitali della struttura urbana. Di conseguenza le industrie, che soprattutto traevano vantaggio dalla prossimità degli smistamenti ferroviari, si insediarono vicino a questi, occupando così anch’esse posizioni centrali nell’abitato. Le aree urbane di insediamento ferroviario e industriale diventarono dunque, per evidenti ragioni, sempre meno ospitali per i vecchi residenti, i quali, in quanto potevano, cercavano di trasferirsi nella periferia e determinavano così la crescita in estensione della città. Vicino alle fabbriche avevano invece interesse (sia pure in senso relativo) a sistemarsi gli operai e i nuovi immigrati. Si formarono in questo modo i primi slums, esattamente come stava avvenendo a Londra e nelle altre città europee industrializzate, con la differenza che qui essi si collocarono fin dagli inizi all’interno del nucleo urbano anziché nelle fasce periferiche. Il diffondersi degli slums traeva incentivo da una nuova forma di attività speculativa, basata sulla costruzione di edifici infimi, destinati alla residenza intensiva e appunto per questo altamente redditizi (20-30 per cento annuo). Tutto ciò era favorito dalla mancanza di regolamenti edilizi e anche igienici. Se si considera che la prima legge che si propose in maniera concreta di intervenire per eliminare gli slums fu lo Housing Act del 1937, non è difficile capire quale portata abbia avuto il fenomeno, praticamente non contrastato, nel processo di sviluppo delle città statunitensi.
Poiché la mancanza di disposizioni urbanistiche consentiva in pratica di costruire ovunque eccetto che nelle strade e per qualunque altezza, è chiaro che l’unica legge urbanistica realmente operante era quella del massimo SI Quando, e comunque non prima dell’inizio del secolo cor-
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260
rente, cominciarono a diventare operanti standard edilizi che in alcune città tendevano a rendere più umano l’ambiente superaffollato dei centri urbani, la loro applicazione si ripercosse immediatamente sul livello dei fitti, senza contare i molti casi in cui l’applicazione di questi regolamenti costituì oggetto di mercato tra gli amministratori pubblici e gli « slum landlords », cioè i proprietari di queste aree urbane degradate. In linea generale, la politica urbanistica delle amministrazioni pub-
bliche non contrastava, ma anzi incoraggiava il fenomeno dell’ampliamento delle città a scacchiera su base speculativa. La città di New York, nel 1916, approvò la sua prima Zorig Ordinance. Essa prevedeva un tale sviluppo che, se fosse stato completato, avrebbe raccolto nell’area metropolitana 55 milioni di abitanti. Con questo tipo di piani, in realtà, i maggiori centri urbani facevano a gara tra loro per richiamare l’iniziativa privata, e la preoccupazione di uno sviluppo ordinato della città era un fatto assolutamente secondario. Lo schema della scacchiera agrimensoria era ottimo per il primo scopo e dava l’impressione di essere adeguato anche per il secondo. La crescita delle città concepita in questo modo e lasciata completamente nelle mani della speculazione immobiliare era dunque un fatto inarrestabile e, a conti fatti, desiderato. Ciò che inoltre impressiona è l’esasperante continuità di metodi e di programmi con cui
il problema della città viene affrontato nell’arco di quasi due secoli e su tutto il territorio federale. La Zoring Ordinance newyorkese, per esempio, non solo è perfettamente coerente con quello che nel medesimo pe-
riodo si faceva nelle altre grandi città americane, ma non modifica in nulla di sostanziale, se non nelle dimensioni, l’indirizzo già delineato dal
piano dei Comzzissioners del 1811, che nell’immobile scacchiera di Manhattan non prevedeva neppure la pausa del Central Park. Il fenomeno delle città a scacchiera in America è di antica data ed ha una matrice assai più precisa di quanto solitamente si arrivi ad ammettere. Non c’è dubbio che possa essere ricercato un legame tra il sistema di fondazione delle città americane e la cultura urbanistica europea, ma occorre quanto meno verificare di quale cultura urbanistica si tratti. Infatti, per una strana deformazione storiografica, di solito si fa riferimento alle bastides della Bretagna e particolarmente a Montpazier (1284), forse per creare un precedente accettabilmente inglese (Edoardo I
ne fondò qui appunto un certo numero). Perfino il Benevolo (Storia dell'architettura
moderna,
1964,
I, pp. 289, 290) riprende questa teoria,
citando anch’egli Montpazier; e ciò, per un autore europeo, è assai strano, poiché il Benevolo non può ignorare che il fenomeno delle città fondate con schema ortogonale non è né circoscritto alla Bretagna né tanto meno limitato al XIII secolo e alle iniziative politico-territoriali di Edoardo I. John W. Reps, dopo avere appunto parlato di Montpazier, delle bastides e di Edoardo I, cita quello che sembrerebbe il caso meglio raffrontabile, ossia Detroit, fondata nel 1701 con la stessa distribuzione stradale a griglia. « Il suo
fondatore, Cadillac, era nato in una
bastide, passò la
sua giovinezza in un’altra e prese il suo nome ancora da una terza. Ciò
261
suggerisce una connessione diretta fra le forme di piano della Francia sudoccidentale e il progetto originale di Detroit, benché — si cautela il Reps — nessuna prova documentaria di ciò sia stata trovata » (Town Planning in Frontier America, 1969, p. 13). Ma il raffronto con le bastides è storicamente inaccettabile, o è accet-
tabile solo nel senso molto generale che si tratta di città di fondazione il cui piano era dettato più da ragioni politiche che da ragioni urbanistiche. Invece non bisognerebbe dimenticare che, fin dalle origini, la cultura urbanistica europea arrivò in America attraverso la mediazione politica dei conquistadores. Ciò comportò sostanzialmente due cose: in primo luogo che le città coloniali dell’America non si collegarono direttamente alle ragioni sociali e culturali che tenevano insieme le città europee, ma principalmente alle ragioni della conquista e della appropriazione dei nuovi territori; in secondo luogo che, anche quando i conquistadores vollero attingere alla cultura urbanistica europea, la loro fonte non fu rappre-
sentata dalle città vere e proprie, bensì dalle teorie che sulla forma delle città gli architetti del tempo andavano elaborando. In ambedue i casi, perciò, non si trattò di urbanistica popolare, nel senso che i piani delle nuove città venivano comunque elaborati dall’alto ed erano finalizzati a scopi politici precisi. A questi scopi politici, basati sull’appropriazione e sulla ripartizione delle terre, il concetto atavico di delimitazione e di proprietà rappresentato dalle forme del quadrato e del rettangolo offriva la dimensione geometrica più rispondente. A ciò soprattutto si deve se le prime città americane, differenziandosi dalle città europee, ebbero nella
stragrande maggioranza dei casi una planimetria ortogonale. Mentre il riferimento alle bastides è, ed è destinato a restare, larga-
mente opinabile, riguardo al rapporto intercorso fra le nuove città ame-
146. Montpazier.
262
ricane e la politica coloniale
europea
si può essere
invece più precisi.
Infatti nel 1573 Filippo II di Spagna emanò la legge delle Indie, nella quale era contenuta una normativa rigorosa concernente i criteri e i procedimenti di fondazione delle nuove città. Questi criteri, per quanto è possibile riscontrare nei piani di fondazione delle città costruite dopo quel-
la data, furono puntualmente rispettati. Centinaia di comunità — letteralmente — furono pianificate in conformità ai dettami della legge delle Indie: « un fenomeno unico nella storia moderna », osserva il Reps (p. 41). La legge inizia dando prescrizioni circa la posizione in cui costruire preferibilmente la nuova città, indicando come più opportuno un posto elevato,
circondato
da terre
ben coltivabili,
ricco
d’acqua
e con
buona
disponibilità di legname da ardere e da costruzione. Lo spazio a disposizione doveva essere abbondante e nessuna costruzione poteva iniziare prima dell’approvazione del piano. « Il piano del luogo, con le sue piazze, le vie e i lotti edificabili deve essere tracciato col sistema della misurazione per mezzo della corda e del regolo, cominciando dalla piazza principale, da cui le vie devono dirigersi verso le porte e le strade esterne di comunicazione,
di un
e lasciando sufficiente spazio libero in modo che, nel caso
ampliamento
della città, essa possa
ingrandirsi
in maniera
sim-
metrica ».
Numerose disposizioni riguardano la piazza principale, che per le città costiere doveva essere presso la riva e per le città dell’interno al centro dell’abitato. Essa doveva avere forma rettangolare, secondo il rapporto di 1:1,5. Le misure ideali erano considerate essere seicento piedi di lunghezza per quattrocento di larghezza. I suoi angoli dovevano essere orientati sui quattro punti cardinali, per evitare l'esposizione delle vie ai più importanti venti della rosa. Da questa piazza le quattro vie principali si dovevano distaccare in corrispondenza della metà di ogni lato: otto vie minori vi si dovevano innestare a due a due in corrispondenza dei quattro angoli. L’intera piazza e le quattro vie principali che si dipartivano da essa dovevano essere porticate, per l’utilità di coloro che vi si recavano per lavoro. « Le otto strade che s’innestano alla piazza ai suoi quattro angoli devono poterlo fare liberamente,
senza
essere
ostruite
dai portici della piazza.
Questi
portici devono terminare agli angoli in modo tale che i marciapiedi delle vie possano congiungersi in modo regolare con quelli della piazza ». Altre strade dovevano essere dislocate « consecutivamente intorno alla piazza ». Benché la legge non contenesse una disposizione specifica a questo riguardo, è ovvio che essa prefigurava una città a griglia o a scacchiera con strade rettilinee che s’intersecavano ad angolo retto. Altre norme riguardavano la posizione dei principali edifici nell’abitato. Di rilievo è il fatto che la chiesa non doveva affacciarsi sulla piazza centrale ma stare altrove, discosta dalle altre costruzioni e possibilmente in luogo elevato, con un ben proporzionato spazio lasciato libero in contiguità di essa. Nelle città costiere la chiesa doveva stare di faccia al
263
porto e avere la funzione di fortezza in caso di attacchi. Intorno alla piazza si sistemavano invece il palazzo del governo, la dogana, l’arsenale, l’ospedale e altri edifici pubblici; il fronte rimanente era occupato dai negozi e dalle abitazioni dei commercianti. I tempi di costruzione della città sono di un certo interesse. Il primo atto, dopo che era stato tracciato il piano secondo le direttive generali, era quello della delimitazione dei lotti fabbricativi. Poi i futuri abitanti dovevano attrezzarsi in tende o in capanne provvisorie. Poi si riunivano e tutti insieme erigevano una palizzata a difesa di eventuali attacchi da parte degli indiani. Naturalmente anche il terreno agricolo intorno alla città era suddiviso in lotti e assegnato ai coloni. C'è anche, nella legge, una preoccupazione di carattere estetico: «i residenti devono cercare, in quanto possibile, di rendere tutte le strutture uniformi, nell’interesse della
bellezza della città ». Infine la legge ammoniva
i fondatori della nuova città affinché non permettessero ai nativi di entrarvi dentro nel periodo della sua costruzione e finché le fortificazioni e le abitazioni non fossero state completate, « cosicché quando gli indiani le vedranno resteranno pieni di meraviglia e capiranno che gli spagnoli si stabiliscono qui permanentemente e non temporaneamente. Essi conseguentemente temeranno tanto gli spagnoli che non oseranno offenderli e li rispetteranno e desidereranno la loro amicizia » (cfr. J. W. Reps, Town Planning, pp. 41-45).
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147. Schema ipotetico di città secondo le norme della legge delle indie del 1573.
264
Questa legge, che per la sua natura e per la sua portata storica è da considerare un documento urbanistico di eccezionale importanza, ha in realtà pochi agganci con la cultura urbanistica europea, o almeno con la cultura urbanistica europea intesa in senso stretto. Non vi sono agganci apprezzabili con la situazione delle città storiche del vecchio continente
e vi sono
contatti
molto
generici con
le proposte
degli inventori
di
città ideali che furono attivi nel XVI secolo. All’epoca della promulgazione della legge l’Europa era in pieno manierismo. Basterebbe ricordare l’identificazione
fra bellezza
della
città
e uniformità
delle
strutture,
contenuta
nella legge delle Indie, per sottolineare il divario che esisteva, sia pure solo a livello di proposte formali, tra i canoni estetici che in Europa andavano per la maggiore (il manierismo,
come
si è detto, imperava, e il barocco
era alle porte) e quelli, antiteci, che si proponeva di applicare nelle nuove colonie. Le regole geometriche sulla base delle quali sono disegnate le città ideali del secolo XVI hanno una matrice completamente diversa rispetto alla normativa contenuta nella legge delle Indie. Nel primo caso il punto di partenza è una ricerca schematica abbastanza complessa, che più frequentemente porta a planimetrie radiocentriche, applicate a
città-fortezze destinate a rappresentare la forza e il prestigio del fondatore; nel secondo caso il criterio di partenza, ridotto ai primi postulati della geometria euclidea, è soprattutto agrimensorio, e la città è destinata prima di tutto ad essere sede abitativa di un gruppo di coloni e presidio spagnolo in terra di conquista. Benché emanata da un re europeo, la legge delle Indie nasce invece dalla realtà stessa delle Indie, ossia dalle prospettive politiche offerte
dalla possibilità di colonizzare un territorio praticamente illimitato, che non era vergine, ma che era utile considerare vergine e disponibile per qualunque tipo di piano e per qualunque tipo di appropriazione. La vecchia Europa, dove ogni fazzoletto di terra era conteso, non offriva più da tempo possibilità consimili. Di spagnolo nella legge c’è soprattutto (e soltanto)
la volontà
di imporre
un unico
rigido schema
destinato
a
valere in ogni situazione; donde la ridicolezza di volere perfino pianificare in maniera indiscriminata l’orientamento delle città in rapporto ai venti dominanti, che si presumeva fossero quattro e sempre gli stessi in qualunque tipo di ambiente e di clima. Per il resto la legge registrava una situazione di fatto già creatasi nelle Indie e strettamente collegata al tipo di espansione e di appropriazione delle terre che la colonizzazione europea vi andava conducendo. Per esempio, St. Augustine, in Florida, che
fu fondata nel 1564 (cioè dieci anni prima dell'emanazione della legge delle Indie) ed è considerata
la più antica città degli Stati Uniti, ebbe
molto probabilmente fin dalle origini uno schema ortogonale. Una veduta del 1588, al tempo dell’attacco di Francis Drake, la presenta come costituita da una griglia di undici isolati posti a qualche distanza dal forte che proteggeva mente
l’entrata
del porto.
Nel
ampliata, St. Augustine conservava
ortogonale.
1763,
dopo
essersi
notevol-
una planimetria ad andamento
«aia
148. Saint Augustine (Florida) nel 1588 durante un assalto della flotta di Francis Drake (
tato è rappresentato in alto a sinistra; in alto al centro il forte).
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FLORIDA. SCALE,
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149. Saint Augustine nel 1763.
266
Esempi
di applicazione
della legge delle Indie in territorio
statu-
nitense possono essere Santa Fe nel Nuovo Messico (1609), San Antonio nel Texas (1730), Galvez nella Louisiana (1778), Pensacola in Florida
(1698, distrutta nel 1754 da un uragano e ricostruita dagli inglesi fra il 1763 e il 1781). Ma la legge delle Indie, oltre a creare delle regole destinate ad essere applicate con particolare rigore nelle terre soggette agli spagnoli, codificò un costume, che sarebbe rimasto valido per tutti, prima e dopo il 1781: il costume cioè di pianificare le città nelle terre di conquista secondo il principio della suddivisione in lotti. Quando da coloni inglesi i conquistatori anglofoni si trasformarono in cittadini americani, non cambiò assolutamente nulla, da questo punto di vista. La conquista continuò nelle terre non ancora occupate e il sistema di colonizzazione e di suddivisione dei territori di nuovo acquisto rimase lo stesso. In questo senso la Land Ordinance fatta approvare da Thomas Jefferson nel 1785, quattro anni dopo l’indipendenza, è figlia legittima della legge delle Indie di Filippo II, emanata nel 1573. E Thomas Jefferson, come si sa, era un raffinato architetto, non certo privo di esperienza urbanistica. In qualche caso, tuttavia, la cultura urbanistica europea fece sentire la sua influenza sulle progettazioni americane. Fermo restando il principio della planimetria a base agrimensoria, una particolare dislocazione delle piazze, come nel piano di William Penn per Philadelphia (1683), o il tracciamento di alcune vie trasversali che interrompevano il rigore della .
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150. Piano francese del 1711 per Mobile (Alabama): anche i francesi seguirono lo schema ortogonale della legge delle Indie per le loro colonie.
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153. Piano del 1961
per Marlborough
(Vir-
ginia).
154. Piano del 1730 per San Antonio (Texas).
268
griglia, come nel piano di Pierre Charles l’Enfant per Washington (1791), o l'adozione come base modulare del triangolo equilatero di quattrocento piedi di lato, come nel piano di Augustus Brevoort Woodward per Detroit
(1807), testimoniano
intervento
in qualche modo
pianificatore che non
la volontà
fosse del tutto
di attuare un
subordinato
al sistema
delle lottizzazioni. Ma sono meteore. Nel corso del XIX secolo l’esplodere della speculazione sulle aree tornò ad imporre ovunque l'immobile griglia lottizzatoria. Le vicende urbane di Chicago, per molti aspetti, sintetizzano i più grossi problemi delle città americane, pur senza che i vari fenomeni giungano qui ai loro limiti deteriori. Nel 1830 la zona sul lago Michigan dove si sarebbe sviluppata Chicago era ancora occupata da un fortino (Fort Dearborne) e da pochi abitanti. « L'impianto originale di Chicago fu semplice e convenzionale. Come la massima parte delle città del tempo, esso seguiva il sistema della griglia. Occupava solo tre ottavi di miglio quadrato, fra le sponde del Chicago River. Kinzie Street e Madison Street segnavano i limiti nord e sud, State Street e Des Plaines Avenue
i margini est e ovest. Per le strade di 66 piedi; le vie minori (alleys), da una parte all’altra il centro di ogni prevedeva anche strade lungo le rive
era adottata la consueta larghezza larghe sedici piedi, suddividevano blocco edilizio. Il piano originario del fiume. Il sistema della griglia
PLAN
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IDE
OLE:
156. Piano
del
Philadelphia
155. Piano del 1807 per la parte centrale di Detroit (Michigan).
1683
di William
Penn
per
(Pennsylvania).
157. Piano del 1791 di Pierre Charles L’Enfant per Washington, D. C.
269
rettangolare era rafforzato dalla Federal Ordinance del 1785, in base alla quale le nuove aree venivano divise in sezioni di un miglio quadrato. Al di là dei limiti del primo impianto, i margini di questa unità di misura determinarono la posizione delle strade. Roosevelt Road, North Avenue
e
Pulaski Road, fra le altre, hanno la loro origine in queste prime forme di tracciamento. Benché Chicago debba la sua posizione al lago e più tardi abbia chiamato se stessa ‘la regina del lago’, la prima sistemazione, ironicamente, non prevedeva insediamenti lungo la costa. Difficilmente questo avrebbe potuto essere il piano per la ‘seconda città’ della nazione, ma esso era più che sufficiente per i cinquanta residenti che occupavano l’area nel 1830 » (Maver, WapE, Chicago: Growth of a Metropolis, 1969, pp. 15, 16). La posizione di Chicago era tipica di un centro con notevoli possibilità di sviluppo commerciale: perciò, con una progressione più rapida che altrove e con un recupero impressionante rispetto a centri più antichi
dove il fenomeno si era sviluppato prima, si realizzarono condizioni analoghe a quelle che il Pred, come si è visto, schematizza. I sintomi immediatamente manifesti del fenomeno furono l’aumento della popolazione, l'ampliamento della città secondo il piano lottizzatorio che era stato così previdentemente predisposto e la virulenta comparsa della specu-
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DEARBORN, 1830
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MICHIGAN
158. Fort Dearborn e dintorni nel 1830, prima della fondazione di Chicago.
270
lazione sulle aree. « Le prime particelle di terreno furono vendute all’asta per un prezzo modesto (un massimo di cento dollari per un lotto di 80 piedi per 100). Entro quattro anni, tuttavia, la rabbia speculativa prese piede. Una particella di 80 piedi per 100 all’angolo di South Water e Clark Street salì di colpo da 100 a 3000 dollari in due anni, fra il 1832 e il 1834. L’anno seguente fu venduta per 15.000. Il Chicago American, facendo eco all’esuberanza generale, protestava che un appezzamento di proprietà era aumentato in valore al tasso del cento per cento al giorno rispetto al costo originale di una volta (1830), nell’arco di cinque anni e mezzo. Chiunque possiede un fazzoletto di giardino — insisteva il giornale più avanti — sta sul suo terreno e si sente milionario... « In questi primi tempi Chicago sembrava più una lotteria di beni immobili
che una comunità.
Inevitabilmente,
verso la fine del 1837, la
bolla d’aria della speculazione scoppiò. Eppure c’erano molte ragioni sostanziali a giustificazione dell’ottimismo dei primi abitanti. L’ingrediente di base, la popolazione, era in superincremento. Il numero dei residenti saltò da 50 a 4.170 nei sette anni successivi al 1830. Il boom edilizio ne fu il risultato. Ma l’offerta non fu mai all’altezza della domanda. Rifugi di ogni tipo apparivano da un giorno all’altro; in alcuni casi i contratti contemplavano il completamento della casa entro la settimana » (Chicago, pp. 16-18). Anche per questi motivi, dopo la grande paura del 1837, il fenomeno speculativo riprese quasi subito e continuò senza apprezzabili pause. Nel 1848, a John Lewis Peyton che passava da quelle parti non sfuggì l’esistenza degli agenti immobiliari che « stavano pianificando nel territorio circostante per dieci o quindici miglia verso l’interno, e dando nomi di fantasia ai futuri viali, strade, piazze e parchi » (Over the Alleghenies and across the Prairies, 1869, p. 329). Tipico fu anche il modo con cui le ferrovie si inserirono nel tessuto urbano. Ovviamente la zona chiave dei traffici era la riva del lago, dove, oltre alle merci
e ai passeggeri
della città, era possibile raccogliere i
traffici lacuali ed effettuare l’interscambio fra vie ferrate e vie d’acqua. La Illinois Central, una compagnia ferroviaria nata con specifici caratteri
speculativi, offrì alla città l’ambiziosa prospettiva di un collegamento con Mobile nell’Alabama e New Orleans nel golfo del Messico, e poté trattare a condizioni particolari. Ottenne così di penetrare nella città attraverso una fascia di terreno paludoso, larga trecento piedi, lungo la riva del lago; in cambio s’impegnò a mantenere un frangiflutti (che ovviamente proteggeva la ferrovia prima ancora che la città) dai confini municipali fino al Chicago River. Per il terminale nord, la Illinois Central acquistò parte del terreno demaniale di Fort Dearborne, oltre che alcune aree lungo il fiume, I binari vi arrivavano attraverso un lungo trabiccolo costruito nell’acqua dalla 22° Strada fino al deposito di Randolph Street. La Illinois Central non raggiunse interamente i suoi scopi, perché avrebbe voluto
entrare
nella città pressola zona
industriale
più ad ovest,
ma
l’amministrazione cittadina si dové sobborcare i più grossi problemi, per via degli impedimenti che la nuova strada ferrata era venuta a creare,
2/0
con particolare riguardo al lungo tratto di fronte sul lago, che più tardi si cercò di recuperare (cfr. Chicago, p. 38). Il problema delle vie ferrate interessava però anche le aree urbane pet i loro collegamenti interni. L'ampliamento delle città rischiava di arrivare a un punto di stallo, se non si fosse risolto il problema del trasporto pubblico, essendo ovvio che in una città di alcune centinaia di migliaia di abitanti erano ben pochi, in percentuale, coloro che dispo-
nevano di una carrozza. Naturalmente anche la soluzione di questo problema venne dall’iniziativa privata e, immancabilmente, si collegò alla speculazione sulle aree. L’omnibus a cavalli fu il primo tentativo, ma,
prima ancora mise in opera il « cable car binari e aveva da centrali
dell’avvento della trazione elettrica, la città di San Francisco un sistema più efficiente sul piano del trasporto di massa: ». Si trattava di una specie di cabinovia che correva su il cavo traente sotto il piano stradale. A questo cavo, mosso
a vapore
e in continua
trazione,
le vetture
(« grip cars »)
si collegavano o si disancotavano con una morsa azionata da un manovratore che stava sul veicolo. Le spese d’impianto di questo sistema erano enormi, ma la possibilità di orientare il flusso di grandi masse verso determinate zone della città e della periferia le rendeva accettabili per gli speculatori, ai quali l'incremento di valore degli immobili determinato dall’esistenza di un servizio di cable cars restituiva in abbondanza il capitale investito nel servizio pubblico. Prova ne è che il sistema fu adottato anche in città, come Chicago, che non avevano i problemi morfologici di San Francisco, dove la pendenza vertiginosa della viabilità interna rendeva proibitivo l’impiego dell’omnibus a cavalli.
22
Comunque la trazione elettrica rese assai più economica la soluzione del problema e determinò il nuovo boom dell’espansione edilizia. La possibilità di raggiungere il luogo di lavoro con un mezzo pubblico apriva nuovi orizzonti alla speculazione immobiliare, che si dedicò alla costruzione di abitazioni adatte ai redditi medi in aree periferiche dove pochi anni prima il terreno non aveva neppure un valore agricolo apprezzabile. Non era infrequente il caso che alla costruzione di una nuova zona residenziale venisse abbinato un servizio di trasporto pubblico specifico, creato dallo stesso gruppo imprenditoriale che aveva promosso la speculazione immobiliare: così fece appunto a Chicago la Morgan Park Real Estate, che in un suo opuscolo pubblicitario sottolineava la differenza fra il trasporto pubblico cittadino, affollatissimo, e il servizio speciale della Morgan Park. L’abbonamento mensile al servizio della Morgan Park Accommodation costava cinque dollari e venticinque. Enea:
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The way
the city people get to their homes,
161. Pubblicità della società immobiliare Morgan Park per il proprio servizio tranviario.
2015.
Il sistema delle sopraelevate rese ancora più veloce il collegamento fra centro e periferia e ancora più infernale la vita nella città. Infatti buona parte della ferrovia sopraelevata seguiva il percorso delle vie urbane, correndo all’altezza dei primi piani. La luce tolta alle strade sottostanti, al passeggio, ai negozi, e lo sferragliare continuo dei convogli, trainati da macchine a vapore che infilavano i fumi direttamente dentro le finestre, rendeva ancora più insopportabile il soggiorno nei già fatiscenti quartieri centrali. E tutto questo si risolveva in una ulteriore spinta verso la periferia, che le veloci sopraelevate consentivano di dilatare ancora, e quindi verso nuove possibilità di investimenti fondiari. Giova sottolineare che il moltiplicarsi di queste linee di servizio pubblico nasceva da un disegno sostanzialmente speculativo, e non dall’esigenza di venire incontro agli interessi dei cittadini. Potrebbe sembrare che, a conti fatti, il risultato non sarebbe stato diverso se i servizi pubblici fossero stati gestiti dalla municipalità, ma la differenza è fondamentale.
Certamente
si presentano
in maniera
molto più equivoca certe
forme di speculazione immobiliare, diffuse in Europa, che sfruttano il fabbisogno edilizio effettivo della città costruendo interi quartieri ai margini dell’abitato e lasciando agli enti pubblici l’intero onere delle infrastrutture urbane, incluso il servizio di trasporto; ma questo non significa che il completo abbandono in mani speculative degli indirizzi di espansione delle città americane abbia avuto conseguenze più lievi, o che senza conseguenze sia rimasta la funzione di semplice pedina economica che in tutto questo processo i normali cittadini hanno costantemente svolto. È anche
opportuno
162. Chicago: la sopraelevata.
16.
aggiungere
che tutto
questo
non
avveniva
né
274 fatalmente
né inconsapevolmente.
L’uso speculativo del cittadino inteso
come pedina economica era pienamente cosciente. La fiducia nel rapporto diretto che correva tra incremento della popolazione e speculazione immobiliare era essa stessa sfruttata a scopi speculativi. Nel 1894 la società immobiliare S. E. Gross, « City and Suburban Subdivider and Builder of Homes », offriva i suoi terreni in Chicago, « City of Push », usando questi argomenti: « Nel 1837, solo 57 anni fa, l’intera popolazione di Chicago ammontava a 4179 persone. Ora, nel 1894, è pressoché generalmente assodato che essa ha dentro i suoi confini non meno di due milioni di
abitanti. Ciò dimostra che essa ha moltiplicato la sua popolazione, dal 1837, per 478 volte in 57 anni o, in media, una volta ogni sei settimane. Questo dimostra, inoltre, che essa ha raddoppiato l’intera popolazione quasi nove volte in 57 anni o, in media, ogni sei anni e mezzo. « Nessuna altra città sulla terra può vantare un simile record. Questa è una rapidità almeno doppia di quella con la quale frutta il denaro agli interessi composti.
« Ma il denaro investito 1837 ha avuto un incremento anni fa l’intero blocco a nord la somma di 600 dollari. Se ancora,
a dir poco,
in Chicago in proprietà immobiliari dal ancora più rapido della popolazione. Sedici dell’ufficio postale fu offerto in vendita per spogliato delle sue costruzioni, costerebbe
6.000.000
di dollari.
Quante
volte ci stanno
600
dollari? Immaginate questo per voi. E questo incremento senza precedenti sia nella popolazione che nei valori immobiliari continuerà ancora con un rapporto sempre crescente... » (in Chicago, p. 263, fig. 3). Questi argomenti non sarebbero di un’evidenza così drammatica, almeno
per quanto riguarda il destino dei cittadini di Chicago, se non fossero
The Golden Chance for a Delichtful Home in Town
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A. BUTTERS
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July 9th, 1868
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275
pienamente giustificati e del tutto realistici. I 2.000.000 di abitanti di Chicago, insieme con quelli che sarebbero venuti poi e come quelli di tutte le altre grandi città americane, sono stati costantemente considerati dagli speculatori come altrettante macchinette per far soldi. La tragedia del popolo americano è che questi speculatori, incontrando resistenze del tutto inconsistenti o addirittura incoraggiati dal consenso pubblico, hanno sempre e in ogni caso avuto partita vinta. Chicago fu anche all’avanguardia di un altro fenomeno speculativo, inaugurato dopo il grande incendio del 1871. La ricostruzione della parte più vetusta della città, che era stata praticamente ridotta a un cumulo di macerie
bruciacchiate,
dette la possibilità
di intervenire
con
processi
costruttivi nuovi su terreni che, ad onta delle devastazioni e anzi proprio in conseguenza di queste, valevano oro. Così si pose il problema di superare i limiti tradizionali di altezza (per i quali non esisteva alcun vincolo
edilizio)
adottando
nuove
tecniche
costruttive,
che
dovevano
essere particolarmente efficaci in una città costruita su terreni instabili. Un primo passo fu compiuto con un nuovo sistema di fondazioni, adottato verso la fine degli anni ottanta nel Montauk Block di West Monroe
Street:
il « floating raft » (« zattera galleggiante »). Nel 1893 gli stessi
architetti Daniel H. Burnham e John Wellbotn Root, impiegando lo stesso sistema di fondazione, passarono dai dieci piani del Montauk Block
ai sedici del Monadnock Block di West Jackson Boulevard. Tuttavia, conservando
il sistema
tradizionale
di muratura,
Burnham
e Root dovettero dare alle mura del Monadnock Block uno spessore di quasi due metri alla base. Sei anni prima William Le Baron Jenney, senza
andare oltre i nove
piani, aveva invece creato
del grattacielo, adottando nello Home La Salle Street e Adams
il veto
progenitore
Insurance Building, all'angolo fra
Street, la tecnica
della struttura
in acciaio
e
cemento, tamponata con un sottile spessore di muratura.
La portata di
questa
le conseguen-
innovazione
tecnica
fu enorme
soprattutto
per
ze che ebbe nella ristrutturazione dei centri commerciali delle mettopoli americane. I grattacieli sorsero accanto agli slums, facendo impennare di nuovo i costi delle aree all’interno delle città e sospingendo verso la periferia altre ondate di sfrattati. Le nuove costruzioni in elevazione ospitavano uffici o alberghi; in ogni caso si trattava di edifici sfarzosi, che assolvevano con il loro aspetto imponente anche a un preciso compito di rappresentanza. Il contrasto che essi creavano con le zone povere delle città, conservate poco più in là, era stridente e drammatico; ma non
era certo la visualizzazione dei problemi sociali capace di creare intralci a questa nuova impresa speculativa. Se confrontiamo l’uso che la società americana ha fatto dello « skyscraper » con la proposta, ad esempio, di Le Corbusier, non è difficile
cogliere il vero significato che nelle metropoli statunitensi (e poi anche europee) assunse questa innovazione tecnica. Le Corbusier vide il grattacielo come la possibilità di creare un’unica colonna di abitazioni e di servizi inserita in una vasta area non edificata, la quale aveva il compito
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164. Schema tipo delle tendenze di espansione delle città statunitensi prima dell’avvento delle ferrovie e dell’introduzione del trasporto pubblico urbano.
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165. Schema-tipo delle tendenze di espansione delle città statunitensi dopo l’introduzione del pubblico trasporto e prima della diffusione dell’automobile (1850-1920 circa).
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166. Schema-tipo delle tendenze di espansione delle città s tatunitensi dopo la diffusione del mezzo proprio e fino all’attuazione del programma autostradale (1920-1960).
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167. Schema-t ipo delle tendenze di espansione delle città s tatunitens i dopo la rea lizzazione del
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278
preciso di tradurre in termini concreti e insieme tecnicamente avanzati l’idea, peraltro assai cara alla cultura americana, della città-giardino, inte-
grando in un unico sistema abitativo residenze, servizi e spazi verdi. Ma negli Stati Uniti solo in pochi casi il grattacielo fu ed è usato come blocco residenziale. Forse proprio perché gli edifici a più piani destinati ad abitazione in condominio sono caratteristici degli slums, i cittadini americani preferiscono, quando possono, isolarsi in una dispersione di villette unifamiliari sparpagliate per la periferia, ognuna col suo fazzoletto di giardino e il vialetto selciato che porta al garage. Per questa via si è arrivati a situazioni estreme come Los Angeles, che non è una città ma un paradosso urbano, con decine di chilometri di viali costeggiati da ville e villette, l’uso dell’automobile obbligatorio, le autostrade che attraversano da un capo all’altro la città, una delle percentuali di inquinamento da gas di scarico più alta del mondo. Questa situazione di dispersione delle residenze nella periferia fu aggravata e per molti aspetti determinata appunto dall’avvento dell’automobile che, dagli anni venti in poi, consentì di occupare tutti gli spazi vuoti che erano stati lasciati ai margini delle città soprattutto per la difficoltà di collegarli al centro con mezzi di trasporto pubblico. La diffusione del mezzo proprio, che fino allora era stato appannaggio di pochi (ed erano questi pochi che per primi erano fuggiti dalle città, a partire da quasi un secolo prima, dando inizio a un fenomeno che doveva diventare irrefrenabile), ruppe l’ultimo ostacolo che impediva di rendere costante il rapporto fra rendita fondiaria e incremento demografico dei centri urbani. La scacchiera, con le sue possibilità indefinite di sviluppo esterno e di utilizzazione interna, è ancora oggi il disegno di base delle città americane. Sporadici tentativi di creare nuovi quartieri con pet-
corsi curvilinei meno monotoni e impersonali sono stati di solito inglobati e travolti con considerevoli rapidità dalla città che avanzava con bordate di un miglio quadro alla volta. Sarebbe tuttavia ingiusto dire che per la città americana non sia mai stato fatto altro che lasciarla abbandonata alla più sfrenata speculazione. È singolare però che ogni tentativo, anche se mosso dalle migliori intenzioni, ha finito in definitiva col portare acqua al mulino degli agenti immobiliari. Idee come quelle di Le Corbusier, e anche gli interventi di altri grandi dell’architettura, sono passati su queste città come la pioggia maggiolina, lasciando qualche edificio isolato, qualche piano di fabbricazione o qualche strascico di imitazione formale che non hanno mai fatto storia, oppure, addirittura, hanno fatto da supporto a qualche nuova operazione speculativa un po’ meno brutale di quelle solite. A livello politico le prime iniziative risalgono alla fine del secolo scorso. Si trattava di iniziative caritative e assistenziali, che muovevano
dalla ovvia constatazione dei livelli infimi di vita di certi strati della popolazione, ma che per necessità di cose promanavano proprio da coloro che detenevano il potere (industriali più aperti, amministratori lungimiranti). Il carattere paternalistico di questo genere di interventi, condotti
265)
in buona o in cattiva fede, raggiungeva immancabilmente il risultato di bloccare la macchina elettorale su un binario motto, poiché tutti i consensi finivano per appoggiare la stessa categoria di persone. La dialettica a circuito chiuso fra imprenditore arcaico e tiranno contro imprenditore moderno
e aperto
(e all'occorrenza
caritatevole)
è stata
ed è uno
dei
più forti strumenti di conservazione della società americana. Per arrivare a una seria presa di coscienza del problema edilizio fu necessario il tracollo finanziario del 1929, che mise a terra prima di tutto la speculazione fondiaria, retta non dal commercio di beni reali ma dal presunto realizzo di utili ipotetici e fittizi. La politica di intervento dello Stato, richiesta per riparare al disastro generale e consacrata sotto il nome di « New Deal », fece sentire le sue conseguenze anche a livello urbanistico. Si accertò che un terzo delle case esistenti negli Stati Uniti erano fatiscenti e fu deciso l’intervento federale. Con lo Housing Act
del 1937 si stabiliva che il governo centrale sarebbe intervenuto a fondo perduto o con mutui a basso tasso d’interesse a finanziare fino al 90 per cento della spesa la demolizione degli slums (« qualsiasi area urbana caratterizzata da condizioni di deterioramento edilizio, sovraffollamento, cattive caratteristiche costruttive, assenza di ventilazione, di luce o di
servizi igienici, in cui uno o più di questi fattori possano nuocere alla morale, alla sicurezza o alla salute pubblica ») e la ricostruzione, sulla stessa
area, di alloggi popolari. Gli alloggi costruiti sarebbero rimasti di proprietà del comune, il quale avrebbe determinato i fitti in maniera equitativa, e comunque
in misura non superiore a un quinto del reddito familiare
degli inquilini. Questi interventi erano possibili solo in quelle aree definibili come « slums » e non altrove. I progetti di risanamento non dovevano essere inseriti in piani regolatori generali, essendo richiesto solo un programma di demolizione e di ricostruzione. Inoltre non era prevista una compensazione in aree nuove e ciò significava che, dovendosi in ogni caso ridurre il sovraffollamento degli slums, una quota parte dei vecchi residenti non poteva trovare alloggio nei nuovi edifici. Il meccanismo della legge metteva inoltre il comune nelle condizioni di trarre vantaggio economico dall’assegnare gli alloggi alle famiglie con reddito più alto, e anche questo non fu senza conseguenze. Tre anni dopo l’approvazione dello Housing Act 200.000 persone in tutti gli Stati Uniti avevano usufruito di un nuovo alloggio a queste condizioni. Si era dunque ancora molto lontani da quel terzo di edilizia da sostituite che era stato individuato in fase di accertamento statistico. Ma la guerra indirizzò i fondi federali verso altri tipi d’investimento. Passata la guerra il problema fu ripreso e risultò chiaro che l’unico modo di affrontarlo in maniera seria era quello di intervenire direttamente sul regime dei suoli. Ma risultò chiaro anche che il principio dello stato imprenditore, timidamente accettato nello Housing Act del 1937, apparteneva ormai all’album dei ricordi sgradevoli. La nuova prospettiva era quella di intervenire sui suoli, ma accollando all'intervento
280
federale e alle amministrazioni locali l’onere della speculazione immobiliare. Il senatore dell'Ohio Robert A. Taft riuscì inoltre a far passare il principio che il nuovo Housing Act, approvato nel 1949, dovesse riguardare
unicamente
le aree
residenziali,
e non
tutto
il territorio,
e
limitatamente allo stesso tipo di riutilizzazione. Le aree venivano comprate a prezzo, diciamo così, di mercato e ricedute a privati, i quali acquistandole si assumevano l’obbligo di demolire e ricostruire secondo gli standards stabiliti dai piani comunali. La differenza, evidentemente negativa, tra il prezzo di acquisto e il prezzo di ricessione ai privati costruttori, con l’aggiunta dei costi di urbanizzazione, era coperta per due terzi dall’intervento federale e per un terzo dalle amministrazioni locali. Non era affatto garantito poi che questi alloggi sarebbero effettivamente andati ai meno abbienti. Ma, d’altra parte, l’obiettivo era di
eliminare la bruttura degli slums, non quello di sollevare socialmente le classi diseredate che vi risiedevano. In effetti era tanta la fiducia che il governo aveva in questo tipo di provvedimento che si decise, contemporaneamente all’approvazione del nuovo
Housing
Act, anche
il rifinanziamento
di quello del 1937.
Resta
comunque difficile da capire la ragione interna di un simile complicato meccanismo per arrivare a finanziare la speculazione immobiliare con fondi pubblici. Sarebbe stato molto più semplice (e più sicuro) che il governo federale comprasse alloggi dai costruttori privati, li affittasse agli abitanti degli slums e negli slums acquistasse tutto, demolisse tutto e arasse tutto, come Scipione fece con le rovine di Cartagine. Molto probabilmente questa operazione sarebbe costata meno e avrebbe raggiunto risultati più soddisfacenti. Ma è evidente che il senatore Taft era pienamente riuscito nell’intento di rendere innocua e inoperante una legge pericolosa che, sia pure lasciando un discreto margine alla speculazione, rischiava di togliere dalle mani degli imprenditori privati il destino delle città. Questo era il vero scopo da raggiungere e fu raggiunto. Quanto allo Housing Act del 1949, esso restò praticamente inoperante. Nel 1954 fu però modificato, dando inizio a un processo di revisione
urbanistica che va sotto il nome di « urban renewal ». Le possibilità di intervento furono estese alla creazione di infrastrutture e servizi pubblici (scuole, ospedali, aree verdi, ecc.); alle amministrazioni
pubbliche il go-
verno federale assicurava il finanziamento e il mantenimento di strumenti tecnici per lo studio delle situazioni urbanistiche e per la redazione di regolamenti edilizi e piani-guida per l’iniziativa prvata. Ma ormai, a parte la persistente ristrettezza degli obiettivi, il problema era abbondantemente
debordato oltre i confini municipali. Nel 1956, con l’approvazione dell’Interstate Higway Bill, il governo federale stanziava 27 miliardi di dollari per la costruzione di autostrade. Il flusso e riflusso dalle città diventò parossistico.
I nuovi
immigrati
(soprattutto
gente di colore o
bianchi emigrati dai paesi sottosviluppati) occupavano di preferenza il centro della città, che veniva invece abbandonato dal ceto medio, ormai giunto a un livello economico sufficiente per costruirsi la villetta uni-
281
familiare alla periferia: una periferia che il nuovo piano autostradale rendeva smisurata. Le amministrazioni locali, che venivano così private delle imposte una volta pagate dai cittadini abbienti, sostituiti nel centro da persone che al contrario bisognava assistere, e contemporaneamente impegnate in sempre più costose sistemazioni viarie per l’inctemento del flusso automobilistico dovuto soprattutto alla crescente terziarizzazione del vecchio nucleo urbano, entravano in crisi. A questo contribuì in TOUHY
DEVON
x O'Hare-Chicago
CHICAGO
International Airport
76
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AND
URBAN
RENEWAL
RELATED ACTIVITIES JANUARY, 1967
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CENTER COMMISSION
COMMUNITY
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" JEFFERSON PARK 12. FOREST GLEN 13. NORTH PARK \4 ALBANY PARK 15° PORTAGE PARK 16 IRVING PARK 17. DUNNING 18 MONTCLARE 19. BELMONT CRAGIN 20 HERMOSA 21 AVONDALE 22 LOGANSQUARE 23 HUMBOLDT PARK 24 WESTTOWN 25 AUSTIN 26 = WEST GARFIELD PARK 27 EAST GARFIEL® PARK 28 NEARWEST SIDE 29 . NORTH LAWNDALE 30 SOUTH LAWNDALE
49 ROSELAND 50 PULLMAN 51 = SOUTH DEERING 52 EAST SIDE 53 WEST PULLMAN 54 = RIVERDALE 55 = HEGEWISCH 56 GARFIELD RIDGE 57 ARCHERHEIGHITS 58 BRIGHTON PARK 59 MC KINLEY PARK 60 BRIDGEPORT 61 NEWCITY 62 WEST ELSDON 63 GAGE PARK 64 CLEARING 65 WEST LAWN 66 CHICAGO LAWN 67 WEST ENGLEWOOD 68 ENGLEWOOD
31 22
LOWERWEST SIDE LOOP
69 70
GREATER GRAND CROSSING ASHBURN
NEAR SOUTH SIDE
33.
34
71
AUBURN
ARMOUR SQUARE
72
BEVERLY
DOUGLAS OAKLAND FULLER PARK GRAND BOULEVARD
73: WASHINGTON HEIGHTS 74 = MOUNT GREENWOOD 75. MORGAN PARK 76 ANNEXATIONS NOT ASSIGNED TO COMMUNITY AREAS, 1950-1966
GRESHAM
168. « Urban renewal » a Chicago nel 1967.
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282
maniera pesante anche l’ultima grande fuga dalla città: quella delle industrie. Lo sviluppo dei trasporti pesanti su strada, incoraggiato dal piano autostradale, e la vertiginosa trasformazione delle tecnologie sono i due fattori principali che hanno sganciato le industrie americane dalle città. Per quanto paradossale ciò possa apparire, questo sganciamento ha favorito l’ultimo grosso diversivo che la mano privata americana ha saputo gettare fra i piedi dei ricercatori e degli urbanisti: l'inquinamento. Non più condizionate o quanto meno frenate dalla vicinanza degli abitati che in qualche modo, sia pure per sola resistenza passiva, imponevano una forma di controllo sulle attività inquinanti, le industrie hanno potuto sferrare il più massiccio e incondizionato attacco mai portato alla natura nella
storia dell'umanità. Oggi chi parla dei problemi americani in chiave urbanistica è un sorpassato. Oggi di questi problemi si deve parlare in chiave di ecologia, cioè di sopravvivenza. Comunque, il crearsi di quale lo stesso concetto di riale, non ha comportato la poli americana, e soprattutto
questa nuova dimensione urbanistica, nella megalopoli rientra come un aspetto settosoluzione dei problemi originari della metrodel problema degli slums. Anzi, nuovi pro-
blemi si sono creati in aggiunta ai vecchi, come
la crisi dei trasporti
pubblici, sia urbani che extraurbani. In particolare la crisi delle grandi compagnie ferroviarie, costrette a mettere all’asta i loro grattacieli di Manhattan, rischia di coinvolgere Wall Street in una crisi generale. Quanto
agli slums, essi continuano
ad essere una
realtà tragica e da qualche
anno anche una notevole fonte di preoccupazione politica. Le rivolte popolari di Chicago, di Atlanta, di Tampa, di Louisville sono episodi
che le autorità non hanno sottovalutato, anche se hanno ritenuto di poterli prevenire aumentando la repressione poliziesca. Ad Harlem, particolarmente d’estate, quando il calore trattenuto da miliardi di tonnellate di cemento trasforma New York in una specie di colossale fornace e caccia fuori dalle case uomini e topi, le vie si riempiono di poliziotti, messi lì per prevenire i prevedibili contraccolpi psicologici della calura. Generalmente però gli stessi abitanti degli slums, anche quelli che stanno nelle più squallide stamberghe, sono contrari alla loro ristrutturazione, poiché sanno che in questo caso hanno nove probabilità su dieci di trovarsi ricoverati in qualche family-hotel, non avendo la possibilità di permettersi un nuovo alloggio troppo costoso per loro. Alcuni risolvono il problema da soli. Gli squatters di New York si sono organizzati tra loro e occupano sistematicamente gli alloggi non ancora concessi in affitto da quei proprietari che, preferendo la gallina all’uovo, attendono che scada il termine del blocco dei fitti per cercare nuovi inquilini. C'è da chiedersi, tuttavia, se sia proprio questo il problema peculiare delle città americane, anche se negli slums esso si manifesta nella maniera più percepibile. In fondo la condizione degli abitanti degli slums, sia pure ingigantita quantitativamente, non è diversa nella sostanza dalla
283
condizione in cui vivevano gli abitanti di quei quartieri europei di cui Engels descriveva le condizioni più di un secolo fa. Sa ben si riflette, concentrare l’attenzione sulle condizioni deprimenti degli abitanti dei ghetti americani significa anche pensare di poter risolvere il problema con interventi caritativi o paternalistici, come in effetti sin dalle origini è avvenuto
e continua
ad avvenire
in occasione
delle varie campagne
elettorali, senza che mai il voto dei negri e dei diseredati sia riuscito a spostare di un millimetro la bilancia del potere. Del resto non può essere considerato un caso che, all’interno del rigido sistema capitalistico statunitense nel quale l’iniziativa privata non ha alternative né pratiche né di principio, gli unici interventi federali che in qualche modo abbiano
avuto uno sbocco concreto sono stati quelli volti all’eliminazione o alla riduzione degli slums, mentre ogni proposta di gestione diretta del territorio da parte degli enti pubblici, per quanto timida e limitata, ha sempre abortito. Evidentemente il problema di fondo delle metropoli americane non è negli slums ma altrove, e altrove sono anche le ragioni stesse del disastro umano costituito dagli slums. Le città americane non sono città senza stotia. Senza storia sono coloro che le abitano. Il Sica, rivestendo la situazione di inutili eufemismi, osserva che, nelle città americane, « in modo autonomo si accen-
tua pragmaticamente, in un continuo processo di fest and trial, la permanente sollecitazione del tessuto antico della città a rispondere al challenge di una più avanzata evoluzione quantitativa e tecnologica. Le unità utbane — dall’unità residenziale all'area urbana — sono essenzialmente non riparabili, ma sostituibili, ciò che assicura una continua flessibilità
della scena urbana, una permanente strutturazione-destrutturazione, visibile e non visibile. È in fondo la cattura teotica di questo concetto che ha portato alla formulazione dell’ipotesi della megastruttura come contenitore di cellule variabili, del tipo della plug-in city. Ma soprattutto la qualità profondamente fenomenica della città americana (e intendiamo con questo l’estensione, la ricorrenza, la tipizzazione e la possibilità di quantificazione dei fenomeni che è intrinseca alla cultura statunitense) ha reso possibile il sorgere di indirizzi più sistematici, al punto che si arriverà a considerare plausibile l’utilità di identificare una serie di isomorfismi fra determinate manifestazioni delle scelte sociali e delle unità urbane in gioco, e sistemi matematici di equazioni. Leggendo oltre le apparenze immediate, la griglia dissolve lo spazio geometrico e vi sostituisce lo spazio economico, che fa la città americana — a differenza di quella europea
—
strutturalmente
orientata
verso
una
riduzione
a categorie
analitiche, allo stesso modo che i valori collettivi sono più agevolmente traducibili secondo scale (soprattutto economiche) di misura e di confronto. Per questo non va dimenticato che l’indirizzo scientifico-sistema-
tico del planning ha le sue origini negli Stati Uniti soprattutto nelle ricerche di mercato, e a questo ‘peccato originale’ quasi tutte le linee di ricerca direttamente o indirettamente
rinviano:
operazionismo e com-
284
portamentismo,
sono
sottesi dal mercato
e dalla sua dinamica » (L’ir2zza-
gine della città da Sparta a Las Vegas, 1970, pp. 214, 215). Ma hanno mai avuto, queste città, un « tessuto antico »? La domanda potrebbe essere irrilevante in se stessa, ma non lo è per le città statu-
nitensi. In realtà, sin dalle origini, la « sollecitazione » nei confronti del tessuto, che per evitare equivoci sarà meglio non chiamare « antico », è stata talmente permanente che molto difficilmente una qualsiasi generazione di americani si è trovata nella condizione di non vedersi cambiare quasi del tutto la città sotto i piedi nel corso della vita. Il Sica, dopo avere esposto con esattezza i termini del problema, sembra non voler discutere sulle conseguenze e quasi sfuggire alla considerazione delle ripercussioni che questo continuo trasformarsi delle città americane ha avuto sui loro abitanti, in rapporto a nessun’altra esigenza che le richieste « di mercato » (cioè, fuori di celia, le esigenze dell’impresa capitalistica);
anzi, il lettore malizioso potrebbe anche pensare che, essendo il Sica architetto, egli si rallegri in fondo meditando su queste città « non riparabili » ma « sostituibili » in ogni loro parte, e che tutto sommato egli si illumini di piacere di fronte alla prospettiva di interventi progettuali, praticamente non condizionati, all’interno della griglia indefinita e isomorfa delle metropoli USA. Ma qual’è, in queste smisurate tavole pitagoriche che insistiamo nel chiamare
città, il destino, lo spazio, la vita dei milioni di persone che
ci stanno dentro? È lecito pensare ancora che un simile assetto urbano, determinato sin dalle origini e continuamente controllato dalle esigenze « di mercato », sia irrilevante agli effetti della struttura sociale che in esso si organizza, o che dovrebbe cercare di organizzarsi? E possiamo davvero ritenere che il « continuo processo di fest and trial » (cioè, fuori di gergo,
la continua
sperimentazione
urbanistica
e tecnologica
prati-
cata direttamente sulla pelle degli americani) non abbia lasciato traccia di sé anche nel modo di vivere, di pensare e di comportarsi degli abitanti dei centri urbani? Se si pensa che non solo la struttura urbanistica delle città statuni-
tensi è quasi del tutto indifferente nei confronti degli abitanti, ma che questi stessi abitanti sono
sempre
stati e sono tutt'oggi entità perenne-
mente fluttuanti dentro il sistema metropolitano o megalopolitano, non è difficile rendersi conto che in queste città aperte a ogni possibile soluzione urbanistica la resistività sociale tende a zero. Ciò significa anche che ogni possibile tipo di intervento (non solo urbanistico, ma anche sociale, economico
o politico) diventa possibile, senza che esso incontri
apprezzabili opposizioni. Per lungo tempo, in Europa, le resistenze opposte dal tessuto urbano antico sono state considerate indice di arretratezza e di conservatorismo, ma in tempi più recenti si è quanto meno imparato a problematizzare l'intervento sui centri storici, cioè a vagliare quali
elementi culturali, di cui la città antica sia espressione e tramite, convenga conservare e quali disperdere. Per le metropoli americane questo problema
non
si può porre,
né in questi termini
elementari
né in altri
285 termini. Qui la città antica non esiste. Non esiste una cultura urbanistica
da conservare o da modificare. Non esiste nessun ostacolo alla volontà di coloro che dispongono del potere economico e conseguentemente possiedono la capacità di rendersi arbitri del destino delle città, nonché del futuro di coloro che le abitano. Queste metropoli o megalopoli non sono nate dalle esigenze di una comunità che si organizza e che conseguentemente decide i modi del proprio vivere e del proprio abitare. Esse hanno tutte un’unica storia, che è la storia dell’organismo speculativo che le ha generate. Questa storia è stata costruita, dollaro su dollaro, da quella minoranza di sfiziosi che registravano sui libri contabili, prima ancora che nel bollettino delle anagrafe, l’afflusso dei nuovi venuti e la naturale proliferazione dei cittadini residenti. In questi ammassi urbani gli abitanti sono sempre stati puri accidenti umani;
presi tutti insieme, essi hanno costituito e costituiscono
aggregazioni umane altrettanto accidentali, che l'introduzione di un nuovo mezzo nuova
di trasporto, lo spostamento di un'industria, la costruzione di una expressway può in ogni momento disgregare. La loro storia non
è mai stata e non è storia di popolo, poiché quello che poteva essere un popolo è stato sistematicamente diviso, disperso, deportato in una migrazione senza fine lungo gli assi viari dell’indifferente scacchiera. Tra il 1955 e il 1960 due quinti delle persone oltre i cinque anni di età cambiarono casa in New York e due milioni di individui complessivamente lasciarono la città o vi entrarono tra il 1950 e il 1960. Ma a questo flusso e riflusso dei residenti occorre aggiungere il fenomeno del pendolarismo. Ogni giorno 2.250.000 lavoratori si servono del mezzo WESTCHESTER COUNTY
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G 169. New York: sistema delle linee sotterranee (a tratti) e delle sopraelevate (linea continua).
286
pubblico per lasciare la zona centrale di il novanta per cento nelle ore di punta. sera una città come Roma, ripopolandola neamente 600.000 autoveicoli si muovono Ma è inutile cercare una
Manhattan, concentrandosi per Ciò equivale ad evacuare ogni la mattina dopo. Contemporasu e giù a sud della 60° Strada.
ragione sociale di questo
fenomeno,
o almeno
cercarla nella volontà di quei milioni di individui che del fenomeno sono i protagonisti, anche se sono loro che hanno pagato Manhattan e che ogni giorno pagano per continuare a mantenerla insieme.
Richard Buckminster Fuller, com’è noto, non si è limitato a proporre di coprire le città con cupole geodetiche, ma ha anche avanzato l’idea che ogni individuo potrebbe essere dotato di una capsula viaggiante,
COMANDI
E SEDILE PIEGHEVOLI
GABINETTO
DIVANO
TRASFORMABILE
SEMOVENTE PER
OPPURE
USATO
a
TURISMO
PER
COLLEGAMENTO
FRA
CITTA’
IN CONVOGLI
SU STRADA
FIN 0a (io O
ie
OPPURE SU AEREO COME UNITA' INTEGRALI PER USO PERSONALE IN OGNI TRATTA DI VIAGGIO
E
170. R. Buckminster Fuller: la capsula viaggiante.
287
molto diversa dall’attuale automobile, perché modulare e costruita all’interno come una roulotte individuale, cioè dotata dei minimi conforts necessari per vivere (sedile, divano-letto, gabinetto). Essa potrebbe essere caricata agevolmente su un treno o su un aereo, oppure funzionare autonomamente. Certo, proposte di questo genere possono far sorridere un europeo. Ma questa idea di trasformare ogni individuo in una sotta di chiocciola con
ruote,
semovente,
autosufficiente,
componibile
e accatastabile,
che
cosa è se non la razionalizzazione di un processo che già coinvolge almeno quei tre quarti di americani che vivono nelle città? Non c’è dubbio che Buckminster Fuller, il quale fino dal 1927 pensava a un simile progetto, ha penetrato molto più di altri il vero processo di sviluppo e la natura reale della società americana. La sua monade viaggiante, in fondo, non è che il parallelo su ruote della palazzina unifamiliare di Frank Lloyd Wright, col suo bravo mezzo ettaro di verde intorno, simbolo altrettanto
171. Fr. Lloyd Wright: progetto per quattro villette.
288
efficace della tendenza all’isolamento e al rifiuto della vita comunitaria caratteristico della vita attuale del cittadino americano. Del resto oggi accade proprio questo. Spingersi lontano dalle città, costruirsi la casa più lontano dagli altri èla parola d’ordine, almeno per chi ne ha le possibilità STE È noto che la villa costruita nel deserto che Michelangelo Antonioni faceva saltare in aria in Zabriskie Point esiste davvero e non è un'invenzione del soggettista. E, soprattutto, non è la sola villa costruita nel deserto. Non fu certo un caso se la grande stampa statunitense demolì questo film, presentato nel 1970. Ma la stampa giovane e underground vi riconobbe invece dei problemi che la massa del pubblico « doveva » ignorare. Essa si accorse, per esempio, che il film era girato a colori reali, e che l'America di Antonioni era l'America vera, che cerca rifugio nel deserto per scappare dalla città tappezzata di insegne, di tabelloni pubblicitari, di stazioni di servizio, di signacoli del prestigio e del potere distribuiti dovunque. E si accorse anche che il giudizio di Antonioni era un giudizio formulato sulla base di una cultura storica, che gli consentiva di guardare le cose da un angolo visuale diverso da quello del cittadino americano, e nel quale il cittadino americano non avrebbe forse neppure avuto la possibilità di collocarsi, quand’anche lo avesse voluto. E questo probabilmente è il problema di fondo: stabilire se l’incapacità della cultura americana di esaminare i problemi storicamente è senza conseguenze 0 può, al contrario, determinare gravi squilibri nella prassi quotidiana, o addirittura provocare il tracollo dell’intera struttura. Il Sica allude, sempre molto pudicamente, a questa situazione, quando sottolinea la tendenza « a considerare plausibile l’utilità di identificare una serie di isomorfismi fra determinate manifestazioni delle scelte sociali e delle unità urbane in gioco, e sistemi matematici di equazioni », o quando segnala « la qualità profondamente fenomenica della città americana », intesa come estensione, ricorrenza, tipizzazione, possibilità di quantificazione dei fenomeni. Occorre aggiungere che non mancano, nella vastissima produzione degli studiosi e dei ricercatori americani, opere, anche sull’urbanistica, che hanno un respiro storico, cioè che si pongono il problema di una ricostruzione nel tempo di un certo tipo di fenomeni e di fatti. Si tratta anche di studi oggettivi, cioè non agiografici, che non tacciono gli errori commessi e non idealizzano i mostri sacri della storia statunitense. Ma ciò che lascia sconcertati è l’incredibile e incondizionata fede nel futuro. Sugli errori del passato spesso si insiste fino alla noia, ma è assai difficile che del passato si recuperi qualcosa che possa servire come elemento di continuità o di progresso. Il passato non deve essere ignorato, nella concezione generale americana, ma deve anche essere sistematicamente superato e, se necessario, distrutto. La sua sopravvivenza
è intesa al massimo come testimonianza, come simbolo, come ricordo; esso non rientra nei « sistemi matematici di equazioni » se non come coefficiente negativo. Qui era anche la causa dell’incomprensione fra noi e i nostri colleghi
289
americani al convegno di Bologna. Ma il fatto singolare era che l’incomprensione non si verificava tanto sulle ragioni storiche dei mali delle città americane, bensì sugli strumenti politici che potevano essere adoperati per risolverli.
Infatti il risultato
della mancanza
di una
presa di
coscienza storica dei problemi urbanistici era proprio l’incapacità di discuterne in termini globali. Non risalendo alle premesse e alle origini reali dei loro problemi, essi erano incapaci di negare, come noi invece facevamo, la realtà americana nel suo insieme, anche soltanto in via mera-
mente teorica. Volendo limitare la cosa a una questione di dialettica, si potrebbe dire
che la cultura statunitense è capace di porre in maniera chiara e sufficientemente completa le sue tesi, ma che manca di un certo numero di anti-
tesi. La metropoli, la megalopoli vengono discusse nelle loro disfunzioni tecniche, ma non rinnegate come sistema urbanistico. Così anche la follia tecnologica non ha antitesi. Si può discutere su come rimediare all’inquinamento da calore, ma non si pone neppure in teoria la possibilità di rinunciare alle centrali termonucleari come fonte di energia. Anzi, per essere esatti, la città viene negata solo per fare dei balzi
ancora più avanti. Viene negata perché, per dirla col McLuhan, la società elettrica ha rotto i limiti di tempo e di spazio che erano tradizionalmente posti alla base della struttura delle città. Ma non si pone il problema se le conseguenze umane di questa elettrificazione del cittadino siano tali da indurre a proporre una ricostituzione della città nei termini tradizionali. Sui muri, sui cartelli, negli slums, in quella umanità incognita che va su e giù per Manhattan, in tutte le forme di degradazione urbana, in questa gente che riesce a mettersi in contatto con il resto del mondo soltanto attraverso il cinescopio del televisore, nella fuga dagli altri di tutti quelli che possono e nella miseria di quelli che restano, si può ormai leggere un’eventualità: l’eventualità che progresso tecnologico e progresso sociale siano due entità inversamente proporzionali. Ma anche questo problema non esiste per la cultura americana, o almeno per la massima parte di essa. Né è possibile, evidentemente, ridurre tutto ciò a una questione di specializzazione o di approfondimento culturale, quasi che fosse sufficiente farne carico a una deficienza, rimediabile, di un ristretto numero
di persone. Forse non sarebbe difficile convincere qualche professore universitario o qualche altro ricercatore più o meno underground a porre il problema in termini globali, anziché settoriali, e a trarre tutte le conseguenze teoriche possibili da un’analisi storica della società americana. Ma quei milioni di persone che vanno su e giù per Manhattan senza un fine plausibile, oltre a quello della sopravvivenza, o coloro che si isolano nelle periferie sempre più sperdute, chi li recupera alla società? È possibile pensare che i problemi della nazione americana, che poi per riflesso sono anche i problemi di buona parte del mondo, siano risolvibili senza di loro, o senza tenere conto della loro esistenza? Per quanto paradossale possa apparire, per trovare un embrione di
19%
290
comunità che in qualche modo leghi con la città bisogna andare proprio dove l’ambiente urbano si fa più degradato e repulsivo, cioè negli slums, nei ghetti, in tutti quei luoghi dove gruppi allogeni o socialmente discriminati si sono in qualche modo organizzati. Forse è perché nei dormitori di Bowery si dorme e basta, forse è perché in appartamenti fatti di una sola stanza e col cesso nel corridoio non si sta a proprio agio come in un
living, forse è perché un disoccupato senza soldi in tasca ha poco altro da fare che accosciarsi su un marciapiede, forse è perché la disperazione e la miseria stimolano i contatti umani: fatto è che questi, o altri motivi, hanno fatto sì che proprio questa gente si sia conquistata permanentemente la strada e la sua porzione di spazio esterno nella città. Così, dalla miseria e dalla frustrazione, nascono le vere antitesi della città americana. Nascono cioè, al di fuori di tutto ciò che caratterizza e definisce
il normale
cittadino americano, le comunità
degli esclusi, per le quali
il rifiuto dell’integrazione diventa perciò stesso uno strumento di sopravvi-
venza. Si fa strada, fra i membri di queste comunità, forse più per la forza delle cose che per forza di ideologia, la convinzione che il problema non sia quello di richiedere il lasciapassare per entrare a far parte della classe di coloro ai quali, in cambio del benessere, si chiede l'annullamento della coscienza. Perciò proprio in questi ghetti si capisce meglio come i problemi più profondi non siano quelli dello Housing Act o dell’urban renewal, ma abbiano origini assai più lontane di quelle che potrebbero trovare qualche soddisfazione in un risanamento di ambiente. C'è un filo politico preciso che lega Spanish Harlem e l'Est della 100° Strada alle miniere sudamericane gestite dall’industria statunitense, nelle quali la vita media di un minatore è di trentacinque anni. Oppure alle piantagioni del Guatemala, dove la United Fruit finanziò l’esercito mercenario di Castillo Armas
per aiutarlo a restaurare la dittatura, ed evitò così di essere espropriata dalle sue piantagioni di banane. In questi ghetti si può capire che da
tempo il sottosviluppo indigeno non è più sufficiente all’economia degli Stati Uniti e che quindi occorre crearlo e mantenerlo altrove. Qui si capisce,
in definitiva,
come
ha funzionato
e come
funziona
il mecca-
nismo dell'impresa capitalistica statunitense. Il progresso tecnologico ha una sua legge economica, che è ferrea. In base a questa legge i prodotti del progresso, cioè le macchine, devono valere sempre di più e le materie prime, in rapporto, sempre di meno. Perciò chi sta dalla parte del progresso è in grado di spingere sempre più in alto il suo livello di vita, e chi sta dalla parte del rame,
del
piombo, dello zinco, del petrolio, delle banane, del caffè, del cacao può e deve essere precipitato nel più profondo sottosviluppo. I portoricani, i dominicani, i siciliani importati di contrabbando che vanno a lavorare sottopagati nelle fabbriche o nei magazzini della megalopoli sono un limitato test della fame di sottosviluppo che c’è negli Stati Uniti. Anche se il flusso dei nuovi venuti continua con ritmo febbrile a ingrossare le città e a creare nuove riserve di sfruttati, ormai
DS
la macchina mastodontica non è più autosufficiente. Per questo occorre ampliare oltre i limiti spaziali e temporali la città, inventare la città elettrica, raggiungibile con le onde radio e con i satelliti televisivi in ogni sua parte. È il tentativo di riprodurre a livello mondiale lo strumento
172. Est della 100* Strada (B. Davidson).
292.
di potere metropolitano che è servito così bene fino a pochi decenni fa. In questo ambito i nuovi slums si chiamano Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Guatemala,
eccetera.
Sono più comodi degli slums tradizionali. Essi non creano difficoltà ai sindaci né provocano sommosse o agitazioni politiche intestine. L’unico problema che pongono è quello del consenso dei popoli. Ma se i popoli corrono dietro agli strumenti della città elettrica come i cittadini di una volta correvano dietro ai capolinea delle metropolitane il gioco è fatto. Forse è proprio questo che la cultura americana non riesce a percepire fino in fondo, in quanto non si dimostra capace di riproporre tutto il problema fin dal principio e, soprattutto, non ha la possibilità di recuperare, come un europeo ha, valori per molti secoli obliterati perché pareva che essi non servissero alla nuova situazione sociale, ma che oggi possono diventare preziosi per difendersi da questo assalto che vuole assimilare il popolo europeo e mondiale alle pedine umane con le quali gli speculatori yankee di una volta giocavano le loro partitelle urbanistiche sulle scacchiere delle città. Se quei popoli che hanno un passato e una cultura da recuperare decidessero di restituire importanza a qualcuno di quei valori che hanno sostenuto la loro storia fino all'avvento della rivoluzione industriale e quindi respingessero come valore il progresso tecnologico, la città elettrica si sgonfierebbe nelle mani dei tecnocrati statunitensi come un pallone bucato. In una eventualità del genere, il passato si ripresenterebbe agli americani in termini drammatici. Avere trattato duecento milioni di cittadini come entità numeriche per manovrarli a piacimento a fini speculativi, avere addormentato le loro coscienze e distrutto in loro quel carattere
di socialità che si manifesta
in maniera
specifica, e da sempre,
nell’organizzazione abitativa della vita comune, avere, in una parola, annullato in loro i caratteri di fondo di ogni popolo civile per sostituirli con miti inconsistenti come il primato tecnologico, il successo nazionale, il prestigio internazionale, la continua crescita economica, non potrebbe restare senza conseguenze. In Europa abbiamo esempi di grandi crisi, come anche l’ultimo conflitto mondiale, durante le quali c’è stato il riscatto popolare degli errori compiuti dai governanti o da coloro che di fatto detenevano il potere. Questo è stato possibile anche perché a livello popolare esisteva la capacità di controllare gli eventi, mantenuta e resa attuabile
dall’esistenza
di basi storiche
(non
mitiche)
sulle quali rico-
struire nuove prospettive. Ma nessuno oggi può dire quale sarebbe la reazione del popolo americano di fronte al crollo dei grandi miti che gli sono stati costruiti addosso. Molto probabilmente, non sostenuta dalla coscienza storica degli eventi né da una sufficiente coesione sociale, questa reazione sarebbe violenta e autodistruttiva. I nostri colleghi americani dovrebbero valutare questo problema con grande serietà, prima di spingersi bizzosamente con la sedia contro il muro. Quanto a noi, il nostro problema era lì, voltato l’angolo. Fuori del
cancello della Johns Hopkins University, oltre la barriera dei palazzacci
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universitari costruiti da gente per la quale la scienza e la cultura sono concepibili solo come tetraggine e noia, c'erano le due Bologne: la Bologna antica, calda e accogliente nonostante la bruma novembrina, e la Bologna nuova, monotona e indifferente come tutte le periferie di
ul
REST
Lee
II
PZA
(10:50)BRIO
173. Est della 100° Strada (B. Davidson).
294
tutte le città del mondo. Due modi di abitare e di vivere: uno voluto da un popolo che ha riempito le strade di sfilate ininterrotte di portici, perché desiderava viversi la città in qualunque occasione e con qualunque stagione, l’altro voluto da altra gente, che non è popolo, perché si con-
serva anonima, si sfugge nelle strade, si lancia si isola nei suoi appartamenti, si annichilisce le scrivanie da travet. La vecchia Bologna è ancora il luogo dove cordialità della vita vissuta nella strada non si le tracce dell’abbandono della città antica sono intonaci che si distaccano e anneriscono
insulti dalle automobili, nelle fabbriche o dietro il senso di intimità e di è del tutto perduto. Ma anche qui evidenti, negli
senza che nessuno
vi passi una
mano di calce, negli ammattonati ormai comsunti e sconnessi, nelle automobili parcheggiate sotto le volte a ostruire il passeggio, negli inserti cementizi dentro il tessuto antico a due passi dal San Petronio, nella fretta di chi cammina sotto i portici senza guardare. Non è abbandono fisico: è un distacco che si realizza sul piano culturale a livello popolare, originato cioè dalla crescente incapacità della gente di continuare a credere in una struttura urbana, e quindi anche in una struttura sociale, come quella rappresentata dal centro antico, rispetto alla quale mostra di preferire altri modelli di città e quindi di società, che sono rappresentati invece dalla periferia, uniforme e repulsiva. Fotse più qui che altrove questo contrasto si fa sentite, non essendo la città antica ancora corrotta dal turismo di massa, come a Firenze, né soffocata, né distrutta, come a Palermo. Perciò il senso di una
come a Milano, scelta, in buona
parte già fatta in direzione della città alienante, si coglie qui forse meglio che altrove. Ma appunto questo è il nostro vantaggio rispetto ai colleghi americani, o ai cittadini americani. Molto probabilmente è vero che i guai derivati alle città statunitensi del vezzo speculativo abbiano una matrice europea. Però, se così è, non c'è dubbio che gli allievi hanno di gran lunga superato i maestri. Ciò vuol dire che le metropoli americane di oggi, per molti aspetti, rappresentano il futuro delle nostre città e prefigurano anche il modo di vivere di coloro che in queste città abiteranno. Noi ci troviamo, in questo momento,
in una fase intermedia, che con-
tiene tutti gli elementi del problema:
vediamo bene, da un lato, che in
molti punti le nostre
città a grande sviluppo industriale
stanno
ripert-
correndo la via già seguita dalle metropoli statunitensi, e contemporaneamente non abbiamo completamente distrutto gli agganci con quelle strutture urbanistiche del passato nelle quali il nostro popolo ha segnato l’impronta della sua storia comunitaria e della sua coesione sociale. Non è pensabile che di questi impianti urbanistici antichi si debba recuperare tutto, né che di questa storia comunitaria si debba ripristinare tutto, né che la coesione sociale, oggi distrutta negli squallidi e informi isolati di periferia, debba essere ricostruita nelle stesse forme politiche che essa aveva quando dette origine a quel certo tipo di forma urbana. Non so, ad esempio, che senso democratico avrebbe appellarsi oggi a
205)
strutture come quelle dei palazzi aristocratici o delle grandi cattedrali. Ma certamente ha senso richiamare e cercare di recuperare alla storia urbana e sociale di oggi quegli elementi genuinamente popolati che si sono espressi in un’infinità di episodi, d’insieme e di dettaglio. Se noi mettiamo definitivamente da parte il concetto accademico di città monumentale e vi sostituiamo il concetto di città storica inteso nel suo significato più pieno, cioè come testimonianza tangibile e insieme come strumento ancora attuale di un modo di vivere, di pensare, di associarsi,
allora abbiamo in mano V’altro termine del problema, che possiamo contrapporre al destino delle metropoli statunitensi, apparentemente già disegnato dallo stesso tecnigrafo anche per le nostre città. Queste possibilità di recupero di una storia di popolo, segnata nel tessuto antico e solo qui, perché solo qui è stata vissuta, può renderci consapevoli che la scelta urbanistica, per quanto già fatta in direzione della città alienante, non è irreversibile. E ciò ci rende consapevoli anche che il modificatla non sarebbe, per noi, un salto nel buio.
Ma ciò comporta anche (e soprattutto) un modo diverso di vedere il problema urbanistico, poiché significa fare appello non alla cultura aristocratica degli architetti e degli urbanisti, ma alla capacità della gente di tutti i giorni di operare in piena autonomia culturale le sue scelte urbanistiche, facendo tesoro delle sue esperienze passate (autonomia culturale, fra l’altro, vuol dire anche autonomia di scelte politiche). Il nostro
compito di intellettuali, in questo processo, sarebbe soprattutto quello di non formalizzarci nel caso che le attuazioni urbanistiche non corrispondessero a quelle che noi abbiamo imparato sui manuali. A livello popo-
lare un vaso da fiori messo su una riconquista della città antica. E una intorno a una bottiglia di lambrusco trasmette via satellite da New York che il rifiuto della città elettrica.
finestra sbrecciata può equivalere alla partita a scopone, giocata in quattro mentre da un’altra parte un televisore un incontro di pugilato, altro non è
201)
LÀ CITTA ELETTRICA
Sia Platone nelle Leggi (V) che Aristotele nella Politica (VII) si occupano delle dimensioni ideali della città. Platone fissa il numero degli abitanti in 5040, applicando un canone pitagorico (1x 2x 3x4x5x6x 7); Aristotele
non
indica
una
misura
precisa,
ma
regola politica. Il principio aristotelico è che la sia determinata non dal numero degli abitanti, ma morali dell'organismo sociale che la costituisce. al di sotto di un certo minimo di popolazione
preferisce
dare una
grandezza di una città dalle forze materiali e Perciò, se è vero che non si può parlare di
città, è anche vero, secondo Aristotele, che un numero
eccessivo di abi-
tanti trasforma la città, intesa nel suo più genuino significato politico, in un agglomerato materiale, dove non è facile fondare una vera e propria costituzione. Ciò indebolisce l’organismo urbano, anziché rafforzarlo. Per fissare il limite massimo del numero di abitanti che una città dovrebbe avere, Aristotele dà una regola empirica, legata al carattere democratico del governo della città stessa e alla possibilità di un suo effettivo funzionamento. Vi sono, nella città, sfere di attività proprie dei governanti e sfere di attività proprie dei governati. È competenza dei governanti il prescrivere e dare sentenze giudiziarie; ma affinché queste sentenze possano essere pronunciate correttamente e le stesse magistrature possano essere attribuite opportunamente, occorre, secondo Aristotele,
che i cittadini si conoscano l’un l’altro. In caso contrario si farebbe necessariamente male la scelta delle magistrature e si pronuncerebbero sentenze irragionevoli. In una città che fosse un agglomerato materiale e non un organismo politico — osserva Aristotele — chi potrebbe essere stratego di una moltitudine’ tanto grande o chi potrebbe essere il banditore se non con la voce di Stentore? Perciò la prima condizione perché si possa configurare la struttura politica della città è una popolazione contenuta in una quantità tale da consentire l’autogoverno (Politica, VII, 1325 e sgg.).
Aristotele, con queste formulazioni teoriche, non solo si pone su un
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piano nettamente
meno
astratto
rispetto a Platone, ma
sostanzialmente
interpreta e ripropone molti dei problemi reali già presentatisi in maniera concreta nella vita delle poleis e di Atene in particolare. La vitalità dei problemi posti da Aristotele, d’altra parte, resta tale anche a livello di prospettiva teorica, poiché noi li troviamo ripresi in termini sostanzialmente paralleli sia da Vitruvio che dai teorici urbanisti del XV-XVII secolo. Ma può sorprendere, in una formulazione così strettamente legata al tema politico, il richiamo al « banditore » e alla sua impossibilità pratica di operare in una città stragrande, «se non con la voce di Stentore ».
E, in effetti, nessuno su questo punto ha particolarmente insistito. L’allusione a Stentore è stata probabilmente considerata, dagli esegeti o dai propugnatori delle idee aristoteliche sulla città, alla stregua di un esempio illustrativo, tutto sommato un po’ banale, e perciò non essenziale. Può anche darsi che sia così. È possibile cioè che il richiamo al banditore sia scivolato nel testo senza che Aristotele gli attribuisse particolare importanza. Ma oggi, dopo tutta la serie di studi prodotti sui problemi dell’informazione e delle comunicazioni, c'è materia per pensare che tale richiamo possa non essere parentetico, ma profondamente legato al resto del discorso, e molto probabilmente congiunto di proposito all’altro richiamo alla figura dello stratego, egualmente incapace di svolgere la sua attività in una moltitudine stragrande. Infatti, in definitiva, il banditore non è altri che colui il quale trasmette o, per meglio dire, amplifica gli ordini dello stratego o, più in generale, dell'esecutivo, in modo da farli giungere a tutti coloro che a questi ordini devono dare pratica attuazione. In altri termini, il banditore cui Aristotele si riferisce è appunto il prototipo dei mezzi di diffusione di massa (o « mass-media», secondo la locuzione anglolatina). È quindi assai significativo che Aristotele commisuri la possibilità di trasmettere ordini, e conseguentemente di governare in maniera rapida ed efficiente, alla potenza della voce del banditore. Ma oltre la capacità vocale di Stentore, il mitico eroe dell’Iliade che da solo gridava con la forza di cinquanta uomini, Aristotele non sapeva andare, o non voleva andare. Eppure, nel IV secolo, i sistemi di diffusione e di comunicazione non erano poi così primordiali. Il messaggio scritto era una consuetudine comune. Lo stesso spazio entro il quale il messaggio doveva trovare efficacia non era più quello della polis. Atene stessa aveva distrutto, con la sua politica di espansione nell’Egeo, il concetto di polis come unità politica circoscritta e autosufficiente, e in realtà fin dall'VIII secolo, con le colonie greche diffuse un po’ per tutto il Mediterraneo, si era reso impossibile a qualunque Stentore di raggiungere con la sua voce tutti i
cittadini di una stessa città. Per Pericle, stratego dal 461 al 429 ed egemone di fatto della politica ellenica, un simile strumento di diffusione dei suoi
ordini sarebbe stato largamente inadeguato. Un secolo dopo la situazione si era evoluta ancora nel senso di un ulteriore ampliamento del
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quadro politico: raffrontata perciò con gli eventi che egli stava vivendo (si spense,
com’è
noto,
un
anno
dopo la fine prematura
di Alessandro
Magno), la proposta politica di Aristotele può apparire inattuale e arcaica, eccessivamente chiusa e circoscritta, e per di più decisamente superata dai fatti. Ma forse proprio per questo le teorie aristoteliche sulla città si caricano di un contenuto dialettico che potrebbe sfuggire se le considerassimo solo nella loro astratta veste teorica. In un’epoca in cui non solo l’Egeo ma il Mediterraneo intero erano base di una fittissima rete di comunicazioni e di scambi, e quindi anche di diffusione di informazioni, il richiamo
alla voce di Stentore come massima unità di misura può assumere un senso polemico, così come il richiamo alla figura dello stratego cittadino, in una situazione politica che rendeva possibili le fulminee imprese di Alessandro il Macedone. Quanto ai tramiti concreti del sapere, cioè i manoscritti, essi erano ormai largamente diffusi e sistematicamente raccolti in biblioteche:
questo, se non il resto, faceva sicuramente parte del-
l’esperienza diretta di Aristotele, e tale esperienza era più che sufficiente a renderlo consapevole che, nel tempo in cui viveva, la potenza dei mezzi di diffusione era assai più vasta ormai di quella del superdotato banditore omerico. Quindi l’evocazione di Stentore va intesa come strettamente finalizzata a un’idea di città che, in termini generali, non deve superare
certi limiti di popolazione, magari commisurabili in termini fisici alla voce del banditore, ma in termini politici valutabili solo in rapporto alla possibilità di reciproca conoscenza fra i cittadini, che per Aristotele costituisce l’elemento sostanziale per il buon funzionamento sociale dell’organismo urbano. Vi è dunque una contrapposizione tra il modello politico proposto da Aristotele e la situazione reale delle città greche nel IV secolo. Forse tale modello poteva apparire arcaico e sorpassato ai suoi contemporanei,
giacché si riferiva a un momento storico almeno apparentemente superato e in fase di dileguamento, ma tale non apparve a coloro che in più riprese, nel corso di due millenni, tornarono con passione sugli stessi temi e riproposeto sostanzialmente gli stessi concetti, quando vollero presentare uno schema di città ordinata e governabile. Infatti la proposta di Aristotele non nasce da una passeggera nostalgia del passato, ma deriva da una scelta politica precisa, che si evidenzia meglio nel suo significato proprio pet essere contrastante con la corrente degli eventi a lui contemporanei. Perciò anche il richiamo alla figura del banditore è una scelta coerente e conseguente: a una città governabile sulla base della reciproca conoscenza degli abitanti corrisponde uno strumento di diffusione delle informazioni (il banditore) che ha una portata ben precisata, e nessun altro. Adottare uno strumento di diffusione più potente significherebbe estendere il proprio potere al di là di quelli che sono i limiti fissati da Aristotele per la sua idea di città e per la sua concezione di governo. « Tutte le tecnologie — scrive il McLuhan — sono estensioni del
300
nostro sistema fisico e nervoso per aumentare il potere e la velocità. Se non ci fossero questi aumenti di potere e di velocità non ci sarebbero, o verrebbero eliminate, le nuove estensioni di noi stessi. Un simile aumento, in qualunque gruppo comunque composto, è infatti una spacca-
tura che provoca un mutamento dell’organizzazione. L’alterazione dei raggruppamenti sociali e la formazione di nuove comunità sono contemporanee all’accresciuta velocità del movimento dell’informazione dovuta ai messaggi cartacei e ai trasporti stradali. Questa accelerazione implica un controllo assai più grande a distanze molto maggiori. In passato ha determinato la formazione dell'impero romano e il crollo delle cittàstato del mondo greco. Prima che l’uso del papiro e dell’alfabeto creassero gli incentivi per costruire strade veloci e dalla solida pavimentazione, la città murata e la città-stato erano forme naturali che potevano resistere al tempo. « Il villaggio e la città-stato sono forme che contengono tutti i bisogni e tutte
le funzioni
umane.
Accresciuta
la velocità,
e intensificato
di
conseguenza il controllo militare a distanza, la città-stato crollò. I suoi bisogni e le sue funzioni, un tempo onnicomprensivi e autonomi, si estesero nelle attività specialistiche di un impero. L’accelerazione tende a separare le funzioni commerciali e politiche, e al di là di un certo limite diventa in qualunque sistema causa di sconvolgimento e di spaccatura » (Gli strumenti del comunicare,
1968, pp. 99, 100).
È noto che il McLuhan attribuisce un’impottanza traumatica all’avvento dell’elettricità nel campo delle comunicazioni. Secondo il McLuhan, dal telegrafo in poi, il tempo e lo spazio sono da considerare distrutti, in rapporto alla nuova dimensione elettrica, che estende « il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale ». Tuttavia, anche se il McLuhan tratta dell’era elettrica come della « fase finale dell’estensione dell’uomo » nella quale, « attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana », tale
fase viene in definitiva considerata l’ultimo gradino di un lungo processo storico, nel corso del quale i « media » hanno di volta in volta assunto significati politici precisi e, a giudizio del McLuhan, di solito determinanti. Questa impostazione del problema consente di seguire, insieme col McLuhan, alcune vicende storiche di fondo (come quella sopra riportata relativa alla città-stato) sotto l’angolo visuale degli « understanding media » (o « strumenti del comunicare », secondo l’approssimativa traduzione italiana). A dire il vero, il McLuhan finisce per dare ai mezzi di diffusione della conoscenza un peso storico a volte esagerato, come quando egli sembra far dipendere il crollo politico del mondo romano dal mancato rifornimento di papiro (« quando gli arabi troncarono i rifornimenti di papiro, il Mediterraneo, che per molto tempo era stato un lago romano, divenne un lago musulmano e il centro romano crollò... Il centro romano crollò nel V secolo d. C. mentre ruota, strada e carta si riducevano a uno
spettrale paradigma dell’antico potere », p. 111). C'è evidentemente una
301
incongruenza cronologica, visto che, com’è noto, l’era musulmana comincia nel 622 e l'espansione araba nel Mediterraneo all’incirca un secolo dopo. Inoltre il papiro alligna anche in Sicilia, benché non sia certo se si tratti di una pianta indigena o portata lì proprio dagli arabi dopo la conquista dell’isola (IX secolo). Ma a parte questo genere di deformazioni o di lapsus storiografici, la relazione che il McLuhan stabilisce tra espansione imperialistica romana
e struttura
della rete
delle comunicazioni,
con
relativo
aumento
della velocità delle informazioni, è sostanzialmente esatta e soprattutto utile per un'analisi storica generale. Il McLuhan tende a istituire tra accelerazione delle informazioni e ampliamento del potere un rapporto di causa ed effetto: da ciò dipende appunto la tendenza parallela a
deformare certi fatti, almeno in alcuni casi, sopravvalutando l’importanza dei mezzi di diffusione delle informazioni e trascurando altri fattori storici egualmente determinanti. In realtà le due cose (accelerazione delle informazioni e ampliamento del predominio politico) si spiegano l’una con l’altra, o l’una nell’altra. E comunque è importante tenerle entrambe in stretta correlazione tra loro e seguirne le mutazioni storiche in connessione col volgere degli eventi politici. Non c’è dubbio, per esempio, che il sistema viario costruito dai romani fosse la struttura portante della loro potenza e la premessa per ogni nuova espansione. Esso costituiva infatti il primo atto di politica territoriale che i romani sistematicamente attuavano nelle regioni conqui-
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