Peirce e Wittgenstein: un incontro. Immagini, prassi, credenza 8857521710, 9788857521718

Il volume mette a confronto Peirce e Wittgenstein secondo alcune precise linee interpretative. Nella prima parte si rifl

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Peirce e Wittgenstein: un incontro. Immagini, prassi, credenza
 8857521710, 9788857521718

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MIMESIS

ETEROTOPIE N.243 Collana diretta da

Salvo Vaccaro

e

Pierre Dalla Vigna

COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi "lnsubria" Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacaiias Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

RossELLA FABBRICHESI

PEIRCE E WITTGENSTEIN: UN INCONTRO Immagine, prassi, credenza

MIMESIS

Eterotopie

© 20 14 - MIMESIS EDIZIONI (Milano - Udine)

Collana Eterotopie, n. 243 Isbn 97888575 2 17 18 www .mimesisedizioni.it Via Risorgimento , 33 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 2486 1 657 l 244 1 6383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

AVVERTENZA

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LEGENDA

9 11

INTRODUZIONE

Parte l ICONISMO E RELAZIONI INTERNE

l.

NOTE PRELIMINARI SULL 'ICONISMO DEL LINGUAGGIO

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2.

SEGNO E RAPPRESENTAZIONE. ICONA E BILD

31

Parte II PRAGMATISMO E SENSO COMUNE: L' ANALISI DEL SIGNIFICATO

l.

PRATICHE, CREDENZE, CERTEZZE

2 . LA

81

HAMMA E IL CRISTALLO. AfFERRARE IL SENSO,

DEHNIRE I CONCETTI

111

7

AVVERTENZA

Ho iniziato ad occuparmi del pensiero di Wittgenstein , in relazione a Peirce , nel lontano 1 990 . Avevo da poco terminato il dottorato in filosofia, presentando una tesi sulla logica e la semiotica peirceane , e mi sembrava interessante proseguire le mie ricerche approdando alla filosofia del lin­ guaggio wittgensteiniana. È iniziato così un decennio di studi in cui ho intrecciato le indagini sui due autori , sia per quanto riguarda la teoria della rappresentazione , sia per quanto concerne l ' attenzione al tema della prassi e della credenza. Dal primo lavoro , molto germinale , su "L' immagine logi­ ca in Peirce e in Wittgenstein"1 agli ultimi scritti , che partendo da Wittgen­ stein sondavano il pensiero di Leibniz e Goethe2 , ho prodotto non pochi saggi e interventi sull ' argomento , che mi ha occupato per buona parte del mio percorso accademico . Molte altre annotazioni, però , non avevano trovato pubblicazione . Era­ no nate infatti in modo frammentato: talvolta quali interventi in convegni tenuti in sedi italiane o internazionali , talvolta quali materiali per i corsi universitari . Mi sono resa conto del loro legame con la mia produzione pubblica più recente , e della moltiplicazione di significato che poteva de­ rivare dal loro inserimento in un contesto attuale . Dieci anni di riflessioni composte in occasioni diverse assumono , dunque , in questo volume un abito e un ritmo nuovi (per lo meno questa è la speranza) e ricostituiscono un 'corpo' di pensieri che mi sembrano oggi coesi , sviluppati come sono intorno a poche , selezionate idee portanti . Se ho intrapreso questo lavoro non è certo però per un 'intenzione ' do­ cumentaria' . Peirce e Wittgenstein sono tra i pochi filosofi contemporanei a riflettere sul concetto di prassi, offrendo una visione inedita e particolar­ mente stimolante sull' argomento (vi sono per altro molti non filosofi che

l

2

"L'immagine logica in Peirce e in Wittgenstein" , in Peirce in Italia , a c. di M. Bonfantini e A. Martone, Napoli , Liguori, 1993. (con F. Leoni), Continuità e variazione. Leibniz, Goethe, Peirce e Wzttgenstein, con un 'incursione kantiana, Milano, Mimesis , 2006.

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Peirce e Wittgenstein:

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incontro

vi si dedicano - dai sociologi agli antropologi - e i filosofi dovrebbero forse leggerli con maggior attenzione) . È questo il cuore pulsante dell 'ipo­ tesi pragmatista ed è innegabile che , sotto questo aspetto , Wittgenstein non possa non dirsi pragmatista . Se la sorte mi offrirà dieci ulteriori anni di ricerca, non mi dispiacerebbe dedicarli a questo tema , nelle sue varie declinazioni: come si configurano le pratiche cui siamo incatenati con i nostri abiti di risposta? Come parliamo delle e nelle nostre pratiche? Come parlano le pratiche di se stesse? Questo testo , nel suo complesso e nelle sue interne configurazioni , si è sviluppato come un tentativo di riflessione dedicato segnatamente a tali questioni: un nuovo uso, dunque , di vecchie strutture .

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LEGENDA

Le citazioni , per quanto riguarda l ' opera di Wittgenstein , sono da leggersi nel modo che segue : [T] seguito dal numero del paragrafo , Tractatus logico-philoso­ phicus e Quaderni 1914-16, Torino , Einaudi , 1 964; [GF] seguito dal numero del paragrafo , Grammatica filosofica , Firenze , La Nuova Italia , 1 990 ; [BB] seguito dal numero di pagina, Libro blu e libro marrone , Torino , Einaudi , 1 9 8 3 ; [OFM] segui­ to dal numero della pagina , Osservazioni sui fondamenti della matematica , Torino , Boringhieri , 1 98 2 ; [RF] seguito dal numero del paragrafo , Ricerche filosofiche , Torino , Einaudi , 1 967 ; [OFP] seguito dal numero del paragrafo , Osservazioni sulla filosofia della psicologia , Milano , Adelphi , 1 990; [C] seguito dal paragrafo , Della certezza, Torino , Einaudi , 1 978 . In riferimento all ' opera di Peirce: [CP] seguito dal numero del volume e del paragrafo , Collected Papers of Charles Sanders Peirce C .Hartshorne e P.Weiss eds . , Voll . 1 -6 , 193 1 -5; A.Bmks ed . , Voll .7- 8 , 1958 , Cambridge [Mass .] , Harvard University Press ; [W] seguito dal numero di volume e di pagina, Writings oj Char­ les Sanders Peirce. A Chronological Edition , a cma del "Peirce Edition Proj ect" , Bloomington, Indiana University Press , Voll . 1 -6 , 1982- 1 996, Vol . 8 , 2009; [EP] seguito dal numero di volume e dalla pagina , The Essential Peirce , a cma del "Peir­ ce Edition Project" , Bloomington, Indiana University Press , Voll .l-2 , 1 992- 1 99 8 ; [P] seguito dal numero della pagina , Che cos 'è il pragmatismo , a c . d i F.Vimercati , Milano , Jaca Book , 2000 . Nelle traduzioni ho seguito la lettera di C .S . Peirce , Scritti scelti, a c . di G. Maddalena, Torino , UTET, 2008 e C . S .Peirce , Opere , a c . di M . Bonfantini , Milano , Bompiani , 2003 . Là dove non esiste traduzione italiana , ho preferito lasciare l' originale inglese .

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INTRODUZIONE

I. Nell'indagine sui due autori che sono al centro del presente lavoro vi è un tema preliminare, di ordine storico, dal quale credo sia necessario par­ tire. Esso investe la vexata quaestio della conoscenza che aveva Wittgen­ stein dell'opera di Peirce (Peirce, com'è noto, non poteva sapere dell'au­ tore viennese, essendo morto nel 1 9 14 , data in cui Wittgenstein iniziava a vergare le prime pagine del Tractatus) . Molti autori - ma diciamo pure che sulla relazione tra i due filosofi vi sono solo accenni, articoli brevi, sugge­ stioni di percorsi possibili1 - si sono infatti interrogati su quale consuetul

Si vedano ad esempio R. Rmty, Pragmatism, Categories and Language , in "Philosophical Review" 70 ( 196 1); A . A. Mullin, Philosophical Comments on the Philosophies of Charles Sanders Peirce and Ludwig Wittgenstein , University of Illinois 196 1; J. Ransdell, The Pursuit of Wisdom , Santa Barbara, Intelman Books, 1976 , pp. 400-432; I. Gullvag, Wittgenstein and Peirce , in Wittgenstein . Aesthe­ tik und Transzendentale Philosophie , Vienna, Holder-Pichler-Tempski, 1980 ; R. Bambrough, Peirce, Wittgenstein and Systematic Philosophy, in Midwest Studies in Philosophy, Vol. VI, Minneapolis, University of Minnesota Press, 198 1; R. Haack, Wittgenstein 's Pragmatism , in "Ameiican Philosophical Quarterly", X IX ( 1982); J. Bouveresse, Le Mythe de l 'Intériorité, Editions de Minuit, Paris, 1976 , cap. su "Le ' pragmatisme' de Wittgenstein", pp. 567 sgg.; D. Gorlèe, Wittgenstein and Peirce: le jeu de langage, in "Serniotica", 73, ill-IV ( 1989); L. Pe1issinotto, Logica e immagine del mondo , Milano, Gueiini, 199 1 (dove troviamo un capitolo dedicato al pragmatismo dell'autore viennese); H. Putnam, Il pragmatismo: una questione aperta , Bari, Laterza, 1992; A.J . Johanson, Peirce and Wittgenstein 's On Certainty, in Living Doubt, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Acade1nic Publishers, 1994 ; J . Nubiola, Scholarship on the Relations between L. Wittgen­ stein and C.S. Peirce, in Proceedings of the III Symposium on History of Logic, Berlin, Gruyter, 1996; J. Upper, Wittgenstein and Peirce , Disse1tation discussed at Queen's University in 1994 , consultata alla pagina http://www.qsilver.queensu. ca, 1998; P.E . Bour, De ux Niveaux du pragmatisme en philosophie: Peirce et Witt­ genstein , in "Philosophia scientiae", III ( 1996); P. Crocker, Wittgenstein 's Prac­ tices and Peirce 's Habits. Agreement in Human Activity, in "History of Philosophy Qua1terly", 15/4 ( 1 998); V. Colapietro, Permettere alle nostre pratiche di parlare per se stesse: Wittgenstein, Peirce e le loro linee di intersezione, in Pragmatismo e filosofia analitica, a c. di R.M. Calcatena, Macerata, Quodlibet, 2006; G. Mad-

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Peirce e Wittgenstein:

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incontro

dine Wittgenstein potesse avere con l'opera di Peirce e con il pragmatismo in generale, data l'innegabile vicinanza alle proposizioni di tale corrente filosofica che si può notare in molti passaggi del suo lavoro. Ora, non c'è dubbio che Wittgenstein conoscesse e si sentisse vicino ad alcune tesi di William James, grande divulgatore del pragmatismo. Ma James aveva fatto circolare il pragmatismo in un modo che Peirce riteneva difforme rispet­ to alla propria originale esposizione, tanto da ricercare un nuovo termi­ ne - l'orribile 'pragmaticismo' - per differenziarsi dalle teorie dell'amico. Dunque, nonostante la presentazione manualistica che è invalsa, il prag­ matismo di Peirce non è quello di James; inoltre, si può dire con sicurezza, perché lo leggiamo nelle pagine dello stesso Wittgenstein (ricordiamo tra l'altro che James è uno dei pochi autori citati), che neppure il pragmatismo di James gli era ben accetto, e di quest'autore egli privilegiava senza dub­ bio i lavori psicologicF. Troviamo dunque pochissimi riferimenti al pragmatismo nelle opere di Wittgenstein, e tutti di stampo negativo. È forse il caso di ricordarli subito. Nello scritto sulla Certezza, in seguito ad un discorso complesso, che analiz­ zeremo in seguito e che ha sicuramente un sapore pragmatista, Wittgenstein scrive: "Dunque voglio dire qualcosa che suona come pragmatismo. Qui mi capita tra i piedi una specie di Weltanschauung" (C 422) . E in un manoscritto del 1929, nella fase che è stata indicata da alcuni come 'verifìcazionista', quando certamente aveva già letto James, egli fa un evidente riferimento alla sua teoria dell'equazione vero=utile, dicendo: "ogni proposizione è vera findalena, Wittgenstein, Dewey e Peirce sull 'etica , in Pragmatismo e filosofia anali­ tica, cit.; C. Chauviré, Le grand miroir. Peirce et Wittgenstein , P. U. De Franche Comte, 2004, id., Délocaliser l 'esprit: Peirce, James, Wittgenstein, Descombes, in "Revue de Synthése", 13 1 1 1 (2010); C. Tiercelin, Peirce et Wittgenstein Face au Défi Sceptique , in "Paiadigmi", XXVIII/3 (20 10) . Voglio 1icordare che C. Chauvi­

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ré è forse la studiosa che più ha lavorato ad individuare i legami tra Wittgenstein e il pragmatismo, ed è la curauice (con S. Plaud) del recente numero della 1ivista on-line "European Journal of Pragmatism and Ame1ican Philosophy", dedicato a "Wittgenstein and Pragmatism" (4/2, 2012), raro esempio di attenzione a questo tema. Si veda ancora R. Calcaterra, Wittgenstein e Peirce sull'esperienza inter­ na , in "Paradigrni", 32/ 1 993; id ., Un sano senso della realtà , in "Spazio filoso­ fico", http://www.spaziofilosofico.it/, 8/20 1 3 . A. Boncompagni, "The 'pragmatic maxim' in Wittgenstein's On Certainty", in Mind, Language and Action , Papers of the 36th International Wittgenstein Symposium, in Kirchberg am Wechsel, Aus­ tlian Ludwig Wittgenstein Society, 20 13 . Probabilmente Wittgenstein conosceva bene solo le pagine dei Principles of Psy­ clzology, uno dei pochi lavori a stampa che, ci raccontano i biografi, campeggiava nella sua camera. Ma ricordiamo che aveva sicuramente letto anche Tlze Varieties of Religious Experience, in cui James riassume i p1incipi pragmatisti di Peirce.

Introduzione

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ché dà prova di essermi utile". In molti successivi passaggi, però, mostrerà di essere fortemente critico verso una teoria riduzionista di questo tipo. Infatti, verso la fine della vita, scrive: "Ma allora sei un pragmatista? No. Infatti io non dico che un enunciato è vero se è utile. L'utilità, ossia l'uso, è ciò che dà all'enunciato il suo senso particolare, ed è il gioco linguistico che glielo dà" (OFP 1.266) . È comunque innegabile che l'equazione che egli compie per tutte le Ricerche filosofiche tra significato e uso abbia molte assonanze con quellajamesiana tra vero e utile, anche se, altrettanto innegabilmente, questa versione nominalista e 'utilitaristica' del pragmatismo era al fondo totalmen­ te estranea sia a Peirce, sia a Wittgenstein stesso. Basterebbe poi confrontare l'enunciazione pragmatista di Peirce - "Con­ siderate quali effetti che potrebbero concepibilmente avere una portata pra­ tica voi concepite che gli oggetti della vostra concezione abbiano. Allora la vostra concezione di quegli effetti sarà la totalità della vostra concezione dell'oggetto" (P 45) - con questi cenni wittgensteiniani, per rimanere solo alle pagine di Della certezza: "Però la questione è: come si manifesterebbe questa credenza nella pratica?" (C 89) ; "Quali conseguenze pratiche dovreb­ be avere una cosa del genere?" (C 450) . 'Io so tutte queste cose', chiede ancora poco sopra, cosa può voler dire propriamente? "Questo si mostrerà dal modo in cui agisco e parlo delle cose" (C 395)3 . E nella Grammatica filosofica (74) , ancor più chiaramente, scriveva: cosa significa che capiamo il significato della parola sedia? "Forse che siamo pronti a dirlo?". Con pa­ role assolutamente simili, Peirce chiariva che il significato poteva essere ica­ sticamente definito come "ciò sulla cui scorta un uomo è pronto ad agire" (EP 2:403) . Dunque, vi è qui un'impostazione del problema del conoscere e dell'agire che è assolutamente affine. Analoga, nello stesso senso, è la ricerca della chiarezza come fine ultimo dell'attività logica. "Come render chiare le nostre idee" intitolava Peirce il suo più importante scritto pragmatista, e Wittgenstein, già nel Tractatus, annotava: "Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere" (T 7); dunque, scopo della filosofia "è la chiarificazione logica dei pensieri" (T 4 . 11 2) . Ma vedremo meglio nel dettaglio le assonanze e le dissonanze tra le due teorie. Wittgenstein leggeva James, come abbiamo detto, ma non sembra aver avuto una conoscenza diretta dei testijamesiani sul pragmatismo, conoscen­ za che invece aveva certamente Russell, primo maestro di Wittgenstein sul suolo inglese. Russell aveva letto alcuni lavori di Peirce o, sarebbe meglio

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Cfr. pure sull'argomento C 230 , 60l, 6 1, 330. Ma il tema era presente anche in RF 3l, RF 578.

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Peirce e Wittgenstein:

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dire , li aveva sfogliati; e aveva letto , a dir la verità con un certo sospetto ,

ciò che era disponibile in quegli anni in Gran Bretagna relativamente alla dottrina pragmatista. Egli non mostrò mai, infatti , di apprezzare molto questa corrente di pensiero: la considerava poco scientifica e molto yank:ee , "ugual­ mente adatta alla democrazia in casa propria e all'imperialismo all 'estero" e probabilmente dobbiamo a lui l'equiparazione tra il pragmatismo e una gene­ rica e disprezzabile Weltanschauung, buona per le folle , non per gli studiosi . Non c ' è dunque da stupirsi se , avendo semplicemente orecchiato negli ambienti di Cambridge opinioni, per lo più di stampo negativo , relative al pragmatismo , Wittgenstein vedesse come il fumo negli occhi ogni riferimen­ to a questa tradizione di studi, che non era considerata, in fin dei conti , nep­ pure autenticamente filosofica. Si tenga comunque presente che da Russell il nostro autore poteva avere inconsapevolmente tratto alcune nozioni di stam­ po peirceano, cui è probabile che Russell facesse menzione , per esempio in riferimento alla logica delle relazioni , alla teoria categoriale , forse anche alla teoria del significato e del segno . Russell, contrariamente a Wittgenstein, aveva sicuramente letto la raccolta Chance, Love and Logic, curata da Mor­ ris Cohen nel 1 923 - un testo che circolò piuttosto bene negli anni '20 e ' 30 , a cui Peirce deve l'esigua fama che ebbe, almeno fino a cinquant'anni fa, in Europa, e che è stato tradotto anche da noi da Abbagnano nel 1 9564 - e, soprattutto , era in contatto con Lady Welby, una studiosa britannica con la quale Peirce stesso corrispondeva e cui inviò alcune delle sue lettere più lu­ cide e importanti, concernenti proprio la teoria categoriale e segnica. Si può dunque ipotizzare che Russell, venendo a conoscenza di queste lettere, ne avesse parlato a Wittgenstein (anche se sappiamo che non aveva una grande opinione di questa studiosa, la quale invece teneva molto al suo giudizio e cercò addirittura di far incontrare Russell e Peirce) . Peirce , a sua volta, però , non aveva grande stima di Russell (avendone letti per altro forse solo i Principles) . Se dunque Russell comunicò a Wittgenstein qualcosa di Peirce , non siamo certi che fosse un'esposizione corretta della sua dottrina, né che avesse un tono particolarmente positivo: la storia dei contatti tra Peirce e Wittgenstein tramite la mediazione di Russell si riduce dunque al mero status di ipotesi priva di qualsiasi fondamento oggettivo . Certamente dei contatti si stabilirono , ma di che tipo e di che rilevanza ci è dato solo presumere . E veniamo alla seconda influenza che può essere rintracciata . Dell ' am­ biente britannico di quegli anni faceva parte anche Charles Ogden , che

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C. S. Peirce, Caso, amore e logica, Torino, Taylor, 1956.

Introduzione

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insieme a Richards scrisse nel ' 23 The meaning of meaning5, un testo im­ portante che si soffermava sui temi logici e semiotici relativi alla natura del significato e si concludeva con un' appendice dedicata alla semiotica peirceana . Wittgenstein ricevette il testo dall ' autore e certamente tras­ se da esso qualche suggestione (pur considerandolo "a miserable book" , incapace di confrontarsi con un tema tanto complesso come quello del significato) . Con Ogden i contatti furono poi frequenti , tanto è vero che egli fu il traduttore inglese del Tractatus . Ma poco o nulla troviamo nell ' opera wittgensteiniana relativamente alle classificazioni segniche , che sono invece il tema peirceano più segnalato in questo testo . Ogden non fa alcun cenno , d' altro canto , al pragmatismo di Peirce , che appare la questione peirceana dalla quale Wittgenstein sembra avere tratto i mag­ giori suggerimenti . In sintesi , per concludere questi rilievi iniziali , si può affermare che i riferimenti all ' opera di Peirce nell' ambiente di Cambridge erano troppi e troppo frequenti per pensare che davvero Wittgenstein non si fosse mai imbattuto nel suo lavoro , pur presentato solo per cenni . Che poi a ciò sia seguita una lettura diretta è davvero molto improbabile , data la particolare attitudine con la quale l ' autore si accostava agli studi degli altri pensatori . Io credo che Wittgenstein si sia limitato , come è accaduto in altri casi , a trarre più di un suggerimento dalla conoscenza, anche indiretta, di alcune teorie peirceane , e che poi l ' originale rielaborazione di un materiale non certo acquisito di prima mano l ' abbia condotto , molto liberamente , a trac­ ciare il proprio personale cammino . Lo stesso discorso vale , a mio modo di vedere , per quanto riguarda l ' in­ fluenza di Dewey. Wittgenstein aveva forse letto direttamente quest' autore , che , non dimentichiamolo , aveva una venerazione per il suo antico maestro Peirce e si richiamava espressamente alle sue teorie , pur avendole modi­ ficate ampiamente nel corso della propria attività filosofica. Inoltre , negli anni ' 20 Wittgenstein aveva svolto servizio come insegnante elementare nelle scuole della Bassa Austria e qui deve senz ' altro essere entrato in con­ tatto con le innovative teorie pedagogiche di Kerschensteiner, realizzate nella riforma della scuola di Otto Glockel , che si rifaceva espressamente a principi deweyani in materia di educazione e di analisi linguistica. Ecco dunque un altro importante collegamento con l ' aura pragmatista che circo­ lava nei primi decenni del secolo scorso in Europa. Alcuni studiosi hanno sottolineato le analogie anche terminologiche tra la concezione del signi-

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Trad. it: C . K. Ogden, I.A . Richards, Il significato del significato , Milano, Garzan­ ti, 1 975.

Peirce e Wittgenstein:

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ficato come uso , o come regola interpretativa delineata da una comunità , in Dewey e in Wittgenstein. Fu dunque forse proprio l' idea deweyana del pensiero e del linguaggio come strumenti pratici , piuttosto che mere rap­ presentazioni , ad influenzare profondamente Wittgenstein . Ma veniamo all 'ultimo trait d'union, che è il più documentato e il più rilevante . Wittgenstein entrò in contatto , subito dopo aver pubblicato il Tractatus e aver abbandonato la filosofia, con Frank Plumpton Ramsey, un brillante logico britannico , che morì purtroppo ancora molto giovane . Ramsey si dichiarava un pragmatista e conosceva molto bene i lavori di Peirce , sia quelli logico-semiotici , sia quelli pragmatisti . Egli raggiunge Wittgenstein sulle montagne austriache nel ' 22 e lo invita a discutere del Tractatus, del quale sta preparando una recensione su "Mind" che ver­ rà pubblicata nell' ottobre del 1 923 . Wittgenstein apprezza le critiche di Ramsey e si può dire che è in virtù di queste che inizia a considerare in modo diverso le proprie opinioni e a ripensare al ritorno alla filosofia. È possibile che Ramsey gli abbia proposto qualche aggiustamento del testo in sede logica , che abbiano discusso di filosofia della matematica, ma è altrettanto possibile che gli abbia pure presentata qualche idea di Peirce relativa al significato pragmatico dei concetti e, forse , qualcuna delle sue riflessioni in ambito semiotico (per esempio , siamo sicuri che gli fece ap­ prezzare la distinzione token-type, che presto Wittgenstein utilizzò) . Non è dunque inesatto esprimersi così: il ritorno di Wittgenstein alla filosofia e la svolta relativa al linguaggio ordinario sono dovute in gran parte a questi colloqui con Ramsey, colloqui che senza dubbio ebbero per oggetto , anche se non principalmente , questioni pragmatiste , e peirceane in particolare . Lo testimoniano le Ricerche filosofiche, nella cui introduzione troviamo un riferimento diretto a Ramsey, mentre nel testo leggiamo: "Ramsey una volta enfatizzò in una conversazione avuta con me il ruolo della logica come ' scienza normativa"' (§ 8 1 ) . Il termine ' scienza normativa' era sta­ to usato da Peirce per riferirsi alla triade logica-etica-estetica . E Ramsey da parte sua scrisse di sentirsi profondamente indebitato con Wittgenstein: "tutto ciò che ho detto si deve a lui , eccetto le parti che hanno una tendenza pragmatista, che mi sembrano necessarie per colmare un vuoto nel suo sistema"6 • Chissà se queste osservazioni furono fatte direttamente all ' au­ tore viennese . . . In conclusione , qualche riferimento peirceano circolava nell' ambiente di Cambridge , e il nostro autore lo assorbì , come probabilmente assorbì molte altre influenze non meno formative . Egli non considerava essenziale 6

Citato in J. Upper, op .cit. , p. 42.

Introduzione

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dedicarsi allo studio sistematico degli autori che erano venuti prima di lui , tanto meno dei classici della storia della filosofia, dunque non vi è nessuna ragione per pensare che avesse letto Peirce o Dewey, ma lo volesse tenere nascosto . Che fosse venuto in contatto con le loro idee e non avesse alcuna intenzione di indicare analiticamente le sue fonti (anche perché con ogni probabilità queste erano poco più che cenni recepiti in qualche dialogo personale con altri studiosi) , questo sì è invece tipico del suo modo di pro­ cedere Nei suoi Pensieri diversi lui stesso ammette: Vi è del vero , credo , se ritengo che nel mio pensiero io sia propriamente solo riproduttivo . Io credo di non avere mai inventato un corso di pensiero ; al contrario mi è sempre stato dato da qualcun altro . Io l ' ho solo afferrato subito con passione per la mia opera di chiarificazione [ . . . ] Ciò che io invento sono nuove similitudini7•

E nelle prefazioni alle sue due grandi opere ribadisce la sua insofferenza per il rinvio a fonti precise , o per la pretesa d' originalità: "In che misura i miei sforzi coincidano con quelli di altri filosofi non voglio giudicare . Ciò che qui ho scritto non pretende già essere nuovo , nei particolari; né perciò cito fonti , poiché mi è indifferente se già altri , prima di me , abbia pensato ciò che io ho pensato (T, p . 3) ; "Per più d' una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive . - Le mie osserva­ zioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie - così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà" (RF, p . 4) . Commenta John Upper, e io mi assocerei a questa sintetica conclusione: "molte delle idee che i filosofi associano e accreditano a Wittgenstein era­ no ' nell' aria' molto prima che Wittgenstein venisse a esporle"8 • Dunque , mentre leggiamo in von Wright che "l'ultimo Wittgenstein non aveva pre­ cursori nella storia della filosofia. Il suo lavoro segnala un radicale distacco dai precedenti cammini che esistevano in filosofia" 9 , Upper fa giustamente notare , a mio avviso , come le sue idee fossero state maneggiate e utilizza­ te da altri pensatori, anche se il suo genio consistette nell ' offrircene una versione teoreticamente nuova, che ancor oggi non smette di invitarci alla riflessione . Quel che è opportuno porre , al di là di indagini storiografiche che po­ trebbero non aver mai un esito definito , è dunque un interrogativo teore­ tico: qual è il significato del pragmatismo , così come lo recepiamo dagli 7 8 9

L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980 , p. 47. J. Upper, op.cit. , p. 46. Citato in ibidem .

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Peirce e Wittgenstein:

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scritti di questi autori? Esso implica non solo l' indagine sulla natura dell' a­ gire e della prassi teorica, ma sottili analisi sul tema della certezza, del senso comune e , infine , sull 'uso dei segni , in particolare delle immagini . Che su questo tema il pensiero di due riconosciuti maestri del ' 900 , come Peirce e Wittgenstein , risultino in gran parte coincidenti è un segno della forza dell' imporsi di una certa riflessione teoretica, al di là della sua iden­ tificazione in stili o correnti precise di pensiero . II . Lo stesso Upper assume un punto di vista che è produttivo far nostro in questa fase introduttiva: vi sono forti analogie teoretiche tra i due autori , su molte questioni rilevanti e centrali del pensiero , mentre certamente stri­ dente è il loro atteggiamento verso la filosofia e la ricerca. Sono per altro uomini separati da quasi un secolo di pensiero , un secolo denso di rivol­ gimenti e novità in campo sia sociale che filosofico , ed è inevitabile che il loro atteggiamento verso la ricerca teorica sia stato diverso . Anzitutto , mentre Peirce è stato uno degli uomini più colti del suo tem­ po , e certamente del suo paese , Wittgenstein si faceva un pregio di non collegarsi a nessuna tradizione filosofica riconosciuta e , in realtà, non van­ tava letture organiche e approfondite su alcun autore della storia della fi­ losofia, essendo giunto a questa disciplina ormai terminati gli studi e per un caso quasi fortuito . Diciamo che , formatosi come ingegnere , fu sempre un autodidatta nel campo delle discipline teoretiche e mantenne una certa dose di disprezzo verso il pensiero troppo astratto e distaccato dalle sue implicazioni applicative . Le sue letture furono sporadiche e tutto sommato svogliate (conosceva bene forse solo Schopenhauer e Goethe , qualcosa di Nietzsche e di Spengler, oltre che naturalmente Frege e Russell) : preferiva concentrarsi direttamente e autonomamente sui problemi . Peirce al contra­ rio si formò nella Boston di fine secolo , dove circolavano tutti i testi più importanti del periodo classico , del Medioevo e dell' età moderna . Così il nostro autore conosceva perfettamente Aristotele , Platone , Duns Scoto , Occam , gli empiristi , Cartesio, Leibniz, Spinoza, Kant e Hegel . L a sua considerazione della tradizione era dunque altissima , e egli si sentiva pro­ fondamente parte di essa . Non solo: sotto l' influenza del padre , acquisì una competenza matematica e scientifica rara anche al suo tempo , riuscendo fin da giovanissimo a spaziare dall' astronomia alla chimica, dall' econo­ mia alla geologia, dalla cosmologia alla logica formale , tanto che in qual­ che biografia viene ricordato come il Leibniz americano . Peirce è davvero equiparabile ad una sorta di genio rinascimentale come non se ne vedranno più nella storia della filosofia. Non voglio dire con questo che Wittgenstein fosse da meno , perché anch'egli era ugualmente un uomo dalle compe-

Introduzione

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tenze diversissime e tutte genialmente spese , ma esse erano state meno tradizionalmente acquisite , soprattutto nel campo strettamente filosofico . Infatti , e questa è la prima conseguenza del loro diverso atteggiamento , Wittgenstein , o meglio il secondo Wittgenstein, non sopporta l' idea che la filosofia possa essere concepita come una scienza. Essa non è neppure assi­ milabile a un metodo univocamente individuabile e delineabile con preci­ sione . n methodos si costituisce per lui lungo la via (odos), e può differire caso per caso. In definitiva , la filosofia non è una disciplina astratta, ma un esercizio etico e terapeutico che sana il nostro linguaggio ordinario e si pre­ senta come una tra le tante forme di vita in cui ci esprimiamo . Per Peirce , al contrario , la filosofia, la stessa metafisica, che egli non considera affatto una disciplina obsoleta, devono essere scientifiche , nel senso attribuito alle discipline di laboratorio . E il filosofo deve assomigliare il più possibile ad uno scienziato sperimentalista. Egli scrive di mirare alla costruzione di un sistema filosofico tanto comprensivo che il lavoro della ragione umana in ogni ambito sarebbe apparso per qualche tempo niente più che l' aggiunta di qualche dettaglio . Peirce lavorò dunque per tutta la vita a ricercare l ' unità, un 'unità siste­ matica e architettonica capace di dar ordine al proprio edificio concettuale . Certamente , questo era in sintonia con i tempi (ricordiamoci che Peirce visse tra l ' apoteosi dell' idealismo e l ' imporsi del positivismo) , ma egli cre­ deva pure fortemente nell'esistenza di una radice unitaria nell' universo , tanto che esaltò una dottrina chiamata sinechismo (da sunechés, continuo) , la quale affermava che ' la radice di ogni essere è l'unità' . Wittgenstein avrebbe sostenuto esattamente l' opposto: non vediamo che varietà e diffe­ renze d ' uso , e non necessitiamo di essenze astratte o di castelli concettuali per spie game l ' origine , ma delle molteplicità dei nostri giochi linguistici più comuni , imperfetti e insondabili quali sono . Si ricordi che il motto delle Ricerche filosofiche è lo shakespeariano "io vi insegnerò le differenze" , Peirce e Wittgenstein sono insomma due autori complessi: rintracciare analogie all ' interno dei loro percorsi può dare soddisfazioni che presto sva­ niscono , incalzati dall' evidenza di impercorribili distanze . Un' affinità bal­ za però subito agli occhi: essi hanno vissuto vite affascinanti , eccentriche , spesso disperate , impossibili da passare sotto silenzio10• Vite curiosamente simili , sotto molti riguardi: le esistenze di due geni , rese complicate dalla loro stessa genialità , in cui gli aspetti biografici si riverberano sulle sintesi

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Due ottime biografie sono, rispettivamente, R. Monk, Wittgenstein . Il dovere del genio , Milano, Bompiani, 2000 e J. Brent, C.SPeirce . A !ife , Bloornington and Indianapolis, Indiana University Press, 1993.

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concettuali e le illuminano in molti punti . Le loro opere , similmente , sono frammentarie , affidate spesso a brevi pensieri o incompiute . Ciò ha impe­ gnato e continua ad impegnare ancor oggi scolari e esecutori testamentari nell ' elaborazione delle diverse edizioni critiche . Niente di più affascinante , a ben vedere , per un lettore di filosofia. D ' altronde , come annotava già Karl Kraus , contemporaneo e concittadino di Wittgenstein: "Il talento è un difetto del carattere" .

PARTE I ICONISMO E RELAZIONE INTERNE

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l. NOTE PRELIMINARI SULL'ICONISMO DEL LINGUAGGIO

Esordirò , in queste note dedicate al tema dell 'iconismo , e in partico­ lare dell'iconismo linguistico - un tema frequentato sia da Peirce , sia da Wittgenstein - proponendo un passaggio tratto dalle Lezioni americane di Itala Calvino . Calvino si è a lungo interrogato sulla mimesis dei nomi , di quei nomi che erano per lui strumenti di lavoro e che , come egli stesso rac­ conta, cercava di adeguare con la massima precisione possibile all'osserva­ zione del "molteplice , del formicolante , del pulviscolare" , alla sterminata multiformità degli eventi . Nella lezione denominata "Esattezza" Calvino riporta un bellissimo passaggio di Leonardo da Vinci , "orno sanza lettere" , che nel Codice Atlantico opera numerosi tentativi di scrittura per cercare di definire un mostro marino antidiluviano , cui apparterrebbero delle ossa ritrovate in alta montagna, a dimostrazione della tesi , che il grande artista cerca di sostenere , della crescita della terra . Leonardo si cimenta in tre frasi , che vengono composte con precisione via via crescente per rendere tutta la meraviglia dell 'evocazione: "O quante volte fusti tu veduto in fra l ' onde del gonfiato e grande oceano , col setoluto e nero dosso , a guisa di montagna e con grave e superbo andamento ! " . Ma la formulazione non lo soddisfa. Cerca allora di mutare la parola "andamento" con "volteggiando in fra le marine acque" . Ma "volteggiare" gli sembra attenuare l ' impressio­ ne di imponenza e di maestà che vuole trasmettere e sceglie allora il verbo "solcare" : "O quante volte fusti tu veduto in fra le onde del gonfiato e gran­ de oceano , a guisa di montagna quelle vincere e sopraffare , e col setoluto e nero dosso solcare le marine acque , e con superbo e grave andamento ! " 1 • Ecco , spiegata come può farlo solo un grande romanziere con le pa­ role di un genio del dipinto alle prese con la scrittura, la forza iconica del linguaggio . Il suo mistero . Il linguaggio , scrive ancora Calvino , dice sempre qualcosa di più rispetto alla disordinata distesa dell 'esperibile perché la cristallizza, le dà struttura, aggiunge forme e linee di proiezione l

I. Calvino, Lezioni

americane , Milano, Garzanti , 1988, p. 77.

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che semplicemente non c ' erano nelle cose - e qualcosa di meno , perché rimane innominata e innominabile l ' inattraversabile densità del mondo , la sua testura complessa e variegata . Il problema è il resto del nome . Perché nello scambio tra nome e cosa, per così dire , non si va mai totalmente in pari; perché nella raffigurazione , come dirà anche Wittgenstein , qualcosa permane identico e qualcosa si produce in differenza, rispetto al raffigura­ to . Vorrei allora esordire con una provocazione centrata su questo punto : il problema dell' iconico non è tanto il problema della somiglianza, ma della differenza che si apre nel cuore stesso del simile , che il simile impone di vedere , e che i segni mirano a colmare . Questa differenza, come vedremo , è però da definirsi semplicemente come ' differenza interna' e palesa carat­ teristiche diverse dalle differenze tradizionalmente considerate . Nel dialogo dedicato al linguaggio , il Cratilo2, Platone ragiona esat­ tamente su tali questioni . Dunque , per impostare il tema dell'iconico in Peirce e Wittgenstein vorrei scegliere questa via e partire da qui , dal pri­ mo testo dell' Occidente dedicato alla parola e al significato (com 'è noto, i Greci non avevano una parola specifica per riferirsi al linguaggio nel suo complesso) . Vorrei partire da qui perché questo dialogo affronta un nodo centrale della riflessione filosofica, e non solo semiotica: quello di come sia possibile stabilire che un evento ne significhi un altro ; più specificamente , di come sia possibile che una pura emissione vocale rimandi ad un con­ tenuto significativo . In sintesi , il Cratilo è il primo luogo dove troviamo abbozzata la domanda: come si transita dal nome alla cosa? Come nasce il significato? E che genere di "cosa" è il significato ? Che questo problema non sia stato affatto risolto , lo dimostra, alla fine della storia di quel pensie­ ro filosofico di cui il Cratilo è prima, incerta testimonianza, il Libro blu di Wittgenstein, dove troviamo scritto: quando io ti do una parola e tu mi porti una cosa, cosa permette questo scambio , cosa permette la magia del trasfe­ rimento , per cui un evento si tramuta metamorficamente nell ' altro (BB 7)? Platone si esprime in modo simile : se tu capisci mentre io emetto un suono , è perché nasce in te un deloma - cioè un' immagine , una rivelazione , una manifestazione di qualche genere - di ciò che io intendo (435a) . Ecco già qui impostato il tema dell'immagine , come terzo mediatore tra parola e cosa . Platone ci dice che il significato è un' immagine , altrove che è mimesis, somiglianza di ciò che significa . Il significato si produce iconicamente , benché esso sia mimetico non del pragma, della cosa, ma dell ' ousia, dell 'essenza. I nomi sono eikonas dei pragmata, e solo in con­ troluce traspare l' ousia; dunque , conseguentemente a quanto sostenuto in 2

Platone, Cratilo , trad.it. di C. Peretti, Milano, Egea, 1995.

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molti altri dialoghi , la mimesis è da oltrepassare , e bisogna andare verso le cose stesse e il loro significato ultimo , l 'ousia . Ma procediamo con ordine . Il dialogo oscilla tra il verbo di due conten­ denti: Cratilo , sostenitore della tesi naturalistica, e Ermogene che propugna quella convenzionalista . L'alternarsi delle loro posizioni , e il ruolo ' me­ dio ' di Socrate , sono cosa troppo nota per soffermarcisi qui estesamente . Sceglierò solo alcune note-chiave che possono essere funzionali al nostro discorso3 . Cratilo parla pochissimo , per tutto il dialogo (non più di un quin­ to , è stato notato) , spesso si esprime oscuramente (ecco la maschera di Eraclito , di cui Cratilo è considerato seguace) , e saranno Socrate o Ermo­ gene a interpretare quasi sempre il suo pensiero . Cosa rappre senta allora Cratilo , al di là degli echi eraclitei? È Aristotele a darcene una chiave di lettura, nella Metafisica (IV, 5 . 1 0 10a) e nella Retorica (III, 1 4 17b) . Nel primo testo , l' autore ci rappresenta il Cratilo storico come colui che "finì col credere che non si dovesse proferire neppure una parola e soleva fare solo movimenti col dito e rimproverava ad Eraclito di aver detto che non si poteva scendere due volte nello stesso fiume , giacché la sua opinione personale era che non vi si potesse scendere neppure una volta" . Nel se­ condo , Cratilo è rappresentato come un teatrante che "fischia sonoramente e agita i pugni" e così fa verso il pubblico segni rivelatori (symbola) di ciò che non si conosce . Cratilo è dunque più eracliteo di Eraclito: per lui , dice Aristotele , non si può scendere neppure una volta nello stesso fiume . Che significa? Che il problema della discrasia tra mondo e parola, già cruciale per Eraclito , per Cratilo diventa una lacerazione radicale : se il mondo è visto secondo il pensiero del maestro non si può dire nulla di vero e stabile , e la filosofia deve tacere . Non si può dire , tanto meno percepire , uno stesso fiume , perché già individuarlo come unità è una presupposizione di stabi­ lità d'essere . Tutto è pulviscolare , frammentato: resta solo l' endeixis, l'in3

In nota, voglio solo accennare ad uno tra i tanti temi in cui questo dialogo si impegna e che non posso qui tiattaie. Vi è infatti, nelle piime parti del testo, un esplicito 1invio alla prassi del linguaggio: nominare è un'azione, e dunque dobbiamo imparare a denominare le cose nel modo più appropriato, con lo stili­ mento giusto, affenna Platone. Se per tessere abbiamo bisogno della spola, per denominare abbiamo bisogno di quel particolare st111mento che il nome è: il nome si configura dunque come "uno st111mento per insegnare e distinguere l'essenza (organon didaskalikon kai diakritikon)" (388c). Troviamo qui una considerazione puramente stiUmentale dell'elemento linguistico, che lo spoglia di ogni valore sacro, oracolare o anche solo sensibile-indiziario, quale aveva nella tradizione precedente: d'ora in poi, per la tradizione filosofica il nome sarà cosa u·a le cose (come la spola, come il trapano), organon , cioè mezzo, anzi, come si dice oggi, medium della comunicazione.

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dicazione . Il dito puntato di Cratilo . Questa sarà la vera sfida per Platone: non tanto quella di falsificare i poveri abiti d'uso convenzionali di cui parla Ermogene , e a cui egli stesso si adeguerà senza troppe sofferenze (Platone è già convenzionalista, come è stato detto , essendo uomo del suo tempo) . La vera sfida della filosofia, e della filosofia del linguaggio , in particolare , è il silenzio di Cratilo4• Com' è possibile maneggiare parole e afferrare cose? Come si compie il salto , lo scambio tra la sostanza verbale ' fiume ' e l ' ac­ qua che incessantemente scorre (il panta rei di Eraclito) ? Questa ansietà è riproposta nel brano della Retorica , dove si reitera l'i­ dea del saggio che si limita a far gesti invece di usare parole: Cratilo usa segni come puri indici , non parole come simboli convenzionali . Indico l ' uccello in volo , e questo è già scomparso ; indico lì, e quel lì può essere albero , fiume , sentiero . Indico e solo il dito è certo , nella sua evidenza sen­ sibile . Cratilo testimonia l ' inadeguatezza radicale del linguaggio rispetto al sensibile . n contenuto sensibile è inaccessibile alla forma della parola, cioè all 'universale , come diceva Hegel; così , un Cratilo conseguente non può che tacere perché il mondo fenomenico è un flusso inafferrabile e incoe­ rente con la fissità del nome . Questo è l ' agone supremo nel quale Platone si impegna con la costruzione dell ' ousia . Senza l'ousia , siamo travolti da un fiume in piena , senza l' ousia siamo costretti a gesticolare come Cratilo . Gesto che parla di tempi arcaici, propri di culture ancora primitive , come è 'primitiva' , quasi infantile , la sua testarda volontà di tacere di fronte alle varie vie di soluzione relative al problema del linguaggio che attraversano tumultuose il dialogo . Gesto e silenzio - un gesto a dir la verità, silenzioso sì , ma anche furioso (agitava i pugni) - rappresentano dunque una visione arcaica e altera di evitamento della parola , che Platone deve superare . Ma la sfida sarà un agone durissimo , un terreno di scontro in cui si impegne­ ranno molti altri filosofi dell ' Occidente , primo fra tutti il Wittgenstein del Tractatus . Se si deve parlare , lo si deve fare "correttamente" . Altrimenti bisogna tacere . Ma come si può essere corretti , corrispondere cioè alla maestosità del reale? Come si può "ricostruire la fisicità del mondo attraverso l'impalpa­ bile pulviscolo delle parole"5? Questo interrogativo , che poneva in affanno perfino il genio di Leonardo , inclina Platone verso la posizione di Cratilo . Cratilo pervicacemente ripropone per tutto il dialogo la sua tesi , che è l ' u-

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Tema cruciale nel Tractatus di Wittgenstein, com'è noto. Sul silenzio ostinato di Cratilo cfr. B. Cassin, Le doigt de Cratyle , in « Revue de philosophie anciennue », v (l) , 1987. I. Calvino, op . cit., p. 75.

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nica ' sensata' per un pensiero che non ammette mediazioni significative: se ci fidiamo dei nomi , essi devono condurci ' naturalmente ' verso le cose e "chi conosce i nomi conosce anche le cose" (435d) . L' argomento viene ripreso circa a metà del dialogo (423b) dove si mette alla prova l'idea della mimesis , cara a questo autore . "Allora, il nome , a quanto pare , è imitazione con la voce di ciò che viene imitato" , consente Platone . Anche se è un 'i­ mitazione di altro genere rispetto al mimo attuato coi gesti , che potrem­ mo mettere in atto per significare le cose se non avessimo voce e lingua. Il nome è mimema , sì , ma un' imitazione di che genere? Di quale entità? Come dirà il Sofista , il nome deve mimare la verità. Non imitiamo sempli­ cemente le forme e le figure sensibili , come si fa col canto del gallo , col nome noi offriamo un' icona del significato , dell' essenza cui la parola ri­ manda. Prendiamo un unico esempio tra i moltissimi che fa Platone (434c) : quando si analizza la parola sklerotes (duro) si scopre che alcune lettere sono altamente iconiche del loro significato (in termini moderni) . Come potremmo esprimere la durezza con la phi , la mi? Il suono della rho, cen­ trale nella parola, assomiglia, dice Platone , all ' impeto , al movimento , alla durezza, e lo stesso fa la sk iniziale . Il suono sk è perfettamente iconico , come noi usiamo la st di stop con una grande carica onomatopeica6 . Altre lettere invece si aggiungono senza ragione e si potrebbero tranquillamente sostituire con lettere diverse , ad arbitrio , come il lambda , che indica la mol­ lezza. Nella parola vi sono dunque delle proprietà che corrispondono alle proprietà della cosa , ma che non sono a queste identiche , proprio come dirà il Wittgenstein del Tractatus nel tratteggiare la propria Abbildungstheorie . Platone scrive: le lettere , pur essendo diversissime dalle cose che rappre­ sentano e significando certo per convenzione , secondo l'uso (come Socrate ammette) , mantengono tuttavia un legame strutturale , "tipico" , con quella che viene definita ousia , essenza: il lambda può raffigurare pensieri molli , la rho duri , la tau indica lo stop , ecc . Il concetto di imitazione , insomma , 6

Emblematica al proposito è la lunga pa1te etimologica del dialogo, di difficile comprensione. Qual è il suo significato? Resta in gran pa1te un mistero. Celta­ mente, lo sciame delle etimologie, il moltiplicarsi caleidoscopico delle segnature formicolanti delle cose ha qualche ruolo nel condune alla chiusura del dialogo, a rendere evidente la necessità di pervenire all'ousia come stabilità d'essenza al di là della stasis dei nomi, del loro movimento cangiante e continuo che rinvia ad un mondo disperatamente eracliteo, al mondo della doppiezza e della con­ fusione (4llb). La pa1te etimologica del Cratilo , come è stato detto, è il grande mito di questo dialogo. Un mito eretto per ridicolizzare, forse, le sciocchezze del nominalismo. Ma è soprattutto un grande agone tra forze linguistiche che ven­ gono fatte scendere in campo ad armi pari: come insegnavano i sofisti, parlare è combattere.

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garantisce il rinvio ad un rapporto differenziale e non di pura identità. Imi­ tazione non significa identità assoluta: qualcosa si perde e qualcosa viene trattenuto nella raffigurazione rappresentativa, altrimenti non avremmo che tanti doppioni della realtà . Platone persegue così per buona parte del dialogo il mito dell"'appa­ rentamento mimologico" tra nome e senso , evidenziando nell' icona quella che si potrebbe definire "un'eco eidetica"7 : Socrate sviluppa un orecchio capace di restare in "audizione dell 'essenza" , attento al brulicante formico­ lio dei richiami iconici tra significante e significato (simile in questo , a dire la verità, al Leonardo della nostra citazione iniziale) . In tal senso , come è stato notato , Platone è molto più vicino a Cratilo che a Ermogene , anche se sul finire del dialogo si piega alle ragioni dell' abile operatore di discorsi , scolaro di Protagora: "Certo , anche a me piace che i nomi siano per quanto possibile simili alle cose; ma per la verità temo , per riprendere il discorso di Ermogene , che sia sbagliato questo forzarli alla somiglianza e non sia piuttosto necessario servirsi , per la correttezza dei nomi , di questa cosa grossolana, la convenzione" (435c) . Ma, volgendosi verso Cratilo , la sua critica non è meno tagliente: Cratilo , se è vero che dici che tutti i nomi sono corretti , in quanto significano ciò che significano naturalmente (physei), tu sostieni allora che è impossibile dire il falso? Ma se qualcuno ti appellasse come se tu fossi Ermogene , non direbbe proprio il falso? No , obietta Cratilo: "Direi che costui fa del rumore , agitandosi inutilmente, come se agitasse un oggetto di bronzo colpendolo" (430a) . La sua sarebbe una phoné non semantiké, insomma, una voce priva di significato . Come scrive Cassin8 , l'hybris antologica di Cratilo - c ' è una perfetta adeguazione tra nome e cosa - non è che il verso della "meonto­ logia" sofistica - tale adeguazione non è nelle cose - perché è pur sempre l ' accordo a venire perseguito , anche se non sarà più per virtù naturale , ma per scelta. Entrambe queste posizioni a ben vedere affermano , à la Parmeni­ de , che dire è dire l'essere: nella prima posizione si sottolinea però la forza dell'essere , nella seconda la forza del dire . Non c ' è distanza tra queste due realtà, non c ' è terzità mediatrice tra le due , cioè non c ' è necessità di un inter­ vento semiotico , né per Cratilo , né per Ermogene: c ' è solo il problema di in­ dividuare la forma della corrispondenza, sia essa naturale o convenzionale . Ma Socrate fa intendere che non è qui che risiede la questione: la questione sta nel medio , quel medio che permette di scambiare nomi e cose grazie al

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P. Loraux, L 'audition de l'essence . Essai d'omophonie, in «Revue de philosophie anciennne », V (1), 1987. B. Cassin, Le doigt de Cratyle , in «Revue de philosophie anciennne », cit.

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piano trasparente del riferimento all' idea. Qui sta il vero (e la possibilità di dire il falso) : la dialettica, come arte di coniugare segni e significati e di per­ venire a giudizi veri, deve allontanarsi sia dall' iconismo assoluto (altrimenti avremmo semplicemente tanti doppioni della cosa, come Socrate obietta a Cratilo più avanti, 432d) , sia dal nominalismo puro (in questo caso avrem­ mo invece puri fiati vocali) . Tra le due alternative del silenzio e del rumo­ re assordante , si torna all 'ipotesi mimetica, come unica ipotesi in grado di dare spiegazione della costruzione del significato logico: vedere nel segno l ' icona della forma, vedere , al di là del puro segno linguistico , l'essenza, il significato logico , in immagine . Se tu ammetti , incalza Socrate , che una cosa è il nome e un' altra ciò di cui è nome , se ammetti cioè che ci sia una distanza tra nome e cosa (43 8a e ss.) , allora devi ammettere che il nome rinvii ad un mimema, ad un ' im­ magine simile alla cosa, ma non ad essa identica. Ecco tornare il problema di Wittgenstein: se io ti do una parola e tu mi porti la cosa, è perché nello spazio della distanza tra le due si è frapposta un' immagine significativa (posizione platonica che , tra parentesi, Wittgenstein critica ampiamente) . La verità si produce iconicamente , come corrispondenza mimetica, e il de­ loma è un passo verso la verità degli enti . Dall' endeixis alla mimesis, dal dito puntato all ' iconismo mimetico , dun­ que . Se al filosofo è data ora la possibilità di uscire dal silenzio è perché si rivela mimo , mimo del vero . Ma la sua mimesis è quella che riproduce la verità eidetica, non i pragmata . Anzi , in senso soggettivo , il vero mimo è della verità (è lei che mostra) . Si dà così avvio alla conclusione propriamente socratica, alla voce veri­ tieramente semantiké di Socrate : "Ma è chiaro che sono da cercare fuori dai nomi (aneu onomaton) altre cose (ta onta) che , senza ricorrere ad essi , ci mostreranno quali di loro sono veri , indicando chiaramente la verità delle cose" (43 8d) . I nomi sono somiglianze (eikonas) delle cose , non è vero , Cratilo? Ma allora perché fermarsi alle icone e non andare direttamente alle cose stesse? , conclude Socrate , quasi tracciando heideggerianamente una barr a sul contendere del dialogo : i nomi . Aneu onomaton, fuori dal linguaggio e dalle icone del linguaggio (si ricordi che eikonas è un termi­ ne quasi sempre epistemologicamente negativo , in Platone) è da cercare la verità. Poi , forse non si potrà fare a meno del linguaggio , e allora ben venga la convenzione . Ma la medietà di Socrate , in fondo , è una forma di oltrepassamento sia della posizione di Cratilo , sia di quella di Ermo gene . È una prospettiva molto aristocratica: di colui che si sottrae alla stasi dei nomi , all ' agone del linguaggio, anzi al vortice (dinen) in cui essi ci fanno precipitare (439c) , e guarda ieraticamente alla verità in sé .

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Alla fine , il Crati/o sembra distruggere il proprio oggetto di indagine: il nome , il segno . Platone mostra ben poco interesse per tale questione , con la quale chiude rapidamente i conti in questo piccolo dialogo , non tornando più sull ' argomento se non per brevi cenni qua e là . Platone può dirsi filo­ sofo antisemiotico e antilinguista che però , curiosamente , ha tracciato in queste pagine un cammino duraturo per quanto riguarda l' attenzione verso le tematiche che sia la semiotica, sia la linguistica successiva non smette­ ranno di affrontare9 • Ogni significazione ha una radice iconica: questo è ciò che il Crati/o mette in evidenza riproponendo , se pur sapientemente rielaborata, la posi­ zione cratilea. E questo è esattamente il pensiero di Peirce e Wittgenstein sulla questione , come vedremo subito .

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Mi sono occupata altrove di tale questione : cfr. R.Fabbrichesi Leo, La polemica sull 'iconismo . Napoli , ESI, 1983; "Firstness: l'icona". in Sulle tracce del segno . Semiotica. janeroscopia e cosmologia nel pensiero di C.SPeirce , Cap.l, Firenze , La Nuova Italia , 1986, e, in uscita, Eco, Peirce, and Iconism , in The Library of Living Philosophers: U. Eco , Illinois University Press.

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2. SEGNO E RAPPRESENTAZIONE . ICONA E BILD

L'iconicità e i suoi tre livelli . Peirce lavorò indefessamente al proprio progetto semiotico dal 1 867 fino all ' anno della propria morte , nel 1 9 141 • La semiotica peirceana è anzitutto fondata sulla nozione di interpretan­ te , perché senza la mediazione dell' interpretante (che non coincide con una mente soggettiva, ma con qualsiasi processo di comprensione comune ad una certa forma di vita) non vi è alcuna attivazione sensata di relazio­ ne segnica . Questo riferimento all ' interpretante è proprio ciò che mette in movimento la relazione segnica rendendola propriamente , come è stato detto , "una funzione relazionale di rimando" , dove la catena mobile degli Interpretanti produce la semiosi , o "processo di azione triadica del segno" (CP 5 .472) . Così, Peirce combatte ogni dualismo di cartesiana memoria, cui ancora in gran parte soggiace De Saussure , e afferma, nel contempo , che non vi è relazione tra segno e oggetto se non attraverso la mediazione di un interpretante "il quale dice che uno straniero dice la stessa cosa che egli stesso sta dicendo" (CP 1 .553) . Se il riferimento all 'oggetto apre il se­ gno verso il mondo , rendendo la semiotica peirceana una teoria antologica complessa, il riferimento all 'interpretante produce un ' analisi gnoseologica che trova nell' infinità dell' interpretazione interessanti rimandi ermeneu­ tici. Ogni segno , anzi , come dice l ' autore , ogni pensiero-segno rinvia ad un altro segno in un processo di traduzione costante in cui il senso, il sil

Sulla semiotica di Peirce mi sono soffennata in alni luoghi: cfr. ad es. Sulle tracce del segno, cit., e Continuità e variazione, cit., cui mi pennetto di rimandare. "Un segno o representamen è qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcosa in qualche tispetto o capacità. Si indilizza a qualcuno, vale a dll·e, crea nella mente di quella persona un segno equivalente o forse un segno più sviluppato. Quel segno che esso crea lo chiamo mterpretante del prilno segno. Il segno sta per qualcosa, il suo oggetto. Sta per quell'oggetto non m ogni rispetto, ma m Iifeiimento ad una certa idea, che a volte ho chiamato il ground del representamen" (CP 2.228). "Con semiosi intendo un'azione, o un' influenza che è, o ilnplica, una cooperazione di tre soggetti, quali un segno, il suo oggetto e il suo interpretante, non potendo mai questa influenza trirelativa tisolversi in azioni tra coppie" (5.484).

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gnificato vive nel rimando . Siamo molto lontani dalle analisi confinate al quadro linguistico di De S aussure , che non si interroga mai su cosa sia il significato del quale tanto parla, accettando come buona la sua sinonimia con il concetto , tradizionalmente inteso ; siamo di fronte ad una teoria com­ posita che dall ' analisi del segno passa ad indagare la configurazione della realtà , della verità e della conoscenza, giungendo alla conclusione che il senso della realtà è un evento indefinitamente futuro e coincide con il corso infinito delle interpretazioni e degli effetti pragmatici che esse producono . Tra i segni, dei quali Peirce sviluppò tricotomie e classificazioni via via sempre più elaborate , l ' icona si rivela fondamentale . Perché essa fa parte di una delle più importanti tripartizioni prodotte dall' autore , quella che ri­ guarda il segno in relazione al proprio oggetto (ricordiamole tutte: il segno può essere considerato in se stesso e dividersi in qualisegno , sinsegno e legisegno , o tone, token, type; in relazione all ' oggetto e allora abbiamo icona, indice e simbolo; in relazione all ' interpretante , cioè rema, dicisegno e argomento) . Ma "la più importante distinzione segnica è quella tra icone , indici e simboli" (CP 2 .275) . L'icona costringe dunque a confrontarsi con il tema della relazione all ' oggetto , che è propriamente il tema della semiotica peirceana (e della filosofia in generale , aggiungerei , che da secoli si inter­ roga su ciò che potrebbe essere definito come il primo iconismo , quello che incatena tra loro pensiero e cosa) ; e obbliga a ridefinire in particolare la relazione di somiglianza, che , come abbiamo visto è anch 'essa, fin da Platone , considerata relazione-cardine tra tutti i processi rappresentativi . Alle radici della questione logica vi è il tema della somiglianza e se non si può credere , come voleva Parmenide , che essere e pensiero siano tau­ ton , bisogna per lo meno reputarli simili , analoghi . Ma come si dà questa somiglianza? ll problema per Peirce non è , fin dai primi scritti , quello di spiegare se la somiglianza si produca per convenzione o sia corrispondenza naturale; il problema è quello di comprendere come si dia la possibilità di fondare l ' analogia tra due enti e di rendeme uno misura dell ' altro , di vede­ re l'uno nell' altro , di vedere uno come l ' altro ; il problema è dunque , ancora più a fondo , quello di comprendere la relazione tra il segno e l'oggetto , e di spiegare come appare quello che definiamo ' oggetto ' . Questo è uno dei riferimenti che più accomunano Peirce e Wittgenstein, i quali non solo operano in vista di una sorta di ' genealogia del pensiero logico ' , ma giungono entrambi , come vedremo , ad una risoluzione com­ piutamente iconica del tema logico . Ambedue si rendono cioè conto di come alle radici del log os emerga il tema della somiglianza, o , nei termini di Wittgenstein, dell' identità segno-designato; ambedue sembrano osses­ sionati dalla stessa serie di interrogativi: come accade che il pensiero si

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adegui alla realtà e le parole ci portino al cospetto delle cose? Il potere di ' farsi cosa' è in senso proprio il potere dei segni: ma qual è il segreto del rimando? È dunque necessario in prima battuta chiarire bene cosa Peirce intenda con il termine ' icona' . Il fatto che l ' autore americano abbia scelto questo termine inusuale , che rimanda all ' origine greca della nozione , lascia subito intuire quanto sia errata per lui l ' abituale identificazione icona=immagine (mentale o visuale) . Infatti Peirce , da grande e colto filosofo quale era , si esprime così in merito allo statuto dell' icona , in un passaggio purtroppo in gran parte obliato dai commentatori: Un'Icona è un Representamen la cui Qualità Rappresentativa è una Primità dell 'Icona in quanto l'Icona è un Primo: cioè una qualità che l'Icona possiede in quanto cosa e che la rende atta a essere un representamen . Così qualsiasi cosa è atta a servire da Sostituto per qualsiasi cosa cui essa sia simile [ . ] Un segno per Primità è un'immagine del suo oggetto , e , rigorosamente parlando , può essere solo un'idea , perché esso deve produrre un'idea interpretante [ ] Ma , ancor più rigorosamente parlando , neppure un'idea , eccetto che nel senso di una possibili­ tà , o Primità , può essere un' icona . Soltanto una possibilità è un'Icona , puramente in virtù della sua qualità, e il suo oggetto può essere solamente una Primità . Ma un segno può essere iconico , cioè può rappresentare il suo oggetto principal­ mente attraverso la sua similarità , a prescindere dal suo modo d'essere. Se si vuole introdurre un termine tecnico , un representamen iconico può essere detto ipoicona . Ogni immagine materiale , come per esempio un dipinto , è largamente convenzionale nel suo modo di rappresentazione; ma in se stesso , senza titolo o intestazione , può essere chiamato ipoicona (CP 2 .276) . . .

. . .

In questo lungo passo è contenuta tutta la teoria iconica di Peirce . Do­ vremo sintetizzarne molti riferimenti , ma credo che risulti subito chiaro come , secondo il nostro autore , si diano tre livelli di apparizione dell'ico­ nicità: l) l ' icona si dà come pura Primità (Firstness) 2 relazionale , pura 2

Si fa qui Iifeiimento implicito alla temia delle categorie di Peirce. Su questo tema cfr. C.S .Peirce , Categorie , a c. di R. Fabb1ichesi Leo , B a�i, Laterza, 1992. Le categmie in Peirce non sono più viste , dopo l'approdo alla logica delle relazioni e alla temia della quantifìcazione , come modi di dirsi dell'essere , né solo come modi del segno , ma sono proposte come modelli assolutamente fmmali , costituite in base alle più basila1i relazioni matematiche (o chimiche). Secondo l'autore , infatti , ogni evento si dà come pura Firstness, Piimità , cioè puramente in sé , senza Iiferimento a null'altro , pura qualità o feeling; secondariamente, si può dare in relazione , o reazione , ad altro (Secondness o Secondità; è il piano della bruta esistenza, dello scontro con la realtà); in terzo luogo , come mediazione tra un p1imo e un secondo (Thirdness o Terzità). A quest'ultima categmia appa�tiene ogni simbolo , ogni concetto , ogni abito di risposta , ogni significato, ogni rappre-

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possibilità , cioè pura evenienza di riferimento; 2) l ' icona può essere idea, o oggetto di visione (proprio nel senso greco di eidos) ; 3) solo in ultima analisi può darsi come ipoicona , segno iconico rappresentativo per con­ venzione . Tra questi ultimi segni Peirce considera immagini , diagrammi e metafore , secondo un 'ulteriore schematizzazione triadica , declinata in forma c ategoriale . Non si danno dunque mai icone pure , ma solo segni rappresentativi per similarità: l ' iconicità è una peculiarità categoriale , non antica. In questo senso, (che costituisce la radice di ogni semiotica e logica comple ssa, se­ condo Peirce) l ' icona nomina semplicemente la pura possibilità della re­ lazione all' oggetto , uno spazio di distinzione e indistinzione insieme , in cui vi è una mera "comunità" o "co-occorrenza" nel possesso di una qua­ lità (l'unico esempio che l ' autore fa al proposito è nella sfumatura che collega una tonalità di blu ad un ' altra) . D simile recupera dunque il rife­ rimento al ground, che compare nel primo scritto importante di Peirce , On a New Listo of Categories3: ground come spazio di apertura , terreno meramente ipotetico e potenziale in riferimento al quale possono emergere qualità, associarsi dei relati e trovare consistenza i loro rimandi . Ground come disporsi di "vaghezze" qualitative , dove i relati vivono nello spazio di un possibile accordo , "ma il mero disaccordo (non riconosciuto) non costituisce una relazione" (CP 1 .558) . Anzitutto , ci dice Peirce tracciando questa ideale fenomenologia della similarità, non c ' è il simile e ciò cui esso somiglia; c ' è solo un ' apertura , uno spazio di possibilità che delimita il luogo dell'incontro tra due relati , non ancora compiutamente distinti , che nell' assimilazione trovano identificazione (''Ogni cosa può fungere da Sostituto di ciò cui è simile" 2 .276) . In seconda battuta, si stabilirà una comparazione per cui il primo viene messo a confronto con il secondo , e questa categoria di relazione sarà poi resa possibile solo da un atto di inter­ pretazione o rappresentazione , cioè dal riferimento ad un Interpretante che dice che i due relati si assomigliano ( 1 .553-4) . La relazione di somiglian­ za, essendo all' origine dell ' intero processo categoriale che conduce all ' in­ terpretazione simbolico-concettuale , delimita una pura relazione interna , come scrive l ' autore sempre nel Nuovo elenco , una sorta di relazione-non relativa , di differita identità all'interno della quale possono apparire il si-

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sentazione . Primo e Secondo si danno solo in rife1imento ad un Terzo, ma hanno pure una tonalità assolutamente differente e autonoma rispetto alla mediazione interpretativa della terza categoria, cui non possono essere 1idone. Tradotto in italiano in Scritti scelti , cit. pp. 7 1-82. Qui si fa riferimento al ground, come astrazione pura in base alla quale possiamo comprendere l'accordo tra due eventi, come "rispetto" , il 1iferimento al quale costituisce una qualità.

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mile e l ' oggetto cui esso somiglia, la cosa e la sua rappresentazione . La nozione di relazione interna è desunta dalle pagine finali di Un nuovo elen­ co di categorie e diviene uno strumento potente di analisi per le ulteriori qualificazioni semiotiche . Già qui , infatti , Peirce specificava la distinzione tra relazioni interne , "composte di relati il cui riferimento ad un ground è una qualità prescindibile o interna" , e dunque il cui ground si configura come "lo stesso (il selj) astratto dalla concretezza che implica la possibilità di un altro" e le relazioni esterne , "in cui il riferimento al ground è una qualità imprescindibile o relativa" , e in cui la nozione di selj implica quella di other, di altro ( 1 .558)4. Per questo , scriverà poi l ' autore , un' Icona pura non traccia alcuna distinzione tra sé e il proprio Oggetto , ma rappresenta ciò che rappresenta in quanto ha con esso qualche somiglianza, in quanto lo denota come proprio oggetto in virtù di questa stessa somiglianza , che non informa , non afferma alcunché , ma semplicemente mostra che vi è del tauton . È solo a partire da questo ground - inteso come terreno di incontro , di stessità tra un Uno e un Due - che gli oggetti si identificano tra loro e acquistano identità in se stessi; è solo all 'interno di quest' orizzonte che si può assistere all ' "emergenza di un ordine relazionale , di un punto di vista o rispetto (ground) che consenta a sua volta l ' emergenza di un altro (other, altro , l' oggetto) il quale , sotto quel rispetto , ordine o capacità sia insieme il medesimo (selj)"5 • Peirce situa dunque da una parte le similarità, intese come Primità ca­ tegoriali , dall' altra ogni ulteriore genere di relazione: identità , diversità , alterità . Solo queste ultime , in quanto Secondità , sono relazioni in senso proprio : appartengono infatti ad enti individuali , sono riconoscibili nelle Terzità, consentono confronti e paralleli , disponendosi nei campi ordinati delle identità e delle differenze . La similarità non ne fa parte . Essa infatti stabilisce un rapporto , frappone una distanza, non tra essa ed altro , ma nel suo stesso ground. Il ground apre ad infinite possibilità di relazioni "inter­ ne" . Relazioni non relative , differite identità, questo particolare genere di relazioni si rivelano rinvio potenziale all ' interno dell' identico, confusione dell ' identità nell' alterità e contemporaneamente distanziarsi dell' una nei confronti dell' altra . Questa relazione-non relazione offre il piano della si­ milarità come pura in-differenza (si ripensi all'esempio delle varie tonalità di blu che sfumano l ' una nell ' altra , senza che sia possibile raccoglierle sot4

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Peirce riprende la distinzione relazionale da Occam e Pietm Ispano. Ma lo stesso Wittgenstein vi farà riferimento, come vedremo, avendo però presente, probabil­ mente, la sistemazione di Bradley. Su questi temi mi petmetto ancora di rinviare al mio Il concetto di relazione in Peirce, Milano, Jaca Book, 1 992. C.Sini, Semiotica e filosofia, Bologna, Il Mulino, 19902 , p.64.

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to una definizione univoca) . Tutto ciò che si dà a questo livello categoriale è un ground di similarità crescenti e potenzialmente accostabili . Perché insisto su questi difficili e a volte decisamente oscuri passaggi? Perché voglio che sia chiaro che Peirce non sostiene un' ipotesi tradiziona­ le , né in un senso convenzionalista, né ingenuamente naturalista , riguardo al rinvio per similarità tra segni . Per quest ' autore la somiglianza è sempli­ cemente la radice di ogni processo di significazione , cioè di conoscenza, e in questo senso egli individua i caratteri di una relazione che non è pro­ priamente né comparativa, né interpretativa (per questo la si può definire come ' non relativa' ) , che si limita a rendere visibile e abitabile uno spa­ zio di affinità emergenti e di connessioni possibili , indipendentemente da ogni riferimento ad un'essenza stabilita o ad una realtà concreta (lo stesso modello concettuale , come vedremo , che utilizzerà il Wittgenstein delle somiglianze di famiglia) . Detto questo , credo che possano ora risultare più chiare le citazioni fatte prima: la qualità rappresentativa dell' icona è una pura Primità categoriale , cioè una possibilità , una qualità che essa possiede in sé, irrelativamente ad altro , un carattere interno "che le appartiene in quanto legato al suo ca­ rattere di oggetto sensibile e che essa possiederebbe anche se non vi fosse nessun oggetto in natura che le assomigliasse e anche se non fosse mai interpretata come segno" (CP 4 .447) . Tanto è vero che l' oggetto dell' icona è definito come un mero something , pura finzione , qualcosa di interamente indefinito , puramente immaginario: una pura Firstness , come diceva nella definizione iniziale . Non una cosa da raffigurare esattamente , ma una pura possibilità categoriale che si definisce nella relazione segnica attivata a li­ vello iconico . "Qualsiasi cosa è Icona di qualsiasi altra cosa [ . . . ] in quanto è simile ad essa ed usata come suo segno" (2 .247) . "Le icone fungono da completi sostituti dei loro oggetti , tanto che è difficile distinguerli da essi" (3 .362) . Come dirà anche Wittgenstein, la rappresentazione è anzitutto so­ stituzione . La realtà si produce sulla base di queste relazioni (interne) di ri­ specchiamento , raddoppiamento , sostituzione e insieme costituzione . Ogni cosa è segno; più propriamente , ogni cosa è un' icona. In tal senso , icona e oggetto non sono esistenti autonomamente , non si devono adeguare a partire da una distanza irriducibile , ma si formano all 'interno dell ' as sociazione che li nomina , all 'interno di quella relazione segnica che li distingue e collega strettamente , nel contempo . Ma c ' è un altro elemento nella definizione cui bisogna prestare atten­ zione . Peirce parla infatti di internai characters , di materia! qualities , a proposito dell' icona , "che le appartengono in quanto oggetto sensibile" : così sottolinea l ' aspetto materiale e concreto della significazione , i l suo

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supporto , che , solo , permette il costituirsi di una relazione . Questo aspetto qualifica il representamen iconico : è ciò senza cui esso non avrebbe ca­ ratteristiche segniche . In questo senso si potrebbe dire , wittgensteiniana­ mente , che l ' icona mostra il senso attraverso le forme materiali della sua espressione , ma non lo dice , non ce lo sa spiegare . Ecco un esempio mol­ to chiaro che Peirce stila al proposito , tratto dalla recensione dello scritto "What is meaning?" di Lady Welby, dove leggiamo : If a person points to it and says , See there ! That is what we c ali the ' Sun ,' the Sun is not the Object of that sign . It is the Sign of the sun , the word ' sun' that his declaration is about; and that word we must become acquainted with by collateral experience . Suppose a teacher of French says to an English-speaking pupil, who asks ' comment appelle-t-on ça? ' pointing to the Sun ,[ ] ' C 'est le soleil , ' he begins to furnish that collateral experience by speaking in French of the Sun itself. Suppose , on the other band, he says ' Notre mot est ' soleil " then instead of expressing himself in language and describing the word he offers a pure Icon of it. Now the Object of an Icon is entirely indefinite , equivalent to ' something . ' He virtually says ' our word is like this' and makes the sound . He informs the pupil that the word (meaning , of course , a certain habit) has an effect which he pictures acoustically (CP 8 . 1 83) . . . .

Qui troviamo dipanati molti temi che abbiamo già incontrato: l' iconismo del linguaggio come pittura acustica (la stessa che inseguiva Leonardo) ; l ' alternanza tra il dire e il mostrare , che sarà al centro del Tractatus e della sua teoria della raffigurazione; la forza, la potenza (dynamis) raffigurativa insita nei nomi , che rimane l ' anima profonda della significazione . Peirce mirabilmente tiene insieme in questa citazione Cratilo e Ermo­ gene , il dire convenzionale di Ermogene e il mostrare iconico di Cratilo , accenna alla sinestesia dei sensi (un 'immagine può essere acustica , un suo­ no può essere una perfetta icona) e intreccia il tema della segnicità rappre­ sentativa e della figuratività concreta delle parole . Ambedue le esperien­ ze sono necessarie , e coe sistono nell'uso del linguaggio . C ' è una mimica (mimicry, CP 2 .282) del linguaggio che ci offre una pura icona del nostro oggetto , niente più che un indefinito "something" (8 . 1 83) , e c ' è un abito linguistico che descrive e dice , fornendoci molte informazioni di natura universale e convenzionale . Perciò il linguaggio , come diceva Calvino , è qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto al mondo . Ma la funzione ' mostrativa' iconica si rileva facilmente anche in moltis­ simi esempi tratti dall' algebra: "In effetti - commenta Peirce - ogni equa­ zione algebrica è un ' icona, in quanto esibisce , per mezzo di segni algebrici (che in se stessi non sono icone), le relazioni delle quantità interessate" (CP 2 .282) .

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L'icona traduce dunque la realtà in segno , rendendoci possibile operare sulle forme della raffigurazione come se si trattasse delle cose stesse , tanto che , leggiamo in CP 3 .362 , quando contempliamo un'icona la differenza tra essa e la realtà si oscura e noi pensiamo di trovarci nel mezzo di un sogno . "Pure dream" , l' icona produce l ' annullamento delle differenze segno-ogget­ to: o meglio , permette l'uso del segno in vece della cosa. Guardo l 'immagi­ ne e 'tocco' la realtà. Così nasce il significato: dall' attivazione delle qualità materiali, dall'uso sensibile di rappresentanti materiali scelti come elementi di traduzione-sostituzione dell'esperienza reale . Creo una characteristica , come diceva Leibniz , e lavorando sulla disposizione dei caratteri ricostruisco in immagine l 'intero mondo , do vita ad un "pictum mundi amphiteatrum" . Lo spazio iconico è dunque uno spazio di indistinzione e sostituzione insieme , in cui si dà la possibilità dell' emergere dei simboli e dei loro refe­ renti oggettuali . Non è dunque il segno che assomiglia all' oggetto: è l ' og­ getto che si annuncia e diventa significativo nelle relazioni permesse dalla sostituzione iconica; ed è quest'ultima a rendere l' oggetto Altro , interpre­ tandolo come Segno , grazie ai propri supporti materiali di significazione .

Immagini interne ed esterne: idee e diagrammi . Questa preminenza del carattere materiale , sensibile , 'palpabile ' , come diceva sempre Leibniz , del segno la ritroviamo nei passaggi nei quali Peirce si riferisce alle idee , o meglio alle icone considerate come idee . Si tratta del secondo livello di apparizione dell' iconicità , secondo la citazione iniziale dalla quale siamo partiti; e ora bisogna spiegare cosa il nostro autore intenda per idea. Anzitutto si può dire che non si tratta della concezione tradizionale : nel 1 868 Peirce era stato infatti il primo , inascoltato critico della teoria associa­ zionista relativa all'immagine mentale , e con poche , sintetiche proposizioni aveva convincentemente sostenuto che ciò che abbiamo nella testa quando ricordiamo o percepiamo qualcosa non è affatto un' immagine simile in tutto e per tutto ad un piccolo disegno, ma, piuttosto , un segno , vago e di natura generale . Prego il lettore , scriveva in un saggio del 1 8686, di pensare cosa intendiamo dire quando diciamo che vediamo un colore . Ciò che vediamo non è nulla di singolare e definito: "Noi non portiamo via assolutamente nulla del colore se non la consapevolezza che potremmo riconoscerlo" (CP 5 .300) . Dunque , ciò che va sotto il nome di associazione di immagini non è che un' associazione di giudizi ('Ecco di nuovo il blu' ) , vale a dire di se­ gni e di riconoscimenti interpretativi . L'immagine mentale va intesa come una sorta di "schema" e, direi , nei due sensi della parola schema , secondo 6

"Alcune conseguenze di quattro incapacità", in Scritti scelti , cit., pp. l07- 144.

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l ' accezione greca: cioè come abito (habitus o habitudo) , conformazione , condizione , attitudine , disposizione generale , ma anche come delineazione schematica, schizzo , abbozzo di ciò che vogliamo significare , cioè come qualcosa di assolutamente empirico e figurale (fondato com'è, se si ricorda, sulle Qualità materiali) . Vediamo le idee , potremmo dire, nel senso che ve­ diamo (con le nostre facoltà sensibili) segni di natura generale e di carattere schematico . "L' interprete di un certo argomento può essere pensato come qualcuno che vede qualcosa, il che presenta questa piccola difficoltà per la teoria della visione , che esso si presenta come qualcosa di natura generale" (CP 5 . 1 48) . Peirce insiste su questa lettura iconica della teoria delle idee , che non significa associare queste ultime a delle pure pitture mentali , come vo­ leva ad esempio Locke , ma, se mai, a mio modo di vedere , avvicinarsi ad un autore come Goethe , che per primo ha lavorato a formulare il pensiero del ' vedere le idee ' , riuscendo a trasmettere il senso sia empirico che razionale di questa esperienza. Goethe è insomma stato forse il primo a sottolineare la radice fenomenica e visuale - esemplare - della forma o dello schema idea­ le . Vedremo quanto questa prospettiva avrà influenza anche su Wittgenstein. Se dunque assumiamo che le idee siano icone , nel senso appena detto , riusciamo a comprendere perché il nostro autore abbia tanto insistito , per tutto il corso della vita, sulla natura visiva e osservazionale della conoscen­ za. Non vi è conoscenza infatti , per lui , che non si fondi su di un proces­ so osservativo; la stessa semiotica si sviluppa a partire dall' osservazione astrattiva (CP 2 .227) . Se la logica non è che un altro nome per semiotica , l a semiotica è una disciplina di ' visione ' , fondata sul processo che conduce a costruire nell' immaginazione una sorta di diagramma scheletrico , un ab­ bozzo schematico , di ciò che è sotto esame e a giungere da questa rappre­ sentazione ad una qualche conclusione generale (ivi) . Osservazione e in­ venzione vanno poi sempre insieme , aggiunge Peirce , poiché il vedere per immagini implica l ' attivazione del processo immaginativo , che ci conduce ad individuare nuovi aspetti nella figura rappresentata. Ciò viene esem­ plificato nel modo più illuminante in ambito matematico , laddove l' uso delle somiglianze diviene fondamentale per lo sviluppo della disciplina : le somiglianze indicano infatti aspetti nuovi di un ipotetico stato di cose . Os­ servando una formula o un teorema in veste di icona intravediamo nuove relazioni o nuove verità concernenti l ' oggetto della nostra ricerca. Contro alcune consolidate credenze, allora, immaginazione e capacità in­ ventiva sono la caratteristica più precipua del ragionare matematico . Con Leibniz , Peirce avrebbe infatti potuto scrivere: "La matematica universale è per così dire la logica dell' immaginazione" , un'immaginazione che so­ gna schemi e diagrammi , "spiegazioni e leggi" (CP 1 .48) . "ll diagramma

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deve poi essere chiaramente qualcosa che possiamo vedere e contemplare" (4 .430) . "La capacità di rivelare verità inattese" , quella che Peirce chiama abduzione , o ipotesi, associandola a deduzione e induzione , è dunque attivata eminentemente dalle configurazioni iconiche , e sono proprio queste a risul­ tare essenziali in matematica, la quale infatti "tratta esclusivamente di stati di cose ipotetici e non asserisce nessun effettivo dato di fatto" (CP 4 .253? . Dunque , il primo gradino del conoscere è fondato su di un pensiero ico­ nico , che è poi un pensiero abduttivo e inventivo . Questa è in definitiva la ragione per cui il nostro autore crede che il ragionare per diagrammi debba alla fine soppiantare ogni altro ragionare astratto . Si potrebbe infatti utilizzare in riferimento a Peirce una dizione che è stata scelta per conno­ tare il particolare modello di sapere propugnato da Goethe : stile visivo8 • Peirce ha certamente , come il grande autore tedesco , uno stile visivo - non retorico , non concettuale - per spiegare la conoscenza: "L' unico modo di comunicare direttamente un ' idea è per mezzo di un' icona ; ed ogni modo indiretto deve comunque dipendere dall ' uso di un 'icona" (CP 2 .278) . Quel che colpisce è che Peirce sembra proporre non in c ampo naturalistico , ma in campo logico-semiotico il metodo morfologico utilizzato da Goethe per leggere la natura . Vedere e mostrare forme in transizione : questo si può fare , sembra dire Peirce , anche in riferimento ai sillogismi e alle inferenze segniche , così come alle formule matematiche . Dunque , in ogni asserzione , in ogni forma logica (come poi ripeterà Wittgenstein, grande estimatore anch' egli di Goethe9) è contenuta un' icona; di più , in ogni singola inferen­ za, cioè in ogni pensiero-segno , è implicata una somiglianza . "Appare così come ogni conoscenza ci pervenga tramite osservazione" (CP 4 .444) . La deduzione , ad esempio , consiste nel costruire un' icona o diagramma le relazione delle cui parti presenteranno una completa analogia con quelle del­ le parti dell' oggetto del ragionamento , nello sperimentare su quest' immagine nell ' immaginazione , e nell 'osservare il risultato in modo da scoprire relazioni mai prima notare o nascoste tra le parti (CP 3 .363).

Risulta chiarissimo da quest'ultima citazione come il movimento del co­ noscere debba procedere per Peirce attraverso precisi gradini: costruzione di un'icona o diagramma che presenti un' analogia formale con l' oggetto del ragionamento, osservazione , sperimentazione sul diagramm a nell' im-

7 8 9

Su questi temi si veda l'impmtante contributo di S. Marietti, /cona e diagramma , Milano, LED, 200 1. Cfr. P. Giacomoni , Le fomze e il vivente, Guida, Napoli, 1993. Su questi temi si veda il mio Continuità e variazione , cit., Parte II.

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maginazione e nuova osservazione degli aspetti inediti rivelati dalla spe­ rimentazione . Per questo si può dire che la ricerca si fonda su due principi essenziali: "Possiamo per il momento chiamarli ragionamento Immagina­ tivo e Esperienziale ; o ragionamento tramite diagrammi e tramite espe­ rimenti" (CP 4 .74) . Pur stimolato in questa riflessione dalla sua attività di logico e di matematico , Peirce crede che questo tipo di procedimento valga per ogni ragionamento astratto . Ogni pensiero ha una radice iconica , e d ogni icona si delinea come u n grafo dai tratti concreti e sperimentabili , "che rende letteralmente visibile di fronte agli occhi l 'operazione in actu del pensiero" (CP 4 .6) . Voglio introdurre ora un' osservazione tratta da un testo importante di Wittgenstein dedicato alla matematica, perché possa risultare subito chiara la direzione assolutamente analoga di pensiero dei due autori: Quando chiedo: "che cosa c ' è di nuovo nel 'nuovo genere di calcolo ' dell ' e­ levazione a potenza?" - è difficile rispondermi . La parola ' nuovo aspetto ' è vaga . Vuoi dire che ora vediamo la faccenda in modo diverso - ma la questione è: qual è la manifestazione essenziale, importante di questo 'vedere in modo diverso ' ? [ . . .] Ebbene, prima di tutto ,forse, lo deposito in una notazione . Così , per esempio, scrivo ' a2 ' in luogo di ' a x a' . Così facendo mi riferisco alla suc­ cessione numerica (alludo ad essa) e questo , prima, non era accaduto . Dunque stabilisco una nuova connessione ! - Una connessione - tra quali cose? Tra la tecnica dell 'enumerare i fattori e la tecnica del moltiplicare [ . . . ] Si potrebbe

dire che uno 'ha scoperto un nuovo aspetto ' quando, invece di scrivere 'j(a) ', scrive '(a)j' (OFM 1 14-5 . Le sottolineature sono mie) .

Per entrambi gli autori , dunque , i l processo inferenziale è fondato sull'osservazione , cioè su di un' attività sensibile-percettiva; quest'osser­ vazione risolve i ' dati ' in icone , e queste icone , più che identificarsi con le immagini mentali di empiristica memoria, sono segni "esterni" , cioè scritture , grafi , diagrammi che vanno elaborati , costruiti e sperimentati , nell ' immaginazione o sulla carta , in modo che , attraverso un processo in­ ventivo , nuove figure iconiche e , dunque , nuove verità teoriche possano trovare conferma . Sono i grafi , dunque , a costruire il pensiero , piuttosto che il processo inverso . Per comprendere appieno l ' importanza di questa risoluzione , è neces­ sario insistere ancora sull ' antimentalismo di Peirce . I segni , le icone , le idee non vanno pensati come contenuti della mente . Noi non abbiamo alcun potere di introspezione , scriveva Peirce nel 1 86 8 , perché ogni co­ noscenza del mondo interno la desumiamo , per inferenza ipotetica, dalla conoscenza del mondo esterno (CP 5 .265 ) . L' uomo stesso non è che un

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segno e si identific a totalmente con i linguaggi e le scritture che usa. Uomo , pensiero e linguaggio hanno la stessa natura di segni , e per di più di segni ' esterni ' : non solo l 'uomo è un segno , ma identificandosi total­ mente con i segni ' esterni ' , gestuali , scritturali o fonetici che egli usa, l ' uomo è un segno "esterno"10 • Bisogna liberare il segno dai suoi legami con la mente , scrive ancora l ' autore . E agganciarlo a cosa? Se siamo collocati nel "train of thoughts" , nella corrente del pensiero , che è in realtà una corrente semiotica, e se que­ sti pensieri-segni sono eminentemente icone che si appellano al nostro sen­ so di osservazione , bene , allora dobbiamo accettare la conclusione cui ci conduce Peirce: che la nostra mente lavora costantemente con diagrammi , che "tutto il ragionamento necessario , senza eccezioni , è diagrammatico . Vale a dire , noi costruiamo un' icona di un ipotetico stato di cose e proce­ diamo ad osservarlo" (CP 5 . 1 62) . "Ricordate che è tramite icone che noi ragioniamo , e le affermazioni astratte sono senza valore nel ragionamento se non ci aiutano a costruire diagrammi" (4 . 1 27) . Peirce sostiene così una risoluzione iconica e diagrammatica del tema della conoscenza: ogni sapere procede da un riconoscimento di similarità ed è dunque agganciato a quell ' iconismo originario che ci permette di porre in relazione mondo e pensiero del mondo , mondo e discorso sul mondo . In questo Peirce è un discepolo fedele di Leibniz e si inserisce nel solco di una tradizione attenta a enfatizzare la materialità e priorità dei segni della scrittura , che procede da Lullo a Leibniz , e da Peirce arriva fino a Wittgenstein . Scriveva Leibniz nei Nuovi saggi : "Infatti , per una mirabile economia della natura , non possiamo avere idee astratte che non abbiano bisogno di qualcosa di sensibile , non fossero altro che i caratteri delle let­ tere e dei suoni [ . . . ] e non v ' è mai pensiero così puro che non sia accom­ pagnato da qualche immaginazione"11 • Peirce la pensava esattamente così: egli enfatizzava "la dipendenza dei pensieri dai segni e dunque dai veicoli segnici esterni, sia 'reali ' , come libri , carta e inchiostro , sia derivati , come l ' alfabeto e le notazioni logiche e matematiche , od ogni altra strumentazio­ ne esterna per la produzione segnica" 12. 10 11 12

Su questi temi mi sono soffermata nel recente In comune . Dal corpo proprio al corpo comunitario , Milano, Mimesis , 20 1 2 , 11 . 1 . G . Leibniz , Nuovi saggi sull 'intelletto umano , Milano , Bompiani , 20 1 1 , XXI. P. Skagestad , Peirce, Virtuality and Semiotic, consultabile alla pagina http:// www.bu.edu/wcp/Papers/Cogn/CognSkag.htm. Si vedrà dalla citazione seguente quanto queste analisi siano prossime a quelle contemporanee dei cosiddetti teorici della ' mente estesa'.

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Uno psicologo taglia un lobo del mio cervello e, quando si scopre che non mi riesco più ad esprimere , mi dice: ' ecco , vedi , la tua facoltà di linguaggio era localizzata in quel lobo ' . Non c ' è dubbio che lo fosse; così , se avesse vuotato il mio calamaio , io non sarei stato capace di proseguire la discussione finché non se ne fosse trovato un altro . Certo , proprio i miei stessi pensieri si sarebbero volatilizzati . Così , la mia capacità di discutere è ugualmente localizzata in quel calamaio (CP 7 .366) .

Peirce pone così il problema del supporto della significazione e , con­ testualmente , dell ' estensione del concetto di ' mentale ' . Problema che era evidentemente sentito anche da Wittgenstein , che annotava nei suoi diari : "Io penso effettivamente con la penna" 13; o "il pensare è qualcosa come un ' attività della mano [ . . . ] quando pensiamo scrivendo [ . . . ] Se parliamo ancora della località nella quale il pensiero ha luogo , possiamo dire che sia il foglio su cui scriviamo o la bocca che parla" (BB 1 3 ) . L' antimen­ talismo dei due autori è analogo , come si vede: se andiamo alla ricerca del luogo , o della sostanza , del pensiero non li troveremo mai . Perché il pensiero è nei segni che usa, e questi segni sono in costante transito . Perché noi siamo nel pensiero (cioè nei segni) e non il pensiero in noi (CP 5 .289n) . Peirce sembra così abbracciare la teoria sostenuta tra gli altri da Ha­ velock , Ong e in Italia da Sini14, per cui gli strumenti di scrittura che utilizziamo orientano il nostro modo di pensare , ed è lecito credere , come scrive Sini , che vi sia uno "schematismus latens che funga da contenuto della forma as sunta dalla logica e che la logica nel suo procedere elide e dimentica" 15 • Questo contenuto della forma logica sembra proprio essere l ' iconismo della scrittura grafica e diagrammatica, come Peirce aveva compreso bene . In questa prospettiva non deve apparire strana la sua an­ sia di dedicare le proprie migliori energie alla costruzione di diversi tipi di notazioni logiche e matematiche , oltre che di un sistema di scrittura ideografico che fosse in grado di riprodurre perfettamente il movimento del pensiero "in actu" .

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L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1988, p. 44. C.Sini, Etica della scrittura, Milano, TI Saggiatore, 1992. Cfr. pure C.Sini, Filo­ sofia e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1994 ; id., Il foglio-mondo, in Opere , vol. III, tomo II, Milano, Jaca Book, 2013; W.Ong, Oralità e scrittura , Bologna, Il Mulino, 1986; E. Havelock, Dalla A alla Z, Genova, ll Melangolo, 1 993. C.Sini, Etica , cit., p . 23.

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Ipoiconicità . Eccoci dunque arrivati al terzo livello di apparizione dell ' iconicità: quello ipoiconico , cui appartengono , come scrive l ' autore , immagini , diagrammi e metafore . I diagrammi "rappresentano le relazio­ ni, principalmente diadiche , o così considerate , delle parti di una cosa con delle relazioni analoghe tra le loro stesse parti"(CP 2 .227) . Se dun­ que è vero che per Peirce tutto il pensiero è nei segni , si può ben dire che tutto il pensiero è nei grafi , nelle scritture , nelle tracce impresse sui più diversi supporti a testimonianza della nostra azione nel mondo . L' autore si dirige sempre più decisamente verso un ' ipotesi del genere formulando la propria domanda teoretica non più nei termini usuali : cosa è un pen­ siero ? , ma piuttosto chiedendosi: dove sta il pensiero ? Dov ' è il suo luogo di manifestazione e di espressione? E vi è poi un pensiero fuori dalla sua espressione sensibile? O una mente che non si risolva nella sua estensio­ ne pratico-pragmatica? Appare in questa luce più che naturale la decisione dell' autore di dedi­ care lunghi anni di ricerche al perfezionamento di un sistema di notazione logica di ispirazione ideografica, denominato sistema dei Grafi Esisten­ ziali , il quale avrebbe dovuto esser in grado di esprimere , da una parte , le conquiste formali raggiunte dallo sviluppo della logica delle relazioni , dali ' altra, di proporre un nuovo modo di esporre il ragionamento , e dunque di scrivere . Peirce vi si impegna con una dedizione totale e assoluta , che ci ricorda il 'furore grafico ' di altri costruttori di lingue universali , da Lullo a Leibniz , mostrando di avere un'immensa fiducia nelle potenzialità espresse dal suo sistema , tanto da definirlo il suo "chef d'oeuvre" (CP 4.347) , o, ancor più ambiziosamente , "la logica del futuro" (ivi) . Non possiamo seguire Peirce nell'esposizione del suo programma teo­ rico , che occupa pagine e pagine del materiale edito e inedito dell' autore . Soffermiamoci solo un momento su di uno scritto , quasi interamente de­ dicato a questi problemi , ma predisposto in realtà come difesa del sistema pragmatista. ll suo titolo è infatti Prolegomena to an Apology for Pragmati­ cism , cioè letteralmente "Prolegomeni ad una difesa del pragmaticismo"16 • Nel tentativo di spiegare al lettore perché andare alla ricerca di "un sistema di diagrammatizzazione per mezzo del quale ogni corso di pensiero po­ trebbe essere rappresentato con esattezza" , egli immagina di dialogare con un illustre generale e di chiedergli ragione dell 'uso di mappe e diagrammi nel caso di operazioni militari . Perché lo fate , egli chiede , quando il terre­ no delle manovre è direttamente presente di fronte a voi? La risposta che 16

Lo si può leggere in CP 4.530-72 e in traduzione col titolo "Iconismo e grafi esistenziali" in Peirce , Semiotica , in Opere , cit.

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viene offerta è la seguente : perché le operazioni sui diagrammi prendono il posto degli esperimenti , che vengono svolti nelle ricerche fisiche o chi­ miche . All' obiezione per cui il fisico ha a che fare con la natura stessa, Peirce risponde che il grafi sta ha a che fare con la natura delle relazioni tra le parti , e può immaginare nuove disposizioni nello schema diagrammatico e mutamenti inaspettati nei rapporti relazionali . Così , come il chimico è in realtà interessato alla struttura molecolare , e non all' esempio particolare che ha dinanzi agli occhi , quando sperimentiamo sui diagrammi l' oggetto dell ' investigazione è la forma di una relazione . Ora , questa Forma di Relazione è esattamente la forma della relazione che sussiste fra le due parti corrispondenti del dia­ gramma . Per esempio siano f e f le distanze dei due fuochi di una lente dalla 2 1 lente stessa . Allora l

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Questa equazione è un diagramma della forma della relazione tra le due distanze focali e la distanza focale principale . Le convenzioni dell 'algebra (e tutti i diagrammi , anzi tutti i disegni , dipendono da convenzioni) c ongiunta­ mente con la scrittura dell 'equazione stabiliscono una relazione fra le sole lettere /1 , /2 , /0 prescindendo dalla loro virtù di significare. Ma la forma di questa relazione si identifica [is tlze Very Same] con la forma della relazione che sussiste fra le tre distanze focali che queste lettere denotano (CP 4 .5 3 0 . S ottolineatura mia) .

Peirce dice dunque chiaramente - dando voce ad un pensiero logico ormai consolidato - che alla base della logica matematica vi sono solo funzioni e rapporti relazionali , "prescindendo dalla loro virtù di signi­ ficare" , legami sintattici e non semantici . Ma, di più , egli ci dice che queste relazioni sono leggibili grazie alla scrittura delle loro relazioni "interne" . È dunque la scrittura dei caratteri che rende possibile stabilire identità , differenze , relazioni , schemi diagrammatici , diairetici , definitori e combinatori . E questa forma relazionale si identifica con quella reale , ci conduce a leggere e identificare la realtà . Non sono i singoli caratteri , dunque , ad essere indicativi , ma i loro rapporti , le loro proporzioni e " se­ grete armonie" , che appaiono per altro solo attraverso la loro esibizione scritta .

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Procedendo nella trattazione , l ' autore ribadirà il concetto: "Ora, il ragio­ namento deve rendere manifesta la conclusione . Perciò deve soprattutto oc­ cuparsi di forme , che sono i principali oggetti della penetrazione razionale . Di conseguenza le icone sono particolarmente adatte al ragionamento"(CP 4 .5 3 1 ) . Le icone rappresentano pure forme , o feelings ; e le rappresentano , le figurano , le mostrano , appunto , esibendo i propri caratteri , senza offrir­ ne una spiegazione o una definizione simbolica. Ma esse non hanno solo questa qualità isomorfico-rappresentativa: l ' esibizione formale e scritturate permette che sul loro supporto si possano svolgere sperimentazioni e ma­ nipolazioni di varia natura, scoprendo verità inusitate . La diagrammatizza­ zione presenta così sia un carattere formale che un carattere pragmatico . Su questi temi Peirce ha lavorato a lungo , giungendo a conclusioni analo­ ghe a quelle wittgensteiniane , come tra breve cercherò di dimostrare . Come introduzione al concetto di Bild wittgensteiniano , si può leggere fin d'ora la definizione del termine lmaging , predisposta da Peirce per il Dizionario di Filosofia e Psicologia diretto da B aldwin , nel 1 9 1 1 (cioè negli stessi anni in cui Wittgenstein andava elaborando ipotesi molto simili sul tema della raf­ figurazione , cfr. CP 3 .609 ) . Ora il termine inglese Imaging significa descri­ vere , rappresentare , figurare , ed è analogo , scrive Peirce , all'Abbildung te­ desco (che è esattamente il termine che sceglierà Wittgenstein per costruire , appunto , l 'Abbildungstheorie, la teoria della raffigurazione del Tractatus) . Il termine , continua Peirce , fu coniato da Gauss nel 1 845 per riferirsi ad una proiezione su scala di una mappa. Questo tema ci porta a considerare come si dovrebbe dare una mappa su larga scala, e magari all ' aperto , dell ' intero globo , là dove la mappa dovrebbe poi essere rappre sentata su di una mappa più grande (l 'Interpretante divenendo a sua volta un segno , direbbe il Peirce semiologo) fino a raggiungere una mappa che alla fine ricoprisse l' intero universo , e che risulterebbe nient' altro che un' immagine di se stessa. La raffigurazione può dunque essere considerata sinonimo di "sostituzione" . O di proiezione , come dirà ancora Wittgenstein. Veniamo allora ad una conclusione di questo percorso peirceano . In luo­ go delle cose , scrive Peirce riferendosi al suo illustre e glorioso generale , usiamo segni e grafi scritti: "sperimentare su di essi è sperimentare sulle cose stesse" (CP 4 .86) . Costantemente maneggiamo segni e intendiamo cose , compiendo un' operazione di traduzione e spostamento che è l ' essen­ za stessa del conoscere . E che è anche il suo grande enigma. Io credo che i costruttori di lingue universali - da Lullo a Dalgarno , da Leibniz a Peirce , che possiamo ben intendere come l ' ultimo esponente di questo maestoso ancorché inconcludente percorso filosofico - abbiano saputo interrogar­ si su uno dei problemi-principi dell ' indagine filosofica: sul perché siamo

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nell ' abito di vedere segni e immaginare cose; di scegliere corpi , corpi se­ gnici e grammaticali , e vedervi proiettata un' anima significativa. Appelliamoci allora ad un piccolo esempio per concludere le nostre nota­ zioni peirceane: si pensi ad un disegnatore che , di fronte ad una tribù di pri­ mitivi non adusi a leggere segni iconici , tracci su di una lavagna i lineamenti schematici della figura di una mano , e ponga di fronte ad essa la sua mano reale come modello . Cosa conduce a stabilire una somiglianza tra le due? E di che genere di somiglianza si tratta? I semiologi contemporanei parlereb­ bero della convenzionalità del segno iconico (che condurrebbe gli uomini primitivi probabilmente a non comprendere il gesto) . Wittgenstein ipotizza­ va delle antenne che si "allungassero" dal modello fino a "toccare" la realtà, quali ideali proiezioni in grado di legare il riconoscimento dell 'uno a quello dell' altra. Ma com'è davvero da pensare questo esempio? Io parlerei17 di un processo di sostituzione-costituzione: nei caratteri non vediamo meri signifi­ canti , qualità materiali pure , ma forme significative cariche di senso . Forme logiche, cioè forme reali . Forme reali , cioè forme logiche. Così , nelle linee della mano rappresentate sulla lavagna non vediamo linee ricurve di gesso , ma la mano "vera" , la mano incontrata tante volte nell'esperienza reale . O meglio , vediamo le due cose in una, o lo Stesso nel suo sdoppiamento , in una soglia di assoluta trasparenza e specularità. L' ars characteristica è così ars inveniendi di ogni costituzione reale . E non c ' è mano là dove non si è mai delineato lo schema della mano , a partire dall' abito per cui le mani sono degli utili afferrabili. In quella pratica, da allora in poi, la mano è fatta così, come il carattere che la delinea ce la presenta. In ogni ' simbolizza­ re ' mettiamo costantemente in opera questo trasporto , questo slittamento di senso : usiamo segni e caratteri come se fossero le cose , grammata in luogo di pragmata . In questa pratica di traduzione si compone quello che ci piace definire come ' oggetto ' . Per cui possiamo affermare: è nella traccia della scrittura - nella traccia di ogni segno - che si staglia il mondo . La posizione di Peirce al riguardo non è dunque banalmente conven­ zionalista, ma non è neppure naturalista . Leggiamo quanto scrive in una citazione nella quale commenta il sistema grafico di Eulero , cui spesso egli SI Isprra: Let us now endeavour to seize upon the spirit and characteristic of this sy­ stem of graphs , and to estimate its value . Its beauty - a violent inappropriate word, yet apparently the best there is to express the satisfactoriness of it upon 17

Ho meglio esposto e commentato questa ipotesi nel mio I corpi del significa­ to . Lingua, scrittura e conoscenza in Leibniz e Wittgenstein , Milano, Jaca Book, 2000, Patte I, cap. l .

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mere contemplation - and its other merits , which are fairly considerable , spring from its being veridically iconic , naturally analogous to the thing represented , and not a creation of conventions . It represents logic because it is govemed by the same law. It works the syllogism as the planet integrates the equation of Laplace , or as the motion of the air about a pendulum solves a mathematical problem in ideai hydrodynamics (CP 4.368) .

Questo genere di proposizioni ha condotto spesso molti semiologi e logici a guardare con sospetto al sistema di Peirce . Certo , la sua posizione sembra qui ingenuamente 'naturalista' , quasi soggetta ad una logica speculare della conoscenza, e il suo sapore è innegabilmente newtoniano . Ma l'ho scelta proprio perché comporta una sfida al pensare comune , e credo che possa es­ sere letta, facendo riferimento all ' impianto generale del suo sistema, in altro modo . Ascoltiamo bene quello che dice: egli afferma, sì , che i grafi sono naturalmente analoghi alla cosa rappresentata, ma aggiunge: essi fanno fun­ zionare il sillogismo , così come i pianeti integrano , risolvono , l'equazione di Laplace . Anche l 'equazione di Laplace è dunque analogia 'naturale' del moto dei pianeti (o , all'inverso , il moto dei pianeti ' assomiglia' alla equazio­ ne di Laplace)? In che senso un'equazione matematica è iconica? Un'icona per Peirce è innegabilmente un mimema , un mimo della realtà , come cercava di sostenere Platone . Secondo questa prospettiva formule , nomi , grafi , diagrammi e naturalmente immagini sono "mimi" della verità . Ma non si deve pensare ad un rapporto di banale adeguazione tra due entità sussistenti autonomamente - i grafi , i segni da una parte , le cose dall ' al­ tra; le equazioni di qua , il movimento dei pianeti di là -, piuttosto , è nelle forme della scrittura , nelle forme iconiche e segniche di raffigurazione che ritroviamo la realtà stessa con i suoi oggetti costituiti . Il movimento dei pianeti è una ' cosa' che sorge all 'interno della scrittura matematica e scien­ tifica del diciottesimo secolo; ed è propriamente la sua rappresentazione scritturale che produce quel particolare rappresentato che è l' orbita plane­ taria con le sue traiettorie e le sue perturbazioni , impensabile in una pratica di scrittura in cui erano ignoti i telescopi e le equazioni matematiche . I pia­ neti non si muovono in orbita intorno al sole per il babilonese che osserva il cielo , ma per Laplace , che cattura la meccanica celeste , certamente lo fan­ no , o almeno , iniziano a farlo . In ogni pratica si procede dunque attraverso gesti di iscrizione e traduzione per cui si mette in rilievo , si proietta , si fa staccare questo o quell' aspetto dell'esperienza, e il mondo si dà in figura18 • 18

Sono debitrice , per questa interpretazione , del lavoro di Carlo Sini. Cfr. in parti­ colare Transito verità , in Opere , a c. di F. Cambria, Vol. V, Milano, Jaca B ook , 20 12.

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Proviamo allora a commentare così la frase di Peirce: è nelle forme ico­ niche della raffigurazione che si produce la verità, l' accettabilità del risul­ tato che viene proposto . E questo risultato non è né vero né reale prima di essere così segnato . È la formula, l ' icona che lo rende effettivo , esistente , somigliante , che produce una rappresentazione e , insieme , con un movi­ mento di rimbalzo , ciò che essa rappresenta: l 'equazione di Laplace e il movimento dei pianeti; la formula dell ' algebra e la transitività relazionale . Due in Uno , Segno in rapporto a un Oggetto per un Interpretante , incatenati da quel processo di sostituzione-costituzione che è alla base di ogni rinvio significativo , e che Peirce in On a New List of Categories designava come ' relazione interna' (CP 1 .558) .

La teoria della raffigurazione nel Tractatus . La teoria iconica in Peirce ha più di un aspetto in comune con la teoria della raffigurazione in Wittgen­ stein, anche se l ' orizzonte problematico dal quale partono i due autori è radicalmente diverso . Vediamo allora , anzitutto , da che genere di proble­ mi si origina il Tractatus logico-philosophicus , la grande opera dell' autore viennese che è anche , com' è noto , l 'unica pubblicata in vita. Per i nostri intenti risulteranno fondamentali anche i Quaderni di preparazione all' o­ pera e i Diari segreti19 • Diamo uno sguardo a quella che viene denominata l' antologia del Trac­ tatus , che , elaborata per ultima, come ci indicano i commentatori , ha però funzione di fondamento per tutte le altre proposizioni . Wittgenstein stabi­ lisce una concatenazione tra mondo , come totalità dei fatti (non delle cose , cioè delle semplici presenze) ; jatti come sussistere di stati di cose e stati di cose come nessi d' oggetti . Il mondo è perciò tutto ciò che accade; tutto ciò che accade nella forma del fatto , del fatto presente nello "spazio logico" . Infatti è la forma - la possibilità logica - a determinare la possibilità del 19

I taccuini di Wittgenstein contengono due testi paralleli: uno, cifrato, scritto sulle pagine di sinistra, l'altro contenente le annotazioni che sono state pubblicate col titolo di Tagebilcher (Quaderni 1 914-1 916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1 914-1916, cit. - citiamo dai Quaderni con la sigla Q seguita dalla data) e che di fatto preparano la stesura dell'opera p1incipale dell'autore. Per compren­ dere i terni del Tractatus è fondamentale, secondo il mio parere, legare tra loro le riflessioni di questi tre testi diversi, ed immaginarsi l'autore al fronte, nella difficile opera di connettere tra loro terni logici e problematiche etiche o psicolo­ giche. La p1ima parte dei taccuini, contenente osse1vazioni più personali, è stata recuperata nel 1952 a casa della sorella di Wittgenstein, decifrata e pubblicata col titolo di Diari segreti (tr. it. di F. Funtò, Roma-Bari, Laterza, 1987): essa eone parallela, come dicevamo, alla stesura dei Quaderni e, dunque, all'elaborazione dei principali terni del Tractatus.

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nesso tra gli oggetti: è lo spazio logico ad essere condizione di pensabilità dei fatti . Dunque , come scrive Black20 , aspetto atomistico e aspetto organi­ cistico nel Tractatus sono strettamente uniti: gli atomi del grande mosaico contingente dei fatti sono connessi in un reticolo invisibile di connessioni formali . L' irruzione della logica domina sulla prima proposizione radical­ mente contingentista dell ' opera: "Il mondo è tutto ciò che accade", ma ciò che accade sono i fatti, non le cose , dunque il fatto che Socrate era ateniese , non la cosa semplicemente presente ' corpo di Socrate ' che accade ora e qui , ad Atene . Tra mondo logico e mondo reale vi deve essere poi qualcosa di comune , quella che l ' autore chiama ' forma' . "La forma è la possibilità della struttu­ ra" (T 2 .033) . Dopo queste notazioni estremamente rigorose , Wittgenstein fa seguire la proposizione 2 . 1 che si apre con uno spaesante ' noi' e prosegue con un' asserzione apparentemente banalissima: "Noi ci facciamo immagini dei fatti" . Nel sistema wittgensteiniano abbiamo dunque una perfetta (o che vorrebbe essere perfetta) corrispondenza tra oggetti semplici/stati di cose/ fatti (o oggetti/fatti atomici/fatti molecolari) e, dall' altra parte , nomi/propo­ sizioni atomiche/proposizioni molecolari, che , a loro volta, vengono rispec­ chiati in elementi dell'immagine/immagine semplice/immagine complessa. Appare chiaro fin dai primi passi , dunque , il mondo duplicato della logica wittgensteiniana: nel Tractatus abbiamo un ' ontologia e una teoria della raf­ figurazione che si co-istituiscono (secondo quel rispecchiamento tra ordini epistemici che si nota all' opera fin da Aristotele , ma del quale certamente Wittgenstein è inconsapevole) . Potremmo rileggere infatti così le prime pro­ posizioni del libro: il mondo è tutto ciò che accade , cioè la totalità dei fatti , cioè la totalità delle immagini, immagini che presentano la situazione nello spazio logico , cioè il sussistere o meno di stati di cose . Come vedremo ana­ lizzando meglio le proposizioni dell'Abbildungstheorie , conoscere , anche per Wittgenstein, è stabilire somiglianze , rendere ogni fatto un'immagine (e ogni immagine un fatto) , procedere attraverso traduzioni iconiche incessanti capaci di offrire il mondo in figura. In ogni raffigurazione proposizionale io vedo infatti lo stato di cose , che lì si mostra . Il Tractatus è , com'è noto , un ' opera "di guerra" , scritta sotto il canno­ neggiare del fuoco nemico , che rapidamente si dirige da temi strettamente logici a problematiche etiche . È curioso però che Wittgenstein , partito vo­ lontario per diventare "un uomo decente" , pur annotando episodicamente riflessioni di stampo etico o psicologico , si concentri - per lo meno durante il primo anno di guerra, quello della maturazione degli assunti centrali del 20

M.Black, Manuale per il Tractatus di Wittgenstein , Roma , Ubaldini 1967.

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Tractatus su una questione di chiara impronta teoretica: "Cosa è propria­ mente caratteristico della relazione del rappresentare?" . Così si domanda nei Quaderni il 30 . 1 0 . 1 4 , e i giorni seguenti le annotazioni dei Diari segreti sono dense di espressioni scoraggiate: "Ho dato l ' assalto al problema inva­ no" . Chiedersi insistentemente cosa significhi rappresentare , farsi immagi­ ni dei fatti , vuol dire centrare l ' attenzione sul tema logico partendo dall ' i­ eonismo del linguaggio . Se tutto il pensiero ha una natura osservazionale , come si dà la realtà in immagine , e cos ' è poi un' immagine? Interrogativi che , come appare subito ad un primo sguardo , sono identici a quelli che muovevano Peirce nella costruzione della sua semiotica. Wittgenstein è alle prese , come Platone , come Peirce , con la mimesis della parola e del segno: "La mancanza di chiarezza risiede manifestamen­ te nella questione , in che propriamente consista l' identità logica di segno e designato ! E la questione è (di nuovo) un aspetto principale di tutto il problema filosofico" (Q . 3 .9 . 14) . -

L' identità logica di segno e designato consiste nel fatto che non si deve riconoscere nel segno o più o meno che nel designato . Se segno e designato non fossero identici rispetto al loro pieno contenuto logico , allora vi dovrebbe essere qualcosa d ' ancor più fondamentale che la logica (4 .9 . 1 4) .

"Sono sulla strada di una grande scoperta" annota gli stessi giorni nei Diari . Quel che è deludente è che la complessità, la potenza teoretica di que­ sta intuizione venga poi dissipata nell' alquanto rozza proposizione 2 . 1 del Tractatus: "Noi ci facciamo immagini dei fatti" . In realtà, è proprio il sem­ plice 'fatto ' che ci sia una determinata relazione con qualcosa fuori di noi , che risulta anzitutto da spiegare . Come leggiamo nei Quaderni (Q . 24.9 . 14) , il tema della coordinazione tra stati di cose apparirà infatti via via sempre più fondante , assimilandosi a quello della verità di tutto ciò che accade (che evidentemente accade come relazione , non come semplice presenza) . Infatti quest' ultimo problema è identico alla questione , come sia possibile la coordinazione di stati di cose (uno designante e uno designato)" (Q . 25 .9 . 14) . La difficoltà della mia teoria della raffigurazione logica era quella di trovare una connessione tra i segni sulla carta ed uno stato di cose fuori nel mondo . lo dissi sempre che la verità è una relazione tra la proposizione e lo stato di cose , ma non seppi mai scoprire una tale relazione (Q . 27 . 1 0 . 14) .

Nei Diari relativi a questo periodo Wittgenstein si mostra molto abbat­ tuto : ho assoluto bisogno di un' idea significativa per poter fare dei passi avanti su tale questione , annota. Quest'idea significativa verrà alfine trova-

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ta nella nozione di Bild, di immagine . Meglio ancora, nella nozione di Bild come Projektion : "Uno stato di cose è pensabile ( ' rappresentabile ' ) vuol dire : noi ce ne possiamo fare un ' immagine" (Q . 1 . 1 1 . 14) . Ma l ' immagine , come presto vedremo, va pensata secondo un modello proiettivo ; dunque , se "L'immagine logica dei fatti è il pensiero" (T 3 ) , "Il metodo di proiezio­ ne è il pensare il senso della proposizione" (T 3 . 1 1 ) . L'Abbildungstheorie di Wittgenstein va considerata in questo modo peculiare : l' immagine non è semplice copia del reale , così come non lo sono , similmente , né il pensiero , né la proposizione . Piuttosto , "La proposizione consterebbe d' immagini primitive , che sarebbero proiettate sul mondo" (Q . 1 2 . 1 1 . 14) . Si tratta allo­ ra di capire cosa Wittgenstein intenda per immagine , al di là di alcune for­ mulazioni non sempre felici che di essa troviamo nelle pagine dell' autore . Ripartiamo allora dalla prima asserzione che incontriamo nel Tractatus , forse la più infelice di tutte: "Noi ci facciamo immagini dei fatti" (T 2 . 1) . Come essa sia da intendere è però chiarito subito dopo: l'immagine è un mo­ dello della realtà (2 . 1 2) , un fatto (2 .141 ) , un metro apposto alla realtà (2 . 1 5 12) . Dunque , non è certo assimilabile ad un contenuto di coscienza: Wittgenstein aveva alle spalle anni di studi ingegneristici e scientifici e pensava probabil­ mente a quella che oggi chiameremmo 'teoria della modellazione' . I suoi rife­ rimenti teorici non sono , per capirsi , gli empiristi inglesi , ma Hertz e Lichten­ berg21 , sui cui testi si era a lungo applicato , avendo per altro verso, com'è noto , pochissima dimestichezza con la storia della filosofia e i suoi autori. L'immagine va dunque intesa come fatto empirico e concreto , è parte della stessa realtà che rappresenta, è una qualità materiale ma nel contempo rappresentativa (nei termini di Peirce) , poiché la sua peculiarità sta proprio nella relazione di raffigurazione che mette in atto . Questo risulta chiaro fin dalle prime proposizioni del Tractatus: ciò che fa di un' immagine un ' im­ magine non è tanto il suo esser-fatto , quanto il suo esser-forma , forma di raffigurazione : la peculiarità dell 'immagine è la connessione interna degli elementi che ne fanno un' immagine (T 2 . 1 4) . "Che gli elementi dell ' imma­ gine siano in una determinata relazione l 'uno all ' altro mostra che le cose sono in questa relazione l ' una all ' altra" (2 . 1 5) . La connessione relazionale sarà chiamata "struttura dell' immagine" ; la possibilità della struttura, "for21

Lo nota, tra gli altri, A .G .Gargani, Linguaggio ed esperienza in Ludwig Wittgen­ stein , Firenze, Le Monnier, 1 966, p .l22- 1 26, che scrive: "Proprietà raffigurativa del linguaggio per mezzo di simboli semplici, identità di molteplicità logica, iso­ morfismo strutturale tra pensiero e mondo sono alcune delle condizioni essenziali della teoria linguistica del Tractatus , delle quali Wittgenstein aveva trovato le premesse, in un linguaggio meno generalizzato di quello del Tractatus, nella teo­ ria dei modelli dinamici dei Prinzipien hettziani".

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ma della raffigurazione" dell ' immagine (2 . 1 5) . Dunque , in definitiva, "La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose siano l'una all' altra nella stessa relazione che gli elementi dell' immagine" (2 . 1 5 1 ) . In queste righe, a lungo discusse e commentate dagli interpreti, Wittgen­ stein insiste , a mio modo di vedere, essenzialmente su due elementi: che l' im­ magine non è solo fatto , nesso d'oggetti di uno stato di cose , ma è pure forma , possibilità della struttura, cioè della connessione , o della configurazione, tra gli elementi reali e gli elementi rappresentativi; che l'immagine , insomma, assurge a segno massimamente significativo per questa sua doppia qualità: di essere unfatto (empirico) e, insieme, unaforma (trascendentale) - mai un puro contenuto della mente, un percetto mentale atto a mediare tra i segni e le cose . L'immagine che interessa a Wittgenstein si presenta dunque nelle doppie vesti di qualità materiale e di segno rappresentativo . "La proposizione dice: così è, e non invece così. Essa rappresenta una possibilità e forma già visibilmente la parte d'un tutto - del quale ha i tratti - e dal quale spicca" (Q .6 .6 . 1 5) . L' immagine è dunque parte dell ' insieme dei fatti e insieme loro rap­ presentante , presenza fisica e rinvio simbolico . L'immagine ha la struttura che ha in quanto è elemento relazionale , in quanto stabilisce una relazione raffigurativa di rimando con ciò che rappre senta: "Secondo questa conce­ zione , appartiene dunque all'immagine pure la relazione di raffigurazione che ne fa un'immagine" (T 2 . 1 5 1 3 ) . E questo è un punto centrale nell' ana­ lisi wittgensteiniana: L'inunagine è così legata con la realtà; giunge ad essa (T 2 . 1 5 1 1 ) . Essa è come un metro apposto alla realtà (2 . 1 5 1 2) . Solo i punti estremi delle righe di graduazione toccano l ' oggetto da misu­ rare (2 . 1 5 1 2 1 ) . L a relazione di raffigurazione consta delle coordinazioni degli elementi dell' inunagine e delle cose (2 . 1 5 1 4) . Queste coordinazioni sono quasi le antenne degli elementi dell'inunagine , con le quali l 'immagine tocca la realtà (2 . 1 5 15) .

La relazione rappresentativa non si aggiunge dunque come un terzo ele­ mento tra l 'immagine e la realtà , ma individua la natura propria dell' im­ magine , la sua qualità precipua: se si parla di immagine , si parla di una struttura relazionale raffigurativa e con.figurativa . Ma di che relazione pro­ priamente si tratta? Wittgenstein , come si vede , fatica molto a dar forma al proprio pensiero: l ' immagine è come un metro , un regolo; la si può raf­ figurare come dotata di antenne con le quali "tocca" la realtà, con le quali "giunge" ad essa. Non si creda che si tratti di esemplificazioni che poi ver­ ranno superate , come molte altre interne al Tractatus: queste resistono , e

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ritornano , come vedremo , negli scritti più importanti della cosiddetta "fase intermedia"22 • Meglio della parola ' antenne' , a volte sembra funzionare per l ' autore la parola "ombra" : "Quell ' ombra che l 'immagine , direi, getta sul mondo : Come afferrarla esattamente? Ecco un mistero profondo" (Q . 1 4 . 1 1 . 14) . Wittgenstein sembra privilegiare l ' idea dello ' spiccare ' , dello stagliarsi dell ' immagine sulla realtà: qualcosa della sua materialità rimane impresso , determina una figura, e insieme , retroflettendosi, dà senso al tutto di cui essa fa parte . "E se la descrizione generale del mondo è come uno stampo del mondo , i nomi la inchiodano al mondo sì che questo ne è ovunque coperto" (Q .3 1 .5 . 1 5 ) . In questo senso l ' immagine-proposizione va consi­ derata "una misura del mondo" (Q.3 .4 . 1 5 ) . Si comprende così meglio l' intento dell ' autore , che è quello di presen­ tare la relazione di raffigurazione non come semplice mediazione rappre­ sentativa , ma come configurazione attuale di senso: l ' immagine non si rap­ porta ad un mondo già fatto , ma ne imprime uno stampo , una matrice , e così "giunge alla realtà" , cioè la configura nei suoi elementi significativi , elementi che si stagliano sul fondo del "pulviscolare , del formicolante" , come scriveva Calvino . Come un insetto con le sue antenne , l'uomo usa la propria capacità relazionale-raffigurativa per saggiare la realtà, per mi­ surarla e delineare al suo interno un percorso: senza il metro , la griglia di graduazione del segno rappresentativo , la realtà non è che la confusa mol­ titudine dell' esistente . Ma ecco : quando diciamo ' confusa' , ' moltitudine' , 'esistente ' già operiamo una configurazione significativa, attribuendo all'e­ sperienza i caratteri che gli abiti interpretativi da noi assunti ci inducono a tracciare . Il problema alla fine , com' era stato per Peirce , è quello del 'comune ' che incatena segno e designato: Il fatto , per essere immagine , deve avere qualcosa in comune col raffigurato (T 2 . 1 6) . I n immagine e raffigurato qualcosa deve essere identico , affinché quella possa essere un 'immagine di questo (2 . 1 6 1 ) . Ciò che l ' immagine deve avere in comune con la realtà , per poterla raffigu­ rare - correttamente o falsamente - nel proprio modo , è la forma di raffigura­ zione propria dell ' immagine (2 . 1 7) . Ciò che ogni immagine , di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare - correttamente o falsamente - è la forma logica, cioè la forma della realtà (2 . 1 8 ) .

22

Cfr. anche Q 15 . 10. 14.

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L' immagine ha in comune con il raffigurato la forma logica della raffigura­ zione (2 .2) .

Attraverso la forma di raffigurazione , pensiero e realtà svelano l'identi­ co che li rende iconici l'uno dell ' altra: dire logica e dire realtà è il medesi­ mo , nello specchio della forma logica di raffigurazione (che , ricordiamolo , è possibilità della struttura, cioè della connessione tra gli elementi dell' im­ magine , cioè , in definitiva, pura possibilità relazionale) . Se il mondo è tutto ciò che accade , cioè la totalità dei fatti , il mondo è la totalità delle imma­ gini dei fatti , cioè dei fatti intesi come immagini (ogni rappresentazione è iconica, direbbe Peirce) . D ' mondo' si costituisce grazie alla forma di rispecchiamento logico che determina questo processo raffigurativo e con­ figurativo . Mondo e immagine del mondo sono perfettamente equivalenti , perché la forma di rappresentazione attraverso cui il mondo si dà è la sola possibilità logica di averlo (in relazione) . L'identico cui l' autore pensa è dunque la forma logica, ossia la forma della realtà; o , chiasmaticamente , la forma della realtà, ossia la forma logica. Vi è un continuo trasparsi e tradursi dell'una nell' altra: il gioco delle somiglianze produce l'emergenza delle immagini da una parte e dei fatti dall ' altra, che si co-istituiscono a vicenda in quest' attività continua di sostituzioni e rimbalzi interpretativi . Lo stesso accadeva nelle likenesses di Peirce , se ben si ricorda . Ma se vi è identità, vi è anche distanza, perché il mondo è qualcosa di più e qualcosa di meno della forma logica che lo ingabbia (di nuovo qui fa capolino il nostro Calvino) . La descrizione del mondo da parte di proposizioni è possibile solo perché il designato non è il suo proprio segno ! (Q . 1 9 . 1 0 . 1 4) . Nella proposizione qualcosa dev 'essere identico al suo significato , ma la proposizione non può essere identica al suo significato , dunque in essa qualco­ sa dev 'essere non identico al suo significato (22 . 1 0 . 1 4) .

Avevamo già visto che questo era proprio il tema dal quale muoveva­ no le prime riflessioni dei Quaderni: ma lì Wittgenstein chiariva che , nel caso si pensasse che "segno e designato non fossero identici rispetto al loro pieno contenuto logico , allora vi dovrebbe essere qualcosa d' ancor più fondamentale che la logica" (Q . 4 .9 . 1 4) . Appare dunque evidente come nella prima elaborazione wittgensteiniana il luogo logico23 si configuri pro­ prio attraverso l ' incessante tensione tra identità e differenza che qualifica 23

"Ma che diavolo è questo ' luogo logico'?" si domanda stizzito poco oltie (Q.l8 .11.14).

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il rapporto segno-designato . L' autore individua un termine - un termine ancora una volta sorprendentemente simile ad una delle nozioni centrali del Nuovo elenco peirceano - per rendere l ' indecidibilità dell' alternativa identico-diverso . Questo termine è "relazione interna" .

L'immagine come relazione interna e proiettiva Par dunque che necessaria sia non l 'identità logica di segno e designato , ma solo una relazione interna , logica , tra segno e designato . (Il sussistere d'una tale relazione include, in un certo senso , il sussistere di una specie d'identità fondamentale - interna -) . Ciò di cui si tratta è solo questo: ciò che è logico del designato è comple­ tamente e solamente determinato da ciò che è logico del segno e del modo di designazione . Si potrebbe dire : Segno e modo di designazione insieme devono essere logicamente identici al designato . Il senso della proposizione è ciò che essa presenta (Q . 26 . 1 0 . 1 4) . L a relazione interna tra l a proposizione e il suo significato , il modo di de signazione è il sistema di coordinate che raffigura lo stato di cose nella proposizione . La proposizione corrisponde alle coordinate fondamentali (Q . 29 . 1 0 . 1 4) . -

Il tema della relazione interna inizia ad apparire al giovane Wittgenstein un 'eccellente soluzione del problema del rapporto linguaggio-realtà: tra segno e designato non si dà né l ' identità totale e indistinta, né la distanza tra due eventi concepiti come autonomamente sussistenti . Proposizione e realtà intrattengono una relazione - dunque , hanno tra loro distanza e di­ stinzione - ma una relazione interna, vale a dire , determinata dalle stesse "coordinate" di raffigurazione . Si tratta evidentemente di un' implicazione intrinseca in cui segno e designato si co-istituiscono a vicenda, assimilan­ dosi e differenziandosi allo stesso tempo . Da essa si evince con facilità che ' forma logica' è solo un altro nome per ' relazione interna ' : Noi possiamo , in un certo senso , parlare di proprietà formali degli oggetti e degli stati di cose o , rispettivamente , di proprietà della struttura dei fatti e, nello stesso senso , di relazioni formali e relazioni di strutture . (Invece di : proprietà della struttura , dico anche 'proprietà interna ' ; invece di: relazione delle strutture , ' relazione interna ' . Introduco queste espressioni per mostrare il motivo della confusione , dif­ fusissima presso i filosofi , tra le relazioni interne e le relazioni vere e proprie (esterne) (T 4 . 12) .

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Tuttavia, il sussistere di tali proprietà e relazioni interne non può essere asserito dalle proposizioni , ma solo mostrato , esibito nelle proposizioni (T 4 . 1 22) , quale proprietà interna, o "tratto" di quella proposizione . "Il sussistere d ' una relazione interna tra possibili situazioni esprime sé lingui­ sticamente attraverso una relazione interna tra le proposizioni che le rap­ presentano" (4 . 1 25 ) . In conclusione : "Poiché il linguaggio sta al mondo in relazioni interne , esso e queste relazioni determinano la possibilità logica dei fatti . Se abbiamo un segno munito di significato , esso deve stare ad una conformazione in una determinata relazione interna (Q .25 .4 . 1 5)24• Si può allora sintetizzare il percorso di Wittgenstein in questo modo : la forma, come possibilità della struttura , è da intendersi come possibilità di relazioni interne , vale a dire come rapporto tra due entità concepite come poli indistinguibili di una stessa relazione , come due eventi di uno stesso accadimento . Mondo e linguaggio si con-formano vicendevolmente; segno e modo di designazione "determinano univocamente la forma logica del designato" (ivi) , cioè la sua forma reale . "E ciò dipenderà naturalmente dalle loro proprietà formali , dalla somiglianza interna delle loro forme" (T 5 .23 1 ) . Come indicava già Peirce, la logica è un luogo di relazioni iconi­ che , cioè di relazioni interne , dove prevale l ' analogia di forme relazionali . Tra segno e oggetto vi è una relazione di totale Stessità ("the very Same" , CP 4 .5 30) , scriveva l ' autore americano : ma , appunto , una relazione , in cui il designato appare identico al suo proprio segno , ad eccezione però di quell ' infimo diastema indicato dal segno di uguaglianza, che divide e di­ stingue l ' uno dall' altro . Il Tractatus si concentra proprio su que sta estrema difficoltà filosofica. L' autore affronta il problema a partire da una delle asserzioni fondamentali del libro: "La proposizione è un' immagine della realtà" . Così recita, in modo leggermente rozzo e apparentemente superficiale , il paragrafo 4 .0 1 . E di seguito: : "La proposizione è un modello della realtà quale noi la pen­ siamo" . Ma subito dopo , Wittgenstein spiega bene cosa egli intenda per raffigurazione e somiglianza: Il disco fonografico, il pensiero musicale , la notazione musicale , le onde sonore , tutti stan l'uno all' altro in quella interna relazione di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo . A essi tutti è comune la struttura logic a . (Come nella fiaba, i due adolescenti , i loro due cavalli e i loro gigli . I n un certo senso sono tutt' uno) (T 4 .0 14) .

24

"È chiaro: né un tratto di matita, né un piroscafo sono semplici: sussiste realmente tra i due un'equivalenza logica?" (Q.25.4. 15).

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Nell' esservi una regola generale - mediante la quale il musicista può rica­ vare dalla partitura la sinfonia; mediante la quale si può derivare dal solco del disco la sinfonia e di nuovo , secondo la prima regola , la partitura - appunto in ciò consiste l' interiore somiglianza di queste conformazioni , apparentemente tanto diverse . E quella regola è la legge della proiezione , la legge che proietta la sinfonia nel linguaggio delle note . Essa è la regola della traduzione del lin­ guaggio delle note nel linguaggio del disco fonografico (4 .0 1 4 1 ) . L a possibilità di tutte le similitudini , di tutta l a figuratività del nostro modo d'espressione , risiede nella logica della raffigurazione (4 .0 1 5) .

Questa parte del Tractatus risulta centrale per la lettura che qui vogliamo proporre . Anzitutto , l ' autore riasserisce cosa intenda per relazione interna , e come essa vada interpretata nel senso di relazione iconico-raffigurativa. Su tale relazione si fonda poi la logica, che si palesa come un ordito di rap­ porti traduttivi-sostitutivi , mediante cui ogni elemento si trasforma, rive­ landosi difforme dalle proprie precedenti configurazioni e insieme confor me ad un' interna regolarità; infine , essa è un luogo di possibili proiezioni , grazie alle quali tutto si dà come regolato da un 'unica legge e , insieme , configurato nella più diversa varietà di formulazioni . La relazione tra lin­ guaggio e mondo è retta da una Abbildungstheorie , che è in realtà stabilita come legge della proiezione . In T 3 .343 leggiamo ancora: "Definizioni sono regole della traduzione da un linguaggio in un altro . Ogni linguaggio segnico corretto deve potersi tradurre in ogni altro secondo tali regole : Questo è ciò che essi tutti han comune " . Rieccoci al problema dal quale siamo partiti: il proprium del­ la logica è il tema della somiglianza, cioè del tauton . La possibilità della traduzione - segnatamente , della traduzione proiettiva - mediante la quale un differente viene istituito come simile , o analogo , ad un altro , conferma quella nozione di identità a lungo cercata anche nelle pagine dei Quaderni , e finalmente stabilita come "interna relazione di raffigurazione" , "interiore somiglianza di conformazione" . Somiglianza indica, per altro , proprio lo stabilirsi di un' identificazione tra forme pur sempre differenti . Ecco allora che l' Abbildungstheorie wittgensteiniana non si presenta come mera teoria corrispondentista tra linguaggio e mondo , intesi come entità a sé stanti che si debbano adeguare a partire da distanze irriducibili; piuttosto questi due poli si costituiscono vicendevolmente all ' interno della relazione di rappresentazione , a partire da una regola, una legge , una tra­ duzione interpretativa che stabilisce l ' esistenza e la congruenza di questo rapporto stesso. Ricordiamo che all' autore era familiare , in virtù dei propri studi scien­ tifici , il riferimento alle trasformazioni proiettive: Gargani ha dimostrato ­

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molto bene come l 'influenza del Die Prinzipien der Mechanik di Heinrich Hertz risulti detenninante nella formulazione della legge di proiezione e del principio di isomorfismo strutturale linguaggio-fatti25 • È addirittura im­ barazzante l ' accostamento che il critico propone tra alcune proposizioni del Tractatus e le pagine corrispondenti del testo hertziano : qui Wittgen­ stein ha innegabilmente trovato l ' idea della raffigurazione tra modelli di­ versi , dell' importanza delle loro relazioni interne , della reciproca deriva­ bilità di più sistemi, oltre che gran parte della terminologia ' modellistica' che percorre il Tractatus . La stessa ipotesi teoretica di fondo sembra pro­ venire da quell' asserzione dello Hertz secondo cui "l' accordo tra mente e natura è paragonabile all' accordo tra due sistemi , che siano modelli l'uno dell ' altro" . L' idea di proiezione matura in questo contesto ; ben presto essa procede comunque in una direzione del tutto autonoma, divenendo pilastro portante dell 'epistemologia del Tractatus: Nella proposizione il pensiero si esprime sensibilmente (T 3 . 1 ) . Noi usiamo il segno sensibile (fonema o grafema ecc .) della proposizione quale proiezione della situazione possibile . Il metodo di proiezione è il pensare il senso della proposizione (3 . 1 1 ) . Il segno , mediante il quale esprimiamo il pensiero , lo clùamo il segno pro­ posizionate . E la proposizione è il segno proposizionale nella sua relazione di proiezione al mondo (3 . 1 2) . Alla proposizione appartiene tutto ciò che appartiene alla proiezione , ma non il proiettato . Dunque , la possibilità del proiettato , ma non il proiettato stesso . Nella proposizione non è dunque ancora contenuto il suo senso , ma la pos­ sibilità d'esprimerlo . ("Il contenuto della proposizione" vuol dire il contenuto della proposizione munita di senso .) Nella proposizione è contenuta la forma , ma non il contenuto , del suo senso (3 . 1 3) .

25

"Nei Prinzipien dello He1tz Wittgenstein trovava quel principio dell'isomorfismo tra realtà e pensiero che è alla base della teoria del linguaggio come raffigurazione di fatti. La nozione della relazione intema della proposizione con il fatto raffigu­ rato in accordo a determinate regole fmmali riprende la teoria dei modelli dina­ mici dello Hertz intesi quali immagini (Bilder) dei sistemi fisici cui si riferiscono . Queste immagini hanno con i sistemi fisici un rappmto di identità strutturale in forza del quale alcune proprietà essenziali che sono ricavabili dai modelli costruiti devono al tempo stesso essere la raffigurazione (Abbildung) delle proprietà rica­ vabili dallo stato del sistema fisico raffigmato" (Gargani, Linguaggio ed esperien­ za , cit., p.l23).

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Qui Wittgenstein chiarisce la sua nozione del legame di rappresentazione che conduce l'immagine ad essere modello , a saggiare con le sue "anten­ ne" la realtà di cui è immagine . Anzitutto , egli ci dice che la proposizione è espressione sensibile del pensiero , indirizzando verso un'interpretazione che sottolinea il valore del segno materiale e "percepibile" ; inoltre , il metodo di proiezione secondo il quale essa viene costruita equivale al "pensare il senso della proposizione" (e del pensiero non troviamo , in effetti , nel Tractatus al­ tra definizione che non sia in termini linguistici) ; infine, il prodotto di questa costruzione - il segno sensibile - va visto come proiezione della "situazione possibile" . Ecco allora che si giunge facilmente alla conclusione : alla propo­ sizione appartiene tutto ciò che concerne l ' atto proiettivo - i suoi modi , le sue regole , le sue strutture - ma non il proiettato stesso; la forma del proiettare , non il suo contenuto; la possibilità del proiettato , non il suo essere reale . Nella griglia delle delineazioni proiettive si dà l'oggetto raffigurato , che in "immagine" si vede e non si vede come lo stesso "fatto" . È sempre nei Quaderni che Wittgenstein procede poi alle chiarificazioni più illuminanti. Scrive infatti il 1 5 . 1 1 . 1 4: Proiezione dell ' immagine sulla realtà a

" a''

Realtà

Modello (hnmagine)

(ll metodo di Maxwell dei modelli meccanici) . Non preoccuparsi di ciò che già si è scritto ! Ricominciare a pensare nuova­ mente , come se nulla fosse ancora avvenuto ! Quell'ombra che l ' immagine , direi, getta sul mondo : Come afferrarla esat­ tamente? Ecco un mistero profondo .

Sembra che per Wittgenstein il rapporto proiettivo operi sempre uno scarto , uno spostamento , una traduzione rispetto al modello reale (come l ' ombra che non è mai riproduzione fedele della forma del corpo) . Non dimentichiamo che il termine proiezione viene dal latino pro-icio che è gettar oltre , rinviare , differire , abbandonare , tradire: la proiezione è dunque sempre differente dal proprio proiettato , pur essendone una derivazione , e tra segno e designato vi è una corrispondenza ' formale ' , ma un differi­ mento 'reale' . Si spiega infatti così quella proposizione che già avevamo incontrato secondo la quale nella proposizione qualcosa deve essere uguale

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al suo significato , ma qualcosa sfugge pervicacemente a tale identità. Vi è dunque qualcosa di più fondamentale della logica.

Dire e mostrare . È dunque venuto il momento di operare una breve sin­ tesi di quanto detto finora. Wittgenstein ha chiarito : l) che la logica si af­ fida a relazioni di raffigurazione , cioè a relazioni iconiche ; 2) che queste relazioni rispondono ad una regola di proiezione , che àncora la logica alle forme di un' incessante traduzione di ciò che si dà; 3) che tali relazioni hanno la medesima "forma" di ciò che rappresentano; 4) che tra proiettato e proiettante vi è dunque una differenza "interna" - non una connessione esterna o di semplice adeguazione termine a termine -, espressa a sua volta da "proprietà interne" delle proposizioni; 5) e, infine , come si dirà subi­ to , che queste relazioni non sono oggetto d' asserzione , ma possono essere solo esibite , mostrate . Mostrate - aggiungerei , anche se Wittgenstein non è chiarissimo su questo punto - prevalentemente nella materialità del corpo scritto al quale è affidato il loro senso . Il tema era già impostato con estrema chiarezza nelle prime proposizioni del Tractatus : "La sua propria forma di raffigurazione - (quella che l'im­ magine deve avere in comune con la realtà per poterla raffigurare , T 2 . 1 72) - tuttavia, l ' immagine non può raffigurarla; essa la esibisce" . Proposizione che era seguita dalle fondamentali 4 . 1 2 e 4 . 12 1 : La proposizione può rappresentare la realtà tutta , ma non può rappresentare ciò che , con la realtà , essa deve aver comune per poterla rappresentare - la forma logic a . Per poter rappresentare l a forma logica dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori dalla logica , vale a dire , fuori dal mondo . La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si specchia in quella . Ciò , che nel linguaggio si specchi a , il linguaggio non può rappresentare . Ciò , che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il linguaggio . La proposizione mostra la forma logica della realtà . L' esibisce .

In definitiva: "La proposizione mostra il suo senso . La proposizione mo­ stra come stan le cose , se essa è vera. E dice che le cose stan così" (4 .022) , asserzione che , ancora una volta , veniva chiarita da un' annotazione per­ sonale , tratta in questo caso da una lettera spedita a Russell dal campo di prigionia di Cassino , il 1 9 .8 . 1 9 : "Il punto principale è la teoria di ciò che può esser detto con le proposizioni - cioè con il linguaggio - e (che poi è lo stesso) di ciò che può essere pensato , e ciò che non può essere detto con le

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proposizioni , ma solo mostrato: che è poi , io credo , il problema cardinale della filosofia" . Ora , il ' mostrare ' ci riporta ai confini del luogo logico interpretato come luogo di iconicità e raddoppiamento : la metafora dello specchio , che Wittgenstein utilizza ancora, nell 'impensato riferimento ai filosofi medie­ vali e rinascimentali26, ci aiuta a considerare il rapporto proiettiv o come se si trattasse di quel gioco di specchi prospicienti di cui ci dà una bellissima immagine Merleau-Ponty. Nel Visibile e l'invisibile egli scrive infatti che la visibilità si forma "nello stesso modo in cui su due specchi prospicienti nascono due serie indefinite d' immagini racchiuse l ' una nell ' altra che non appartengono realmente a nessuna delle due superfici , giacché ciascuna non è se non la replica dell ' altra , che quindi fanno coppia, una coppia più reale di ciascuna di esse . Di modo che il vedente , essendo preso in ciò che vede , vede ancora se stesso"27 • D tauton wittgensteiniano va interpretato , a mio avviso , esattamente in questo modo: forma logica e forma della re­ altà si specchiano l'un l ' altra in modo tale che la strutturazione di ognuna sgorga dal vicendevole rimando all ' altra , dal loro reciproco , incessante re­ plicarsi , dall 'uno che si sdoppia nel due , un due originario , un doppio , una coppia "più reale di ciascuna di esse" (come i due adolescenti della fiaba ri­ cordati in T 4.0 1 4) . Ma, aggiunge l ' autore , la forma logica, che permette la rappresentabilità e del logico e del reale , è irrappresentabile: determinando la possibilità della struttura, cioè della connessione tra gli elementi iconici , essa non può a propria volta divenire un significato attuale . C ' è ancora qui una suggestiva commistione tra aspetto trascendentale e aspetto sensibile dell ' immagine : la forma di raffigurazione si può solo raffigurare , mostra­ re , esibire , e risulta dunque ancorata a quello che Wittgenstein chiama "il sensibile del segno" (T 3 .32) . "Che gli elementi dell' immagine siano in una determinata relazione l'uno all ' altro mostra che le cose sono in questa relazione l ' una all ' altra" (T 2 . 1 5 . Sott. mia) . Esattamente come per Peirce, che queste citazioni non possono non ri­ cordarci, vi è allora un luogo privilegiato in cui la forma logica esibisce la propria struttura e iscrive la propria possibilità, mostrando il proprio senso . Questo luogo è il luogo di scrittura delle proposizioni stesse: la forma dello scritto non dice e non asserisce nulla, ma esibisce la propria natura relazio26

27

T 6.13: "La logica non è una dottrina, ma un'immagine speculare del mondo" . E ancora 5 .5 1 1 : "Come può l'onnicomprensiva logica, specchio del mondo, usar uncini e manipolazioni così speciali? Solo perché essi si contessono tutti in un reticolato infinitamente fine, il grande specchio". M. Merleau-Ponty, /1 visibile e l'invisibile , a c. di M.Carbone, Milano, Bompiani, 1994, p. 155.

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naie. Può orientare verso una lettura di questo genere , credo , anzitutto la proposizione 4 . 1 2 1 1 del Tractatus (che esemplifica, secondo l ' autore , la fon­ damentale 4 . 1 2 1 ) e che recita: "Così una proposizione ' fa' mostra che , nel suo senso, occorre l' oggetto a; due proposizioni ' fa' e 'ga' , che , in loro due , si parla dello stesso oggetto" . Cos 'è a? non lo posso dire , ma solo mostrare . Così come per Peirce si poteva solo esibire la distanza focale delle lenti nel diagramma corrispondente , senza poter descriverla. Tale mostrazione logica deriva, in definitiva, da una relazione interna che si impone in virtù dell 'e­ sibizione scritta dei propri caratteri: '"a' può essere rappresentante di a e 'b' può essere rappresentante di b, se 'a' sta nella relazione 'R' a 'b ' : ecco in che consiste quella relazione interna POTENZIALE che cerchiamo" , annota l ' autore nei Quaderni il 3 .4 . 1 5 . Se , allora, le relazioni interne sono proprietà della struttura degli oggetti, e se il sussistere di tali proprietà può essere solo mostrato , i caratteri in cui esse si iscrivono determinano l'unico luogo di rap­ presentanza della forma logica. La relazione iconica è una relazione interna, cioè una relazione che emerge dali ' esibizione scritta delle proprie forme . Tutto ciò , però , Wittgenstein lo intuisce , lo accenna, lo sfiora; certo non lo tematizza. Ancora nei Quaderni troviamo le tracce della sua incertez­ za sul tema: "La difficoltà della mia teoria della raffigurazione logica era quella di trovare una connessione tra i segni sulla c arta ed uno stato di cose fuori, nel mondo" (27 . 1 0 . 1 4) . Che lo conduce infine ad affermare : "Si potrebbe munire questo libro addirittura di diagrammi" ( 1 4 . 1 0 . 1 4) . Ma questo è tutto ciò che l ' autore ci offre direttamente sul tema . Nondimeno , non bisogna scoraggiarsi; si può infatti , credo , sostenere che l' intera lo­ gica della raffigurazione dipende in realtà da un' implicita considerazione pragmatica e grammatica28 della proposizione , che Wittgenstein stesso non ebbe il modo o l 'intenzione di sviluppare appieno in questi anni , ma che riaffiorerà nei lavori seguenti . Consideriamone allora i tratti emergenti , fin da questa prima opera . An­ zitutto , sappiamo che per l ' autore pensiero e linguaggio vanno considerati equivalenti , nel senso che non si dà pensiero se non in una forma com­ posta semioticamente : "Il pensiero è la proposizione munita di senso" (T 4) ; per cui , come scrive altrove , pensare è una specie di linguaggio , più precisamente un fare , un costruire proposizioni , un "farsi delle imm agini" . Wittgenstein considera un uso pragmatico del linguaggio - che acquisterà via via sempre maggior importanza negli anni di Cambridge - nel senso proprio di uso dei segni sensibili come se fossero pragmata , cose . Il pen­ siero è dunque azione , anzi , manipolazione di grammata : 28

Proprio nel senso dei grammata della scrittura.

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Chiarissima diviene l'essenza del segno proposizionale se lo concepiamo composto , invece che di grafemi , d'oggetti spaziali (come tavoli , sedie , libri) . La posizione spaziale reciproca di queste cose esprime allora il senso della proposizione (T 3 . 1 43 1 ) . Nella proposizione un mondo è composto sperimentalmente (Come quando al tribunale di Parigi un incidente d ' automobile è rappresentato con pupazzi , ecc .) . Da ciò deve risultare subito l'essenza della verità (a meno che io sia cieco) . (Q . 29 .9 . 1 4) .

Sembra che l ' esemplificazione dell' incidente rappresentato tramite pu­ pazzi abbia dato effettivamente origine all'Abbildungstheorie wittgenstei­ niana: esso conferma la sua radice pragmatica e ' sperimentale' , come dice l ' autore . Trattiamo i grammata come se fos sero pragmata, e operiamo con essi . La pratica della scrittura sintetizza ogni forma possibile di pensiero , perché ne àncora i modi al sensibile , al manipolabile , al mostrabile: così si "compone sperimentalmente" un mondo , un mondo in cui abbiamo figure in vece di cose , pupazzi in vece di uomini , grafemi in vece di pensieri , un mondo in cui agiamo sui segni come se fossero le cose . Non diversamente pensava Peirce , proponendo la sua semiotica. Già l ' avevamo visto , per altro : lo spazio in cui ' incontriamo ' il pensiero è lo spazio proposizionale , che va inteso , più che come uno spazio logico ideale , proprio come spazio sensibile dell'espressione materiale , là dove "noi usiamo il segno sensibile (fonema o grafema) quale proiezione della situazione possibile" (3 . 1 1 ) . E per altro nei Quaderni leggiamo, il 5 . 1 1 . 1 4 : "Così l a proposizione rappresenta l o stato d i cose , direi quasi, d i proprio pugno (auf eigene Faust)" . Dunque , v ' è davvero "qualcosa di più fonda­ mentale della logica" : esso risiede nel corpo scritto dei segni sensibili , che si mostra, che incide "di proprio pugno" lo stampo del senso . Vediamo allora di riassumere il percorso fin qui tracciato e di pervenire ad una prima conclusione: nella forma di raffigurazione propria dell' im­ magine (nello specchio dell ' immagine) logica e mondo si identificano e , insieme , separano i loro tratti . Rappresentazione (Abbildung) per Wittgen­ stein significa proprio questo : proiezione in cui il proiettato è via via tra­ sformato , e non si dà se non nelle sue cangianti figure . Dunque , la relazione tra immagine e mondo non è di perfetta specularità: vi è una differenza, una distanza per cui l 'immagine non sarà mai mondo , pur essendone l"'om­ bra" . Vi è allora qualcosa di più fondamentale della logica, ed è ciò che produce lo scarto dall ' identità assoluta: è l' impossibilità di rappresentare la forma di ciò che imprime il senso , e che si esprime solo nell ' applicazio­ ne sensibile dei segni , in definitiva, nella pratica semiotica e grafica: "Ciò

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che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione . Ciò che i segni tacciono lo dice la loro applicazione" , recita il Tractatus (3 .262) , in una proposizione-chiave del futuro orientamento pragmatista del nostro autore . La forma logica mostra sé nell'uso , nella pragmatica del linguaggio e della scrittura; in definitiva nella prassi , come meglio chiarirà il secondo Wittgenstein . Ecco allora che perveniamo alle stesse conclusioni cui eravamo giunti seguendo la teoria iconica di Peirce: nella traccia della scrittura - nella traccia di ogni segno - si staglia il mondo . L'Abbildungstheorie va dunque interpretata non come semplice adeguazione tra due enti semplicemente presenti , ma piuttosto come traduzione di una realtà nell' altra, sostituzione e insieme costituzione dell' immagine e del mondo - dell ' immagine , dun­ que del mondo; del mondo , dunque dell' immagine .

Il segno nel Tractatus . Possiamo a questo punto concentrarci, se pur brevemente , sulla nozione di segno che il Tractatus fa propria, perché ci si possa render conto di quanto essa sia diversa da quella adottata da Peir­ ce , e di quanto essa cambi nello stesso percorso che condurrà l ' autore dal Tractatus alle Ricerche filosofiche. La prima cosa da dire è che nel primo lavoro di Wittgenstein ci troviamo di fronte a varie definizioni di segno , all' uso della nozione di segno , in particolare del segno proposizionale , ma senza nessuna reale tematizzazione del problema della significazione e del rimando . Viene accettata come data la distinzione significante- significato e la concezione del segno che aleggia nelle pagine di questo testo è di stampo rigidamente dualista e fortemente tradizionale . La proposizione fondamentale al riguardo è forse la 3 .32: "il segno è il sensibile [anche tradotto come : ciò che di sensibilmente percepibile c ' è] nel simbolo" , che fa proprio pensare alla semplice ripresa del dualismo saussuriano . Infatti le due proposizioni che seguono ribadiscono il carattere arbitrario del segno , mentre "Il segno proposizionale applicato , pensato , è il pensiero" (T 3 .5) . Da queste definizioni di carattere non particolarmente innovativo nascono in effetti alcune confusioni , che poi Wittgenstein riconoscerà: ad esempio , che sia opportuno costruire un linguaggio totalmente artificiale , modellato sulle forme logiche pure . Non è assolutamente tradizionale , invece , come abbiamo visto , l' analisi della rappresentazione e della raffigurazione logica . È qui , azzarderei, che troviamo la vera teoria semiotica del Tractatus , cioè una teoria compiuta che si interroga sul rinvio segno-oggetto , sulla raffigurabilità, sull ' iconi­ smo , o, come anche si esprime l ' autore , sull ' icasticità linguaggio-mondo .

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Temi che attraverseranno ripetutamente , e con molte diverse declinazioni , la sua opera, dalla Grammatica filosofica alle Ricerche filosofiche. fu que­ sto senso si può dire che la logica di Wittgenstein, costituendosi come una logica della raffigurazione , ha i caratteri di una semiotica dell' iconismo analoga a quella costruita da Peirce . Riflettiamo allora per un momento sulle definizioni segniche del Trac­ tatus . La prima apparizione del termine segno (3 . 1 1 : "noi usiamo il segno sensibile (fonema o grafema, ecc .) della proposizione quale proiezione della situazione possibile") segue la fondamentale trattazione della rappre­ sentazione come proiezione , ed è immediatamente riferita all ' ambito pro­ posizionale (e questo è un limite , a mio modo di vedere , della trattazione di Wittgenstein, che per quasi tutto il corso della sua opera si concentrerà pre­ valentemente sui segni del linguaggio , quelli che Peirce aveva confinato al dominio della terza categoria segnica) . Inoltre , molto spesso la definizione di segno è modellata su quella di immagine , a dimostrazione del fatto che anche per l ' autore viennese le icone sono da considerarsi i segni più im­ portanti ed hanno valore paradigmatico all' interno della trattazione . Come esempio , si possono leggere 3 . 1 4 , 3 .2 e 3 .20 1 : "Il segno proposizionale consiste nell 'essere i suoi elementi , le parole , in una determinata relazione l ' uno all' altro . Nella proposizione il pensiero può essere espresso così che agli oggetti del pensiero corrispondano elementi del segno proposiziona­ le . Questi elementi li chiamo ' segni semplici ' ; la proposizione ' comple­ tamente analizzata"' . Così, poco oltre , si dice che i segni semplici nella proposizione sono chiamati nomi , e che ogni nome significa un oggetto . "L' oggetto è il suo significato" (3 .203); anche se "solo la proposizione ha senso; solo nella connessione della proposizione un nome ha significato" (3 .3) . All' interno di queste battute , ancora molto legate alla logica fregeana e russelliana, troviamo però già accenni al problema del segno che mostra ma non può dire , della rappresentanza segnica che esibisce , nella forma grafematica o proposizionale , il senso del simbolo , il suo come , non il suo che cosa : "Gli oggetti li posso solo nominare . I segni ne sono rappresen­ tanti . Posso solo dirne , non dirli . Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è" (T 3 .22 1 ) . Ma ciò che più c i interessa è che da un certo punto in avanti emergo­ no alcune proposizioni di intonazione decisamente pragmatista, che sem­ brano prefigurare il cammino futuro dell ' autore delle Ricerche filosofiche. E d esse sono legate proprio al problema dell 'uso del segno: "Ciò che nei segni non viene espresso lo mostra la loro applicazione . Ciò che i segni tacciono lo dice la loro applicazione" (3 .262) , e "Per riconoscere il sim­ bolo nel segno se ne deve considerare l ' uso munito di senso" (3 .326) , che

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veniva illuminata da un' analoga asserzione dei Quaderni nella quale l ' au­ tore scriveva: "Per riconoscere nel segno il segno bisogna guardare l'uso" (23 . 1 0 . 1 4) . Infatti , "Il segno determina soltanto insieme con il suo impiego logico-sintattico una forma logica" (3 .327) . Tutto ciò è in sintonia con la constatazione metodologica che chiude il percorso , secondo la quale la fi­ losofia non è una dottrina , ma un ' "attività" (4 . 1 1 2) . Constatazione di chia­ ro sapore pragmatista, che non verrà certo dimenticata negli anni seguenti .

Il simbolo è contenuto in se stesso . Dopo il Tractatus, Wittgenstein non smette di riflettere sul tema dell' iconismo , o come preferisce dire ora, dell ' icasticità, dell' armonia linguaggio-mondo . Che è evidentemente un modo di riflettere sul rimando segnico . Qui , invece di armonia, concordanza , di pensiero e realtà , si potrebbe dire , icasticità [Bildlzaftigkeit] del pensiero . Ma l ' icasticità è una concordanza? Nel Tractatus avevo detto qualcosa del genere: è una concordanza di forma . Questo è però fuorviante Tutto può essere immagine di tutto : purché allarghiamo opportunamente il concetto di immagine . . . (GF 1 1 3 ) . E qui abbiamo i l vecchio problema , che vorremmo esprimere: "Il pensiero che p accade non presuppone che p accada , ma d' altra parte , qualcosa nello stato di fatto deve pur costituire il presupposto del pensiero medesimo (se non esistesse il colore rosso non potrei pensare che una certa cosa è rossa) " . È il problema dell ' armonia tra mondo e pensiero - Si può rispondere che i pensieri stanno nello stesso spazio in cui sta l' incerto , e combaciano con questo , come il regolo combacia con la cosa misurata (GF 95) .

Il problema è sempre quello della rappresentazione : cosa fa della mia rappresentazione di lui una rappresentazione di lui?, si chiede ancora in questo testo , la Grammatica .filosofica : "Questo deve essere lui , (quest' im­ magine lo rappresenta)" (GF 62) . Dunque , cos ' è rappresentazione , cos ' è somiglianza? Cosa mi permette di slanciarmi su questo ponte , che conduce dall ' emblema della raffigurabilità alla presenza reale? "Quello che ci fa credere che il pensiero , la proposizione pensata contenga la realtà, è il fat­ to che si è pronti a passare da essa alla realtà, è che si percepisce questo passaggio come qualcosa già contenuto potenzialmente nel pensiero" (GF 1 05 . Sott . mia) . Inoltre , la rappresentazione può ancora essere considerata come un re­ golo , un metro apposto alla realtà. Con la consapevolezza che tale griglia di graduazione è accostata punto per punto al reale . Ma, considerando la cosa dal lato filosofico , più che da quello logico , rappresentazione e realtà sono

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in un unico universo29 • "Non si può confrontare un ' immagine con la realtà se non gliela si può accostare come un metro . Si deve sovrapporre la pro­ posizione alla realtà . La realtà osservata entra al posto dell' immagine"30 • Come già dicevamo commentando il Tractatus , non dobbiamo considera­ re realtà e immagine come sussistenti in due universi separati , ma l'una come specchio dell' altra , come se si trattasse dell ' altra - la realtà al posto dell ' immagine , come nel nostro esempio della mano disegnata posta di fronte alla mano reale . Regolo e regolato sono incatenati però agli indici di misurazione , sono in funzione di queste misure: "Ha un senso specificare la lunghezza di un oggetto solo se si possiede un metodo per rintracciarlo - perché altrimenti non posso accostare il metro"31 . Segno e modo di proiezione determinano univocamente il proiettato , come per altro già i Quaderni anticipavano con chiarezza. Dunque , quando si parla di armonia tra pensiero e realtà, essa può essere reperita solo nella grammatica del linguaggio (GF 1 1 2) . Questa è in effetti la nuova acquisizione del Wittgenstein posteriore alla cosiddetta svolta: è nella gr ammatica e nella spiegazione dell'uso grammaticale che nascono i significati e la realtà mi risponde , risultando già in qualche modo configu­ rata dalla disposizione dei segni . Dobbiamo allora retrocedere un attimo e commentare anzitutto uno dei primi lavori che l ' autore approntò dopo il ritorno alla filosofia: si tratta del­ le Lezioni 1 930-1 93232 dove , pur permanendo alcune preoccupazioni del Tractatus , affiorano nuove questioni: prima fra tutte quella della self-con­ tainedness , dell ' auto-contenimento , del simbolo . Ma anche questa teoria, a dire il vero , era prefigurata nei Quaderni , là dove l ' autore scriveva: "la proposizione descrive la realtà, per dir così , di proprio pugno" (5 . 1 1 . 14) . Gargani33 , che ha avuto il merito di segnalare quest' importante proposizio­ ne , ci dice che proprio per salvaguardare un disperante rinvio all 'infinito , Wittgenstein stabilisce fin dal Tractatus che è all' interno del linguaggio , nella struttura intima della proposizione , che dobbiamo individuare la for­ ma logica e raffigurativa della realtà, senza far ricorso ad un apparato ester­ no o terzo di riferimento . Siamo ancora nei dintorni , dunque , del tema delle relazioni interne .

29 30 31 32 33

Osservazioni filosofiche , Torino, Einaudi, 1976, § 24. lvi, § 48. lvi, § 23. L. Wittgenstein, Lezioni 1 930-1 932 , Milano, Adelphi, 1995. A.G.Gargani, Introduzione a Libro blu e libro marrone, cit.

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La comprensione è una traduzione , sia in altri simboli , sia nell ' azio­ ne34 e ogni definizione è "una sostituzione che non conduce al di fuori del linguaggio"35 • Ma sostituire , tradurre , proiettare sono tutti atti pragmatici che implicano regole d'uso: comprendere non è più , come alcune propo­ sizioni del Tractatus conducevano a pensare , farsi immagini dei fatti , ma sostituire operativamente immagini a fatti . L'elemento di maggior rilie­ vo di queste lezioni sembra proprio essere l ' attenzione al ruolo svolto dal simbolismo della pura espressione: Wittgenstein lavora qui a sviluppare un 'idea che appare del tutto originale - benché non estranea al Tractatus ­ relativa alla "self-containedness" del simbolo . Il simbolo è "contenuto in se stesso" ; vale a dire , nell 'espressione il pensiero è compiuto e perfetto , ed è all'interno delle misure del ' gesto ' simbolico che si manifesta appieno la sintonia col mondo : Ciò che è "in comune" fra pensiero e realtà dev 'essere già espresso nell ' e­ spressione del pensiero . Non lo si può esprimere in una proposizione supple­ mentare , ed è ingannevole tentare di farlo . L"'armonia" fra pensiero e realtà , di cui i filosofi parlano come di qualcosa di "fondamentale" , è qualcosa di cui non possiamo parlare , e così non è affatto un ' armonia nel senso ordinario del termine , dal momento che non possiamo descriverla36 .

Queste proposizioni riprendono chiaramente i termini della comple s­ sa riflessione sul tauton , sull' identico della forma logica che era stata svolta nel Tractatus, ma con in più questa consapevolezza: "D pensiero è un' attività che realizziamo mediante la sua espressione e dura finché dura l ' espressione"37 • n che conduce a concentrare l' attenzione sul piano dell 'espressione , su ciò che "si mostra" . Ma questo piano , come già ipotiz­ zavamo analizzando la prima opera wittgensteiniana, è il supporto in cui incidiamo le nostre idee , il quale , appunto , si mostra ma non si può dire : "Ma questo non rende il simbolismo qualcosa che è contenuto in se stesso? Non diciamo invece che l'essenza del simbolismo è quella di indicare al di là di sé?"38 • Il simbolo è contenuto in se stesso - esso non menziona qualcosa ma lo contiene [ ] Ogni spiegazione di un segno è una definizione - non si può far . . .

nulla di più che definire , ossia fare una sostituzione che non conduce al di fuori

34

Lezioni, cit. , p. 42. Son. mia .

35 36 37 38

lvi, p. lvi, p. lvi, p. lvi , p.

87. 56. 63. 49.

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del linguaggio [ . . ] Siamo inclini a pensare che il significato delle parole si trovi al di fuori del linguaggio (un ' immagine è conosciuta in quanto immagine di qualcos ' altro) , ma il significato di una parola deve esser interamente dato , o determinato , se si descrivono il linguaggio o le sue regole 39 . I l pensiero è perciò autonomo , completo in s e stesso; e qualsiasi cosa che non sia data nel mio pensiero non può essere essenziale ad esso . Il pensiero non indica un al di là di sé40 .

_

In questo modo l' autore torna a sfiorare il tema dei limiti del linguaggio , anch' esso ampiamente trattato in passato (anzi , a ben vedere , vero e pro­ prio tema d' esordio delle considerazioni del Tractatus) . Se ogni interpre­ tazione è un processo di traduzione e sostituzione , non si esce dai confini della relazione tra segni, dalle regole della grammatica, dai "piani" di pro­ iezione . Non si va verso il mondo partendo dal trampolino di lancio del se­ gno , perché il simbolo è, appunto , "self-contained" ed è nel suo con-tenere che si dà l ' idea di mondo . " ' Comprendere ' significa afferrare il simbolo , non il fatto [ . . .] In un certo senso il simbolo è contenuto in se stesso : lo si afferra come un tutto . Esso non indica qualcosa al di fuori di se stesso , non anticipa qualcos ' altro come se fosse un' ombra"41 • Il simbolismo è dunque primitivo rispetto al pensiero: lo fonda, lo contiene , lo limita , lo delinea . Nel processo del pensare , il pensiero non appare per poi essere successiva­ mente tradotto in parole o in altri simboli42 . "Non c 'è processo mentale che non possa esser simbolizzato; e se vi fosse un processo tale che non potesse aver luogo sulla lavagna, esso non ci sarebbe di alcun aiuto"43 • Sembra dunque che anche Wittgenstein , come Peirce , manifesti una mar­ cata inclinazione verso una considerazione "autarchica" del simbolismo e della sua corporeità materiale . Ciò che nel Tractatus era solo accennato - e a volte rozzamente impostato (si ricordi l ' inquietudine con cui l' autore an­ notava più volte nei Diari il suo esser di fronte alla soluzione senza poterla vedere) - in questi scritti tende a imporsi come pensiero dominante . Ma è l ' intera produzione del periodo a testimoniare la crescente importanza di questi argomenti nel lavoro dell ' autore: "Che il puro pensiero sia veicolato dalle parole e sia qualcosa di differente da esse è una superstizione" leggia­ mo nel Yellow Book, che è di qualche anno seguente44• E non vi è nessuno 39 40 41 42 43 44

lvi , pp . 86-7. lvi , p. 66. lvi , p . 65. lvi , p. 109. lvi , p. 65.

Wittgenstein 's Lectures, Cambridge 1932-35, a c. di A.Ambrose, Basil Blackwell, Oxford, 1979.

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stato "amorfo" o "gassoso" che possa essere individuato come "mentale" : i l pensiero è l à dove si esprime come pensiero , cioè nei suoi segni , simboli e parole . Nelle Lectures del ' 32- ' 3 5 , svolte a Cambridge , questa riflessione si approfondisce e si conferma . Cos ' è un 'idea generale? Cosa significa che le idee sono nella mente? , chiede Wittgensten ai suoi studenti . "Noi ten­ diamo a pensare alla mente come ad una sorta di ricettacolo , nel quale le cose vengono immagazzinate"45 , aggiunge con sorprendente analogia con un ' affermazione di Peirce secondo la quale "la mente non va considerata come un ricettacolo , tale per cui se la cosa è dentro di essa, cessa di essere fuori" (W2 : 47 1 ) . La mente non contiene perciò quelle cose che sono i significati: il si­ gnificato non è l ' oggetto cui il segno si riferisce (contrariamente a quanto credeva l ' autore del Tractatus) , né un terzo che venga apposto tra propo­ sizione e realtà in funzione di termine medio (secondo la visione stoica e poi scolastica) . Non si esce dunque dai limiti del linguaggio (dal sistema delle regole) né per incontrare il puro pensiero , né per incontrare la realtà in sé . "Ciò che è comune tra pensiero e realtà deve essere già espresso nell 'espressione del pensiero . Non lo si può esprimere in una proposizione supplementare ed è ingannevole tentare di farlo"46 . Ritorna evidentemente in questo modo la tematic a relativa al mostrare , che risultava determinante nel Tractatus: la forma di raffigurazione , pur es­ sendo indescrivibile , è ciò che permette ogni descrizione e rappresentazio­ ne . Essa dunque può essere semplicemente esibita e in questo suo esibire si palesa che essa è, non che cosa essa è. Dunque , è impossibile che possa ve­ nire spiegata tramite il rinvio ad un terzo , che , come l' interpretante di Peir­ ce , dica che un altro sta dicendo la stessa cosa che lui stesso dice . Il punto è infatti proprio questo: diversamente da Peirce, Wittgenstein non sembra amare affatto la mediazione significativa, che costringerebbe , secondo lui , ad un rinvio all 'infinito tipico di una cattiva metafi sica. Il senso di una proposizione , secondo quest' autore , non può essere spiegato da una pro­ posizione seguente , perché questo implicherebbe una deriva ermeneutica senza fine , che condurrebbe all ' azzeramento , invece che al potenziamento , della significatività. Il senso , il significato , la forma logica, piuttosto , vanno concepiti come "autocontenuti" nel simbolo che li esprime . La forma della realtà si offre nella forma del simbolismo linguistico .

45 46

Ivi , p. 77

Lezioni, cit. , p. 56.

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L'immagine come timbro della realtà . Afferrare il simbolo: è questo un tema che ritorna in tutti gli appunti preparatori alle Ricerche filosofiche: "Dunque , l 'immagine mi dice se stessa" (GF 1 2 8 ) . In particolare , nel Li­ bro marrone , l ' autore inizia ad affrontare il tema del riconoscere qualcosa come qualcosa, del vedere come , che poi lo occuperà nella seconda parte delle Ricerche , e che ora ci interessa soprattutto in riferimento alla com­ prensione di cosa significhi "afferrare un simbolo" . Il processo di ricono­ scimento è infatti complesso e ha a che fare con la questione teoretica dello ' scambio' tra oggetti e significati : nel riconoscere faccio risaltare un aspet­ to , gli conferisco significato e lo tengo lì, in rilievo davanti a me , pronto a usarlo come "stampo" per riconoscimenti successivi. Vedo un aspetto come rilevante , si dice infatti . E configuro i lineamenti dell' oggetto secon­ do le coordinate che mi appaiono significative , lo vedo come quella tal cosa cui conferisco un nome e un' individuazione logica. Lo vedo cioè non più come esistenza bruta, ma come essenza significativa. Riconoscere significa sempre - si chiede l ' autore - confrontare tra loro due impressioni? Come se portassi con me l 'immagine , e grazie ad essa riconoscessi un oggetto come l' oggetto rappre sentato da quell' immagine? No , non si tratta propriamente di un confronto : "L'essere ben noto confer­ ma quello che abbiamo visto , senza per altro confrontarlo con qualcos ' al­ tro . Per così dire , lo timbra" (GF 1 3 1 ) . Dunque , non si tratta di mettere accanto una forma e un oggetto e di applicare l ' una all' altro : "Non è tanto come se confrontassi l ' oggetto con un 'immagine , che gli sta accanto , ma piuttosto come se l ' oggetto jacesse tutt 'uno con l ' immagine . Dunque , vedo una sola cosa, non due" (ivi, sott. mia) . Se si ricorda , tentavamo di fondare proprio questa interpretazione , affidandoci all' esempio della mano . Nella rappresentazione trattiamo i segni come se fossero oggetti (o viceversa) , e non vediamo due cose , ma solo una: l ' immagine , la proiezione - nel suo rinvio interno al proiettato . Vi è l ' identificazione del riconoscimento segnico , nel suo rimando , cioè nella sua differenza. Vi è il timbro del rico­ noscimento , secondo la bellissima espressione wittgensteiniana , che lascia il suo sigillo sul corpo dell 'esistente . È in questo sigillo - nelle sue forme , nei suoi colori , nella sua struttura interna - che "l' immagine mi dice se stessa" (GF 1 32) . Le sue parole sono le linee tracciate sul foglio: occhi , bocca, naso , i tratti del volto dipinto . Lo stesso tema è ripreso , con maggior dovizia di considerazioni, nel Li­ bro marrone . Qui Wittgenstein traccia la figura stilizzata di un volto uma­ no e chiede: cosa significa che esso opera su di te una certa impressione? "Sicuramente io non vedo un mero complesso di linee . Io vedo un volto con un'espressione particolare" (BB 207) . N o n si può infatti separare l 'e-

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spressione dal disegno: nella pacifica sensazione che questo sia possibile noi siamo vittime di un"'illusione ottica che , per una sorta di riflessione , ci fa pensare che vi siano due oggetti là dove ve n ' è solo uno"(ivi) . Ma qual è propriamente quest' uno? Wittgenstein ci conduce a pensare che esso sia il corpo significante , portatore di ogni senso e possibilità di riconoscimento . Quando faccio sì che il volto eserciti un ' impressione su di me , è come se esistesse un doppione della sua espressione , come se il doppione fosse il prototipo dell 'e spressione e come se il vedere l ' e spressione del volto fosse trovare il prototipo cui essa corrisponde - come se nella nostra mente vi fosse stato uno stampo, e l ' immagine che vediamo fosse caduta in quello stampo combaciando con esso . Ma, in realtà, rwi facciamo cadere l 'immagine nella nostra mente , facendole imprimere ed incidere uno stampo su essa (BB 20 8 . S ott . mia) .

All' insegna del ' come se' , Wittgenstein sta comunicandoci degli ele­ menti fondamentali , che aggiungono dei tasselli alla sua Abbildungstheo­ rie , espandendola oltre confini che erano per altro in parte già stati sfondati all'interno dei Quaderni . Non abbiamo il volto da una parte , e i suoi tratti espressivi dali' altra; da una parte il modello , dali ' altra le sue riproduzioni; di qui lo stampo e di lì l ' immagine che , una volta riconosciuta, vi deve combaciare (come se si trattasse di aderire ad una guaina) . In realtà l' imma­ gine "cade nella nostra mente" (si tratta solo di una metafora: Wittgenstein è il primo a dubitare che i pensieri risiedano "nella testa") imprimendo e incidendo uno stampo che non c ' era. L'immagine timbra la realtà. E non si dà qui l' immagine , lì la realtà , ma la realtà è vista come l ' immagine la con­ figura . Non sono perciò casuali i riferimenti al gesto della scrittura: impri­ mere , incidere , timbrare . È nelle forme della scrittura, proprio come voleva Peirce , nelle tracce impresse sui corpi materiali che emerge il senso e si compone il significato: non si dà la tristezza fuori dai tratti del volto che la esprimono . Così, la tristezza si vede iscritta nel volto , il volto è triste (non: il volto ha una proprietà che è la tristezza) . "Assorbendone l'espressione , io non trovo un prototipo di quest'espressione nella mia mente; piuttosto , per così dire , io ricavo un sigillo dall' impressione" (BB 2 10) . Questo sigillo , questo stampo (BB 2 1 1 ) è , per così dire , paradigma di se stesso . Così come una melodia esprime sé , e capirla non vuoi dire tradurla in altre espressioni , perché essa , come il simbolo , contiene se stessa. Analogamente : "com­ prendere un enunciato , noi diciamo , indica una realtà fuori dell' enunciato . Mentre invece si potrebbe dire : 'Comprendere un enunciato significa affer­ rare il suo contenuto; ed il contenuto dell' enunciato è nell enunciato ' (BB 2 1 3 ) . Si potrebbe aggiungere: nella sua grammatica inte sa letteralmente '

"

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come esposizione dei suoi grammata, delle sue scritture . L'enunciato sta nei tratti del suo enunciare , nei suoi tratti ' caratteristici' , nel corpo sensi­ bile e palpabile delle incisioni della mano sul foglio , o del timbro di voce che esce dalla bocca. Ecco il luogo dell' enunciare . E del comprendere , del riconoscere , del capire : "Ciò che chiamiamo comprendere un enunciato è in molti casi molto più simile al comprendere un tema musicale di quanto penseremmo" (ivi) : esso esprime se stesso - nell ' autarchia del suo caratte­ re , potremmo aggiungere . Riprenderemo queste assunzioni commentando i lavori del periodo delle Ricerche filosofiche . B asti ricordare quest' ultimo passaggio del Libro blu , forse il più significativo : Viene d a spiegare : "La parola cade in uno stampo della nostra mente già da tempo preparato per essa" . Ma poiché io non percepisco e la parola e lo stampo non può alludere ad un 'esperienza di confronto della forma vuota o cava e della forma piena prima che esse siano fatte combaciare ; essa allude , piuttosto , all 'esperienza del vedere la forma piena accentuata da uno sfondo particolare

ii)

.

i) sarebbe l ' immagine della forma vuota e della forma piena prima che esse siano fatte combaciare . Qui vediamo due cerchi e possiamo confrontarli , ii) è l 'immagine della forma piena nella forma vuota . V ' è un solo cerchio , e ciò che chiamiamo: lo stampo si limita ad accentuare quel cerchio , a dargli risalto (BB 2 1 6-7) .

L' immagine , il modello , il segno si s-tagliano sul mondo , ne accentuano un aspetto , lo fanno vedere come lo in-tagliano , nei limiti in cui lo intaglia­ no . Si tratta , ancora una volta, di una relazione interna , e di una relazione determinata dall'uso , dall 'uso ' grammatico ' . Torniamo allora a quanto abbiamo già accennato precedentemente: alla domanda che ci guida - dove sta il significato? - Wittgenstein risponde con una topologia che ha un fondamento grammaticale , nei due sensi della parola . Perché se è vero che è il luogo di un segno all ' interno della gram­ matica a fissare la dimora del senso , è altrettanto vero , come abbiamo visto , che è la configurazione dei grammata ad orientare l'interpretazione e a incidere il corpo di significato . Inoltre , que sta grammatica è parimenti una

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pragmatica, ed una pragmatica dinamica e multiforme : i grammata sono sottoposti a usi diversi che determinano tante relazioni quante sono le pra­ tiche in cui sono inseriti (BB 220) . Queste relazioni sono ancora una volta relazioni iconiche e interne: sono le somiglianze di famiglia , che , appena accennate in quest' opera, diverranno una delle travi portanti del pensiero del cosiddetto secondo Wittgenstein.

Contro l 'interpretazione . Da una parte dunque abbiamo visto che Wittgenstein, come Peirce , intende la realtà come assolutamente equiva­ lente alla sua espressione proposizionale , cioè segnica: "Quando si dice: ' Come faccio a sapere cosa intende? Vedo soltanto i suoi segni ' , io rispon­ do: ' Come fa lui a sapere che cosa intende? Anche lui ha soltanto i suoi segni"' (RF 504) . Egli avrebbe potuto dire , con Peirce , "tutto il pensiero è nei segni"47; infatti scrive , in BB 24 , "il pensare consiste essenzialmen­ te nell ' operare con segni" . Ma, contrariamente a Peirce , come dicevamo prima , non crede al rinvio infinito della semiosi; inoltre , non crede che il significato vada inteso come una entità ' animata' che , aggiunta al puro e morto corpo del segno , gli dia vita. E qui il suo obiettivo polemico è diret­ tamente Frege . Nella Grammatica .filosofica riflette : Un' interpretazione è certo qualcosa che viene data in segni . È questa in­ terpretazione , contrapposta a un' altra (che suona in modo diverso) . Dunque: ' Ogni proposizione ha ancora bisogno di un' interpretazione' vorrebbe dire : nessuna proposizione può essere capita senza un ' aggiunta . Accade naturalmen­ te che io interpreti segni , dia ai segni un ' interpretazione; ma certamente non ogni volta che capisco un segno ! (Se mi si chiede : 'Che ora è?' , in me non ha luogo nessun lavoro d'interpretazione , semplicemente reagisco a quel che vedo e odo . Se uno mi sguaina un coltello in faccia non gli dico: ' L'interpreto come una minaccia ' (GF 9).

Dunque vi sono interpretazioni , e vi sono comprensioni , che appaiono immediate , che non necessitano di alcun lavoro ermeneutico , ma sembrano equivalenti ad azioni e reazioni (le Secondnesses di Peirce) : non ogni segno richiede un altro segno per essere capito , o si traduce in un altro pensiero­ segno , come voleva l ' autore americano . Wittgenstein aggiunge che , anche ipotizzando che ogni segno sia su­ scettibile di interpretazione , cioè dell' aggiunta di un altro segno per esse­ re compreso , è comunque necessario pervenire al significato , inteso come qualcosa che definisce chiaramente l'uso di quel segno , qualcosa capace

47

Cfr. su questi temi i cosiddetti ' Saggi del l868' (Scritti scelti, cit. , pp. 83- 182).

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di incarnare un "'ultima interpretazione" , di fatto sottratta alla circolazione vertiginosa della semiosi (BB 48-9) . Commentando queste proposizioni bisogna tener presente , come dicevo prima , che Wittgenstein ha un preciso obiettivo polemico: la concezione logico-formale di Frege (e di Russell , e del suo Tractatus) . Essa manteneva una sorta di riferimento ideale alla sfera del significato , inteso come un modello platonico (esterno e trascendente) cui riferire quelli che altrimenti erano da considerarsi "morti segni " . In tale concezione Wittgenstein vede una duplicazione inutile : il segno sensibile da una parte (''il sensibile nel simbolo" , come scriveva nel Tractatus) , il concetto o significato dall' altra. Cui segue la proliferazione infinita dei se­ gni che devono attestare il senso , ma che , producendo una cattiva infinità, di fatto lo dissolvono . Prova a spiegare a qualcuno il significato della po­ sizione delle lancette dell' orologio: "La goffaggine con cui il segno , come un muto , cerca di farsi capire ricorrendo a ogni sorta di gesti suggestivi scompare quando riconosciamo che tutto dipende dal sistema cui il segno appartiene . Si vorrebbe dire : soltanto il pensiero può dirlo ; il segno non può"48 . E segue il paragrafo successivo: "Ma un' interpretazione è certo una cosa che viene data in segni" . Questi segni vanno dunque nuovamente interpretati? "Come se , quando si getta un dado si dovesse stabilire con un altro dado quanto valga un lancio?" . Evidentemente no , per il nostro autore . Come già abbiamo visto l ' enunciato , l ' immagine (il segno) dice se stesso: il senso non è un ' aggiunta, perché il significato non va pensato come una cosa che si aggiunga ad un ' altra cosa (il corpo puramente signi­ ficante) . Il senso dell'enunciato è nell 'enunciato: e non ci serve un terzo in veste di mediatore che certifichi il legame tra il corpo dell' asserzione e ciò che questa significa. Dunque , l ' ipotesi dell 'Interpretante è un' ipotesi fuorviante? Io credo che si possa dire che Wittgenstein non ha compreso tutte le im­ plicazioni connesse a questa nozione , così come le aveva comprese Peirce . Ma credo anche che , formulando le proposizioni che abbiamo appena letto , egli si rendesse conto , con una lucidità straordinaria , del sottile crinale che distingue , e unisce nel contempo , semiotica e pragmatica . Egli intendeva infatti insistere su una verità profonda: comprendere non significa sempre interpretare . Vi è un' interpretazione ultima , un sapere a suo modo definiti­ vo , che coincide con un saper fare , con un agire 'immediato ' , con un atto della pratica - la reazione istintiva che mi muove alla vista di un coltello sguainato , l ' afferrare un asciugamano quando sono bagnato . Dunque non ci troviamo sempre trascinati dalla corrente incessante dei rinvii segnici e 48

L. Wittgenstein, Zettel, Torino, Einaudi, 1986 , § 228.

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interpretativi . A volte vestiamo come un habitus un' interpretazione data, assunta con i nostri più familiari ' atavismi ' , ed essa si identifica totalmente con un fare , un "esser pronti a fare" , come diceva Peirce , uno ' stare pre­ parati" . Ma questo stare è comunque una ' stazione' all 'interno di un percorso concettuale fatto di rimandi e di inferenze , che per esser divenute ' auto­ matiche ' , non sono per questo meno interpretative . Forse il vero problema è che Wittgenstein non si rende conto che il circolo dell' interpretazione non è vizioso , ma virtuoso; che la corrente può non essere un gorgo , ma semplicemente il fluire placido di un grande fiume dai molti rivoli che ne moltiplicano le piene . Wittgenstein manca insomma di comprendere la na­ tura triadica del rinvio segnico: interpretare non significa aggiungere qual­ cosa a qualcos ' altro; semplicemente non c ' è segno senza interpretazione; c ' è la relazione segnica che intreccia come un tutt'uno segno , oggetto e interpretante e che , nel mentre collega, anche pone i propri poli relazionali , che sono dunque istituiti uno per l' altro . D ' altronde , come dicevo prima, Wittgenstein ha l' indubbio merito di porre fin da ora una questione che orienterà anche il pensiero di Peirce , conducendo all' approdo a quell' Inter­ pretante ultimo della catena dei rinvii che è la prassi .

PARTE II PRAGMATISMO E SENSO COMUNE : L'ANALISI DEL SIGNIFICATO

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l. PRATICHE , CREDENZE , CERTEZZE

"È facile esser certi. B asta essere sufficientemente vaghi" (CP 4.237) . Con la consueta finezza filosofica, mascherata sotto spoglie comunicative di assoluta semplicità, Peirce aveva già centrato la questione che occuperà questo capitolo nel modo più netto e, come cercherò di dimostrare , più completo . La sua argomentazione si avvale dell ' esempio seguente : ognu­ no di noi crede fermamente che vi sia un ordine che presiede ai fenomeni naturali e si comporta nella vita quotidiana di conseguenza; ma nessun fe­ nomeno sperimentale confermerà mai in toto questa credenza , fornendone adeguate prove empiriche; essa non potrà dunque essere dimostrata scien­ tificamente , perché ogni dimostrazione condurrà a violare le più semplici garanzie logiche . Ciò non toglie che la vaghezza concettuale della nostra credenza nel fatto che domani sorgerà di nuovo il sole fondi in modo incon­ cusso le nostre abitudini più inveterate , tanto da poter essere attribuita ad una sorta di istinto , la cui esattezza ci sembra molto maggiore di qualsiasi altra verità stabilita a livello scientifico (CP 6 .496)1 • Partiamo da questa prima acquisizione , allora: precisione e certezza non vanno mai insieme2 . Non è un' acquisizione da poco , a ben vedere , perché falsifica il lungo e difficoltoso percorso che ha condotto Cartesio a liberarsi l

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Il passo, appmtenente ad uno scritto teologico del 1906, si riferisce alle nozioni ' vaghe ' che già qualche anno prima Peirce sosteneva di aver individuato per pri­ mo nel caillpo degli studi logici. Esse sono concetti autocontraddittmi, ma non inutilizzabili. Anzi, "nessun concetto, neppure quelli matematici, è assolutaillente preciso; ed alcuni tra i più impmtanti per l'uso quotidiano sono estremamente va­ ghi" . Vedremo che Wittgenstein approda nelle Ricerche filosofiche a conclusioni assolutaillente analoghe. Peirce esprime con nettezza questo suo convincimento in CP 4 .237, cui appartiene anche la nostra citazione iniziale . Qui specifica il valore della matematica, che è l'unica disciplina in cui esattezza logica e infallibilità pratica sembrano andare d'accordo, mentre non si può parlare con precisione di un tema generale (come quello prima ricordato riguardante l'ordine naturale), senza incontrm·e qualche difficoltà logica . Al contrario, "è ugualmente facile essere certi", accettando però di essere sufficientemente vaghi.

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dei criteri di verità scolastici , avviando il meccanismo di funzionamento della scienza moderna. La certezza - è questa in sintesi la posizione che accomuna Peirce e Wittgenstein - non è guadagnata a posteriori tramite il processo di depurazione delle idee contaminate dagli abbagli dei sen­ si o dall'oscurità proposizionale , non è cioè da considerarsi un esito del processo metodico che conduce all ' evidenza e distinzione logica, ma può coesistere con la vaghezza tipica dell' affollarsi dei percetti sensibili , ed è perciò una validità originaria, a priori rispetto ad ogni ulteriore affinamen­ to concettuale . E , soprattutto , il valore che ascriviamo alle proposizioni che denotano certezza non è di tipo argomentativo , né razionale , ma appartie­ ne interamente all ' ordine della pratica. Appartiene cioè all ' immediatezza dell ' evento (pragmatico) , non all' illuminazione che segue una buona con­ catenazione (logica) . Impostiamo allora la questione nei seguenti termini: sia Peirce che Witt­ genstein affrontano un tema tipicamente cartesiano , come quello della cer­ tezza, in un senso totalmente anticartesiano , manifestando in tal modo la radice più comune delle loro due filosofie: l' avversione più totale verso il cogito e il suo armamentario di precisione logica e assicurazione psicologi­ ca. Insieme , però , la loro interrogazione è ancora, a ben vedere , profonda­ mente cartesiana, nell'individuazione del tema e nell' adozione del metodo di interrogazione: ambedue esercitano infatti la forma del dubbio metodico , alla ricerca del criterio in grado di stabilire la chiarezza concettuale . E la loro indagine recupera, in termini ovviamente trasfigurati , alcuni capisal­ di della filosofia cartesiana: le nozioni di intuizione , di lume naturale , di sapere originario e istintivo . Se si indaga ciò che non può essere revocato in dubbio , ciò che appare alla nostra mente con un'evidenza immediata , dobbiamo avere il coraggio di tornare a maneggiare concezioni abusate , ma appartenenti allaphilosophia perennis: lo fa Peirce , che pur era divenuto fi­ losofo schierandosi tra i più accesi antiintuizionisti del suo tempo , lo fa Wit­ tgenstein che del cartesianesimo distrugge , fin dai primi anni di Cambridge , il riferimento mentalista e meccanicista . I loro percorsi sono dunque anche in questo caso perfettamente coerenti, nel tentativo che li contraddistingue di comprendere quale sia il fondamento della conoscenza.

Dubbio e certezza . Com ' è noto , Wittgenstein compone , negli ultimi mesi di vita , una serie di osservazioni sul tema della certezza, che in parte sintetizzano , in parte ampliano le tormentate rifles sioni che lo avevano ac­ compagnato nel far filosofia fin dal suo ritorno a Cambridge . A stimolarlo nell' impresa è la lettura di A Dejense of common sense di Moore , suo an-

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tico compagno di studi . Wittgenstein si trova attratto e , insieme , respinto dalle proposizioni lì contenute; vi intravede una verità incontrovertibile , m a tanto mal fondata e formulata d a meritare tutte l e critiche più acute che gli venivano rivolte . Cosa sostiene Moore? Moore insiste , contro ogni posizione scettica o relativistica, sull' esistenza di alcune evidenze cogni­ tive che il senso comune attesta fuori da ogni dubbio , ad esempio , "so che questa è la mia mano" , " so che la terra esiste da più di cinque minuti" , "so di non essere stato sulla luna" . Wittgenstein ha facile gioco nello smon­ tare pezzo per pezzo i rinvii alla manifesta evidenza cui Moore si appel­ la, un ' evidenza che non viene scandagliata filosoficamente , ma che viene ascritta alla vista lunga del "senso comune" , quello stesso senso comune del quale bisognerebbe invero spiegare l ' origine . Non si può cioè presup­ porre proprio quello che si vorrebbe indagare: in questo modo l ' impegno filosofico rinuncia al proprio compito più precipuo , pensa Wittgenstein , che è quello di chiedere ragione delle nozioni che appaiono più sicure e indubitabili . "Vorrei dire : quello che asserisce di sapere , Moore non lo sa; ma è incontestabilmente stabilito per lui come anche per me ; il considerar­ lo dunque come qualcosa di incontestabile fa parte del metodo del nostro dubitare e del nostro ricercare" (C 1 5 1 ) . Come scrive von Wright3 "è il ruolo peculiare [delle proposizioni di certezza] , non la questione se si può realmente dire che ' sappiamo ' queste proposizioni, che Wittgenstein inda­ ga" . Dunque , al nostro autore non interessa stabilire la certezza di queste proposizioni , ma cambiare gioco e chiedersi quale sia il fondamento di questa certezza o , nei termini che gli sono più cari , quale sia la portata grammaticale dell 'enunciato : ' io so che ' . Ad attrarlo nel discorso mooria­ no - che a dire il vero è assurto agli onori del dibattito filosofico proprio in virtù della critica del suo antico scolaro - sembra comunque essere pro­ prio la circolazione metafisica delle nozioni di evidenza , dubbio , creden­ za, sapere comune , che restano alla base di ogni indagine epistemologica. Ma si aprano gli scritti pragmatisti di Peirce e si incontreranno imme­ diatamente le stesse questioni . Più ancora, gli scritti pragmaticisti , ed è su questi che vorrei in particolare soffermarrni , perché è qui che appaiono con maggior evidenza, a mio modo di vedere , le analogie più estese con la produzione dell 'ultimo Wittgenstein. Mi riferisco in particolare a due testi , redatti dal filosofo americano durante gli ultimi anni di vita con il chiaro

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Georg Von Wtight , Wittgenstein on Certainty , in The Philosoplzy of Wittgenstein , New York and Land, a Garland Series Publication , vol.8, 1986.

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intento di modificare le proprie precedenti prese di posizione sul pragmati­ smo e "salvare la sua dottrina dai rapitori di bambini"4 . Esordiamo allora proprio con il tema del dubbio , tema tipicamente moderno , ricordiamolo ancora, legato all 'instaurazione di una figura di soggettività recalcitrante ad ogni ' senso comune ' , ma critica, consapevo­ le , autocosciente , scettica riguardo ogni evidenza data, eccetto , appunto , l ' evidenza del proprio dubitare . Peirce e Wittgenstein , insieme - pur non conoscendo i rispettivi lavori , è bene ricordarlo - soffocano con una co­ lossale risata un tal piedistallo fondazionale: "Bandite le finzioni" , scrive Peirce (P 29) , "In verità, vi è un unico stato mentale ' da cui è possibile prendere le mosse ' , vale a dire proprio quello stato in cui realmente ci si trova nel momento in cui ' si prendono le mosse' , uno stato in cui si è carichi di un 'immensa massa di cognizioni già formate , delle quali non è possibile disfarsi neppure volendo [ . . . ] Non fingete; se la pedanteria non vi ha divorato e non vi ha privato della vostra realtà , dovrete riconoscere che vi è molto di cui non dubitate minimamente . Ora ciò di cui non dubitate minimamente dovrà essere considerato come infallibile e assoluta verità , e così accade" . O , come scrive altrove (W3 : 259) , "accettare proposizioni che ci sembrano perfettamente evidenti è cosa che , logica o illogica che sia, noi non possiamo astenerci dal fare" . Per cui , conclude Peirce , giungere alla verità non significa altro che conseguire uno stato di credenza immune dal dubbio . In questo senso, la maggioranza degli uomini - perfino lo scettico - vivono costantemente nella verità, perché non dubitano minimamente , per seguire gli esempi di Moore , che le proprie mani siano lì , che facciano parte del proprio corpo , che il proprio corpo sussista sulla terra, terra che esisteva molto tempo prima che loro nascessero , ecc . Dunque "non possia­ mo cominciare con il dubbio completo" - afferma l ' autore con decisione , in uno degli scritti che sono proprio ricordati come ' saggi anticartesiani ' : Noi non possiamo non incominciare con tutti i pregiudizi che effettivamente abbiamo quando iniziamo lo studio della filosofia . Questi pregiudizi non vanno dissipati da una massima , perché sono cose che non abbiamo la possibilità di mettere in dubbio . Questo scetticismo iniziale sarà quindi un mero auto­ inganno e non un dubbio reale; e nessuno che segua il metodo cartesiano sarà

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Mi liferisco in patticolare a questi saggi: What Pragmatism is (CP 5.4 11-437) e Issues on Pragmaticism (CP 5.438-463), cui va aggiunto il manoscritto "Pragma­ ticism" , patte del quale è presentata in CP 5.505-525 con il titolo Critica! Philo­ sophy and the Philosophy of Common-Sense . I primi due scritti possono essere consultati nella traduzione italiana a cma di Fulvia Vimercati con il titolo Clze cos 'è il pragmatismo , cit .

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mai pago fino a che non avrà formalmente recuperato tutte quelle credenze che nella forma ha abbandonato (W2 : 2 1 2) .

Ecco , proprio questo è il punto : l e proposizioni che il nostro senso co­ mune accoglie come vere non sono verificate , o chiarite argomentativa­ mente , ma semplicemente , inconcussamente credute come se fossero vere . Sono prima della possibilità di essere considerate vere o false ; anzi sono il gradino sul quale ci ergiamo con sicurezza quando dobbiamo salire la scala che ci conduce alla nostra attività di esplorazione del mondo . Ciò fa sì che "tutta quanta la nostra ricerca sia orientata in modo che certe proposizioni, amme sso che vengano formulate , stiano al riparo da ogni dubbio . Stanno fuori della strada lungo la quale procede la ricerca" , scrive Wittgenstein (C 88) , con sorprendenti affinità , anche terminologi­ che , con Peirce . Queste proposizioni sono presupposti dei nostri giochi linguistici (C 446) , "credenze infondate" che fanno da fondamento alle cre­ denze fondate (C 253) . "Il fatto che io usi senza scrupolo la parola 'mano ' [ . . . ] mostra che l ' assenza del dubbio fa parte dell'essenza del gioco lin­ guistico , che la domanda ' Come faccio a sapere che . . .' tira per le lunghe il gioco linguistico , o addirittura lo toglie via" (C 370) . "Chi volesse dubitare di tutto , non arriverebbe neanche a dubitare . Lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza" (C 1 1 5) . E conclusivamente , quasi facendo eco all ' autore americano: "Quello che devo far vedere è che un dubbio non è necessario , neanche quando è possibile . Che la possibilità del gioco lingui­ stico non dipende dal fatto che si metta in dubbio tutto quello che si può mettere in dubbio" (C 392) . Il dubbio non è dunque quella figura nobile , gnoseologicamente origina­ ria, che credevano i moderni; anzi , il dubbio viene sempre dopo la credenza (C 1 60) , e questa credenza non si instaura in virtù di una decisione razio­ nale , o di un atto di introspezione psicologica . Essa sfugge al circolo delle argomentazioni: non è né giustificata, né ingiustificata (C 359) , né vera, né falsa: "La mia immagine del mondo non ce l'ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza , e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato , sul quale distinguo tra vero e falso (C 94)5 • All'inizio , esso semplicemente " sta lì , come la nostra vita" (C 559) . Dunque vi è una prepotente verità nelle parole di Moore , difensore del senso comune , che insiste nel mostrare come esistano alcu­ ne semplici considerazioni da cui ci sentiamo totalmente appagati e sulle

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"Se il vero è ciò che è fondato , allora il fondamento non è né vero , né falso" (C 205).

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quali non reputiamo possibile allungare l ' ombra del dubbio - d' altronde lo stesso Cartesio aveva dovuto ricorrere ad un personaggio artificiale come il genio maligno per convincere dell' incertezza di alcune proposizioni la cui certezza appare ad ognuno assolutamente evidente e ' naturale' . Il punto , aggiunge però Wittgenstein, è che noi esibiamo con i nostri comportamenti la verità di alcune proposizioni che , quando siamo invitati a farlo , non sappiamo bene come fondare razionalmente . Come scrive Ar­ mengaud6 , "nel momento in cui viene detta, la certezza diviene sospetta, e pertanto incerta" . Proprio come indicavano le parole di Peirce , citate in apertura: l ' assoluta certezza è avvolta dalla più totale vaghezza argomenta­ tiva; mentre ogni dire è travolto dalla circolazione incessante delle precisa­ zioni e delle obiezioni . Ci troviamo nella situazione di Agostino , tante volte ricordato da Wittgenstein: se qualcuno mi chiede di spiegare cos ' è il tempo non lo so dire , ma se nessuno me lo chiede , lo so. Analogamente Peirce , in u n manoscritto del 1 905 segnala: s e credi in una proposizione , non ne dubiti e non la critichi , neppure se vuoi; se la poni in dubbio , essa non apparirà mai più per te indubitabile (CP 5 .498)7 . Ecco allora che possiamo dire guadagnata un ' altra acquisizione nel nostro percorso: "le questioni che poniamo , e il nostro dubbio , riposano su questo : che certe proposizioni sono esenti da dubbio , come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre . In altre parole: fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche , che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio" (C 341 -342) . Moore pone dunque un problema profondissimo , come ricorda von Wright, "che noi sappiamo molte cose senza poter dire come le sappiamo" , che sappia­ mo con certezza quasi tutto ciò che ci permette di muoverei nel mondo , senza che possiamo però spiegare su cosa si fondi questo nostro sapere . Se mai , l 'ingenuità di Moore sta nel voler individuare la serie delle giu-

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Questa citazione è riportata in un testo interamente dedicato all' analisi di Ueber Gewissheit: Luigi Perissinotto, Logica e immagine del mondo , Milano, Guerini , 199l , p. 239. Sempre nello scritto teologico 1ipmtato in 6.497, Peirce insiste , in 1iferimento al c1ite1io di certezza agostiniano e poi cartesiano, e alla necessità di partire dal dubbio iperbolico: "Ma , di fatto, per quanto i logici siano stai fin qui capaci di por­ tare avanti le loro analisi, noi non abbiamo mai , in nessun caso concemente una questione di fatto, in quanto distinta da una questione concemente una possibilità matematica condizionale , potuto raggiungere un dubbio di quel genere [riguardo le percezioni dei sensi e i p1incipi logici] . Siamo in ogni caso forzati da una critica inesorabile a dichiarare: 'io non posso dubitare di questa e questa inferenza o proposizione; è assolutamente chiaro che è così , ma non posso dire perché' , in caso contrario lo stesso c1itico si stancherebbe p1ima di aver condotto alla fine la sua critica" .

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stificazioni di questa certezza, spiegandole tramite la naturalità del 'buon senso' comune , senza rendersi conto che questo concetto è anch'esso una concrezione metafisica e un buon filosofo non può limitarsi a presupporlo , ma deve smascherarne la natura. È dunque necessario pervenire a questa conclusione : vi è un sistema di credenze ' naturali' assolutamente infondate; vi è una certezza cui aderiamo che si presenta al di là del vero e del falso , che sta prima di ogni dubbio ; vi è , in definitiva, un sapere che non discende da meccanismi logico-ar­ gomentativi , ma che coincide con l ' operatività concreta del fare: "Perché quando voglio alzarmi da una sedia non mi convinco di avere ancora due piedi? Non c ' è nessun perché . Semplicemente non lo faccio . - Agisco così" (C 148)8 . Ora , io vorrei considerare questa sicurezza, non come qualcosa di affine all ' avventatezza o alla superficialità , ma come (una) forma di vita . (Questo è espresso molto malamente e , di sicuro , anche pensato malamente) (C 358) .

Le forme di vita sono da considerarsi "affini tanto all ' arbitrario quanto al non arbitrario" (OFP II 427): sono abitate dalle pratiche e ospitano una naturalità che sprofonda nel logico , e una logica che si stratifica sul na­ turale . Abbiamo dunque due sistemi di proposizioni grammaticali (come vedremo , anche Peirce le classificherà in modo analogo , distinguendo pro­ posizioni indubitabili e proposizioni dubitabili) : il primo si dipana in una rete di credenze cui aderiamo in toto (una sorta di "mitologia" , come scrive l ' autore nel § 95) , avendole assimilate "in modo puramente pratico, senza bisogno d'imparare regole esplicite" . Esse fungono da binari di "una rota­ ia per le proposizioni empiriche non rigide , fluide ; e [ . . . ] questo rapporto cambia col tempo , in quanto le proposizioni fluide si solidificano e le pro­ posizioni rigide diventano fluide" (C 96) . Ma la "mitologia può di nuovo tramutarsi in corrente , l' alveo del fiume dei pensieri può spostarsi [ . . . ] Sì , la riva del fiume consiste in parte di roccia dura, che non sottostà a nessun cambiamento , o sottostà soltanto a cambiamenti impercettibili , e in parte di sabbia , che ora qui, ora là, l ' acqua dilava ed accumula" (C 97-99) . Ecco il secondo sistema gr ammaticale : la sabbia è quella ghiaiosa delle proposi­ zioni empiriche , sottoposte a critica, dubbio e interpretazione , che mutano

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"ll bambino non impara che esistono libri, che esistono sedie, ecc., ecc., ma impa­ ra ad andare a prendere libri, a sedersi su sedie, ecc." (C 476) . Così, il gatto sa che esiste il topo e non lo impara da nessuno, né tanto meno aspetta una dimostrazione per arrivare a credere nella sua esistenza (C 478) .

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forma con il passaggio dell ' acqua, levigando però col loro attrito lo strato di roccia dura . Una considerazione generale , prima di procedere : da una parte non si può fare a meno di notare che la risoluzione cui perviene Wittgenstein alla fine della vita è iscritta - in modo meno prescrittivo e più semplice­ mente descrittivo - nel solco della conclusione etica del Tractatus : su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere . Risoluzione che rimandava alla dicotomia dire/mostrare , che attraversava tutto il libro e stava ad indicare l ' impossibilità di spiegare col linguaggio ciò che nel linguaggio si spec­ chiava. "Il punto principale è la teoria di ciò che può essere detto con le proposizioni - cioè con il linguaggio - (che poi è lo stesso) di ciò che può essere pensato , e ciò che non può es sere detto con le proposizioni , ma solo mostrato ; che è poi , io credo , il problema cardinale della filosofia" , scriveva l ' autore a Russell nel lontano 1 9 1 9 , come abbiamo già notato nella prima parte . Così ora: mostro che sono certo - nelle azioni che intraprendo , nelle direzioni del mio procedere pragmatico . Ma in cosa consista questa certezza, non lo posso spiegare . Di essa devo tacere . Al di là della proposizione , si allarga lo spazio del non proposizionale - dell ' e­ tico , del pratico . Dell ' in traduci bile . Di ciò che si può solo descrivere , dicendo "così è la vita umana" 9 . Il punto è forse proprio questo: "la difficoltà consiste nel riuscire a vede­ re l' infondatezza della nostra credenza" (C 1 66) ; nell ' accettare che a fon­ damento di ogni nostro possibile sapere vi sia quel non fondamento (quel già sempre fondato e mai pienamente fondato) che è il fluire impellente della nostra vita activa : "Non devi dimenticare che il gioco linguistico è , per così dire , qualcosa di imprevedibile . Voglio dire: Non è fondato , non è ragionevole (o irragionevole) . Sta lì - come la nostra vita" (C 559) . È al di là del tratteggio naturale-convenzionale10 , è al di là dell'oscillazione tra certo e oscuro , della distinzione o indistinzione concettuale . È , soprattutto , 9 10

L. Wittgenstein, Note sul 'Ramo d'oro ' di Frazer, Milano , Adelphi , 1 975 , p . 1 9 . Sul binomio naturale-convenzionale in Wittgenstein c i sarebbe lungamente d a di­ scutere . A questo tema ha dedicato pagine molto belle Stanley Cavell nel suo 17ze Claim of Reason (Oxford, Oxford University Press , 1 979) . Si può infatti dimo­ strare che quest' autore è uno dei primi a scardinare completamente tale contrap­ posizione (ma vedremo che Peirce si incammina , con la sua nozione di istinto , su di un terreno molto simile) . All 'interno della forma di vita , scrive infatti Wittgen­ stein , soprattutto nelle notazioni relative al Ramo d 'oro , vivo una conformità con i miei simili non in base a giudizi convenzionali, ma in vntù di riti e forme antropo­ logiche di vario genere , che vengono vissute come naturali, pur essendo in realtà il risultato di un sistema di regole . L'essenza della regola diviene infine nient'altro che l' abitudine (naturale) ad agir così , in un modo che diviene "sfondo" tranquillo

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al di là del dilemma fondamento-assenza di fondamento . Perché appartiene alla pratica: "Come se una volta o l ' altra la fondazione non giungesse ad un termine . Ma il termine non è la presupposizione infondata, sibbene il modo d'agire infondato " (C 1 1 0 . Sott . mia) . Non è ancora il momento di sviluppare appieno questo tema, che senza dubbio diviene centrale nella risoluzione del problema . Vi è da aggiungere , nell ' analisi della pars destruens delle due filosofie, qualche altro elemento di comunanza tra i due autori . Se è infatti possibile pervenire ad una lettura anticartesiana del tema della certezza - che , potremmo dimostrare , va di pari passo con un' analoga lettura del tema della chiarezza11 -, è ugualmen­ te possibile orientarsi verso un approccio non puramente critico dell' intu­ IZiomsmo .

Interpretazione e intuizione . Peirce , negli anni cruciali tra il 1 8 66 e il 1 868 , si chiede se si diano premesse prime del processo del conoscere . "Se vi siano delle premesse ultime di questo tipo è una questione difficile; il che equivale semplicemente a questo : se il confine della coscienza sia nella coscienza o fuori di essa" (W 1 :5 1 5 ) . La sua risposta, sviluppata nei densissimi saggi ' anticartesiani ' del ' 68 , è piuttosto nota: "ogni cognizione di qualsiasi tipo è inferita da qualche altra cognizione . Ogni premessa è una conclusione e non si dà qualcosa come una premessa prima o un' intuizio-

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della nostra vita quotidiana e rende gli uomini che vi si dispongono partecipi di una stessa verità "pubblica" . Non può sfuggire infatti , l 'invito che ambedue rivolgono a chi si assume la fatica di "pensare per conto suo" a "render chiare le proprie idee" . È questo il titolo di uno degli scritti peirceani più celebrati (W3 : 257-275 ) , nel quale l' autore insiste sul fatto che p1imo dovere del filosofo è quello di esigere chiarezza concettuale . Ma la chiarezza non è la perfetta definizione logica e la risoluzione analitica dei termini: un' idea risulta chiara e distinta se produce una credenza "viva" e "prati­ ca" , se si tramuta in un abito , se dà vita ad una regola d' azione . Per cui Leibniz , ad esempio , secondo Peirce , non ha compreso "il punto più essenziale della filo­ sofia cartesiana , che è che accettar·e proposizioni che ci sembrano perfettamente evidenti è cosa che , logica o illogica che sia, noi non possiamo astenerci dal fare" . Secondo Max Fisch (Peirce, Semeiotic and Pragmatism , Bloomington, Indiana University Pres s , 1986, p .254) , il pragmatismo "non è altro che una massima o un precetto per raggiungere un terzo e più alto grado di chiarezza delle idee , al di là di quello indicato da Cartesio e successivamente emendato da Leibniz" . La chiar·ezza appartiene dunque al modo nel quale comprendiamo gli "effetti che concepibilmente hanno rilievo pratico" prodotti da qualsiasi nostra concezione . "Con la verità del mio enunciato si controlla la mia comprensione di questo enun­ ciato" , sc1ive Wittgenstein (C 80) , dimostrando di 1isolvere il tema della chiar·ezza in un senso assimilabile al pragmatismo peirceano .

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ne" (W l :488) . ll che conduce a risolvere l 'intero universo , sia delle cose che delle menti , in una catena di segni infinitamente rinvianti gli uni agli altri , senza che sia mai possibile stabilire il punto iniziale o quello finale del loro legame . La conoscenza origina , se mai , da un ''processo di co­ minciamento" (W2 : 2 1 1 ) , è un continuum in cui l ' approdo all ' oggetto in sé costituisce un limite invalicabile . Non perché esso rimanga inconoscibile - non si dà alcun inconoscibile , scrive l ' autore , se non come effettivamente conosciuto nella forma di inconoscibile (W2 : 2 1 3) - ma perché la sua realtà ha, di volta in volta, il nome che il suo Interpretante le assegna. Non esi­ ste dunque a livello gnoseologico qualcosa di simile all 'intuizione , perché ogni conoscenza è un 'inferenza , e non esiste nulla che sussista in sé di fronte a questo conoscere , perché ogni oggetto è un segno , cioè "qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos ' altro" (W2 : 223) , un passo in una catena di infiniti transiti . Wittgenstein affrontava, credo , un problema molto simile quando scri­ veva: "È così difficile trovare l' inizio . O meglio: è difficile cominciare dall ' inizio . E non tentare di andare ancor più indietro" (C 47 1 ) . E vi è poi un inizio (e un termine ultimo) , o , come credeva il primo Peirce , vi è solo la linea infinita e circolare delle interpretazioni e dei rimandi tra segno , ogget­ to e interpretante , a delimitare il processo del conoscere? Si può insomma riabilitare la sfibrata stoffa da cui è intessuta l' Anschaaung e considerarla, se mai , come un contraltare necessario del processo dell'Auslegung , come un 'immediatezza originaria che vive all ' interno delle mediazioni? È cu­ rioso infatti che a queste proposizioni sulla difficoltà di trovare l' inizio Wittgenstein leghi quelle che gli vengono ispirate dal motto goethiano "In principio era l ' azione", che esibiscono la sicurezza nell'indicare un preciso punto d' esordio . Questo punto d'esordio è l' instans dell"'Agisco così" : quando ho bisogno di asciugarmi , esemplifica l ' autore nella parte finale della Certezza , posso dichiarare che so che questo è un asciugamano e spiegare perché lo uso quando sono bagnato , ma , più semplicemente , lo afferrerò "senza esitare" e , se vi fosse un bambino cui spiegare il signifi­ cato della parola , esibirei il gesto corrispondente al detergermi la fronte . L' origine è dunque da ricercare in quel luogo vuoto di ragioni , ma pieno di senso che è il qui e ora della prassi vivente , una prassi che possiamo ben equiparare ad un atto di afferramento immediato e 'intuitivo ' . "Per me si tratta di una dichiarazione immediata. Non penso al passato o al futuro [ . . ] È esattamente come afferrare immediatamente una certa cosa; come afferro l ' asciugamani senza esitare" (C 5 10). Peirce avrebbe assentito: è solo l' abito di comportamento a fungere , infatti , secondo lui da Interpretante Logico Ultimo della serie dei rinvii segnici. Lo .

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spiega in uno degli ultimi scritti della sua carriera, A Survey of Pragmaticism , del 1 907 (CP 5 .464-96) , quasi interamente dedicato a questo tema: l'Interpre­ tante è l 'effetto propriamente veicolato dal segno , e l'analisi del significato coincide con l' analisi dell 'Interpretante. Ma si può arrivare a fare una tripar­ tizione tra gli Interpretanti : si dà un Interpretante emozionale, che equivale al sentimento prodotto dal segno; un Interpretante energetico , che è la reazione , l' atto singolo che denota una risposta al segno e, infine , l'Interpretante Logi­ co, che dovrebbe equivalere ad un concetto . Ma "si può provare che l'unico effetto mentale che si può in tal modo produrre e che non è un segno , ma ha un' applicazione generale , è un mutamento di abito" (CP 5 .476) . La reale e vivente conclusione logica è quest' abito; la formulazione verbale non fa che esprimerlo [ . . .] L'abito deliberatamente formato , autoanalizzantesi - autoanalizzantesi perché fonnato grazie all' ausilio delle analisi degli esercizi che l' hanno sostenuto - è la definizione vivente , il vero e finale interpretante logico . Di conseguenza , il più perfetto resoconto di un concetto che si possa esprimere in parole consisterà in una descrizione dell' abito che si calcola che quel concetto produca . Ma in quale altro modo un abito può essere descritto , se non attraverso una descrizione del tipo di azione a cui esso dà luogo , con la specificazione delle condizioni e del motivo? (CP 5 .49 1 ) .

Peirce è dunque chiarissimo s u questo punto: un Interpretante Logico può essere un concetto , un argomento , una proposizione; ma la sua più perfetta descrizione , la sua ultima espressione dovrà tradursi in un abito di risposta, abito che , a sua volta, verrà descritto facendo appello all ' azione singolare e concreta cui dà luogo . "L' abito non è in alcun modo esclusi­ vamente un fatto mentale" , conclude l' autore . Questo è dunque il Peirce pragmatista: descrivete l ' abito adottato in ogni situazione concreta e avrete l ' intera nozione del significato cui le vostre parole conducono . Ecco allora che torna nel vocabolario filosofico peirceano la parola ulti­ mo , finale . Analogamente , in molti passaggi Wittgenstein si dichiara con­ vinto che si possa parlare in un senso non metafisica del luogo più di tutti metafisica: quello dell ' origine . La catena delle ragioni e delle spiegazioni non può né procedere all 'infinito , né regredire indefinitamente: 'In che modo posso seguire una regola? ' - se questa non è una domanda riguardante le cause , è una richiesta di giustificare il fatto che , seguendo la regola , agisco così. Quando ho esaurito le giustificazioni arrivo allo strato di roccia , e la mia vanga si piega . Allora sono disposto a dire : ' Ecc o , agisco pro­ prio così' (RF 2 1 7) 1 2 .

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Cfr. anche RF 326 e 485 . E , ancora, C 192.

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"Una ragione si può dare solo all 'interno di un gioco . La catena delle ra­ gioni ha termine , e ha termine , precisamente , al confine del gioco (ragione e causa)" (GF 55) . Questo termine è dunque un limite della catena e non fa parte della catena stessa , non attiva un modo di vedere non ha i caratteri dell ' illuminazione razionale - ma un modo di agire - affetto dall 'irrime­ diabile cecità della prassi . "Ciò che è primario" , per ambedue , è un fatto della vita, un abito pragmatico , una Lebensjorm che , nel suo imporsi, spez­ za la catena dei rinvii segnici e indica verso un luogo originario estraneo all 'interpretazione e, tuttavia , collocato dai suoi stessi rimandi . Vediamo di spiegare meglio questa posizione , collegando tra di loro le affermazioni dei due autori . -

Pratiche e forme di vita . L'originalità degli scritti che ambedue dedicano al tema della certezza mi sembra che risieda proprio nella consapevolezza secondo cui la conoscenza non è strutturata unicamente come una catena di rinvii intrecciati ad in.finitum tra segni , pensieri e cose , come un pro­ cesso vorticoso di interpretazione senza approdo ad un termine ultimo (o primo) . Il regresso all'infinito , per cui non vi è pensiero-segno che non si indirizzi ad un altro pensiero-segno (Peirce) o gioco linguistico che abbia come re ferente un insieme fisso e delimitato di oggetti reali (Wittgenstein) , deve placarsi - o meglio , semplicemente si acquieta sempre , in ogni istante quotidiano - in un sistema di credenze certe e consolidate che non mettia­ mo assolutamente mai in dubbio finché le esercitiamo e proprio perché le esercitiamo . Esse costituiscono il "terreno originario" 13 in base al quale poi ci è permesso dubitare , accumulare sapere , modificarlo e stratificarlo , fin­ ché , appunto, gli strati divengono roccia, e, contro di essa, come un nuovo "terreno originario" , la mia vanga si piegherà. Voglio dire che Peirce e Wittgenstein, cantori della semiosi illimitata e della mobilità estrema delle forme di vita, inclinano negli ultimi anni delle loro riflessioni (che si tratti di una guadagnata pacatezza senile dopo le mattane della gioventù?) verso una pragmatica fondante in cui il sapere abita un territorio per nulla mobile , né sfuggente , solido come la roccia, ap­ punto . Su questa base disponiamo di verità assolute e di risposte definitive; 13

Così s i esprimerà Wittgenstein , come vedremo più avanti , nel commento al Ramo d'oro , e Peirce, analogamente , parlerà di "bedrock" , letteralmente strato di roccia (cfr. CP 6 .476 , che riprenderemo , e 6 .500) . Si potrebbero interpretare i termini in senso cosmologico: il suolo primo sul quale costmiamo le nostre certezze è anzitutto cosmologico ; è il suolo terrestre , la nosn·a appartenenza alla terra, che garantisce il nostro primo sapere certo ed evidente (lo ricordava anche Moore).

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perfino lo scettico o il relativista estremo ne deve convenire: quando si alza in piedi non si chiede se ha ancora due piedi e se può usarli . L'incertez­ za - il dubbio , l ' interpretazione , il ' potrebbe essere così o anche così' - è sempre seconda a, posteriore a questa certezza originaria. Ma ' secondo ' , come ricorda Peirce , significa ' altro da' , ' in rapporto con' , indica cioè una relazione già configurata che si appresta a venire interpretata; mentre l'O­ riginario , cioè il First categoriale , è in Peirce un puro ground (il Grund di Wittgenstein) "astratto dalla concretezza che implica la possibilità di un altro" (W2 : 55)14. Esso sfugge al circolo della semiosi: per questo di esso non si dubita , per questo non può venir detto e neppure spiegato . Non è un segno: o meglio, è una Firstness semiotica, direbbe Peirce , un' originaria disposizione al vero , un'esibizione di tratti iconici; è un gioco linguistico , sì , ma la cui grammatica ci è divenuta "naturale" . È così difficile trovare l ' inizio , scrive Wittgenstein: perché l ' inizio ci spinge ad andare ancora più indietro , nel regresso dei rinvii interpretativi , e , insieme , si rivela solo ora e qui , che sentiamo la necessità di indicarlo - in questa forma di vita che è interessata a stabilire dove sia collocato il Primo . Semiosi e originario nei due autori si intrecciano; ermeneutica e pragmatica si illuminano a vicenda. È pur vero , allora, che i due filosofi recuperano alcuni temi cartesia­ ni , ma profondamente anticartesiano resta il loro punto d'esordio : non la nicchia immacolata in cui deporre ogni verità riconquistata all' evidenza , m a l' ambito disordinato delle nostre reazioni abituali , dei nostri giochi di linguaggio , che si rivelano già sempre iniziati , già originati , tanto familiari da sembrare 'innati ' . E questa immediatezza si dà come una piega del­ la mediazione semiotica. Origine già sempre originata15 , certezza ovvia e implicita che esplicitandosi si fa dubitativa, cioè interpretativa e segnica. Scrive Peirce , sempre nel ' 6 8 : Nel mi o stato mentale non v ' è alcun istante i n cui v i sia cognizione o rappre­ sentazione , ma vi è nella relazione fra i miei stati mentali in istanti diversi . In breve l' Immediato (e perciò in se stesso non suscettibile di mediazione - l ' Ina­ nalizzabile , l 'Inesplicabile , il non-Intellettuale) costituisce una corrente inces­ sante nel corso delle nostre vite; consiste nella somma totale della coscienza, la cui mediazione , che è la continuità di essa , è resa possibile da una forza reale effettiva dietro la coscienza (W2 : 227) 1 6 .

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Abbiamo già incontrato e commentato questo passaggio . Cfr. Parte I , cap . 2 . Cfr. s u questi temi C . Sini , Transito verità , cit . , Libro III. Cioè , come dirà nei saggi pragmatisti, l 'immediato lo colgo solo nella mediazio­ ne del pensiero , pensiero che consiste "in una relazione" , in un "filo di melodia che corre attraverso la successione delle nostre sensazioni" e che viene spezzato

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Una corrente che coincide con il fluire della vita, della prassi attiva di ognuno , gli fa eco Wittgenstein: Al posto del non analizzabile , dello specifico , dell ' indefinibile : il fatto che agiamo in questo e questo modo , che ad esempio , puniamo certe azioni , accer­ tiamo la situazione effettiva in questo e questo modo , diamo ordini , prepariamo resoconti , descriviamo colori , ci interes siamo ai sentimenti altrui . Quello che dobbiamo accettare , il dato - si potrebbe dire - sono i fatti della vita (OFP L 630) .

L' immediato: il jatto che agiamo così e così . Non si tratta di datità, di fenomeni o cose , ma di fatti della vita, di Lebensjormen , come preferisce dire altrove l ' autore . E si ricordi ancora: in principio era l ' azione (non: in principio era la parola, o il senso , scrive Goethe) ; ma "è così difficile trovare l ' inizio" . Seguiamo allora la linea interpretativa wittgensteiniana, che utilizza un linguaggio e un modo di approccio ai problemi che innegabilmente sen­ tiamo più vicini a noi del "propepositivista" Peirce . Credo si possa dire con sufficiente sicurezza che , scrivendo gli appunti riuniti sotto il titolo di Della certezza, Wittgenstein cercasse di nominare un luogo inaugurale e irriducibile capace di acquietare il rovello della volontà di conoscenza e di identificare la semplicità dell 'espressione grammaticale "Io so che" . Come nota Perissinotto: niente ci assicura che non interpreteremo ancora e tuttavia "il gioco linguistico riposa su questo : che certi simboli , certi segni e gesti non sono (e non: non possono essere) ulteriormente interpretati"17 • "La mia vita consiste in questo: che sono appagato di alcune cose" (C 344) . Così , quando guardiamo un quadro , o un film, vi è un momento in cui ci sentiamo completamente attratti dalle sue figure , e ciò accade perché quei segni particolari che sono le Icone , come scrive Peirce , sono " sostitutivi dei loro oggetti , tanto che non riusciamo a distinguerli da essi" (CP 3 .362) . Nel contemplare un dipinto , vi è un momento in cui perdiamo la consape­ volezza che esso non è la cosa, e la distinzione tra copia e reale svanisce . "Se vedo il simbolo pensato ' dal di fuori ' - sembra chiosare Wittgenstein ­ divento consapevole che potrebbe essere interpretato in questo modo così e così . Se è un passo sulla strada dei miei pensieri , si tratta di una fermata che per me è naturale e la sua ulteriore interpretabilità non mi tiene occupato (e non mi inquieta)" . Dunque , "non: questo simbolo non si può più inter-

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da quella "mezza cadenza" rappresentata dalla credenza , che si esplica poi solo nell' abito pragmatico . L Perissinotto, op .cit., p . 209- 1 0 .

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pretare , ma: io non l ' interpreto . Non l 'interpreto perché mi sento perfetta­ mente a mio agio con l ' immagine attuale" . Così recita un ms (2 1 3 ) citato da Perissinotto che aggiunge : "Dunque e di nuovo : a un certo punto non interpretiamo più e in questo naturale non interpretare esibiamo il gioco che stiamo giocando"18 • Se l 'uomo è l ' animale che interpreta per vivere ­ potremmo concludere - è anche però quell' animale che vive perché smette di interpretare , perché accetta il fatto che vive19 • Tò pragma autò: fatto che è composto di azioni e reazioni , fatto pragmatico , appunto . È questa la risoluzione che a Wittgenstein sembra più congeniale , fin dai tempi del commento al Ramo d 'oro: Non deve essere stata una ragione da poco , anzi non può essere stata neppu­ re una ragione , quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita , e perciò si trovavano vicine non per scelta , ma per essere cresciute in-

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Ibidem . E il fatto che muore . Quel fatto , potremmo aggiungere , dinanzi al quale spesso diciamo infatti "Non ci sono parole" . E , si chiede ancora il nostro autore: forse che viviamo perché è pratico vivere? "Dunque l'uomo pensa perché il pensare ha dato buoni risultati? Perché pensa che sia vantaggioso pensare?" (RF 467 ) . "Spes­ so riusciamo a scorgere i fatti importanti solo dopo aver soppresso la domanda ' Perché? ' ; allora, nel corso delle nostre indagini, essi ci conducono a una 1isposta" (RF 47 1 ) . Posso allora accennare ad una questione: questo recupero dell' atten­ zione verso i fatti , non scardina in qualche modo la tradizionale impostazione del tema ermeneutico , mutuata dall ' aforisma nietzscheano : "Non esistono fatti , ma solo interpretazioni"? Credo sarebbe interessante discuterne . Hanno iniziato a farlo per primi , pm da prospettive diverse , Umberto Eco e Mamizio Fenaris , la cui impostazione avrebbe potuto giovarsi, credo , di queste analisi peirceane e wittgensteiniane . Non si tratta cioè di tornare a parlare dell'evidenza delle cose , o del Qualcosa ("Cosa è quel qualcosa che ci induce a produne segni?" , si chiede Umberto Eco nel suo Kant e l'ornitorinco , Milano , B ompiani, 1 997 , p .4) , delle "resistenze dell 'Essere" (sempre Eco , a p . 37) , della distanza tra fatti e interpreta­ zioni , per cui 1imane indubitabile che "c ' è un mondo , ed è questo", e che "l'essere resterà , in quanto tale , fuori dalla sfera dell' interpretazione , altrimenti il divario , minimo , ma cmciale , tra realtà e immaginazione (quel divario in cui di solito ci giochiamo nltto) venebbe meno" (M. Ferraris , L'ermeneutica , Roma-B ari, La­ terza , 1998 , p. 86 , p. 92 , terni ampiamente 1ipresi negli ultimi anni all' interno del dibattito sul cosiddetto 'nuovo realismo ' , cfr Manifesto del nuovo realismo , Roma-Ba1i, Laterza, 20 12). Piuttosto che di cose o di fatti , intesi come dati di fatto , bisogna forse parlare degli atti pragmatici , essi sì testimoni del divario realtà-inlmaginazione . Non tutto si risolve nell 'interpretazione , ce1tamente , ma non per questo è necessa1io torna1·e ad ipotizzare un "mizzonte cosale", una realtà "inemendabile" , fuori di noi (ivi, passim) .

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sieme , come il cane e la pulce . (Se le pulci sviluppassero un rito , riguarderebbe il cane) Si potrebbe dire che non la loro unione (di quercia e uomo) ha dato il prete­ sto per questi riti , ma in un certo senso la loro separazione . Perché il risvegliarsi dell ' intelletto avviene con una separazione dal terreno originario, dal fondamento originario della vita . (La nascita della scelta)1° .

Wittgenstein recupera in questo modo il tema dell ' originario , del natura­ le , dimostrando come antropologia ed etnologia possano essere fortemen­ te ispiratrici di un genuino pensiero teoretico . Partiamo dal terreno , dallo sfondo (Hintergrund) originario , che poi è quel suolo scabro , cui faceva ri­ ferimento nelle Ricerche , che ci permette di approfittare dell' attrito per non rotolare giù dal piano inclinato delle pure forme logiche . Il Wittgenstein dei giochi linguistici non abita più nel tetro palazzo di ghiaccio della logica matematica , ma cammina , con difficoltà, là dove il terreno è accidentato e polveroso , cioè su un terreno ' naturale' e non più artificiale . La nozione di forma di vita, che già abbiamo incontrato , riassume le sue considerazioni al riguardo e ci permette di procedere nella nostra indagine: il semplice fatto del darsi di una "comunità di vita" è , di nuovo , "un che di animale" (C 358) , niente più che una "sicurezza tranquilla" (C 357), che si vive senza chiederne ragione . Che è dell ' ordine della certezza infondata ­ vale a dire del "fondamento originario della vita" - non del primum nella serie delle deduzioni logiche . E d' altronde , "ciò che si deve accettare , il dato , sono - potremmo dire - forme di vita" (RF, p .295 ) Esse vanno intese come fenomeni originari , che , così come voleva Goethe21 , sono originari in quanto matrici empiriche e trascendentali insieme . "B ada al gioco lin­ guistico come a ciò che è primario" (RF 656) ; è questo il "suolo sul quale fondo ogni mio giudizio" (C 492) . Il primario non va inteso dunque come il primo della catena inferenziale , ma come il più evidente , ciò che "natu­ ralmente" si staglia in primo piano per la sua luminosità (Peirce parlerà non a caso , come vedremo , di lume naturale) . È questo , senza dubbio , il senso nel quale il nostro autore interpreta la celebre massima goethiana: "La cosa più elevata sarebbe: comprendere che tutto ciò che è fattuale è già teoria. .

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L Wittgenstein, Note sul Ramo d 'oro , cit . , p. 35 . "Il nostro errore consiste nel cercaie una spiegazione dove invece dovrenuno ve­ dere questo fatto come un ' fenomeno oiiginario ' . Cioè , dove invece dovrenuno diie: si gioca questo gioco linguistico" (RF 654) . "Non si tratta di spiegaie un gioco linguistico pei mezzo delle nostre espeiienze , ma di piendere atto di un gioco linguistico" (RF 655 ) . La nozione di Urphiinomen , ripresa dall' autore più di una volta , è compiutamente goethiana. Su questi temi mi sono maggiormente dilungata in Continuità e variazione, cit . , Parte I L

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L' azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale della cromatica. Non si cerchi nulla dietro i fenomeni . Essi stessi sono già la teoria" . Limitiamoci dunque a descrivere il ' così è ' dei fatti della vita; non dei puri dati di fatto , si badi bene , ma delle semplici forme di vita, del "Così noi pensiamo . Così noi agiamo Così noi ne parliamo"22 • Non puri dati , dunque , ma pure attività (RF 23), o semplicemente "re­ azioni" (BB 26) esse presiedono alla certezza perché hanno l' evidenza e l ' immediatezza del "modo d' agire infondato" , là dove la prassi "deve par­ lar per se stessa" (C 1 3 9) . Vi è un' inclinazione profondamente pragmatica nell 'ultimo Wittgenstein che lo orienta a individuare il luogo originario della certezza - luogo fondante e infondato , insieme - nelle mobili e vaghe dimensioni della pratica: In realtà vorrei dire che neanche qui sono importanti le parole che si enun­ ciano o quelle che , enunciandole , si pensa; importante è però la differenza che esse fanno in luoghi differenti della vita . Come faccio a sapere che due uomini intendono la medesima cosa, quando ciascuno di essi dice che crede in Dio? [ . . ] Alle parole dà senso la prassi23 • .

Credo allora che si possa parlare esplicitamente di un pragmatismo wittgensteiniano , anche se ho chiarito nell' Introduzione come l ' autore non gradisse l ' assimilazione a questa corrente di pensiero: lo testimonia la sorprendente analogia tra quest' ultima citazione e il brano centrale dello scritto centrale di Peirce sul pragmatismo . L' essenza della credenza è lo stabilirsi di un abito e le diverse credenze si distinguono per i diversi modi d'agire a cui danno adito . Se le credenze non differiscono per questo rispetto , se acquietano lo stesso dubbio producendo la stessa regola d' azione , allora nessuna differenza nella maniera in cui se ne ha

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L. Wittgenstein , Zettel, cit. , par. 309 . D ' altronde , non bisogna dimenticare che

già nel Tractatus gli stati di cose non erano enti semplicemente presenti , cose , ma "fatti" , con la péllticolare accezione che questa péll·ola implicava in quel testo . L . Wittgenstein , Osservazioni sui colori , tr. it . di Méll·io Trinchero , Torino , Einaudi , III , p .3 17 . Vorrei fare un' ulteriore notazione : Wittgenstein inserisce questi pensieri all ' intemo di una riflessione sulle diverse credenze in Dio , so­ stenute dalle véll·ie religioni . Sorprendentemente , l ' autore americano , nel suo scritto "How to make our ideas clear" , avvia la spiegazione della sua massima pragmatica assumendo , come vedremo subito , l ' esempio della dottrina della Transustanziazione . L' analogia è tale da far ipotizzare davvero una conoscenza diretta da pa1te di Wittgenstein del testo di Peirce , o per lo meno delle sue riela­ borazioni jamesiane .

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coscienza può renderle credenze diverse , non più che suonare una nota in chia­ vi diverse sia suonare note diverse . Si tracciano spesso distinzioni immaginarie fra credenze che differiscono solo per il modo d'espressione; - le dispute che ne seguono sono , tuttavia, abbastanza reali [ . . ] (W3 : 265) . .

"La nostra idea d i una qualunque cosa è l ' idea dei suoi effetti sensi­ bili [ . . . ] Dobbiamo cioè scendere a ciò che è tangibile e concepibilmen­ te pratico quale radice di ogni reale distinzione di pensiero , per sottile che possa essere ; e non c ' è distinzione di significato così fine da consi­ stere in altro che in una possibile differenza pratic a" , prosegue l ' autore . Così , anche Peirce sembra inchinarsi all ' insegnamento del Faust: non è il Sinn , il senso , ma l ' azione (die Tat) , a fare la differenza . Il senso dell ' azione . "Un significato di una parola è un modo del suo impiego" (C 6 1 ) .

Comun-sensismo. Dunque , abbiamo visto come Wittgenstein risolva il problema di conciliare una radicale ostilità verso i criteri cartesiani che ordinano la certezza - la supremazia del cogito , l 'imposizione del dubbio totale , la traccia aurea dell' evidenza intuitiva - e la pacata riproposizione di nozioni emarginate ormai da secoli dalla migliore filosofia, come quelle di credenza innata o di verità prima e infondata. Voglio in conclusione dimostrare che Peirce avrebbe potuto essergli maestro - e forse aiutarlo a intraprendere molte scorciatoie di riflessione . Negli articoli pragmaticisti ai quali facevo riferimento prima l ' autore americano sembra attuare una improvvisa virata nell ' impostazione dei suoi studi e , dopo essersi eretto a paladino della circolazione incessante dei segni e delle interpretazioni , dichiara la neces sità di redigere una li­ sta di quelle che lui stesso definisce "credenze indubitabili e originarie" . Riassumiamo brevemente , per chi non avesse consuetudine con le sue analisi , i termini del problema. Nei già ricordati scritti del ' 6 8 , Peirce stabilisce che l ) noi non abbiamo alcuna capacità di introspezione , ma tutta la conoscenza del mondo interno è derivata per mezzo di ragio­ namento dalla conoscenza dei fatti esterni ; 2) noi non abbiamo alcuna c apacità di intuizione , ma ogni cognizione è determinata logicamente da cognizioni precedenti ; 3) noi non abbiamo alcuna c apacità di pensare senza segni ; 4) noi non abbiamo alcuna concezione dell ' assolutamen­ te inconoscibile . Tali acquisizioni conducono verso una semiotic a gno­ seologic a , che poi si tradurrà in un ' antologia cosmologica ordinata su base categoriale e fondata su presupposti totalmente ermeneutici . Tutto

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il pensiero è segno , tutta la realtà è segno ; l ' uomo stesso è il suo lin­ guaggio , cioè l ' insieme dei segni nei quali si esprime . Ma se ciò è vero , dobbiamo assumere il principio secondo il quale il processo della co­ noscenza, continuamente trasferito di segno in segno , vive nello spazio del rinvio , della mediazione , del transito . Dunque , è costitutivamente vago, fallibile , incerto . Nessuna conoscenza potrà mai dirsi definitiva e nessun fatto inesplicabile . Il sinechismo peirceano - la teoria secondo la quale tutto nell 'universo è continuo - si unisce infatti al fallibilismo dell ' autore sancendo il rifiuto di ogni filosofia che si basi sull ' ipotesi dell 'esistenza di fatti ultimi . Fallibilismo significa proprio non accet­ tare che esistano fatti ultimi (o originari) : è una ben povera teoria, dice infatti l ' autore , quella che li presuppone per spiegare qualcosa. "Poiché il fallibilismo è la c oncezione secondo cui la nostra conoscenza non è mai assoluta , ma ondeggia, per così dire , in un continuum di incertezza e indeterminatezza. La dottrina della continuità ci dice che tutte le cose ondeggiano in questo modo nei continua" (CP 1 . 1 7 1 ) . Ma come il conti­ nuo non è composto di parti ultime , neppure la conoscibilità è composta da spiegazioni ultime e definitive , neppure la realtà è data una volta per tutte , atomo concluso presente là fuori , da qualche parte , pronta per es­ sere colta o per essere dichiarata inesplicabile . L'unica giustificazione alla ricerca di un' ipotesi - sto procedendo a sintetizzare brevemente il pensiero dell ' autore , che su questo tema è per lo più affidato ad appunti e manoscritti - è che essa dia spiegazione di alcunché . Ma se la spiegazione che ci offre è che esistano dei fatti ine­ splicabili ultimi , la strada della ricerca è bloccata . Le inesplicabilità non possono infatti esser considerate possibili spiegazioni . B isogna dunque accettare che ogni spiegazione si apra a ventaglio su di un ' altra spiega­ zione , in un processo potenzialmente infinito e costitutivamente vago . Le idee possono essere rese chiare - diceva l' autore negli scritti semiotici e pragmatisti - attraverso l' appello al rimando infinito , ma tale rimando implica un ' intrinseca fallibilità , quasi che l ' unico criterio di chiarezza debba essere la vaghezza della circolazione inarre stabile dei rinvii segni­ ci . È allora come se Peirce ci dicesse : l ' unica spiegazione possibile della conoscenza e dell'universo è che questa non sia l ' unica spiegazione pos­ sibile ; l ' unica certezza risiede nell ' assunzione dell' incertezza dell ' "on­ deggiamento dei continua" , cioè dell' instabilità di ogni ousia . Fin qui il Peirce semiologo ed epistemologo . Ma nei primi anni del secolo scorso Peirce (ri)scopre la dottrina del "senso comune" e sembra mutare rotta. In Questioni di pragmaticismo Peirce esordisce infatti imme­ diatamente ricordando come la sua nuova formulazione del pragmatismo si

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leghi all 'espressione di quella che egli definisce "dottrina critica del senso comune"24 • In una lettera ne espone in questo modo i contenuti: Comun-sensismo . La dottrina secondo la quale ogni uomo crede in qual­ che proposizione generale e accetta alcune inferenze senza essere in grado di dubitare genuinamente di esse , e dunque senza essere in grado di sottoporle ad una critica reale, e secondo la quale queste proposizioni devono apparirgli perfettamente soddisfacenti e manifestamente vere25 .

Nella sua forma "critica" tale dottrina presenta sei caratteri che l ' autore declina nel modo seguente: 1 ) conduce a credere che esistano alla base della nostra conoscenza proposizioni indubitabili , ed anche inferenze indu­ bitabili , cioè originarie , cioè acritiche; 2) che di esse sia possibile stabilire una lista completa; 3) che abbiano la natura generale degli istinti; 4) che ciò che è acriticamente indubitabile si presenti con caratteri invariabilmen­ te vaghi; 5) che questi caratteri siano assimilabili all' indeterminatezza cui spesso conduce il dubbio , che dunque il dubitabile viva all 'interno stesso di ciò che è considerato indubitabile; 6) che tali credenze indubitabili e vaghe abbiano la natura di generalità reali . Pragmaticismo , sinechismo e realismo appaiono qui strettamente uniti , quasi che nella dottrina del senso comune Peirce volesse sintetizzare il meglio che la propria filosofia aveva prodotto nel corso degli anni . Chi legge l 'elenco di Peirce si sente però disorientato , poiché esso ef­ fettivamente ricorda certe tassonornie elaborate dalla fantasia di Borges . Il principio di non contraddizione vacilla infatti nel passaggio da un punto all ' altro - culminando nell ' antinomia massima del punto 5 - e , soprattutto , questa posizione sembra assolutamente incompatibile con quella sostenu­ ta negli scritti gnoseologici . Parlare di "Criticai Common Sensism" sem­ bra una contradictio in adiecto , perché o tutto è dubitabile , o alcune cose sfuggono interamente alla dubitabilità; o ci fondiamo sul principio critico dell ' attività razionale , o sulla cieca fiducia nelle credenze tramandateci dal

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Peirce intende unificaTe la doruina scozzese del senso comune propugnata da Thomas Reid e la filosofia ctitica di Kant. È proptio in Reid che Peirce trova la ctitica al dualismo gnoseologico dei moderni e allo scetticismo , e il richiamo alle credenze 'istintive ' del senso comune . In nota egli auspica di poter approfondi­ re lo studio di questo autore e del tema che egli individua , "il quale 1ichiede le qualità che solo l ' età porta con sé e non può affidarsi alle forze della giovinezza . È necessario impegnarsi in una setie di letture diverse; poiché è la credenza che l 'uomo tradisce, non quella che ostenta , che va indagata" (P 49) . Citato in J. Brent, Charles Sanders Peirce . A Life, cit . , p. 300 (trad. mia) .

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senso comune . Peirce invece , magistralmente , tiene insieme questi due capi e li intreccia in un'unica trama. Cerchiamo di vedere come . Leggiamo le prime affermazioni che egli esprime al riguardo : La dottrina critica del senso comune ammette che non esistono solo proposi­ zioni indubitabili , ma anche inferenze indubitabili. In un certo senso , ciò che è evidente è indubitabile ; ma le proposizioni e le inferenze che la dottrina critica del senso comune ritiene originali , nel senso che non ci consentono di ' risalire oltre ' (come dicono gli avvocati) sono indubitabili in quanto acritiche (P 45) .

Le assonanze con Wittgenstein (con la lettura wittgensteiniana di Moore) sono certamente fortissime . Vi sono evidenze del senso comune che si pre­ sentano con una certezza originaria, cioè estranea al gioco della critica, del vero e del falso; che risultano a priori, nel senso che abbiamo già indicato . Esse sono , come Peirce esemplificherà altrove, le certezze nell'esistenza di un ordine naturale , la fiducia nei nostri primi giudizi percettivi , o in alcune credenze morali: qualcosa che si avvicina alle idee innate criticate da Locke , dunque , anche se parlare di indubitabilità è diverso ovviamente dal parlare di innatezza. Peirce ragiona esattamente come Wittgenstein , procedendo in controtendenza rispetto alla filosofia critica che ha dominato l' Ottocento e gran parte del Novecento: la conoscenza ha come fondamento un nocciolo duro di credenze indiscutibili che sfuggono al ' tribunale critico della ra­ gione' e privati delle quali non potremmo procedere neppure di un passo nell' indagine logica e scientifica. Il dubbio non si sollecita a comando , in­ siste l ' autore (P 48) , e noi incominciamo con tutto il bagaglio delle nostre credenze più radicate , dei nostri pregiudizi , come scriveva già nel ' 68 , cioè dei nostri abiti . Che non scegliamo , non costruiamo a nostro piacimento : la certezza non è un effetto (causale) di acquisizione logica, è un abito pragma­ tico , un effetto (intrinseco) della pratica. Che non mi aiuta a spiegare perché agisco così, ma semplicemente a descrivere che agisco così. Ora , Peirce crede addirittura che sia possibile redigere "una lista com­ pleta delle credenze originarie" : ho tentato di formularla, ci informa , per­ ché credo che , pur variando impercettibilmente di generazione in genera­ zione , le stesse certezze circolino tra gli uomini occidentali da una serie interminabili di anni . In un altro scritto precisa il suo pensiero: l 'uomo primitivo credeva in alcuni principi che ora per noi sono divenuti altamente dubitabili; e viceversa , credenze incerte si fanno certissime in altri perio­ dF6 . Vi è cioè una relatività nell' imporsi delle credenze , ma la sicurezza 26

In CP 5 .509 leggiamo: "Non vi è alcuna collezione definita e fissa di opinioni indubitabili, ma la filosofia del senso comune sposta a poco a poco il confine

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che accompagna la loro assunzione rimane salda, indubitabile e per nulla relativa , finché vi aderiamo . "Vi sono tutte le ragioni per credere che prima venga la credenza , e solo dopo molto tempo la capacità di dubitare" (CP 5 .5 1 2) , aggiunge con un'espressione che sarebbe piaciuta a Wittgenstein. Veniamo allora al terzo carattere: "i filosofi scozzesi ammettevano che le credenze originarie fossero della stessa natura generale degli istinti - la stessa cosa può dirsi delle inferenze acritiche" (P 49) . Dunque le verità in­ dubitabili hanno carattere istintuale , perché ogni vera credenza si produce in un' azione e le azioni vengono compiute in modo immediato e istintivo: siamo ' naturalmente ' condotti ad esercitarle in un certo modo (CP 5 .4989) . "Credere è una questione di istinto e di desiderio" afferma con decisio­ ne l' autore .

Lume naturale . È allora opportuno a questo punto svolgere un breve de­ tour espositivo e analizzare più da presso la considerazione peirceana di ciò che può essere inteso come ' istintivo ' o 'naturale ' . In un altro scritto degli stessi anni , Consequences ofCritical Common Sensism, egli scrive che ogni animale , dunque anche l ' uomo, possiede "in posse innate cognitive habits" , simili nella forma alle idee innate criticate d a Locke . E questi abiti s i pro­ ducono in azioni , che hanno per lo più natura di istinti (5 .504) . Come nota Brent , questo è un pensiero che Peirce perfeziona negli anni fino a renderlo principio ispiratore del suo ultimo scritto importante , A Neglected Argu­ ment for the Reality of God, del 1 90827 , dove fa spesso riferimento ad una mente "istintiva" , cioè armoniosa con la continuità essere-pensiero , che egli considera fondamento del suo sinechismo . "For him instinct did not mean the mechanism of inherited behaviour except as a degenerate form of it; it meant that Mind is embodied - is instinct - in the physical universe and in us as a part of that"28 . Sul fondamento inconcusso di tale mente "istintiva" ,

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di tali indubitabilità , modificando la lista , ma lasciando comunque dei principi indubitabili" . E nella lettera prima ricordata aggiunge: "queste credenze non sono identiche per ogni generazione [ . . . ] ma , al contrario , dei segnali di cambiamento hanno avuto luogo nel processo storico" . Lo stesso avvicendarsi tra la roccia e la sabbia che la dilava cui faceva riferimento Wittgenstein . CP 6 .452-49 3 , originariamente apparso sull ' "Hibbert Jomnal" . È uno scritto di ordine teologico , volto a mostrare come la spiegazione più semplice dell' esistenza di Dio venga da una disinteressata contemplazione del Tutto . Essa non si presenta come una dimostrazione , ma come una descrizione , o mostrazione , dell' Universo , e degli universi d'esperienza , esemplificati secondo Peirce dalle sue tre categorie . J . Brent , Charles Sanders Peirce, cit . , p . 345 . Quest 'intetpretazione , prosegue Brent, può essere definita "Ideai-Realismo" , un tetmine che già il padre di Peir-

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"vasto complesso" di cui i nostri pensieri logicamente controllati compon­ gono solo una piccola parte, l'uomo costruisce per edificare le proprie stesse verità logiche . Di essa non si può dire che sia né vera, né falsa, né possiamo affermare propriamente che giungiamo a riconoscerla e a definirla, "perché ciò implicherebbe la possibilità della sua dubitabilità"29 • Wittgenstein era pervenuto, da altre strade, ad un'identica conclusione: l'estrema sicurezza che io paleso nel sentirmi a mio agio in ogni radicata forma di vita "voglio concepirla come qualcosa che giace al di là del giustificato e dell'ingiustifi­ cato; dunque, per così dire, come un che di animale" (C 359) . Qui voglio considerare l 'uomo come un animale; come un essere primitivo a cui si fa credito bensì dell 'istinto , ma non della facoltà di ragionamento . Come un essere in uno stato primitivo . Di una logica che sia sufficiente per un mezzo di comunicazione primitivo non dobbiamo vergognarci . Il linguaggio non è venuto fuori da un ragionamento (C 475) .

Peirce affronta il tema nello scritto che ricordavo prima, che reputo cen­ trale nella sua produzione e che assimilerei - per l'importanza che gli attri­ buiva l'autore, per il carattere non dottrinario e l'anticonformismo delle sue tesi - al Della certezza wittgensteiniano. È qui che egli presenta, mi sembra, la stessa ipotesi dell'autore viennese: la logica riposa su di un ordine di certezze "naturali" e "primitive", pressoché istintive. Ma istintivo in Peirce non ha unicamente un significato 'antropologico': rimanda ad un orizzonte cosmologico ampio e costitutivo che solo l'ipotesi sinechista è in grado di spiegare esaurientemente . Istintivo significa infatti per Peirce "naturalmen­ te" accordato con l'ordine universale, con la "logica degli eventi": C ' è una ragione , un ' interpretazione , una logica nel corso della ricerca scien­ tifica e ciò prova che la mente dell 'uomo deve essersi accordata (attuned) con la verità delle cose per poter scoprire ciò che ha scoperto . È questo il fonda­ mento (bedrock) della verità logica (CP 6 .476) 30 .

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c e , l' illustre matematico Benjamin Peirce, aveva utilizzato . Essa s i riferisce alla concezione secondo cui "la Mente (il Reale) è essa stessa , di per sé o attraverso l ' azione del segno , sia immanente che trascendente rispetto al mondo della natu­ ra" ; perciò , il reale è da intendersi "come un istinto per noi e il resto dell 'universo , concepiti come segni" (tt·ad. mia) . Citato in Brent, Charles Sanders Peirce , cit . , p. 292 . E in 6 .500 , ancor più chiaramente : "Intendo compiere un' apologia per dimostrare come la credenza si fondi sull 'istinto , inteso come il fondamento (bedrock) sul quale ogni ragionamento deve essere cost11lito". Si ricordi che "bedrock" è anche il termine inglese scelto per tradmre il wittgensteiniano "terreno originario" .

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Peirce sostiene infatti , fin dagli anni ' 90 , che è condivisibile la posizione di Galileo , il quale faceva appello ad un lume naturale che "magicamente" conduceva l 'uomo a veder giusto e ad orientarsi nella ricerca della verità . Non c ' è dubbio , dice l ' autore , che vi sia una sorta di istinto che spinge i più grandi intelletti scientifici ad "indovinar esattamente" l ' ordinamento del cosmo , così come i pulcini s anno istintivamente dove andare a beccare , o il gatto sa che esiste il topo . Se è vero che esiste un ordine di leggi costanti in natura, che la mente umana rispecchia nel proprio ordine logico, ciò si­ gnifica che dobbiamo reputare effettiva , contro ogni pregiudizio , "una luce naturale , o luce della natura , una visione istintiva , o genio, che mira a far indovinare all 'uomo esattamente , o quasi esattamente , quelle leggi" (CP 5 .604) . L'uomo ' vede ' grazie alla luminosità offerta dallo stesso universo ; le sue visioni sono orientate da una luce della natura. Ora , questo, che è il senso più riposto del sinechismo peirceano , si ri­ verbera nella particolare prospettiva logica che Peirce abbraccia. Se è vero che vi è un"'affinità tra l ' anima dell ' uomo e quella dell 'universo , per quan­ to imperfetta essa possa essere" (5 .47) , che "il pensiero umano partecipa necessariamente a qualsiasi carattere risulti diffuso nell ' intero universo e che i suoi modi naturali hanno una certa tendenza ad essere i modi d' azio­ ne dell'universo" ( 1 .35 1 ) , dobbiamo analogamente accettare che la parola ' istintivo ' non accolga solo esempi di bruta animalità, ma designi un am­ bito di apertura al mondo che 'vede giusto' prima ancora di aver stabilito cos ' è giusto e cos 'è sbagliato , fuori dunque dall' ordine delle giustificazioni razionali . L'intelletto umano è "particolarmente adatto" (2 .750) alla com­ prensione delle leggi del cosmo , è dotato di una "magica facoltà" (6 .476) che lo conduce a fare ipotesi corrette , plausibili . "Per plausibilità intendo il grado in cui una teoria dovrebbe raccomandarsi alla nostra credenza indi­ pendentemente da ogni genere di evidenza , che sia diversa dal fatto che il nostro istinto ci spinga a considerarla positivamente . Tutte le altre razze di animali hanno certamente istinti del genere: perché rifiutarli all 'umanità?" (CP 8 .223)3 1 . Peirce individua proprio nella facoltà retroduttiva, cioè abduttiva , o ipo­ tetica, di ragionamento , la magia dell'indovinar giusto . C'è insomma una 31

S i può ancora ricordare che nello scritto La legge della mente Peirce definisce inaspettatamente tale legge come "armonia celeste e vivente" , riecheggiando an­ cora una volta, forse , il Timeo platonico . O ancora: "Sembra perciò incontestabile che la mente dell'uomo sia fortemente adatta alla comprensione del cosmo; o per lo meno , che alcune concezioni , particolarmente impmtanti ai fini di una com­ prensione del genere , sorgano naturalmente nella sua mente; e che , senza questa tendenza, la mente non si sarebbe mai potuta sviluppare" (CP 6 .4 1 7 ) .

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logica della scoperta che paradossalmente scopre ciò che già implicitamen­ te sa: e questo perché "l 'unica speranza che il ragionamento retroduttivo riesca a raggiungere la verità è che vi sia una qualche naturale tendenza verso l ' accordo tra le idee che suggeriscono se stesse alla mente umana e quelle che sono implicate nelle leggi di natura" (CP 1 .80) . Questa è la ragione ultima della certezza che accompagna la credenza nel fatto che do­ mani sorgerà il sole : una ratio che Peirce ben comprende di dover riporre in ambito cosmologico e di poter spiegare solo tramite l' ipotesi sinechista; la possibilità dei giudizi sintetici a priori non può prescindere da una "filoso­ fia generale dell' universo" (2 .690) . Non solo : potente è sempre per Peirce la lezione delle sue prime indagini semiotiche . Il segreto di ogni inferenza, potremmo infatti aggiungere , sta in quell'iconismo originario della rappre­ sentazione , in quella Firstness categoriale , per cui uomo e mondo sono per­ fettamente accordati l ' uno all' altro , tanto che , platonicamente , si potrebbe dire che risuonano insieme (attune) . È dunque tale primo e mai obliato accordo col mondo a fornire spie­ gazioni dello "stupefacente" successo di tante nostre inferenze; bisogna ammettere che l 'uomo è dotato di un istintivo "tropismo verso la verità"32 che lo conduce ad indovinar giusto tutte le volte che rivolge i suoi guesses alla Sfinge . Se chiedo se il mondo è verde , già immagino , in qualche modo , che lo sia, e il mondo si farà verde sotto i miei occhi , come scrive Sini: "Ed è all' interno di questa differenza in-differente che il circolo vizioso della plausibilità si rivela , più che vizioso, proficuo . n tropismo verso la verità non è un istinto misterioso o una capacità esoterica: esso è sem­ plicemente l ' essere-nel-mondo da parte dell 'uomo , secondo un ' originaria dis-posizione , che è essa il fondamento di ogni criterio di razionalità"33 • Quest' originaria dis-posizione configura i limiti della certezza, anche per Wittgenstein: "Dunque , qui la proposizione 'Io so' esprime la disposizione a credere certe cose" (C 3 30) , o , come scrive Peirce, "ad assumere un abito , una disposizione a reagire a un certo tipo di stimolo in un dato modo" (P 46) . C ' è però da dire che Wittgenstein non pensa mai in termini cosmologi­ ci il problema, anche se forse in qualche modo ne intravede i contorni nelle annotazioni relative al Ramo d 'oro .

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È questa rma definizione introdotta da N . Rescher, nel suo Peirce 's Philosophy of Science , Notre-Dame and London, University of Notre Dame Press , 1 97 8 e 1ipresa da Carlo Sini in Semiotica e filosofia, cit . , pp . 102- 1 1 2 . Ivi , p . l l l .

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Vaghezza . Nello scritto sull' Argomento Trascurato , cui appartengono alcune delle ultime citazioni peirceane richiamate , l' autore si avventura nei campi elisi della pura contemplazione , dove il vento della "libertà del gioco" "soffia dove vuole" e , attutita ogni volontà logica, sembra non voler più affidarsi neppure alle forme sfumate dell' abduzione . È certo curioso che Peirce utilizzi il riferimento al gioco - lui che si era formato alla scuo­ la dei logici algebristi e della matematica pura - ed è un altro elemento di consanguineità con Wittgenstein , evidentemente . Peirce configura "una piacevole occupazione della mente" che conduce alla Contemplazione del Tutto , imbevendosi dell'impressione di ogni aspetto dell' universo . Egli chiama Musemenf34 quest' occupazione , e la preferisce alla "modesta ferti­ lità" dell' analisi logica, poiché essa deve produrre "l'ipotesi più semplice nel senso della più facile e naturale , quella che suggerisce l' istinto , che si deve accettare per la ragione che , se non possedesse una inclinazione natu­ rale ad accordarsi con la natura, l 'uomo non avrebbe la minima probabilità di comprenderla" (CP 6 .477 ) . "Prove sicure - sembra fargli ancora eco Della certezza - sono quelle che accettiamo come incondizionatamente sicure , e grazie alle quali agiamo con sicurezza , e senza dubbi" (C 1 96) . La "con.fidence in an hypothesis" è segno della sua verità, insiste Peirce; poiché , come ci ricorda Wittgenstein , essa configura una "forma di vita" (C 358) . Polverizzati così anni e anni di studi logici, matematici , scientifici , fors ' anche semiotici , il nostro autore sembra salvare unicamente i pro­ pri approdi pragmaticisti: "Questo porta, per provare l ' ipotesi , a prendere come modello il Pragmaticismo , che implica la fede nel senso comune e nell ' istinto, sebbene solo in quanto escano temprati dal crogiuolo di un misurato criticismo" (6 .480) . D che significa sviluppare "non solo una cre­ denza scientifica, che è sempre provvisoria, ma anche una credenza viva, pratica, logicamente giustificata nell ' attraversare il Rubicone con tutto il fardello dell'eternità" (iv i) . Una credenza pratica, cioè "un abito di condotta" , che testimoni la pro­ pria "comprensione vivente" (6 .48 1 ) ; le conclusioni di Peirce si attestano sullo stesso piano - il piano della prassi , delle forme di vita - sul quale si era infine insediato , salendo la propria scala , Wittgenstein. Anche per Peirce , dunque , la certezza ha carattere indubitabile perché è dell' ordine dei pragmata , non dei logoi: la credenza infondata - che sta alla base della credenza fondata - è una credenza agita, uno stile d' esistenza. Un "fatto 34

Che si potrebbe t:radune come :riflessione , meditazione , fantastichetia o , anco:r meglio , come me:raviglia , stupo:re , incantamento .

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della vita" , una pratica di commercio con un mondo in cui già sempre sia­ mo (iconicamente , armonicamente , sinechisticamente) , in cui parliamo e di cui non riusciamo a parlare con adeguatezza perfetta . Potremmo così dire concluso il nostro percorso . Ma vi è da aggiungere ancora un tassello ; dobbiamo tornare infatti allo scritto peirceano sul prag­ matismo che abbiamo momentaneamente abbandonato e che ci permetterà di affinare degli elementi del nostro discorso , elementi che ci limiteremo però solo ad accennare , per riprenderli poi nel prossimo capitolo . "È facile esser certi . B asta essere sufficientemente vaghi" (CP 4 .237) . Partivamo da qui; e qui è necessario tornare . D quarto carattere del Cri­ ticai Common Sensism individuato da Peirce riguarda infatti la nozione di vaghezza: "Con tutta probabilità ciò che contraddistingue il sostenitore della dottrina critica del senso comune rispetto al vecchio filosofo scozzese è l 'insistenza sul carattere invariabilmente vago di ciò che è acriticamen­ te indubitabile" (P 50) . Sul vago , prosegue Peirce , io ho svolto parecchie ricerche , mentre i logici sono colpevoli di aver trascurato tale nozione e di non averne compreso l' importanza35 . Egli traccia infatti questa curiosa equivalenza: indubitabile=vago . Ma vago significa "indefinito in intensio­ ne" . Cioè , consiste nel fatto che "un segno lasci in dubbio quale sia la sua interpretazione intesa, non tra due o più interpretazioni , che sarebbe ambi­ guità , ma in riferimento ad una gran moltitudine o anche ad un continuum di possibili interpretazioni, tra cui nemmeno due differiscono senza che il dubbio si estenda alle proposizioni intermedie"36 . Rieccoci nuovamen­ te trascinati da quell"'ondeggiamento" dei continua che sembra spiazzare ogni rigido tentativo di definizione logica in senso tradizionale: se l ' in­ dubitabile presenta caratteri di vaghezza, esso stimola il dubbio sulla sua possibile latitudine interpretativa, cioè è in realtà dubitabile al massimo grado . Le certezze sono indubitabili perché sono vaghe; ma evidentemente l ' inverso non è vero , perché vaghezza è definita proprio come indefinitezza 35

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Riprenderò l' analisi della vaghezza nel prossimo capitolo . La discussione sulla vaghezza , inaugurata da Peirce , è stata ripresa nel 1 923 da B . Russell sull' "Au­ stralasian Journal of Philosophy" (Vagueness) e da M . Black (Vagueness . An ex­ ercise in logica! analysis , in "Philosophy of Science" , IV [ 1 937]) , e recentemente sintetizzata in T. Williamson , Vagueness , Londra, Routledge , 1 994 . Ma si veda anche, in italiano , E . Paganini , Vaghezza , Roma , Carocci, 200 8 . La citazione è tratta d a u n manoscritto peircano (n°283) e ripmtata d a Claudi­ ne Engel-Tiercelin, nel suo C.SPeirce et le projet d'une 'logique du vague ', in "Archives de philosophie" , LII ( 1 989) , pp . 553-579 . Cfr. pure su questi terni M . Nadin, The Logic of Vagueness and the Category of Syneclzism , in Tlze Relevance of Charles Peirce, a c. di Eugene Freeman , La Salle , The Hegeler Institute , Monist Library of Philosophy, 1983 .

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interpretativa, cioè dubitabilità estrema , dal punto di vista della semiotica intensionale . Non è questo l ' unico spunto contraddittorio del discorso peirceano: la verità - egli diceva - si costituisce proprio nelle pieghe degli infiniti rinvii della catena semiotica. Qui risiede la sua indubitabilità , ovvero , come già dicevamo , l ' unica certezza che ci sentiamo in grado di abbracciare risiede nell ' accettazione del carattere altamente incerto di ogni nostra conoscenza. L'indubitabile sembra dunque convivere con il dubitabile , non solo per­ ché il principio (fallibile) della semiosi infinita resta per Peirce il principio cardine (cioè assolutamente infallibile) del sapere , ma perché , rivelandosi una "credenza viva, pratica, logicamente giustificata nell' attraversare il Ru­ bicone con tutto il fardello dell'eternità" , esso svela pure i suoi caratteri di vaghezza. Se indubitabilità equivale a certezza, di una ben strana certezza si tratta, poiché essa viene a coincidere con la più totale vaghezza semantica. Ma a tale vaghezza dobbiamo assuefarci , indica Peirce , come a ciò cui non si applica il principio di contraddizione (P 52)37 • Proprio questo è il punto : la contraddizione è forse logica, ma sul piano della pragmatica essa non ci inquieta affatto . Sfuma anzi in quell' oscillazione per cui il certo si fa vago , e il vago certo , e le misere antinomie del pensiero logico si eclis­ sano , dissolvendosi . Forse che un concetto sfumato non è un concetto? si chiedeva Wittgenstein fin dagli anni del Libro blu . "Tu sei libero di traccia­ re il confine dove vuoi; e questo confine non coinciderà mai interamente con l' uso effettivo , poiché quest' uso non ha un confine netto" (BB 30) . Così accade in relazione a tutti i concetti che tradizionalmente utilizziamo , primo fra tutti quello di gioco linguistico , che dovrebbe costituire il fon­ damento della nuova teoria wittgensteiniana , ma che , ovviamente non è possibile definire . "In che modo si delimita il concetto di gioco? Che cosa è ancora un gioco e che cosa non lo è più? Puoi indicare i confini? No . Puoi tracciarne qualcuno , perché non ce ne sono di già tracciati" (RF 68) . Inesatto non significa dunque inutilizzabile , e la vaghezza concettuale è una risorsa , non una manchevolezza, dei nostri giochi linguistici . Che sono

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Ancora in 6 .496 , nel p1imo sc1itto teologico che abbiamo citato , l' autore si espri­ me così: "Ogni concetto vago è soggetto ad essere auto-contraddittmio in quei 1ispetti in cui è vago. Nessun concetto, neppure tra quelli relativi alla matematica , è assolutamente preciso; ed alcuni dei più impmtanti per l' uso quotidiano sono estremamente vaghi . Nondimeno , le nostre credenze istintive che coinvolgono quei concetti sono molto più affidabili dei rniglimi 1isultati scientifici , se vengo­ no adeguatamente comprese" . E in 6 .499: "Ogni credenza istintiva , l'ho notato , è vaga . ll pragmatista inizierà a dubitare di esse , nel momento in cui riesce a prescinde1ne" .

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certi e certamente funzionano perché ci orientano nella prassi , perché sono stratificazioni di roccia "che l' acqua dilava e accumula" senza un piano preciso , ma fornendoci solidi gradini per l ' esercizio delle nostre pratiche più comuni . Vaghezza non significa dunque debolezza concettuale , poiché l ' evidenza, la certezza, la chiarezza - le regole auree che sanciscono la forza del metodo cartesiano - sono garantite dall ' uso della nozione , dal suo impiego pratico in circostanze pragmaticamente significative . "È la permanente possibilità della pratica che rende innocuo il regresso infinito e orizzontale delle interpretazioni , le quali oscillano tra il puramente deter­ minato e il puramente indeterminato" , commenta Rorty38 ; è la pratica che de-finisce l ' infinità del rinvio ermeneutico . "Non sono sempre più vicino al dire che , in ultima analisi, la logica non si può descrivere? Devi prendere in considerazione la prassi del linguaggio: allora la vedrai" (C 50 1 ) . Possiamo ora davvero concludere , sintetizzando così: io sono certo pro­ prio di ciò che , da un punto di vista logico , si presenta con i caratteri della vaghezza . Questa certezza è "acriticamente indubitabile" , cioè indefinita, anzi , tanto più certa quanto più è vaga. Non è allora paradossale affermare che certezza e vaghezza possono coesistere , perché le indagini di Peirce hanno già indebolito , col sinechismo , il principio di non contraddizione , e affermato che ogni realtà , anche la stessa realtà logica, si presenta come una mera questione di grado (CP 5 .5 1 2) , e Wittgenstein, dal canto suo , ci ha insegnato che l ' indeterminatezza del vago è intrinseca alla posizione del significato razionale . Certezza e vaghezza sono dunque con-naturate , perché il "senso comune" colloca il sapere di ogni uomo entro un' ampia apertura di possibili interpretazioni; ma un' apertura non immediatamente ermeneutica e critica , disposta piuttosto a sua volta da un aperto di tutt' al­ tro genere . L' aperto dei nostri giochi linguistici più comuni , dei nostri abiti "inconsci" , come diceva Peirce , quelli che esprimo con le locuzioni "Io so che" , "io sono certo di" , "io sono sicuro che" , o , ancora, l ' abito linguistico che si volta indietro , come la nottola sul far della sera, e nota, a volte stu­ pefatto: "Ecco, agisco proprio così" .

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R . Rmty, Pragmatism, Categories and Language, i n "Philosophical Review" , 70 ( 1 96 1 ) , p.22 1 . Rorty ha il merito di essere stato tra i primi ad evidenziare la poten­ za della nozione di vaghezza nelle filosofie dei due autori e ne tratta all' interno di questo articolo , che è magistralmente centrato sulla relazione tra categorie , reali­ smo e pragmatismo in Peirce . Riprende in patte gli stessi temi , nel confronto tra i due filosofi , Christopher Hookway, in Vagueness, Logic and Interpretation , in Tlze Alwlytic Tradition , a c . di David Bell e Nicholas Cooper, Oxford-Cambridge (Mas s .) , Basil B lackwell , 1 990 .

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2. LA FIAMMA E IL CRISTALLO. AFFERRARE IL SENSO , DEFINIRE I CONCETTI

"Il ragionamento è come una fune " . "Giacomo Leopardi sosteneva che il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago , impreciso" . Così annota Calvino , sempre nella magistrale Lezione americana , denominata "Esattezza"1 , dalla quale siamo partiti . Il grande narratore ci farà da guida anche in quest'ultimo tratto: egli infatti imposta in modo letterariamente ' alto ' il problema filosofico che Peirce e Wittgenstein hanno puntualizza­ to con la massima originalità nel secolo scorso - per primi e senza aver notizie l ' uno delle ricerche dell ' altro -, quello del rapporto tra certezza e vaghezza . L' elogio del vago , che compie Leopardi , coincide con la curio­ sità per l'indeterminato offrirsi delle cose , che non si lascia mai catturare del tutto dalle immagini linguistiche . Rimanda all 'osservazione del molte­ plice , del formicolante , del pulviscolare , qualcosa che affascinava - come abbiamo visto annotando precedentemente la folgorante fine di questa le­ zione calviniana2 - anche il genio di Leonardo . La fenomenologia di tale osservazione può essere restituita dalla buona letteratura, che sa giocare con il campo variegato degli iconismi linguistici . "L'opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l'esistente si cristallizza in una forma, ac­ quista un senso, non fisso , non definitivo , non irrigidito in una immobilità minerale , ma vivente come un organismo"3 . Calvino utilizza allora due figure per riferirsi a quello che ha in mente : la fi amma e il cristallo . Il cri­ stallo , "con la sua esatta sfaccettatura e la sua capacità di rifrangere la luce" è certo un modello di perfezione , immagine d' invarianza e di regolarità, ma la fiamma, "immagine di costanza di una forma globale esteriore , malgrado l ' incessante agitazione interna" , è la figura preferita dai filosofi fin dai tem­ pi di Eraclito . Non c ' è però da scegliere tra le due: "Cristallo e fiamma, due forme di bellezza perfetta da cui lo sguardo non sa staccarsi , due modi di

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2 3

I . Calvino , Lezioni americane , cit . , p. 5 9 . Cfr. Prute I , cap l . I . Calvino , Lezioni americane , cit . , p. 68 . .

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crescita nel tempo , di spesa della materia circostante , due simboli morali , due assoluti , due categorie per classificare fatti e idee e stili e sentimenti"4• L' immagine del cristallo , com ' è noto , domina anche la parte centrale delle Ricerche filosofiche , e certamente in un senso non positivo . Quanto più rigorosamente consideriamo il linguaggio effettivo , tanto più forte diventa il conflitto tra esso e le nostre esigenze (la purezza cristallina della logica non mi si era affatto data come un risultato ; era un' esigenza) . n conflit­ to diventa intollerabile ; l 'esigenza minaccia a questo punto di trasformarsi in qualcosa di vacuo . - Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l ' attrito e perciò le condizioni sono in un certo senso ideali , ma appunto per questo non possiamo muoverei . Vogliamo camminare ; dunque , abbiamo bisogno dell ' at­ trito . Torniamo sul terreno scabro ! (RF 1 07) .

Piuttosto che la fiamma, sia Peirce che Wittgenstein hanno però in mente un ' altra immagine per dipingere le evoluzioni del pensiero e dei suoi segni: quella della corda , di una robusta corda composta di fili intrecciati: Il ragionamento filosofico non dovrebbe formare una catena , che non è mai più forte del suo anello più debole , ma una fune le cui fibre possono anche es­ sere molto sottili, se sono sufficientemente numerose e saldamente intrecciate fra di loro (W2 : 2 1 3 ) . E d estendiamo il nostro concetto di numero così come , nel tessere un filo , intrecciamo fibra con fibra . E la robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza , ma dal sovrapporsi di molte fibre l'una all ' altra (RF 67) .

L' affinità tra queste due citazioni è evidente . E la relazione tra il pen­ siero di Peirce e di Wittgenstein dovrebbe esserlo altrettanto , nonostante le ritrosie del secondo ad essere considerato un pragmatista, e nonostante , dovrei aggiungere , il pragmatismo molto particolare di Peirce , che è un realismo di tipo scolastico e una semiotica compiutamente filosofica , come abbiamo notato nel capitolo precedente . Mi concentrerò però ora sul nucleo teoretico delle due enunciazioni . Entrambi gli autori, pur con lievi differenze , lavorano infatti sulla seguente idea: il ragionare , filosofico o matematico che sia - ma anche il ragionare del senso comune , come abbiamo visto - non è composto da tanti stati mentali discreti , che si inanellano l 'uno con l ' altro in una sequenza lineare , come se si trattasse di una catena; la conoscenza si svolge , al contrario , come a living process , un processo organico e fluido , assolutamente privo 4

Ivi , p .70 .

La fiamma e il cristallo. Afferrare il senso, definire i concetti

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di parti ultime , cioè di parti discrete , ma composto dall 'intreccio di conti­ nui rinvii: di puri segni, nel linguaggio di Peirce , o di pure somiglianze di famiglia, nel linguaggio di Wittgenstein . I significati non sono degli stati , tanto meno degli stati di coscienza , se per ' stato ' si intende qualcosa di delimitato in modo netto e rigido: Infine , nessun pensiero immediato (actual) (che è una mera sensazione) ha un significato , un valore intellettuale , perché quest'ultimo consiste non in ciò che è pensato di fatto (actually) , ma in ciò con cui il pensiero può essere con­ nesso nella rappresentazione tramite altri pensieri ; in tal modo , il significato di un pensiero è qualcosa di totalmente virtuale [ . . . ] Non c ' è mai una conoscenza o una rappresentazione negli stati mentali , ma ci sono conoscenze e rappresen­ tazioni nella relazione tra gli stati mentali di istanti diversi (W2 : 227) .

E in una nota particolarmente significativa apposta al brano , Peirce ag­ giunge : "Di conseguenza, come diciamo che un corpo è in movimento e non che il movimento è in un corpo, dovremmo dire che noi siamo nel pensiero e non che i pensieri sono in noi" . Certo , se il linguaggio ci aiu­ tasse ad esprimerci in questo modo , ci libereremmo di molte superstizioni di origine cartesiana, che sono così ben rappresentate oggi da tanto co­ gnitivismo computazionalista. Wittgenstein chiede , da parte sua: perché chiamiamo una certa cosa 'numero ' ? Cosa vi è di comune tra tutte quelle cose che definiamo in questo modo? Forse , solo "la disgiunzione di tutte queste comunanze" . "Un qualcosa percorre tutto il filo - cioè l' ininterrotto sovrapporsi di queste fibre" (RF 67) . La prima conseguenza che possiamo trarre da quest' impostazione del problema è, come notavo prima , che ogni significato , in quanto intreccio e rinvio a qualcosa di diverso da se stesso , non può esser confinato all ' in­ terno di un singolo ' stato mentale' , perché la sua natura precipua è ' tra­ scendentale' . D pensiero non è una res che sta , ma un segno che sta per. Come annunciava Peirce , la trama del pensiero è connessa e sostenuta dai suoi meri rinvii logici: è nella relazione tra i pensieri , è nello spazio del tra che nasce il significato . Significato che dunque vive in un luogo di transito , di passaggio, cioè , potremmo dire , in un luogo equivoco . Un luogo vacante , vuoto e non pieno: il luogo del rinvio , dell ' indirizzarsi di un segno all' altro . Questo luogo improprio , fatto di attraversamenti e di sfumature , di passi incerti e di legami pronti a sciogliersi , è quello che permette la robustezza del ragionamento , la sua forza propulsiva. Quasi con stizza, come abbia­ mo visto , Wittgenstein chiedeva nei Quaderni "che diavolo è questo luogo logico?" (Q . 1 8 . 1 1 . 1 4) . Più di trent' anni dopo risponde , esattamente come

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Peirce e Wittgenstein:

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Peirce: è un luogo di puro tramite , indecidibile , di differenze infinitesimali , continuo e discontinuo , insieme (''la disgiunzione di queste comunanze") . Riconosciamo che ciò che chiamiamo 'proposizione ' , ' linguaggio ' , non è quell' unità formale che immaginavo , ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l'uno con l ' altro . - Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi [ . . . ] TI pregiudizio della purezza cristallina può essere eli­ minato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni (RF 108) .

Quando Peirce parla del processo di semiosi , cioè del rinvio di segno in segno che configura come tale ogni rappresentazione , parla anch' egli di una serie illimitata, dove domina il "più o meno" . Si assiste dunque ad uno slittamento costante del significato , che è trascinato , metaforizzato (meta­ pherein , trasportare) , metamorfosato all'interno di una maglia di fibre in­ terconnesse dove non posso sciogliere un capo , senza che ne rimangano intrecciati molti altri . Se ogni cognizione si dà solo nella corrente incessan­ te e travolgente della semiosi, allora nessuna conoscenza è assolutamente definita , nessuna è ultimativa , ma solo infinitesimalmente passante , cioè costitutivamente fallibile e vaga . Lo spazio del transito continuo è infatti , come abbiano detto prima, lo spazio del vago . La nozione di continuità (e di vaghezza) è infatti , a mio modo di vedere , strettamente intrecciata in Peirce a quella relativa al significato pragmatico . Vediamo allora al proposito qualche definizione del Peirce pragmatista. Il pragmaticismo è stato originariamente enunciato in forma di massima nei seguenti termini : considerate quali effetti che potrebbero concepibilmente avere una portata pratica voi concepite che gli oggetti della vostra concezione abbiano . Allora la vostra concezione di quegli effetti sarà la totalità della vo­ stra concezione dell ' oggetto [ . . . ] L' intero significato intellettuale di qualsiasi simbolo consiste nella totalità di tutti i modi generali di condotta razionale che condizionatamente a tutte le possibili circostanze e aspirazioni , conseguirebbe­ ro all ' accettazione di quel simbolo (P 45) .

Peirce fa riferimento , come s i vede , pur nel suo involuto linguaggio , alla totalità, cioè alla continuità solidale , di tutti i modi generali di condotta razionale . Il pragmatismo non insegna , cioè , che il significato di un concet­ to si legge nell'effetto pratico immediato (actual, come diceva nella cita­ zione precedente riferita al pensiero-segno), ma che esso deve connettersi all 'intera serie possibile e condizionale delle risoluzioni ad agire che si è disposti a mettere in opera per manifestare la comprensione di quel con­ cetto . Dunque , si fa riferimento non alla semplice azione , ma all' attuabilità "potenziale" di un comportamento "e nessuna somma di eventi attuali può

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mai colmare completamente il significato di un ' sarebbe' (would-be)" (EP 2:402) . Nessuna somma di eventi attuali; eppure Peirce parla di totalità di modi generali della condotta . Di che misurazione si tratta , dunque? Non certo di un "agglomerato" di numeri . Peirce non sta pensando ad una mi­ sura quantificabile , né potenzialmente determinabile; non sta pensando ad una continuità intesa à la Cantar. L' idea di continuità alla quale egli si riferisce è infatti collegata alla nozione di generalità pragmatica, che è un condizionale , o una virtualità possibile . E all ' idea di vaghezza semantica. Cos ' è un genera! per Peirce? È un 'idea, un universale - come volevano i medievali - che si incarna in un ' azione , ma non in un ' azione singolare e priva di regolarità , bensì in un ' azione reiterabile , abituale , disciplinata dall 'uso e pubblicamente con­ divisa. Quando sento che l ' aria del mio studio è soffocante , mi alzo e vado ad aprire la finestra, a volte senza neppure pensarci. Questo è un esempio di come l ' obbedienza ad una regola generale (la proposizione universale ' L' aria soffocante fa male alla salute ' ) determini uno sforzo fisico , come dice Peirce , che incide sulla realtà . Dunque "non solo i generali possono essere reali , ma possono anche essere .fisicamente efficienti" (P 3 8) . Le idee di libertà e di giustizia, aggiunge l ' autore , sono due delle più grandi forze che muovono il mondo , pur essendo dei generals assolutamente potenziali e vaghi . Esistono dunque oggetti vaghi reali , cioè possibilità reali . Peirce propone un altro esempio: quando dico che un diamante è duro , mi rife­ risco anche ad un diamante che si formasse e consumasse nella bambagia lontano da occhi e pressioni umane? Come se ne constaterebbe la durezza, se è vero che il significato di un concetto si misura dalle sue conseguenze pratiche? Ma, appunto , aggiunge Peirce , io ho detto conseguenze concepi­ bili e condizionali , anche solo possibili . Il punto non è ciò che è empirica­ mente accaduto, il punto è ciò che potrebbe accadere , in un futuro infini­ tamente protratto , in ordine ai tentativi di scalfittura che potrei mettere in opera per provare la durezza del diamante . Questa condizionalità possibile ha la natura del vago . E questa vaghezza , per tornare ai nostri temi , è fon­ data sulla continuità ininterrotta delle esperienze possibili che rientrano in quel genera!, in quel would be cui mi riferisco quando dico: il diamante è duro . Continuità che non è composta da l+ l+ l , ma che , cantoraniamente , si presenta senza salti , né lacune . "The possible is necessarily generai; and no amount of generai specification c an reduce a class of possibilities to an individuai case [ . . . ] continuity and generality are two names far the same absence of distinction of individuals" (CP 4 . 1 72) . Come abbiamo già visto , Peirce è il primo ad occuparsi logicamente e semioticamente del tema della vaghezza, anche se nei suoi manoscritti

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troviamo solo pochi accenni alla questione . I logici , egli dice (P 50) , hanno trascurato la nozione di vago , mentre io ho valutato a lungo la pregnanza dell ' argomento, giungendo a sviluppare una stechiologia, una critica e una metodeutica del concetto (si riferisce alla tripartizione metodologica già applicata all' analisi semiotica) . Affermazione che lascia interdetti gli inter­ preti, perché non si è riusciti a trovare nulla di corrispondente nell ' opera dell ' autore . Innegabilmente però al tema egli annetteva grande importanza e lo ripete altrove . La vaghezza costituisce un principio universale della filosofia (insieme alla continuità e alla generalità) e non rappresenta un "difetto nel pensare o nel conoscere" (CP 4 .344) , né un' ambiguità: "non può dunque essere eliminata dal mondo della logica più di quanto si possa fare a meno della frizione in questioni di meccanica" (CP 4 .5 1 2) . Ora , nella definizione che segue (P 5 1 ) , egli distingue il significato dei termini definito e determinato , e per quanto riguarda il segno , che è sotto tutti i rispetti oggettivamente indeterminato , differenzia il suo essere og­ gettivamente generale ("in quanto offre al proprio interprete il privilegio di estendere ulteriormente la propria determinazione") e oggettivamente vago ("in quanto affida a qualche altro segno concepibile ogni ulteriore determi­ nazione o almeno non indica l ' interprete come colui al quale spetta questo compito") . La vaghezza, scrive altrove (P 5 .505 ) "è l' analogo antitetico della generalità" , per cui esse formano in definitiva "a par" . Dobbiamo dunque rintracciare la serie infinita di caratteri intermedi tra generalità e vaghezza (P 54) . Ancora, - sto andando alla ricerca di tutte le poche citazioni che incon­ triamo nella sua opera relative al concetto di vago - in una definizione approntata per il Baldwin 's Dictionary nel 1 90 1 : VAGO . Indeterminato quanto a intensione . Una proposizione è vaga quando vi sono stati di cose possibili concernenti i quali è intrinsecamente incerto se , posti sotto l 'osservazione del parlante , li si debba riguardare come esclusi o permessi dalla proposizione stessa . Per intrinsecamente incerto non intendiamo incerto in conseguenza di uno stato di ignoranza dell ' interprete , ma a causa del fatto che gli abiti linguistici del parlante sono indeterminati , in modo che un giorno egli potrebbe considerare la proposizione come escludente quegli stati di cose , un altro come comprendente gli stessi .

5

Abbiamo già commentato parte di questo manoscritto , riportato da Claudine En­ gel-Tiercelin, nel suo C.S. Peirce et le projet d'une 'logique du vague ' , già citato nel cap . precedente . Cfr. anche , della stessa autrice , Vagueness and the Unity of

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Indefinitezza in intensione o vaghezza . Consiste nel fatto che un segno lasci in dubbio quale sia la sua interpretazione intesa, non tra due o più interpretazio­ ni , che sarebbe ambiguità, ma in riferimento ad una gran moltitudine o anche ad un continuum di possibili interpretazioni , tra cui nemmeno due differiscono senza che il dubbio si estenda alle proposizioni intermedie .

A ben vedere , la stessa semiotica di Peirce può essere considerata una "logica della vaghezza" , poiché un segno assolutamente determinato è da considerarsi un' impossibilità (5 .506) , facendo parte della sua stessa natura l ' apertura , l 'indeterminatezza del rinvio ad altro . Un segno è sempre vago - nel senso logico prima definito , "in quanto affida a qualche altro segno concepibile ogni ulteriore determinazione" - e dunque l' interpretazione cui conduce è potenzialmente infinita, mai esattamente localizzata nello sguardo di un interprete determinato . Ma torniamo a Questioni di pragmaticismo , dove l' autore sembra preci­ sare proprio il tema della vaghezza del segno , o della ' semiotica del vago ' : "ogni enunciato lascia naturalmente a chi si esprime il diritto di fornire un 'ulteriore esposizione; e pertanto , nella misura in cui è indeterminato , un segno è vago , a meno che non venga reso generale espressamente o per pattuita convenzione" (P 5 1 ) 6 • In una nota, curiosamente non riportata dalla curatrice (forse per la sua prolissità) , Peirce significativamente aggiunge che l ' indeterminatezza del segno coincide con una "latitude of interpre­ tation" che ha a che fare con l ' adempimento di uno scopo . Se due segni sono equivalenti per il fine che ci proponiamo , essi sono da considerarsi equivalenti tout court. E questo è "to be sure , rank pragmaticism" . E in CP 5 .506 aggiunge che non è neppure esatto affermare che un segno sia assolutamente indeterminato: esso è appunto sempre determinato in vista di uno scopo pratico . Pragmaticismo , realismo e semiotica del vago coincidono , dunque , ed essi costituiscono il timbro particolare che assume in questi anni la dottrina

Peirce 's Realism, in "Transactions of the Peirce Society", 28, 1992 . E, sugli stessi temi , J .E.Brock , Principal Themes in Peirce 's Logic of Vagueness , in Peirce Stud­ ies , Institute for Studies in Pragmaticism, Lubbock , l , 1979, e l' importante studio di Christiane Chauviré , Peirce et la signification . Introduction à la logique du vague , Paris , PUF, 1 995 . 6

Segue una definizione di ciò che è generale , come ciò cui non si applica il prin­ cipio del terzo escluso , e di vago come ciò cui non si applica il principio di con­ traddizione (P 52) , passaggio che ritroviamo in una lettera a James, nel quale l ' autore scrive che il ptincipio del terzo escluso "non si prende cura del limite tra due regioni" , cioè del "terreno intetmedio tra l ' asserzione positiva e la negazione positiva. I matematici lo sanno e indagano proprio questo limite" .

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peirceana . È necessario abbracciare i fondamenti del realismo scolastico , in particolare la teoria per cui esistono "oggetti vaghi reali e in special modo possibilità reali"(P 55) . In che modo ciò sia da collegarsi al pragma­ ticismo è presto detto: il pragmaticismo non si chiede infatti semplicemen­ te quali effetti produce il significato di un concetto , ma quali risoluzioni condizionali e potenziali verso l ' azione sono implicate da una qualsiasi nozione , interessando non ciò che è accaduto , ma ciò che potrebbe accade­ re . In questo senso, la possibilità è talvolta della natura del reale; inoltre , implicando uno stato intermedio tra affermazione e negazione , ha la moda­ lità del vago , del potrebbe esser così o anche altrimenti (P 56) . La realtà è dell ' ordine della significatività , dicono questi scritti, cioè della possibilità , cioè della vaghezza. Peirce stabilisce dunque un nesso strettissimo tra generalità, continuità e vaghezza , e lega entrambe al rinvio ad una totalità di interpretazioni attese e condizionali , come nella risposta pragmatica. Di nuovo , però , si impo­ ne la domanda dell' inizio: è esattamente quantificabile questa totalità? È composta da numeri , sia pure reali? Di che "moltitudine" , di che misura si tratta? Generale , vago , possibile , essendo fondati in Peirce su di un ' idea di continuità non aritmetica, vanno forse pensati attraverso riferimenti di­ versi .

Continuità . Continuità per quest' autore non significa, infatti , altro che generalità, generalità relazionale (CP 6 . 1 8 8 ) . Anzi , seguendo Paolucci7 , potremmo fare questo rapido schema per favorire la comprensione: per Peirce quel che in matematica è continuità, in logica è generalità , in meta­ fisica è possibilità, in semiotica è vaghezza , in fenomenologia è triadicità , cioè rappresentazione . Come a dire: tutti i possibili , tutti i vaghi reali che si stringono in un generai che muove all ' azione , si danno in una serie con­ tinua che non è composta dal puro agglomerato di eventi numericamente determinabili . D ' altronde , esattamente questa era la definizione che Peirce dava del "vero" continuo : "something whose possibilities of determination no multitude of individuals can exhaust" (CP 6 . 1 70) . E di seguito aggiun­ geva: "Thus , no collection of points placed upon a truly continuous line can fili the line so as to leave no room for others" . È sempre possibile , insomma, nella illimitata estensione del numero di punti aggiunti , vedere fluttuazioni, variazioni impreviste che ampliano il numero supposto , an-

7

C . Paolucci , Piegature della continuità: semiotica interpretativa e semiotica ge­ nerativa , in "Versus" , 97 , 2004 , pp. 1 1 1 - 149.

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dando a completare l a cosiddetta 'totalità' dei punti . Totalità evidentemente solo potenziale . Abbiamo così tre citazioni , elaborate in ambito diverso , che si richiamano e si completano perfettamente (le riporto tutte in lingua originale per evidenziarne meglio l ' analogia) : the meaning of a 'would be ' [or generai] [ . . ] no agglomeration of actual happenings can ever completely fìll up (EP 2:402) ; continuum is [ . . . ] something whose possibilities of determination no multi­ tude of individuals can exhaust (CP 6 . 1 70) ; vagueness refers to [ . . . ] a great multitude or even a continuum of possible interpretations no two of which differ without the doubt extending to the inter­ mediate interpretation (MS 283) . .

Come può essere stabilita allora in positivo la nozione di continuità? "Continuity is the relation of the parts o an unbroken space or time" (CP 6 . 1 68) , continuità è pura relazione e interconnessione , proprio come in­ dicava la prima citazione relativa alla corda dalla quale siamo partiti; e le parti, a loro volta , non possono essere considerate semplicemente elemen­ ti discreti che compongono un tutto , ma, leibnizianamente , "ogni parte è ancora una serie e essa stessa divisibile in serie ulteriori [ . . . ] E non vi è limite esatto tra parte e parte" (CP 3 . 1 26) . Tutte le parti di un continuum "have the same dimensionality of the who le" ( CP 4 .642) , conclude l ' autore precorrendo la teoria dei frattali . In questo senso, anche Cantar ha una visione insufficiente del continuo , perché confina la propria analisi se non proprio a punti intesi come elemen­ ti discreti , a elementi puntuali , analiticamente isolabili , come nota anche Herman Weyl . E ogni punto, essendo un termine , un in-dividuo , reinserisce elementi ultimi e discontinui nel sistema. "lt thus appears that true continu­ ity is logically absolutely repugnant to the individuai designation or even approximate individuai designation of its units" (CP 4.2 1 9) . Questo conduce ad un'ulteriore conclusione , che orienta le ricerche peirceane decisamente oltre Cantar, in una teoria che io definirei neo-ari­ stotelica (piuttosto che , come spesso è stato detto , post-cantoriana)8 • Una linea continua è una linea priva di punti , o, come voleva Aristotele , è una linea dove i punti sono mere potenzialità non espresse; anzi è una linea che "contains no points until the continuity is broken by marking the points" 8

Su questi temi mi sono soffermata più ampiamente in Continuità e variazione , cit . , parte I . Tra i molti scritti utili ad approfondire l' argomento , si possono vedere K .Parker, The Continuity of Peirce 's Thought, Nashville , Vanderbilt University Press, 1998 e il recente G. Maddalena, Metafisica per assurdo . Peirce e i problemi della epistemologia contemporanea , Rubbettino , Soveria Mannelli , 2009 .

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(CP 6 . 1 68) . "Hence a point or indivisible piace really does not exist unless there actually be something there to mark it , which , if there is , interrupts the continuity [ . . . ] In accordance with this it seems necessary to say that a continuum, where it is continuous and unbroken , contains no definite parts ; that its parts are created in the act of defining them and the precise definitian of them breaks the continuity" (ivi) . Il continuum non è un ag­ glomerato di individui , di indivisibili, o di punti . In questo senso è ovvio che , pur valutando moltissimo dal punto di vista matematico il lavoro di Cantar, e non riuscendo , di fatto , a appargli nessuna teoria tecnica di rilie­ vo , Peirce vi si oppone filosoficamente in modo deciso . La teoria cantoria­ na era proprio fondata, infatti , su di una trattazione puntuale , o atomistica , della continuità, essendo i l continuum u n insieme di individui-punti in cor­ rispondenza biunivoca con l ' insieme dei numeri reali . Ma Peirce costruisce una considerazione radicalmente antiatomistica della continuità , là dove i singoli elementi , piuttosto che essere visti come elementi puntuali e deter­ minati , vanno considerati sul modello delle gocce nel mare , che fluiscono costantemente le une nelle altre appena si cerca di separarle . Questo spiega perché Peirce insistesse , anche qui in difformità con Cantar e la matema­ tica moderna , a voler considerare insieme il tema del continuo e quello dell ' infinitesimale . Ancora di più, egli sembra optare per una definizione geometrica, piuttosto che aritmetica , della continuità: "it is impossibile to get the idea of continuity without two dimensions . An oval line is continu­ ous , because it is impossibile to pass from the inside to the outside without passing a point of the curve" (CP 6 . 1 65) . L'idea di continuità deve impli­ care una triadicità di rapporto interno (''A is r to B for C") , perché ogni diadicità rinvierebbe ad elementi di discontinuità e di dissimetria (come sono , ad esempio , l ' inizio e la fine di una linea) . Vediamo ora un ulteriore esempio dell'intreccio dei temi concernenti il rapporto tra continuità, generalità e vaghezza in Peirce , tratti da un passag­ gio degno di nota: A drop of ink has fallen upon the paper and I bave walled it round. Now every point of the area within the walls is either black or white; and no point is both black and white . That is plain . The black is , however, all in one spot or blot; it is within bounds . There is a line of demarcation between the black and the white . Now I ask about the points of this line , are they black or white? (CP

4 . 1 27) .

La linea che segna il limite tra il bianco e il nero può dirsi bianca o nera? Forse , più propriamente , essa può dirsi sia bianca, sia nera , o , ancora, né bianca , né nera. Peirce conclude che la risposta maggiormente rispondente

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al vero è quella che tiene in considerazione tutte e due l e ipotesi , senza escluderne nessuna . Egli ci dice , dunque , che nell' area recintata esistono dei punti che non sono né macchiati , né non macchiati; anzi , a ben guarda­ re , in quanto punti presi singolarmente , essi non sono colorati affatto . Ad essi non si attaglia il principio di non contraddizione , né quello del terzo escluso; la loro qualità logica è indecidibile , cioè essi non sono entità de­ terminate nel senso logico della parola . "The logical conclusion from these three propositions is that the points of the boundary do not exist" . Dobbia­ mo piuttosto riferirei alla "neighboring part" che fa da alone al punto , alla sua connessione con le altre parti nella continuità della superficie , allora iniziamo a poter definire e descrivere ciò che vediamo . Non si tratterà più di parlare dei punti sul confine , ma delle parti vicine , che si approssimano ad esso , senza identificarvisi mai completamente . Il punto individuale sfu­ ma nella parte , dunque , e la parte in quello che Peirce , non trovando altra parola per riferirvisi , denomina come ' l ' intorno ' , l' immediate neighborho­ od della soglia di confine tra macchiato e non-macchiato . "One begins to see that the phrase ' immediate neighborhood' which at first blush strikes one as almost a contradiction in terms , is , after all , a very happy one" (ivi) . Se la continuità è un effetto della generalità, o della connessione rela­ zionale tra eventi, il suo carattere precipuo è l 'indeterminatezza, cioè , in termini logici , la vaghezza - la mera 'prossimità' alla misura precisa, che significa inevitabilmente approssimazione . Essa ha come carattere l' inde­ cidibilità tra il sì e il no , cioè l ' adesione ad un valore limite tra il vero e il falso . Questo limite , insiste Peirce altrove , è stato considerato seriamente solo dai matematici , che l ' hanno trattato "come una cava di concetti poten­ tissimi": si tratta di un limite tra la regione dell' asserzione e quella della negazione , tra il vero e il falso , tra il macchiato e il non-macchiato , limite infinitesimale e non determinabile con le misure usuali , limite sbordato e sfumato , che rappresenta il vero cemento della nozione di continuo peirce­ ano . Peirce fa qui giocare la sua arte "pendolare" 9 , che vive in equilibrio , tra "il dentro" e il "fuori" (CP 4 . 1 1 6 , 7 .66) . Scrive Paolucci, riprendendo un ' argomentazione di Petitot , che la stra­ ordinaria potenza della nozione di infinitesimo riposa sul minuscolo in­ terstizio di frontiera tra O e non O . "S 'immagini il processo dinamico di una quantità che si annulla: dx rappresenta l ' istante in cui x si annulla , 9

Cfr. per questa osservazione F. Zalamea , El borde y el péndulo. Fronteras y cono­ cimiento en la obra de Peirce , in "Revista De Extensi6n Cultural De La Univer­ sidad Nacional De Colombia" , 2005 . Si ricordi che il nostro autore si guadagnava da vivere lavorando in una società geodetica specializzata in misurazioni della superficie terrestre .

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non essendo più un numero non nullo e non essendo ancora O . Diremmo noi: si immagini il processo di passaggio da una zona macchiata a una non macchiata: dx rappresenta il momento in cui la differenza si annulla , non esistendo più una zona macchiata e non esistendo ancora una zona non macchiata. L 'infinitesimo popola dunque questa regione di confine, non

essendo 'p iù ' e non essendo 'ancora ', ma essendo essenzialmente 'tra "'10• Lo spazio di questo tra (che è poi proprio l' intorno di Peirce) è lo spazio in cui si dà la fluidità della semiosi , la continuità della conoscenza, la va­ ghezza del riferimento intensionale . Peirce fa appello al proposito ad una nuova impostazione logica, che egli chiama "triadica" , che dovrebbe lavo­ rare proprio su questo valore-limite e sulla nozione di indecidibilità , e che si installa in quella regione di confine che non è una frontiera, una sbarra frapposta tra un territorio e l ' altro , ma una sfumatura, un valico collinare , o una piega, all 'interno di un continuo . Ma, più ancora, questa logica è infine una filosofia potente , di stampo semiotico , che opera un salto nel qualitativo , uscendo dal quantitativo della considerazione metrica. Un qualitativo - e questa è la sfida scientifica che Peirce ci propone - che potrebbe trovare una trattazione matematica nuova. Potrei azzardare l ' ipotesi secondo la quale , in questa nuova visione peirce­ ana, si danno tre ambiti di ricerca, che corrispondono probabilmente a tre differenti oggetti di studio : il discreto , il continuo quantitativo e il continuo qualitativo e vago. Dico questo perché Peirce fu sempre convinto che si dovesse render conto della continuità del tempo , della percezione , della conoscenza, dell' azione , in un modo non solo filosofico e fenomenologico, ma anche tecnico e mate­ matico . Le misure precise dello spazio e del tempo , le fantasie relative alla possibilità di distinguere i diversi ' stati mentali' , o di sminuzzare gli stadi di­ stinti della percezione sensoriale , hanno sempre avuto una storia tormentata in scienza e in filosofia. Ma ciò è forse accaduto proprio perché ogni tentativo di sovrapporre un' analisi discreta a qualcosa che è tutt' altro che distinto ha evi­ denziato la necessità di dotarsi di altri strumenti, più maneggevoli ed elastici.

Gioco linguistico. Neppure il linguaggio , il nostro strumento principe di accesso al mondo , ci dice Wittgenstein, lavora secondo designazioni rigi­ de . Veniamo allora ai giochi linguistici di cui ci parla quest' autore .

10

C . Paolucci , op .cit., p . 128 .

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È vero che posso imporre rigidi confini al concetto 'numero ' , posso cioè usare la parola 'numero ' per designare un concetto rigidamente delimitato ; ma posso anche usarla in modo che l ' estensione del concetto non sia racchiusa da alcun confine . Proprio così usiamo la parola ' gioco ' . Infatti in che modo si delimita il concetto di gioco? Che cosa è ancora un gioco e cosa non lo è più? Puoi indicarne i confini? No . Puoi tracciarne qualcuno , perché non ce ne sono di già tracciati (RF 68) . Wittgenstein ci fa notare che siamo noi a stabilire confini , perché lo sfondo del parlare - come del pensare - è continuo e sfumato . La vaghez­ za è dovuta dunque ad una qualità intrinseca del significato razionale e non allo stato della nostra conoscenza. Sono già state scritte in più luoghi pagine molto belle sulla critica wittgensteiniana alla determinatezza del senso (RF 65- 108) , che è la vera 'rivoluzione ' rispetto alle tesi del Trac­ tatus , e non potrei certo aggiungere qui molto di nuovo . È chiara l' oppo­ sizione agli insegnamenti di Frege , secondo il quale ogni concetto vive in un' area conchiusa, delineata da una nota caratteristica che permette di determinare la classe degli oggetti che ricadono ali ' interno della sua de­ finizione specifica. È proprio su queste nozioni , insomma, che si gioca la svolta wittgensteiniana e il suo allontanamento dai campi elisi della for­ malizzazione logica. Quando si vuole definire la nozione di desiderio , ad esempio , "(ossia tracciare un confine netto) , tu sei libero di tracciare il confine come vuoi; e questo confine non coinciderà mai interamente con l ' uso effettivo , poiché quest'uso non ha un confine netto" (BB 30) . Eppure , questa non è ignoranza . Non conosciamo i confini perché non sono traccia­ ti - insiste nelle Ricerche, § 69 - "Come si è detto , possiamo , per uno sco­ po particolare , tracciare un confine . Ma con ciò solo rendiamo il concetto utilizzabile? Niente affatto ! Tranne che per questo scopo particolare . Allo stesso modo , per rendere utilizzabile la misura di lunghezza 'un passo ' non è affatto necessario dare la definizione : l passo=75 cm . E se tu vuoi dire ' Ma prima non era affatto una misura esatta' , io ti rispondo: bene , allora era una misura inesatta - benché tu mi sia ancora debitore della definizione di esattezza" (RF 69) . Diciamo che il tennis è un gioco fatto di regole , ma esiste una regola che fissi quanto in alto e quanto forte va tirata la palla? E come definire univocamente il concetto di gioco? Esistono giochi di grup­ po , giochi solitari, giochi senza regole: la nozione di gioco è "priva di limiti (uncircumscribed)" (§ 70) è un concetto "with blurred edges" (dai confini macchiati , sbavati) : ecco far capolino l"'intorno" di Peirce ! " ' Ma un con­ cetto sfumato è davvero un concetto ? ' . Una fotografia sfocata è davvero il ritratto di una persona? [ . . . ] Spesso non è proprio l 'immagine sfocata ciò di cui abbiamo bisogno?" (§ 7 1 ) .

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Se dico a qualcuno: ' fermati pressapoco qui ! ' - non può darsi che questa spiegazione funzioni perfettamente? E non può anche darsi che ogni altra spie­ gazione fallisca? 'Ma la spiegazione non è inesatta? ' Certo che lo è; ma perché non si dovrebbe chiamarla ' inesatta ' ? Ma basta che cerchiamo di capire che cosa significhi ' inesatto ' ! Perché non significa ' inutilizzabile ' (RF 88).

Dunque ' inesatto' non è un rimprovero ed 'esatto' una lode , poiché tutto dipende da ciò che chiamiamo "lo scopo" (§ 88) . La conclusione è quella che già si tracciava nella Grammatica filosofica: "Se consideriamo l'uso effettivo di una parola, vediamo qualcosa di fluttuante" (GF 3 6) . Proposi­ zione ripresa verso la fine della vita, nelle osservazioni che sono state rac­ colte col titolo di Ultimi scritti , là dove l' autore scrive che noi giochiamo linguisticamente con giochi "elastici e addirittura flessibili" . "L' incertezza varia da caso a caso e corrisponde ad un' oscillazione [pendolare ? NdA] del concetto . Ma questo è il nostro gioco linguistico - noi lo giochiamo con uno strumento elastico"1 1 • Ciò non significa , però , che tali giochi possano essere deformati a piace­ re e senza che oppongano resistenza , che "siano cioè inutilizzabili"1 2 • Sono vaghi , ma rispondono ad uno scopo , ad un uso . Analogamente , nel definire la continuità, Peirce amava collegarla alla nozione di fluidità, "the merging of part into part" (CP 1 . 1 64) . O anche all' ondeggiamento ("wavering") , all ' oscillazione - esattamente il termine usato da Wittgenstein - tra un più e un meno . Di fronte alla somma degli angoli di un triangolo possiamo non dire che essa è esattamente uguale a due angoli retti , ma solo che è uguale a quella quantità , più o meno qualche quantità che è eccessivamente piccola in riferimento a tutti i triangoli che potremmo misurare . La filosofia del continuo non taglia le sue analisi "con l ' accetta" (EP 2 : 1 -2); essa, anche nella sua forma meno rigorosa, non può sopportare alcun dualismo . "Vi è un famoso detto di Parmenide: che l'essere è e il non essere non è . Ciò sembra plausibile; tuttavia, il sinechismo lo nega recisamente , dichiarando che l 'essere è una questione di grado , di più o meno , in modo che esso insensibilmente va a fondersi con il nulla" (ivi) . Ma veniamo ai paragrafi delle Ricerche in cui , sostenuta dalle acquisi­ zioni relative alla vagueness concettuale , si fa più aspra la critica alle po­ sizioni del Tractatus , e dunque alla logica formale . "Con queste riflessioni siamo arrivati al punto in cui si pone il problema: In che senso la logica è qualcosa di sublime?" (RF 89) . In che senso diciamo che l ' ordine che essa 11 12

L .Wittgenstein , Ultimi scritti sulla filosofia della psicologia , a c . di A .G . Gargani , Roma-Bmi, Laterza , 1 998 , § 243 . lvi , p. 1 8 1 .

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manifesta è "di cristallo purissimo" (§ 97)? Ogni proposizione , anche la più vaga, è in ordine così com' è , ed è un abbaglio della ragione pensare di dover costruire un linguaggio ideale per guadagnare precisione e compren­ sione (§ 98) . "D ' altra parte sembra chiaro questo: che , dove c ' è senso , là deve esserci ordine perfetto - L' ordine perfetto deve dunque essere presen­ te anche nella proposizione più vaga" (ivi) . "La proposizione , la parola , di cui tratta la logica , dev'essere qualcosa di puro e di nettamente profilato" (§ 105 ) . Ma l' aspirazione a raggiungere un ideale assoluto di definitezza logica, di "purezza cristallina" , è un'esigenza in contrasto con la pratica della nostra esperienza quotidiana. Siamo finiti su una "lastra di ghiaccio" e la sua superficie liscia è pericolosa e non ci permette di procedere sicuri . Per camminare abbiamo bisogno dell' attrito . "Torniamo sul terreno scabro ! " (§ 1 07) . Si ricordi quanto scriveva Peirce a proposito del vago: che la logica non poteva fare a meno di considerarne attentamente la natura , tanto quanto la meccanica non poteva prescindere da considerazioni riguardo la frizione (CP 4 .5 1 2) . Direi che il contesto pro­ posizionale si presenta assolutamente identico . M a non solo questo: Peirce e Wittgenstein intrattengono un 'identica idea del purpose , dello scopo . ll significato può risiedere in un luogo vago , indeterminato e non esattamente individuabile - quel luogo ' diabolico ' cui faceva riferimento Wittgenstein nei Quaderni - ma esso si definisce in ogni senso secondo le esigenze della pratica . Vago non è sinonimo di inutilizza­ bile , scrive l ' autore austriaco , e anzi, come dice Peirce , noi costantemente operiamo con "vaghi reali" . Quando diciamo , sicuri di dire qualcosa di sensato : ' fermati più o meno lì' ; o ' la casa dovrebbe essere al numero 50 ' (esempio che troviamo in Peirce [P 56] ) , cosa facciamo se non maneggiare pragmaticamente - "realmente" , secondo l'espressione peirceana - delle nozioni vaghe e imprecise? Questi riferimenti non ci immobilizzano , anzi ci orientano verso azioni precise , massimamente determinate e efficaci . È questo maneggio pragmatico a determinare l' indeterminatezza logica, a rendere misurata la smisurata latitudine interpretativa, in una parola, a mi­ tigare l ' ermeneutica della deriva interpretativa con un richiamo alla prassi operativa che dimostra di aver successo . E non è diverso , ammoniscono i due autori , quando usiamo concetti come tavolo , linguaggio , realtà: esse sono nozioni altrettanto vaghe , che risultano precise solo nei loro contesti d'uso , nell ' attrito con la pratica, nel riferimento allo scopo .

Abito e regola . Torniamo allora a quanto detto all ' inizio di questo capito­ lo e sostenuto nel corso di quello immediatamente precedente: se parliamo

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di vago, non indeboliamo il nostro ordine di riferimento concettuale , poiché l'evidenza e la certezza si giocano nell' ambito dell' uso della nozione , del suo impiego pratico in circostanze pragmaticamente significative . Quando Peirce ci dice che il vago attiene al generale, cioè all ' appropriatezza seman­ tica, ad esempio nella proposizione che dice "il diamante è duro" , ci invita a tenere insieme le due nozioni : la vaghezza del riferimento intensionale e la determinatezza dell'operazione pragmatica che conduce a saper come fare , in moltissimi casi diversi , se si deve provare la resistenza del diamante. Qui però si gioca una differenza essenziale tra il 'pragmaticismo ' di Peirce e il ' non pragmatismo' di Wittgenstein. Peirce scrive che l' atto prag­ matico agisce secondo una discontinuità effettuale che ha però , implicita nel proprio agire , la continuità vaga dei significati raccolti nel "would be" collegato al significato generale . Significato che rimane indeterminabile , eppure operante come un alone , come "un intorno" : intorno ad ogni gesto avviato nella pratica. Per questo Peirce può dire che l' azione è solo l ' at­ to terminale della comprensione , che è sempre guidata da un abito logico vago , ma generale e ' reale' . Il significato non coincide con l'uso pratico e immediato , come ancora crede Wittgenstein ("meaning is the use" , se­ condo la famosa definizione , forse influenzata da James) ; il significato è collegato alla continuità vaga e generale degli abiti di risposta che sarem­ mo disposti a mettere in opera in presenza di un dato evento (ad esempio quando decidiamo di trasferire la nozione di durezza applicata al diamante a infiniti altri casi di durezza , molto più ampi di quelli cui riusciamo a pen­ sare , nessuna moltitudine dei quali potrebbe esaurire la nozione di duro) . Credo che la differenza tra i due pensatori possa essere statuita nel modo più chiaro ascoltando le parole che scrive Peirce in una recensione al testo di Lady Welby "What is meaning?": Una parola ha per noi significato se siamo in grado di farne uso per comu­ nicare ad altri la nostra conoscenza e per raggiungere quella conoscenza che questi altri cercano di comunicare a noi . Questo è il livello più elementare in cui si può intendere la parola ' significato ' . Più ampiamente , il significato di una parola è la somma totale di tutte le predizioni condizionali di cui la persona che ne fa uso intende rendersi responsabile , o intende negare . Questa intenzione conscia , o quasi-conscia, nell 'usare la parola è il secondo grado di significato . Ma oltre alle conseguenze cui coscientemente la persona che accetta una parola soggiace , vi è un vasto oceano di conseguenze imprevedibili , che l ' accettazio­ ne di una parola è destinata a produrre , non solo conseguenze nel campo del conoscere , ma forse addirittura nel campo del sociale , a livello rivoluzionario . Non si può dire che potere vi è in una parola o in una frase di cambiare il vol­ to della terra; e la somma di queste conseguenze costituisce il terzo grado di chiarezza (CP 8 . 1 67) .

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Dunque , ad un livello decisamente solo iniziale , la parola ' significato ' può essere equiparata all ' uso , mentre il suo senso più elevato sarebbe quello che spiega, e dispiega, tutte le possibili conseguenze concepibili , prevedibili e imprevedibili , che il suo utilizzo è destinato a produrre . Operazione che ovviamente resta vaga e ipotetica , del tutto condiziona­ le . Wittgenstein non si è mai spinto a dire questo , a ben vedere , e forse Peirce avrebbe detto che egli era fermo al primo grado di chiarezza della nozione di ' significato ' 13 . Il significato 'pragmaticista' va definito conclusivamente in questo modo , secondo l ' autore americano : "Di conseguenza, qualsiasi abito , o sta­ to perdurante , che consiste nel fatto che il soggetto di esso in certe condi­ zioni si comporterebbe in un certo modo , è reale , che una qualsiasi persona lo pensi o no ; e deve essere amme sso come un Abito Reale , anche se quelle condizioni non arriveranno mai ad essere realizzate" (EP 2 :457) . Dunque , conclude Peirce , riferendosi al proprio iniziale pragmatismo , espresso in Come rendere chiare le proprie idee, del ' 7 8 , "lo scopo di quel saggio , i cui suggerimenti possono essere utili al lettore anche al giorno d'oggi , era di mostrare che il vero significato di un 'espressione o di una parola pura­ mente teoretica, benché non stia sicuramente in una qualche possibile ap­ plicazione pratica, tuttavia risiede precisamente nella concepibilità di tali applicazioni, del tutto a prescindere dalla loro praticabilità" (ivi) . Ma legare il significato al ' sarebbe ' , allo svilupparsi di un abito reale , significa tornare ad una forma, pur aggiornata semioticamente , di realismo scolastico . Conseguentemente , i l pragmaticista non fa consistere il summum bonum nell' azione, bensì in un processo di evoluzione mediante il quale l ' esistente giunge sempre di più ad incarnare quei generali che sono stati appena definiti de­ stinati, che è poi ciò che intendiamo quando li chiamiamo ragionevoli (P 39) .

Realtà equivale a generalità e ragionevolezza (pubblicamente condivisa) : vale a dire , quando ci riferiamo ad un concetto , ci riferiamo alla "regolarità riscontrabile negli eventi futuri in relazione ad una certa cosa" (CP 8 . 1 2) . Se indaghiamo ali' interno delle Ricerche .filosofiche, cercando di scanda­ gliare le molte asserzioni dedicate da Wittgenstein al complesso tema del ' se­ guire una regola' , incontriamo un pensiero che si approssima enormemente a 13

S i legga però RF 90 : " È come s e dovessimo guardare attraverso I fenomeni: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma, si potrebbe dire , alle 'possibili­ tà ' dei fenomeni . Richiamiamo alla mente , cioè , il tipo di enunciati che facciamo intorno ai fenomeni" .

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quello di intonazione pragmaticista sviluppato da Peirce . Seguire una regola non è un atto di decisione soggettiva e puramente mentale , per l' autore . Piut­ tosto , coincide con una reazione , o, meglio ancora, con un "uso stabile , un' a­ bitudine" (RF 1 98) . La Terzità è un abito di risposta, scriveva Peirce . Ed è un abito non mio , né tuo, ma 'nostro ' , che deve essere confermato nel long run: questo è il suo carattere pubblico . Wittgenstein perviene alle stesse conclu­ sioni: "Ciò che chiamiamo seguire una regola è forse qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo , una sola volta nella sua vita? [ . . . ] Seguire una regola, fare una comunicazione , dare un ordine , giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi , istituzioni)" (RF 1 99) . La regola è qualcosa che si ripete , che si instaura, che si cristallizza, che diviene un 'istituzione riconosciuta e comune a tutti all 'interno di una certa forma di vita. Si segue una regola solo in modo pubblico , e si è in accordo con essa se la pratica futura della comu­ nità la ratificherà (non se si procede secondo le sue applicazioni già date) . Vale a dire , come nota anche Kripke , la normatività risiede in un principio totalmente condizionale: nel dovrei , non nel dovrò . Così si spiega anche il rinvio fondante alla comunità, che è fortemente accentuato sia nell 'uno che nell ' altro autore: non si concorda con la comunità che dice che 3+2 fa 5 , perché 'realmente' 3+2 fa 5 , ma perché partecipiamo ad uno stesso gioco linguistico che funziona se giocato secondo quei parametri. La verità nelle Ricerche non è più offerta come adeguazione tra fatti e proposizioni, ma solo come indicazione del possibile uso di un concetto utile . Questo 'fatto' è un fatto di linguaggio , non un fatto reale; ed è una concordanza non nelle opinioni, ma nella forma di vita. ' Così , dunque , tu dici che è la concordanza tra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso ! ' - Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano . E questa non è una concordanza delle opinioni , ma della forma di vita (RF 24 1 ) .

Unico criterio del gioco linguistico è l ' agreement of reactions14, un 'e­ spressione che potrebbe essere uscita dalla penna di Peirce . La conclusione è la seguente: "Per questo ' seguire la regola' è una prassi . E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola privatim : altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola" (RF 202) , che era preparata dalla proposizione precedente: "con ciò facciamo vedere che esiste un modo di concepire una regola che non è un' interpretazione, ma che si manifesta, per ogni singolo 14

L .Wittgestein, Notes far Lectures o n Private Experience and Se11Se Data , in Phil­ osophical Occasions (1 912-1951 ) , Indianapolis , Hackett , 1 993 , p. 1 9 1 .

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caso d ' applicazione , in ciò che chiamiamo ' seguire la regola' e ' contravve­ nire ad essa"' (RF 20 1 ) .

Esempio e paradigma . L' inclinazione 'pragmatista' di Wittgenstein, di cui già abbiamo scorto varie tracce , è testimoniata in molti passaggi sia delle Ricerche, sia del Libro blu (per non parlare degli ultimi scritti) . Uni­ tamente ad essa, ritorna una esplicita discussione sul segno . Il significato non è più equiparabile , secondo l ' autore , né ad una res co­ gitans (ad uno stato di coscienza) , né ad una res extensa che si aggiunga dal di fuori ad un' altra res (la cosa- significato alla cosa-segno) , ma è piuttosto una funzione mobile e relazionale (connettiva) , "è il luogo che una parola occupa nella grammatica" (GF 25) , il suo "uso nel sistema del linguaggio" (ivi) , uso che è però , come ci dice GF 3 6 , "fluttuante" . "L' uso della parola nella prassi è il suo significato" (BB 94) . Ma questo implica una serie di conseguenze che ricadono sulla stessa interpretazione del segno come res : "Vorrei dire : solo dinamicamente , non staticamente una cosa è un segno" (GF 1 7 ) . Eccoci di nuovo vicini a quell'interpretazione del segno come "funzione relazionale di rimando" che Peirce per primo ha introdotto nel pensiero occidentale . Wittgenstein detta nel semestre del ' 3 3 - ' 34 alla sua classe quello che poi verrà ricordato , dal colore della copertina del quaderno utilizzato , Libro blu , e che è , come molti altri testi di questo periodo , preparatorio alla prima parte delle Ricerche . Esso risulta , a mio modo di vedere , uno dei testi più completi dedicati dall ' autore al tema del segno; anzi , vorrei dire che se si cerca una semiotica wittgensteiniana, è qui che se ne reperiscono le tracce più evidenti . È qui che compare , anche , strutturata in modo chiaro per la prima volta, la nozione di gioco linguistico . Se mi chiedete che cosa sono i segni , vi darò vari casi in serie di operazioni tramite segni , quelle operazioni , scrive l ' autore , che voglio chiamare giochi linguistici . Essi sono "modi d'usare segni , modi più semplici di quelli nei quali noi usiamo i segni del nostro complicatissimo linguaggio quotidiano [ . . . ] Quando noi consideriamo tali forme di linguaggio semplici , si dissolve la nebbia mentale che sembra avvolgere il nostro uso comune del linguaggio . Noi vediamo attività , re­ azioni , che sono nette e trasparenti" (BB 26) . L' autore insiste soprattut­ to sul fatto che si tratta di avviare un' analisi di casi diversi accomunati unicamente da "somiglianze di famiglia" . Ciò che contrasta con quest' ap­ proccio , fondato sulla mera descrizione di casi particolari d' uso di forme linguistiche primitive , "è il nostro desidero di generalità" , cioè la tendenza

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a cercare qualcosa di comune a tutte le entità che designiamo con un unico termine generale . Si tratta invece di reperire "una complessa rete di affini­ tà" non transitive (RF 66) La rete di affinità è analoga alla corda dalle molte fibre dalla quale siamo partiti: si tratta di una continuità vaga in cui il significato è posto costante­ mente in esercizio e assume via via pasture diverse , come se si trattasse di un corpo che si modella con l'uso e l ' abitudine . Dunque , come sarà per Peirce , una parola è là dove agisce , dove funziona come segno , dove adempie una funzione . " ' Capire una parola' è smisuratamente molteplice"(GF 452) . Nella Grammatica filosofica l ' autore impostava in questo modo il pro­ blema: come accade che chiamiamo certe cose ' giochi ' , certe altre no ? Come lavoriamo a delimitare que sto concetto e , poi, lo delimitiamo dav­ vero? Noi pensiamo a svariati esempi di gioco: li possiamo denominare , enumerare , descrivere , possiamo ipotizzarne di diversi sulla base di so­ miglianze e differenze , ma restiamo comunque nel campo di una pluralità identificata solo dall'"analogia d'uso" (BB 35) , dalle " sfaccettature dell'u­ so . Ma è proprio la connessione di queste sfaccettature , la loro affinità a produrre , qui un concetto" (GF 36) . Prendiamo ad esempio il nome 'pian­ ta' : lo posso forse , in certe situazioni , impiegare in modo inequivocabile , ma lo sforzo di delimitarne l ' uso cadrebbe nel vuoto , perché potrei dare moltissimi esempi di specie "equivoche" (già Leibniz l' aveva perfettamen­ te intuito) o , come dice qui il nostro autore , di "casi limite" . Come abbia­ mo imparato a capire la parola 'pianta' ? Certo , abbiamo assimilato una definizione del concetto - una definizione che ha per altro valore solo in botanica -, ma "è chiaro che il significato della parola l ' abbiamo imparato mediante esempi . E se lasciamo perdere le disposizioni ipotetiche , allora questi esempi stanno soltanto per se stessi" (GF 74) . Mostrano sé , avrebbe detto l ' autore del Tractatus . Ecco che fa qui la sua comparsa la nozione di esempio che a poco a poco diverrà centrale nell ' ipotesi teoretica dell ' autore . "Il luogo grammaticale della parola ' gioco ' , 'regola' , ecc . si dà per mezzo di esempi , così come , poniamo , il luogo di un abboccamento si dà dicendo che esso avverrà pres­ so quest' albero così e così" (GF 74) . Si pensa al significato come a qualco­ sa che ci viene in mente in presenza della parola. "Ma quello che mi viene in mente è un esempio , un caso d' applicazione della parola . E a rigore il venire in mente non consiste nel fatto che ogni volta che pronuncio o odo la parola è presente una determinata immagine , ma nel fatto che quando mi chiedono il significato della parola, mi passano per la testa applicazioni della parola" (GF 75) . Non ci interessa, non ci è di nessun uso , pervenire dunque ad un 'essenza, al puro concetto depurato da ogni sedimento em-

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pirico . E quando diciamo poi che sappiamo cosa significa 'pianta' cosa intendiamo? Forse che siamo pronti a dirlo? (GF 74) . Potremmo sintetizzare prospettando que st 'interpretazione : se il signi­ ficato di una parola è il suo uso nel linguaggio (RF 43) , il significato , più propriamente ancora, si colloca là dove trovo un esempio della sua appli­ cazione . Il significato è un exemplum (nel senso latino del termine15) , un paradigma . Ma un paradigma che non raccoglie in sé molteplicità disperse di senso, un paradigma che "sta solo per se stesso" , che è misura di se ste s­ so . Questo punto è chiarito nel modo migliore nelle Ricerche .filosofiche : I nostri chiari e semplici giochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, - non sono , per così dire , prime approssimazioni nelle quali non si tiene conto dell ' attrito e della resistenza dell ' aria. I giochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luc e , attraverso somiglianze e dissomiglianze , sullo stato del nostro linguaggio (RF 1 30) . Soltanto così , infatti , possiamo evitare l' illegittimità o la vacuità nelle nostre asserzioni : prendendo il modello ( Urbild) per ciò che è : termine di paragone , - si potrebbe dire per un regolo - e non idea preconcetta , cui la realtà debba corrispondere . (ll dogmatismo in cui si cade così facilmente facendo filosofia) (RF 1 3 1 ) .

Cerchiamo di comprendere bene la funzione di que sto exemplum , o ter­ mine di paragone . Per farlo accostiamo alle ultime citazioni le parole di un manoscritto del ' 34- ' 3 5 16: "Dobbiamo mettere in chiaro che i nostri esempi non sono preparatori all ' analisi del reale significato dell'espressione tal dei tali [ . . . ] ma produrli realizza quell' analisi" . L' esempio non si costituisce dunque come modello ideale cui conformare l ' evenienza dei casi singoli e particolari . Esso rimane un accadimento concreto e singolare , un esempio raccordato ad altri esempi grazie ad una struttura descrittiva ancorata alla contingenza del suo occasionarsi qui e ora: non si configura , cioè , come forma ideale , normativa , universale di riferimento , la quale , una volta de­ lineata con precisione , aiuti a riconoscere e collegare gli eventi singoli che le si confanno . È un puro regolo applicato al darsi dell 'esperienza, che la misura secondo l ' applicazione che si decide di fare17; è uno schema - come

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Campione , copia, esemplare , m a anche puro schema , tipo, prototipo , modello , modo (esemplare) , e anche consuetudine , abito . M S 148 , citato in D . Stem , Wìttgenstein on Mind and Language, Oxford, Oxford University Press , 1 995 , p . 2 1 . I l punto è prop1io quello relativo all' applicazione del modello , come Wittgenstein spiega bene nelle RF, facendo rife1imento al metro-campione di Parigi , che non

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si legge nelle Note a Frazer - che troviamo ripetuto e modificato nelle sue trascrizioni; è un modello, un Bild, che si applica alla ricerca del simile (dell' analogon) , non del corrispondente (del tauton) . Si ricordi: l'imma­ gine timbra letteralmente la realtà , lascia il suo "sigillo" sul corpo dell'e­ sistente , divenendo così suo prototipo , Urbild (GF 1 3 1 ) . Quando "vedo connessioni" , uso l ' immagine o l'e sempio come un regolo che misura e insieme produce ciò cui si applica; non metto a confronto l ' idea , portatrice di un 'essenza universale , e la cosa concreta , confinata nella sua evanescen­ za accidentale . Wittgenstein sembra così ritornare a suo modo sulla disputa relativa agli universali: non si passa dal generale al particolare , e neppure dal partico­ lare al generale , si transita dal caso-originario18 alla serie dei casi affini , secondo una legge di continuità che contempla formazioni e trasformazioni incessanti , incatenate strettamente l ' una all ' altra. Si danno esempi e si vuole che vangano compresi in un certo senso . - Ma con questa espressione non intendo: in questi esempi egli deve vedere la comu­ nanza che io - per una qualche ragione - non ho potuto esprimere , ma: deve impiegare questi esempi in modo determinato . Qui l'esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione , - in mancanza di un metodo migliore (RF 7 1 ) .

Non metto insieme esempi per arrivare alla definizione concettuale , alla

regola , insomma, ma l'esempio e la sua occasione pratica di impiego se­ gna , come un regolo, la comprensione "perspicua" , componendo un ' archi­ tettura fatta di connessioni , membri intermedi , analogie che si sviluppano .

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può essere a sua volta mismato , ma svolge uua certa funzione secondo l ' applica­ bilità che abbiamo dete1minato . "È uu paradigma del nostro gioco , qualcosa con cui facciamo confronti. E constatare ciò può voler dire fare una constatazione im­ portante ; ma tuttavia è uua constatazione che riguarda il nostro gioco linguistico - il nostro modo di rappresentazione" (RF 50) . O ancora, conune ntando Spengler: "Ma un modello deve pm essere offerto come tale , come ciò che caratterizza l 'intera indagine , ne dete1mina la fmma . Esso è dunque in posizione dominante e pos siede validità generale in quanto determina la forma dell ' indagine , non in quanto tutto ciò che vale soltanto per esso venga asserito di tutti gli oggetti di cui l 'indagine si occupa" (PD 40) . L' Ur, che designa l' originarietà nei termini del lessico goethiano , come Urbild o Urphiinomen , mi sembra non stia ad indicare il modello primo e superiore da cui derivare gli altri , ma solo il caso scelto qui e ora (per primo) , in base al quale proiettare , configmare l 'inunagine di tutti gli altri . Su questi aspetti mi permetto ancora di 1imandare al mio Continuità e variazione, cit . , dove ho avviato un con­ fronto tra Wittgenstein e Goethe .

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Affidare all 'interpretazione il valore normativa della regola è stato fare un buco nell' acqua [ . . . ] Ma che cosa significa che esiste un modo non interpre­ tativo di seguire una regola , il quale si manifesta nell 'essere le concrete appli­ cazioni della regola (in determinate circostanze) corrette o scorrette? Verosi­ milmente questo : che un ' applicazione della regola in una nuova circostanza è posta come paradigma di correttezza per le ulteriori applicazioni della regola alla stessa circostanza . In altri termini , l' applicazione in questione è definita come l 'applicazione paradigmatica della regola in tale circostanza, rispetto alla quale le ulteriori applicazioni della regola in tale circostanza risultano es­ sere corrette o scorrette 1 9 .

Possiamo aderire a questa spiegazione offerta d a Voltolin, che è perfetta­ mente in sintonia con quanto esprime Peirce nella sua distinzione di token e type2o . Essa ci conferma in una precisa linea interpretativa che riporta ad alcune tesi del Tractatus: che il rapporto tra regola ed applicazioni sia interno . Di più: che si tratti di una relazione interna mostrabile (nella prassi) , ma non dimostrabile (GF 6 1 ) . Di qualcosa che appartiene a ciò che si può fare , non dire - e il mostrare è evidentemente un modo del fare . Se non ci fossero le applicazioni non ci sarebbe neppure la regola , e la regola è della stessa natura delle sue applicazioni , è un' applicazione elevata a modello (il modello della A che è sempre 'mostrabile ' come una particolare a) . Ha natura funzionale , pragmatica, potremmo aggiungere , non sostanziale . La difficoltà sta tutta in questa assunzione: è solo nell' uso che una espressione

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A .Voltolin, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, Roma-B ali , Laterza , 1 998 , p .86. Mi rife1isco a questa distinzione token-type , perché essa è centrale nella semiotica peirceana ed è probabile che Ramsey ne avesse parlato a Wittgenstein, dato che vi è un accenno in tal senso nella recensione del Tractatus che l ' autore inglese scrisse su "Mind" . Peirce la definisce così: "Ogni legisegno , o type , significa in virtù di m1 caso (instance) della sua applicazione , che può esser chiamato una sua replica (token) . Così la parola ' e ' usualmente 1icone da 10 a 15 volte in una pagina . In tutte queste occonenze essa è la stessa parola, lo stesso legisegno . Ogni singolo esempio di essa è una Replica" (CP 2 .246) . Vi è quindi un legame Regola/Replica in cui un legisegno mostra di avere un' i­ dentità definita , ma usualmente anm1ette uua grande varietà di appa1izioni. n type vive dunque nei suoi tokens , è la invariante variazione delle loro appa1izioni (la A che vedo in tutte le ' a ' , ma che posso esp1imere sempre e solo come una ' a ' par1icolar·e ; m a anche l a formula matematica che , pur essendo uua particolar·e 'piccola fanna' , è elevata a tipo generale , svolge una funzione uuiversalizzante) . È duuque , proprio come diceva Goethe , un fatto espresso come legge , un elemen­ to empirico che è colto come legge dei suoi analoghi.

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grammaticale manifesta la regola , ma quest'uso grammaticale della regola non è preceduto dallo stabilirsi della regola . Se non può essere una proposizione empirica che la regola conduce da 4 a 5 , allora questo , il risultato , deve essere preso come criterio del fatto che si è proceduti secondo la regola . Dunque la verità della proposizione che 4+ l fa 5 è , per così dire , sovradeterminata . Sovradeterminata perciò: che il risultato dell ' operazione è stato definito come il criterio per stabilire che quest' opera­ zione è stata eseguita [ ] Pertanto 4+ 1=5 è ora , a sua volta , una regola con la quale giudichiamo certi procedimenti . Questa regola è il risultato di un proce­ . . .

dimento che ora prendiamo come un procedimento decisivo per giudicare altri procedimenti . Il procedimento che fonda la regola è la prova della regola (OFP VI . l 6) .

"La prova - continua in questo testo - dev 'essere originariamente una specie di esperimento" , "ma poi la si prende semplicemente come imma­ gine" . Quando il procedimento dell ' addizionare ha dato 400 , consideriamo questo risultato come criterio dell ' addizione corretta dei numeri . La prova diventa così "il nostro modello del prodursi di un determinato risultato , che ci serve come termine di paragone (unità di misura) per le variazioni che hanno luogo nella realtà" (OFP 11.23) . Commenta Frascolla: "Una certa figura segnica, ottenuta manipolando cifre secondo una certa procedura, viene elevata al rango di paradigma dell ' addizione corretta di due numeri , ossia viene impiegata come imma­ gine di ciò in cui consiste , per definizione , il calcolo corretto della loro somma"21 . L' esempio è così un particolare che funge da generale per un certo scopo , in una certa forma di vita . Per svolgere questa funzione , esso deve essere perspicuo , dominabile con lo sguardo , deve fornire un ' im­ magine che resti impressa e sia facilmente ricono scibile . Cioè , un ' imma­ gine che risulti iconica in altissimo grado , proprio come avrebbe detto Peirce . La regola si vede nella sua applicazione , nella pratica del seguire una regola (per cieca che questa, con l 'uso , possa diventare) . In CP 4 .233 Peirce scrive , riflettendo non a caso anch ' egli sul ragionamento mate­ matico : Nei teoremi s i richiede un diverso tipo di ragionamento . Qui non bisogna confinarsi ai termini generali . È necessario tratteggiare , o immaginare , qualche schema definito e singolare , o un diagramma [ . . ] Pensare in termini generali non è sufficiente. È necessario FARE qualcosa. In geometria si tracciano li.

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Cfr. P. Frascolla , Filosofia della matematica , in Wittgenstein , a cma di D . Marco­ ni, Laterza , Roma-Bari , 1 997 , p. 1 39 .

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nee secondarie . In algebra si ricorre a trasformazioni lecite . Di conseguenza , è chiamata in gioco la facoltà di osservazione [ . . . ] Il ragionamento teorematico invariabilmente si basa su esperimenti condotti su schemi individuali .

"L' es senza del calcolare l ' abbiamo imparata imparando a calcolare ", chiosa Wittgenstein (C 45 ) . M a se è vero che tra regola e applicazioni c 'è uno scambio delle parti e u n vicendevole fondarsi , Wittgenstein perviene alle stesse conclusioni di Peirce : che ogni generale è reale , perché la na­ tura della regola è nella sua applicazione , nel suo tradursi in un atto de­ terminato , cioè nell'esser pronti a fare qualcosa, come ad esempio aprire la finestra per fare entrare aria. E questo particolare esempio del ' seguire una regola' non è un atto di interpretazione e decisione : "Quando seguo la regola non scelgo . Seguo la regola ciecamente" (RF 2 1 9) , "semplicemente agisco così" (RF 2 1 7) . L' abito , come scriveva Peirce , è sì l ' abitudine con­ solidata dei modi di condotta generali , ma è anche la mezza cadenza della sinfonia di pensiero , il momento in cui la ricerca si dissolve e il pensiero giace in uno stato di quiete , pronto a produrre atti a loro volta immediati e ciechi , e in questo senso , certamente intuitivi . Agisco ciecamente , perché quell ' azione per me è divenuta abituale , consolidata, uno stato di fatto , una realtà - cioè nei termini peirceani e wittgensteiniani , insieme - un uso , un ' istituzione , una verità pubblica . Adotto ciecamente , cioè pragmatica­ mente , la regola . Così, la prassi parla per se stessa (C 1 3 9) . Come si vede , Wittgenstein finisce per trovarsi su quello stesso crinale tra semiotica e pragmatica, tra criterio ermeneutico e criterio prassiolo­ gico-applicativo , sul quale si veniva infine a trovare lo stesso Peirce . La loro risoluzione tende ad essere identica: l 'ultimo interpretante della ca­ tena delle ragioni , quello che conclude la catena, è un abito della prassi , cioè qualcosa che interpretativo non è , che si offre ("istintivamente") come un modo dell ' agire , non un modo del comprendere . Seguire una regola è insomma una prassi, e una prassi si dà sempre come qualcosa di pubblico , mai di privato (o meglio , se è privata, è patologica) . Seguire una regola è una forma di vita: seguo ' ciecamente ' la regola, perché mi trovo a mio agio nel farmi condurre da essa. Come scrive benissimo Rorty: Wittgenstein, come Peirce , insiste sulla realtà della vaghezza. Quando argo­ menta contro Frege e gli occamisti in genere che il fatto che un concetto abbia confini sfumati non gli impedisce di essere un concetto , proprio perché non gli impedisce di esser usato , sta articolando il germe della tesi peirceana che il

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realismo (nel senso dell 'irriducibilità dell' indeterminato) e il pragmatismo si adattano benissimo l ' uno all ' altro22 .

Entrambi non rigettano come contraddittoria l' ipotesi del regresso all'infinito , poiché "entrambi considerano questo regresso innocuo sulla base pragmatica che la pratica non richiede l ' attualizzazione di tutte le pos­ sibilità (interpretative)" . Un'ultima notazione , che ci conduca a riprendere quanto detto sopra sulla connessione tra fare e mostrare , e su di un' inclinazione pragmatica che chiama sempre in gioco , come scriveva Peirce , la "facoltà di osserva­ zione" , che conduce a "fare" qualcosa che si può "mostrare" . Tra il primo e il secondo Wittgenstein due parole ricorrono costantemen­ te : somiglianza e descrizione . Le metafore legate alla visione - " Un' imma­ gine ci teneva prigionieri" , scrive in RF 1 15 , in riferimento alla ricerca della forma generale della proposizione nel Tractatus - sono indice dell' in­ clinazione iconica dello sguardo wittgensteiniano , un ' inclinazione mai so­ pita, che sembra il vero ' timbro ' del pensiero dell ' autore . Non voglio dire che i termini ricorrano con identici significati: la somiglianza di forma del testo del ' 1 8 diviene somiglianza di famiglia nei lavori della seconda fase , e va quindi letta in forma orizzontale , per dir così , e non verticale ; inoltre , la forma logica, che può essere intesa come possibilità di trasformazione e ricombinazione , è rivisitata nei termini del ' vedere-come' , o del 'vedere connessioni' , negli scritti successivi al ' 30 . Ma l' accento è identicamente posto su ciò che solo l ' occhio può cogliere . Tra il Tractatus e le Ricerche filosofiche rimane dunque un elemento in comune . Quest'elemento è proprio quello che nomina la somiglianza: l ' iconismo resta qui modello elettivo anche se in una forma non corrispon­ dentista, ma analogica. Non si tratta più di adeguare , di far concordare , ma di assimilare , di trovare affinità e parentele , di armonizzare - a partire evi­ dentemente da differenze ineliminabili . Dalla "somiglianza di forma" (T 5 .23 1 ) del Tractatus alle somiglianze di famiglia delle Ricerche le differen­ ze non sono poi così marcate: basta leggere in forma metamorfica la traccia della relazione , e declinarla in modo plurale . Per usare le stesse parole dell ' autore: "Si può allora dire: il suo concetto non è lo stesso del mio , ma è imparentato con esso . E la parentela è quella di due immagini delle quali l ' una consiste di macchie di colore dai contorni incerti , l ' altra di macchie simili alla prima per forma e distribuzione , ma nettamente delimitate . La parentela sarà altrettanto innegabile quanto la differenza" (RF 52) . Dun-

22

R . Rorty, op .cit., p. 29 .

La fiamma e il cristallo. Afferrare il senso, definire i concetti

1 37

que , il tema del tauton tutto sommato permane , anche se ora somiglianza e identità si presentano non più nell ' univocità di un' esclusiva forma di raf­ figurazione , ma nella dispersione delle affinità di famiglia . Diciamo allora così: piuttosto che cercare di identificare l ' elemento ricorsivo della forma logica, ora Wittgenstein sembra intento unicamente a descrivere le molte trascrizioni in figure diverse che essa assume , subendo metamorfosi conti­ nue . Ma è sempre ad una "logica della traduzione" che queste rispondono . Vi è una sostanziale identità di vedute tra la forma logica intesa come rela­ zione interna del Tractatus e le molteplici forme in cui variano gli ' aspet­ ti ' o le 'parentele ' dei fenomeni . Vi è un' analogia delle figure che in una replica infinita e continua si manifestano come uguali e, insieme , diverse , in una costitutiva differenza interna; ma tale analogia non è poi altra cosa da "quell 'interiore somiglianza di conformazioni" della quale parlava il § 4 .O 1 4 1 del Tractatus . Certo , lì il communis era la " struttura logica" , mentre nel Wittgenstein dei giochi linguistici comune è l'impiego che di questa struttura si fa - anzi , è l ' impiego a far sì che una tale struttura si dia e abbia per nm senso . Anche se dico: "C'è una somiglianza tra questi due volti" , mi possono im­ portare ogni volta cose diverse . Potrebbe voler dire : c ' è una somiglianza tra questo tipo di volto e quest 'altro tipo di volto; dove i due tipi vengono ca­ ratterizzati per mezzo di descrizioni . Mi possono interessare i volti di queste persone , oppure queste forme del volto , ovunque io le incontri. La differenza che ho in mente è naturalmente tra il senso: questi due tratti hanno forme simili - e il senso: circolo , ellisse , parabola e iperbole hanno una somiglianza tra loro . La differenza è quella che passa tra somiglianza esterna e somiglianza in­ tema [ . . . ] . L'espressione di ciò è pressappoco: "La medesima cosa - e tuttavia non la medesima cosa"23 .

Identico e differente , interno e esterno , proprio e comune , possono esser fatti rotare come intorno a un "centro di variazione" , ed alla fine il gioco delle iconicità dissolverà i riferimenti usuali al simile e al diverso , allo stes­ so e all ' altro . È ancora una volta Calvino , l ' autore che ci ha accompagnato nelle nostre osservazioni , a rivelare un percorso fecondo di interpretazione , che i due autori avrebbero apprezzato , credo , profondamente . Scrive Calvi­ no che i bagnanti che si immergono nell' acqua sul far del tramonto nuotano quasi inseguiti dalla "spada di luce" del sole declinante . "Ognuno ha - così 23

L . Wittgenstein, Ultimi scritti, cit . , § § 155-6, 1 74 . In questo testo viene più volte ripresa anche la nozione di 'relazione interna' .

1 38

Peirce e Wittgenstein:

Wl

incontro

- un suo riflesso, che solo per lui ha quella direzione e si sposta con lui . Ai due lati del riflesso , l' azzurro dell' acqua è più cupo . ' È quello il solo dato non illusorio , comune a tutti , il buio? ' si domanda il signor Palomar. Ma la spada si impone ugualmente all ' occhio di ciascuno , non c ' è modo di sfuggirle" . Conclude allora Calvino , pennellando di nuove tinte la nozione di ' somiglianza interna' , sulla quale ci siamo tante volte soffermati: forse che ciò che abbiamo in comune "è proprio ciò che è dato a ciascuno come esclusivamente suo ?"24 •

24

I . Calvino , Palomar, Torino , Einaudi , 1983 , p. 1 6 .

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