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Italian Pages 312 Year 2022
Soggetto e identità
a cura di Angiolina Arru
viella
I libri di Biblink
UNIVERSITÀ DI NAPOLI “L’ORIENTALE” DOTTORATO INTERNAZIONALE DI RICERCA “STORIA DELLE DONNE E DELL’IDENTITÀ DI GENERE IN ETÀ MODERNA E CONTEMPORANEA” QUADERNO N. 5
Soggetto e identità a cura di Angiolina Arru
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Copyright © 2022 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Nuova edizione: settembre 2022 ISBN 979-12-5469-130-4 carta ISBN 979-12-5469-131-1 ebook-pdf Prima edizione: Biblink, Roma 2009
In copertina: elaborazione grafica della copertina dell’edizione Biblink con https://colorproblems.art/
viella libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
A Yan Thomas, in ricordo della sua originale e generosa collaborazione a questo Dottorato.
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Indice Angiolina Arru, Introduzione
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Soggetto e identità: percorsi di ricerca Otto Ulbricht Rifiutarsi, oppure il matrimonio mai celebrato. Margaretha Dalhusen, 1637-1644
pag. 23
Osvaldo Raggio Due note su genere ed esperienze individuali
pag. 61
Roberto Bizzocchi Problemi e fonti di una ricerca sulla figura del cavalier servente
pag. 77
Karin Hausen Scrivere la storia sociale dimenticando il genere. Alcune notazioni critiche sulle strategie storiografiche
pag. 97
Pilar Pérez Cantó Reflexión sobre la investigación en historia de las mujeres en España y América Latina
pag. 109
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Michelle Zancarini-Fournel Processi di etnicizzazione e costruzione del genere nell’età contemporanea
pag. 119
Ute Gerhard Femminismi nel XX secolo. Concetti e cesure
pag. 141
Materiali di studio per l’alta formazione Yan Thomas Il ‘ventre’. Corpo materno, diritto paterno
pag. 181
Ernst Holthöfer La ‘cura sexus’ dall’antichità al XIX secolo
pag. 225
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Introduzione Angiolina Arru Questo volume si compone di due parti. La prima contiene le relazioni della “Settimana di alta formazione” del Dottorato di ricerca in “Storia delle donne e dell’identità di genere in età moderna e contemporanea” tenuta a Bacoli nel 2006: saggi di ricerca, note su questioni metodologiche, riflessioni teoriche che illustrano bene – nella pluralità dei punti d’osservazione e degli stili discorsivi – la complessità di un’indagine storica sul tema dell’identità. Con la seconda parte diamo inizio alla pubblicazione di materiali di base per l’alta formazione negli studi di genere, introducendo così una rubrica nei futuri Quaderni del Dottorato. I saggi di Ernst Holthöfer e Yan Thomas che qui proponiamo – e che vengono tradotti per la prima volta in Italia1 – costituiscono un punto di riferimento teorico e una chiave interpretativa essenziale nel dibattito sulle identità di genere, sui problemi della soggettività e sulle relazioni di potere nei vari contesti storici, mostrando dunque una coerenza profonda con il tema scelto per questo Quaderno. Nonostante la loro collocazione all’interno del volume, i testi di Thomas e di Holthöfer possono essere assunti come una vera e propria introduzione al tema. Yan Thomas – in un intervento apparso alcuni anni fa – ci spiega come è possibile che il corpo di una donna, o meglio di una madre, si possa convertire nel corpo del nascituro e cioè 9
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come attraverso «il diritto una natura fisica si trasforma in una natura giuridica dotata di effettività». Il nascituro è infatti – secondo il diritto romano classico – immediatamente dotato di diritti poiché in caso di morte del padre la sua presenza blocca e muta le decisioni di un testamento. La donna si trova in questo caso «nella curiosa situazione di incarnare un lignaggio maschile poiché è una sola cosa col ventre». La madre come partoriente diventa «parens», cioè «padre o ascendente in linea paterna». La si può considerare cioè «come ciò che non è lei». La morte del coniuge fa perdere lo statuto giuridico di madre, che il matrimonio aveva istituito. La donna genera per il marito e per la città e solo dopo il parto «si riduce nuovamente alla donna». Una identità sottoposta a tali profondi cambiamenti provocherà certamente importanti ricadute sulla complessità delle relazioni di potere e lascerà emergere il significato e le possibilità offerti dalle contraddizioni tra le norme non solo nel contesto del diritto romano classico. Nella storia del diritto privato e soprattutto dei diritti di famiglia sono state infatti proprio le incoerenze profonde degli apparati normativi a permettere di intervenire sull’uso dei vari istituti giuridici riguardanti le disuguaglianze tra uomini e donne, influenzandone a volte adattamenti e trasformazioni. Il lungo saggio di Holthöfer sulla cura sexus e sulla cura maritalis in Europa dal diritto romano antico alle grandi codificazioni liberali tra Settecento e Ottocento è molto utile per verificare questa ipotesi. La complessa ricostruzione storica delle norme che – in maniera differente nei vari Paesi o città europee – hanno limitato o escluso la capacità giuridica delle donne in campo patrimoniale è un apporto utilissimo per capire le ragioni che hanno differenziato i codici unitari ottocenteschi, che hanno pesato in varia maniera sul percorso verso l’eguaglianza giuridica, ma che soprattutto ne hanno anche permesso le trasformazioni. Holthöfer ci offre in questo senso un contributo
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importante non solo per gli studi di genere, ma anche per il dibattito attuale sulla storia dell’Europa. «L’abolizione a livello normativo delle molteplici limitazioni imposte alle donne [ha] avuto una storia piuttosto ondivaga» ci ricorda Holthöfer. Le riforme hanno seguito infatti criteri, spazi e tempi totalmente differenti nei vari luoghi e contesti storici, dando luogo a una geografia frastagliata e contraddittoria dello spazio europeo. Otterranno durante l’Ottocento ad esempio diritti più eguali in campo patrimoniale – e dunque matrimoniale – le donne dei Paesi non influenzati dalle riforme del codice Napoleone. Le norme sulla piena capacità giuridica delle donne, sul regime dotale, sulla trasmissione ereditaria e infine quelle riguardanti il diritto di voto hanno avuto – come sappiamo – storie disuguali per le donne dei diversi Paesi europei e hanno dato luogo a pratiche distinte e a reazioni politiche e sociali spesso discordi nei vari movimenti femministi. Un aspetto centrale nella storia della cultura politica che rende molto problematica la questione di una presunta identità europea. Holthöfer ci descrive solo la situazione normativa e le varie riforme nel corso del tempo e nei diversi Paesi. «Abbiamo dovuto rinunciare completamente – sottolinea l’autore – a esaminare come la pratica giuridica si rapportava ai dati normativi e che cosa il quadro normativo abbia significato di volta in volta per i diversi modi di vita delle donne. Lo studio di questi elementi resta affidato ad altre ricerche». Le indagini sulla storia delle donne di questi ultimi anni ci pemettono di ricostruire la «pratica giuridica» cui allude Holthöfer. Dalle analisi delle compresenze nel tempo e nello spazio europeo di ordinamenti giuridici discordanti, di statuti diversi in una stessa area geografica o in aree geografiche spesso confinanti – non solo in antico regime ma anche in pieno Ottocento – emergono le reazioni possibili di uomini e donne rispetto ai diritti disuguali, le capacità di intervento nei diversi contesti normativi, di ibridazioni, di forzature, di adattamenti2.
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Le identità sfuggenti All’uso delle norme, alle possibili interpretazioni, alle loro trasformazioni così come alle flessibilità e alle modifiche delle identità maschili e femminili sono dedicati gli altri interventi pubblicati in questo Quaderno. Autori e autrici ci suggeriscono infatti che cosa può significare per uomini e donne confrontarsi con sistemi normativi basati sul principio della disuguaglianza tra i sessi e incidere con percorsi e decisioni personali su contesti apparentemente rigidi. Il Quaderno si apre proprio con la ricostruzione di alcuni casi in cui appare esplicito il non rispetto della norma circa la cura sexus e in cui i comportamenti e le relazioni tra i sessi appaiono discordanti rispetto alle prescrizioni imposte dalle norme. Osvaldo Raggio, riferendosi alla storia familiare della famiglia Balbi ricostruita da Edoardo Grendi, cita un testamento in cui la giovane vedova Caterina Balbi Durazzo, nel 1643, dispone che i creditori vengano rimborsati, «ancorché li loro crediti non fussero stati contratti legittimamente in conformità dello statuto di questa città» e che la dichiarazione attestante il pagamento debba essere ritenuta valida anche se firmata solo dalla testatrice «come se fosse del sesso virile». E di un’altra esplicita inosservanza delle regole sulla incapacità giuridica delle donne parla il testamento – citato ancora da Raggio – con cui il nobile Giuseppe Maria Durazzo nel 1701 istituisce erede universale la figlia Maria e le concede «facoltà amplissima […] senza osservare alcuna solennità legale o statutaria, come se fosse uomo maggiore d’età». Non si tratta certo di casi isolati di comportamenti ‘maschili’ da parte delle donne, o di negoziazioni dei poteri all’interno della famiglia. Sappiamo ormai dalle numerose ricerche sulla storia delle donne quanto spesso i padri, non solo in antico regime ma ancora in pieno Ottocento – rispetto a difficoltà oggettive – abbiano affidato alle figlie i propri patrimoni e
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abbiano superato il principio della loro incapacità giuridica adattando alle proprie convenienze le rigide norme sulla trasmissione patrilineare. Tanto per citare uno dei tanti esempi è sufficiente riferire il caso del signor Giuseppe Graziosi – appartenente alla piccola nobiltà dello Stato pontificio – che distribuisce col suo testamento del 1867 case e terreni ai suoi figli maschi e assegna le doti alle figlie escluse dall’eredità. E introduce un privilegio per il suo figlio prediletto, al quale assegna un fondo con l’obbligo che venga in seguito trasmesso di generazione in generazione solo secondo la linea maschile ma che, in mancanza di figli maschi, venga assegnato al primo figlio maschio di sua figlia, con l’obbligo tassativo però che i figli di lei assumano il cognome della madre3. Nel resto dell’Italia è ormai in vigore il codice unitario che detta regole egualitarie circa i diritti ereditari di figli e figlie. Ciò che interessa in questo testamento tuttavia non è la palese indifferenza rispetto alla circolazione di norme diverse o all’abolizione del fedecommesso, quanto la consapevolezza che le stesse regole di disuguaglianza vigenti nello Stato pontificio possano essere facilmente superate in una volontà testamentaria. Mettere al centro di una famiglia il cognome di una madre significa di fatto non solo istituire una differente genealogia ereditaria, ma creare di fatto un vero e proprio riequilibrio nella disuguaglianza dei ruoli. Una rottura anche nei confronti del nuovo codice unitario liberale, che riaffermava il principio del pater familias. Dunque le donne possono essere inserite in una linea maschile e possono trasmettere un cognome, contribuendo a una trasformazione del contesto storico. «I contesti non sono dati esterni alle esperienze individuali – osserva Raggio – non sono né compatti né unidimensionali, sono frammentati in spazi diversi da esperienze sociali diverse che coagulano pratiche e possibilità individuali»4. Un concetto che ritroveremo presente anche negli altri saggi inclusi in questo Quaderno.
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La storia di Margaretha Dalhusen e del suo rifiuto di un matrimonio combinato – ricostruita da Otto Ulbricht – ci descrive le difficoltà di affermare scelte personali rispetto a volontà paterne rigide nell’ambiente protestante di Schleswig, una piccola cittadina nel nord della Germania del Seicento. «Questo studio prova a rendere visibile l’influenza di una giovane donna su tale processo, e cerca di sondare lo spazio d’azione di una donna nubile nell’avvio del matrimonio. Dunque esso si interroga sull’obbligo e sul libero arbitrio». Ciò che sembra interessante in questa vicenda è la procedura seguita dai vari protagonisti che di volta in volta entrano in scena e cercano di interpretare o eludere le regole imposte dagli statuti comunali. Il coinvolgimento di avvocati e di tribunali, le obiezioni sollevate e respinte e alla fine la sconfitta dello sposo lasciano intravedere le possibilità di intervento in un contesto normativo e familiare molto rigido. E anche se «non sappiamo come si sia risolto il conflitto economico» tra le due famiglie coinvolte nella vicenda, «sappiamo però che il cappio intorno al collo di Margaretha si era sciolto. Lei era di nuovo libera, anche libera di sposare chi voleva». I rapporti di potere all’interno delle famiglie, anche di fronte ai rischi di compromettere l’onore degli interessati, possono essere dunque continuamente ridiscussi. È ciò che ci dimostra il bel saggio di Roberto Bizzocchi sulla figura dei cicisbei in Italia; una storia ora ampliata e arricchita di fonti e interpretazioni in un libro recente5. Non sembra fondamentale stabilire se la presenza di un cicisbeo accanto a una dama del Settecento mascheri più o meno apertamente forme di adulterio. Sembra invece molto interessante osservare le configurazioni flessibili dell’organizzazione coniugale e anche sociale in genere. Come va considerata una ‘coppia’ quando riceve un invito indirizzato a tre persone: lui, lei e il cavalier servente di lei? E come possono continuamente riconfigurarsi in un trio le identità di genere, soprattutto nella vita pubblica? Molto
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importanti a questo proposito le premesse metodologiche e l’illustrazione del percorso di ricerca. La cesura che Bizzocchi suppone con la Rivoluzione francese e l’introduzione in alcuni Stati italiani preunitari di codici più egualitari ci inducono a studiare e a individuare con più attenzione le varie forme delle relazioni di genere nella storia della famiglia italiana. Le difficoltà attuali Se Edoardo Grendi citato da Raggio ci spiega come non sia possibile scrivere la storia dei Balbi senza inserirvi le donne, l’intervento di Karin Hausen ci spiega – nella sua critica brillante di un libro sulla storia di una famiglia della borghesia tedesca – perchè la gender history continui ad avere ancora un ruolo provocatorio e innovativo nella Germania di oggi. La storia della grande famiglia Bassermann scritta da Lothar Gall – «ex presidente dell’associazione degli storici della Germania occidentale, general editor della rivista “Historische Zeitschrift”, storico tanto stimabile quanto tradizionalista» – è costruita su quattro generazioni di maschi che seguono e segnano l’apogeo e il declino della borghesia tedesca prima e dopo il 1848. L’autore non include mai le donne come attrici sociali, nonostante sia chiaro – a chi ne sa leggere le tracce – il loro ruolo imponente non solo all’interno della storia familiare. I Bassermann vengono descritti come uomini con una innata autorità ad imporre la loro volontà alle mogli, ai figli e alle sorelle, tutti subordinati e obbedienti. E tuttavia Gall è costretto a introdurre nel suo racconto due donne. Una di loro contribuisce proprio alla fortuna economica della famiglia, e l’altra – citata solo in una nota come moglie del deputato liberale Ernst Bassermann – fonda nel 1908, contro il volere di suo marito, un gruppo di donne liberali di cui diviene la presidente. Si tratta evidentemente della trasformazione delle regole
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maschili della politica che non può certo essere una pratica improvvisata nella biografia di una donna tra Ottocento e Novecento, e che denota dunque un contesto molto più problematico e composito rispetto a quello descritto da Lothar Gall. Il punto centrale nel saggio di Karin Hausen è l’avere sottolineato la funzione di una scrittura maschile della storia, nella Germania contemporanea. «La storiografia tedesca divenne uno specchio preciso e uno strumento discorsivo utile a rafforzare l’ordine dei generi che alla fine del XIX secolo andava difeso dai riusciti attacchi delle femministe e dei loro alleati». Un problema e una difficoltà che ritroviamo in situazioni più recenti, anche se in contesti totalmente differenti. Il saggio di Michelle Zancarini-Fournel sui recenti movimenti di ribellione urbana nelle periferie lionesi rappresenta un utile e importante contributo a questo proposito. L’autrice ci spiega come questi fenomeni «nella loro qualità di fatti sociali, globali e mediatizzati, contribuirono a trasformare le relazioni di genere», riproponendone e fissandone in un certo senso le gerarchie. L’autrice riesamina i conflitti e l'affaire du foulard ricostruendo la storia post-coloniale francese e ci fa osservare tutte le antinomie di un percorso di integrazione. «Come difendere un ideale di mescolanza etnica e di uguaglianza dei sessi nel reciproco rispetto della diversità delle identità e dei percorsi possibili? Questo è un problema complesso, ancora di attualità, sollevato dalla polemica nata nel 1989, che non è stato cancellato dalla tregua della Coppa del Mondo del 1998». Nonostante le lodi della stampa e della radio sull’integrazione ‘alla francese’, infatti, le telecamere indugiavano – sottolinea l’autrice – proprio in occasione della Coppa del Mondo sulla rappresentazione di una coppia ‘mista’, un nero e una bianca avvolti nel tricolore. Un modo per irrigidire ancora una volta identità ‘nuove’. Le rappresentazioni possono fissare gli individui in identità attribuite, prescritte, lontane dalle sfaccettature multiple, talvolta dolorose nel quotidiano familiare.
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E tuttavia, conclude Zancarini-Fournel, «la partecipazione massiccia e dimostrativa delle ragazze ‘discendenti da genitori immigrati’ a un evento sportivo considerato da sempre tipicamente maschile, trasformandolo in uno spazio misto, non è forse la testimonianza della labilità e della mutazione delle identità di genere nell’età contemporanea?». «Relazioni e barriere nel movimento sociale delle donne» La storia dei femminismi durante il Novecento riflette pienamente le complessità del dibattito sulle identità e sulle soggettività nelle relazioni di genere. L’espressione «ondata del femminismo» – osserva giustamente Ute Gerhard – è molto adatta a descrivere le caratteristiche dei movimenti delle donne di questi ultimi decenni, «alimentati da una stessa problematica e da un mare di contrasti». La storiografia più recente in Spagna, di cui ci parla Pilar Pérez Cantó, è un sintomo visibile delle diversità ma anche delle contese profonde negli studi di genere. Da un rifiuto netto di una storia delle donne come narrazione a parte, ancora presente nella tradizione storiografica spagnola, sono nate le innovazioni più interessanti nella Spagna di oggi. L’analisi della cittadinanza e delle sue contraddizioni dopo la Costituzione di Cadice del 1812 – che escludeva esplicitamente le donne dalla cittadinanza – viene condotta ora in una équipe composta da storiche spagnole e argentine. La domanda su quale posto hanno assegnato alle donne l’Illuminismo spagnolo e, più tardi, la politica liberale o conservatrice in Argentina è oggi al centro del dibattito storiografico. Lo studio della partecipazione delle donne ai salotti come presenza pubblica e la ripetizione di questa esperienza in Argentina permettono di osservare le diverse reazioni delle donne alla politica di esclusione nei due emisferi. Nonostante la chiusura verso i diritti di cittadinanza le pratiche dei governi nei
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confronti dell’istruzione introducono contraddizioni enormi nel pensiero politico dei due Paesi. Doveri che hanno generato diritti anche per le donne. Nonostante tutto. Una storia emblematica per capire le trasformazioni dei contesti. Ma è soprattutto il saggio di Ute Gerhard a chiarire le ragioni dei contrasti, ma anche le nuove possibilità che si aprono ai femminismi contemporanei. Le pratiche differenti delle donne nei vari contesti del mondo occidentale – sostiene Gerhard – ci fanno riflettere meglio su ciò che viene chiamata «trappola intellettuale» nel dibattito sulla ‘differenza’. Il dilemma impossibile tra uguaglianza e differenza – che ha caratterizzato gran parte del dibattito novecentesco tra le studiose – mostra le situazioni composite nella storia del femminismo di questi ultimi decenni. «Il femminismo non può eludere la differenza, come strumento creativo, ma nemmeno l’uguaglianza, come strumento democratico», aveva scritto Joan Scott in un suo noto intervento6. E tuttavia, al di là dei contrasti, possiamo individuare un interesse comune che emerge sempre più esplicitamente nel femminismo contemporaneo. Si tratta di un interesse diffuso che riguarda proprio il diritto, la costruzione di sistemi normativi non solo interni a un Paese, ma sovranazionali. È la conseguenza di una acuta critica comune «all’androcentrismo del diritto e dei diritti umani» e di una evidente mancanza di tutela dei diritti umani di genere. L’orientamento verso i diritti umani aveva accompagnato i movimenti femministi del XIX secolo. «I diritti umani non hanno sesso» era il concetto delle prime suffragiste. Ma l’attenzione al diritto e alle norme ha ora un’altra componente: è la conseguenza cioè dell’estensione dei diritti, ma anche della inapplicazione degli stessi: basti pensare alle norme contenute nella dichiarazione internazionale del 1948 o alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne del 1998. «È necessaria una nuova riflessione sul concetto di norma.
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– afferma Gerhard – Proprio per la consapevolezza delle incoerenze interne ai sistemi normativi, i diritti devono essere ridefiniti in base agli standard di giustizia in vigore». È importante cioè usare tutti gli spazi di manovra consentiti dai contrasti, dalle incoerenze, dalle lacune dei sistemi normativi, ma è essenziale anche riscrivere i diritti nei contesti ormai mutati. Per questo è necessario lavorare con più discipline, e le storiche – ci ricorda Gerhard – sono al centro di questo nuovo movimento di ricerca.
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Note 1 Alcune pagine del saggio di Yan Thomas Le ventre. Corps maternel, droit paternel (“Le genre humain”, n. 14, 1986) sono state pubblicate in “Genesis. Rivista di storia delle donne”, n. 1, 2003, pp. 179-181. Per quanto riguarda la pubblicazione in questo Quaderno dobbiamo ricordare che Thomas ci aveva inviato questo testo per una traduzione italiana da inserire in un volume di saggi sulla storia del diritto delle donne, mai completata. Siamo molto contente di poter ora pubblicare questo saggio in un Quaderno a lui dedicato. Su questo testo vedi Eva Cantarella, Marriage and Sexuality in Republican Rome: A Roman Conjugal Love Story, in The Sleep of Reason. Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome, eds. M. Nussbaum, J. Sihuola, Chicago, 2002. 2 Importanti a questo proposito per l’Italia le ricerche di Simona Feci:
vedi Pesci fuor d’acqua. Donne a Roma in età moderna: diritti e patrimoni, Roma, 2004, e Cambiare città, cambiare norme, cambiare le norme. Circolazione di uomini e donne e trasformazione delle regole in antico regime, in L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini, mobilità in età moderna e contemporanea, a cura di A. Arru, F. Ramella, Roma, 2003. 3 Archivio di Stato di Roma, Trenta notai capitolini, Uff. 6, 18 gennaio 1867. 4 Ma a questo proposito è interessante rileggere il bel saggio di D.W. Sabean, Production of the Self during the Age of Confessionalism, in “Central European History”, n. 29, 1996, pp. 1-18. Sul problema delle identità e delle soggettività in antico regime interessante la raccolta di saggi Von der dargestelleten Person zum erinnerten Ich. Europäeische Selbstzeugnisse als historische Quellen (1500-1850), hrsg. K. von Greyerz, H. Medick, P. Veit, Köln-Weimar-Wien. 2001. 5 Vedi R. Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia, Roma-Bari, 2008. 6 J.W. Scott, Gender and Politics of History, New York, 1988, p. 172.
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Soggetto e identità: percorsi di ricerca
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Rifiutarsi, oppure il matrimonio mai celebrato. Margaretha Dalhusen, 1637-1644 Otto Ulbricht
Christian-Albrechts-Universität zu Kiel
Nelle società tradizionali i matrimoni erano combinati dai genitori. Così era anche nella Germania del Medioevo e all’inizio dell’età moderna. Poiché rispetto al sesso la famiglia stava al di sopra dell’individuo, i genitori stabilivano la scelta secondo necessità o ambizioni sociali ed economiche. Al riguardo si dice: «I matrimoni offrivano l’occasione di salvaguardare oppure perfino di avanzare posizioni economiche e sociali»1. Le persone si aspettavano che il vincolo coniugale avrebbe procurato loro una serie di relazioni sociali che avrebbero reso possibili e strutturato scambi fruttuosi per tutta la vita2. I figli e le figlie sembrano non aver nessuna possibilità di influenza sulla scelta da prendere. Crescevano in una società di matrimoni combinati. Ciò che veniva deciso di loro era a loro familiare e sembrava del tutto normale. «Di regola i figli si adattavano, dato che delle azioni di protesta dei figli, perfino di quelli che diventavano famosi e scrivevano sul loro matrimonio, non si conosce quasi nulla»3. I figli dovevano ubbidienza in ogni caso ai genitori, come diceva il quarto comandamento, e dunque si sottomettevano al loro volere. All’inizio dell’età
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moderna, inoltre, Lutero aveva rafforzato l’autorità paterna negli affari matrimoniali con la sua lotta contro i cosiddetti matrimoni clandestini, così che nell’ambito protestante il potere del padre di famiglia, sostenuto dalla moglie particolarmente competente in tali faccende, era sottomesso legalmente solo a piccole restrizioni. L’immagine della totale mancanza di potere e di opposizione dei figli non appare tuttavia credibile, soprattutto se si pensa al ruolo centrale del matrimonio. I figli hanno sempre taciuto, perfino davanti agli sbagli dei genitori e ad ogni loro imposizione? D’altra parte si può anche supporre che l’amore, la principale forza vitale4 e irrazionale, incitasse i figli a seguire i propri desideri, o almeno a esprimerli, anche quando il matrimonio d’amore non era ideale sociale condiviso. Ciononostante, se si sa così poco a riguardo è perché i processi decisionali privati e dunque le possibili proteste e le resistenze dei figli non lasciavano di regola nessun sedimento scritto, e di conseguenza le fonti non riferiscono nulla su questo. Questo studio prova a rendere visibile l’influenza di una giovane donna su tale processo, e cerca di sondare lo spazio d’azione di una donna nubile nell’avvio del matrimonio. Dunque esso si interroga anche sull’obbligo e sul libero arbitrio, sull’amore e sull’antipatia, e in genere su che cosa dovesse essere alla base di un matrimonio. La ricerca sugli spazi di manovra degli attori sociali è stata molto importante nel dibattito storiografico tedesco recente5. Nella società e nella politica di oggi lo spazio d’azione sembra quasi coincidere con le risorse finanziarie disponibili. Ma la scienza della storia non può assumere un modo di vedere così riduttivo. All’azione umana sono posti molti confini, sia attraverso le norme sia attraverso pressioni esterne che possono giungere fino alla minaccia di violenza, e che riducono radicalmente oppure annullano i margini di intervento personale. D’altra parte i margini di intervento possono risultare anche
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dalla specificità dei vari contesti e dai rapporti economici; genere, generazione e status possono ampliarli oppure limitarli6. Nella società patriarcale lo spazio d’azione era diverso secondo il genere: quello delle giovani donne si differenziava da quello dei giovani uomini, poiché da questi ultimi principalmente proveniva l’iniziativa nell’avvio del matrimonio. È vero che anche ai maschi venivano fatte proposte di matrimonio, ma non secondo forme rituali. L’istruzione fuori della famiglia rendeva inoltre possibile per i figli la libera scelta, mentre si riteneva che le figlie proprio a causa della loro istruzione fossero più ubbidienti dei figli e che avessero un’influenza molto minore dei fratelli sulla scelta matrimoniale: «una figlia doveva adattarsi più di un figlio»7, oppure, in modo lapidario, «dappertutto la fidanzata aveva un minore diritto di decisione del fidanzato»8. Per quanto riguarda la mia ricerca, si potrebbe forse dedurre già dal titolo che si tratta di un caso eccezionale. Questa opinione potrebbe essere contestata ancora una volta – ma quando sarà chiaro che la microstoria è più che un’analisi di soggetti minori? – con un cenno al concetto microstorico dello straordinario normale. Ma allora si potrebbe criticare il concetto di normale. Per rendere più evidente il senso della ricerca dunque si può anche proporre di riflettere se il pensare secondo categorie di caso normale e caso eccezionale sia sempre fertile. Si pensa solo secondo queste due categorie, e poi i casi eccezionali vengono classificati naturalmente tra la spazzatura della storia. Ma si può anche prendere le distanze da tale pensiero binario e ordinare tutti i casi disponibili su una sola scala. Su questa scala i casi si differenziano tra di loro solo gradualmente, fino ad arrivare finalmente a un polo: il caso cosiddetto eccezionale, ma che d’altra parte si differenzierebbe solo in pochi punti da quello vicino. Ogni caso cosiddetto eccezionale, dunque, apre un’intera serie di questioni più o meno importanti, che valgono per molte altre vicende. Il problema delle possibilità d’azione di una donna in una
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determinata situazione richiede fonti specifiche, che permettano di avvicinarsi ai singoli soggetti. Per averne l’opportunità, si ha bisogno almeno di una tradizione statale oppure ecclesiastica molto forte. Sarebbero ideali ego-documenti per cogliere la prospettiva soggettiva, ma questo tipo di fonti sono rare prima della metà del XVIII secolo, e in più le poche sono scritte in grande maggioranza da uomini. Così anche sposalizio e matrimonio sono descritti su questa base da una prospettiva puramente maschile9. Per la storia di Margaretha Dalhusen disponiamo degli atti processuali10, in cui sono contenute molte lettere degli interessati, e di una dettagliata relazione di Margaretha stessa dell’anno 1639, in cui lei racconta come è stata manipolata all’interno del matrimonio. Questa è verosimilmente una fonte unica per un’epoca per la quale le testimonianze di donne sono state ancora poco analizzate11. Una tale relazione dal XVII secolo è così preziosa perché circa 150 anni più tardi espone qualcosa di analogo l’autobiografia di Margarete Milow, nata Hudtwalker di Amburgo, figlia di un commerciante12. Anche se abbiamo potuto consultare solo una copia, un fatto non raro per il materiale autobiografico del tardo Medioevo e della prima età moderna, è certo che nel manuscriptum originale abbiamo a che fare con alcune parole di Margaretha. Margaretha, il luogo, la famiglia Margaretha viveva a Schleswig, posta nell’est dell’odierno Schleswig-Holstein. Schleswig era a quel tempo una piccola città di circa 3500 abitanti. Nel XVII secolo non prosperava più. Nel Medioevo era legata al mar Baltico dal commercio della tinca, ed era diventata il mercato di riferimento della zona circostante; altre città portuali l’avevano poi superata, cosicché il suo commercio era in progressivo declino. Gli acquartieramenti durante la Guerra dei Trent’anni (1628-29) peggiorarono la
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situazione. Nondimeno la città possedeva «un piccolo ceto di benestanti»13 di cui facevano parte ad esempio i commercianti e i maestri dell’artigianato artistico come gli orefici. Margaretha apparteneva verosimilmente alla media borghesia cittadina. La professione di suo padre non è precisata; egli era un maestro artigiano ben collocato oppure un commerciante e veniva verosimilmente dall’estero14. Probabilmente la sua famiglia era relativamente benestante: una casa che egli possedeva a Schleswig e il testamento redatto nel 1633 sono ulteriori indicazioni di un certo potere15. Non abbiamo dati su Margaretha. La sua data di nascita purtroppo è sconosciuta. Come già detto sapeva leggere e scrivere, cosa che aveva imparato a scuola e non a casa. C’erano anche dei libri nella casa dei suoi genitori, come indicatore del livello culturale di questo strato sociale16. Dopo la morte di entrambi i genitori la ragazza andò ad abitare a casa della sorella della madre, di nome Anna Kopmann, e fu posta sotto tutela17. Un tutore era il fratello di Anna Kopmann a Husum, di nome Heinrich Badendick, che là era affittuario di un podere del sovrano18. L’altro tutore era Franz Luth19, un lontano parente, membro del Consiglio a Schleswig e nel 1611 uno degli uomini più ricchi della città; la casa in cui abitavano Anna Kopmann e Margaretha apparteneva a lui. In questo caso, dunque, non furono i genitori a prendere una decisione riguardo allo sposo, bensì i tutori. Ma secondo i dati demografici questa situazione non era rara; nella prima età moderna molte donne e molti uomini al momento del matrimonio erano orfani20. La condizione della tutela, in particolare l’amministrazione del denaro, era guardata con occhi critici dai contemporanei, tra i quali Lutero. In più vi erano molte differenze tra tutelati e tutelate, tanto che viene da chiedersi se i tutori (sempre maschi) non si siano comportati con i maschi – estranei anche se parenti – in maniera diversa, per esempio lasciando loro più spazi di libertà. Le parole minacciose di Heinrich Badendick avvalora-
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no l’ipotesi che almeno in questo caso ci fosse una differenza: «Tu saresti mia figlia – sgrida la sua pupilla Margaretha – io volevo educarti perché tu ti ricordassi di me per questo»21. Al momento della sua morte il padre di Margaretha aveva pensato al matrimonio della ragazza, ma è sicuro che il candidato proposto nel testamento non fosse particolarmente appetibile. Ad ogni modo la zia Anna Kopmann ritenne che fosse tempo che Margaretha si sposasse. Così la nipote sarebbe andata via di casa. E lei sapeva anche con chi. Anna Kopmann si adoperava per combinare un matrimonio molto vantaggioso, e ciò significava che non si trattava del candidato scelto dai genitori. Anna aveva scovato qualcosa di meglio. La fortuna per Margaretha e per la sua famiglia si trovava sull’altro lato della strada22. Là abitava, infatti, il mercante di seta Willer Willers che, proveniente da una famiglia di commercianti di Elensburg23, gestiva ora a Schleswig il suo negozio insieme a suo cognato. Durante uno dei suoi acquisti Anna Kopmann chiese a Willer se volesse sposarsi e lo esortò ad una visita24. Anna Kopmann, in rappresentanza di suo fratello, cercava un marito adatto per Margaretha. Questo era un dovere importante, a cui i genitori o i precettori dovevano adempiere, sia da un punto di vista cristiano, sia da un punto di vista sociale25. Come commerciante di seta Willer era in una posizione sociale più importante di Margaretha. In questo senso rappresentava un buon partito; ma era necessario raccogliere notizie sulla sua proprietà e sul suo patrimonio, cosa difficile anche per una vicina, perché un’occhiata al libro dei conti le era proibita. Ma durante le feste egli dava l’impressione di poter disporre di denaro in maniera illimitata. Era dunque un buon partito, e questo rispondeva all’aspettativa di sposare la ragazza al meglio possibile, in altre parole di realizzare l’ascesa sociale della famiglia. All’inizio Anna lasciò Margaretha all’oscuro dei suoi piani, anche perché non pensava certo che potessero sorgere degli impedimenti a questo matrimonio. Poi un giorno del 1637 com-
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parve in casa della zia Otto Witte, un parente ricamatore di perle, e disse che per Margaretha si prospettava un’occasione unica per un matrimonio vantaggioso26. Anche lui agiva per conto del pretendente Willer, e a questo punto la zia informò Margaretha della proposta. Questo modo indiretto di avviare un matrimonio era una conseguenza dei rapporti di potere all’interno delle famiglie; ma aveva anche lo scopo di impedire che l’onore degli interessati, in caso di un rifiuto o di un conflitto in un momento successivo, potesse essere compromesso. Alle notizia Margaretha reagì nel seguente modo: «Mia cara zia – disse – sarebbe abbastanza bello ma non mi piace la persona, cosicché per me non è possibile. Non mi voglio occupare di tutte le altre cose. Vi prego dite a Otto che non si deve preoccupare per me ed egli dica a Willer che non si deve preoccupare per me e che non se ne farà nulla»27. Era un chiaro rifiuto. Certamente Margaretha approvava lo status sociale e le condizioni economiche del pretendente – «sarebbe abbastanza bello» – ma questo era per lei solo uno dei requisiti necessari. Lei almeno non voleva un uomo che non poteva sopportare. Così la zia e lo zio di Husum si trovarono di fronte a un problema che dipendeva dalle loro informazioni, perché entrambi gli aspetti, sociale ed economico, erano per loro determinanti. Dopo che la Chiesa a partire dall’alto Medioevo aveva imposto il matrimonio con consenso (consensus facit nuptias), l’approvazione al matrimonio espressa liberamente dalla donna era necessaria, con grande disappunto di alcuni gruppi sociali, soprattutto della nobiltà che, quindi, trovò i modi di aggirare questa prescrizione. Come dimostrano due lettere, la zia di Margaretha era consapevole del fatto che Margaretha dovesse avere «onorabilità»28, e ciononostante sollecitò con zelo il suo legame con Willer. Margaretha pensò all’inizio che con il suo no la faccenda fosse sistemata, ma si sbagliava. Le fu presto chiaro che doveva farsi sentire, per resi-
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stere a lungo a sua zia faccia a faccia. Ovviamente non soltanto a lei ma anche al suo tutore a Husum. Di certo prima c’era altro per lei. Margaretha e Willer Giunse, quindi, lo stesso Willer a fare la sua proposta di matrimonio. Se i genitori della donna fossero stati ancora in vita e la futura coppia di sposi si fosse conosciuta poco, negli altri strati della società sarebbe stata data alle figlie l’opportunità di conoscere il candidato più da vicino. Per Margaretha e Willer le cose stavano in un altro modo, perché i due si conoscevano sin dall’infanzia. E Margaretha aveva detestato Willer già da giovane ragazza. La sua defunta madre lo aveva usato come minaccia, quando si era reso necessario, per ricondurla alla ragione: «se non si fosse comportata in modo pio e pudico, sarebbe diventata la sposa di Willer»29. L’atteggiamento di Margaretha non era cambiato nel corso del tempo. Durante le feste si nascondeva dietro le altre giovani fanciulle da marito quando sembrava che Willer volesse invitarla a danzare. Quando poi Willer le si poneva di fronte lo ringraziava in maniera cortese per il suo interesse e per le sue parole, come si conveniva a una giovane fanciulla del suo rango. Fingeva inoltre che per desiderio di suo padre non fosse libera nella scelta e aggiungeva che c’erano altre belle fanciulle da sposare. Quando Willer apprese il suo rifiuto le chiese se non volesse pensarci ancora una volta; lei rifiutò ancora e lui ignorò il suo secondo rifiuto. Egli ritornò il giorno dopo e questa volta lei lo respinse bruscamente: «Io non vi posso soffrire e non potrei sopportarvi, sarebbe per me impossibile»30. Margaretha aveva utilizzato così la formula con la quale le donne esprimevano il loro radicale e definitivo rifiuto31. Sui motivi del rifiuto di Margaretha si possono fare solo supposizioni; è sicuro comun-
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que che lei non era per principio contro il matrimonio e, quindi, contro gli uomini. Willer, «del tutto innamorato»32 e forse anche colpito nel suo orgoglio maschile, le aprì il suo cuore: «Ora Dio mi migliori perché sono un uomo cattivo; io vengo dal mio commercio e dalle mie cose. Io non so chi sono e cosa sono, se sono una persona o una cosa»33. Ma la rappresentazione della sua pena d’amore non poteva impressionare Margaretha. «Per me è indifferente quello che siete. Per voi l’essenziale è restare lontano finché non vi invio un invito»34. Subito Willer comprese che avrebbe potuto aspettare questo invito in eterno. Anche una terza conversazione non ebbe effetto. Margaretha aveva espresso la sua volontà in maniera più che chiara. Se Willer si fosse mostrato ragionevole in quell’occasione, il rifiuto della ragazza avrebbe posto fine alla questione. Non fu così, ma per Margaretha non c’era alcun motivo di preoccuparsi. In realtà non ci si aspettava che l’uomo insistesse nel voler sposare una donna che lo rifiutava tassativamente. Lei poteva anche sperare che quell’innamoramento sofferto e passionale potesse scemare, e che egli con il passare del tempo tornasse ad essere ragionevole. Quando Willer partì per l’Inghilterra per un viaggio di affari e prima della partenza si sentì dire ancora una volta che la situazione era senza speranza, Margaretha pensò: «Adesso finirà il tuo tormento»35 e si rianimò. Si sbagliava, perché non appena ritornato Willer comparve di nuovo, ostinatamente, da lei. Sembra che trascorresse spesso la serata a casa della zia che, insieme con Otto Witte, ronzava continuamente nell’orecchio di Margaretha per farle cambiare idea. La ragazza agiva di conseguenza: se capiva in tempo che Willer sarebbe venuto, scompariva in fretta. Se ciò non era possibile, si preoccupava di comportarsi in modo che sia lui, sia gli altri comprendessero ciò che lei si aspettava da lui: una volta lui le porse una mela sbucciata sulla punta di un coltello e lei la buttò via; un’altra, quando lei voleva visitare sua nonna a
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Kappeln e lui la voleva accompagnare, lei scappò da una porta della stalla e viaggiò sola con una serva; un’altra volta ancora egli cercò di avvicinarlesi teneramente, ma lei lo respinse col gomito36. Per Margaretha l’importante era che la zia e lo zio rispettassero la sua decisione. Ma quale mezzo aveva lei, per far loro cambiare idea? Tra il 1638 e il 1639 Margaretha si vide sottoposta ad una forte pressione da parte della zia e di Willer. A Capodanno la zia insistette per portare subito a termine la faccenda, minacciandola addirittura di sbatterla fuori di casa. Anna si preoccupava della propria posizione a Schleswig: se non si andava avanti nelle nozze con Willer «mi inimicherò l’intera città»37, temeva. Il motivo del timore e dell’ulteriore pressione era dato dall’apparizione di un nuovo candidato, che sfortunatamente si era rivolto allo stesso uomo di Willer, cioè a Otto Witte. La zia di Margaretha riteneva che il suo piano di matrimonio con Willer non potesse più essere rinviato perché il secondo uomo, il cui nome era sconosciuto, stava iniziando il rituale di corteggiamento. Per questo motivo la zia pretendeva una decisione immediata; ma Margaretha restava ferma nella sua posizione. Per il nuovo anno arrivò Willer con un libro dalla copertina d’argento. Il regalo fu restituito. Margaretha affermò di aver ereditato abbastanza libri da sua madre38. Willer era consapevole di aver bisogno dell’aiuto altrui per cambiare i sentimenti di Margaretha, e di disporre di sufficienti mezzi materiali per ottenerlo. Al primo predicatore Sledanus, che avrebbe giocato un ruolo importante nella vicenda, offrì due monete d’oro per essere sostenuto nel suo progetto matrimoniale. Dato che si trattava del confessore di Margaretha, almeno i soldi erano stati messi al posto giusto. La zia di Margaretha non poteva ovviamente essere trascurata: lui le presentò un cubito di velluto colorato, che però la donna, secondo le sue stesse dichiarazioni, non accettò. Ma il dono non
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era tutto: Willer le offrì molto di più. Se Margaretha fosse diventata sua moglie lui sarebbe stato non solo un amico ma un fratello per lei. «Se lui avesse avuto uno scellino, lei ne avrebbe avuti sei da godere»39. Le prospettava così una partecipazione ai suoi affari. Anche per Beate, la sorella di Anna, si pensò a dei regali, che Willer all’inizio del 1639 portò impacchettati da Kiel40. L’uomo ritenne utile inoltre portare dalla propria parte anche persone di ceto inferiore, purché appartenenti alla cerchia ristretta di Margaretha: alla domestica Vibke Mollerß promise stoffe per un nuovo vestito se lei avesse sostenuto la sua causa. La giovane domestica – nel 1641 aveva 21 anni – gli diede ascolto, cosa che più tardi «fu un dolore al cuore»41. Margaretha era come circondata. Ma anche Margaretha poteva giocare la carta ‘dono’ per raggiungere il suo scopo, come si mostrerà. Il sì strappato con la forza Il 6 gennaio 1639 Margaretha ebbe un colloquio decisivo con il tuo tutore, che fino a tarda notte le parlò per convincerla al matrimonio con Willer. Alla fine Margaretha si dichiarò pronta a provare. Diede il suo sì con una riserva, decisiva per lei ma insignificante per lo zio. La riserva era espressa più o meno in questi termini: «se io posso amarlo»42. Nel colloquio si confrontavano due persone diverse in due diverse posizioni: da un lato Heinrich Badendick, l’uomo più vecchio – aveva 42 anni – che ricopriva una carica pubblica, zio e tutore, del quale Margaretha aveva un grande rispetto – troppo grande, come lei disse una volta43; dall’altro una donna sotto tutela poco esperta del mondo, che, data la sua posizione sociale e giuridica, come nubile doveva rispetto al tutore. Le due posizioni erano in conflitto, anche se si differenziavano solo nella successione temporale delle circostanze: ma sottintende-
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vano in realtà una differenza di principio. La posizione di Margaretha era in effetti: se posso amarlo, gli darò il mio sì definitivo. La posizione di suo zio: dagli solo il tuo sì, l’amore verrà dopo. Quando Margaretha parlò dei suoi sentimenti per Willer lo zio rispose: «quando sarà passato del tempo e ti sentirai tranquilla, verrà da solo». A ciò Margaretha replicò: «Oh! Non posso accettare questo male, Dio conosce il mio cuore e sa come mi sento. […] Mi dite sempre che questo avverrà»44. Lo zio e Otto Witte rappresentavano l’interpretazione corrente: l’amore sarebbe nato attraverso l’essere vicini, la vita insieme, il lavoro comune, il sostegno reciproco e la cura dei bambini. Ma Margaretha chiaramente voleva qualcosa di più e di diverso. Quando diceva a Willer che «lei non aveva cuore di unirsi a lui»45, si può dedurre che per lei l’affetto già prima della conclusione del matrimonio fosse una condizione decisiva. Le due posizioni implicavano anche una diversa valutazione degli aspetti socio-economici del matrimonio: mentre lo zio apprezzava il fatto che Willer fosse collocato socialmente al di sopra del padre di Margaretha – il che offendeva molto46 la ragazza –, per Margaretha questo aspetto era di secondaria importanza. Margaretha si era messa ormai in una posizione pericolosa: il suo sì con riserva poteva derivare dalla speranza che i suoi sentimenti verso Willer potessero ancora cambiare, oppure l’aveva concesso perché, giovane donna intimidita, non osava opporsi fino in fondo all’uomo più anziano, ai parenti, al tutore, e questo sì condizionato (che in effetti era un no mascherato) era la massima espressione di resistenza che lei, in quanto donna, potesse permettersi. Un testimone del colloquio riferì con approvazione che Margaretha «si fosse opposta allo zio come un eroe, e si fosse così rifiutata, che egli dovette concederglielo»47. Lutero, che si era occupato delle questioni riguardanti il matrimonio da lui stesso portate all’ordine del giorno, aveva preso posizione rispetto a questa problematica. Due suoi scritti
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erano determinanti in ambito protestante: Che i genitori non costringano i figli al matrimonio, né vi si oppongano e che i figli non si dovrebbero fidanzare senza il consenso dei genitori è il titolo di un breve scritto del 1530 sull’argomento. Si parla della necessità di un leale confronto tra genitori e figli; entrambe le parti dovrebbero rispettarsi reciprocamente, ma a causa del quarto comandamento il rispetto non è ripartito in misura uguale: i figli debbono ubbidire, i genitori dovrebbero solamente non costringere i figli e di conseguenza non danneggiarli con tale comportamento. Ma nel caso in cui si fosse formata una coppia senza il permesso dei genitori, non ci si poteva fidanzare né sposare. Era un chiaro rafforzamento della posizione dei genitori48, in quanto in precedenza era sufficiente alla fine il solo consenso del partner. Nella pratica Lutero diede ai figli innanzitutto due consigli. Al buon cristiano egli consigliò ubbidienza cristiana. Per i cristiani deboli aveva pronta un’altra soluzione: «che buoni amici presso il principe, il borgomastro, o altre autorità cerchino ed ottengano che l’ingiustizia diabolica di tale padre venga governata». Nel caso in cui anche l’autorità si fosse rivelata tirannica, l’unico aiuto possibile sarebbe stata la fuga49. Successivamente agli amici e all’autorità furono aggiunti anche i pastori; «oppure – aggiunse Lutero – lei deve testimoniare apertamente e oralmente che non lo fa e anche urlare contro la costrizione». Ma tutto ciò sarebbe dovuto avvenire prima (o durante) il fidanzamento: dopo non ci sarebbe stata più possibilità di tornare indietro. La proposta di rivolgersi all’autorità sembra da un lato tipica del tempo – ciò che non era possibile regolare in casa doveva essere risolto attraverso un magistrato – e ovviamente nel contempo era quasi impensabile, in quanto far uscire il conflitto familiare dall’ambito giuridico autonomo della casa per portarlo all’esterno, nel municipio, significava superare la linea di confine tra l’autorità pubblica e la famiglia, scavalcando la famiglia. Si aggiunga come aggravante che la vita pubblica
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governata dagli uomini non era un posto per donne, le quali di solito (indipendentemente dal fatto di essere giovani o anziane) non avevano la capacità di agire nel proprio interesse ma dovevano affidare questo compito a un uomo (spesso il padre, il fratello o il marito). Inoltre, sembra poco verosimile che l’autorità competente si sarebbe schierata contro il pater familias. I tribunali ecclesiastici ad esempio decidevano sempre a favore dei genitori per quanto riguarda i fidanzamenti segreti50. Un ulteriore problema relativo al consiglio di Lutero risiede nel fatto che egli non definiva la coercizione. Che cos’era la coercizione? La violenza fisica che i genitori erano autorizzati a esercitare verso i figli e la minaccia di diseredarli erano comunque comprese nel concetto di coercizione51. Ma cosa si può dire della minaccia di essere cacciata di casa e della enorme pressione alla quale era esposta Margaretha a Husum? Cosa avrebbe significato per Margaretha la proposta di rivolgersi all’autorità? In linea di massima la donna avrebbe avuto bisogno di una rappresentanza maschile in tutte le pratiche burocratiche civili, e in questo caso ovviamente non avrebbe potuto essere il tutore perché proprio contro di lui si indirizzavano le lamentele di Margaretha. Quindi Margaretha avrebbe dovuto pregare qualcuno all’interno della cerchia di parenti e amici. Dagli atti comunque, non emerge nessuno che avrebbe potuto aiutarla. Del resto, l’idea di rivolgersi all’autorità non venne in mente a Margaretha soprattutto per due motivi: da un lato perché intraprendere questa strada non faceva sperare nulla di positivo, e dall’altro perché la ragazza non voleva interrompere completamente i rapporti con la famiglia. Erano invece le sue proprietà che le concedevano la possibilità di impedire il matrimonio. Margaretha aveva ereditato dai genitori un terzo del loro patrimonio52, denaro investito e denaro contante. Il patrimonio di una donna, con il matrimonio, passava sotto l’amministrazione del marito proprio come una dote, che veniva considerata come una parte dell’eredità e,
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quindi, da essa detratta. Margaretha sostenne che Willer avrebbe potuto investire il patrimonio nel proprio commercio e quindi causarne la dispersione. A tale affermazione il suo tutore e zio ribatté che Willer non avrebbe dovuto affatto utilizzare il suo patrimonio; «certo zio Heinrich – lei ribadì – mi sembra così, in base alla mia semplicità e nel caso in cui egli dovesse avere problemi finanziari, io dovrei alienare tutto ciò che posseggo al mondo»53. Lo zio, che voleva assolutamente il matrimonio ma si preoccupava anche della salvaguardia del patrimonio, promise che avrebbe custodito per lei il suo denaro, quello investito e quello liquido. Il riferimento di Margaretha alla propria semplicità non era solo un atto di modestia per tributare allo zio il rispetto dovuto: in realtà, con grande intelligenza, la ragazza aveva giocato la carta ‘denaro’ perché con questa richiesta il matrimonio con lei era diventato per Willer completamente inappetibile dal punto di vista finanziario. Tutto questo significava infatti che il giovane, ambizioso e ricco commerciante era svantaggiato sia dal punto di vista giuridico, sia da quello finanziario rispetto a tutti gli altri mariti. Il diritto di disporre della dote oppure del patrimonio della donna apparteneva all’uomo dall’inizio del matrimonio. Se Willer avesse rifiutato l’accordo che si andava profilando, Margaretha avrebbe raggiunto il suo scopo. Margaretha in coercizione morale In effetti, prima che si giungesse a una soluzione della questione avvenne ancora qualcosa che avrebbe potuto cambiare lo sviluppo della vicenda. Il predicatore del duomo, dottor Christian Sledanus, pretese da Margaretha, sua penitente, un incontro. Informato al meglio dalle voci cittadine – i visitatori gli avevano portato le ultime novità, mentre lui era a letto malato – aveva udito degli avvenimenti di Husum. Era anche stato contattato
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dal suo cappellano come intercessore per Willer. Inoltre era un vecchio amico della famiglia di Margaretha, cosa che lo legittimava ad intervenire. Si era giunti al sì di Margaretha? E se c’era stata una costrizione non permessa? Anna Kopmann, Einrich Badendick, Willer vedevano bene il pericolo che li minacciava da questo versante e i due uomini si recarono da Sledanus. Anna Kopmann scrisse a suo fratello: «egli [il pastore] non sa dove trovare qualcosa con cui rendere spregevole Willer, sebbene il povero diavolo gli abbia portato due monete d’oro»54. Sledanus prese questa ‘bustarella’ che doveva servire allo scopo di convincere Margaretha ma, ciò nonostante, la situazione non fu immediatamente chiara a lui e a sua moglie55. La stessa Margaretha si vide in una situazione senza via di uscita; prima di andare, scrisse: «se Otto [Witte] fosse nella nostra casa, direi a lui e alla mia matrigna, che io non volevo andare volentieri dal dottore [pastore], perché dovrei dirgli la verità, perché so che egli mi consiglierebbe… non farlo mai»56. La sincerità con il pastore avrebbe significato l’impedimento dei piani matrimoniali di Willer, e ciò era davanti gli occhi di lei chiaro come la luce del giorno. Dunque Sledanus, il pastore competente anche per un eventuale matrimonio, non avrebbe avuto paura di prendere posizione con tutto il suo potere contro questa unione, anche pubblicamente, dal pulpito. Ma se Margaretha avesse detto al pastore la verità avrebbe tradito la parola data allo zio e contemporaneamente avrebbe rotto con i suoi parenti più stretti, causando uno scandalo cittadino. D’altra parte la ragazza non voleva fingere: «avrei dovuto dire nuovamente alla mia coscienza che io lo facevo volentieri, non volevo farlo». Subito si cercò di nuovo di convincerla: «mia cara Margaretha – disse Otto – non fatevi scorgere, per Dio sofferente, come se non lo faceste [così] volentieri, egli noterebbe che non lo fate volentieri, così sareste perduta. Guardatevene bene, per il dottor Sledanus è difficile; lui coglie le parole al volo come vi vede e di certo non fate più confusione, perché non vi deve dispiacere»57. Otto
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Witte, che aveva sempre pronto un consiglio, confermava solo ciò che per lei era già chiaro: una parola sul rifiuto nei confronti di Willer e lei «sarebbe stata perduta». Margaretha andò. Il pastore adempì al suo dovere di uomo di chiesa, nonostante il regalo in denaro. Egli pose la domanda decisiva in relazione alla simpatia per Willer. Se questa non esisteva, Sledanus l’avrebbe liberata da lui. Margaretha avrebbe risposto, come sappiamo da una lettera di sua zia al suo tutore a Husum: «Sì signor dottore [pastore] lo sopporto volentieri e lui, come me, non è tanto nobile, quindi proveniamo dalla stessa condizione sociale». Sledanus dunque non aveva più bisogno di indagare sulla costrizione. Margaretha aveva sprecato una possibilità obiettivamente esistente di scrollarsi di dosso Willer. La zia, sollevata, comunicò al tutore che Margaretha era una volta per tutte vincolata, poiché «era difficile che lei non mantenesse ciò che aveva promesso»58. L’interiorizzazione dell’obbedienza ai genitori, le norme di comportamento per le giovani donne, che imponevano modestia e moderazione, il rispetto verso i parenti più anziani, gli scrupoli a sostituire con un no il sì limitato nel colloquio con il Pastore – che era certamente sollecito con le donne in situazioni difficili – avevano dominato il coraggio personale, così si potrebbe dire. Ma affermare ciò sarebbe una leggerezza. Il coraggio avrebbe significato, come abbiamo detto, la rottura con la famiglia, e ci si deve chiedere se per Margaretha c’era un’alternativa al legame familiare. Una vita senza legami familiari era molto più difficile da realizzarsi per una donna che per un uomo, che poteva andarsene e trovare lavoro in qualche altro luogo. E sembra che non ci fossero altri parenti che approvassero la sua condotta e che potessero accoglierla. In questa fase nelle fonti emerge solo una persona che si poneva decisamente dalla parte di Margaretha: il suo fratello minorenne che, quando invitava Willer a non molestare più sua sorella, veniva insultato da questo come «monello»59.
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Pochi giorni dopo il ritorno di Margaretha a Schleswig, Anna Kopmann, sua zia, giudicò le prospettive molto positive. La donna scrisse a Husum a proposito di Willer: «egli comincia, si avvicina debolmente a lei, lei non fa nulla per incoraggiarlo. Io voglio impiegare duecento talleri»60. A gennaio Willer offrì a Margaretha un anello di diamanti «per amore e fedeltà coniugale», e quando la ragazza non lo accettò Willer lo lasciò sul tavolo. Naturalmente lei non lo portava, perché sapeva che «Se il dito è carico di anelli, la donna è condizionata»61. La zia insistette per ricambiare immediatamente il regalo e dopo tre settimane Margaretha consegnò in silenzio a Willer una cassettina di balsamo con una borsa di erbe medicinali. Questa era la promessa di matrimonio privata; sembrava che l’opposizione di Margaretha fosse scomparsa. Ma in verità Margaretha non aveva ancora rinunciato. Sembra piuttosto sicuro che Margaretha si sia mostrata in pubblico con Willer dopo questo periodo, per esempio al battesimo di un figlio del sarto ducale, dove erano entrambi padrini. E presentarsi con Willer poteva essere interpretato come la dimostrazione dell’esistenza del fidanzamento. Ma ciò non cambiava nulla. A Margaretha non restava altro che pregare nuovamente suo zio di desistere dalla sua parola con la motivazione che l’amore, che lei aveva posto come condizione, non voleva presentarsi. Tutto, ancora, si concentrava sulla questione dell’autorità maschile e dell’ubbidienza femminile: Heinrich Badendick ora doveva consegnare volontariamente una parte del suo potere alla sua pupilla disubbidiente? Egli aveva dato il suo assenso: non poteva imporsi a Margaretha, era compromesso pubblicamente ed era il servitore di un principe, non poteva dunque perdere di vista la sua carriera. La costanza, componente centrale dell’onore maschile, era per lui fondamentale e i sentimenti di sua nipote dovevano passare in secondo piano di fronte ad essa. Inoltre, si trattava di una questione di calcolo sociale. Sembrava che altri pretendenti rifiutati, i
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quali contrariamente a Willer non avevano mai ricevuto un consenso, a lungo andare reagivano con ostilità62. Anche per questo motivo era meglio non ritirare il consenso. Cosa poteva fare ancora Margaretha in questa situazione? Adottò la linea di rendere tutti gli affari il più possibile difficili e in tal modo ritardarli. Così pretese, per esempio, una camera da letto particolare – praticamente una camera per malati – nella casa in cui sarebbe dovuta andare successivamente. Quando non fu più possibile ritardare il corso degli eventi si mostrò pronta, volente o nolente, a subire la cosa, non senza rendere evidente a tutti che lei, in realtà, era contraria. Ma una resistenza simbolica poteva produrre effetti? Finora non lo aveva fatto. La condizione psicologica di Margaretha prese allora ad oscurarsi sempre più: la religione e la messa divennero sempre più importanti per lei. Chi cercava di convincerla al matrimonio le consigliava ripetutamente di pregare, perché così il dolore sarebbe passato. In realtà Margaretha pregava ma dava alla preghiera un altro significato: «Ma la mia preghiera era così. Se io sentivo che in chiesa si doveva pregare, la mia era una contro-preghiera; oh Dio, non farmi sopravvivere a questo giorno, fa che io muoia, questa era la mia preghiera serale e mattutina, e sapevo nel mio cuore che era vero»63. Pesanti peccati contro Dio e la società, che potevano concludersi con una sepoltura nello scorticatoio, le passavano per la testa. Il fidanzamento Il 4 giugno 1639, terzo giorno di Pentecoste, gli eventi precipitarono. La sera precedente Margaretha poteva ancora sperare. Cinque mesi dopo che lei aveva posto la condizione di mantenere il diritto di disporre della sua proprietà, questo punto non era ancora stato regolato. Ma la mattina del 4 giugno, giorno stabilito per il fidanzamento, Willer «alla fine […]
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dopo una lunga disputa»64 acconsentì che «i sigilli e i contanti restino per interesse nella condizione matrimoniale e non abbiano niente a che fare con il commercio e le obbligazioni restino in originale presso la mia amata, che le ha in custodia»65. Lui comunque doveva in ogni modo poter disporre degli interessi di questo denaro. Non abbiamo notizia di questa trattativa, condotta verbalmente, ma riteniamo che gli sia stato detto che altrimenti non si sarebbe concluso nessun fidanzamento. In effetti Willer, la sera precedente, era ancora molto rattristato, «tanto che voleva quasi piangere», perché «non sapeva ancora se lei voleva mantenere ancora il fidanzamento oppure no»66. La mossa di Margaretha aveva tenuto aperta per molto tempo la possibilità di un cambiamento ma ora, prima della decisione, era evidente che si era aperta a Willer la strada verso un grande sacrificio: la sua rinuncia sarebbe stata del tutto inusuale, e Margaretha avvertiva che l’accordo avrebbe trasgredito alle buone usanze, che sarebbe sembrato che si volesse introdurre nel ducato un abuso molto comune tra gli uomini olandesi e veneziani67. Le ampie implicazioni sociali dei contratti matrimoniali non venivano affatto considerate nell’accordo tra Willer e Margaretha68. Mentre i contratti matrimoniali infatti non rappresentavano altro che «uno strumento di difesa nell’eventualità peggiore»69, con questo ciò era reso impossibile al futuro coniuge fin dal principio. Margaretha aveva, quindi, ottenuto qualcosa, ma ciò non significava nulla per lei, perché non voleva questo marito. Ma ormai il fidanzamento non poteva essere più impedito. A quell’epoca il fidanzamento aveva un’importanza maggiore rispetto a quella che possedeva fino a poco tempo prima: era il passo decisivo, legalmente richiesto e vincolante70. Il fidanzamento fondava il matrimonio. La sua formalizzazione dava origine a un matrimonio valido e indissolubile. Le nozze avevano, contrariamente a quel che accade oggi, solo il significato di una conferma, proprio come la consumazione del matrimo-
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nio. E per queste caratteristiche era richiesto che il fidanzamento fosse pubblico. L’importanza nel processo di conclusione del matrimonio si era spostata nel corso della prima età moderna, quando era divenuto decisivo il fidanzamento. Il fidanzamento tra Willer e Margaretha ebbe luogo il terzo giorno di Pentecoste. Sarebbe dovuta essere una grande festa, unica nel suo genere, nella quale gli ospiti sarebbero stati felici della conclusione degli accordi matrimoniali. Ma le cose non andarono così. Quando andò via il primo ospite, anche gli altri andarono via in fretta, e non a causa del cibo messo a tavola; c’era ancora una portata di vitello, era stato preparato un coniglio e, inoltre, c’era da pensare ancora a dieci giovani polli71. Il disagio dipendeva piuttosto dallo strano comportamento della sposa, del quale tutti si resero subito conto. Già il fidanzamento era cominciato in modo abbastanza particolare: Willer aveva aspettato con la sua famiglia in chiesa, la sposa era rimasta fuori. La cerimonia poi doveva aver luogo a casa della zia. Ancora una volta lo spazio prescelto avrebbe dovuto costituire la dimostrazione del potere: ma lo sposo, che avrebbe voluto almeno un luogo pubblico, si dovette accontentare di una casa privata. Per garantire l’ufficialità dell’atto di fidanzamento erano stati invitati non solo i testimoni – tre persone, parenti stretti, come era previsto, appartenenti a ciascuna famiglia – ma anche gli uomini di chiesa competenti, il pastore, Sledanus, e il cappellano, Gladovius. Uno di loro teneva formalmente la mano di Margaretha, l’altro dava l’assenso in nome della Santissima Trinità, assenso che veniva siglato con una stretta di mano. Margaretha Dalhusen non aveva, quindi, la possibilità di scappare nel momento decisivo. Tuttavia «La sposa non è stata presente»72, afferma Heinrich Badendick in merito all’atto giuridico finale. Margaretha non era stata esclusa, come viene chiarito dal racconto di Anna Hieronymus, sorella di Willer: «Ma lei, in quanto donna, in base alla prassi non era presente»73 quando il fidanzamento aveva avuto luogo. Il fidanzamento
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era in questo caso, come di costume, un affare prettamente maschile74. Infine i fidanzati, come di rito, si erano scambiati i regali, i cosiddetti doni nuziali, ma non in presenza di testimoni, come sarebbe stata tradizione. Margaretha gettò la scatola che le aveva donato Willer lontano dai suoi occhi, in una cesta dove si ripongono gli oggetti giornalieri75. Tra gli altri regali c’era un medaglione con la rappresentazione delle nozze di Cana, sul cui retro era scritta la frase «quos deus coniunxit, homo non separet»76. Le consuetudini vennero invece rispettate durante il pranzo, al quale parteciparono anche le donne. Qui Margaretha, che fino al mattino aveva sperato che Willer non accettase la sua richiesta relativa ai diritti patrimoniali, mostrò apertamente cosa pensasse del fidanzamento, pur senza pronunciare una parola che potesse infrangere le norme. Innanzitutto era antica tradizione che la sposa e lo sposo, insieme per la prima volta in pubblico, in presenza degli ospiti si sedessero a tavola l’uno accanto all’altra; ma il pastore Sledanus dovette tirare Margaretha per la veste per costringerla a prendere posto vicino a Willer. Poi la ragazza cominciò ad assentarsi continuamente, come per dimostrare di non riconoscere il fidanzamento. Già dopo pochi minuti si era scusata per la prima volta, poi aveva trovato sempre nuovi pretesti, e infine non era più tornata. Per la maggior parte del tempo quindi Willer sedette al tavolo senza la sua sposa promessa. Si dovette rinunciare anche al tradizionale brindisi. Nulla avrebbe potuto esprimere più chiaramente l’unilateralità e il carattere coercitivo del fidanzamento: invece di una coppia che si guardava con gli occhi raggianti, in mezzo agli ospiti sedeva un marito lasciato solo. Quando i primi ospiti si accomiatarono non trovarono la sposa per salutarla; era nascosta al buio nel piano più alto della casa. La spiacevolezza della situazione giunse al suo acme quando lo zio, che intendeva questo comportamento come un atto di aperta disubbidienza della sua tutelata, scagliò furioso una candela
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accesa sul pavimento e disse che se fosse stata sua figlia l’avrebbe picchiata. Ormai, comunque, la relazione tra Willer e Margaretha poggiava su solide basi giuridiche. Il tutore Heinrich Badendick aveva riposto le sue speranze sull’effetto del fidanzamento pubblico: era convinto che alla ragazza non rimanesse altra alternativa che accettare, e dunque sviluppare affetto per Willer. Dopo il fidanzamento Come era prevedibile, all’inizio Margaretha mantenne il suo vecchio atteggiamento nei confronti di Willer, come si potè percepire già a colazione, il mattino successivo al fidanzamento: Margaretha non andò a tavola. Quando Willer tornò a casa, la sera, non gli fu portato da mangiare e quindi l’intera famiglia dovette rinunciare alla cena. Poiché da solo non riusciva ad ottenere risultati, Willer cercò allora di coinvolgere il pastore Sledanus, affinché potesse far cambiare idea a Margaretha. Cercò di fare ciò anche lo zio, al quale la ragazza, durante una visita a Schleswig, aveva ripetuto che «lei non lo voleva, il diavolo doveva volerlo»77. Mancavano ancora le pubblicazioni, la processione nella strada della città e lo sposalizio, cioè la benedizione in chiesa con annessa una grande festa, il matrimonio, e naturalmente la consumazione dell’unione matrimoniale, ma Margaretha continuava a rifiutarsi. Tuttavia, dopo i festeggiamenti per il fidanzamento, al predicatore del duomo erano venuti alcuni dubbi. Chiese allora da cosa derivasse quella avversione e con stupore ottenne come risposta che lei non lo aveva mai potuto sopportare. Sledanus, quindi, ritenne che non ci fosse la base per una unione cristiana. Rivolgersi all’uomo di chiesa, quale responsabile del matrimonio, si era rivelato controproducente per Willer, che cominciò a interrogarsi sul da farsi: poteva rinunciare, oppure inten-
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tare un’azione legale, anche se ora aveva un oppositore nella Chiesa. Ma come uomo poteva accettare una tale sconfitta? Lui, la cui «passione amorosa»78 era conosciuta in tutta la città, lui che si era vantato in pubblico di aver ricevuto centinaia di baci dalla sua sposa? Dal punto di vista dell’onore era meglio intraprendere un’azione legale sulla consumazione del matrimonio. Willer rimase per molto tempo incerto sulla decisione da prendere. La legge era dalla sua parte, perché un fidanzamento poneva le basi, nel senso più ampio del termine, per l’unione matrimoniale. Ma quali erano le caratteristiche delle sentenze nei ducati in casi simili? Questa domanda implica che ci fossero anche altre donne che si rifiutavano di concludere l’unione matrimoniale, anche se era diventato più difficile sciogliere il fidanzamento rispetto a quanto non lo fosse nel tardo medioevo. Una relativa frequenza può essere rilevata dal fatto che per lo stesso decennio vengono documentati anche altri casi del genere. E si tratta naturalmente solo dei casi portati davanti a un tribunale. Ciò indicava non solo il valore centrale che il matrimonio aveva per lo Stato e per la Chiesa dell’epoca, ma anche la «crescente influenza di questa istituzione sull’unione matrimoniale»79. Occorre chiedersi, quindi, a che punto fosse tale processo nei ducati. Quando pochi anni prima, nel 1633, un uomo aveva intrapreso un’azione legale presso il concistoro di Husum affinché fosse portato a termine il suo matrimonio, la donna era stata condannata80, e tale sentenza mostra chiaramente il prevalere di un modello coercitivo. E quando un anno prima Katharina Witten era stata querelata per il mantenimento della promessa di matrimonio, a Rendsburg si decise che lei avrebbe dovuto confermare la sua affermazione con un giuramento, e che «in questo caso il matrimonio dovesse essere concluso entro quattro settimane; nel caso in cui la donna fosse colpevole e venisse meno al giuramento, le si comminava come pena, per evitare che il suo comportamento si ripetesse, che metà della sua dote di sposa diventasse di proprietà di chi
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l’aveva querelata e che le fosse vietato di sposarsi per tutta la vita di lui». La linea dei concistori nei ducati era quindi relativamente chiara: laddove possibile i matrimoni dovevano essere portati a termine. Lo Stato e la Chiesa si comportavano come padri collettivi e superiori e tutori della collettività. Tristi prospettive, quindi, per Margaretha. Il conflitto si estende Avviata l’azione legale, il processo si prolungò; presto non avrebbe più riguardato solo Margaretha e Willer. In città erano già circolate voci contrastanti sui due fidanzati. Willer aveva diffuso racconti sulla sua relazione intima con Margaretha, consapevole che una conoscenza carnale resa pubblica potesse esercitare una pressione81 sulla ragazza. Anche in seguito egli aveva cercato di servirsi dell’opinione pubblica, cercando di diffondere una cattiva fama su di lei. Naturalmente Margaretha ebbe notizia dei pettegolezzi cittadini, tanto che pensò addirittura di abbandonare il paese. Rappresentante legale di Willer divenne il primo borgomastro di Schleswig, Jochim Pistorius, avvocato di corte e del tribunale provinciale. Margaretha fu rappresentata da Lorenz Coch, che «non era un giurista»82 ma un farmacista, e da un altro uomo. In questo modo erano dalla sua parte due importanti personalità che si erano fatte odiare in città: Coch e Sledanus. Il farmacista Lorenz Coch infatti non era amato da una parte della popolazione cittadina e quando era diventato secondo borgomastro era stato sospettato di aver tradito i privilegi della città. Sledanus, primo predicatore del duomo, si interessò di Margaretha con tutta l’energia della sua natura bellicosa. Ma il borgomastro e il Consiglio non erano in buoni rapporti con Sledanus, che dal pulpito aveva elogiato i suoi amici e mecenati e aveva ricoperto di fango i suoi presunti
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nemici. I suoi oppositori gli rinfacciavano anche il fatto che egli avesse permesso ai discepoli del duomo di recitare davanti all’altare maggiore «una commedia pagana di prostitute»83, un’opera di Terenzio. Per Sledanus infatti, secondo la maniera tardo-umanistica, non c’era nessuna contraddizione tra i grandi autori dell’antica romanità e la dottrina cristiana; una contraddizione palese invece per l’autorità statale. È evidente quindi che solo coloro che non erano in armonia con la città, come Sledanus e Coch, erano dalla parte di Margaretha, dalla parte di una donna che si rifiutava di piegarsi alle norme. I conformisti invece erano dalla parte di Willer; gli unici costantemente dalla parte del diritto conservatore, ma gli unici anche a concedere a un uomo di abbandonarsi alle proprie passioni d’amore, a riconoscergli un diritto all’espressione dei sentimenti più ampio di quello della donna. E questo era un atteggiamento che contraddiceva lo stereotipo sessuale che ascriveva alla donna sfrenatezza nelle questioni amorose. Entrambe le parti cercarono di fare intervenire i sovrani. Sledanus inviò una dotta epistola, scritta in latino, al cancelliere di Holstein-Gottorf e alle persone a capo del governo. In essa egli sosteneva che l’amore reciproco fosse il presupposto per la conclusione di un matrimonio e rifiutava qualsiasi tipo di costrizione; in altre parole sosteneva in questo modo anche la piena libertà di scelta dei figli. Continuando, egli argomentava che, poiché non era stato concluso nessun matrimonio religioso, non esisteva nessuna unione matrimoniale e, quindi, il fidanzamento poteva ancora essere sciolto. Egli poteva contare su una folta schiera di note autorità84. Accanto al duca di Gottorf c’era anche il re danese, sovrano nei ducati. A lui, o più specificamente direttamente a suo figlio si rivolse Willer, in quanto suddito nativo di Flensburg, poiché la sua città natale apparteneva al territorio reale. Egli sollecitò il principe, il futuro Cristiano V, affinché intervenisse a suo favore. Quale effetto ebbe l’allargamento del conflitto? Quanto più
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numerosi erano i centri coinvolti, tanto più difficile doveva essere per entrambe le parti arrendersi. E questo è uno dei motivi per cui il processo giudiziario durò così a lungo. La sentenza Durante il processo, che si protrasse per anni, come al solito furono presentate versioni della realtà diametralmente opposte. Margaretha fu raffigurata da un lato come una sposa innamorata, dall’altro come una povera orfana. Vennero condotti lunghi interrogatori dei testimoni, per i quali le parti, secondo la prassi, avevano stilato il catalogo delle domande. Più tardi, come abbiamo detto, vennero coinvolti anche i governi locali. Infine, nel novembre 1643, Margaretha fu condannata a concludere il matrimonio e a consumarlo entro otto giorni dalla conclusione85. Al tutore fu dato ordine «di predisporla alla riconciliazione e alla consumazione, in base al contenuto della sentenza concordata»86; egli doveva essere aiutato dal parroco del luogo. Si giudicò, quindi, in maniera strettamente attinente alla legge, che fu interpretata in modo conservatore, secondo un’interpretazione che considera il matrimonio decisivo. I sentimenti di Margaretha nei confronti di Willer furono giudicati irrilevanti. La sentenza dimostra inoltre che l’atto decisionale non si era ancora spostato sul matrimonio, ma che la linea di demarcazione era ancora il fidanzamento. Era la fine – così dovette essere interpretata. Sembrava quindi che Margaretha non avesse più nessuna possibilità di azione. Ma non era così: dopo la sentenza, in base alla dichiarazione del partito contrario, la ragazza andò via da Schleswig portando con sé i suoi beni. Occorre chiedersi, però, se in questo modo lei avesse seguito un modello di comportamento che veniva frequentemente usato nel caso di matrimoni infelici: uno dei partner, per lo più l’uomo, abbandonava il luogo di residenza senza
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separazione e si trasferiva in un altro luogo. Ma davvero Margaretha voleva fuggire e lasciare Schleswig per sempre? Contro questa ipotesi gioca il fatto che tale scelta non era conforme alla sua condizione sociale. In ogni caso l’atto simbolico della separazione e della fuga rientrava pienamente nella linea assunta fino a quel momento; del resto, lei aveva già prospettato ipoteticamente una simile possibilità in caso estremo. La meta prescelta era l’Olanda, il rifugio per le persone in difficoltà. Un motivo per abbandonare Schleswig risiedeva anche nella pericolosa situazione militare – la guerra era ritornata nei ducati – che consigliava di mettere al sicuro le giovani donne. Margaretha tuttavia non aveva deposto ogni speranza, e tornò a Schleswig. Utilizzò l’ultima risorsa ancora praticabile per un suddito nella sua situazione: scrisse suppliche e richieste di intercessione. Supplicare e bere acqua è permesso a chiunque, recita una massima giuridica della prima età moderna, e Margaretha si attenne scrupolosamente a essa. Si fece scrivere in totale sette suppliche. Il suo scopo era quello di ottenere una mitigazione della sentenza; i suoi argomenti, esposti con molta drammaticità, erano il fidanzamento coatto e la sua impossibilità di sposare Willer. Una delle suppliche ha riferimenti cristiani: «Ora Gesù di Nazareth, il Redentore, che conosce tutti i cuori, sa che io non posso portare a lui il mio cuore e se dovessi, preferirei morire della peggior morte»87. Nelle suppliche si fa ricorso dunque anche all’espressione dei sentimenti. Sentimenti assenti, secondo la donna, dalle motivazioni del fidanzato: le infinite pressioni di Willer per la conclusione del matrimonio erano viste da Margaretha come fondate solo su interessi economici. A lui non interessava la sua persona, ma il suo patrimonio. È arduo misurare quanta clemenza fosse ancora possibile. La formalizzazione era ormai avanzata, ed è difficile ritenere che Margaretha avesse ancora grandi possibilità, se non fossero intervenuti fatti nuovi.
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La caduta di Willer La vita presenta cambiamenti inaspettati che una scienza storica sovrarazionalizzata non percepisce, poiché gli storici a volte proiettano più volentieri la loro ragione nella storia piuttosto che mantenere aperta l’interpretazione all’indeterminato e al casuale nel processo storico. Willer stesso involontariamente procurò la salvezza di Margaretha. E per questo lei poté addirittura denunciare Willer alle autorità per la rottura dell’unione matrimoniale, sebbene avesse sempre sostenuto che non c’era stata nessuna unione matrimoniale. La motivazione: l’uomo aveva messo incinta un’altra donna. In una frase un po’ nascosta si trova la prima espressione di questo sorprendente cambiamento: «una donna di nome Anna Jürgens, prima che egli arrivasse a Schleswig per l’inizio del processo, per perseguitare Willer lo aveva incolpato di averla messa incinta nel giugno 1643»88. Era l’occasione per ribaltare una situazione che sembrava disperata. Le argomentazioni di Margaretha si basavano sulle parole di Lutero e sul diritto vigente. Lutero aveva sostenuto che un uomo dopo il fidanzamento doveva essere un marito giusto e non poteva sfiorare nessun’altra senza la rottura del matrimonio89, e nel 1582 questa interpretazione era stata recepita anche dalle leggi nazionali90. Poiché una condanna per questo reato implicava per la parte colpevole il divieto di matrimonio, Willer cercò di ritardare le cose, forse con la speranza che la data del concepimento indicata non corrispondesse al periodo della nascita, e in questo lasso di tempo aumentò la paura di Margaretha che la testimone potesse morire durante il parto o abbandonare la città. Ma anche durante le doglie la donna indicò alla levatrice Willer come padre, dopo averlo già dichiarato al suo confessore. Willer si arrese. Una nota – verosimilmente del messaggero che consegnò la querela – fornisce una prima indicazione: «Egli non intende rispondere alla querelante. Lei resta quella che è,
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io resto quello che sono»91. Verosimilmente egli era, inoltre, preoccupato per l’andamento dei suoi affari in tempo di guerra, poiché nel frattempo le truppe nemiche si trovavano per la seconda volta in città. Il 25 luglio 1644 – cinque anni e un mese dopo il fidanzamento – egli comunicò di essere pronto «a condurre più volentieri un buon affare, piuttosto che affaticarsi, proseguendo il processo»92. Stanco del processo, forse anche per il dispendio economico, aspirava ormai solo a un accordo amichevole ed era pronto ad accettare lo scioglimento del fidanzamento. Ma Margaretha stava preparando il colpo decisivo. Ancora nel 1643 Willer aveva richiesto la conclusione delle nozze dietro minaccia della confisca dei beni di lei. Ora lei cambiava le carte in tavola: i suoi avvocati, appellandosi alle norme vigenti che prevedevano la comunione dei beni dei coniugi, pretesero che egli non soltanto pagasse le spese processuali, ma anche che le trasferisse la metà del suo patrimonio, poiché con la rottura degli accordi matrimoniali dovuta all’infedeltà dell’uomo lei sarebbe stata privata di quella opportunità. Non sappiamo come si sia risolto questo conflitto economico. Ma sappiamo che il cappio intorno al collo di Margaretha si era sciolto. Lei era di nuovo libera, anche libera di sposare chi voleva. Epilogo Se una problematica come questa viene presentata al pubblico più ampio, la domanda inevitabile è: cosa ne è stato di loro? L’aspetto biografico appartiene troppo alla vita degli uomini di oggi come a quelli di una volta, tanto che in questa situazione si vorrebbe rinunciare a esso. Gli eventi successivi non sembrano atipici dal punto di vista della storia di genere; che ci siano abbastanza fonti sulle donne – cosa che all’inizio della storia delle donne era controversa – è stato dimostrato anche da que-
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sto studio. Che spesso sia difficile seguire il destino delle donne93, viene dimostrato dalle osservazioni sul destino di Willer e di Margaretha. Poiché su Willer si sa davvero molto, su Margaretha niente. Willer raggiunse la prosperità e il potere; divenne ancora più ricco, e la sua ricchezza poggiava su basi molto sicure. Nel 1656 disponeva di una casa e di molti appartamenti nel primo quartiere di Schleswig94. Non è possibile stabilire se si fosse sposato95, ma è verosimile. Inoltre fece una brillante carriera politica nella città in cui, in base alle sue stesse affermazioni, egli era un povero straniero. Nel 1651 divenne consigliere comunale96, dal 1661 secondo borgomastro, una funzione che conservò fino alla morte, nel 167297. Su Margaretha non sono riuscito a trovare niente; dovrebbe essere rimasta a Schleswig, essersi sposata, aver avuto dei bambini ed essere morta lì. Poiché i libri parrocchiali della comunità del duomo, alla quale lei apparteneva, mancano per questo periodo, non è possibile sapere niente in merito. Potrebbe avere anche abbandonato la città, potrebbe essere andata forse dallo zio, che aveva mutato opinione e che aveva sostenuto le sue suppliche. Potrebbe anche aver seguito il fratello, che probabilmente nel frattempo si era sistemato professionalmente. Se Margaretha ha abbandonato Schleswig, forse qualcuno, che ora conosce la sua storia, la ritroverà nelle fonti di un’altra città.
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Note
* Traduzione di Nicola Guarino. 1 H. Wunder, “Er ist die Sonn“, sie ist der Mond. Frauen in der frühen Neuzeit, München, 1992, p. 80. Cfr. anche S. Burghartz, Zeiten der Reinheit – Orte der Unzucht: Ehe und Sexualität in Basel während der frühen Neuzeit, Paderborn u.a., 1999, p. 133. 2 Cfr. D.W. Sabean, Property, Production, and Family in Neckarhausen, 1700-1870, Cambridge, 1990, p. 418. 3 R. van Dülmen, Fest der Liebe. Heirat und Ehe in der Frühen Neuzeit, in
Id., Armut, Liebe, Ehre. Studien zur historischen Kulturforschung, Frankfurt am Main, 1988, p. 73.
4 Cfr. M. Weber, Zwischenbetrachtung, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, 1934, p. 555 (trad. it. Sociologia delle religioni, a cura di C. Sebastiani, Torino, 1976). 5 H.-J. Teuteberg, ”Alles das – was dem Dasein Farbe gegeben hat“. Zur Ortsbestimmung der Alltagsgeschichte, in Methoden und Probleme der Alltagsforschung im Zeitalter des Barock, hrsg. O. Pickl, H. Feigl, Wien, 1992, p. 19. 6 Cfr. A. Lüdtke, Alltagsgeschichte – ein Bericht von unterwegs, in ”Historische Anthropologie“, n. 11, 2003, p. 290. 7 R. Van Dülmen, Fest der Liebe, cit., p. 77; H. Feigl, Heiratsbriefe und Verlassenschaftsabhandlungen als Quellen zur Alltagsgeschichte, in Methoden und Probleme der Alltagsforschung im Zeitalter des Barock, cit., p. 90. 8 P. Münch, Lebensformen in der frühen Neuzeit, 1500-1800, Frankfurt/M.-Berlin, 1996, p. 270. 9 Cfr. R. van Dülmen, Heirat und Eheleben in der Frühen Neuzeit, in ”Archiv für Kulturgeschichte“, n. 92, 1990, pp. 153-171. 10 Landesarchiv Schleswig (d’ora in poi LAS), vol. 7, n. 2119. Quando
non è indicato altrimenti, tutte le indicazioni delle fonti si riferiscono a questa istituzione. Quando i documenti non sono datati dallo scrivente, viene indicata la nota d’arrivo della cancelleria, per quanto disponibile.
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11 Cfr. B. von Krusenstjern, Schreibende Frauen in der Stadt in der Frühen
Neuzeit, in Frauen in der Stadt. Selbstzeugnisse des 16.-18. Jahrhunderts, hrsg. D. Hacke, Ostfildern, 2004, p. 45; D. Hacke, Selbstzeugnisse von Frauen in der Frühen Neuzeit, ivi, pp. 11, 16. In un altro studio sul XVI secolo si è sostenuto, sulla base di autobiografie, che una reazione della donna all’avvio di un matrimonio non può «essere descritta» in contrapposizione all’uomo e che «nelle fonti la donna si ritraeva nell’ombra»: cfr. A. Völker-Rasor, Bilderpaare-Paarbilder. Die Ehe in Autobiographien des 16. Jahrhunderts, Freiburg, 1993, p. 146. 12 Margarethe E. Milow, Ich will aber nicht murren, hrsg. R. Bake, B. Kiupel, s. l., s.d. 13 H. Kellenbenz, Schleswig in Gottorfer Zeit, 1544-1711, Schleswig, 1985, p. 184. 14 Nel suo testamento del 17 novembre 1633 Arend Dalhusen parla di un uomo in età di matrimonio come «mio garzone». 15 Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 122. Altrimenti i testamenti sono documentabili anche sulle tariffe nei conti cittadini, tuttavia mancano i conti cittadini per l’anno 1633. 16 Cfr. infra. 17 La tutela poteva essere definita attraverso un testamento. Il testamento di Arend Dalhusen non è conservato. 18 Cfr. LAS, vol. 7, n. 4795 (1640-41). Ad ogni modo Badendick non era
solo affittuario. Nel 1631 regalò 50 marchi alla scuola di Husum, cfr. Das Stiftungsbuch der Stadt Husum. Zusammengestellt von J. Henningsen, Husum, 1904, pp. 375, 430. Egli si firma del resto con «Badendich». 19 Cfr. E. Waschinski, Eine Bevölkerungsliste der Hauptstadt Schleswig aus dem Jahre 1611, in ”Zeitschrift für Niederdeutsche Familienkunde“, n. 39, 1964, pp. 145, 149. 20 O. Hufton, The Prospect before Her, New York, 1996, p. 103. 21 Manuscriptum in Originali, rub. 45. 22 Articuli reprobatoriales, Willer Willers, 29 novembre 1641. 23 Cfr. Stadtarchiv Flensburg, XII StT 218, dove Willer appare su una tavola genealogica parziale, e XII Hs 337.
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24 Secondo le dichiarazioni del cappellano Gladovius, che naturalmente non era là. Ma così potrebbe essere stato. 25 M. Luther, Daß Elltern die kinder zur Ehe nicht zwingen noch hyndern, Und die kinder on der elltern willen sich nicht verloben sollen, in D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, vol. 15, Ristampa della dichiarazione 1899, Weimar-Graz, 1966, p. 167. 26 La cronologia del tempo d’inizio nelle fonti è confusa. 27 Manuscriptum in Originali, rub. 7. 28 Estratto dalla lettera di Anna Dalhusen a Heinrich Badendick, Schleswig, 29 gennaio 1639. Cfr. anche la lettera del 26 gennaio 1639. 29 Sledanus, Ausführliche... Deduction ad Art. 2 et 3. 30 Manuscriptum in Originali, rub. 7. 31 A una proposta di matrimonio una vedova nel XVI secolo rispondeva «come nessun uomo sia da prendere sulla terra, quando si può avere già l’imperatore». Das Buch Weinsberg, vol. 1, Köln, 1886, p. 209. 32 Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 15. 33 Manuscriptum in Originali, rub. 13 f. 34 Manuscriptum in Originali, rub. 14 e 15. 35 Manuscriptum in Originali, rub. 18. 36 Defensional Articul Margareta Dalhausen contra Wilhard Willers, Gottorf, 6 agosto 1641. 37 Otto Witten, Dichiarazione del 26 novembre 1640. 38 Otto Witten, Dichiarazione del 26 novembre 1640. 39 Zeugenverhör [interrogatorio dei testimoni], 9 settembre 1641, Anna
Kopmans ad Art. 2.
40 Articuli, 29 novembre 1641, Frage 45. 41 Zeugenverhör, 9 settembre 1641. 42 Cfr. Manuscriptum in Originali, rub. 27.
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43 Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 122. 44 Ibidem. 45 Manuscriptum in Originali, rub. 5. 46 Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 111. 47 Cfr. Art. 40, Dichiarazione di Otto Witte. 48 Cfr. M. Brecht, Martin Luther, vol. 2, Stuttgart, 1986, p. 99. 49 M. Luther, Daß Elltern die kinder..., cit., p. 166, cfr. anche p. 169. 50 Cfr. Th. Robisheaux, Rural Society and the Search for Order in Early Modern Germany, Cambridge, 1989, p. 108. 51 Cfr. E. Koch, Die Frau im Recht der Frühen Neuzeit. Juristische Lehren
und Begründungen, in Frauen in der Geschichte des Rechts, hrsg. U. Gerhard, München, 1997, p. 78. 52 Testamento del padre del 17 novembre 1633, in Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 122. 53 Cfr. Manuscriptum in Originali, rub. 24. 54 Estratto da uno scritto di Anna Kopmann a Heinrich Badendick, Schleswich, 18 gennaio (1639). 55 Ibidem. 56 Manuscriptum in Originali, rub. 31. 57 Ibidem. 58 Ibidem. 59 Sledanus, Außführliche... Deduction, ad Art. 2 e 3. 60 Estratto dalla lettera di Anna Dalhusen a Heinrich Badendick, Schleswig, 8 gennaio 1639. 61 C. Schott, Trauung und Jawort. Von der Brautübergabe zur Ziviltrauung,
s. l., (1992?), p. 44.
62 Cfr. R.-P. Fuchs, Um die Ehre. Westfälische Beleidigungsprozesse vor dem Reichskammergericht 1525-1805, Paderborn, 1999, pp. 260-266.
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63 Manuscriptum in Originali, rub. 33. 64 Schrifftliche KegenNotturfft Willer Willerß, 22 settembre 1640. 65 Copia der Urkunde Schleswigh, 4 giugno 1639. 66 Sledanus, Ausführliche... Deduction, ad Art. 92. 67 Exceptiones, 25 giugno 1640. 68 E. Forster, M. Lanzinger, Stationen einer Ehe. Forschungsüberblick, in ”L’homme“, n. 14, 2003, p. 144. Le autrici considerano che questa dimensione dei contratti matrimoniali è spesso ignorata nella ricerca recente. 69 L. Blussé, Rosenkrieg. Ein Scheidungsdrama um Besitz Macht und Freiheit im 17. Jahrhundert, Frankfurt/M, 2000, p. 83. 70 Cfr. H. Helbig, Die Verlobung im Mittelalter, in ”Der Herold“, n. 8, 1977, p. 253. 71 Cfr. Lettera di Johan Dalhusen del 22 maggio 1639 e Kostenaufstellung [tabella generale dei costi] del 1° giugno 1639. 72 Protocollum veber die auffgenommene Zeugenschafften, 3 settembre 1640. 73 Ivi, 23 ottobre 1640, Zeugenaussage ad Art. 14. 74 Cfr. H. Dunker, Werbungs-, Verlobungs- und Hochzeitsgebräuche in Schleswig-Holstein, Diss., Kiel, 1930, p. 38; E. Feddersen, Kirchengeschichte Schleswig-Holsteins, vol. 2, Kiel, 1938, p. 558; F. Frensdorff, Verlöbnis und Eheschließung nach hansischen Rechts- und Geschichtsquellen, Hansische Geschichtsblätter, 23 (1917), pp. 316, 332. 75 Defensional Articul, 6 agosto 1641. 76 Gegendarstellung di Gladovius. 77 Protocollum veber auffgenommene Zeugschafften, 3 ottobre 1640. 78 Exceptiones, earumq deductio, 25 giugno 1640. 79 Ch. Duhamelle, J. Schlumbohm, Einleitung: Vom europäischen Heiratsmuster zu Strategien der Eheschließung, in Eheschließungen im Europa des 18. und 19. Jahrhunderts, hrsg. Ch. Duhamelle, J. Schlumbohm, Göttingen, 2003, p. 20.
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80 LAS, Vol. 7, n. 2109, Albert Johannis contro Agnes, figlia di Peter Nummsen, i.p. promissi matrimonii, 1630-33. 81 Per un comportamento analogo nel XV secolo cfr. M. Schröter, ”Wo zwei zusammenkommen in rechter Ehe...”, Frankfurt am Main, 1990, pp. 237-239. 82 Unterthenige Bittschrift [umile supplica] di Lorentz Coch, 24 settembre 1640. 83 Ibidem. 84 Christiani Sledani Epistola... pro indissolubili vinculo seu foedere iugali. 85 La sentenza del 28 novembre non c’è mai stata tra gli atti. Ma il suo
contenuto si può dedurre da altri documenti.
86 Il conte Friedrich a Heinrich Badendik, 17 febbraio 1644. 87 Vnterthänige demutige und flehentliche pitte [preghiera umile, ossequiosa e supplichevole], senza data. 88 Demüthige Anzeige vnd pitte [Richiesta e denuncia supplichevole], senza data. Anna Jürgens era donna di servizio nella casa di suo cognato Caspar Hieronymus. 89 M. Luther, Von Ehesachen, 1530, in D. Martin Luthers Werke, vol. 30, III parte, Ristampa della dichiarazione 1910, Weimar-Graz, 1964, p. 230. In questo caso si intendeva indicare eventualmente un secondo fidanzamento, per annullare il primo. 90 Cfr. Costituzione del re Federico II del 19 giugno 1582, articoli speciali che riguardano i voti matrimoniali, § 3. Cfr. Acceptatio gegenseitiger erclerung [accettazione della dichiarazione reciproca], Gottorf 12 luglio 1644. 91 Nota del 4 luglio 1644. 92 Schreiben [scritto] di Willer del 25 luglio 1644. 93 G. Lerner, Die Herausforderung der Frauengeschichte, in Frauen finden ihre Vergangenheit, hrsg. G. Lerner, Frankfurt am Main, 1995, pp. 167-169. 94 Cfr. H. Kellenbenz, Schleswig in Gottorfer Zeit, cit., p. 61.
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95 Mancano i libri parrocchiali della comunità del duomo per il perio-
do in questione. Nelle fonti del Landesarchiv Schleswig ho incontrato una donna che si chiamava Wilken Willers Witwe e che si occupava di affari ad Amburgo. Cfr. LAS, vol. 20. n. 459. 96 Cfr. Stadtarchiv Schleswig, vol. 2, n. 1: Register der Bürgermeister und
RahtsHerren der Stadt Slesvic, anno 1594.
97 E. Petersen, Die Bürgermeister der Stadt Schleswig von 1350-1956, in ”Beiträge zur Schleswiger Stadtgeschichte“, vol. 1, 1956, p. 6.
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Due note su genere ed esperienze individuali Osvaldo Raggio
Dipartimento di Storia moderna e contemporanea Università di Genova
1. La prima nota è storiografica e autobiografica; la seconda riguarda alcuni frammenti di una ricerca in corso. Ho letto poco, in modo certamente non sistematico, la letteratura (amplissima) sul genere. Anche per questo ho resistito molto al generoso invito di Renata Ago a partecipare a questo incontro. Credo che il mio interesse per la storia di genere possa comunque avere un fondamento che è in senso più ampio alla base della mia curiosità per le procedure di discipline che considero sorelle della storia, per esempio la storia dell’arte o l’archeologia. Questo interesse riguarda un punto che per me è fondamentale: quali domande nuove possono essere suggerite all’indagine storica da approcci disciplinari diversi; in che cosa percorsi di ricerca diversi possono mettere in discussione o affinare le categorie interpretative, o crearne di nuove. Ho creduto di trovare una risposta significativa in due libri: Donne ai margini di Natalie Zemon Davis e I Balbi di Edoardo Grendi, specialmente un capitolo del libro di Grendi, quello dedicato alle ‘ragazze Balbi’1. 2. Ho usato il bellissimo libro della Zemon Davis per due corsi sulla storia culturale dell’Europa moderna: con scarso successo didattico il primo anno e con grande successo il secon61
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do. La prima volta, pochi studenti hanno scelto questo libro (offrivo la possibilità di scelta tra una decina di testi), e quasi nessuno – maschi o femmine – sapeva cos’è la storia di genere. Avevo osservato che nel dialogo immaginario che apre il libro, le tre donne indignate dicono: «Gerarchie di genere? Che cosa sono le gerarchie di genere?». La seconda volta che ho inserito il libro nel programma d’insegnamento (accanto a Grendi, Prosperi, Jardine, Shama e altri testi di storia culturale) le cose sono andate in modo molto diverso. Non so spiegare il perché, ma l’esperienza ha comunque messo in discussione quello che rischiava di diventare uno spiacevole pregiudizio. Due cose nel libro mi hanno particolarmente interessato: due punti del tutto espliciti che ho discusso con gli studenti con un’attenzione metodologica. I pregi della biografia comparativa e il problema del contesto entro cui collocare la vita e l’opera delle tre donne. Sul primo punto sono completamente d’accordo con la Zemon Davis. Ho invece alcune perplessità sull’idea di contesto. L’autrice scrive: «Gli elementi che fanno diverse le tre donne sono legati al caso e al temperamento, ma ancora di più ai modelli stabiliti dalla cultura religiosa di ciascuna e alle aspettative inerenti alla vocazione nel XVII secolo». Forse la traduzione italiana è infelice, ma penso che un’enfasi più forte vada messa su caso, temperamento, aspettative, ovvero sulle esperienze e le azioni delle tre donne. Credo che sia impossibile separare natura e forme del contesto (modelli stabiliti ecc.) dai percorsi individuali. I contesti non sono dati esterni alle esperienze individuali, ma sono costruiti e definiti dalle tre donne; non sono né compatti né unidimensionali, sono frammentati in spazi diversi da esperienze sociali diverse che coagulano pratiche e possibilità individuali. La Zemon Davis, del resto, considera rapporti ed esperienze familiari come un elemento fondamentale della vita del XVII secolo, e aggiunge che essi presentano un’enorme varietà2. Varietà che caratterizzava anche l’esperienza religiosa, e le tre donne sono capaci di trarre dalla religio-
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ne il «massimo profitto». La comparazione delle somiglianze fa così risaltare la maestria, i talenti, l’azione, la flessibilità. Si può così discutere il concetto di ‘donne ai margini’. «In che senso donne ai margini? – scrive la Zemon Davis – Innanzi tutto, queste donne erano lontane dai centri del potere politico, regio, municipale e senatoriale». Mi sembra più perspicua un’altra definizione di ‘margine’ data dall’autrice: «Terreno di confine tra sedimenti di cultura che consentirono una nuova crescita e sorprendenti ibridazioni»3. 3. Ricordavo sempre la forte curiosità di Grendi, ma non un interesse esplicito per la storia di genere. Poi, rivedendo queste note, ho trovato un suo intervento in una discussione degli atti di un convegno organizzato a Bologna nel 1986 su Patronage e reti di relazioni nella storia delle donne4. Grendi lamentava che il convegno avesse «trascurato il campo delle relazioni familiari, e cioè il cuore, reale e simbolico, del rapporto di patronage» e insieme le dimensioni giuridiche, politiche ed economiche. Queste dimensioni sono al centro del libro sui Balbi. Nel capitolo intitolato (credo con humour) Le ragazze Balbi, Grendi presenta una casistica dei destini e dei comportamenti (l’enfasi è sui comportamenti) delle donne di famiglia: monache, zitelle, mogli e vedove. Le fonti fondamentali usate da Grendi per studiare le ‘ragazze Balbi’ sono le promissiones connesse ai voti religiosi e i testamenti, ovvero documenti che rivelano i comportamenti femminili su un terreno cruciale come quello patrimoniale: l’ambito della famiglia per l’appunto, e i contesti giuridici. Caterina Balbi Durazzo, giovane vedova, nel 1643, nel primo dei suoi dieci testamenti (e questo dato è intrigante) dà precise disposizioni sui creditori (sulla soddisfazione dei creditori, un punto centrale dei testamenti maschili), «ancorché – recita – li loro crediti non fussero stati contratti legittimamente in conformità dello statuto di questa città» (lo statuto sul contratto dei minori e delle donne). La soddisfazione dei creditori
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deve concretarsi in una polizza sottoscritta di propria mano dalla testatrice e ne deve essere fatta scrittura nel suo libro «come se fosse del sesso virile». Grendi sottolineava la mascolinità della disposizione testamentaria5. Ma ci sono molti altri esempi, e c’è anche la versione maschile: nel 1701 Giuseppe Maria Durazzo istituisce erede universale la figlia Maria e le concede «facoltà amplissima di poter disponere della detta autorità da se sola, e senza osservare alcuna solennità legale o statutaria, come se fosse uomo maggiore d’età»6. Era normale essere dispensate per non dover sottostare alla normativa statutaria che limitava l’autonomia giuridica della donna? Una cosa certa è il ruolo attivo delle donne (specialmente le vedove: ma forse soltanto perché il loro peso economico è più documentato) nelle vicende patrimoniali, in particolare nei cicli più sfortunati dei Balbi: con un duplice riscontro nelle tensioni familiari e nella cancellazione delle disabilità giuridiche e formali. In tutti i casi però il significato perspicuo della dispensa (o la mascolinità delle disposizioni) sta dentro a biografie ed esperienze individuali (e di relazione ovviamente): anche se la prospettiva di Grendi è in questo caso dichiaratamente strutturale. Non è possibile, concludeva Grendi, fare la storia dei Balbi senza le ‘ragazze Balbi’: mancherebbe un anello fondamentale, e soprattutto l’interpretazione dei diversi destini dei rami familiari risulterebbe falsata. Per tornare all’osservazione autobiografica che ho fatto all’inizio, mi sono reso conto a questo punto che nel mio libro sui Durazzo (storia di un individuo e delle sue passioni culturali7) le donne erano davvero ai margini e ho cominciato a porre nuove domande alle stesse fonti o a fonti simili, cercando di tener presenti le riflessioni che avevo maturato leggendo Zemon Davis e Grendi. 4. Su queste basi vorrei presentare alcuni frammenti di una ricerca in corso sull’aristocrazia genovese nel Settecento. Ho
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cercato di mettere alla prova i «pregi della biografia comparativa» della Zemon Davis su casi individuali maschili e femminili e su un tema che è quello dei consumi culturali. Ho fatto questo esercizio nel confronto tra generazioni: padri e figli/figlie. E questo è per l’appunto il contesto privilegiato, un contesto strettamente definito dagli scambi tra padri e figli/figlie. Le figlie non erano ovviamente ‘donne ai margini’ (ma non lo erano neppure, come ho sostenuto, le donne della Zemon Davis)8. Il profilo di Ambrogio Centurione, un giovane in Collegio a Milano e a Modena, tra il 1737 e il 1744, è disegnato dalla corrispondenza del padre e da quella di alcune dame genovesi, milanesi e torinesi. La corrispondenza tra padre e figlio porta in luce un rapporto inestricabile di durezze e affetti: la frustrazione del padre per non essere riuscito a forgiare il carattere del figlio, la brutale disapprovazione dei suoi studi di geometria e algebra; ma nello stesso tempo l’ammirazione per il suo stile di pensiero («à l’imitation de Corneille et de Racine») e di scrittura nelle lettere, la sua «delicatesse» e la speranza di poter fare un giorno «un recueil de lettres». E poi la genialità della sua conversazione: i temi dell’educazione del figlio condivisi dal padre sono in effetti la conversazione e la scrittura, con i loro modelli francesi. E questi temi sono assolutamente al centro delle lettere delle dame. Ambrogio era forse un eccellente partito per le giovani dame genovesi (e milanesi): la condizione testamentaria per entrare in possesso tra l’altro dell’eredità dello zio Giorgio era lo «stato di matrimonio» entro i trentacinque anni. Ma era soprattutto un esempio per l’educazione sentimentale e culturale delle fanciulle genovesi. Com’è documentato dalle lettere ricevute, piene di affetti e gelosie, specialmente al momento del distacco genovese. Placidia Pallavicini gli scriveva: «j’aime de tout mon coeur d’etre en commerce avec vous»; ma sapeva «de la quantité de femmes et de filles qui vous environnent» e annotava: «plus qu’on tache de vous gagner, vous devenez d’autant plus satirique, et vos
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traits sont plus perçants» (11 gennaio 1738). L’enfasi, come ho detto, era specialmente sulla conversazione e sulla scrittura (in francese). Il padre del resto lo rimproverava quasi con invidia: «tu te mocque de nous […] tu a été a l’Opera dans la loge de Madame Simonetti, tu a visité de belles Dames dans le theatre […] tu a diné en mille endroits differents» (23 novembre 1738). Maria Ignazia Durazzo dice del dolore del distacco e soprattutto del rimpianto della sua «conversazione» (25 aprile 1738). La conversazione ritorna nella scrittura di Silvietta Grimaldi Spinola: «continuatemi nella vostra memoria», e «conservatevi sano e bello» (24 gennaio 1738). L’«agrement de la conversation» è enfatizzato dalla marchesa d’Entrèves da Torino, insieme col gusto di Ambrogio per «les usages français» e la preferenza della tragedia sulla commedia (3 aprile 1744). Sentimenti condivisi, a giudizio di Placidia Pallavicini, anche dalle «filles Durazzo». Maddalena Grimaldi Serra racconta ad Ambrogio il Carnevale a Genova, l’opera e i musici, ma anche il tedio di molte cerimonie degli sposalizi, e conferma che le cene a teatro e le feste da ballo sono «tutte di Dame» (14 gennaio 1744). Nel 1749-50 Ambrogio è a Parigi, da dove ritorna, dopo un viaggio a Londra, con una biblioteca, una collezione di porcellane, una raccolta di «figures de la terre», una collezione di libri di musica. Tra i libri portati da Parigi: trattati di fisica, geometria, trigonometria, algebra, cosmografia, libri sulle buone maniere, la politesse, l’arte della conversazione, l’educazione. Oltre la scrittura e la conversazione che affascinavano le dame, le predilezioni di Ambrogio erano per la geometria e la musica. Ambrogio è un caso estremo di impegno di energie e risorse in consumi culturali e la sua luce di «stella errante»9 si spegne nell’epilessia nel 1754: è dichiarato inabile dal Senato e interdetto quando stava per diventare erede universale di un immenso patrimonio. La passione per i nuovi gusti francesi e per le maniere, che forse ha segnato il destino di Ambrogio Centurione, è comunque confermata in forme più morbide e dolci in tutta la docu-
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mentazione settecentesca, che porta in effetti in luce il tema della conversazione e il ruolo centrale delle dame nella socialità aristocratica10. Una socialità alimentata anche dalle curiosità scientifiche e naturalistiche. I bagni termali sono lo spazio di una socialità stagionale nel quale maturano gli interessi di Giulia Durazzo Grimaldi. Il suo profilo è infatti disegnato, oltre che dalle lettere del padre, da quelle di uno scienziato pisano, Claudio Fromond. I gusti e le maniere sono al centro della corrispondenza tra padre e figlia (1737-1757). Il vecchio padre disapprova le nuove fogge e si improvvisa rimatore misantropo: «da tante novità chi ce ne guarda?». Ma il vero fuoco della corrispondenza sono anche in questo caso le occasioni di socialità e la conversazione. Nella sua villeggiatura d’inverno Giuseppe Maria Durazzo descrive alla figlia le passeggiate lungo le spalliere del giardino, alla spiaggia del mare, o al boschetto, e alla sera mentre si intrattiene su erudite carte immagina la figlia che si trastulla in maschera per il Carnevale: una moda foriera di libertinaggio. Da Milano, in una villa dei Borromeo, pensa la figlia «nel boschetto d’aranci, o nella spazialità dei viali, o in qualche geniale lettura». Alla stagione in villa succederanno «con bella mutazione di scena adunanze della città» e trattenimenti nei quali il tema sarà lo scandaglio dello spirito, del genio e dell’etichetta, o la vanità, gli inviti ai balli. Dopo essersi ritirato dagli affari e dalla politica, Giuseppe Maria trascorre le stagioni in villa, legge Tacito e Sant’Agostino, ma anche Cartesio, coltiva la semplicità dello scrivere, il bene della solitudine, l’inclinazione depurata dalle passioni; si professa stoico e misantropo, dice della «fallace lusinga che danno le cose mondane», denuncia il carattere passeggero delle mode di Parigi, ma riconosce il «brio gareggiante sul volto della conversazione» e alla fine discute con la figlia le misure delle nuove spalliere in giardino e le «vetrate alla francese per la loggia». Anche per Giulia conversazione e corrispondenza sono i temi centrali della cultura sociale. Giulia ha un fitto
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scambio di lettere con Claudio Fromond, in corrispondenza anche con altri aristocratici genovesi. La corrispondenza scientifica ripete e prolunga le forme della conversazione ai bagni termali. Fromond corrisponde con Giulia in forma di dissertazioni chimico-fisiche sulla base dei quesiti posti dalla dama genovese: i temi sono il vaiolo, la chilificazione del cibo, l’educazione medica e l’alimentazione dei bambini, la teoria corpuscolare, la causa della fluidità e la causa della durezza dei corpi, i filosofi newtoniani e le dottrine meccaniche, la certezza dei segni della morte, i parti mostruosi nelle campagne pisane, la vita animale, l’atmosfera lunare e gli ignicoli, i cristalli, lo scorbuto, la fermentazione, gli anfibi e gli «uomini marini», la vita sott’acqua e la vita nell’utero, l’osservazione dei fatti e delle «circostanze». Il tema generale è quello della «nobile curiosità per le scienze», e le questioni mediche sono correlate ai benefici dei bagni termali. La corrispondenza rivela l’intreccio tra socialità, stagione in villa o alle terme e cultura scientifica (con note e osservazioni sui nuovi libri e trattati scientifici pubblicati a Parigi). Un tema ricorrente è quello dell’osservazione e dell’educazione del gusto; per esempio «i più minuti effetti della Natura, e le loro cagioni, che una volta scoperte, e ben intese, sempre arrecano sommo piacere»: in una grotta l’osservazione coglierà «la varietà e distinzione delle incamiciature, la varietà dei colori, delle consistenze, la scanellatura o ripienezza, le gocciole d’acqua &c. &c.». Questa corrispondenza è in effetti la traccia più diretta di quelle che potevano essere le esperienze dei nobili in villa, altrimenti documentate soltanto dalle spese per la cura dei giardini. C’è probabilmente – come ho cercato di dimostrare altrove11 – un filo che lega gli interessi scientifici di Giulia Durazzo (col loro carattere ‘salonnier’ e aristocratico) e l’esclusiva passione di Clelia Durazzo per la botanica linneana, a fine secolo, nella villa Grimaldi di Pegli, dove Giulia si trastullava «nella spazialità dei viali» e nel giardino trasformato da Clelia in orto botanico. Ma con Clelia il nuovo gusto è quello inglese.
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Ambrogio e Giulia quasi non parlano in prima persona (poche, brevi lettere conservate) se non attraverso oggetti, libri, conti di spesa. Ma è indubbio che i giudizi e le opinioni degli altri sono fondamentali nella formazione di caratteri e visioni individuali. In forme certo esasperate in Ambrogio: per lui, «la linea tracciata attorno al sé»12 sembra essere alla fine troppo chiusa. Nel caso di Giulia, la definizione dell’individuo sta invece all’interno di una rete di relazioni più complessa e più porosa, forse più gioiosa. Giulia ha un marito (Pier Francesco Grimaldi, doge nel 1773-75), ha «due creature che sembrano due angioli», per la figlia Annetta fa costruire un «giardinetto» di cedri e una piccola voliera. I due casi suggeriscono però l’idea di un processo consapevole di formazione individuale. Nel Settecento emergono più nitide individualità femminili (quanto meno nella mia limitata esperienza di ricerca). Il terreno di verifica è quello culturale. Il profilo di Giulia è disegnato soprattutto dal padre lettore dei classici e osservatore disincantato delle mode e da uno scienziato che cura i piaceri dell’aristocrazia. Nelle poche lettere conservate Giulia lamenta o rimpiange di non aver potuto studiare la poesia; ma quando diventa erede universale tiene la corrispondenza commerciale con Vienna e con Parigi e i libri di conto, si occupa della gestione delle ville e scrive una breve «disposizione dei doveri del buon colono». 5. Ancora qualcosa sul concetto di individualizzazione: come ho detto credo che sia impossibile avvicinare la storia come un campo di forze sovraindividuali. C’è uno straordinario documento che è stato pubblicato da Salvatore Rotta – e qui proverò anche a dialogare con Roberto Bizzocchi –, una relazione dell’ambasciatore francese Campredon che descrive gli accoppiamenti di cicisbeato a Genova nel 173713. Mi sembra che nessuno abbia rimarcato il dato più straordinario della Relation di Campredon: l’enfasi non è sui cicisbei ma sulle cicisbee e l’ottica della descrizione
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degli accoppiamenti di cicisbeato di tutti i nobili genovesi che ricoprono cariche pubbliche è assolutamente individualizzata. Vediamo qualche esempio. Livietta Pallavicini, cicisbea di Agostino Grimaldi, è descritta come «femme hutaine, et d’un grand relief a Genes. Tant a cause de ses grandes richesses que du nombre de personnes attachées a sa Maison, c’est de toutes le dames Genoises celle qui figure le plus dans le cours des evenements, il n’est plus question chez elle du prix de la beautè, du mérite, des graces ou de l’intrigue de l’amour, qu’elle a abbandonnés a la jeunesse depuis la mort de son mary»14. Tra parentesi, l’amico più stretto di Agostino Grimaldi è Tomaso Centurione, il padre di Ambrogio. Altro esempio. Maddalena Franzone è la cicisbea («amie de coeur») di Ignazio Pallavicino; Ignazio privilegia la poesia più che gli affari, ma la sua cicisbea lo compensa perché è molto abile nel commercio. Analogamente, Annetta Pallavicini, «tres propre a insinuer un projet et a le bien conduire», contrasta con l’altra amica di Raffaele Baciadonne, Virginia Ferrea, che è «vielle et laide», ma anch’ella capacissima nel maneggiare gli affari con la destrezza di un abile politico. Un altro contesto, o elemento del contesto: come sapete a Genova c’erano i nobili vecchi e i nobili nuovi e c’erano così due salotti femminili, che con precisione etnografica Campredon definisce quartieri nuovo e vecchio (con la «conversation», un «repas bien servy», le «assemblées journalieres»), gestiti da due donne, Battinetta Durazzo e Livietta Pallavicini. E qui il resoconto etnografico si infittisce, arricchito da altra documentazione settecentesca. Le cene a teatro (in città e in villa) e i balli erano monopolio delle dame: nei libri di conto sono registrate le spese per i cibi, i fiori ecc. In forme simili, la diffusione delle mode francesi è attestata dalle scritture contabili («spese domestiche e personali») delle gentildonne: per esempio le stoffe ordinate a Lione, «conforme all’ultima moda» (la moda stigmatizzata da Giuseppe Maria Durazzo nella corrispondenza con
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la figlia), insieme con la letteratura e il teatro francese, le spese per le lezioni di musica e ballo. Questa trama di dati è presumibilmente alla base dell’idea (costruita dai viaggiatori stranieri) di société des femmes. Per Campredon a Genova «ce sont les femmes qui déterminent la plus part des affaires grandes ou petites, qui caracterisent les haines ou les vengeances, et qui décident de l’arrangement des alliances», ovvero l’economia e la politica15. Per Campredon era la dama che faceva la scelta, che sceglieva il cicisbeo. Nel 1764, un viaggiatore inglese (John Baker Holroyd) affermava che il cicisbeo era «il necessario ornamento per una signora […] come un lacchè in Inghilterra». Ma di tutto questo non ho trovato traccia negli archivi familiari. I comportamenti individuali davano alimento a queste immagini, o queste immagini erano modelli letterari per le attitudini e i consumi? Per certo i miti letterari avevano un qualche fondamento nelle pratiche ricostruite da Grendi per i Balbi sul terreno patrimoniale e in questi frammenti di storie individuali ed esperienze culturali. C’è evidentemente un’enfasi esagerata su questa idea di société des femmes che ritroviamo ancora a inizio Ottocento col giovanissimo Bucher de Perthes (ma le sue memorie sono del 1860), o nella melanconia che assale Heinrich Heine davanti ai ritratti delle «belle genovesi» nel 1829. L’idea era coniugata con quella della libertà delle donne, e questa idea di «libertas mulierum» (e di «paradisum feminarum») è già comunque in Enea Silvio Piccolomini negli anni Trenta del Quattrocento, in un visitatore apostolico nel 1582, in Paschetti nel 1583, nel Ragionamento di sei nobili fanciulle genovesi (sempre 1583) dove il tema centrale è quello della dote e del matrimonio, nel Journal di Granger de Liverdys (1667), in un manoscritto di Filippo Casoni di fine Seicento, ed anche in testimonianze certificate dai notai. Una dimensione letteraria che forse ad un certo punto ha interagito con la ritrattistica e con la dimensione let-
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teraria delle immagini create dai grandi ritrattisti fiamminghi dall’inizio del Seicento. 6. Le femmes del Settecento sono eredi delle dame dipinte da Rubens tra il 1605 e il 1607 e poi da Van Dyck negli anni Venti del Seicento. La tipologia è la seguente: ritratti di famiglia, gentiluomini e gentildonne (con o senza pendant), genitori e figli (ma poche immagini col padre), bambini da soli. Con Van Dyck a Genova si afferma un modello di ritratto aristocratico che si sarebbe diffuso nell’Europa del Seicento. Tra Rubens e Van Dyck ci interessano in particolare i ritratti di dame, incluse le vedove e le dame con la figlia.
Rubens 1605-1607
Van Dyck 1621-1627
Brigida Spinola Doria Maria Serra Pallavicino Gentildonna con un nano Giovanna Spinola Pavese Gentildonna (della famiglia Della Rovere?) Gentildonna (della famiglia Serra?) Bianca Spinola Doria con la nipote Maddalena Imperiale Veronica Doria Spinola
Ritratto di dama Luigia Cattaneo Gentile (vedova) Dama genovese (“Marchesa Balbi”) Testa di giovane dama Anziana gentildonna (vedova) Battina Balbi Durazzo Battina Balbi Durazzo (La dama d’oro) Caterina Balbi Durazzo Elena Grimaldi Cattaneo Nobildonna genovese con la figlia Gentildonna seduta Porzia Imperiale con la figlia Maria Francesca al cembalo Geronima Sale Brignole con la figlia Maria Aurelia Paolina Adorno Brignole Sale (olio su carta) Paolina Adorno Brignole Sale Giovanna Cattaneo Dama in bianco
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Grendi ha postulato la coerenza genovese tra committenza di ritratti («autorappresentazione privata») e collezionismo, considerati come aspetti fondamentali della costruzione sociale e culturale dell’individuo16. I ritratti sono parte centrale delle nuove collezioni. C’è un importante saggio di D. Owen Hughes su questo tema: ma la tesi della Owen Hughes è piuttosto quella dell’incorporazione della sposa nel lignaggio del marito e della rappresentazione dei valori familiari17. L’esempio topico (ma eccezionale) è la Dama d’oro, Battina Balbi Durazzo Invrea, vedova con i due figli piccoli, le sue vicende matrimoniali e i passaggi di proprietà del quadro. Battina Balbi sposa Durazzo e poi Invrea; nel 1720 Giacomo Filippo II Durazzo compra un ritratto opera di Van Dyck («ritratto di femmina con due putti») e si impegna a farne fare copia per il venditore Ippolito Settimio Invrea (copia pagata a Gio Andrea delle Piane nel 1721 e consegnata «al medesimo Invrea come parte e compimento del prezzo del suddetto quadro del Vandich»18). Un caso di doppia incorporazione/conservazione nel lignaggio, se accettiamo la tesi della Owen Hughes. Ma ovviamente committenza del ritratto e autorappresentazione sono aspetti importanti della costruzione culturale dell’individuo (immagine come specchio e come programma). Nei ritratti in tutti i casi l’individualizzazione è molto forte19, specialmente nel linguaggio pittorico di Van Dyck (movimento, varietà di pose e ambientazioni, con le cornici architettoniche e le soluzioni decorative interne dell’edilizia genovese cinqueseicentesca20), anche se sembra poi che le immagini personali abbiano subito una rapida perdita di identità di volti e figure. Bisognerà ricostruire in modo più fine il contesto delle committenze per stabilire se la maestria di Rubens e di Van Dyck ritrattisti era messa al servizio delle dame e dei loro desideri di apparire, o di come apparire21. Altri elementi del contesto potrebbero essere messi in gioco: il ‘secolo dei Genovesi’ e il ruolo europeo dei grandi banchieri-
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finanzieri, i capitalisti ‘prima dell’età del capitalismo’ secondo Fernand Braudel (le gentildonne dipinte da Rubens e da Van Dyck erano le loro madri, mogli e vedove, o figlie). O, per il Settecento e l’affermazione del gusto francese, la correlazione con gli investimenti finanziari in Francia da metà secolo: ma la mia idea è che il gusto francese ha preceduto e orientato gli investimenti22. In ogni caso le esperienze individuali sono alla base degli orientamenti e delle variazioni del gusto (o degli interessi finanziari), nel confronto tra generazioni e per l’appunto tra padri e figli/figlie. 7. Farei molta fatica a generalizzare sulla base di questi pochi dati individuali e di questi frammenti di ricerca, e non sono affatto sicuro che sia la pista giusta. La domanda aperta (per la discussione, intendo) è la seguente: che relazione c’è, con riferimento alle procedure d’indagine e alle categorie interpretative, tra genere e esperienze individuali? Una risposta forse troppo semplice è nell’osservazione che apre le conclusioni della Zemon Davis: «Vite diverse, ma realizzate entro un ambito comune»23. Il problema della spiegazione storica sono ovviamente le vite diverse.
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Note 1 N. Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Roma-Bari, 1996; E. Grendi, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino, 1997. 2 N. Zemon Davis, Donne ai margini, cit. Le citazioni da pp. 211 e 215-
216.
3 N. Zemon Davis, Donne ai margini, cit., pp. 218 e 219. 4 E. Grendi, Il patronage nella storia delle donne, in “Quaderni storici”, n. 72, 1989, pp. 928-931. 5 E. Grendi, I Balbi, cit., p. 289. 6 Archivio Durazzo Giustiniani, Archivio Durazzo (d’ora in poi AD), Testamenti 64/105. 7 O. Raggio, Storia di una passione. Cultura aristocratica e collezionismo alla fine dell’ancien régime, Venezia, 2000, p. 38. 8 Riprendo in sintesi due paragrafi del mio saggio Variazioni sul gusto
francese. Consumi di cultura a Genova nel Settecento, in “Quaderni storici”, n. 115, 2004, pp. 161-194. 9 Così Ambrogio è cantato dal poeta arcade Ricchieri: G.B. Ricchieri,
Rime, Genova, 1753: clv. Al Signor Ambrogio Centurione patrizio genovese. 10 E. Grendi, Ipotesi per lo studio della socialità nobiliare genovese in età moderna, in “Quaderni storici”, n. 102, 1999, pp. 733-747. 11 O. Raggio, Variazioni sul gusto francese, cit. 12 N. Zemon Davis, Boundaries and the Sense of Self in Sixteenth Century
France, in Reconstructin Individualism, eds. Th.C. Heller, M. Sosna, D.E. Wellbery, Stanford, 1986, pp. 53-63. 13 S. Rotta, “Une aussi perfide Nation”. La Relation de l’etat de Genes di Jacques de Campredon (1737), in “Quaderni Franzoniani”, XI, 1998, pp. 609708. Le citazioni da pp. 652, 650, 651, 676. 14 Ivi, p. 652.
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15 Ivi, pp. 645-646. 16 E. Grendi, I Balbi, cit., pp. 122-123. 17 D. Owen Hughes, Representing the Family: portraits and purposes in early modern Italy, in “Journal of Interdisciplinary History”, XVII, 1986, pp. 7-38. Ci sono piuttosto degli indizi sull’emergenza dell’identità del lignaggio nel Settecento: nel 1723 Giacomo Filippo II Durazzo fa fare cinque copie «de ritratti de miei Bisavolo, Avo, e Padre, e di Marcello mio, e di me, uno per casa»: AD, Libro mastro 550, c. 61; D. Puncuh, Collezionismo e commercio di quadri nella Genova sei-settecentesca. Note archivistiche dai registri contabili dei Durazzo, in “Rassegna degli Archivi di Stato”, XLIV, 1984, pp. 164-218, p. 192, n. 97. 18 D. Puncuh, Collezionismo, cit., p. 190, n. 76 e 83. Su questa base, Susan J. Barnes ha identificato Battina Balbi con la Dama d’oro. 19 Si veda P. Boccardo, Ritratti di Genovesi di Rubens e Van Dyck: contesto
e identificazioni, in Van Dyck 350, eds. S.J. Barnes, A.K. Wheelock, Washington, 1994, pp. 97-102. 20 S.J. Barnes, Van Dyck a Genova, in Van Dyck a Genova, catalogo della
mostra, Milano 1997, pp. 64-81, p. 72. Con Van Dyck, l’individualizzazione è forte anche nel caso dei ritratti di bambini da soli: Filippo Cattaneo, Maddalena Cattaneo, Tobia Pallavicino, Ansaldo Pallavicino, Luca, Giacomo e Violante Spinola, Tre fanciulli della famiglia De Franchi, Fanciullo genovese su una terrazza, Bambina, Fanciullo bianco. 21 Mi sembra questa la tesi di Giorgio Doria a proposito dei ritratti di
Rubens, G. Doria, Un pittore fiammingo nel “secolo dei Genovesi”, in Nobiltà e investimenti a Genova in età moderna, Genova, 1995, pp. 205-221, p. 216. Dove l’enfasi braudeliana è sul ‘secolo dei genovesi’. 22 O. Raggio, Variazioni sul gusto francese, cit., p. 169. Ma è indubbio il
tramonto del gusto francese con la Rivoluzione e la repentina crisi degli ‘affari di Francia’. 23 N. Zemon Davis, Donne ai margini, cit., p. 211.
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Problemi e fonti di una ricerca sulla figura del cavalier servente Roberto Bizzocchi
Dipartimento di Storia, Università di Pisa
Vi propongo una ricerca in corso, in tutta la sua incompiutezza, ma anche per questo motivo adatta – mi pare – a una discussione seminariale nell’ambito di un Dottorato. Il tema è quello del cavalier servente, chiamato anche, più ironicamente, cicisbeo, cioè l’uomo celibe o sposato che faceva da accompagnatore in pubblico, ma anche in qualche aspetto più intimo e privato, a una dama maritata a un altro uomo. La prima domanda da porsi è: quando e dove? Ed ecco la prima risposta provvisoria: presso la nobiltà italiana nel Settecento. In realtà costumi simili a questo si trovano anche in altri contesti, ma per ora soffermiamoci sulla situazione principale. La seconda domanda è: che tipo di rapporto si instaurava fra il cavaliere e la sua dama? Voglio subito mettere in chiaro che non si tratta comunque di un adulterio: indipendentemente dalla natura e dal grado di intimità del rapporto cicisbeale, ciò che lo distingue dall’adulterio e, a mio parere, lo rende particolarmente interessante è il fatto che esso si svolgeva alla luce del sole e aveva una veste, per così dire, semi-istituzionale. In una delle sue ultime opere, la commedia Il divorzio (1800), Vittorio Alfieri ha messo in scena la stipula di un contratto nuziale, durante la quale la giovane e piccante sposina ottiene 77
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di inserire nell’atto una clausola col nome di un cavalier servente di suo gradimento. Questa scena è fra i responsabili principali di una leggenda che si trascina da due secoli, fino a comparire anche nei più seri studi attuali di storia della famiglia in Italia1: e cioè che fosse normale prassi dei matrimoni aristocratici settecenteschi indicare un cicisbeo nel contratto di nozze. Il fatto è che finora dalle tante ricerche svolte in materia non è saltato fuori nessun contratto che comprenda quella clausola. Mi piace ricordare che quando lo feci osservare in una lunga e simpatica telefonata al compianto Paolo Ungari, mi rispose che il cicisbeo è però implicito nella clausola – questa sì frequentissima nei protocolli notarili italiani – dello spillatico, cioè l’accordo su di una somma assegnata alla moglie per carrozza, teatro e mondanità in genere. Replicai, e resto convinto, che non sia la stessa cosa; ma ora penso che quella leggenda sia in effetti fiorita sul tronco di una verità, vale a dire la normalità di una vita sociale separata fra moglie, accompagnata dal servente, e marito – di cui la clausola dello spillatico è una prova incontestabile –, che costituisce un aspetto assolutamente caratterizzante e distintivo del cicisbeismo rispetto all’adulterio2. Questo non è certo l’unico aspetto della storia del cicisbeismo per il quale sia necessario avvalersi anche di fonti letterarie, interrogandole con prudenza ma senza rinunciare a trarne informazioni utili. Purtroppo la documentazione del fenomeno è infatti soprattutto letteraria; ciò che comporta alcuni problemi e alcune conseguenze sulle quali vorrei soffermarmi un poco. I cavalieri serventi godono di pessima stampa e soffrono di un’immagine distorta, che dipende appunto in gran parte dalle rappresentazioni fattene in poesia o nel teatro. Tutti abbiamo in mente il ‘giovin signore’ del Parini, un odioso damerino debosciato e antisociale: si capisce che un poema satirico si propone lo scopo di fustigare i costumi, non di farne un’analisi socioantropologica; ma non è facile utilizzare una rappresentazione di questo tipo in sede di ricostruzione storica. Le cose vanno già
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molto meglio col teatro di Goldoni, in cui i cicisbei hanno una parte enorme, anche fuori dalla commedia specificamente dedicata al tema, Il cavaliere e la dama. Per quanto il dichiarato intento realistico di Goldoni – portare «il mondo sulle scene» – possa addirittura metterci in sospetto anche maggiore, tuttavia l’opera goldoniana è una miniera di notizie, o almeno di spunti. Senza entrare troppo in dettaglio, basti dire che nell’insieme ci offre del cicisbeo un’immagine quasi opposta a quella pariniana: non nel senso che Goldoni ne faccia un inconcepibile elogio, ma perché lo mostra nella sua naturale fisiologia e non come un’aberrazione patologica. Lo mostra cioè interagire con altri aspetti della vita: il tipo di famiglia e i suoi rapporti interni, l’età e lo status, le abitudini della sociabilità e la pratica della conversazione; sicché ne risulta una gamma di configurazioni abbastanza varia, e perciò stesso meno uniformemente negativa del mostro di Parini3. Poi ci sono le relazioni dei viaggiatori, soprattutto stranieri, nell’Italia del Grand Tour. Devo riconoscere in tutta onestà che queste costituiscono una parte molto consistente delle nostre conoscenze sull’argomento; ma lo riconosco malvolentieri, perché negli scritti dei viaggiatori si trova di tutto: osservazioni intelligenti e rivelatrici, paragoni più o meno calzanti con gli usi di casa loro (sempre migliori di quelli italiani), impressioni superficiali che tradiscono una dubbia conoscenza della lingua e del Paese, pettegolezzi difficilmente verificabili, vanterie incredibili, sgradevoli calunnie, e anche scemenze manicomiali. Che fare? Posso cavarmela confessando che cerco di procedere col buon senso guidato dall’esperienza, cioè dai raffronti interni al corpus odeporico e soprattutto da quelli con altre fonti? Per dare un’idea delle possibili, grandi differenze nelle attitudini dei viaggiatori, propongo due esempi. Il primo è quello di uno che cerca di capire, anche se sbaglia di certo nell’enfatizzare troppo il ruolo di Genova; si tratta dell’illuminista francese Charles Dupaty (1785):
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Il cicisbeismo merita un’attenzione particolare. Si dice che da nessuna parte sia in voga quanto a Genova. Cos’è in apparenza un cicisbeo? Cos’è in realtà? In che modo una donna se lo prende? In che modo un uomo vuole esserlo? Che ne pensano i mariti? È il luogotenente di un marito? Fino a che punto lo è? Quale è l’origine di questa usanza? Per che ragione si mantiene o si altera? Che influenza ha sui costumi? Se ne trovano tracce o somiglianze nei costumi di altri popoli? Questioni difficili da risolvere. In due parole, il cicisbeo è a Genova più o meno quel che è l’ami de la maison a Parigi4.
Il secondo è di uno che si sente un esploratore fra i selvaggi, e così smarrisce lo spunto di comprensione reale di un problema che forse aveva sfiorato; si tratta del medico inglese Samuel Sharp (1766): da noi l’interesse comune del padre e della madre per i loro piccini, ne’ quali ritrovano, forse, riprodotti i loro tratti, non poco aiuta a dissipare qualche dissidenza [...]. In Italia, invece, la certezza dell’attaccamento di ogni moglie a un amante ammorza e spegne qualsiasi affetto che il marito potrebbe sentire per lei o per i figliuoli. Costui soltanto del primo figlio è sicuro: ma perché s’induca a una somigliante convinzione occorre che il figliuolo gli nasca nel primo anno di matrimonio, poiché raramente le donne resistono alla voglia d’un cicisbeo più di un anno5.
È il caso di ricordare qui che la bibliografia sui cicisbei – prima della mia ricerca e di un’altra di cui parlerò fra poco – si è basata esclusivamente sulle fonti letterarie e sulle relazioni di viaggio. È una bibliografia relativamente abbondante, ma per la ricerca storica odierna fatalmente insoddisfacente. Si deve tutta, ciò che non sorprende, a studiosi di letteratura, e si concentra quasi tutta nel periodo positivista di fine Ottocento e inizio Novecento, quando era abbastanza diffuso un interesse di tipo vagamente folklorico per le notizie rintracciabili nei testi letterari sugli usi e costumi. Il titolo più importante di questa 80
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bibliografia è un libro postumo di Luigi Valmaggi, apparso a stampa nel 1927; si tratta di un lavoro garbato e brillante, e soprattutto molto ricco di materiali (del tipo che ho detto), ma che non può offrire niente di più approfondito di una sistemazione intelligente delle descrizioni indirette e di seconda mano del cicisbeismo6. Che io sappia, il primo salto di qualità nella ricerca si deve a un libretto di Luca De Biase su Venezia, fondato sullo spoglio di alcune serie archivistiche prodotte dalla volontà del governo della repubblica di controllare le cause di separazione portate davanti al tribunale patriarcale7. In qualche caso le deposizioni dei coniugi e dei testimoni convocati fanno emergere figure di cavalieri serventi, che sono qui degli esseri umani in carne ed ossa. Non voglio insistere troppo ingenuamente sulla differente affidabilità fra fonti di prima e di seconda mano; ma ritengo essenziale questa entrata in campo del vissuto reale. Il problema è se mai quello di interrogarsi sui limiti e l’angolazione della fonte processuale. De Biase interpreta il cicisbeismo come un elemento sovversivo dell’ordine familiare e patrimoniale della società veneziana del Settecento. Ma bisogna considerare il fatto che i cicisbei che finiscono davanti al tribunale sono quelli per definizione coinvolti in qualche guaio, i quali dunque rappresentano lo scarto dalla norma piuttosto che la routine; tanto più che il numero complessivo dei casi esaminati non oltrepassa la decina per un’indagine che copre molti anni. Questi ragionamenti sulla natura delle fonti sono al servizio di una messa a fuoco dei contenuti del problema storiografico. La routine del fenomeno va ricostruita anche sulla base di una documentazione di origine non conflittuale, innanzitutto lettere e diari privati; che è quello che sto cercando di fare con una ricerca a tappeto negli archivi di famiglia italiani: una ricerca – sia ben chiaro – resa possibile dalla gentilezza dei colleghi che mi hanno dato suggerimenti e indicazioni, e degli altri che, spero, me ne daranno. Ancora una premessa di metodo: le fonti
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private o intime hanno dovuto passare negli ultimi decenni il vaglio di una critica raffinata e affilata, ispirata all’intento decostruzionista di metterne in crisi, se non addirittura negarne, la capacità di informare sulla realtà evocata in, ma esterna a, quegli unici dati davvero reali che sono i testi che abbiamo davanti agli occhi. Considero le acquisizioni di questa tendenza un contributo critico da mettere a frutto in positivo, e non un invito alla rassegnazione e all’inazione. Proprio perché parlano degli individui in modo molto coinvolgente e possono toccare emotivamente lo studioso con la forza del vissuto, lettere, diari e simili presentano il pericolo di una distorsione particolarmente insidiosa; d’altra parte senza farvi ricorso non potremmo portare avanti le nostre ricerche8. La fonte più ricca sul cicisbeismo che ho trovato finora è il diario tenuto a Lucca fra 1791 e 1823 da Luisa Palma, moglie di Lelio Mansi, che era uno dei principali membri del patriziato cittadino. È scritto in francese, la lingua per eccellenza della sociabilità settecentesca, col titolo di Memoires ou Notices à l’usage de Louise Palma Mansi. Non ne parlerò troppo a lungo perché su questo diario ho scritto un articolo che ormai è stato pubblicato9; ma voglio dirvene qualcosa, anche perché è l’occasione di una riflessione importante sul modo in cui troviamo documentate le pratiche concrete di vita dei cavalieri serventi e delle loro dame. Se ben ricordo, la parola cavalier servente compare solo due volte nelle quasi mille pagine del diario. Inoltre non c’è mai neppure un punto in cui il costume sia fatto oggetto di uno sguardo diretto e specifico; eppure l’autrice ne parla in continuazione, ogni giorno, perché il suo servente titolare, Costantino de’ Nobili, e quelli che potremmo chiamare le riserve, i due fratelli Lorenzo e Cesare Trenta, le stanno sempre intorno accompagnandola in quel turbinio di inviti, conversazioni, passeggi, spettacoli, cene, gite e merende che costituiscono la sfibrante vita sociale di una dama dell’aristocrazia cittadina. Il fatto che i cicisbei non vi compaiano tanto in modi spiccati e in
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momenti rilevanti, ma ne siano una componente abituale e scontata, è sommamente significativo della pervasività e normalità del costume, in una quotidianità non turbata da tensioni del tipo di quelle che portano in tribunale. Proprio riguardo a Lucca disponiamo anche di un testo che si rivela molto utile da mettere in rapporto con le informazioni dei Memoires della Palma Mansi. Fu scritto nel 1804, durante il periodo francese, da Iacopo Chelini, un prete nostalgico della repubblica patrizia, col titolo Costumanze lucchesi nel tempo dell’Aristocrazia10. Chelini ci fa capire che la sociabilità aristocratica lucchese non obbediva all’estro del momento e alle inclinazioni del puro divertimento, ma che era al contrario regolata da norme non scritte di reciprocità e scambio. Anche se non è facile per noi entrare nel merito dei dettagli di questi rapporti, ci rendiamo però conto che dovevano essere uno dei nodi che stringevano la solidarietà e corroboravano la tenuta del ceto di governo. Leggiamo qualche frase dalle Costumanze: Davasi talora il caso che il signor A. ne’ tempi trascorsi aveva per amicizia dato un Festino alla signora C. in occasione che maritò una sua figlia: accadeva adesso che in casa del signore A. vi entrava una Sposa, ed era allora il caso che il signor C. sebbene non vi fosse né parentela, né intrinseca amicizia, per obbligo di restituzione dar dovea un Festino.
È particolarmente interessante per noi registrare il ruolo del cicisbeismo in questa declinazione propriamente politica della mondanità cittadina. La padrona di casa che dava la Veglia, in compagnia di qualche sua Parente co’ respettivi Cavalier Serventi, stava presso la porta della prima camera dell’appartamento a ricevere, e complimentare le Dame, che co’ loro amici intervenivano.
C’è una annotazione del diario della Palma Mansi, in data 28 novembre 1796, che mi pare assolutamente illuminante sul
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carattere pubblico e istituzionalizzato del cicisbeismo, ma anche sulla sua funzione rappresentativa e coesiva all’interno di un ceto: «Le jour même j’ai reçû de Mad.e la Marquise Lucchesini trois billets d’Invito pour le dîner de S. Ansano, pour moi, mon Mari, et M.r de Nobili»11. Naturalmente questo aspetto non esaurisce i motivi di interesse sollevati dal costume, come del resto non risponde ai quesiti di Dupaty che ho ricordato qui sopra. Il diario lucchese permette al riguardo qualche altra considerazione fondata, anche se necessariamente provvisoria. Innanzitutto in questo caso abbiamo la possibilità di conoscere età e status dei protagonisti della vicenda. All’inizio del quasi decennale rapporto col servente suo coetaneo e celibe Costantino de’ Nobili, Luisa Palma era una trentenne sposata, senza figli, da otto anni con un marito, Lelio Mansi, di quasi vent’anni più anziano di lei; i cicisbei riserve, i due fratelli Trenta, pure celibi, erano invece di una decina d’anni più giovani della donna. Come ho già detto, la figura davvero importante è il Nobili, il cui fratello maggiore era fra l’altro già stato in relazione coi Mansi per aver tenuto a battesimo un neonato con Luisa. Conosciamo bene la rilevanza politico-sociale di questi impegni in antico regime. Lelio Mansi era un uomo molto occupato nel governo della repubblica: comunque, per non dire dei due Trenta, molto più del Nobili, che era anche dell’età più giusta per assistere Luisa Palma nelle molte occasioni della vita mondana cittadina. Tutto cooperava a creare una situazione di equilibrio e di generale soddisfazione; abbiamo del resto già constatato che i coniugi e il servente formavano un terzetto riconosciuto ufficialmente negli inviti al più alto livello della società lucchese. Naturalmente non è una curiosità morbosa, ma un interrogativo essenziale, quello sulla reale natura dei rapporti della donna con ciascuno dei due membri maschili del terzetto. Pur nel formalismo e nella rigidezza di un diario che non è per nulla un’autobiografia individualistica nel senso romantico, i
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Memoires sono abbastanza eloquenti su quelli col marito: Luisa e Lelio formarono una coppia riuscita, si rispettarono a vicenda, ebbero forme di attenzione e forse di affetto reciproche, e lei lo assistette con devozione nei cinque lunghi anni della sua malattia mortale. A questo punto si era intanto interrotto il rapporto con Costantino, senza dubbio per gelosia: per la gelosia insieme privata e, per così dire, politica, provata da Luisa nel 1799 di fronte alla sbandata del suo servente per un’altra donna, una borghese che era oltre tutto fervente democratica e filofrancese. Ecco qualche frase della lunga e insolitamente commossa registrazione fatta da Luisa nei Memoires del congedo infine dato a Costantino: J’espêrai qu’après un mois d’interuption, il n’auroit plus parû chez moi, mais je me trompai. Il y vînt. Je crûs que c’étoit une visite de compliment, et je me tûs, mais ensuite voyant qu’il pretendoit de continuer sa conduite ordinaire, je pris le parti de lui parler [...] j’avoue aussi franchement, que si je l’avois vû repenti de sa conduite, et disposé à en changer j’aurois peut-être été capable de lui pardonner: mais il m’épargna cet avilissement, et l’indifférence, et l’opiniâtreté qu’il me témoigna encore dans cette ocasion, m’ôterent jusqu’au moindre régret de cette démarche [...] Je ne puis pas dissimuler, que malgré tous les motifs qu’il m’a donné de ne point regretter sa perte, son ingratitude m’a pénetré jusqu’au fond de l’ame, et ce n’est qu’à l’aide de la sevérité de mes principes, et d’un sentiment de fierté qui m’est naturel, que j’espère de pervenir à me rendre moins sensible ce trait de l’ingratitude la plus noire12.
Quando avevo letto queste frasi al nostro amico e collega Alberto Banti, mi aveva detto di non avere alcun dubbio su cosa fosse la «conduite ordinaire» di Costantino. E ora vedo che nel suo nuovo libro, appena uscito, sulle identità sessuali, ribadisce in generale la sua convinzione, definendo il cicisbeismo una «forma di adulterio istituzionalizzato»13. Io preferirei mantenere un filo di prudenza nella valutazione dei rapporti fra la
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dama e il cicisbeo: anche in questo caso, in cui pure siamo evidentemente di fronte allo sfogo di una donna ferita, e tanto più in generale, per quanto mi risulta da altre vicende sulle quali esiste una qualche documentazione abbastanza diretta. Se quanto alla vita intima di Luisa Palma non pare implausibile che ci sia stata una sorta di divisione di compiti fra la buona convivenza contrattuale col marito e la manifestazione delle inclinazioni in senso lato erotiche col cavaliere, altre esperienze sono manifestamente irriducibili a questo schema. Non del tutto irriducibile pare il rapporto, già ben noto dal carteggio a stampa dei fratelli Verri, fra Pietro Verri e Maddalena Beccaria, sorella di Cesare e moglie del conte Isimbardi. Questo rapporto, molto appassionato nelle sue prime fasi e quasi certamente non platonico, era per altro complicato dalla incivile bizzarria dell’Isimbardi, animato, secondo Verri, da una gelosia «degna d’un eunuco del Serraglio»14; per cui è alquanto improbabile che Maddalena abbia potuto realizzare la pacifica ed equilibrata armonia suggerita dal diario di Luisa Mansi. Ci sono comunque anche episodi di tutt’altro genere. Purtroppo posso parlarne in modo ancora molto imperfetto, perché li sto studiando, e per ricostruirli compiutamente mi mancano alcuni rilevanti elementi di contesto, ma quello che sto per dire mi sembra abbastanza assodato. Un primo episodio si svolse fra gli anni Sessanta e Settanta del Settecento a Venezia e riguarda Caterina Contarini, il marito Giovanni Querini e il cavalier servente Giustinian, probabilmente Momolo Giustinian, a proposito del quale sono però ancora incerto di quale si tratti fra i vari Girolami possibili15. Un secondo episodio, fra anni Settanta e Ottanta, riguarda invece un terzetto milanese, composto dal famoso fermiere generale Antonio Greppi, da sua moglie Laura Cotta e dal funzionario asburgico d’origine lorenese Stefano Lottinger. Né l’uno né l’altro terzetto riproducono il tipo di relazioni che abbiamo appena visto legare i protagonisti della vicenda lucchese: i due
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sposi veneziani erano quasi coetanei e si scrivevano con un certo calore d’affetti; quanto al servente milanese Lottinger, compare nelle lettere della Cotta Greppi al marito in una veste molto lontana da quella del possibile maschio seduttore16. Le cose sono insomma sicuramente più complicate non solo di come le mettono i satirici e moralisti alla Parini, ma anche da come suggerirebbe la semplice estensione generale del ‘caso da manuale’ che abbiamo appena visto a Lucca. Quel che mi pare, almeno finora, un punto certo è la funzione socialmente aggregante del cavalier servente, confermata anche da questi due ultimi episodi. C’è invece un nuovo aspetto del problema che non ho ancora trattato e che mi pare della massima importanza: lo chiamerei la geografia del cicisbeismo. Si sarà forse notato che tutte le vicende che ho trattato o anche solo citato finora riguardano l’Italia centro-settentrionale. Quali conseguenze dobbiamo trarre da questo fatto? Occorre qui proporre ancora una volta qualche considerazione metodologica: bisogna cioè domandarsi quanto l’evidente differenza dipenda dallo stato delle fonti e degli studi e quanto da un’effettiva estraneità del Mezzogiorno al fenomeno. Tutti sappiamo che nelle varie regioni e città d’Italia c’erano diverse abitudini di scrittura: da qualche parte si producevano molte meno scritture private intime che altrove. Non solo: c’era anche chi tali scritture le distruggeva o comunque non si curava di conservarle. Ricordiamo in proposito le considerazioni di Edoardo Grendi nell’introduzione al suo libro sui Balbi17; e di fatto su Genova, che aveva addirittura la fama di capitale del cicisbeismo, siamo più informati da fonti indirette che dalle informazioni di prima mano dei protagonisti. La fonte più importante che io conosca è una Relation de l’Etat de Gênes stesa nel 1737 dall’inviato francese Jacques de Campredon, che arriva a rappresentare l’intero patriziato cittadino come una rete di rapporti fra dame e cavalieri serventi18. Poiché anche sull’esistenza del costume nell’Italia meridio-
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nale c’è una certa abbondanza di fonti indirette – satire di letterati e racconti di viaggiatori – tendo a ritenere improbabile, se non impossibile, che esso vi fosse completamente assente. L’aspetto che ho più volte ricordato del servizio cicisbeale come forma di integrazione e collante sociale doveva ovviamente valere soprattutto per le oligarchie repubblicane o comunque patrizie, e dunque essere meno importante nel Regno di Napoli; ma altri aspetti, e la forza propulsiva stessa di un uso che era diventato ormai anche una moda, rendono poco credibile una totale eccezione del Mezzogiorno d’Italia. Quel che mi pare invece plausibile è che il costume vi si sia diffuso con una relativa lentezza e un certo ritardo rispetto all’Italia centro-settentrionale. La perdurante influenza delle abitudini spagnole, e più ancora un generale conservatorismo della società meridionale mi sembrano delle buone spiegazioni per questo fatto. La mia ipotesi – che trova fra l’altro consenziente Elisa Novi, che ha avuto la gentilezza di discutere con me a lungo e ripetutamente di questo problema – parrebbe confermata da uno spoglio dell’epistolario del ministro Tanucci, un toscano che scriveva molto e che ha vissuto per decenni a Napoli. Ora non ho la possibilità, e per la verità non sono neanche del tutto pronto, per fare un confronto serrato, ma la mia impressione è che Tanucci, che negli anni Trenta descrive la sociabilità napoletana come non conversevole e non galante, attesti un mutamento nel corso dei trent’anni successivi19. Del resto il cicisbeismo è strettamente legato alla sociabilità preilluministica e poi illuministica e pare seguirne i progressi in tutta Italia. Questo fatto risulta molto chiaro nelle fonti letterarie, in particolar modo in quelle più ostili – Parini compreso – che si fanno quasi sempre un obbligo di abbinare la condanna della galanteria da salotto con l’ironia sul superficiale e frivolo interesse femminile per le novità culturali arrivate dalla Francia. Non insisto su questo tema, perché disponiamo ora degli atti dell’importante convegno milanese sui salotti, che costituisco-
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no un punto di riferimento sicuro20. C’è invece un’altra questione che non ho ancora toccato e che è chiamata in causa dal rapporto fra cicisbeismo e Illuminismo, e cioè l’atteggiamento della Chiesa cattolica. Non è certo per caso che Daniela Lombardi nel suo libro sui matrimoni abbia dedicato un intero paragrafo a quella che chiama «la polemica contro il fare all’amore», scatenatasi nel Settecento21. Moralisti e predicatori hanno definito con severità i limiti consentiti alle relazioni prematrimoniali fra i fidanzati; e si capisce che in teoria le relazioni extramatrimoniali non potevano trovare una tolleranza maggiore. A questo proposito devo aprire una parentesi. Come ho detto in principio, mi occupo qui del cicisbesmo come fenomeno proprio del ceto nobiliare; ma in realtà esiste qualcosa di simile in ambito popolare, ed è la figura del compare, in ispecie il compare di San Giovanni, il quale – come ci dicono una gran quantità di studi folklorici – aveva dei riconosciuti diritti di praticare la sua comare, maritata ad un altro uomo22. Dato che la Chiesa era sempre attentissima ai comportamenti popolari, gli atti sinodali post-tridentini sono pieni di raccomandazioni e rimproveri sul pericolo rappresentato dal comparatico; in questo si trovavano caratteristicamente in pieno accordo col Boccaccio, che ha fra i suoi temi topici quello del sesso fra compare e comare. Quando, da fine Seicento, cominciò a profilarsi con una certa precisione il tipo del cavalier servente nobile, questo venne rapidamente accomunato nella condanna ecclesiastica delle relazioni a rischio. I due utilissimi libri di Guerci contengono molto materiale assai interessante al proposito23. Resta il fatto che il cicisbeismo si mantenne ben vivo per un intero secolo a dispetto degli anatemi dei moralisti e dei predicatori: un fatto che va valutato tenendo conto della grande influenza che la Chiesa manteneva sulla stragrande maggioranza degli italiani anche di condizione elevata e buona cultura, nonostante la diffusione delle idee illuministiche. Dobbiamo
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perciò interrogarci sul reale atteggiamento ecclesiastico nella quotidianità dell’esercizio del suo controllo sulle coscienze dei fedeli. L’ideale sarebbe poter disporre di qualche registrazione di ciò che i confessori consigliavano ai penitenti e soprattutto alle penitenti. In subordine, posso segnalare il caso interessantissimo di un rigorista come il domenicano Daniele Concina, che nel secondo tomo della sua Storia del Probabilismo e del Rigorismo (1753), oltre a scagliarsi contro le dame alla moda e i loro galanti accompagnatori, se la prende anche con i confessori che per entrare nelle grazie dell’alta società concedevano loro l’assoluzione senza far troppe storie24. Un altro aspetto notevole del rapporto fra Chiesa e cicisbeismo è che nei ranghi di quest’ultimo è attestata la presenza di non pochi membri del clero. La premessa generale che rende ciò possibile l’abbiamo appena sentita; l’osservazione successiva è quella che gli ecclesiastici erano per definizione dei maschi celibi. È questo il momento di affrontare sistematicamente una questione che finora ho sfiorato più volte ma sempre di passaggio. I cavalieri serventi non erano sempre celibi, ma lo erano molto spesso; naturalmente non sono in grado – non credo potrà mai esserlo nessuno – di fare una statistica, ma proviamo almeno a procedere a tentoni, e facciamo una statistica dei cicisbei in carne ed ossa citati in questo saggio. I tre lucchesi intorno alla Palma Mansi: tre celibi. Giustinian: non lo so. Lottinger a Milano: celibe. Pietro Verri: celibe perché si sposerà solo più tardi. Non credo possano esserci dubbi sul nesso fra questo costume da una parte, e dall’altra il modello matrimoniale e il sistema patrimoniale ed ereditario allora in vigore. Anche questo è un procedere un po’ a tentoni, perché c’erano differenze rilevanti fra le varie zone d’Italia; ma l’assenza di libera scelta reciproca fra gli sposi e la frequenza di maschi che l’interesse del casato escludeva dalla vita coniugale e dunque metteva, per così dire, liberi sul mercato erotico sono fatti largamente assodati, la cui complementarietà col cicisbeismo mi pare evidente.
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Come dice sbrigativamente in una commedia piemontese un primogenito liquidando le aspirazioni del fratello minore al matrimonio: «I cadetti debbono corteggiare le dame maritate, son fatti per essere i cavalieri serventi»25. Del resto questi fattori complementari hanno cominciato a sparire, abbastanza rapidamente, insieme, fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. All’influsso, largo in tutta Europa, della morale sessuale e familiare russoviana26, si aggiunse in Italia l’effetto delle leggi imposte e dei costumi ispirati dai francesi a partire dal Triennio democratico. L’attacco al sistema ereditario fidecommissario e primogeniturale si accompagnò a pressioni molto forti per un cambiamento della vecchia sociabilità aristocratica, nel segno dell’apertura al notabilato e al mondo delle professioni borghesi. Per quanto riguarda il primo aspetto, Renzo Derosas ha mostrato con molta efficacia attraverso l’esempio veneziano che la fine dell’antico regime segnò il libero sfogo di pulsioni e aspettative ormai conculcate a fatica, come quelle dei cadetti patrizi che non erano più costretti a nascondere i loro matrimoni d’inclinazione per proteggere la loro posizione e il prestigio della loro famiglia27. Quanto alla nuova sociabilità, è chiaro che spiazzava la pratica del cicisbeismo la quale, richiedendo un delicato equilibrio fra confidenza privata, compagnia pubblica e socializzazione relazionale, era possibile solo all’interno di un gruppo coeso di eguali delimitato in base a un criterio selettivo fortissimo come la purezza del sangue alla nascita, mentre diventava addirittura inconcepibile una volta che di quel gruppo fossero messi in discussione gli stessi principi identitari. A questo proposito può essere interessante ricordare che Luisa Palma, la dama lucchese che abbiamo un po’ conosciuto nei suoi Memoires, già nel 1802 definiva quello di cavalier servente un «titre ridicule». Nell’età della Restaurazione, quel tanto di reazione sociale che s’impose non bastò a rivitalizzare abitudini ormai languenti, mentre per contro l’ideologia nazionalistica in formazione
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non poteva certo tollerare la sopravvivenza di un costume matrimoniale che se da una parte non era stato in realtà solo italiano, dall’altra aveva però attirato sulla morale privata degli italiani una valanga di critiche dall’estero, come quelle che ho ricordato sopra parlando dei viaggiatori. Non insisto sul rilievo che la purezza sessuale assunse come componente della omogeneità etnica postulata dal nazionalismo, un tema molto ben chiarito dal libro di Banti che ho già citato e dal suo precedente28. Vi propongo invece un’ultima riflessione, che è anche l’occasione per un’ultima considerazione sui problemi della mia ricerca. Riguarda il mondo dei ceti popolari che ho sfiorato parlando qui sopra della figura del compare. Il compare – come protagonista di una relazione privilegiata e legittimata con la comare – non sparisce certo con la stessa rapidità del cicisbeo. Ci sono testimonianze che al riguardo ci portano ben dentro il Novecento. I costumi popolari hanno una loro particolare forza d’inerzia che spiega la lunga durata dei fenomeni. È per altro evidente che nel corso dell’Ottocento la grande offensiva moralizzatrice non si limitò al libertinaggio aristocratico. Basta pensare al modello matrimoniale proposto da Manzoni nei Promessi Sposi per capire che anche agli uomini e alle donne del popolo si volevano estendere abitudini davvero remote dalla disinvoltura in materia sessuale. Tuttavia penso che su questo versante l’offensiva non sia stata tanto legata alla propaganda nazionalistica quanto alla capacità di penetrazione della catechesi cattolica. Ho fatto alcuni sondaggi di ricerca nel campo della predicazione della prima metà dell’Ottocento, che forse meriterebbero, da parte mia o di altri, un approfondimento. Segnalo intanto, per concludere, le osservazioni molto notevoli che ha fatto recentemente Ilaria Porciani al proposito29.
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Note 1 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, II ed., Bologna, 1996, p. 333. 2 Formulari notarili con indicazione dello spillatico nei contratti di nozze sono pubblicati in appendice alla prima edizione del libro di Paolo Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, 1970. 3 Ho fatto un confronto nel mio articolo Parini, Goldoni e i cicisbei, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, Quaderni di “Acme”, 45, Milano, 2000, pp. 177-185. 4 [Dupaty], Lettres sur l’Italie en 1785, Paris, Libraires Associés, 1796, II
ed., tomo I, p. 56.
5 S. Sharp, Lettere dall’Italia (1765-1766), a cura di S. di Giacomo, Lanciano, 1911, pp. 25-26. 6 L. Valmaggi, I cicisbei. Contributo alla storia del costume italiano nel secolo XVIII, opera postuma con prefazione e a cura di L. Piccioni, Torino, 1927. 7 L. De Biase, Amore di Stato. Venezia. Settecento, Palermo, 1992. 8 Ho esposto più ampiamente le mie argomentazioni nell’articolo Sentimenti e documenti, in “Studi Storici”, n. 20, 1999, pp. 471-486. 9 Vita sociale, vita privata in un diario femminile fra Sette e Ottocento, in “Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche”, III-I, 2004, pp. 125167. 10 È stato pubblicato in appendice all’articolo di R. Bocconi, La società
civile lucchese del Settecento veduta da Jacopo Chelini e dai suoi contemporanei, in “Bollettino Storico Lucchese”, XI, 1939, pp. 150-180. 11 Archivio di Stato di Lucca, Archivio Arnolfini, 191, tomo II, p. 38. 12 Ivi, tomo II, pp. 270-274. 13 A.M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuale e violenza nel nazio-
nalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, 2005, p. 35.
14 Vedi C. Capra, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna, 2002, pp. 275-276.
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15 Ringrazio intanto Tiziana Plebani che mi ha aiutato a identificarli. 16 Qualche notizia su queste relazioni si trova rispettivamente nei saggi di Madile Gambier e Renzo Derosas nel volume I Querini Stampalia. Un ritratto di famiglia nel Settecento veneziano, a cura di G. Busetto, M. Gambier, Venezia, 1987; e nell’articolo di Elena Puccinelli, Il carteggio privato dei Greppi, in “Acme”, n. 50, 1997, pp. 93-116. 17 E. Grendi, I Balbi. Una famiglia genovese fra Spagna e Impero, Torino,
1997.
18 La relazione è stata pubblicata da Salvatore Rotta, “Une aussi perfide nation”. La Relation de l’Etat de Gênes di Jacques de Campredon (1737), in Genova, 1746: Una città di antico regime tra guerra e rivolta, a cura di C. Bitossi, C. Paolocci, “Quaderni Franzoniani”, XI, 1998, vol. II, pp. 609-708. 19 Per esempio B. Tanucci, Epistolario, vol. I, a cura di R.P. Coppini, L. Del Bianco, R. Nieri, Roma, 1980, p. 86; vol. XI, a cura di S. Lollini, Roma, 1990, p. 173. Ringrazio Lamberto Del Bianco per l’aiuto prestatomi nello spoglio dell’epistolario tanucciano. 20 Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di M.L. Betri, E. Brambilla, Venezia, 2004. 21 D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Bologna, 2001, pp. 359375. 22 Sul tema in generale rimando a Forme di comparatico italiano, a cura
di I. Signorini, fascicolo monografico di “L’Uomo”, vol. XI, n. 1, 1987.
23 L. Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento. Aspetti e
problemi, Torino, 1987; L. Guerci, La sposa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino, 1988. 24 Istruzione dei confessori e dei penitenti. Per amministrare e frequentare degnamente il Santissimo Sacramento della Penitenza. Operetta di F. Daniello Concina dell’Ordine de’ Predicatori, in Venezia, presso Simone Occhi, 1753, specie pp. 5, 118, 177-179. 25 Francesco Vasco Dalmazzo, Il genealogista, a cura di F.P. Gazzola, in “Annali della Fondazione Einaudi”, 1973, atto I scena V (ringrazio Andrea Merlotti per la segnalazione di questo testo). 26 Magistralmente ricostruito da Robert Darnton, I lettori rispondono a Rousseau, in Il grande massacro dei gatti, Milano, 1988, pp. 267-319 e 363-370.
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27 R. Derosas, Riflessi privati della caduta della Repubblica, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di S. Gasparri, G. Levi, P. Moro, Bologna, 1997, pp. 271-303. 28 A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, 2000. 29 I. Porciani, Famiglia e nazione nel lungo Ottocento, in “Passato e Presente”, n. 20, 2002, pp. 9-39.
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Scrivere la storia sociale dimenticando il genere. Alcune notazioni critiche sulle strategie storiografiche Karin Hausen
Professore emerito, Technische Universität Berlin
Intendo presentare un’accurata lettura critica di un unico libro. Il suo titolo, assai promettente, è Das Bürgertum in Deutschland (La borghesia in Germania) pubblicato per la prima volta nel 1989 in edizione rilegata e nel 1996 in brossura1. Il termine Bürgertum non è semplice da tradurre: la nozione tedesca vi include tanto la classe media quanto la borghesia. Il libro, composto di 640 pagine scritte elegantemente, è stato bene accolto sia dagli storici tedeschi e internazionali sia da un più ampio pubblico di lettori in Germania. L’autore del libro è Lothar Gall, professore emerito dell’Università di Francoforte, ex presidente dell’associazione degli storici della Germania occidentale, general editor della rivista “Historische Zeitschrift”, tanto stimabile quanto tradizionalista. Il professor Gall, che per un lungo periodo è stato membro del consiglio direttivo della più importante società finanziaria della Germania, ha incominciato la sua carriera accademica negli anni Sessanta del Novecento in qualità
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di storico della prima età liberale tedesca; fra le altre cose, è noto per aver scritto un’importante biografia di Bismarck dal titolo Bismarck, the White Revolutionary. Durante gli anni Ottanta, in polemica con il progetto di ricerca sulla borghesia avviato all’Università di Bielefeld, Gall diede vita a Francoforte ad un suo progetto di ricerca autonomo. Il volume Bürgertum in Deutschland è, per molti aspetti, un’espressione straordinaria della storiografia tedesca. Qui però intendo prenderlo come esempio per dimostrare in dettaglio come una specifica strategia di scrittura della storia renda possibile produrre opere di cosiddetta storia generale narrando la storia di una famiglia del XIX secolo alla quale apparentemente le donne sembrano non appartenere. Nel suo libro sulla borghesia2, Gall fornisce una costruzione della storia coerentemente patrilineare e patriarcale, che l’autore presenta esplicitamente come storia ‘generale’. Il titolo del volume è fuorviante e nasconde il fatto che Gall ha a che fare con una sola famiglia, quella dei Bassermann. A partire dall’inizio del XIX secolo, i Bassermann avevano la loro base a Mannheim, una città della Germania sud-occidentale. Economicamente, le loro fortune si fondavano sul commercio. La storia della famiglia Bassermann, per come viene raccontata da Gall, prende avvio nel XVII secolo e termina nel 1952, con la morte dell’ultimo protagonista del volume in questione. L’autore presenta il suo libro come un contributo rilevante alla storia ‘generale’, capace di superare i limiti dell’approccio strutturalista grazie alla collocazione dei singoli individui al centro della narrazione. Ma tale progetto suscita la seguente domanda: come agisce la specifica costruzione storiografica di Gall, che si propone da un lato di dare l’impressione di avvicinarsi alla storia della vita quotidiana, e dall’altro di soddisfare il desiderio del lettore di una storia generale dotata di rilevanza? Tralascerò, in questa sede, la cura con cui Gall accentua la
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propria autorevolezza e la propria attendibilità. Egli paragona la propria funzione di autore a quella del famoso storico Theodor Mommsen e a quella dello scrittore Thomas Mann nel suo romanzo I Buddenbrook. Non discute criticamente le proprie fonti, che consistono soprattutto negli archivi privati dei Bassermann e che includono una saga familiare scritta a partire dal 1884. Gall adotta un tono assertivo per descrivere e giudicare le vicende storiche, e con disinvoltura adegua all’occorrenza la vecchia formula storiografica che recita: «descrivete più o meno esclusivamente gli uomini come soggetti e oggetti della storia, come le forze in grado di muovere o rallentare il processo storico, e lasciate che sia il regno della politica a prevalere nella vostra narrazione; così le vostre fatiche storiografiche guadagneranno credibilità, rilevanza e l’approvazione dell’accademia». Infatti, il libro di Lothar Gall associa l’affermazione secondo la quale la storia ‘generale’ – ovvero la storia rilevante, densa di significato – deve essere storia politica forgiata dagli uomini con la promessa di una maggiore vivacità conferita dalla narrazione della vita quotidiana tipica delle storie di famiglia. Questa combinazione confluisce nella scelta di concentrarsi essenzialmente su quattro uomini. Egli presenta ciascuno di essi come un prototipo della sua generazione. Si tratta – tralasciando gli antenati del XVII e del XVIII secolo – della generazione del padre, il fondatore, del figlio, del nipote e del bisnipote. Gall sottolinea la discendenza patrilineare come l’elemento unificante della propria narrazione. Ma non esplicita mai perché e come i quattro uomini prescelti possano essere presi ad esempio della loro generazione. Al contrario, egli descrive ognuno di loro attraverso il suo rilevante impegno nella sfera pubblica, impegno considerato come elemento di indiscutibile rilevanza storica. L’unico che sia stato scelto sia per la sua attività in ambito politico ed economico sia per il suo radicamento nella famiglia
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e nella città di Mannheim è il padre fondatore, che vi si stabilì e vi raggiunse una posizione attraverso il matrimonio, avvenuto nel 1805. Nella narrazione di Gall costui ha la funzione di incarnare l’età dell’oro della borghesia liberale tedesca. In contrasto con il padre fondatore, gli altri rappresentanti scelti per le generazioni dei figli, dei nipoti e dei bisnipoti lasceranno gli affari della famiglia; essi avevano ottenuto infatti il pubblico rispetto grazie ad attività anche geograficamente lontane dalla casa e da Mannheim, mentre gli affari di famiglia erano rimasti nelle mani degli altri maschi del casato. Dal punto di vista della storia della famiglia Bassermann queste scelte dell’autore appaiono dunque come estremamente arbitrarie e ingannevoli. Ma non intendo trattare ulteriormente qui questo tema. I quattro uomini servono a Gall per dimostrare la sua tesi principale, ovvero che in Germania la borghesia liberale sarebbe arrivata al suo zenit durante la prima metà del XIX secolo attraverso una mobilità ascendente fondata su risultati economici e su una concezione liberale della politica e della società. Il declino di questa borghesia liberale, secondo Gall, sopraggiunse dopo la rivoluzione del 1848 e fu dovuto alle nuove alleanze con governi autoritari e politicamente illiberali. Per la mia analisi, comunque, l’aspetto più interessante è la costruzione patrilineare della famiglia Bassermann. Gall evidenzia la linea padre/figlio/nipote come il filo che tiene insieme l’avanzata sociale della famiglia di generazione in generazione. Con una simile immagine, Gall descrive direttamente la rappresentazione che la borghesia del tardo XIX secolo faceva di se stessa, senza offrirne una rilettura critica. L’immagine della linea è fondamentalmente fuorviante. Nel corso del tempo, le famiglie non producono semplici linee patrilineari, ma piuttosto complessi sistemi di parentela per i quali l’immagine di una rete sarebbe assai più appropriata. Una donna e un uomo che attraverso un matrimonio fondano una nuova famiglia provengono, infatti, da due famiglie già esistenti e appar-
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tengono a due differenti gruppi di parentela. E la nuova famiglia riprodurrà, dunque, complesse reti di parentela quando i loro figli formeranno a loro volta nuove famiglie. La questione interessante dal punto di vista storico è sapere come una donna e un uomo creano un loro specifico sistema di parentela prendendosi cura di alcuni rapporti e tralasciandone altri. Anche la classificazione in generazioni è ovviamente di utilità limitata rispetto ai gruppi complessi di parentela, dato che in un certo momento i membri della famiglia di un gruppo di età possono appartenere a differenti posizioni generazionali, dai genitori ai nipoti. Ma perché Gall preferisce seguire acriticamente una dubbia concezione lineare della storia della famiglia? Perché disegna una rigida costruzione patrilineare della famiglia Bassermann? La costruzione patrilineare gli offre almeno quattro vantaggi: primo, i lettori colti sono ben abituati a uno schema patrilineare e non intendono certo metterlo in discussione; secondo, la linea genealogica da padre a nipote serve in maniera eccellente come filo conduttore per la narrazione; terzo, l’uso continuo di un vocabolario basato sui padri, i figli ecc. risulta di grande aiuto per dare l’impressione di essere di fronte ad un storia di famiglia anche quando la storia di famiglia rimane fuori dalle intenzioni dell’autore; quarto, l’uso di una concezione patrilineare della famiglia è un modo efficace per trascurare costantemente le donne e privilegiare gli uomini della famiglia e della parentela. Con ciò, si creano le condizioni ottimali per una narrazione storica che sarà accolta dai suoi lettori come storia ‘generale’ di grande valore. Una lettura più attenta rivela anche i meccanismi che rendono questo libro così bene accolto dalla storiografia. Prima di tutto il libro attrae per l’identificazione con l’uomo e la mascolinità. Gall si serve di rigidi preconcetti per indicare cosa sono e come debbano essere le azioni, le competenze, le conquiste di un uomo. La mascolinità dei suoi uomini appare più naturale
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che culturale. Egli rappresenta gli antenati come se avessero agito sempre in totale conformità con il motto del padre fondatore: sii padrone e servo di te stesso. Vengono tutti rappresentati come uomini pieni di fiducia in se stessi, autonomi nel loro agire. Solo i mariti, i padri e i fratelli sembrano essere stati attivi, tesi verso un obiettivo, calcolatori e audaci. Tutti sembrano aver posseduto un’innata autorità per imporre la loro volontà alle mogli, ai figli e alle sorelle, tutti subordinati e obbedienti. Nella sua descrizione del XIX secolo, Gall riferisce e conferma che la politica, l’economia e anche la cultura erano terreni dominati esclusivamente dagli uomini. In tutti questi ambiti, gli uomini sembrano agire senza alcun supporto, senza ostacoli o intralci da parte delle donne, che fossero donne appartenenti alla loro famiglia e alla loro parentela, oppure amiche, prostitute o amanti, o ancora ricche vedove o nubili con pretese di eredità. Gall ammette nel suo libro solo un’eccezione femminile: Wilhelmine, moglie dal 1805 del padre fondatore Friedrich Ludwig (1782-1865), attraverso il quale l’autore rappresenta l’età dell’oro della borghesia liberale. Il loro matrimonio d’amore procurò allo sposo e audace uomo d’affari, Friedrich Ludwig, un capitale di cui aveva urgente necessità. Wilhelmine, che era stata addestrata nelle attività commerciali di suo padre, ottiene da parte di Gall il privilegio di giocare un ruolo centrale nell’ascesa della famiglia Bassermann al vertice della società di Mannheim. Viene descritta come una donna di casa abile e competente. Per esempio, fu grazie al suo ingegno e alla sua supervisione che la grande villa di famiglia, dimostrazione fondamentale della posizione sociale raggiunta dai Bassermann a Mannheim, venne completata nel 1830. Questa dimora così in vista, posta proprio nella piazza del mercato, appartenne alla famiglia fino al 1919, quando fu acquistata da una persona estranea al casato. Perché Gall affida a Wilhelmine un ruolo così eccezionale
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nella sua rappresentazione dei Bassermann? La ragione principale è la costruzione narrativa della generazione del padre fondatore: è una costruzione conforme al modello del padre di famiglia, che richiede una complementarietà con la donna di casa. Quando, all’opposto, Gall dipinge gli uomini delle tre generazioni successive esclusivamente come Berufsmenschen, ovvero come uomini dediti al lavoro, egli trascura quasi completamente il fatto che anche nella seconda metà del secolo le donne, le mogli, e persino la famiglia esistessero ancora. Il primo protagonista che incarna il cosiddetto declino della borghesia è Friedrich Daniel, nato nel 1811 come figlio naturale del padre fondatore. Friedrich Daniel si suicidò nel 1855, dopo che la sua carriera di politico liberale affermatosi intorno alla rivoluzione del 1848 si era inesorabilmente arrestata. Come rappresentante della generazione dei nipoti, Gall preferisce il nipote del cugino del padre fondatore, Ernst Bassermann (1854-1917), noto liberale di destra deputato al Parlamento centrale. L’ultima generazione nella storia del declino è rappresentata da Albert Bassermann (1867-1952). Questo bisnipote del padre fondatore è stato prescelto per la sua bravura come attore di teatro. Tutti e tre gli uomini ‘dediti al lavoro’ sembrano esser vissuti e aver agito senza alcuna stretta relazione con i loro conviventi, con i familiari, con le loro mogli, i figli e i parenti. Gli accenni più frequenti alle relazioni familiari di questi tre uomini sono rappresentati dai nomi elencati nell’indice e negli schemi genealogici contenuti nell’appendice del volume. Vale la pena prendere in considerazione un’ulteriore procedura storiografica: la strategia che sorregge la costruzione patriarcale della narrazione. Anche nella parte in cui racconta del padre di famiglia, Gall tralascia di spiegare quali doveri e diritti – sia legali che consuetudinari – fossero posseduti da un capofamiglia, e quali conseguenze ciò avesse sulla posizione della moglie. Egli infatti tratta come cosa autoevidente il fatto che il progetto della società e dello Stato liberale – palesemente
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basato sulla differenza di genere – escludesse regolarmente tutte le persone adulte di sesso femminile dalla partecipazione politica. Gall rimane assolutamente impassibile e non viene toccato da vent’anni di ricerca e critica femminista. Ma per un lettore del suo libro è piuttosto difficile rendersi conto di queste dimenticanze. Per dimostrare che dopo la generazione del padre fondatore il capofamiglia si è trasformato in un ‘uomo dedito al lavoro’, Gall colloca tutti i Bassermann successivi all’interno di una individualistische Leistungsgesellschaft, ovvero in una società di individui orientata al risultato. In tal modo accade che essi abbiano a che fare soltanto con altri uomini e che non abbiano alcuna interazione con le donne. Che una trasformazione ugualmente importante abbia riguardato, nello stesso periodo, le famiglie e l’impatto che le donne avevano sulla società né mette in discussione né stimola la fantasia creativa di Gall. Il suo unico breve commento a proposito di queste trasformazioni ha a che fare con la fine dell’era della padrona di casa e l’inizio di quella della moderna casalinga. Nell’interpretazione di Gall, durante questa transizione le mogli ridussero ulteriormente le loro attività alla gestione della casa e, dunque, soffrirono della tipica ‘crisi d’identità’ femminile. Solo nelle note l’autore ci fornisce un’importante informazione: nel 1908, contro il volere di suo marito, la moglie del deputato liberale Ernst Bassermann fondò a Mannheim un gruppo di donne appartenente al partito liberale e ne divenne la presidente. E ancora grazie ad una nota si può venire a conoscenza di un dato non meno interessante, ovvero che la figlia di Ernst era stata una delle prime donne a conseguire un dottorato all’università. Per riassumere, desidero aggiungere un’ultima dimostrazione di quanto l’esclusione delle donne nella ricostruzione della storia della famiglia Bassermann venga presentata come storia ‘generale’. Scorrendo l’indice dei nomi ci si accorge che nelle seicentoquaranta pagine del libro, ossia nel testo, nelle note e
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nelle didascalie delle fotografie sono nominate solo sessantadue donne. Soltanto dieci di esse provengono dall’esterno della famiglia. Ma anche il numero di sessantadue costituisce un’esagerazione: trentuno donne sono nominate nel libro solo una volta, altre ventisette solo fra le due e le quattro volte, e la maggior parte di questi cinquantotto nomi appaiono solo come anelli della catena genealogica e sono spesso raggruppati in una stessa pagina. Alla fine rimangono solo quattro donne nominate più di quattro volte. Chi sono queste privilegiate? Come già sappiamo, la prima è Wilhelmine (1787-1869), la madre fondatrice, nominata cinquanta volte, perlopiù in qualità di figlia del padre dei Reinhardt. Due delle rimanenti tre donne vengono presentate generalmente in relazione a Wilhelmine. La prima è sua madre, citata sette volte per nome, che intervenne con decisione per combinare il matrimonio della coppia fondatrice. La seconda donna, nominata dieci volte, è la sorella più grande di Wilhelmine, la quale apporta alla narrazione coloriti commenti a proposito di sua madre. La terza donna, Else Schiff, è nominata cinque volte nel breve ultimo capitolo (quaranta pagine) che affronta il declino finale della generazione dei bisnipoti. Else era essa stessa una nota attrice di teatro che recitava con Albert Bassermann. Come veniamo a sapere da un paragrafo secondario, aveva sposato Albert nel dicembre 1908, dopo la nascita della loro figlia nel febbraio dello stesso anno. La coppia emigrò all’inizio del 1934, poiché il nazionalsocialismo perseguitava Else in quanto ebrea. Al termine del libro, Else viene descritta mentre riaccompagna il marito morente dagli Stati Uniti a Mannheim, la città della sua famiglia. Ma Albert Bassermann morì mentre ancora si trovava in volo. L’impressionante trascuratezza dell’ambito familiare che affligge la storia raccontata da Gall deriva dal confine tra pubblico e privato, costantemente invocato, che colloca gli uomini storicamente rilevanti nella sfera maschile separati dalle donne
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storicamente irrilevanti nella sfera femminile. E allo stesso tempo rinvigorisce una simile separazione. Il modo in cui Gall illustra la storia che segue il 1850 ribadisce il credo secondo il quale soltanto gli uomini giocano un ruolo storicamente rilevante. La sua rappresentazione cancella non soltanto la sfera del privato ma anche il fatto che, durante le ultime decadi del secolo, le donne borghesi ebbero un ruolo rilevante nella lotta per l’uguaglianza dei diritti ed occulta il riconoscimento della loro partecipazione pubblica. L’approccio e la strategia narrativa che sorreggono il volume Bürgertum in Deutschland di Lothar Gall ben si collocano all’interno della tradizione tedesca della storiografia accademica. Nel XIX secolo i professori di storia tedeschi furono i primi e i più costanti nel concentrare la loro ricerca storica principalmente sulla struttura dello Stato e, in particolar modo, dello Stato-nazione. Allo stesso tempo, intesero la competizione e la lotta per il potere dentro e fra gli Stati come il motore del mutamento storico. In base a queste concezioni, la storiografia accademica divenne strettamente connessa al potere pubblico, alla storia politica e alle attività definite come esclusivamente maschili. La storiografia tedesca divenne uno specchio preciso e uno strumento discorsivo utile a rafforzare l’ordine dei generi che alla fine del XIX secolo andava difeso dai riusciti attacchi delle femministe e dei loro alleati. Sicuramente questo concetto di lunga durata oggi ha perso il suo potere di collocare i cambiamenti del mondo e le interpretazioni storiche in un ordine convincente. Dal 1960 nella Repubblica Federale Tedesca come in ogni altro luogo della Terra, nuovi campi di interesse storiografico si sono sviluppati rapidamente e sono stati accompagnati da una altrettanto rapida diversificazione degli approcci storiografici. Tuttavia in Germania l’idea della storia ‘generale’, così fortemente radicata e intesa implicitamente come storia dello Stato-nazione, è sopravvissuta insieme all’idea della cosiddetta unità della sto-
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ria. Queste due concezioni continuano a servire come potenti espedienti – in quella che viene accreditata come storiografia seria – per definire ciò che è rilevante o irrilevante nella storia. Il rispettabile, antico edificio della storia basato sulle fondamenta dello Stato-nazione è stato ampliato aggiungendo stanze e ripostigli. Ma anche negli anni Ottanta e Novanta ogni tentativo di ricostruzione dalle fondamenta o di rifondazione dell’intero edificio storiografico ha sempre provocato immediatamente l’accesa opposizione e la mobilitazione di qualsiasi forma di potere disponibile. Tutto ciò deve essere tenuto presente quando si affronta la questione del perché in Germania sia stato e sia ancora così difficile e provocatorio inserire nei dipartimenti di storia e accreditare la storia delle donne e la gender history come campo di ricerca innovativo e indifferibile.
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Note * Traduzione di Alessandra Gissi. 1 L. Gall, Bürgertum in Deutschland, Berlin, 1989; paperback edition München, 1996. Per una critica più dettagliata vedi K. Hausen, Geschichte als patrilineale Konstruktion und historiographisches Identifikationsangebot. Ein Kommentar zu Lothar Gall, Das Bürgertum in Deutschland, Berlin 1989, in ”L‘Homme. Zeitschrift für feministische Geschichtswissenschaft“, n. 8, 1997, pp. 109-131. 2 Il termine borghesia in questo testo traduce il vocabolo Bürgertum e ne
mantiene il significato che include tanto la borghesia quanto la classe media (N.d.T.).
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Reflexión sobre la investigación en historia de las mujeres en España y América Latina Pilar Pérez Cantó
Universidad Autónoma de Madrid
Nuestra aportación consta de dos partes: una reflexión previa sobre las tendencias que todavía subsisten hoy en España respecto al modo que deben ser rescatadas las mujeres en una historia que llamamos historia del género o historia de las mujeres y nuestra posición al respecto y la presentación de la última investigación llevada a cabo en colaboración con colegas argentinas. Reflexión teórica Entre las historiadoras e historiadores españoles se pueden distinguir: a) Aquellas/os que opinan que hay que escribir una historia de las mujeres específica, como hay que escribir una historia de la vida privada o una historia de la familia. Pero que lo hacen de forma rigurosa, sin concesiones intentando rescatar fuentes no utilizadas previamente o con las mismas fuentes leídas utilizando el género como instrumento de análisis histórico, al modo que señalaba Joan Scott en sus primeros trabajos, entendiendo que las relaciones de género se han configurado como 109
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relaciones de poder y que la sociedad patriarcal está vigente a pesar de las legislaciones igualitarias. El objetivo de esta historia es doble: rescatar el protagonismo de las mujeres haciéndolas visibles y proporcionar material que pueda ser utilizado por las historias generales. Ejemplo las historias de las mujeres que conocemos de Georges Duby, Bonnie Anderson1 o la historia de las mujeres en España y América Latina que prepara Cátedra2. Quizá todavía sean necesarias, sin embargo yo me inclinaría a pensar que llegó el momento de hacer también otra historia. b) Aquellas otras/otros que pretenden escribir una historia no androcéntrica, a saber una historia real donde mujeres y hombres se relacionan de una determinada forma en cada época histórica, donde quede claro que ser mujer u hombre son construcciones culturales y que el modo de relación entre ellos también lo es. Analizar el origen y consolidación de la sociedad patriarcal y su vigencia actual. Cerca de lo que deseo indicar estaría la obra de Natalie Zemon Davis Las mujeres de los márgenes. Mis razones para optar por esta forma de escribir la historia nace de la experiencia surgida en un Proyecto sobre el análisis de los libros de texto de ESO y Bachillerato. La historia que estudian nuestros adolescentes es una historia androcéntrica, en la que las mujeres o no existen o se hacen presentes como un apéndice. Los historiadores varones no leen lo que escribimos y la mayoría de ellos siguen aferrados a la historia más tradicional. c) Existe otra corriente que se limita a escribir historias de mujeres al rebujo del interés que han suscitado las dos anteriores. Esta última no me parece seria. Unas y unos la escriben con fines comerciales y otras/os porque no saben hacer otra cosa. Resultados de una investigación: educación, género y ciudadanía. Las mujeres argentinas, 1700-1943 El trabajo que ahora presentamos es el fruto de dos años de investigación y ésta a su vez arranca de proyectos que la prece110
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dieron, todos ellos articulados en torno al concepto de ciudadanía y sobre todo a las exclusiones que este concepto genera como parte de su propia esencia, no se es ciudadana frente a aquellas o aquellos que lo son por razones diferentes y el género, hasta épocas históricas muy recientes, ha sido de forma generalizada un factor de exclusión. Las mujeres del llamado mundo occidental lograron, no sin esfuerzo, los derechos que la ciudadanía otorga a lo largo del siglo XX, sin embargo, todavía hoy esos derechos le siguen siendo negados a un número considerable de mujeres, habitantes de zonas muy diversas de nuestro planeta. Deseamos dejar constancia de que la investigación ha sido posible gracias la subvención que durante dos años nos proporcionó el Centro de Estudios para América Latina de la Universidad Autónoma de Madrid/Banco Santander Central Hispano. En esta ocasión, el equipo investigador se propuso como objetivo abordar el largo camino recorrido por las mujeres argentinas en pos de sus derechos de ciudadanía y hacerlo desde un grupo del que formaran parte investigadoras de las dos orillas del Atlántico. Nos propusimos, argentinas y españolas, recorrer conjuntamente los diferentes hitos de ese camino arrancando desde sus orígenes en el siglo XVIII y en el pensamiento ilustrado español hasta la consecución del voto en la Argentina de mediados del siglo XX. Como hipótesis de trabajo nos planteamos llevar a cabo una relectura de textos del siglo XVIII y XIX utilizando el género como instrumento de análisis y constatar a través de ellos cual había sido el papel adjudicado a las mujeres en el diseño de la nueva sociedad pretendida por la Ilustración española y, más tarde, por el discurso político, liberal o conservador, argentino y así mismo, identificar los modelos de mujeres que las luces y el liberalismo político propugnaban. Las colegas argentinas se han ocupado no sólo de mostrarnos el estado de la cuestión, haciendo un balance historiográfico acerca del binomio mujeres/ciudadanía en la bibliografía
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argentina sino que han analizado el discurso educativo a lo largo del siglo XIX como clave de la conformación de la ciudadanía en su país. A las investigadoras españolas nos ha correspondido volver a los textos, ya leídos, de ilustrados, proyectistas y reformadores políticos del siglo XVIII, ahora con otra mirada, para detectar el lugar adjudicado a las mujeres en sus proyectos renovadores y la concepción de las relaciones entre mujeres y hombres sobre los que éstos se apoyaban. Por parte española la investigación culmina con una mirada a la cara oculta3 de las Cortes de Cádiz en las que se consagró constitucionalmente la exclusión de las mujeres como ciudadanas de aquella nueva sociedad alumbrada por los ilustrados del Setecientos de cuyos derechos universales de nuevo habían sido excluidas las mujeres a principios de la centuria siguiente. Dividido el trabajo de acuerdo con la trayectoria investigadora de cada una de nosotras y teniendo en cuenta la accesibilidad de las fuentes, el trabajo resultante que les presentamos consta de tres capítulos. En el primero, tal como anunciábamos, Susana Bandieri de la Universidad Nacional del Comagüe de Neuquén en la Norpatagonia argentina, recorre el panorama historiográfico argentino en torno a la construcción de la ciudadanía y lo hace a través de tres caminos convergentes: historia y ciudadanía, género e historia y ciudadanía y mujeres, pasajes necesarios todos ellos para poder abordar el estudio del largo camino de las mujeres argentinas hasta lograr la ciudadanía plena en 1949. Esta investigadora avanza entre constituciones, leyes electorales y repertorio bibliográfico a la búsqueda de un concepto de ciudadanía más amplio que, citando a Hilda Sábato, «contempla un conjunto de procesos sociales que tuvieron lugar en Iberoamérica cuando la constitución de una ciudadanía política se planteó como un problema concreto»4. No hay que olvidar, que en el caso argentino, la construcción de la ciudadanía tuvo lugar a la vez que el de la nación. Los
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procesos inmigratorios masivos de la segunda mitad del siglo XIX, junto a la inmensidad territorial del país hicieron del segundo un objetivo complejo del que la configuración de una historia ad hoc no fue una operación menor. Contar con un estado de la cuestión amplio y riguroso nos permitió conocer las lagunas que era preciso cubrir y por donde debían encaminarse nuestros pasos. La carencia de estudios que arrancaran del pensamiento ilustrado español y de su expansión e influencia en la América Hispana vino a confirmar nuestra hipótesis de trabajo y el capítulo segundo lo dedicamos íntegramente a Los fundamentos ilustrados de la ciudadanía. Partiendo de una redefinición de la esfera pública ilustrada, la investigadora española de la Universidad Autónoma de Madrid, Rocío de la Nogal, analiza, a la luz de las teorías habermasianas y de la teoría política feminista, la participación de las mujeres en una serie de manifestaciones que tuvieron lugar fuera del ámbito doméstico o que incluso cuando éste era su lugar de expresión, como el caso de las tertulias y salones, las actividades desarrolladas tenían la categoría de públicas porque esa era su intencionalidad. Se debatía para expresarse ante otros, mujeres y hombres, y para que lo expresado tuviese una trascendencia pública. Esos espacios tuvieron su réplica, más tardía y quizá menos definida, en los territorios ultramarinos de la Monarquía hispana y así quedó patente en los testimonios de la época. Academias, salones, tertulias, prensa, paseos y algunos otros fueron espacios públicos ilustrados frecuentados por las mujeres y en algunos de ellos, como se encargarán de señalar Esperanza Mo y Margarita Eva García, se ejercían deberes que generaban derechos. Una lectura atenta de los textos y proyectos escritos o puestos en práctica por los reformadores políticos, muchos de ellos convertidos en ministros o funcionarios reales, llevada a cabo por las citadas investigadoras junto a Pilar Pérez Cantó, adjudican a las mujeres el papel primordial de madres y educadoras
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de ciudadanos, no obstante su llamada a ser útiles a la Patria abrió a éstas una serie de posibilidades que desde diferentes instancias no dejaron de aprovechar. Las mujeres populares fueron apeladas para ser útiles como mano de obra en los trabajos que, siempre de acuerdo con su condición y decoro, se consideraban imprescindibles para el progreso del país. La necesidad de no dejar ociosa a la mitad de la población planteó un requisito previo, las mujeres debían ser instruidas sino educadas para que realizasen su trabajo con eficacia y provecho. Las mujeres más privilegiadas, aquellas cuya formación no se ponía en duda por los hombres más preparados de la nueva sociedad, no se limitaron a abrir salones, participar en tertulias y asistir a teatros y paseos, petimetras aparte, un número de ellas en cada núcleo urbano accedieron, no sin debate, a las Academias y Sociedades de Amigos del País y desde esas plataformas fueron útiles a la Patria ocupándose de la asistencia y formación de otras mujeres o de la infancia, preferentemente de las niñas, escribiendo informes o planteando mejoras en instituciones y fábricas del Estado. Unas y otras encontraron en la educación y en el trabajo la vía para rebasar el modelo que los ilustrados habían diseñado para ellas. Los teóricos ilustrados y, en mayor medida los proyectistas, tuvieron presente en sus escritos y planes de reforma a todos los territorios de la Monarquía y de modo especial a las colonias americanas. Feijoo no olvidó en su Teatro Crítico dirigirse a los criollos americanos, Uztáriz, Campillo y Cossio o Campomanes y otros reformadores no olvidaron tampoco en sus planes el papel de los territorios ultramarinos y en ellos el protagonismo que correspondía a las mujeres. Campillo, en su Nuevo sistema de gobierno para la América, recomendaba el trabajo de las mujeres indígenas como medio, no sólo de contribuir al progreso de la Monarquía, sino también para lograr su propia felicidad, objetivo que se conseguía a través de la capacidad de consumir. No obstante será Campomanes, quien con mayor
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claridad explicará que el trabajo de las mujeres era un requisito imprescindible para el bien de la patria y su propia felicidad. Ninguno de ellos planteaba una nueva relación entre mujeres y hombres, sus propuestas estaban muy lejos de recomendar un nuevo orden social, se trataba de racionalizar la economía, buscar la eficacia y para ello no era posible obviar a la mitad de la población, sin olvidar que desde que Feijoo, en la primera mitad del Setecientos, dejó sentada la igualdad de intelecto entre mujeres y hombres, la igualdad teórica no se volvió a cuestionar entre los ilustrados. Pero una cosa era aceptar unos principios a la luz de la razón y otra muy distinta era subvertir el orden establecido. La mayor parte de las obras, tuviesen o no una mención expresa de las colonias, tuvieron difusión en la América Hispana e influyeron en la conformación de la sociedad colonial del Setecientos, por esa razón creíamos que era importante partir de su lectura, en clave de ciudadanía, para fundamentar los orígenes del largo camino seguido a lo largo de los siglos XVIII y XIX cuya evidencia se señala en el trabajo de Esperanza Mo y Margarita Eva Rodríguez. El tercer y último capítulo dedicado a la construcción de la ciudadanía no podía dejar de analizar el significado de las Cortes de Cádiz y la Constitución de 1812 que estas alumbraron como momento histórico en el que se plasman los derechos de ciudadanía de los españoles de ambos hemisferios y en las que se explicita la exclusión de las mujeres españolas, también de ambos hemisferios, de esos derechos. Admitida por el liberalismo la igualdad de todos los seres humanos fueron otras consideraciones, como bien señalaba el constituyente Muños Terreros, las que justificaron que las Cortes de Cádiz no llegaran a plantear la posibilidad teórica de conceder la ciudadanía a las españolas. Importancia capital tiene el trabajo que Lucía Lionetti de la Universidad Central de Tandil en la Provincia de Buenos Aires ha llevado a cabo al analizar el discurso político en torno a la
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educación que tendrá lugar en la Argentina del siglo XIX y primera mitad del XX y a través de él poner de relieve la construcción de la ciudadanía como requisito para la cohesión nacional. La preocupación por la educación estuvo presente desde el arranque del proceso emancipador y si bien el tratamiento entre niños y niñas fue muy diferente, las segundas adquirieron cierta relevancia a partir de 1820 con la introducción de métodos foráneos. Al igual que en la península, las damas más preparadas se preocuparon de la educación de las niñas. Los discursos políticos en torno a la educación variaron de forma paralela a los avatares políticos e incluso en cada etapa según la ideología de los oradores. Diferentes fueron también las medidas educativas que los gobiernos tomaron, sin embargo todos ellos estuvieron de acuerdo en la utilización de la educación como requisito imprescindible de la cohesión política. La feminización del Magisterio en la Argentina moderna y, por tanto, el papel que las mujeres jugaron en la formación de los ciudadanos es analizado a la par que la educación que las niñas recibían como futuras madres de ciudadanos de la república. Finalmente merece un capítulo importante la recuperación del protagonismo de una serie de mujeres que alcanzaron proyección pública como maestras y coadyuvaron con su trabajo y sus escritos a cambiar la educación de su país.
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Notas 1 Historia de las mujeres, Madrid, 1993 y Historia de Mujeres: una historia Propia, Barcelona, 1992. 2 En el momento de la publicación de esta Reflexión… la obra ya está publicada y su referencia es: I. Morant (dir.), Historia de las Mujeres en España y América Latina, 4 voll., Madrid, 2005-2006. 3 Frase tomada de B. Clavero. 4 H. Sábato (coord.), Ciudadanía política y formación de las naciones. Perspectivas históricas de América Latina, México, 1997, p. 11.
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Processi di etnicizzazione e costruzione del genere nell’età contemporanea Michelle Zancarini-Fournel IUFM de Lyon
Come docente di storia contemporanea presso l’Istituto universitario di formazione per maestri di Lione, sono stata colpita dalle descrizioni che diversi professori, nominati di recente nei collegi dell’agglomerato lionese, fanno del clima che regna in alcune loro classi e delle reazioni violente – verbali o gestuali – di alcuni alunni maschi, spesso ‘discendenti da famiglie immigrate’, non solo nei confronti delle ragazze, ma anche nei confronti delle giovani insegnanti. Come spiegare questa situazione? Capire il passato attraverso il presente, capire il presente attraverso il passato, la lezione di Marc Bloch è sempre indispensabile. Questa ricerca in corso sui processi di etnicizzazione e di costruzione del genere si inscrive nel prolungamento di uno studio sul legame tra genere e politica nel Sessantotto1. In questo periodo era notevole lo sviluppo di una cultura militante maschile, segnata dallo sciopero degli affitti nei pensionati dove vivevano molti uomini venuti in Francia da soli per guadagnare i soldi necessari alle loro famiglie, dagli scioperi della fame dei ‘lavoratori immigrati’ per ottenere un permesso di soggiorno, e dagli scioperi degli operai specializzati – in maggioranza stranieri – nelle fabbriche.
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Con la visibilità della crisi economica, il 1973 rappresentò una svolta. Quell’anno fu segnato infatti da omicidi razzisti nella regione parigina e marsigliese e – per reazione – da manifestazioni indette dall’organizzazione del Movimento dei Lavoratori Arabi (MTA), l’apparizione politica di un raggruppamento identitario2. Nel momento in cui la presenza dei lavoratori immigrati nello spazio pubblico divenne visibile, si produssero i primi fenomeni di violenze urbane giovanili nella regione lionese, in particolare a Vaulx-en-Velin. All’epoca tali fenomeni non suscitarono molto interesse, salvo qualche trafiletto sulla stampa locale. Questo studio nasce quindi da un duplice interrogativo, storico e di pratica sociale, e si pone come obiettivo l’analisi dei processi di etnicizzazione e di costruzione del genere a partire da diversi avvenimenti: i momenti di ribellione urbana nelle periferie lionesi e l’affaire des foulards, nato nel 1989 e messo in rilievo dalla presenza sui mezzi di comunicazione delle ragazze ‘integrate’ in occasione della Coppa del Mondo di Calcio del 1998. Tali fenomeni, nella loro qualità di fatti sociali globali e mediatizzati, hanno contribuito a trasformare le relazioni di genere3. Il problema quindi è la possibilità di costruire un quadro storico interpretativo capace di trattare insieme le somiglianze e le differenze rispetto all’approccio dei sociologi, degli antropologi o degli specialisti in scienze della comunicazione (gli studiosi dei media). In effetti, al giorno d’oggi la televisione svolge un ruolo decisivo nella costruzione delle rappresentazioni socio-politiche. Questo quadro storico interpretativo punta ad inserirsi in un ambito complesso che non si limita ai paradigmi interpretativi globali come ‘l’esclusione’, ‘la delinquenza’, ‘l’islamizzazione delle periferie’, ‘il rischio del comunitarismo’, ma si interessa agli attori e alle attrici sociali. Ragazze e ragazzi, infatti, non vivono questi momenti nello stesso modo e il mondo esterno non restituisce loro la stessa immagine. Negli ultimi tre decenni
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del XX secolo si sono costruite progressivamente le figure del ‘giovane di periferia’4, prototipo (o idealtipo?) del ragazzo magrebino, violento e maschilista, e della ‘ragazza velata’, sottomessa al peso della religione, alle pressioni familiari e al controllo degli uomini del gruppo familiare e del quartiere5. L’ipotesi qui avanzata è che le ribellioni urbane rappresentano per alcuni ragazzi (o giovani uomini) un mezzo attraverso il quale affermare la loro identità virile, facendo ricadere il disprezzo e il rifiuto che subiscono (e talvolta provocano) sulle ragazze e sulle donne che incrociano per strada o nello spazio pubblico che frequentano – scuola, liceo, uffici postali, attività commerciali, amministrazione – e sui loro prossimi, in particolare sulle loro sorelle e le loro compagne. Nuove relazioni di genere, i cui effetti sono stati di recente denunciati pubblicamente, si sono costruite lentamente ma inesorabilmente nella violenza e nell’esclusione fin dalla metà degli anni Settanta. Genealogia delle ribellioni urbane nella regione lionese (1971-1981) Per un approccio storico a tale fenomeno, è necessario utilizzare le procedure e gli strumenti del mestiere – la ricerca di fonti archivistiche classiche, seriali, consultabili nel tempo – ricollocare gli avvenimenti notevoli in un’analisi globale della situazione di questi tempi di crisi e riflettere sulle temporalità, cioè in rapporto al passato, al presente e al futuro degli attori sociali, e allo stesso modo far riferimento a giochi di scala. È forse necessario inserire le ribellioni urbane della seconda metà del XX secolo in una storia di lungo periodo delle segregazioni urbane6, facendo emergere la specificità della situazione degli ultimi tre decenni del secolo, segnati nella società francese dalle conseguenze della Guerra d’Algeria. La recentissima legge del 25 febbraio 2005 sull’indennizzo ed il riconosci-
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mento del ruolo dei ‘rimpatriati’ ex membri delle forze suppletive, gli harkis, così come il riferimento nella legge della ‘presenza positiva’ della Francia in Algeria, mostrano la pregnanza degli usi politici del passato. Ciò che resta ancorato alla memoria (alimentato anche dalle recensioni e dalle ulteriori analisi dei giornalisti e dei sociologi) sono le ‘rivolte urbane’ di Vaulxen-Velin del 1990 (le Mas du Taureau) e in secondo luogo la rivolta di Vénissieux (Les Minguettes) del 1981. Perché queste testimonianze sono così forti nella memoria comune? La Marche des beurs del 1983 ha dato il via a un periodo di calma relativa nelle periferie lionesi. Questo momento di associazionismo civico e di speranza di riscatto è stato relativamente assente dalle commemorazioni pubbliche, almeno fino al 2003, anno in cui il repertorio della marcia è stato ripreso dal movimento Ni Putes ni Soumises7. Perché anche in questo caso c’è stata la cancellazione della memoria delle azioni urbane violente anteriori al 1981? La ricerca storica si sforza di rispondere a queste domande. L’uso della storia e l’analisi concreta di diversi spazi dell’agglomerato urbano (il distretto Olivier de Serres a Villeurbanne, la Grapinière a Vaulx-en-Velin, Les Minguettes a Vénissieux) permettono di comprendere la nascita precoce e la specificità di forme di violenza giovanile maschile. Questi avvenimenti sono segnati dal fenomeno della mediatizzazione, favoriti dal riciclaggio rapido e non distanziato delle analisi delle scienze sociali e dalla strumentalizzazione mediatica del fenomeno da parte di sedicenti esperti. Interrogarsi sulla costruzione delle categorie e sulla specificità di un approccio storico può contribuire a prendere le distanze e ad analizzare in maniera critica l’insieme del processo. Formalizzata da Bernard Lepetit8, la variabilità dei giochi di scala permette di accedere a conoscenze di ordine diverso a seconda della lente di osservazione: nazionale (sulle politiche della città fin dal 19719), regionale (con la messa in opera di tali
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politiche e le reazioni degli attori locali10) e municipale (politica locale e socio-storia degli abitanti11). I primi parametri esplicativi delle violenze urbane si riferiscono a un metodo di analisi e a un vocabolario di vecchio tipo – ‘les loubards’, ‘les voyous’, ‘les bandes’12 – che li ricollega a una storia di lungo periodo delle violenze giovanili e alla storia più recente (1959-1960) delle ‘bluse nere’, che ha dato luogo ad inchieste sociologiche sulla ‘gioventù delinquente’. Il tema della delinquenza giovanile, come sottolinea Marie-Françoise Lévy13, è raro nelle trasmissioni televisive destinate ai giovani. Tuttavia, sul secondo canale appena creato, la trasmissione Seize millions de jeunes di Harris e Sedouy avvia una riflessione sul malessere dei giovani nei grandi insiemi delle periferie, sulle bande e sull’anomia delle città nuove come fattori favorevoli allo sviluppo della delinquenza giovanile14. C’è stata in televisione, prima del 1968, una costruzione mediatica del malessere e delle forme di marginalità giovanile. Qualche anno più tardi questa gioventù ‘irregolare’, marginale, è diventata ‘delinquente’ ed è stata associata ‘alla violenza e alla criminalità’. Il termine ‘delinquenza’ e l’approccio quantitativo si impongono a partire dal 1972, con la pubblicazione di un rapporto annuale sulla criminalità15. Nello stesso periodo si pone pubblicamente la questione dell’immigrazione. La pubblicazione delle circolari Marcelin-Fontanet del gennaio e febbraio 1972, destinate alla «protezione del mercato nazionale dell’impiego», limitano i flussi dei migranti e limitano l’immigrazione familiare. È in occasione dell’applicazione delle circolari nella zona del Rodano che si afferma una categoria che è al centro delle spiegazioni delle scienze sociali e del linguaggio comune: quella di ‘etnia’. Il 23 marzo 1973 il Servizio di collegamento e di promozione dei migranti – la denominazione Immigrato non si è ancora imposta nella nomenclatura amministrativa – precisa: «Quando la presenza di un’etnia supera il 15%, si manifestano reazioni sfavorevoli. Bisogna inoltre consi-
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derare che tale percentuale deve abbassarsi se si tratta di una popolazione a dominazione magrebina»16. Alla nozione di etnia si aggiunge quella di ‘soglia di tolleranza’, fissata arbitrariamente nel 1969 dal Consiglio Economico e Sociale al 20% per gli europei ed al 15% per gli altri17. Il Prefetto spiega il numero superiore dei delitti commessi dagli immigrati con lo sradicamento (il 52% della popolazione straniera nella regione del Rodano è ‘magrebina’)18. In questo contesto, due fenomeni devono essere sottolineati per spiegare il cambiamento del paradigma: il ruolo delle politiche statali e quello della stampa quotidiana regionale. L’evento straordinario che si verifica a livello locale svolge un ruolo considerevole in questa situazione e funge da cassa di risonanza per microeventi di quartiere o per piccoli centri che diventano degni di attenzione solo quando vengono citati sulla stampa nazionale. Quest’ultima funge allora da matrice per imporre la pertinenza dell’avvenimento. È il caso degli incidenti della Grapinière a Vaulx-en-Velin e di rue Olivier de Serres a Villeurbanne, riportati dagli studi sociologici solo nel 1979-1980 dopo la pubblicazione di reportage sui quotidiani o sui settimanali parigini, quando invece i primi incidenti – che risalivano al settembre 1971 – erano stati segnalati solo sulla stampa quotidiana regionale. Nel luglio 1974, in un comitato interministeriale per l’organizzazione del territorio, un incaricato della missione presso la DATAR conia la fortunata espressione zone sensibili, per definire quelle a forte concentrazione di lavoratori migranti19. È da notare la creazione per la prima volta di una «commissione di sicurezza dei beni e delle persone» che mostra il mutamento di politica, confortato dalla definizione degli obiettivi nei confronti degli immigrati, che preconizza l’impedimento dell’‘immigrazione selvaggia’ (slogan del Fronte Nazionale sin dal 1971)20. Il legame indissolubile tra delinquenza, stranieri e/o immigrati è una questione posta come tema di riflessione da Alain Peyrefitte (guardasigilli del quinto governo Giscard d’Estaing)
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al Comitato di studio sulla «violenza, criminalità e delinquenza», riunitosi per la prima volta il 20 aprile 197621. Hubert Dubedout, sindaco di Grenoble, ascoltato il 12 ottobre 1976, usa il termine ghetto per riferirsi ad un quartiere del suo comune, il Mistral22. Il termine ghetto, utilizzato dalla stampa nazionale a proposito di rue Olivier de Serres a Villeurbanne fin dal 1980, segna la stigmatizzazione. La denominazione e la caratterizzazione delle violenze giovanili sono quindi al centro dell’interpretazione23. Ribellioni urbane nella regione lionese All’inizio degli anni Sessanta il comune di Vaulx-en-Velin, nel cuore della periferia agricola di Lione, è ancora un borgo rurale. Consegnati nel 1966, gli edifici della Grapinière sono il secondo grande insieme della regione lionese. Vi si stabiliscono delle famiglie di harkis e di pieds noirs, lavoratori celibi provenienti dai pensionati allora nascenti, e poi diverse famiglie algerine arrivate dopo l’indipendenza e sistemate qui dal Fondo di Azione Sociale (FAS). La popolazione della città è quindi estremamente composita, e questo crea problemi sin dall’inizio, sia dal punto di vista socio-culturale che dal punto di vista economico. Alla Grapinière, nel 1976, più della metà dei 2408 abitanti ha meno di 18 anni. Le famiglie numerose (con quattro bambini e più) rappresentano un quarto delle famiglie così come le famiglie monoparentali, essenzialmente composte da donne sole che spesso lavorano a servizio (molto presto al mattino o molto tardi la sera, e lasciando quindi i bambini e i ragazzi senza sorveglianza). I primi incidenti si verificano nel settembre del 1971: una banda di giovani qualificati dalla stampa quotidiana regionale come «teppisti», «orda selvaggia», «cattivi ragazzi», si scaglia nel centro commerciale contro il negozio di un fioraio; si può supporre, in base alle lettere trova-
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te negli archivi municipali, a causa di un alterco nato per ingiurie pronunciate sulle origini familiari dei giovani coinvolti. I reportage contribuiscono rapidamente a costruire un’immagine negativa della zona (e quindi una forma di stigmatizzazione degli abitanti identificati col loro luogo di residenza). Nel 1975 si segnalano i primi saccheggi scolastici e nel 1978 i primi rodeo con le auto rubate. Quindi non è Vaulx-en-Velin, ma l’area di Simon, e cioè rue Olivier de Serres a Villeurbanne, che diventa a partire dal 1973 il luogo nel quale si concentrano tutti gli incidenti. Le vie d’accesso a queste zone, non ancora completate, forniscono ai numerosi bambini del quartiere materiali di vario genere dei quali fanno talvolta uso contro i vetri delle abitazioni circostanti. Pur essendo in apparenza non particolarmente violenti, tali incidenti si moltiplicano. Le forme di ribellione si aggravano e gli atti delittuosi che in un primo tempo erano rivolti ai beni – automobili, garage, vetri – si rivolgono ora alle persone: diverse donne e ragazze vengono aggredite durante i loro spostamenti quotidiani, prima con proposte e gesti poco rispettosi e poi con diversi tentativi di violenza. Gli incidenti riguardano in questo periodo solo una minoranza di adolescenti, talvolta molto giovani. Le famiglie più desiderose di uscirne (spesso quelle con meno figli) lasciano il quartiere non appena possono, o quantomeno sperano di farlo, come viene indicato dalle richieste di affitto presentate presso l’ufficio delle case popolari di Villeurbanne. Queste famiglie sono quindi sostituite da nuovi arrivati, algerini o tunisini. Il primo segnale di allerta a livello istituzionale viene dal mondo della scuola: la preside del liceo della zona segnala il deterioramento delle condizioni di lavoro nel suo istituto e l’intrusione di adolescenti nelle classi per sorvegliare le proprie sorelle e picchiare i ragazzi che le avrebbero importunate. L’ispettore scolastico nota nel 1979 a proposito degli «allievi magrebini immigrati»: «Questi giovani adolescenti appartengono agli strati più svantaggiati della
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popolazione. La loro aggressività si spiega ampiamente col fatto che essi si sentono rifiutati e che, allo stesso tempo, si trovano in una condizione di desiderio permanente. Ne risulta quindi una forma di violenza debitamente constatata che è loro propria e che è imputabile a tratti della loro cultura. Ecco perché questi adolescenti hanno la tendenza a rifiutare l’autorità femminile, e visto l’alto tasso di donne insegnanti, la cosa è alquanto preoccupante». Bisogna sottolineare i tratti comuni tra le popolazioni dell’agglomerato lionese colpiti da queste forme precoci di ribellioni urbane: a Vaulx-en-Velin come a Villeurbanne siamo di fronte a harkis, a pieds noirs e a nuovi immigrati algerini o tunisini che testimoniano con queste forme di violenza il loro disadattamento alle condizioni di vita cui sono costretti. Ciononostante il fenomeno non costituisce un evento prima del 1981 poiché fino a quel momento non aveva avuto una risonanza mediatica, ad eccezione di alcuni articoli nella stampa locale, non riportati nella stampa nazionale fino al 1980. Ecco perché non esistono memorie e racconti di queste prime ribellioni urbane. L’esecrabile reputazione di rue Olivier de Serres e le lamentele giornaliere degli abitanti del quartiere portano il comune a far abbattere tra il novembre 1978 e l’agosto 1984 le sbarre dell’agglomerato Simon e anche, come per toglierne memoria, a cancellare il nome alla strada. Gli ultimi abitanti vengono trasferiti a Vaulx-en-Velin e Vénissieux (periferia di Lione) e portano con sé modi di fare e di abitare, il che accentua il fenomeno di segregazione sociale in queste aree dell’agglomerato lionese. Gli incidenti delle Minguettes a Vénissieux nel corso dell’estate 1981 costituiscono anch’essi un evento e segnano un punto di svolta nella memoria collettiva. Il decennio (1971-1981) al quale si riferisce questo studio sulla genealogia delle ribellioni urbane non è altro che il primo tempo degli avvenimenti che scandiscono periodicamente, al
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giorno d’oggi, la vita dei giovani e delle popolazioni dei grandi insiemi delle periferie urbane francesi da un quarto di secolo, il tempo di una generazione. Gli adolescenti in questione crescono e maturano e, nella maggior parte dei casi, seguono percorsi alternativi a quello della violenza. Il repertorio di azione resta tuttavia invariato e la crisi socio-politica è sufficientemente radicata per far sì che tali ribellioni urbane modellino i codici di genere, contribuendo al mutamento dei rapporti tra i sessi e a processi di stigmatizzazione sociale ed etnicizzazione di un gruppo, capaci di trovare eco nella memoria e nell’immaginario politico contemporaneo. L’immagine delle ragazze oscilla, nel decennio seguente, tra integraliste ed integrate. Dall’integralista all’integrata: dall’‘affaire des foulards’ (1989) alla Coppa del Mondo di calcio (1998) La rappresentazione da parte dei media delle ribellioni urbane, così come quella dell’affaire des foulards del 1989, contribuisce a porre la questione della mescolanza etnica e culturale nello spazio pubblico. Il confronto tra due momenti nei quali viene posta la questione delle ‘ragazze figlie dell’immigrazione’, secondo l’espressione in uso oggi (anche nelle scienze sociali), permette di erigere a paradigma la mescolanza definita come neutralizzazione delle identità di genere, rifiutata nel 1989 dalle ragazzine in foulard o esaltata in occasione della Coppa del Mondo di calcio del 1998, evento che si potrebbe riassumere con la formula black, blanche, beurette24. La costruzione di questo idealtipo da parte di un mezzo di comunicazione di massa come la televisione passa nel corso di un decennio dal rifiuto della mescolanza (1989) ad una mescolanza integratrice (1998); quest’ultima in completa dissonanza con le realtà vissute dalle ragazze ‘discendenti da immigrati nordafricani’, per riprendere il titolo dell’opera di Nacira
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Guénif Souilamas, espressione più idonea rispetto alla categoria di ‘figlie dell’immigrazione’25. L’immagine dell’integralista: l’affaire du foulard (1989) o la laicità contestata26 Nell’autunno del 1989 l’‘affaire du foulard’ posto al rientro scolastico da tre alunne musulmane di un liceo di Creil in Oise provocò un vivace dibattito nazionale protrattosi fino all’adozione nel 2004 di una legge che vietava «segni ostensibili» nello spazio scolastico, la cosiddetta legge sulla laicità. Il 4 ottobre 1989 il giornale “Libération” riporta una notizia locale apparsa sul “Courrier Picard”: tre ragazze – due marocchine e una tunisina – non sono state ammesse in classe dal preside di un liceo di Creil (Oise) per essersi rifiutate di togliere durante i corsi il foulard che indossavano. Un simile gesto viene considerato un attentato alla pacifica coesistenza e alla laicità della scuola repubblicana. Questa notizia, ampiamente riportata dai media, diventa progressivamente un affare di Stato, dal momento che le ragazze in un primo momento accettano un compromesso (il foulard sulle spalle durante i corsi) per poi respingerlo sulla base di pressioni esterne. Solo il sovrano del Marocco, dopo due mesi di dibattiti appassionati, fa pendere la bilancia in favore di un accordo, in nome del suo statuto di capo dei credenti e anche della necessaria discrezione dei marocchini che vivono e lavorano sul territorio francese. Il fatto di indossare il foulard, che costituisce allo stesso tempo un modo di ritirarsi dallo spazio pubblico e l’affermazione visibile di un’appartenenza religiosa, rappresenta per i suoi detrattori una rimessa in discussione della laicità scolastica. Foulard, scialle, foulard islamico, velo – velo semplice o velo coranico, musulmano o integralista – chador, khiemar, haïk, hidjeb, tutti questi vocaboli che vanno dal più
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comune (scialle) al più etnologico (haïk) indicano lo stesso pezzo di stoffa, indossato da tre adolescenti di un liceo di una remota periferia parigina nel 1989. Tra questi termini con consonanze straniere, solo il chador veniva utilizzato principalmente come spauracchio. Era infatti il nome persiano dell’abito grigio o nero che ricopre i corpi femminili dalla testa fino ai piedi, imposto in Iran dall’imam Khomeyni a partire dall’8 marzo 1978 (un modo singolare per festeggiare la giornata internazionale delle donne) e divenuto in Francia il simbolo dell’azione degli islamici. Lo hidjeb, che significa ‘la tenda’, ‘il velo’, viene menzionato nel Corano. Serve a proteggere le donne del profeta Maometto dagli sguardi esterni nei confronti della famiglia allargata. Lo haïk è il foulard tradizionale indossato dalle donne anziane algerine e rappresenta il segno dell’attaccamento ai valori ancestrali e a una identità d’origine. Impiegare l’uno o l’altro di questi termini non è indifferente: dal foulard dell’inizio dell’affaire si è passati rapidamente al chador che fa paura ed evoca i ‘terroristi iraniani’ degli attentati del 1986 a Parigi. Qualche anno più tardi, l’uso del foulard viene associato all’esperienza dell’uso del burka imposto dai Talebani in Afghanistan. L’uso del foulard o la richiesta di organizzare le lezioni in base al credo religioso non rappresenta nel 1989 alcuna novità nell’educazione nazionale, ma i problemi non erano mai usciti dagli edifici scolastici. È la diffusione sui media del conflitto di Creil che radicalizza le posizioni. Il dibattito verte sulla laicità, per poi estendersi all’immigrazione e all’integrazione. La guerra di parole – il «non so come chiamarlo» sottolineato da Edgar Morin – è anche una guerra di immagini. Sin dall’inizio e per circa tre mesi, l’affaire è stata la notizia di apertura di tutti i telegiornali27, al massimo viene trattato come seconda notizia, ma mai dopo. Le telecamere si sono posizionate davanti all’ingresso dell’istituto, e in seguito hanno invaso il cortile della ricreazione e l’ufficio del preside del liceo di Creil. Le interviste a
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quest’ultimo si sono moltiplicate. Due aspetti mostrano le posizioni dell’informazione su questa questione: il vocabolario usato dai presentatori di TF1 e di Antenne 2, che etnicizza e banalizza il fenomeno come se fosse generalizzato in tutti i licei francesi e come se la mescolanza e la laicità scolastica fossero messe in pericolo. Inoltre, per simboleggiare il caso di Creil, le vignette incastonate nell’immagine proiettata e posizionate in alto sullo schermo hanno mostrato un foulard sempre più invadente, che arrivava a coprire tutto il volto. Con l’aiuto di un grafico, dall’ottobre al novembre 1989 nella rappresentazione delle ragazze si è passati senza motivo dallo scialle al chador. Una sola immagine pubblicata da “Libération” si distingue nell’insieme: due ragazze in jeans con il capo semplicemente coperto giocano a calcio; in questo caso il foulard non sembra rappresentare un ostacolo allo svolgimento delle attività miste nello spazio scolastico, compresa l’educazione fisica28. Questo avvenimento è stato, d’altronde, un’opportunità per alcuni gruppi islamici per farsi conoscere attraverso la televisione. Le ragazze in foulard, così come le donne in chador, posizionate in testa ai cortei nel corso delle manifestazioni colpiscono gli animi. Gli stereotipi sui foulard si forgiano attraverso diverse realtà, le realtà contemporanee lontane nello spazio, come quella dell’Iran o dell’Afghanistan, ma anche quelle del passato riportate alla memoria per l’occasione. Le ragazze in foulard risvegliano un immaginario nazionale e politico che associa donne e religione e rievocano il ricordo della lotta per la separazione tra Chiesa e Stato nel 1905, diffondendo una ‘storia santa’ della laicità che dimentica il fatto che proprio la scuola repubblicana ha istituito la separazione dei sessi, e che la mescolanza nelle scuole è un fenomeno recente29. Ma è soprattutto l’analisi dei telegiornali quotidiani per un periodo di tre mesi che mostra come, sin dal mese di novembre del 1989, le tematiche e il vocabolario del Fronte Nazionale – avanzate fin dall’inizio dell’affaire nell’ottobre del 1989 – vengano
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ripresi dalla maggior parte dei commentatori un mese più tardi. Siamo ben lontani sia da una banale questione scolastica che dalla messa in discussione della laicità da parte delle tre ragazze in foulard, ed è evidente che la questione non può essere studiata al di fuori del suo contesto, al quale deve far riferimento anche la storia delle ribellioni urbane. L’affaire in effetti è scoppiato in un contesto storico e politico specifico: la crisi dello Stato-nazione, parallelamente alla costruzione europea, l’ascesa del potere del Fronte Nazionale nelle diverse elezioni, e il rifiuto dell’immigrazione, accentuato dalla depressione economica e dalla disoccupazione. Ma anche l’azione violenta del FIS in Algeria e gli attentati perpetrati in Francia nel 1986 dagli islamici iraniani hanno influito molto. Se ci mettiamo dalla parte delle ragazze ‘velate’, le ragioni risalgono a un altro ordine: per le adolescenti, il fatto di indossare il foulard è spesso il frutto di un compromesso tra l’islam familiare e la volontà di integrazione nella società francese. Per altre donne, in generale più anziane, il velo viene rivendicato come simbolo di attaccamento a una cultura e a una morale che si esprimono nello spazio pubblico, mentre la cultura occidentale si manifesta attraverso il disprezzo per le donne e la strumentalizzazione del corpo femminile, ad esempio nella pubblicità30. Per la maggior parte delle femministe, il velo viene considerato come un segno di oppressione e di alienazione femminile, che costringe le ragazze e le donne in un universo chiuso ed impone una limitazione all’espressione della libertà individuale. Gli esempi stranieri (Algeria, Iran, Afghanistan) vengono evocati come argomentazione in favore del divieto dell’uso del foulard nello spazio scolastico francese. A partire dal 1989 femminismo e laicismo nazionale si sono sostenuti a vicenda per promuovere l’esclusione delle ragazze velate dalla scuola in nome della liberazione delle donne. Il clima di passione nel quale si è svolto il dibattito che ha riguardato famiglia, partiti politici, sindacati e associazioni, è estremamente indicativo della debole tol-
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leranza manifestata in Francia nei confronti di culture diverse rispetto a quella nazionale. Ignorata sino al giorno in cui si sono mostrate col foulard, l’immagine di queste ragazze si costruisce in opposizione a quella dei fratelli o dei cugini, giovani ribelli di periferia o ‘delinquenti’, resi visibili sin dal 1981. La scrittrice Leïla Sebbar, difendendo non il fatto di indossare il foulard, ma le ragazze stesse, ha mostrato sino a che punto corpi e anime fossero contesi dalla tradizione da una parte e dai codici della Repubblica dall’altra31. Leïla Sebbar mette in evidenza la percezione delle difficoltà di alcune adolescenti e le trasformazioni identitarie – comprese quelle di genere – nelle generazioni di ragazze e ragazzi discendenti da famiglie immigrate. Un decennio più tardi la televisione mette in scena un altro idealtipo: la giovane beurette seducente sui manifesti per strada, esempio della riuscita del modello d’integrazione repubblicana al femminile. L’immagine dell’integrata: la Coppa del Mondo di calcio del 1998 o la celebrazione della mescolanza etnica La questione della trasformazione delle identità può essere rivisitata se pensiamo ad un evento notevole – la Coppa del Mondo di calcio del 1998 – incrociando approcci antropologici e storici a proposito di pratiche urbane, individuali e collettive, che hanno funzionato da indicatori di identità nel corso delle manifestazioni che accompagnano l’evento sportivo mondiale32. L’evento è anche rivelatore dei mutamenti delle identità di genere. L’esibizione di un bene privato, il corpo, nello spazio pubblico – doppiamente pubblico, poiché lo spettacolo della strada, ritrasmesso in televisione, apre questo spazio pubblico al mondo intero – testimonia forme di identificazione complesse e mutevoli. Identità sessuali e nazionali si inseriscono nel rituale sportivo della partita di calcio. Le ragazze sono là, disin-
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volte e felici, coi capelli al vento e il trucco tricolore sulle guance. C’è allo stesso tempo un riferimento all’appartenenza alla comunità nazionale francese attraverso un uso massiccio del tricolore (abiti, trucco, bandiere e canti patriottici), ma anche un collegamento a una comunità immaginata, quella del Paese di origine dei genitori o dei nonni: la bandiera algerina brandita accanto al tricolore celebra le azioni del giocatore marsigliese Zidane, originario della Cabilia, divenuto allora il simbolo dell’integrazione. La stampa, la radio e la televisione lodano le virtù dell’integrazione ‘alla francese’. Bisogna tuttavia relativizzare l’ideal-tipo dell’integrato. Nelle figure forgiate dalla televisione si distingue una forma di etnicizzazione delle immagini e dei propositi: l’8 luglio, nel corso della semifinale (Francia-Croazia), il giocatore del Guadalupe Lilian Thuran viene qualificato come «genio nero uscito dalla sua scatola» e la telecamera indugia in quell’occasione su una coppia ‘mista’, un nero e una bianca avvolti nel tricolore. Il giorno della finale della Coppa, il 12 luglio, si celebra a Saint-Denis un clima di fraternità, nella basilica come allo stadio. Ma, dopo la vittoria della Francia, il reportage televisivo inquadra soprattutto le ragazze algerine (originarie della Cabilia come Zidane), come se ci fosse un’assimilazione tra l’origine dei giocatori che hanno segnato (Thuran e Zidane) e le loro tifose. Se in quest’ultima occasione c’è stata più celebrazione che stigmatizzazione, in altre circostanze l’assegnazione ad una appartenenza può risolversi nel suo contrario33. La straordinaria atmosfera del 12 luglio 1998, paragonata a quella della Liberazione del 1944, viene celebrata in maniera ambigua: quella di una Francia pluralista, personificata nell’epopea della sua squadra variegata, multicolore, ma anche una forma di assunzione, di unione provvisoria delle differenze, un pubblico «di ogni età e di ogni razza», come viene proclamato in maniera entusiastica e senza riserve da parte del conduttore del telegiornale di France 2, il 13 luglio alle 20.00.
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Nelle diverse manifestazioni che hanno accompagnato la Coppa del Mondo di calcio del 1998 la partecipazione delle ragazze, soprannominate beurettes34, e la loro sistematica presentazione in televisione permette di misurare lo scarto con le immagini prodotte dai media nel 1989, anno in cui l’affaire des foulards rendeva la stessa categoria arbitrariamente costruita – quella di ragazze ‘figlie dell’immigrazione’ – una categoria di potenziali integraliste dal corpo dissimulato dal ‘velo islamico’, un fermento di distruzione della scuola mista e laica e dell’identità repubblicana. Ma questa fase del 1998 è stato solo un attimo fuggente di «estasi storica»35. In un’intervista del 2001 al giornale “Le Monde” Hanifa Cherifi, mediatrice nel sistema educativo nazionale, ha affermato che è stato sottostimato il pericolo e l’handicap rappresentato dal foulard per le ragazze36. Come difendere un ideale di mescolanza etnica e di uguaglianza dei sessi nel reciproco rispetto della diversità delle identità e dei percorsi possibili? Questo è un problema complesso, ancora di attualità, sollevato dalla polemica nata nel 1989, che non è stato cancellato dalla tregua della Coppa del Mondo. Queste ragazze e queste donne sono chiuse in una morsa tra la politica seguita dai governi successivi (difficoltà d’accesso allo status di cittadina con la soppressione dello ius solis), una politica usata dalla xenofobia circostante e dall’azione dei fondamentalisti che, con le loro associazioni e con le loro reti di aiuto, costituiscono una via alternativa al rifiuto degli stranieri e delle straniere da parte della società francese. Si vede quindi, attraverso il filtro mediatico, che se l’affaire des foulards è stato in effetti una lente di ingrandimento che ha permesso di mettere in risalto i problemi cruciali della democrazia francese alla fine del XX secolo, la Coppa del Mondo del 1998 ha mostrato che le rappresentazioni possono fissare gli individui in identità attribuite, prescritte, lontane dall’invenzione di identità dalle sfaccettature multiple, talvolta dolorose nel quotidiano familiare. Tuttavia la parteci-
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pazione massiccia e dimostrativa delle ragazze ‘discendenti da genitori immigrati’ a un evento sportivo considerato da sempre tipicamente maschile, trasformandolo in uno spazio misto, non è forse la testimonianza della labilità e della mutazione delle identità di genere nell’età contemporanea?
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Note * Traduzione di Maria Rosaria De Rosa. 1 M. Zancarini-Fournel, Genre, politique et événements dans les années 68,
in “Vingtième siècle, revue d’histoire”, n. 75, juillet-septembre 2002, pp.133-143. 2 M. Zancarini-Fournel, Racisme et antiracisme: 1973, un tournant?, in “Cahiers de la Méditerranée”, Racisme et alterité, décembre 2001, pp. 147-157. 3 Le genre de l’événement, dir. L. Capdevila, M. Bergère, Rennes, 2005.
4 Si veda la tesi in corso di J. Faure, Les “jeunes de banlieue”, identités collectives et identités imaginaires 1973-1995, Université Lumière-Lyon2 (LARHRA). 5 Vedi per una critica a queste rappresentazioni il saggio di N. Guénif-
Souleimas e E. Mace, Les féministes et le garçon arabe, La Tour d’Aigues, 2004. 6 A. Fourcaut, La ville divisée. Les ségrégations urbaines en questions. France XVIIe-XXe siècles, Créaphis, 1996 (Introduzione). 7 F. Amara, Ni putes, ni soumises, Paris, 2003.
8 B. Lepetit, Architecture, géographie, histoire: usages de l’échelle, in “Genèses”, n. 13, automne 1993, pp. 118-138: «la multiplication contrôlée des échelles de l’observation est susceptible de produire un gain de connaissance dès lors que l’on postule la complexité du réel» (cit. p. 137). 9 Archives Nationales, Centre des Archives Contemporaines (d'ora in
poi AN CAC) 1982/0147 art. 1, circolare Chalandon del 15/12/1971 relativa all’azione sociale e culturale nelle abitazioni e nei locali collettivi residenziali, e alle modalità di intervento sui costruttori e sui gestori degli alloggi. AN CAC, 1982/0147, art. 4, Habitat et vie sociale. 10 Archives départementales du Rhône (d'ora in poi ADR), serie W,
Cabinet du préfet. I dossier permettono di capire come il sindaco di Villeurbanne, Charles Hernu, cerchi di ottenere dalle autorità amministrative regionali dei provvedimenti specifici favorevoli al distretto di Villeurbanne (per il quartiere Olivier de Serres). 11 Archives Municipales Vaulx-en-Velin, dossier la Grapinière.
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12 Vedi il reportage 30/7/1959 di “France Observateur” su «les bandes et leurs équipées sauvages». 13 M.-F. Lévy, La jeunesse irrégulière dans la télévision française des années
soixante: une absence troublante, in “Le temps de l’histoire”, n. 4, juin 2002, pp. 73-86. 14 H. Boyer, G. Lochard, Scènes de télévision en banlieues 1950-1994, Paris, 1998. 15 AN CAC 1985/0246, Rapport du Conseil économique et social, Sessione
del 10-11 giugno 1975. 16 ADR 1541 W 41, riunione del 23 marzo 1973. La popolazione straniera nella valle del Rodano è composta da 164.000 individui (l’11% della popolazione del dipartimento e il 15% della popolazione attiva impiegata nell’edilizia e nella chimica, nella metallurgia e nel settore tessile). 17 Ch. Bachmann, N. Le Guennec, Les violences urbaines, Paris, 2002,
p. 320. 18 ADR 1541 W 41 nota manoscritta del Préfet de Police 29 XI 1973.
19 AN CAC 1982/0147, Habitat et vie sociale, art. 4, nota del 23 settembre 1974. 20 AN CAC 1982/0147, Habitat et vie sociale, art. 3, préparation du VII
Plan, commission sécurité des biens et des personnes, lutte contre «l’inadaptation sociale» 21 AN CAC 1979/0741 art. 1, 20 aprile 1976. 22 AN CAC 1979/0741 art. 6, seduta del 12 dicembre 1976. Il distretto
Mistral ha 4800 abitanti di cui il 50% sono giovani; solo il 6% è coinvolto nelle violenze. Il 19% delle famiglie è straniero e rappresenta il 27% della popolazione. 23 Sulla scelta fatta sulla denominazione ‘ribellioni urbane’ e sul ruolo
della Guerra d’Algeria vedi M. Zancarini-Fournel, Généalogie des rébellions urbaines en temps de crise, in “Vingtième siècle. Revue d’histoire”, n. 84, 2004, pp. 119-127. 24 Slogan leggermente modificato, ripreso dal titolo della trasmissione
Français si vous parliez del 3/4/1993: Blacks, Blancs, beurs: la coexistence. Lo slogan è stato ripreso in riferimento alla squadra della Francia e al suo pubblico in occasione della Coppa del Mondo del 1998.
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25 N. Guénif Souilamas, Des “beurettes” aux descendantes d’immigrants nord-africains, Paris, 2000. 26 Per un approccio più completo, vedi F. Rochefort, Foulard, genre et laïcité, in “Vingtième siècle revue d’histoire”, n, 75, 2002, pp.145-156. 27 M. Khelifi, L’affaire du foulard à la télévision, automne 1989, mémoire
de maîtrise, université de Paris8, 1996 (dir. M. Zancarini-Fournel).
28 “Libération”, 6 novembre 1989, foto non localizzata, ripubblicata su
“Libération” del 21 settembre 1994 con questa didascalia: cours d’éducation physique au collège Lamartine à Vaulx-en-Velin, en 1989. Il riferimento è in F. Rochefort, Foulard, genre et laïcité, cit. 29 La mixité dans l’éducation. Enjeux passés et présents, dir. R. Rogers Rebecca, Lyon, 2004. 30 F. Gaspard, F. Khosrokhavar, Le foulard et la République, Paris, 1995. 31 L. Sebbar, La jeune fille au balcon, Paris, 1996. 32 Lo studio si basa su un’analisi all’Inathèque (Bnf, Paris) riferita a tutti i reportage televisivi sulla Coppa del Mondo di calcio (semifinale e finale) e sullo spoglio dei quotidiani riferito allo stesso avvenimento nel luglio 1998. 33 J. Costa-Lascoux, L’ethnicisation du lien social dans les banlieues françaises, in “Revue Européenne des Migrations Internationales”, n. 17, 2001, pp. 123-138. 34 Il tema è stato pubblicizzato durante la trasmissione Envoyé spécial del 13 maggio 1993. 35 E. Morin, Une extase historique, in “Libération” 20 luglio 1998. 36 Le voile un piège qui isole et marginalise, in “Le Monde”, 16-17 dicembre 2001.
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Femminismi nel XX secolo Concetti e cesure Ute Gerhard
Professore emerito Johann Wolfgang Goethe-Universität, Frankfurt/Main
Già il tentativo di definire il termine femminismo nel XX secolo incontra delle difficoltà ed evidenzia che il concetto comporta differenti interpretazioni ed associazioni, che spesso variano secondo il contesto storico, culturale e nazionale. Nell’uso linguistico corrente si pensa a due livelli di significato: da un lato femminismo indica il movimento sociale delle donne, quindi in alcune lingue – come ad esempio nell’inglese o nell’americano ma anche nel francese1 – il termine viene utilizzato con lo stesso significato di ‘movimento femminista’. Nella lingua tedesca l’uso del termine femminismo, in sostituzione di ‘movimento femminista’, viene adottato solo all’interno del nuovo movimento delle donne e, di norma, è associato a una particolare forma di radicalismo. Dall’altro lato il femminismo è anche una teoria sociale o una concezione sociale, e quindi fonda una prospettiva critica sul mondo la quale, come altri ‘ismi’ o ‘grandi narrazioni’ della modernità, ha avviato, fondato e guidato i movimenti sociali delle donne. Alle francesi spetta il merito di aver inventato il concetto di ‘femminismo’ e di averlo imposto2 al mondo alla fine del XIX secolo, con un significato che gettò
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le basi delle teorie politiche dei movimenti femministi del secolo successivo. Con l’espressione ‘femminismi’ nel titolo del mio articolo vorrei, tuttavia, porre l’accento sul gran numero di approcci e sull’eterogeneità, anzi sulla mancanza di univocità dei movimenti, che in generale rinvia a un tema contrastato e profondamente controverso. Vorrei fare comunque un’importante precisazione: non ogni azione politica femminile, che fonda sull’essere donna le ragioni per un’organizzazione comune, è da ricondurre al femminismo, poiché questo significherebbe favorire una naturalizzazione e una essenzializzazione della differenza di genere, la cui problematizzazione, il cui superamento e la cui decostruzione costituirono dal principio il motivo decisivo per la nascita e la formazione del femminismo moderno. Una proposta pragmatica e concisa per una definizione del concetto è che femminismo indichi la sintesi di tutti gli sforzi fatti dalle donne per il riconoscimento, l’autodeterminazione, la partecipazione politica e la giustizia sociale. L’obiettivo è duplice: esso riguarda sia la liberazione, o meglio la libertà di scelta, di ogni singola donna, sia un cambiamento radicale della società e dei rapporti di genere ad essa ancorati. L’indagine sul movimento, quindi, ha incluso nella sua analisi anche i movimenti conservatori, reazionari e, soprattutto, quelli totalitari ed estremisti3, ai quali le donne comunque partecipano, anche tramite iniziative di politica femminile o tramite segmenti dei movimenti femministi4. Perciò, nel trattare questo argomento, vorrei soprattutto discutere della definizione dei confini politici. Poiché, a mio avviso, la rilevanza politica di un’utopia femminista e le possibilità della politica femminista – che accomunano e contraddistinguono la storia dei femminismi moderni dalla dichiarazione dei diritti delle donne di Olympe de Gouges del 1791 – hanno un orientamento democratico fondamentalmente radicale verso i diritti umani intesi anche come diritti delle donne, ponendosi l’obiettivo dell’abolizione delle
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iniquità nei rapporti di genere in quanto relazioni sociali, e, quindi, l’abolizione della tutela, dei pregiudizi e della repressione delle donne a causa del loro sesso5. Relazioni e barriere nel movimento sociale delle donne Nel secolo scorso anche tra le donne politicamente attive si manifestarono divergenze e controversie nelle quali erano in gioco i principi e le norme dell’agire politico. Occorre tuttavia considerare i differenti contesti e le varie fasi politiche dei movimenti femministi, il loro fermarsi e il loro ripartire, che sono stati definiti in modo efficace come ‘ondate’ dei movimenti6. Oggi si parla del movimento femminista storico, i cui apici a livello nazionale e internazionale sono stati raggiunti all’inizio del XX secolo, come di una prima ‘ondata’; si parla di un secondo o ‘nuovo’ movimento femminista dopo il 1968; dal 1990, infine, di un terzo movimento femminista, orientato a livello globale o transnazionale. La metafora dell’ondata va compresa in modo più descrittivo che analitico e certamente essa, a mio avviso, definisce bene il fatto che i differenti movimenti di protesta nell’età contemporanea sono alimentati da una stessa problematica e da un mare di contrasti. Tuttavia l’unione delle donne sotto il segno dell’appartenenza di genere ha superato tutte le altre categorizzazioni e differenze sociali non in modo palese, ma anzi in modo piuttosto implicito7. Proprio perché le donne come ‘metà dell’umanità’ non rappresentano una minoranza demografica e ovviamente neanche formano un gruppo sociale, ma sono distribuite tra classi sociali, stratificazioni e gruppi etnici o orientamenti sessuali e religiosi – contro i quali protestano e con i quali convivono intimamente o ‘spalla a spalla’ – occorre conciliare molte cose per mobilitare le donne in quanto donne. Perciò è particolarmente importante la ricerca sul movimento sociale8: una struttura
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politica adeguata, ma anche la disponibilità di risorse, particolari opportunità di mobilitazione come la pubblicizzazione di proteste e di esperienze di ingiustizia, la forza di persuasione rispetto a obiettivi politici comuni o rispetto a un’utopia sociale e, non da ultimo, un’avanguardia di attiviste intelligenti e impavide, le quali riescono a costituire gruppi e reti e a ottenere attenzione pubblica e forza politica. Considerando questi presupposti, è importante deplorare il naufragio del movimento femminista, ma desta comunque meraviglia che, nonostante tutte le diversità e i contrasti, sia stato possibile mobilitare sempre su cose nuove le donne nei loro interessi e «per amore dell’umanità»9, e trasformare in agenda politica le loro richieste non soddisfatte. Da questa prospettiva intendo qui di seguito discutere quelli che secondo la mia opinione sono i momenti più significativi e i punti più controversi che hanno segnato la storia dei femminismi nel XX secolo. Includo tra questi la questione del nazionalismo o dell’internazionalismo dei movimenti femministi, così come il rapporto delle femministe con lo Stato assistenziale; il paradosso tra le richieste di parità e il riconoscimento della differenza, che non ha dato pace in particolare al nuovo movimento femminista e alla più recente teoria femminista, e infine, la richiesta di «diritti delle donne come diritti umani», tornata di importanza mondiale alla fine del XX secolo. Poiché nell’ambito di questo articolo non è possibile valutare tutte le problematiche lungo l’intero secolo, fisserò per i singoli interrogativi delle cesure temporali essenziali, seguendo quindi nell’esposizione una cronologia approssimativa. Nazionale o internazionale? «Il movimento femminista è globale nel senso che le donne in quasi tutti i paesi del mondo sono coinvolte nelle più diverse lotte per il cambiamento della loro vita». Attualmente si legge
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questo in un dossier sulla pagina web della rete Women living under Muslim Laws-WLUML. E inoltre: «Questo trend di globalizzazione comincia nella seconda parte del XIX secolo con la crescita della coscienza femminista nei Paesi asiatici e africani, in entrambi i casi come risultato delle dinamiche internazionali di queste società e dell’apprendimento dai movimenti femministi occidentali. Eventi come l’8 marzo, la giornata internazionale della donna, o le conferenze decennali tenute dalle Nazioni Unite, sono aspetti dell’internazionalizzazione»10. Questa valutazione molto positiva dei movimenti femministi occidentali sorprende, tanto più che essa si riallaccia senza riserve, dall’inizio del XX secolo, all’internazionalità dei movimenti femministi, alle loro organizzazioni, alle loro pratiche e metodi di comunicazione. È notevole, inoltre, che a partire da ciò venga seguita una linea tradizionalista nelle attuali iniziative femminili, in particolare nelle conferenze mondiali delle donne organizzate dalle Nazioni Unite a partire dal 1975, alle quali le femministe occidentali non si oppongono. Gli impulsi internazionali e l’orientamento sullo stato delle questioni femminili in altri Paesi hanno certamente giocato un ruolo da non sottovalutare nelle spinte alla mobilitazione delle donne, in un doppio senso: da una parte l’esperienza e la consapevolezza delle stesse problematiche o le lotte per rapporti di genere più giusti hanno aperto gli occhi a molte sulla possibilità di cambiare la propria condizione e hanno incoraggiato all’imitazione e all’impegno politico; dall’altra le organizzazioni femminili internazionali hanno prestato aiuto, anche in modo molto pratico, all’organizzazione degli interessi femminili ai vari livelli nazionali. In particolare questo vale per il Consiglio internazionale delle donne (International Council of Women-ICW), che venne fondato nel 1888 sulle basi poste da un congresso dell’Associazione nazionale americana per il diritto di voto (National Women’s Suffrage Association) e in occasione del quarantesimo anniversario della dichiarazione dei diritti delle donne di
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Seneca Falls, con l’obiettivo di riunire il gran numero dei gruppi femminili esistenti anche in altri Paesi e di promuovere la formazione di Consigli femminili nazionali. Nel 1914 già 23 rappresentanze nazionali si erano associate all’ICW e nel 1939 c’erano donne di 63 nazioni11. Così le americane avevano assunto già prima dell’inizio del Novecento un ruolo leader nel movimento femminile internazionale, che era stato guidato delle francesi, ancora nel XIX secolo, con l’iniziativa di un primo Congrès International du Droit des Femmes nel 1878, all’Esposizione mondiale di Parigi12. L’obiettivo era formulato vagamente e improntato al principio del non intervento politico – si trattava della promozione della coscienza della solidarietà tra le donne «di tutte le parti del mondo», del «bene dell’umanità» e del «sostegno alla famiglia e allo Stato» (era scritto nel preambolo degli statuti)13. In seguito, poiché nel suo statuto l’ICW aveva escluso espressamente il trattamento «di tutte le controverse questioni politiche e religiose», le sostenitrici del diritto di voto e alcune donne riunite per il congresso mondiale dell’ICW tenuto a Berlino nel 1904 fondarono una nuova organizzazione, l’Alleanza mondiale per il suffragio femminile (International Woman Suffrage Alliance-IWSA, in seguito abbreviato con IAW). L’alleanza per il diritto di voto era un’associazione politica delle sostenitrici radicali dei diritti delle donne, che molto presto accolse diversi Stati membri e che estese la sua rete di cooperazione in Europa e in America. Mancavano le socialiste, che dalla prospettiva di classe rifiutavano di collaborare con le suffragette borghesi e sotto la rigida guida di Clara Zetkin nel 1907 fondarono l’Internazionale socialista femminile14. Certamente, quando la solidarietà internazionale delle femministe fu messa alla prova, si evidenziò quanto fosse fragile il legame della sorellanza internazionale, stretto così enfaticamente. Con lo scoppio della guerra l’ICW congelò le sue relazioni internazionali. La sua presidentessa, lady Aberdeen, espresse in una lettera alla presidentessa dell’associazione federale delle
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donne tedesche, Gertrud Bäumer, le sue grandi preoccupazioni in merito, ma contemporaneamente sottolineò: «noi siamo tutte felici che le donne ovunque nel mondo abbiano seguito in maniera così meravigliosa il richiamo al dovere e all’abnegazione […] e la migliore regola per noi è che le donne di ogni Stato facciano ciò che a loro sembra essere un dovere, in qualità di cittadine del relativo Paese»15. Così avvenne l’inserimento delle associazioni femminili nei servizi femminili nazionali, i quali ora, non soltanto nella Germania in guerra, proteggevano il ‘fronte patrio’ avendo modo di dimostrare la propria esperienza e la propria formazione professionale nel campo dell’assistenza sociale, dell’industria bellica e dell’approvvigionamento16. Le associazioni femminili speravano nello stesso tempo di guadagnare, attraverso la difesa della patria, una migliore posizione giuridica per le donne e non da ultimo il diritto di voto. In contrasto con l’ICW, l’Alleanza internazionale per il suffragio cercava di conservare almeno la comunicazione internazionale attraverso il suo giornale, “Jus suffragium”. Per la verità, tra le suffragette soltanto una minoranza di pacifiste coerenti, stimolata e sostenuta dall’olandese Aletta Jacobs, dalla tedesca Anita Augspurg nonché dalla riformista sociale Jane Addams che nel gennaio 1915 aveva fondato negli Stati Uniti il primo Women’s Peace Party, tentò la rischiosa impresa di invitare, nel bel mezzo della guerra, gli Stati neutrali e quelli belligeranti a una conferenza mondiale femminile all’Aja17. Parteciparono 1200 rappresentanti delegate di 12 Paesi, e pervennero molti messaggi di saluto e manifestazioni di simpatia da intellettuali e notabili di tutto il mondo18. Due cose furono degne di nota in questo congresso pacifista: le promotrici avevano raggiunto la conclusione che la necessità di patti internazionali per il mantenimento della pace fosse legata alla richiesta di parità di diritti politici delle donne. Dietro a ciò c’era la forte convinzione che la partecipazione paritetica delle donne nei parlamenti e nei governi potesse evitare guerre nel futuro – una valutazione positiva, dunque,
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della differenza di genere in quanto necessaria integrazione ed essenza di una politica delle donne19 senz’altro conciliabile con la richiesta di parità dei diritti. Insolito era, inoltre, il tentativo concreto di convincere personalmente i governi europei, così come il governo americano, della necessità di porre fine alla guerra, attraverso l’invio di una delegazione femminile («envoyées»). Nei volumi della documentazione della Women’s International League for Peace and Freedom (WILPF), che nel 1919 si costituì sulle basi del congresso di Haager come terza organizzazione femminile internazionale, si legge che le decisioni delle donne formarono la base del Programma dei 14 punti del presidente americano Wilson e dunque anche della firma della pace nel Trattato di Versailles20. L’influenza non verificabile di una piccola minoranza di pacifiste femministe non garantì il successo della politica femminista; rimane da capire anzi quanto si fosse ancora lontani dall’internazionalità del femminismo. Se in alcuni Paesi d’Europa le donne ottennero pur sempre il diritto di voto come una conquista della guerra e una sconfitta dei vecchi poteri e, con ciò, furono promosse formalmente cittadine alla pari, l’interrogativo resta quello che Virginia Woolf fa porre insistentemente alle sue protagoniste in Le tre ghinee (1938): perché «nonostante il diritto di voto e il potere, che questo diritto deve avervi fruttato, non avete posto fine alla guerra, […] oppure non vi siete opposte all’estinzione pratica della vostra libertà a causa di fascisti e nazisti?». Noi possiamo anche aggiungere: perché non avete almeno evitato la Seconda guerra mondiale? In risposta la scrittrice parte da lontano e rinfaccia ciò che la Women’s Social and Political Union, una delle organizzazioni guida della lotta per il suffragio in Inghilterra21, ottenne al tempo delle sue più riuscite attività economiche. La sua conclusione è convincente: «Quanta pace si può comprare con 42.000 sterline in un tempo in cui sono stati spesi trecento milioni di sterline all’anno per le armi?»22.
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In questo paragrafo potremmo seguire ulteriormente la storia delle organizzazioni femminili internazionali nel XX secolo, il difficile nuovo inizio dopo il 1918, gravato dalle esperienze di guerra e dalla questione della responsabilità della guerra, la retorica e i gesti simbolici nelle conferenze internazionali23; il nuovo significato politico della collaborazione internazionale grazie all’istituzione della Società delle Nazioni; l’assunzione della direzione nella IAW da parte delle organizzazioni supreme nazionali moderate, per cui le femministe radicali si concentrarono maggiormente nella WILPF; la collaborazione delle diverse organizzazioni in alleanze ufficiali come l’Unione per la pace e il disarmo, che nel 1932 poté raccogliere otto milioni di firme per la conferenza mondiale della Società delle Nazioni, ecc. Resta da dire che l’ICW, ancora politicamente attiva, nel 1933 decise di negare la partecipazione al Consiglio femminile delle rappresentanze dell’organizzazione femminile nazionalsocialista, poiché questa si era autolegittimata attraverso l’azzeramento di tutte le organizzazioni femministe24. La maggioranza delle sostenitrici dei movimenti femministi restò limitata nel suo campo d’azione al livello nazionale e si rivolse al lavoro internazionale in modo piuttosto scettico, sebbene l’ICW non ravvisasse affatto un contrasto tra l’impegno nazionale e quello internazionale, dando in ogni caso priorità agli obiettivi interni. Esplicitamente, invece, le attiviste della WILPF non si erano lasciate cooptare per servizi nazionali25, cosa che aveva loro fruttato l’accusa di alto tradimento. Anche negli anni Venti la loro priorità all’impegno internazionale rispetto a quello nazionale condusse all’allontanamento delle organizzazioni femministe nazionali26. Nella Germania nazista le pacifiste – ad esempio Anita Augspurg, Lida G. Heymann e Helene Stöcker27 – furono perciò le prime ad essere perseguitate come i comunisti e i socialisti e furono costrette all’emigrazione. Per questo, a mio avviso, è troppo azzardato tracciare una linea di collegamento tra l’impegno nazionale o patriottico e l’ideolo-
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gia nazionalsocialista con tendenze razziste e ambizioni imperialiste28. Lo Stato, che all’inizio del XX secolo era nazionale, se non imperiale, costituiva la struttura di riferimento per la richiesta di emancipazione e di diritti di cittadinanza. L’attiva partecipazione delle donne alla democrazia e ai movimenti di liberazione e con ciò anche alla formazione delle nazioni29, ma anche il patriottismo e la preoccupazione per il bene comune che guidarono le attiviste in tutti i loro progetti per l’interesse collettivo e la riforma sociale, erano fondamentali «non solo per lo sviluppo di una coscienza di cittadinanza, ma anche per la politicizzazione delle cittadine»30. La «nazionalizzazione delle donne» resta tuttavia un’arma a doppio taglio, dal momento che la costruzione dell’identità è legata alla definizione, alla delimitazione e alla distinzione nei riguardi di altri31. Ciononostante, il concentrarsi sui segni del fatale sviluppo nazionalista, così come il successivo ridurre e incorporare le differenti linee tradizionaliste al prototipo nazionalista, ha condotto alla rinnovata denuncia di ampie parti del movimento emancipazionista femminile. Tuttavia il confine è da tracciare laddove, per quel che si dice, «è indifferente, come lo Stato è organizzato, […] se esso è uno Stato parlamentare, uno Stato democratico o uno Stato fascista»32, perché il movimento femminista si affermerebbe in ogni forma di Stato. Per questa formula pericolosamente pronta al compromesso, per la sua posizione ambigua nel nazionalsocialismo «tra collaborazione e resistenza»33, Gertrud Bäumer è già biasimata dai suoi sostenitori e, da allora, rimproverata di diritto dalla storia delle donne34. Femminismo assistenzialista e femminismo paritario «Noi donne non abbiamo una patria» recitava un saggio di Ilse Frapan che, all’inizio del XX secolo, fu molto letto e citato all’interno del movimento femminista tedesco35, poiché esso
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concettualizzava esplicitamente il sentimento dell’esclusione e dell’estraneità in uno Stato maschile, così come le esperienze di discriminazione delle donne in tutti gli ambiti sociali, dall’educazione all’istruzione, dal lavoro remunerato fino alla politica. «Noi donne non abbiamo una patria da perdere, perché noi non ne abbiamo mai avuta una, che si sia servita di noi per qualcosa di diverso dai suoi scopi». Allo stesso modo si esprime Ina Merkel nel febbraio 1990 a Berlino, durante una manifestazione dell’Associazione delle donne indipendenti, fondata dopo la caduta del Muro come rappresentanza delle donne dell’Est per prendere posizione contro la troppo rapida unificazione degli Stati tedeschi36. Questa presa di distanza e questo scetticismo contro lo Stato rappresenta ancora un problema centrale dei femminismi nel XX secolo? Il rapporto dei movimenti femministi con lo Stato doveva essere già chiarito, in effetti, con la conquista del diritto di voto dopo la Prima guerra mondiale. Le organizzazioni sovrapartitiche del movimento femminista, che aveva accumulato competenze di riforma sociale, esperienze politiche e conoscenze qualificate, che disponeva di media, di risorse culturali e della rappresentanza, cominciavano a essere percepite come forza sociale nelle diverse sfere della società civile, da includersi quindi negli organi dello Stato. In effetti proprio qui cominciava il problema: alcuni sostenevano che il movimento femminista, con il raggiungimento di questo obiettivo, potesse diventare inutile, mentre si profilava il pericolo che venisse incorporato, polverizzato e reso invisibile dalle istituzioni politiche e dai partiti. L’Alleanza internazionale per il diritto al suffragio (IAW) riconobbe il problema, ma nel 1920 decise di non sciogliersi; piuttosto – dato che le donne non avevano ottenuto il diritto di voto in tutti i Paesi europei – decise di andare oltre l’obiettivo iniziale. Accanto all’estensione del diritto di voto, doveva essere difeso l’intero complesso dei diritti di cittadinanza, irrinunciabili per chi partecipa con parità di diritti, e allo stesso modo doveva essere sostenuta la lotta per i diritti civili e
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personali (per esempio contro il carattere patriarcale del diritto di famiglia), così come per i diritti sociali delle donne e in particolare delle mamme e dei bambini. Questo ampliamento di obiettivi trovò espressione nel nuovo nome dell’alleanza internazionale, che fu denominata International Alliance of Woman Suffrage and Equal Citizenship. In effetti le organizzazioni femminili incontrarono nei singoli Paesi europei condizioni giuridiche e sociali molto differenti, e i loro spazi di azione erano legati alle specifiche situazioni politiche: prima della guerra le donne europee avevano ottenuto il pieno diritto di voto, attivo e passivo, solo in Finlandia (1906) e in Norvegia (1913). Nella maggior parte degli Stati in cui il diritto di voto femminile era stato introdotto, esso appariva quasi come una conseguenza della guerra, a seconda della sconfitta o della vittoria e, quindi, come parte del nuovo assetto geo-politico dell’Europa37. La più grande delusione fu vissuta dalle francesi, che solo nel 1944 furono riconosciute cittadine dello Stato con pari diritti. L’Union sacrée, alla quale si era associata38 – insieme ai sindacati, alle associazioni e ai partiti politici – anche la maggioranza delle femministe francesi durante la Prima guerra mondiale «con lo scopo di vincere la guerra», non aveva più ragione di esistere, e ciò portò al «frazionamento del movimento femminista»39 in una minoranza di femministe radicali, che negli anni Trenta si impegnò sul terreno del pacifismo e dell’antifascismo, e in una maggioranza che cercò di provare la propria capacità di cittadinanza attraverso la rivalutazione della maternità e di una politica per la maternità. D’altra parte la Svizzera, che come è noto concesse il diritto di voto alle donne a livello confederale solo nel 1971, è un esempio a dimostrazione del fatto che il diritto di voto, da solo, non decide della cooperazione all’interno dello Stato e dell’influenza socio-politica; molto di più decide una partecipazione anche informale – attraverso associazioni diffusamente organizzate, tramite petizioni, creazioni di reti e contatti con i partiti – in una democrazia che funzioni in maniera corporativista40.
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Al di là di tutte le differenze, indipendentemente dal fatto che le donne collaborarono alle riforme sociali in qualità di cittadine dello Stato o dal fatto che seppero utilizzare i loro vantaggi per il bene comune e la loro esperienza in quanto lavoratrici sociali anche senza diritto di voto, la politica dei movimenti femministi nel periodo tra le due guerre fu determinata da una linea che, nella letteratura, viene definita «femminismo assistenzialista»41 o anche «maternalismo femminista»42. Il concetto di «maternità organizzata» (organized motherhood) era già stato sviluppato dal movimento internazionale per il diritto di voto prima del 1914 per motivare le rivendicazioni riguardo alla parità di diritti e di partecipazione, come controprogetto per una politica che non fosse solo maschile, ma umana. Si trattava del tentativo di superare i limiti della femminilità tradizionale e, contemporaneamente, di un programma che «non spedisse le donne solo negli asili e nelle scuole, ma anche nei ministeri e nei parlamenti»43. La concentrazione delle attività femministe sulle richieste sociali nei diversi ambiti della politica sociale negli anni Venti – che contribuì in maniera essenziale allo stabilirsi e al proliferare della politica assistenziale – era, quindi, anche una strategia pragmatica che poteva ottenere successi notevoli e – come nel caso della Norvegia – era assolutamente associabile alla richiesta di maggiore parità delle donne44. L’orientamento della politica femminista soprattutto o ‘solo’ verso i diritti delle madri e dei loro figli e, quindi, verso il maternalismo come un’altra visione dello Stato assistenziale45, racchiudeva tuttavia rischi rilevanti alla luce dei reali rapporti di forza di una politica assistenziale46 basata sul compromesso tra il capitale e il lavoro a spese delle donne. Nella misura in cui l’accentuazione di specifiche rivendicazioni delle donne in quanto madri, vedove e mogli divenne il punto di partenza per le prestazioni dello Stato assistenziale e queste posizioni, unite alla rivendicazione di un salario familiare o di sussidi familiari, restarono tradizionaliste, tenendo conto dei
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valori del matrimonio e della famiglia, la richiesta di parità passò di nuovo in secondo piano. La battaglia ideologica tra chi rappresentava una posizione che poneva l’accento sulla differenza tra i sessi, che venne definita «nuovo femminismo»47, e le cosiddette egualitariste o femministe dell’uguaglianza, condusse anche sul piano internazionale a dure contrapposizioni riguardo alla questione della protezione della maternità. Mentre i movimenti femministi borghesi continentali, in questa questione eccezionalmente in accordo con le socialdemocratiche e le socialiste, consideravano la protezione della maternità, l’indennità e l’assicurazione di maternità come uno dei più importanti pilastri della politica sociale statale, le rappresentanti dei movimenti femministi anglo-americani48 temevano che una specifica protezione del lavoro femminile potesse aprire la strada a specifiche discriminazioni di genere. Anche a livello internazionale la divisione tra coloro che si opponevano a qualsiasi legge protettiva esclusivamente in favore delle donne e i fautori del congresso mondiale dell’ICW, tenuto a Berlino nel 1929, fu suggellata dalla fondazione del cosiddetto Open Door Council49. Alla fine di questa fase le femministe della differenza hanno vinto sulle egualitariste, non da ultimo perché questo femminismo portava con sé il modello patriarcale dello Stato assistenziale e perché l’orientamento prioritario verso la maternità come politica sarebbe stato incorporato anche dai movimenti e dai partiti conservatori fascisti. Uguaglianza e/o differenza Queste battaglie ideologiche dimostrano che il contrasto politico e teoretico riguardo all’orientamento verso l’uguaglianza come principio giuridico oppure verso una politica della differenza non era solo un punto controverso del nuovo movimento femminista. Carole Pateman ha evidenziato a
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riguardo che il paradosso di sostenere il diritto alla parità e di insistere contemporaneamente sul riconoscimento e sulla considerazione della differenza di genere caratterizzava già lo scritto di Mary Wollstonecraft A Vindication of the Rights of Women del 179250. Questo problema poteva essere formulato così chiaramente solo dopo che alle donne era stata promessa e garantita la parità dei diritti non solo politici, ma anche civili, nella maggior parte delle democrazie occidentali e anche negli Stati del socialismo reale dell’Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale. Come già era accaduto dopo la Prima guerra mondiale, dopo il 1945 la conquista dei diritti ha portato, più o meno in tutti i Paesi, a un’ulteriore stasi51, a una situazione di stallo nelle organizzazioni del movimento femminista. Il nuovo movimento femminista della fine degli anni Sessanta prese le mosse proprio dalla constatazione che la parità formale non bastava e dalla delusione che scaturiva da questa esperienza. Perciò il nuovo movimento intendeva se stesso non come movimento per i diritti, ma soprattutto come movimento di liberazione, sebbene esso si mobilitasse fin dall’inizio anche per una questione giuridica: l’impunibilità dell’interruzione volontaria della gravidanza. Erano prioritari i temi dell’autodecisione personale sul proprio corpo, della cosiddetta ‘liberazione sessuale’ e della violenza nelle relazioni personali e private. Il concetto che unificava l’avvio dei nuovi movimenti femministi superando i confini statali era l’autonomia, secondo un doppio significato: esso legava l’autonomia individuale e personale e la liberazione dalla tutela maschile con l’auto-organizzazione e l’indipendenza nell’espressione politica. Negli anni Settanta ciò presupponeva in primo luogo la separazione e l’indipendenza nei riguardi dei ‘Linken’, i movimenti per i diritti degli studenti e per i diritti di cittadinanza, dal cui interno – per esempio in Francia, Italia e Germania occidentale – erano derivate molte iniziative femministe; ma anche l’esplicita separazione da tutte le istituzioni statali, in particolare anche dai partiti organizzati.
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Caratterizzante per il nuovo femminismo era perciò una politica della soggettività52, il rifiuto della cosiddetta politica di rappresentanza e il lavoro in gruppo e per progetti, che formavano un crescente network e davano pubblicità alla loro causa attraverso i media, in particolare attraverso riviste femministe e un nuovo mercato editoriale. Diffuso a livello internazionale era uno specifico metodo di autocoscienza, il ‘consciousness raising’, che con il motto «il privato è politico» pose in essere un processo di apprendimento collettivo. Anche il ‘nuovo femminismo’ non va descritto al singolare: esso si articolò anzi attraverso tendenze, obiettivi e interventi politici molto differenti tra loro. Perciò anche la ‘nuova’ politica femminista, a differenza dei suoi precursori storici che spesso si configurano come movimenti per i diritti53 (il paragrafo precedente sul femminismo assistenzialista ha già corretto questa semplificazione), non deve contraddistinguersi solo per le sue elaborate posizioni politiche e teoriche sulla differenza di genere. Il femminismo umanista54 di Simone de Beauvoir, che con la sua rivolta contro la differenza e la femminilità della donna mirava alla parità dei generi, costituì un riferimento per molte teoriche della differenza e contemporaneamente il punto di partenza per la loro critica al femminismo della parità. È tuttavia da sottolineare che le controversie erano sempre ricondotte all’asse uguaglianza-differenza. Nella sua analisi del ‘second wave feminism’ Judith Evans è riuscita a individuare, fino agli inizi degli anni Novanta, cinque diversi discorsi, nei quali entrambi i concetti giocano un ruolo come in un movimento pendolare55. Agli inizi del nuovo movimento femminista – ricorda – furono tematizzate in modo approfondito le disuguaglianze e le differenze tra le donne, in riferimento alla classe (per quel che riguardava le femministe di ‘sinistra’ o socialiste), ma anche alla razza56. In effetti il nuovo movimento poteva guadagnare visibilità e seguaci convinte sviluppando una cornice interpretativa e una teoria per l’azione politica delle donne sulla base di una nuova
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autocoscienza femminista e con l’accentuazione della differenza di genere. Ciò comportava la rivalutazione delle esperienze femminili e della cultura femminile, che non necessariamente significavano immediatamente una essenzializzazione della femminilità. Ma anche dietro la voce ‘differenza’ si nascondevano posizioni diverse come quella del femminismo culturale, ginocentrico ed ecologico57, le teorie sulla morale femminile e l’etica assistenziale58, oppure le cosiddette politiche dell’identità59, che furono reclamate in particolare dalle femministe non occidentali e non bianche60. La ricezione delle teorie femministe relative al problema della parità dei diritti mostra quanto siano importanti i differenti contesti. Un esempio a riguardo era la confusione provocata dal dibattito delle teoriche statunitensi sulla parità come uguaglianza (‘sameness’) o identità, che non prestava attenzione alla maggior parte delle situazioni giuridiche europee in cui – a differenza che negli Stati Uniti dove tutte le richieste di un emendamento sulla parità dei diritti naufragavano – il principio della parità dei diritti tra i generi era fissato nelle Costituzioni. Questa non è affatto una questione formale o una sottigliezza giuridica; significa che la parità dei diritti tra uomini e donne non può presupporre l’uguaglianza (sameness) o l’identità61, ma, al contrario, prende in considerazione proprio la differenza, senza che essa costituisca occasione di discriminazione62. La scelta tra uguaglianza e differenza, secondo l’argomentazione di molte voci in questo dibattito, rappresenta una falsa alternativa63, una «trappola intellettuale» e una «scelta impossibile» secondo Joan Scott, che sostiene: «Feminists cannot give up ‘difference’; it has been our most creative tool. We cannot give up ‘equality’, at least as long as we want to speak to the principles and values of a democratic political system»64. Questo giudizio – come evidenzia Nancy Fraser65 – è dovuto a una condotta necessariamente pragmatica, che ha una grande tradizione e una grande importanza nelle teorie politiche americane. Certamente, se guardiamo alle questioni della giustizia di gene-
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re non solo dal punto di vista filosofico, ma dal punto di vista della politica e della pratica giuridica, è necessario assumere una prospettiva storico-politica66. Quanto siano differenti le condizioni nel contesto europeo emerge dalle differenti politiche e culture assistenziali67, nelle quali l’ordine dei generi è introdotto come pilastro portante. Come concetto giuridico, tanto discusso nelle lotte storiche quanto saturo di significati, l’uguaglianza non è, dunque, un principio assoluto o una misura immutabile, è invece un concetto dinamico, che è legato alla «storicità della differenza di genere»68. L’uguaglianza sorge come problema solo se ci sono differenze tra gli individui e in base a questo concetto giuridico si può parlare di uguaglianza secondo singoli aspetti, rilevanti per le opportunità di vita, e mai parlare di identità o di adattamento69. I nuovi movimenti femministi hanno sempre lottato per questi aspetti dell’uguaglianza rilevanti rispetto alle differenze, alla differenza di genere e alla diversità tra donne e tra altri gruppi non rappresentati, e con ciò hanno posto nuovi standard per la giustizia. Sarà compito di un’ulteriore movimento femminista valorizzarli e conferire forza e peso alle richieste ancora insolute. I diritti delle donne sono diritti umani: prospettiva Tra le femministe dei Paesi occidentali è stata lamentata la decadenza o persino la fine del nuovo femminismo già dagli anni Ottanta, per cause e motivi differenti. Ma solo dopo la caduta della ‘cortina di ferro’ i movimenti e le politiche femministe subiscono un vero contraccolpo (‘backlash’), poiché le priorità politiche sono poste in modo nuovo e un neoliberalismo di mercato vince sotto la parola d’ordine ‘globalizzazione’. Contemporaneamente, tuttavia, sono nati indipendentemente dai femminismi occidentali, a livello locale e globale, movimenti femministi e iniziative femministe, dei quali si parla come
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‘third wave feminism’70. La loro origine si colloca nella decade ONU che va dal 1975 al 1985. In particolare le conferenze mondiali delle donne, organizzate da allora dalle Nazioni Unite, hanno via via offerto alle donne del ‘terzo mondo’ una piattaforma che ha rappresentato sia un’autorizzazione all’azione politica (empowerement) in vista della costruzione di una rete internazionale, sia una base per il loro lavoro sul campo e nella loro regione. Delle iniziative mondiali fanno parte, per esempio, le succitate Women Living under Muslim Laws, delle quali fecero parte nel 1997 attiviste provenienti da 18 Paesi di popolazione musulmana71, Woman in Black e le Madres de la Plaza de Mayo in Argentina, ma soprattutto, la campagna organizzata dal Center for Women’s Global Leadership sotto il motto «diritti delle donne come diritti umani»72. Questa campagna, che fu sostenuta da molte centinaia di migliaia di firme, ha organizzato, in relazione con la conferenza mondiale dell’ONU di Vienna del 1993 per i diritti umani, un tribunale sulla ‘violenza contro le donne’ il quale, con la pubblicazione e la documentazione delle violazioni dei diritti umani commesse contro le donne in tutto il mondo, ha contribuito in modo decisivo al fatto che il tema ‘women’s human rights’ ottenesse nuova attenzione alla conferenza mondiale di Bejing nel 1995 e scuotesse l’opinione pubblica mondiale. Con il riconoscimento della «violenza di genere contro le donne» nella piattaforma di Bejing ci si occupava dei diritti umani ‘universali’ delle donne e contemporaneamente della ridefinizione del significato dell’oppressione nella sfera privata73. In tal modo questa campagna internazionale ha raccolto la critica femminista all’androcentrismo del diritto e dei diritti umani ed ha denunciato la mancanza di garanzia nella tutela dei diritti umani delle donne. Essa ha tentato, inoltre, di definire le fattispecie in relazione alle specifiche esperienze negative femminili e di ampliarle in modo decisivo in relazione alla protezione non solo dalla violenza statale, ma anche dalla violenza privata tollerata dallo Stato.
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Reclamare i diritti umani anche come diritti delle donne ha implicato una fondamentale radicalizzazione della richiesta di libertà e uguaglianza di tutti gli uomini e la riformulazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1789 attraverso la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges. L’orientamento verso i diritti umani aveva accompagnato i movimenti femministi del XIX secolo nelle loro diverse direzioni e nelle ondate di mobilitazione mondiale – per esempio nella battaglia per il diritto di voto di Hedwige Dohm nel 1876 – accogliendo il concetto espresso nell’affermazione «i diritti umani non hanno sesso»74. Il fatto che questa consapevolezza influenzi ancora le diverse iniziative dei nuovi discorsi internazionali sui diritti delle donne conferma il potere di convinzione di questo approccio ma anche i problemi specifici posti dall’estensione dei diritti poiché, anche dopo il riconoscimento formale della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948, la sua applicazione e la sua efficacia sono ancora discutibili e incomplete. La stessa Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne (CEDAW), varata nel 1979 dall’Assemblea generale dell’ONU, è stata ratificata da molti Stati solo con riserva e non è stata in grado di impedire fino ad oggi le quotidiane violazioni dei diritti umani perpetrate contro le donne75. Tuttavia questo riconoscimento giuridico dà voce a coloro che hanno subìto ingiustizia. Sono garanzie di diritti al di là delle leggi dei singoli Stati, delle quali si può servire ogni singola donna per tradurre la propria esperienza di ingiustizia nel linguaggio del diritto. Poiché le esperienze di ingiustizia specificamente femminili, cioè la violazione dell’integrità personale e dell’autonomia in quasi tutte le culture sono una componente naturale dell’ordine di genere e quindi del ruolo delle donne, per cambiare le cose è necessario un movimento che dia voce nella sfera pubblica ai diritti delle donne. Se la terza ondata del femminismo si manifesterà come movimento per i diritti delle donne e per i diritti
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umani non è ancora prevedibile. Le questione del diritto, vale a dire il significato politico fondamentale dei diritti delle donne come diritti umani e il suo riconoscimento come presupposto dei rapporti democratici e della pace mondiale rappresenta, quindi, anche all’inizio del XXI secolo una possibile piattaforma comune della politica femminista. Sotto la parola d’ordine «per la violenza del diritto contro il diritto della violenza» il movimento per i diritti delle donne e per la pace sostenuto da Berta von Suttner già nel 1899, in occasione della prima conferenza di pace dell’Aja, aveva chiamato alla mobilitazione le donne di tutti i Paesi e aveva messo insieme milioni di firme76. Oggi questa rivendicazione per le donne in tutte le parti del mondo presenta nuova attualità, poiché i diritti non sono un bene o un possesso ma devono essere sempre conquistati con la lotta, difesi e ridefiniti in base agli standard di giustizia in vigore. Il conferimento del premio Nobel per la pace 2003 all’avvocata dei diritti umani Shirin Ebadi potrebbe essere un segnale e un incoraggiamento a nuove iniziative.
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Note * Questo saggio è apparso in J. Fleming, P. Puppel, W. Trossbach, Ch. Vanja, O. Wörner-Heil (hrsg.), Lesarten der Geschichte. Ländliche Ordnungen und Geschlechterverhältnisse. Festschr. f. Heide Wunder, Kassel, 2004, pp. 294316. Traduzione di Nicola Guarino. 1 Cfr. L. Klejman, F. Rochefort, L’Egalité en marche. Le feminisme sous la
Troisième Republique, Paris, 1989, p. 23: «Prise de conscience individuelle ou collective de l’oppression spécifique des femmes, le féminisme est particulièrement intéressant au moment où il s’incarne en un movement». 2 Cfr. K. Offen, Defining Feminism, A Comparative Historical Approach, in “Signs. Journal of Women in Culture and Society”, vol. 14, 1988, pp. 11957 (p. 27); cfr. anche il contributo di E. Potonié-Pierre in L. Schoenflies et al., Der Internationale Kongress für Frauenwerke und Frauenbestrebungen in Berlin: 19.-26. September 1896, Berlin, 1897, p. 40. 3 N.J. Smelser, Theory of collective behavior, New York, 1972; J. Raschke,
Soziale Bewegungen. Ein historisch-systematischer Grundriß, Frankfurt/New York, 1985, p. 105.
4 U. Planert, Nation, Politik und Geschlecht. Frauenbewegungen und Nationalismus in der Moderne, Frankfurt/New York, 2000. 5 Cfr. anche K. Offen, European Feminisms 1700-1950. A Political History,
Stanford, 2000, p. 21. Perciò si impedisce, a mio avviso, di definire le associazioni patriottiche femminili nella Germania imperiale con il termine femminismo, cfr. A. Süchting-Hänger, “Gleichgroße mut’ge Helferinnen” in der weiblichen Gegenwelt, in U. Planert, Nation, Politik und Geschlecht, Frankfurt-New York, 2000, pp. 131-146. 6 U. Gerhard, Die ”langen Wellen“ der Frauenbewegung – Traditionslinien
und unerledigte Anliegen, in R. Becker-Schmidt, G.-A. Knapp (hrsg.), Das Geschlechterverhältnis als Gegenstand der Sozialwissenschaften, Frankfurt/ New York, 1995, pp. 247-278.
7 Cfr. S.M. Buechler, Women’s Movements in the United States. Woman Suffrage, Equal Rights and Beyond, New Brunswick, 1990, pp. 10 sgg. 8 Cfr. D. Della Porta, M. Diani, I movimenti sociali, Roma, 1997.
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9 L. Braun, Die Bürgerpflicht der Frau, Berlin, 1895. 10 M. Shahrzad, The Politics of Theorizing ‘Islamic Feminism’, Implications
for International Feminist Movements, WLUML Dossier 23-24-05-islamfem.rtf. 11 Cfr. L.J. Rupp, Worlds of Women. The Making of an International Women’s Movement, Princeton, 1997; cfr. anche K. Offen, European Feminisms, cit., pp. 157 sgg. 12 L. Klejman, F. Rochefort, L‘Egalité en marche, cit., p. 54. 13
L. Rupp, Zur Organisationsgeschichte der internationalen Frauenbewegung vor dem Zweiten Weltkrieg, in “Feministische Studien”, n. 2, 1994, pp. 53-65; cfr. anche U. Gerhard, National oder International. Die internationalen Beziehungen der deutschen bürgerlichen Frauenbewegung, in “Feministische Studien”, n. 2, 1994, pp. 34-52. 14 Cfr. R.J. Evans, Sozialdemokratie und Frauenemanzipation im deutschen Kaiserreich, Berlin, 1979, pp. 142-144. 15 Lettera di Isabel Aberdeen a Gertrud Bäumer, aprile 1915, HeleneLange-Archiv, Abt. 17, IV, 84-330 (8). 16 Cfr. anche F. Thébaud, La Grande Guerra: età della donna o trionfo della differenza sessuale?, in Storia delle donne, a cura di G. Duby, M. Perrot, Il Novecento, a cura di F. Thébaud, Roma-Bari, 1992; Ch. Bard, Les Filles de Marianne, Paris, 1995. 17 Cfr. nel dettaglio Internationales Frauenkomitee für dauernden Frieden (hrsg.), Internationaler Frauenkongress in Haag vom 21. April bis 1. Mai 1915, Amsterdam, in tre lingue; Comité International de Femmes pour une Paix Permanente, 1915. 18 Ma ci furono anche rifiuti, ad esempio dal Conseil National des Femmes Françaises, cfr. ivi, p. 313: «Comment nous serait-il possible, à l’heure actuelle, de nous rencontrer avec des femmes des pays ennemis, pour reprendre avec elles le travail si tragiquement interrompu? Ont-elles désavoué les crimes politiques et de droit commun de leur gouvernement? Ont-elles protesté contre la violation de la neutralité de la Belgique?». 19 Cfr. A.H. Jacobs nei suoi Discours de Bienvenu: «Selon notre opinion,
l’acceptation du suffrage féminin dans tous les pays est un des moyens les plus puissants de prévenir une guerre future», ivi, p. 16.
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20 Cfr. Völkerversöhnende Frauenarbeit während des Weltkriegs, a cura della Lega internazionale femminile per la pace e la libertà del ramo tedesco, München, 1920, p. 7. 21 Fondata nel 1903 da Emmeline Pankhurst, cfr. B. Caine, English Feminism 1780-1980, Oxford, 1997, pp. 158 sgg. 22 V. Woolf, Le tre ghinee, Milano, 1969.
23 Ad esempio le parole concilianti e l’abbraccio delle rappresentanti di Francia e Germania, molto seguito dalla stampa, nel congresso mondiale della IAW tenuto a Parigi nel 1926, cfr. G. Bäumer, Lebensweg durch eine Zeitenwende, Tübingen, 1933. 24 Cfr. in dettaglio L. Rupp, Worlds of Women, cit., pp. 117 sgg.; cfr.
inoltre M.L. Degen, The History of the Women’s Peace Party, Baltimore, 1939; International Council of Women (ed.), Women in a Changing World. The dynamic story of the International Council of Women since 1888, London, 1966. 25 Cfr. A. Augspurg, L.G. Heymann, Erlebtes – Erschautes, Meisenheim, 1977, p. 121. 26 Per la Francia cfr. Ch. Bard, Les Filles de Marianne, cit.
27 Per il movimento femminista tedesco cfr. U. Gerhard, Unerhört. Die Geschichte der deutschen Frauenbewegung, Reinbek, 1990. 28 Cfr. J. Gehmacher, ”Völkische Frauenbewegung“. Deutschnationale und
nationalsozialistische Geschlechterpolitik in Österreich, Wien, 1998, pp. 232282; cfr. anche H. Arendt, Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, München, 1986, pp. 218 sgg., 277 sgg. 29 Cfr. K. Jayawerdana, Feminism and Nationalism in the Third World,
London/New Jersey, 1986. 30 U. Planert, Nation, Politik und Geschlecht, cit., p. 26; la differenziazione dell’analisi presentata nei suoi lavori purtroppo non è presente nella redazione di questo libro. Cfr. in particolare B. Holland-Cunz, Die alte neue Frauenfrage, Frankfurt, 2003. 31 G. Bock, Il nazionalsocialismo: politiche di genere e vita delle donne, in
Storia delle donne, Il Novecento, cit. 32 G. Bäumer, Lage und Aufgabe der Frauenbewegung in der deutschen Umwälzung, in ”Die Frau“, n. 2, 1933, pp. 98-106 (p. 99).
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33 A. Schaser, Helene Lange und Gertrud Bäumer. Eine politische Lebensgemeinschaft, Köln, 2000, p. 283; A. Schaser, Gertrud Bäumer – ”eine der wildesten Demokratinnen“ oder verhinderte Nationalsozialistin?, in Zwischen Karriere und Verfolgung, Handlungsräume von Frauen im nationalsozialistischen Deutschland, hrsg. K. Heinsohn, B. Vogel, U. Weckel, Frankfurt/New York, 1997, pp. 24-43. 34 A. Schaser, Einige Bemerkungen zum Thema Antisemitismus und Antifeminismus, in “Ariadne“, n. 43, 2003, pp. 66-71. 35 I. Frapan, Wir Frauen haben kein Vaterland. Monologe einer Fledermaus,
Berlin, 1899; cfr. H. Lange, G. Bäumer (hrsg.), Handbuch der Frauenbewegung, Berlin, 1901, p. 107. 36 Cfr. citazione di C. Kahlau (hrsg.), Aufbruch! Frauenbewegung in der DDR. Dokumentation, München, 1990, p. 19. 37 Cfr. in merito l’articolo di Steven Hause.
38 Ch. Bard, Feministinnen in Frankreich, Frauenstimmrecht und Frieden, 1914-1940, in U. Gerhard (hrsg.), Feminismus und Demokratie. Europäische Frauenbewegungen der 1920er Jahre, Königstein/Ts., 2001, pp. 84-103 (p. 89). 39 Cfr. in particolare F. Thébaud, La Grande Guerra, cit. p. 81.
40 B. Memser, Ausgeklammert – eingeklammert. Frauen und Frauenorganisationen in der Schweiz des 19. Jahrhunderts, Basel/Frankfurt/M., 1988; B. Memser, Schweiz, Staatsbürgerinnen ohne Stimmrecht, in U. Gerhard (hrsg.), Feminismus und Demokratie, cit., pp. 104-115. 41 O. Banks, Faces of Feminism. A Study of Feminism as a Social Movement,
Oxford, 1986, pp. 153 sgg. 42 Cfr. G. Bock, P. Thane (eds.), Maternity & Gender Policies. Women and
the Rise of the European Welfare States 1880s-1950s, London/NewYork, 1994; G. Bock, Povertà femminile, maternità e diritti della madre nell’ascesa dello Stato assistenziale (1890-1950), in Storia delle donne, Il Novecento, cit. 43 A. Zahn-Hanrack, Die Frauenbewegung. Geschichte, Probleme, Ziele,
Berlin, 1928, p. 77; cfr. anche U. Gerhard, Politique sociale et maternité, le cas de l’Allemagne à l’Est et à l’Ouest, in “Travail, Genre et Sociétés”, n. 6, 2001, pp. 59-81. 44 Cfr. per questo I. Blom, Demokratie, Wohlfahrt und Feminismus in
Norwegen, in U. Gerhard (hrsg.), Feminismus und Demokratie, cit., pp. 38-63.
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45 Cfr. Th. Skocpol, Protecting Soldiers and Mothers. The Political Origins
of Social Policy in the United States, Cambridge, Mass., 1992.
46 U. Gerhard, A. Schwarzer, V. Slupik (hrsg.), Auf Kosten der Frauen. Frauenrechte im Sozialstaat, Weinheim, 1988, pp. 11-37. 47 O. Banks, Faces of Feminism, cit., p. 167. 48 Per la Gran Bretagna cfr. J. Lewis, Models of Equality for Women, in G.
Bock, P. Thane (eds.), Maternity & Gender Policies, cit., pp. 72-92 (p. 83).
49 Cfr. I. Remme, Die internationalen Beziehungen der deutschen Frauenbewegung vom Ausgang des 19. Jahrhunderts bis 1933, Berlin, Ph.D.diss., 1955, p. 114. 50 C. Pateman, Equality, difference, subordination, The politics of motherho-
od and women’s citizenship, in G. Bock, S. James (eds.), Beyond Equality and Difference, Citizenship, Feminist Politics and Female Subjectivity, London/ New York, 1992, pp. 17-31. 51 Cfr. L. Rupp, V. Taylor, Survival in the Doldrums. The American Women’s Rights Movements 1945 to the 1960’s, Columbus, 1990. 52 Ad esempio per l’Italia cfr. M. Wunderle, Politik der Subjektivität. Texte der italienischen Frauenbewegung, Frankfurt/M., 1977. 53 G. Lerner, The Majority Finds its Past. Placing Women in History, Oxford/New York, 1971. 54 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano, 1965. 55 J. Evans, Feminist Theory Today. An Introduction to Second-Wave Feminism, London/Thousand Oaks/New Delhi, 1995. 56 Cfr. R. Morgan, (ed.), Sisterhood is Powerful, New York, 1970. 57 Per esempio M. Daly, Gyn/ökologie. Eine Meta-Ethik des radikalen Feminismus, München, 1981; A. Rich, Nato di donna, Milano, 1977; ma anche L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, Milano, 1975. 58 C. Gilligan, In a Different Voice, Psychological Theory and Women’s Development [1982], Cambridge, 1993. 59 I.M. Young, Le politiche della differenza, Milano, 1996; cfr. per questo
A. Philipps, Geschlecht und Demokratie, Hamburg, 1995.
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60 G.C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg (eds.), Marxism and the Interpretation of Culture, Chicago, 1988, pp. 271-313; B. Hooks, Feminist Theory, From Margin to Center, Cambridge, Mass. 2000. 61 Ma così argomenta Catherine MacKinnon, che qui cita sempre la formula aristotelica per la situazione giuridica degli Stati Uniti, secondo la quale solo l’uguale va trattato come uguale, mentre il diverso va trattato secondo la sua particolarità: C.A. MacKinnon, Towards a Feminist Theory of the State, Cambridge/London, 1989. 62 In particolare U. Gerhard, Gleichheit ohne Angleichung, Frauen im Recht, München, 1990; U. Gerhard (hrsg.), Feminismus und Demokratie, cit., pp. 7 sgg., 158 sgg. 63 N. Fraser, Falsche Gegensätze, in Der Streit um Differenz. Feminismus und Postmoderne in der Gegenwart, hrsg. S. Benhabib et al., Frankfurt/M., 1993, pp. 59-79; cfr. anche D.L. Rhode, The Politics of Paradigms, Gender Difference and Gender Disadvantage, in G. Bock, S. James (eds.), Beyond Equality and Difference, cit., pp. 149-163. 64 J.W. Scott, Gender and the Politics of History, New York, 1999, p. 172. 65 N. Fraser, Pragmatismus, Feminismus und die linguistische Wende, in Der Streit um Differenz, cit., pp. 145-160. 66 Ibidem; cfr. anche G. Fraisse, Geschlecht und Moderne. Archäologie der Gleichberechtigung, Frankfurt/M., 1995. 67 G. Esping-Andersen, The Three Worlds of Welfare Capitalism, Princeton, NJ, 1990 e, a riguardo, una ricca e rassicurante analisi critica della politica sociale femminista, per esempio D. Sainsbury (ed.), Gendering Welfare States, London, 1994; studi nella comparazione europea in U. Gerhard, T. Knijn, A. Weckwert (hrsg.), Erwerbstätige Mütter. Ein europäischer Vergleich, München, 2003. 68 G. Fraisse, Geschlecht und Moderne, cit., pp. 33 sgg. Cfr. anche U. Gerhard, Gleichheit ohne Angleichung, Frauen im Recht, München, 1990, e U. Gerhard, Politique sociale et maternité, le cas de l’Allemagne à l’Est et à l’Ouest, cit. 69 Così Karl Marx nel regresso su Friedrich von Savigny, vedi U. Gerhard, Gleichheit ohne Angleichung, cit., pp. 13 sgg. 70 Ch. Wichterich, Frauen der Welt. Vom Fortschritt der Ungleichheit,
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Göttingen, 1995; cfr. anche A. Basu (ed.), Women’s Movements in Global Perspective. The Challenges of Local Feminism, Oxford, 1995. 71 http//www.wluml.org. 72 Cfr. a riguardo E. Friedmann, Women’s Human Rights, The Emergence
of a Movement, in Women’s Rights – Human Rights. International Feminist Perspectives, eds. J. Peters, A. Wolper, New York/London, 1995, pp. 18-34. 73 Cfr. R. Cook, Human Rights of Women. National and International Perspectives, Philadelphia, 1994. 74 H. Dohm, Der Frauen Natur und Recht. Zur Frauenfrage zwei Abhandlungen über Eigenschaften und Stimmrecht der Frauen, Berlin, 1876. 75 A.E. Mayer, Die Konvention über die Beseitigung jeder Form von Diskriminierung der Frau und der politische Charakter ”religiöser“ Vorbehalte, in Facetten islamischer Welten. Geschlechterordnungen, Frauen- und Menschenrechte in der Diskussion, hrsg. M. Rumpf, U. Gerhard, M.M Jansen, Bielefeld, 2003, pp. 103-122. 76 G. Brinker-Gabler, Frauen gegen den Krieg, Frankfurt/M., 1980, p. 16.
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Materiali di studio per l’alta formazione
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Il ‘ventre’. Corpo materno, diritto paterno Yan Thomas
I giuristi di Roma intendono con il nome venter il figlio concepito e nascituro nei casi in cui intendono isolare questo soggetto invisibile che, facendo corpo con sua madre, viene già considerato come titolare di diritti. L’uso del termine è specifico. In primo luogo, non si tratta di una realtà organica. Per designare l’embrione, viene impiegato il termine partus: un embrione già formato che viene considerato, per anticipazione, pronto ad essere espulso dalla matrice, o meglio, come se già fosse uscito dalla madre1. Ma non si aggiunge alcun valore giuridico al significato ostetrico: il parto è l’atto attraverso il quale la donna deve partorire (pario). Venter, al contrario, non ha alcun riferimento al di fuori del diritto. Attraverso questa finzione, il cui nome è preso in prestito da quello della matrice, i giuristi creano una individualità giuridica, un insieme di diritti sospesi al momento della nascita, che è ugualmente un fatto giuridico, poiché realizza una condizione sospensiva o risolutoria2. In seguito, questa qualifica attribuita al venter costituisce una procedura esclusiva del diritto civile romano. Ovunque, il ‘ventre’ delle donne è la loro matrice: è necessario un contesto giuridico per vedere il contenitore designare per metonimia il contenuto3.
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La matrice, la donna, il figlio postumo Quando si designa un erede legittimo – cioè colui al quale, in qualità di discendente in linea maschile o agnatizia, la legge assicura un diritto successorio – lo statu quo patrimoniale si interrompe. Con la nascita, il neonato rompe il testamento del padre, il quale avrebbe dovuto prevedere di istituire il postumo o di diseredarlo nominalmente. Egli avrebbe dovuto includere nel suo testamento la clausola: «che il ventre sia diseredato» – venter exheres esto. «Essendo il ventre passato sotto silenzio» – venter praeterito – l’erede designato perde i suoi diritti4. «Sostituire al ventre», significa designare un erede di rango secondario, nel caso in cui il postumo dovesse morire5. Nelle successioni non testamentarie, allo stesso modo, il ‘ventre’ viene favorito rispetto a qualunque altro successore di grado inferiore al suo, dagli agnati prossimi fino allo Stato e al fisco6: viene scartato il «proximus a ventre» che nell’ordine successorio viene immediatamente dopo il nascituro7. Ma sono ugualmente sospesi i diritti di coloro che, trovandosi «allo stesso grado del ventre»8 in qualità di fratelli e sorelle del nascituro, ignorano ancora quanti coeredi avranno. Quanti con una sola nascita parteciperanno alla divisione successoria? Quanti prenderanno la loro parte di crediti e di debiti comuni9? Incertezza del venter, in cui la finzione giuridica è alle prese con la natura, una natura così creativa, talvolta, che bisogna fissare dei limiti per eluderne gli eccessi. Poiché, se una tale Alessandrina del tempo di Adriano aveva partorito cinque figli, e aveva fatto il viaggio da Roma affinché l’imperatore in persona la vedesse, era questa una ragione per decidere che un erede, ampiamente informato, dovesse accontentarsi di un sesto di eredità10? E, quando alcuni autori riportavano che una donna del Peloponneso aveva avuto cinque parti quadrupli, o che in Egitto non era raro vedere parti di sette figli, bisognava forse regolare il diritto su esempi che, per un Romano, avevano
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del prodigioso11? Per una soluzione giuridica ragionevole, viene fissata una media. I giuristi fissano a tre il numero di figli che la matrice può nascondere, e ad un quarto del patrimonio ciò che l’erede «dello stesso grado rispetto al ventre» ha il diritto di possedere prima del parto12: si saprà allora se la sua parte aumenterà in proporzione al minimo numero di figli venuti al mondo, oppure diminuirà in proporzione a quelli che, in caso straordinario, dovessero venire in più13. La prudenza del diritto mette così ordine in questa confusione organica; poiché, secondo le parole di un grande giurista che riportava l’opinione di Aristotele in base alla quale i parti quintupli erano nell’ordine naturale, «le matrici delle donne ne potevano contenere tanti»14. Definire il figlio in ventre o in utero non è una convenzione di stile. È una formulazione che sempre, nel pensiero dei giuristi, comporta la preoccupazione di aggirare gli ostacoli che la protezione uterina presenta al diritto: al diritto del padre sul figlio quando il padre è in vita15; ma soprattutto al diritto del figlio a succedere al padre quando quest’ultimo è morto. La donna si trova allora nella curiosa condizione di incarnare nel suo solo corpo un lignaggio maschile: essa è una sola cosa con il ‘ventre’, che la designa anche come ciò che lei non è. Il venter viene chiamato a possedere l’eredità: questo si dice mittere ventrem16. Per difendere i diritti del bambino, gli viene attribuito un «curatore al ventre»17. È in queste circostanze che, per eccellenza, colui che è «in ventre», e la cui individualità giuridica gli deriva dal padre, viene chiamato venter; e che il diritto, dissipando l’opacità del corpo materno per pensare e costruire giuridicamente l’erede come già presente, si impossessa di un significante per rigirarlo contro se stesso, e dal nome della matrice, creare il nome del figlio postumo del padre18. Allo stesso modo, e su un registro paragonabile, il termine tecnico per definire la madre come partoriente, parens, assume nel linguaggio giuridico il significato contrario di padre o di ascendente in linea paterna19. Quando
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una etimologia di Isidoro, utilizzata come eccellente fonte antica, assimila i genitori alle puerpere – parentes quasi parientes – lo fa con riferimento esclusivo al Padre, investito della doppia funzione di fondatore del lignaggio – initium generis – e di genitore: nello specifico, quale attore esclusivo della generazione, il padre è causa e la madre materia20. Passando dal maschile al femminile, lo statuto materno viene in apparenza abolito. Ma, in virtù di questo stesso incrocio, il diritto istituisce il padre come sostituto della madre21. Sapiente confusione del linguaggio, attraverso la quale si compie un’operazione istituzionale. A prima vista, il diritto sceglie l’indivisibilità del figlio e della madre: colui che essa porta non ha altro nome se non quello di ciò che lo contiene. Nessun altro nome se non quello della donna presa nella sua interezza, bisogna aggiungere, poiché essa stessa è ridotta al suo ventre. Quando il ventre viene chiamato al possesso, è sulla sposa che ricade l’iniziativa della procedura: è lei che, provvisoriamente, e sotto il controllo di un curatore, riceve i beni22. Indivisibilità, dunque, ma anche sdoppiamento. Non dubitiamo della coerenza di una rappresentazione nella quale l’alternativa tra corpo includente e corpo incluso lascia in permanenza nel dubbio, nell’incertezza di sapere se si tratta più dell’uno, dell’altro, o di entrambi. Un esegeta ritenne utile spiegare perché, nell’editto del pretore, il ‘ventre’ veniva menzionato al posto della donna: «perché al momento della morte [del marito], colei che si dice incinta può non essere più la sposa»23. C’è una certa perplessità di fronte all’assorbimento del termine uxor da parte di venter: il giurista avanza una soluzione casuistica supponendo che il legislatore avesse previsto tutto, compresa la rara ipotesi nella quale il matrimonio sarebbe stato sciolto tra il momento del concepimento e la morte del padre: come chiamare la donna superstite, incinta e divorziata? Secondo Ulpiano, venter è un appellativo minimale, residuale. La sua casuistica è pertanto vana. Essa decade di fronte a que-
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sta serie di equivalenze: «il ventre è chiamato al possesso»; «la donna incinta è chiamata al possesso in nome del ventre»24. La matrice, la donna, il figlio postumo: da questo complesso organico, il diritto mira ad estrarre un soggetto virtuale: soggetto di diritto, l’abbiamo visto, e per conseguenza incorporeo. Ciò che bisogna tentare di capire, è la qualifica in base alla quale il diritto trasforma una natura fisica in una natura giuridica dotata di effettività; avviene che il corpo organico della matrice si trasforma nel corpo giuridico del nascituro, e che permanentemente questi due registri si coniugano e si scambiano nel momento stesso in cui si affrontano elementi quali la maternità della donna incinta e la paternità di un morto. Opera esclusiva del diritto. In altri casi, venter assume un significato univoco: organo della generazione, donna gravida. Per una donna, venter, uterus, alvus, matrix sono tutt’uno: un luogo vuoto o pieno, ma sempre capace di contenere25. Quest’aspetto non impedisce di dire del figlio che ne è uscito che egli è il titolare del ventre di sua madre; «È il tuo venter, Britannicus, che essa esibisce»: una frase, questa, pronunciata per biasimare l’impudicizia di Messalina, che si mostra a seno nudo nei lupanari26. Lungi dall’elaborare un’astrazione, la metonimia del ventre inscrive la maternità nel corpo: ecco perché «colpire al ventre» rappresenta il modo per eccellenza per uccidere una donna incinta27. Ma è soprattutto il modo per uccidere una madre: Agrippina rivendica di essere pugnalata nel punto stesso che aveva generato Nerone: «e, portando la sua matrice in avanti gridò: colpisci al ventre!»28. La sostanza giuridica del ventre Nell’antichità greco-romana, la rappresentazione più diffusa dell’embrione non è quella di un organismo vivente, dotato di autonomia all’interno del corpo materno. Solo la tradizione
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ippocratica ammetteva che vi fosse vita, un essere vivente – zôon – prima della nascita. Tale qualità si acquisiva nello stadio dello sviluppo in cui il germe, ramificato e articolato, diventava capace di muoversi29. Una sensibilità intra-uterina si manifestava quindi ad un livello di evoluzione che variava in base alle scuole30, ma che si differenziava sempre in base al sesso: il maschio era più precoce, la femmina molto più lenta ad animarsi31. Ciononostante, il momento in cui si poteva parlare di ‘essere vivente’, e a fortiori di ‘figlio’ era dibattuto e impreciso, tanto che il pensiero medico, a dispetto del famoso giuramento di Ippocrate, non poteva essere utilizzato in un dibattito contro l’aborto. Quando i politici ne raccomandavano il ricorso, al fine di mantenere invariata la popolazione delle città, era sufficiente dichiararlo lecito prima che apparisse «la sensibilità e la vita»32. Nessun pensatore immaginava che un essere vivente o un umano sorgessero nel momento stesso del concepimento. Ecco perché, tributari del modello ippocratico che era loro più favorevole, anche i cristiani, per vietare l’uccisione del bambino nel seno di sua madre, distinsero tra prima e dopo la vita. Dal momento in cui l’anima era penetrata nel corpo dell’embrione, un essere umano riempiva l’utero: la sua soppressione poteva essere qualificata come omicidio33. Ma a quale criterio attaccarsi per decretare questa unione dell’anima e del corpo? La legge mosaica prevedeva solo una riparazione pagata al marito della donna incinta, quando l’aborto veniva accidentalmente provocato da terzi, nel corso di una rissa tra uomini34. Ma la versione alessandrina dei Settanta, nel III secolo a.C., introduce nella traduzione dell’Esodo una distinzione tra «bambino non formato» e «bambino formato», paidion éxeikonisménon: cioè conforme all’immagine, somigliante al corpo umano35. Questa forma, più precisamente, viene utilizzata quando le membra sono definite36. È in questo caso, secondo i Padri della Chiesa, che il principio della vita investe l’embrione. L’unione dell’anima e del corpo esige che quest’ultimo abbia preso la forma
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umana, che ne riproduca già l’immagine ridotta. Tale è il senso del formatus: ciò che raffigura, o prefigura, il corpo articolato37. È nel quarantesimo giorno che il germe si distacca dall’informe e acquisisce quelle sembianze umane grazie alle quali diventa la sede dell’anima38. Ostile all’aborto, la Chiesa dovette adottare l’unica tradizione antica nella quale la questione dell’origine della vita venisse sollevata a proposito dell’evoluzione prenatale. Ma una concezione molto più diffusa nel mondo greco-romano vedeva nel feto una parte del corpo della madre: gli veniva negata qualsiasi forma di autonomia. Il tema del «méros tès gastros» (parte della matrice), veicolato dagli Stoici, si impose come opinione comune a Roma39. Come Crisippa, Varrone pensava che l’anima entrasse nel corpo del neonato quando, una volta uscito dal ventre, egli emetteva il primo respiro: «l’anima è l’aria aspirata dalla bocca, cotta nei polmoni, resa alla giusta temperatura nel cuore, e poi diffusa in tutto il corpo»40. Ed è proprio alle credenze del suo tempo che Lucrezio si rifaceva quando evocava l’anima che «scivola nel corpo di coloro che nascono», «si introduce in noi quando il nostro corpo è completo, nell’istante stesso in cui nasciamo e varchiamo la soglia della vita», «si insinua dall’esterno nei nostri corpi»41. Anime venute dal di fuori (extrinsecus animas), secondo il poeta repubblicano. Nel III e nel IV secolo, la polemica cristiana si impossessò di questo luogo comune, denunciato come credenza dai filosofi, da sette confuse, e dai medici42. L’anima ‘esterna’ (anima extranea) entrava insieme all’aria con il primo respiro. Immerso nell’aria fredda, come un ferro incandescente nell’acqua, il corpo del bambino, uscito bollente dall’utero, doveva reagire alla violenza di un simile contrasto tra l’interno e l’esterno, tra il caldo e il freddo. È così che, una volta strappato dal corpo intirizzito, il primo suono vocale segnalava l’intrusione dell’anima, la ‘forza animale’ che il bambino aveva incorporato nel trauma43. Forse questa interpretazione si era banaliz-
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zata da molto tempo. Infatti, i giuristi del I secolo, che avevano accesso alla filosofia e alle scienze solo attraverso la loro volgarizzazione retorica, si chiedevano se il vagito del neonato fosse una prova necessaria di vita. La sola nascita di un postumo era sufficiente a rompere il testamento, quando prima di qualsiasi emissione di voce il bambino uscito dalla partoriente giaceva morto a terra o tra le braccia della levatrice? La setta dei Proculiani doveva esigere che tra nascita e morte la voce manifestasse la vita, poiché la setta rivale dei Sabiniani accettava che il testamento venisse rotto anche se, prima del rilevamento del cadavere, nessuna «emissione di voce» fosse provenuta dal corpo del neonato44. Al momento della nascita, infatti, il bambino appare come un insieme di corpo ed anima. Prima che questo evento giuridico realizzi la condizione che sospende i diritti del postumo, quest’ultimo non è che pura astrazione. Per incarnare questo soggetto virtuale, i giuristi non immaginano alcun supporto biologico. Come corpo, l’embrione è estraneo al diritto. Secondo l’espressione di Ulpiano, esso non è che «un pezzo della madre, una parte delle sue viscere»45: il partus, pronto ad essere espulso, non entra in alcun dibattito giuridico, e non vi si presta più di quanto non faccia il corpo femminile. Tuttavia, quando è necessario pensare al figlio del padre, l’erede in linea maschile, i giuristi istituiscono la finzione del venter come soggetto di diritto. Questo nome lascia apparire la madre come un corpo sdoppiato: ci ritorneremo in seguito. Ma, a proposito del ‘ventre’, la cui sostanza giuridica si costruisce in relazione esclusiva al padre, i giuristi si accontentano di dire che esso «esiste in natura»46. Grado minimo di esistenza, e rifiuto di considerare l’autonomia organica come condizione di questa stessa esistenza. Sembra necessaria, al contrario, l’incorporeità di ciò che un giurista, con un termine che indica ordinariamente le situazioni giuridiche future, chiama «la speranza di un essere vivente», spes animantis47. Siamo ben lungi dall’affermare che in questo
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stato la vita sia una condizione del diritto, è dal diritto, al contrario, che questa «esistenza naturale» prende le mosse. L’unica concessione che il diritto, in questa accezione estremamente vaga, consente al reale, avviene in relazione ad un reale che è da esso stesso costruito. «Coloro che sono in utero – scrive Giuliano – hanno un’esistenza naturale, almeno in tutte le branche del diritto civile. In effetti, le successioni legittime vengono ristabilite a loro profitto [ad esempio, gli eredi esterni entreranno in possesso dei beni solo se l’erede legittimo «dello stesso grado rispetto al ventre» si accontenterà, prima della nascita, di entrare in possesso di un quarto dell’eredità]. Se la donna incinta cade prigioniera del nemico, il nascituro godrà del diritto di ritorno – postliminium [ad esempio, se una volta nato, il bambino oltrepassa i confini della città, i suoi diritti saranno ristabiliti retroattivamente al momento presunto del concepimento]. Da tutto ciò risulta che anche il liberto, fino a che il figlio del suo padrone è suscettibile di nascere, si trova nella situazione giuridica di coloro che hanno un padrone [ad esempio, il liberto non è ancora libero con la morte del suo padrone, se la sua sposa è incinta: egli dovrà eventualmente le operae liberti all’erede, e questi doveri saranno calcolati a partire dal concepimento. Soprattutto egli non potrà disporre dei suoi beni per testamento: in pratica, il postumo del padrone, prima ancora di nascere, vanta già dei diritti sul liberto del padre defunto]48. Notiamo che se la riflessione giuridica non deve nulla ai riferimenti medici, poiché ci troviamo di fronte ad una natura che viene fabbricata dal diritto, non si può dire lo stesso per il caso contrario. Un trattato dello Pseudo-Galeno cerca di sapere se «ciò che si trova nella matrice è un essere vivente». Ora, tra tutte le ragioni esistenti che fanno pensare che «l’essere nascosto nelle pieghe dell’utero» sia uno zôon, ne esistono alcune che somigliano stranamente a quelle che, secondo Giuliano, danno fondamento alla finzione: è già un erede; possiamo già dire di
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lui che succederà al padre in qualità di padrone – Kurios – del liberto49. Ignoro se l’autore di questo trattato avesse letto il testo di Giuliano, o conoscesse un’argomentazione analoga. Ma, a colpo sicuro, questo medico inverte l’ordine della proposta medica per collocare il diritto al primo posto, alla maniera romana. A proposito dell’aborto, egli si spinge fino a sovvertire l’argomentazione di Aristotele, enunciando che l’aborto non è vietato perché l’embrione vive, ma che l’embrione vive perché l’aborto è vietato. Ed evoca a tal proposito leggi perfettamente apocrife di Licurgo e Solone, così come aveva fatto Musonio nel I secolo50. La natura viene dimostrata dalla legge. «Nutrire il ventre» Per capire che un soggetto istituito dal diritto prende il suo nome in prestito da quello della matrice, bisogna tornare al corpo materno. La donna incinta è doppia. Ella è se stessa, e poi in lei c’è quest’altro che organicamente è una sua parte, ma che non è giuridicamente la sua sostanza. Prende posto una esistenza giuridica . Tutto il posto, poiché il ventre, ormai, è quest’altro in lei. Per giudicare questa radicale alterità, non dimentichiamo che il ventre, nella casuistica, è sempre l’erede postumo di un defunto: sposo, padre. La casuistica consacrata ai postumi è di una inverosimile profusione e di una rara complessità51. Non interpretiamo questo dato come un indice della sua frequenza. Al massimo esso lascia supporre che un Romano doveva sempre aspettarsi di morire lasciando una sposa incinta di lui: il diritto gli impone di prevedere questa eventualità. Soprattutto, i casuisti ci lasciano vedere, nell’attenzione estrema che prestano ai casi rari, le arguzie del loro universo normativo. Lavorando per eccessi, rispetto al reale, sulle ipotesi nelle quali un bambino dovesse nascere dopo la morte naturale o civile52 del padre, i giuristi
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realizzano un’operazione teorica. Essi isolano un ibrido per ricavarne un essenza. L’ibrido è quel composto derivante da un morto che non eserciterà la sua paternità; da una donna che, con la morte del marito, perde il suo statuto giuridico di madre: il matrimonio istituisce la madre, la sua dissoluzione l’abolisce53. L’essenza è quella del legame genealogico. Esso appare in tutta la sua purezza quando, dei due poli che questo legame unisce, il primo non esiste più, e l’altro non esiste ancora. Può solo essere pensato un punto di congiunzione. Tra la morte del padre e la nascita del figlio, la loro unità astratta si stabilisce nel ricettacolo del ventre. L’artificio del venter è quello che consente di pensare il principio della loro identità. In nessun’altra finzione del diritto romano si avvera così precisamente l’adagio, enunciato a proposito del diritto testamentario, secondo il quale il padre ed il figlio sono una stessa persona: «pater et filius eadem persona»54. Della donna si è già detto che era divisa tra se stessa e il venter: nella procedura di chiamata al possesso «ventris nomine», essa agisce in nome di un essere invisibile. Ma tutta una casuistica degli alimenti sembra avere la funzione di distinguerne le due nature. Una concezione comune vuole che l’embrione si nutra del sangue che circola nella matrice55. Ma come conciliare il sangue che nutre dispensato dal corpo materno con il principio giuridico in base al quale ogni nutrimento viene dal padre? Basterà isolare, in ciò che la donna mangia, la parte che, specificamente riservata al ‘ventre’, sarà prelevata sulla successione: sono gli «alimenti versati al ventre»56. In questo senso si dice: «nutrire il ventre», «sovvenire al ventre»57. Del patrimonio del morto, la donna incinta è chiamata a possedere solo ciò che rientra «nel limite necessario alla sussistenza del ventre. Essa tratterrà da questi beni solo ciò senza il quale il bambino non potrà nascere»58. Infatti non è in discussione il fatto di nutrirla «col pretesto del ventre»59. Uno dei compiti del curatore al ventre consiste precisamene nel decidere sugli alimenti. Egli non
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terrà alcun conto della fortuna personale della donna, né della sua dote. Poiché una cosa è ciò che essa usa per la sua sussistenza, altra cosa è ciò di cui si nutre il bambino; questo nutrimento viene conteggiato sulla base del patrimonio del padre, dal momento che proviene solo da lui: «il curatore al ventre stabilirà gli alimenti concessi alla donna. Poco importa se essa possiede una dote che le assicuri la sussistenza. Infatti gli alimenti così attribuiti sono considerati rispetto a colui che si trova nella matrice». Così la casuistica produce un doppio circuito nutrizionale: quello della donna, quello del figlio del padre. Doppio circuito, doppia contabilità. Non si potrebbe instaurare una separazione più radicale. Alla natura della madre, i giuristi oppongono la natura del nascituro. Quest’ultimo discende dal padre, il quale appartiene allo Stato: «Tutto deve essere predisposto affinché il figlio [partus] veda la luce. Il ventre deve essere nutrito. Se ciò non avviene per suo padre, che è morto, che avvenga almeno per lo Stato, che il figlio accresce con la sua nascita»60. Per il padre, per lo Stato. In questo ambito di attribuzioni, viene detto l’essenziale sull’economia del matrimonio romano e sul ruolo della donna nel matrimonio. Sprovvista di funzione civica, essa non procrea direttamente per la città. Essa dà figli al marito, padre per la città61. L’autonomia del venter rispetto al corpo materno arriva fino a lasciar postulare che il rifiuto di inviare il ventre al possesso equivale ad uccidere il bambino. «Rifiutare gli alimenti» – alimonia denegare – e «far morire di fame» – fame necare – si equivalgono: il neonato riceve la morte per abbandono62. L’esposizione, che consiste nel deporre un bambino per lasciarlo perire di inanizione, rappresenta esattamente il contrario del gesto attraverso il quale un padre riconosce suo figlio: egli lo solleva da terra (tollere liberos) e ordina che lo si metta al seno (ali iubere). Così, in due momenti distinti, il figlio viene «sollevato e poi nutrito»: sublatus altusque63. Il suo primo nutrimento deriva per conseguenza da un gesto primordiale di accettazio-
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ne e di integrazione nell’ambito paterno. In questo modo, il bambino deve il suo ingresso nella vita al padre il quale, se presente, compie il rito oppure, se è assente, ne ordina l’esecuzione64. Si capisce allora perchè, nel capitolo relativo all’«invio del ventre al possesso», i giuristi abbiano deciso che l’erede in utero muore di fame quando il circuito nutrizionale dal quale dipende non provenga dal patrimonio. Ecco che siamo di fronte ad un venter diseredato a condizione: l’invio al possesso sarà tuttavia concesso, perché se accadesse che la condizione viene meno, nascerebbe comunque un erede del quale bisogna assicurare la vita: «non bisogna uccidere prima che nasca colui che si aspetta»65. E ancora è possibile che il testamento riporti: «Se mi nasce un figlio, che egli sia diseredato; il venter sarà comunque inviato al possesso, poiché può nascere una bimba; nell’incertezza di ciò che verrà al mondo, meglio nutrire colui che è diseredato piuttosto che far morire di fame colui che non lo è»66. Se la legittimità del postumo viene contestata dai parenti del morto, saranno comunque versati degli alimenti al ventre, «perché bisogna fare più attenzione a non lasciar morire di fame il figlio, piuttosto che a preservare l’avente diritto da una diminuzione della sua eredità, se si verifica che il bambino non è il figlio»67. Non lasciarlo morire di fame: una questione di vita o di morte rispetto alla quale la madre viene lasciata completamente al di fuori. Tutto si verifica come se il diritto escludesse il fatto stesso che la madre possa nutrire il ventre da sola. L’alternativa giuridica è tra nutrire il postumo sulla base dell’eredità paterna, o ucciderlo come si fa con coloro che vengono esposti. Poiché non inviare il ventre al possesso significa privare il bambino della sua nascita: «la causa dei nascituri è preferibile a quella dei bambini già nati. In effetti, tutto deve essere predisposto affinché il partus veda la luce. Per il bambino già nato, si tratta soltanto di farlo entrare in una famiglia [ad esempio, l’invio al possesso dell’eredità lo consacra come
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discendente legittimo]. Il nascituro deve essere nutrito: se non lo si fa per suo padre, che è morto, lo si faccia almeno per lo Stato, che egli fa accrescere con la sua nascita»68. L’istituzione, così, permette al bambino di nascere. Essa si sostituisce al padre che, se fosse stato vivo, avrebbe compiuto l’atto di riconoscimento e decretato che suo figlio venisse nutrito. La finzione realizza un riconoscimento in utero da parte del morto. Attraverso la grazia di una contabilità, il bambino viene ricongiunto al patrimonio che nutre, come se già il gesto paterno l’avesse introdotto nella vita, e separato dalla madre. Il corpo sdoppiato La casuistica degli alimenti fornisce al principio di divisione del paterno e del materno un potente sostegno sul piano dell’immaginario. È raro vedere un’istituzione che funziona in maniera così esclusiva al servizio di idee fondamentali sulla riproduzione sessuata. Idee che assumono la forma discorsiva solo negli stretti ambiti che sono necessari per divenire effettive, cioè sanzionate. La forza dell’immaginario giuridico è quella di realizzare le sue qualifiche: al montaggio del venter corrisponde una procedura. La mancanza di anima che Hegel attribuiva al genio romano, quella «prosa della vita» che egli opponeva alla poesia dei Greci, rappresenta forse il nocciolo duro della questione, al quale sono sufficienti le poche parole che lo prescrivono. Se i giuristi sono stati capaci di isolare dal corpo materno un soggetto che gli è giuridicamente – e con la finzione degli alimenti, anche biologicamente – estraneo, essi hanno saputo anche assicurare l’effettività di questo sapiente artificio. L’elaborazione giuridica si sdoppia attraverso una misura coercitiva. Coercizione sul corpo materno questa volta: sul corpo preso in quanto tale – nella misura in cui si parla di costrizione
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per mezzo del corpo. Questa coercizione è opera del pretore urbano. L’editto del pretore regola in maniera molto rigida la sorveglianza sulle vedove incinte e ancor più il loro parto. Un controllo che viene esercitato dai parenti del morto. La posta in gioco è doppia. In primo luogo, vengono loro forniti i mezzi per verificare che la vedova sia realmente incinta: che essa in pratica non finga di aspettare un figlio. Bisogna in seguito accertarsi che il figlio, una volta nato, venga allevato secondo la volontà di suo padre. Viene prescritta una messa in scena del parto, che in pratica è una messa in scena della separazione. Ma lasciamo parlare il testo, e lasciamo che la violenza traspaia non dalle parole, ma dai fatti che esso prescrive. L’unica chiave di lettura necessaria al momento è la seguente: ‘ventre’ non deve più intendersi nel significato astratto di nascituro, ma nel significato di matrice. Quando arriva il momento, la finzione giuridica si cancella davanti alla presenza di un corpo che, una volta adempiuto al suo ufficio, sarà lasciato a se stesso affinché il diritto si compia di nuovo: il figlio del padre viene strappato alla madre. Editto del pretore, capitolo XXI: dell’ispezione del ventre e della sorveglianza del parto. Se dopo la morte del marito una donna si dichiara incinta, ella, nel mese successivo a questa morte, dovrà dichiararlo di fronte agli aventi diritto o ai loro rappresentanti, affinché essi inviino, se lo desiderano, alcune donne ad esaminare il ventre [quae ventrem inspicient]. Che cinque donne libere siano delegate e che insieme procedano a svolgere l’esame,senza che nessuna di loro possa nel corso della visita toccare il ventre della donna contro il suo parere [ne… invita muliere ventrem tangat]. La donna partorirà nella casa di una matrona onesta, che sceglierò personalmente. Trenta giorni prima della data presunta del parto, la donna lo comunicherà a chi di diritto o ai suoi rappresentanti, in modo che essi possano inviare un custode del ventre [ut mittant… qui ventrem custodiant]. La camera della partoriente avrà una sola entrata. Se ci sono altre
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uscite vi si inchiodino delle tavole. Davanti alla porta, tre uomini liberi e tre donne libere faranno la guardia [custodire]. Quando la donna entrerà nella camera, o andrà in un altro luogo, ad esempio nel bagno, i guardiani [custodes] ispezioneranno prima l’ambiente, se vogliono. Allo stesso modo, essi scruteranno [excutiantur] a loro piacimento tutti coloro che entreranno. Che i guardiani posizionati davanti alla stanza siano liberi di esaminare tutti coloro che vorranno entrare nella stanza, oppure nella casa. Quando la donna comincerà il travaglio, dovrà annunciarlo agli aventi diritto o ai loro rappresentanti, affinché essi assistano al parto. Verranno mandate in fretta cinque donne libere. In tutto, non dovranno entrare nella stanza più di dieci donne libere, comprese le due levatrici, e non più di sei schiavi. Tutte le donne che si porteranno nella stanza dovranno essere esaminate: ci si dovrà assicurare che nessuna di loro sia incinta. Si disporranno almeno tre lampade, poiché l’oscurità è propizia alla sostituzione di bambini. Il neonato [“colui che sarà nato”: quom natrum erit] verrà mostrato agli aventi diritto o ai loro rappresentanti, se vogliono esaminarlo. Che egli sia sollevato di fronte a colui che suo padre avrà designato. Tuttavia, se il padre non ha prescritto nulla a riguardo, o se la persona che egli aveva designato si rifiuta di prendersi cura del bambino, sarò io stesso [il magistrato], dopo un’indagine, a stabilire il luogo della sua educazione. Colui presso il quale il bambino sarà allevato lo mostrerà [al magistrato?, alla madre?] due volte al mese, dalla nascita fino al compimento del terzo mese. Dal terzo al sesto mese, egli lo mostrerà una volta al mese, e successivamente una volta ogni due mesi, fino all’età di un anno; dopo l’anno di vita e fino al momento in cui saprà parlare, una volta ogni sei mesi69.
Questo regolamento fa in modo che venga esercitata a vantaggio di un morto una sovranità che egli avrebbe esercitato da vivo se il matrimonio fosse stato interrotto con un divorzio: il diritto di custodia esclusiva che egli avrebbe potuto delegare ad un terzo70, il diritto di visita concesso alla madre, una semplice tolleranza che l’editto limita strettamente. Ma non è su queste istituzioni educative che il nostro commento deve sof-
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fermarsi. Ritorniamo sul corpo materno, rispetto al quale sono state adottate queste misure di alta sorveglianza. Davanti alla realtà del parto, la finzione giuridica di un venter autonomo dotato di soggettività cede il posto al ventre della donna, alla matrice che nasconde un erede o dissimula un’impostura. «Custodire il ventre» significa ormai imprigionare la partoriente. Bisogna assicurare, con la costrizione, l’istante nel quale l’esercizio del diritto paterno – e non la sua rappresentazione anticipata – esige il passaggio all’atto. La matrice espelle il contenuto, in modo che la madre, reintegrata nella sua unità primitiva, viene liberata da una designazione che, in attesa della nascita, le conferiva lo statuto sia di ventre, che di portatrice di ventre: una alterità, una reversibilità in base alle quali il suo corpo, l’abbiamo visto, era diviso. Col suo frutto, la puerpera perde questa qualifica provvisoria: il venter abbandona la scena del diritto, la donna si riduce alla donna. Notiamo che qualsiasi costruzione giuridica della maternità si dispone intorno a due finzioni intermittenti. Col matrimonio, in primo luogo, la sposa riceve il titolo di madre, mater o matrona, «anche se non è nato ancora un figlio», perché «la speranza di diventare madre» è sufficiente a qualificarla in questo modo: un titolo legale del quale l’investe il matrimonio71: ma solo in maniera provvisoria, poiché la rottura del matrimonio le fa perdere il titolo di madre, anche se all’epoca del divorzio la donna lo era effettivamente divenuta: non c’è sposa senza madre, non c’è madre senza sposa72. La seconda finzione è quella del ventre, che è strettamente legata alla prima. Il nascituro del padre eleva la matrice ad istituzione giuridica: attraverso il ventre, la donna incarna al di là della dissoluzione del legame matrimoniale una funzione materna che si compie e si interrompe con il parto: cessando di essere o di portare il ventre, la donna smette di prolungare al di fuori del matrimonio una maternità dalla quale l’editto del pretore, nel modo più netto, la destituisce.
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Ecco perché il parto è un rituale giuridico. I gesti ostetrici descritti dai medici sono accompagnati dalla messa in scena di tutt’altro tipo di nascita, i cui attori sono ormai il padre e il figlio. Colui che doveva nascere abbandona la sua natura fisica di «parte della madre» e realizza la natura giuridica di figlio nato dal padre. Se fosse stato presente, quest’ultimo l’avrebbe sollevato e fatto mettere al seno della madre. Essendo morto, egli ha fatto conoscere, con le sue ultime volontà, chi sarà preposto alla custodia dell’erede. Sotto il regno di Marco Aurelio, un marito, ripudiato dalla moglie, sospettava che la donna fosse incinta di lui. Egli ottenne dall’imperatore un rescritto che l’autorizzava a far esaminare l’ex-moglie da tre ostetriche, e a farla affiancare da un custode fino al parto. Questa misura coercitiva, paragonabile a quello che prescriveva l’editto del pretore a proposito della vedova incinta, ispira ad Ulpiano il commento seguente: «il partus è parte integrante della donna, delle sue viscere. Ma, non appena viene separato da lei [plane post editum], l’uomo può, per suo proprio diritto [iure suo], reclamare suo figlio, facendo ricorso al divieto del pretore, chiedere di essere rappresentato, o portarlo via con sé. Allo stesso modo il Principe presta il suo soccorso quando la necessità lo esige»73. Il tema della portio mulieris, della pars viscerum evoca, ricordiamo, la concezione stoica secondo la quale l’embrione non è altro che méros tès gastros. Ma l’opinione embriologica comune serve in questo caso come punto di partenza per la formulazione giuridica della nascita come rottura assoluta. Il corpo indivisibile della madre – per questo motivo sorvegliato e costretto – apre la strada ai figli che anche il padre fa suoi. La finzione giuridica del ventre, ancora una volta, lo cede alla realtà di una fusione organica che il giurista accetta di considerare a sua volta quando l’opacità del passaggio dalla natura al diritto chiama in causa la costrizione del corpo ed esige di «istituire lo scarto tra il prima e il dopo»74, quando cioè diventa possibile qualificare il parto come un
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avvenimento di natura legale: la natura biologica lascia il posto a quella giuridica; l’embrione, al figlio; il corpo materno, al diritto paterno. Non confondiamo la violenza fisica di questo strappo con la scissione che il diritto ordina. La violenza fisica supera la perentorietà del diritto, e gli serve eventualmente da supporto immaginario. Il bambino nasce sporco di sangue: questo evoca un assassinio75. Vendere il neonato ad un terzo, prima che suo padre l’abbia riconosciuto e fatto suo, si dice: vendere «ex sanguine» o «a sanguine», appena uscito da un bagno di sangue76. Dalla nascita all’uccisione della madre: il bambino nato con parto cesareo è nelle condizioni che gli consentono di rompere il testamento di suo padre? Ed è nelle condizioni di ricevere l’eredità di sua madre uccisa dall’escissione77? L’etimologia di Cesare era ordinariamente associata al cesareo, cioè al matricidio per escissione: a matre caesa78. Nascita inquadrata come dissociazione, resa talvolta ancor più drammatica dalla morte della madre. Quando una regola di diritto pontificale vietava di inumare la donna gravida prima che fosse liberata dal frutto, non era solo perché bisognava salvare la «speranza di un essere vivente», così come ci spiega un giurista dell’epoca classica. Il commentario tenta di integrare ai canoni di una razionalità giurisprudenziale quello che altro non è che un tabù del diritto funerario: sarebbe stato necessario, per limitare la norma a questo fine, che la donna morisse quando era a termine, cosa che la legge non prevede79. Mi sembra ancora più adatto a chiarirne il senso questo detto antico, in riferimento all’etimologia di Cesare: di tutte le nascite, quelle che esigevano il taglio del ventre erano considerate di buon auspicio80. Se è al cesareo che il nome di Cesare doveva la felicità, possiamo credere che, dal momento che la venuta al mondo di un bambino si paga col sacrificio di una madre, la morte improduttiva di una donna doveva compensarsi con una nuova nascita: ecco il perché dell’escissione del frutto.
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«Fare violenza alle proprie viscere»: l’aborto Cosa succede se la donna sopprime il frutto del proprio ventre? L’aborto rientra sia a Roma che in Grecia nella giurisdizione penale, e bisogna capire precisamente il perché. Non basta constatare che la morale pubblica non vi poneva ostacoli perché, dal momento che già l’esposizione rappresentava uno sfogo, a fortiori l’interruzione di gravidanza non doveva essere denunciata. Il fantasma di uno sciopero della procreazione assillava i cittadini romani, così come i Greci: privare un marito di un erede sarebbe stato sufficiente a giustificarne la perseguibilità. Prima che la polemica cristiana imponesse – con tutte le difficoltà ed i compromessi che abbiamo visto – l’idea che il feto vivesse a partire dal quarantesimo giorno e che la sua soppressione potesse essere qualificata come omicidio, l’aborto era stato regolarmente denunciato come un danno causato al cittadino privato di una discendenza81. Ora, gli uomini dell’antichità non si sono dati i mezzi per formulare penalmente questa preoccupazione. Li vediamo confessare la loro paura, ma anche la loro impotenza. Musonio Rufo, che insegnava la filosofia stoica a Roma verso la metà del I secolo d.C., era divenuto il cantore dei matrimoni fecondi e di una morale favorevole all’aumento della popolazione. Un fatto, questo, che le riforme matrimoniali di Augusto avevano rilanciato di moda. In un trattato intitolato Sul dovere di allevare i figli, che si legge nell’antologia di Stobeo, egli cita la decisione dei «nomateti che, ansiosi di accrescere le famiglie a vantaggio dello Stato, vietarono alle donne sia di abortire, che di usare contraccettivi»82. Se Musonio, così come sembra indicare un’opera attribuita a Galeno, pensava a Licurgo e a Solone83, la cauzione politica che invoca è falsificata. Nessuna tradizione attribuisce al legislatore ateniese il minimo intervento in questo ambito. Quanto a Licurgo, Plutarco racconta che, di fronte alla minaccia che sua cognata
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abortisse – che di fatto gli avrebbe impedito di diventare reggente del nipote – il grande uomo finse di consigliarle di risparmiare il suo corpo e di lasciar procedere la gravidanza fino al termine, a costo di esporre il neonato: fingendo complicità, egli ingaggiò delle assistenti e dei custodi – parédrous kai phulakas84. Il bambino, così, nacque e fu salvato. La furbizia di Licurgo equivale esattamente a ciò che i Romani avevano regolamentato con il nome di ‘custodi del ventre’. Non basta fare un repertorio delle pratiche. Anche le credenze etiche si limitano a fornirci delle ragioni apparenti. Non esitiamo a formulare la questione nel diritto: perché, minacciati da queste pratiche femminili, gli uomini dell’antichità non seppero immaginare altro che soluzioni di fortuna? Cosa significa il silenzio della legge o, per dirla diversamente, l’incapacità delle città, l’incapacità di Roma di passare dalla paura al divieto? Una tradizione riportata da Ovidio e forse da Varrone, attraverso le Questioni Romane di Plutarco, ci mostra i senatori romani costretti ad annullare la loro decisione di privare le donne dei veicoli a ruote: le matrone avevano risposto a questa misura con uno sciopero delle gravidanze e con degli aborti85. La capitolazione dei patres ci aiuta a circoscrivere meglio la questione che si pone nel diritto. Eliminiamo dal dibattito il pregiudizio causato da terzi. Provocare l’aborto ad una donna causa direttamente un danno sia al suo padrone che al marito. I giuristi espongono soprattutto i casi di serve gravide che hanno perso il loro frutto in seguito a colpi ricevuti: sul padrone ricadevano i danni e gli interessi a titolo del deterioramento (ruptum) della schiava86. La sua morte sarebbe sicuramente stata ricompensata dall’integrità del suo prezzo. Trattandosi della sposa, si può pensare all’esercizio di un’azione legale per ingiurie. La nozione di iniuria ricopriva grosso modo tutti gli attentati all’integrità corporea, gli attentati al pudore e le offese alla reputazione. Ora, «è al marito che spetta esercitare, in suo nome, l’azione
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per ingiurie quando l’iniuria è stata subita dalla moglie»87. Se la sposa fosse morta in seguito a queste operazioni abortive, l’interessato sarebbe ricorso a colpo sicuro ad un’accusa di omicidio o di avvelenamento, a seconda del procedimento utilizzato (meccanico o farmacologico)88. Con un’interpretazione estensiva della legge sugli avvelenamenti, filtri d’amore (amatorium) e pozioni fecondanti (medicamentum ad conceptionem), questi venivano considerati come venenum quando la paziente moriva assumendoli: l’esperta che aveva confezionato queste bevande subiva allora la relegazione89. A fortiori bisogna pensare ad una pena equivalente, quando l’esperta aveva fatto ingerire alla sua vittima le sue preparazioni abortive o anticoncezionali. Ma il problema non è quello del ricorso del marito contro terzi responsabili. Ciò che bisogna capire, è l’assenza di leggi contro la moglie: il diritto si astiene dal qualificare l’atto in base al quale la sposa di un cittadino priva quest’ultimo di un erede. Sappiamo già che il nascituro non è individuato come soggetto umano. Si ricordano le difficoltà che ebbero i cristiani a pensarlo in quanto tale. Alle parole dell’apologeta Tertulliano: «Il feto è un essere umano» si oppongono radicalmente quelle del giurista Papiniano: «non si può considerare che prima di nascere l’embrione sia stato un uomo»90. L’unica individualità che gli viene riconosciuta è quella che si elabora con la nozione giuridica di venter: figlio nascituro di un morto, erede a titolo postumo. Il bambino che la matrice porta non esiste come essere vivente singolo: ma, per anticipazione sulla sua nascita che ne realizza l’idea, egli è dotato di una finzione di autonomia definita in rapporto alla sua ascendenza maschile e alla sua eredità paterna. Questa astrazione giuridica, confortata da una serie di istituzioni (invio al possesso del ventre, curatore al ventre, alimenti versati al ventre, ecc.) viene contraddetta tuttavia dall’esistenza fisica della madre che porta dentro di sé nient’altro che una sua parte. L’astrazione del venter richiede
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in qualche modo che la madre sia assente dalla scena del reale: che essa non venga neanche pensata. Invece, quando la donna è presente ed agisce, le categorie giuridiche sono incapaci di controllarla. Diventano necessari allora il concorso dei custodi del ventre, la prigione nella quale la partoriente viene chiusa, in pratica quelle misure coercitive che non hanno più nulla a che fare col corpo. L’opacità del corpo materno rispetto al diritto impedisce il suo sequestro in base alla legge criminale. Una donna che abortisce arreca danno solo a se stessa. Un testo di Cicerone distingue in maniera netta la violenza che la sposa di Magio esercitò contro se stessa quando, essendo incinta «fece violenza al suo corpo… e si torturò» (illa suo corpori vim attulisset… se ipsa cruciavit), dal duplice omicidio che commise Oppianico quando, avvelenando la cognata incinta del fratello del quale voleva l’eredità, egli raggiunse questo stesso risultato «attraverso la morte e la sofferenza inflitti al corpo altrui» (per alieni corporis mortem atque crutiatum): solo nel caso di Oppianico è stata trovata l’espressione «uccidere più persone, in un solo corpo» (qui in uno corpore plures necaret)91. «Più persone in un solo corpo»: così si definisce la donna incinta secondo il diritto civile. Essa contiene minimo un erede, al massimo tre. Oppianico annientò questi eredi presenti in lei92, prima di abbattere suo fratello per accaparrarne la successione: questo omicida priva un cittadino contemporaneamente della sua discendenza e della sua sposa, e poi lo ammazza. Completamente diverso è il caso di Magia, una delle numerose donne romane che, quando sopprimono il frutto del loro ventre, attaccano solo le proprie viscere, col rischio di uccidersi93. Questa rappresentazione sopravvivrà anche alla polemica cristiana, che continuerà ad associare aborto e suicidio: in Tertulliano così come nei canoni dei Padri Greci, una donna che abortisce volontariamente continua ad essere una donna che si dà la morte, o che accetta il rischio di darsela94.
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La prima sanzione pubblica appare verso il 200 della nostra era, in un rescritto degli imperatori Settimio Severo e Caracalla. Contro la donna incinta che, dopo il divorzio, interrompe volontariamente la gravidanza, i principi raccomandano di pronunciare l’esilio temporaneo. Misura di circostanza, in un primo momento, decretata dal governatore di provincia su richiesta del marito: il registro repressivo non è quello del diritto, ma quello della coercizione amministrativa: «gli imperatori hanno risposto con un rescritto che la donna avrebbe subito la costrizione [coerceatur] di un esilio temporaneo»95. In seguito, la pena non viene qualificata nello specifico. Lo stile della cancelleria continua a presentarlo come un atto di automutilazione: «se, dopo il divorzio, una donna incinta ha usato violenza contro le sue viscere…»; «se viene stabilito che una donna ha usato violenza contro le sue viscere per espellerne il frutto…»96. Visceribus suis vim inferre: ai colpi che la donna si infligge risponde ora una pratica repressiva, che viene opportunamente a completare il tradizionale arsenale della prevenzione. Infatti, con la ferita che si infligge, la sposa froda il marito. Tuttavia, questa conseguenza non appartiene alla definizione stessa dell’atto, essa è assente dal dispositivo del rescritto. Solo l’esegeta chiarisce ciò che è implicito, in una glossa che completa il testo: «può in effetti apparire iniquo che la moglie abbia impunemente privato [fraudasse] di figli il marito»97. La rappresentazione giuridica del figlio nella matrice resta immutata, malgrado gli avanzamenti delle forme di costrizione sul corpo. Da un lato c’è il corpo materno, dall’altro il diritto paterno. La donna incinta è indivisibile e, in qualità di corpo, appartiene a se stessa: non potendo far nulla per dividerla tra se stessa e il bambino di un altro, il diritto cede il passo alle misure coercitive, alla forza esterna. Tutt’altra cosa è l’uso del diritto come finzione: quando il padre muore, il ‘ventre’ assume lo statuto di postumo; al posto ed in nome
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della matrice, viene istituito il figlio del padre – aspettando che al momento del parto le procedure di controllo assicurino la realtà dell’artificio. Incarnare l’assenza del padre Padre morto o padre allontanato: questi sono i casi limite rispetto ai quali si inscena l’alternativa tra la finzione del ventre e la coercizione sul ventre, tra l’assoluta potenza del diritto che si sostituisce al reale e l’assoluta presenza del reale inaccessibile al diritto. In pratica, l’alternativa tra i due valori del venter. Ma ecco il padre vivente e presente come marito della madre. Gli ingranaggi del diritto sono pronti ad investire la sua vita. Il bambino nasce. Nel momento in cui egli viene separato dal ventre, si afferma su di lui il potere paterno. Il padre ne viene investito a pieno titolo, anche se non dovesse sapere di questa nascita98. Questo potere gli deriva dalla città – poiché esso viene concepito come una delega – e si perde solo con o attraverso la città: rottura del legame civico, o rottura del legame domestico stabilita dalla legge civile99. Tale potere non si estingue per prescrizione, né si acquisisce per uso. In questo senso, lo vediamo fin dal codice dei decemviri (450 a.C.), specificato in opposizione sia al potere occasionale esercitato sullo schiavo, sia al rapporto discontinuo con una figlia. La figlia di famiglia passa da una sfera domestica all’altra sulla base di un accordo tra privati; il possesso esercitato su di lei per la durata di un anno da parte di un terzo le farebbe cambiare statuto100: qualsiasi modifica statutaria del figlio esige al contrario la forma di un mediazione civica, ed il tempo che passa non altera il legame incorruttibile che la mantiene in potestate. Il padre viene quindi investito giuridicamente del suo potere sui figli. Ciò avviene nel momento preciso nel quale termina l’ufficio del ‘ventre’. Sulla scena del diritto civile, la madre si
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presenta con questo unico appellativo. Nel momento in cui la madre non può più figurare in questo modo, non si parla più di qualcosa che la riguarda. Non esiste diritto materno: né potere, né vocazione successoria legittima, né trasmissione del nome. Una donna si definisce nel diritto come un soggetto incapace di trasmettere. Così come viene enunciato da un aforisma di Ulpiano: «la donna è l’inizio e la fine della propria famiglia». Caput et finis: un segmento101. Poiché qualsiasi trasmissione avviene in linea maschile, spetta al padre far nascere il figlio. In primo luogo, in virtù della finzione in base alla quale il figlio «è nato dal padre»: una formula, questa, che non rinvia alla procreazione, poiché nascere non significa generare, e perché la formula «nato dal padre» appartiene al dispositivo della legge di adozione102. Successivamente, in virtù di un rito che supera il meccanismo giuridico e ce ne spiega il significato. Il padre solleva il bambino da terra e, così come recita un verso di Ennio, «egli lo porta al petto». Facendo questo, egli realizza una funzione che, nella teoria delle divinità femminili specializzate sulla nascita, serve eccezionalmente un dio maschio: Giove, il Dio-Padre103. Non è all’uscita dal ventre che il bambino riceve l’accoglienza femminile delle levatrici, delle nutrici, della madre: il primo bagno, l’olio che viene strofinato sul suo corpo, il fuoco che si prepara per lui, le fasce e la culla, il latte che lo nutre104. Non appena espulso dalla partoriente lasciata seduta sulla sedia ostetrica, il neonato viene messo a terra. La levatrice valuta allora se è vitale. Conformità fisica minima del cittadino, poiché è al De vita populi romani di Varrone che dobbiamo in particolare questa notizia: «Il bambino nato vivo veniva sollevato dall’ostetrica e poi deposto a terra, per verificare che il suo corpo fosse conforme» (ut aspiceretur rictus esse)105. Ma, di quest’esame, solo il padre era giudice; successivamente egli sollevava il bambino, o l’esponeva. Il sollevamento era seguito dall’ingiunzione di nutrirlo, l’abbiamo visto, o al contrario dal
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ripudio e dal rifiuto di lasciarlo vivere. I testi sono abbastanza numerosi e concordanti da lasciarci ricostruire le tappe di un rito che fu praticato su Cicerone, su Augusto, su Nerone, e del quale gli autori del III e del IV secolo ci informano ancora106. A terra, il bambino è nudo: a questo freddo contatto sono talvolta associati il suo primo grido e i suoi primi vagiti107. Ma cosa significa sollevare (tollere)? Evitiamo interpretazioni esageratamente simboliche, soprattutto quando tali interpretazioni assegnano alla preistoria del gesto un significato che i documenti storici riservano alla sua storia e, ancora meglio, alla sua storia civica. È un fatto gratuito scorgere in questo gesto una traccia del passaggio dal matriarcato al patriarcato, e ancor più di spingere il primitivismo fino a voler cogliere quel momento (modalità temporale di una essenza) in cui l’umanizzazione si sarebbe manifestata nella verticalità: sollevare, scrive una antropologa, significa raddrizzare, costringere il corpo alla postazione eretta, dare lo statuto di umano al bambino nato108. Evidentemente niente è impossibile, ma il probabile è quantomeno preferibile. Rimaniamo quindi all’interno della cultura dalla quale questi testi provengono. L’antropologia può impossessarsi di molti aspetti riportati nei testi, a condizione che vengano prima tradotti e compresi. Tollere liberos designa contemporaneamente il gesto di sollevare il bambino da terra ed il suo equivalente giuridico, espresso con questa metafora; poiché «sollevare il bambino» significa anche «acquisire il potere paterno»109. Poco importa d’altronde che il diritto sia stato una conseguenza del rito, o che l’evocazione del rito sia stato soltanto un modo per designarlo. Resta l’essenziale: il gesto primordiale è un gesto maschile. Esso è inseparabile dalla più romana delle istituzioni, la patria potestas. Sul suo modello, gli annalisti forgiarono il racconto della seconda nascita dei gemelli primordiali: dopo essere stati esposti e poi allattati dalla lupa, Romolo e Remo vengono raccolti dal pastore Faustolo, che li consegna alla sua sposa per farli nutri-
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re110. Così come il padre legale, il padre che nutre compie un gesto che ammette il suo contrario: sollevare e far mettere al seno è una delle due opzioni, mentre l’altra consiste nel deporlo e abbandonarlo alla fame. Nella fattispecie, i gemelli conobbero entrambe le sorti: ognuno sa che essi dovettero la loro sopravvivenza alle mammelle offerte al Lupercale. Ma a questa prima maternità puramente animale e legata al nutrimento si oppone la maternità umanizzata, romanizzata, della sposa alla quale lo sposo consegna i bambini che aveva preso. Nessuno meglio di Ovidio ha saputo accordare la violenza delle immagini alla rappresentazione di una maternità lasciata alla sua natura, quando il bambino nasce senza padre. Non appena «scivolato fuori dal ventre impuro di sua madre», Ibis tocca il suolo dal quale nessun maschio lo solleverà. Sul suo corpo si sporgono gli animali notturni e le Eumenidi inferocite: maternità terrificante e lugubre, che lascia il bambino inchiodato alla terra dove giace come in una tomba. Le sue labbra sono umettate da latte di cagna, ed il luogo risuona dei suoi latrati111. Tollere liberos: istituzione paterna, istituzione civica. Il figlio nato dal corpo materno viene integrato dal padre nei suoi diritti e, a partire da questo, nella città. Lasciamo parlare Cicerone, nell’opera Sul responso degli Aruspici: «È ai nostri genitori, agli dei immortali e alla patria che la natura ci ricongiunge. Poiché nello stesso momento in cui veniamo sollevati verso la luce del giorno, riceviamo il soffio celeste e siamo inscritti in un posto preciso nella città»112. Parentes, dei e patria collaborano alla nascita del cittadino. I primi sollevano i loro figli, gli dei insufflano loro l’anima, la città impartisce loro lo statuto. Notiamo l’associazione di parentes con patria: il valore maschile di parens viene raddoppiato. Per questa iniziazione alla vita e alla città ricevuta non appena uscito dal corpo materno, il bambino non ha altro ‘genitore’ all’infuori di suo padre. Si capisce che il postumo sia stato una figura ossessiva nella casuistica romana. In assenza di colui che la incarna, la paterni-
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tà viene pensata attraverso la madre sdoppiata, un corpo che contiene qualcosa di incorporeo che le è estraneo. Quando era incinta di Augusto, Azia vide in sogno le sue viscere dispiegarsi fino alle stelle, arrotolarsi intorno all’universo, mentre al suo fianco, in un sogno distinto, Ottavio assisteva al sorgere di un sole che spuntava dalla matrice della sposa. La nascita di un imperatore rivestiva per la madre l’immagine del suo corpo che si dilatava all’infinito; nel sogno paterno, la stessa nascita veniva annunciata dall’apparizione di un corpo celeste, «uscito dal ventre di Azia»113.
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Note * Questo saggio è apparso in “Le genre humain”, n. 14, 1986. Traduzione di Maria Rosaria De Rosa. 1 Festo, p. 248 L: «si chiama partus colui che deve nascere, e colui che è pronto a farlo». Cfr. Plinio, N.H. 7, 5, 40. Digesto (d’ora in poi Dig.) 25, 4, 1, 1: «dopo che il partus viene totalmente separato dalla donna». Con il significato di bambino vivo: Dig. 1, 5, 12; Aulo Gellio, N.A. 3, 16, 12. 2 Condizione sospensiva per i diritti del nascituro, risolutoria per i terzi (eredi di rango inferiore) i cui diritti decadranno alla nascita del postumo. 3 Così viene riportato in Tito Livio I, 34, 3: Demarato muore nell’igno-
ranza che « sua nuora fosse incinta» nurum ventrem ferre: Venter indica in questo caso il postumo trascurato nel testamento. 4 Rispettivamente; Dig. 28, 3, 3, 5 e 29, 2, 84. La clausola di diseredazione «postumus exheres esto» non è valida, cfr. anche Dig. 37, 9, 1, 6-7: venter exheredatus, venter praeteritus. 5 Dig. 25, 4, 3: qui ventri substitutus est. 6 Rispettivamente, Dig. 38, 16, 3, 9; 37,1, 12. 7 Dig. 29, 2, 30, 1. 8 Dig. 5, 4, 3: eodem gradu sunt ceteri quo et venter; cfr. 38, 16, 3, 9. 9 Si tratta di una questione affrontata in diversi testi, tra i quali Paolo, Dig. 5, 4, 3: «per conservare i propri diritti al venter, gli antichi li hanno riservati per intero fino alla nascita. Allo stesso modo, quando si tratta del diritto successorio dei parenti situati ad un grado di agnazione inferiore a quello di colui che è nell’utero: non sono ammessi alla successione fino a che si ignora se il bambino nascerà. Se si tratta invece di parenti allo stesso grado di agnazione rispetto al ventre, gli antichi domandavano quale parte della successione dovesse restare in sospeso, visto che quei parenti non potevano sapere quanti bambini sarebbero venuti al mondo. Su questa materia, esistono molti esempi vari e incredibili, ecc.». Si veda anche Dig. 5, 1, 28, 5; 29, 2, 30, 6; 34, 5, 8; 38, 16, 10; 46, 3, 36. Gli ‘Antichi’ sono gli interpreti del diritto civile. Il problema dei postumi viene posto già a
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partire dalla legge delle XII tavole del 450 a.C. (cfr. Aulo Gellio, N. A. 3, 16, 12 e Dig. 38, 16, 3, 9: una regola che fissa a dieci mesi il termine massimo della gravidanza della vedova). 10 Questa soluzione sembra ammessa da Giuliano, Dig. 46, 3, 36. Contra, Ulpiano, Dig. 29, 2, 39, 6. Gaio, Dig. 34, 5, 8, scrive a proposito di quest’esempio che «oltre ai parti triplici, siamo di fronte ad un prodigio». Un fenomeno del genere non è un’invenzione di scuola, infatti ci fu un testimone, cfr. Dig. 5, 4, 3: «Lelio scrisse di aver visto con i propri occhi, nel palazzo dell’Imperatore, una donna libera portata da Alessandria per essere mostrata ad Adriano, perché aveva messo al mondo quattro figli con un solo parto, ed un quinto figlio quaranta giorni dopo». 11 Parti fenomenali vengono riportati da Paolo, Dig. 5, 4, 3. Numerosi esempi sono riportati anche in Plinio, N.H. 7, 33 e 48-49. Si veda il caso di scuola discusso da Trifonino, Dig. 1, 5, 15: «Arescusa viene liberata per testamento a condizione che metta al mondo tre figli. Da un primo parto, ella mette al mondo un figlio; da un secondo parto, tre figli. Domanda: quale di questi figli è nato libero? È necessario che la condizione posta alla libertà dal testamento sia rispettata dalla donna: non si possono quindi avere dubbi sul fatto che l’ultimo nato sia libero. Infatti, siccome la natura non permette che due bambini escano contemporaneamente dall’utero della madre, è impossibile non sapere, malgrado l’ordine incerto delle nascite, quale di questi figli è nato in schiavitù e quale in libertà. Dal momento in cui ha inizio il parto, la condizione testamentaria ha per effetto che l’ultimo figlio sia nato da una donna libera». 12 Soluzione ammessa da Sabino e da Cassio (Dig. 5, 1, 28, 5). Cfr. Dig.
5, 4, 3.
13 Ulpiano, Dig. 5, 4, 4 – che contraddice apparentemente quanto indicato in Dig. 29, 2, 30, 6. 14 Giuliano, Dig. 46, 3, 36. L’opinione citata di Aristotele proviene da Hist. Anim. 7, 4, 36. 15 Si veda Dig. 25, 4, 1, 1, testo commentato infra. 16 Esistono numerosi testi sotto la voce De ventre in possessionem et curatore eius (Dig. 37, 9). 17 Dig. ibidem. 18 Venter indica il nascituro – in particolare postumo – in Dig. 5, 4, 3;
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25, 4, 3; 25, 5, rubrica (Editto, §119), 25, 6, rubrica (Editto, §120); 28, 3, 3, 5; 29, 2, 30, 1; 29, 2, 84; 37, 1, 12; 37, 9, 8, 10; 37, 9, 1, 14. 19 Parens nel senso tecnico di partoriente: Plinio, N.H. 7, 9, 47. Solino,
Collectanea I, 68. Nel senso giuridico di padre o di ascendente in linea maschile diretta, fino alla terza generazione al di sopra del soggetto: Editto del Pretore §154: si a parente quis manumissus sit (si veda Dig. 37, 12, 1, 1-2). In Gaio, II 131, parens indica il titolare della patria potestà. Quando parens ingloba la madre, i giuristi ci tengono a precisarlo: così in Dig. 50, 16, 51 e soprattutto Festo 151 L: masculino genere parentem appellabant antiqui etiam matrem. 20 Isodoro, Etym. 9, 5, 4. Su questa formulazione classica dei ruoli del
maschio e della femmina, si veda Aristotele, Sulla generazione degli animali, II, 4 (740 b) e IV, 1 (766 a-b): il maschio è principio e causa (archè, aition), e la femmina materia (hulé), nel senso che lo sperma opera la cottura del «nutrimento sanguigno» e, da qui, scatena il movimento. Cfr. Plinio, N.H. 7, 15, 4: «il sangue mestruale è la materia dell’essere da generare; il seme fornito dal maschio, agendo come un lievito, l’arrotonda su se stesso; in seguito questa massa, col tempo, si vivifica e prende corpo» (trad. Littré). 21 Su questo «gioco incrociato di funzioni parentali» mi riferisco a P. Legendre, L’inestimable objet de la transmission. Étude sur le principe généalogique en Occident, Paris, 1985, pp. 330 sgg. 22 Editto del Pretore §147: ventrem cum liberis in possessionem esse iubebo. Si veda Dig. 37, 9, 1, 8: uxor eius praegnas… mittenda est; ivi, 14: si ea, quae in possessionem vult ire…; ivi. 17; 37, 9, 8. 23 Ulpiano, Dig. 37, 9, 1, 10: «a giustissimo titolo, il pretore non fa menzione della sposa». 24 Rispettivamente: Ulpiano, Dig. 37, 9, 1, 1 pr. (formulazione più fre-
quente); 37, 9, 1, 8; 37, 9, 8.
25 Venter, negli autori, designa eccezionalmente il feto solo nel conte-
sto del diritto successorio (l’abbiamo visto in Tito Livio 1, 34, 3). In Quintiliano, Decl. 277 (vedi in G. Lehnert, 1905, p. 132), si dice che una donna incinta colpevole di adulterio abbia «causato danno al suo ventre» – ventrem suum molto di più che a suo marito: è probabile che venter indichi in questo caso il figlio. Devo segnalare infine, per completezza, Orazio, Epod. 17, v. 50 : «Tuusque venter Pactumius», che può tradursi: «il tuo ventre
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ha portato Pactumius», oppure: «Pactumius, tuo figlio». Non conosco altre eccezioni alla regola di impiego che ho formulato. Ferre ventrem si dice solo per gli animali (così in Varrone, Res rusticae 2, 1, 19: Equa ventrem fert duodecim menses, vacca decem…; cfr. Plinio, N.H. 8, 151: gerunt uterum sexagenis diebus). In Tacito, Ann. 1, 59, «subiectus servitio uxoris uterus» deve tradursi letteralmente: «la matrice della sposa ridotta in cattività» – a causa di un rapimento. Nel Digesto, uterus equivale solo due volte a venter inteso come ‘nascituro’ (9, 1, 13 e 38, 16, 3, 9): in tutti gli altri casi, esso indica la matrice. Il lessico giuridico è quindi perfettamente operante. 26 Giovenale, Sat. 6, 124: ostenditque tuum, generose Britannicum, ven-
trem.
27 L’aborto provocato da colpi involontari era previsto in Ex. 21, 22. La Vetus latina versio traduce: si litigabunt duo viri et percusserint mulierem in utero habentem (si veda il commento di Agostino, quaestiones Exodi LXXX, in Corpus christ. S. L. XXXIII p. 110). ‘Prendere a pugni’ una schiava gravida dava diritto ai danni e agli interessi della legge Aquilia (Dig. 9, 27, 22). Questa pratica di aborto, legata talvolta all’omicidio della donna, viene frequentemente attestata. Per la Grecia, nello specifico, con un'allusione ad un discorso di Lisia ‘sull’aborto’, il caso di un anonimo (in Walz, Rhetores graeci VII, p. 15): «se un uomo colpisce al ventre una donna incinta e viene ad essere accusato di omicidio». Noi sappiamo che Nerone uccise Poppea incinta a furia di calci nel ventre (Svetonio, Nerone 25; cfr. Tacito Ann. 16, 6), cfr. Seneca, Contr. 2, 5, 7: caedere ventrem, per impedire a un tiranno di nascere. S. Cipriano (Epist. 52) racconta che un prete aveva ucciso sua moglie incinta colpendole il ventre a calci (uterus uxoris calce percussus). 28 Tacito, Ann. XI, 38. Sulla rappresentazione del femminile attraverso
le Façons tragiques de tuer une femme, rinvio al testo pioniere di N. Loraux, Paris, 1985 (trad. it. Come uccidere tragicamente una donna, Roma-Bari, Laterza, 1988). 29 Galieno, péri spermatos I, 9 (Kühn t. IV, pp. 542 sgg.) che segue l’embriologia di Ippocrate: al quarto stadio dell’evoluzione, il feto possiede tutte le sue membra ed è articolato; esso non è più embryon ma paidion. Allo stesso modo, péri trophès IV, 4 (Kühn t. XV pp. 402 sgg.). Al completamento delle membra, alle ramificazioni esteriori (unghia, capelli), viene associato il movimento: Ippocrate, péri physios paidiou XXI, 1 (Budé, ed. R. Joly, p. 67). Sui primi temi riconoscibili nell’embriologia greca, si veda
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P.M. Schuhl, in “Revue de l’histoire des sciences”, t. 5, 1952, pp. 197 sgg. E.Y. Bollack, Empédocle I, 1965, pp. 240 sgg. 30 Esposizione delle diverse opinioni nel péri trophès IV, 42. Allo stesso
modo, il terzo commento al libro II sulle epidemie di Ippocrate in Kühn XVII, 1, pp. 447 sgg. E soprattutto Censorino, De die natali, cap. 11.
31 Ippocrate, péri physios paidiou, 18 (Budé p. 60). Galeno, péri spermatos
2, 5 (Kühn IV, p. 631).
32 Giuramento di non prescrivere mai farmaci mortali o pessari abor-
tivi (Kühn XXI Hipp. Op. t. 1, Horkos, p. 2). Si veda la posizione di Aristotele nella Politica 7, 16, 1335 b 1. 19-26: l’aborto viene raccomandato quando il numero della popolazione fissato per la città rischia di essere superato: controllo pubblico delle nascite (paragonabile a quello che sembra prescrivere Platone, Repubblica V, 461c) ma limitato al principio della gravidanza, «prima che la sensibilità (aisthesis) e la vita non sopraggiungano nell’embrione». Non si può dedurre da questa regola, che la città si impone, l’esistenza di divieti sugli aborti decisi in quadro familiare privato. Sull’aborto nel mondo antico, si veda E. Caillemer, “ambloseôs graphè”, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines; Hartmann, v. “abortio”, Realencyclopādie I, 1, coll. 108 sgg.; Fr.J. Dolger, Das Lebensrecht des ungeborenen Kindes und die Fruchtabtreibung in der Bewertung der heidnischen und christlischen Antike, in “Kultur u. Religionsgeschichtlische Studien”, IV n. 1, 1933. Soprattutto si veda E. Nardi, Procurato aborto nel mondo Greco-romano, Milano, 1971, molto prezioso per i testi citati, che però sono presentati con un ordine puramente cronologico, con categorie confuse, e senza la minima analisi tematica: a partire da questa raccolta, il lavoro resta totalmente da fare. 33 Radicale è la posizione di Tertulliano, De anima 25, 2: «l’anima è raccolta nell’utero e si sviluppa in collegamento con la formazione della carne»; 27, 1: «le sostanze del corpo e dell’anima sono costruite insieme, o l’una precede l’altra? Sono vere entrambe le cose, in verità, insieme esse vengono raccolte, elaborate e perfezionate»; 27, 3: «noi sosteniamo l’esistenza dell’anima a partire dal momento del concepimento». Da qui deriva la qualifica di homicidium attribuita alla soppressione dell’embrione (Apologeticum 9, 8. Qualifica di parricidium in Minucio Felice: Ottavio 30, 2). Nonostante ciò, gli autori cristiani ammettono in generale che l’anima si introduce solo nel corso dello sviluppo embrionale. Si vedano note da 36 a 38. 34 Ex. 21, 22.
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35 Septuaginta (edizione a cura di A. Rahlfs, Stuttgart, 1935), Ex. 21, 22:
«se il bambino viene espulso quando non è ancora formato» (mè exeikonismènon) bisognerà pagare un’ammenda «versata al marito della donna, dopo una stima»; 23: «se al contrario il bambino fosse formato (ean de exeikonismènon) il colpevole pagherà anima per anima…». Sul significato di exeikonismènon riferito all’aspetto umano, cfr. l’interpretazione della norma data da Cirillo di Alessandria (Migne, P.G. 68, col. 545): «si dice che, nell’utero, l’embrione che ha una forma umana (anthropoiedes) si distingue appena e arriva a somigliare al nostro corpo (kath’ hèmas sômatos) solo dopo il quarantesimo giorno». Allo stesso modo, Teodoreto di Cirro Quaest. in Exodum interrog. 48 (Migne, P.G. 80, col. 272). 36 Filone d’Alessandria, De specialibus legibus III, 108 (commento alla versione Alessandrina di Ex. 21, 22): «se nel corso di una rissa un uomo colpisce il ventre di una donna incinta causandone l’aborto, egli pagherà un’ammenda se il feto espulso è incompleto e informe…; ma se il feto si rivela conformato, cioè munito di tutte le membra, ognuna al suo posto e con le proprie qualità…». Commento tradotto da Agostino (quaest. in heptateuchum libri VII, 1, 2 quaest. Exodi LXXX in Corpus christianorum S.L. XXXIII pp. 110 sgg.) e compilato nel decreto di Graziano (Causa XXXII, quaestio 2, c. 8). 37 Tertulliano, De anima 37, 2: ex eo igitur fetus in utero homo, a quo forma
completa est. Cfr. Girolamo, Ep. 121, 4: et tam diu non reputatur homicidium donec elementa confusa suas imagines membraque suscipiant… «non si ammette che ci sia un omicidio prima che i primi elementi escano dalla confusione per acquisire la loro apparenza [umana] e le loro membra». Agostino distingue anche tra feto formato e non formato: così, l’embrione ha accesso alla resurrezione solo se era già formatus alla morte di sua madre (Enchiridion 23, 85 in Bibliothèque Augustinienne, œuvres de St Augustin, Opuscules, IX ed. J. Rivière, p. 256). Questa distinzione viene generalmente rifiutata dai Padri Greci: Basilio di Cesarea in Joannou, Les Canons des Pères Grecs, Grottaferrata, 1963, II, p. 99: «chez nous, on ne distingue pas entre qui est formé et qui ne l’est pas». 38 Questo termine era considerato da Galeno come quello oltre il quale si distinguono le membra, almeno per i maschi (sur le foetus de sept mois, Littré VII, p. 448). Cfr. Aristotele, Hist. anim. 7, 3, 4: momento della differenziazione per il maschio (anche Plinio, N.H. 7, 41). Questo è precisamente, a proposito della versione alessandrina di Esodo, il termine considerato da Filone (primo secolo d.C.) per gli embrioni ‘formati’: De
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vita Mosis 2, 84. Si ritrovano questi stessi quaranta giorni in Cirillo d’Alessandria, all’inizio del V secolo (citato supra nota 35); in Massimo il confessore, che combatte questa tradizione nel VII secolo (Migne P.G. 91, col. 1340). Pertanto, ella dovrà subire alcune penitenze (Capitula Theodori, citato da I. Palazzini, Ius fetus ad vitam eiusque tutela in fontibus ac doctrina canonica iusque ad seculum XVI, Urbaniae, 1943, p. 92: pena di tre anni, come per gli omicidi, quando l’aborto viene praticato oltre il quarantesimo giorno). 39 Ps. Plutarco, De Placitis philosophorum 5, 15 (“Ei to embryon zoon”, se
l’embrione è un essere vivente, = Ps. Galeno, id., Kühn XIX, p. 330). Si veda E. Nardi, Procurato aborto nel mondo greco-romano, pp. 206 sgg. 40 Varrone, citato da Lattanzio, De opificio Dei 17, 5. L’opinione di Crisippa viene riportata da ps. Plutarco, De stoicorum repugnantiis 41, 1: «egli pensa che il feto sia per natura nutrito nell’utero come una pianta; in seguito, una volta uscito, raffreddato dall’aria, egli modifica la sua respirazione e diventa un essere vivente : ecco perché non è sbagliato dire che la parola “anima” – psychè – deriva da raffreddamento – psyxis». Allo stesso modo, Diogene in ps. Plut. De placitis philosophorum 5, 15, 4 (to psycron). 41 Lucrezio, De natura rerum III, rispettivamente v. 670, 680 sgg; 689, cfr. 722: extrinsecus insinuari animas. 42 Tertulliano, De anima 25, 2, 6; Lattanzio, De opificio Dei 17, 6 sgg. 43 Tertulliano, De anima 25, 2. 44 Codice Giustinianeo, 6, 29, 3, che riporta un dibattito del I secolo. 45 Dig. 25, 4, 1, 1. 46 Dig. 1, 5, 28; 39, 16, 6-7. In natura esse si oppone a in rebus humanis esse (Dig. 37, 9,1 pr. E 7 pr.). 47 Marcello, Dig. 11, 8, 2; cfr. Gaio, Inst. 2, 131 (si mulier, ex qua postumus
aut postuma sperabatur); Paolo, Dig. 50, 16, 231 (quod dicimus eum, qui nasci speratur, pro superstite esse…). Cfr. Virgilio, Aen. I, 504, e la glossa di Servius auctus, ibid. 48 Dig. 1, 5, 26. 49 Galeno, “Ei zôon to kata gastros” (se colui che è nell’utero è un essere
vivente), cap. V (Kühn XIX, pp. 178 sgg.)
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50 Musonio, in Stobeo, Antologia IV, 24 a 15 = papiro Rendel Harris I (pubblicato da J. Enoch Powell, I Aufsätze. Musonius Rufus “Ei panta ta ginomèna threptèon” in Pap. Harr. 1, in “Archiv für Papyrusforshung und verwandte Gebiete”, XII, 1937, pp. 175 sgg. 51 Sono molto numerosi i testi in Dig., 5, 2: de inofficioso testamento; 28, 2: de liberis et postumis heredibus instituendis (il lungo frammento 29 tratta dei postumi nati, dopo la morte del testatore, da un figlio deceduto prima di lui: caso sviluppato dal giurista Aquilio Gallo; e dei discendenti nati da un figlio deceduto prima ma con il testatore ancora vivo, dopo che il testamento era stato redatto: caso retto dalla legge Iulia Vellaea del 28 d.C.); Dig. 28, 3: de iniusto rupto irrito facto testamento (di cui il frammento 13 = Gaio, Istituzioni 2, 133-134, espone la legge Vellaea); Dig. 38, 16: de suis et legitimus heredibus. Un padre di famiglia, prima della sua morte, aveva il costume di far dichiarare alla moglie, in presenza di un consiglio di amici, se fosse incinta, al fine di aggiornare il testamento. Questa pratica viene esposta da Cicerone, pro Cluentio 12, 33: «Cn. Magius, colpito da una grave malattia, aveva designato come erede il figlio della sorella. Egli convocò un consiglio di amici e, in presenza di sua madre, domandò a sua moglie se era incinta. Avendo quest’ultima risposto sì, egli la pregò di andare a vivere da sua madre dopo la sua morte […] nel suo testamento, egli lega una grande somma di denaro alla moglie, che le sarà versato sulla successione del figlio, se ne nasce uno; ma egli non le lascia nulla sulla successione dell’erede iscritto al secondo grado». Il testamento viene quindi modificato all’ultimo momento, l’erede iscritto passa al secondo grado, e l’interesse della sposa viene ancorato, attraverso un legato, alla nascita del figlio. 52 Morte civile: il padre è prigioniero di guerra. 53 Una donna deve al matrimonio il suo titolo di mater, matrona o materfamilias (infra, note 71 e 72). Secondo Festo (Pauli excerpta p. 112L) e Aelius Melissus (Aulo Gellio 18, 6, 5 sgg), la vedova perde questo titolo. 54 Codice Giustinianeo 6, 26, 11, in un contesto di diritto successorio (padre e figli coeredi). Sulla successione del figlio come ‘continuatio’, Dig. 28, 2, 11. 55 Ippocrate, Della generazione; della natura del bambino 14, 1 sgg; Il feto di otto mesi 3, 1 (in Budé, ed. R. Joly, p. 165); Aristotele, Sulla generazione degli animali 2, 4 (740 a, 24 sgg) (Budé, ed. P. Louis, pp. 70-71). Cfr. Festo s.v. alvus – matrice – p. 8L: alvus ab alendo. Sul tema del ventre che nutre si veda Seneca, contr. 7, 4.
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56 Alimenta in ventrem errogata: Dig. 25, 6, 1, 7; alimenta ventris: Dig. 37,
9, 9.
57 Rispettivamente, Dig. 37, 9, 1, 15. (cfr. ibid. 7, 1) e 37, 9, 1, 15. 58 Dig. 37, 9, 1, 19. 59 Dig. 26, 6, 1, 7: sine causa alta est sub praetextu ventris. 60 Dig. 37, 9, 1, 19. «accrescere per una nascita»: Tacito, Agricola 6, 2; Aulo Gellio, N.A. 12, 1, 1 (auctumque eum esse nato filio). 61 Nel testamento le clausole tipo sono le seguenti: «se mi nasce un figlio» (si filius mihi natus fuerit), «se mi nasce un figlio da Tizia» (si mihi ex Titia natus erit). Secondo la formula del censore, un cittadino prende una sposa «per ottenere dei figli» (liberum quaerendum causa). Nelle formule di dichiarazione di nascita, si registra «sibi natum esse» per il padre, «se enixam esse» (lei ha partorito) per la madre non sposata (si veda Riccobono in Fontes Iuris Romani Anteiustiniani II, documenti n. 1, 2, 3, 4, 5). È per la città che un padre ha dei figli (così Seneca, De matrimonio, edizione a cura di F. Haase, Leipzig, 1902). L’adempimento di questo servizio politico riceve ricompense pubbliche, praemia. Allo stesso modo, quando un combattente muore in guerra, suo padre riceve gli onori pubblici (Dionigi 3, 21, 9; Cicerone, De legibus 2, 24, 60). 62 Dig. 25, 3, 4. 63 Tollere alere: Orazio, Sat. 2, 5, 46; Carm. Epigraph. 990, 4; Quinto Curcio 9, 1, 25 (cfr. Diodoro di Sicilia 7, 9, 15). In opposizione, le figlie nascono e vengono nutrite (Svetonio, Claudio 27, 3); allo stesso modo i non cittadini, sui quali non ricade potestà paterna (Tacito, Ann. 14, 27, 2). 64 Gli esempi sono numerosi. Plauto, Amph. V. 501; Truc. v. 399-400; Terenzio, Heaut. v. 626, 665; Andr. v. 219, 464; Ovidio, Met. 9, v. 699-700; Apuleio, Met. 10, 23, 23 sgg. 65 Dig. 37, 9, 1, 9. 66 Dig. 37, 9, 1, 3 67 Dig. 37, 10, 5, 3. 68 Dig. 37, 9, 1, 15. 69 Dig. 35, 4, 1, 10-11.
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70 Normalmente, la vedova alleva i suoi figli sotto il controllo di un tutore nominato dal marito. La donna divorziata riceve una delega espressa: ma il padre può riprendere i suoi figli quando vuole (cfr. rescritto di Antonino il Pio, Dig. 43, 30, 1, 3; 3, 5, che mette fine a questo regime). 71 Aulo Gellio, N.A. 18, 6, 8-9; Nonio Marcello p. 709 L; Servio, Aen. 11, 476. L’opinione in base alla quale mater si riferisce alla madre del primo figlio e mater-familias si riferisce alla madre di più figli (Isidoro, Etym. 9, 5, 8), viene combattuta da questi autori. 72 Festo, p. 112 L; sed nec vidua hoc nomine. Nonio, p. 709 L. Matronam,
quae in matrimonio sit mariti; Aulo Gellio 18, 6, 5: matronam… quoad in matrimonium maneret. 73 Dig. 25, 4, 1 pr e 1. Una situazione inversa è quella in cui una donna
divorziata finge di essere incinta e lo denuncia al marito, per ottenere gli alimenti (Dig. 25, 3: de agnoscendis et alendis liberis).
74 Prendo in prestito questa formula da P. Legendre, op.cit., p. 321, che
insiste sulla necessità per il diritto di dare un significato alla madre nell’ordine di una legalità. 75 Plutarco, Sull’amore della prole, 496 B: «Tutto sporco di sangue, fa più pensare ad un assassinio che ad una nascita». Cfr. Ovidio, Ibis 221 sgg. 76 Fragmenta Vaticana 33, 34. Codice Teodosiano 5, 10, 1. Codice Giustinianeo 4, 43, 2. 77 Rispettivamente, Dig. 28, 2, 12 pr.; 38, 17, 1, 5; 5, 2, 6 pr. Sull’escissione
del ventre della donna morta incinta, si veda la ‘legge di Numa’ in Dig. 11, 8, 2. Il divieto di eseguire una condanna a morte contro una donna incinta sembra risalire ad Adriano: Dig. 1, 5, 18. Si veda su questo tema la Declamazione 277, ‘praegnas adultera’, di Quintiliano. Diodoro di Sicilia parla della stessa norma in Egitto e in Grecia (I, 77, 9), e sviluppa le stesse ragioni che si trovano nel retore latino: non si può far subire al marito (che perderebbe un figlio) la pena inflitta a sua moglie. 78 Nonio Marcello p. 894 L; Plinio, H N 7, 47; Isidoro Etym. 9, 3, 12; l’altra etimologia caesaries – capigliatura – (Festo p. 50 L) è indirettamente collegata alla prima, quando Isidoro parla di caesaries per i capelli che si tagliano: a quelli degli uomini, esclusivamente (Etym. 11, 1, 29). 79 Marcello, Dig. 11, 8, 2. Nardi, op.cit. p. 30, interpreta questa prescri-
zione nel senso probabilmente anacronistico di un rispetto della vita del
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feto. E. Jobbé Duval vi vedeva la preoccupazione di liberare la donna del peso di un errore che ella avrebbe dovuto portare con sé nel mondo dei morti («les morts malfaisants», R H D 1913, p. 356). 80 Plinio, H N 7, 47: auspicatius… parente gignuntur. Solino 1, 68: rursum
necatis matribus natus est auspicatior. 81 È la differenza essenziale con l’esposizione, che deriva da una deci-
sione sovrana del marito. L’aborto gli assottiglia a sua insaputa la discendenza alla quale ha diritto. Il riassunto di un discorso di Lisia “péri tès ambloseôs” (sull’aborto), inserito in un manoscritto madrileno delle opere del retore Sopatro (pubblicato da H. Rabe nel 1909, e ripreso nelle sue Rhetores graeci, vol. XIV, p. 300), dice che con il suo errore la moglie di Antigene «gli aveva impedito di essere chiamato padre di un figlio». (A proposito di «contro Antigene, un affare d’aborto» si veda L. Gernet, nella sua edizione del Discorso di Lisia, II, pp. 238 sgg). Sul tema della discendenza assottigliata da parte della moglie nei confronti del marito, cfr. Cicerone, pro Cluentio 11, 32; Ovidio, Amores 2, 14; Giustiniano, Novelle, 31. 82 Si vedano i riferimenti nella nota 50. 83 «Se colui che è nella matrice è vivente», cit., (Kühn XIX, p. 179): «Licurgo e Solone ebbero certamente sugli embrioni un’idea molto chiara. Se gli embrioni non fossero stati degli esseri viventi, essi non avrebbero per legge inflitto una pena per colpire i colpevoli di aborto. Ma siccome vennero considerati come esseri viventi, essi introdussero una pena». 84 Plutarco, Vita di Licurgo 3, 3-4. 85 Plutarco, Quaest. Rom., 278 B 56; Ovidio, Fasti I, v. 619-628. Questa tradizione ci conduce agli anni che seguirono la votazione della Lex Oppia (214 a.C.) che vietò effettivamente alle matrone l’uso delle vetture. Questa legge fu abolita nel 195, malgrado la resistenza di Catone che pronunciò un discorso in suo favore (Tito Livio 34, cap. 1-9). 86 Dig. 9, 2, 27, 2. 87 Dig. 7, 10, 11, 7.
88 Le procedure di aborto venivano in genere classificate in due categorie: violento (colpi, uso di sonde metalliche, salti che si facevano fare alla donna gravida) e farmacologico (pessari abortivi, diuretici preceduti da bagni emollienti). Sull’uso delle ‘arma’, si veda in particolare Tertulliano, De anima 24, 5 (è probabilmente ciò che il Digesto chiama ‘ictus’, cfr. ictus caecus in Ovidio, Fasti I, v. 623): ferri immersi nella cavità uterina. I pessa-
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ri e le supposte a base di ‘erbe’ erano un procedimento più ricorrente, descritto nel dettaglio dai medici (nello specifico da Sorano), ed è a tali metodi che allude il Digesto sotto il nome di medicamenta (Dig. 48, 8, 3, 2; 48, 19, 38, 5; ecc.). Questi due tipi di procedure sono associate per opposizione: così, tela/venena (Ovidio, Amores 2, 14, 27), artes/medicamina (Giovenale, 6, v. 595). 89 Dig., 48, 8, 3, 2 (allo stesso modo: 48, 19, 38, 5). L’associazione venenum-amatorium è ricorrente: si veda Dig. 48, 8, 11 e Plinio, N.H. 25, 3, 25 (nei retori: Giulio Vittore, Ars rhetorica 3, 3). 90 Tertulliano, De anima 37, 2 (cfr. Apologetico IX: homo est et qui futu-
rus); Papiniano Dig. 35, 2, 9 (allo stesso modo 28, 6, 10, 1 e 50, 16, 164). Ciononostante, l’idea che il feto nasconda una vita umana appare in qualche poeta latino (Ovidio, Amores 2, 14, v. 15 e 38; Giovenale, VI v. 596: quae steriles facit atque homines in ventre necandos conducit). 91 Cicerone, pro Cluentio 32. Sull’immagine delle due vittime in un sol corpo, cfr. Tibullo IV, 4, v. 20; Ovidio, Amores 2, 14, v.15. 92 Il testo insiste sul plurale: 31 «egli privò della vita i figli di suo fra-
tello, prima che venissero alla luce»… «niente era abbastanza santo da permettere ai figli di suo fratello di trovare riparo nel corpo stesso della loro madre»; 32 «commettere numerosi parricidi su una sola persona». 93 Ovidio, Nux v. 23; Amores 2, 13, v. 2; 2, 14, 1 sgg. (suis patiuntur vulnera telis), 6 (Militia fuerat digna perire sua), 27 (vestra quid effoditis subjectis viscera telis) cfr. Dig. 48, 8, 8: visceribus suis vim intulisse; 48, 19, 39: si qua visceribus suis… vim intulerit. 94 Così in Tertulliano, De anima 25, 4 e Basilio di Cesarea, in Canons des
Pères Grecs (P. Joannou, 1963) t. II, n. 2: penitenza imposta «à qui se porte atteinte à soi-même, puisque les femmes en meurent généralement». Esempi romani di tali morti: Svetonio, Vita di Domiziano, 22; Plinio, Ep. 4, 11, 6; Ovidio, Amores 2, 13 v. 2. 95 Decisione riportata da Trifonino, Dig. 48, 19, 39. Cfr. Marciano Dig.
47, 11 ,4: «che ella subisca per decisione del governatore l’esilio temporaneo» e Ulpiano, Dig. 48, 8, 8: «il governatore la costringerà all’esilio». 96 Formule di Trifonino e di Ulpiano, rispettivamente. 97 Marciano, Dig. 47, 11, 4. Nel passaggio di Trifonino, l’inciso «ne iam
inimico marito filium procrearet» non appartiene al rescritto. Essa è dovuta al giureconsulto, che in tutt’altro contesto qualifica come inimicus il mari-
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to divorziato (Dig. 23, 3, 78, 2). Per la legislazione tarda, si veda E. Jonkers, La legislation de Justinien et la protection des enfants à naître, in “Vigiliae christianae”, I, 1947, pp. 240 sgg. 98 Scevola, Dig. 22, 3, 29, 1: «una donna viene ripudiata quando è incinta. Ella partorisce un figlio, ma in assenza di suo marito lo dichiara come bastardo. Domanda: il bambino è sotto la potestà paterna? Dopo la morte di sua madre, può egli, per ordine del padre, prendere possesso dell’eredità materna senza subire le conseguenze di una dichiarazione fatta in un momento di collera? Si risponde che la verità deve vincere». Scevola, Dig. 40, 4, 29: «Un uomo aveva ripudiato la moglie incinta e ne aveva sposato un’altra. La prima partorisce un figlio e lo espone: il bambino viene raccolto ed allevato da un terzo… nel frattempo, il vero padre, che ignorava l’esistenza del figlio, fa testamento e muore. Il testamento è nullo, perché il figlio era sotto la potestà paterna, anche se quest’ultimo lo ignorava». Ulpiano, Dig. 1, 6, 8 pr.: «il bambino nasce sotto la potestà paterna»; cfr. Dig. 25, 4, 1, 1. 99 La potestà paterna si perdeva, ci dice Gaio, quando l’ascendente faceva arruolare i suoi figli o i suoi nipoti in una colonia latina (Inst. I, 131): «essi cessano di essere sotto la potestà del loro parens, perché diventano cittadini di un’altra città». Allo stesso modo, la cattività che comporta la perdita del diritto di cittadinanza sia del parens che del suo discendente sospende questo legame; tutto il dibattito giuridico si basava sul carattere retroattivo di questa rottura, quando l’uno o l’altro erano morti da prigionieri (Gaio I, 129 e casuistica in Dig. 49, 15: de captivis et de postliminio). Quanto agli atti di rottura volontaria (adozione, emancipazione), essi esigevano sia una ratifica pubblica (legge curiata di arrogazione: Aulo Gellio 5, 19, 8-9), sia una procedura legale, instaurata dalla legge delle XII Tavole, e richiedente la presenza di un magistrato (Gaio I, 132 sgg). 100 Né l’arrogazione davanti ai curiati, né la procedura della tripla emancipazione davanti al magistrato sono utilizzate per la figlia: basta una vendita semplice, che essa sia data in adozione (Gaio I, 134; Dig. 28, 3, 8, 1) o in sposa (I, 133 sgg.). L'usus di un anno, allo stesso modo, permette di acquisire su di lei un potere che rompe qualsiasi legame con la sua famiglia di origine (Gaio I,111; Servio in Georg. 1,31). La patria potestas sui figli è al contrario imprescrittibile (così, Dig. 40, 4, 29, citato supra nota 98). Questa divisione giuridica del maschile e del femminile è sconosciuta agli studiosi di diritto romano, che postulano l’unità della domus e della patria potestas. Si veda in proposito A. Magdelain, in “Revue internationale de droit de l’antiquité [in seguito RIDA] 1981, pp. 156-157.
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pri.
101 Dig. 50, 16, 195, 2; cfr. Dig. 38, 16, 3: una donna non ha eredi pro102 La formula di arrogazione (Aulo Gellio, 5, 19, 9: ex eo patre matreque
familias eius natus) riprende la definizione più ricorrente del figlio, «qui ex viro et uxore eius nascitur» (cfr. Dig. 1, 6). 103 Agostino, Città di Dio, 4, 11: «Giove lo solleva da terra e, in questa
funzione prende il nome di dea Levana». Il verso di Ennio è citato da Cicerone, De oratore 46, 155 (in Vahlen p. 175 v. 299). 104 I testi latini più espliciti sono: Plauto, Truculentus v. 902 sgg. E
Ovidio, Ibis 221. Non bisogna confondere questi primi gesti con le cerimonie lustrali dell’ottavo e del nono giorno (per i ragazzi e le ragazze rispettivamente): Tertulliano, De idol. 16, Festus p. 107 L; Macrobio, Sat. 1, 16, 36. 105 Varrone, in Nonio p. 848 L. Sulla conformità fisica del neonato cittadino, si veda Dig. 1, 5, 14 e 50, 16, 135; Dionigi di Alicarnasso 5, 25. 106 Cicerone, Ad Attico 11, 9, 3; Svetonio, Augusto 5 e Nerone 6, 1. Cfr.
Tertulliano, De anima 39, Macrobio, Sat. 1, 12, 20; Lido, De Mensibus 4, 20. 107 Plinio, N.H. 7, 1, 2; Macrobio cit.: «al neonato, la voce viene data dal contatto con la terra». Cfr. Ovidio, Tristes 4, 3, v. 46. 108 Rispettivamente: A. Romano, Tollere liberos: uomo donna e potere, in
Sodalitas IV, studi in onore di A. Guarino, 1984, pp. 881 sgg.; N. Belmont, Levana ou comment ‘élever’ les enfants, in “Annales ESC”, 1973. 109 Così come appare in molti diplomi militari studiati da E. Volterra
(«Un’osservazione in tema di tollere liberos» in Festschrift F. Schulz I, Weimar, 1951, pp. 388 sgg.), dove la formula «perinde liberos tollant ac si…» equivale ad una attribuzione di patria potestas. 110 Dionigi I, 79, 9: i pastori sollevano – airousin – e prendono i bam-
bini per allevarli – tréphein – verbo che significa nutrire (queste due sequenze corrispondono al latino tollere/alere) prima di consegnarli a Faustolo, che li affida alla sua sposa. Tito Livio I, 4, 7: (a Faustulo) ad stabula Laurentiae uxori educandos datos. Cfr. Servio, Aen. I, 273: susceptos aluit. 111 Ibis, v. 221 sgg. 112 Harusp.resp. 27, 57.
113 Svetonio, Augusto 94. Dione Cassio 45, 1, 2-3.
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La ‘cura sexus’ dall’antichità al XIX secolo Ernst Holthöfer
Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte
Oggi ci appare del tutto evidente che una donna possa godere ed esercitare autonomamente i propri diritti alla stessa maniera di un uomo, ossia che non abbia bisogno, per il solo fatto di essere donna, di un’assistenza (maschile) o che addirittura non debba lasciare completamente a un uomo la cura dei propri affari. I tempi in cui le cose andavano diversamente sono ormai così lontani rispetto alle nostre concezioni attuali che cercheremmo invano nello Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte (Dizionario di storia del diritto tedesco), come lemma1, il termine che indicava in Germania la non indipendenza giuridica della donna, quando ancora esisteva – ossia Geschlechtsvormundschaft (alla lettera ‘tutela di sesso’) o cura sexus (curatela). Ma in realtà i tempi della curatela, in Germania come nel resto d’Europa, non sono poi così lontani: si sono conclusi interamente solo nella seconda metà del XIX secolo; anzi, sotto la forma della tutela coniugale (cura maritalis), che riguardava quindi la donna sposata, l’istituto della tutela è sopravvissuto in parecchi Paesi europei addirittura fino alla seconda metà del XX secolo. Per trovare una prima definizione della curatela, dobbiamo risalire alla metà del XIX secolo, al periodo cioè in cui tale istituto era ancora vigente in Germania. All’epoca, il Rechtslexikon2 225
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curato da Julius Weiske definiva la Geschlechtsvormundschaft come «tutela esercitata sulle persone di sesso femminile che non siano più sotto tutela per ragioni di età o non si trovino più sotto la potestà paterna»; nel corso della trattazione, poi, scendeva più nei dettagli sul contenuto e sulla diffusione di tale istituto giuridico3. Anche là dove la tutela di sesso continuava a esistere ancora, essa si era talmente modificata rispetto all’epoca della sua formazione da rendere in un certo senso fuorviante, secondo le nostre categorie attuali, qualificare come ‘tutela’ la potestà giuridica che ne costituiva il contenuto. Nel nostro ordinamento odierno, infatti, la tutela accorda un potere giuridico (e un corrispondente dovere) che prescinde totalmente dalla volontà del tutelato (il pupillo); si tratta di un potere generale – quindi non soltanto relativo a determinati aspetti – sulla persona e sui beni del pupillo. In particolare il curatore può rappresentarlo legalmente in tutti gli affari, anche qui senza dovere tener conto della volontà del pupillo, che può condurre efficacemente un negozio giuridico (posto che possa farlo) solo d’accordo con il curatore4. Una posizione così forte nell’ambito della ‘tutela di sesso’ è rimasta in molti casi solo al marito nei confronti della moglie, e quindi nella nostra ottica attuale soltanto la tutela (o potestà) coniugale – vista come una sottospecie della ‘tutela di sesso’ – meriterebbe ancora in realtà il nome di tutela. La curatela sulla donna nubile (‘tutela di sesso’ in senso stretto), viceversa, già da tempo era limitata al diritto (e dovere) di prestare assistenza alla donna in determinati affari (in casi estremi in tutti, anche in quelli non puramente lucrativi) – in considerazione del rischio di inganno ad essi eventualmente connesso, o in considerazione della loro importanza spesso esistenziale (come in questioni fondiarie, in contratti matrimoniali o in accordi sull’eredità) – o anche in cause giudiziarie, prendendo d’accordo con lei le necessarie iniziative legali; ed era la donna stessa che poteva scegliere il suo ‘curatore’. Sicché, in questo caso, più che di una tutela di sesso sareb-
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be giusto parlare di curatela di sesso o, dove l’assistenza necessaria si limitava alle cause giudiziarie, di una curatela processuale o anche, come in tempi precedenti, di una Kriegsvogtei (tutela nelle controversie) o Litiscuratel (curatela di lite). Una terminologia di questo tipo, per quanto ricorrente, in Germania non si è molto affermata, allo stesso modo che in Svizzera non si è molto affermato il termine prima usuale di Geschlechtsbeistandschaft (‘assistenza di sesso’)5, con cui veniva designato all’epoca lo status giuridico della donna nubile in maniera più appropriata che con Geschlechtsvormundschaft. In realtà il termine Geschlechtsvormundschaft è solo un’espressione un po’ sommaria, una traduzione di origine settecentesca del latino cura sexus, cioè di un’espressione creata dai giuristi del XVI secolo per indicare lo status cui le donne di allora erano soggette in molti diritti particolari6. L’imprecisione della traduzione dell’espressione latina aveva il suo fondamento nel fatto che l’antico diritto tedesco conosceva come configurazione giuridica della cura per un’altra persona soltanto un istituto unitario, la Munt, che non faceva distinzione, come invece facevano i romani, fra la tutela generale e complessiva e la cura speciale limitata. Questo uso indifferenziato della parola Vormundschaft (tutela) era diffuso ancora nel XIX secolo. Tanto che anche Heimbach, l’estensore dell’articolo del Rechtslexikon di Weiske, descrive così la Vormundschaft: Tutti coloro che per un qualche motivo – per la loro particolare personalità o per il loro sesso, l’età, lo stato fisico o mentale o per altre cause giuridiche o naturali non sono tutori di se stessi (suae tutelae, auctoritatis, aetatis, mentis, sui arbitrii) – hanno bisogno proprio per questo dell’assistenza e della rappresentanza di un’altra persona. Questa assistenza e rappresentanza è assicurata loro, quando non è possibile un aiuto da parte di un rappresentante scelto direttamente dalla parte interessata, dalla Vormundschaft sotto il controllo di un’autorità di tutela superiore (Obervormundschaft) e del consiglio delle famiglie7.
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I. Il diritto vigente in Germania e i suoi inizi I.1. Codice civile (BGB) e Codice di procedura civile (ZPO) nella versione attuale Come abbiamo detto, nel diritto attualmente vigente in Germania non esiste più alcuna differenza fra uomini e donne per quel che riguarda la capacità giuridica di agire. Ogni donna maggiorenne (che non sia interdetta per qualche ragione particolare, come malattia o debolezza mentale, alcolismo o sperpero), sposata o no, è dotata di completa capacità di agire, e può quindi curare personalmente i propri affari tanto in ambito privatistico (capacità negoziale) quanto in ambito giudiziario (capacità processuale o di stare in giudizio). Ed è così oggi in tutti i Paesi europei. L’illimitata capacità processuale della donna è garantita in Germania dall’art. 52 del Codice di procedura civile (Zivilprozeßordnung, ZPO), secondo cui è capace di stare in giudizio chi può assumere obbligazioni contrattuali. La capacità di assumere obbligazioni contrattuali rimanda al Codice civile, secondo il quale essa appartiene a tutte (e soltanto) le persone che sono dotate di illimitata capacità negoziale. Capace di stare in giudizio è quindi chiunque abbia illimitata capacità negoziale. Il Codice civile (Bürgerliches Gesetzbuch, BGB) dà per presupposta l’illimitata capacità negoziale per ogni persona naturale, e negli artt. 104-113 elenca unicamente le fattispecie che costituiscono eccezione. L’appartenenza al sesso femminile non rientra fra i motivi di eccezione. Anche dalle norme relative agli effetti del matrimonio (artt. 1353-1362) non risulta nulla che faccia pensare a una eventuale limitazione della capacità negoziale della donna sposata. I.2. Dal diritto vigente alla versione originaria del Codice civile (BGB) del 1896 Se ripercorriamo la storia che ha portato alla formulazione
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del BGB e cerchiamo l’origine delle sue norme, dalle quali risulta – anche se solo ex silentio – la illimitata capacità negoziale della donna, vediamo che esse sono presenti già nella versione originaria del Codice, quale fu promulgato nel 18968 ed entrò in vigore nel 19009. Ciò vale anche, specificamente, per quanto riguarda l’illimitata capacità negoziale della donna sposata. Tuttavia, fino a che non fu emanata nel 1957 la legge sulla parità dei diritti10, nella maggior parte delle situazioni patrimoniali la donna sposata doveva lasciare per lo più che ad amministrare i suoi beni fosse il proprio marito11. Ma nonostante questa limitazione di fatto al suo potere di disporre dei beni, sul piano formale la donna conservava intatta la propria capacità negoziale, in particolare la capacità di assumere obbligazioni. Tale capacità fu illimitata fin dall’inizio, e si estendeva quindi anche a quegli oggetti che non erano nella sua disponibilità (o almeno non nella sua disponibilità unica), perché dal punto di vista del regime patrimoniale erano parte della dote, o perché per la comunione dei beni rientravano nel patrimonio comune e quindi sottostavano al diritto di amministrazione del marito12. Si lasciava pertanto alla donna la possibilità di trovare il modo di far fronte ai propri impegni, per esempio ricorrendo ai suoi beni parafernali o, eventualmente, convincendo il marito ad accordarle il permesso. Nel peggiore dei casi, sarebbe stata costretta ad aspettare la fine del matrimonio (per morte del marito o per divorzio); in questo modo, infatti, il diritto di amministrare il patrimonio ritornava a lei, che a quel punto restava personalmente esposta all’obbligo illimitato di onorare anche gli impegni che aveva contratto in precedenza. Ma poiché la controparte contrattuale sapeva a quale rischio andava incontro dando credito a una donna sposata, e quindi di regola s’imbarcava nell’affare solo se otteneva dal marito il permesso di accedere alla dote o al patrimonio comune o se era convinto che fosse imminente la fine del matrimonio, la libertà di iniziativa economica della donna sposata continuava a rimanere
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indubbiamente – nonostante il riconoscimento giuridico della sua illimitata capacità negoziale – in una posizione condizionata da quella del marito. La sua capacità negoziale, in altri termini, era relativizzata dal diritto di amministrazione dell’uomo (a parte il caso che la donna, dal punto di vista dello stato patrimoniale, vivesse in regime di separazione dei beni). Va ricordato, peraltro, che al marito non era più riconosciuto alcun potere di rappresentanza legale al posto della moglie – foss’anche solo concorrente con l’autonoma capacità della donna – e per di più neanche in riferimento alla dote. Egli non solo non poteva disporne autonomamente (cosa che poteva fare soltanto per il contante)13, ma non era nemmeno autorizzato a imporre alla moglie vincoli relativi ai beni della dote (o altri) (BGB, § 1375), per cui, ai debiti da lui contratti dando come garanzia la dote della moglie, egli doveva far fronte non con i beni di questa ma unicamente con la sua proprietà personale (§ 1410). Anche in questo caso era interesse del creditore, per sua maggiore sicurezza, avere come contraente oltre all’uomo anche la moglie, in modo da poter contare, in caso di insolvibilità del marito, sui beni di lei (la dote e i beni parafernali). Solo in regime di comunione dei beni il negozio concluso dal marito nell’esercizio del suo diritto di amministrazione dei beni comuni avrebbe continuato a essere coperto dal patrimonio comune; nel regime patrimoniale dell’amministrazione degli utili il marito – nonostante il suo diritto ad amministrare – avrebbe potuto far valere vincoli legali sulla dote nei confronti di terzi unicamente insieme con la moglie. Dal momento, dunque, che l’illimitata capacità negoziale della donna sposata era riconosciuta nonostante tutto già sulla base della formulazione originaria del Codice civile, sulla strada dell’eliminazione delle disparità giuridiche nel diritto matrimoniale – avviata con la Costituzione del 1949 (Grundgesetz) e con la legge sulla parità dei diritti del 1957 e portata a compimento con la legislazione e le sentenze della Corte costituziona-
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le federale dalla seconda metà degli anni Settanta alla prima metà degli anni Novanta14 – ci si poté concentrare in Germania anche su altri argomenti. Fra questi, prima di tutto l’eliminazione della discriminazione nell’amministrazione dei beni coniugali cui la donna continuava a essere soggetta, della quale abbiamo appena parlato; e quindi, appunto, 1) l’eliminazione di quel diritto di amministrazione e godimento degli utili della dote della moglie da parte del marito nel regime patrimoniale previsto dalla legge, che impediva alla donna di disporre dei beni suoi propri, 2) l’introduzione della parità di diritti nell’amministrazione dell’intero patrimonio nei regimi patrimoniali di comunione dei beni, 3) la possibilità di svolgere attività lavorativa in proprio e, infine, 4) la parità di diritti nella scelta del nome matrimoniale, della casa coniugale, della cittadinanza e nella educazione dei figli. I.3. Il Codice civile del 1896 e la coeva codificazione internazionale In ogni caso, rinunciando a stabilire specifiche limitazioni alla capacità negoziale legata al sesso – anche solo nell’ambito del matrimonio – il Codice civile ha fatto un passo importante verso la parificazione dei sessi nel diritto privato15; anche se in realtà nella maggioranza dei casi la capacità di agire della donna, ormai tacitamente presupposta, rimase ancora limitata a causa del diritto del marito di amministrare la dote della moglie (nel regime patrimoniale legale) o l’intero patrimonio (nelle comunioni di beni) e per la necessità che gli impegni negoziali assunti dalla donna fossero garantiti dall’avallo del marito. Con la soppressione della tutela matrimoniale (Ehevogtei) il BGB divenne il modello per tutti i codici successivi, primo fra tutti il Codice civile svizzero del 190716. Il Codice tedesco fu pioniere fra i codici europei dell’epoca. Solo là dove aveva dominato e si era conservato il diritto romano, compreso anche il suo statuto delle donne, o dove singole leggi da esso influenzate avevano soppresso la tutela (fondata in codici particolari)
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non soltanto sulla donna nubile ma anche sulla donna sposata, come in alcuni Stati federali tedeschi17 o in Ungheria18, la donna sposata aveva goduto già in precedenza di una simile posizione di indipendenza. Peraltro, anche la Norvegia, la cui legislazione assunse un ruolo guida nel cammino dei Paesi nordici – allora all’inizio – verso la parificazione giuridica della donna, probabilmente incoraggiata dal progetto di codificazione tedesca, arrivò al traguardo prima che il Codice del 1896 fosse promulgato19. Al contrario, tanto il Code civil20 – che era quello in vigore in Germania ma anche sulla riva sinistra del Reno e, in versione modificata, anche nel Baden21 –, quanto i codici da esso derivati – come alcuni codici italiani preunitari, il Burgerlijk Wetboek22, il Codice civile italiano Pisanelli23, i Códigos civiles24, il Codul civil25 e i codici civili della Svizzera francese – conoscevano l’autorité maritale, che in linea del tutto generale sottometteva la volontà della moglie a quella del marito e dichiarava la donna sposata incapace di esprimere efficacemente le proprie volontà senza il consenso del marito26. Quest’ultimo, per altro verso, era autorizzato (e obbligato) a rappresentare la moglie in tutti gli affari sia in ambito giudiziario sia in ambito extragiudiziario. Certo, nel Code civil (e anche negli altri codici che ne seguivano la scia) si stabiliva solo che la donna aveva bisogno del consenso del marito per essere attiva. Ma appariva del tutto evidente che il marito, in forza della sua autorité maritale, poteva anche prendere l’iniziativa da solo27. Lo stato di minorità risultante dall’autorité maritale riguardava ogni donna sposata indipendentemente dalla sua situazione patrimoniale, e cioè valeva anche quando fosse stata concordata la separazione dei beni, e si estendeva pure alla possibilità di stare in giudizio (Code civil, art. 215). Solo quando la donna sposata esercitava un’attività commerciale (in qualità di marchande publique) poteva concludere autonomamente affari relativi al suo commercio (art. 220), ma per comparire in tribunale
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aveva bisogno anche in questo caso del consenso del marito (art. 215). Analoghe limitazioni all’autonomia della donna sposata, anche se non altrettanto estese, erano previste nell’Allgemeines Landrecht prussiano28 e, in misura ancora più attenuata, nell’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB) austriaco29. Secondo il Codice prussiano – da cui il Codice civile del 1896 aveva ripreso il regime patrimoniale dell’amministrazione degli utili come regola30 (e il Codice prussiano a sua volta aveva preso a modello su questo punto il regime patrimoniale dotale del diritto comune 31) – con la conclusione del matrimonio la donna non soltanto perdeva la possibilità di disporre dei beni della dote (come sarebbe stato più tardi anche per il Codice del 1896 32), ma in rapporto ad essa non poteva contrarre validamente impegni negoziali33 e non poteva nemmeno intraprendere azione giudiziaria. Questi diritti (e naturalmente anche l’obbligo di curarli) spettavano solo al marito, e quindi la capacità negoziale della donna sposata, di per sé riconosciuta34, era limitata in concreto agli affari di rilievo relativi ai beni parafernali. Quanto alla possibilità di prendere parte a processi giudiziari, la donna aveva bisogno del consenso del marito anche al di là delle questioni riguardanti la dote, e pertanto essa era semplicemente incapace di stare in giudizio (§ 189). Al contrario il marito era anche a questo riguardo autorizzato e obbligato a rappresentare la moglie in tutti gli eventuali affari, e quindi possedeva un’illimitata potestà di rappresentanza anche in rapporto ai beni parafernali, anche se in quest’ultimo caso in concorrenza con la capacità di gestione della donna (§ 188). Solo la donna impegnata nel commercio e in attività produttive godeva di libertà uguali a quelle della marchande publique e anzi era – a differenza di quest’ultima – persino capace di stare in giudizio, almeno limitatamente alle questioni attinenti agli affari legati alle sue attività (§ 488: la cosa era formulata come cessazione di «privilegi e favori»).
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Anche il Codice austriaco (ABGB) conferiva al marito, indipendentemente dal regime patrimoniale, la potestà di rappresentanza legale per la moglie dentro e fuori l’ambito giudiziario in relazione a tutti i beni di lei (§ 91). Solo che questa potestà di rappresentanza non era, come nel Code civil e – per quel che riguardava la dote – nel diritto prussiano, ‘privativa’ ma era cumulativa; vale a dire: in un qualsiasi momento la donna sposata poteva concludere un affare anche personalmente o attraverso un rappresentante di sua scelta, o stare in giudizio e anche assumere su di sé il carico del successivo sviluppo di un rapporto giuridico creato per lei dal marito o di un processo iniziato in suo nome. Il migliore status riconosciuto alla donna sposata dal Codice austriaco rispetto a quello prussiano non derivava certo in maniera univoca dalla lettera dei due Codici, ma corrispondeva ai loro diversi preconcetti (Vorverständnis) storici. Così, il dovere (e il corrispondente diritto) imposto al marito da II i § 188 dell’Allgemeines Landrecht prussiano (ALR) di difendere i diritti della moglie in tribunale e fuori dal tribunale, insieme con il diritto esclusivo di amministrarne la dote riconosciutogli nel § 205, era inteso come un residuo della tutela maritale, limitata solo all’entità di questo patrimonio35. In Austria, invece, che – a differenza della Prussia – al momento dell’introduzione del suo Codice già non conosceva più la tutela matrimoniale, nel § 91 dell’ABGB, corrispondente al II i § 188 dell’ALR, non veniva letta fra le righe alcuna tutela maritale, ma solo un’autorizzazione al marito di una rappresentanza cumulativa per la moglie36. Altri codici particolari vigenti fino all’entrata in vigore del Codice del 1896 in Germania (e anche i codici cantonali vigenti fino all’entrata in vigore dello Zivilgesetzbuch ZGB, Codice civile svizzero) contenevano limitazioni analoghe alla capacità negoziale e processuale della donna, a parte differenze di dettaglio. Alcuni di essi – andando ben oltre il Code civil – avevano conosciuto addirittura fino in pieno XIX secolo una tutela di
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sesso generale estesa anche alla donna non sposata. E qui gli ambiti concreti della capacità negoziale e della capacità di stare in giudizio erano in fin dei conti distinti in quanto l’esclusione della donna dalla possibilità di stare in giudizio si era spinta più in là della sua esclusione dalla possibilità di negoziare affari fuori dal tribunale. I.4. Il Codice tedesco di procedura civile (ZPO) del 1898 Come già detto, secondo il Codice oggi in vigore in Germania, chi è capace di stare in tribunale è anche capace di negoziare affari, dal momento che la ZPO – nella versione attuale e, aggiungiamo ora, già nella versione in vigore dal 1900 – rimanda, per quanto riguarda la capacità di stare in giudizio, alla capacità negoziale37. In altri termini, la donna cresciuta sotto il Codice civile del 1896 godeva fin dall’inizio di illimitata capacità negoziale. Come pure abbiamo appena rilevato, nelle norme di diritto particolare, che erano state in vigore fino al 1900, la capacità negoziale della donna era limitata sotto molti aspetti. A questo punto ci poniamo, a proposito della sua capacità processuale, la domanda se la congruenza tra capacità negoziale e capacità processuale – che riscontriamo a partire dal 1900 – esistesse già nel Codice civile precedente. I.5. La versione originaria del Codice di procedura civile del 1877 Questa domanda ci riporta di nuovo alla ZPO38. Quest’ultima, infatti, era stata operante già dal 1879, cioè prima del BGB del 1896, come legge vincolante per l’intero Reich, in sostituzione delle norme procedurali fino ad allora di diritto particolare; e fa parte – dopo il Codice penale del Reich del 1871 e insieme con il Codice di procedura penale, la legge sull’ordinamento giudiziario, il diritto fallimentare e il diritto fondiario (i Reichsjustizgesetze) – delle prime codificazioni promosse da Bismarck in vista dell’unificazione giuridica del Reich. Che, dunque, le limitazioni di diritto materiale – allora ancora valide – alla capacità nego-
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ziale della donna avessero anche la conseguenza di limitare la sua capacità processuale o addirittura di escluderla, dipende dall’originaria versione della ZPO (quella in vigore fino al 1900). Ora, nel suo art. 51 (che corrisponde all’attuale art. 52), a proposito della capacità processuale questo Codice rinviava già alla capacità negoziale del diritto materiale, ma con una eccezione decisiva per la nostra questione, diventata priva di oggetto nel 1900 e quindi sparita dalle versioni più recenti della ZPO. Il vecchio art. 51 conteneva, infatti, oltre all’unico comma superstite nell’attuale art. 52 («Una persona è capace di stare in giudizio in tanto in quanto possa impegnarsi con contratti»), altri due commi, e precisamente, in un secondo capoverso: «La capacità processuale di una persona maggiorenne non è limitata per il fatto che si trovi sotto la potestà paterna, e la capacità processuale di una donna non è limitata per il fatto che sia sposata»; e in un terzo capoverso, infine: «Le prescrizioni sulla Geschlechtsvormundschaft [tutela di sesso] non trovano applicazione per quanto riguarda la comparizione in tribunale». Con questa normativa, senza uguali nella legislazione codificata quanto a spinta progressista, la ZPO ha già anticipato per il diritto processuale quella liberazione che il BGB avrebbe portato per il diritto materiale. La rottura, qui operata dalla ZPO per il diritto processuale e poi dal BGB per l’emancipazione della donna sul piano del diritto privato, per quanto nuova per la storia della codificazione, non era certo del tutto priva di precedenti. Secondo il diritto comune, infatti – che non soltanto era allora in Germania il punto di partenza e il fondamento di ogni studio scientifico del diritto, e in particolare del diritto positivo, ma che in altre parti della Germania continuava ad essere valido come diritto sussidiario – la donna era considerata uguale all’uomo sia in rapporto alla sua capacità di agire sia in rapporto alla sua capacità di stare in giudizio, come del resto per la sua capacità giuridica e la sua capacità di essere parte in un processo39. La ZPO e il BGB non hanno fatto altro, quindi,
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che dare la preferenza – nella questione della posizione giuridica della donna (come in molte altre questioni) – al diritto comune rispetto al diritto particolare, laddove a suo tempo il Code civil, e in misura un po’ minore l’ALR e in maniera ancor più affievolita l’ABGB, non hanno saputo staccarsi dal fascino della tradizione radicata nel diritto vetero-germanico dei codici regionali e comunali medievali, e dalle sue attualizzazioni proto-moderne di teoria del dominio. La diversità di atteggiamento nella scelta dei modelli ha alla base motivazioni sulle quali non possiamo qui dilungarci in dettaglio. Comunque sia, i codici del Reich tedesco (e sulle loro orme il Codice civile svizzero) da un lato, e le cosiddette codificazioni del diritto naturale (nonché l’ALR, il Code civil e l’ABGB) dall’altro lato, sono rispettivamente stazioni di due diverse linee di tradizione, quella del codice comune romano-canonico e quella del diritto particolare germanico. Queste due tradizioni vogliamo ora seguire, procedendo però stavolta non più a ritroso, ma andando dalle loro origini a noi note fino all’inizio dell’epoca della codificazione, anche se naturalmente non potremo che limitarci a uno sguardo molto rapido. II. Il diritto romano antico Cominciamo con il diritto romano antico40. In questo ambito l’indipendenza giuridica della donna – che le spettava anche in base al diritto romano-comune ricevuto nel Medioevo e in epoca moderna, e che a volte le fu invece rifiutato dalla teoria e dalla prassi del diritto comune fino al XVIII secolo – non si configura fin dall’inizio ma solo alla fine di una lunga evoluzione. II.1. Il diritto civile Come in quasi tutti i diritti arcaici a noi noti di società a struttura patriarcale, all’epoca in cui i romani entrarono nella
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storia – ossia a cavallo fra il VI e il V secolo a.C. – con le Dodici Tavole (di poco più recenti), considerate come la più antica fonte di diritto, la donna restava per tutta la vita sotto la potestà di un uomo. Da figlia di famiglia (filia familias), era – al pari peraltro del figlio maschio – sotto la potestà paterna (patria potestas), che finiva non già con la maturità, ossia con l’ingresso nell’età adulta, ma solo con la morte del padre o attraverso un congedo formale dalla comunità domestica (emancipatio). In base alla patria potestas, che attribuiva de iure al padre un dominio inizialmente illimitato di vita e di morte, competevano al pater familias anche tutti i beni patrimoniali della famiglia; cosicché i figli, fin tanto che durava la patria potestas, erano incapaci di possedere un patrimonio, e in quanto tali erano giuridicamente incapaci. Il padre, tuttavia, poteva lasciare amministrare al figlio (non alla figlia) un bene particolare (peculium), fermo restando che la proprietà di quanto costituiva il peculio rimaneva nelle mani del padre. Anche nella loro capacità negoziale i figli adulti che vivevano in casa erano limitati. Potevano fare acquisti, e quanto da loro acquistato ricadeva nel patrimonio domestico del pater familias; ma non potevano assumere validamente impegni senza il consenso del padre, un consenso che fondava poi la responsabilità di quest’ultimo di far fronte a tali impegni. Tuttavia già abbastanza presto, ancora in età repubblicana, i figli poterono affrancarsi da questa limitazione (anche quando non possedevano alcun peculium), ma potevano essere costretti a un’esecuzione forzata degli impegni assunti solo dopo che fossero diventati capaci di possedere proprietà. Per le figlie, invece, il vincolo del consenso del padre continuò a valere fino alla riformulazione della patria potestas nella tarda antichità. La capacità di possedere un proprio patrimonio l’ottenevano tanto i figli quanto le figlie solo quando la patria potestas si estingueva a seguito della morte del padre o attraverso l’emancipazione: solo in quel momento essi diventavano sui iuris. Mentre
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il figlio maggiorenne diventava pienamente libero da qualsiasi potestà, la figlia, anche se di maggiore età, rimaneva non indipendente: essa passava sotto la tutela del parente maschio più prossimo. Tale tutela di sesso (tutela mulieris), però, assegnava al tutore (tutor) un potere limitato sulla persona della figlia, che non toccava la sua capacità giuridica, ma la limitava ancora nella capacità di agire. Perché i negozi da essa conclusi avessero validità c’era bisogno ora del consenso del tutore, così come prima aveva avuto bisogno di quello del padre. Con il matrimonio, per la figlia non cambiava inizialmente nulla quanto ai rapporti di potere cui sottostava, nel senso che essa rimaneva ancora soggetta alla patria potestas o alla tutela mulieris, poiché con la semplice celebrazione del matrimonio il marito non otteneva alcun diritto di potestà sulla moglie. Questi rapporti di dominio potevano però essere sostituiti, tramite un accordo fra il detentore della potestà e il marito (conventio in manum), da rapporti di potere di diritto specificamente matrimoniale, la manus del marito. La uxor in manu aveva uno status paragonabile a quello della filia familias: la sua posizione giuridica nei confronti del marito (e anche nei confronti dei terzi) era uguale a quella in cui poteva trovava la figlia, stava filiae loco. Essa era alieni iuris, era quindi incapace di possedere un patrimonio, addirittura anche quando in precedenza era stata sui iuris, e per concludere affari aveva bisogno del consenso del marito. Se il matrimonio finiva, per la morte dell’uomo o per divorzio, la donna, anche se prima della conventio in manum era stata sotto patria potestas e il padre era ancora in vita, non ritornava in questo status, ma diventava, come nell’emancipazione, sui iuris e si ritrovava sotto la tutela mulieris. Questo status della donna, caratterizzato dalla soggezione a una potestà vita natural durante, andò a poco a poco modificandosi già a partire dalla tarda Repubblica con cambiamenti favorevoli, che nel corso dei successivi sette secoli fino alla codificazione giustinianea portarono a una quasi completa
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parità tra uomo e donna nella capacità giuridica e nella capacità di agire in ambito privatistico. Per prima cosa andò affievolendosi progressivamente la tutela mulieris. Già in epoca protoclassica, e cioè nel periodo augusteo, la tutela non implicava più lo stesso potere sulla persona della donna, solo alcuni determinati negozi richiedevano ancora il consenso del tutor, che peraltro poteva essere ora costretto dal pretore a elargire tale consenso. Nel IV secolo, almeno dopo Costantino, la tutela sulla donna sparì del tutto. Alla scomparsa della tutela mulieris fece seguito l’arretramento della manus. In questo caso il cambiamento non si verificò, come nel caso della tutela, attraverso l’amputazione delle competenze derivanti dalla potestà, ma solo in seguito al progressivo disuso della conventio in manum. Ancora abbastanza frequente al tempo di Augusto, già nel periodo tardoclassico la sua diffusione si ridusse fortemente. Nel III secolo d.C., quindi ancora prima della tutela mulieris, essa era scomparsa completamente e al suo posto era comparso il matrimonio sine manu, con ampia parità dei coniugi. Solo la patria potestas si conservò fino a Giustiniano. Ma anch’essa da tempo aveva perso il suo originario carattere assoluto. Continuò ancora a durare fino alla morte del padre o fino all’emancipazione del figlio che nel frattempo era diventata molto più frequente, e nel periodo postclassico – quindi dopo la metà del III secolo d.C. – anche i figli viventi in casa divennero capaci di possedere un patrimonio. Tutto ciò che acquisivano da terzi (in particolare da parte della madre, i bona maternalia) passava nella loro completa proprietà; solo il peculium messo a disposizione dal padre – che ora poteva essere costituito anche per le figlie – rimase comunque, secondo il diritto del Corpus iuris (a differenza di quanto accadeva già nella prassi quotidiana, soprattutto in provincia), nelle mani del padre. Inoltre anche la filia familias divenne pienamente capace di negoziare, così come da lungo tempo lo era divenuto il figlio.
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II.2. La procedura civile Anche nel campo della procedura civile la parità della donna si configurò solo gradualmente, e per l’esattezza complessivamente un po’ più tardi che nel diritto privato. Nel diritto romano antico coloro che erano soggetti a una potestà erano comunque incapaci di stare in giudizio, e chi era soggetto alla patria potestas o alla manus era persino incapace di comparire come parte in un processo, non poteva quindi querelare o essere querelato, neanche attraverso un rappresentante. Anche in questo caso, dunque, tanto il figlio quanto la figlia di casa si trovavano inizialmente nella stessa posizione di debolezza. Tutto questo valeva senza limiti all’epoca del cosiddetto procedimento di legis actiones, cioè della forma originaria del processo civile romano prevista dalle leggi delle Dodici Tavole, che fino alla metà del III secolo a.C. fu l’unica in uso, ma che nell’arco di tempo fino alla vigilia dell’era cristiana a poco a poco fu sostituita dal cosiddetto ‘procedimento formulare’. Sotto tale regime procedurale – nel periodo classico in uso in Italia e, soprattutto, da più tempo nella città di Roma – dapprima non ci furono cambiamenti, ma a partire dal periodo tardoclassico, cioè dal II secolo d.C., cominciarono ad essere ammessi in singoli casi anche querele da parte di figli di famiglia, sia maschi che femmine, e anche da parte dell’uxor in manu; la filia familias e la uxor in manu, tuttavia, non potevano essere querelate, e cioè restavano ancora passivamente incapaci di essere parte in un processo. Nella stessa misura in cui era riconosciuta la capacità di essere parte in un processo, il soggetto era anche capace di stare in giudizio. L’incapacità di stare in giudizio della mulier in tutela continuò fondamentalmente a rimanere in vigore, ma essa poteva ora condurre personalmente il processo cum auctoritate tutoris; e nel procedimento di diritto onorario (iudicium in imperio continens) – una variante del processo formulare che guadagnò terreno nel corso del tempo ed era l’unica ammissibile per esempio fuori
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di Roma o se una delle parti non possedeva la cittadinanza romana – essa poteva, per negozi eventualmente da lei conclusi sine tutoris auctoritate, comparire in giudizio anche personalmente. Ulteriori decisivi progressi portò poi il tipo più recente di processo civile romano, il cosiddetto ‘procedimento di cognizione’. Questo procedimento non veniva condotto, come il procedimento delle legis actiones e il procedimento formulare, davanti al magistrato competente per giurisdizione – di regola, quindi, davanti al pretore – ma davanti a funzionari imperiali (o in un primo tempo anche davanti a funzionari senatorii). Ebbe origine nelle province (fuori d’Italia), comparve poi, già al tempo del Principato, anche in Italia e persino a Roma accanto al procedimento formulare, per soppiantare infine completamente quest’ultimo nella tarda antichità. Già prima che la tutela mulieris fosse scomparsa del tutto nel IV secolo, la donna non sposata, che era sui iuris, poteva comparire in giudizio pure senza il consenso del tutore. Anche la capacità di essere parte in un processo e la capacità di stare in giudizio della figlia di famiglia e della uxor in manu furono sempre più spesso riconosciute nel procedimento di cognizione. Dopo che dalla fine del III secolo il matrimonio cum manu non aveva più luogo, ogni donna maggiorenne, che non si trovava sotto la potestà paterna, divenne illimitatamente capace di essere parte nei processi e di stare in giudizio. Alla fine anche l’arretramento della patria potestas con l’acquisizione della capacità di possedere patrimoni conferì ai figli adulti l’illimitata capacità di essere parte nei processi e alla figlia di famiglia anche la capacità di stare in giudizio, a lei preclusa più a lungo che al figlio maschio vivente nella casa paterna. Così sotto Giustiniano la donna adulta raggiunse anche nel diritto processuale la piena indipendenza. Con la capacità di stare in giudizio conseguì sempre anche la capacità di postulazione, sebbene solo per i propri affari.
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II.3. Risultato e prospettiva Per quanto riguarda il diritto romano, dunque, arriviamo al risultato storicamente rilevante che la condizione della donna come soggetto di diritto privato e soggetto capace di stare in giudizio arrivò ad essere uguale a quella dell’uomo nel corso di uno sviluppo che si compì nell’arco di circa un millennio, dalle leggi delle Dodici Tavole al Corpus iuris. Ciò vale peraltro non soltanto per il diritto di possedere un patrimonio, che è stato finora in primo piano nella nostra trattazione, ma – anche se con qualche riserva – anche per il diritto personale. Così, alla fine la donna poté sia adottare come figlio una persona non soggetta a potestà paterna (adrogatio) sia assumersi l’impegno di una tutela. Solo la possibilità di rappresentare altri in un processo le rimase preclusa, come pure del resto nel diritto privato la possibilità di offrirsi come responsabile per terzi o di dare altre garanzie di sicurezza per stranieri (divieto di intercessione). La posizione notevolmente libera che la donna aveva raggiunto alla fine nel diritto giustinianeo fu mantenuta anche in seguito dovunque fu in uso il diritto romano: nella Roma d’Oriente (attraverso la sua riformulazione attualizzata nelle basiliche dell’imperatore Leone il Saggio dell’890), fino almeno alla caduta di Costantinopoli nel 1453; nell’Occidente là dove, dopo la sua riscoperta nell’XI secolo a partire dall’Italia, acquistò autorità nel corso dei secoli seguenti, e in altre parti dell’Europa continentale, dove tuttavia esso dovette scontrarsi con le abitudini giuridiche locali, le quali per lo più ebbero la meglio non lasciando che il diritto romano venisse adottato nella prassi giuridica concreta, e ricacciandolo qua e là anche dai luoghi in cui era stato tradizionalmente in vigore. Torneremo sugli usi giuridici locali, ma non prima di averne esaminato le origini. III. Il diritto germanico Le origini degli usi giuridici locali vanno ricercate nel diritto 243
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germanico41, le cui prime testimonianze scritte giunte a noi sono – dopo le sporadiche notizie forniteci dalla Germania di Tacito – le codificazioni dei diritti tribali del periodo delle migrazioni e del regno dei franchi, i cosiddetti Codici tribali o Codici germanici (leges barbarorum), quindi, sul continente: il Codex Euricianus gotico occidentale (ca. 475), la Lex Burgundiorum (ca. 500), la Lex Salica (ca. 510), l’Edictum Rothari longobardo (643), la Lex Alamannorum (ca. 715), la Lex Baiovariorum (ca. 740), la Lex Saxonum (802) e la Lex Frisionum (ca. 800). Scritti nella lingua latina ecclesiastica, non sono esenti da tracce di pensiero giuridico tardoantico, cioè tardoromano o protocanonico, e quindi non restituiscono l’autentico diritto tribale tradizionale. Ciò vale soprattutto per il più antico fra di essi, il diritto gotico occidentale, che fu messo per iscritto in un periodo in cui la tradizione romana, per quanto già volgarizzata, era ancora viva. Possiamo tuttavia partire dalla considerazione che, per quanto riguarda la nostra problematica, essi hanno ritratto fedelmente lo spettro della tradizione giuridica. Le codificazioni del diritto tribale del tempo delle migrazioni, le cui più antiche testimonianze risalgono quasi allo stesso periodo del Corpus iuris di Giustiniano che chiude il cammino del diritto antico, si collocano a un livello di sviluppo pari a quello che il diritto romano aveva raggiunto all’epoca delle Dodici Tavole, cioè un migliaio d’anni prima. Questo risulta evidente anche dalla posizione giuridica che in esse viene assegnata alla donna, sostanzialmente simile a quella assegnatale nel diritto romano arcaico. Presso i germani tale posizione non era soltanto conseguenza della struttura della famiglia, che – come a Roma, per quanto in forma un po’ più attenuata – era di stampo patriarcale, ma era anche funzione della capacità di difesa, che – a differenza di quanto accadeva presso i romani all’epoca del loro ingresso nella storia – aveva ancora un’importanza centrale nel processo civile: ogni lite giudiziaria, infatti, poteva sfociare in uno scontro armato, e questo poteva esse-
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re affrontato solo da una persona capace di difendersi con le armi. La donna, essendo incapace di difendersi con le armi, era anche incapace di stare in giudizio, e per lo stesso motivo non appariva ipotizzabile la sua capacità di agire nell’ambito del diritto privato. Con ancora maggiore chiarezza che nel diritto romano antico risalta qui, nella primavera della formazione del diritto, il primato del diritto processuale rispetto al diritto materiale. La donna non sposata rimaneva pertanto, anche in età adulta, sotto la tutela (munt) del padre, al cui posto subentrava, dopo la morte di lui, la munt del parente maschio più prossimo (fratello, zio). Nel momento in cui la donna contraeva matrimonio, la munt su di lei passava ipso iure al marito; dopo la morte di questi, essa ritornava di nuovo ai parenti maschi della donna o veniva proseguita dagli agnati dell’uomo defunto. La tutela sulla donna adulta, motivata esclusivamente dal genere, significava, al pari della patria potestas, della tutela e della manus del diritto romano, che la donna era incapace di agire e di stare in giudizio. La donna rimaneva limitata anche nella sua capacità giuridica. Certo, le fonti non forniscono elementi per stabilire se esistesse una generale incapacità a possedere patrimonio della donna che si trovava sotto la munt paterna o coniugale, quale la conosciamo nella filia familias e nella uxor in manu. Ma sappiamo che nella successione ereditaria dei beni immobili essa passava in subordine rispetto ai parenti maschi prossimi e, una volta che le fosse assicurata la sussistenza, era incapace di ereditare un feudo. Anche l’assunzione della munt nei confronti di altri soggetti le era preclusa. Ma già nei diritti germanici del periodo delle migrazioni sono visibili le prime tracce di una riduzione della potestà dell’uomo sulla donna. Ciò vale soprattutto per il diritto gotico occidentale, per quello burgundo, quello franco e quello bavarese nonché, in misura ancora più incisiva, per il diritto anglosassone – tradotto fin dal VII secolo in varie leggi di fonte regia
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– unico fra i diritti germanici tribali ad essere redatto nella lingua del popolo. Nella estensione sopra descritta, che in origine valeva di sicuro per il diritto germanico nel suo complesso, la potestà dell’uomo si conservò viceversa intatta presso i longobardi, gli alemanni, i sassoni e i frisoni42. IV. Il diritto medievale A differenza che a Roma, dove possiamo seguire lo sviluppo giuridico dopo le Dodici Tavole sulla scorta di successive leggi nazionali, editti di magistrati e, a partire dalla tarda Repubblica, anche grazie a una letteratura giuridica sempre più ampia e ricca di informazioni, sullo sviluppo del diritto nell’Europa continentale – in particolare per quanto riguarda le materie rilevanti nel processo – calano già nel tardo periodo carolingio tenebre quasi impenetrabili. Questo vale di sicuro, per lo meno, per il Volksrecht; solo nel campo del diritto ecclesiastico l’ininterrotta prassi dei rescritti papali segna una strada continua nell’alto Medioevo. Queste tenebre non sono dovute a semplici lacune della tradizione, ma hanno la loro origine in una specifica regressione della società laica postcarolingia in forme di comunicazione quasi esclusivamente orali, se non altro nelle aree a nord delle Alpi e dei Pirenei; hanno la loro ragione, dunque, non in una carenza nella trasmissione delle fonti, ma in una carenza nella loro produzione. In Germania – ma questo vale in generale per tutta l’Europa continentale – le tenebre cominciano a diradarsi solo nei primi decenni del XIII secolo, e cioè dopo quattrocento anni. Dopo qualche precedente in Spagna (Fuero de León, Fuero de Cuenca), dell’XI e del XII secolo, compaiono quasi all’improvviso in molti luoghi raccolte giuridiche complessive, che nei regni dell’Europa meridionale e settentrionale acquistano validità per lo più come codici autorizzati dai signori locali, men-
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tre negli altri Paesi si affermano come codici di carattere privato in forza di un’autorità oggettiva43. La più antica testimonianza di questo tipo, e insieme più significativa, è in Germania il Sachsenspiegel, redatto per iscritto verso il 1230 da Eike von Repgow, un laico di nobili origini. Sul suo modello arrivano poi verso il 1270 lo Schwabenspiegel e, all’inizio del XIV secolo, il Frankenspiegel (piccolo codice imperiale) proveniente dall’area del medio Reno. Ancora nel XIII secolo al fianco di questi codici regionali compaiono raccolte delle consuetudini giuridiche delle città ora fiorite anche in Germania e collezioni di sentenze giudiziarie (sentenze degli scabini), fino a che verso l’inizio del XVI secolo città e sovrani cominciano a riformare i codici cittadini e regionali e a sanzionarli come codici formali44. Se interroghiamo queste fonti tedesche basso e tardomedievali del diritto circa la posizione giuridica assegnata in esse alla donna, riceviamo risposte che non sono perfettamente unitarie, ma ricordano ancora tutte le determinazioni dei diritti germanici, e lasciano anche intravedere sviluppi, per molti aspetti, nuovi. Collegandosi agli appigli già visibili nei codici tribali franco e bavarese, rafforzano ulteriormente la posizione di minorità della donna45. Una posizione che intanto non poteva più essere giustificata con l’incapacità femminile alla difesa, dal momento che anche per l’uomo la capacità di stare in giudizio non dipendeva più dalla sua capacità di difendersi con le armi, dopo che accanto alla grande nobiltà, alla piccola nobiltà e ai cavalieri si erano formati ceti privi di armi, come quello dei chierici, dei cittadini e dei liberi contadini. Si aggiungeva il fatto che – non da ultimo per l’influenza della Chiesa – la Sippe, la stirpe, aveva perso molta della sua importanza a favore della famiglia ristretta. Quest’ultimo elemento è anche il motivo per cui – a differenza che nell’antica Roma – il miglioramento della posizione della donna nel Medioevo andò quasi esclusivamente a vantaggio delle donne non sposate e delle vedove, e per la precisione, per quanto riguarda le
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prime, inizialmente solo a vantaggio di quelle uscite dalla potestà paterna con la morte del padre. In seguito, nel corso del tardo Medioevo ogni donna nubile adulta, in particolare nelle città, ma in molti casi anche nelle campagne, poté liberarsi in larga misura della munt. Solo nell’estremo nord della Germania, e cioè nelle regioni di diritto frisone o lubecchese nonché nei confinanti territori dell’impero appartenenti all’area culturale tedesca, come nello Schleswig dominato dal diritto jutico (e anche in tutti i Paesi nordici), nel territorio prussiano dell’Ordine Teutonico (e nella Prussia-del-re legata alla Polonia) in Curlandia e in Livonia, lo stato di minorità della donna continuò a essere in pieno vigore. Negli altri Paesi, la vecchia munt si conservò – se mai – in alcune autorizzazioni residuali, che erano confinate di regola all’ambito processuale: in questo campo la donna continuò a rimanere sotto molti aspetti vincolata all’assistenza maschile, rimase cioè incapace di stare in giudizio o almeno la sua capacità era soggetta a restrizioni. Ma sia in questo campo sia in quello della rappresentanza nelle negoziazioni di diritto privato, la munt, per quel tanto che sopravviveva, consentiva alla donna di scegliere liberamente il proprio tutore e di limitarne i pieni poteri allo specifico processo (o allo specifico negozio giuridico). La munt concepita alla maniera originaria, cioè come piena tutela che riconosceva al suo titolare il diritto di agire anche senza o persino contro la volontà della donna che vi era soggetta, era andata affievolendosi fino a diventare una semplice curatela o assistenza, che non poteva andare più al di là della volontà negoziale legale della donna e conservava ormai solo funzioni di conferma. Così anche nella conduzione del processo il tutore doveva tener conto della volontà della donna e il giudice doveva fare attenzione all’atteggiamento che la donna teneva nel corso del processo, se cioè lo seguiva hilari vultu o con le lacrime agli occhi. Nella veste di donna impegnata nel commercio e in
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attività produttive, cioè come titolare in proprio di un’impresa commerciale o artigianale, essa poteva in molti casi stare in giudizio addirittura da sola e in piena indipendenza. L’esercizio di simili attività produttive, quando si trattava di impresa inquadrata in una corporazione, era di per sé riservato all’uomo, ma alla morte di lui poteva subentrare al suo posto la vedova (‘privilegio della vedova’); ogni donna nubile poteva però esercitare imprese commerciali (a volte anche alcune imprese inquadrate nelle corporazioni). In molte parti della Germania, ogni donna nubile poteva persino agire e circolare senza l’assistenza di un curatore)46, cioè poteva operare da sola e indipendentemente, tanto nei negozi giuridici quanto davanti al tribunale. Ciò accadeva soprattutto nel territorio tribale dei Bavari, in particolare quindi nel ducato di Baviera (non però nell’arcivescovado di Salisburgo) e in Austria (Arciducato d’Austria e Austria Interna), ma non nel Tirolo, nonché nell’Austria Anteriore svevo-alemanna (quindi per esempio nell’attuale Vorarlberg). Valeva anche per ampie parti dell’area di diritto franco (come per il territorio del medio Reno e per i franchi del Main, ma non per il Palatinato e per Hohenlohe, e nemmeno per il principato di Ansbach). Analoga a quella della Baviera e dell’Austria era la posizione femminile in Boemia e in Moravia dove l’emancipazione civile della donna raggiunse le punte più avanzate all’interno dell’Impero. La donna sposata, al contrario, rimase ancora in generale sotto la potestà protettiva dell’uomo, chiamata ora Vogtei, anche se nel frattempo la relazione matrimoniale non veniva più intesa come un rapporto di dominio ma piuttosto come un rapporto fra compagni. Il contenuto essenziale della Vogtei matrimoniale era costituito ora proprio dalla potestà di rappresentanza legale della donna. Ma anche a questo riguardo erano già visibili qua e là tendenze a un arretramento della Vogtei matrimoniale, come lasciano intravedere per esempio
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le sentenze degli scabini della corte di Ingelheim appartenente all’area di diritto franco47, o come si verificò in Austria48. Nel corso del Medioevo, peraltro, la donna non vide migliorare solo il suo status attivo, diventando – per quanto solo gradualmente e parzialmente – capace di agire. Essa guadagnò terreno anche sul piano del suo status passivus, quindi della sua capacità giuridica, e poté liberarsi di alcuni dei privilegia odiosa che le erano attaccati. Così, per esempio, essa vide migliorare la sua posizione nel diritto ereditario e nel diritto di feudo. Nel campo della successione ereditaria continuò ancora ad avere una posizione di secondo piano rispetto ai maschi ma solo in un ambito ereditario più ristretto (precedenza del figlio rispetto alla figlia, del fratello rispetto alla sorella di colui che lasciava l’eredità). Nel campo del diritto di feudo essa poteva ora, per il tramite di un uomo di fiducia (‘portatore di feudo’), entrare ugualmente nella successione del diritto e anche la munt sui figli divenne accessibile alla vedova. Analogo a quello della Germania è l’andamento dello sviluppo medievale anche in Olanda49 e in Francia50, dove tuttavia si sono avute molte varianti locali – cosa vera del resto pure per l’ambito tedesco – che, nonostante la stretta somiglianza, hanno portato alla fine a notevoli differenze nella posizione giuridica della donna. Nell’insieme, comunque, anche per questi Paesi si può dire che la munt sulla donna adulta non sposata è andata arretrando più o meno fortemente o è scomparsa del tutto – specialmente per la vedova e la donna impegnata nel commercio e in attività artigianali – e che l’incapacità della donna di stare in giudizio si è conservata più a lungo delle limitazioni alla sua capacità di agire in ambito privatistico. La donna sposata, al contrario, anche qui è rimasta in generale sotto la tutela del coniuge. Pure nell’ambito giuridico del droit écrit, e cioè nella metà meridionale della Francia, dove in precedenza aveva dominato lo statuto romano per la donna, l’evoluzione giuridica si mosse lungo questa linea, nel senso che la donna nubile
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rimase capace di agire, mentre la donna sposata divenne, per statuto giuridico, incapace. Un cammino simile a quello della Francia meridionale fu seguito dal diritto in Inghilterra, anche se su premesse storiche del tutto diverse. Qui, dopo che già al tempo anglosassone la donna aveva raggiunto una posizione giuridica di grande indipendenza rispetto agli altri codici germanici e quindi uno status abbastanza vicino a quello romano, nel basso Medioevo la donna nubile diventò completamente matura, mentre la donna sposata, il cui status giuridico era drasticamente sotto l’influsso del diritto feudale normanno, si trovò assoggettata a una severa tutela coniugale51. In Italia, invece, si osservano tendenze divergenti52. Nella città di Venezia, che tenne testa ai longobardi e in un primo tempo rimase sotto l’alta autorità della Roma d’Oriente, poté continuare a valere quasi immutato lo statuto romano della donna (a differenza che nell’esarcato di Ravenna, ugualmente rimasto libero dal dominio longobardo, o nel Patrimonium Petri). A Genova tale statuto poté affermarsi persino contro il diritto longobardo. Qui rimase capace di agire non soltanto la donna nubile, ma anche la donna sposata. Ma nel resto d’Italia, compreso il Sud, le impostazioni giuridiche longobarde ebbero il sopravvento, senza che nel corso successivo del Medioevo si producessero quelle modificazioni sulla strada dell’emancipazione delle donne che abbiamo visto verificarsi negli omologhi codici post-germanici a nord delle Alpi. Così, la maggior parte dei codici statutari italiani mantennero il mundium anche sull’adulta nubile, in modo che non soltanto la donna sposata, ma anche la donna non sposata rimase incapace di negoziare e di stare in giudizio. Persino le abitanti romane del Paese, che fin allora avevano vissuto iure romano e quindi erano state libere dalla tutela maschile, furono assoggettate ora a quel mundium che per loro era del tutto estraneo.
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V. La ricezione del diritto comune e il diritto nella prima età moderna V.1. Situazione di partenza e tendenze dell’evoluzione Come abbiamo visto, la posizione giuridica raggiunta dalla donna, e soprattutto dalla donna sposata, alla fine del Medioevo, rimaneva anche a nord delle Alpi, e in particolare in Germania, di parecchio arretrata rispetto allo status giuridico che le veniva riconosciuto dal diritto romano-giustinianeo. Quando, a partire dall’inizio del XVI secolo, anche in Germania giuristi formatisi sul diritto romano lo introdussero nei tribunali dell’impero, dei prìncipi e delle città e lo resero familiare in Germania53, sarebbe stato facile aspettarsi che la sua ricezione avrebbe contribuito a dare una forte spinta verso l’emancipazione della donna. Ma, sorprendentemente, questo si può affermare solo con molti distinguo, anzi va detto che a volte accadde addirittura il contrario54. Come già si era verificato al momento della sua riscoperta in Italia quattrocento anni prima, le concezioni giuridiche della tradizione germanico-medievale, con cui andò a scontrarsi il così diverso diritto giustinianeo, erano evidentemente tanto radicate nella mentalità e apparivano tanto più rispondenti alle esigenze sociali quali venivano percepite, che contro di esse in un primo tempo il diritto romano non riuscì ad affermarsi affatto o solo con grande difficoltà. Perfino nell’Italia meridionale, dove dalla tarda antichità il diritto romano era rimasto in vita e non aveva subito l’attacco di alcun codice tribale germanico (come era accaduto invece per la parte settentrionale della penisola invasa dal diritto longobardo), i codici cittadini gli ritirarono la loro fedeltà. Così, la tutela della donna sposata, la non indipendenza anche della donna nubile in tribunale e la sua posizione arretrata nel diritto ereditario si presentavano in qualche misura come il concreto ius commune contro lo ius romanum55, e tutto il resto dell’ordinamento romano rimase in gran parte lettera morta; una lettera sicuramente pronta a riempirsi
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di nuovi orizzonti concettuali e, in mutate condizioni sociali, a riprendere vita, come poi gradualmente accadde un po’ dappertutto a partire dal tardo Illuminismo. I periodi del Rinascimento e dell’Umanesimo, della Riforma56 e della Controriforma, dell’assolutismo e dello Stato di polizia evidentemente non erano ancora maturi per questo. Al contrario, lo spirito del tempo della prima età moderna – che quanto a ‘oscurità’ non aveva nulla da invidiare al Medioevo, per molti versi anche più tollerante –, assunse ora alcuni tratti decisamente avversi alle donne e rafforzò il predominio dell’uomo tanto nella sfera familiare quanto nella sfera pubblica. Così anche l’immagine del matrimonio che aveva fatto capolino nel tardo Medioevo, quella cioè improntata al sentimento dei coniugi come compagni – un’immagine che avrebbe potuto far pensare a un arretramento anche della tutela coniugale o comunque a un ulteriore dispiegamento degli accenni allora già osservabili e orientati in questa direzione nei codici particolari – fu sostituita dalla concezione del matrimonio come rapporto di signoria del primo assolutismo, che ristabilì la potestà di dominio nel matrimonio, almeno in molti codici territoriali57. La debolezza del diritto romano ricevuto, che non riuscì a imprimere la sua impronta sul diritto personale della donna, caratterizza anche il diritto processuale comune. Quest’ultimo aveva le sue radici non già nel Corpus iuris giustinianeo, ma nella dottrina giudiziaria dei canonisti del XIII secolo, attinta dalle fonti giuridiche canoniche. Inizialmente in uso solo nei tribunali ecclesiastici, dal tardo Medioevo trovò progressivamente applicazione anche nei tribunali secolari, in Germania almeno a partire dalla fine del XV secolo, dapprima nei più antichi ordinamenti giudiziari di alcune signorie regionali più evolute – ad esempio nel Württemberg (1475), nel Palatinato (1479-1480) o nell’Elettorato di Sassonia (1488) –, poi in tutto l’impero con gli ordinamenti della suprema corte imperiale del 1495, 1521 e 1548-1555; questi ultimi furono poi assunti a
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modello via via anche dagli altri principati tedeschi nei loro ordinamenti giudiziari, come per esempio quello di HessenMarburg (1497), di Baden (1510), di Magonza, del Brandeburgo (entrambi 1516), della Baviera (1520), di Colonia (1537-1538) e del Braunschweig (1556)58. L’atteggiamento del diritto canonico (anche nella sua parte giudiziaria) nei confronti della donna era ambivalente59. Da una parte la valorizzava come persona e come portatrice di volontà assolutamente alla pari con l’uomo. Questo appare evidente soprattutto dalle norme relative al matrimonio (e al divorzio), ma anche da quelle relative per esempio ai sacramenti (nel battesimo, nella confermazione, nella confessione e nell’estrema unzione, ma non nell’eucaristia e nell’ordinazione sacerdotale). Anche davanti al forum internum la donna aveva un posto esattamente uguale a quello dell’uomo. Ma in altri settori essa veniva lasciata indietro rispetto all’uomo. In particolare ciò era vero per le norme riguardanti gli uffici ecclesiastici, che le rimasero preclusi in ambito ecclesiastico allo stesso modo che, come sappiamo, nell’ambito secolare. Anche nei tribunali ecclesiastici non c’era posto per lei, e alla sua testimonianza era riconosciuto un minore valore di prova che a quella dell’uomo60; questo aveva una sua coerenza in quanto nel processo dotto il testimone doveva costituire per il tribunale un aiuto alla conoscenza e non più, come nel periodo germanico, un sostegno di parte nella contesa. Tuttavia non le fu mai negata la capacità di intentare un processo come parte. L’affermazione che la donna si trovasse in uno status subiectionis nei confronti dell’uomo, come sostenuto da Graziano in accordo con tradizioni più antiche, era un modo di descrivere in maniera generalizzata le numerose diminuzioni di status formalizzate nelle norme del diritto canonico, e non invece una regola giuridica dalla quale si dovevano derivare altre diminuzioni di status non formalizzate, come una limitazione generale della capacità di agire. Evidentemente anche il diritto canonico fece prevalere
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contro se stesso i regolamenti di status dei rispettivi codici particolari secolari spesso ben lontani dallo stesso diritto canonico, regolamenti che sbarravano alla donna l’accesso indipendente ai tribunali ecclesiastici. Così anche la capacità della donna di stare in giudizio era per lo più, secondo il codice processuale comune, solo una capacità virtuale – come la sua capacità negoziale secondo il diritto civile comune. In ogni caso, il processo di emancipazione tardomedievale – che in Germania e in altre parti dell’Europa continentale a nord delle Alpi aveva portato alla donna non sposata, nell’ambito del diritto privato, se non la piena equiparazione almeno un avvicinamento allo status dell’uomo soprattutto sul piano della capacità di agire, e nell’ambito della procedura civile talvolta anche la capacità di stare in giudizio – all’inizio dell’età moderna si bloccò, malgrado la ricezione del diritto comune stesse raggiungendo il suo momento culminante e malgrado in Germania andasse acquistando proprio allora più spazio61. Come già accennato, a partire dall’inizio del XVI secolo il processo di emancipazione cominciò a fare passi indietro, sotto l’influenza, almeno in Germania e in Svizzera, dello spirito patriarcale del tempo (in azione, peraltro, non solo in questo campo), nelle idee dei giuristi, dei teologi e dei teorici dello Stato, tanto che la donna non sposata perse di nuovo l’indipendenza che aveva raggiunto nel frattempo in parecchi codici particolari. La progressiva demolizione della munt in quanto rapporto di potestà originariamente globale, che era iniziata con la liberazione della donna dalla potestà extrafamiliare degli agnati ed era andata avanti con la scomparsa anche della potestà paterna all’interno della famiglia, aveva fatto nascere, secondo questi giuristi, teologi e teorici dello Stato, un pericoloso vuoto per il benessere della donna, che doveva essere riempito con l’introduzione di una sorveglianza protettiva sul ‘sesso debole’62. Così fu creata – con le armi ora del diritto comune e in analogia con la cura minorum o con la cura prodigi
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– una cura sexus (la cosiddetta Geschlechtsvormundschaft tedesca), alla quale erano adesso assoggettate tutte le donne. Comunque, per la donna nubile essa – come già le sopravvivenze della munt del tardo Medioevo – non si spinse mai al di là dell’autorizzazione a un’assistenza. Rispetto alla donna sposata, la cura sexus era esercitata dal marito come cura maritalis, rispetto alla donna nubile dal padre, da un altro parente o da una qualsiasi persona di fiducia di sesso maschile a sua scelta (cura sexus in senso stretto). Solo la vedova e la donna impegnata nel commercio o in un’impresa potevano affermare la propria indipendenza. Si pensò di far risalire questi diritti di cura persino allo stesso diritto comune, che nella sua forma trasmessa e ricevuta nel Corpus iuris giustinianeo non conosceva propriamente né una cura sexus generale né una cura maritalis; adducendo così vari passi biblici e antiche citazioni di classici tratte da diversi testi del Corpus iuris, in cui si parla di una più ridotta attività negoziale della donna, il divieto di intercessione fu generalizzato a generale incapacità di agire. Da segnalare, in particolare, per la loro influenza in questo campo sono per esempio Andreas Tiraquellus63, che afferma una generale incapacità della donna a negoziare indipendentemente dal suo stato familiare, o Hieronymus Treutler64, che sostiene esplicitamente la stessa incapacità solo in riferimento alla donna sposata. Va qui rilevato che l’opera di Tiraquellus tratta propriamente solo del diritto matrimoniale della Coutume del Poitou, estende poi l’incapacità di agire della donna sposata che vi è stabilita a tutte le donne, e lo fa giustificando il tutto non con le tradizioni del droit coutumier ma con argomenti universali, e postulando quindi la sua presenza anche nel diritto comune; l’opera di Treutler, invece, che è dedicata al diritto comune, giustifica la cura maritalis solo con fonti tedesche di diritto particolare. Altri autori, viceversa, continuano a riconoscere la presenza, nel diritto comune, della capacità di agire della donna65.
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Un’altra cosa interessante da rilevare è che le tendenze che portarono a un arretramento o a un blocco totale dell’emancipazione delle donne in campo privatistico si affermarono in Germania negli ambienti evangelici e fra questi soprattutto negli ambienti luterani, mentre fu principalmente nei territori rimasti cattolici che la donna poté conservare la capacità di agire raggiunta già nel XVI secolo, come mostreremo qui di seguito. V.2. La cura sexus e la sua diffusione Fra le aree in cui il processo di emancipazione tardomedievale si arenò nel XVI secolo o addirittura fece marcia indietro vanno annoverati il territorio svevo-alemanno e alcune regioni confinanti che facevano parte della zona etnica franca. Qui, a quanto pare, il movimento di emancipazione tardomedievale non era andato comunque molto avanti; ma questo non deve indurre a concludere che in alcuni luoghi la generale minorità della donna debba essere ricondotta a una non indebolita sopravvivenza della munt medievale anziché a un allargamento della cura sexus di recente introduzione. Riscontriamo, infatti, con sorpresa che la tutela della donna generale e illimitata compare in uguale misura tanto nelle città e nelle comunità regionali della confederazione che si erano mostrate più restie ad accogliere il movimento di emancipazione66 quanto nelle zone dell’alto Reno e della Svevia appartenenti all’impero che si erano mostrate più pronte ad accoglierlo. Così, per esempio, il codice regionale württemberghese del 1555, segnato peraltro fortemente dall’impronta del diritto comune, assoggetta (di nuovo) la donna all’illimitata curatela maschile67. Non diversamente procede la legislazione dei sovrani di più piccoli territori, come per esempio il codice regionale degli Hohenzollern del 169868. Anche in alcune zone franche confinanti, come nel Baden(-Durlach) e nei principati del territorio di Hohenlohe, la nuova tutela di sesso conquista spazio69. Né questo sviluppo si è fermato davanti ad alcuni codici cittadini dell’alta Svevia e
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dell’alto Reno, come per esempio a Ulma, a Friburgo, e anche nella vicina Heilbronn, un tempo franca70. Come già per l’Italia medievale, vediamo qui che la libertà borghese cittadina non fu incondizionatamente favorevole all’emancipazione delle donne, perlomeno non nel campo del diritto privato. Un altro esempio è costituito, come abbiamo visto, dal codice di Lubecca, nell’area etnica sassone71. Qui la minorità globale della donna trasmessa dal Medioevo andò incontro al nuovo spirito del tempo e si confermò. Avrebbe trovato un potente sostenitore in un uomo come Mevius72, e poté appunto affermarsi saldamente nelle città tanto da resistere fino alla seconda metà del XIX secolo. Così nelle città lubecchesi, e nella stessa Lubecca, ma anche a Weimar, a Rostock e nelle altre principali città del Mecklenburg, dello Holstein e in Pomerania, nonché – a ovest dell’Elba – nella regione di Hadeln e in parte anche nell’arcivescovado di Brema, la donna rimase soggetta da quel momento in poi a un’illimitata tutela di sesso73. La stessa cosa vale per il codice cittadino di Amburgo (ma non di Brema), imparentato con il codice di Lubecca, per le regioni di diritto frisone Dithmarschen e Frisonia orientale, e – fuori dell’impero – per il granducato dello Schleswig, dominato dal diritto jutico, e per il granducato di Prussia e Prussia-del-re (Prussia polacca), improntati dal diritto kulmiano74. Anche l’intero Mecklenburg avrebbe dovuto essere assoggettato, secondo un progetto di codice regionale elaborato da Mevius, a una tutela di sesso globale, ma ne fu alla fine risparmiato perché il progetto non fu mai convertito in legge né acquisì autorità pratica. La tutela di sesso generale e illimitata poté infine penetrare in alcuni campi del diritto comune sassone, dove la donna nubile aveva continuato a essere soggetta fino a quel momento solo alla tutela nelle controversie (Kriegsvogtei)75. In questo caso, certo, così come nell’area giuridica lubecchese e frisone e a differenza che nell’area della Germania sud-occidentale, si trattava di regioni in cui la ricezione del diritto romano aveva
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incontrato una resistenza più forte che, appunto, nell’alto Reno. La tutela nelle controversie presente nel diritto comune sassone si consolidò in una tutela di sesso globale in tutto l’elettorato di Sassonia e in tutta la Lausitz, e qua e là anche in Turingia (per esempio nello Schwarzburg-Sondershausen, nella città imperiale di Mühlhausen, e in alcune città della regione) e in Slesia (per esempio nei principati di Oels e Oppeln-Ratibor)76. Temporaneamente poté conquistare anche la Kurmark (il cuore della marca di Brandeburgo), dove peraltro – così come nella Pomerania (dalla parte della marca, esclusa quindi la Pomerania svedese), segnata dal diritto lubecchese – non solo la tutela generale di sesso ma anche la cura litis scomparve di nuovo già nella prima metà del XVIII secolo. Così anche nella Kurmark la bozza di codice regionale del 1594 prevedeva inizialmente una generale e illimitata tutela di sesso77. Nonostante la mancata trasformazione in legge e la mancata promulgazione, questa bozza fu considerata per molti versi come un codice a tutti gli effetti. Ma per quanto riguarda la tutela di sesso, a quanto pare, non fu seguita dappertutto, e andò sempre più limitandosi all’assistenza nei processi, fino a che alla fine scomparve del tutto. Già nella normativa su tutori e tutele del 23 settembre 1718 non si parlava più della tutela di sesso78. Non entrò tuttavia in vigore un regolamento giudiziario del 1739 che doveva valere per tutti gli Stati prussiani (e quindi non solo per la Kurmark), nel quale la tutela di sesso sulla donna non sposata veniva soppressa esplicitamente, come del resto era accaduto a una corrispondente bozza di legge dell’elettorato sassone del 169979. Così al momento dell’emanazione del codice regionale generale (Allgemeines Landrecht) del 1794, nel codice della Kurmark, che continuò a essere in vigore come diritto provinciale, e in quello della (vecchia) Pomerania80, la tutela di sesso non era più prevista, a differenza per esempio del codice provinciale dell’ex granducato di Magdeburgo o della Slesia.
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Nel resto del territorio in cui vigeva il diritto comune sassone, e quindi in altre parti della Turingia (esclusa Erfurt) e della Slesia, nell’Anhalt e nei vescovadi di Haberstadt e Magdeburgo nonché nel Lauenburg e nello Holstein e in alcune città della bassa Sassonia, come per esempio Lüneburg, ci si fermò alla tardomedievale tutela nelle controversie, mentre nella Erfurt legata con l’elettorato di Magonza questa era già addirittura scomparsa81. Anche nella parte rimanente della Germania i progressi raggiunti nel tardo Medioevo furono complessivamente conservati. Così, in molte zone sparse in tutta la Germania ci si fermò alla tardomedievale tutela nelle controversie. Questo vale per esempio – al di fuori dell’area di diritto comune sassone – per la Westfalia82, dove pertanto la donna viveva secondo lo statuto vigente nelle province olandesi di confine, per il sud dell’impero per il Palatinato83, per il principato di Anspach84, per il Tirolo85, per l’arcivescovado di Salisburgo86, e anche per .la maggior parte delle città imperiali dell’alta Svevia, come Augsburg87, Memmingen88, Kempten89, Lindau90. Così, l’indipendenza – limitata solo dall’assoggettamento a una tutela nelle controversie – rimase in qualche misura fino all’inizio del XIX secolo la condizione normale della donna nubile nell’Europa centrale e occidentale, una posizione che rappresentava insieme il giusto mezzo fra la tutela generale di sesso che conquistava terreno, di cui prima parlavamo, e la completa capacità di agire in qualche luogo sparso già conseguita. Questo status non fu infatti più perduto dalla donna – quali che fossero le tendenze dominanti – là dove essa lo aveva raggiunto già prima della fine del Medioevo, come nella regione del medio Reno, nell’area franca del Meno e nel territorio dell’etnia bavarese-austriaca (meno Salisburgo e Tirolo). A quanto pare, anzi poté addirittura guadagnare terreno – o sotto l’influenza del diritto comune, o indipendentemente da esso e in prosecuzione di percorsi emancipativi autoctoni – e anzi
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comparve ora anche in aree in cui fin allora non era attestato con sicurezza, come nel territorio dell’Assia e in quello della bassa Sassonia e nel Mecklenburg (a parte le città lubecchesi). Insieme con la cura sexus sulla donna nubile scomparve in tutte queste zone in buona misura persino la cura maritalis. Questo processo, tuttavia, è a tutt’oggi largamente oscuro. La sua rilevanza è relativizzata anche dal fatto che la dote della donna era per lo più vincolata nella comunione dei beni, per cui la donna poteva disporne – quando poteva – solo insieme con il marito, i debiti da lei contratti senza il consenso di lui non erano vincolanti e la sua capacità di assumere obbligazioni era quindi soltanto virtuale. Verso la fine del XVIII secolo, comunque, esiste già un’ampia fascia di territori che attraversa tutta la Germania dalle coste fino ai paesi alpini, in cui ogni donna adulta, sposata o no, godeva della completa capacità di agire. Tale fascia va dal Mecklenburg ad Hannover, al Braunschweig, all’Assia e a Nassau per arrivare fino alla Baviera e all’Austria. In qualche punto si estendeva forse addirittura fino alla parte occidentale dell’impero, e cioè nell’area del Reno e della Mosella, in aree in cui comunque la generale cura sexus non aveva potuto insediarsi e in cui si era conservata al massimo una tutela nelle controversie (alla fine accettata volontariamente), come nelle vicine province olandesi e francesi. L’immagine che si ha dunque della Germania all’inizio dell’era della codificazione, quindi a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, è molto poco unitaria91. Si va dalla tutela generale e illimitata di sesso su tutte le donne alla cura maritalis con (parziale) capacità di agire delle donne nubili fino alla illimitata capacità di agire anche della donna sposata; ne deriva un ampio ventaglio di varianti quale riscontriamo solo nell’Italia medievale e della prima età moderna. È, inoltre, un’immagine in qualche modo fuorviante per mancanza di informazione, in quanto su molti punti specifici non sono state condotte ancora indagini sufficienti. Su questi punti c’è urgente bisogno di lavori monografici preliminari che rendano possibi-
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le una sintesi più affidabile92. Tali lavori preliminari dovrebbero fondarsi soprattutto sull’esame delle fonti, in gran parte a stampa, costituite dalle sentenze dei tribunali supremi, e quindi della suprema corte imperiale, del Consiglio della corte imperiale e dei tribunali supremi territoriali, nonché sui documenti conservati negli archivi giudiziari. Solo attraverso di essi, infatti, si potrà ricostruire esattamente quando, dove e in quale misura lo status delle donne del diritto romano ha potuto alla fine affermarsi nella concreta pratica giuridica. VI. Il XIX secolo VI.1. I codici di diritto naturale Con i codici risalenti all’ultimo scorcio dell’era del diritto naturale, e cioè in Prussia con l’Allgemeines Landrecht (ALR) del 1794, in Francia con il Code civil del 1804 e in Austria con l’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB) del 1811, inizia – in Germania come nel resto d’Europa – una nuova fase della storia dell’emancipazione della donna sul versante del diritto privato e del diritto processuale, durante la quale, lungo un percorso durato circa mezzo secolo, vengono soppresse le limitazioni ancora in vigore della sua capacità di agire e di stare in giudizio. Qui i progressi introdotti da quei codici rispetto alla precedente posizione giuridica della donna sono ancora relativamente modesti. Abbiamo già delineato lo status giuridico che essi le riconoscono esaminando gli inizi del diritto attualmente in vigore. Vogliamo ora ricapitolarlo, come stazione di passaggio nel processo dell’evoluzione storica. Comune ai tre codici è il fatto che non conoscono più alcuna tutela generale di sesso; in nessuno di essi (e in nessuno dei successivi) ciò è detto esplicitamente, ma risulta dal fatto che la donna non compare più nel numero ben definito delle persone assoggettate a tutela o a
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curatela. Limitata nella capacità di agire o anche nell’indipendenza – in misura diversa nei tre codici – rimane ancora soltanto la donna sposata. L’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB). Il codice austriaco concedeva alla donna la misura massima di indipendenza e si dimostrava quindi anche sotto questo aspetto come il più progredito dei tre grandi codici civili del tempo93. Secondo l’ABGB non soltanto la donna nubile, ma anche la donna sposata è illimitatamente capace di negoziare e di stare in giudizio; a quest’ultima tocca ancora sopportare solo una potestà di rappresentanza legale da parte del marito94 – concorrente con la possibilità per lei di condurre affari in proprio. Nei Paesi che costituivano il nucleo dell’Austria – e quindi nell’arciducato (Austria Inferiore e Superiore) e nei Paesi austriaci interni (Steiermark, Carinzia, Krain, territori costieri) e peraltro anche in Boemia e in Moravia – il nuovo codice poteva partire da un punto favorevole, in quanto qui la donna già prima aveva raggiunto un grado elevato di indipendenza. Diversa era invece la situazione di partenza nelle zone già facenti parte dell’Austria anteriore, come nel Voralberg e nel principato del Liechtenstein rimasto autonomo95, nonché nel Tirolo legato all’Austria, per non parlare dei territori appena conquistati nel 1815, fra cui, nei Paesi ereditari tedeschi, l’ex arcivescovato di Salisburgo, nonché nel Lombardo-Veneto o nella Galizia toccata all’Austria già con le spartizioni della Polonia del 1772 o del 1795. In tutte queste aree aveva dominato inizialmente una tutela di sesso generale e totale; solo nel Lombardo-Veneto il Code civil aveva nel frattempo portato almeno alla donna nubile la completa indipendenza96. Ma l’ABGB portò ora anche qui alla donna sposata quella indipendenza facoltativa che è caratteristica degli effetti matrimoniali di questo codice. Questa normativa servì successivamente da modello al diritto privato della Livonia, dell’Estonia e della
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Curlandia del 1864, che lo zar – come si vedrà – diede alle sue province del Mar Baltico. L’Allgemeines Landrecht (ALR). Più complicata è la posizione giuridica della donna nel codice prussiano97. La donna non sposata – a parte alcune eccezioni (§ 221 ss.) – è anche qui capace di negoziare e di stare in giudizio98. La donna sposata è incapace di stare in giudizio (§ 189) e – di nuovo, a parte determinate eccezioni (come ad esempio il potere della chiave, § 202, §§ 320-328) – incapace di negoziare in rapporto alla sua dote, ma per il resto è capace di condurre affari (§ 221). Viene rappresentata legalmente dal marito, il cui potere di rappresentanza è illimitato, e si estende quindi tanto alla dote quanto ai beni parafernali, in rapporto ai quali concorre quindi con la possibilità per la donna di disporne in prima persona (§ 188). Solo la donna impegnata nel commercio e in attività produttive è illimitatamente capace di negoziare e di stare in giudizio indipendentemente dalla sua posizione nella famiglia (§ 488). In questo modo, l’ALR rimane certo indietro rispetto all’ABGB con le sue conquiste di emancipazione; migliorava, è vero, la posizione giuridica della donna rispetto al diritto fin allora in vigore, ma è tuttavia chiaro che in quelle parti del Paese in cui era ancora diffusa la tutela nelle controversie (per esempio nell’ex ducato di Magdeburgo, in Slesia, forse anche nei possedimenti del basso Reno e della Westfalia, quindi a Kleve, nella Marca, a Ravensberg, Minden e Lingen) o addirittura una cura sexus globale (come nella Frislandia orientale, nelle città lubecchesi della nuova Pomerania anteriore e nell’ex territorio dell’Ordine Teutonico) questi miglioramenti non riuscirono in un primo tempo a prendere piede dappertutto a causa della validità solo sussidiaria del codice prussiano. Il Code civil. Indietro rispetto alla posizione raggiunta dall’ABGB rimase alla fine anche il Code civil99. Anch’esso,
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certo, al pari dell’ABGB non conosce più alcuna cura sexus in senso stretto e la capacità di affari della donna è tacitamente presupposta. La donna non sposata, così come nel codice prussiano e in quello austriaco, è capace di negoziare e di stare in giudizio; rimane esclusa qui la sola capacità di cambiale, che spetta unicamente alla femme marchande100. La donna sposata, tuttavia, continua a sottostare – a differenza, in questo, che nell’ABGB – a una illimitata autorité maritale, senza che le sia riconosciuto, come è nell’ALR, un potere di conduzione personale degli affari in concorrenza col potere di rappresentanza del marito in relazione ai suoi beni parafernali101. Solo la femme marchande può – anche se sposata – disporre liberamente nell’ambito delle attività attinenti ai suoi affari, ma per nel processo ha bisogno pure qui del consenso del marito102. Anche il Code civil, tuttavia, al pari dell’ALR, ha rappresentato un progresso rispetto ai codici precedenti, in quanto non conosce più alcuna tutela di sesso per la donna nubile. Con il che, certo, esso di per sé ha offerto alla Francia qualcosa di solo parzialmente nuovo, dal momento che già nell’ancien droit la donna nubile era, almeno fuori dai processi, di gran lunga capace di agire, se si prescinde dai codici di certi Paesi fin allora appartenuti all’impero e passati alla Francia soltanto nel XVII secolo (come l’Alsazia, e forse parti della FrancheComté). Un po’ diversamente stanno le cose per quel che riguarda la maggior parte dei Paesi non appartenenti alla Francia prerivoluzionaria, in cui il Code civil si impose o fin dall’inizio, o perché introdotto successivamente. Qui la donna nubile solo nella Germania sulla sinistra del Reno (e prevalentemente anche sulla destra del Reno, nella misura in cui il Code vi fu introdotto) come in ampie parti della vecchia Olanda aveva raggiunto una posizione relativamente indipendente paragonabile a quella dell’ancien droit français; anzi qua e là era stata già indipendente persino la donna spo-
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sata, tanto che in questi casi l’introduzione del Code civil peggiorò addirittura il suo status, come accadde nel granducato di Francoforte e in parti dell’Assia, di Hannover e del Braunschweig appartenenti al regno di Westfalia. Nelle altre aree d’Europa in cui il Code civil fu introdotto – come per esempio nella parte interna dell’Olanda dove vigevano i codici cittadini del Brabante settentrionale (quello di Anversa, Bergen-op-Zoom, ‘s-Hertogenbosch)103, nella Frisonia orientale104, nella regione di Hadeln, in parti del vecchio ducato di Brema (nell’Altes Land e nelle città di Stade e di Buxtehude) e nelle città di Amburgo e Lubecca, e inoltre nell’ex principato vescovile di Basilea (l’attuale cantone del Giura), a Mühlhausen (ma non a Ginevra)105, nonché soprattutto in vaste aree dell’Italia e non da ultimo in Polonia – il codice napoleonico venne a scontrarsi viceversa ancora con una tutela di sesso generale. Qui esso portò alla donna non sposata la liberazione dal suo stato di minorità – o già nel 1804 (come ad Anversa e in altre città del Brabante oggi appartenenti al Belgio, nel Giura, a Mühlhausen, nonché nel Piemonte) o negli anni successivi (nel 1806 nel regno d’Italia, nel 1808 nel regno di Napoli e nel granducato di Toscana, nel 1809 in quel che rimaneva dello Stato della Chiesa, nel 1810 nelle parti del Brabante del Nord oggi appartenenti all’Olanda, fra cui Bergen-op-Zoom e ‘s-Hertogenbosch106, nella Frisonia orientale, nel vecchio ducato di Brema, nella regione di Hadeln, ad Amburgo e Lubecca, nonché nel granducato di Varsavia. Le conquiste del Code civil si dimostrarono per lo più stabili. E per l’esattezza questo si verificò non solo là dove il Code civil rimase in vigore – come nella stessa Francia, in Belgio e in Lussemburgo, a Ginevra e nel Giura bernese, nella Germania a sinistra del Reno e nel ducato di Berg nonché nella Polonia del Congresso (in quella parte, cioè, del granducato di Varsavia assegnata alla Russia dal Congresso di Vienna) – ma anche là dove dopo il 1814 fu nuovamente abolito. Nelle zone a destra
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del Reno diventate (nuovamente) prussiane, e quindi nella parte del vecchio ducato di Kleve sulla riva destra del Reno, nella provincia di Westfalia, nella provincia di Sassonia e nella Altmark, nonché, infine, nei territori polacchi fin allora appartenenti al granducato di Varsavia, e cioè nella provincia di Poznan/Posen, nel Kulmer Land e nella città di Thorn, o dove comunque ritornò in vigore il codice prussiano, come nel vecchio gran principato di Lingen e nella Frisonia orientale, la donna conservò, sulla base dell’ALR ormai valido per lei senza riserve, uno status più o meno equivalente a quello del Code civil; solo a Danzica, dove ugualmente il Code civil era stato introdotto, l’ALR di ritorno diede la precedenza al vecchio codice cittadino e in tal modo riportò la donna indietro alla sua condizione di minorità. Dove al Code civil subentrarono nuovi codici territoriali, come nel regno di Sicilia (1819), nel ducato di Parma (1820), nel Regno di Sardegna-Piemonte (1837), nel ducato di Modena (1851)107, e anche nel regno d’Olanda (1838), questi ultimi confermarono la capacità di agire della donna nubile. Dove tornò in vigore il vecchio codice particolare, come nello Stato della Chiesa nel 1816108, la tutela di sesso generale, che con esso sarebbe dovuta ritornare, fu abolita con una legge specifica. Dove il vecchio codice particolare non tornò in vigore e al posto del Code civil subentrò il diritto comune, come nel granducato di Toscana nel 1814, lo stato di indipendenza della donna non sposata fu fondato in seguito sullo ius commune anziché sul Code civil, ma si pose attenzione ad evitare, con una legge specifica, che il cambiamento andasse a favore della donna sposata, la quale rimase invece assoggettata alla autorité maritale109. Solo là dove in Germania il Code civil dovette fare posto di nuovo al diritto comune, ogni donna ritornò al suo vecchio status. Sicché, a Francoforte, nell’elettorato dell’Assia, nel Braunschweig, a Oldenburg nonché a Hannover anche la donna sposata diventò di nuovo indipendente, mentre ad
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Amburgo e Lubecca e dentro il regno di Hannover nella regione di Hadeln, nell’Altes Land e nelle città di Stade, di Buxtehude e di Lüneburg anche la donna nubile dovette di nuovo accettare inizialmente le vecchie limitazioni alla sua capacità di agire. Per capire quanto, nonostante tutto, il Code civil sia stato comunque importante per l’emancipazione civile-giuridica della donna, basterà considerare in quale condizione giuridica essa dovette continuare a vivere in talune aree che erano rimaste fuori del suo campo di validità, come per esempio nei codici dei cantoni svizzeri (persino di quelli italiani, che un tempo avevano accolto con tanta disponibilità il Code civil), nel codice del Badisches Land (per il quale vale la stessa cosa), nei codici territoriali di Svevia, Turingia e Sassonia, nei codici cittadini lubecchesi e – per il resto d’Europa – nei codici, per esempio, dei Paesi nordici, delle province del Mar Baltico, della Romania o dell’Ungheria (per non parlare degli Stati balcanici o della Russia). Qui in un primo tempo continuò a dominare anche in seguito dappertutto la tutela di sesso. La sua graduale abolizione – che in Germania ebbe luogo per lo più nel secondo quarto del secolo, nella Svizzera nei decenni intorno alla metà del secolo, nei Paesi nordici, che poi sul finire del secolo assumeranno persino un certo ruolo guida nel portare l’uguaglianza giuridica alla donna in Europa, nel Baltico, in Romania e in Ungheria solo nel terzo quarto del XIX secolo – segna appunto le stazioni sulla strada dell’autodeterminazione della donna tracciata dal Code civil e dai due codici naturali tedeschi. VI.2. La geografia degli statuti delle donne. Le tre aree giuridiche Dopo che nel 1812 entrò in vigore l’ABGB austriaco, ultimo dei tre grandi codici della fine del secolo precedente, la Germania dell’epoca si trovò a essere costituita da tre diverse aree giuridiche in rapporto allo status delle donne.
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Lo
spazio giuridico delle codificazioni di diritto naturale
(aree senza cura sexus e con cura maritalis). Una di queste tre aree era quella di validità dell’ALR, dell’ABGB e del Code civil. Era caratterizzata dalla soppressione della cura sexus in senso stretto e dalla sopravvivenza della cura maritalis. Dopo le restaurazioni post-napoleoniche, questo territorio abbracciava in primo luogo l’area in cui continuò a valere il diritto francese, quindi la Germania a sinistra del Reno e il ducato di Berg (area di diritto renano) sulla destra del Reno110. In secondo luogo, comprendeva l’area in cui aveva continuato a valere il diritto prussiano o in cui fu reintrodotto nel 1816, a parte i luoghi in cui il diritto prussiano cedette il passo a un divaricante statuto delle donne di codici particolari che prevedevano la tutela di sesso generale111. A differenza di quanto imposto più tardi dal Code civil e dall’ABGB, infatti, l’ALR pretese fondamentalmente una validità solo sussidiaria, e lasciò quindi intatto il diritto particolare precedentemente esistente. Il quale peraltro, nelle aree che sulla scia della restaurazione territoriale fra il 1814 e il 1816 divennero (nuovamente) prussiane e in cui il codice preesistente (per lo più il Code civil) aveva eliminato il vecchio diritto particolare, non fu restaurato nel momento in cui fu (re-)introdotto l’ALR. E non fu nemmeno conservato il codice dell’elettorato di Sassonia. Così lo statuto delle donne dell’ALR si impose senza limitazioni nelle province del Brandeburgo (salvo che nei distretti già appartenuti al Magdeburgo e alla Neumark meridionale), nella Pomerania (meno che nelle città lubecchesi della Nuova Pomerania e nelle strisce della Pomerania posteriore già appartenute alla Prussia occidentale), nella Sassonia, nella Westfalia e nella Renania (nella misura in cui qui tornò a valere il diritto prussiano, quindi nella Renania Inferiore sulla riva destra del Reno), inoltre nella Frisonia orientale che nel frattempo era passata sotto Hannover e Lingen e nell’AnsbachBayreuth ormai bavarese, e infine – uscendo dalla vecchia area
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dell’impero – nella provincia di Poznan e nella parte della Prussia occidentale già appartenuta al granducato di Varsavia (Kulmer Land, Thorn). In terzo luogo, infine, appartenevano a questo spazio, all’interno dell’altra area di diritto austriaco, i cosiddetti territori tedeschi ereditari della monarchia austriaca, quindi Austria Inferiore, Austria Superiore, Steiermark, Carinzia, Krain, i territori costieri (Trieste, Gorizia, Istria), Tirolo, Voralberg, Salisburgo, Boemia, Moravia e Austria-Slesia, nonché il sovrano principato del Liechtenstein; tutti luoghi in cui la cura maritalis, per la verità, già concorreva con la possibilità per la donna di condurre in prima persona i propri affari più importanti, per cui conservò la sua validità solo fino a quando la donna consentì di tenerla in vita. Lo spazio giuridico di diritto comune (aree senza cura sexus Accanto a questo spazio c’erano quelle altre zone in cui non soltanto scomparve (o non era mai stata accettata) la cura sexus, ma andò nel frattempo fuori uso anche la cura maritalis, per cui la donna viveva secondo il diritto comune. Qui l’emancipazione civile della donna era andata più avanti che nello spazio di validità dei tre codici (in particolare dell’ARL e del Code civil) e, per quel che riguardava la capacità di agire della donna, aveva già raggiunto la posizione della ZPO del 1877 e del BGB del 1896, se si prescinde soltanto dalla sopravvivenza del divieto di intercessione di diritto comune, che però in molti territori fu abolito nel terzo quarto del secolo, e cioè ancor prima dell’emanazione della ZPO. Questo spazio abbracciava i due grandi granducati del Mecklenburg (meno Rostock, Wismar e alcune città della regione), il regno di Hannover (meno il territorio di Hadeln, l’Altes Land e le città di Stade, Buxtehude e Lüneburg), il ducato di Oldenburg, il ducato del Braunschweig, i principati di Lippe, Schaumburg-Lippe e Waldeck, il ducato di Nassau, il regno e e senza cura maritalis).
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granducato di Assia, il langraviato di Hessen-Homburg, la città di Francoforte e il regno di Baviera (con l’eccezione di AnsbachBayreuth, dove rimase in vigore l’ARL, di HohenlohischFranken, delle parti del Paese già appartenenti a Salisburgo e alla Svevia Superiore). Se ai Paesi con statuto delle donne di diritto comune si aggiunge l’area di diritto austriaco, cosa che si giustifica per il fatto che il potere maritale di rappresentanza (in quest’ultimo ancora esistente) aveva ormai solo carattere sussidiario, si può dire che la donna – nella misura in cui lo voleva – poteva curare i propri affari indipendentemente, per cui si arriva al risultato che la donna già nel 1815 era comunque capace di agire in più della metà dei territori appartenenti alla federazione tedesca. Lo
spazio giuridico di antichi diritti particolari rimasti in
(aree con cura sexus e cura maritalis). In un terzo gruppo di territori la capacità di agire della donna era invece limitata non soltanto dalla cura maritalis – come nei tre codici, per quanto in misura diversa –, ma anche dalla cura sexus sulla donna nubile, e il suo status giuridico pertanto rimase arretrato rispetto alla posizione raggiunta con i tre codici; questa tutela di sesso poteva essere limitata a una tutela nelle controversie o estendersi anche ai negozi di diritto privato, come accadeva da ultimo ancora nelle città lubecchesi, nella ex Prussia dell’Ordine Teutonico, in Sassonia, nel Württemberg e nel Baden112. Qui, persino la più recente legislazione, cioè il codice regionale del Baden del 1809 – staccandosi per la verità dal suo modello, il Code civil – aveva confermato ancora una volta la tutela di sesso generale e illimitata, che fu così introdotta anche nei territori guadagnati dal 1803, dove fin allora era stata in uso clandestinamente solo la tutela nelle controversie (come nell’elettorato del Palatinato) o la donna era considerata del tutto indipendente (come nell’elettorato di Magonza), non diversamente, d’altronde, dal regno del Württemberg, che impose il suo codice vigore
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regionale riveduto del 1610, portato con sé dai tempi del ducato, anche nei territori del nuovo Land del Württemberg e rese quindi obbligatoria la tutela di sesso illimitata in esso prevista anche là dove le donne nubili in tempi precedenti erano assoggettate solo alla curatela nelle controversie (come in generale nei territori montuosi a sud del Danubio)113. Lo spazio giuridico in cui era in vigore tanto la cura maritalis quanto la cura sexus delle donne nubili (alla fine ridotta a una tutela nelle controversie), era costituito – secondo la geografia politica degli accordi del Congresso di Vienna – dal granducato del Baden, dal regno del Württemberg, dai due principati degli Hohenzollern, dagli Stati della Turingia, dal regno di Sassonia, dai granducati dell’Anhalt-Bernburg, dell’Anhalt-Dessau e dell’Anhalt-Köthen, dai ducati dello Schleswig, dello Holstein e di Lauenburg, dalle tre città libere del Nord e da parti del Mecklenburg (le città di Rostock, Wismar e alcune piccole città di diritto lubecchese), dello Hannover (il Land Hadeln, l’Altes Land e le città di Stade, Buxtehude e Lüneburg), della Baviera (i territori appartenuti un tempo allo Hohenlohe o a Salisburgo e alla Svevia Superiore) e da parti della Prussia. Qui erano interessate le aree con un codice particolare ancora in vigore, che stabiliva la tutela di sesso, quindi i distretti del Brandeburgo un tempo appartenuti al Magdeburgo e alla parte meridionale di Neumark, le città lubecchesi della Nuova Pomerania anteriore e del Rügen (fra cui Stralsund e Greifswald) e la Slesia, nonché – al di fuori del vecchio impero – l’ex Prussia dell’Ordine Teutonico ad eccezione del Kulmer Land, che nel frattempo era passato al granducato di Varsavia, e della città di Thorn. VI.3. La fine della tutela di sesso La strada che le donne dovettero ancora percorrere dall’inizio del XIX secolo fino al conseguimento della piena capacità di agire nel campo del diritto privato e di quello processuale fu diversa da Paese a Paese a seconda della situazione di partenza.
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La più lunga fu quella che dovettero percorrere i Paesi dove aveva potuto dominare non solo la cura maritalis ma anche la cura sexus generale. Qui di regola dovette prima di tutto essere abolita quest’ultima, e solo dopo si poté procedere alla fine alla soppressione della tutela matrimoniale. In una situazione di questo tipo si trovavano le donne oltre che nelle aree appena menzionate della federazione tedesca e più tardi dell’impero tedesco, nella maggior parte dei cantoni svizzeri, nonché nell’insieme dei Paesi nordici e in tutta l’Europa orientale, fatta eccezione per la Polonia, che era arrivata a godere del diritto prussiano, francese o austriaco. Qui la cura sexus generale, la cui conservazione era sentita ovunque sempre più come inutile o persino fastidiosa dalla fine del XVIII secolo114, scomparve in tutti gli Stati da essa interessati già nei primi decenni del XIX secolo in alcune zone, ma per la maggior parte nel secondo quarto o al più tardi nel terzo quarto del secolo. Stati tedeschi. Per quel tanto che era ancora diffusa in Germania, la tutela di sesso sulla donna nubile fu abolita prevalentemente nella prima metà del XIX secolo, in qualche raro caso ancora più tardi, anche fino al 1875. Ma già dalla fine del XVII secolo aveva qua e là conosciuto un progressivo decadimento115: anche là dove inizialmente si era conformata come cura sexus globale, era andata sempre più riducendosi a una cura litis o addirittura non era più percepita, in quest’ultima versione, come vincolante, o perché la legislazione del signore regionale non confermò più la tutela di sesso sulla donna nubile116 – o almeno non più nella misura in cui era stata in vigore fin allora –, o perché nella prassi negoziale o processuale andò semplicemente fuori uso. Non è quindi da escludere che i documenti espliciti di abolizione elencati nelle legislazioni di parecchi territori non facessero che sanzionare una situazione già esistente nella realtà. La tutela di sesso sulla donna nubile scomparve poi completamente nei ducati dell’Anhalt fra il 1784 e il 1822117, nella pro-
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vincia della Prussia orientale nel 1801118, nelle città un tempo appartenenti al vescovato di Brema e ora all’Hannover di Stade e Buxtehude nel 1824119, nel principato di Reuss-Greiz nel 1825120, nel principato di Schwarzburg-Sondershausen, nella città libera di Brema e nei distretti già magdeburghesi della provincia del Brandeburgo nel 1826121, nel regno del Württemberg e nel regno di Sassonia nel 1828122, nella provincia della Prussia occidentale (nella misura in cui era lì ancora in uso, come per esempio a Danzica) e nelle parti già della Prussia occidentale della provincia di Pomerania nel 1829 e 1830123, nei distretti meridionali della Neumark della provincia del Brandeburgo nel 1832124, nel ducato di Sassonia-Meiningen (incluso Sassonia-Hindenburghausen incorporato nel 1826) e nella provincia della Slesia nel 1833125; nel granducato di Baden nel 1835, nel granducato di Sassonia-Coburgo-Gotha e nel ducato di Sassonia-Altenburg nel 1836, nel granducato di Sassonia-Weimar nel 1839, nel principato di HohenzollernSigmaringen nel 1840, nel principato di Reuss-Gera nel 1848, nel principato di Schwarzburg-Rudolstadt e nella città di Lüneburg nell’Hannover nel 1849126; nelle città di diritto lubecchese della provincia di Pomerania (fra cui Stralsunda e Greifswald) nel 1855, nelle parti sveva, francese e già salisburghese della Baviera (nella misura in cui era fin allora ancora in uso) nel 1861, nella città di Rostock nel Mecklenburg nel 1863, nelle città di diritto lubecchese del Mecklenburg nel 1867, nella città libera di Lubecca e nelle province – divenute nel frattempo prussiane – dello Schleswig-Holstein e Hannover (per quel tanto che la tutela di sesso era qui ancora stabilita, nell’Hannover quindi solo nel Land Hadeln e nell’Altes Land), nonché nel ducato di Lauenburg ugualmente amministrato dalla Prussia nel 1869, nella libera città di Amburgo nel 1870, e infine nella città di Wismar nel Mecklenburg e nell’ex principato di Hohenzollern-Hechingen – divenuto nel frattempo prussiano – nel 1875127.
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Quando nel 1879 entrò in vigore la ZPO, la cura sexus sulla donna nubile era scomparsa manifestamente dappertutto, e la precisazione in essa contenuta secondo cui le norme relative alla tutela di sesso non si applicavano alla conduzione dei processi non aveva quindi più altro valore che di pleonastica conferma128. Soltanto il divieto alla intercessione di diritto comune rimase in un primo tempo sostanzialmente non toccato dall’abolizione della cura sexus. Ma anche i suoi giorni erano contati. Per lo più cadde anch’esso ancora prima della fine del secolo, nella maggior parte dei casi intorno al 1870129, con la successiva legislazione regionale, o al più tardi con il BGB. Se dunque la cura sexus sulla donna nubile con l’emanazione della procedura civile (ZPO) era scomparsa intanto da tutta la Germania, la cura maritalis poté rimanere in vigore là dove ancora sussisteva all’inizio del XIX secolo, e quindi nello spazio giuridico francese e prussiano nonché nella maggior parte delle aree in cui era stata inoltre in uso anche la cura sexus in senso stretto, di regola sino alla sua eliminazione ad opera della legislazione imperiale130. Solo il Württemberg e lo Schwarzburg-Sondershausen l’avevano eliminata insieme con la cura sexus sulle nubili già negli anni 1820. Tutte le altre leggi di abolizione sopra citate per la cura sexus in senso stretto avevano lasciato intatta la cura maritalis, e anzi per lo più ne avevano ordinato esplicitamente la sopravvivenza. Anche il BGB sassone del 1863, così vicino al diritto comune, la confermò ancora una volta131. A differenza dunque che per la cura sexus sulle nubili, alla fine toccò in realtà alla legislazione imperiale, quindi alla ZPO del 1877 o al BGB del 1896, il compito di consegnarla alla storia. La Svizzera. In Svizzera, i cui territori rientravano fra quelli in cui la cura sexus si era allargata e stabilizzata nel XVI secolo e aveva potuto resistere fino all’ultimo come tutela di sesso globale, la donna non sposata poté cancellare il suo stato di minorità ugualmente nel corso del XIX secolo, al più tardi con
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la legge federale del 1881, mentre alla donna sposata questo riuscì al più tardi con il codice civile svizzero del 1907132. Quanto alla capacità di agire in ambito privatistico essa risulta, come già nel BGB tedesco, dal fatto che manca dalla norma giuridica secondo cui ogni adulto è maturo e ogni persona matura capace di giudizio è capace di agire qualsiasi riferimento a un’eccezione che riguardi la donna sposata (e la donna in genere) (artt. 12-14). Solo la capacità della donna sposata di stare in giudizio è contemplata esplicitamente nel codice (art. 168, cpv. 1). Quanto alla dote della donna entrata nel calcolo dei beni comuni, è l’uomo ad avere l’esclusiva autorizzazione ad agire in processo (cpv. 2). La cura sexus sulla donna nubile era stata abolita nella maggioranza dei cantoni già prima del 1881 con la legislazione cantonale, e di sicuro con i codici civili cantonali. I primi esempi risalgono qui addirittura all’inizio del XVIII secolo. La tutela di sesso sulla donna nubile viene abolita già nel 1714 a Ginevra, nel 1715 anche a Zurigo133. In maniera sorprendentemente esitante seguono poi nel corso del XIX secolo gli altri cantoni. Così i primi codici cantonali del XIX secolo, come quelli di Waadt (1820), di Berna (1826), di Aargau (1828) e di Lucerna (1832) non riuscirono ancora ad abbandonarla; e, fra i successivi, anche quelli di Wallis (1853) e Graubünden (1862) la conservarono134. I primi codici civili che rinunciarono ad essa furono quelli di Friburgo (1834), di Tessin (1837) e di Solothurn (1841)135. Allo stesso modo procedono poi – con l’eccezione appunto di quelli di Wallis e di Bündner – tutti i successivi, cioè il codice civile di Neuenburg (1854) e i codici civili del gruppo di Zurigo, che – attraverso la mediazione del codice privato zurighese (1853) – prendono a modello il più recente diritto cittadino di Zurigo, e cioè Nidwalden (1853), Thurgau (1860), Zug (1862), Schaffhausen (1862) e Glarus (1870)136. La capacità di agire della donna nubile anche in questi codici risulta sempre dal fatto che la donna non viene più nominata fra le perso-
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ne su cui esercitare tutela. In altri cantoni la cura sexus sulla donna nubile viene abolita con leggi specifiche, o perché i loro codici civili non avevano ancora potuto decidere a loro tempo, come a Berna (1847), nell’Aargau (1867), a Lucerna (1871) e a Waadt (1873), o perché non si era arrivati affatto alla creazione di un codice civile, come a Schwyz (1851), a Basilea città (1876) e Basilea regione (1879)137. A Ginevra e nel Giura bernese, territori che al momento in cui entrò in vigore il codice napoleonico erano francesi, continuò a valere il Code civil138; a Ginevra si rimase quindi con la liberazione della donna nubile dai ceppi della tutela di sesso già raggiunta nel 1714, mentre nel Giura, dove questo progresso fu dovuto proprio al Code civil, la tutela di sesso ritornò temporaneamente (1826-1839) con l’applicazione del diritto bernese139. Fu dunque solo nei cantoni di San Gallo, Appenzell, Uri, Graubünden e Wallis, che la tutela di sesso sulla donna non sposata cadde finalmente grazie alla legge federale del 1881. Nei cantoni romanzi, che – pur non avendo adottato direttamente il Code civil, come Ginevra e il Giura – lo avevano complessivamente seguito, la donna sposata era soggetta all’autorité maritale140 e divenne capace di agire e di stare in giudizio solo con lo ZGB. Nei cantoni tedeschi l’aiutò a raggiungere questo traguardo già il codice del 1881, allorché possedeva una proprietà speciale sulla quale la legislazione cantonale le assegnava la disponibilità unica. Per il resto anche qui essa fu liberata dalla tutela matrimoniale solo tramite lo ZGB; ma continuò a non potere far fronte a debiti da lei contratti ricorrendo alla proprietà coniugale complessiva senza il consenso del marito. Europa settentrionale e orientale. Nei Paesi settentrionali e nell’Europa orientale (con eccezione della Polonia) il processo di emancipazione si avvia un po’ più tardi che negli Stati della federazione tedesca e in Svizzera. La cura sexus, che si era qui affermata dappertutto come tutela di sesso globale, scompare
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solo dopo la metà del secolo, e per la precisione nel 1857 in Danimarca, nel 1863 in Norvegia e in Svezia, cui si aggiunse la Finlandia nel 1864141. In questo stesso anno decade anche in Romania, e nel 1865 nei Paesi del Baltico governati dalla Russia142. Nel 1874 finalmente anche l’Ungheria, insieme con tutti i Paesi a lei vicini – quindi Transilvania, Ardeal e Erdély, oggi appartenenti alla Romania, Croazia-Slovenia e Dalmazia più tardi aggregate alla Iugoslavia, e parti territoriali dapprima appartenenti all’Ungheria vera e propria e poi nel 1919 ugualmente ceduti a Stati vicini sul suo confine occidentale (l’attuale Burgenland austriaco) e settentrionale (Alta Ungheria, attuale Slovacchia) – raggiunse questo traguardo143. Unica fra questi Paesi, l’Ungheria liberò subito la donna sposata anche dalla tutela matrimoniale, mentre negli altri Paesi essa diventa completamente indipendente solo alla fine del XIX o nel corso del XX secolo. In due Stati nordici quest’ultimo fatto, cioè la liberazione della donna sposata dalla tutela matrimoniale, si verifica già nel XIX secolo, quindi notevolmente presto, e per la precisione in Norvegia nel 1888 e in Danimarca nel 1899; seguono la Svezia nel 1920 e la Finlandia nel 1929144. Nell’Europa orientale è l’Ungheria con la legge del 1874 il primo Paese che dà alla donna sposata la piena autonomia, cui segue nel 1921 la Polonia per quelli dei suoi territori in cui ancora mancava (quindi lo spazio giuridico del Code civil e dell’ABGB)145. In altri Paesi dell’Europa orientale la donna sposata diviene completamente indipendente solo dopo il 1945 sulla base degli assoluti postulati di uguaglianza delle costituzioni socialiste e delle successive leggi di famiglia che tenevano conto di queste esigenze. L’area di validità dell’ABGB. Nell’area di validità del codice austriaco, quindi negli ex Paesi ereditari tedeschi (Austria Inferiore e Superiore, Steiermark, Krain, Carinzia, Tirolo, Voralberg, Salisburgo, Boemia, Moravia, Slesia e territori costie-
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ri) e là dove era stato ugualmente introdotto (nel LombardoVeneto, nella città di Cracovia, in Galizia e nella Bucovina), tanto la donna non sposata quanto quella sposata erano, come abbiamo visto, capaci di agire e di stare in giudizio146. Qui era sopravvissuta come residuo della cura maritalis solo ancora la potestà di rappresentanza legale del marito, concorrente tuttavia con la possibilità per la donna sposata di condurre affari in proprio. L’eliminazione di questa secondaria limitazione dell’autonomia della donna appariva meno urgente rispetto alla tutela matrimoniale totale. La potestà della rappresentanza legale del marito rimase in vigore in Austria nella sua portata dal 1919 ridotta ai Paesi alpini fino al 1975; invece nel Sudtirolo e nel Trentino, a Gorizia, a Trieste e in Istria (il territorio costiero austriaco), dal 1919 appartenenti all’Italia, fino all’introduzione in quelle zone del Codice civile del 1865 avvenuta nel 1929, dopo che vi era già stata fatta cadere dal Code civil l’autorité maritale (art.134) inizialmente recepita, con una Novella del 1919147. Nel Liechtenstein la donna raggiunse la piena autonomia già nel 1926 con il codice civile creato sul modello svizzero148. Lo stesso era accaduto nei territori ritornati alla Polonia (la città di Cracovia e la Galizia) attraverso una Novella polacca del 1921. Nell’ex Iugoslavia (per Krain e Untersteiermark), e nell’ex Cecoslovacchia (per Boemia, Moravia e Slesia) la potestà di rappresentanza legale cadde solo quando l’ABGB, che vi era rimasto in vigore interamente fino al 1945, fu sostituito dai codici di famiglia nazionali dell’era socialista (Iugoslavia nel 1946, Cecoslovacchia nel 1963)149, nella misura in cui le costituzioni socialiste di questi Paesi, con i loro precetti di uguaglianza senza riserve, non avevano già prima provveduto a cancellare questo privilegio. All’interno degli ex governi russi del Baltico, il cui codice privato del 1865 aveva recepito la potestà cumulativa di rappresentanza del marito sul modello austriaco, questa fu sostituita in Lettonia con il codice civile lettone
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del 1937 attraverso un regolamento corrispondente al BGB tedesco150. Nell’Estonia si conservò fino all’annessione degli Stati baltici all’Unione Sovietica, il cui ordre public anche qui escluse la sopravvivenza di una simile istituzione che contraddiceva al principio di uguaglianza già prima della creazione dei nuovi codici civili nel 1964. Nel Lombardo-Veneto, che già dal 1859 e dal 1867 non apparteneva più all’Austria, la donna ricadde di nuovo con il primo Codice civile del 1865 sotto la potestà maritale, fino a che non ne fu sciolta con la sopra citata Novella del 1919 per essere equiparata all’uomo nella sua capacità di negoziare e di stare in giudizio. L’area di validità del Code civil e la Common Law. Più forte che nell’area di diritto austriaco, dove ormai solo la potestà cumulativa di rappresentanza del marito per la propria moglie si opponeva alla completa equiparazione di quest’ultima all’uomo, era invece l’esigenza di riforma nei Paesi del Code civil, poiché qui l’autorité maritale, cui la donna doveva sottostare, era totale. Fuori dell’ambito giuridico francese, la stessa cosa valeva del resto – pur con premesse storiche del tutto diverse – per la Common Law dell’Inghilterra. È abbastanza sorprendente che il processo di emancipazione della donna sposata, che anche qui ha luogo solo nel XX secolo, si metta in moto appunto nei Paesi del Code civil solo lentamente e si completi nella maggioranza dei Paesi solo nella seconda metà del secolo. Qui fu l’Italia, con la sua legge del 1919, la prima a dare alla donna sposata la piena indipendenza. Gli altri Paesi seguirono solo verso la metà del secolo, così la Francia nel 1938-42, la Romania nel 1953, l’Olanda del 1956, il Belgio nel 1958, o si sono concessi tempo addirittura fino all’ultimo terzo del secolo, come il Portogallo fino al 1966, il Lussemburgo fino al 1972, la Spagna fino al 1981151. Anche la Polonia va citata ancora una volta a questo punto, poiché nell’ex Polonia del Congresso
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(che succedette al napoleonico arciducato di Varsavia) continuò a valere il Code civil. Come abbiamo visto, la tutela matrimoniale venne qui abolita già nel 1921, quindi molto presto rispetto agli altri Paesi del Code civil. In Romania il postulato dell’uguaglianza senza eccezioni presente nella costituzione del 1948 bloccherà la sopravvivenza del privilegio di signoria matrimoniale già prima della nuova codificazione del diritto di famiglia. In Inghilterra, invece, il passo verso l’autonomia riuscì alla donna già prima della Seconda guerra mondiale, ancora prima della Francia, nel 1935152. I Paesi del Code civil e dei codici da esso derivati costituiscono quindi vistosamente nel panorama europeo il fanalino di coda dell’emancipazione della donna nel campo del diritto privato (fa eccezione solo l’Italia, mentre la Francia stessa si colloca in una posizione per lo meno di media arretratezza). Ma dal momento che, come abbiamo visto, essa si era chiusa in un Paese come l’Ungheria già nel 1874, in Norvegia nel 1888, in Danimarca nel 1899, nel Reich tedesco al più tardi nel 1900, in Svizzera nel 1907, in Svezia nel 1920, in Polonia nel 1921, in Finlandia nel 1929, in Inghilterra nel 1935, e quindi già prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale; e persino nell’Europa orientale fu aiutata dalle costituzioni socialiste a irrompere di colpo subito dopo la fine della stessa guerra; il fatto che in Austria la potestà di rappresentanza del marito cada solo nel 1975 ha davvero poca importanza, se si pensa che essa era stata solo sussidiaria, e cioè che la donna sposata, se voleva, già al più tardi dal 1812 poteva curare personalmente i propri affari. D’altronde, dobbiamo ancora una volta ricordare che la donna là dove aveva potuto vivere secondo l’immutato statuto delle donne del diritto romano-comune, come fino al 1900 in mezza Germania, sia da nubile sia da sposata non aveva avuto mai bisogno di una liberazione dalla tutela di sesso.
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Conclusione Nel presente contributo abbiamo dovuto limitarci a tracciare per grandi linee la storia della capacità di agire della donna, o per meglio dire: la storia piuttosto ondivaga della abolizione a livello normativo delle molteplici limitazioni che le erano imposte. Parlando per metafora, possiamo affermare di aver potuto far vedere solo la facciata dell'edificio, dietro cui si allungano profonde scalinate e si succedono molti angoli. Abbiamo dovuto lasciare fuori della nostra considerazione non soltanto le forze motrici, che hanno creato di volta in volta la situazione normativa, ma anche lo stesso aspetto normativo abbiamo potuto esaminarlo solo entro il ristretto angolo visuale attinente al nostro tema specifico. Soltanto di quando in quando abbiamo avuto occasione di accennare all'ulteriore contesto normativo in cui le norme relative alla capacità di agire erano inserite e dentro il quale avevano la loro funzione. E questo vale non solo per i casi in cui è del tutto evidente, come nella legislazione sul patrimonio coniugale. Così, per esempio, l'abolizione alla fine completa della tutela di sesso, iniziata a partire dalla fine del XVIII secolo, diviene pienamente comprensibile unicamente sullo sfondo del contemporaneo progressivo sganciamento della proprietà fondiaria dai vincoli imposti dal diritto di famiglia, dal quadro sociale e dalle norme relative alla proprietà terriera, nonché della libertà – che tende ora a diventare illimitata – di contratto e di ereditarietà. L'accantonamento della tutela di sesso non soltanto corrispondeva ai postulati emancipatori ed egualitari dell'Illuminismo, rendendo possibile alla donna di disporre della sua proprietà, ma allo stesso tempo andava incontro alle esigenze di un'economia di scambio che stava diventando sempre più aperta, con la massima mobilità del terreno e del suolo. Abbiamo dovuto rinunciare completamente a esaminare come la pratica giuridica si rapportava ai dati normativi e che cosa il quadro normativo abbia
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significato di volta in volta per i diversi modi di vita delle donne. Lo studio di tutti questi elementi resta affidato ad altre ricerche. Le considerazioni che siamo andati sviluppando possono suscitare l'interesse per tali ricerche e mettere a disposizione i dati normativi espliciti dell'unico strumentario per esse indispensabile.
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Note * Traduzione di Michele Sampaolo (revisione a cura di Angiolina Arru
e Domenico Rizzo). L’edizione originale tedesca di questo saggio – con il titolo Die Geschlechtsvormundschaft. Eine Überblick von der Antike bis ins 19. Jahrhundert – è apparsa nel volume Frauen in der Geschichte des Rechts. Von der Frühen Neuzeit bis zur Gegenwart, hrsg. Ute Gerhard, Monaco, Verlag C.H. Beck, 1997, pp. 390-451. Ringraziamo Ute Gerhard e la casa editrice per averne concesso la traduzione e la pubblicazione. Nella versione italiana è stato rispettato interamente il testo originale; la bibliografia è stata integrata con riferimenti alla letteratura italiana (si ringrazia Maria Teresa Medici per la collaborazione); per comodità del lettore, alcune note sono state accorpate. 1 Della tutela di sesso, ed esattamente con il termine di Geschlechtsvormundschaft, si parla tuttavia nell’articolo di D. Schwab, Gleichberechtigung (der Geschlechter), in Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte (d’ora in poi HRG), hrsg. A. Erler, E. Kaufmann, D. Werkmüller, Berlin, 1971, vol. 1, coll. 1696 sgg. 2 J. Weiske, Rechtslexikon für Juristen aller teutschen Staaten, enthaltend die gesamte Rechtswissenschaft, hrsg. Arndts et al., voll. 1-15, Leipzig, 18391861. 3 Cfr. K.W.E. Heimbach, Vormundschaftsrecht, ivi, vol. 13 (1859), pp. 327
sgg., qui pp. 521 sgg. Sulla letteratura primaria di questo periodo sulla Geschlechtsvormundschaft, cfr. A.A. Rudorff, Das Recht der Vormundschaft aus den gemeinen in Deutschland geltenden Rechten entwickelt, 2 voll., Berlin, 18321834, vol. 1, pp. 51 sgg.; W.Th. Kraut, Die Vormundschaft nach den Grundsätzen des deutschen Rechts, Göttingen, 1847, vol. 2, pp. 219 sgg.; H. Stobbe, Handbuch des deutschen Privatrechts, Berlin, 18842, vol. 4, pp. 427 sgg.
4 Fra i primi manuali sulle norme relative alla tutela nel Codice civile,
ossia nel Bürgerliches Gesetzbuch (d’ora in poi BGB), cfr. per esempio in Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, vol. 2, sez. 2, Das Familienrecht, hrsg. Th. Kipp, M. Wolff, Marburg, 19286, §§ 100 sgg. 5 Nei cantoni romanzi conseil judiciaire, un’assistenza che tuttavia anche qui – come nei cantoni tedeschi – si limitava a una semplice curatela processuale.
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6 La più antica delle fonti da me individuate che impieghi il termine di Geschlechtsvormundschaft, è il trattato di J.B. Wiesner, Das Vormundschaftsrecht sowohl nach gemeinen deutschen, kanonischen und römischen als auch nach heutigen statutarischen, vorzüglich nach sächsischen, schlesischen und übrigen preußischen Rechten theoretisch und praktisch in systematischer Ordnung abgehandelt, Halle, 1785. 7 Cfr. J. Weiske, Rechtslexikon, cit., vol. 13, p. 331. 8 “Reichsgesetzblatt” (d’ora in poi RGBl), n. 18 (agosto 1896), p. 195. 9 In base alla legge di introduzione del BGB del 18 agosto 1896, in RGBl, n. 1 (gennaio 1900), p. 604. Sulla posizione giuridica della donna sotto il BGB fino alle riforme della seconda metà del secolo, cfr. C. Bulling, Die deutsche Frau und das bürgerliche Gesetzbuch, Berlin, 18962; E. Ökinghaus, Die gesellschaftliche und rechtliche Stellung der deutschen Frau, Jena, 1925; D. Schwab, Gleichberechtigung und Familienrecht im 20. Jahrhundert, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 790-827. 10 Legge sulla parità dei diritti fra uomo e donna nell’ambito del diritto civile, del 18 marzo 1957, in “Bundesgesetzblatt” (d’ora in poi BGBl), vol. I, p. 609. 11 Cfr. anche E. Holthöfer, Die Rechtstellung der Frau im Zivilprozeß, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 575-599. 12 Questo risultava dal § 1375 c. 1 BGB, secondo il quale il diritto di amministrazione dell’uomo non comprendeva l’autorizzazione a impegnare la moglie con negozi giuridici. 13 § 1375 BGB; eccezioni § 1376 BGB. 14 Emendamento della legge di cittadinanza del Reich e dello Stato del 22 luglio 1913, del 20 dicembre 1974, in BGBl, vol. I, p. 3714; Prima legge di riforma del diritto matrimoniale e familiare, del 14 giugno 1976, ivi, p. 1421; Legge di riforma delle norme sull’assistenza ai genitori, del 18 luglio 1979, ivi, p. 1061; Sentenza del Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale federale) del 3 novembre 1982, ivi, p. 1596; Legge di riforma del diritto privato internazionale, del 25 luglio 1986, ivi, p. 1142; Sentenza del Bundesverfassungsgericht del 5 marzo 1991, ivi, p. 807; Legge di riforma del diritto del nome di famiglia, del 16 dicembre 1993, ivi, p. 2054. 15 Sulla preistoria del diritto matrimoniale del BGB cfr. S. Buchholz, Das Bürgerliche Gesetzbuch und die Frauen, in Frauen in der Geschichte des
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Rechts, cit., pp. 670-682, e B. Dölemeyer, Frau und Familie im Privatrecht des 19. Jahrhunderts, ivi, pp. 633-669. 16 Del 10 dicembre 1907, in BGBl, 1908, p. 233 (in vigore dal 1° gennaio
1912). Come il BGB, anche lo svizzero Zivilgesetzbuch presuppone la capacità negoziale per ogni donna, mentre statuisce esplicitamente, nell’art. 168 c. 1, solo la capacità di stare in giudizio per la donna sposata. 17 Per esempio nello Schwarzburg-Sondershausen (1826) e nel Württemberg (1828). 18 Articolo di legge 1874/XXIII; cfr. J. Zlinszky, Zivilgesetzgebung Ungarn, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren europäischen Privatrechtsgeschichte (d’ora in poi Handbuch), hrsg. H. Coing, vol. 3: Das 19. Jahrhundert, t. II, München, 1982, p. 2182. 19 Lov om Formuesforholdet mellem Aegtefaeller, del 29 giugno 1888, “Norsk Lovtidende“, n. 19. Seguì la Danimarca nel 1899, la Svezia solo nel 1920, la Finlandia nel 1929. 20 Emanato ed entrato in vigore il 21 marzo 1804. Sulla posizione giu-
ridica della donna sotto il Code civil in Francia, cfr. E. Laboulaye, Recherches sur la condition civile et politique des femmes, Paris, 1843; J. Rive, De la condition civile de la femme dans le droit moderne, Paris, 1900; J. Gay, Capacité de la femme mariée et puissance maritale dans l’élaboration du Code civil, in “Revue de l’Institut Napoléon”, n. 161, 1993, pp. 33-65; n. 162, 1994, pp. 51-64; n. 163, 1994, pp. 19-43; C. Duchen, Women’s Right and Women’s Lives in France 1944-1968, London, 1994; inoltre E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Frankreich, in Handbuch, vol. 3/I, pp. 908 sgg. Sulla posizione giuridica della donna in Belgio, cfr. G. Ciselet, La femme. Ses droits, ses devoirs et ses revendications. Esquisse de la situation légale de la femme en Belgique et à l’étranger, Bruxelles, 1930; G. Baeteman, Le statut de la femme dans le droit belge depuis le Code civil, in “Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions”, vol. 12: La femme, t. II, Bruxelles, 1962, pp. 577-602; E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Belgien, in Handbuch, vol. 3/I, pp. 1111 sgg.; M.T. Guerra Medici, La cittadinanza difficile, Camerino, 2000, pp. 25-42. 21 Sulla posizione giuridica della donna nell’area tedesca dominata dal diritto francese, cfr. B. Dölemeyer, Frau und Familie im Privatrecht des 19. Jahrhunderts, cit. 22 Promulgato dal 22 febbraio 1832 al 13 maggio 1834, in vigore dal 1°
ottobre 1838. Sulla posizione giuridica della donna nel Burgerlijk Wetboek
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del 1838, cfr. B. Bakker Nort, Schets van de rechtspositie der gehuwde vrouw, Diss. Groningen, 1914; M.J.E. Braun, De prijs van de liefde. De eerste feministische golf, het huwelijksrecht en de vaderlandse geschiedenis, Diss. Amsterdam, 1992; E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Niederlande, in Handbuch, vol. 3/I, pp. 1323 sgg. 23 Promulgato il 25 giugno 1865, in vigore dal 1° ottobre 1866. Sulla posizione giuridica della donna nel Codice civile del 1865, cfr. U. Sorani, La donna. Condizione giuridica. Saggio critico delle questioni più importanti intorno alla condizione giuridica della donna, Firenze, 1876; C.F. Gabba, Della condizione giuridica delle donne, Torino, 1880; C. Gallini, La donna e la legge, con prefazione di J. Grey, nuova ed. Roma, 1910; M. Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia: vicende antiche e moderne, Torino, 1970 (2° ed. 1996); P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1942), Bologna, 1974 (2° ed. 2002), pp. 164-187; F. Ranieri, Zivilgesetzgebung Italien, in Handbuch, vol. 3/I, pp. 345 sgg.; S. Rodotà, Le libertà e i diritti in Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, a cura di R. Romanelli, Roma, 1995; M.T. Guerra Medici, La cittadinanza difficile, cit., pp. 43- 84; importante soprattutto Presidenza del Consiglio dei ministri, Donne e diritto, Due secoli di legislazione 1796-1986, Roma, 1988. 24 Código civil spagnolo, promulgato il 2.7.1889, in vigore dal 27.7.1889;
Código civil portoghese, promulgato il 1° luglio 1867, in vigore dal 1° gennaio 1868. Sulla posizione giuridica della donna nel Código civil del 1889 cfr. D. Díez Enriquez, El derecho positivo de la mujer. Mujer soltera, casada, viuda y religiosa, Madrid, 1903; L. Lespine, La femme en Espagne. Étude juridique, sociale, économique et de législation comparée, Toulouse, 1919; R. García de Haro de Goytisolo, La situación de la mujer en el derecho privado español (XX sec.), in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 605-88. 25 Promulgato il 26 novembre 1864, in vigore dal 1° dicembre 1864. 26 Cfr., per tutti gli altri, Code civil, art. 217. 27 Cfr. G. Ripert, J. Boulanger, Traité de droit civil d’après le Traité de Planiol, vol. 1, Paris, 1956, p. 797. 28 Promulgato il 5 febbraio 1794, in vigore dal 1° giungo 1794. Sulla posizione giuridica della donna sotto l’Allgemeines Landrecht für die Preußischen Staaten (d’ora in poi ALR), cfr. S. Weber-Will, Die rechtliche Stellung der Frau im Privatrecht des Preußischen Allgemeinen Landrechts von
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1794, Frankfurt a.M.-Bern-New York, 1983; cfr. anche B. Dölemeyer, Frau und Familie im Privatrecht des 19. Jahrhunderts, cit.; U. Vogel, Gleichheit und Herrschaft in der ehelichen Vertragsgesellschaft – Widersprüche der Aufklärung, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 265-292; S. Weber-Hill, Geschlechtsvormundschaft und weibliche Rechtswohltaten im Privatrecht des preußischen Allgemeinen Landrechts von 1794, ivi, pp. 452-459. 29 Promulgato il 1° giugno 1811, in vigore dal 1° gennaio 1812. Sulla posizione giuridica della donna nell’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (d’ora in poi ABGB) cfr. J. Linden, Das österreichische Frauenrecht, 2 voll., Wien, 1834; F.J. Schopf, Das österreichische Frauenrecht. Eine praktische Darstellung aller Rechte und Pflichten, welche die Frauen aller Stände [...] zu beobachten haben. Nach den österreichischen Gesetzen und mit Rücksicht auf das Familienleben, Pest, 1857; M. Beth, Das Recht der Frau, Wien, 1931; cfr. anche B. Dölemeyer, Frau und Familie im Privatrecht des 19. Jahrhunderts, cit.; U. Floßmann, Die beschränkte Grundrechtssubjektivität der Frau. Ein Beitrag zum österreichischen Gleichheitsdiskurs, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 293-324; U. Vogel, Gleichheit und Herrschaft in der ehelichen, cit. 30 Cfr. anche E. Holthöfer, Die Rechtsstellung der Frau im Zivilprozeß, cit., p. 591. Sul diritto dotale nell’ALR nel quadro dell’epoca, cfr. U. Vogel, Gleichheit und Herrschaft in der ehelichen Vertragsgesellschaft, cit. 31 Cfr. B. Windscheid, Th. Kipp, Lehrbuch des Pandektenrechts. Unter vergleichender Betrachtung des deutschen bürgerlichen Rechts, Frankfurt, 19069, vol. 2, §§ 492 sgg.; sulla posizione giuridica della donna nel diritto comune di questo periodo, cfr. B. Dölemeyer, Frau und Familie im Privatrecht des 19. Jahrhunderts, cit. 32 ALR, II, 1, § 205. 33 Cfr. F. Förster, Theorie und Praxis des heutigen preußischen Privatrechts
auf der Grundlage des gemeinen deutschen Rechts, vol. 1, Berlin, 1865, § 26, II; ivi, vol. 3, Berlin, 1869, § 206.
34 ALR, II, 1, § 221, cui tuttavia seguono, negli artt. 222-226, casi di eccezione. L’art. 196, inoltre, esclude che si entri in simili legami, attraverso i quali «vengono mortificati i diritti sulla sua persona». 35 Cfr., per tutti, F. Förster, Theorie und Praxis, cit., § 26 I 2, § 206; nell’ultima edizione, curata da Eccius, ivi, vol. 1, p. 143; vol. 4, pp. 30 sgg.
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36 Cfr., per tutti, J. Winiwarter, Das österreichische bürgerliche Recht, syste-
matisch dargestellt und erläutert, parte I, Wien, 1838, § 112 (sul § 91 ABGB: «... poiché secondo le nostre leggi non esiste alcuna Geschlechtsvormundschaft, in forza della quale la donna abbia bisogno nei suoi negozi del consenso di un uomo in generale o in particolare del proprio marito»). L. Bussi, Le riforme teresiane nella dinamica della costituzione austriaca, in “Rivista di storia del diritto italiano”, n. 56, 1983, pp. 119-259. 37 Legge relativa a cambiamenti nell’ordinamento del processo civile,
del 17 maggio 1898, in RGBl, p. 256; notificazione della procedura civile, del 20 maggio 1898, nella versione vigente dal 1° gennaio 1900 in avanti, in RGBl, 1898, pp. 396 sgg., qui p. 410. 38 Promulgata il 30 gennaio 1877, in RGBl, p. 83 (in vigore dal 1° ottobre 1879). 39 Cfr. B. Windschied, TH. Kipp, Lehrbuch des Pandektenrechts, cit., § 54. 40 Su questo, cfr. M. Kaser, Das römische Privatrecht, 2 voll., München,
19712/19752, passim; Id., Das römische Zivilprozeßrecht, München, 1968, passim (ad indicem “Frauen“); A. Burdese, Manuale di diritto romano, Torino, 19873, cap. III (§ 10) e IV (§§ 2, 14 sgg. e 22). Letteratura specifica più recente: J.G. Fuchs, Die rechtliche Stellung der Frau im alten Rom, in Festgabe zum 70. Geburtstag von Max Gerwig, Basel, 1960, pp. 31-54; J. Gaudemet, Le statut de la femme dans l’Empire romain, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, 11: La femme, t. I, pp. 191-222; R. Villers, Le statut de la femme à Rome jusqu’à la fin de la République, ivi, pp. 177-189; C. Herrmann, Le rôle judiciaire et politique des femmes sous la République romaine, Bruxelles-Berchem, 1964; E. Burck, Die Frau in der griechisch-römischen Antike, München, 1969; J.-H. Michel, L’infériorité de la condition féminine en droit romain, in Travaux du Centre de Philosophie du Droit de l’Université libre de Bruxelles, vol. 6, L’Égalité, Études publiées sous la direction de R. Dekkers, P. Foriers, Ch. Perelman, L. Ingber, Bruxelles, 1975, pp. 191-207; A. del Castillo Alvarez, La emancipación de la mujer romana en el siglo I d.C., Granada, 1976; J. Plescia, Patria potestas and the Roman Revolution, in The Conflict of Generations in Ancient Greece and Rome, ed. S. Bertman, Amsterdam, 1976, pp. 143-169; P. Zannini, Studi sulla tutela mulierum, vol. 1, Torino, 1976; vol. 2, Milano, 1979; Id., Ancora sulla tutela mulierum, in “Rivista internazionale di diritto romano e antico”, n. 32, 1981, pp. 146-149; P.V.D. Baldson, Die Frau in der römischen Antike, München, 1979; T. Massiello, La donna tutrice. Modelli culturali e prassi giuridica fra gli Antonini e i Severi, Napoli, 1979; G.
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Clark, Roman Women, in “Greece and Rome”, n. 28, 1981, pp. 193-212; P. Voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in “Rivista internazionale di diritto romano e antico”, n. 31, 1980, pp. 37-100; R. Martini, La patria potestas in diritto romano. Un concetto in trasformazione, in “Studi Senesi”, n. 93, 1981, pp. 267-295; I. Freckelton, Woman in Roman Law, in “Classicum”, n. 9, 1985, pp. 16-20; W. Waldstein, Zur Stellung der Frau im römischen Recht, in Festschrift R. Muth, Innsbruck, 1983, pp. 559-571; S. Dixon, “Infirmitas sexus”. Womanly Weakness in Roman Law, in “Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis”, n. 52, 1984, pp. 343-371; L. Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano, 1984; P. Zannini, Quelques observations sur la tutelle des femmes à Rome, in “Archivio giuridico”, n. 104, 1984, pp. 719-728; P. Voci, Storia della patria potestas da Costantino a Giustiniano, in “Studia et Documenta Historiae et Iuris”, n. 51, 1985, pp. 1-72; J.F. Gardner, Women in Roman Law and Society, London, 1987; S.E. Looper Friedman, The Decline of manus – Marriage in Rome, in “Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis”, n. 55, 1987, pp. 281-296; G. Hanard, Manus et mariage à l’epoque archaïque. Un essai de mis en perspective ethnologique, in “Revue internationale des droits de l’antiquité”, III ser., n. 36, 1989, pp. 161-279; L. Cracco Ruggini, Juridical Status and Historical Role of Women in Roman Patriarchal Society, in “Klio”, n. 71, 1989, pp. 604-619; J. Beaucamp, Le statut de la femme à Byzance (4e-7e s.), vol. 1: Le droit impérial; vol. 2: Les pratiques sociales, Paris, 1990-1994; A. Biscardi, Spose, madri, nubili, vedove. Echi patristici nella legislazione tardo-imperiale, in “Accademia Romanistica Costantiniana”, Atti dell’VIII Convegno Internazionale, SpelloPerugia 29 sett.-2 ott. 1987, a cura di C. Crifò, S. Griglio, Napoli, 1990, pp. 325-334; J.-H. Michel, La femme et l’inégalité en droit romain. Deux études accompagnées de textes traduits et commentés, Bruxelles, 1990; J.-U. Krause, Witwen und Waisen im römischen Reich, 3 voll. [Heidelberger althistorische Beiträge und epigraphische Studien, voll. 16-18], Stuttgart, 1984 (voll. 1, 2)-1995 (vol. 3); Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in Storia delle donne, a cura di G. Duby, M. Perrot, vol. 1, L’antichità, Roma-Bari, 1990, pp. 103-178; E. Cantarella, Il paradiso romano. La donna tra diritto e cultura, in Orientamenti civilistici e canonistici sulla condizione della donna, a cura di M.T. Guerra Medici, Napoli, 1996, pp. 13-27; Ead., L’ambiguo malanno, condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma, 1985; G. Crifò, Sul problema della donna tutrice in diritto romano classico, in “Bullettino dell’Istituto di diritto romano ‘Vittorio Scialoja’”, n. 68, 1965, pp. 339 sgg.; Id., Le donne e la tutela, in “Labeo”, n. 28, 1982, pp. 56-89; A. Arjava, Women in Law in Late Antiquity, Oxford, 1998; F. Mercogliano,
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“Deterior est condicio foeminarum…”, in “Quaderni camerti di studi romanistici”, n. 29, 2000, pp. 209-220. 41 A tutt’oggi sempre fondamentale, R. Hübner, Grundzüge des deutschen
Privatrechts, Leipzig, 19305, pp. 72-75. K. Fisher Drew, Law and Society in Early Medieval Europe. Studies in Legal History, London, 1980. Altra bibliografia: O. Opet, Geschlechtsvormundschaft in den fränkischen Volksrechten, in “Mitteilungen des Instituts für österreichische Geschichtsforschung”, vol. 3, Ergänzungsband 1890, pp. 1-37, 5. Ergänzungsband 1896-1899, pp. 183308; P. Del Giudice, Il mundio sulle donne nella legge longobarda, in “Nuovi studi di storia e diritto”, Milano, 1913, pp. 83-137; M. Weber, Ehefrau und Mutter in der Rechtsentwicklung, Tubinga, 1907; K. Kroeschell, Söhne und Töchter im germanischen Erbrecht, in Studien zu den germanischen Volksrechten. Gedächtnisschrift für Wilhelm Ebel, in “Rechtshistorische Reihe”, n. 1, 1981, pp. 87-116; G. Merschberger, Die Rechtsstellung der germanischen Frau, Leipzig, 1937; E. Molitor, Zur Entwicklung der Munt, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte Germanistische Abteilung”, n. 64, 1944, pp. 112-172; F.-L. Ganshof, Les statut de la femme dans la monarchie franque, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 5-58; E.L. Hallgren, The Legal Status of Women in the Leges Barbarorum, Boulder, 1977; C.M. O’Neal, Marriage and the Status of Women as Viewed through Early Medieval Law Codes, Houston, 1983; F. de Arvizu, La femme dans le Code d’Euric, in “Revue historique du droit français et étranger”, IV ser., n. 62, 1984, pp. 391-405; M.T. Guerra Medici, I diritti delle donne nella società altomedievale, Napoli, 1986, pp. 65-137; Ead. La donna e la proprietà nel Medioevo, in Proprietarie, a cura di A. Arru et al., Napoli, 2001, pp. 149-159; Ead. La donna nel processo longobardo, in “Rivista di storia del diritto italiano”, n. 60, 1987, pp. 311-334; Frauen in Spätantike und Frühmittelalter. Lebensbedingungen, Lebensnormen, Lebensformen. Beiträge zu einer internationalen Tagung am Fachbereich Geschichts-wissenschaften der Freien Universität Berlin 18-21/2/1987, hrsg. W. Affeld, Sigmaringen, 1990; A. Gaudenzi, Le vicende del mundio nei territori longobardi in “Archivio storico per le province napoletane”, XIII, 1888, pp. 95-118. 42 Cfr. R. Hübner, Grundzüge des deutschen Privatrechts, cit., pp. 73 sgg. 43 Cfr. al riguardo il fondamentale A. Wolf, Die Gesetzgebung der entstehenden Territorialstaaten, in Handbuch, vol. 1 (Mittelalter), 1973, pp. 517-803. Seconda edizione rivista e ampliata come pubblicazione a sé stante col titolo: Gesetzgebung in Europa. 1100-1500. Zur Entstehung der Territorialstaaten, München, 1996.
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44 Cfr. in Handbuch, vol. 1, le pp. 586-626 e 96-148. Per il XVI secolo, H.
Gehrke, Gesetzgebung im Deutschen Reich, in Handbuch, vol. 2 (Neuere Zeit), t. II, 1976, pp. 310-418; D. Grimm, Gesetzgebung in Österreich, ivi, pp. 419435; Ch. Bergfeld, Gesetzgebung in der Schweiz, ivi, pp. 436-467. 45 Cfr. R. Hübner, Grundzüge des deutschen Privatrechts, cit., pp. 75-78; J. Winkler, Die Geschlechtsvormundschaft in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Diss. Zürich, Luzern, 1868; C. Bücher, Die Frauenfrage im Mittelalter, Tübingen, 1882; R. Bartsch, Die Rechtsstellung der Frau als Gattin und Mutter. Geschichtliche Entwicklung ihrer Stellung im Privatrecht bis ins 18. Jahrhundert, Leipzig, 1903; H. Fehr, Die Rechtsstellung der Frau und der Kinder in den Weistümern, Jena, 1912; G.K. Schmelzeisen, Die Rechtsstellung der Frau in der deutschen Stadtwirtschaft, Stuttgart, 1935; W. Ebel, Zur Rechtsstellung der Kauffrau, in “Forschungen zur Geschichte des lübischen Rechts”, n. 1, 1950, pp. 101-122; H. Thieme, Die Reschtsstellung der Frau in Deutschland, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 351-376; D. Schwab, Gleichberechtigung (der Geschlechter), in HRG, vol. 1, 1971, coll. 1699-1702; M. Wensky, Die Stellung der Frau in der stadtkölnischen Wirtschaft im Spätmittelalter, Wien-Köln, 1980; M. Rummel, Die rechtliche Stellung der Frau im Sachsenspiegel-Landrecht, Frankfurt-Bern, 1987; S. Degenring, Die Frau die (wider-)spricht: Geleherte Juristen über Frauen als Zeuginnen in Prozessen ihrer Männer, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung”, n. 114, 1999, pp. 203-224. Per l’Ungheria, cfr. Ch. d’Eszlari, Le statut de la femme dans le droit hongrois, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 421-445. Per la Polonia, B. Lesiński, Stanowisko kobiety w polskim prawie ziemskim do polowy XV wieku, Breslavia, 1956 (versione abbreviata francese: Le statut de la femme en Pologne au moyen âge d’après le ius terrestre, in “Revue historique du droit français et étranger”, IV ser., n. 36, 1958, pp. 34-58); S. Roman, Le statut de la femme dans l’Europe orientale (Pologne et Russie) au moyen âge et aux temps modernes, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 389-403. 46 Così un Kurmainzer Patent per la città di Erfurt del 1706. 47 Al riguardo, cfr. per esempio G. Gudian, Ingelheimer Recht im 15. Jahrhundert, Aalen, 1968, pp. 76 sgg. 48 Al riguardo, cfr. H. Demelius, Eheliches Güterrecht im spätmittelalterlichen Wien, Wien, 1970; W. Brauneder, Die Entwicklung des Ehegüterrechts
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in Österreich. Ein Beitrag zur Dogmengeschichte und Rechtstatsachenforschung des Spätmittelalters und der Neuzeit, Salzburg, 1973; U. Aichhorn, Die Rechtsstellung der Frau im Spiegel des österreichischen Weistumsrechts, Diss. Salzburg, Wien, 1992. 49 Al riguardo, cfr. J.C. Overvoorde, De ontwikkeling van den rechtstoestand der vrouw, volgens het Oud-Germaansche en Oud-Nederlandsche recht, Rotterdam, 1891; W. van Iterson, Vrouwenvoogdij, in “Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis”, n. 14, 1936, pp. 421-452; 15, 1937, pp. 78-96, 175-190, 287-387; J.W. Bosch, Le statut de la femme dans les anciens Pays-Bas septentrionaux, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 323-350; J. Gilissen, Le statut de la femme dans l’ancien droit belge, ivi, pp. 255-321; M.T. Guerra Medici, La successione delle figlie nel feudo. Il feudo materno e l’‘opinio Baldi’, in VI centenario della morte di Baldo degli Ubaldi. 1400- 2000, a cura di C. Frova, M.G. Nico, Perugia, 2005, pp. 264- 288; Ead., Donne di governo nell’Europa moderna, Roma, 2005, in particolare le pp. 59-117; L. Bussi, La successione femminile nei feudi imperiali, in Orientamenti, cit., pp. 43- 97. 50 Al riguardo, cfr. P. Gide, Étude sur la condition privée de la femme dans
le droit ancien et moderne et en particulier sur le Sénatus-consulte Velléien, Paris, 1867 (II ed.: Avec une notice biographique, des additions et des notes, par Adhémar Esmein, Paris, 1883); A. Siramy, Étude sur les origines et les caractères de l’autorisation maritale dans l’histoire du droit français, Diss. Paris, 1901; M.me P. de Lauribar, Le code de l’éternelle mineure, precedé d’une étude sur la situation juridique et sociale de la femme à travers les ages, Paris, 1922; A. Ermolaef, Die Sonderstellung der Frau im französischen Lehnsrecht, Diss. Bern, 1930; J. Portemer, La femme dans la législation royale aux deux derniers siècles de l’ancien régime, in Etudes d’histoire de droit privé, offertes à Pierre Petot, Paris, 1959, pp. 441-454; Id., Le statut de la femme en France, depuis la réformation des coutumes jusqu’à la rédaction du Code civil, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 447-497. 51 Al riguardo, cfr. F. Joüon des Longrais, Le statut de la femme en Angleterre, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II), pp. 135-241; Ch. Fell, C. Clark, E. Williams, Women in Anglo-Saxon England and the Impact of 1066, London, 1984; A.L. Erickson, Women and Property in Early Modern England, London, 1993; Wife and Widow in Medieval England, ed. S.S. Walker, Ann Arbor, 1993; A. Fletcher, Gender, Sex and Subordination in England, 1500-1800, New Haven-London, 1995.
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52 Al riguardo, cfr. F. Criscuolo, La donna nella storia del diritto italiano,
Napoli, 1889; A. Solmi, La condizione privata della donna e la giurisprudenza longobarda dell’Italia meridionale, in “Archivio giuridico”, n. 68, 1902, pp. 279-333; G. Bohne, Zur Stellung der Frau im Prozeß- und Strafrecht der italienischen Statuten, in Gedenkschrift für Ludwig Mitteis, in “Leipziger Rechtswissenschaftliche Studien”, n. 11, 1926, pp. 89-124; E. Cortese, Per la storia del mundio in Italia, in “Rivista italiana per le scienze giuridiche”, n. 91, 1955-1956, pp. 323-474; G. Rossi, Statut juridique de la femme dans l’histoire du droit italien (époques médiévale et moderne), in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 115-134; M. Bellomo, Problemi del diritto familiare nell’età dei comuni, Milano, 1968, pp. 65 sgg.; M.T. Guerra Medici, L’esclusione delle donne dalla successione legittima e la ‘constitutio super statutariis successionibus’ di Innocenzo XI, in “Rivista di storia del diritto italiano”, n. 16, 1983, pp. 261-294; Ead., Donne e diritti nel comune medievale, Napoli, 1996; Ead., Women in Civil and Canon Law from Early to late Middle Ages, in Gender and Religion, ed. E. Borresen et al., Roma, 2001, pp. 219-236; Ead., ‘City Air’. Women in the medieval city, in Donne tra Medioevo ed età moderna in Italia. Ricerche, a cura di G. Casagrande, Perugia, 2004, pp. 23-51; J. Kirshner, Donne maritate altrove. Genere e cittadinanza in Italia, in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di S. Seidel Menchi, Bologna, 1999, pp. 377-429; E.G. Rosenthal, The Position of Women in Renaissance Florence. Neither Autonomy nor Subjection, in Florence and Italy. Renaissance Studies in Honour of Nicolai Rubinstein, London, 1988, pp. 361-381; Th. Kuehn, Law, Family, and Women. Toward a Legal Anthropology of Renaissance Italy, Chicago, 1993; R. Bonini, Condizione femminile e matrimonio tra diffidenze e nuova sensibilità. Rappresentazioni e dibattiti nel settecento illuminista, Padova, 1995. Per la Spagna, cfr. M.R. Ayerbe Iribar, Las mujeres medievales y su ámbito jurídico, Madrid, 1983. L. Guzzetti, Dowries in fourteenth-century Venice, in “The Society of Renaissance Studies”, n. 16, 2002, pp. 430-473; Ead., Le donne a Venezia nel XIV secolo: uno studio sulla loro presenza nella società e nella famiglia, in Studi Veneziani, Roma, 1998, pp. 13-88. Ma vedi in particolare il libro di S. Feci, Pesci fuor d’acqua. Donne a Roma in età moderna: diritti e patrimoni, Roma, 2004. 53 Fondamentale, al riguardo, F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der Neuzeit, Göttingen, 19672, pp. 67 sgg. 54 Su questi sviluppi, cfr. R. Hübner, Grundzüge des deutschen Privatrechts, cit., pp. 77 sgg. 55 Sulla capacità di agire della donna secondo il diritto romano tradi-
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zionale e sulla modificazione dello statuto giuridico romano delle donne nei diritti particolari, cfr. H. Coing, Europäisches Privatrecht, vol. 1: Älteres gemeines Recht (1500-1800), München, 1985, pp. 150, 198 sgg., 234 sgg. 56 Sugli effetti della Riforma, cfr. L. Schorn-Schütte, Wirkungen der Reformation auf die Rechtsstellung der Frau im Protestantismus, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 94-104. 57 Cfr. E. Koch, “Maior dignitas est in sexu virili”. Das weibliche Geschlecht im Normensystem des 16. Jahrhunderts, Frankfurt, 1991, pp. 84 sgg., 89 sgg.; vedi anche E. Koch, Die Frau im Recht der Frühen Neuzeit. Juristische Lehren und Begründungen, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 73-93; S. Buchholz, Sub viri potestate eris et ipse dominabitur tibi (Gen. 3,16). Das imperium mariti in der Rechtsliteratur des 17. und 18. Jahrhunderts, in “Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung”, n. 111, 1994, pp. 355-404. M. Graziosi, ‘Infirmitas sexus’. La donna nell’immaginario penalistico, in “Democrazia e diritto”, n. 2, 1993, pp. 99-143. 58 Sugli ordinamenti giudiziari imperiali cfr. H.-J. Gehrke, Gesetzgebung
im Deutschen Reich, in Handbuch, vol. 2 (Neuere Zeit), parte II, 1976, pp. 316 sgg., passim; D. Grimm, Gesetzgebung in Österreich, ivi, pp. 422 sgg.; G. Buchda, Gerichtsverfahren, in HRG, vol. 1, 1971, coll. 1551 sgg., qui 1555 sgg.; Id., Gerichtsverfassung, ivi, coll. 1563 sgg., qui 1567 sgg.; P. Moraw, Reichshofrat, ivi, vol. 4, 1990, coll. 630 sgg.; A. Laufs, Reichskammergericht, ivi, coll. 655 sgg. 59 Sulla posizione giuridica della donna nel diritto canonico, cfr. I. Raming, Stellung und Wertung der Frau im kanonischen Recht, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit., pp. 698-712; R. Metz, Le statut de la femme en droit canonique médiéval, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 59-113; G. Minnucci, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. Da Graziano a Uguccio da Pisa, Milano, 1989; II: Dalle scuole d’Oltrealpe a S. Raimondo da Pennaforte, Siena, 1994; III: Le scuole franco-renana e anglo-normanna nel tempo di Uguccio da Pisa, in “Studi senesi”, n. 102, 1990, pp. 107-148, 263-311; D. Müller, Vir caput mulieris. Zur Stellung der Frau im Kirchenrecht unter besonderer Berücksichtigung des XII. und XIII. Jahrhunderts, in Vom mittelalterlichen Recht zur neuzeitlichen Rechtswissenschaft, Wege und Probleme der europäischen Rechtsgeschichte. Winfried Trusen zum 70. Geburtstag, hrsg. N. Brieskorn, P. Mikat, D. Willoweit, Paderborn, 1994, pp. 223-245; Orientamenti civilistici e canonistici sulla condizione della donna, a cura di M.T. Guerra Medici, Napoli, 1996.
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60 Così nel Decretum Gratiani, libro III, quaestio VII, cap. 2, § 2, e, sulla
scia di questo, nella Summa Decretorum di Rufino; cfr. G. Minnucci, La capacità processuale della donna, II, 1994, pp. 231 sgg., 246. Il suo ruolo nel processo penale, al contrario, non era parificato a quello dell’uomo, cfr. ivi, passim. 61 Cfr. R. Hübner, Grundzüge des deutschen Privatrechts cit., pp. 77 sgg. 62 Cfr. ivi. Per la Svizzera ancora fondamentale E. Huber, System und Geschichte des schweizerischen Privatrechts, vol. 4, Basel, 1893, pp. 510 sgg. 63 De legibus connubialibus et de iure maritali, postrema hac editione repurgata, Lugduni, 1574, Gl. 1/I, n. 71. 64 Selectarum Disputationum ad ius civile Justinianeum quinquaginta libris Pandectarum comprehensum Tomus II, Marpurgi, 1593, disp. 6 thes. 7 i.
65 Cfr. per esempio S. Stryk, Specimen usus moderni Pandectarum, Francofurti et Vitembergae, 1690-1712, nr. 21 a D. 1.6. Sull’atteggiamento di altri contemporanei autori moderni cfr. S. Buchholz, Sub viri potestate, cit., passim. Sulla situazione nei Paesi Bassi e in Francia, cfr. H. Coing, Europäisches Privatrecht, cit., vol. 1 (Älteres gemeines Recht), p. 150 (n. 22) e p. 236 (n. 15). 66 Così, per esempio a Berna: cfr. Der Statt Bern verüwerte GerichtsSazung, vom Jahre 1615, parte I, tit. 21, 9; o anche a Mühlhausen (Alsazia): cfr. Der Statuten und Gerichtsordnung der Stadt Mühlhausen Erster und Zweiter Teil (del 1740). II: Von allerhand Rechtsübungen und Contracten, art. XXXV; lo stesso anche a Friburgo i.Ü., a Lucerna, a Zurigo, a Basilea, a San Gallo; cfr., al riguardo, R. Huber, Schweizerisches Privatrecht, cit., vol. 4, 1893, pp. 510 sgg. 67 Anche nella sua successiva versione rivista, cfr. Des Herzogstums Württemberg erneuert gemein Landrecht, Stuttgart, 1610, parte I, tit. 16, § 7; cfr., al riguardo, A. Kraut, Die Stellung der Frau im württembergischen Privatrecht. Eine Untersuchung über Geschlechtsvormundschaft und Interzession, Stuttgart, 1934. 68 Landesordnung (Ordinamento regionale) del principe di Hohenzollern del 1698, tit. 71, p. 157. 69 Landrecht (Codice regionale) dei margraviati di Baden e Hochberg del 1619, parte I, tit. 9, e parte IV, tit. 31. Landrecht comune della contea di Hohenlohe del 1737, parte II, tit. 1, § 8.
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70 Su Ulma cfr. Der Stadt Ulm Gesetz und Ordnungen, wie es I. Bey den unverdingten und verdingten Heuraten – II. in Verwaltung aller Pflegschaften etc. gehalten werden solle, wie die in anno 1579 ausgegangen, jetzt abermalen und von neuem übersehen und vermehrt [Legge e ordinamenti della città di Ulma, quali dovrebbero essere osservati I. per le sposate non andate a servizio e andate a servizio – II. nell’amministrazione di tutte le tutele ecc., come emanati nel 1579, ora ancora una volta nuovamente rivisti e accresciuti], 1616, parte II, tit. 5, § 1. Su Friburgo Nuwe Stattrechten und Statuten der löblichen Stadt Fryburg im Pryssgow gelegen, von 1520, Trattato III, tit. 1, fol. 48a. Su Heilbronn, infine, Statuten, Satzung, Reformation und Ordnung Bürgerlicher Pollizey des Heiligen Reichs Stat Haylpron, von 1541, parte VI, tit. 2, fol. 40a [Statuti, regolamento, riforma e ordinamento della polizia civile della città del Sacro Impero Heilbronn]. 71 Al riguardo, cfr. W. Ebel, Lübisches Recht, in HRG, vol. 3, 1984, coll.
77 sgg.; fra la letteratura primaria, D. Mevius, Commentarii in ius Lubecense libri quinque, Francofurti et Lipsiae, 1700. 72 Cfr. D. Mevius, Commentarii in ius Lubecense, cit., pars I, tit. 7, art. 4, nr. 7, 8 e 10; pars. III, tit. 6, art. 13, nr. 1.
73 Su Lubecca Lübeckische Statuta und Stadtrecht von 1586, libro I, tit. 7. Per Rostock, cfr. Rostocksche Stadtrecht, publicirt im Jahr 1757, parte I, tit. 7, art. 29. Sull’ambito di validità del diritto lubecchese in Pomerania, cfr. G. von Wilmowski, Lübisches Recht in Pommern, Berlin, 1867, pp. 4 sgg. Per la regione di Hadeln: Verordnung des Hadelenschen Landgerichts und Rechtens, 1731, parte III, tit. 1. Per un esempio nell’arcivescovado di Brema, nell’Altes Land e nelle città di Stade e Buxtehude, cfr. F.B. Grefe, Hannovers Recht. Dritte, umgearbeitete, vervollständigte und verbesserte Auflage des leitfadens zum Studium des Hannoverschen Privatrechts, parte II, Hannover, 1861, pp. 64 sgg. 74 Per Amburgo: Gerichtsordnung und Statuten der Stadt Hamburg, 1603-
05, parte I, tit. 9, art. 1, p. 31. A Brema, invece, nelle fonti di diritto cittadino, si parla solo di una tutela nelle controversie, accettata anche volontariamente; cfr. gli Scheidinge del 1330, in Volständige Sammlung alter und neuer Gesetzbücher der Kayserlichen und des Heiligen Römischen Reichs Freien Stadt Bremen, hrsg. G. Oelrichs, Bremen, 1771, p. 165 (n. 5: «mulier potest petere curatorem litis»). Per le regioni di diritto frisone: Dat Dittmarsch Landt-Recht, anno 1567 verordnet, art. 19, § 1, e art. 20, § 8, in Corpus Statutorum Provincialium Holsatiae, hrsg. F.D.C. von Cronhelm, Glückstadt,
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1687, vol. 1, p. 27 e Ostfriesisches Landrecht von 1515, libro II, cap. 216. Per lo Schleswig: Jyske Lov I 7. Per la Prussia orientale, cfr. Friedrich Wilhelm Königs in Preußen verbessertes Landrecht, publicirt unterm 27. Juni 1721, libro II, tit. 6, art. 9, § 6; per la Prussia occidentale, Notificationspatent betreffend die Einrichtung des Geistlichen und Weltlichen Justiz-Wesen in den bishero von der Crone Pohlen besessenen und nunmehr von Sr. Kg. M. von Preussen in Besitz genommenen Landen Preussen und Pommern, wie auch in den bishero zu Gross-Pohlen gerechneten Districten diesseits der Netze, vom 28.9.1772, suppl., lit. A, § 2, nr. 2 tit. e., in Novum Corpus Consitutionum Prussico-Brandeburgicarum, t. V, parte I, Berlin, 1776, p. 481. 75 Sachsenspiegel, Landrecht, libro III, art. 45. Al riguardo, cfr. W. Ebel, Sächsisches Recht, in HRG, vol. 4, 1990, coll. 1247 sgg.; B. Carpzov, Iurisprudentia forensis Romano-Saxonica, Lipsiae et Francofurti, 1694, pars II, tit. 15, def. 1; Ch. Zobel, Differentiae iuris civilis et Saxonici, Lipsiae, 1598, pars II, tit. 26, n. 11/12; J.G. Heineccius, De marito, tutore et curatore, uxoris legitimo (resp. Otto), Halae Magdeburgicae, 1734, §§ 16-18 e § 21. 76 Per la Sassonia: Des Durchlauchtigsten Hochgebornen Fürsten und Herrn Augusten, Herzogen von Sachsen [...] Verordnungen und Constitutionen des Rechtlichen Prozess [...], Dresden, 1572, const. V. Per la Lausitz: Des Durchlauchtigsten Churfürsten zu Sachsen [...], Johann Georg des Anderen Confirmirte Waisen-Amts-Ordnung, wie es in dero Marggrafthum Ober-Lausitz [...] gehalten werden soll, 1659, Proömium e § 4, cfr. Corpus Iuris Saxonici, appendice, t. II, p. 135. Per esempi in Turingia cfr.: Erneuerte Gerichts- und Prozeßordnung des Hochgeborenen Grafen und Herrn Albrecht Anthons, der Vier Grafen des Reichs Grafen zu Schwarzburg [...], Herrn zu Sondershausen [...], publicirt anno 1704, tit. 4, § 1; e Erneuerte Prozeßordnung E.W.E. und Hochweisen Raths der Kayserlichen freyen und des Heiligen Reichs Stadt Mühlhausen, 1688, parte I, tit. 4, § 1, nonché Statuta und Willkür der kayselichen Freyen und des Heiligen Reichs Stadt Mühlhausen, 1692, libro I, art. 69. Per altre città della regione, per esempio Alstedt, Frankenhausen, Freyburg, Langensalza, cfr. J.B. Wiesner, Das Vormundschaftsrecht, cit., pp. 239 sgg. Infine, per la Slesia, cfr. rispettivamente: Fürstliche Oelsnische Landesordnung von 1617, parte III, art. 11, in Kayser- und Königl. das ErbHerzogthum (Schlesien) concernirende Privilegia, Statuta et Sanctiones Pragmaticae [Brachvogelsche Sammlung], Breslau, 1713 sgg., vol. 4 (1723), p. 1084;. Derer beyden Fürstenthümer Oppeln und Rattibor Landesordnung, 1562, art. 14, ivi, vol. 6, p. 1651. 77 Cfr. Unser von Gottes Gnaden Johannes Georgen Markgrafen zu
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Brandenburg. [...] Verbesserung und weitere Erklärung unserer LandesConstitution [...] wie solche 1594 abgefaßt, aber nicht publiziert worden, in Ch.O. Mylius, Corpus Constitutionum Marchicarum, parte VI, Berlin-Halle, 1751, sez. III, n. 3, cfr. ivi, parte II, tit. 17. 78 Cfr. Corpus Constitutionum Marchicarum, parte II, Berlin-Halle, 1738, sez. II, n. 32. 79 Sul relativo § 142, cfr. C.L.Ch. Röslin, Abhandlung von besonderen weiblichen Rechten, vol. 1, Mannheim, 1775, p. 103; J.B. Wiesner, Das Vormundschaftsrecht, cit., p. 213. 80 Al riguardo, cfr. Zettwach, Das Statutarrecht der Städte des Herzogthums Altvor- und Hinterpommern. Nach Ordnung des Allgemeinen Landrechts dargestellt. Nach amtlichen Quellen bearbeitet, Stettin, 1836, pp. 27 sgg.; G. von Wilmowski, Lübisches Recht in Pommern, cit., p. 19. 81 In Turingia la precedente legislazione territoriale non andava oltre
le limitazioni alla capacità di agire della donna previste dal diritto comune sassone. Per la Slesia il discorso è analogo. Il Corpus iuris Fridericianum del 1781 confermò la posizione delle donne prevista dal diritto comune sassone, per quel tanto che era ancora in vigore, cfr. il primo libro dell’ordinamento processuale, parte IV, tit. 1, § 10. Nell’Anhalt la tutela nelle controversie non viene statuita nella versione rinnovata e migliorata della Landes- und Prozessordnung del 1665 come lo era, nella versione originaria, la Landesordnung des Fürsten Joachim Ernst del 1572, ma è data come presupposta in forza del diritto comune sassone. Per il Magdeburgo cfr. Churfürstliche Brandenburgische im Herzogthum Magdeburg und Graffschaft Manßfeld publicirte Proceß-Ordnung de anno 1686, cap. XIII, § 2, nonché Erklärung und Verbesserung der im Jahr 1686 im Herzogthum Magdeburg publicirten Proceß-Ordnung, 16 maggio 1696, cap. XIII, § 1, in Ch.O. Mylius, Corpus Constitutionum Magdeburgicarum Novissimarum, Magdeburg-Halle, 1714 sgg., parte II, n. 1, pp. 1 sgg., e n. 2, pp. 97 sgg. Per il Lauenburg: Sächsisch-Lauenburgische Hofgerichtsordnung, von 1685, tit. 15. Per lo Holstein cfr. Unser von Gottes Gnaden Christian des Vierten zu Denemarcken [...] und von desselben Gnaden Friedrichen, Erben zu Norwegen, beyder Herzogen zu Schleswig, Holstein [...] Revidierte Landgerichtsordnung von 1636, parte II, tit. 7. In Corpus Statutorum Provincialium Holsatiae, hrsg. F.D.C. von Cronhelm, Glückstadt, 1687, vol. 1, n. 3. Su Lüneburg cfr. la riforma del diritto cittadino del 1697 in F.E. von Pufendorf, Observationes iuris universi, t. IV, Hannoverae, 1770, appendice, pp. 624 sgg. La tutela delle
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controversie era scomparsa a Erfurt almeno con il Patent, dass denen Weibern frei gelassen wird, ohne Zuthuung eines Curatoris zu handeln und zu wandeln, 19 ottobre 1706, che però probabilmente è inteso come di conferma, non di riforma, in Churfürstliche Mayntzische Gnädigste Ordnungen vor dero Stadt Erfurth und dero zugehörige Lande, Erfurt (1741 ca.), p. 232. 82 In questo senso, per esempio, il codice regionale di Münster (Münsterische Landrecht) del 1571, cfr. Unser Johans von Gottes Gnaden Bischoffen zu Münster [...] Münsterische Gemeine Ordnungen, V, p. 12: «Dopo quell’età [cioè dopo il compimento del diciassettesimo anno – E.H.] non si può e non si deve dare e imporre loro [cioè alle donne – E.H.] in questa nostra giurisdizione tutori salvo il caso di controversie giudiziarie». 83 Così ancora nel Churfürstlicher Pfalz bei Rhein erneuert und verbessert
Landrecht von 1700, parte I, tit. 8, fol. 8.
84 Cfr. la Ordnung des Fürstlichen Brandeburgischen Hofgerichts auf dem Gebirge unter weyland Hern Marggrafen Christians Regierungszeit publicirt, 1654, tit. 15. In Corpus Constitutionum Brandeburgico-Culmbacensium, Bayreuth, 1747, vol. 1, p. 346. 85 Reformierte Landesordnung der Fürstlichen Grafschaft Tirol, 1603, libro
III, titoli 53 e 56.
86 Cfr. J.Th. Zauner, Chronologisches Verzeichnis der merkwürdigsten hochfürstlich Salzburgischen Landesgesetze und Verordnungen, in “Neues Juridisches Magazin”, n. 1, 1784, pp. 244 sgg. La ‘disposizione’ del 20 dicembre 1717, ivi citata a p. 260, «secondo cui tutte le azioni e i contratti dannosi per le donne, conclusi senza assistenza, vanno considerati nulli», presuppone l’assistenza per queste donne, e in pratica estende la semplice cura litis a cura sexus nel diritto materiale. 87 Pflegeordnung der des Heiligen Römischen Reichs Freyen Stadt Augsburg,
1779, § 46.
88 Erneuerte Tragney- und Vormundschaftsordnung, 9 gennaio 1756; cfr. Des Heiligen Reichs Stadt Memmingen Gerichts- und Prozeßordnung, 1713, tit. 16, § 5 e § 7. 89 Tragney-Ordnung der Reichsstadt Kempten, 1799, §§ 12 e 257. 90 Des Heiligen Römischen Reichs-Stadt Lindau Gerichts- und Prozeßordnung, 5 gennaio 1738, tit. 4, § 2.
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91 Al riguardo, cfr. per esempio, fra la letteratura contemporanea, J.B.
Wiesner, Das Vormundschaftsrecht, cit., pp. 150 sgg.; nonché C.L.Ch. Röslin, Abhandlung von besonderern weiblichen Rechten cit., vol. 1, pp. 71 sgg. 92 Al momento esiste solo lo studio di H. Conrad, Die Rechtsstellung der
Ehefrau in der Privatrechtsgesetzgebung der Aufklärungszeit, in Aus Mittelalter und Neuzeit. Festschrift zum 70. Geburtstag von Gerhard Kallen, Bonn, 1957, pp. 253-270; B. Kipfmüller, Die Frau im Rechte der Freien Reichsstadt Nürnberg. Eine rechtsgeschichtliche Darstellung aufgrund der verneuerten Reformation des Jahres 1564, Dillingen, 1929. Sulla Francia esiste, per questo arco temporale, L. Abensour, La femme et le féminisme avant la Révolution, Paris, 1923; G. Fagniez, La femme et la société française dans la première moitié du XVIIe siècle, Préface par Frantz Funck-Brentano, Paris, 1929; P. Petot, A. Vandenbossche, Le statut de la femme dans les pays coutumiers français du XVIIe au XVIIIe siècle, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 243-254; J. Portemer, La femme dans la législation royale, in “Études d’histoire du droit privé”, pp. 441-454; Id., Le statut de la femme, in “Recueils de la Société Jean Bodin”, vol. 12: La femme, t. II, pp. 447-497. Per l’Olanda, cfr. K.S.I. von Wolzogen, De Nederlandsche vrouw in de tweede helft der 18e eeuw, Leiden, 1920. Per la Spagna, cfr. M.C. Garcia Nieto, Ordenamiento jurídico y realidad de las mujeres. Siglos 16 à 20, Madrid, 1986. Per l’Italia vedi ora S. Feci, Pesci fuor d’acqua, cit. 93 Sulla posizione giuridica della donna nell’ABGB cfr. H. Conrad, Die Rechtsstellung der Ehefrau in der Privatrechtsgesetzgebung, cit. pp. 253-270. 94 ABGB, § 91. 95 Tramite l’Einführungspatent del 18 gennaio 1812 è stato qui ripreso il codice austriaco. 96 Cfr. al riguardo F. Ranieri, Zivilrechtskodifikationen Italien, in Handbuch, vol.. 3 (XIX secolo), I, 1982, pp. 226 sgg. 97 Cfr. al riguardo H. Conrad, Die Ehefrau in der Privatrechtsgesetzgebung,
cit. pp. 253-270; S. Weber-Will, Die rechtliche Stellung der Frau im Privatrecht des Preußischen Allgemeinen Landrechts von 1794, Frankfurt, 1983. 98 Questo si deduce dal fatto che nel titolo sulla tutela (II 18) la donna
non viene nominata tra le persone da tutelare (cfr. §§ 6 sgg.).
99 Cfr. al riguardo E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Frankreich, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), I, 1982, pp. 906 sgg.
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100 Code de commerce del 1807, art. 113. 101 Code civil, art. 215, 217. 102 Ivi, art. 218, e art. 215. 103 Cfr. J. Gilissen, Statut de la femme, cit., pp. 271 sgg. 104 Qui del resto, dopo l’annessione dell’Ostfriesland al regno d’Olan-
da nel 1807, il locale Wetboek Lodewijk Napoleon del 1809 aveva già precorso il Code civil, quando l’Ostfriesland nel 1810 diventa francese e il Code civil entra in vigore al posto del codice olandese. 105 Qui già l’editto sulla tutela del 1714 non aveva più conservato l’obbligatorio Conseil judiciaire per la donna non sposata, cfr. Edits civils de la République de Genève, 1714, tit. XIII: De l’Etat et Qualité des Personnes et des Tutèles et Gouvernement des Pupilles et Mineurs et confection d’inventaire de leurs biens. 106 Sull’introduzione del Code civil nel Belgio attuale e Olanda cfr. E. Holthöfer, Zivilrechtskodifikation Belgien, Zivilgesetzgebung Niederlande, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), I t. (1982), pp. 1073 sgg., 1238 sgg.; a Ginevra e nel Giura cfr. Id., Zivilrechtskodifikationen Schweiz. Romanische Kantone, ivi, II, p. 1867 e p. 1863; nei territori italiani cfr. F. Ranieri, Zivilrechtskodifikationen Italien, cit., I, pp. 212 sgg.; in Polonia L. Pauli, Zivilgesetzgebung Polen, ivi, II, pp. 2107 sgg. 107 V. Codice per lo Regno delle Due Sicilie, parte I, Leggi civili, emanato
il 26 marzo 1819; Codice civile per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, emanato il 23 marzo 1820; Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, emanato il 20 giugno 1837, in vigore dal 1° gennaio 1838; Codice civile per gli Stati Estensi, emanato il 25 ottobre 1851, in vigore dal 1° febbraio 1852. 108 Motuproprio del 6 luglio 1816, Bullarii Romani Continuatio XIV, 1849, pp. 47 sgg., cfr. F. Ranieri, Zivilrechtskodifikationen Italien, cit., I, p. 283. 109 Motuproprio del 15 novembre 1814, Leggi del Granducato, p. 3, cfr. F.
Ranieri, Zivilrechtskodifikationen Italien, cit., I, p. 283.
110 Sulla dimensione dell’area di diritto renana cfr. B. Dölemeyer, Zivilrechtskodifikationen Deutschland, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), II, (1982), pp. 1440 sgg. 111 Sulla dimensione dell’area di diritto prussiana cfr. ivi, pp. 1491
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sgg.; P. Roth, System des deutschen Privatrechts, Tübingen, 1880, vol. I, pp. 53 sgg. 112 Sulla tutela di sesso e Ehevogtei cfr. W.Th. Kraut, Die Vormundschaft,
cit., vol. 2, pp. 266 sgg. 113 Cfr. per il Baden il Landrecht für das Großherzogtum Baden del 3 febbraio 1809, art. 155; per il Württemberg le Instruktionen fuer den Zweiten Senat des kgl. Ober-Justiz-Collegii del 4 maggio 1806, § 23, come pure le Instruktionen fuer das kgl. Ober-Tribunal dell’8 maggio 1806, § 34, cpv. 2, in “Regierungs-Blatt”, pp. 39 e 48. 114 Per il dibattito coevo sulla tutela di sesso cfr per esempio A.S.Ph.
Semler, Über die Entbehrlichkeit und Abschaffung der Geschlechtscuratel in Teutschland überhaupt, in Archiv für die theoretische und praktische Rechtsgelehrsamkeit, hrsg. Th. Hagemann, Ch.A. Günther, Helmstädt, 1792, parte VI, pp. 30-85; Id., Sollte es nicht vorträglich sein, die GeschlechtsBevormundung auch in denjenigen Provinzen Deutschlands, wo sie noch üblich ist, abzuschaffen, in “Juristisches Journal” (diretto da K.A. Lossius), Ronneburg 1798 (vol. unico), pp. 220-233. 115 V. le accuse dei protagonisti in Mevius, Commentarii in ius Lubecense, cit., pars I, tit. 7, art. 4, nn. 7, 8 e 10. 116 Per esempio nella Kurmark, a Ginevra, a Zurigo. Si pensi d’altra parte ai tentativi kursassoni e prussiani rimasti senza successo. 117 Essa fu tolta nel ducato Anhalt-Bernburg già con l’editto, riguar-
dante la abolizione della tutela di sesso, del 30 marzo 1784, Gesetzsammlung für das Herzogtum Anhalt-Bernburg, I, p. 155; nel ducato Anhalt-Köthen nel 1810; nel ducato Anhalt-Dessau con la interpretazione ufficiale del 10 luglio 1822 sulla Anhalt-Dessauischen Landesordnung del 21 novembre 1665, tit. 33, § 1, p. 65; cfr. K.W.E. Heimbach, Lehrbuch des particulären Privatrechts der zu den O.A. Gerichten zu Jena und Zerbst vereinten Großherzoglich und Herzoglich Sächsischen, Fürstlich Reußischen, Fürstlich Schwarzburgischen und Herzoglich Anhaltischen Länder, parte I, Jena, 1848, p. 308. 118 Nel diritto provinciale della Prussia orientale sanzionato con la patente reale del 4 agosto 1801 non ricorre più la tutela di sesso. 119 V. rispettivamente Verfassungsurkunde della città di Stade del 1° settembre 1824, in “Gesetz-Sammlung für das Königreich Hannover“, 1824, cpv. 3, p. 127, § 29; e Verfassungsurkunde della città di Buxtehude del 2 settembre 1824, ivi, 1828, cpv. 3, p. 229, cfr. § 27.
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120 Mandato riguardante la tutela di sesso, del 8 gennaio 1825, cfr. § 14. 121 Per il principato di Schwarzburg-Sondershausen v. l’Ordinanza riguardante l’abolizione della tutela di sesso del 2 ottobre 1826, in “Regierungs- und Intelligenz-Blatt”, n. 45; e la raccolta delle leggi pubblicate prima del 1837 e tuttora in vigore, 1859, ivi, n. 16. Per la città libera di Brema, il discorso è valido nella misura in cui qui una Kriegsvogtei in generale era stata consueta. In ogni caso nell’Ordinanza di tutela del 16 giugno 1826, in “Sammlung der Verordnungen”, p. 104, la tutela di sesso non ricorreva più. Per la provincia del Brandeburgo v. l’Ordinanza per l’abolizione della tutela di sesso ancora esistente nella parte del ducato Magdeburg al di qua dell’Elba, del 22 gennaio 1826, in “Gesetzsammlung”, p. 13 (riguarda i distretti di Jerichow e Ziesar); Ordine di gabinetto riguardante la tutela di sesso nel circondario di Luckenwald appartenente alla Kurmark, del 20 maggio 1826, in “Gesetzsammlung”, p. 47. 122 Nel regno del Württemberg la tutela di sesso fu tolta con la legge riguardante il completo sviluppo del nuovo Pfand-System (Pfandgesetz), del 21 maggio 1828, in “Regierungsblatt”, p. 361, § 2; cfr. al riguardo W.Th. Kraut, Die Stellung der Frau im württembergischen Privatrecht, cit., nonché il contributo di D. W. Sabean, Allianzen und Listen: Die Geschlechtsvormundschaft im 18. und 19. jahrhundert, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit. pp. 460-479. Per il regno di Sassonia, v. il Mandato riguardante la tutela di sesso del 10 novembre 1828, in “Gesetzsammlung”, p. 244, cfr. § 2. 123 Ordinanza per l’abolizione della tutela di sesso ancora esistente in alcune parti della Prussia occidentale, del 28 giugno 1829, in “Gesetzsammlung”, p. 52; Ordine di gabinetto riguardante l’abolizione della tutela di sesso nel circondario di Lauenburg-Bütow ceduto al distretto di governo di Cöslin, insieme alle enclaves della Prussia occidentale incorporate allo stesso distretto di governo, del 13 marzo 1830, in “Gesetzsammlung”, p. 24. 124 Ordinanza sull’abolizione della tutela di sesso in alcuni circondari della Neumark, del 27 luglio 1832, in “Gesetzsammlung”, p. 205 (riguardante i circondari di Cottbus, Crosse, Züllichau). 125 V. rispettivamente: Legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso, del 19 agosto 1833, in “Sammlung der Landesverordnungen”, II, p. 199; Ordinanza sull’abolizione della tutela di sesso in Slesia e sulle pre-
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scrizioni contenute nell’ordinamento di polizia rudolfina del 1577 sulle garanzie delle donne per i loro mariti, del 28 luglio 1833, in “Gesetzsammlung”, p. 96. 126 Nel granducato di Baden con la legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso, del 28 agosto 1835, in “Staats und Regierungsblatt”, p. 233. Nel granducato di Sassonia-Coburgo-Gotha con l’Ordinanza riguardante l’abolizione della tutela di sesso del 6 aprile 1836, in “Gesetzsammlung”, vol. III, p. 245; in quello di Sassonia-Altenburg con la legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso del 18 novembre 1836, in “Gesetzsammlung”, p. 83; in quello di Sassonia Weimar con la legge sull’abolizione della tutela di sesso del 2 febbraio 1839, in “Regierungsblatt”, p. 29. Nel principato di Hohenzollern Sigmaringen con la legge riguardante la definizione della maggiore età e la modificazione della tutela delle donne (Frauen-Personen) del 29 aprile 1840, in “Sammlung der Gesetzte”, p. 1782, § 2; in quello di Reuss-Gera con l’Ordinanza riguardante l’abolizione della tutela di sesso delle donne (Frauen-Personen) con assunzione di doveri civili del 3 ottobre 1848, in “Gesetzsammlung”, VII, p. 95; in quello di Schwarzburg-Rudolstadt con la legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso del 30 marzo 1849, in “Gesetzsammlung”, p. 75. Nella città di Lüneburg con l’Ordinanza riguardante l’abolizione di alcune determinazioni statutarie in vigore a Lüneburg del 30 luglio 1849, in “Gesetz-Sammlung für das Königreich Hannover”, parte III, p. 49. 127 Per le città di diritto lubecchese cfr. Legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso del 19 marzo 1855, in “Gesetzsammlung”, p. 176; per le parti della Baviera indicate: Congedo della Dieta del 10 novembre 1861, in “Gesetzblatt”, coll. 50 sgg., qui col. 77, § 28 c. 1; per Rostock: abolizione della tutela di sesso con ordinanza del consiglio del 18 febbraio 1863, in Gesetzsammlung für die Mecklenburgisch-Schwerinischen Lande, hrsg. H. Raspe, 3° serie, vol. II, Wismar, 1894, p. 11; per le città di diritto lubecchese nel Mecklenburg: abolizione della tutela di sesso con decisione del consiglio delle città, confermata con ordinanza del Landesherr, del 17 settembre 1867, ivi, p. 12. Per la città libera di Lubecca: legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso, del Lübeckische Verordnungen und Bekanntmachungen 1814-1875, p. 284. Per il ducato di Lauenburg v. legge riguardante l’abolizione della tutela di sesso nelle province di Hannover e Schleswig-Holstein del 21 gennaio 1869, in “Gesetzsammlung”, p. 289; Ordinanza sulla abolizione della tutela di sesso nel ducato di Lauenburg, del 18 marzo 1869, in “Offizielles Wochenblatt” [per il ducato di
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Lauenburg], p. 165. Per la città libera di Amburgo: legge riguardante l’abolizione di alcune limitazioni della capacità di agire del 3 giugno 1870, in “Gesetzsammlung”, p. 8. Per la città di Wismar e l’ex principato di Hohenzollern-Hechingen: abolizione della tutela di sesso con ordinanza di consiglio del 19 dicembre 1875, in Gesetzsammlung für die MecklenburgSchwerinischen Lande, cit., 3° serie, vol. II, p. 13. Nell’ex principato la tutela di sesso fu tolta solo con l’ordinanza di tutela prussiana del 5 luglio 1875, in “Gesetzsammlung”, p. 451, § 102. Del resto l’ordinanza sugli orfani di Hechingen del 14 giugno 1837, in “Verordnungen und Intelligenz-Blatt”, p. 69, non conteneva già più nessuna determinazione sulla tutela di sesso. Apparentemente in essa non era però ancora prevista la soppressione di questo istituto, cfr. A. Hodler, Das partikuläre Zivilrecht der Hohenzollerschen Lande, Frankfurt, 1893, p. 5. Hodler era pretore a Hechingen. 128 § 51 cpv. 3, pp. 400 sgg. 129 In Prussia per esempio la legge riguardante l’abolizione delle pre-
scrizioni speciali, valide nelle intercessioni delle donne, del 1° dicembre 1869, in “Gesetzsammlung”, p. 1169. 130 Cfr. al riguardo il contributo di B. Dölemeyer, Frau und Familie im
Privatrecht des 19. Jahrhundert, cit.
131 Bürgerliches Gesetzbuch für das Königreich Sachsen, proclamato il 2 gennaio 1863, in vigore dal 1° marzo 1865, cfr. § 1638. 132 Sulle limitazioni della capacità di agire della donna nella legislazione cantonale del XIX secolo cfr. R. Huber, Schweizerisches Privatrecht, cit., vol. I (1886), pp. 131 sgg.; inoltre J. Winkler, Die Geschlechtsvormundschaft, cit. V. Legge federale riguardante la capacità personale di agire, del 22 giugno 1881, in BGBl, p. 556, cfr. § 1 cpv. 2. 133 Satz und Ordnungen eines Frey-löblichen Stadtgericht («Stadtrecht»), del 1715, cfr. parte III §§ 7 e 8. Nella Erneuerte Waysen- und Bevogtigungsordnung für die Stadt Zürich, del 20 febbraio 1792, Sammlung der Bürgerlichen und Polizey-Gesetze, vol. VI, p. 381, § 1, è quindi prevista anche per le orfane una tutela solo fino al raggiungimento del venticinquesimo anno. 134 Sui codici cantonali svizzeri cfr. B. Dölemeyer, Zivilrechtskodifikationen Schweiz. Deutsche Kantone, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), II, 1982, pp. 1925 sgg.; E. Holthöfer, Zivilrechtskodifikationen Schweiz. Romanische Kantone, ivi, pp. 1859 sgg. Per le singole normative: Code civil
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du Canton de Vaud, promulgato l’11 giugno 1819, in vigore dal 1° luglio 1821, cfr. art. 311; Civilgesetzbuch für die Stadt und Republik Bern, approvato negli anni 1824-1830, la prima parte qui relativa in vigore dal 1° aprile 1826 (cfr. il § 303); Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch für den Kanton Aargau, la prima parte relativa qui approvata nel 1826, in vigore dal 1° gennaio 1828 (cfr. § 254); Bürgerliches Gesetzbuch für den Kanton Luzern, la prima parte qui relativa in vigore dal 1832 (cfr. § 173); Code civil du Canton de Valais, approvato il 1° dicembre 1853, in vigore dal 1° gennaio 1855 (cfr. art. 344); per Graubünden, infine, Bündnerisches Privatrecht, in vigore dal 1° settembre 1862 (cfr. § 105, c. 2, qui comunque solo ancora nel presupposto che la donna «non appaia autorizzata all’amministrazione indipendente del suo patrimonio»). 135 Rispettivamente: Code civil du Canton de Fribourg, parte I, promul-
gato il 24 novembre 1834, in vigore dal 1° gennaio 1836; Codice civile della Repubblica e Cantone del Ticino, promulgato il 16 giugno 1837, in vigore dal 1° aprile 1842; Civilgesetzbuch für den Kanton Solothurn, parte I: Familienrecht, I sezione: Personenrecht, approvato nel 1841, in vigore dal 1° aprile 1842. 136 Code civil de la République et Canton de Neuchâtel, I libro, promulgato il 10 gennaio 1854, in vigore dal 1° marzo 1854; Privatrechtliches Gesetzbuch für den Kanton Zürich, parte I, approvato il 28 dicembre 1853, in vigore dal 31 marzo 1854; Bürgerliches Gesetzbuch für den Kanton Unterwalden nid dem Wald, parte I: Personenrecht, promulgato nel 1852, in vigore dal 1° aprile 1853; Privatrechtliches Gesetzbuch für den Kanton Thurgau, vol. I: Personen- und Familienrecht, approvato nel 1859, in vigore dal 15 aprile 1860. Il diritto della tutela qui relativo era già in precedenza finito e nel 1851 messo in vigore. Privatrechtliches Gesetzbuch für den Kanton Zug, parte I: Personen- und Familienrecht, in vigore dal 1° gennaio 1862; Privatrechtliches Gesetzbuch für den Kanton Schaffhausen, parte I e II (qui relativo), in vigore dal 2 aprile 1864; Bürgerliches Gesetzbuch für den Kanton Glarus, II sez. (la sezione Personen- und Familienrecht fu emanata il 1° maggio 1870 ed entrò in vigore lo stesso anno). 137 A Berna: legge sull’abolizione della tutela di sesso del 27 maggio 1847, in “Neue offizielle Gesetzsammlung“, vol. IV, p. 350; cfr. al riguardo J. Regula Gerber, Rechtshistorische Aspekte des bernischen Emanzipationsgesetzes von 1847, in Frauen in der Geschichte des Rechts, cit. pp. 480-493. Nell’Aargau: legge sulla modificazione di alcune determinazioni del diritto civile (parte I, della sezione Von der Vormundschaft), del 29 novembre 1867, in “Gesetzsammlung”, VI, p. 268, cfr. art. 2, § 2. A Lucerna: legge
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sulla tutela del 7 marzo 1871, in “Le Leggi”, n.s., vol. V, p. 301, cfr. § 3, secondo la quale le donne nubili per la conclusione di un contratto matrimoniale hanno comunque bisogno di una assistenza. A Waadt: Loi supprimant l’institution du Conseil judiciaire des femmes, del 4 febbraio 1873, in ”Recueil des lois”, p. 774. ASchwyz: Verordnung über das Vormundschaftswesen, del 17 luglio 1851, in “Gesetzsammlung”, n.s., voll. II/III, p. 143; qui non viene più conservata la tutela sulle donne nubili. A Basilea città: legge riguardante l’età di età minore e riguardante la capacità di agire delle donne (Frauen-Personen), del 16 ottobre 1876, in “Sammlung des Gesetzes”, vol. XII, p. 209, cfr. § 4. E, infine, per la regione di Basilea: legge sulla abolizione della tutela di sesso del 17 marzo 1879, in “Gesetzsammlung” XI, p. 226. 138 Cfr. E. Holthöfer, Zivilrechtskodifikationen Schweiz. Romanische Kantone, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), II, 1982, pp. 1862 sgg. 139 Introduzione del diritto di tutela del Berner Civilgesetzbuch con abolizione delle corrispondenti prescrizioni del Code civil con decreto del 28 novembre 1825, in Neue Sammlung des Gesetzes und Dekreten, vol. IV, p. 41. Nuovamente cancellato con decisione del Consiglio, riguardante la legislazione nel Giura, del 22 giugno 1839, in “Neue offizielle Gesetzsammlung”, vol. III, p. 404. 140 Cfr. per Friburgo Code civil du Canton de Fribourg, parte I, artt. 57-58; per Waadt Code civil du Canton de Vaud, artt. 117 e 119; per Neuenburg Code civil de la République et Canton de Neuchâtel, libro I, artt. 155 e 157; per Wallis Code civil du Canton du Valais, art. 9, cpv. 3; per il Ticino Codice civile della Repubblica e Cantone del Ticino. 141 In Danimarca: Lov om Kvindens myndighed, del 29 dicembre 1857; sulla storia della posizione giuridica delle donne danesi cfr. I. Dübeck, Købekoner og Konkurrence. Studier over myndigheds- og erhvervsrettens udvikling med stadigt henblik på kvinders historiske retsstelling, Kopenhagen, 1978. In Norvegia: Lov om Kvindens Myndighed, del 11 aprile 1863. In Svezia: Förordning angående ogift kvinnas rätt att viss ålder vara myndig, del 16 novembre 1863, in “Svensk Författnings-Samling”, n. 61. In Finlandia, infine: Förordning angående förändringar och tilläg vid allmänna lagens stadganden om förmyndarewård, del 19 dicembre 1864, in “Storfurstendomet Finlands Författningssamling”, n. 32 (1864). 142 In Romania è il Codul civil emanato il 26 novembre 1864 che porta
alla donna la liberazione dalla tutela di sesso. Nei Baesi baltici il Liv-, Est-
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e Curländische Privatrecht introdotto con la patente del 28 gennaio 1865 portò comunque all’interno del suo personale ambito di validità, la maturità alla donna nubile. 143 Legge 1874/XXVIII . 144 Rispettivamente: Lov om Formuesforholdet mellem Ægtefæller, del 29
giugno 1888, in “Norsk Lovtidende”, n. 19; Lov nr. 75 om formueforholdet i mellem ægtefæller, del 7 aprile 1899, in “[Dansk] Lovtidende”, p. 323; Giftermålsbalk dell’11 giugno 1920, in “Svensk Författnings-Samling”, p. 964; Äktenskapslag del 13 giugno 1929, in “Finlands Författningssamling”, n. 234 (1929), cfr. §§ 31 e 33. 145 Legge del 1° luglio 1921, in “Dziennik Ustaw”, n. 64 poz. 397. 146 Sulla portata del Codice austriaco cfr. W. Kundert, Zivilgesetzgebung Österreich, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), 2 t. (1982), p. 1800; L. Pauli, Zivilgesetzgebung Polen, cit., p. 2109; F. Ranieri, Zivilrechtskodifikationen Italien, cit., pp. 226 sgg. 147 V.: Disposizioni per l’unificazione legislativa nei territori annessi, decre-
to del 4 novembre 1928 nr. 2325, in vigore dal 30 giugno 1929, in “Le Leggi”, p. 1151; Legge che stabilisce norme circa la capacità giuridica della donna, del 17 luglio 1919, nr. 1176, in “Le Leggi”, p. 722; cfr. al riguardo F. Ranieri, Zivilgesetzgebung Italien, cit., p. 346. 148 Parte III: Das Personen- und Gesellschaftsrecht, del 20 gennaio 1926, in “Landesgesetzblatt”, n. 4. 149 Osnovni zakon o braku [legge fondamentale matrimoniale], del 3 aprile 1946, in “Sluzbeni list”, 1946, n. 29; Zákon o rodine [legge sulla famiglia], del 4 dicembre 1963, in “Sbirka zákonu”, n. 94. 150 Codice civile di Lettonia del 28 gennaio 1937. In congiunzione con l’unione tedesca dei giuristi a Riga a cura dello Herder-Institut di Riga, Riga 1938/40. 151 In Francia: Loi portant modifications des textes du Code civil relatifs à la capacité de la femme mariée, del 18 febbraio 1938, Sirey, p. 722; sul diritto patrimoniale completato con la Loi sur les effets du mariage quant aux droit et devoirs des époux, del 22 settembre 1942, Sirey, p. 1165; cfr. E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Frankreich, in Handbuch, vol. 3, (XIX secolo), t. I (1982), pp. 915 sgg. In Romania: Codul familial del 29 dicembre 1953 (legge n. 4/1953), in “Buletinul Oficial”, 4 gennaio 1954, n. 1. In Olanda: Wet tot
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opheffing van de handelingsonbekwaamheid der gehuwde vrouw, del 14 giugno 1956, in “Staatsblad”, n. 343, p. 931; cfr. E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Niederlande, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), I, 1982, pp. 1326 sgg. In Belgio: Loi relative aux droits et devoirs des époux, del 30 aprile 1958, Pasinomie [belge], p. 562; cfr. E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Belgien, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), I, 1982, p. 1125. In Portogallo la potestade maritale fu abolita con il nuovo Código civil del 25 novembre 1966, in vigore dal 1° gennaio 1968. In Lussemburgo: Loi relative aux droits et devoirs des époux, del 12 dicembre 1972, Pasinomie [luxembourgeoise], p. 860, per il diritto patrimoniale completato con la Loi portant réforme des régimes matrimoniaux, del 4 febbraio 1974, Pasinomie [luxembourgeoise], p. 190; cfr. E. Holthöfer, Zivilgesetzgebung Luxemburg, in Handbuch, vol. 3 (XIX secolo), I, 1982, p. 1181. In Spagna: Ley 30/1981, de 7 de julio, por lo que se modífica la regulación del matrimonio en el Código civil y se detérmina el procedimiento a seguir en las causas de nulidad, separación y divorcio, in “Boletín Oficial del Estado”, n. 16216, p. 2194, cfr. art. 66: «El marido y la mujer son iguales en derechos y deberes». 152 Law Reform (Married Women and Tortfeasor's) Act, del 2 agosto 1935,
in ”Law Reports”, p. 341.
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