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Italian Pages [456]
Storia e Mistero Una chiave di accesso alla teologia di Joseph Ratzinger e Jean Daniélou A cura di G. Maspero – J. Lynch (a cura di)
EDUSC
Ricerche di ontologia relazionale
Secondo volume
Prima edizione 2016
Grafica e impaginazione: Gianluca Pignalberi (in LATEX 2ε ) Copertina di Sonia Vazzano
© 2016 – ESC s.r.l. Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637 [email protected] www.edizionisantacroce.it
ISBN 978-88-8333-629-4
Indice
Introduzione
7
Saggio Introduttivo Nota sull’interpretazione della “beatitudine” dei “puri di cuore” (Mt 5,8) di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Gli agganci del suo pensiero con quelli di Ireneo di Lione Réal Tremblay C.Ss.R.
27
I Approccio sistematico
37
Daniélou e Ratzinger di fronte al mistero della storia 1
2
I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort) Manuel Arostegi Esnaola
41
Verità e crisi della storia in Jean Daniélou Leonardo Lugaresi
69
3
Indice
3
“La salvezza attraverso la Storia”: Ontologia e storia nella teologia di Joseph Ratzinger Robert J. Woźniak 97
4
Ontologia e storia in Jean Daniélou Giulio Maspero
115
Il mistero della storia secondo Joseph Ratzinger Ludwig Weimer
153
5
6
Essere e tempo. Verità, storia e teologia nel pensiero di Joseph Ratzinger Pablo Blanco Sarto 175
II Applicazioni
203
II.1
205
7
8
Jean Daniélou e le religioni Angela Maria Mazzanti
207
Le religioni in Joseph Ratzinger Maria Vittoria Cerutti
231
II.2 9
Lo studio del fenomeno religioso
La sensibilità liturgica
La liturgia in Daniélou. Sacra Scrittura, storia della salvezza e contemporaneità di Cristo Guillaume Derville 269
10 Joseph Ratzinger e la liturgia Juan José Silvestre
4
267
297
Indice
II.3
La prospettiva missionaria
317
11 “Da un estremo all’altro”: la missione in Jean Daniélou Jonah Lynch 319 12 Ratzinger sulla base antropologica della missione Vincent Twomey SVD Saggio Finale “Il y a toujours un jour qui n’est pas la même chose que la veille”: Il cristianesimo e la storia negli scritti di Charles Péguy John Milbank
Appendice: Contributi di supporto
339 355
399
1
L’antropologia ratzingeriana dell’Imago Dei come via di uscita dallo storicismo teologico Isabel Troconis Iribarren 399
2
Daniélou teologo sistematico? Il concetto di akolouthía in Gregorio di Nissa e il suo uso nell’opera di Jean Daniélou Sincero Mantelli 413
3
J. Ratzinger come Agostino: Religiosità della ragione, laicità della fede. L’attualità di un dibattito antico Giuseppe Fidelibus
Indice dei nomi
425 451
5
Introduzione
Nel 1946 venne pubblicato il libro di Oscar Cullmann Christus und die Zeit: Die urchristliche Zeit- und Geschichtsauffassung. All’epoca Jean Daniélou aveva 41 anni e insegnava già da due all’Institut Catholique di Parigi, mentre Joseph Ratzinger aveva soli 19 anni e si iscriveva proprio in quell’anno all’istituto superiore di filosofia e teologia a Frisinga. Nonostante la differenza di età e di prospettiva esistenziale, nella parabola di entrambi gioca un ruolo essenziale il tema centrale del libro di Cullmann, il quale per collocazione accademica e linguistica si pone a cavallo tra il mondo francese e quello tedesco. Il rapporto tra la storia della salvezza e la metafisica era infatti il cuore delle discussioni teologiche dell’epoca. Queste discussioni erano quasi in stallo, specialmente in ambito riformato, a causa dell’apparente contraddizione tra il valore essenziale riconosciuto alla dimensione storica (in tensione con la percezione di una fissità metafisica) e la realtà di quella salvezza che si è data proprio nella storia. In assenza di una profondità ontologica, il dibattito rischiava di dissolversi in una prospettiva parziale che finiva per schermare la portata universale e assoluta dell’Evento cristico stesso. Si avvertiva la necessità di superare la dialettica introdotta dalla riflessione moderna tra la dimensione metafisica e quella esistenziale. Si cerca, quindi, una sintesi teoretica capace di abbracciare contemporaneamente essere e tempo.
7
Introduzione
Tale considerazione spiega la scelta di accostare due autori in apparenza così diversi, per confrontare il valore delle categorie di storia e di mistero nella struttura del loro pensiero. Joseph Ratzinger cita Jean Daniélou, ma non è questo il livello principale dell’indagine che qui si presenta. Il punto di interesse è piuttosto la comprensione profonda da parte dei due teologi di quello che è un nucleo centrale di tutto il pensiero del secolo XX. In aggiunta, la domanda che ha mosso la ricerca include anche l’ipotesi che proprio la soluzione offerta a tale nucleo teologico renda Daniélou e Ratzinger capaci di dialogare con chi non ha fede e di giungere a una sintesi tra pensiero, liturgia e vita spirituale. Così, nei giorni 12 e 13 febbraio del 2015, presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma, diversi studiosi di tutta Europa si sono riuniti per approfondire insieme tale questione. L’incontro è stato promosso dalla stessa Università ospitante in collaborazione con la Fraternità Sacerdotale di San Carlo Borromeo e con l’Associazione PATRES. La realizzazione delle due giornate di studio è stata resa possibile dal supporto finanziario offerto dalla Fondazione Ratzinger e da BLM Group. Numerose sono state le istituzioni accademiche che hanno aderito all’iniziativa: Pontificia Accademia di Teologia, Biblioteca Pinacoteca Accademia Ambrosiana di Milano, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Pontificia Università Lateranense di Roma, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università di San Damaso di Madrid, Universidad de Navarra di Pamplona e Università di Chieti. Il presente volume offre alla comunità scientifica il frutto di quell’incontro, i cui lavori sono stati introdotti da S.E.R. Mons. Jean-Louis Bruguès, Bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa. Il testo è diviso in due parti: la prima relativa alla questione centrale in esame, la seconda che intende mostrare gli effetti di tale posizione per alcuni aspetti centrali della vita della Chiesa, e quindi della teologia. Ad esse segue un’appendice, con alcuni contributi a supporto del lavoro sviluppato, e un pregevole saggio di John Milbank, dedicato alla relazione tra cristianesimo e storia nella poesia di Charles Péguy, autore rilevante sia 8
G. Maspero – J. Lynch
per Daniélou sia per Ratzinger. Proprio lo sguardo di bimbo che abita il cuore del poeta si può rinvenire alla radice dell’approccio non dialettico dei due alla questione fondamentale in esame. In questo modo, la fine del volume ne richiama l’inizio. Esso si apre con la relazione di Réal Tremblay, Presidente della Pontificia Accademia di Teologia, il quale ha additato, a mo’ di premessa, un’esperienza sorgiva per entrambi i teologi in esame. La purezza del cuore, come insegnava Gregorio di Nissa, è la vertiginosa virtù di coloro che sono saliti fino all’ultimo gradino accessibile all’uomo e che tremano sopra l’abisso insondabile di Dio. “La ragione non è sufficiente. Affinché l’uomo possa aver accesso a Dio, tutte le forze della sua esistenza devono agire di concerto,” afferma Tremblay. Egli si pone così in continuità con l’intuizione di Origene, Basilio di Cesarea, e molti altri Padri, che la conoscenza sensuale e psichica rimane frammentaria se non avviene nello Spirito. Chi vede il mondo con i soli occhi della carne non vede realmente il mondo, ma un fantasma che è frutto della propria passionalità o della propria immaginazione intellettuale. Per superare sia il senso Kantiano sia il senso Hegeliano di questa costatazione, occorre un cuore puro, a somiglianza del cuore del Figlio. Tremblay indica nella giustizia e nella vigilanza di una sincera ricerca di Dio l’inizio della strada verso la purezza del cuore. Ancora di più, si tratta di “vivere l’esistenza da Figlio”, entrare nei sentimenti di Cristo, fino a condividere la sua croce – e così ascendere con Lui alla piena tri-unità: “L’amore è il fuoco che purifica e unisce ragione, volontà, sentimento; è ciò che unifica l’uomo in se stesso in virtù dell’azione di Dio così da farne il servitore dell’unità di coloro che sono divisi. Così l’uomo fa il suo ingresso nella dimora di Dio e può vederlo. È esattamente quello che significa essere beato”. Sia per Ratzinger, sia per Daniélou, l’esperienza mistica della partecipazione alla croce di Cristo è all’origine della teologia. Questa affermazione è ampiamente sostenuta dalla lettura dei Diari Spirituali di Daniélou; per il teologo e papa bavarese la si vede in modo eminente nei dettagli della sua biografia. E per entrambi loro, l’evento unico, irripetibile e eternamente presente della morte-risurrezione di Gesù Cristo costitui9
Introduzione
sce la luce che illumina il significato del tempo e della storia, e rivela a noi l’essenza di Dio. Purezza di cuore, si direbbe quasi spirito fanciullesco; esperienza della croce e della risurrezione; interesse per la storia come parte fondamentale del metodo teologico; attenzione al cristianesimo dei primi secoli per cercare luci da offrire al mondo contemporaneo: sono alcune caratteristiche in comune fra Joseph Ratzinger e Jean Daniélou. Il contributo di Arostegi si interroga sull’importanza dei Padri per la teologia odierna, tema caro a entrambi Daniélou e Ratzinger. Arostegi si concentra soprattutto su un articolo di Ratzinger del 1967 dato nel contesto dell’Internationales Forschungszentrum für Grundfragen der Wissenschaften di Salisburgo. In quell’articolo, Ratzinger ha tentato di precisare l’identità dei Padri attraverso un esame di alcuni tentativi di definizione di “padre della Chiesa” proposte da Vincenzo di Lerins e altri. Il teologo bavarese giunge a proporre che “la Scrittura e i Padri sono un tutt’uno, come la parola e la risposta (Wort e Antwort). Questi due elementi non sono la stessa cosa, non sono allo stesso livello, non possiedono la stessa forza normativa. [. . .] Ma, per quanto diverse, comunque non ammettono mescolanze, tantomeno separazioni”. Sulla base di questa interpretazione asimmetrica, ma co-essenziale, Ratzinger mette in evidenza il ruolo fondamentale che hanno giocato i Padri nella ricezione della rivelazione. “Dove nessuno riceve la rivelazione, lì non si può avere nessuna rivelazione”. Così, il contributo di coloro i quali hanno accolto la Parola riguarda in primo luogo quattro “discernimenti” di imparagonabile importanza per il futuro della Chiesa: la definizione del canone, lo stabilirsi della regula fidei, il discernimento delle forme della liturgia, e il discernimento circa l’uso della filosofia. Per Arostegi, il dilemma della teologia odierna è che “se ha intenzione di entrare in dialogo con la scienza, deve mettere da parte il dogma, ma se mette da parte il dogma, smette di essere teologia”. La tensione tra auctoritas e ratio si può affrontare in modo fecondo sul piano della storia: Ratzinger nota che la Bibbia arriva a noi attraverso la storia, e che “solo chi affronta la storia può dominarla. Chi la vuole bypassare è suo prigioniero. E soprattutto, chi asseconda questa tendenza non ha la benché mini10
G. Maspero – J. Lynch
ma opportunità di leggere davvero storicamente la Bibbia, per quanto possa sembrare che utilizzi metodi storici. In fondo, continua ad essere rinchiuso nell’orizzonte del suo pensiero, in cui si riflette soltanto la propria immagine”. Così, la necessità della “purezza del cuore” per poter conoscere la realtà e il suo Creatore prende la flessione dell’attenzione che uno storico presta ai fatti. Il testo rivelato si dà all’interno di una storia, come anche la sua interpretazione, e per questo la sua esegesi contemporanea avrà sempre bisogno di confrontarsi con le prime autorevoli interpretazioni, quelle dei Padri. Questo modo di “pensare in modo biblico-patristico il presente” è il tratto che più avvicina Daniélou e Ratzinger, secondo Leonardo Lugaresi. Ciò è di grande attualità in quanto il pensiero patristico è “il pensiero più missionario della storia”. Le prime generazioni di cristiani non potevano appoggiarsi su terre già evangelizzate. Dovevano vivere la loro fede dentro strutture di peccato e popolazioni indifferenti o ostili: e sono riusciti non solo a vivere la loro fede ma anche a convertire i popoli. Per questo motivo, Lugaresi ritiene utile l’indagine del pensiero “preeuropeo” rappresentato dai Padri. Un tratto particolare del loro modo di pensare, ampiamente sviluppato da Daniélou, è la dimensione della storia come luogo della rivelazione di Dio. Innanzitutto, come anche le religioni naturali intuivano, nella creazione, e molto di più nella singolarità degli avvenimenti storici, Dio agisce. Da questa costatazione nasce il simbolismo storico, la tipologia. Lugaresi evidenzia che tante problematiche care alla modernità, compresa la pluralità dei popoli e delle lingue, e il desiderio di unità, possono essere fruttuosamente affrontate da questo versante. Anche il problema ben più difficile del significato della pluralità dei momenti storici, di costruzione e anche di distruzione, è illuminato dalla teologia della storia di Daniélou. La storia è il luogo della creatività di Dio; è anche il luogo della sua ira. Per poter pensare la storia in modo unitario, e quindi poter pensare Cristo come legato intrinsecamente al passato e al futuro, occorre un’economia della rivelazione che comprende tutta la storia, sia la bontà sia la giustizia di Dio. La “collera di Dio”, termine “solitamente trascurato” ma a giudizio di Lugaresi cruciale, 11
Introduzione
insegna all’uomo l’intensità dell’essere divino, e la nullità dell’essere creato. È una rivelazione anche questa che libera dall’idolatria: Daniélou dice appunto che le grandi catastrofi sono “un violento richiamo rivolto ad una umanità che tende a bastare a se stessa”. Lugaresi riassume: “alla domanda ‘ma che cosa fa Dio per il mondo che va così male?’ la risposta è appunto: ‘lo mette in crisi’”. La tipologia è la chiave, secondo Lugaresi e Daniélou, dell’intelligibilità della storia. Nello stesso gesto comprende la continuità e la discontinuità, e quindi comprende al suo interno le esigenze della ragione e quelle della libertà. Permette di cogliere il filo della provvidenza senza interpretarla come progresso ineluttabile; permette di affermare la libertà divina assieme alla libertà umana in un rapporto drammatico e reale. Anche il pensiero di Ratzinger è fortemente debitore a un “padre della Chiesa”, Bonaventura. Robert Wozniak mostra che “in Ratzinger, teologia della storia e ontologia pasquale sono elaborate non dall’alto o dal basso, ma dal centro della cristologia”. Tale centralità si esprime sommamente nel dogma di Calcedonia: il rapporto tra ontologia, storia, e teologia può essere illuminato solo nell’incontro reale con Cristo. Wozniak evidenzia che per Ratzinger tale affermazione non implica un misconoscimento della filosofia, ma la priorità (senza esclusività) della storia. Tutto ciò deriva, secondo Wozniak, dallo studio che Ratzinger ha svolto su Bonaventura per la sua tesi di dottorato, in particolare circa il rapporto tra natura e grazia. Il teologo bavarese avrebbe imparato da Bonaventura dei concetti ontologici che sono “aperti alla concretezza”, il che rinvia alla storia come luogo dell’azione della grazia. Wozniak prosegue il suo ragionamento mettendo in evidenza l’importanza del dogma di Calcedonia anche nel testo del 1968, Introduzione al cristianesimo. “La cristologia ontologica serve a salvare la teologia dell’evento storico allo stesso tempo da un’astoricità astratta e statica e da un vuoto storicismo”. Terzo elemento: Wozniak evidenza che Ratzinger intende “l’essere come esodo”, e che un “concetto estatico dell’essere e dell’esistenza” si trova in molti suoi scritti. Questa opzione “ha molto a che fare con la logica interna alla teologia del Nuovo Testamento, che sottolinea la sua scoperta sotto la guida del Doctor Seraphicus”. Ciò 12
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mostra la centralità della rivelazione e della teologia, non a margine della filosofia, ma come incarnazione del modo cristiano di pensare. Il primato è nell’azione divina: la rivelazione è un avvenimento dentro alla storia. Anche in questo punto il suo pensiero è molto vicino a quello di Daniélou. È significativo quanto la teoria dell’anima che Ratzinger espone nel suo libro sull’escatologia prenda le mosse dalla nozione di relazione. Scrive Wozniak: “Siamo immortali non perché ci è stata donata un’anima immortale. L’immortalità umana ha a che fare con la relazione con la sorgente di ogni immortalità che è Dio nelle sue relazioni intratrinitarie, che costituiscono la sua stessa vita divina”. Un nesso forte e suggestivo lega questo sunto della posizione di Ratzinger a quella di Daniélou, sviluppato da Giulio Maspero nel suo intervento. Qui si sostiene che Jean Daniélou ha potuto elaborare una teologia della storia, che non fosse una mera filosofia della storia come è caratteristico nella modernità, perché è stato in grado di pensare un’autentica ontologia della storia. Il testo cerca di mostrare il radicamento di tale possibilità di pensiero nella profonda conoscenza raggiunta da parte del teologo francese di Gregorio di Nissa. Nell’opera di questo Padre si rinviene un’originale rielaborazione della metafisica classica in termini che permettono una sintesi tra essere e storia. Tale armamentario permette a Daniélou di sviluppare un pensiero capace di rispondere alle sfide poste dall’esistenzialismo e, quindi, di riconoscere il valore non solo di ciò che è universale, ma anche del particolare. In questo senso lo sguardo che rende possibile la sintesi tra essere e storia è radicato nel pensiero trinitario e, in particolare, nella possibilità offerta all’uomo in Cristo di partecipare alle relazioni intradivine dalle quali ogni cosa trae origine. L’architettonica della teologia di Daniélou è, dunque, possente perché, al di là della forma “leggera” e rapida dell’essai, di cui la tradizione francese è maestra, il passaggio dalla dimensione ontologica alla riconsiderazione della storia e, quindi, della dimensione spirituale e culturale dell’uomo, costituisce un momento estremamente significativo della ricerca teologica del XX secolo. Daniélou anticipa, in tal modo, la stessa 13
Introduzione
ricerca sull’ontologia trinitaria, che sempre più appare come ambito di indagine essenziale nel pensiero contemporaneo. In questo, l’accostamento a Ratzinger risulta particolarmente efficace, perché permette di apprezzare come l’ardito pensare insieme l’essere e la storia sia il fondamento della capacità che accomuna i due grandi pensatori di presentare in modo significativo e accattivante il Mistero del Cristo all’uomo contemporaneo. Tale fondamento è a loro accessibile proprio per lo sguardo trinitario e relazionale che caratterizza la loro ricerca, profondamente fecondata dal contatto con le fonti patristiche e medioevali. Tale prospettiva emerge anche dall’intervento di Ludwig Weimer. Per affrontare il “mistero della storia”, egli si interroga circa il senso del terzo avvento, l’adventus medius, di cui Bernardo di Chiaravalle scrisse, e che offre una chiave illuminante per entrare nel pensiero di Ratzinger. Innanzitutto, la storia viene vista dalla croce e con gli occhi della fede, per scorgere la sua identità come “storia di Dio con gli uomini”. Weimer afferma che la “componente più rilevante della teologia ratzingeriana della storia [. . .] è la concezione dell’oggi nel tempo successivo a Cristo, basata su un’escatologia del presente”. Il cristiano, secondo Ratzinger, ha la gioia di vivere “un futuro che è diventato presente”. Ciò è sommamente vero dell’Eucaristia, che non è fuga mundi ma dimora di Dio nel mondo e nel tempo. La liturgia come luogo della presenza di Dio nella storia può prestarsi a comprensioni riduttive, da cui Weimer mette in guardia: non è magia, non è pura spiritualità; è dentro la storia, come i segni sacramentali evidenziano. Per Weimer, il centro della visione ratzingeriana della storia si trova nel modo di intendere l’azione di Dio nella storia. Egli analizza un testo del 1981 per mostrare che “non vi è la formulazione generica secondo cui Dio agisce là dove un uomo ama, ma si afferma che l’interazione tra Dio e uomo è fissata nell’uomo-Dio, cioè nella dimensione divina. Non l’umanesimo, ma la purificazione, la redenzione dell’uomo e il riflesso dell’amore di Dio portano Dio ad agire nel mondo”. Per Weimer, quindi, Dio agisce nella storia attraverso gli uomini purificati e liberati che imitano “l’amore di Gesù e di Dio”. 14
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Da questa visione discende il modo di intendere la speranza che Ratzinger ha esposto nella Spe Salvi. Bisogna che il cristiano abbia chiaro che cosa può dare al mondo e cosa non può dare; bisogna riconoscere che, anche ridotta sul piano numerico come mai è avvenuto dai primi secoli dell’era cristiana a oggi, la fede dei cristiani rimane essenziale al mondo e alla storia. Dallo studio di Weimer emerge una linea forte e aperta, che poggia interamente sulla libertà di Dio, e non tenta di chiudere il rapporto tra verità e storia in un sistema. Il testo di Pablo Blanco Sarto indaga il rapporto tra verità e storia in alcuni testi di Ratzinger. Mette in evidenza la necessità metodologica dell’approccio storico: “la verità non si presenta mai agli uomini come nuda veritas, ma sempre rivestita di una forma, che certamente è stata condizionata storicamente”. Ne consegue che la conoscenza che l’uomo ha della verità è sempre parziale e limitata. Così il titolo del convegno riceve una delucidazione: la storia permette l’ingresso nel mistero della verità, che rimane sempre più grande della comprensione che l’uomo ne ha, e si rivela sempre più all’interno del tempo. Una prima conseguenza di questo modo di intendere la storia è l’affermazione che la tradizione è un’interpretazione della Scrittura data sotto la guida dello Spirito, contro ciò che Blanco Sarto ritiene essere la tendenza protestante di vedere la storia successiva alla formazione del canone soltanto come decadenza. A parere di Blanco Sarto, si può invece affermare che il dogma è un’interpretazione autentica della Scrittura in cui l’equivocità del linguaggio biblico viene trasposta nel linguaggio univoco dei concetti. Tale trasposizione comporta “sia l’immutabilità sia la storicità”. L’articolo fa anche alcune incursioni nelle problematiche del rapporto tra storia e salvezza, e approda all’affermazione che “la libertà si presenta come punto centrale per risolvere la dicotomia tra verità e storia: la prima si realizza nella seconda per mezzo della libertà”. La seconda parte del volume è dedicata a tre tematiche ampiamente presenti nel pensiero di Ratzinger e Daniélou: lo studio del fenomeno religioso, il valore della liturgia e l’ispirazione missionaria di tutta la vita cristiana. Tutti e tre questi aspetti sono profondamente radicati nella questione del rapporto tra l’essere e la storia, a livello più gnoseologico 15
Introduzione
il primo, da un punto di vista più fondativo il secondo, e come dinamica essenziale della vita cristiana il terzo. Si è scelto, in questo caso, di offrire in parallelo la trattazione del singolo tema per ciascuno degli autori analizzati. Lo studio delle religioni è fondamentale sia per Daniélou sia per Ratzinger. Evidentemente il loro approccio è diverso: nel primo caso esso ha radici anche esistenziali, a partire dalla conversione all’induismo del fratello di Jean Daniélou, Alain; nel secondo caso la prospettiva è più immediatamente teologico-fondamentale. Eppure, ciò che si vuole proporre non è semplicemente un confronto, ma in primo luogo si è cercato di favorire la dimensione gnoseologica della questione. Come studiare le religioni? Come affrontare la loro differenza? Come, se è legittimo, operare un giudizio? La riflessione offerta da Angela Maria Mazzanti, presidente dell’Associazione PATRES, è di carattere storico-religioso, prima ancora che teologico. Da subito si individua il punto di contatto tra Ratzinger e Daniélou nella significatività della storia come luogo dell’irruzione del divino nel mondo, quindi nella sua dimensione di mistero ontologico e non meramente gnoseologico. Ciò implica, da una parte, che la dimensione religiosa non è separabile in modo artificioso dalla storia e, nello stesso tempo, che il suo studio non può prescindere dal mistero, cioè dalla profondità ontologica della storia stessa: “la storia non è concepibile senza la connessione con la spiritualità, né è possibile considerare la religione come una componente della storia”. Eppure, non è possibile all’uomo descrivere in modo completo tale connessione. “La storia profana [. . .] riceve significato nel disegno totale di Dio, ma la relazione fra gli avvenimenti della storia profana e di quella sacra ‘rimane un mistero profondo che sfugge ad ogni tentativo di determinazione.’” Mazzanti poi si concentra sul concetto del rapporto tra l’umano e il divino, categorizzato da Daniélou in infra-umano (ateismo), naturale (le religioni pagane), e soprannaturale (l’ebraismo, il cristianesimo). Più che un esame delle religioni concrete, svolge una riflessione sul sacro, facendosi aiutare dagli studi di M. Eliade e U. Bianchi. La religione naturale, o “pagana”, come solitamente preferisce Daniélou, è “l’espressione 16
G. Maspero – J. Lynch
storica dell’atto religioso dell’umanità”. Le religioni sono un tentativo umano di ricerca di Dio. Mazzanti sviluppa poi la controparte critica rispetto a tale posizione, in consonanza con quanto ampiamente afferma anche Daniélou. Il “fatto ebraico-cristiano” si presenta non come un “mezzo per adorare Dio”, ma come testimonianza di un evento: il “movimento di Dio verso l’uomo”. Visti attraverso questo giudizio, Mazzanti può affermare che per Daniélou, le religioni sono sia “presupposti” del cristianesimo, sia “impedimento” allo stesso. La prospettiva proposta ha bisogno del riferimento a un Logos più grande, che permette la krisis rispetto alle forme religiose non cristiane, sia in termini di differenziazione, sia in termini di continuità, in particolare per quanto riguarda l’eredità greca. Mazzanti dedica ampio spazio al problema dell’ellenizzazione, che per Daniélou rappresentava un patrimonio irrinunciabile, anche se il teologo francese guardava con stima il tentativo di Monchanin di incarnare il cristianesimo nella cultura Indù a prescindere dalla sua storia occidentale. Mazzanti si concentra sui testi di Daniélou che affermano la dinamica propria della prima “inculturazione” nella cultura greca, primo esempio del fatto che il cristianesimo “ha la capacità di rispondere alle istanze [delle religioni] e di assumere le interpretazioni simboliche e mitologiche che l’animo umano concepisce in virtù del suo essere in relazione ontologica con Dio”. Il contributo di Maria Vittoria Cerutti è dedicato allo studio delle religioni nell’opera del Papa Emerito. Come Mazzanti, interviene in quanto storico delle religioni, non teologa. E come per Mazzanti, il richiamo alla scuola di Ugo Bianchi è esplicito. Cerutti sviluppa la sua riflessione seguendo le linee evidenziate da Ratzinger in un testo del 1964, in cui il teologo bavarese dice del proprio convincimento che “in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale”. Secondo Cerutti, questa “formula strutturale” mette in evidenza un metodo che evita le riduzioni sia della fenomenologia, sia dell’antropologia religiosa di Ries. La prima a causa della sua ricerca di strutture comuni alle religioni “giunge a 17
Introduzione
misconoscere le discontinuità tra le concrete esperienze religiose”. La seconda, che cerca di fondare ogni autentica religione nell’esperienza mistica, a giudizio di Ratzinger non tiene di fronte alla storia reale delle religioni, che mostrano invece che “la mistica [è] una via del tutto particolare tra svariate altre”. Il contributo metodologico e la riflessione gnoseologica sono importanti qui. Tra una concezione relativistica del religioso e l’estremo opposto storicista, che, da una parte negano la possibilità di ogni giudizio e, dall’altro, riducono l’oggetto studiato cosificandolo e strappandolo dal suo contesto, si apre la possibilità comparativa. Questa, in profonda consonanza con il pensiero di Ratzinger e la sua concezione del rapporto tra verità e storia, cerca solo di far emergere le diverse relazioni tra i fenomeni religiosi studiati, senza imporre ad essi preconcetti o teorie già elaborate. In questo modo il giudizio è possibile ma, nello stesso tempo, esso rimane sempre aperto, in conformità alla caratteristica essenziale del Logos, segnalata nell’intervento di Mazzanti e caratteristica del pensiero di Ratzinger. Così la storia delle religioni rimane sempre mistero, ma mistero portatore di luce. Cerutti evidenza che la “formula strutturale” cercata da Ratzinger permette di “abbracciare il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell’essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali, irriducibili”. La seconda caratteristica della posizione di Ratzinger è che “costituisce la base per proseguire in una analisi comparativa differenziante delle religioni che pervenga a identificare – su base storica prima che teologica – il posto del cristianesimo nel mondo delle religioni, e il senso “provvisorio” e “precursorio” delle religioni rispetto al cristianesimo. Così, scrive Maria Vittoria Cerutti, grazie ad “una considerazione differenziata e non omogeneizzante delle religioni”, permessa dalla sua metodologia comparativa, Ratzinger “può misurare la loro vicinanza e lontananza rispetto all’evento-Cristo che ne realizza la determinazione-vocazione storica”. Il confronto tra Daniélou e Ratzinger nello studio delle religioni permette di rilevare a un livello pre-teologico la centralità della connessione tra essere e storia proposta nella prima parte del presente volume. 18
G. Maspero – J. Lynch
Questa connessione è confermata quando ci si rivolge alla dimensione liturgica. Per Guillaume Derville, il punto di partenza della teologia liturgica di Daniélou è triplice: la sua esistenza sacerdotale, la stretta connessione tra la liturgia e i due Testamenti, e il fascino di vedere “nella liturgia l’attualizzazione di tutta la storia della salvezza”. La liturgia è il luogo dove “si attualizza senza tregua l’incontro della comunità ecclesiale col mistero di Dio”. Nell’ispirarsi teologicamente alla fonte scritturistica e patristica, in particolare per quanto riguarda la tipologia, Daniélou ha sfidato i presupposti epistemologici della sua epoca. Da tale prospettiva, che evidenzia che Cristo è il senso di tutta la Scrittura e il fondamento dell’unità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, la liturgia diventa luogo dell’esegesi. Nel Mistero di Cristo, gli eventi narrati sono resi presenti e contemporanei ad ogni cristiano in ogni epoca. Derville evidenzia la centralità della categoria di mistero per il pensiero di Daniélou, il quale include il termine nel titolo di ben cinque delle sue opere. Esso punta verso una profondità propriamente ontologica e teologica, che nella sua radicale eccedenza sopravanza costantemente la dimensione gnoseologica e noetica. La dimensione simbolica, centrale nell’esegesi patristica, trova qui il suo fondamento. La dimensione sacramentale è costitutivamente inseparabile dall’ermeneutica biblica e dall’atto teologico, in quanto li fonda nel dischiudere la profondità ontologica della storia. Derville afferma che per il gesuita francese, “c’è dunque un rapporto essenziale tra la storia della salvezza in quanto si svolge nel tempo e la liturgia che ne dà forma”. Così, con lo sguardo rivolto a tutta la produzione di Daniélou, egli conclude: “La tipologia fu sempre la chiave di questi lavori. La scrittura si illumina con la scrittura. La liturgia la manifesta. La storia della salvezza è al centro della liturgia, si attualizza nella liturgia”. Il contributo dedicato al pensiero liturgico di Ratzinger è di Juan José Silvestre. Egli procede storicamente, muovendo dalla biografia dell’autore bavarese, con il suo amore per la liturgia appreso da ragazzo, fino a situare il suo pensiero sullo sfondo del Concilio Vaticano II. 19
Introduzione
Silvestre nota che l’aver posto la costituzione sulla liturgia all’inizio dei lavori conciliari “conferì un’architettura ben precisa al Concilio: la prima cosa è l’adorazione e, quindi, Dio”. Silvestre dedica il centro del suo studio alla liturgia come attualizzazione del mistero pasquale, che secondo lui viene collocato da Ratzinger “in un contesto di filiazione, preghiera e sacrificio per gli altri che caratterizza tutta la vita di Gesù”. Il rischio radicale della morte “sarebbe vacuo se non fosse vero che l’amore è più forte della morte”. Ma il rischio poggia sull’infinito potere dell’amore di Dio, e nella risurrezione mostra di non essere stato invano. Silvestre mette in evidenza lo stretto rapporto tra Cena, morte, e risurrezione nell’Eucaristia. Il Mistero Pasquale non è semplicemente un evento del passato, ma rimane ontologicamente attingibile attraverso la dimensione sacramentale in ogni epoca e, in quanto tale, fonda la vita cristiana, che ha la sua fonte e il suo compimento nell’adorazione. Silvestre conclude, con Ratzinger, che “dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita [. . .] sia liturgia, adorazione”. Per parlare della missione in Daniélou, Jonah Lynch parte dal rapporto tra contemplazione e azione. La paradossale unità dei due termini si trova compiuta proprio in Cristo, che ha accettato di vivere la tensione tra cielo e terra, “da un estremo all’altro”. Lynch situa il discorso di Daniélou come superamento della dialettica tra chi vede nelle religioni delle istanze di una categoria buona e sostanzialmente unitaria, e chi invece (con Barth) vede nelle religioni un ostacolo alla conversione. Lynch mostra che per Daniélou, “il mondo che Dio ha creato e il mondo che ha salvato sono lo stesso”. L’incarnazione richiesta dal missionario ha grande importanza per Daniélou; ma “tutto sarebbe mancato se, andando verso di loro, fossimo noi a diventare come loro e non loro che diventano come noi. Allora ci sarebbe incarnazione, ma senza trasfigurazione, non vale nulla”. La trasfigurazione che il missionario intende realizzare dentro le culture deve valorizzare alcuni elementi e purificarne altri. Più che cercare di indicare con precisione questi elementi, Daniélou mostra il criterio: deve morire ogni idolatria, ogni elemento che ostacola l’accettazione del proprio bisogno di salvezza e 20
G. Maspero – J. Lynch
della persona di Cristo che la offre gratuitamente. In questo modo, ogni autentico valore di una cultura sarà salvato. La salvezza arriva gratuitamente, nei tempi di Dio: allora cosa rimane da fare per il missionario? Per Daniélou, c’è un’urgenza nell’amore che mal si accorda con il quietismo o con la ritirata dal mondo pagano. “Possiamo lavorare all’evangelizzazione del mondo, affrettare la conversione delle anime in vista della parusia, cioè il compimento di tutte le attese,” afferma Lynch. Conclude il suo contributo indicando nella croce di Cristo la forma di ogni missione cristiana, anche attraverso l’esempio del rapporto fra Jean Daniélou e il suo fratello Alain. Vincent Twomey affronta il tema del fondamento antropologico della missione della Chiesa partendo da una breve esposizione della responsabilità oggettiva che la Chiesa ha nei confronti di tutti gli uomini. Tutta la storia del mondo mostra un movimento “ascendente” verso l’unione tra il mondo e Dio. La fede afferma che questa unione è avvenuta in Cristo, e quindi “il rapporto tra la storia ascendente del cosmo e l’evento-Cristo è tale che il primo è precondizione (o preparazione) per il secondo, mentre dall’altra parte Cristo concede al mondo ciò che non avrebbe mai potuto raggiungere da solo”. Ne segue che lo scopo di Cristo nel fondare la Chiesa era per raggiungere i “molti”. La parte più corposa dell’articolo di Twomey si concentra invece sulla questione più difficile della salvezza del soggetto. Richiama la povertà di spirito, analogamente a quanto ha fatto Tremblay aprendo il convegno, come una sorta di “fede prima della fede”. Questa posizione è cruciale proprio perché la coerenza con i convincimenti soggettivi non può essere il criterio sufficiente della salvezza: ne conseguirebbe una serie di assurdità, tra cui l’uomo delle SS che si salverebbe perché ha seguito bene la sua coscienza. Ciò che Twomey propone invece è che “ciò che salva l’uomo non è il sistema ma qualcosa che trascende qualunque sistema: l’amore e la fede che mette fine all’egoismo e all’hybris distruttivo. Le religioni possono aiutare e anche ostacolare tale atteggiamento di povertà di spirito. Twomey evidenzia la comprensione di Ratzinger del cristianesimo come “fede in un evento”, e che “Dio cerca l’uomo nel mezzo delle 21
Introduzione
sue connessioni e rapporti mondani e terrestri”. In questo, Ratzinger dipende esplicitamente da Daniélou. Ha una posizione molto simile a quella di Daniélou anche rispetto all’importanza da ascrivere ai “valori” umani: “in questo nostro mondo, natura e soprannatura non sono mai strettamente separati, ma si interpenetrano. A causa di ciò, tutti i valori veramente umani sono segnati da entrambi l’elevazione soprannaturale divina e dal peccato umano”. Rispetto alle religioni del mondo, Ratzinger critica le modalità più comuni di concepire il rapporto tra le religioni e il cristianesimo, perché “tendono a trattare le religioni del mondo indiscriminatamente” – in altre parole, ragionando in base a categorie invece che in base alla concreta esistenza di ogni religione, come evidenziato anche nelle relazioni di Mazzanti e Cerruti. Secondo Twomey, Ratzinger non mostra un particolare senso di urgenza rispetto alla proclamazione della Buona Novella ai non battezzati. Cita a suo sostegno un brano in cui Ratzinger afferma che “il vero ministero di liberazione per la Chiesa oggi è di tenere alta la fiamma della verità nel mondo. [. . .] Il vero contributo della Chiesa alla liberazione, che non può mai posporre e che è più urgente oggi, è di proclamare la verità al mondo, affermare che Dio è, che Dio ci conosce, e che, in Gesù Cristo, ci ha dato la strada alla vita. Solo allora ci può essere una cosa come la coscienza, la ricettività alla verità, che dona ad ogni persona accesso diretto a Dio e fa lui più grande di ogni sistema mondiale concepibile”. Forse la proclamazione della verità coincide già con la missione, ma appare qui una differenza importante tra la posizione dei due autori in esame. Daniélou propende per una missione popolare, tanto attiva quanto contemplativa, verso tutti, in fretta. Ratzinger preferisce sottolineare la precisione della verità, anche a costo che la Chiesa sia una minoranza, e si esprime senza gli accenti dell’urgenza. Il saggio finale è di John Milbank, il quale svolge una riflessione sul metodo dell’interpretazione della storia e dei testi a partire dal pensiero poetico e sociale di Charles Péguy. Ci è piaciuto offrire questo contributo in particolare per le domande concrete che esso suscita: idealmente “lancia in avanti” una pista da continuare a investigare. Anche alla luce 22
G. Maspero – J. Lynch
del Magistero di Papa Francesco, il contributo di Milbank sottolinea l’importanza del tema proposto e della decisione di accostare Ratzinger e Daniélou, per operare il discernimento dei segni dei tempi cui siamo chiamati. Entrambi gli autori studiati, sia nella loro profonda vicinanza sia nella loro differenza, sono esempi esimi di tale discernimento. Milbank afferma in apertura che la forma della poesia di Péguy, “variazioni su tema”, non ammette una “sistematica chiusura interpretativa”. Il lettore non può “interpretare genuinamente, ma solo glossare, o ripetere differentemente in una sorta di prosieguo del testo in termini di metodo e contenuto insieme”. Ciò potrebbe sembrare un limite, ma secondo Milbank rappresenta invece il cuore stesso dell’atteggiamento corretto non solo dell’interprete di Péguy, ma anche dello storico, dell’esegeta, e in generale del cristiano tout court. Questa considerazione sorprendente è in netto contrasto con la “religione civile dell’avvenire” (civil religion of futurity) che caratterizza gran parte del pensiero e dell’azione temporale di oggi. La storia non è un processo di aggregazione, un meccanico “progresso”, Milbank sostiene, ma è il tempo di un organismo che nasce e invecchia e che ha bisogno di ri-nascere attraverso il ritorno alle fonti, come abbiamo ampiamente visto in Daniélou e Ratzinger nella prima parte di questo volume. Milbank espone quattro critiche di Péguy allo “storicismo laico e positivista”. Centrale in queste critiche è la costatazione che il concetto di “evento” che fonda la possibilità stessa di pensare un vero novum nel tempo ha la caratteristica di essere un “esempio di particolare unicità finita” che però “sembra coincidere con l’infinito”. Perciò, “l’unica storia possibile consisterebbe allora in una mediazione tra oggettivo e soggettivo,” comprendente sia la fedeltà ad un orizzonte di significato proprio del passato, sia un impegno ad approfondire quello stesso orizzonte nel futuro. Questo punto, secondo Milbank, apre al fatto che soltanto la storia sacra è in grado di superare le aporie ivi nascoste. “La ‘spiegazione’ di un avvenimento deve cedere il passo [. . .] al carattere rivelatore di un avvenimento”. L’importanza di questo principio si evince da un paragone tra la concezione gioachimita e agostiniana della storia, gravide di conseguenze per 23
Introduzione
la comprensione della cristologia (incarnazionista o escatologica), il rapporto tra natura e grazia, tra materia e spirito. Per Milbank, “l’approccio di Péguy effettivamente fa rivivere, in modo nuovo e per certi versi moderno, proprio questa visione della storia agostiniana e cristocentrica, che tuttavia era stata intralciata da Gioacchino”. Possiamo notare che Daniélou fa propria questa visione della storia, e dipende direttamente da Péguy per alcune scelte cruciali che lo distanziano da Gioacchino. Secondo Milbank, Ratzinger invece, nella stagione giovanile rappresentata dalla sua tesi di dottorato su Bonaventura, “sembra assegnare uguale validità alla posizione di Tommaso più agostiniana sulla storia e a quella più gioachimita di Bonaventura”. E nella sua maturità (rappresentata da Introduzione al cristianesimo), Milbank evince un’apparente antitesi in Ratzinger: “si trovano affermazioni secondo cui la cristologia non deve essere concepita come Dio che ‘affonda ulteriormente le radici nel mondo’, ma piuttosto come un incoraggiamento alla trascendenza spirituale del mondo”. Questa antitesi, se esiste, ha conseguenze per il rapporto carisma-istituzione oltre che per il rapporto tra il Figlio e lo Spirito. Il punto cruciale per Milbank sta nella capacità dell’approccio agostiniano (che, secondo lui, è proprio anche di Daniélou) di dare meno importanza provvidenziale agli eventi specifici della storia della Chiesa, per rispettare la logica dell’Incarnazione: “tutta la dimensione meramente umana è ora di ugual valore sacro e tutta la storia della Chiesa è satura di significato divino-umano”. Si può arrivare a questa considerazione anche per la via aristotelico-tomista: “per l’Aquinate [. . .] l’intera possibilità di un evento storico scientificamente significativo dipende dall’Incarnazione, in cui la prima e universale causa ha assunto in sé un essere umano particolare e una storia umana specifica”. Con ciò si può tornare al punto di partenza e vedere che “nei termini di Charles Péguy [. . .] la vita cristiana ‘ripete’ sempre lo stesso evento-Cristo, ma non-identicamente”. La liturgia presenta esattamente questo paradosso, un evento che ha un inizio ma non ha un fine, e che è memoriale, presenza del passato in un eterno presente. Le conseguenze per la vita sociale sono profonde. Lasciando l’intera serie delle considerazioni di Milbank alla lettura del suo articolo, pos24
G. Maspero – J. Lynch
siamo sottolineare la sua affermazione che “tutta la finita vita umana scorre in cerchi, e quindi noi dovremmo ripetutamente inscrivere tali cerchi non al di fuori di un obiettivo, non per raggiungere un qualche punto finito, ma giocosamente, come bambini e al di là di una speranza che non è speranza di qualcosa di definito, ma oscuramente speranza remota di beatitudine eterna, nella quale l’inutilità oltre il limite verrà completata infinitamente”. Il Dio fattosi uomo insegna, anche attraverso le proporzioni schiaccianti della vita nascosta rispetto alla vita pubblica, “l’aspetto puramente ludico, gioioso della vita fine a se stessa come vissuta dai gigli del campo”. In altre parole, la vita vissuta con un cuore puro, che ha imparato attraverso l’Incarnazione a stimare il tempo presente, compresa la materia, la politica, e il lavoro, senza fare della speranza una proiezione mitologica nel futuro immaginario. L’appendice del volume raccoglie tre contributi più brevi, offerti da studiosi che hanno partecipato al congresso. Il primo, di Isabel Troconis, evidenzia come la risposta ratzingeriana allo storicismo sia ispirata dall’antropologia relazionale biblico-patristica e dalla struttura profonda dell’ontologia dell’immagine, in quanto raccordo tra la Trinità e la creazione. Sincero Mantelli mette in evidenza la centralità nel pensiero di Daniélou dell’akolouthia, elaborata nella teologia di Gregorio di Nissa, come categoria che collega il livello esegetico e quello dogmatico, in quanto traccia della profondità del mistero presente nella storia, che unisce passato e presente. Infine, Giuseppe Fidelibus mostra la centralità e l’attualità del rapporto agostiniano tra fede e ragione attraverso la sua irradiazione nella teologia di Ratzinger. Buona lettura! Roma, 11 luglio 2016, Festa di S. Benedetto Jonah Lynch Giulio Maspero
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Saggio Introduttivo
Nota sull’interpretazione della “beatitudine” dei “puri di cuore” (Mt 5,8) di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI. Gli agganci del suo pensiero con qello di Ireneo di Lione1 Réal Tremblay C.Ss.R. (Alfonsiana, Roma)
Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello; i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Ap 22,3-4. Desideriamo la patria di lassù, aspiriamo alla patria di lassù. (. . .) Che cosa vedremo? Vedremo la luce stessa apertamente e saremo purificati per essere capaci di vederla e di portarla. Sant’Agostino
Da quando la teologia esiste, pagine e pagine di esegesi e di riflessioni teologiche sono state scritte su questa sesta “beatitudine” del Discorso della montagna della versione matteana. Molte considerazioni sono 1
Questo testo è già apparso, con leggere modifiche, nel mio recente libro Chiamati alla comunione del Figlio. Aspetti teologici e etici della vita filiale, LUP, Città del Vaticano 2016, 185-195.
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Saggio Introduttivo
state oggetto di questa “beatitudine”, buone e meno buone, soprattutto in rapporto con la virtù della purezza. Credibili o no, Joseph Ratzinger/Benedetto XVI non utilizza alcun risultato di questi studi. Opta piuttosto per un breve commento al testo sacro, farina del suo sacco, che inserisce nel primo tomo della sua opera Gesù di Nazaret.2 Dall’apparenza piuttosto banale a una prima lettura, questo commento si rivela, a una seconda lettura, di grande profondità e di vasta portata. Nelle poche pagine che seguono, mi propongo di seguire lo sviluppo del pensiero dell’autore e di trarne profitto per una teologia morale di tipo cristico e filiale. *
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È nota l’importanza che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI attribuisce al “cuore”.3 È qui servito a piacimento. In questo commento, si interessa subito a precisare il senso del termine “cuore”. Esso è l’organo con cui si può vedere Dio. In questo caso, la ragione non è sufficiente. Affinché l’uomo possa aver accesso a Dio, tutte le forze della sua esistenza devono agire di concerto. La volontà deve essere pura, come deve esserlo anzitutto il “fondo affettivo dell’anima” che orienta la ragione e la volontà. Con “cuore” si intende per l’appunto questa combinazione interiore delle forze di percezione dell’uomo, che implica anche la giusta compenetrazione del corpo e dell’anima che appartengono alla 2
3
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 118-121 (Orig. J. Ratzinger/Benedikt XVI, Jesus von Nazareth. Erster Teil: Von der Taufe im Jordan bis zur Verklärung, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2007, 123-127). Nella sua tesi di dottorato, L. D. Albóniga ha trattato tale questione con profondità ed esaustività: El Logos tiene un corazón. El amor, identidad ad dinámica de la existencia en Benedicto XVI y su significado para la teología moral fundamental, Agape Libros, Buenos Aires 2014, 377-463. Cfr. Anche la grande opera di C. Bertero, Persona e comunione. La prospettiva di Joseph Ratzinger (Corona Lateranense, 58), Lateran Press University, Città del Vaticano 20152 , passim (vedere le voci: “Abba”; “Fraternità”; “Preghiera”; “Preghiera di Gesù”; “Immagine e somiglianza”; “Relazione”). Cfr. infine i miei lavori sull’argomento in R. Tremblay, Prendete il mio giogo. Scritti di teologia morale fondamentale, (Saggi per il nostro tempo, 22), Lateran University Press, Città del Vaticano 2011, 261-301.
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creatura umana nel suo insieme. La disposizione affettiva fondamentale dell’uomo dipende precisamente da questa unità dell’anima e del corpo e dal presupposto che l’uomo accetti insieme il suo essere corporeo e il suo essere spirituale, che sottometta il corpo alla disciplina dello spirito, senza isolare la ragione o la volontà, ma ricevendo se stesso da Dio e così riconoscendo e vivendo la corporeità della sua esistenza come ricchezza per lo spirito. “Il cuore – la totalità dell’uomo, conclude il nostro autore, deve essere pura, intimamente aperta e libera perché l’uomo possa vedere Dio”.4 Si pone allora la questione: come diventa puro l’occhio interiore dell’uomo? La tradizione mistica dell’ascesa verso Dio attraverso un “itinerario” di purificazione ha cercato di rispondere a tale domanda. Ma la lettura delle “Beatitudini” deve farsi in un contesto biblico. In questo contesto, si trova il Sal 24, espressione di un’antica liturgia di ingresso al santuario. Ora, i versetti 3 e 4 suonano così: 3 Chi
potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli, chi non giura con inganno.
4 Chi
Il salmo spiega in molti modi il contenuto di questa condizione per avere accesso a Dio. Un presupposto indispensabile è che gli uomini debbano cercare Dio, ricercare il suo Volto (v. 6). Ma anzitutto e come contenuto delle “mani innocenti” e del “cuore puro”, vi sono le esigenze di non mentire e di non pronunciare falsi giuramenti. Così dunque l’onestà, la sincerità, la giustizia verso il prossimo e la società sono comportamenti che possiamo etichettare come etica sociale, ma che, in realtà, affondano le loro radici nel fondo del cuore. Il Sal 15 sviluppa ancor più questa prospettiva cosicché si può dire che il contenuto essenziale del Decalogo è molto semplicemente la condizione di accesso a Dio con l’accento messo anzitutto sulla ricerca interiore di Dio, sul fatto di essere in cammino verso di lui (prima Tavola) e poi sull’amore fraterno e la giustizia verso gli individui e 4
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 118 (orig., Jesus, 124).
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la comunità (seconda Tavola). Non è nominata alcuna condizione che scaturisce specificamente dalla conoscenza della rivelazione, ma si parla della ricerca di Dio, di indicazioni essenziali della giustizia che una coscienza vigilante, tenuta desta precisamente con la ricerca di Dio, detta a ciascuno. Sulla bocca di Gesù, questa “beatitudine” acquisisce tuttavia una profondità inedita. Essa fa parte per così dire della sua “natura specifica”. “Vedere Dio”, porsi faccia a faccia davanti a lui in un continuo scambio interiore è “vivere l’esistenza da Figlio”. In tal modo, l’espressione acquisisce una forte valenza cristologica. Da ciò deriva che vedremo Dio quando entreremo “nei sentimenti di Cristo” (cfr. Fil 2,5). La purificazione del cuore si realizza nella “sequela di Cristo”, nella nostra unione con lui nel senso paolino del termine: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Qui, continua il nostro autore, appare un nuovo dato. L’ascesa verso Dio avviene effettivamente nella “discesa” dell’umile servizio, nell’abbassamento dell’amore che “è l’essenza di Dio” e, in tal modo, forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e vedere Dio. In Gesù Cristo, Dio stesso si rivela abbassandosi. E l’autore cita Fil 2,6-9: Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Queste parole segnano dunque una svolta decisiva nella storia della mistica. Mostrano la novità della mistica cristiana che deriva dalla novità della rivelazione in Gesù Cristo. Dio discende, fino alla morte sulla croce. E proprio così si rivela nella sua autentica divinità. L’ascesa a Dio avviene nell’accompagnarlo in questa discesa.5 5
Ibidem, 121. Trascrivo qui l’originale tedesco per desiderio di una più grande fedeltà al pensiero dell’autore. Sottolineiamo tra le altre cose l’uso dei termini Abstieg
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La liturgia dell’ingresso nel santuario del Sal 24 riceve così un nuovo senso: il cuore puro è il cuore amante che entra in comunione di servizio e di obbedienza con Gesù Cristo. L’amore è il fuoco che purifica e unisce ragione, volontà, sentimento; è ciò che unifica l’uomo in se stesso in virtù dell’azione di Dio così da farne il servitore dell’unità di coloro che sono divisi. Così l’uomo fa il suo ingresso nella dimora di Dio e può vederlo. È esattamente quello che significa essere “beato”. *
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Il cuore puro che vede Dio e che è detto beato in questa “beatitudine” è, propriamente parlando, il cuore stesso del Signore in quanto è il Figlio. Per avere un cuore tale, il credente dovrà raggiungere Gesù, unirsi a lui, salire verso di lui, diventare figlio come lui.6 Ma questa purificazione del cuore nell’unione al cuore del Figlio si realizzerà praticamente in una discesa con lui verso il mondo, in un servizio radicale dei fratelli fino all’abisso dell’amore crocifisso. Salire in Dio, è discendere con lui verso gli uomini. L’“essenza divina è amore”. *
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Studiando altrove il senso che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI attribuisce alla scena giovannea della trasfissione di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34) e così il senso che dona allo sguardo gettato su di lui, sguardo che dona ai credenti un “cuore che vede”, mi ponevo questa domanda:
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e Aufstieg per significare alla lettera rispettivamente “discesa-abbassamento” e “salita”: “Gott steigt ab, bis zum Tod am Kreuz. Und gerade so offenbart er sich in seiner wahren Göttlichkeit. Der Aufstieg zu Gott geschieht im Mitgehen bei diesem Abstieg”. Jesus, 126. Un’affermazione analoga se trova in sant’Agostino: “Solo enim corde videtur Verbum: caro autem et oculis corporalibus videtur. Erat unde videremus carnem, sed non erat unde videremus Verbum: factum est Verbum caro, quam videre possemus, ut sanaretur in nobis unde Verbum videremus”. 1 Epist. Joan., tr. 1, 1 (SCh., 75, 112).
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A motivo delle sue radici, non si potrebbe adottare l’espressione un “cuore che vede” come un compendio, insieme significativo e attraente, per designare e concepire una morale fondamentale che, secondo le indicazioni del Vaticano II, riconosce Cristo come centro della riflessione etica?7
Alla luce dell’interpretazione che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI dà qui alla sesta “beatitudine” del Discorso della montagna di Gesù, si può dire che l’intuizione un po’ audace di allora riceve ora un sostegno fondato. È nel cuore del Cristo-Figlio che si realizza la visione di Dio che beatifica, ed è lì che sgorga, per i suoi, la sorgente di questa immersione nell’intimità di Dio (“centro”, fondamento). Ma questa ascesa in Dio si compie necessariamente nell’abbassamento totale della croce per gli altri. Infatti, “Dio è amore” (cfr. 1Gv 4,16) e la condizione di possibilità dell’ascensione verso Dio è la discesa verso i fratelli, la pro-esistenza radicale in loro favore (“etica”, agire morale). *
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All’inizio degli anni 70 concludevo, all’università di Ratisbona, un dottorato sulla manifestazione e visione di Dio secondo sant’Ireneo di Lione8 sotto la direzione dell’allora professor Joseph Ratzinger. Questo tema della visione di Dio è stato dunque ripreso dal maestro stesso alla luce del Discorso della montagna nella versione matteana. Questo legame tra maestro e discepolo, ai miei occhi non è banale. Lungi da me il pensare che Joseph Ratzinger/Benedetto XVI abbia avuto all’orizzonte del suo pensiero i risultati della mia ricerca scrivendo le pagine qui studiate sulla beatitudine dei cuori puri che vedono Dio. Sarebbe una pretesa gratuita. Ma mi piace sottolineare in questo caso che, a dispetto delle epoche e dei contesti culturali diversi, il pensiero di Ireneo e quello di Ratzinger si incontrano nell’essenziale. Vorrei rapidamente illustrare questo. 7 8
R. Tremblay, Regarder le Christ transpercé, «Studia Moralia» 45 (2007) 81-82. Idem, La manifestation et la vision de Dieu selon saint Irénée de Lyon (MBTh., 41), Aschendorff, Münster 1975.
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Mentre gli gnostici chiudono il cielo agli uomini considerando il loro “Padre supremo” del Pleroma invisibile e inaccessibile – per loro la salvezza consiste precisamente nel “conoscere” che l’Essere supremo della sfera eonica sfugge alla presa di tutti9 –, Ireneo apre il cielo agli uomini. Se è vero che, secondo lui, il Padre di Gesù è in sé di una grandezza inaccessibile, questo Padre, per amore, si dà a vedere agli uomini che lo amano. Ascoltiamo Ireneo stesso: Dunque i profeti preannunciavano che Dio sarebbe stato visto dagli uomini, come dice anche il Signore: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (Mt 5,6). Ma, secondo la sua grandezza e la sua gloria indicibile nessuno può vedere Dio e restare vivo [Es 33,20], perché il Padre è inconoscibile; invece secondo il suo amore, secondo la sua umanità e secondo il potere che ha su tutto, egli concede persino questo a coloro che lo amano: di vedere Dio, cosa che preannunciavano i profeti. Perché ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio (Lc 18,27). Da se l’uomo non potrà certo vedere Dio, ma lui se vuole, si farà vedere dagli uomini, da chi vuole, quando vuole e come vuole.10
Dio si dà a conoscere nel suo Figlio secondo la bella espressione di Ireneo: “La Realtà invisibile che si vedeva nel Figlio era il Padre”, e il suo
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Si potrebbe trovare una certa attualizzazione delle “gnosi” nel libro recente di S. Abad-Gallardo, J’ai frappé à la porte du Temple. . . Parcours d’un franc-maçon en crise spirituelle, Téqui, Paris 2015, 112s. 10 Ireneo di Lione, Contro le Eresie IV, 20, 5 (traduzione di A. Cosentino, Città Nuova, Roma, 2009, vol. 2, 215-216). Si crederebbe udire un’eco di questo brano ireneano in questo testo di san Pietro Crisologo: “Come lo sguardo umano avrebbe potuto abbracciare Dio, che il mondo nei suoi limiti non riesce a comprendere? La forza dell’amore non considera che cosa voglia, che cosa debba, che cosa possa. L’amore ignora il discernimento, è privo di ragione, non conosce misura; l’amore non ricava conforto dall’impossibilità, non trova un rimedio nella difficoltà”. Pietro Crisologo, Terzo discorso sulla nascita del Signore, Sermone 147, 6 [Sermoni, a cura di Gabriele Banterle et al., Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, Milano – Roma 1997, (vol. 3 dei Sermoni), 149.151].
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indispensabile complemento: “la Realtà visibile nella quale si vedeva il Padre era il Figlio”.11 Ireneo completa altrove il suo pensiero aggiungendo altri elementi essenziali. Al momento della venuta del Figlio, Dio “è visto per mezzo del Figlio secondo l’adozione”,12 cioè per una parentela d’essere con il Figlio che apre sul Padre e che dona di “partecipare al suo splendore” vivificante. “Tale è il motivo per cui colui che è inconoscibile, incomprensibile e invisibile si offre in modo visibile, comprensibile e conoscibile agli uomini”.13 È dunque entrando nello spazio dell’essere filiale di Gesù che il credente acquisisce gli occhi che gli permettono di tuffarsi nel cuore del mistero paterno al quale dovrà ancora adattarsi contemplando il Figlio nel suo “Regno” che precede il “Regno del Padre”.14 C’è bisogno di sottolineare che non si tratta in questo caso di una semplice osservazione di Dio, né di uno sguardo su Dio, ma di uno sguardo in Dio che produce rapporto, unione, parentela divina? Ireneo non nomina qui, come in Ratzinger, il “cuore”, questo organo sintesi di rassomiglianza con il Figlio che rende adatti a penetrare ciò che vede, ma si appoggia soprattutto sulla vista legata alla fede che genera rapporto, unione alla persona contemplata. Ireneo è molto trinitario nella sua teologia della visione di Dio. Il Padre è il vertice di tutto. In un testo splendido, mostra che è lo Spirito del Figlio che, prima in “caparra” e poi in “pienezza”, svelerà all’uomo risorto nel suo corpo e nella sua anima tutto lo splendore del volto paterno e la sua identità di immagine e somiglianza con Dio: Se dunque al presente, avendo ricevuto questa caparra, noi gridiamo: “Abba, Padre”, che sarà quando, essendo risuscitati, lo vedremo faccia a faccia, quando tutte le membra genereranno come uno zampillo, un inno Ireneo di Lione, Contro le Eresie IV, 6, 6 (traduzione di Cosentino, ibidem, 64). Questa traduzione è modificata secondo quella di A. Rousseau della collana “Sources Chrétiennes” 102/2, 450. 12 Ibidem IV, 20, 5 (traduzione di Cosentino, ibidem, 216). 13 Ibidem. 14 Su questo punto, cfr. Tremblay, La manifestation, 149-156. 11
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Réal Tremblay
d’esultanza, glorificando colui che li avrà risuscitati dai morti e avrà donato loro la vita eterna? Se infatti la caparra, sviluppando l’uomo da tutte le parti, gli fa dire “Abba, Padre”, cosa farà la grazia tutta intera dello Spirito, quella grazia che verrà donata da Dio agli uomini? Ci renderà simili a lui, e compirà la volontà del Padre: infatti renderà l’uomo immagine e somiglianza di Dio.15
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Il pensiero di Ratzinger fondamentalmente non si distanzia da questa teologia ireneana della visione di Dio. Senza forzare indebitamente le cose, si potrebbe dire che essa la contiene in germe, tenendo conto della sua riflessione di tipo più cristologico ed etico. Ecco un esempio che illustra bene, mi sembra, questa affermazione. Quando Ireneo parla della Croce “impressa nell’intera creazione”,16 e vi vede “il Verbo di Dio unito alla carne e crocifisso, (che) ricapitola in lui gli uomini e manifesta loro il potere che esercita di modo invisibile sopra tutta la creazione”,17 Ratzinger lo segue. Nella logica della Croce, considera la condizione di possibilità della visione di Dio per i “cuori puri” come una discesa diaconale, una presenza pro-esistente, una venuta tra gli uomini per servire. In questo caso il pensiero si fa certamente più concreto, ma il nocciolo è in definitiva lo stesso. *
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Sarebbe sicuramente esagerato di voler uguagliare in tutto e per tutto il pensiero di Ratzinger con quello di Ireneo sulla dottrina in questione e su altre analoghe. Ma mi sembra che oltre agli accostamenti già ricordati, un punto di incontro (centrale in entrambi gli autori) sia inconfutabile: l’uomo Gesù può vedere Dio ed essere beato perché il suo Cuore è quello Ireneo di Lione, Contro le Eresie V, 8, 1 (traduzione di Cosentino, ibidem, 325). Ibidem V, 18, 3 (traduzione di Cosentino, ibidem, 360). In Irénée de Lyon, Adversus Haereses, V, 18, 3 (SCh., 153, 244.246), A. Rousseau traduce così: “fichée, enfoncée dans la création entière”. 17 Tremblay, La manifestation, 109. 15
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Saggio Introduttivo
di un Figlio e i credenti potranno godere dello stesso favore divenendo mediante lui e in lui dei figli. L’“Abisso” inaccessibile del Pleroma gnostico non entra qui in considerazione. Da lui emanavano, pensavano gli eretici, degli Eoni che erano in ultima analisi delle degenerazioni che lo isolavano nella sua grandezza impenetrabile e lo rendevano inoperante, mentre il vero Dio, quello dei nostri due teologi, è un Dio tri-personale che, per l’Amore che è (cfr. 1Gv 4,6), apre il suo Cuore alla sua creatura di carne ed ossa e gli dona di partecipare alla sua intimità. *
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Concludendo, vorrei ringraziare gli organizzatori di questo colloquio per avermi fornito l’occasione di rendere omaggio, in questa fase della mia vita di teologo, ai due grandi dottori dell’esistenza cristiana che mi hanno aiutato ad approfondire un tema capitale per la vita morale dei credenti e, come ha mostrato H.U. von Balthasar, per la teologia in generale.18 Dar seguito a questa riflessione sulla visione, è quello che ho tentato di fare, come un direttore d’orchestra che fa emergere, nello svolgimento dello spartito che segue l’ouverture, le linee melodiche che si trovano abbozzate o suggerite. Spero di avervi contribuito.19
Cfr. H.U. von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik. Bd. II: Fächer der Stile. Teil 1: Klerikale Stile, Johannes Verlag, Einsiedeln 1969, 29-94. 19 Per una visione di insieme, cfr. R. Tremblay, Fonder la vie morale des croyants dans le Fils. Quelques éléments d’histoire et vue d’ensemble, in J. Mimeault–S. Zamboni–A. Chendi (a cura di), Nella luce del Figlio. Scritti in onore di Réal Tremblay nel suo 70 o genetliaco, EDB, Bologna 2011, 35-41. 18
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Parte I Approccio sistematico
Daniélou e Ratzinger di fronte al mistero della storia
I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort) Manuel Arostegi Esnaola (Universidad Eclesiástica San Dámaso, Madrid)
Il tema che mi è stato chiesto di affrontare è: “I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)”. Al riguardo, Ratzinger tenne una conferenza dal titolo “Die Bedeutung der Väter für die gegenwärtige Theologie” (“Il significato dei Padri per la teologia attuale”), in due occasioni. La prima, all’interno del IX convegno dell’Internationales Forschungszentrum für Grundfragen der Wissenschaften (Centro internazionale di ricerca per le questioni fondamentali della scienza) di Salisburgo, dal 25 al 29 settembre 1967. Il titolo delle giornate era “Geschichtlichkeit der Theologie” (“Storicità della teologia”). I relatori, oltre a Ratzinger, furono Karl Rahner, Norbert Brox, Thomas Michels, Gustave Thils e Wilhelm Dantine. Gli atti delle conferenze erano pubblicati nel 1970 da padre Thomas Michels. Sono molto interessanti, dal momento che raccolgono, oltre ai testi delle relazioni, anche il contenuto delle discussioni tra i partecipanti. Ratzinger presentò di nuovo il suo contributo presso la Facoltà di teologia cattolica di Tubinga il 9 novembre 1967, all’interno del ciclo di conferenze “Theologie und Theologien” (“Teologia e Teologie”). Hans Küng racconta che, dopo l’intervento, Ernst Käsemann gli disse: “Adesso so di certo perché non potrei mai essere cattolico”.1 La rivista Theologische Quartalschrift di Tubinga ne pubblicò il testo nel 1968. Nel 1982 il testo apparve in un volume intitolato Theologische Prinzipienlehre, che vuol dire Teoria dei principi teologici, in cui furono raccolti vari lavori di Ratzinger riguardanti diverse questioni di teologia fondamentale. In occasione dell’edizione del 1982, Ratzinger modificò leggermente il titolo dell’articolo: da “Die Bedeutung der Väter fur die gegenwärtige 1
H. Küng, Umstrittene Wahrheit. Erinnerungen, Piper, München 2007, 227: “Jetzt weiß ich wieder, warum ich nicht katholisch sein kann“.
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I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)
Theologie” (“Il significato dei Padri per la teologia attuale”) passò a “Die Bedeutung der Väter im Aufbau des Glaubens”, vale a dire “Il significato dei Padri nella strutturazione della fede”. Credo, come mostrerò più avanti, che la modifica del titolo sia adeguata.
L’aporia del tema Nella relazione mi concentrerò su quest’ultimo articolo. Ratzinger inizia con il constatare che, nel momento storico in cui scrive, i Padri sembrano superati,2 soprattutto per quanto riguarda l’esegesi: I Padri sono sempre più distanti nel tempo e fondamentalmente rimane un po’ ovunque l’impressione di un’esegesi allegorica che in qualche modo lascia l’amaro in bocca e allo stesso tempo suscita un sentimento di superiorità, che presenta l’allontanamento tra il passato e il presente come un progresso e, per questo, sembra promettere un domani migliore.3
Prosegue mettendo in campo la questione a cui cercherà di rispondere nell’articolo: I padri hanno o non hanno, in definitiva, importanza per la teologia attuale? La devono avere per forza? Non è forse meglio, per amore della stessa 2
3
Cfr. J.A. Alcáin, La tradición, Universidad de Deusto, Bilbao 1998 2 2010, 515; I.V. Leb, Kardinal Ratzinger und die Theologie der Kirchenväter, in K. Nikolakopoulos (ed.), Benedikt XVI. und die Orthodoxe Kirche. Bestandsaufnahmen, Erwartungen, Perspektiven, EOS, St. Ottilien 2008, 42-60, qui 49s; e C. Mayer, Augustinus im Denken von Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. (*1927), in N. Fischer (ed.), Augustinus. Spuren und Spiegelungen seines Denkens, Bd. 2, Von Descartes bis in die Gegenwart, Meiner, Hamburg 2009, 309-20, qui 314. J. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie, Wewel, Donauwörth 1982, 2 2005, 140: “Die Väter sind weit in die Vergangeheit entrückt, ein unbestimmter Eindruck von allegorischer Exegese bleibt zurück und hinterläßt einen schlechten Geschmack, zugleich freilich ein Gefühl der Überlegenheit, das die Entfernung vom Einst zum Heute als Fortschritt ausweist und damit ein noch besseres Morgen zu verheißen scheint”. Cfr. Blanco, Joseph Ratzinger: razón y cristianismo. La victoria de la inteligencia en el mundo de las religiones, Rialp, Madrid 2005, 191.
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teologia, rinchiuderli nella dimensione puramente storica, nella semplice indagine sul passato, che, al massimo, oggi ci può venire in aiuto solo mediatamente? Analizzando i fatti con più attenzione, si avverte subito che tutto ciò è lungi dall’essere una semplice domanda retorica. Si trova qui, al contrario, un problema molto complicato, nel quale si concretizza e sintetizza tutto il dilemma della teologia.4
a.
Dei Verbum 12
A queste domande, Ratzinger dice che hanno già risposto gli ultimi tre concili ecumenici. Nel decreto dell’8 aprile 1546 sui libri sacri e le tradizioni da accogliere, il Concilio di Trento dice che: Nelle affermazioni sulla fede e l’ordine ecclesiale va considerato senso autentico della Scrittura quello che “la santa madre Chiesa – cui spetta di giudicare del senso e interpretazione delle sacre Scritture – ritenne e ritiene”. Pertanto “nessuno osi interpretare” la Scrittura in contrasto con questo significato e con “il consenso unanime dei Padri (DS 1507)”.5
Il Concilio Vaticano I conferma questa dottrina in Dei Filius 2: Poiché quelle cose che il santo Concilio Tridentino decretò per porre conveniente freno alle menti presuntuose sono state interpretate in modo 4
5
Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 140: “Gibt es also eine Bedeutung der Väter für die heutige Theologie oder gibt es sie nicht? Soll es sie überhaupt geben oder muß man die Väter, um der Sache der Theologie willen, ins rein Historische verweisen, in die bloße Erforschung des Gewesenen, die das Heute, wenn überhaupt, dann nur höchst mittelbar betrifft? Sieht man ein wenig näher zu, so wird man bald gewahren, daß dies beileibe keine bloß rhetorische Frage, sondern vielmehr, ein höchst komplexes Problem ist, in dem sich das ganze Dilemme der Theologie [. . .] findet”. Ibidem, 141: “daß in Sachen des Glaubens und der kirchlichen Ordnung jener Sinn als wahrer Schritsinn festzuhalten sei, ‚den die Heilige Mutter Kirche, der es zukommt, über die wahre Meinung und die rechte Erklärung der Heiligen Schriften zu entscheiden, festgehalten hat und festhält. Niemandem ist es daher verstattet, gegen diesen Sinn oder auch gegen die einmütige Auffassung der Väter die Heilige Schrift auszulegen‘”.
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I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)
malvagio da taluni, Noi rinnoviamo il medesimo decreto e dichiariamo che questo è il suo significato: nelle cose della fede e dei costumi appartenenti alla edificazione della dottrina Cristiana deve essere tenuto per vero quel senso della sacra Scrittura che ha sempre tenuto e tiene la Santa Madre Chiesa, alla cui autorità spetta giudicare del vero pensiero e della vera interpretazione delle sante Scritture; perciò a nessuno deve essere lecito interpretare tale Scrittura contro questo intendimento o anche contro l’unanime giudizio dei Padri (DS 3007).
Che atteggiamento adottò il Concilio Vaticano II? In Dei Verbum 12 viene approvata “la ricerca dei generi storici e, pertanto, l’applicazione, in principio, del metodo storico-critico per l’interpretazione della Bibbia”.6 Il punto prosegue affermando: Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede.
Nella stessa linea, Dei Verbum 23 afferma che la Chiesa, per acquisire una comprensione più profonda della Sacra Scrittura, “incoraggia convenientemente anche lo studio dei Padri ella Chiesa, sia dell’Oriente sia dell’Occidente, e delle sacre liturgie”.7 Il Concilio Vaticano II, dunque, ha detto “sì” all’esegesi storico-critica e ha detto “sì” anche all’esegesi patristica. Non ha spiegato, però, come articolarle e, al riguardo, Ratzinger commenta: Ma in questo modo il problema è stato risolto davvero? Piuttosto si potrebbe affermare il contrario: è stato messo a nudo completamente [. . .]. Questa doppia accettazione racchiude l’antagonismo di due atteggiamenti
6
7
Ibidem, 141: “nach Ihrem Ja zur gattungsgeschichtlichen Forschung und so prinzipiell zur Anwendung der historisch-kritischen Methode auf die Erklärung der Bibel. . .”. Cfr. ibidem, 141.
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basilari che vanno in direzioni totalmente opposte, sia per quanto riguarda l’origine sia la meta finale.8
Nel 1992 Norbert Lohfink pubblicò in Trierer theologische Zeitschrift un articolo dal titolo molto espressivo: “Der weiße Fleck in Dei Verbum, Artikel 12” (“Il punto oscuro nell’Articolo 12 della Dei Verbum”). L’esegeta cattolico si trova davanti a un dilemma. Se interpreta un testo a partire dai Padri, cosa che, in teoria, dovrebbe fare, è sicuro che i risultati ottenuti non saranno presi seriamente in considerazione né dai filologi né dagli storici. L’esegesi patristica è dogmatica: nell’interpretazione delle Scritture, parte dalla regola della fede, vale a dire, dal dogma. Tuttavia, Ratzinger dice: L’interpretazione dogmatica, l’interpretazione di un testo a partire da quel dogma, per lo storico è esattamente l’opposto di un’interpretazione storica, che non ammette altra legge al di fuori di quella che viene fuori dal testo stesso.9
In realtà, dice Ratzinger, a emergere è il dilemma davanti al quale oggi si trova la teologia: se ha intenzione di entrare in dialogo con la scienza, deve mettere da parte il dogma, ma se mette da parte il dogma, smette di essere teologia. “Il problema del ruolo attuale dei Padri ci si presenta con urgenza davanti al calvario che la teologia attuale sta percorrendo, a causa della tensione tra due mondi: il mondo della fede e quello della
8
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Ibidem, 141: “Aber ist damit das Problem etwa erledigt? Eher könnte man das Gegenteil behaupten: Es ist so erst in seiner vollen Schärfe gestellt [. . .] In diesem doppelten Ja verbirgt sich der Antagonismus zweier Grundeinstellungen, die in ihrem Ursprung wie in ihrer Zielrichtung einander durchaus gegenläufig sind”. Cfr. I. Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen? Die Aktualität der Vätertheologie aus der Sicht Joseph Ratzingers. Ein orthodoxer Standpunkt, in M.C. Hastetter, H. Hoping (ed.), Ein hörendes Herz. Hinführung zur Theologie und Spiritualität von Joseph Ratzinger/Papst Benedikt. XVI , Pustet, Regensburg 2012, 149-60, qui 154. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 142: “Dogmatische Auslegung, Auslegung eines Textes von einem Dogma her, ist für ihn das gerade Gegenteil zu historischer Auslegung, die kein anderes Gesetz als eben das vorliegenden Textes kennen will”.
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scienza”.10 Fondamentalmente, dice Ratzinger, si tratta della perenne questione della relazione tra auctoritas e ratio.11 b.
Geiselmann
Ratzinger prosegue enumerando alcuni tentativi di risolvere la difficoltà.12 Inizia facendo riferimento a Josef Rupert Geiselmann, secondo il quale, come è noto, la tradizione non implica un plus materiale rispetto alla Scrittura. La tradizione fa sempre riferimento alla Bibbia: nel III secolo la tradizione era il modo in cui la Chiesa dell’epoca interpretava la Scrittura; nel XX secolo, la tradizione è il modo in cui la Chiesa contemporanea si appropria della Bibbia. La Scrittura è presente pienamente in tutti i tempi attraverso le diverse modalità adottate dalla tradizione. Per questo, è un riduzionismo identificare la tradizione con i Padri della Chiesa. Quella del XX secolo è tradizione tanto quanto quella del III secolo. Voler identificare la tradizione con i Padri, dice Geiselmann, ha tutta l’aria di essere un classicismo13 secondo cui esiste un periodo primordiale che svolge il ruolo di canone per tutte le epoche posteriori. Secondo tale classicismo teologico, la creatività si troverebbe ridotta ai primi tre, quattro o cinque secoli e da lì in poi si tratterebbe soltanto di conservare quanto prodotto ai primordi.14 A Geiselmann tale concezione risulta pericolosa, perché rischia di imbalsamare la tradizione viva e farla diventare una mummia.15 Ibidem, 143: “Die Frage nach der Aktualität der Väter hat uns damit vor die Zerreißprobe der heutigen Theologie überhaupt gestellt, die ihr von ihrem Ausgespanntsein zwischen zwei Welten – Glaube und Wissenschaft – auferlegt wird”. 11 Cfr. Blanco, Joseph Ratzinger, 191. 12 Cfr. Alcáin, La tradición, 516 e Leb, Kardinal Ratzinger, 52. 13 Cfr. J.R. Geiselmann, Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und der nicht geschriebenen Traditionen, in M. Schmaus (ed.), Die mündliche Überlieferung. Beiträge zum Begriff der Tradition, Hueber, München, 1957, 123-206, qui 184-7. 14 Cfr. Geiselmann, Das Konzil von Trient, 188-9, con riferimento a Baader. 15 Cfr. ibidem, 186. 10
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Ratzinger non è d’accordo con Geiselmann, perché, se fosse vero ciò che afferma, l’argomento patristico non sarebbe esistito prima del classicismo. La verità è molto diversa:16 esso venne usato da Cirillo di Alessandria contro Nestorio e da Agostino contro Giuliano di Eclano. Tutta la teologia scolastica si articola intorno all’argomento patristico. È vero che fu fatto passare sotto silenzio dal razionalismo illuminista, ma Möhler e Drey lo recuperarono, dando nuova linfa alla teologia.17 Ci sarebbe da aggiungere che Geiselmann, che curò l’edizione critica di Möhler, diceva che quest’ultimo nel suo primo periodo (quando scrisse, cioè, L’unità nella Chiesa) peccava di classicismo.18 c.
Lang
Altro tentativo menzionato da Ratzinger è quello fatto da Albert Lang,19 la cui teoria si sviluppa in relazione ai dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione. Secondo Lang, non è detto che i Padri professassero questi due dogmi. E allora come giustificarli? Secondo Lang, è tradizione tutto ciò che la Chiesa universale ha creduto in un qualsiasi momento della storia: vale a dire, se una verità è stata creduta dalla Chiesa universale in un determinato punto della storia, allora tale verità di fatto è stata rivelata e appartiene, pertanto, alla tradizione.20 Così, perché si possano proclamare i dogmi mariani citati, non è necessario ritrovarli nei Padri; basta che siano stati creduti dalla Chiesa universale in una qualsiasi epoca. Per una diversa via, si arriva alla stessa conclusione di Geiselmann: quella del XX secolo è tradizione tanto quanto quella del II e III secolo. Ratzinger dice che “con questa Cfr. P. Stockmeier, Die alte Kirche. Leitbild der Erneuerung, «Theologische Quartalschrift» 146 (1966) 385-408, qui 387. Ratzinger conosce l’articolo di Stockmeier: cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 144. 17 Cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 144-5. 18 Cfr. Geiselmann, Das Konzil von Trient, 194. 19 Cfr. Leb, Kardinal Ratzinger, 52-3. 20 Cfr. A. Lang, Teología fundamental, tomo II, La misión de la Iglesia, Rialp, Madrid 1967 3 1977, 314. 16
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destoricizzazione del concetto di tradizione si dava manforte a una minimizzazione, non esplicita, ma tacita, dell’importanza dei Padri”.21 Le idee di questi autori hanno avuto larga diffusione e hanno messo la patristica in una situazione difficile. Prima era stata emarginata dall’esegesi, che l’aveva messa da parte perché dogmatica. Ora, paradossalmente, veniva relativizzata dalla stessa teologia dogmatica, per la quale i Padri “sembravano finire con l’essere ridotti allo stesso livello del resto della storia della teologia, in modo tale che all’interno di questa storia non conservavano nessuna posizione particolare”.22
Tentativo di risposta a.
Chi è Padre della Chiesa? Critica di Benoit alla definizione tradizionale
Andando avanti, Ratzinger propone la sua tesi. Per prima cosa, mette in campo una domanda previa, la cui risposta è lungi dall’essere acclarata: chi è Padre della Chiesa? Qui Ratzinger è in dialogo con André Benoit, patrologo della Facoltà di teologia evangelica di Strasburgo, che pubblicò nel 1961 una monografia intitolata L’actualité des Pères de l’Église. Il secondo capitolo si intitola “Les Pères de l’Église: essai de définition”,23 in cui Benoit sottopone a esame critico tre definizioni di Padri. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 145: “Mit dieser Enthistorisierung des Traditionsbegriffs war eine Minimalisierung der Bedeutung der Väter, obzwar nicht ausgesprochen, so doch mitgegeben”. Cfr. Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 154. 22 Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 145: “Zumindest scheinen sie damit auf ein und dieselbe Ebene mit der gesamten übrigen Geschichte der Theologie verwiesen”. Cfr. G. Feige, Die Väter der Kirche – ökumenisch bedeutsam?, in A. Briskina-Müller, A. Drost-Abgarjan, A. Meissner (ed.), Logos im Dialogos. Auf der Suche nach der Orthodoxie. Gedenkschrift für Hermann Goltz (1946-2010), LIT, Berlin 2011, 407-15, qui 410. 23 Cfr. A. Benoit, L’actualité des Pères de l’Eglise, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1961, 31-52. 21
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La prima è quella del cattolicesimo romano. La Chiesa cattolica fa da sempre riferimento a Vincenzo di Lerins, che in Commonitorium 28 afferma che, qualora dovesse sorgere una nuova eresia, bisogna ricorrere agli scritti dei Padri, e precisa: Quanto ai Padri, però, bisogna consultare soltanto il pensiero di coloro che santamente, saggiamente e costantemente, vissero, insegnarono, rimasero stabili nella fede e nella comunione cattolica, e morirono fedeli a Cristo o meritarono la gioia di dare la vita per lui. Ma a costoro si deve prestare fede seguendo questa regola: ciò che tutti, o almeno la maggioranza, hanno affermato chiaramente, nello stesso senso, frequentemente e costantemente, a guisa di concilio di maestri perfettamente unanimi, e che hanno confermato col riceverlo, conservarlo e tramandarlo, ciò deve essere ritenuto per indubitabile, certo e vero. Al contrario, tutto quello che al di fuori della dottrina comune, o addirittura contro di essa, avrà penato uno solo, fosse pure un santo e un dotto, un vescovo, un confessore, un martire, deve essere relegato tra le opinioni personali, non ufficiali, private, che non hanno l’autorità dell’opinione comune, pubblica e generale, affinché non ci accada, con sommo pericolo della nostra salvezza eterna, di abbandonare l’antica verità della dottrina cattolica per seguire l’errore novello di un solo individuo.24
Al punto 2 aveva detto: 24
Vincenzo di Lerins, Commonitorium XXVIII 6-8, ed. R. Demeulenaere (Cchr.SL 64 147-95; Turnhout 1985) 187: “Sed eorum dumtaxat patrum sententiae conferendae sunt, qui in fide et communione catholica sancte sapienter constanter uiuentes docentes et permanentes, uel mori in Christo fideliter uel occidi pro Christo feliciter meruerunt. Quibus tamen hac lege credendum est, ut, quidquid uel omnes uel plures uno eodemque sensu manifeste frequenter perseueranter, uelut quodam consentiente sibi magistrorum concilio, accipiendo tenendo tradendo firmauerint, id pro indubitato certo ratoque habeatur. Quidquid uero, quamuis ille sanctus et doctus, quamuis episcopus, quamuis confessor et martyr, praeter omnes aut etiam contra omnes senserit, id inter proprias et occultas et priuatas opiniunculas a communis et publicae ac generalis sententiae auctoritate secretum sit, ne cum summo aeternae salutis periculo, iuxta sacrilegam haereticorum et scismaticorum consuetudinem, universalis dogmatis antiqua veritate dimissa unius hominis nouitium sectemur errorem”.
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Nella stessa Chiesa Cattolica bisogna avere la più grande cura nel ritenere ciò che è stato creduto dappertutto, sempre e da tutti.25
Émile Amann, anche lui professore di teologia a Strasburgo, ma presso la Facoltà cattolica, nel 1933 redasse la voce “Pères de l’Église” per il Dictionnaire de théologie catholique. Sistematizzò i testi di Vincenzo e disse che un Padre della Chiesa si distingue per quattro aspetti: ortodossia della dottrina, santità di vita, approvazione della Chiesa e antichità.26 Tale definizione non convince Benoit. L’aspetto dell’ortodossia è anacronistico: seguendo tale principio, si giudica un autore in base a criteri che nella sua epoca non esistevano. Benoit fa l’esempio di Origene: nella sua epoca nessuno mise in dubbio la sua ortodossia e, per di più, l’alessandrino allora era uno dei principali rappresentanti dell’ortodossia imperante. Per contro, Giustiniano nel 543 e il quinto concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 lo anatemizzarono. Ha, dunque, senso giudicare un autore del III secolo in base a criteri di ortodossia definiti trecento anni dopo? Simile è il caso del terzo aspetto: l’approvazione della Chiesa. Ci troviamo di nuovo di fronte a un elemento anacronistico, dal momento che l’approvazione ecclesiastica dipende da criteri estranei all’epoca del Padre, ma che vigono nella Chiesa nel momento in cui si formula il giudizio favorevole o contrario.27 La seconda definizione di Padre della Chiesa è quella di Franz Overbeck (*1837; †1905). Costui nel 1882 scrisse un articolo intitolato “Über die Anfänge der patristischen Literatur”, ovvero “Sugli inizi della letteratura patristica”, dove propone la seguente definizione di patristica: “la patristica è lo studio della letteratura greco-romana di confessione e d’interesse cristiani”.28 L’accento viene marcato sulla parola “letteIbidem, II 5, 149: “In ipsa item catholica ecclesia magnopere curandum est, ut id teneamus quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est”. 26 Cfr. É. Amann, Pères de l’Église, in A. Vacant, E. Mangenot, É. Amann (ed.), Dictionnaire de théologie catholique, XII, Letouzey et Ané, Paris, 1933, 1196-7. 27 Cfr. Benoit, L’actualité, 33-36. 28 Ibidem, 37. Cfr. F. Overbeck, Über die Anfänge der patristischen Literatur, «Historische Zeitschrift» 48 (1882) 417-72, qui 444. 25
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ratura”. Non tutti i testi cristiani antichi possono essere considerati letteratura e, per rientrare nel novero, un testo deve soddisfare gli standard letterari greco-romani. Dal momento che non rientrano in tali canoni, il Nuovo Testamento e i Padri apostolici non sono letteratura greco-romana e, pertanto, nemmeno patristica. Gli apologisti per poco non lo sono. Il primo autore a rientrare pienamente nella definizione è Clemente Alessandrino, che, di conseguenza, è il primo Padre della Chiesa.29 Benoit non si ritiene soddisfatto della proposta di Overbeck: per sapere se un autore è o non è Padre della Chiesa, si segue un criterio, quello dei canoni letterari greco-romani, completamente estraneo all’essenza del cristianesimo. Inoltre, viene lasciata fuori una moltitudine di autori cristiani antichi semplicemente perché avevano utilizzato una lingua diversa dal greco o dal latino;30 si pensi, ad esempio, alla ricchissima tradizione siriana. La terza definizione citata da Benoit è quella di André Mandouze, che nel 1959 presentò una comunicazione al terzo Congresso internazionale di studi patristici di Oxford. Secondo la sua proposta, “i Padri sono dunque gli autori dei primi secoli cristiani universalmente invocati come testimoni diretti o indiretti della dottrina cristiana o della vita della Chiesa in un’epoca determinata”.31 Tale definizione ha il vantaggio di non ricorrere a criteri estrinseci, come quello di una ortodossia definita secoli dopo, o quello dei canoni letterari del mondo pagano. Per Benoit, però, nella definizione vi è un elemento che risulta essere problematico e cioè l’espressione “universalmente invocati”. I Padri sarebbero quegli autori cristiani che, con il passar del tempo, furono riconosciuti dalla Chiesa universale come testimoni della sua dottrina e della sua vita. Si troverebbero inclusi, così, autori come Origene e Tertulliano, dal momento che la Chiesa universale usa i loro testi all’interno del suo Cfr. Benoit, L’actualité, 37. Cfr. ibidem, 38. 31 Ibidem, 39: “Les Pères sont donc les auteurs des premiers siècles chrétiens universellement invoqués comme témoins directs ou indirects de la doctrine chrétienne ou de la vie de l’Église à cette époque”.
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magistero e della liturgia. Eppure, in sostanza, il problema continua ad esserci: per determinare se un autore è o non è Padre, si segue un criterio a posteriori ed estrinseco all’autore, e cioè quello del suo futuro riconoscimento da parte della Chiesa universale.32 Successivamente, Benoit propone la sua definizione. Parte da un principio fondamentale: il centro della fede cristiana è confessare che Gesù Cristo è nostro Signore. Gli apostoli ebbero una conoscenza diretta di Gesù. Dopo la sua morte, bisognava rivolgersi ai discepoli degli apostoli e ai discepoli dei discepoli. Man mano si formò così la tradizione della Chiesa. Con il passare del tempo, la tradizione cresce, ma allo stesso tempo si va allontanando dall’origine e corre il rischio di deformarsi. Per far fronte a tale rischio, intorno all’anno 150, la Chiesa riconosce autorità a una serie di scritti, cioè, ritiene che in essi sia espressa la tradizione autentica, che ci collega agli apostoli e, attraverso di loro, al Signore. Nasce, così, il Nuovo Testamento e tale insieme di scritti sarà considerato la norma suprema della dottrina e della vita della Chiesa. Da questo momento, gli scritti del Nuovo Testamento saranno oggetto di interpretazione, di esegesi. A chi realizza tale interpretazione viene dato il nome di Padre della Chiesa. Ciò significa che sono Padri della Chiesa gli esegeti del Nuovo Testamento. Rispetto alla definizione di Vincenzo di Lerins, Benoit ritiene che la sua ha il vantaggio di non fare distinzione tra ortodossi ed eterodossi: permette l’inclusione di Tertulliano, Origene e Nestorio, dal momento che tutti loro sono stati interpreti del Nuovo Testamento. Rispetto alla definizione di Overbeck, ha il vantaggio di non discriminare nessun’area geografica: sono Padri della Chiesa tutti gli esegeti del Nuovo Testamento, anche se non hanno scritto né in latino né in greco. Benoit riconosce che la sua definizione presenta una difficoltà: ovvero la delimitazione del periodo patristico, sia per quanto riguarda l’inizio che la fine. Per quanto riguarda l’inizio, se applichiamo rigorosamente il criterio di Benoit, non possono esserci Padri finché non viene fissato il canone del Nuovo Testamento, cioè, fino all’anno 150. I Padri 32
Cfr. ibidem, 41-3.
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apostolici e gli apologisti non sarebbero, dunque, Padri della Chiesa. Il primo sarebbe sant’Ireneo, anche se Benoit dice che non bisogna essere eccessivamente rigidi su tale punto. Prima dell’anno 150 la Chiesa non aveva il Nuovo Testamento, ma si affidava all’Antico Testamento. Si potrebbero considerare Padri gli autori di quella epoca che operavano un’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento. In tal modo, si troverebbero inclusi i Padri apostolici e gli apologeti. La delimitazione risulta problematica anche per quanto riguarda la fine del periodo patristico. Se accettassimo la definizione tout court, sarebbero Padri della Chiesa tutti gli interpreti cristiani della Scrittura fino ai nostri giorni. Fondamentalmente staremmo dicendo la stessa cosa di Geiselmann. Secondo Benoit, bisogna fissare un limite, e crede che sia opportuno fissarlo al 1054 d.C., anno dello scisma d’Oriente. I Padri sarebbero, così, gli esegeti del cristianesimo indiviso.33 b.
Opinione di Ratzinger
Che giudizio merita la definizione di Benoit? A mio avviso, gli si possono muovere alcune obiezioni (questo lo dico io, non Ratzinger). In primo luogo, non credo che il discernimento del canone del Nuovo Testamento sia stato fatto entro il 150; su questo ritorneremo più avanti. In secondo luogo, personalmente non condivido la tesi di fondo che propone Walter Bauer nel suo celebre Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum. Tuttavia credo che su un punto abbia ragione: il cristianesimo indiviso non è mai esistito. Benoit afferma che il primo Padre della Chiesa in senso stretto, ovvero il primo esegeta del Nuovo Testamento, è sant’Ireneo di Lione. Ebbene, se qualcuno crede che al tempo di Ireneo il cristianesimo non fosse diviso, legga il primo e il secondo libro dell’Adversus haereses. D’altra parte, credo che la definizione di Benoit abbia il grande merito di collegare Padri e Scrittura. Di questo punto (decisivo, a mio avviso) parleremo ancora.
33
Cfr. ibidem, 44-52.
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I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)
Ritorniamo all’articolo di Ratzinger. Vediamo che dice Ratzinger riguardo alla proposta di Benoit. Si trova d’accordo con il giudizio che emette il patrologo di Strasburgo su Overbeck e Mandouze.34 Ratzinger è d’accordo anche con Benoit nel rifiutare la definizione di Vincenzo di Lerins,35 per il quale Ratzinger non ha mai provato troppa simpatia. Il 15 dicembre 1965 tenne una conferenza a Düsseldorf dal titolo “Das Problem der Dogmengeschichte in der Sicht der katholischen Theologie” (“Il problema della storia dei dogmi dal punto di vista della teologia cattolica”). In quella sede Ratzinger disse che Vincenzo di Lerins era un semipelagiano che aveva formulato un concetto astorico di tradizione con un solo scopo: evitare che sant’Agostino (la cui dottrina della grazia gli sembrava molto pericolosa) fosse considerato Padre della Chiesa.36 Nel 1967 Ratzinger scrisse un commentario parziale sulla Dei Verbum per il Lexikon für Theologie und Kirche. Quando commenta il punto 8 (“De sacra traditione”) ricorda che tanto il Concilio di Trento quanto il Vaticano I avevano citato il testo del Commonitorium.37 Il Vaticano II, invece, aveva intenzionalmente evitato tale citazione, dal momento che le ricerche storiche avevano dimostrato che, in realtà, Vincenzo di Lerins era un semipelagiano che rifiutava Agostino con la sua dottrina della grazia, considerandola contraria alla tradizione.38
Cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 150. Per questo mi lasciano perplesso le parole di H. Häring, DOMINUS IESUS. Katholisch – mit Angst vor der Vielfalt?, in M.J. Rainer (ed.), “Dominus Iesus“. Antstößige Wahrheit oder anstößige Kirche? Dokumente, Hintergründe, Standpunkte und Folgerungen, LIT, Münster – Hamburg – London 2001, 144-65, quì 147 n 15; Idem, Theologie und Ideologie bei Joseph Ratzinger, Patmos, Düsseldorf 2001, 53. Per lo stesso motivo, non condivido neanche l’opinione di A. Nichols, The Theology of Joseph Ratzinger. An introductory Study, T. & T. Clark, Edinburgh 1988, 234 n 27 e Blanco, Joseph Ratzinger, 192 n 71. Molto apprezzabile, d’altro canto, Leb, Kardinal Ratzinger, 55s. 36 Cfr. J. Ratzinger, Das Problem der Dogmengeschichte in der Sicht der katholischen Theologie, Westdeutscher Verlag, Köln und Opladen 1966, 9. 37 Cfr. Idem, Gesammelte Schriften, Bd. 7/1 e 2, Zur Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils. Formulierung-Vermittlung-Deutung, Herder, Freiburg im Breisgau-BaselWien 2012, 759. 38 Cfr. Idem, Zur Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, 760. 34
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Nell’articolo che stiamo prendendo in esame, Ratzinger considera che dei quattro aspetti di Vincenzo di Lerins-Amann, i più discutibili sono quello di “ortodossia” e di “antichità”.39 Sul criterio di “ortodossia”, oltre ad affermare che è discutibile, non si pronuncia. Tuttavia, nella discussione che seguì la sua relazione a Strasburgo nel 1968, Erika Weizierl gli chiese di spiegare più approfonditamente la sua posizione. Ratzinger le rispose che in sostanza si trovava d’accordo con Benoit e citò l’esempio di Origene.40 Sulla critica all’aspetto di “antichità” si sofferma più a lungo. Nel mondo pagano il criterio di antichità era fondamentale. Al principio, si verificò un contatto immediato con il divino ed è per questo che è all’origine che si trova quanto di più puro e vero ci sia. Da quel momento in poi, la storia non è che una progressiva decadenza, un inesorabile allontanamento dalla purezza primordiale. Ratzinger esprime così tale concezione pagana: Prevale qui un concetto naturale di antico secondo cui ciò che viene prima è, in quanto tale, di livello più elevato, più vicino al divino; di conseguenza, nella misura in cui il tempo va avanti, le generazioni successive si distanziano sempre di più dall’origine, cosicché proprio per questo tali generazioni hanno più bisogno di preservare l’origine, che trasmettono alla loro epoca tarda il messaggio della verità ormai distante.41
Esponente di tale mentalità sarebbe Platone, che in Filebo 16 c afferma che gli antichi “erano migliori di noi e abitavano più vicino agli dei”. Cfr. Alcáin, La tradición, 517-8; Leb, Kardinal Ratzinger, 56s; Kohlgraf, Glaube im Gespräch. Die Suche nach Identität und Relevanz in der alexandrinischen Vätertheologie – ein Modell für praktisch-theologisches Bemühen heute?, LIT, Berlin-Münster 2011, 18; e Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 155. 40 Cfr. Th. Michels (ed.), Geschichtlichkeit der Theologie, Pustet, Salzburg-München 1970, 88-9; e A. Merkt, Das patristische Prinzip. Eine Studie zur theologischen Bedeutung der Kirchenväter, Brill, Leiden-Boston-Köln 2001, 253. 41 Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 150-1: “Hier waltet ein naturaler Begriff der Alten, für den das Frühe als solches vorrangig, dem Göttlichen näher ist und die voranschreitende Zeit die Spätgeborenen nur immer weiter vom Ursprung entfernt, so daß sie um so mehr genötigt sind, das Anfängliche zu hüten, das ihrer späten Stunde Botschaft von der ferngewordenen Wahrheit vermittelt”. 39
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I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)
Fino a che punto è questa la concezione cristiana? Ratzinger ora cita l’interpretazione medievale di un passaggio del capitolo 3 della Regola di San Benedetto.42 Si tratta di una questione con cui il teologo tedesco ha avuto molto a che fare.43 Che io sappia, se ne è occupato nella tesi di abilitazione44 e anche in un articolo pubblicato nel 1958 in Trierer theologische Zeitschrift intitolato “Offenbarung-Schrift-Überlieferung” (Rivelazione-Scrittura-Tradizione),45 in cui studiava la teoria medievale dell’evoluzione dei dogmi. Il capitolo 3 della Regola inizia così: Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.
In altre parole, secondo san Benedetto, al momento di prendere decisioni di una certa importanza, bisogna convocare tutta la comunità, inclusi i bambini, “perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore”. Il classico esempio è, ovviamente, il profeta Daniele, che, da bambino, ricevette la rivelazione che salvò Susanna dalla morte (cfr. Dn 13,45). Vediamo che conclusioni tiravano gli uomini del Medioevo da questo testo della Regola. Pietro Abelardo (*1079; †1142), in un sermone, si interroga circa l’assunzione corporea della Vergine Maria in cielo e dice: Sappiamo molto bene che san Girolamo [. . .] nutriva dei dubbi [. . .] riguardo a questa resurrezione [. . .]. Ma, posto che [. . .] san Benedetto dice che la Cfr. ibidem, 151. Per questo non mi risulta facile comprendere le affermazioni di Häring, Theologie und Ideologie, 53. 44 Cfr. J. Ratzinger, Gesammelte Schriften, Bd. 2, Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie Bonaventuras. Habilitationsschrift und Bonaventura-Studien, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 2009, 188s. 45 Ibidem, 693-711. 42 43
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regola che Dio rivela spesso al più giovane ciò che non rivela al più vecchio, può darsi che ciò che ai tempi di Girolamo era sommerso dall’incertezza si sarebbe manifestato successivamente attraverso la rivelazione dello Spirito Santo.46
Guido di Orchellis (†1225) richiama l’attenzione sul fatto che Alessandro di Hales avesse risolto questioni riguardanti il sacramento del battesimo su cui sant’Agostino era in dubbio. Guido si domanda: “Come ci si può pronunciare al riguardo, se lo stesso Agostino nutriva dei dubbi?” Nel rispondere, Guido fa appello al testo di san Benedetto: “In certe occasioni viene rivelato al più giovane qualcosa che non è stato manifestato alla persona più adulta. Così, venne rivelato ad Alessandro ciò che ad Agostino risultava oscuro”.47 Queste affermazioni medievali esprimono, secondo Ratzinger, un importante convincimento cristiano: non sempre è vero che ciò che è più antico, per il solo fatto di esserlo, sia anche più autentico. Se i Padri hanno autorità, non è semplicemente perché sono antichi. È vero che noi cristiani crediamo che esiste un avvenimento originale vincolante che serve da norma e metro per tutto ciò che viene dopo, ovvero la rivelazione di Gesù agli apostoli. Tuttavia, se i Padri hanno un’autorità speciale, non si deve al fatto che temporalmente si trovino più vicini agli apostoli di quanto lo possiamo essere noi. Simon Mago ebbe a che fare con gli apostoli più da vicino che non sant’Ireneo e, tuttavia, non è un Padre della Chiesa. Il fatto che alcuni si trovino temporalmente più vicino agli apostoli non significa che lo siano anche interiormente. In una frase a mio avviso illuminante, Ratzinger dice che se la vicinanza temporale dei Padri deve avere significato teologico, questo può solo derivare dal fatto che fanno parte in modo particolare dell’avvenimento originario. Questa è, secondo me, la tesi dell’articolo: i Padri fanno parte dell’avvenimento rivelatore originario. Questo è un punto su cui ritorneremo.
46 47
Ibidem, 192. Ibidem, 193.
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I Padri come risposta (Antwort) alla Parola (Wort)
Così, dunque, fondamentalmente Ratzinger si trova d’accordo con il giudizio di Benoit sulle definizioni di Vincenzo di Lerins, Overbeck e Mandouze. Ma che pensa della definizione di Benoit stesso? Di base è d’accordo, ma critica solo un punto: l’aver fissato il limite al 1054. Secondo Ratzinger, tale data è eccessivamente tarda. Nel 1054 viene sancita de iure una rottura che de facto era già in corso. In tale frattura de facto si possono distinguere tre punti nodali: le invasioni germaniche, l’irruzione dell’Islam e, infine, la propensione del papa per l’Impero carolingio. Pertanto, la frontiera tra l’epoca patristica e quella medievale si dovrebbe situare intorno all’800 d.C. Oltre questo punto, Ratzinger è d’accordo con Benoit sul fatto che i Padri sono i maestri del cristianesimo indiviso48 e su questo già mi sono espresso. Dopo aver preso in considerazione il pensiero di Benoit, segue la parte più personale e, a mio giudizio, più interessante dell’articolo,49 nella quale viene sviluppata l’intuizione appena menzionata secondo la quale i Padri fanno parte dell’avvenimento rivelatore originario. c.
I Padri come risposta (Antwort) alla parola (Wort) In quello che, a mio giudizio, è il paragrafo centrale, Ratzinger dice: La conclusione tratta prima, secondo cui quando si legge la Scrittura la si legge sempre seguendo dei determinati “Padri”, può sfociare in una formula più generale: la Scrittura e i Padri sono un tutt’uno, come la parola e la risposta (Wort e Antwort) Questi due elementi non sono la stessa cosa, non sono allo stesso livello, non possiedono la stessa forza normativa. La parola viene prima ed è seguita dalla risposta, e questa sequenza è irreversibile. Ma, per quanto diverse, comunque non ammettono mescolanze, tantomeno separazioni. Soltanto quando la parola trova risposta
Cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 151-3; Th. Nikolaou, Die Bedeutung der patristischen Tradition für die Theologie heute, «Orthodoxes Forum» 1 (1987) 6-18, qui 11-2; Alcáin, La tradición, 518; Merkt, Das patristische Prinzip, 248, 256; Th. Maassen, Das Ökumeneverständnis Joseph Ratzingers, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2011, 66; e Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 155. 49 Cfr. Merkt, Das patristische Prinzip, 6, 245. 48
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può permanere ed essere efficace. La parola è, per sua natura, una realtà relazionale, presuppone tanto il parlante quanto l’ascoltatore-allocutore. La parola si estingue non soltanto quando nessuno parla, ma anche quando non c’è nessuno che ascolta. [. . .] Così dunque, la parola esiste soltanto insieme alla risposta, attraverso di lei. E ciò vale anche per la parola di Dio, per la Scrittura [. . .] Rimane valido il fatto che non possiamo leggere né ascoltare facendo a meno della risposta che ha ricevuto quella parola e che è essenziale alla sua permanenza”.50
La parola è una realtà relazionale e, come ogni relazione, per esistere esige un termine a quo e un termine ad quem. Il termine a quo della parola di Dio sono gli agiografi e, attraverso di loro, Dio stesso. Il termine ad quem sono i Padri o meglio la Chiesa di cui essi sono testimoni. Senza i Padri, senza la loro Antwort, la Wort smetterebbe di esistere, dal momento che senza termine ad quem non può esserci realtà relazionale. Pertanto, possiamo formulare la seguente definizione: i Padri sono la prima risposta alla parola, in virtù della quale questa parola si trova costituita come tale. In altre parole: senza i Padri della Chiesa non c’è rivelazione, in essa essi hanno un ruolo fondamentale.51 Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 153-4: “Der Tatbestand, auf den wir vorhin stießen, daß man nämlich die Schrift immer auf irgendeine Weise zusammen mit bestimmten ‘Vätern’ lesen wird, läßt sich jetzt auf die allgemeinere Formel bringen, daß Schrift und Väter zusammengehören wie Wort und Antwort. Beides ist nicht dasselbe, nicht gleichen Ranges, nicht gleicher normierender Kraft: Das Wort bleibt das Erste, die Antwort das Zweite – die Reihenfolge ist nicht umkehrbar. Aber beides, so sehr es verschieden ist und keine Vermengung duldet, läßt doch auch keine Trennung zu. Nur weil das Wort Ant-wort gefunden hat, ist es überhaupt als Wort stehengeblieben und wirksam geworden. Wort ist von Wesen her eine Beziehungswirklichkeit – es setzt den Sprechenden ebenso wie den hörend-Empfangenden voraus; es erlischt nicht nur, wenn niemand spricht, sondern auch, wenn niemand hört [. . .] So gibt es das Wort immer nur mit dem Antwort, durch sie hindurch, und das gilt auch vom Wort Gottes, von der Schrift [. . .] [Aber zugleich] gilt daß wir das Wort nicht lesen und hören können an der Antwort vorbei, die es zuerst empfangen hat und die für sein Bestehen mit konstitutiv wurde”. 51 Cfr. Blanco, Joseph Ratzinger, 166, 192; e L. Boeve, «La vraie réception de Vatican II n’a pas encore commencé». Joseph Ratzinger, Révélation et autorité de Vatican II, «Ephemerides Theologicae Lovanienses» 85 (2009) 305-339, qui 321. 50
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Ratzinger arrivò a tale convinzione studiando san Bonaventura. Nella sua abilitazione afferma che, secondo il Serafico, i Padri “sono portatori di una nuova rivelazione spirituale, senza l’accettazione della quale la Scrittura non risulta efficace come rivelazione”.52 Nell’autobiografia, Ratzinger scrive che secondo san Bonaventura e, in generale, i teologi del XIII secolo, Del concetto di rivelazione fa sempre parte il soggetto ricevente: dove nessuno riceve la rivelazione, lì non si può avere nessuna rivelazione, perché lì non è stato svelato niente. L’idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che entri in suo possesso. Tali concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, diventarono inseguito molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, delle sacre Scritture e della Traduzione.53
Nel 1965, insieme a Karl Rahner Ratzinger pubblicò il volume 25 della collana Quaestiones disputatae dal titolo Offenbarung und Überlieferung, vale a dire Rivelazione e tradizione. In tale opera il teologo bavarese afferma quanto segue: Può esserci Scrittura senza rivelazione; la rivelazione diventa realtà soltanto dove c’è fede [. . .] La rivelazione si verifica solo quando, oltre ai suddetti materiali che la testimoniano, opera la sua realtà storica sotto forma di fede. In tal senso, nella rivelazione rientra, in certa misura, anche il soggetto ricevente, senza il quale non vi è rivelazione. Non ci si può mettere la rivelazione in tasca, come fosse un libro. È una realtà viva che chiede o Ratzinger, Offenbarungsverständnis, 539: “Sie sind Träger einer neuen geistlichen Offenbarung, ohne deren Hinzunahme die Schrift gar nicht als Offenbarung wirksam wird”. 53 Idem, Aus meinem Leben. Erinnerungen (1927-1977), DVA, Stuttgart 1998, 83-4: “Zum Begriff ‚Offenbarung‘ [gehört] immer auch das empfangende Subjekt: Wo niemand ‚Offenbarung‘ wahrnimmt, da ist eben keine Offenbarung geschehen, denn da ist nichts offen geworden. Zur Offenbarung gehört vom Begriff selbst her ein Jemand, der ihrer inne wird. Diese bei der Lektüre Bonaventuras gewonnenen Einsichten sind mir später, beim konziliaren Disput über Offenbarung, Schrift, Überlieferung sehr wichtig geworden”. 52
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richiede l’uomo come luogo della sua presenza. Riflettendo di nuovo su ciò che viene prima, possiamo dire: la rivelazione trascende il fatto “Scrittura” in due direzioni: a) verso l’alto, si innalza sempre, in quanto realtà che viene da Dio, verso Dio [termine a quo della parola]; b) in quanto realtà che si rivolge all’uomo stesso nella fede [termine ad quem], ma oltre, come dall’altro lato, del fatto trasmittente della Scrittura.54
Ebbene, questa tesi presenta almeno due difficoltà. La prima è che risulta difficilmente conciliabile con l’affermazione secondo cui la rivelazione termina con la morte dell’ultimo apostolo. La seconda è che, secondo il principio proposto, dovrebbe far parte della rivelazione non solo il modo in cui i Padri accolgono la Scrittura, ma anche quello dei credenti attuali. In ultima istanza, staremmo dicendo lo stesso di Geiselmann: non c’è differenza di rango tra i Padri e i credenti del XX secolo, dal momento che sia gli uni che gli altri sono costitutivi per la rivelazione. Ratzinger è cosciente di entrambe le difficoltà. Vediamo come affronta la prima.
54
K. Rahner, J. Ratzinger, Offenbarung und Überlieferung, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 1965, 35: “Schrift kann gehabt werden, ohne daß Offenbarung gehabt wird. Denn Offenbarung wird immer und nur erst da Wirklichkeit, wo Glaube ist [. . .] Offenbarung ist vielmehr erst da angekommen, wo außer den sie bezeugenden materialen Aussagen auch ihre innere Wirklichkeit selbst in der Weise des Glaubens wirksam geworden ist. Insofern gehört in die Offenbarung bis zu einem gewissen Grad auch das empfangende Subjekt hinein, ohne das sie nicht existiert. Mann kann Offenbarung nicht in die Tasche stecken, wie man ein Buch mit sich tragen kann. Sie ist eine lebendige Wirklichkeit, die den lebendigen Menschen als Ort ihrer Anwesenheit verlangt. Das Bisherige nochmal bedenkend, dürfen wir also sagen: Offenbarung überschreitet das Faktum Schrift in einer doppelten Richtung: a) Nach oben hin reicht sie als Wirklichkeit von Gott her immer ins Tun Gottes hinein. b) Als Wirklichkeit, die sich auf den Menschen hin im Glauben zuträgt, reicht sie gleichsam auch nach der anderen Seite hin über das vermittelnde Faktum der Schrift hinaus”.
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d.
La rivelazione e la morte dell’ultimo apostolo
Dal suo punto di vista, non si può accettare senza batter ciglio la tesi secondo cui la rivelazione è terminata con la morte dell’ultimo apostolo. Nella sua abilitazione, fa presente che su questo punto vi è una differenza tra Bonaventura e noi: [In Bonaventura] già si verifica un ampliamento dell’età della rivelazione, che va più in là del tempo per noi abituale, che ordinariamente vede fissato il limite della rivelazione nella morte dell’ultimo apostolo.55
In Rivelazione e tradizione, Ratzinger afferma che, alla luce della tradizione patristica e medievale, la tesi secondo cui la rivelazione finisce con la morte dell’ultimo apostolo è troppo poco differenziata.56 Poco sopra abbiamo fatto cenno alla conferenza che Ratzinger tenne a Düsseldorf il 15 dicembre 1965 su Il problema della storia dei dogmi dal punto di vista della teologia cattolica. Al riguardo, egli afferma: In questa [stessa] direzione si mosse anche la seconda decisione magisteriale che riguardo a questa questione si pronunciò all’inizio del XX secolo, e cioè, la sezione sul concetto di rivelazione e del dogma del decreto Lamentabili di Pio X. Qui venne formulato per la prima volta un assioma che, di certo, era considerato evidente, che oggettivamente esprime un dato fondamentale della fede cristiana, ma che nella sua formulazione rivela una riflessione del tutto insufficiente della connessione tra rivelazione e storia, vale a dire, l’affermazione secondo cui la rivelazione, che costituisce l’oggetto della fede cattolica, terminò con gli apostoli.57 Ratzinger, Offenbarungsverständnis, 539: “Hier [erfolgt] bereits eine Ausdehnung des Offenbarungszeitalters weit über die uns geläufige Zeit, die ja gemeinhin die Grenze der Offenbarungszeit mit dem Tod des letzten Apostels gegeben sieht”. 56 Cfr. Rahner, Ratzinger, Offenbarung und Überlieferung, 67. 57 Cfr. Ratzinger, Das Problem der Dogmengeschichte, 10: “In dieser Richtung wirkte auch die zweite lehramtliche Entscheidung, die zu dieser Frage am Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts fiel, nämlich der Abschnitt über den Begriff der Offenbarung und des Dogmas innerhalb des Dekrets Lamentabili Pius’ X. Hier wurde erstmals ein freilich seit langem als selbstverständlich angesehenes Axiom amtlich formuliert,
55
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Ratzinger non rifiuta l’assioma, ma pensa che vada inteso in maniera corretta. Se si interpreta nel senso che la rivelazione apostolica è piena e definitiva, è corretto. Dice Tertulliano in De exhortatione castitatis 4 che tanto gli apostoli quanto gli altri fedeli hanno lo Spirito di Dio, ma non nello stesso modo: gli apostoli lo hanno proprie e plene, mentre gli altri fedeli ex parte. Qualcosa di simile afferma Clemente Alessandrino in Stromati IV 133: “Ciascuno ha un suo particolare carisma da Dio, chi in un modo, chi in un altro [. . .] ma gli apostoli furono completi in tutto”.58 In altre parole, negli apostoli si dà già tutto. Quello che ancora manca è che la Chiesa si appropri di tutto ciò nel corso della storia. Eppure, se per questo gli apostoli fossero concepiti come un gruppo autosufficiente e chiuso in se stesso, si commetterebbe un errore. La parola apostolica è, in quanto parola, una realtà di relazione. Senza l’Antwort della Chiesa, che la accoglie, non c’è rivelazione. Passiamo alla seconda difficoltà: quella dei credenti del tempo presente non è Antwort tanto quanto quella dei Padri? e.
Singolarità dell’Antwort patristica
Ratzinger crede che esista una differenza di qualità tra l’Antwort dei Padri e quella di epoche posteriori. I Padri sono primi non solo cronologicamente, ma anche qualitativamente. L’Antwort dei Padri è unica, irripetibile e costitutiva per il resto delle epoche. Perché? Secondo Ratzinger, perché i Padri dovettero realizzare quattro discernimenti straordinariamente importanti.59 das sachlich eine Grundgegebenheit christlichen Glaubens ausdrückt, in seiner Formulierung freilich eine durchaus ungenügende Reflexion des Zusammenhangs von Offenbarung und Geschichte erkennbar werden läßt, nämlich die Aussage, daß die Offenbarung, die den Gegenstand des katholischen Glaubens bildet, mit den Aposteln abgeschlossen wurde”. 58 Clemente di Alessandria, Stromata IV 133; ed. M. Merino (FuP 15; Madrid 2003) 243: ἀλλ΄ ἕϰαστος ἴδιον ἔχει χάρισµα ἀπὸ ϑεοῦ͵ ὃ µὲν οὕτως͵ ὃ δὲ οὕτως͵ οἱ ἀπόστολοι δὲ ἐν πᾶσι πεπληρωµένοι. 59 Cfr. H. Grotz, Die Stellung der römischen Kirche anhand frühchristlicher Quellen,
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Il primo è il discernimento del canone biblico. In quell’epoca circolavano molti vangeli, non solo i quattro che conosciamo e lo stesso per quanto riguarda le numerosissime apocalissi, lettere e atti. Quali di questi erano parola apostolica e, pertanto, potevano essere letti nella liturgia? Quali no? Con Ireneo di Lione (alla fine del II secolo), si era già arrivati a uno stadio abbastanza avanzato di completezza della comprensione. Mancava solo che il discernimento testimoniato dal vescovo di Lione venisse consolidato e universalizzato. Si può dire che per l’inizio del V secolo già si è compiuto il processo di formazione dell’insieme di libri chiamato “Nuovo Testamento”. È difficile esagerare l’importanza di tale processo. Diceva Harnack che in tutta la storia della Chiesa è difficile trovare un atto creativo superiore alla formazione della raccolta apostolica.60 Ratzinger si trova d’accordo con tale giudizio: “La formazione del canone e la formazione della Chiesa primitiva sono un solo ed unico processo, visto da angolature differenti”.61 Cita sant’Agostino, che fa il paragone fra questo discernimento e la separazione delle acque superiori dalle inferiori per mezzo del firmamento (cfr. Gn 1,6), in virtù della quale il caos venne trasformato in cosmo.62 «Archivium Historiae Pontificiae» 13 (1975) 7-64, qui 11s; Alcáin, La tradición, 518-9; Blanco, Joseph Ratzinger, 192s; Leb, Kardinal Ratzinger, 57s; Mayer, Augustinus, qui 315s; K. Koch, Die Kunde von einem Sprechenden Gott. Überlegungen zum Verhältnis von Offenbarung, Wort Gottes und Heiliger Schrift, http://www.cb-f.de/documents/VD_Koch_de.pdf (2010) (ultimo accesso 16 gennaio 2015) n 25; Feige, Die Väter der Kirche, 413-4; Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 155s; e K. Koch, Die Primatstheologie von Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. In ökumenischer Perspektive, in M.C. Hastetter, Chr. Ohly (ed.), Dienst und Einheit– Reflexionen zum petrinischen Amt in ökumenischer Perspektive: Festschrift für Stephan Otto Horn zum 80. Geburtstag, EOS, St. Ottilien 2014, 15-37, qui 32. 60 Cfr. A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte I Die Entstehung des Kirchlichen Dogmas, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1886, 5 1931, reimpr. 1990, 395 n. 3. 61 Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 155: “Die Konstituierung des Kanons und die Konstituierung der frühen Kirche sind ein und derselbe Prozeß, nur von verschiedenen Seiten her betrachtet“. 62 Cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 155.
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Così si comprende il valore costitutivo dei Padri. Senza di loro non avremmo gli scritti apostolici. I testi esisterebbero, certamente, ma non sarebbe stato operato alcun discernimento su di essi; avremmo soltanto un miscuglio di documenti enorme, disomogeneo e caotico. Secondo discernimento. Uno dei criteri principali per distinguere gli scritti apostolici da quelli che non lo erano, era la loro conformità (o mancata conformità) con la regula fidei, la confessione di fede battesimale. Ebbene, con le confessioni di fede accadeva lo stesso: ce n’erano molte e molto diverse (per esempio, sappiamo da Ireneo che circolavano regulae fidei gnostiche);63 tutte, ovviamente, pretendevano di essere apostoliche. Ma quali delle confessioni di fede in circolazione raccoglievano davvero l’insegnamento degli apostoli e quali no? La Chiesa dovette compiere tale discernimento, che sta più in profondità e viene prima di quello del canone neotestamentario. Ebbene, i Padri della Chiesa sono i testimoni di tale discernimento. Terzo discernimento. Si trova in una forte relazione con i due precedenti. È il discernimento delle forme basilari (Grundformen) della liturgia. La connessione con gli altri discernimenti è chiara, dal momento che la Chiesa antica, la lettura della Scrittura e la confessione di fede erano, innanzitutto, atti liturgici della comunità. Il problema era molto simile: quali dei numerosi e variegati riti in circolazione raccoglievano la preghiera che ci hanno trasmesso gli apostoli e quali no?64 Quarto discernimento. Che atteggiamento adottare nei confronti della filosofia? Bastano le forme ebraiche di pensiero o è necessario aprirsi alla filosofia greca? Spiega Ratzinger che i Padri concepirono la fede come una philosophia, come l’autentica philosophia. I Padri cercarono di dimostrare che la fede in Gesù, il Logos incarnato, è la risposta alle domande ultime dei filosofi. Il loro programma si esprime con la formula “credo ut intelligam”, “credo per comprendere”, credo affinché la mia intelligenza arrivi alla pienezza. Nasce così la teologia, che non è altro che lo sforzo dei Padri di far ve63 64
Cfr. Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte, 363. Cfr. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 156-7.
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dere come in Gesù trovano risposta le domande ultime della filosofia. Non sono mancati teologi critici nei confronti di questo quarto discernimento. Ratzinger cita Karl Barth. Si potrebbero aggiungere tutti coloro che vedono in tale discernimento una indebita ellenizzazione del cristianesimo.65 Il paradosso è che tale critica parte da un campo, quello della teologia, che se non fosse per questo discernimento, non esisterebbe.66 Per questi quattro discernimenti, i Padri dovettero vedersela con nemici potenti, alcuni dei quali erano, a mio giudizio, teologi straordinari, il che esigeva una risposta che fosse, almeno, al loro stesso livello. Come si può dimostrare, si tratta di quattro questioni che riguardano il fondamento stesso non solo della teologia, ma anche della fede (perciò credo che fosse adeguato il cambiamento di titolo al quale ho fatto allusione prima). Penso che su questi discernimenti si fondi il significato singolare e costitutivo dell’Antwort patristica. Ratzinger non lo fa, ma credo che sulla base di tali considerazioni si possa formulare la seguente definizione di Padre della Chiesa: sono Padri i testimoni del discernimento che fece la Chiesa del canone apostolico (intendendo il termine “canone” nel suo senso più profondo67 ). Penso che in tal modo si possa dare una risposta anche alla difficile questione della frontiera della patristica: verrebbe così a coincidere con il tempo del discernimento delle regulae fidei e degli scritti del Nuovo Testamento (periodo che si può datare con relativa precisione). Da questo momento in poi dovremmo entrare in una nuova fase della storia della Chiesa. Partendo da tale concezione, si spiegherebbe anche il significato ecumenico dei Padri, sul quale tanto insistono Benoit e Ratzinger. TutCfr. H. Häring, Selbstverschuldete Taubheit, in T. Galrev (ed.), Der Papst im Kreuzfeuer: zurück zu Pius oder das Konzil fortschreiben?, LIT, Berlin-Münster 2009, 183-91, qui 185-6. 66 Il tema della relazione con la filosofia ha accompagnato Ratzinger sin dal principio. Lo studio fondamentale è Blanco, Joseph Ratzinger. Si veda anche Kohlgraf, Glaube im Gespräch, 20 e Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 157. 67 Cfr. Ratzinger, Das Problem der Dogmengeschichte, 19. 65
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te le confessioni che riconoscono l’autorità degli scritti del Nuovo Testamento o delle regulae fidei della Chiesa antica, implicitamente stanno riconoscendo anche l’autorità dei Padri che hanno operato il discernimento.
Conclusione Ricordiamo la domanda con la quale si apriva l’articolo di Ratzinger: I padri hanno o non hanno, in definitiva, importanza per la teologia attuale? La devono avere per forza? Non è forse meglio, per amore della stessa teologia, rinchiuderli nella dimensione puramente storica, nella semplice indagine sul passato, che, al massimo, può venire in aiuto del nostro oggi solo mediatamente? Analizzando i fatti con più attenzione, si avverte subito che tutto ciò è lungi dall’essere una semplice domanda retorica. Si trova qui, al contrario, un problema molto complicato, nel quale si concretizza e sintetizza tutto il dilemma della teologia.68
Ratzinger conclude l’articolo rispondendo a tale domanda: Per semplici ragioni storiche non si arriva mai al punto quando tra il ricercatore e la Bibbia si trova il vuoto e quando ci si vuole dimenticare del fatto che la Bibbia arriva fino a noi attraverso la storia. Soltanto chi affronta la storia può dominarla. Chi la vuole bypassare è suo prigioniero. E soprattutto, chi asseconda questa tendenza non ha la benché minima opportunità di leggere davvero storicamente la Bibbia, per quanto possa sembrare che utilizzi metodi storici. In fondo, continua ad essere rinchiuso nell’orizzonte del suo pensiero, in cui si riflette soltanto la propria immagine.69 68 69
Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, 140. Ibidem, 158: “Es [kann] rein vom historischen Denken her zu keinem guten Ende führen, wenn man zwischen sich und der Bibel das Nichts aufrichtet und vergessen will, daß die Bibel durch eine Geschichte hindurch zu uns kommt. Nur wer sich der Geschichte stellt, kann sie auch überwinden; wer sie übersehen will, bleibt erst recht gefangen in ihr. Er behält vor allem keinerlei Chance, die Bibel wirklich historisch zu lesen, wie sehr er auch die historischen Methoden anzuwenden scheint. In Wirklichkeit bleibt er dem Horizont der eigenen Denkens verhaftet und bespiegelt nur sich selbst”.
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E continua citando il bel finale del libro di Benoit, nel quale dice di identificarsi pienamente: Il patrologo è, senza dubbio, colui che studia i primi secoli della Chiesa; ma dovrebbe essere anche colui che prepara il futuro della Chiesa. Questa, in ogni caso, è la sua vocazione.70
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Benoit, L’actualité, 84: “Le patristicien est certes l’homme qui étudie les premiers siècles de l’Église, mais il se devrait d’être aussi l’homme qui prépare l’avenir de l’Église. Telle est, en tout cas, sa vocation!”. Cfr. Alcáin, La tradición, 519 e Moga, Neuer Wein aus alten Schläuchen?, 153-4.
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Verità e crisi della storia in Jean Daniélou Leonardo Lugaresi (Associazione PATRES)
Νῦν ϰρίσις ἐστὶν τοῦ ϰόσµου (Gv 12.31)
Rileggendo oggi, a più di sessant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, un libro famoso come il Saggio sul mistero della storia,1 che Jean Daniélou considerava “fondamentale” nella sua bibliografia,2 non si può fare a meno di riconoscere che si tratta di un testo esemplare per il tipo di approccio al pensiero biblico-patristico che presenta e, proprio per questo, straordinariamente ricco di spunti di riflessione più che mai attuali sul problema della presenza cristiana nel mondo contemporaneo. Siamo di fronte, infatti, ad un libro di teologia della storia che è sì animato da una forte sensibilità nei confronti delle istanze dell’uomo del XX secolo,3 ma è anche totalmente nutrito, se così posso esprimermi, di linfa patristica e proprio in forza di questo alimento intellettuale non sente il bisogno, per fare i conti con il presente, di adottare e quindi di dipendere dalle categorie di quella stessa cultura contemporanea con cui vuole tuttavia misurarsi seriamente. È appunto questa sua coraggiosa inappartenenza all’orizzonte culturale del proprio 1
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J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, Ed. du Seuil, Paris 1954. Nel presente contributo le citazioni sono tratte dall’edizione italiana: Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1963, d’ora in poi indicato semplicemente come Saggio. Cf. Idem, Memorie, trad.it. SEI, Torino 1975 (= Et qui est mon prochain?, Éditions Stock, Paris 1974), 119. Dichiarata sin dalla prefazione, che si apre con queste parole: “I periodi di crisi come quello che attraversa oggi il mondo conducono gli uomini a interrogarsi sul significato [del] loro destino. Ci si spiega così perché mai il problema del significato della storia sia al centro delle preoccupazioni del pensiero contemporaneo” (p. 9).
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tempo che lo rende perfettamente attuale anche oggi, in un contesto che da tanti punti di vista risulta diversissimo da quello in cui è stato concepito, i primi anni Cinquanta del secolo scorso (basti pensare a che cosa rappresentava il marxismo nella cultura di allora e a che cosa è oggi). Spiritualmente contemporaneo dei Padri, Jean Daniélou ci appare pertanto molto più capace di parlare all’uomo di oggi di tanti teologi che negli stessi anni si sforzavano di essere “aggiornati” inseguendo il volatile “spirito del tempo”.
Un modo biblico-patristico di pensare il presente Il primo motivo di interesse, anche sotto il profilo metodologico, della posizione di Daniélou è dunque questo: egli, da studioso, indaga, medita e assimila in modo molto profondo una “entità culturale” che proviene dal passato, e che potremmo chiamare pensiero biblico-patristico, ma le riconosce pieno diritto di cittadinanza nell’arengo del dibattito culturale contemporaneo. Ciò significa per lui due cose: innanzitutto leggere in profonda continuità, come espressioni successive di un unico organismo spirituale che vive e si sviluppa nella storia, i contenuti dell’Antico, del Nuovo Testamento e della Tradizione patristica. Il che è essenziale, ai fini di un’adeguata comprensione cristiana della storia, perché si tratta della sola opzione che, corrispondendo pienamente alle esigenze del concetto autenticamente cattolico di Rivelazione,4 permette di evitare il rischio, altrimenti sempre incombente, di qualsiasi forma di riduzione “biblicistica” del cristianesimo (sola Scriptura),5 da cui conseguirebbe 4
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Nel senso autorevolmente definito da Dei Verbum 8-10, là dove proclama che “la sacra tradizione e la sacra Scrittura” – si noti: in quest’ordine! – “costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa” (10). Riduzione che sempre avviene ogni qual volta si considerano gli scritti primitivi su Gesù separandoli dalla corrente viva della Tradizione ecclesiale. Benedetto XVI, con la sua trilogia su Gesù di Nazaret, ha indicato proprio qui un nodo cruciale dell’attuale crisi della fede, cercando di aiutare la coscienza cristiana a uscire dal vicolo cieco in cui l’esegesi storico-critica assolutizzata e, per così dire, abbandonata a se stessa la conduce.
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inevitabilmente quello che, con Daniélou, possiamo chiamare “lo svuotamento protestante della storia”. Con questa espressione, egli si riferisce al fatto che la teologia protestante della storia tende a identificare la storia sacra con quella che la Scrittura ci riporta e a non vedere nella Chiesa la continuazione dell’azione di Dio esprimentesi infallibilmente nel magistero della Chiesa e irresistibilmente nell’efficacia sacramentale. In questa prospettiva [. . .] la venuta di Cristo avrebbe immobilizzato la storia. Tale è la posizione barthiana che costituisce così una specie di parallelo post-cristiano della gnosi. In questa prospettiva solo la risurrezione di Cristo ha importanza [. . .] Ma nessuna salvezza si realizza nella storia stessa. Questa non rappresenta un incremento di valore, né perciò di progresso, per cui si può dire ch’essa è svuotata.6
Schiacciata tra l’evento della risurrezione (sempre più lontano nel tempo) e l’eschaton (sempre più vicino, ma sempre indefinito), la storia intermedia perde significato e consistenza. Cattolicamente, invece, la storia “ha un contenuto reale che è la crescita del Corpo mistico sotto l’azione dello Spirito” (p. 21), cioè la missione, che è la ragion d’essere della chiesa. La missione si palesa così come il vero contenuto della storia. In secondo luogo, Daniélou si rapporta a questo pensiero biblicopatristico non come ad un retaggio del passato, un contenuto storiografico che si deve studiare, mettendolo a fuoco alla giusta distanza e stando bene attenti a non compromettersi per salvaguardare la scientificità della ricerca – per poi ricavarne al massimo degli spunti di riflessione e di comparazione da utilizzare all’interno di un “discorso moderno” che ha i suoi fondamenti altrove – bensì come ad un sistema di pensiero pienamente vitale e attivo, a cui si può aderire e di cui si può fruire come uno strumento perfettamente idoneo per confrontarsi con i problemi e le idee del mondo di oggi.7 Dalla profonda familiarità con quel pensiero, 6 7
Saggio, 20. Come egli stesso limpidamente dichiarava, nel famoso articolo Les orientations présentes de la pensèe religieuse, pubblicato in «Études» 79 (1946) 5-21, riferendosi
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studiato sì con rigore scientifico nelle sue espressioni storiche ma al tempo stesso amato e rivissuto personalmente, si sviluppa la straordinaria attitudine di Daniélou a pensare in modo biblico-patristico il presente, che mi pare sia il tratto che più avvicina la sua personalità intellettuale a quella di Joseph Ratzinger, e la distingue al tempo stesso da molte altre, forse oggi prevalenti nel panorama dell’accademia teologica (anche cattolica).8 In altre parole, mi pare si possa dire che, guardando quel panorama, è difficile fare a meno di rilevare un discrimine che ne divide il campo: da una parte ci sono coloro i quali ritengono che, dopo Kant e dopo Hegel (ma poi anche dopo Marx, dopo Freud, dopo Nietszche e, perché no?, dopo ogni pensatore che di volta in volta sembri epocale alla moda culturale del momento), nessuna teologia possa più farsi se non introiettando le categorie, gli schemi e le forme di pensiero di questi esponenti, sempre definiti “imprescindibili”, della
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alla nuova impostazione della collana Sources Chrétiennes rispetto alle preesistenti raccolte di fonti patristiche: “il y a plus à demander aux Pères. Ils ne sont seulement témoins véritables d’un état de choses révolu; ils sont encore la nourriture la plus actuelle pour des hommes d’aujourd’hui, parce que nous y retrouvons précisément un certain nombre de catégories qui sont celles de la pensée contemporaine et que la théologie scolatique avait perdues” (p. 10). Su questo articolo, nel contesto del dibattito sulla nouvelle théologie alla metà del XX secolo, cfr. J.-C. Petit, La compréhension de la théologie dans la théologie française au XX e siècle. Pour une théologie qui répond a nos nécessités: la nouvelle théologie, «Laval théologique et philosophique» 48 (1992) 415-431. Va detto che la profonda unità tra studio storico della tradizione patristica e impegno culturale e spirituale nella vita della chiesa e del mondo contemporaneo, che Daniélou ha testimoniato nel corso della sua esistenza, è a sua volta il frutto di quel nesso vitale tra teologia e santità che ha caratterizzato la storia del pensiero cristiano fino alla Scolastica e la cui perdita successiva è stata denunciata da Hans Urs von Balthasar, Teologia e santità, in Verbum caro. Saggi teologici, I, trad.it. Morcelliana, Brescia 19753 , 200-229, come la svolta che ha fatto passare “dalla teologia prostrata in ginocchio a quella seduta a tavolino” (p. 228). Riallacciandosi a Balthasar, coglie bene questo aspetto dell’opera di Daniélou l’utile sintesi di M. Nicholas, Jean Daniélou’s Doxological Humanism. Trinitarian Contemplation and Humanity’s True Vocation, James Clarke & Co., Eugene (OR) 2012. Sull’essenza patristica del pensiero teologico di Daniélou si veda l’ottimo saggio di M.-J. Rondeau, Jean Daniélou théologien, in J. Fontaine (dir.), Actualité de Jean Daniélou, Cerf, Paris 2006, 127-154.
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modernità e della post-modernità; dall’altra c’è chi invece – pur senza ovviamente ignorare o trascurare tutto ciò che il pensiero moderno e post-moderno abbia da dire – crede nella piena pertinenza del pensiero biblico-patristico così com’è (anche se certamente da noi riletto con la coscienza e gli strumenti culturali degli uomini del XXI secolo) al mondo contemporaneo e ai suoi problemi. Quel sistema di pensiero infatti – ci dicono Daniélou e Ratzinger – ha un’intatta capacità di corrispondere alle sfide del presente e anzi proprio la sua “alterità” rispetto alla cultura dominante può renderlo profondamente interessante, e direi persino affascinante, per l’uomo di oggi.9
Attualità del “momento patristico” per il cristianesimo odierno Ma perché in particolare il “momento patristico” del pensiero cristiano, tanto remoto nel tempo della sua genesi e della sua fioritura, dovrebbe essere così importante oggi? Quale sarebbe il “privilegio” che lo rende tanto prezioso per fondare oggi una posizione cristiana culturalmente adeguata all’incontro con la società contemporanea? Una prima risposta che darei, riallacciandomi a quanto sopra accennato, è che esso è l’espressione di un cristianesimo profondamente missionario, anzi, per dire ancor meglio, del cristianesimo più missionario di tutta la storia. Quello dei Padri, infatti, è un cristianesimo totalmente missionario nel senso che non ha una cristianità dietro o sotto di sé, da conservare e da difendere: per i cristiani dei primi secoli non c’è nessuna terra cristiana da cui partire per andare a evangelizzare il mondo pagano, nessun ovile già recintato; non esiste quindi per loro il problema della “chiesa in uscita” a cui ci richiama papa Francesco, perché la condizione 9
Come l’esperienza del magistero di Benedetto XVI ha dimostrato: la sua è stata una parola totalmente intrisa di cultura biblico-patristica, ma assolutamente capace di raggiungere e conquistare l’uomo di oggi (qualunque uomo) se solo avesse avuto la possibilità e la disponibilità di mettersi in ascolto. La prova è che, tra chi l’ha ascoltata, tanti, anche lontani dal cristianesimo e dalla chiesa, ne sono stati colpiti e provocati non a un’emozione superficiale ed effimera ma ad un giudizio, cioè ad un diverso modo di vedere se stessi e il mondo.
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del cristiano dei loro tempi è strutturalmente quella dello straniero, del “senza patria”, totalmente immerso in un mondo che gli è estraneo, se non ostile, perché è totalmente non-cristiano, ma dal quale, tuttavia, i cristiani non vogliono affatto fuggire perché sanno che è lì che sono chiamati a vivere la propria fede. Daniélou ha colto pienamente la grande attualità di questo dato. È interessante, in questo senso, vedere, per esempio, come sia proprio questa coscienza, che gli viene direttamente dal cristianesimo dei Padri, ad ispirare il suo approccio ad una questione che, quando scriveva il Saggio sul mistero della storia, era di scottante attualità come quella della presenza cristiana nel mondo operaio. Lontano da ogni sociologismo e da ogni pastoralismo, egli non si perita di definire senza mezzi termini “la situazione dell’operaio cristiano incomprensibile, contraddittoria, impossibile”, ma afferma che questa è l’essenza della posizione cristiana nel mondo: “non è questa forse la situazione cristiana realizzata all’estremo?”.10 E proprio su questo punto gli risulta estremamente pertinente il confronto con le origini cristiane: “bisogna che l’operaio cristiano accetti di vivere in questa lacerazione, in questa presenza, in questa rottura. Ma questa era appunto la condizione dei primi cristiani che vivevano in un mondo pagano”.11 Un altro fenomeno che si lega sempre al paradosso della condizione del cristiano nel mondo – paradosso che i lunghi secoli della cristianità occidentale avevano offuscato e quasi messo in oblio – e che appare, alle soglie della seconda metà del XX secolo, quasi profetico agli occhi del teologo patristico Daniélou, è quello del ritorno dei contemplativi in seno al mondo.12 Anche in questo caso la chiave di lettura gli è fornita dal riferimento a quella fase pre-monastica degli asceti cristiani Saggio, 85. Saggio, 88. Questo approccio, che evidenza il carattere paradossale e, in un certo senso, incongruo della presenza cristiana seriamente vissuta nel mondo, per cui essa “non corrisponde a nessuna realtà esistente”, noi lo possiamo applicare a molte altre nuove situazioni, come ad esempio quelle create dalla Rete, che spesso vengono esaltate o demonizzate dai cristiani in modo unilaterale e approssimativo. 12 Cfr. Saggio, 88-89. 10 11
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presenti nei primi secoli (fase che in realtà conosciamo ben poco), a cui seguì dopo il IV secolo una lunghissima storia monastica in cui i contemplativi sono stati sempre in qualche modo separati dal resto del popolo cristiano; un tempo che ora, dice Daniélou, forse è destinato a chiudersi per ridare spazio a forme “nuove e antiche” di presenza dei contemplativi nel tessuto sociale. Il cristianesimo dei Padri, d’altro canto, è anche un cristianesimo “greco” – o meglio “mediterraneo”, nella sua triplice componente ebraica, greca e latina (come Daniélou ha puntualizzato meglio di chiunque altro)13 – e, si noti bene, è solo in quanto tale che può definirsi, secondariamente e criticamente, anche “europeo”. L’assunzione dell’ellenismo, come ha molto opportunamente (e speriamo non invano) ricordato agli uomini del XXI secolo la storica lezione di papa Benedetto XVI a Ratisbona, è un dato permanentemente acquisito dal cristianesimo, nonostante tutti i processi di de-ellenizzazione a cui esso può andare incontro nella sua storia,14 e questo carattere “greco” del cristianesimo 13
Basti pensare alla sua maggior impresa scientifica nell’ambito della storia del cristianesimo antico, cioè l’Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicée, che si articola appunto in una trilogia ebraico-greco-latina, e tenere nel giusto conto il fatto che uno dei più significativi apporti di Daniélou alla ricerca scientifica sulle origini cristiane, sia stato appunto la rivendicazione dell’importanza e della durevole influenza della dimensione giudeo-cristiana, da lui compiuta nel primo volume di questa trilogia, Théologie du Judéo-Christianisme, del 1958. Questo affondo, originale e ancor oggi denso di validi spunti storiografici benché la successiva ricerca abbia messo in discussione molte sue affermazioni, si integra con gli altri due volumi: il non meno ricco Message évangélique et culture hellénistique aux II e et III e siècles, pubblicato nel 1961, e Les origines du christianisme latin, comparso nel 1978, che completa il giro d’orizzonte mediterraneo del pensiero patristico preniceno. 14 Benedetto XVI, Discorso ai rappresentanti della scienza. Università di Regensburg 12 settembre 2006: “L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco. [. . .] Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia
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è oggi più che mai centrale nel compito che la duplice grande sfida lanciata dal mondo contemporaneo ai cristiani ci impone: da un lato quello di allargare (e direi quasi di rieducare) la ragione asfittica di un Occidente scientificamente e tecnologicamente ipersviluppato ma che sembra ormai aver perso ogni volontà e capacità di riferimento alla questione della verità; dall’altro quello di difendere i diritti della ragione umana (vorrei dire dell’umana ragionevolezza) nei confronti del fanatismo ideologico-religioso, soprattutto di matrice islamica, oggi tanto aggressivo e minaccioso. La posizione di Daniélou, su questo, collima perfettamente con quella di Ratzinger. È chiaro ad entrambi che la chiesa non può identificarsi con nessuna civiltà, però il suo contatto con ogni civiltà costituisce per questa un apporto eterno. [. . .] Così la Chiesa porta impresso per l’eterno il segno della sua origine semitica, e la parola di Dio è legata per sempre alla lingua ebraica. Così la Chiesa è unita per sempre alla civiltà latina e alla situazione storica che ha fissato a Roma il seggio di Pietro. E così pure vi è un ellenismo eterno della Chiesa.15
Facendo sua un’espressione di Florovsky, Daniélou può dunque affermare che “l’ellenismo nella Chiesa non è una tappa”16 e rivendicare delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa. [. . .] Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”. 15 Saggio, 50-51. 16 Saggio, 51.
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per sé, nel grande cantiere della chiesa del XX secolo in cui gli apporti delle diverse civiltà sono chiamati a convergere in una visione sempre più autenticamente “cattolica”, il compito di cooperare “rinnovando, in seno alla Chiesa romana, la corrente dell’ellenismo cristiano”.17 Vale la pena di soffermarmi su questo punto, per chiarire meglio perché, nella prospettiva di un Daniélou riletto nel 2015, il carattere ellenico del pensiero patristico ha una funzione critica nei riguardi dell’Europa. Oggi il rapporto tra cristianesimo ed Europa è radicalmente messo in discussione, da una parte perché l’Europa, come continente, sembra aver voltato decisamente le spalle al cristianesimo, sembra averlo ormai rifiutato e forse si accinge addirittura a perseguitarlo con crescente ostilità; dall’altra perché il cristianesimo sente il bisogno di affrancarsi da un legame troppo stretto con la cultura europea, per aprirsi alle altre culture e vivere fino in fondo la sua dimensione cattolica, cioè universale. Da questo punto di vista, è sensata l’osservazione che piuttosto che insistere sul richiamo alle “radici cristiane” (ormai quasi completamente recise) dell’Europa, bisognerebbe cogliere l’opportunità di “de-europeizzare” il cristianesimo. Sorge però immediatamente una domanda: quale altra cultura, a parte quella mediterranea-europea che al cristianesimo ha dato la forma per il primo millennio, si è dimostrata in grado di supportare adeguatamente la dimensione cattolica e quindi la missione universale della chiesa? Possiamo affermare – pur con tutto il rispetto per i tentativi e le generose aspirazioni di tanti missionari e teologi – che dall’Asia, dall’Africa e perfino dalle stesse Americhe (nella misura in cui sono “altre” rispetto all’eredità europea) ci sia venuto un contributo culturale paragonabile a quello mediterraneo-europeo? Non pare che ancora all’orizzonte si profili niente di simile. Allora la questione potrebbe essere posta in altri termini: per “deeuropeizzarsi”, cioè per liberarsi dalla senescenza mortale dell’Europa di oggi, il cristianesimo, anche in Europa, forse può (e deve) percorrere un’altra strada, che lo porta sì lontano ma non geograficamente: si tratta infatti di riandare alla “pre-Europa”, cioè a quella matrice mediterranea 17
Saggio, 52.
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sia dell’Oriente che dell’Occidente cristiano (cioè, con buona pace di tutti, dell’unica esperienza storica di impianto profondo e duraturo del cristianesimo in una civiltà) rappresentata dall’età patristica. Andremo ai Padri, dunque, non con lo spirito di chi resta a casa a contemplare la galleria degli antenati, ma con quello di chi fa un viaggio in terra straniera per cercare le proprie origini. I Padri ci interessano proprio perché sono “altri da noi” (da noi in quanto europei del XXI secolo), e per ciò stesso contestano vigorosamente, con ciò che sono e ciò che pensano, il nostro modo di essere e di pensare. Il cardine su cui poggerà la nostra critica intellettuale e la nostra liberazione morale dal “pensiero morto” dell’Europa di oggi sarà dunque quel loro pensiero “pre-europeo”, o se vogliamo, “criticamente europeo”. In altre parole, si torna all’inizio perché in quell’inizio c’è il criterio per giudicare tutto quello che ne consegue. Mi pare che questo potrebbe essere un modo per rilanciare, in una prospettiva che tiene conto dei cambiamenti avvenuti in questi trent’anni, la grande proposta ermeneutica contenuta nel magistero di san Giovanni Paolo II sull’Europa (con la sua idea forte che la crisi dell’Europa è la crisi del cristianesimo),18 e anche un modo per tornare 18
Cf. il discorso Ai partecipanti al V simposio del consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE), 5 ottobre 1982: “3. La Chiesa e l’Europa. Sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso di secoli e rimangono marcate dalla stessa storia. L’Europa è stata battezzata dal cristianesimo; e le nazioni europee, nella loro diversità, hanno dato corpo all’esistenza cristiana. Nel loro incontro si sono mutuamente arricchite di valori che non solo sono divenuti l’anima della civiltà europea, ma anche patrimonio dell’intera umanità. Se nel corso di crisi successive la cultura europea ha cercato di prendere le sue distanze dalla fede e dalla Chiesa, ciò che allora è stato proclamato come una volontà di emancipazione e di autonomia, in realtà era una crisi interiore alla stessa coscienza europea, messa alla prova e tentata nella sua identità profonda, nelle sue scelte fondamentali e nel suo destino storico. L’Europa non potrebbe abbandonare il cristianesimo come un compagno di viaggio diventatole estraneo, così come un uomo non può abbandonare le sue ragioni di vivere e di sperare senza cadere in una crisi drammatica. È per questo che le trasformazioni della coscienza europea spinte fino alle più radicali negazioni dell’eredità cristiana rimangono pienamente comprensibili solo in riferimento essenziale al cristianesimo. Le crisi dell’uomo
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ad essere, in quanto cristiani europei, modérément modernes, come ci invita a fare, con ottimi argomenti, Rémi Brague in un suo libro recente.19
La verità della storia è la sua crisi Questa osservazione sulla valenza critica del pensiero biblico-patristico rispetto alla cultura della modernità occidentale, che pure da esso ha preso le mosse, si salda molto bene con la tesi fondamentale che vorrei ora enunciare rispetto alla concezione della storia in Daniélou, tesi che può essere sintetizzata così: la verità della storia, nella prospettiva teologica che egli delinea, si fonda e consiste nel giudizio che Dio, il quale si rivela all’uomo agendo nella storia, col suo stesso agire pronuncia su di essa. Da ciò consegue che tale verità si manifesta nella crisi stessa della storia. Crisi, infatti, intesa in senso cristiano significa giudizio.20 I termini del titolo di questa relazione, “verità e crisi della storia”, vanno dunque presi non come se fossero in antitesi ma in sinergia: la verità della storia emerge attraverso il giudizio con cui l’agire di Dio in essa continuamente la mette in crisi. Brachilogicamente si può dire: la verità della storia è la sua stessa crisi. L’intero assetto del mondo, infatti, è fondato sull’economia divina che continuamente lo crea e lo mantiene in essere, ma che al tempo stesso mette in crisi tutto ciò che nel mondo non le corrisponde. Perché “c’è una costruzione (οἰϰοδοµὴ) del diavolo e c’è una costruzione di Dio” e, rispetto alla prima, la bontà di Dio si manifesta appunto nello “sradicare,
europeo sono le crisi dell’uomo cristiano. Le crisi della cultura europea sono le crisi della cultura cristiana”. 19 R. Brague, Modérément moderne, Paris 2014. 20 Sul concetto di crisi come giudizio, mi permetto di rinviare a quanto ho scritto in L. Lugaresi, «An deus de sola bonitate censendus sit». Qualche riflessione su ira divina e crisi dell’uomo in ambito patristico, in A.M. Mazzanti (a cura di), Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, Bonomia University Press, Bologna 2015, 33-69, qui pp. 33-39.
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distruggere e annientare”, come dice Origene commentando Geremia.21 Da questo assunto si ricava quella che è la principale chiave di lettura della meditazione di Daniélou sulla storia: il rapporto con Dio che interviene nella storia è per l’uomo fondante e destabilizzante al tempo stesso, perché tutti gli aspetti della sua vita individuale e collettiva, che pure dipendono per la loro stessa esistenza dal beneplacito divino (come ogni cosa creata), vengono dall’iniziativa divina sempre di nuovo messi in questione e giudicati. C’è dunque nella storia un’ambivalenza di fondo che riguarda tutte le istituzioni e tutte le forme della civiltà umana che si avvicendano nel corso dei secoli: esse sono al tempo stesso da un lato fondate in un ordine, quello dell’essere, che riposa sulla volontà creatrice di Dio e dall’altro vengono da Lui messe continuamente in discussione attraverso le vicende della storia e sottoposte alla sua krisis. Tutto questo vale, come si è detto, non solo per la storia ma per l’intero cosmo. Nella prospettiva ermeneutica della teologia della storia non c’è, sotto questo profilo, opposizione tra cosmo e storia: “Per la tradizione cristiana”, osserva in proposito Daniélou, “la storia della salvezza non ha inizio con l’elezione di Abramo, ma con la creazione del mondo”.22 Si noti, per inciso, come questa impostazione del rapporto tra cosmo e storia sia antitetica a quella prevalente nella mentalità contemporanea, che postula invece una sorta di innocenza della natura, estranea per definizione al dramma, esclusivamente umano, della storia. Probabilmente anche per molti cristiani di oggi, peccato e redenzione sono categorie che riguardano solo l’uomo e la storia, mentre la natura non ha bisogno di essere salvata perché è giusta e innocente, ma deve solo essere protetta dalle offese dell’uomo. Nella prospettiva biblicopatristica vigorosamente ripresa da Daniélou, invece, “la resurrezione di Cristo è un’azione creatrice” perché, come ricorda Paolo nella Lettera ai Romani (8,19-21) anche la creazione è stata sottomessa alla caducità e alla schiavitù della corruzione e, come dice Ireneo, “tramite il Verbo di Dio, tutto è sotto l’influenza dell’economia redentrice, e per tutto il Cfr. Origene, hom. Ier. 1,15-16 (SCh 232, pp. 230-236), a commento delle parole di Geremia 1,10: “per sradicare, distruggere e annientare” e “per costruire e piantare”. 22 Saggio. 38. 21
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Figlio di Dio è stato crocifisso avendo tracciato questo segno di croce su tutte le cose”.23 Di nuovo qui ci imbattiamo in uno spunto patristico che risulta prezioso nel confronto culturale con il mondo contemporaneo, perché se si perde la consapevolezza che anche il mondo della natura è bisognoso di redenzione quanto il mondo della storia esso diventa facilmente un idolo e si pone in alternativa a Cristo come una sorta di luogo innocente in cui anche l’uomo, assimilandosi agli animali e alle piante, può trovare rifugio. Viene di qui la pericolosa deriva neopagana che caratterizza correnti importanti dell’opinione pubblica occidentale nel segno dell’animalismo e dell’ecologismo. Anche su questo il giudizio di Daniélou è nettissimo: Se non dimostriamo come l’ordine cosmico sia dominato dalla croce di Cristo, sia sottomesso alla sua azione sovrana, v’è pericolo che la storia sacra si perda nella storia naturale, che il Cristo si dissolva nel divenire cosmico.24
Rispetto alle religioni naturalistiche di ieri e di oggi, la rivelazione biblica compie un irreversibile salto di qualità: Dio non si rivela più solamente nella regolarità dei cicli cosmici, ma anche e soprattutto nella singolarità degli avvenimenti storici. Questo cambia radicalmente anche il modo di concepire la natura, poiché “in questa prospettiva il concetto di creazione prende un senso nuovo. Esso diventa un avvenimento storico, la prima azione di Dio nella storia”.25 Nasce così un nuovo tipo di simbolismo religioso, quello biblico, che è un simbolismo storico, “fondato cioè sulla corrispondenza tra i momenti diversi della storia sacra. Questo è il simbolismo che viene designato con il nome di tipologia [. . .] Senza togliere nulla al valore unico degli avvenimenti divini, essa conferisce loro una intelligibilità propria che li sottrae all’arbitrio”.26 Ireneo, Demonstratio apostolicae predicationis, 34 (P.Or. xii, p. 773), citato da Daniélou a p. 39. 24 Saggio, 40. 25 Saggio, 152. 26 Saggio, 152-153. 23
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Il simbolismo storico (tipologico) non lascia fuori di sé il dominio cosmico, ma si propone come un’interpretazione totale della realtà, proprio per quello che si è detto sopra, cioè che la creazione diviene la prima tappa dell’azione storica di Dio. Questa è la base per il recupero dei simboli della religione cosmica operato dal cristianesimo nei primi secoli. “Ma questa utilizzazione dei simboli cosmici nella religione storica non è però priva di pericoli. Essa rischia di condurre all’assorbimento dell’elemento storico nell’elemento cosmico. Quel che fa appunto l’allegorismo”.27
La teologia critica della storia come chiave di lettura dei fenomeni storici Questa prospettiva ermeneutica offre al nostro autore una chiave di interpretazione dei fenomeni storici estremamente feconda, che gli permette di rileggere in maniera penetrante molti fatti che rischiamo spesso di concettualizzare in maniera banale e scontata. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma per limitarci a uno solo possiamo riferirci al contenuto, drammaticamente attuale, del capitolo su “Deportazione e ospitalità”.28 Il fenomeno delle deportazioni e/o delle migrazioni dei popoli viene letto da Daniélou in una chiave che va molto al di là delle categorie storico-economiche e sociologiche che solitamente vengono impiegate per comprenderlo. Esso rappresenta una crisi non solo dell’assetto politico e demografico della società, ma, ad un livello molto più profondo e universale, dimostra che la condizione dell’uomo sulla terra è ontologicamente quella di una “instabilità permanente”. La stabilità delle civiltà e dei popoli è solo apparente: gli uomini “sono in realtà dei senza patria”.29 Questo livello di coscienza del fenomeno delle deportazioni/migrazioni consente al nostro autore di gettare uno sguardo acutissimo sul presente (il suo, dei primi anni Saggio, 156. Saggio, 69-82. 29 Saggio, 70 27 28
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Cinquanta ma ancora di più il nostro, del 2015) e di osare uno spunto di giudizio così “politicamente scorretto” (anche nella chiesa!) che vale la pena di riportarlo integralmente. Il radicarsi in una terra non costituisce la vocazione prima dell’uomo, ma corrisponde alla condizione fissata da Dio all’uomo peccatore. Tale ambiente naturale, sarà pericoloso misconoscerlo. Per questo tutti i tentativi di internazionalismo fondato sull’unità della scienza o sulla religione dell’umanità sono colpiti dal giudizio portato da Dio su Babele, e presentano un carattere d’idolatria. Essi sono un rifiuto da parte dell’uomo di accettare la condizione che Dio gli ha dato. Sono uno sforzo per ricostruire da solo una unità che non può venire se non da Dio. Non sfociano che allo sradicamento e alla distruzione. Nel quadro presente le patrie sono la condizione normale della vita umana.30
Non è questa la sede per farlo, ma si pensi solo per un attimo a quale prezioso lavoro culturale in ordine a una revisione critica di certi miti del cosmopolitismo illuminista, dell’internazionalismo socialista, dell’ideologia globalista delle organizzazioni sovranazionali si potrebbe svolgere a partire da questo giudizio.31 Ma anche le patrie, prosegue Daniélou, possono diventare un idolo (come sapeva bene chi era appena uscito dalla catastrofe dei nazionalismi europei del XIX-XX secolo) e di nuovo in questo senso l’esperienza della deportazione/migrazione ne rappresenta la crisi, cioè una forma dolorosa ma salutare di correzione.32 C’è dunque una sorta di strutturale Saggio, 70. Revisione critica che sarebbe quanto mai necessaria: molto probabilmente se si chiedesse a tanti “buoni cristiani” di oggi se l’unità mondiale è un bene, molti risponderebbero senza esitare che lo è in modo assoluto. Invece da un punto di vista cristiano dipende se l’unità è nel nome di Cristo oppure no. Un’unità senza Cristo, o contro Cristo, non potrebbe che essere violenta e basata sulla menzogna, come quella anticristica del dialogo di Soloviev o de Il padrone del mondo, di Robert H. Benson. 32 Saggio, 73: “La deportazione assume un senso positivo. Invece di essere un male, diventa un mezzo di bene. [. . .] Ma anche quando l’esilio diventa un bene, anche quando è compiuto volontariamente per ideale missionario, resta il fatto che la 30 31
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ambivalenza delle istituzioni della storia umana, che Daniélou coglie con molta finezza e mette in risalto anche parlando dell’ospitalità: qui l’ambivalenza è innanzitutto quella insita nella figura dello straniero, segnalata dal “fatto linguistico sorprendente” che “in molte lingue, la stessa radice serv[e] a designare l’ospite e il nemico”33 (si pensi in latino alla coppia hospes/hostis) e il momento “critico” della civiltà, anzi il “passo decisivo” per la sua formazione avviene quando si smette di considerare lo straniero solo come nemico e, invece di ucciderlo, lo si accoglie come ospite: “quel giorno si può dire che qualcosa è mutato nel mondo” (p. 75). Partendo di qui, Daniélou arriva a formulare una definizione di civiltà, di alta caratura teologica e al tempo stesso di forte spessore politico. La civiltà è essenzialmente un ordine di cose, in cui l’uomo è rispettato e amato, e in cui è tanto più amato quanto più è debole, isolato, infelice. Al contrario, ogni ordine di cose in cui il debole, lo straniero è disprezzato, respinto, soppresso, non è una vera civiltà, quand’anche vi si trovassero tutte le raffinatezze della tecnica.34
Perché diciamo che questa definizione ha una natura teologica? Perché subito dopo Daniélou spiega come nel cristianesimo si capisca che l’ospite è sempre un “angelo”, cioè un misterioso messaggero di Dio. L’ospite per eccellenza è Cristo. Questo è il motivo di fondo che spiega il carattere “istituzionale” dell’ospitalità nel cristianesimo primitivo. E, più profondamente ancora, perché la condizione di ospite è reciproca: qui sulla terra è Cristo ad essere “straniero”, ma quando saremo di là saremo noi “stranieri” e verremo accolti: “Venite benedetti dal Padre mio [. . .] perché ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25, 34-35). Ecco dunque una nuova ambivalenza. La stessa problematica viene affrontata, da un’altra angolazione, a proposito della divisione delle lingue: Essa, come è noto, per la Scrittura dispersione è sempre il marchio del peccato e che l’umanità è fatta per essere riunita. Solo che tale riunione [. . .] è la riunione escatologica di tutti gli uomini nel Cristo”. 33 Saggio, 74-75. 34 Saggio, 77.
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è una conseguenza del peccato e, come tale, forma l’oggetto di una riflessione teologica, in ambito giudaico e poi patristico, legata alla dottrina degli angeli delle nazioni, un tema di cui Daniélou si è occupato e che ha attirato l’attenzione di un altro grande patrologo come Erik Peterson, che, pur provenendo da una storia assai diversa dalla sua, presenta, a mio avviso, delle significative affinità di posizione culturale con lui (e con Joseph Ratzinger).35 La mentalità comune oggi parte invece dall’assunto che la pluralità delle lingue sia di per sé un bene originario, una ricchezza; infatti deploriamo la scomparsa delle lingue minoritarie, esattamente come ci preoccupiamo della biodiversità a rischio. Tuttavia, allo stesso tempo, ogni giorno ci scontriamo con i problemi e le difficoltà posti dalla diversità linguistica. La nostra risposta a questa contraddizione è l’esaltazione e la promozione della conoscenza di altre lingue, il plurilinguismo come valore in sé e non solo come strumento pratico. Nella visione della Scrittura e del pensiero patristico, invece, se il monolinguismo è un’occasione di male (la torre di Babele), il plurilinguismo è la punizione/correzione di questo male. Si potrebbe dire: è un bene proprio in quanto è un limite. Nel giudaismo, e poi nel giudeo-cristianesimo e di lì anche nella successiva tradizione patristica, la questione della diversità delle lingue (e delle culture) si lega, come abbiamo detto, alla dottrina degli angeli delle nazioni, che viene ad un certo momento superata quando si dice che, con l’avvento di Cristo, la vecchia economia angelica è finita: il mondo in cui il governo degli uomini era affidato agli angeli delle nazioni non c’è più, perché tutto è posto nelle mani del Figlio di Dio. Gli angeli buoni salutano con favore questo passaggio e si sottomettono a Cristo,36 gli angeli cattivi invece fanno resistenza. La questione che si apre, a questo punto, è capire Su qualche aspetto del confronto tra Peterson e Ratzinger cfr. L. Lugaresi, Paradossi patristici: il popolo cristiano come “non-nazione”. Una nota a margine di alcuni scritti di Erik Peterson e di Joseph Ratzinger, «Hermeneutica» N.S. 2013, 159-172. 36 Anzi, come dice Origene, Hom. in Lucam 13,1, salutano con gioia e quasi con sollievo la nascita di Gesù perché “la moltitudine dell’esercito celeste ormai non era in grado di dare aiuto agli uomini e vedeva che non poteva compiere l’opera che le era stata affidata, senza colui che veramente poteva salvare e aiutare anche le stesse guide affinché gli uomini fossero salvati”. 35
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come si pone, nella nuova prospettiva aperta dalla universale signoria di Cristo, la pluralità delle nazioni, delle culture e delle lingue in seguito alla destituzione delle potenze angeliche ad esse preposte. Un fatto è certo, e Daniélou lo coglie molto bene: il Cristo inaugura una sfera nuova di esistenza, in cui tutte le antiche distinzioni sono abolite. All’economia antica fondata sulla differenziazione delle nazioni, delle lingue e delle culture è sostituito un ordine nuovo in cui tutto è unificato nel Cristo.37
La divisione linguistico-culturale delle nazioni, che perdura anche dopo l’avvento di Cristo, è dunque al tempo stesso una conseguenza del 37
Saggio, 64. Anche qui varrebbe la pena di sviluppare, a partire da questa intuizione, una riflessione sul cambiamento di paradigma culturale introdotto dall’avvento del monoteismo cristiano rispetto ai politeismi pagani, che si potrebbe sintetizzare con la formula: da un’economia delle differenze ad un’economia dell’unità. La signoria di Cristo, destinato a sottomettere ogni cosa a Dio “tutto in tutti” (cfr. 1Cor 15,25-29), segna la fine, si direbbe, di tutti i “regimi particolari”, delle “eccezioni culturali” e delle “etiche della situazione”, in quanto “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti [sono] uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). L’opera di cristianizzazione del mondo pagano compiuta dalla chiesa dei primi secoli va appunto nella direzione di una ricomposizione della molteplicità “politeistica” che lo caratterizzava sotto un principio unitario, non più politico (l’unico imperium) ma teologico. Un esempio particolarmente significativo di questa tendenza è costituito dal secolare sforzo di demolizione dell’imponente sistema degli spettacoli che tanto rilievo aveva nella vita urbana tardoantica come momento fondamentale di integrazione sociale ma anche come “spazio ludico” distinto e per certi versi opposto alla vita ordinaria, in cui vigono regole e codici di comportamento particolari. Uno dei motivi conduttori della polemica cristiana contro gli spettacoli è proprio che non può esistere nessuno “spazio esente” in cui non valga l’unica legge divina e non si può dunque accettare e anzi applaudire a teatro quello che nella vita quotidiana si deplora. Cfr. L. Lugaresi, Il teatro di Dio. Il problema degli spettacoli nel cristianesimo antico (II-IV secolo), Brescia 2008. Di esempi se ne potrebbero naturalmente fare altri, dall’avvio del lunghissimo (e faticoso) percorso destinato a condurre alla parità di trattamento etico tra uomo e donna; al quasi altrettanto difficile superamento della divisione tra schiavi e uomini liberi eccetera. Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire storicamente il discorso: piuttosto possiamo domandarci che ne è, nell’attuale momento storico della chiesa, della consapevolezza “cattolica” che Cristo è uno ed è lo stesso per tutti, sempre e dovunque.
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peccato e una disposizione di Dio per l’umanità decaduta che conserva (ma in che misura?) il suo valore: sono perciò impraticabili, da un punto di vista cristiano, sia l’attaccamento esclusivo ed assoluto alla propria identità particolare sia la pretesa di assolutizzare l’aspirazione all’unità del genere umano. La nostalgia dell’unità è comprensibile e la tensione ad essa lodevole, ma solo nella misura in cui si è consapevoli che non può essere realizzata (e tanto meno imposta) dall’uomo ma, ultimamente, solo da Dio: per questo Daniélou non teme di affermare che “ogni tentativo per ricostruire con mezzi umani l’unità linguistica dell’umanità presenta un carattere ambiguo”.38 È questo un tema che avrebbe bisogno, ovviamente, di essere trattato in maniera molto più approfondita, ma abbiamo voluto farvi un cenno, per quanto sommario e inadeguato, allo scopo di fornire un altro esempio della ricchezza di spunti di riflessione che il Saggio sul mistero della storia può offrire al lettore.39
La collera di Dio come fattore di crisi della storia La visione “critica” della storia di Daniélou si delinea molto chiaramente e con tutta la sua forza là dove egli afferma che la storia delle civiltà non è un progresso continuo (secondo il modello dell’evoluzionismo), né una successione di momenti discontinui ed eterogenei (alla Spengler), ma è costituita
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Saggio, 66. Il riferimento al tema dell’angelologia, caro al nostro autore, è cruciale anche per altri aspetti. Nel passaggio dal giudaismo al cristianesimo, visto come passaggio dall’angelologia alla cristologia (cfr. J.Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, trad.it. EDB, Bologna 1974, 180-195), varrebbe la pena di riflettere sull’idea, di origine giudeo-cristiana, dell’angelo preposto alla terra che diventa geloso dell’uomo. Il “principe di questo mondo” (cfr. p. 190) proprio nel suo essere tale, diviene perciò nemico dell’uomo. Ne consegue che qualsiasi ordine puramente e integralmente mondano, anche se in quanto ordine potrebbe rivendicare una sua positività, nella misura in cui rimane chiuso alla sovranità di Cristo è radicalmente antiumano.
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da un seguito di kairoi, di crisi decisive, che sono ogni volta il crollo e la condanna di una civiltà che ha peccato per eccesso d’hybris e il rinnovamento della Chiesa attraverso questa purificazione. Questi kairoi sono al tempo stesso la ripresa del kairos per eccellenza che è la passione e risurrezione di Gesù e l’anticipazione del kairos finale, ossia il giudizio universale. Così si trovano riconciliati il punto di vista di Bultmann sul giudizio come realtà sempre attuale e il concetto del giudizio finale: per l’individuo il giudizio è un perpetuo presente, ma bisogna d’altra parte che tutte le realtà del mondo conoscano questa crisi che le condanna e le salva al tempo stesso. Così l’imminenza e la dilazione del giudizio sono ugualmente vere: la storia è un perpetuo giudizio del mondo, e la Parousia ne sarà soltanto il momento supremo.40
Nella sua pars destruens, questo continuo processo di critica della storia implica un tema che a me pare venga solitamente trascurato, mentre è assolutamente centrale nella prospettiva di Daniélou, il quale vi dedica alcune pagine tra le più belle del Saggio sul mistero della storia:41 è il tema dell’ira di Dio, da lui definita come “il modo più sorprendente” e più misterioso con cui la trascendenza di Dio si manifesta nella storia. Vale la pena che anche noi ci soffermiamo un po’ a considerarlo, perché si tratta, come è noto, di un argomento ormai quasi proibito, essendo insopportabile per la mentalità moderna almeno quanto lo era per la tradizione filosofica greca, come Daniélou stesso osserva,
Saggio, 42-43. È in questa prospettiva che va collocata la forte e tempestiva attenzione di Daniélou nei confronti delle “crisi emergenti” nella vita della chiesa e della società del suo tempo, espressa, sin dal titolo, in tanti suoi interventi più o meno “occasionali”: si vedano, ad esempio, contributi come Crisis in Christian Theology, «Catholic Mind» 60 (June 1962) 19-28; La crise actuelle de l’intelligence, Paris 1969; La crise de la pensée théologique, in G. Buis et alii, Les crises de la pensée scientifique dans le mond actuel, Desclée de Brouwer, Paris 1971, 37-56; Crise de l’église, crise de l’homme, Centre d’Études Politiques et Civiques, Paris 1972; La crise de la morale, «La Nouvelle Revue des Deux Mondes» 1 (1972) 40-49; Crise ou rerenaissance religieuse, «La Nouvelle Revue des Deux Mondes» 2 (1973)112-120, e altri se ne potrebbero citare. 41 Saggio, 166-182. 40
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accostando suggestivamente, a questo proposito, i nomi di Simone Weil e di Marcione come esempi di questo rifiuto.42 Il Dio solo buono di Marcione, infatti, è un Dio che, fino al momento in cui inopinatamente si rivela agli uomini in Cristo, non ha alcun rapporto con la storia umana, totalmente consegnata al Dio iroso e vendicativo dell’Antico Testamento, quel Dio della giustizia senza bontà che ha creato il mondo e lo ha governato per millenni, il Dio degli Ebrei che, appunto, non ha nulla a che fare con il Dio rivelato da Gesù Cristo. Questa totale estraneità fra i due déi, che è essenziale nel pensiero di Marcione, rende impossibile alla sua teologia pensare (unitariamente) la storia. La novità della rivelazione di Cristo, infatti, nella prospettiva del marcionismo (e di tutte le ideologie che ne sono derivate) si pone come qualcosa di assoluto, privo di rapporti con tutto ciò che sta prima. Come osserva acutamente Jean-Louis Chrétien L’incarnation du Christ à un moment précis du temps prend son sens pour le christianisme par une théologie de l’histoire, mais il ne peut y en avoir pour Marcion, puisque l’histoire est totalement étrangère au Dieu supérieur. En écrivant contre Marcion, les auteurs chrétiens ne défendent pas seulement la nature de leur foi dans le Christ, mais aussi bien la signification de l’histoire humaine, l’idée que le temps ne soit pas le lieu insensé de l’échec et de la décheance, soudain traversé par un éclair de sens qui nous appellerait à sortir du temps.43
L’evento di Cristo, così irrelato, diviene astratto: è come un punto che non si collega a nulla di ciò che lo precede, ma a ben vedere neanche a ciò che viene dopo, perché ciò che Marcione rimprovera alla chiesa è appunto di essersi allontanata dal vero messaggio di Cristo, di avere falsificato le Scritture, rendendo così necessaria la riforma, o piuttosto la rivoluzione operata da Marcione stesso. Neppure tra Marcione e Cristo Cfr. Saggio, 168: “Oggi [la collera di Dio] appare insopportabile ad una Simone Weil che, come un tempo Marcione, contrappone il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio di collera dell’Antico”. 43 J.L. Chrétien, Lueur du Secret, L’Herne, Paris 1985, 76. Da vedere tutte le pp. 65-83, dedicate a Marcione. 42
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c’è continuità, se ci si pensa: per attingere al vero Gesù, il teologo deve rompere con la falsa tradizione che sta alle sue spalle, la deve negare per fare un salto all’indietro fino a Cristo. È l’archetipo dell’impossibilità, per il pensiero rivoluzionario, di pensare comprensivamente la storia: la storia, dopo la rivoluzione (dopo ogni rivoluzione, a ben vedere), deve essere riscritta.44 Al di fuori di un’economia della rivelazione, l’epifania isolata e momentanea del Dio buono che si manifesta in Cristo è consegnata ad una irrimediabile fragilità, legata al sospetto del suo “carattere accidentale”. L’incarnazione perde così la sua centralità nella storia umana (“Gesù Cristo centro del cosmo e della storia”, per rievocare le prime parole della Redemptor hominis), perché non c’è nessuna tipologia che permette di far convergere verso di essa gli eventi che la precedono e che la seguono. A fronte di tutto ciò, appare fondamentale invece, nella prospettiva dei Padri (che è, come si è detto, anche quella di Daniélou), la rivendicazione dell’indissolubile rapporto tra giustizia e bontà in Dio, di cui proprio la collera – non per nulla tante volte messa in rilievo non solo nei libri dell’Antico Testamento ma anche nel Nuovo – è l’espressione più profonda, per quanto a prima vista sconcertante. La collera è una passione, una creatura di Dio, che è buona in se stessa. [. . .] La collera non è dunque il risentimento di un amor proprio ferito. È il rifiuto di venir a patti con ciò che non può essere ammesso. Così, in Dio, essa è l’espressione della sua incompatibilità con il peccato. Ma bisogna forse andare più innanzi. Nel suo fondo stesso, il ϑυµός greco, l’ira latina non esprimono neppure, direttamente, una relazione a qualcosa. Essa è semplicemente l’espressione della vitalità di un essere, del modo in cui si afferma. [. . .] Così, nella sua essenza più profonda, la collera di Dio è l’espressione dell’intensità dell’esistenza divina, della violenza irresistibile con la quale travolge tutto quanto si manifesta. In un mondo
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È ancora Chrétien, Lueur, 78, a notare il paradosso: “Marcion, figure extrême de l’antijudaïsme, laisse inaltéré l’Ancien Testament et, se voulant pur chrétien, effectue sur les écritures chrétiennes une manipulation que nul, ni avant ni après lui, ne leur a jamais fait subir”.
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che continuamente si allontana da lui, Dio rivendica, talvolta, con violenza la sua esistenza.45
Dio esiste in modo così forte ed intenso che “di fronte alla violenza dell’esistenza divina l’uomo prende coscienza della nullità della propria esistenza”.46 E questa presa di coscienza, che fa giustizia di tutte le mistificazioni a cui l’uomo si abbandona, diventa possibile perché la vita divina, in tutta la sua sovrabbondante forza, si impatta con la storia, purificandola nel fuoco dell’amore e dell’ira e rendendola vera: è questa, propriamente, la crisi divina della storia. Daniélou, infatti, nel passo che stiamo esaminando, con un’intuizione geniale collega il tema della collera divina a quello del “Dio che viene”: “Jahvè è in realtà il Dio che viene, ἐρχόµενος. È un Dio che interviene, che fa irruzione nell’esistenza degli uomini”,47 e questo determina tutto il modo di considerare la storia, sia in quanto risposta dell’uomo all’intervento divino (qui è estremamente interessante la sottolineatura che Daniélou fa del carattere non meramente morale bensì essenzialmente storico della penitenza),48 sia con riguardo ai “momenti critici” della storia stessa, cioè a quegli snodi della vicenda umana in cui gli assetti consolidati delle civiltà vengono messi in discussione e si produce una destabilizzazione degli equilibri esistenti: Qui appunto è il significato delle grandi catastrofi storiche e cosmiche: di essere un violento richiamo rivolto ad una umanità che tende a bastare a Saggio, 169. Saggio, 170. Come sempre, Daniélou coglie subito l’elemento di confronto con la realtà del mondo contemporaneo: “Si può dire che quest’idea dell’intensità dell’Essere divino sia qualcosa di cui gli uomini del nostro tempo hanno perso quasi totalmente il senso. [. . .] hanno svuotato Dio della sua sostanza fino a farne quella specie di astratto fantasma che si libra in non so quale cielo metafisico e del quale, com’è naturale, il primo venuto si libera [. . .]” (ibid.). 47 Saggio, 171. 48 Saggio, 172: “La penitenza non è soltanto la necessità extratemporale di moderare in noi la vita carnale per permettersi l’espandersi della vita superiore, ma essa ha un carattere essenzialmente storico [. . .] è direttamente in rapporto con la venuta di Jahvè. È l’atteggiamento da assumere per il fatto che Jahvè sta per venire”. 45
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se stessa, a dimenticare la sua condizione creata. I grandi flagelli storici sono un passaggio di Dio il quale strappa l’umanità alla sua vanità e la getta nello stupore.49
Le crisi della storia, in questa concezione, sono come delle “fessure, attraverso cui filtra una luce che viene d’altrove” (p. 177). Guardata con gli occhi della fede, la collera di Dio svela il suo senso intimo che è l’amore. La misteriosa e paradossale identità di collera e amore giunge al suo apice nella passione di Cristo: “il Golgota è il luogo dove la collera e l’amore si manifestano contemporaneamente in tutta la loro intensità”.50 Il senso profondo di questa ambivalenza nel rapporto tra Dio e la storia si coglie ancora meglio se la si mette a contrasto con il dualismo radicale, ontologico, che caratterizza in modo essenziale e genetico lo gnosticismo. Esso, secondo Daniélou, è estraneo al giudaismo e al giudeo-cristianesimo, ma rappresenta la radicalizzazione di una certa tendenza dualistica che aveva preso piede nel tardo giudaismo.51 Nel quadro di questa concezione, è come se Dio abbandonasse, per così dire, il mondo a se stesso. Rispetto all’intuizione religiosa fondamentale del giudaismo (Dio creatore), è come si fosse introdotta una “stanchezza” (che è dell’uomo, ma che l’uomo proietta su Dio, attribuendogliela) rispetto alla vicenda del mondo con tutte le sue irrimediabili imperfezioni. Saggio, 177. Saggio, 179. Alla fine del libro, nel capitolo sullo zelo (pp. 342-358), Daniélou torna sulla collera divina, come espressione della sua gelosia: Dio, proprio perché ci ama profondamente, non tollera infedeltà in coloro che ama. C’è nella collera divina un aspetto che noi tendiamo a dimenticare: il non rassegnarsi al male. “Noi ci rassegniamo troppo facilmente alle macchie della Chiesa, alle mediocrità del cristianesimo; vi ci facciamo troppo l’abitudine; mentre un’anima che ha dello zelo non si adatta a nulla” (p. 351). 51 Cfr. Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, 104-105: “Questo dualismo ontologico è estraneo al giudaismo e al giudeo-cristianesimo. Tuttavia anche qui si può porre il problema di una origine giudaica. [. . .] il problema del male si trova al cuore del pensiero giudaico della metà del primo secolo, alle prese con la dominazione romana. I migliori si chiedono se Dio non li abbia abbandonati, come si vede nel IV Esdra, L’elemento proprio dello gnosticismo consiste nel forzare questa tendenza sino ad un dualismo ontologico per il quale il mondo degli angeli, del cosmo e dell’Antico Testamento è non solo secondario, ma estraneo al Padre”. 49 50
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Separato da Dio, il mondo si può abbandonare alla sua deriva: la crisi (cioè il continuo giudizio che al tempo stesso tiene in piedi il mondo e lo “smonta”) è invece, paradossalmente, l’unica cosa che mantiene credibile il rapporto tra Dio e il mondo. Alla domanda che l’uomo di oggi tante volte si pone: “ma che cosa fa Dio per il mondo che va così male?” la risposta è appunto: “lo mette in crisi”.
La permanente inizialità della storia e la critica alle filosofie della storia A tutto questo si lega strettamente un altro aspetto che Daniélou rileva con grande nettezza, quello dell’attualità, o forse meglio ancora dell’inizialità della storia, come lui dice. Per il pensiero greco, come è noto, l’essere è immobile. Il movimento stesso viene concepito in modo da ridurlo all’immobilità, come ciclo: nulla avviene, tutto è. Rispetto a questo paradigma si ha, con il cristianesimo, una rottura completa, con la categoria di evento. Ma l’evento, per essere tale, deve compiersi ora. Se è passato, non è più un avvenimento ma è un avvenuto, un accaduto, cioè una cosa. Questo ora è il solo punto in cui l’eternità della vita divina (che, si noti bene, è anch’essa movimento, in quanto relazione d’amore fra le tre persone divine, ma che si compie eternamente ora e non conosce passato né futuro) si incontra con il tempo della storia.52 Ne deriva la permanente inizialità della storia. Che è anche l’inizialità perenne del cristianesimo come evento, che non diventa mai fatto storico del passato, pena la sua scomparsa. Daniélou osserva che la rottura epistemologica portata da questa coscienza del carattere eventuale della storia è così sconvolgente che il pensiero patristico ha faticato ad assimilarla. Solo con la Città di Dio di S.Agostino il cristianesimo prende veramente coscienza della concezione della storia nella sua paradossale originalità: 52
Cfr. la perfetta formula sintetica di p. 227: “Una parola riassume il Nuovo Testamento: l’hodie”.
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Verità e crisi della storia in Jean Daniélou
la storia santa è fatta di inizi assoluti che restano poi eternamente acquisiti. [. . .] Ma la nozione di realtà che cominciano e non finiscono, è uno scandalo per la ragione umana e appare come specificamente cristiano. [. . .] Gregorio di Nissa ha dato la definizione di questa visione della storia quando ha scritto che “essa passa da inizio a inizio, attraverso inizi che non hanno mai fine” (Hom. Cant.; P.G., XLIV, 1043 B).53
Non c’è dunque, nella teologia della storia di Daniélou, un “inizio iniziale”, unico ed isolato, in illo tempore, e poi una successione di fatti che di quell’inizio sono semplicemente la conseguenza o l’applicazione, in una sorta di dispiegamento le cui tappe si distanziano cronologicamente dall’origine (“il passato”) senza mai avere il carattere dell’inizialità. Tutta la storia è invece costituita da eventi che, come tali, sono tutti unici e, nel senso che si è appena cercato di chiarire, iniziali. Ma questi eventi non sono isolati bensì in relazione gli uni con gli altri, ed è proprio dal fatto che la storia è, per Daniélou, una successione di eventi unici, che deriva a un doppio titolo il carattere critico della verità storica. Da una parte, infatti, l’unicità di ciascun evento storico consiste proprio nel suo non essere (completamente) assimilabile ad alcun factum del passato o del futuro e nel suo possedere, di conseguenza, un carattere di essenziale alterità. Perciò nel suo accadere, in quanto altro da ciò che lo precede, l’evento (ogni evento) apporta necessariamente un quantum di crisi di ciò che gli preesiste. A prescindere dall’intenzionalità critica di chi lo pone in essere, l’evento critica, col suo solo darsi, la concatenazione di fatti storici precedenti a cui va ad aggiungersi. D’altro canto, nessun evento è veramente tale, come abbiamo visto prima a proposito dell’errore di Marcione, se resta assoluto e autoreferenziale. È la relazione, costituita dal loro necessario disporsi in una sequenza, che li rende intellegibili e al tempo stesso li giudica. Dunque, la verità della storia non sarà né nella sua mera fatticità, data dall’insieme dei fatti bruti a cui il positivismo storico la vuole ridurre; né in una qualsivoglia forma di interpretazione spirituale totalizzante che dai fatti in definitiva prescinde, come avviene in ogni forma di gnosticisimo 53
Ibidem, 13.
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Leonardo Lugaresi
storicistico; essa potrà essere scorta solo tramite un paziente lavoro di ricostruzione del senso che viene indicato dalla loro successione (nel duplice movimento verso Cristo e da Cristo). Per usare le categorie familiari al Daniélou studioso dell’esegesi patristica: la verità della storia non sta né nella lettera, né nell’allegoria, ma nella tipologia. Siamo dunque tornati, in conclusione, ad un’altra idea forte della visione di Daniélou, quella della tipologia come chiave di intellegibilità della storia. Che cosa può permettere all’uomo di comprendere gli avvenimenti che Dio fa compiere nella storia? Nel momento in cui accadono, il fatto di poterli collegare ad altri che li precedono e li prefigurano, suggerendone il senso; dopo che sono accaduti, il fatto di poter riconoscere in essi la figura di altri avvenimenti che li seguono e, a posteriori, li dotano di senso. Si può dire che l’evento non si dà mai come fatto isolato, ma sempre in relazione e solo così può essere compreso. Mai definitivamente compreso, tuttavia, perché ogni nuovo evento, con la valenza critica che ha nei riguardi della catena in cui si inserisce, allarga e ridisegna le maglie dell’interpretazione storica. Da questo punto di vista, Daniélou ha buon gioco nel denunciare il carattere mitico di ogni filosofia della storia,54 che, con la sua pretesa di comprensione totale della storia, gli appare come una “laicizzazione della dottrina provvidenziale” che “reca l’impronta della difficoltà fondamentale di questa. [. . .] La filosofia laica della storia, la dottrina del progresso si presenta dunque come un puro mito”.55 Il limite di ogni filosofia della storia è, in fondo, quello stesso che la riflessione patristica aveva colto come limite essenziale della posizione filosofica: la parzialità. “La verità che si mostra nella filosofia greca è parziale (µεριϰὴ)” diceva già Clemente Alessandrino,56 e la colpa della filosofia è la pretesa di ambire ad una totalità che non le compete. È la philautia, cioè l’autoreferenzialità, la pretesa di ridurre tutto al proprio principio particolare.57 L’incapacità di tenere conto di tutti i fattori in Cfr. Saggio, 116-118. Saggio, 116-117. 56 In Strom. VI, 10, 82,2, citato da Daniélou in Message évangelique, 68. 57 Cfr. Message evangelique, 67-69. 54 55
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gioco, tra cui quello che impedisce di “chiudere i conti” della storia, cioè l’intervento libero e misterioso del Dio trascendente nella storia, genera una pretesa di comprensione della totalità della storia che è menzognera. Se il principio della storia le è immanente non si esce dalla prigione dello storicismo. Una vera teologia della storia, invece, rompe questo cerchio, perché pensa la storia come vera relazione tra Dio e l’uomo (perciò sempre come teo-dramma, direbbe Hans Urs von Balthasar); un Dio che fa la storia ma al tempo stesso la trascende. Il provvidenzialismo teologico pretende di sapere che cosa Dio farà della storia; la filosofia laica della storia elimina Dio ma mantiene la stessa ipoteca sul senso totale della storia. La teologia della storia parte invece dall’assunto che “il giudizio è la manifestazione di quel che le cose sono agli occhi di Dio, ossia di quel che esse realmente sono”, sa che “solo questa luce del Giudizio illumina veramente la storia [. . .] che fuori di essa resta senza significato”,58 ma sa anche che noi uomini questo giudizio non finiamo mai di conoscerlo. Per questo la nozione di crisi è essenziale alla verità della storia. Perché la verità della storia non è un discorso sulla verità, è la Verità che, rivelandosi, mette in crisi, cioè giudica, la storia.
58
Saggio, 115.
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“La salvezza attraverso la Storia”: Ontologia e storia nella teologia di Joseph Ratzinger Robert J. Woźniak (Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia)
Inizio con alcuni preliminari metodologici. In primo luogo, uso ontologia e metafisica come sinonimi. Ovviamente vi è una grande differenza (sia storica sia sistematica) tra loro.1 Ma qui la tralascio, prima di tutto perché Ratzinger non vi presta attenzione e non ne parla come di un momento decisivo nel suo pensiero teologico. In secondo luogo, dobbiamo sottolineare con decisione che Ratzinger è un teologo e non un metafisico e il suo interesse risiede più nel corpo di veritas fidei e nelle sue problematiche più importanti che nella filosofia.2 Ciò non significa che egli escluda le questioni filosofiche dalla sua teologia. Esse sono presenti, nel tipico stile della teologia tedesca, nel cuore della sua visione (Anschauung) intellettuale e teologica. Mi concentrerò sulla relazione tra ontologia e storia in Ratzinger. La mia intenzione è di mostrare come tale problematica appaia gradualmente nei suoi scritti e nel suo pensiero. Tale approccio semistorico partirà dalla tesi di abilitazione di Ratzinger, procederà con l’analisi della famosa Introduzione al cristianesimo e terminerà considerando il ruolo cruciale delle affermazioni escatologiche ed ecclesiologiche del teologo bavarese.
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2
P. Jaroszyński, Metafizyka czy ontologia?, (Monografie i Studia z Filozofii Realistycznej), Polskie Towarzystwo św. Tomasza z Akwinu, Lublin 2011. A. Proniewski, Ermenutica teologica di Joseph Ratzinger, Eurpress, Lugano 2014.
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“La salvezza attraverso la Storia”
Punto di partenza: La teologia della rivelazione (Offenbarungstheologie) di Bonaventura Non è mia intenzione entrare nei particolari della teologia di Bonaventura ma, attraverso l’analisi dell’interpretazione che Ratzinger ne fece, è mio desiderio mostrare il punto di partenza e, probabilmente, il più decisivo, della comprensione del futuro papa del nexus tra storia e ontologia. L’argomento della habilitationschrift 3 di Ratzinger era la delineazione del profilo della teoria teologica della conoscenza in Bonaventura.4 Egli decise di dividere la ricerca in due parti, una dedicata alla teologia della rivelazione e l’altra alla teologia della storia di Bonaventura. È chiaro che tale decisione di metodo, che strutturava la prima versione integrale della sua abilitazione, è il risultato di una prima comprensione della sintesi teologica di Bonaventura. Analizzando dettagliatamente la teologia del Serafico, Ratzinger sicuramente arrivò alla conclusione che la teoria della conoscenza teologica in questione è determinata da queste due idee di fondo: rivelazione (Offenbarung) e storia (Geschichte). Al fine di riuscire a comprendere la fondamentale comprensione dell’epistemologia teologica, bisogna tener conto allo stesso tempo della rivelazione come avvenimento e della storia come luogo proprio di tale evento. È importante notare le ragioni che portarono Ratzinger alla scelta di tale argomento per la sua dissertazione. Egli le spiega così: “Quando diedi avvio alla preparazione di questo studio nell’autunno del 1953, una delle questioni che stava sullo sfondo dell’argomento all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era quella della 3
4
Una basilare introduzione alla finalità e Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) di questo lavoro si trova in H. Verweyen, Ein unbekannter Ratzinger: Die Habilitationsschrift von 1955 als Schlüssel zu seiner Theologie, Pustet, Regensburg 2010. J. Ratzinger, Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie Bonaventuras. Habilitationsschrift und Bonaventura-Studien, (JRGS, 2), Herder, Freiburg-Basel-Wien 2009.
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relazione tra storia della salvezza e metafisica. Era un problema incombente che sorgeva dai contrasti con la teologia protestante che, dal tempo di Lutero, è incline a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dalla specifica concezione della fede cattolica che indirizza l’uomo non solo verso l’Eterno, ma al Dio che agisce nel tempo e nella storia”.5
Alla luce di tale affermazione, riusciamo a vedere più profondamente il vero scopo del lavoro in germe di Ratzinger, e cioè presentare una delle più grandi sintesi medievali di teoria teologica della conoscenza nel contesto del momentum teologico dello stesso Ratzinger. Ciò che il nostro autore realmente vuole scoprire, comprendere e mostrare è il modello classico della relazione tra rivelazione, storia e metafisica6 come pietra miliare e conditio sine qua non della teologia cristiana. Una cosa è chiara qui per Ratzinger: non può esservi una piena comprensione della natura della teologia cristiana senza prendere in considerazione la storia, l’ontologia e la loro intima relazione. Per lui, presentando proprio la sintesi di tale argomento operata da Bonaventura, evitando ogni tipo di anacronismo, si può far luce sulle discussioni del momento in merito e aiutare la teologia a riscoprire la sua identità in un tempo di sconvolgimento culturale ed intellettuale. La decisione di Ratzinger di cercare una comprensione rinnovata della natura e del compito della teologia specificamente nel contesto storico degli anni Cinquanta, caratterizzato dal rifiuto delle questioni ontologiche e dall’enfasi posta sulla historia salutis, lo portò a san Bonaventura e alla sua teologia della rivelazione che avviene nella storia. La conclusione di tutto ciò è che il problema dell’ontologia e della storia non appare esplicitamente nell’abilitazione di Ratzinger, ma emerge implicite dalla prospettiva più ampia d’interazione e interdipendenza tra rivelazione e storia. La questione del pensiero ontologico nella teologia cristiana può essere compresa solo nella prospettiva della teologia della rivelazione e della teologia della storia, vale a dire dall’interno del nucleo stesso del pensiero cristiano. Per evitare qualsiasi 5
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Idem, The Theology of History in St. Bonaventure, Franciscan Herald Press, Chicago 1989, xi. Ibidem, xii
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“La salvezza attraverso la Storia”
tentazione di astoricità, Ratzinger mostra che possiamo trovare già nella teologia di Bonaventura un resoconto premoderno di simultaneità e coabitazione della problematica della rivelazione e storia della salvezza (Heilsgeschichte). Per quanto Bonaventura possa essere lontano da qualsiasi riconciliazione che tenda ad identificare rivelazione e storia, cosa tipicamente moderna, i suoi testi comprovano che egli non le separava.7 Lungo tutto il libro su Bonaventura (mi riferisco alla prima versione integrale, rimasta inedita fino al 2009), la questione della metafisica appare per la prima volta quando Ratzinger si occupa del concetto stesso di rivelazione, alla fine della prima sezione della habilitationsschift (Der Scholastiker Bonaventura). Essa culmina con un’analisi della semantica della rivelazione in Bonaventura. L’intuizione centrale di Ratzinger è che “la relazione tra natura e supernaturalis è la forma classica attraverso cui il XIII secolo si sforzò di trovare una formulazione adeguata del pensiero metafisico all’interno della teologia cristiana.8 Analizzando le varianti delle occorrenze di questi due termini in Bonaventura, Ratzinger arriva alla conclusione che la loro comprensione è determinata dalla visione globale, cosmica del Dottore Serafico. Tale visione cosmica è il livello più alto e la forma più originale in cui Bonaventura presenta la sua ontologia. In altre parole, la sintesi teologica di Bonaventura è allo stesso tempo la descrizione più fondamentale dell’essere del mondo, delle sue strutture e della sua storia. Secondo Ratzinger, le fondamenta di tale teo-ontologia del Serafico andrebbero cercate nella descrizione che fa di natura e grazia e del loro rapporto dinamico. Tale descrizione è il modo migliore per capire la storia dell’esistenza ed il vero significato dell’essere creato. Ciò risulta evidente anche per quanto riguarda la questione dell’imago Dei. L’analisi dettagliata permette a Ratzinger di determinare che i concetti ontologici di Bonaventura sono “molto attuali e più aperti alla concretezza”, cosa che “produce una grande apertura ai reali tradenda storici della grazia”.9 L’effetto ultimo di tale visione cosmologica, storica e ontologica è presente nel pensiero di 7 8 9
Idem, Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie, 252. Ibidem, 256. Ibidem, 342.
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Bonaventura nella stessa architettura formale e nella dinamica interna del suo sistema intellettuale, in cui ogni modo di conoscenza è diretto (ridotto) ad una teologia plasmata dalla centralità di Cristo.10 Il secondo luogo in cui viene considerato da Ratzinger il nostro argomento è la seconda sezione dell’abilitazione, “Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura”, (La teologia della storia in san Bonaventura), interamente dedicata al problema della teologia della storia di Bonaventura come frammento costitutivo della teologia della rivelazione. Alla fine di tale sezione, Ratzinger presenta la sua opinione sull’atteggiamento di Bonaventura nei confronti della filosofia, entrando explicite nel lungo e complicato dibattuto sull’argomento. Dopo aver riassunto e rifiutato le posizioni principali di Gilson, van Steenberghen, Robert e Venthey, Ratzinger abbozza il suo pensiero personale, che rappresenta la Gestalt finale della sua comprensione dell’atteggiamento di Bonaventura nei confronti della filosofia e della metafisica. Ratzinger non crede all’antiaristotelismo radicale di Bonaventura.11 Sostiene che ciò che cambiò nel suo atteggiamento intellettuale fu la scoperta del valore relativo di tutti gli approcci scolastici, filosofici e sistematico-teologici. Bonaventura non rigetta la filosofia né il metodo scolastico, “non rinuncia alla sua ricerca della correttezza”.12 Tale affermazione andrebbe vista come il frutto dello studio di Bonaventura da parte di Ratzinger: la realtà ultima della storia non è la speculazione metafisica, ma l’incontro reale con Cristo, il centro reale di tutto. In tal senso, la storia di Cristo è l’eruzione decisiva della dimensione escatologica:13 “poiché il ritorno del Primum degli esseri, richiesto dalla sua stessa natura, ha inizio davvero solo nell’atto storico-salvifico di Gesù Cristo”.14
Ibidem, 103-110, 131-140, 242-244, 400-406, 589-590. Cfr. R.J. Woźniak, Primitas et plenitudo, Eunsa, Pamplona 2007. 11 Idem, The Theology of History, 161. 12 Idem, The Theology of History, 162; Cfr. Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie Bonaventuras, 415-417. 13 Idem, The Theology of History, xiii. 14 Idem, Offenbarungsverständnis und Geschichtstheologie Bonaventuras, 415. 10
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“La salvezza attraverso la Storia”
In questa prospettiva risulta chiaro che il punto di partenza della soluzione di Ratzinger alla questione del rapporto tra ontologia, storia e teologia è cristologico. Essere creato e conoscenza umana (sia la filosofia sia la teologia) trovano in Cristo il proprio medium reducens storico. I segreti della storia e dell’essere possono essere illuminati soltanto nella sua prospettiva. Ciò è quanto Ratzinger ha imparato da Bonaventura.
La crisi del Sessantotto e la ricerca dell’essenza del cristianesimo Uno dei luoghi privilegiati per indagare sulla comprensione di Ratzinger dell’ontologia, della storia e del pensiero ontologico e storico è, senza dubbio, la sua famosa Introduzione, pubblicata per la prima volta nel 1968 e accompagnata da due saggi raccolti in seguito nei Principi di teologia cattolica. Le lezioni raccolte in questo volume sono la risposta diretta di Ratzinger al tumulto della Rivoluzione culturale liberale, che ha lasciato il segno nell’universo delle scienze, teologia inclusa. Nella prospettiva dell’invenzione di una nuova ermeneutica teologica segnata da versioni popolari del marxismo recentemente riscoperto, Ratzinger fa un tentativo di far capire ai suoi studenti che abbiamo ancora bisogno di tornare alle fonti di pensiero e di interpretazione della tradizione cristiana, se vogliamo conoscere la verità circa la visione cristiana del mondo. La diagnosi fondamentale presentata nel libro è molto semplice: per comprendere propriamente il significato reale del cristianesimo, bisogna ritornare al suo costituirsi come fede. Il cristianesimo, secondo Ratzinger, è fede. A costituire la sua essenza è credere o lasciarsi guidare da una più ampia prospettiva storica e tradizionale di Credo cristiano. Il Symbolon esprime la struttura della fede15 ed è uno dei punti di riferimento più importanti per chiunque voglia immergersi nel profondo oceano della vita e del significato cristiani. In tal senso, il nucleo della visione di Ratzinger può essere riassunto in breve dalla seguente citazione: “il credo è lo sposo dell’ontologia”. Lo 15
Idem, Introduction to Christianity, Ignatius Press, San Francisco 2004, 56nn.
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sfondo immediato di tale affermazione è la narrazione della storia del roveto ardente.16 Le complicate sorti della traduzione e la lunga storia di ricezione di tale testo permettono a Ratzinger di avventurarsi nei meandri della questione del rapporto tra storia, filosofia e fede, ontologia e teologia. La teologia cristiana, sin dai primi tempi, ha accettato non la religione pagana o la sua religiosità, ma la filosofia, che venne purificata e adattata ai bisogni della dottrina del Vangelo. Il più grande e importante cambiamento operato dai cristiani nella filosofia pagana fu l’introduzione di una sorta di personalismo metafisico.17 L’analisi di Ratzinger culmina nella formulazione di una specie di regola più generale di interdipendenza tra pensiero ontologico e storico, che dovrebbe operare all’interno della teologia cristiana.18 La sua opinione è che la vera forma dottrinale al cristianesimo fu conferita dalla fusione e interazione tra la “storia della salvezza” e i punti di vista trinitari. Come tale essa è caratteristica degli stadi più antichi del pensiero cristiano. “In principio, il pensiero cristiano non è né solo ‘soteriologico’ né solo ‘metafisico’, ma forgiato dalla storia e dall’essere”.19 L’interazione tra storia, ontologia e teologia sembra essere per Ratzinger la Gestalt paradigmatica della theologia christiana. E fu essa a produrre il modo tipico di pensare del cristianesimo. Ecco perché, secondo Ratzinger, tale dilemma (storia o metafisica) costituisce ora, ancora una volta, un compito fondamentale per la teologia contemporanea. Consideriamo adesso tale teologia della fede in una prospettiva esistenziale più concreta. Per l’autore dell’Introduzione, la fede è eine Wende des Seins,20 una svolta dell’essere, cambiamento esistenziale, ontologico (o quello che gli inglesi chiamano “turn-about” e gli italiani “inversione a U”). Il significato basilare di tale affermazione è radicalmente pratica: Ibidem, 119. Ibidem, 143-148. 18 Cfr. T. Rowland, Ratzinger’s Faith. The Theology of Pope Benedict XVI , Oxford University Press, Oxford 2009 e Benedict XVI , Continuum, London-New York 2010, 93-112. 19 J. Ratzinger, Introduction to Christianity, 332. 20 Idem, Einführung in das Christentum, Kösel, München 2005, 45. 16 17
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“Credere non è mai stato solo l’atteggiamento che corrisponde automaticamente all’inclinazione generale della vita umana (menschlichen Daseines); è stato sempre una decisione che fa appello alle profondità dell’esistenza (Tiefe der Existenz), una decisione che in ogni epoca richiede all’uomo una inversione a U che può essere effettuata con uno sforzo di volontà”.21 Vi è una forte connessione fra fede, Dasein umano e storia. La fede produce nel Dasein umano un vero cambiamento ontologico che è seguito dalla disposizione della volontà. Tutto ciò accade nel corso reale della storia, che è marcato dalla sua duplice struttura fondamentale stabilita dal rapporto tra “allora” e “ora”. In tal modo, l’atto di fede giunge fino alla reale struttura ontologica dell’esistenza umana. Non si tratta di un superfluo atteggiamento che non conta nulla dal punto di vista della serietà dell’esperienza umana. È un dramma reale che riguarda proprio il cuore dell’esistenza umana, i livelli più profondi del suo essere storico, ciò che si trova oltre il dominio del cambiamento continuo. Il punto centrale che permette a Ratzinger di arrivare a tutte queste considerazioni è la persona di Cristo, incarnazione storica del divino, Logos eterno di Dio Padre. Il giovane Ratzinger reagisce con decisione contro qualsiasi possibile affermazione cristologica che privi di senso il cristianesimo, riducendolo soltanto ad uno status di semplice narrazione morale. Egli oppone la riduzione dell’incontro salvifico tra divino e umano solo in Gesù al suo “momentaneo balenio di un evento”, come era per Bultmann,22 alla sua realtà, in un senso più debole, che non permette di ammettere il cambiamento reale prodotto dall’avvenimento della salvezza nella vita e nella struttura dell’essere, proprio nella natura della persona umana e della società.23 Per proteggere la verità radicale della nuova esperienza della tradizione teologica cristiana, si elabora il sofisticato edificio del dogma cristologico. Per Ratzinger, l’ontologia implicita nella definizione di Calcedonia non è un ritorno alla prospettiva mitologica, ma il mezzo intellettuale e spirituale per ancorare la novità Idem, Introduction to Christianity, 52. Ibidem, 169. 23 Cfr. Idem, Salvation and history, in Idem, Principles of Catholic Theology, 159. 21 22
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e l’immensa verità ontologica del messaggio cristiano al cuore stesso della storia.24 La cristologia ontologica25 serve a salvare la teologia dell’evento storico allo stesso tempo da un’astoricità astratta e statica e da un vuoto storicismo. Nell’interpretazione di Ratzinger, la dimensione ermeneutica di Calcedonia dell’è cristologico (Gesù è il Cristo, Dio è uomo), si fonda sull’avvenimento della resurrezione. Vista da questa prospettiva, l’horos di Calcedonia unisce la storia e l’ontologia, che sono da esso mantenute in una specie di rapporto pericoretico. Allo stesso tempo, esso aiuta a far luce sul cuore reale del cristianesimo, che trasmette una notizia semplice e scandalosa: in suo Figlio e nel suo Spirito, Dio è entrato nella storia e le ha cambiato essere e significato una volta per tutte. In tal modo, il mistero pasquale di Cristo è culminato nell’avvenimento della resurrezione e, trasmesso dal dogma cristologico, “diventa l’asse della storia, che ci sostiene tutti”.26 Seguendo il ragionamento di Ratzinger, contro qualsiasi idea moderna di teologia politica, possiamo dire di più: il mistero pasquale di Cristo, in tutta la sua peculiarità, modifica storicamente la natura umana (ontologia), mostrando che il centro gravitazionale dell’io umano non si trova nell’essere umano ma fuori di esso.27 Il vero nucleo dell’ontologia storico-pasquale di Ratzinger può essere espresso con la breve formula: l’essere è exodus. “Essere” significa “essere-dall’-altro” (exi-stere); per Ratzinger, tale essere dall’altro rappresenta il movimento di “uscire da se stessi”, auto-trascendenza e sacrificio dell’io.28 Dobbiamo riconoscere qui le basi teologiche, trinitarie di tale Idem, Introduction to Christianity, 170. Si può trovare una descrizione dettagliata del vero significato della definizione di Calcedonia in Idem, Salvation history, Metaphysics and Eschatology, in Idem, Principles of Catholic Theology, 181nn. 26 Ibidem, 190. 27 Ibidem. 28 Ibidem, 189. Cfr. la mia tesi principale è presentata in: Różnica i tajemnica. Objawienie jako teologiczne źródło sobości, Poznań 2012, dove affermo che il sé umano è costituito dall’atto della libera rivelazione divina e in virtù di tale fatto è dotato di natura estatica. Si veda anche l’importante contributo di D.H. Kelsey, Eccentric Existence: A 24 25
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ontologia pasquale. L’azione divina viene presentata da Ratzinger come formula autentica di esistenza umana, che ha il proprio essere fuori di sé.29 Difatti, tale affermazione presuppone ciò che Ratzinger chiama prae dell’azione divina,30 che stabilisce l’avvenimento storico della Rivelazione come apriori radicale di qualsiasi categoria ontologica. Proprio per questo, bisogna sottolineare il primato della storia sulla metafisica. In fine, il prae stesso dell’azione divina impedisce qualsiasi riduzione a un falso esistenzialismo teologico, che si concentri solo sul pro me a spese del carattere fondamentale delle azioni oggettive di Dio. La salvezza può essere compresa in tutta la sua profondità e realtà propria solo quando si afferma che Dio e la sua azione sono la sua dimensione onto-storica radicale, oggettiva e ultima. Con l’ontologia storica, pasquale, Ratzinger intende proteggere e sposare la natura realistica, oggettiva della rivelazione salvifica, che viene proclamata dal cristianesimo come espressione finale dell’amore divino, del suo essere per noi. L’unità pericoretica e differenziata della storia e dell’ontologia salvaguarda il primato dell’essere divino e le sue azioni amorevoli su tutte le aspettative, azioni e desideri umani. Salvaguarda, in definitiva, la verità integrale della nostra salvezza, la cui essenza può essere espressa con la breve formula “Dio è uomo”. Tale è cristologico ci porta alla convinzione che metafisica e storia sono in tal modo interdipendenti che il sopramenzionato prae dell’azione divina storica non esclude l’ontologia dell’essere divino né la realtà di Dio in se stesso, ma lo rende ancor più fondamentale. Come afferma Hofmann: “diese Christozentrik ist heilsgeschichtlische Ontologie”, vale a dire “questo cristocentrismo è l’ontologia della storia della salvezza”.31 In tal modo, l’accento messo sul prae storico non porta allo storicismo, Theological Anthropology, WJK, Louisville 2009. La raccolta di saggi sul progetto di Kelsey è presente in: G. Outka (ed.), The Theological Anthropology of David Kelsey. Responses to Eccentric Existence, Eerdmans, Grand Rapids 2016. 29 J. Ratzinger, Salvation history, Metaphysics and Eschatology, 190. 30 Ibidem, 173, 185-186. 31 P. Hofmann, Jesus Christus als Mitte der Geschichte. Der Einfluss Bonaventuras auf das Denken Joseph Ratzinger/Benedikts XVI. und dessen Bedeutung für die aktuelle Fundamentaltheologie, in M. Heim, J. C. Pech, Zur Mitte der Theologie im Werk von Joseph Ratzinger/Benedikt XVI, (Ratzinger-Studien, 6), Pustet, Regensburg 2013, 88.
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ma all’inevitabile importanza dell’ontologia.32 La storia diventa un vero locus ontologico e teologico. L’aspetto ontologico conserva la propria “insostituibilità e preminenza”33 all’interno della teologia, non alle spese della storia, ma proprio grazie ad essa. Pensando all’essenza della teologia, Ratzinger fa un’importante affermazione, secondo cui “noi non riusciamo a capire il significato della cristologia proprio quando essa rimane rinchiusa in un circolo storico-antropologico vizioso e non diviene una vera teologia, in cui al centro del dibattito vi sia la realtà metafisica di Dio”.34 E poco dopo aggiunge: “un simile schieramento metafisico (ontologico) della teologia non è, come abbiamo a lungo temuto, un tradimento della storia della salvezza”, ma al contrario se è proprio “Cristo che la Bibbia testimonia, deve trascendere la storia e in definitiva parlare di Dio stesso”.35
Orizzonte escatologico ed ecclesiologico della verità ontologica della storia L’impatto degli approfondimenti appena citati di Ratzinger si vede in special modo nella sua escatologia ed ecclesiologia.36 In realtà, ecclesiologia ed escatologia sono esemplificazioni della questione dell’essenza del cristianesimo. I modelli particolari coinvolti nell’escatologia e nell’ecclesiologia provengono dalla pre-comprensione dell’essenza del cristianesimo in quanto tale. Una delle scoperte fondamentali della tesi di abilitazione di Ratzinger è la fusione tra storia ed escatologia che costituiva una parte fondamentale della teologia cristologica della storia di Bonaventura. La soluzione di quest’ultimo al problema escatologico, attraverso una riformulazione J. Ratzinger, Faith, Philosophy and Theology, «Communio» 11(1984) 350-63. Idem, Salvation history, Metaphysics and Eschatology, 190. 34 Idem, What is Theology?, in Idem, Principles of Catholic Theology, 319. 35 Ibidem, 320. 36 Cf. A. Nichols, Thought of Pope Benedict XVI: an Introduction, Continuum, LondonNew York 2007, 185-186 e P. Blanco, La teología de Joseph Ratzinger. Una introducción, Palabra, Madrid, 2011, 263-271. 32
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cristologica, diede forma al progetto di Ratzinger della spiegazione dell’escatologia per Kleine katholische Dogmatik. Ratzinger capisce che il compito più importante dell’escatologia è connesso al contesto storico, sociale e teologico degli anni Sessanta. È determinato soprattutto dalla sfida della secolarizzazione e dai progetti di teologia della speranza (Moltmann) e dalle teologie della liberazione. La riduzione della speranza cristiana a una versione della salvezza mondana e secolarizzata è il comune denominatore di queste prospettive teologiche. Ovviamente, l’autore di Eschatologie: Tod und Ewiges Leben non interrompe l’unità originale di storia e salvezza. Afferma semplicemente che il centro di questa unità deve essere Cristo. Egli è l’unico soggetto dell’escatologia. Le aspettative escatologiche cristiane si centrano sulla persona di Cristo. In tale contesto, Ratzinger presenta la sua teoria dell’immortalità dell’anima, che, secondo lui, dovrebbe essere collegata alla nozione fondamentale di relazione. Siamo immortali non perché ci è stata donata un’anima immortale. L’immortalità umana ha a che fare con la relazione con la sorgente di ogni immortalità che è Dio nelle sue relazioni intratrinitarie, che costituiscono la sua stessa vita divina. Queste sono le relazioni che costituiscono Dio come essere immortale.37 A mio avviso, ci troviamo di fronte ad uno dei punti più significativi dell’opera di Ratzinger, che ci permette di sondare la reale profondità della sua soluzione al problema della storia e dell’ontologia. Il suo modo di considerare la natura dell’essere divino come relazionale, fa luce sui segreti 37
J. Ratzinger, Eschatology. Death and Eternal Life, Catholic University of America Press, Washington D.C. 1988, 158: “Non ci si può riferire all’immortalità nei termini di un isolato esistente individuale e delle sue capacità innate, ma soltanto facendo riferimento a quel legame che è costitutivo della natura umana. Questa affermazione sull’uomo ci riporta ancora una volta alla nostra immagine di Dio, facendo così luce sulla comprensione cristiana della realtà nel suo nucleo fondamentale. Dio possiede l’immortalità o, più correttamente, è immortalità, essendo quella realtà di relazione che è l’amore trinitario. Dio non è ‘atomico’: Egli è relazione, dal momento che è amore. Ed è per questo motivo che è vita. In tale prospettiva, la relazione tra due persone che è l’amore umano brilla con la radiosità del mistero eterno. Il segnale che riceviamo da questa visione dell’essere ci dice che la relazione ci fa immortali, l’apertura, e non la chiusura, è la fine in cui troviamo il nostro inizio”.
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dell’essere creato e della sua storia. La riflessione pasquale dell’ontologia storica secondo la quale l’essere viene ad essere identificato con l’extasis d’amore è connessa qui alla descrizione dell’essere come relazione. Nell’escatologia ratzingeriana, il problema della storia e dell’ontologia entra in scena sullo sfondo del suo dibattito con Walter Kasper riguardo al rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari. Il dibattito nacque dalla discussione scaturita dall’affermazione presente nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1992, Su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione: la Chiesa universale è una realtà che nel suo mistero essenziale precede logicamente e ontologicamente le Chiese particolari. Kasper è in disaccordo con tale formulazione. Secondo lui, la relazione tra la Chiesa universale e le Chiese particolari è retta da reciprocità e simultaneità.38 La Chiesa universale è la comunità delle Chiese particolari. D’altra parte, Ratzinger ripete e difende l’affermazione della CDF, affermando che vi è un primato della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. In tale prospettiva, il particolare è la realizzazione concreta dell’universale.39 W. Kasper, Chiesa cattolica. Essenza – realtà – missione, Queriniana, Brescia, 2012. Si può trovare un’elaborazione importante e dettagliata di questo tema in Idem, Die Kirche Jesu Christi. Schriften zur Ekklesiologie I, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2008, 509-522. 39 J. Ratzinger, The Ecclesiology of the Constitution On the Church, Vatican II, ‘Lumen Gentium’, in: Idem, Piligrim Fellowship of Faith: the Church as Communio, Ignatius Press, San Francisco 2005, 134-135: “Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, l’unica Chiesa, l’unico corpo, l’unica sposa, sulle concrete attuazioni empiriche nelle Chiese particolari mi sembra così chiara che mi risulta difficile comprendere le obiezioni che riceve. Infatti mi sembra che sono possibili soltanto se non si vuol vedere, o non ci si riesce più, la grande Chiesa concepita da Dio, forse a causa della disperazione per la sua terrena inadeguatezza; essa ora appare come una fantasia teologica, cosicché tutto ciò che rimane è l’immagine empirica della Chiesa nelle mutue relazioni e conflitti tra le Chiese particolari. Ma ciò significa che è stata cancellata la Chiesa in quanto soggetto teologico. Se d’ora in poi la Chiesa può solo essere riconosciuta nella sua organizzazione umana, allora, di fatto, rimane soltanto la desolazione. Ma allora non si è solo abbandonato l’ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e il concetto di Israele dell’Antico Testamento”. Per una trattazione più dettagliata dell’ecclesiologia di Ratzinger, si consulti M.H. Heim, Joseph Ratzinger – Kirchliche Existenz und existenzielle Theologie 38
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Non è mia intenzione entrare nei particolari di tale complicato dibattito. Qui l’ho utilizzato solo come esempio per illustrare la visione di Ratzinger sulla questione del rapporto tra storia e ontologia. È interessante come, al nocciolo della sua argomentazione, Ratzinger interpreti la dottrina escatologica della Lumen Gentium ed affermi che “l’ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla cristologia, ad essa legata”.40 Da tale affermazione si può trarre soltanto una conclusione: l’essere stesso della Chiesa è caratterizzato dall’autotrascendenza, propria della formulazione pasquale dell’ontologia.41 La Chiesa riguarda Dio, è uno spazio metafisico della durata storica dell’extasis dell’essere verso il mistero assoluto del Dio trinitario. Tale affermazione è sorprendente, dal momento che evoca ciò che abbiamo già scoperto alla base del carattere pasquale, cristologico dell’ontologia storica di Ratzinger. Come possiamo vedere ancora una volta, nel caso particolare dell’ontologia nell’ecclesiologia, l’essere storico della Chiesa può essere compreso appieno soltanto dando la priorità all’azione divina. Vi è una connessione diretta tra la priorità logica e ontologica della Chiesa universale e la priorità assoluta dell’azione divina e dei suoi effetti che hanno come risultato la priorità della storia sulla metafisica. Ancora una volta, l’ontologia, in questo caso il momento ontologico dell’ecunter dem Anspruch von Lumen gentium, Peter Lang Verlag, Frankfurt 2005, e S. Madrigal, Iglesia es Caritas: la eclesiología teológica de Joseph Ratzinger-Benedicto XVI , (Presencia Teológica, 169), Sal Terrae, Santander 2008. 40 J. Ratzinger, The Ecclesiology of the Constitution, 140. 41 Ibidem: “Poiché però nessuno può parlare correttamente di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si può parlare correttamente di Padre e Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia trinitaria (LG n. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa ouverture trinitaria, che offre la chiave per la giusta lettura dell’intero testo, noi apprendiamo che cosa è la Chiesa una, santa a partire dalle ed in tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa ‘Chiesa universale’. Questo si chiarifica ulteriormente quando successivamente viene mostrato il dinamismo interiore della Chiesa verso il Regno di Dio. Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teo-logicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso”.
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clesiologia, serve a proteggere la centralità dell’azione divina, del suo amore e della sua iniziativa di salvezza che non può essere generata, spiegata o ridotta a qualunque circostanza sociologica o storica. Paradossalmente, l’affermazione della priorità della Chiesa universale sulle Chiese particolari difende la priorità della storia sulla metafisica e, di conseguenza, l’assoluta priorità dell’essere e dell’azione di Dio sulla storia.
Conclusioni Per riassumere le mie argomentazioni, vorrei concludere ponendo l’accento sulle fonti filosofiche della teologia di Ratzinger. A mio avviso, Ratzinger non fonda la sua teologia su alcun sistema filosofico preesistente. La sua ontologia procede direttamente dalla sua formazione teologica. Secondo un’opinione accademica molto diffusa, il pensiero di Ratzinger è un esempio di platonismo in teologia. Vi sono argomentazioni che supportano tale tesi; per esempio, l’equazione in Ratzinger tra essere e pensiero come viene presentata nell’Introduzione,42 o la sua enfasi per quanto riguarda la priorità ontologica della Chiesa universale. A mio avviso, una tale interpretazione non rende giustizia al suo pensiero. La sorgente reale dell’ontologia di Ratzinger è la teologia e in particolare la teologia del tardo san Bonaventura. Lo possiamo constatare, come ho tentato di fare, nella sfera della sua ontologia pasquale e nel suo concetto estatico dell’essere e dell’esistenza, quasi onnipresente nei suoi scritti. Non v’è dubbio che la sua decisione a favore di una simile opinione ontologica ha molto a che fare con la logica interna alla teologia del Nuovo Testamento, che sottolinea la sua scoperta sotto la guida del Doctor Seraphicus. Ratzinger da Bonaventura non ha imparato alcun tipo di atteggiamento antifilosofico, che, peraltro, non esiste nel suo sistema. Ciò che ha imparato dai suoi studi su Bonaventura è una forte convinzione dell’importanza della rivelazione e della teologia, e della loro centralità per i credenti, e per 42
Idem, Einführung in das Christentum, (JRGS, 4), 72.
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la loro visione intellettuale e spirituale del mondo. Ratzinger non rifiuta la filosofia, ma questa non è nemmeno un punto fisso o decisivo all’interno delle sue soluzioni teologiche. Egli ritiene che tale punto sia l’incarnazione esemplare del modo cristiano di pensare, che ha trovato piena espressione nella Fides et ratio e la sua metodologia di circolazione. La sua decisione di reintrodurre la teologia, fondata sulla rivelazione, al centro stesso del pensiero cristiano oggi dovrebbe essere essenziale per la metodologia teologica. Tutti noi dobbiamo riconoscere il processo di secolarizzazione in corso che sfortunatamente riduce lo spazio della teologia e il suo impatto non solo nella cultura generale ma anche nella vita della Chiesa. La congiura postmoderna contro il logos è distruttiva non solo per la filosofia, ma anche per il cristianesimo. Uno dei maggiori effetti di tali processi è il cambiamento essenziale nella gerarchia dei loci theologici. In questo caso, gran parte della teologia contemporanea della rivelazione è stata declassata a una delle tante versioni di sorgenti uguali di pensiero e conoscenza. In un contesto del genere, seguendo Ratzinger, siamo invitati a ritornare alla priorità assoluta di quanto rivelato. Tale priorità non esclude né marginalizza i collegamenti esterni della teologia, e neppure la rende incapace di entrare in relazione con altre scienze. Per lo stesso motivo, non annulla l’importanza della filosofia né di altre scienze sociali o empiriche. La priorità del rivelato in teologia, la priorità del logos della rivelazione (inteso insieme come parola ed avvenimento storico) è la conditio sine qua non di qualsiasi serio dialogo con le fonti di conoscenza eterotopiche.43 Senza una simi43
H.-J. Sander, Das singuläre Geschichtshandeln Gottes – eine Frage der pluralen Topologie der Zeichen der Zeit, in P. Hünermann, B.J. Hilberath (eds.,), Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, Bd. 5: Die Dokumente des Zweiten Vatikanischen Konzils: Theologische Zusammenschau und Perspektiven, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2005, 134-144; Die Zeichen der Zeit und der Stadtbewohner Gott. Zur urbanen Topologie des christlichen Glaubens, in Pastoraltheologische Informationen 34 (2014-1), 37-50; Vom religionsgemeinschaftlichen Urbi et Orbi zu pastoralgemeinschaftlichen Heterotopien. Eine Topologie Gottes in den Zeichen der Zeit, in: Ch. Böttigheimer (Hg.), Zweites Vatikanisches Konzil: Programmatik – Rezeption – Vision, (QD 261), Herder, Freiburg-Basel-Wien 2014, 157-179; per un’e-
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le priorità, la teologia è destinata a cadere in uno sterile storicismo e contestualismo. Il nucleo più intimo del progetto di Ratzinger per la teologia come avventura intellettuale di fede riguarda la fusione del prae storico dell’azione divina, dell’autorivelazione divina e del pensiero ontologico serio basato su di esso. Il pensiero ontologico e quello storico sono interdipendenti. Tale fusione può avvenire soltanto quando si permette alla cristologia di occupare un punto centrale all’interno della teologia. Soltanto la cristologia in quanto essenzialmente connessa con e fondata sulla storia, solo la cristologia in quanto considerazione storica del particolare luogo storico in cui Dio ha manifestato se stesso, ci può offrire una via adeguata alla verità dell’essere. Ciò avviene grazie al Logos divino incarnato, Gesù Cristo, nel quale, in virtù dell’azione divina fondata sul suo essere eterno, la storia e la trascendenza, la natura e il soprannaturale, si incontrano, portandoci a comprendere (Verstehen) il Sinn der Welt und meines Lebens,44 il senso del mondo e della mia vita, dal difuori (struttura “esodale” dell’essere e del senso45 ). In Ratzinger, teologia della storia e ontologia pasquale sono elaborate non dall’alto o dal basso, ma dal centro della cristologia. Tale nuova comprensione dell’essere proviene da un particolare caso di unione tra divino e umano, che è accaduto proprio nel cuore della storia. L’ontologia pasquale allo stesso tempo deve essere storica e personale. In quanto tale, è aperta al dialogo con alcune versioni della sensibilità filosofica postmoderna, che si basano sulla priorità di particolari laborazione sistematica del concetto di topologia in teologia: Idem, Topologische Dogmatik, Matthias Grünewald, Ostfildern 2016. 44 J. Ratzinger, Einführung in das Christentum, (JRGS, 4), 81. 45 Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.41: “Il senso del mondo dev’essere al di fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-cosí è accidentale. Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo”.
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eventi della storia nella sua concretezza, e dà la priorità all’esistenza sulla metanarrazione. Sotto questa luce, è davvero possibile che il pensiero di Ratzinger sia la pietra miliare di una comprensione futura dell’essere e della storia che vada oltre un semplice storicismo o ontologismo.
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Ontologia e storia in Jean Daniélou Giulio Maspero (Pontificia Università della Santa Croce, Roma)
Introduzione Scriveva Joseph Ratzinger nella sua tesi di abilitazione: “ad una teologia e filosofia della storia si giunge, soprattutto, nelle epoche di crisi della storia umana”.1 Tale affermazione può fornirci una chiave di lettura dello “stare di fronte al mistero della storia” che accomuna il teologo tedesco e Jean Daniélou. Una domanda che ci può aiutare è: qual è la crisi di fronte alla quale loro si sono trovati e che rapporto ha con la crisi di fronte alla quale ci troviamo noi oggi? Secondo una possibile lettura la crisi che ha segnato tragicamente il sec. XX e che, quindi, ha occupato il pensiero dei grandi teologi che l’hanno attraversato è stata la traduzione a livello di esistenza concreta dell’uomo della dialettica tra essere e storia, tra essenza ed esistenza. Ciò può ricondursi alla perdita di una ontologia capace di pensare la relazione e quindi la differenza. Il riflesso sociologico della scomparsa di tale matrice teologica è stato evidenziato in modo magistrale da Pierpaolo Donati, in un volume che ha molto da dire ai teologi di oggi.2 La riduzione della relazione a quella sua patologia che è la dialettica ha portato all’incapacità di declinare la differenza, in quanto l’opposizione o tensione polare che caratterizza il pensiero di tutta la realtà, secondo
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“Zu einer Theologie und Philosophie der Geschichte kommt es vor allen Dingen in den Krisenzeiten menschlicher Geschichte” (J. Ratzinger, Die Geschichtstheologie des Heiligen Bonaventura, München 1959, 1). Cfr. P. Donati, La matrice teologica della società, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2010.
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Ontologia e storia in Jean Daniélou
la bella espressione di Guardini,3 forse di ispirazione anche per Papa Francesco,4 veniva spezzata in un aut-aut, che afferma uno dei termini della relazione a scapito dell’altro. Così per parlare del valore dell’uomo si vide necessario negare l’esistenza di Dio, per affermare la dimensione secolare e laicale sembrò ancora necessario sminuire la Chiesa e, più in generale, per mettere in evidenza la dimensione esistenziale e storica si negò il piano metafisico dell’essere. Tale soluzione può essere considerata la causa più profonda della crisi postmoderna contemporanea, nella quale l’incapacità di declinare la differenza si traduce nella negazione di ogni differenza e quindi nella liquefazione dell’identità dell’uomo e nella perdita della possibilità di affermarne il valore assoluto, cui consegue la scomparsa di un pensiero e delle parole atte a dire l’amore. Il desiderio più profondo di ogni cuore non trova più una cultura e un linguaggio che ne favorisca l’espressione e la realizzazione, per l’equivocità che le parole hanno assunto. Si tratta veramente di una situazione patologica, in senso psichiatrico, perché essa si presenta come un double-bind, cioè un doppio vincolo contraddittorio, che spezza l’identità della persona: oggi siamo di fronte a un super-io, per usare una terminologia freudiana, il quale ci ingiunge che dobbiamo assolutamente e necessariamente essere liberi, cioè che siamo obbligati ad esserlo, gettandoci in una contraddizione ontologica. Dall’essere si è passati al dover essere. Si tratta, quindi, proprio di una crisi metafisica, che cerca di evitare le differenze negandole, in quanto non riesce più a gestirle, e per questo finisce per moltiplicare le differenze stesse, creando sempre nuove frontiere, nuovi luoghi dove emergono differenze. Il confine tra uomo e donna, che non è più letto in chiave relazionale, viene tradotto in molti nuovi confini tra i diversi gender e così via per le religioni, le culture, la politica e i diversi aspetti che riguardano la vita dell’uomo.
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Cfr. R. Guardini, L’opposizione polare: saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 1997. Cfr. G. Maspero, Il tempo superiore allo spazio (EG 222): un principio teologico fondamentale per l’agire cristiano, «PATH» 13 (2014) 405.
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La tragedia causata da questa situazione consiste nel fatto che l’amore si fonda su una differenza, in modo tale che la negazione di ogni differenza produce l’incapacità di amare e, quindi, il fallimento del desiderio più profondo e umano di ciascuno. Tutto ciò può aiutare a cogliere la portata e l’attualità della posizione di Jean Daniélou di fronte al mistero della storia ed evidenzia un tratto notevole che lo accomuna a Joseph Ratzinger. In particolare, l’articolazione del rapporto tra essere e storia nel pensiero del grande gesuita francese non è dettato da una ricerca meramente erudita ma, alla scuola dei Padri della Chiesa, e di Gregorio di Nissa in particolare, offre all’uomo della nostra epoca una risposta efficace, quasi profetica, per fronteggiare la crisi in cui siamo immersi.
Gregorio di Nissa e Jean Daniélou a.
Essere e tempo
Proprio Gregorio di Nissa sembra costituire la fonte principale del pensiero teologico di Jean Daniélou, di fronte al mistero dell’essere e della storia.5 Basti questa citazione tratta dall’introduzione a Être et le temps chez Grégoire de Nysse, magnifico libro dedicato all’analisi terminologica di alcuni snodi fondamentali del pensiero nisseno, significativamente definito come “filosofia personale”: Questa filosofia personale ha due dimensioni essenziali. Anzitutto è una visione della relazione fra l’Essere (ὁ ὄντοως ὤν) e gli esseri (τὰ ὄντα). Tale aspetto ontologico è essenziale, in Gregorio. [. . .] La seconda dimensione, la più originale, è il tempo. Vedremo che l’intento più importante di Gregorio è il fare del cambiamento (τροπή) la caratteristica costitutiva dell’essere creato, qualunque sia. [. . .] Accanto ad una filosofia dell’Essere, il pensiero di Gregorio è una filosofia del tempo. E forse è l’unione di questi due tratti 5
Una bibliografia completa e attualizzata su Daniélou e la sua concezione della storia, si può trovare in F. Erlenmeyer, Das Geheimnis der Geschichte in Christus deuten, EOS, Sankt Ottilien 2016.
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Zeit und Sein (Tempo ed Essere), che è il legame fondamentale della sua sintesi.6
La citazione di “tempo ed essere” in tedesco è, ovviamente, un esplicito riferimento all’opera di Heidegger. Ciò rivela l’intenzione profonda di Daniélou, il quale studia i Padri proprio per rispondere alla domanda contemporanea sul valore dell’esistenza.7 La stessa definizione della teologia di Gregorio come filosofia dell’Essere e del tempo mostra un’impostazione fondamentale che presenta Cristo come risposta alla ricerca più profonda dell’uomo di ogni tempo, risposta che si dà nella storia, in modo tale che l’Assoluto si trova nel particolare, l’universale nel concreto,8 secondo la bella definizione di von Balthasar, il quale, a sua volta, chiamava la teologia del Nisseno “filosofia religiosa”. Il senso della ricerca di Daniélou e la ragione più profonda del suo stesso rivolgersi al grande Padre cappadoce si può rinvenire nella seguente citazione, che chiude l’introduzione a Essere e tempo: In conclusione, vorremmo dire che ci auguriamo che questo lavoro storico sia anche un contributo al rinnovamento del pensiero filosofico nel cristianesimo. L’opera di Gregorio ci sembra esemplare, sotto questo punto di vista, perché unisce l’arditezza della ricerca all’attendibilità della fede. Essa è in contatto con il pensiero del suo tempo, ma non ne è schiava. Conduce insieme al senso dell’Essere ed a quello della storia. Unisce la fiducia nell’attitudine dell’intelligenza a cogliere il reale, ed il senso del mistero inesauribile che il reale rappresenta riguardo a tutto ciò che può afferrarne l’intelligenza. E questo corrisponde a quello che tutti noi ricerchiamo oggi.9
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J. Daniélou, L’essere e il tempo in Gregorio di Nissa, Archeosofica, Roma 1991, 9. Florian Erlenmeyer collega questo atteggiamento anche direttamente alla biografia di Daniélou e definisce la sua prosepttiva “existentiell-heilgechichtlich” (F. Erlenmeyer, Das Geheimnis der Geschichte, 323) Cfr. H. U. von Balthasar, Présence et pensée: essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, G. Beauchesne, Paris 1942 e Teologia della storia: abbozzo, Morcelliana, Brescia 1969. J. Daniélou, L’essere e il tempo, 11.
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Rilettura ontologica
Daniélou rilegge il pensiero di Gregorio di Nissa sullo sfondo di tutta la storia della metafisica e la prima patristica, evidenziando che il tratto più caratteristico della novità che lo contraddistingue è una comprensione ontologica che non nega più il valore del tempo per affermare Dio, ma che trae le ultime conseguenze del fatto che lo stesso Ipsum Esse Subsistens è entrato nel tempo e ha definitivamente iniziato ad abitare la storia, una volta per tutte: L’idea di cambiamento è, in Gregorio, perfettamente positiva e rappresenta un contributo di valore alla teologia. Per Platone, in effetti, ogni cambiamento è un difetto e, se il mondo intelligibile è superiore al mondo sensibile, è precisamente in quanto esso è immutabile. Lo stesso Origene non sfugge a questa difficoltà: il cambiamento non è mai per lui altro che una degenerazione rispetto ad uno stato di perfezione iniziale. Ma con Gregorio l’equazione bene = immutabilità, male = cambiamento è invertita.10
La presa di coscienza di questa rivoluzione non è, però, ingenua. Il teologo francese può essere rapido nelle sue citazioni, ma è sempre rigoroso nell’elaborazione del pensiero. Egli sa che gli argomenti metafisici che avevano spinto i filosofi greci a identificare cambiamento e male, negando che Dio potesse avere a che fare con la storia, mantenevano la loro validità. Per questo egli non li disconosce, non va contro la metafisica classica, ma la estende, fedele al percorso dello stesso Gregorio di Nissa. Si tratta di un pensiero che evita sempre la dialettica per stare nella relazione. L’epistemologia teologica di Daniélou è relazionale, poiché accosta i diversi momenti del pensiero senza mai affermarne uno contro un altro. Le radici profonde di tale procedere sono trinitarie, in quanto Dio è tre Persone divine che sono assolutamente una unica sostanza eterna e infinita. Si ha un cambiamento radicale del quadro ontologico rispetto 10
Idem, nell’introduzione a M. Canévet, La colombe et la ténèbre: textes extraits des «Homélies sur le Cantique des Cantiques» de Grégoire de Nysse, Paris 1967, 13-14.
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al mondo classico: precedentemente si aveva un’unica ontologia finita ed eterna, alla quale appartenevano sia Dio sia il mondo con l’uomo. La differenza tra di loro poteva essere declinata solo in termini di una scala composta da livelli di densità metafisica discendente. Si pensi alla catena di motori che, secondo Aristotele, unisce al Motore immobile. I diversi gradi di questa scala sono connessi in modo necessario da cause seconde che permettono al pensiero di risalire fino alla causa prima. Da questa prospettiva il fine dell’uomo è sempre la felicità che si dà nella divinizzazione, quindi un fine che potremmo dire teologico, contro ogni artificiale separazione di teologia e filosofia. Ma tale felicità può essere conquistata partendo dal basso e con il solo pensiero. Il saggio, quindi il filosofo, può risalire verso l’alto. Nella prospettiva rivelata, invece, non si ha più un unico ordine ontologico, ma due diversi ordini ontologici: il primo eterno, che coincide con la natura della Trinità, cioè con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; il secondo creato insieme al tempo, per amore e liberamente, ad opera di Dio stesso. Da questa prospettiva l’esistenza del mondo ha come causa la volontà divina, in modo tale che il rapporto con Lui e il fine dell’uomo si possono dare solo come dono dall’alto nella relazione personale. Dio, che è tre Persone con le relazioni eterne e perfette che le distinguono, ha – anzi è – una ontologia che in parte è nuova per il metafisico greco, in quanto è conoscibile solo per rivelazione. In concreto, la relazione non è più considerata un mero accidente né l’entrare in relazione è legato a un deficit ontologico, ma la relazione stessa viene riletta in senso positivo, in quanto essa è nell’immanenza di Dio, il quale entra in relazione proprio perché è perfetto. A ciò si associa la presa di coscienza dell’attuale infinitudine divina. La chiara percezione dello scarto tra la prospettiva metafisica greca e l’ontologia richiesta dall’evento cristiano non può essere espressa più chiaramente da Daniélou: Ora, se consideriamo quel che erano il pensiero e la filosofia del mondo ove il cristianesimo è apparso vediamo ch’essi non erano affatto preparati a entrare in quella prospettiva e che anzi vi si opponevano con tutte le loro forze. Da una parte ci troviamo in presenza del pensiero greco, per il
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quale il divino è il mondo immobile ed eterno delle idee. Le leggi immobili del cosmo e della città sono il riflesso visibile di questa eternità del mondo intelligibile. Il movimento stesso è una imitazione di questa immobilità. Esso è infatti concepito come ciclico, sia nel movimento regolare degli astri quanto nell’eterno ritorno che regola il movimento della storia e secondo il quale i medesimi eventi si riprodurranno eternamente. Così la ripetizione fa partecipare il movimento stesso all’eternità del mondo delle idee e ne esorcizza ogni innovazione.11
Non è un caso se questo testo si trova nella sezione di apertura dell’Essai sur le mystère de l’histoire. Daniélou parte nella sua riflessione sul mistero della storia proprio dalla percezione della differenza ontologica tra il mondo greco e quello dei Padri. Per questo, nello stesso volume un capitolo fondamentale è dedicato a uno degli elementi più fondamentali del pensiero di Gregorio di Nissa: la akolouthia. c.
Akolouthia
Esso è un vero e proprio principio architettonico della teologia del grande cappadoce.12 Si tratta di un termine di origine aristotelica presente anche nella filosofia stoica, che indica la concatenazione di cause, che vanno ricercate per cogliere il senso profondo del reale, al di là delle apparenze più superficiali. La ricerca dell’akolouthia indica, dunque, lo studio propriamente scientifico, che indaga in primo luogo la logica di ciò che viene studiato. Per questo i significati più fondamentali sono quelli logici e cosmologici, comuni anche alle fonti filosofiche di Gregorio. Ma la novità rivelata spinge a non fermarsi all’indagine della catena di cause necessarie, che, come si è visto, caratterizzava l’immagine del rapporto Dio-mondo greca, ma di estendere la ricerca 11 12
J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1957, 11-12. Cfr. Idem, Akolouthia chez Grégoire de Nysse, Rev SR 27 (1953) 217-249 e L’être et le temps chez Grégoire de Nysse, Leiden 1970, 18-50. Per una bella e sintetica introduzione, si veda J.A. Gil-Tamayo, voce Akolouthia, in L.F. Mateo-Seco, G. Maspero (Edd.), Gregorio di Nissa. Dizionario, Città Nuova, Roma 2007, 49-55.
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alla connessione di cause libere, in base proprio alla rivelazione della volontà amorevole di Dio come origine ultima della natura e della storia. Per questo l’akolouthia svolge un ruolo fondamentale nell’esegesi nissena, in quanto ricerca del senso più autentico degli eventi narrati, al di là della superficie letterale. Non solo si dà una finalità intrinseca nel cosmo, ma nella storia stessa dell’uomo esiste una direzione, una linea di sviluppo al quale ciascuno è chiamato liberamente a tendere. E tutto ciò perché la provvidenza divina si fa carico di portare a compimento la storia, riempiendola non da fuori, ma da dentro, di un senso che, agli occhi di chi è in comunione con il Dio uno e trino, viene riconosciuto mediante la contemplazione come principio immanente di intelligibilità. Esso non è dunque solo estrinseco, né esclusivamente intrinseco, ma è dentro come dono dall’alto, è dentro venendo da fuori la storia, o meglio da sopra. Daniélou, rileggendo questa categoria nissena nel saggio dedicato al mistero della storia, evidenzia come tale dono permette di ricomprendere il senso stesso del mondo alla luce del suo fine ultimo che è la divinizzazione: Ma si tratti di vita o si tratti del cosmo, l’ἀϰολουϑία appare sempre in sostanza legata alla realtà del tempo. E in ciò sta in definitiva la sua importanza. Nessun mistero ha assillato tanto Gregorio quanto quello del tempo. Alla giuntura del pensiero greco con il pensiero cristiano, ne avverte da un lato la tragicità e la legge inesorabile; prova l’impazienza dei ritardi e l’ansia del ripetersi. Ma non risponde a questo dramma con l’evasione platonica fuori del tempo, ma con l’affermazione cristiana d’un senso del tempo che gli conferisce un valore positivo presentandolo come il luogo di un disegno divino.13
La dimensione dello spazio e del tempo, che è da Gregorio identificata con il segno distintivo della creatura, viene riletta alla luce del dono trinitario non più come limite, ma come traccia divina nell’uomo e nel mondo. Così, contemplando la storia, si possono scorgere due diversi tipi 13
J. Daniélou, Saggio sul mistero, 264.
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di akolouthia: uno necessario, legato alla natura, e uno più fondamentale e originario, che riguarda la libertà. L’uomo è creatura, finita e legata al tempo e allo spazio, ma il suo fine è l’unione nell’eternità con Dio infinito. Se si assume quest’ultimo punto di osservazione, ci si accorge, allora, che la storia del mondo è segnata dalla caduta del peccato originale, per la quale la libertà dell’uomo si è assoggettata alla necessità: la sua vocazione all’infinito si è lasciata intrappolare nei limiti materiali e animali. Ma il Creatore continua a prendersi cura della sua creatura e la successione dei suoi interventi nella storia costituisce una akolouthia il cui significato è, per Gregorio, analogo a quello di oikonomia, cioè di storia della salvezza. È quest’ultima ad assicurare che la storia possa sopravvivere sospesa sull’abisso del nulla, perché Dio si rende presente attraverso di essa e libera l’uomo dalle catene della necessità, attraendolo verso il movimento eterno per il quale è stato creato. Così l’aspetto più profondo dell’akolouthia è la sua capacità di rivelare la dimensione spirituale e il senso mistico della storia non solo dell’umanità, non solo di Israele, ma anche del singolo uomo, di ogni anima: Da una parte esiste una connessione (ἀϰολουϑία) tra gli eventi storici, dall’altra una connessione tra le realtà spirituali ed, infine, un parallelismo tra le due serie.14
La storia più vera è quella spirituale, quella che in sé è mistero non perché è ignota, ma perché è segnata da una realtà inattingibile in tutta la sua profondità. La ricerca del teologo coincide, così, con quella del mistico, che deve investigare i tratti che connettono gli eventi per riconoscere la trama che unisce il logos dell’uomo al logos di Dio. Per questo, secondo Daniélou, il tema dell’akoulouthia è intimamente connesso a un altro elemento fondamentale del pensiero nisseno, cioè il progresso perpetuo della vita spirituale. Anche in questo caso esiste un termine che lo esprime, portato in auge da Daniélou stesso: epektasis.
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Idem, in Grégoire de Nysse. La vie de Moïse, SCh 1, Paris 1968, 24.
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d. Epektasis Sembra importante ricordare qui che il Festschrift di Jean Daniélou porta come titolo proprio Epektasis.15 In effetti, la stessa presentazione del volume, firmata da Jacques Fontaine e Charles Kannengiesser, rinviene in tale espressione non solo la tensione dell’anima nell’eterna dinamica di unione con Dio, ma anche un ritratto di Daniélou come persona, l’homme même. Stando agli illustri direttori del volume, l’incontro tra il teologo francese e il Padre della Chiesa cappadoce non fu una questione meramente accademica e intellettuale, ma fu un centro privilegiato delle sue ricerche in quanto sorgente viva del suo pensiero e della sua azione. Epektasis potrebbe perfino descrivere il carattere e la silhouette del grande gesuita, veloce e appassionato nel parlare, profondamente attento alle persone concrete e teso in avanti per l’impazienza di andare sempre oltre, trascinato dalla sua forza intuitiva.16 L’epektasis può essere vista, dunque, come una cifra del pensiero e dell’esistenza del teologo francese fin dagli inizi della sua ricerca. La presentazione di questa categoria può essere considerata, infatti, il punto di arrivo dell’esplorazione della concezione spirituale nissena realizzata da Daniélou nella sua tesi dottorale, pubblicata nel 1944 con il titolo Platonisme et théologie mystique: doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse.17 L’espressione è ispirata alla formula paolina “dimentico del passato e proteso (ἐπεϰτεινόµενος) verso il futuro” in Fil 3, 13. Questo slancio verso Dio e, quindi, verso la storia e il mondo, che caratterizza il cristiano e si è manifestato in modo eminente nella vita di Paolo, indica, nel gioco delle preposizioni che qualificano il verbo greco teinô (estendersi), un doppio movimento metafisico: da una parte l’epi punta verso una autentica unione con Dio e la partecipazione della sua natura divina, C. Kannengiesser, J. Fontaine (eds.), Epektasis: mélanges patristiques offerts au cardinal Jean Daniélou, Beauchesne, Paris 1972. 16 Cfr. ibidem, p. v. 17 J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique: doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse, Aubier-Montaigne, Paris 1953. 15
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dall’altra l’ek significa la trascendenza divina, in quanto si ha sempre un oltre in questa partecipazione, non per un limite, ma per la perfezione e infinitezza del Partecipato.18 Daniélou legge chiaramente l’epektasis in chiave ontologica, collegandola, appunto, alla partecipazione e all’essenza del rapporto tra il Creatore e la creatura. Rispetto al mondo classico, non c’è più alcun bisogno di proteggere Dio, evidenziando ciò che lo distingue rispetto all’uomo, che di Lui è immagine degradata. Invece l’essere immagine è riconosciuto come perfezione. In questo è evidente il modo di procedere di Gregorio di Nissa, il quale risemantizza alcune categorie metafisiche per trasfigurarle in modo tale da poter esprimere attraverso di esse la novità ontologica rivelata. Daniélou è sempre particolarmente attento a questo cambiamento di significato del testo grazie alle relazioni generate dal contatto con il nuovo contesto. Si pensi a quanto scrive sul termine chiave per il platonismo immagine (eikôn): Esso designa una vera comunanza di “natura”. Tuttavia, esso implica un certo numero di distinzioni che gli usi non-cristiani del termine non offrivano. Applicato al λόγος, come già in S. Paolo (Col 1, 15, Cfr. Sap 7, 26), il termine εἰϰών non designa una partecipazione deficiente, ma la pura relazione di origine nella perfetta uguaglianza della natura: è un senso nuovo, legato al dogma trinitario.19
La novità è radicale, perché si giunge, in questo modo, alla sconvolgente affermazione che non solo Dio è infinito, cosa che già da sola sarebbe risultata empia nel contesto greco, ma che l’uomo stesso è infinito, pensiero addirittura folle dalla stessa prospettiva. Dio e l’uomo possono Cfr. Idem, in Gregorius Nyssenus, From Glory to Glory: texts from Gregory of Nissa’s mystical writings, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 1961, 59. 19 “Il désigne une véritable commaunauté de «nature». Toutefois il comporte un certain nombre de distinctions que n’offraient pas les emplois non-chrétiens du mot. Appliqué au λόγος, comme il l’est déjà chez saint Paul (Col 1, 15, Cfr. Sap 7, 26), il ne désigne pas une participation déficiente, mais pure relation d’origine dans la parfaite égalité de la nature: c’est un sens nouveau, lié au dogme trinitaire” (Idem, Platonisme et théologie, 53). 18
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essere messi sullo stesso piano perché si ha uno strumento che permette di declinarne la differenza in modo estremamente efficace, cioè la relazione. Questa trasforma la partecipazione platonico-aristotelica in senso positivo, permettendo la comunione come unione senza confusione. Perciò Daniélou può affermare: In effetti, per Gregorio, Dio e l’uomo fanno ugualmente parte del mondo intellegibile. In questo Dio e l’anima sono dello stesso ordine. Ma la differenza essenziale è che Dio è infinito in atto, mentre l’anima è infinito in divenire. La sua divinità consiste nel trasformarsi in Dio. Si comprende perché da questa prospettiva il progresso sia costitutivo per l’anima stessa. Infatti, se essa è un infinito in divenire, per essa la creazione deve necessariamente prendere la forma di una crescita, senza la quale questa sarebbe finita, caratteristica del mondo materiale. Così la grazia, che è questa perpetua aggiunta di nuovi beni, è precisamente l’epektasis, che la mantiene sempre rivolta verso oltre se stessa.20
Il punto centrale dell’interesse di Daniélou per la teologia di Gregorio sembra essere il percorso dell’anima nel processo di divinizzazione. Egli traccia le diverse tappe del cammino che conduce dalla purificazione alla luce e che, sorprendentemente, culmina nelle tenebre, perché la divinizzazione avviene nell’unione delle volontà e non solo nella conoscenza intellettiva, in quanto Dio rimane sempre al di là di ogni nostra capacità conoscitiva. Ma oltre alla scansione dell’ascesi, quello che colpisce il teologo francese è il valore del movimento stesso: proprio al culmine della divinizzazione non si ha una stasi, ma il desiderio permane, perché l’unione personale con Dio trasforma l’uomo rendendolo sempre più capace di accogliere il dono divino. Il desiderio stesso è quindi riconosciuto come dono, contemplato come ontologicamente positivo, e non più dalla prospettiva del deficit metafisico, secondo la dottrina del Simposio platonico. La percezione della trascendenza dell’ousia divina si traduce nell’identificazione della perfezione dell’uomo con un progresso continuo.21 20 21
Ibidem, 299. Ibidem, 292.
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Questo desiderio crescente viene colto come dono, in una profonda comprensione della rilettura nissena della metafisica platonica. Lo stesso linguaggio è reinterpretato in un contesto ontologico nuovo, dettato dalla Rivelazione trinitaria. E il contesto cambia il testo, le relazioni introducono un nuovo senso e, quindi, una nuova sostanza in una forma preesistente. La divinizzazione concepita dalla prospettiva di un Dio che è solo intelletto non può che essere nel suo compimento statica, escludendo il desiderio. Invece se Dio, oltre che intelletto, è anche volontà e amore, allora la divinizzazione si darà sempre dinamicamente nella relazione come desiderio crescente. Ogni punto di arrivo diventa, nella concezione nissena, punto di partenza di una unione più profonda, e così all’infinito: Arriviamo dunque alla conclusione che l’epektasis è la condizione stessa dell’anima. Non si tratta più di una tappa particolare della vita spirituale. Abbiamo dapprima considerato tale tensione come un fatto. Ora scopriamo che essa costituisce il ritorno stesso dall’anima alla sua vera natura. La sua essenza consiste nel riceversi interamente in ogni momento da Dio, d’essere perpetuamente creata, come dice meravigliosamente Gregorio. L’epektasis è la stessa ratifica da parte della volontà libera della sua condizione reale, il riconoscimento di ciò che essa è. Se questa è l’espressione della sua natura più profonda, non ci stupiremo di vedere Gregorio affermare come si tratti di una disposizione permanente, che si ritrova lungo tutta la vita spirituale e che persiste nella vita eterna.22
Questo testo di Daniélou è particolarmente profondo da un punto di vista teologico, perché mostra come storia e gloria siano in una sorta di continuità dinamica. La prospettiva nello stesso tempo personale e ontologica permette di rileggere il rapporto di unione con Dio come relazione dinamica e stabile nel tempo. È proprio la dimensione relazionale ciò che permette di raccordare essenza ed esistenza, essere e storia, superando i limiti della metafisica classica. Tale movimento costante diventa così espressione di compiutezza. Infatti, parlando di come Gre22
Ibidem, 299.
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gorio descrive Mosè e la sua perfezione in termini di disposizione stabile verso Dio, Daniélou scrive: Se noi cerchiamo la spiegazione ultima di questa situazione spirituale dell’anima, ci sembra che essa abbia il suo fondamento ultimo nella doppia relazione che essa ha con Dio, sotto il suo duplice aspetto di ousia impartecipabile e di dynamis partecipabile. Luce e tenebre, riposo e movimento, sobrietà ed ebrezza, piuttosto che due momenti successivi sono due aspetti complementari. L’uno, la luce e il riposo, corrispondono alla realtà della partecipazione; l’altro corrisponde alla trascendenza infinita dell’essenza. Lo stato mistico, nella sua realtà ineffabile, è precisamente l’essere la sintesi di questi due elementi apparentemente irriconciliabili. Il genio di Gregorio è il non aver sacrificato l’uno all’altro, di non aver abbandonato la realtà della partecipazione come hanno fatto i mistici del vuoto, un Eckhardt per esempio, né di averne minimizzato la trascendenza, come ha fatto Origene.23
Il movimento spirituale è così sintesi di cambiamento e continuità e l’epektasis è considerata da Daniélou il nome cristiano della prokopê platonica, analogamente a come agapê è il nome cristiano di erôs.24 Sembra che proprio qui si possa rinvenire il nucleo originario della concezione del rapporto tra essere e storia del grande francese. Nell’introduzione a From Glory to Glory, antologia di testi nisseni da lui scelti e tradotti da Herbert Musurillo, l’inversione dell’equazione tra male e mobilità o tra bene e immobilità viene esplicitata in termini di un doppio cambiamento, come già si è visto a proposito dell’akolouthia: uno negativo, che consiste in un semplice ritorno all’immobilità, cioè nella negazione del movimento stesso, o nella ricaduta nel ciclo dell’eterno ritorno che segna la necessità biologica e naturale; un secondo positivo, indirizzato verso Dio. In questo secondo, la perfezione consiste non nell’essere immutabili, ma nella possibilità di non essere distolti dal movimento di crescita costante nell’unione con Dio, di gloria in gloria, appunto, secondo un’espressione ancora paolina (cfr. 2Cor 3,18). La 23 24
Ibidem, 303. Cfr. ibidem, 305.
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perfezione dell’uomo non è, dunque statica, ma dinamica: “la perfezione è il progresso stesso”.25 Non un progresso identificato con un cambiamento continuo, piuttosto un cambiamento infinito verso il meglio, una crescita senza limite nell’unione ontologica con l’immensa Bontà che è Dio, il Quale, riversandosi nell’uomo, lo rende sempre più capace, e quindi lo mette in grado di accogliere in misura ancora maggiore il dono divino.26 Si è qui, dunque, a quello che sembra essere l’origine del nucleo centrale di tutto il pensiero e il metodo di Daniélou: la possibilità di unire essere e tempo, storia e verità, si fonda proprio su una comprensione ontologica dell’essere e della storia stessi, una comprensione elaborata a partire dalla Rivelazione cristiana in modo tale da modificare ed estendere la metafisica classica. Un movimento senza ontologia finirebbe per dissolvere l’esistenza, relativizzando ogni cosa. Il valore dell’uomo stesso e della persona rimarrebbero sospesi sul nulla. Invece una comprensione ontologica della relazione tra l’uomo e Dio fondata non solo sull’infinitudine divina, concepita pure dalla modernità, ma anche sulla realtà del dono e della partecipazione al Suo essere, porta a una sintesi originale, che pare offrire una indicazione di sviluppo preziosa per l’uomo contemporaneo immerso nella crisi postmoderna. Questa è, infatti, nel suo nucleo più profondo una crisi metafisica, perché la reazione dell’esistenza contro l’essenza ha portato a una liquefazione dell’io, cioè di quello stesso soggetto il cui valore assoluto è stato colto solo grazie alla Rivelazione cristiana e allo sviluppo del pensiero teologico e trinitario in particolare.
25 26
Idem, in Gregorius Nyssenus, From glory to glory, 52. Cfr. ibidem, 46-56.
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Teologia della storia a.
Il di dentro ontologico
Per quanto detto non sorprende il riconoscere nel pensiero di Daniélou la presenza di un’autentica teologia della storia, da lui definita come quella parte della teologia che si occupa della caratteristica specifica ed immutabile dell’agire divino nella storia. In questo senso si tratterebbe di una disciplina enormemente vasta, che ha come oggetto l’insieme di tutto il tempo dell’uomo, del quale si cerca di individuare il senso.27 Si possono qui leggere sullo sfondo le categorie nissene di akolouthia e di epektasis. La stessa teologia cappadoce è accostata a quella agostiniana sotto la qualifica di “due grandi teologie della storia”,28 dove a Gregorio di Nissa è riconosciuta una attenzione particolare alla storia personale dell’uomo e alla libertà umana, mentre l’Ipponate evidenzierebbe maggiormente la storia generale e l’azione di Dio. Da questa prospettiva le due teologie sarebbero complementari.29 L’elemento patristico è, quindi, alla base della concezione ontologica della storia di Daniélou. Egli rinviene le origini di una teologia della storia in Ireneo, cui farebbe capo una tradizione specifica asiatica importante nel pensiero di Gregorio. L’elemento fondamentale individuato nelle opere del vescovo di Lione sarebbe il riconoscimento del ruolo pedagogico della legge divina, che ora cessa di venire connessa al peccato per essere accostata all’oikonomia, quindi al progressivo succedersi degli eventi salvifici.30 La riscoperta della storia della salvezza e la teologia della storia patristica sarebbero, dunque, intimamente legate tra loro.31 Idem, Geschichtstheologie, LThK, 795 Idem, «La typologie de la semaine au IVe siècle», Recherches de science religieuse 35 (1948) 383. 29 Cfr. Idem, Saggio sul mistero, 274. 30 Cfr. Idem, «Saint Irénée et les origines de la théologie de l’histoire», Recherches de science religieuse 34 (1947) 229. 31 Anche Ratzinger riconosce il ruolo dello studio dei Padri della Chiesa nel recupero di una grammatica teologica che potesse dare autentico valore alla Heilsgeschichte: “Für die katholische Theologie handelt es sich dabei um ein ziemlich junges Problem, 27
28
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É nel già citato Essai sur le mystère de l’histoire dove, nel 1953, Daniélou fa confluire il suo pensiero sulla storia impregnato dello studio dei Padri e del cristianesimo primitivo, che lo aveva impegnato dall’edizione della tesi di dottorato su Gregorio di Nissa nel 1944, passando per il volume su Origene32 del 1948 fino a quelli sull’esegesi patristica33 e i simboli cristiani34 tra il 1950 e il 1951. Nello studio del mistero della storia appare subito la profondità teologica della prospettiva, che si presenta chiaramente in contrasto con gli approcci storicisti e meramente esistenzialisti: Per il cristiano ciò che si edifica nella storia non è soltanto una società umana, ma un destino divino dell’uomo [. . .] È il cristianesimo a fare la vera storia.35
La modalità espressiva pare quasi una sfida lanciata contro ogni riduzionismo. Lo sguardo del teologo, affinato alla scuola dei Padri, supera ogni forma di dialettica, per ricercare il di dentro degli eventi, cioè quella dimensione segnata dalla presenza divina: La storia del mondo, nel senso cristiano della parola è essenzialmente la Storia sacra, quella delle grandi opere di Dio attraverso il tempo, nel quale con la potenza irresistibile del suo spirito creatore, egli costruisce l’umanità autentica, la Città eterna. Se vogliamo quindi trovare il senso della storia cristiana, bisogna sapere oltrepassare la storia apparente ed esteriore, per auch wenn die dahinterstehende Sache einfach von der Struktur des Christlichen her, das als Botschft von Gottes Handeln in der Geschichte auftrat, immer in irgendeiner Form anwesend war und im Zueinander von οἰϰονοµία und ϑεολογία, von dispositio und natura, sogar im Zentrum des Bedenkens der christlichen Wirklichkeit bei den Kirchenvätern steht”. (J. Ratzinger, Heilsgeschichte und Eschatologie, in Theologie im Wandel, München 1967, 68) 32 J. Daniélou, Origène, La Table ronde, Paris 1948 33 Cfr. Idem, Sacramentum futuri, Études sur les origines de la typologie biblique, Beauchesne, Paris 1950 e Bible et liturgie, la théologie biblique des sacrements et des fêtes d’après les Pères de l’Église, Cerf, Paris 1951. 34 Cfr. Idem, Les symboles chrétiens primitifs, Seuil, Paris 1951. 35 Idem, Saggio sul mistero, 91.
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penetrare quella reale, che si costruisce nelle profondità dell’uomo e della quale solo lo Spirito Santo può darci intelligenza.36
Daniélou riconosce così che ci sono due storie, quella fatta dagli uomini e quella portata avanti da Dio, il quale è entrato nella storia stessa e si è fatto carne una volta per tutte. Si nota subito la prospettiva ontologica di questa teologia della storia, che si basa sull’Incarnazione e sull’irrevocabilità della presenza divina nel tempo: Vi è in ciò qualcosa di irrevocabilmente acquisito. Nulla potrà mai più dividere la natura umana dalla divina. Nessuna ricaduta è più possibile. L’umanità è sostanzialmente salva. Rimane il problema dell’estensione agli individui di ciò che è acquisito per la natura intera. Abbiamo qui dunque un avvenimento che introduce un cambiamento qualitativo, definitivo nel tempo, tale che non si potrà mai più ritornare indietro.37
Rispetto alla concezione statica e ciclica greca, il cristianesimo introduce il principio dell’hapax, cioè di eventi che non solo costituiscono novità assolute, ma che permangono in modo definitivo, che abitano stabilmente la storia, unendola all’eternità, come nel raccordo tra tempo e gloria che caratterizzava l’epektasis: “La storia santa è fatta di inizi assoluti che poi restano eternamente acquisiti”.38 Ciò si scontra con la concezione metafisica dell’uomo che conosce solo due categorie di realtà fondamentali: quelle che non hanno né inizio né fine e ciò che ha inizio mai poi termina, cioè si corrompe. Nel mondo greco tale distinzione è articolata fondamentalmente nell’opposizione tra enti intellegibili e corruttibili. Qui si inserisce la novità scandalosa della Rivelazione: Ma la nozione di realtà che cominciano e non finiscono, è uno scandalo per la ragione umana e appare come specificamente cristiano.39 Ibidem, 91-92. Ibidem, 12. 38 Ibidem, 13. 39 Ibidem. 36
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In questa realtà ontologica consiste il cuore del mistero della storia, che come l’ordito sostiene le trame degli eventi da dentro. Dentro il tempo si ha un fondamento reale assicurato da Dio stesso, che sostiene lo svolgimento delle esistenze, conferendo loro un valore trascendente. La questione è ontologica, appunto, e investe seriamente l’epistemologia teologica. Il metodo stesso della teologia della storia può essere così descritto: Esso consiste nell’applicare princìpi biblici a problemi cui la Scrittura non li aveva esplicitamente applicati.40
Posto che le promesse di Dio sono irrevocabili e posto che l’infedeltà dell’uomo non può nulla di fronte all’hapax divino, in quanto l’uomo stesso può sottrarsi al beneficio, ma non può far sì che le promesse siano revocate, è allora possibile contemplare tutta la storia alla luce di questa presenza, di questo di dentro ontologico, che è il mistero di Cristo. Anzi, la storia è tale solo a partire dall’unità che promana dall’Incarnazione, Morte e Risurrezione di nostro Signore. Così è la forza della Croce stessa a rendere la storia tale. Per questo la Croce deve assurgere a criterio epistemologico fondamentale perché si possa conoscere la storia. b.
Cristo come Eschatos
Tale lettura della storia come unità fondata sulla Croce viene articolata da Daniélou in tre momenti, che emergono nella teologia della storia da lui tracciata sullo sfondo della filosofia greca e della tradizione ebraica: 1) il primo è la presenza di eventi straordinari e irrevocabili, cioè di un’autentica novità che la concezione metafisica classica non poteva accettare. 2) Il secondo è il legame che unisce tali avvenimenti tra di loro, la continuità che li contraddistingue e che assume una rilevanza particolare nel confronto con l’ebraismo, in quanto viene riconosciuto 40
Ibidem.
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un valore a ciò che lo contraddistingueva, ma nello stesso tempo il progresso della pedagogia divina ne segna anche il superamento nella rivelazione cristiana. La polemica con i giudaizzanti e il pensiero di Paolo sarebbero fondamentali in tale presa di coscienza, che esegeticamente si traduce nel valore assegnato alla tipologia. Questo elemento metterebbe anche in evidenza la differenza essenziale tra cristianesimo ed esistenzialismo, in quanto mostrerebbe come non siano sufficienti le decisioni del singolo perché si possa parlare di una storia significativa, ma serve una dimensione più grande, un elemento che permetta l’unità degli eventi e delle decisioni.41 3) Infine, oltre ad evento e progresso, si ha un terzo elemento nella visione della storia cristiana, elemento che consiste nel termine del progresso stesso, cioè nella sua realizzazione escatologica.42 Da questo punto di vista la dimensione ontologica della teologia della storia del gesuita francese si fonda sulla sua cristologia ontologica, in quanto egli evidenza come il compimento del tempo non sia un eschaton ma un eschatos,43 cioè la Persona stessa del Cristo. In consonanza con Cullmann, si può dire che tutto è già accaduto in Lui, in quanto Lui è l’eschatos già presente in sacramento nel tempo. Si scorge qui la forza del termine mistero, il quale acquista una valenza propriamente sacramentale, che permette di risalire dall’economia all’immanenza. In tale prospettiva si può dire: La salvezza non è più soltanto promessa, ma donata, ed attesa ne è soltanto la manifestazione.44
La salvezza è dunque ontologicamente presente nella storia e l’escatologia non è solo qualcosa che riguarda il futuro e che darà risposta Cfr. ibidem, 14. Cfr. ibidem, 16-17. 43 Cfr. Idem, Christologie et eschatologie, in Das Konzil von Chalkedon III, (A. Grillmeier – H. Bacht Eds.), Würzburg 1954, 269-286. 44 Idem, Saggio sul mistero, 19. 41
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alla domanda dell’uomo, ma è qualcuno che è già presente. Alla luce di ciò, in modo paradossale e provocatorio, Daniélou arriva a dire che chi rischia di essere in ritardo non è il cristiano, ma il mondo moderno, perché Cristo viene dal futuro ed è già presente nel presente.45 Tale presenza divina nel tempo dell’uomo segna una discontinuità che relazionalmente – e non dialetticamente – distingue senza separare e unisce senza confondere. Le religioni pagane non sono realtà estranee al cristianesimo, in quanto esprimono il desiderio di Dio insito nel cuore di ogni uomo e, nonostante alcuni loro limiti o deformazioni, sono positive. Nello stesso tempo il precursore, nel momento in cui non riconosce la presenza di chi annunciava, può diventare persecutore. Ma, dal punto di vista della teologia della storia, è sempre possibile, accostando, relazionalmente appunto, le diverse realtà religiose con i punti di contatto che le caratterizzano, individuare la novità propria del cristianesimo rispetto alla religioni pagane e all’ebraismo. I miti e i riti delle religioni primitive, infatti, erano legati al tempo ciclico e alla necessità, che esclude la realtà di veri nuovi eventi. In questo modo non è possibile concepire, da tale prospettiva religiosa, una vera storia. Nel caso ebraico, invece, si ha autentica novità nell’incontro con Dio che si fa presente nella storia in momenti determinati. I sacramenti – come la Pasqua ebraica – svolgono, quindi, essenzialmente la funzione di ricordare l’intervento divino, per attualizzare la fede in Lui. I sacramenti cristiani, infine, sono sempre memoriale, ma essi ora hanno una densità ontologica che potremmo dire infinita, in quanto rendono presente Dio nella storia. I sacramenti della nuova Alleanza sono unione di eternità e tempo, relazione con l’Assoluto e con l’escatologia stessa.46 Si vede come la dimensione ontologica è ancora una volta la chiave della teologia della storia di Daniélou, che in base ad essa giudica anche le teologie della storia del XX secolo. Il teologo francese attribuisce il rinnovamento del pensiero teologico sulla storia alla reazione contro la secolarizzazione e propone tre cause principali di tale sviluppo positivo: 45 46
Cfr. Idem, Orazione problema politico, Arkeios, Roma 1993, 119-121. Cfr. Idem, Miti pagani, mistero cristiano, Arkeios, Roma 1995, 30-34.
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a) il pensiero escatologico; b) la teologia biblica; c) il ritorno ai Padri. Mentre Barth, con la sua attenzione al primato dell’azione di Dio, si può situare in questa prospettiva storico-teologica, invece i sistemi di Bultmann e Tillich, secondo Daniélou, la contraddicono a causa della riduzione antropologica della loro concezione di storia. A Barth manca una percezione piena della interconnessione dei diversi momenti in cui Dio interviene nel tempo e del valore della storia profana. Tali limiti non si riscontrano in Cullmann, il quale apre la strada ad una autentica concezione della storia della salvezza grazie alla sua comprensione profonda dell’Incarnazione e di come questa sia in relazione con l’insieme della storia. Tra gli autori cui Daniélou attribuisce una posizione rilevante per la teologia della storia si contano anche G. Thils e P. Teilhard de Chardin, per il valore positivo da loro riconosciuto al mondo.47 Infatti, nella prospettiva ontologica del gesuita francese, la storia della salvezza non è più cronologicamente limitata ad alcuni eventi, ma tutto il tempo viene trasfigurato come luogo di incontro con Cristo: La storia sacra non è soltanto quella che costituisce i due Testamenti. Essa continua in mezzo a noi. Noi viviamo in piena storia sacra. Dio continua a portare a compimento le sue grandi opere, quelle della conversione, della santificazione delle anime.48
Come già in Gregorio di Nissa, la storia della salvezza viene riconosciuta nella sua dimensione personale e tocca la vita di ogni uomo, fino al punto che è possibile parlare di una mutua immanenza tra le due.49 La sintesi di essere e tempo, che caratterizza la lettura di Daniélou ed è comunicata dalla sua forza espressiva, permette quasi di “vedere” tale mutua immanenza: Per il cristianesimo la storia è sostanzialmente decisa e l’avvenimento essenziale è al centro, non alla fine [. . .] I grandi eventi del mondo presente sono dunque gli atti sacramentali. Essi sono cosa assai più grande delle Cfr. Idem, Geschichtstheologie, LThK, 796. Idem, Saggio sul mistero della storia, 20. 49 Cfr. ibidem, 24-25. 47 48
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grandi opere del pensiero o della scienza, delle grandi vittorie o delle rivoluzioni. Queste riempiono la storia reale. Esse sono grandezze nell’ordine dei corpi. Ma i sacramenti sono grandezze nell’ordine della carità.50
La storia è contemplata non solo come un cammino che si snoda verso l’incontro definitivo con Cristo, ma anche come irradiazione dal centro cristico a tutti i tempi, irradiazione che di realizza ontologicamente nella liturgia e nella vita sacramentale. Queste diventano i criteri ermeneutici dei diversi accadimenti. Si comprende perché, per il teologo francese, il dogma di Calcedonia è centrale. Per quanto si possa comprendere l’accusa di staticità metafisica che è stata rivolta dalla teologia contemporanea a tale momento dottrinale, quando lo si considera dalla prospettiva dell’ontologia patristica che caratterizza lo sguardo di Daniélou, se ne scopre la portata dinamica ed esistenziale. Il teologo francese giunge a scrivere: “Il dogma di Calcedonia dona consistenza al tempo, e lo trasforma in storia”.51 Cristo è presente nella storia – dinamicamente presente – in modo tale che si può parlare di tale presenza come Dasein,52 in riferimento ancora a Heidegger e all’esistenzialismo. La vera risposta a questa filosofia è, dunque, l’Essere di Cristo stesso. In Lui, infatti, confluiscono due linee distinte: quella di Gesù, Figlio dell’uomo, riconosciuto come Messia, e quella del Figlio di Dio, cioè una cosa sola con Yahwe. Gli interventi divini che avevano caratterizzato l’Antico Testamento e le genealogie che riconnettono Gesù di Nazareth ad Adamo e ad Abramo, confluiscono nella formula dogmatica di Calcedonia, che parla del Cristo, appunto, vero Dio e vero uomo, ontologicamente vero Dio e ontologicamente vero uomo. Infatti, l’attenzione all’umanità che caratterizzava la scuola di Antiochia da sola non bastava, e nemmeno era sufficiente la prospettiva della salvezza evidenziata dalla scuola di Alessandria. Ci voleva, invece, una sintesi, se così
Ibidem, 94. Ibidem, 202. 52 Cfr. ibidem, 203. 50 51
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si può dire – ma non in senso hegeliano – che diventasse fondamento ontologico della relazione tra la Trinità e l’uomo, ogni uomo: Solo la determinazione della cristologia permette di comprendere il vero significato della teologia della storia.53
Infatti, l’unità che la caratterizza si fonda sull’unione ipostatica nella quale la storia stessa viene messa in contatto con l’unità che sgorga dalla Trinità. Ciò implica una comprensione “sacerdotale” della storia. Il suo senso più profondo, infatti, il suo mistero, è la restituzione al Padre del mondo e della storia interi portata a compimento dal Cristo: Il Cristo riunisce in sé tutto. È centro e cuore della intera creazione. Eterno Sommo Sacerdote, è lui che tutta la creazione attraversa nel suo ritorno verso il Padre. Nell’eterno movimento di ritorno verso il Padre, Cristo porta tutto in qualche modo con sé, come in un corteo trionfale: restituisce così al Padre la creazione che era fatta per il Padre ma che se ne era allontanata.54
Il tema è caro ai Padri, e a Gregorio di Nissa in particolare, nel loro commento a 1Cor 15, 26: Cristo sottomette ogni cosa al Padre. Egli non è Sacerdote prima dell’incarnazione né grazie solo ad alcuni eventi concreti come il Battesimo o l’Ascensione. Ma è Sacerdote nell’unione ipostatica, ontologicamente Sacerdote, fin dal primo momento dell’Incarnazione.55 E proprio tale unione tra il tempo e l’eterno è il fondamento del mistero della storia, di tutta la storia, che è diventata una volta per tutte storia di Dio, nel senso che in Cristo, vero Uomo e vero Dio, tutta la storia è portata a Dio: L’Incarnazione di Cristo significa dunque che qualche cosa ha inizio che prende possesso di tutto l’avvenire. Qui si pone in luce, si può dire, uno dei caratteri più paradossali del tempo cristiano. Con l’Incarnazione l’opera di Dio nella creazione è condotta dunque al suo termine.56 Ibidem, 208. Idem, La Trinità e il mistero, 63. 55 Cfr. Idem, Saggio sul mistero della storia, 212. 56 Ibidem, 209. 53
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Nella lettura di Daniélou, allora, il mistero della storia dipende dal mistero di Cristo, cioè dal mistero della presenza di Dio in essa. In questo modo il mistero della storia è riflesso del mistero trinitario e della realtà delle missioni divine.
Trinità e storia a.
La dinamica trinitaria
Jean Daniélou non è un teologo dogmatico, per questo il suo pensiero trinitario non è formalizzato e tematizzato in modo sistematico. Eppure, l’intensità della sua connaturalità con i Padri e la profondità della sua comprensione del rapporto tra filosofia e teologia sono alla base di una ricchezza estrema anche da tale prospettiva. Ad esempio, sia in Dieu et nous del 1956, sia in La Trinité et le mystère de l’existence del 1968, si trovano pagine veramente pregevoli a proposito della Trinità. In particolare, quest’ultimo breve scritto costituisce degli esercizi spirituali predicati dal gesuita al Cercle Saint-Jean-Baptiste, da lui fondato. La densità dogmatica del pensiero è evidente. Punto di partenza è l’inconoscibilità di Dio nella sua dimensione trinitaria, perché “La vita trinitaria non ha alcun bisogno di essere partecipata”57 e “Dio soltanto può introdurci nel mistero di Dio”.58 Si tratta dell’apofatismo, traduzione gnoseologica della distinzione dei livelli ontologici introdotta dal pensiero cappadoce e fondamentale per una corretta epistemologia teologica. Per questo la conoscenza autentica della Trinità si può raggiungere solo nell’umiltà: Non c’è che una via d’accesso alla conoscenza del mistero di Dio, l’umiltà totale, che ci fa prendere coscienza della nostra intera e radicale impotenza.59
Idem, La Trinità e il mistero, 41. Ibidem, 30. 59 Ibidem. 57 58
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Per questo si parla propriamente di mistero della Trinità e per questo bisogna parlare di mistero della storia, in quanto il senso ultimo di essa è proprio nell’Essere trinitario. Infatti la creazione ne è riflesso, così come la storia si può pienamente contemplare solo alla luce dell’Eterno. Si tratta dunque di un limite che, paradossalmente libera, di un’oscurità che illumina: Non che la incomprensibilità di Dio dipenda da qualche sua opacità o oscurità: dipende proprio, al contrario, dal fatto che Dio è pienezza di luce, pienezza di esistenza, pienezza di vita; dipende proprio dalla intensità della esistenza di Dio, dalla sovrabbondanza della sua vita. È al di là della nostra portata perché le nostre forze sono troppo limitate, gli occhi della nostra anima sono troppo deboli per poter sopportare quella luce. Mistero non vuol dire inintelligibilità in Dio: indica, al contrario, la pienezza dell’essere divino che è al di là della nostra portata.60
Infatti, “un Dio che fosse completamente intelligibile all’uomo non potrebbe certo essere il vero Dio”,61 invece egli è quell’inintellegibile che rende ogni cosa intellegibile: la catena di cause necessarie lungo la quale il pensiero filosofico faticosamente risale, si ferma di fronte al salto ontologico assoluto che separa il Creatore dalla creatura. Solo una autentica conversione permette di riconoscere nella contemplazione la grandezza della vita divina sotto il velo delle apparenze. Infatti il peccato trattiene sempre nella sfera più superficiale, quella di ciò che appare. Invece, grazie alla relazione personale con le tre Persone divine si scorge la realtà del creato stesso: Santuario celeste, santuario ecclesiale, santuario interiore in cui la Trinità dimora: è il santuario in cui siamo misteriosamente introdotti dalla familiarità con Dio. Dio allora ci si manifesta nella sua interiorità. Quella realtà che da fuori ci appariva con il peso schiacciante della gloria – una gloria abbagliante – ci si rivela ora come la realtà delle Persone. La rivelazione – rivelazione del vangelo o luce interna della grazia – ci fa scoprire che l’abisso misterioso della vita divina ha un volto: non è una realtà impersonale, 60 61
Ibidem, 32. Idem, Dio e noi, Rizzoli, Milano 2009, 55.
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un assoluto filosofico, ma è qualcuno. Possiamo entrare in relazione con lui. Dio è colui cui possiamo dire ‘tu’: Tu sei il mio Dio; con cui possiamo stabilire quella relazione interpersonale che è l’amore; un Dio cui ci possiamo rivolgere e che ci ascolta; un Dio che in maniera del tutto trascendente, ma assolutamente reale, possiede eminentemente ciò che sul piano umano costituisce la vita personale, ciò che di un essere fa una persona con cui si può stabilire un rapporto. Possiamo allora scoprire nella profondità di Dio ciò che ci rende possibile la comunicazione con lui: quel complesso di relazioni che costituiscono l’essenza della vita spirituale specificamente cristiana.62
Anche questo testo presenta una grande profondità teologica, perché afferma che la ragione della possibilità di entrare in relazione con Dio, cioè il logos di questa relazione che fonda tutta l’economia e la storia della salvezza, è l’immanenza stessa di Dio con le relazioni eterne che la costituiscono. La relazione con Dio è possibile perché Dio in sé è relazione, dove l’espressione in sé ora non indica solo la sussistenza, ma anche l’immanenza divina, cioè il Mistero della sua vita di conoscenza e di amore. Il mistero della storia dell’uomo si fonda, dunque, sul mistero che è la storia della salvezza, anche nella sua dimensione sacramentale e liturgica, che a sua volta si fonda su quel Mistero fontale che è la Trinità stessa. È proprio questa comprensione ontologica del dogma ciò che permette a Daniélou, come già prima era successo a Gregorio di Nissa, di centrare la sua attenzione teologica non solo sulla storia, ma in concreto sull’esistenza; non solo sulla storia generale, ma anche su quella personale. Il mistero della storia è il cuore dell’uomo e la sua relazione con il Mistero stesso che è Dio. Da qui nasce la possibilità di contemplare l’unità della storia e il suo valore in ogni momento, in ogni vita. Da qui deriva una concezione capace di riconoscere pienamente il valore delle religioni pagane senza ridurre il cristianesimo a una manifestazione tra le altre del divino e il dogma a un semplice momento di inculturazione. Da qui la necessità di recuperare il valore della filosofia come momento 62
Idem, La Trinità e il mistero, 34-35.
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della ricerca della salvezza da parte dell’uomo e, quindi, preparazione all’incontro con Cristo e momento indispensabile del pensiero che nasce da questo incontro. Da qui una concezione della missione come dialogo con l’uomo concreto e con la cultura contemporanea. b.
Ontologia trinitaria
La forza della lettura teologica del gesuita francese sembra, dunque, essere la capacità di articolare il rapporto tra economia e immanenza, riproponendo l’architettura del pensiero cappadoce e nisseno in particolare: l’economia è la manifestazione della teologia e attraverso questa epifania della vita trinitaria l’uomo intravede qualcosa della sua esistenza eterna.63
Il punto di partenza della considerazione della creazione, e quindi della storia, deve allora essere la vita intratrinitaria, concepita in senso propriamente dinamico: Il movimento della Trinità è prima un movimento di comunicazione nel Figlio e poi di raccoglimento nello Spirito; il ritmo della vita trinitaria consiste in questo doppio movimento di dono e di ritorno.64
Tale “ritmo” immanente è la sorgente della comunicazione divina, che a sua volta è scandita dallo stesso ritmo, come aveva già intuito Ireneo. Quello che è essenziale è affermare la possibilità concreta di entrare in relazione nel tempo con ciascuna Persona divina: Il fondo della rivelazione cristiana dice che la realtà assolutamente prima è quella delle persone in reciproca adesione e comunicazione; che la comunione delle persone è il fondo e l’archetipo di ogni realtà, cui tutto si deve di conseguenza configurare. Perciò la comunione umana è sospesa alla comunione trinitaria.65 Idem, Dio e noi, 122. Idem, La Trinità e il mistero, 42. 65 Ibidem, 37. 63 64
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Tale dialogo dell’uomo con la Trinità è il fondamento ultimo e più vero di tutto ciò che è ed in particolare della comunione umana, che viene riconosciuta come realtà ontologicamente più densa del reale. Si tratta qui proprio di un esercizio di ontologia trinitaria, in quanto la creazione viene letta alla luce della dimensione trinitaria del Creatore. Per Daniélou, “Il mondo in cui viviamo è in realtà un mondo pieno della Trinità”66 in quanto “Ogni creatura è partecipazione all’essere del Verbo”.67 Per questo, “Nella Trinità ci si svelano le ultime profondità del reale, ci si svela il mistero dell’esistenza”.68 La storia e la creazione sono contemplate da dentro la Trinità, a partire dal Mistero di vita che lo contraddistingue, in modo tale che il di dentro della storia, degli eventi e delle vite degli uomini è radicato in alto, nell’eternità: Le missioni divine sono un irradiamento – con ripercussione nel mondo creato – di ciò che prima si compie perfettamente ed interamente in Dio.69
La storia è, dunque, ancorata nel Cielo, per citare una bella immagine da Eb 6,19, ripresa da Rémi Brague.70 Ma la dottrina classica della corrispondenza tra le le missioni e le processioni è presentata da Daniélou con un accento originale, che probabilmente gli deriva dalla sua base patristica, perché pare mettere sempre in particolare evidenza la missione come partecipazione alla relazione eterna: Tocchiamo così le radici stessa della vita spirituale che è sempre una misteriosa partecipazione – al di là della missione – alle relazioni eterne delle persone: questa è la realtà ultima, e la vita della grazia consiste nel partecipare misteriosamente alla eterna fecondità della vita di Dio.71 Ibidem, 17. Ibidem, 58. 68 Ibidem, 9. 69 Ibidem, 67. 70 Cfr. R. Brague, Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica, Vita&Pensiero, Milano 2012. 71 J. Daniélou, La Trinità e il mistero, 52. 66 67
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Così la totalità del disegno di Dio è la “storia delle missioni”, che sono un “riflesso delle relazioni eterne tra le Persone”:72 Bisogna sempre considerare le missioni delle Persone divine come un prolungamento delle relazioni eterne.73
Il mistero della storia è questo, la presenza della Trinità in essa. Il mistero dell’esistenza è il mistero della presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella nostra vita e in quella catena di vite che chiamiamo storia. Come la materia, così il tempo è da e per le Persone divine, in modo tale che come il mondo, così la storia è piena di Trinità. Per questo “Disprezzare la creazione è ingratitudine”.74 E tale profondità relazionale del reale riguarda anche la materia: Il mondo materiale ha origine nella azione delle Persone divine ed è chiamato ad essere riassunto e trasfigurato dalle Persone divine.75
Il mondo creato, il tempo, la materia, la storia sono tutti impregnati di amore divino e sono luogo dove è possibile dare del ‘tu’ al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, perché le missioni sono il prolungamento delle relazioni eterne. L’uomo è chiamato nel tempo ad essere partecipe della generazione eterna del Figlio e della spirazione dell’Amore che unisce il Padre e il Figlio stesso: Ma la rivelazione ci dice che Dio ha creato per associare le libertà create alla sua beatitudine, per introdurle nella sua gioia infinita, ha creato il mondo di Dio e degli uomini come irradiazione della Trinità; allora ci appaiono ammirabili sia l’origine sia il fine della creazione, che consistono nell’amore: un amore assolutamente disinteressato, dato che Dio non ha alcun bisogno di noi, ma siamo noi ad aver bisogno di lui. Nella creazione regna una gratuità assoluta, che ha la sua fonte in questo amore. Noi Idem, Dio e noi, 122. Idem, La Trinità e il mistero, 67. 74 Ibidem, 50. 75 Ibidem, 13. 72
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non esistiamo che nella misura in cui siamo amati. Esistere per noi, nella nostra realtà più intima, significa essere il termine di un atto di amore delle Persone divine che ci comunicano l’essere nella volontà di associarci alla loro vita.76
In una formula si potrebbe dire che dalla prospettiva cristiana il cogito ergo sum cartesiano non diventa solo un cogitor ergo sum, ma più in profondità un amor ergo sum, meglio ancora, un amamur ergo sumus, in quanto la comunione è la realtà più originaria in Dio e nel creato. E la divinizzazione intensifica tale dimensione di comunione, potremmo dire la eternizza in una dinamica che riprende l’epektasis nissena: Le Persone divine vogliono comunicarci la loro vita sovrabbondante, secondo la misura della nostra capacità. Sappiamo bene quanto questa capacità sia piccola: ma si dilata a misura che la vita trinitaria ci si comunica, a misura che ne siamo invasi: gli spazi ristretti sono sempre quelli del nostro cuore. La vita trinitaria a poco a poco rende i nostri cuori più capaci, nel senso etimologico della parola, di una comunicazione più grande e più vasta, come si può constatare nei santi.77
L’eternità e il tempo non sono, dunque, in rapporto dialettico, ma proprio perché la Trinità è “Il fondo ultimo di ogni realtà”,78 all’uomo è possibile ora e sempre dare del tu all’Essere grazie a quel darsi del tu nell’Essere, che costituisce la vita intradivina. Si vede così come per Daniélou persona e ontologia si danno insieme. Egli prende sul serio il lavoro svolto dai Padri della Chiesa, in particolare nel sec. IV, per estendere la metafisica classica in senso relazionale e personale. È perfettamente conscio contemporaneamente della assoluta novità introdotta dalla rivelazione e della significatività del pensiero nato da tale novità per la ricerca filosofica dell’uomo. La radicale apertura verso la missione e la contemporaneità del teologo francese è, dunque, fondata anche nella sintesi tra ontologia e persona che caratterizza il Ibidem, 44. Ibidem. 78 Ibidem, 9. 76 77
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suo pensiero e che lo rende capace di entrare in relazione con l’esistenza concreta dell’uomo. Per questo sembra importante riconoscere la forza della proposta ontologica di Daniélou, che tanto bene conosceva il medio e il neoplatonismo. Con la sua consueta intensità espressiva e la coscienza di proporre considerazioni dirompenti, scrive: Ma in realtà il paradosso è che il Trino è altrettanto primitivo dell’Uno e fa parte della struttura dell’Essere assoluto. Senza dubbio la chiave di volta della teologia cristiana, che la separa radicalmente da qualsiasi altra teodicea razionale, è che la Trinità delle Persone sia costitutiva della struttura dell’essere e che in questo modo l’amore sia altrettanto primo quanto l’esistenza.79
Il grande teologo francese parla anche esplicitamente di ontologia trinitaria, anticipando una terminologia che ora, grazie anche all’influsso di Klaus Hemmerle e delle sue Thesen,80 occupa un posto di primo piano nella ricerca teologica: Tocchiamo così il fondo dell’ontologia trinitaria cristiana. Uno dei punti in cui il mistero trinitario illumina meglio le situazioni umane. Ci indica che il fondo stesso dell’esistenza, il fondo della realtà, la forma di tutto perché ne è l’origine, è l’amore, nel senso della comunità interpersonale. Il fondo dell’essere è comunità di persone. Chi dice che il fondo dell’essere è la materia, chi lo spirito, chi l’uno: hanno tutti torto. Il fondo dell’essere è la comunione.81
La forza espressiva nasce non solo dalla grande capacità del teologo francese, ma anche dalla sua profonda comprensione del dato biblico, che ispira le sue formulazioni: Idem, Dio e noi, 120. Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria per un rinnovamento della filosofia cristiana, Città Nuova, Roma 1986. Si veda anche P. Coda, A. Clemenzia, J. Tremblay, Un pensiero per abitare la frontiera, Città Nuova, Roma 2016. 81 J. Daniélou, La Trinità e il mistero, 37.
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Che siano uno, come noi siamo uno. Ciò ha un duplice significato: Noi siamo uno: semplice frase straordinariamente illuminatrice: non soltanto afferma il noi e l’uno, ma che l’uno è un noi. Nessuno prima di Gesù aveva detto che l’uno è un noi. L’uno, cioè l’assoluto, è un noi. L’uno è comunione fra i tre. È scambio eterno di amore. Non è di una stoffa qualsiasi: è amore. Il fondo dell’essere è l’amore fra le persone. Questo fondo dell’essere, stoffa dell’assoluto, è ciò di cui la creazione, in quanto comunione, è epifania.82
L’espressione l’uno è un noi può essere considerata una magnifica e geniale sintesi non solo della ontologia trinitaria e della dottrina cristiana su Dio, ma anche una chiave di lettura del reale e della storia, in quanto essa è il fondamento dell’unione tra il tempo e l’eterno: Così l’uomo passa di gloria in gloria e tutta la storia della salvezza può essere considerata una rivelazione progressiva della Trinità ineffabile.83
L’esistenza storica dell’uomo è dunque segnata dalla presenza del Dio uno e trino nel tempo, che da dentro conduce l’uomo, nella libertà, a un’unione sempre più piena e a una relazione sempre più profonda con ciascuna Persona divina, in modo tale che il mondo stesso, materia inclusa, è per l’eternità e per la gloria. “Il tempo è gloria” ha scritto in Cammino San Josemaría Escrivá. Carisma e teologia si incontrano nella radicalità dello sguardo contemplativo, che spinge Daniélou a scrivere: “Non c’è che il Cristo: tutto deve divenire Cristo”.84
Conclusione Il pensiero di Jean Daniélou si presenta, allora, nel suo nucleo più profondo, come una teologia che è una teologia della storia perché è una ontologia trinitaria. Questo grande figlio della Francia ha preso profondamente sul serio l’indagine metafisica dell’uomo, non come Ibidem, 38-39. Idem, Dio e noi, 121. 84 Idem, La Trinità e il mistero della storia, 45. 82 83
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mero esercizio speculativo, ma come ricerca del vero e quindi della salvezza, di quella salvezza che è Cristo. Perciò tutti gli studi di Daniélou convergono nella lettura dell’essere creato, studiato già dai filosofi, alla luce della Rivelazione trinitaria in Cristo. L’intervento di Dio nella storia non solo rende noto, ma comunica, attraverso i misteri della vita di Cristo ai quali il nostro oggi è unito dai misteri sacramentali, la partecipazione al Mistero stesso di Dio, che è la sua Vita intratrinitaria. La storia dell’uomo ha un di dentro, ha una immanenza, perché attraverso le missioni nel tempo del Figlio e dello Spirito, inviati dal Padre, l’uomo stesso è unito all’eterna dinamica di generazione e d’amore che è la Trinità nella Sua immanenza. Gli elementi dogmatici più fondamentali di tale pensiero sembrano essere tratti dal lavoro ontologico svolto dai Padri greci, in particolare Gregorio di Nissa, per ripensare la metafisica classica alla luce dell’evento dell’incontro con il Dio uno e trino. L’articolazione dei diversi piani dell’essere che ha caratterizzato il sec. IV, con gli strumenti dell’akolouthia e dell’epektasis messi in evidenza dagli studi nisseni di Daniélou, permettono di articolare il rapporto tra essere e tempo in una forma capace di rispondere alle domande avanzate dall’esistenzialismo moderno. Così, il pensiero di Daniélou è caratterizzato da una vera e propria teologia della storia perché egli, alla scuola dei Padri della Chiesa da lui tanto amati, sviluppa una ontologia della storia, che riconosce insieme il valore dell’essere e del tempo, della sostanza e della relazione, dell’essenza e dell’esistenza. Ma il grande gesuita francese può sviluppare questa ontologia della storia perché ha tracciato, ispirato dalle sue fonti, un abbozzo di ontologia trinitaria. In essa egli presenta la creazione a partire dalla connessione tra le missioni divine e le relazioni eterne intratrinitarie. Il mondo è contemplato a partire da queste relazioni, quindi dalla reale presenza delle Persone divine nel tempo, dalla possibilità per l’uomo di autentico dialogo con Ciascuna di esse e dalla loro azione per attrarre ogni cosa alla comunione con il Padre. Gli assi ontologici di tale teologia sono caratterizzati, dunque, da una duplice inversione rispetto alla metafisica classica, inversione che 148
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corrisponde alla struttura profonda che permette di superare l’identificazione di bene e immutabilità, da una parte, e di male e cambiamento, dall’altra: a) Il da sotto diventa da sopra; b) il da fuori diventa da dentro. La possibilità di scalare il Cielo da sotto con il solo pensiero, che caratterizzava la concezione filosofica greca, viene sostituita dalla profondità del dono del Creatore uno e trino che scende fino all’estremo di farsi una cosa sola con la sua creatura. A questo asse verticale corrisponde, così, la trasformazione orizzontale, nella quale il rapporto con Dio non si gioca più da fuori, ma da dentro, da dentro l’uomo e da dentro il tempo. L’immagine della croce si staglia così come senso ultimo di ogni cosa e unico cammino per giungere al fondo più vero del reale. E tutto ciò da una prospettiva insieme cristologica e pneumatologica, che rompe ogni tentazione pelagiana o semipelagiana: Dallo Spirito Santo procede l’inclinazione ad amar Dio che ama, che trasforma il nostro cuore, lo rende umile, paziente, benevolo, buono, ci unisce alle interne disposizioni del Cuore di Cristo. Fonte in noi di disposizioni nuove, che costituiscono propriamente la vita spirituale, cioè la vita dello Spirito Santo. Queste disposizioni nuove suscitano una nuova spontaneità: non costituiscono una legge esterna cui dovremmo obbedire, ma una forza interna che ci attira alle cose divine e trionfa della pesantezza della nostra carne.85
Da tale prospettiva si può, forse, dire che Daniélou è padre perché è figlio: lasciandosi generare intellettualmente dai Padri ci ha lasciato un pensiero che ci aiuta a vivere, a rinascere in questa crisi contemporanea, dominata dal diktat postmoderno “devi essere libero”. Ma posto che, nel dirlo, la nostra epoca ha reciso ogni legame e ogni relazione, essa ordina ciò che è impossibile. Ci viene detto di seguire il desiderio più 85
Ibidem, 72.
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profondo del cuore umano nello stesso momento in cui si tagliano tutte le strade che ne permetterebbero la realizzazione. Qui si vede come proprio l’ontologia della relazione e, quindi, l’ontologia trinitaria, siano il cuore della questione, perché la libertà è questione di essere e di esserci. In un deserto si ha esserci senza essere, nel senso che si sta in una situazione dove potenzialmente si può andare dove si vuole, ma non si ha in atto nessun posto dove andare, si è persi nel nulla, in the middle of nowhere. La vera libertà, invece, è comunione, cioè quella dimensione che Daniélou chiama il fondo del reale e che si dà nella relazione. Questa non si vede, non si tocca, ma quando la si nega si entra in crisi, perché il deficit di essere così introdotto si manifesta nel sintomo doloroso della crisi radicale, che va dalla liquefazione dell’io all’incapacità di entrare in rapporto con il reale. Tutto ciò rende il mondo disumano, perché solo pochi possono sopravvivere alla legge del più forte, alla furia dei superuomini nietzschiani. Invece Daniélou è sempre paternalmente preoccupato che anche i deboli possano credere, perché la società possa diventare popolo.86 Così, per rispondere alla domanda iniziale su cosa possono dirci Daniélou e Ratzinger di fronte alla crisi postmoderna, si può citare una delle frasi con le quali il teologo francese introduceva proprio La Trinité et le mystère de l’existence : Alla radice della crisi attuale del mondo si trova la ricerca di Dio. Si tratta di rendere presente, nella civiltà tecnica, la dimensione della trascendenza, al di fuori della quale non esiste possibilità di un umanesimo.87
Opporre metafisica e teologia corre, paradossalmente, proprio il rischio di rinchiudere il pensiero della fede in un circolo ristretto, che non sa più parlare a chi non crede, perché non sa più pensare il mondo e la storia che le categorie che sono a loro proprie. Senza ontologia, il pensiero che cerca di entrare in contatto con l’esistenza e la persona appassisce e si disumanizza, come divertissement di una qualche élite 86 87
Idem, L’orazione, problema politico, 7. Idem, La Trinità e il mistero, 7.
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prossima alla morte. Senza la filosofia dell’essere, la teologia si può rattrappire in un discorso sterile e forbito cui si ricorre pour épater les bourgeois, tradendo l’eredità dei padri. Lo sguardo trinitario e relazionale sul mondo, che accomuna Daniélou e Ratzinger, ci offre, invece, un pensiero che ci può aiutare a vivere il nostro tempo, con lo sguardo rivolto contemporaneamente al mondo e a Dio.
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Il mistero della storia secondo Joseph Ratzinger Ludwig Weimer (Pontificia Università Lateranense, Roma)
È possibile mettere a punto una teologia sistematica della storia partendo da quanto afferma Joseph Ratzinger sulla storia? Sì, se ne possono effettivamente mettere insieme, senza obblighi, le componenti, analogamente a come Ratzinger ha posto la teologia di Bonaventura a mo’ di seconda vetta accanto a quella di Tommaso. Ma è consentito farlo anche dopo avergli visto manifestare un’esplicita avversione nei confronti delle moderne ambizioni sistematizzanti, approvando al massimo una sintesi aperta, come è l’opera omnia di un von Balthasar?1 Si tratta tuttavia di una diffidenza rivolta in primo luogo a una sintesi prematura di fede e ragione; una ragione ridotta alle scienze naturali oppure hegelianamente politicizzata, vale a dire appartenente a un illuminismo ancora imperfetto. La questione è troppo allettante perché il progetto implicito ratzingeriano di una teologia della storia resti celato. Le sue componenti sono evidenti e interconnesse: 1. dall’amore di Dio per il mondo degli uomini discende la rilevanza positiva della storia come luogo della concretizzazione; 2. il fine, malgrado ogni non-ancora, è già raggiunto (escatologia cristologica del presente); 3. esso può e deve essere continuamente presentificato dalla Chiesa, e non solo sul piano liturgico; 1
Cfr. P. Hofmann, Offenbarung und Geschichte. Joseph Ratzingers Kommentar zu Gaudium et spes als angewandte Bonaventura-Rezeption, in: M. Schlosser, F.-X. Heibl (a cura di), Gegenwart der Offenbarung. Zu den Bonaventura-Forschungen Joseph Ratzingers (“Ratzinger-Studien” 2), Regensburg 2011, 74-103, in part. pp. 88, 102.
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Il mistero della storia secondo Joseph Ratzinger
4. entro il tempo che continua a scorrere, l’azione di Dio resta tuttavia in incognito agli occhi del mondo; 5. l’agire di Dio fin dentro la materia avviene infatti, in un realismo scandaloso, grazie alla fede e all’amore degli uomini nel popolo di Dio.
Adventus medius Nell’ottica della prossimità di Dio nello spaziotempo, per Ratzinger si dà una triplice parusia di Cristo: la comparsa del Figlio di Dio in Israele nella carne, il suo ritorno nella gloria alla fine della storia universale e, nell’epoca della storia della Chiesa, il cosiddetto adventus medius. L’“avvento medio”, la presentificazione di Gesù nell’epoca della Chiesa,2 è un’idea ancora poco familiare al normale cristiano. Ma è l’asse della teologia della storia, il miracolo non pianificabile di una parziale riforma della Chiesa. Ratzinger ha rappresentato l’adventus medius alla fine della sua opera su Gesù: la teologia dell’avvento della duplice venuta di Cristo è a suo avviso carente. Sul piano verbale, la dottrina del terzo avvento risale a San Bernardo di Chiaravalle, che lo definì un avvento “in Spirito e forza”.3 Di per sé è fondata nell’escatologia del presente del vangelo di Giovanni. La tradizione ha sempre saputo delle molte modalità di questo “avvento medio”: nella Parola, nei sacramenti, in particolare nell’eucarestia, e in eventi della vita e della storia. Ratzinger prosegue creativamente su questa strada, enucleandone una formula della sua teologia della storia: “Ci sono tuttavia anche 2
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Il lavoro di Ratzinger su Bonaventura aveva messo in evidenza il suo generale principio di duplicità nell’accoglimento della rivelazione: la rivelazione diviene realtà “in un gioco che alterna ogni volta un evento interno e un evento esterno, un rivolgersi interiore e immediato a Dio e un ammaestramento storico esteriore”. Bonaventura lo chiamava un adventus Christi in mentem e un adventus Christi in carnem (JRGS = “Joseph Ratzinger Gesammelte Schriften” 2, 219-220, 757). Bernardo, In Adventu Domini, serm. III,4.V1: PL 183, 45A. 50C-D.
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Ludwig Weimer
modalità epocali di questa venuta. L’attività delle due grandi figure di San Francesco e San Domenico, nel XII e XIII secolo, fu uno dei modi in cui Cristo rifece il suo ingresso nella storia rimettendo al centro la Sua Parola e il Suo amore; un modo per rinnovare la Sua Chiesa e trarre la storia a sé. Cose analoghe possiamo dire dei santi del Settecento: Santa Teresa d’Ávila, San Giovanni della Croce, Sant’Ignazio di Loyola, San Francesco Saverio portano con sé nuove irruzioni del Signore nella intricata e ormai distante storia del loro secolo. Il Suo mistero, la Sua figura assumono una forma nuova, e soprattutto: la Sua potenza, capace di trasformare gli uomini e plasmare la storia, si fa presente in modo nuovo. [. . .] Perché mai non dovremmo pregarlo di donare ancora oggi nuovi testimoni della Sua presenza, nei quali è Lui stesso a venire? E questa preghiera, che non guarda immediatamente alla fine del mondo e pure è vera preghiera per la Sua venuta, ha in sé tutta la portata della preghiera che Lui stesso ci ha insegnato: ‘Venga il tuo regno!’”.4 Due sono le domande che risultano da tutto questo: 1) In che relazione stanno la (sempre inattesa) presentificazione della prossimità di Dio – presente una volta per tutte in Gesù – per mezzo di riformatori e santi da un lato e le modalità durevoli e costanti della presenza di Cristo nell’evangelo, nell’Eucarestia, nella Chiesa Corpo di Cristo e nei più poveri dall’altro? Si tratta di un dono supplementare che va ad aggiungersi al permanere di Cristo tra noi nei ministeri e nei sacramenti, al far memoria con la lettura dell’evangelo e ai poveri, che avremo sempre con noi. 2) Qual è il rapporto tra la storia della salvezza dello strumento Chiesa e la storia universale? L’adventus medius storico-teologico, infatti, pare essere raro come è raro un segno profetico e tanto poco pianificabile quanto una nuova Pentecoste. 4
J. Ratzinger/Benedetto XVI, Jesus von Nazareth. Zweiter Teil, Freiburg-Basel-Wien 2011, 316-317 (Gesù di Nazaret. Seconda parte, tr. it. e cura di I. Stampa, P. Azzaro, Milano 2012).
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La visione profetica della storia della salvezza e della storia universale Come vede Ratzinger il rapporto tra storia universale e storia della salvezza? Nella lezione del 1967 Einführung in das Christentum (“Introduzione al cristianesimo”) si augurava di capire “come riesce l’argomento ‘Dio’ a caratterizzare tutta la storia dell’umanità”.5 E qual è, a suo parere, la realtà dell’affermazione secondo cui Cristo, alfa e omega, si trova al centro della storia del cosmo? Se solo la Chiesa sa – alcuni teologi contestano anche questo – che nell’ebraismo e nel cristianesimo ci sono stati momenti unici di affermazione come il già dell’eternità in mezzo al tempo o come la relazione tra i due attori Dio e uomo?6 Parlare di grandi gesta di Dio nella storia universale presuppone che queste non siano proiezioni di un pensiero speculativo, ma storia in carne e ossa, anche cruenta. Anche se occhi estranei non possono coglierne tutto il senso, su su fino all’incognito della theologia crucis, la potenza della fede non può non farsi visibile, almeno in parte, nella testimonianza dei cristiani. Persino quelli che sembrano colpi sferrati dal mondo contro la Chiesa possono trasformarsi, in verità, in un aiuto a Dio, una volta riconosciutone il senso nella Chiesa e avviata una riforma. Nel noto discorso al Konzerthaus di Friburgo, papa Benedetto XVI se ne mostrava convinto: 5
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J. Ratzinger, Einführung in das Christentum, München 1972, 63 (Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, tr. it. di E. Martinelli, Brescia 200715 ). Per il padre delle Geisteswissenschaften (“scienze dello spirito”), Wilhelm Dilthey, la questione non doveva invece essere di pertinenza dello storico. Tra gli esponenti dell’interpretazione cristiana faceva, per il medioevo, i nomi di Ottone di Frisinga, Dante e Tommaso, senza Bonaventura, e ne definiva così l’essenza: “Il fondamento è il rapporto tra Dio e il nesso finalistico del mondo posto nella teologia-filosofia, ecc. Qui si pone dunque per la prima volta il principio di un nesso storico universale, colto come nesso significativo o finalistico”. Considerava tuttavia un “difetto” il fatto che “questa teoria” abbia il suo “fondamento in una metafisica religiosa” (W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, Frankfurt am Main 1974, 339 [in: Critica della ragione storica, tr. it. e cura di P. Rossi, Torino 1954]). Cfr. su J. Daniélou: I. Fuek, Moral – Geistliches Leben, vol. II, Gesetz – Glaube. Split 2004, 307-311.
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“In un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore”, dove le secolarizzazioni sono, spiega, “l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili”.7 La dimensione storica, il peso della storia, è per Ratzinger tanto importante da individuare nella diversa enfasi conferita al “modo in cui la storia e lo spirito si rapportano nella struttura della fede”8 la differenza tra il proprio approccio e quello di altri teologi, come ad esempio Karl Rahner. Ovviamente tutti partono dal presupposto che Dio si possa comunicare soltanto nella storia, dal momento che i soggetti umani lo devono poter comprendere; che, dunque, in gioco ci siano sempre anche luoghi ed eventi. Ma già quando si trattò di discutere dei testi conciliari Ratzinger capì, spiega, “che Rahner ed io [. . .] vivevamo su due pianeti diversi”.9 Studiando il concetto di rivelazione in Bonaventura – che questi ancora non conosceva in quanto tale, parlando piuttosto di evento storico-salvifico – aveva compreso che la rivelazione è più grande della parola scritta: è qualcosa di vivo, un processo che avviene nel popolo di Dio: “Il suo scopo è sempre raccogliere gli uomini, unirli”.10
La storia di Dio con gli uomini Ratzinger ha sempre sottolineato come la Chiesa non si basi sulle istituzioni, bensì sulle persone. Egli predilige, a mo’ di formula, il concetto aperto e universale di “storia di Dio con gli uomini”, un’espressione che compare già nel 1961 nell’articolo Christozentrik in der Verkündigung? Benedetto XVI, In Gott ist unsere Zukunft. Ansprachen & Predigten während seines Besuchs in Deutschland, Leipzig 2011, 146 (vers. it.: http://www.vatican.va/ holy_father/benedict_xvi/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_ 20110925_catholics-freiburg_it.html, verificato il 27 gennaio 2015). 8 J. Ratzinger, Aus meinem Leben (1927-1977), Stuttgart 1998, 107 (La mia vita. Autobiografia, tr. it. di G. Reguzzoni, Cinisello Balsamo 1997). 9 Ibidem, 131. 10 Ibidem, 129. 7
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(“La predicazione deve essere cristocentrica?”): “La predicazione cristiana non racconta semplici storie, ma annuncia come tale una storia, cioè la storia di Dio con gli uomini”.11 Nel 1968, nella Einführung in das Christentum puntualizza sul terzo articolo del Credo: “La dottrina sulla Chiesa deve trovare il suo punto di partenza nella dottrina sullo Spirito Santo e i suoi doni. Ma il suo scopo è una dottrina della storia di Dio con gli uomini o della funzione della storia di Cristo per l’umanità nella sua totalità”.12 Cristo è dunque fulcro e unità di misura, e questo vale per ogni cosa, dentro e fuori la Chiesa, anche per come si interpreta la secolarizzazione, e a maggior ragione per i sacramenti. Anche se per Ratzinger l’importanza degli elementi del pane e del vino per il sacramento è fondata a partire dal primato della storia rispetto alla cultura, ciò che è vincolante della forma storica, egli utilizza l’espressione “storia irripetibile di Dio con gli uomini in Gesù Cristo”.13 La redenzione tramite l’“autoprodigalità di Dio” nella morte di Cristo per noi è a suo parere già delineata nella legge intrinseca della creazione: “La sovrabbondanza è l’impronta di Dio nella sua creazione. [. . .] La sovrabbondanza è però, al contempo, la vera base e la forma della storia della salvezza”.14 Joseph Ratzinger mette indubbiamente in evidenza il linguaggio di Dio già nella creazione, l’etica per tutti gli uomini leggibile a partire «Trierer Theologische Zeitschrift» 70 (1961), 1-14. Citato in: Idem, Dogma und Verkündigung, München-Freiburg i.Br. 1973, 60 (Dogma e predicazione, tr. it. di G. Poletti, Brescia 1974). Qui, nella nota 18, cita i libri e teologi dell’epoca, definendo opera eccellente Heil als Geschichte di O. Cullmann (Tübingen 19672 ; Il mistero della redenzione nella storia, tr. it. di G. Conte, Bologna 1966). 12 J. Ratzinger, Einführung in das Christentum, cit., 246s. Nell’excursus Strukturen des Christlichen leggiamo: “Chiesa e cristianesimo esistono principalmente per la storia, a causa dei nessi collettivi che segnano l’uomo” (178); “Essere cristiani [. . .] è un carisma [. . .] sociale”; “Si è cristiani perché la diaconia cristiana ha senso ed è necessaria per la storia” (179) (tr. it. pp. 238-239). 13 Idem, Der Geist der Liturgie, Freiburg i.Br. – Basel – Wien 2000, 192; JRGS 11, 188 (Introduzione allo spirito della liturgia, tr. it. di G. Reguzzoni, Cinisello Balsamo 2001). 14 Idem, Einführung in das Christentum, cit., 189 (tr. it. p. 251). 11
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dalla natura delle cose. Il mondo, per così dire, è ricolmo di pensieri di Dio.15 Ma gli uomini sono anche liberi di poterli leggere? In dialogo con Paolo Flores d’Arcais egli aggiorna l’ottica cattolica in rapporto al movimento ecologico: “La natura porta in sé un messaggio che dobbiamo ascoltare”.16 Ma il parlare di Dio, o meglio – visto che è uno sguardo della Chiesa, quasi, con gli occhi di Dio17 sul mondo – l’ascoltare il linguaggio di Dio negli eventi della storia ha un significato tanto rilevante quanto differenziato.18 In una predica tenuta da arcivescovo di Monaco in occasione dell’anniversario del predecessore sulla cattedra episcopale in epoca hitleriana, Ratzinger declina così la questione: è “ora di chiedersi che cosa voglia dirci il Signore attraverso i suoi testimoni, come oggi ci interpelli e ci orienti in modo nuovo a sé. Che cosa ci dice oggi per bocca del suo testimone Faulhaber?”. Nel 1910 Faulhaber aveva scelto il motto 15
“In ambito etico, visibile è essenzialmente il messaggio morale presente nella creazione stessa. La natura non è infatti, come sostiene uno scientismo totalitario, un assemblaggio creato dal caso e dalle regole del suo gioco, ma è creazione, nella quale si esprime il Creator Spiritus. Quindi non esistono mere leggi naturali nel senso di funzioni fisiche, dal momento che la vera legge naturale è una legge morale. È la creazione stessa a insegnarci come essere uomini in modo retto. [. . .] La morale che la Chiesa insegna non è una zavorra pensata appositamente per i cristiani, ma è la difesa dell’uomo dal tentativo della sua stessa eliminazione” (Idem, Abbruch und Aufbruch, “Eichstätter Hochschulreden” 61, München 1988, 17). 16 P. Flores d’Arcais, J. Ratzinger, Gibt es Gott? Wahrheit, Glaube, Atheismus, tr. ted., Berlin 2006, 62 (orig. Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, Roma 2005). 17 “Guardare il mondo con gli occhi di Dio e vivere di conseguenza: ecco che cosa significa seguirlo” (J. Ratzinger, Der Gott Jesu Christi. Betrachtungen über den dreieinigen Gott, München 1976, 27; Il Dio di Gesù Cristo. Meditazioni sul Dio uno e trino, tr. it., Brescia 1978). La teología de la historia en san Buenaventura (1959), 14. 18 Il nesso tra esperienza e fede è spiegato così ricorrendo a Jean Mouroux: “Esistono tre livelli o tipi di esperienza: quella empirica, quella sperimentale e quella esperienziale o esistenziale; il terzo tipo è adeguato all’esperienza di Dio, poiché tiene conto della libertà dell’altro ed esige l’offerta di sé; nell’esperienza cristiana sono a sua volta racchiuse tre modalità: esperienza di creazione e storia come via verso Dio, comunità cristiana come luogo di incontro con il Creatore e Governatore della storia ed esperienza personalissima di partecipazione (Idem, Erfahrung und Glaube, «Internationale katholische Zeitschrift Communio» 9 [1980] 58-70).
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episcopale Vox temporis, vox Dei, ma era giunto il momento di vivere l’altra faccia del motto, di “resistere, fedele alla voce di Dio, a quella che voleva essere la voce dei tempi”, di protestare contro l’asservimento della fede alla razza e al popolo.19 Nella sua autobiografia Ratzinger chiama “segno dei tempi” gli sconvolgimenti del ’68 nelle università, il mutamento di pensiero con Heidegger da Bultmann al marxista Bloch.20 Colpisce, in entrambi i casi, il fatto che Ratzinger cerchi di orientarsi non sul piano della spiritualità del singolo, in una ricerca della volontà di Dio posta nella dimensione individuale e nella vita concreta, ma avendo davanti a sé, nell’orizzonte del bene globale, la fede di tutti e della Chiesa. Chi conosce un po’ Ratzinger sa però quanto forti sono i suoi rimandi anche a una fede personale e praticata nella Provvidenza.
Escatologia del presente La componente più rilevante della teologia ratzingeriana della storia, tuttavia, è la concezione dell’oggi nel tempo successivo a Cristo, basata su un’escatologia del presente o realizzata. Sulla cristologia si fonda ogni cosa, dal momento che essa mostra, spiega Ratzinger, “la preoccupazione di Dio per il tempo in mezzo al tempo”.21 Ratzinger trova un alleato tra gli studiosi di Nuovo Testamento soltanto in Charles Harold Dodd, con la “realized eschatology” di cui parla il suo libro sulle parabole gesuane del Regno di Dio, e in particolare della necessità di vigilare per la presenza divina.22 In ultima analisi, Dodd e Ratzinger Idem, Christlicher Glaube und Europa. 12 Predigten, a cura del Pressereferat dell’arcidiocesi di Monaco-Frisinga, München 1981, 128, 130. 20 Idem, Aus meinem Leben, 138. 21 Idem, Eschatologie – Tod und ewiges Leben, (“Kleine katholische Dogmatik” 9), Regensburg 1977, 152 (Escatologia. Morte e vita eterna, edizione rinnovata e ampiata a cura di S. Ubbiali, tr. it. di B. Desleux Muff, S. Ubbiali, Assisi 2008). 22 Per J. Daniélou, Dodd enfatizza eccessivamente l’escatologia del presente, per quanto abbia ragione, avendola vista in prossimità dell’escatologia esistenziale di Bultmann; egli stesso prediligeva l’espressione “escatologia iniziata” (J. Daniélou, Vom Ge19
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hanno rivoluzionato il pensiero sull’apocalittica e l’escatologia fino ad oggi dominante con la scoperta che Gesù non predicava un’attesa particolarmente vicina e inquieta, ma non aveva fatto che prendere sul serio la volontà di Dio di essere vicino al Suo popolo, presente nella sua vita. Così, la Chiesa e l’Eucarestia devono diventare “sacramento di un’escatologia realizzata”.23 Ragiona Ratzinger: “Ai cristiani fu data la gioia inaudita di un futuro che è divenuto presente, poiché ora sta accadendo l’inconcepibile: i pagani cadono davvero in ginocchio”, il pellegrinaggio escatologico dei popoli ha avuto inizio.24 Una delle conseguenze di questa escatologia del presente è la ripresa dell’idea paolino-giovannea (Fil 1,21; Gv 3,16-21) che la vera divergenza non sia tra vita e morte, ma “tra essere con Cristo ed essere senza di Lui o contro di Lui”. La morte vera e propria, il trapasso, è dunque il battesimo.25 Che significato ha l’attesa del ritorno di Cristo nel Giorno del Giudizio26 per l’atteggiamento del cristiano nell’oggi? Non è consentito speculare sui segni premonitori. L’atteggiamento giusto verso “il particolare relazionarsi del Risorto rispetto al tempo mondano” non è neanche – letteralmente – la “filosofia o teologia della storia, bensì la ‘vigilanza’”.27 Ratzinger si confronta qui con Jean Daniélou, sposandone l’ottica, che spiega il problema partendo dal retaggio della duplice attesa ebraica, la speranza nazionale e quella trascendente, e risolvendolo con
heimnis der Geschichte, tr. ted., Stuttgart 1956, 311-312; orig. Essai sur le mystère de l’histoire, Paris 1953; Saggio sul mistero della storia, tr. it. di E. Cassa Salvi, Brescia 20123 ). 23 Ratzinger, Eschatologie – Tod und ewiges Leben, 57. 24 Ibidem, 63. 25 Ibidem, 185. 26 J. Daniélou può definire la storia un “Giudizio universale perpetuo, permanente” (Vom Geheimnis der Geschichte, cit., 312); J. Ratzinger sottolinea il fatto che il singolo è giudicato definitivamente solo quando tutta la storia ha cessato di soffrire e ciascuno ha ottenuto il suo posto in essa il Giorno del Giudizio (Eschatologie – Tod und ewiges Leben, 157). 27 Ibidem, 161.
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la teologia di Calcedonia. Le due linee – il Messia terreno e l’intervento di Dio – sono comunicate storicamente in Cristo. L’equilibrio di Daniélou, secondo Ratzinger, mostra l’unità interna tra le componenti umane della storia e il tutt’altro di essa. È interessante, ritiene, che la vigilanza cristiana non si aspetti qualcosa di simile a una suprema maturità storica – segno della transizione verso la fine –, ma debba tenere conto della decadenza della storia, della sua inettitudine, del suo opporsi al Regno di Dio, di guerre e catastrofi.28 L’escatologia del presente non può non affermare che la parusia avviene già adesso, nella liturgia. Non si tratta di sfuggire dal mondo reale, e lo si può dimostrare: “La Chiesa, nella liturgia, per così dire nell’andare con Lui [sc. il cosmocratore Cristo], deve preparargli nel mondo delle dimore. La tematica della vigilanza si approfondisce così nel compito concreto di far diventare reale la liturgia, finché è il Signore stesso a conferirle quell’ultima realtà”.29 Ratzinger ha chiarito la discussione in tre punti: 1) La sua visione può trasformare in una tensione produttiva la dolorosa separazione tra il centro della storia in Cristo e la fine di essa. 2) Qui il compimento anticipativo di Gesù si accompagna alla cosiddetta “riserva escatologica”; resta spazio per il destino di tutta l’umanità e della materia, il permanere di mondo e tempo assume un significato positivo, e non è necessario rinunciare all’aspetto della “attesa vicina”. 3) In questo modo, l’attesa del mondo nuovo è anche messa al riparo dal rischio di essere indebitamente trasformata in utopia politica.30 Ibidem, 163. Ibidem, 168. 30 J. Ratzinger definisce in questo modo l’utopia escatologica del chiliasmo: determinante, in essa, è “l’attesa di una condizione salvifica intrastorica che oltrepassi in sé le possibilità di un agire politico ma si debba creare con mezzi politici” (Eschatologie und Utopie, «Internationale katholische Zeitschrift Communio» 6 [1977] 97-110, qui p. 101).
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Parlare di un’escatologia del presente significa mettere in evidenza che la storia della salvezza va avanti, anche nell’ora attuale. Ratzinger fu favorevolmente colpito da due studi dell’esegeta Oscar Cullmann, Christus und die Zeit (“Cristo e il tempo”) e Heil als Geschichte (“La salvezza come storia”), i quali enucleano la coscienza dei primi cristiani di essere strumenti di una storia con Dio, “di portare avanti ogni giorno la divina storia di salvezza, di essere organo del divino avvenimento salvifico, di aver parte a un evento che è evento di salvezza tanto quanto lo fu ciò che avvenne prima dell’Incarnazione e lo sarà la porzione escatologica di là da venire”.31 Il che significa, secondo Cullmann, per l’idea di Chiesa e per l’oggi: “Se la fine dell’epoca apostolica avesse il senso di un’interruzione della storia della salvezza fino agli eventi ultimi, ciò che avviene nel presente non si troverebbe più sullo stesso piano storico di ciò che è avvenuto nella Bibbia. [. . .] Ma così andrebbe anche perduta tutta la dinamica grazie alla quale ci sappiamo inseriti nella Chiesa, oggi, nell’immenso flusso di un evento di salvezza e grazie alla quale a noi si svelano nessi profondi anche di quanto accade nel cosiddetto tempo profano”.32
Sono proprio affermazioni di un esegeta protestante come queste a spingerlo a dare cattolicamente prosecuzione alla “attesa vicina” del cristianesimo primitivo in quanto storia della salvezza che avviene anche oggi. Un’ottica verificata e purificata con lo studio di Bonaventura e del Movimento Francescano. Ratzinger stila i criteri di una ortoprassi: che una parte della Chiesa interpreti la propria storia è cosa consentita e anzi necessaria, ma va inserita in modo corretto nella Chiesa universale. I riformatori ecclesiastici non potranno mai sostenere che è solo con loro che ha di nuovo inizio la vera Chiesa; devono ammettere che c’è già sempre il tutto e al contempo un non-
O. Cullmann, Christus und die Zeit. Die urchristliche Zeit- und Geschichtsauffassung, Zürich 19623 , 153 (Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel cristianesimo primitivo, tr. it., introduzione di B. Ulianich, Bologna 19803 ). 32 Idem, Heil als Geschichte, 278. 31
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ancora, e che sarà sempre così; è questa l’“attesa vicina” correttamente intesa.33 In un’escatologia del presente “l’attesa escatologica non contiene in sé l’idea di un compimento interno della storia; esprime anzi l’impossibilità di un compimento interno del mondo”.34
Presentificazione Ma come è possibile una presenza imperitura di Gesù nella storia che sia davvero un permanere della sua persona e figura e non solo culto della memoria, immedesimazione di storico, beato guardarsi indietro, culto di ciò che è stato ma non c’è più? E se poi è tanto intensa come “la straordinaria nuova presentificazione di Cristo nella figura di San Francesco d’Assisi”?35 In modo che il “nuovo, parificato criterio di interpretazione” della Scrittura possa essere, accanto ai Padri della Chiesa, il populus sanctus, il popolo santo di Dio di oggi, cioè un discorso della montagna vissuto?36 Non basta pensare a una presentificazione che avvenga esclusivamente all’interno di una liturgia che resta nel “più o meno” religioso dell’applicazione delle letture oppure di un sacramento concepito magicamente.37 Ratzinger vede la liturgia storico-salvifica, efficace fin nella 33
Colloquio sull’autocomprensione della Katholische Integrierte Gemeinde di Wolfesing (Monaco) il 16 ottobre 1976, in base ad appunti presi da L. Weimer. 34 J. Ratzinger, Kirche, Ökumene und Politik, Einsiedeln 1987, 220 (Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, a cura di E. Guerriero, tr. it. di G. Sommavilla, E. Babini, Cinisello Balsamo 1987). 35 Idem, Wesen und Auftrag der Theologie. Versuche zu ihrer Ortsbestimmung im Disput der Gegenwart, Einsiedeln-Freiburg 1993, 50 (Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, tr. it. di R. Mazzariol, C. Fedeli, riv. Da E. Guerriero, Milano 2005). 36 JRGS 2, 542. 37 “L’incisività della narrazione [. . .] è dovuta al fatto che essa intende creare la presenza di ciò che viene narrato. [. . .] Ma onestamente dobbiamo ammettere che il narrare, nella liturgia, è ormai ammutolito. La storia salvifica di Dio non viene più raccontata, bensì declamata. Le nostre esperienze non vengono più inserite in
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vita, in questo modo: il legame con l’unico evento originario, l’elemento incarnatorio-cristologico, e la permanente presenza di Cristo nello Spirito, la componente cristologico-pneumatologica, ne rendono possibile la presenza sacramentale, il “sempre” del sacramento. Alla Chiesa è così data al contempo continuità e vivacità.38 Nei grandi atti di Dio c’è qualcosa di unico, ma anche l’“ancora” di un recuperare sempre nuovo. Della morte di Cristo in croce dice: “Questo atto di misericordia è tutt’altro che un mero evento spirituale. È un atto spirituale che assume in sé la corporeità [. . .], che oltrepassa il tempo ma, provenendo a sua volta dal tempo, rende sempre possibile recuperare in esso il tempo. Ecco perché è possibile una simultaneità [. . .]. Lo ephapax (“una volta”) è legato allo aionios (“sempre”). L’oggi abbraccia tutto il tempo della Chiesa.39 La fecondità dell’unico, il poter recuperare sempre nuovo si basano essenzialmente sull’accoglienza da parte del soggetto, cioè sull’apertura di cuore di coloro che, oggi e qui, sono raccolti a celebrare. Essi devono accogliere le parole dell’evangelo da seguaci di Gesù nell’oggi. E la vocazione li porta, a livello sacramentale ed esistenziale, sotto la croce, come se il tempo che li divide da essa non fosse passato. L’Eucarestia li rende il Corpo di Cristo nell’oggi: divengono un noi, presentificano in ciò che fanno l’evento di Gesù. La “liturgia cosmica” non è una fantasia o un’evocazione, ma un aspetto del nuovo culto che sfocia in una responsabilità universale. Acqua, olio d’oliva, pane di frumento e vino sono elementi sacramentali che non si possono sostituire con doni provenienti da altre culture. È qui che si fa infatti visibile, afferma Ratzinger, il primato della storia, che è la storia irripetibile di Dio in Israele.40 una narrazione, e questo avviene per molte ragioni, tra le quali la nostra segreta paura della narrazione biblica” (G. Lohfink, Studien zum Neuen Testament, Stuttgart 1989, 25). 38 Cfr. J. Ratzinger, Kirchliche Bewegungen und ihr theologischer Ort, in: Weggemeinschaft des Glaubens. Kirche als Communio. Festgabe zum 75. Geburtstag, a cura dello Schülerkreis, Augsburg 2002, 157-158, 172-173. 39 Idem, Der Geist der Liturgie, 49-50; JRGS 11, 64-65. 40 Ibidem, 189-192; JRGS 11, 185-188, qui p. 188.
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Presentificare la vita di Gesù e il suo sacrificio sulla croce significa che l’antico evento storico, essendo il centro del tempo e il precompimento dello scopo, non è obsoleto, ma è in grado di fondare sempre nuova storia. Nel 2012 Benedetto XVI ha definito l’episodio dell’arresto e rilascio di Pietro e Giovanni, raccontato in At 4, “piccola Pentecoste”, interpretandolo in questo senso.41 Per Luca è per così dire la prima nuova presentificazione del miracolo dell’invio dello Spirito, riferito nel secondo capitolo. Gli Apostoli, vittime di persecuzione, raggiungono uno stato di limpidezza; il tutto inserito nella lotta della comunità in preghiera, che prega non per sopravvivere all’emergenza o alle vendette, bensì per il coraggio dell’annuncio. Benedetto: “In un primo momento essa cerca tuttavia di comprendere l’accaduto in tutta la sua profondità, di leggere gli eventi alla luce della fede”. Il salmo 2, “Perché le genti congiurano?”, li porta alla comprensione della realtà del mondo anche dopo la vittoria di Gesù. “L’opporsi dei potenti alla potenza di Dio si dipana come un filo per tutta la storia”. Il Crocifisso è la chiave per comprendere la persecuzione. Il papa inquadra questo testo nella propria teologia della storia con queste parole: “Questa prima comunità non era una semplice associazione, ma una comunità che vive in Cristo, per cui tutto ciò che le accade è parte del piano divino. Come Gesù, anche i suoi discepoli trovano resistenze, incomprensioni, persecuzioni. Con l’aiuto della preghiera, dell’osservanza della Sacra Scrittura alla luce del mistero di Cristo, la presenza può essere intesa come parte della storia della salvezza realizzata da Dio nel mondo, come parte imprescindibile del mondo”. Benedetto non manca di ricordare anche la parte visibile del senso nascosto, detto il “braccio di Dio”. Devono accadere guarigioni, segni e miracoli, “in modo dunque che la bontà di Dio si faccia visibile come una 41
Benedetto XVI, Discorso tenuto in occasione dell’udienza generale del 18 aprile 2012 (http://www.zenit.org/de/articles/ansprache-von-papst-benedikt-xvi-beider-generalaudienz-am-18-april-2012; verificato il 5 novembre 2014; vers. it.: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2012/documents/hf_ ben-xvi_aud_20120418_it.html, verificato il 27 gennaio 2015).
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forza che muta la realtà, il cuore e la vita degli uomini, annunciando la radicale novità dell’evangelo”. E sottolinea: “La fede ha dunque la forza di cambiare la terra e il mondo. [. . .] Questo è il frutto della preghiera corale della comunità cristiana”. Così, anche l’odierna “storia personale e collettiva” va osservata dalla prospettiva divina.42
La causalità nell’agire di Dio nella storia “L’agire divino è sempre agire divino-umano, cioè un agire trasmesso attraverso un altro essere umano (il Dio-uomo Gesù Cristo e la sua corporeità)”; nella Chiesa l’io agisce non più come io, ma nel noi in quanto parte del Corpo di Cristo, spiega Ratzinger.43 Tra gli scritti ratzingeriani c’è un breve testo di sintesi sistematica sugli effetti dell’agire di Dio. Il contesto è la questione di come viene esaudita una preghiera. Come interviene Dio nello spaziotempo? “Ma come va pensata la via dell’esaudimento? Se cerchiamo di ottenerla nella più succinta brevità, la risposta potrebbe essere di questo tenore: in Gesù Dio ha parte al tempo. Nell’aver parte al tempo egli agisce in quanto amore dentro il tempo. Il suo amore agisce come purificazione dentro l’uomo; come spazio di identificazione diventa unione, resa possibile grazie alla purificazione (e non in qualche altro modo). In altri termini, con l’aver parte di Dio al tempo in Gesù l’amore diventa efficace nel mondo come causa, come cagione, capace di cambiare il mondo e di intervenire in esso ovunque e in ogni tempo. L’amore è causa, una causa che non supera l’ordine causale meccanico, ma si serve di esso e lo accoglie in sé. L’amore è il potere che Dio ha nel mondo. Pregare significa mettersi dalla parte di questa causalità, la causalità della libertà contro il potere della necessità. È questo il nostro compito supremo di cristiani: essere uomini oranti”.44 42
Va aggiunto che questo papa ha fatto presente in altre occasioni che le più grandi persecuzioni non vengono dai nemici esterni, ma dall’interno della Chiesa. 43 Ratzinger, Kirche, Ökumene und Politik, 120-121. 44 Idem, Das Fest des Glaubens, Einsiedeln 1981, 30 (La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, tr. it. di G. Beari, Milano 2005).
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In un testo denso come questo è importante notare in primo luogo che non vi è la formulazione generica secondo cui Dio agisce là dove un uomo ama, ma si afferma che l’interazione tra Dio e uomo è fissata nell’uomo-Dio, cioè nella dimensione divina. Non l’umanesimo, ma la purificazione, la redenzione dell’uomo e il riflesso dell’amore di Dio portano Dio ad agire nel mondo. E, in secondo luogo, la formula classica per definire il rapporto tra natura e grazia viene applicata alla questione dell’intervento divino: il liberante atto d’amore non supera l’ordine causale naturale, ma lo utilizza e lo compie. Applicando al tema della teologia della storia quanto è stato definito in relazione all’esaudimento delle preghiere, c’è un terzo elemento che colpisce: che Dio può intervenire nella storia universale in ogni momento e in ogni luogo in tutta la densità e forza dello Spirito di Gesù, ogni volta che ci siano cristiani purificati, oranti, in dialogo con Dio. Dio agisce dunque attraverso gli uomini. Ma questi devono essere liberati, purificati, in modo da imitare l’amore di Gesù e di Dio. Il potere che muove le azioni di Dio è l’amore; un amore che non è misterioso, mitico-magico, né deve limitarsi a interventi sporadici. Un amore, d’altra parte, che non è nemmeno un amore umanizzato-panteistico e meramente intramondano. Esso presuppone luoghi in cui i cristiani diventano una cosa sola con la volontà di Dio e prestano così le proprie mani a Lui. Ratzinger presuppone un’unità di teologia della creazione e teologia storico-salvifica della redenzione, e anzi un’unità finale tra escatologia e protologia. Il tempo della storia universale non è uno spazio che Dio ha abbandonato, ma la storia del Suo amore per la creatura che ha lasciata libera. Il testo citato fu stampato nel 1981. Possiamo prendere a mo’ di complemento una versione più recente, del 2005, sorta nell’ambito della tematica “Nascita da una vergine e tomba vuota. Una puntualizzazione”: “Dio è vivo, e questo significa che è un Dio che agisce, che ascolta e che parla. È il Creatore. [. . .] Non è un Dio arbitrario. Egli rispetta le leggi della creazione e la libertà dell’uomo, che egli stesso ha voluto. Ma non è nemmeno un Dio impotente, con un ruolo puramente ‘spirituale’, 168
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‘esistenziale’. [. . .] La questione è se la fede penetri davvero nella storia, se la materia sia sottratta al potere di Dio o meno, se Dio sia Dio ed abbia agito davvero nella storia fino dentro alla corporeità, dimostrandosi Signore della morte, che è in fondo un fenomeno biologico, un fenomeno del corpo. La questione è insomma se ci fidiamo di Dio e possiamo vivere e morire sul fondamento della fede”.45 Il testo ha quasi la stessa struttura: come base imposta la teologia della creazione e la cristologia, ed esige anche il “noi” dei credenti. Dalla differenza tematica risulta un diverso mediatore tra natura e grazia. Nel primo testo esso era l’amore degli uomini, attraverso il quale Dio interviene nel mondo senza abolire l’ordine causale; qui si tratta invece della cristologia stessa, del natus ex Maria virgine e della resurrezione corporale di Gesù. Qui si definisce la fede cristologica di una cristianità credente, in un linguaggio che sembra abolire consapevolmente l’ordine causale naturale, per poter dare espressione con più contrasti che analogie al miracolo del dono, della persona divina del Redentore. Nell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI ha scritto, da papa, una piccola teologia della storia, che corregge estesamente una fede vissuta a livello meramente individualistico e spirituale. Il comandamento di forgiare il mondo, cioè di intervenire nella storia, è reso manifesto proprio nei monaci, che da operai della terra hanno nobilitato il lavoro (n. 15). L’enciclica ammette come una concezione ridotta di pietà sia stata corresponsabile del fatto che l’amore nei confronti del mondo si è rivolto a ideologie di speranza del tutto diverse e meramente terrene (nn. 16-22). Afferma: “È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno” (n. 22). È vero che, “poiché l’uomo rimane sempre libero e poiché la sua 45
Idem, Skandalöser Realismus? Gott handelt in der Geschichte, Bad Tölz 2005, 13-14.
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libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato” (n. 24b), ma che, “d’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito” (n. 25). Sulla cooperazione con Dio si afferma: “Il regno di Dio è un dono [. . .]. Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del ‘plusvalore’ del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è neppure indifferente per lo svolgimento della storia” (n. 35). Nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, papa Benedetto XVI ha detto in merito alla catastrofe dell’uccisione di sei milioni dei nostri fratelli maggiori: “Il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra il nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio – affinché quel suo potere che egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo”.46
L’agire in incognito di Dio e il problema di Israele Del nascondimento di Dio nella storia, il minimo lo si può dire ricorrendo ad alcune citazioni provenienti dall’excursus sugli elementi costitutivi della dimensione cristiana presente nella Einführung in das Christentum. La terza struttura è detta Das Gesetz des Inkognito, “La legge dell’incognito”. Nella seconda Ratzinger aveva presentato il “per” dell’amore come luogo in cui si palesa il divino nel mondo. E ora afferma 46
Benedetto XVI, Discorso in occasione della visita al campo di Auschwitz, 28 maggio 2006 (http://www.zenit.org/de/articles/ich-musste-kommen-ansprachebenedikts-xvi-im-ehemaligen-ns-konzentrationslager-auschwitz-birkenau-28; verificato il 5 novembre 2014; vers. it.: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_ xvi/speeches/2006/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20060528_auschwitzbirkenau_it.html, verificato il 27 gennaio 2015).
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che “conseguenza” di tale fatto è “che l’essere-totalmente-Altro di Dio [. . .] divent[a] totale alterità, radicale inconoscibilità di Dio. Significa che l’essere nascosto di Dio, ammesso dall’uomo come ovvio, assum[e] ora la scandalosa forma della sua tangibilità e visibilità in quanto Crocifisso. [. . .] A questo proposito, in tutta la Bibbia ci si imbatte continuamente nell’idea di una duplice modalità di manifestazione di Dio nel mondo. Dio si manifesta certamente, in primo luogo, nella potenza cosmica. [. . .] Questa, però, è soltanto una delle maniere in cui Dio si manifesta nel mondo. L’altro segno di presenza, che egli si è imposto e che, mentre più lo nasconde ancor meglio lo mostra in ciò che gli è più proprio, è il segno dell’infimo, che misurato secondo la scala quantitativo-cosmica è completamente insignificante, addirittura un puro nulla. A questo proposito andrebbe citata la sequenza: terra – Israele – Nazaret – croce – Chiesa, nella quale Dio sembra gradualmente scomparire nel più piccolo, rivelandosi, proprio così, sempre più per quello che è”.47 Come ogni teologia della storia, anche quella di Ratzinger è debitrice dell’interpretazione presente nell’Antico Testamento, e non può scindere l’eterna alleanza tra Dio e Israele dalla storia della salvezza.48 Come si potrebbe mai dimenticare il ruolo assunto in Gesù da Israele e dalla conversione all’agire di Dio di tutti gli Ebrei chiamati, e limitarsi a rimetterlo in scena il Giorno del Giudizio? Ratzinger, nel suo libro sistematico sull’escatologia, ha evitato di far uso di espressioni come “Israele”, “Ebrei” o “Conversione degli Ebrei come segno della parusia”. Al termine di un colloquio del 1983 sull’unità della Chiesa con la rivista “Communio” ha affermato: “Quando saranno finalmente uniti tutti i cristiani? Ritengo sia di fatto impossibile rispondere a questa domanda. Non va infatti dimenticato che vi è anche legata la questione dell’unità tra Israele e la Chiesa”.49 Nel 1994, in occasione di Ratzinger, Einführung in das Christentum, 183-185 (tr. it. p. 246). Dall’Antico Testamento anche Agostino aveva appreso il pensiero storico, che in lui si impone sempre più su quello all’inizio quasi puramente ontologico (cfr. nota 2, JRGS 2, 535). 49 Luther und die Einheit der Kirchen, «Internationale Kirchliche Zeitschrift» 12 (1983) 568-582, citato in: Ratzinger, Kirche, Ökumene und Politik, 115.
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un incontro ebraico-cristiano a Gerusalemme, ha detto: “Ebrei e cristiani devono accogliersi a vicenda in profonda riconciliazione interiore, senza prescindere dalla loro fede o addirittura negarla”.50 Nel 1997, a Parigi, sempre durante un incontro ebraico-cristiano, Ratzinger, ricorrendo a un linguaggio prudente, offre una lettura di Israele come interlocutore permanente del cristianesimo, parlando del ruolo positivo della missione ebraica all’epoca dei cristiani gentili, testimonianza della regalità di Dio in questo mondo atta a impedire lo scacco della storia universale.51 Troviamo dettagliate considerazioni in questo senso anche nel libro intervista Gott und die Welt, “Dio e il mondo”. Alla domanda se l’evoluzione del mondo non sia misteriosamente connessa a quella del popolo ebraico, Ratzinger risponde con un “È chiarissimo”: “Che gli Ebrei siano rimasti Ebrei, che siano restati un popolo anche nei duemila anni in cui erano rimasti senza terra, è un mistero assoluto. [. . .] La fede di questo popolo non è scomparsa, e continua anche ad essere ancora una spina piantata nel cuore della cristianità. [. . .] Il cristianesimo non è una religione diversa dalla religione di Israele, ma è l’Antico Testamento riletto con Cristo”.52 Grazie alla fedeltà di Dio si può dire che “da cristiani crediamo che alla fine ci ritroveremo quali siamo. [. . .] Certo, solo Dio sa con che modalità, quando e come si compirà l’unità tra Ebrei e pagani, l’unità del popolo di Dio”.53 Quella alla domanda sul senso del “nuovo Israele”, cioè dei cristiani, è una risposta articolata: i cristiani “sono, per così dire, l’Israele ‘accresciuto’ [. . .], in modo da aver parte al servizio di Cristo, al servizio di Israele per la storia”.54 Da papa, Ratzinger ha messo ancor di più in evidenza la nuova consapevolezza che Gesù fu e rimase ebreo, intenzionato a radunare nuovaIdem, Die Vielfalt der Religionen und der Eine Bund, Urfeld 1998, 44 (La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, tr. it. di G. Reguzzoni, Cinisello Balsamo 2000). 51 Apparso una prima volta nella «Internationale Kirchliche Zeitschrift» 26 (1997) 419-429; poi in: Die Vielfalt der Religionen und der Eine Bund, 93-121. 52 J. Ratzinger, Gott und die Welt. Ein Gespräch mit Peter Seewald, Stuttgart-München 20003 , 126-127 (Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, tr. it. di O. Pastorelli, Cinisello Balsamo 2001). 53 Ibidem, 128. 54 Ibidem, 180-181. 50
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mente Israele con l’aiuto di dodici Apostoli e a condurre il popolo di Dio là dove doveva giungere: all’immediata prossimità a Dio,55 nel libro su Gesù56 e nei discorsi.57 Nella terza parte del libro su Gesù, nel prologo, scrive: “Di fatto, nella sua missione di Figlio Gesù ha introdotto una nuova fase del rapporto con Dio. [. . .] Ma questo non è un attacco alla pietà di Israele”.58 Il fatto che Gesù inizialmente si sia limitato a una nuova raccolta di Israele, ponendola come segno per il mondo dei gentili, si accorda alla teologia della storia dei Profeti e dei Salmi. “Pellegrinaggio dei popoli” è un’espressione un po’ imprecisa, visto che ciascuno è sempre e solo chiamato in quanto persona, in quanto singolo. E tuttavia il pellegrinaggio dei gentili a Sion ha cambiato la storia universale degli ultimi duemila anni. Ratzinger ha capito fin dall’inizio che i cristiani stanno tornando ad essere minoranza, “più di quanto non lo siano mai stati dalla fine dell’antichità in poi”.59 Ma anche: “Credo che si possa fare 55
Il fratello di papa Benedetto XVI, a cui era stato chiesto quali fossero gli influssi relativi alla sua manifesta riconciliazione con l’ebraismo, spiega in un libro intervista: “Molto è anche dovuto ai suoi intensi contatti con la Integrierte Gemeinde di Monaco. Credo che il confronto con i lavori del Prof. Weimer e del Prof. Pesch gli abbia fatto comprendere alcune cose sull’importanza del dialogo con l’ebraismo” (G. Ratzinger, Mein Bruder, der Papst, München 2011, 141-142; Mio fratello il papa, tr. it. di A. M. Foli, Milano 2013). 56 È interessante che il primo volume di Jesus von Nazareth abbia inizio con l’attesa di un nuovo Mosè – “un profeta come me” – in Dt 18,15, ricollegandosi così al pensiero ebraico per spiegare l’ultima parola di Dio. 57 Particolarmente chiaro nel discorso sul tema “Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo”, udienza generale, 22 marzo 2006: “Il primo passo è la ‘raccolta’ del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore possano vedere e credere. Così, i Dodici [. . .] cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d’Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l’inizio dell’universalizzazione dell’Alleanza” (http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2006/documents/hf_ ben-xvi_aud_20060322_it.html, controllato il 27 gennaio 2015). 58 J. Ratzinger/Benedetto XVI, Jesus von Nazareth. Prolog. Die Kindheitsgeschichte, Freiburg i. Br. 2012, 129 (L’infanzia di Gesù, tr. it. e cura di I. Stampa, Milano 2013). 59 Idem, Weltoffene Kirche?, in: Das neue Volk Gottes, Düsseldorf 1972, 127 (Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, tr. it. di G. Re, Brescia 19924 ).
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un ragionamento molto concreto sul piano storico-sociologico: se non ci fosse più la Chiesa, se non ci fossero più uomini tesi ad esporsi a tutta la serietà che comporta la fede praticata nella Chiesa, il mondo sarebbe diverso. Se la fede dei cristiani si estinguesse, davvero – lo si può dire senza timore di esagerare – ‘il cielo si abbatterebbe’ sul mondo”.60
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Idem, Kein Heil außerhalb der Kirche?, in: ibidem, 174-175.
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“Si può diventare fisici di livello mondiale senza conoscere la storia della sua disciplina, ma non si può diventare grandi teologi o grandi filosofi senza avere dimestichezza con la storia della teologia e della filosofia”: diceva Ratzinger nel 1998. La storia della filosofia è filosofia, e la storia della teologia è teologia, non nel passato, ma nel presente. Le questioni relative alla totalità dell’essere non permettono risposte troppo concrete, che si sommano le une alle altre; piuttosto esistono visioni di insieme, sulle quali si è riflettuto e che sono state strutturate razionalmente. Queste visioni possono entrare in dialogo reciproco, possono essere corrette, completate, approfondite e allargate; si possono escludere elementi certamente errati, ma non si possono sommare le une alle altre: “La presenza permanente della storia, che non cade nel passato, risulta dall’alterità e della presenza transtemporale della persona umana, la quale esprime se stessa, la sua presenza nella storia, nelle domande e nei suoi grandi tentativi di conoscere se stesso, di penetrare quell’abisso 1
Prima di tutto desidero qui manifestare la mia gratitudine nei confronti di monsignor Franz-Xavier Heibl e del dottor Christian Schaller, cosí come di Gerlinde Frischeisen e Heide Gabler, efficiente personale dell’Istituto Papst Benedikt XVI di Ratisbona, dove ho potuto dedicarmi al presente studio per alcuni giorni nell’estate del 2013. Nella compilazione di queste pagine mi è risultato molto utile il magnifico lavoro di Dorothee Kaes (Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit. Zur Hermeneutik Joseph Ratzingers, pro manuscripto, Dissertationen. Theologische Reihe, Bd 75, St. Ottilien 1997), anche a lei devo la mia gratitudine. Mi ha aiutato con la traduzione del testo Claudio Basevi, professore emerito della Facoltà di Teologia nell’Università di Navarra, al quale sono grato anche per i suggerimenti e le correzioni.
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che è l’uomo”.2 La storia diventa così una grande maestra, anche per la filosofia e la teologia. Historia, magistra etiam theologiae, ripete lungo tutta la sua opera; ma allo stesso tempo, come vedremo, Joseph Ratzinger non si sofferma soltanto sulle questioni metodologiche: andrà fino in fondo per stabilire una vera teologia della storia.
Una formazione storica “Nella prima metà del secolo XIX”, spiegava Walter Kasper, “alcuni teologi di Lucerna, Tubinga, Monaco di Baviera e Vienna cercarono di formulare una teologia che fosse ecclesiale nel miglior senso della parola, e [che] fosse animata da un’autentica liberalità teologica. Era una teologia fatta da persone che pensavano in modo indipendente e originale; erano pensatori che si mantenevano aperti a tutte le correnti di pensiero e che si trovavano al centro del dibattito intellettuale dell’epoca. Uomini come Möhler e Döllinger erano, allo stesso tempo, campioni della Chiesa e spiriti aperti che seppero guadagnarsi il riconoscimento e la stima di tutto il mondo scientifico del tempo”.3 Tra le università tedesche, spiccava Tubinga, l’“Olimpo dello spirito tedesco”, secondo Kasper,4 soprattutto per quanto riguarda l’ambito umanistico-teologico. Fondata nel 1450, divenne poi un baluardo del pensiero protestante. Ciò nonostante, all’inizio del secolo XIX, fu fondata anche una facoltà di teologia cattolica. Lì nacque una teologia in dialogo critico con i nuovi principi idealistici e romantici (le “menti fondatrici” furono Hegel, Schelling e Hölderlin), e allo stesso tempo furono promossi in particolare gli studi storici e letterari. Nelle sue aule fiorì sia la teologia speculativa sia il metodo storico-positivo, e venne sviluppato anche un intenso dialogo tra i diversi autori e le diverse tendenze. In questo modo, “dai loro scritti traboccano critica e confronto dialettico, ma si tratta sem2
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J. Ratzinger, Teologia e Magistero, «Sacra doctrina» 43 (1998/2) 78-79; il libro cui ci si riferisce è Storia della teologia, Bologna 1996-1997, di Battista Mondin. W. Kasper, Unidad y pluralidad en teología. Los métodos dogmáticos (1967), Sígueme, Salamanca 1969, 32. W. Kasper, D. Deckers, Al corazón de la fe, San Pablo, Madrid 2009, 44.
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pre di una critica costruttiva che sa utilizzare e appropriarsi con straordinaria agilità mentale e spirituale di ogni suggerimento positivo”.5 Kasper, al momento di valutare personalmente quei fattori, afferma che “i tubinghesi, nello spirito dell’idealismo, conciliano per mezzo della Chiesa verità e storia”,6 che sembravano inconciliabili, e da qui deriva il valore dei tubinghesi, sebbene non tutti i risultati fossero ugualmente equilibrati, dal momento che alcuni erano viziati da un certo razionalismo o da uno storicismo unilaterale.7 In modo simile a ciò che era successo a Tubinga, anche a Monaco di Baviera sorsero numerosi circoli culturali: “un vero centro che irradiava la vita cattolica in tutta la Germania; la Tavola Rotonda (così veniva chiamato il circolo di Görres [un professore di storia che successivamente entrò in piena comunione con la Chiesa cattolica]) acquisì il carattere di istituzione: per più di vent’anni vi si riunirono letterati, artisti, giuristi, teologi, romantici e parlamentari”.8 L’università del capoluogo bavarese diventerà un importante centro di scambio culturale con la Francia e con il resto del mondo germanico, cosicché farà sentire il carattere critico e storico di questa teologia del secolo XIX. Forse proprio a causa di questa e altre situazioni simili, si venne a creare la situazione di tensione che descrive Kasper. A metà del secolo XIX accadde qualcosa di negativo, perché le diverse tendenze si radicalizzarono: “entrò in scena un’ecclesialità di nuovo stampo, la storia venne percepita come pericolosa e non facile da assimilare, l’epoca moderna apparve ai loro occhi come un cataclisma tremendo”.9 Nonostante sia solo una coincidenza, Ratzinger nacque nel 1927, lo stesso anno in cui Martin Heidegger dava alle stampe Sein und Zeit. I 5
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W. Kasper, Fe e historia (1970), Sígueme, Salamanca 1974, 15; cfr. anche E. Vilanova, Historia de la teología cristiana, III, Herder, Barcelona 1985, 453. W. Kasper, Fe e historia, 30. Cfr. J.L. Illanes, La teología en las épocas moderna y contemporánea, en J.I. Saranyana, J.L. Illanes, Historia de la teología, BAC, Madrid 1995, 283; K.H. Neufeld, La scuola cattolica di Tubinga, in R. Fisichella (ed.), Storia della teologia III, Dehoniane, Bologna 1996, 148-150. P. Pourrat, La spiritualité chrétienne, Paris 1938, IV, 519; citato in E. Vilanova, Historia de la teología cristiana, III, 446. W. Kasper, Unidad y pluralidad en teología. Los métodos dogmáticos, 32.
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rapporti tra ontologia e divenire, verità e storia, costituirono fin dal principio un chiaro centro d’interesse per il nostro autore, così come ricorda sopratutto Wojciech.10 Oltre a quella lezione delle scuole di Tubinga e Monaco, uno dei suoi primi maestri fu John Henry Newman (1801-1890), che, nel suo Saggio sullo sviluppo storico del dogma (1845), affermava che la Chiesa cattolica “cambia per continuare ad essere sempre la stessa”. Le varie formule degli stessi dogmi sono solo diversi modi di esprimersi nelle varie epoche. La storia può essere quindi un’istanza rivelatrice della stessa verità, senza che quest’ultima venga diluita dalla prima: questo affermava in linea con ciò che avrebbero sostenuto le scuole di Tubinga e Monaco. La nostra ricezione della verità manifestata non è atemporale, ma viene espressa in modi apparentemente diversi nelle varie epoche. È questa la grande scoperta avvenuta in pieno secolo XIX, il “secolo della storia”.11 Monaco, infatti, nel periodo in cui Ratzinger vi studiò, era, assieme ad altre università tedesche, un importante centro di studi storici, rappresentato dalle figure di Martin Grabmann (1875-1979) e Michael Schmaus (1897-1993). La storia in quegli anni aveva fatto 10
Come vedremo con maggior chiarezza più avanti, Ratzinger ha sempre cercato un “ungeklärten Zuordnung von historischer und systematischer Theologie”, una inspiegabile associazione di teologia storica e teologia sistematica, (Katholische Theologie, in K. Galling (ed.), Die Religion in Geschichte und Gegenwart VI, Tubingen 19623 , 776). Cosí affermava circa il metodo storico-critico: “Sicher ist nur, daß es keinen Weg mehr an der historich-kritischen Methode vorbei gibt und daß sie gerade als solche einem Auspruch der Sache der Theologie selbst entspricht” (Einleitung und Komentar zu Art. 1-10 u. 21-26 der Dogmatischen Konstitution über die göttliche Offenbarung, LThK II, 1967, 499). Wojciech lo considera quasi come un esempio irrinunciabile: “dans la théologie de Ratzinger la question de l’histoire constitue, à notre avis, une des questions-clefs et mériterait à ce titre d’etre étudiée d’une façon plus approfondie” (J. Wojciech, La foi comme dialogue, Institut Catholique, Paris 1991, 200, n. 41; cfr. anche 8-9; R.A. Krieg, Kardinal Ratzinger, Max Scheler und eine Grundfrage der Christologie, «Theologische Quartalschrift» 160 (1980) 108; A. Bellandi, Fede cristiana come “stare e comprendere”. La giustificazione dei fondamenti della fede nelle opere di Joseph Ratzinger, pro manuscripto, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, 332-335). 11 Cfr. M. Arostegi Esnaola, Newman, Ratzinger y la Tradición viva, «Alfa y omega» 829 (18.4.2013) 32.
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irruzione nella teologia cattolica, soprattutto attraverso lo studio dei Padri della Chiesa e dei maestri medievali.12 “Nella Germania di quel tempo”, ricordava il cardinal Ratzinger presso l’Università di Navarra, quando ricevette il dottorato honoris causa, “esisteva un dominio assoluto dello storicismo e del pensiero storico, e sarebbe stato impossibile accedere al dottorato in teologia senza uno studio di carattere storico. Pertanto, era indispensabile lavorare su un argomento patristico, medievale o anche della prima epoca della modernità (non posteriore comunque alla Rivoluzione francese). Per queste ragioni il mio primo lavoro è stato su sant’Agostino, e successivamente su san Bonaventura”.13 Infatti, dopo il suo lavoro sull’ecclesiologia in sant’Agostino e dopo un iter piuttosto travagliato,14 Ratzinger pubblicò a Monaco la sua tesi di abilitazione intitolata La teologia della storia in san Bonaventura (1959). Indica lì l’atteggiamento del Doctor Seraphicus, che mantiene una prospettiva extra-filosofica e, (se si considera la teologia nel suo senso più stretto di teologia scolastica, sistematica e speculativa) un punto di vista extra-teologico, che permette una nuova panoramica e un ordine storico dell’insieme. Bonaventura, approfondendo la considerazione della realtà francescana, vede tutto il fenomeno della scolastica, del pensiero scientifico sotto una nuova luce. “La forma di vita di san Francesco un giorno sarà la forma generale di vita nella Chiesa: il simplex et idiota, nel senso etimologico della parola, trionferà sui grandi sapienti e la Chiesa alla fine dei tempi respirerà lo spirito del suo Spirito”
Cfr. G. Thils, Orientations de la théologie, Ceuterick, Louvain 1958, 45. Kaes stabilisce una genealogia delle idee circa la storia in Ratzinger attraverso il pensiero di Lubac, Balthasar e Söhngen: cfr. D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 224. 13 El cardenal Ratzinger en la Universidad de Navarra. Discursos, coloquios y encuentros, Facultad de Teología, Universidad de Navarra, pro manuscripto, Pamplona 1998, 52. Milbank definisce questa ricezione di Agostino come un “augustinismo critico posmoderno”: J. Milbank, Post-modern critical augustinianism: a short summa in forty-two responses to unasked questions, «Modern theology» 7 (1991) 311-333. 14 Cfr. J. Ratzinger, Mi vida, Encuentro, Madrid 1997, 81-85. 12
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(il che ricorda inevitabilmente il discorso ratzingeriano sulla “fede dei semplici”).15 Ma anche nel prologo all’edizione del 1992 della sua tesi di abilitazione, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede portava di nuovo all’attenzione i rapporti tra storia e verità atemporale, facendo riferimento al contesto teologico di quell’epoca. E riguardo la questione sulla possibilità per un cristiano di prendere in considerazione la pienezza intramondana, una sorta di utopia cristiana, una sintesi tra mondo ed escatologia, che sarebbe poi divenuto il nucleo del dibattito sulla teologia della liberazione, affermava che “oggi come ieri, non si tratta di una semplice disputa accademica, ma di una lotta sul modo di esporre adeguatamente la storia e su come la si può mandare in fumo. Bonaventura ha adottato una posizione chiaramente diversa, come cerca di dimostrare questo libro, e non ha condannato globalmente, in assoluto, il pensiero di Gioacchino [da Fiore]. Certamente Bonaventura rigettò con decisione le pretese spinte che cercavano di separare Cristo dallo Spirito, la Chiesa organizzata cristologicamente e sacramentalmente dalla Chiesa pneumatologica e profetica dei nuovi poveri”.16 Non si può separare, quindi, Cristo dallo Spirito Santo, la Chiesa gerarchica da quella carismatica, né l’ontologia dalla storia dalla salvezza. Non si può lasciare che la verità si dissolva nella storia, e allo stesso tempo solo può manifestarsi in essa. Il tempo deve inconIdem, La teología de la historia en san Buenaventura (1959), Encuentro, Madrid 2004, 233. 16 La teología de la historia en san Buenaventura (1959), 14. Nel prologo dell’edizione americana, Ratzinger fa un’interessante dichiarazione di principi, che ci situa nel contesto storico: “Quando posi mano al lavoro preliminare a questo studio nell’autunno del 1953, una delle questioni in primo piano nei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era quella sul rapporto tra storia della salvezza e metafisica. [. . .] Si trattava di un problema che era nato soprattutto dal contatto con la teologia protestante che, dai tempi di Lutero, ha teso a considerare il pensiero metafisico un allontanamento dalla specifica rivendicazione della fede cristiana che indirizza gli uomini non solo verso l’eterno, ma verso Dio, che agisce nel tempo e nella storia” (The Theology of History in St. Bonaventura, Chicago 1989, ix; cfr. anche A. Bellandi, Fede cristiana come stare e comprendere, 281-282). 15
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trarsi con l’eternità e la verità deve realizzarsi nella storia anche se, come vedremo, in un modo piuttosto complesso e problematico. Questa era la questione che occupava il giovane Ratzinger e che prendeva a modello l’incarnazione stessa del Logos: “et Verbum caro factum est” (Gv 1,14).17
Una teologia tra l’essere e il tempo Poco dopo, in un articolo del 1960 intitolato “Theologia perennis?”, il giovane ed irrequieto professore, appena giunto a Bonn, si poneva una serie di domande decisive: “Possono i filosofi cambiare idea come ci si cambia d’abito, o la verità è sempre valida, di modo che, una volta trovata, non c’è più bisogno di cercarla o di apportare cambiamento alcuno? Non è forse l’esigenza di una ‘corrispondenza ai tempi (zeitgemäßen), un ‘aggiornamento’ una pretesa smisurata da qualsiasi punto di vista rispetto alla dignità della verità, che è eterna? Non è la verità a dover essere retta dal tempo, ma il tempo dalla verità”. La priorità della verità rispetto al tempo e alla storia sembra dunque evidente: “Una cosa è chiara: esiste una verità assoluta, che nel cristianesimo diventa visibile e accessibile. La convinzione che la fede rende possibile raggiungere la verità assoluta, appartiene al nucleo fondamentale del cristianesimo: [. . .] che si conosca un’unica verità immutabile nel tempo e che non venga creata in ogni momento, per adeguare la verità ai tempi che corrono”. Quando cerca di soddisfare le esigenze moderne di verità e tempo, aggiunge che “la verità non si presenta mai agli uomini come nuda veritas, ma sempre rivestita di una forma, che certamente è stata condizionata storicamente. O, in altre parole: la verità può essere enunciata e manifestata tra gli uomini umanamente, e la parola umana è sempre parola storica, non la Parola assoluta – il Logos –, la Verità in se stessa. È vero che, in questa Parola (alla quale appartene anche il pensiero degli uomini) è contenuto l’Assoluto, la Verità in sè, ma sempre mediante la 17
Si veda: D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 39-63, 228-229.
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stretta mediazione della limitata comprensione umana e la sua capacità di espressione. Ciò non sopprime il carattere assoluto della verità, ma significa semplicemente che l’uomo guarda sempre da un punto di vista limitato e fondamentale”.18 Verità, linguaggio e storia risultano così strettamente legati, come hanno dimostrato le ultimissime teorie dell’interpretazione. Secondo Ratzinger, la storia, dunque, configura il modo di vedere la verità, senza determinarlo totalmente. Il tono qui impiegato dal nostro autore ricorda il modo di parlare dell’ermeneutica contemporanea: la verità si rivela e si manifesta nel tempo e, per questo, il nostro intelletto deve tener presente tale condizione di possibilità. Poco dopo il suo trasferimento a Tubinga, in un saggio del 1966 sui rapporti tra storia e dogma, il teologo ricordava l’importanza della storia nell’attualità. Così come nel Medio Evo tutta la cultura fu sottomessa ad una reductio in theologiam (tutto era teologia), si verifica ora una generale reductio in historiam: di ciascun fenomeno viene captato soltanto il carattere storico, l’essere viene riconosciuto come un divenire (Gewordensein) e di conseguenza lo si studia nel suo farsi. Tutto è storia e nient’altro che storia. “Fino ad allora, infatti, la realtà cristiana veniva concepita come un assoluto, il manifestarsi (Sich-zeigen) della immutabile verità divina, ma ora essa avrebbe dovuto porsi di fronte alle categorie di storia e di storicità, cosicché, quanto più ci si fosse rivolti al problema della storicità, tanto più sarebbe sembrato che il carattere assoluto della verità cristiana si stesse dissolven18
J. Ratzinger, Theologia perennis? Über Zeitgemäßheit und Zeitlosigkeit in der Theologie, «Wort und Wahrheit» 15 (1960) 184. E termina con una rivendicazione del pensiero ermeneutico, contro un’impostazione meramente razionalista o positivista: “Deshalb haten allen menschlichen Aussagen etwas Zeitbedingtes an, selbst noch den abstrakten Formeln der Mathematik ist ihre Herkunft aus dieser oder jener Denkwelt anzusehen. Und natürlich wird der Zeitindex um so deutlicher, je konkreter eine Aussage ist. Das muß ihr nichts von ihrer Würde nehmen: sie kann zeitbedingt Absolutes sagen. Es wird nur darauf ankommen, sie zu übersetzen –wieder in zeitbedingtes Denken hinein, das wieder neu das eine Wahre sieht” (ibidem, 184-185). Sulla dimensione storica della salvezza cristiana, si veda: D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 25-38.
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do nel decorso storico, provocando, per così dire, la riduzione della riduzione, e cioè, il sovvertimento delle riduzioni vigenti fino ad allora”.19 In quel momento Ratzinger affrontava il problema in profondità e, come sempre, iniziava con una revisione storica della questione (status quaestionis), che non costituisce un semplice sfoggio di erudizione, ma una necessità metodologica.20 Con tale avvicinamento alla storia, si otteneva così un confronto tra la visione cattolica e quella protestante: alla nozione cattolica d’identità che aveva dominato fino ad allora (per la quale la storia dei dogmi si riduce ad una antologia di loci che provano la possibilità del dogma), viene contrapposta da parte protestante l’idea di decadenza, dal momento che si propone l’idea – in certo modo intesa in senso negativo – di evoluzione del dogma. Il cristianesimo tende alla necessaria degradazione, e perciò esige una continua purificazione, riforma e demistificazione. Con queste premesse, in campo protestante, sulla base di un determinato concetto di tradizione, questa diventa una storia dei dogmi, cosa che invece non si poteva dare nel cattolicesimo postridentino. “In fondo l’idea di decadenza non è che il negativo del principio della sola Scriptura. Se, infatti, conta solo la Sacra Scrittura, tutto ciò che viene dopo non può essere che decadenza e depravazione dell’unico principio normativo”.21 Il risultato, secondo Ratzinger, sarà profondamente paradossale: “Mentre l’affermazione cattolica postridentina riguardo alla Tradizione aveva portato alla negazione della storia, la critica protestante portava a una critica ed a un rifiuto della storia, intesa come storia cristiana, e proponeva in cambio un concetto astorico della realtà cristiana”.22 Da nessuna delle due parti poteva sopravviveJ. Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il Teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993, 109-110. 20 Cfr ibidem, 110-116. 21 Ibidem, 114, in cui cita gli sviluppi di A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschischte I, Tubingen 19315 , e di M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas, Bern-Tübingen 1941. Tale problema sarà anche affrontato in “La storicità dei dogmi” (1971), in Natura e compito della teologia, 131-142. 22 Ibidem, 116. 19
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re la storia, dal momento che veniva proposta come una componente isolata. Secondo il nostro autore era quindi necessario riconsiderare il tema del rapporto fede-storia sia da parte cattolica sia da parte protestante, dal momento che la storia è fondamentale anche per la fede e per una sua migliore comprensione. Ratzinger arriva alla conclusione che si potrebbe dire che per Tradizione si intende la spiegazione, nella storia della fede della Chiesa, dell’avvenimento di Cristo testimoniato dalla Scrittura: “Lo storico deve accettare, come costante del fenomeno, che il credente stesso è convinto che tale interpretazione si dà in ultima istanza sotto la guida dello Spirito, e cioè di Cristo risuscitato continuamente presente grazie proprio allo Spirito”.23 La Tradizione legge la Scrittura nel corso della storia, con l’inestimabile aiuto e protagonismo dello Spirito: pertanto Storia magistra fidei, Spiritu adiuvante. Come conseguenza di quanto detto, bisogna riformulare il concetto di storia dei dogmi, avendo presente due premesse: in primo luogo, che la storia dei dogmi non può essere ridotta a una pura “storia della decadenza”; e, in secondo luogo, che non può neppure essere ridotta all’idea di progresso né, pertanto, può essere intesa come la “storia di un’ascesa”.24 Né il progressismo né il decadentismo deterministici si possono, quindi, accettare. In modo equilibrato e profondo, Dorothee Kaes spiega come, nella concezione di Ratzinger, la storia sia träger von Wahrheit, “foriera della verità stessa” e come la Rivelazione si manifesti e si sveli storicamente. Geschichte ist mehr als Historie, la storia è qualcosa di più della narrazione storica, sembra dire Ratzinger insieme a gran parte della tradizione ermeneutica contemporanea.25 La storia è la levatrice della verità, almeno dal nostro particolare punto di vista: non la possiamo raggiungere in modo astorico. È un organo rivelatore: la storia ha una dimensione rivelatrice che non possiamo dimenticare. Alla luce di tali premesse, Ratzinger proponeva uno staIbidem, 122. Ibidem, 123; ne parla qui come di un limite da evitare A.M. Landgraf, Dogmengeschichte der Frühscholastik I y IV, Regensburg 1952-1956. 25 Cfr. D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 64-85, 88-91.
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tuto proprio per la storia come fonte di conoscenza: lo storico, nella misura in cui egli stesso è credente, da una parte, cercherà di scoprire l’elemento originario in ciò che si trasforma, dal momento che la storia, come abbiamo appena detto, ha una dimensione rivelatrice e veritativa; dall’altra, farà scoperte e analisi critiche all’interno del processo del divenire che muove la storia: non tutto è un processo assoluto e necessario. Si presenta in questo modo il valore ambivalente e ambiguo della storia dei dogmi: può significare progresso nello sviluppo delle realtà storiche, ma anche perdita e alienazione. “Perciò la storia dei dogmi comprende sempre un duplice movimento: un movimento di sviluppo, e allo stesso tempo un movimento di riduzione. Accanto all’arricchimento e all’ampliamento deve esserci la semplificazione all’unità del reale, che è e rimarrà sempre, il vero punto di partenza di ogni arricchimento e sviluppo”. Ratzinger infine precisa che analisi e sintesi si uniscono in questo processo, anche se la Scrittura deve sempre precedere la storia dei dogmi, affinché questa non dissolva nel suo divenire la verità rivelata.26
Salvezza, storia ed escatologia Come indica di nuovo Kaes nel suo studio dettagliato, il metodo teologico ratzingeriano “oscilla nell’equilibrio tra l’adesione ad un fondamento metafisico e l’orientamento della storia della salvezza, al fine di offrire le necessarie sfumature e raggiungere la dovuta visione d’insieme”. Anche qui la teologa tedesca dissente da Wojciech dal momento che attribuisce maggior peso alla dimensione ontologica, inseparabile a sua volta da quella storica, come abbiamo già detto.27 In un articolo del 1967, pubblicato nel Festschrift apparso in occasione dei 150 anni della facoltà di teologia cattolica di Tubinga, Ratzinger affermava che il J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, 124; critica qui l’impostazione di K. Rahner, Schriften zur Theologie I, Einsideln 1954, 18; cf. Natura e compito della teologia, 125. 27 D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 100; cfr. anche 99, 95-104. 26
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rapporto fra l’essere e la storia risulta il tema chiave per spiegare la trasformazione della teologia negli ultimi anni. Nell’articolo si propone di studiare il concetto di storia della salvezza (Heilgeschichte), dall’origine indubbiamente protestante, ma che, successivamente, è stato assimilato ed accettato dalla Chiesa cattolica ormai già nel Concilio Vaticano II, con il termine di historia salutis:28 “a questo stadio del dibattito, l’espressione ‘storia della salvezza’ ha un significato antitetico: la teologia della storia della salvezza si presenta come antitesi della metafisica e della teologia concepita in termini metafisici”.29 Ciò nonostante, la teologia cattolica correggerà a poco a poco la sua impostazione metafisica, forse leggermente unilaterale, e accetterà una presenza maggiore della prospettiva storico-salvifica che appare nei testi della Scrittura. Più avanti sarà presa in esame la posizione di Rudolf Bultmann, che, sostiene Ratzinger, proponeva un orientamento di tutto il cristianesimo e della teologia decisamente escatologico, opposto perciò all’impostazione storico-salvifica. Per l’esegeta tedesco, la parola, il kerygma, è l’avvenimento storico autentico, l’“avvenimento escatologico”, che porta l’uomo dalla sua esistenza alienata all’autenticità. Il kerygma è attualità, presenza attuale, lì dove risuona e, in ogni momento concreto, per gli uomini è possibilità attuale di salvezza. “La salvezza in larga misura viene detemporalizzata, così come il concetto dell’elemento escatologico viene accentuatamente spogliato di tutte le determinazioni temporali”.30 Cfr. J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1982, 121 29 Ibidem, 122. Al riguardo sviluppa allora un percorso storico, nel quale emergono alcuni nomi di teologi protestanti come Karl Barth ed Emil Brunner in dialogo con il maestro di Ratzinger, Gottlieb Söhngen, e fa riferimento al dibattito che ebbe luogo in Francia tra Jean Daniélou e Oscar Cullmann: cfr. ibidem, 121-125. 30 Ibidem, 126, in cui cita R. Bultmann, Der Römerbrief (Bern 1919). Kaes fa una valutazione dell’importanza di questo articolo: “Ratzinger weiß, daß mit diesem Hinweis die Antithesen, von denen er ausgegangen war, nicht aufgehoben sind, da von den Vertretern der jeweiligen Richtung die Auferstehung als heilsgeschichtliches Ereignis bzw. als die Geschichte überschreitendes und sie negierendes Geschehen verstanden wird. Dennoch scheint ihm der Auferstehungsglaube der geeignete 28
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Storia ed escatologia diventano così due realtà contrapposte, in base a tale interpretazione. Il valore della storia veniva di nuovo messo in dubbio, dopo essere stato recuperato, dato che la parola viene relegata, questa volta in modo esclusivo, al futuro escatologico: non ha possibilità di esistenza storica. Così, l’accusa al cattolicesimo da parte della teologia protestante in quel preciso istante si capovolge: se prima veniva condannata l’apostasia della storia della salvezza divenuta metafisica, come l’errore cattolico per antonomasia ora, viceversa, viene denunciato come errore cattolico il fissare una linea storica che resta e progredisce lungo una serie di avvenimenti. “Al posto dell’antitesi tra storia della salvezza e metafisica, si introdusse ora quella tra storia della salvezza ed escatologia”,31 nonostante siano concetti analoghi e complementari. Essi non sono visti in un continuum, ma in contrapposizione dialettica. Successivamente, la parte cattolica cercò di costruire un ponte tra tomismo e pensiero esistenziale di Heidegger, dimenticando però il concetto di Heilgschichte. Pertanto, il problema veniva così posto con chiarezza nei seguenti termini: “Come dobbiamo comportarci davanti alla doppia antitesi metafisica-storia della salvezza, e storia della salvezza-escatologia, che sta davanti a noi e implica la decisione fondamentale per la via futura della teologia?”32 Ausgangspunkt, um einen Weg zwischen den Extremen zu finden” (D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit. Zur Hermeneutik Joseph Ratzingers, 93; cfr. 86-88). “Anderseits ist Ratzinger trotz der eindeutigen Präferenz für die Heilsgeschichte weit davon entfernt, sich jener Form heilsgeschichtlichen Denkens anzuschließen, die dieses in radikaler Antithese zur Metaphysik konstruieren wollte. Vielmehr ist es in seinem Konzept gerade die seinshafte Fundierung des Glaubens, die den Wirklichkeitsgehalt des geschichtlichen Ereignises sichern und zugleich das Vergegenwärtigungsproblem lösen kann. [. . .] Mit dem Gesagten wird aber der zuvor geäußerte Vorzug der heilsgeschichtlichen gegenüber der metaphysyschen Äusrichtung der Theologie nicht aufgehoben” (ibidem, 95; si veda anche 121-126). 31 J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, 128. 32 Ibidem, 132. Ratzinger attribuisce a Tommaso d’Aquino l’abbandono della prospettiva storico-salvifica: “E fu proprio il metafisico san Tommaso che da un ceto punto di vista ha attuato il distacco dalla concezione della storia della salvezza, [. . .] sostituendo la regola ermeneutica fondamentale fino allora vigente: Quid credas docet argumentum, con quella direttamente contraria: Ex solo sensu litterali potest trahi
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Per risolvere questo problema, dopo aver considerato l’aspetto storico (status qæstionis) e quello ontologico della definizione cristologica di Calcedonia (che risponde alla semplice confessione della divinità di Cristo, attraverso la formula ellenica che recita: Gesù è il Kyrios, il Cristo), Ratzinger fissava il suo sguardo attento sulla resurrezione di Cristo, dal momento che era un avvenimento storico, allo stesso tempo ontologico ed escatologico: “Il punto centrale dell’evangelo consiste nel messaggio della risurrezione e dunque in un messaggio sull’azione di Dio, che precede ogni attività umana”.33 Pertanto, la dimensione storica precede quella ontologica e la dimensione ontologica precede quella meramente esistenziale: l’in sè va davanti al per me, e il reale e oggettivo precede ogni soggettività, per quanto ricca ed espressiva possa essere, “Dio ha agito: di questo si deve anzitutto parlare, prima che dell’uomo, del suo peccato e della sua ricerca del Dio di grazia”.34 L’agire di Dio precede qualsiasi azione umana, e la dimensione ontologica precede quella esistenziale. Ma, a sua volta, al contrario di ciò che pensa Bultmann, la Rivelazione precede la proclamazione, che cerca di esprimere con parole umane l’azione di Dio e, in conclusione, “è questo il punto di partenza del principio sacramentale, la ragione per cui la parola-azione di Dio deve essere ricevuta dall’uomo mediante parole e segni”.35 Anche qui “al principio era il Logos” (Gv 1,1), dove l’umano è è correlativo al divino: il Logos divino costituisce il fondamento di ogni logos creato.36 La resurrezione di Gesù Cristo è, in definitiva, un avvenimento escatologico che supera e trascende la storia: questo morto non è più morto, argumentum. La svolta ermeneutica, la rivoluzione dell’impostazione teologica, che appare in senso positivo e negativo (anche negativo!) nell’opposizione delle due formule sono lungi dall’essere state prese sufficientemente in considerazione.” (ibidem, 132; la prima citazione è di Niccolò di Lira, mentre il riferimento tomista si trova in S.Th. I, q.1 a.1 ad 1). 33 Ibidem, 136-137. 34 Ibidem, 137-138. 35 Ibidem; cfr. D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 93-95. 36 Cfr. P. Blanco Sarto, Logos. Joseph Ratzinger y la historia de una palabra, «Límite» 14 (2006/1) 57-86.
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ma Egli stesso, in quanto tale, nella sua individualità e singolarità, è vivo e vive per sempre: “Credere nella resurrezione di Gesù significa invece credere all’eskhaton entro la storia, la storicità dell’agire escatologico di Dio”.37 Il futuro si trova già nel presente. Per questo Ratzinger arriva alla conclusione che la resurrezione di Cristo è insieme passato, presente e futuro, che diventano a loro volta eternità. In tal modo la dimensione ontologica – che è atemporale – stabilisce un rapporto con la dimensione storica ed escatologica, con il passato e il futuro. “La teologia della resurrezione condensa al suo interno tutta la storia della salvezza e la fa consistere nel suo significato esistenziale”. La resurrezione trascende la storia e rompe i rigidi schemi temporali, perché ha valicato le frontiere tra l’umano e il divino, che si coniugano al presente: “Gesù è il Cristo, Dio è uomo, e avvenire dell’uomo significa dunque essere una cosa sola con Dio e conseguentemente essere una cosa sola con l’umanità [. . .]. Dio è uomo: solo in questa formula si trova finalmente accolta, con tutte le conseguenze che comporta, la realtà pasquale e diventa così, da un punto della storia transeunte, l’asse stesso della storia, dal quale noi tutti siamo portati”:38 la resurrezione di Cristo, attraverso la quale l’essere è stato riconciliato con la storia e con il futuro allo stesso tempo. Passato, presente e futuro si fondono nell’eternità. Ratzinger arrivava alla conclusione che in Cristo e nella sua resurrezione l’equazione impossibile tra essere e tempo, verità e storia, momento ed eternità viene risolta.
La storia dei dogmi Nel già citato articolo del 1967, il professore di Tubinga faceva alcune considerazioni sul “problema dello sviluppo della formulazione dogmatica”, emerso durante il Concilio Vaticano II. Scriveva che bisognava superare un angusto concetto di tradizione ed aprire la strada a una riconciliazione tra storia e dogma. Citando Rahner, Ratzinger 37 38
Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, 139. Ibidem, 143.
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affermava che il dogma può restare fedele alla propria essenza e al suo significato presente; ma allo stesso tempo “può mutare ancora, pur nella sua immutabilità”. D’altro canto, il dogma non sarebbe altro che un’interpretazione autorevole della Scrittura: trasporre l’equivocità propria del linguaggio della Scrittura nell’univocità del linguaggio concettuale. L’interpretazione ha ormai una lunga storia, anche se si può ravvisare un “circolo ermeneutico” tra Scrittura e magistero. La prima sarebbe un momento costitutivo del secondo: “Come il teologo in una interpretazione teologica della Scrittura, parte dalla totalità della Bibbia con le sue numerose autenticità e tensioni storiche e può cogliere l’enunciato biblico in se stesso, [. . .] così anche il dogma lo si deve comprendere solo nell’unità della storia dei dogmi”. Così il Vaticano I per esempio va letto insieme ai concili antichi, a quello di Costanza e al Vaticano II. Questa sarebbe l’impostazione storica necessaria per capire fino in fondo i dogmi: “il dogma dev’essere compreso nell’unità della sua storia particolare”. Però questa impostazione non ha niente a che vedere con lo storicismo e con la dissoluzione del vero nella storia propria della modernità; esige invece che il dogma “sia inteso nella sua stessa storicità così da rendere possibile per la teologia cattolica non solo una storia ad esso introduttiva, ma una vera storia del dogma in sé”.39 Anche in una collaborazione del 1968,40 Ratzinger partiva dalla tensione tra immutabilità e storicità: “questa tensione è diventata di coscienza comune negli anni del Concilio, da quando noi stessi siamo divenuti testimoni della storicità dei dogmi, dietro la quale però ci si fa sempre più visibile la loro immutabilità”. Perciò il nostro teologo cercava di capire in primo luogo cosa volesse dire “storicità”; successivamente, cosa significasse la parola “dogma”, per metterle poi insieme e comprenderle meglio. Nell’Antichità e nel Medioevo, riassume Ratzinger, il tempo aveva un senso negativo, come qualcosa proveniente dal non-essere: “è senza fine, disordinato, informe ed anche senza un suo significato 39 40
Ibidem, 128-129. “Zur Frage der Geschichtlichkeit der Dogmen”, in O. Semmelroth, R. Haubst, K. Rahner (Hg.), Maryria, Liturgia, Koinonia. Festschrift H. Volk, Grünewald 1968; tr. in: Natura e compito della teologia, 131-142.
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proprio, quindi illogico: la storia non può essere scienza perché la sua successione dall’uno all’altro non ha alcun significato”. Il concetto di storia della salvezza non era quindi presente in questo orizzonte, ma la situazione mutò radicalmente nel secolo XIX. Da una parte, il primo passo fu la formulazione della teoria dell’evoluzione: gli esseri naturali non sono forme definite pronte ad essere contemplate, ma realtà che possono mutare. La creazione non è più cosmo ma tempo. L’essere diventa quindi un concetto problematico: “l’essere non appare più come il cosmo dell’antico significato, ma come una sinfonia, l’esecuzione di una partitura, la cui interezza si compie non altrimenti che nel corso del tempo”. La storia diventa una categoria fondamentale e si può avvertire, inoltre, una certa resolutio in historiam, una riconduzione di tutta la realtà alla storia. Il passo successivo sarebbe consistito nel comprendere il vero come qualcosa che si fa e che si costruisce (verum quia faciendum), concetto che si trova nell’ideologia marxista.41 Dopodiché Ratzinger passava a occuparsi del significato della parola “dogma”. Secondo l’accezione odierna, questo concetto sarebbe stato forgiato nel secolo XIX, e indicherebbe soltanto lo sviluppo e la cristallizzazione delle formulazioni delle verità cristiane attraverso i secoli. Nasce, però, dalla formula battesimale, e cioè da un avvenimento liturgico che sorge a sua volta dal processo vitale della conversione. Anche la fede proviene dall’esterno (ex audito) e non è qualcosa di manipolabile da noi, secondo il significato di symbolum come ciò che si unisce – come per le antiche tesserae hospitalitatis – e implica a sua volta la precedenza e la permanenza come realtà necessarie. Il dogma “non è rinchiuso su di sé come il concetto, che cerca di conoscere l’interezza della cosa nel movimento del comprendere, ma è la metà che ha consistenza solo insieme agli altri e soprattutto nel rinvio a ciò che mai si esprime esaustivamente. Non è un rinchiudere, ma un’apertura che instrada”. Ma allo stesso tempo, il dogma ha a che vedere con la parola, perciò può essere espresso in diverse formule: “certamente non si tratta di una lotta per delle parole, ma per la possibilità di render pensabile la 41
Ibidem, 132-134.
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cosa, dandole la possibilità di essere espressa”. Vi è dunque anche una grammatica della fede che deve essere osservata dalle nostre parole, e in questo modo si potrà fare una confessione di fede con le nostre stesse parole.42 Infine, Ratzinger riunisce entrambi i concetti nel sintagma “la storicità dei dogmi”. Arriva alla conclusione che a) il dogma è un fenomeno del linguaggio, perché la parola è espressione del pensiero, e pertanto si uniscono qui sia l’immutabilità sia la storicità. Questo linguaggio b) è sottomesso alla storia, ma non all’arbitrarietà di qualsiasi parlante: “il linguaggio senza continuità perderebbe la sua funzione, altrettanto l’attualità del suo farsi tale”. Il dogma c) ha anche “continuità e unità come processo ininterrotto dell’andare oltre e trasformarsi”. Però questo deve a sua volta rinviare sempre alla fede, che può essere soltanto una. Così, infine, d) lo sforzo di formulare il dogma che esprime veramente la fede ha bisogno di coraggio e pazienza allo stesso tempo: “Rimanere pazienti nel coraggio e coraggiosi nella pazienza sembra il vero compito della nostra ora. Solo così può compiersi anche nella nostra generazione ciò che Paolo ha annunciato come l’eterno compimento della fede: “glorificare unanimi e con una sola bocca il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (Rm 15,6)”.43
Salvezza, storia e ontologia Il Logos incarnato, morto e risorto, sarà di nuovo un fondamento stabile al momento di risolvere il dilemma esistente tra storia e verità atemporale, come affermava Ratzinger ormai professore a Ratisbona. In un articolo del 1970 dal significativo titolo “Salvezza e storia”, spiegava come la dimensione storica offra garanzie all’esistenza reale, perché si tratta di una storia fondata sul divino e precisamente nell’accettazione della dimensione storica si fa presente quella soprastorica, ossia eterna: “il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14), e questa carne rivela il Logos eterno. 42 43
Ibidem, 136-138. Ibidem, 141-142.
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Solo quando la storia comincia a entrare in conflitto con le esperienze fondamentali della vita, solo quando invece di proteggere l’uomo lo disperde e lo dilania, solo quando, invece d’indicare un cammino, fa arrivare il dilemma dell’esistenza a un limite insopportabile, quando l’eterno si riduce al temporale e il Logos alla carne, allora la storia diventa un problema. La salvezza avviene nella storia, ma non è quest’ultima a salvare. Sorge così il sospetto che “la storia non conduca all’essenza, ma la ottunda, che essa non sia più salvazione, ma oppio, che essa non sia un cammino verso l’essenziale, ma solamente la forma dell’alienazione”.44 È il problema dello storicismo e del materialismo storico, della dissoluzione della verità nella dimensione puramente intrastorica. Secondo tale concezione, salvezza e storia non solo sarebbero unite, ma s’identificherebbero, dal momento che l’ontologia, proprio come avevano affermato i riformatori, si presenterebbe come una soprastruttura, come un’istanza estranea al vero cristianesimo. La storia è un punto di riferimento inevitabile nell’esistenza umana, ma non deve essere 44
Ibidem, 98-99. Successivamente Ratzinger approfondisce il discorso sulle origini storiche del problema e, secondo lui, si verifica una divisione tra fede e storia in seguito alla radicale scissione luterana: “Si potrebbe mostrare questo processo di passaggio dalla continuità alla discontinuità in rapporto a tutti gli elementi fondamentali ed essenziali della forma ecclesiale: al posto della successio che esprime e garantisce la continuità, si ha la potenza carismatica dello Spirito che agisce qui e ora; al posto della tipologia che annuncia la continuità della storia ella promessa e nel compimento, ora si ha il ricorso letterale alle origini; la storia compresa come unità di promessa e adempimenti è ora spiegata come l’opposizione tra legge e Vangelo. E poiché l’ontologia appariva come l’espressione filosofica fondamentale del concetto di continuità, è essa che viene combattuta come la corruzione apportata dalla scolastica, più tardi si dirà dall’ellenismo, nel cristianesimo, onde poi opporgli l’idea di storia: l’idea di storia della salvezza appare nella storia della teologia moderna come l’antitesi protestante all’impostazione ontologica della teologia cattolica.” (ibidem, 102-103, in cui cita E. Käsemann, Exegetische Versuche und Besinnungen II, Göttingen 1964, e considera anche l’impostazione di J.B. Metz, Zur theologie der Welt, Mainz-München 1968, e altre sue opere). La teologia protestante cerca di contrapporre la storia all’ontologia, affermando perciò che “la Bibbia, salvo qualche spunto, non conosce il pensiero ontologico, anzi rappresenta esattamente il contrario del modo di pensare ontologico greco.” (Ratzinger, Natura e compito della teologia, 106).
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assolutizzata né esagerata, perché quest’ultima, l’esistenza, è chiamata all’eternità e a trovare nell’eternità la stessa Verità sussistente. Per cercare di risolvere il dilemma tra storia e salvezza, il nostro teologo approdava al concetto di storia della salvezza in Karl Rahner. La conclusione sembrava chiara: tutto ciò significa, detto con la maggiore semplicità possibile, che per l’uomo è essenziale la storicità. Di fatto egli è un essere-nella-storia. I limiti di questa idea – importante in sé – risiedono nel fatto che in essa si tiene presente solo la storicità in generale e, di conseguenza, la mediazione storica viene legittimata come essenziale, sempre e comunque strettamente necessaria. Senza la storia, non vi è salvezza. Eppure, non dobbiamo dimenticare che, per la fede cristiana, “la storia è ‘storia della salvezza’ nella misura in cui essa è dappertutto e sempre la forma della mediazione che porta l’uomo alla sua propria essenza”.45 Ratzinger si chiede, quindi, se possa essere vera una riduzione antropologica della salvezza cristiana che prescinda dalle circostanze concrete di ogni persona. Con una certa ironia diceva che è ben vero che il teologo, il quale può soffrire per l’eccessiva peculiarità del cristianesimo, sente un po’ di sollievo quando alla fine può dire: “no, lo specifico [del cristianesimo] è ciò che è generico”. Il cristianesimo non sarebbe così molto diverso dalle altre religioni e stili di vita; la particolarità del cristianesimo entra così nella filosofia comune e nella sua razionalità. E Ratzinger arriva alla conclusione che il cristiano “non tarderà a porre la questione: posso io lasciar cadere la positività ecclesiale, se comunque è solo quanto in maniera irriflessa già da sempre esiste?”46 La domanda inevitabile è: a cosa servono allora la fede e la Chiesa? Possono salvare anche la filosofia, l’umanità, la mera razionalità? Rahner aveva cercato di rivendicare per la dimensione cristiana la razionalità generale, e di dimostrare che, in definitiva, la ragione umana considerata in generale, Ibidem, 110; qui si dà anche a uno studio esaustivo di K. Rahner, Einführung in den Begriff des Christentums, Freiburg i.B. 1976. 46 Ratzinger, Natura e compito della teologia, 114; sulla critica all’impostazione rahneriana si veda D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 126-129, 226-227. 45
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non in modo specifico, non dimostra altro se non che sono validi i contenuti cristiani, e che questi contenuti non sarebbero, in ultima analisi, altro che l’umano in generale, ossia, il razionale. “Ora il movimento del pensiero viene ribaltato: se i contenuti cristiani coincidono con l’umanouniversale, con il razionale-comune, allora quest’ultimo è l’elemento cristiano in se stesso. Allora si può, anzi, è doveroso interpretare il fatto cristiano con i criteri del razionale-comune”.47 La salvezza diventa così un puro processo razionale, e la soteriologia pura antropologia. Questa “svolta antropologica” (come la denominerà Fabro) condurrebbe a una diluizione del cristianesimo in un generico fattore puramente antropologico. La religione rientrerebbe in definitiva nei limiti della ragione, dell’azione e del pensiero meramente umano. Di conseguenza la Chiesa sarebbe una struttura facoltativa e fondamentalmente non necessaria. Ratzinger ricorda che il cristianesimo ha bisogno della ragione, ma, allo stesso tempo, non può dissolversi in essa, né diventare un becero razionalismo,48 così come ricordano Molnar ed altri autori.49 Ratzinger, Natura e compito della teologia, 115. Su questo argomento si veda P. Blanco Sarto, Joseph Ratzinger: razón y cristianismo. La victoria de la inteligencia en el mundo de las religiones, Rialp, Madrid 2005. Più avanti, il professore bavarese spiega il nucleo della sua critica a Rahner: secondo Ratzinger, il gesuita tedesco parte da un concetto troppo vasto di libertà umana: “Io credo dunque, in una parola, che il nucleo del problema posto dalla sinesi di Rahner consista nella sua concezione della libertà. Certo ci sono nella sua opera dei passaggi impressionanti, nei quali è sviluppato chiaramente il concetto cristiano della libertà dell’uomo, di questa libertà mescolata di possibilità di disporre, e di soggezione a disposizione altrui. Ma nell’impostazione fondamentale Rahner ha ripreso largamente il concetto di libertà proprio della filosofia idealista. Tale concetto non conviene se non allo spirito assoluto, a Dio, mentre non è affatto adatto all’uomo.” (Ratzinger, Natura e compito della teologia, 117). Perciò, continuerà Ratzinger, è necessario un adeguato concetto di libertà per capire il messaggio cristiano, con le necessarie possibilità e limitazioni che porta con sé per l’essere umano. 49 Molnar riassume l’impostazione ratzingeriana: “Non c’è niente di superficiale in questa critica del pensiero di Rahner. Ratzinger rifiuta con decisione qualsiasi tentativo di fondare «il nucleo del cristianesimo» sulla «ragione», perché, quando ciò avviene, il cristianesimo diventa sempre co-estensivo con le affermazioni della ragione umana, e Cristo diventa superfluo” (P.D. Molnar, Can Theology be Con47 48
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La Chiesa diventerà, invece, come afferma Kaes, la “mediatrice tra l’essere e il tempo”, tra la storia e l’eternità, per la sua natura sacramentale e la sua capacità di unire dimensione atemporale e dimensione storica, cosa da cui si deduce la sua necessità.50 Il nostro teologo, inoltre, arriva alla conclusione che in Rahner non sembra esserci un chiaro concetto – così essenziale nel cristianesimo – come quello della libertà. Difendere la libertà implica, perciò, a causa della sua stessa essenza, la negazione di un sistema chiuso e isolato. Ormai non siamo più in grado di dedurre del tutto la logica. Una sintesi concorde con la concezione cristiana deve essere, per conseguenza, una sintesi aperta, che rinunci a una logica esauriente, onnicomprensiva, che abbraccia la totalità dell’essere e degli enti; in questo caso si tratterebbe piuttosto di un sistema chiuso, nel quale una libertà assoluta si presenta sola e isolata, fondamentalmente lontana da Dio: “La debolezza della sintesi cristiana è la sua forza. Il concetto centrale di una filosofia e di una teologia cristiana della storia, dovrebbe quindi essere la libertà, la libertà reale, che certo include l’indeducibilità ed esclude perciò la coerenza perfetta del pensiero. La persona di Gesù Cristo come evento di ciò che è nuovo e imprevedibile,
temporary and True?, «The Thomist» 52, 1988, 531), nonostante l’incondizionata difesa che il teologo tedesco fa della necessità della ragione nel cristianesimo. “Qui ci troviamo di nuovo nel cuore reale della ricerca teologica. Se Rahner fu portato a confondere la libertà di Dio con la necessaria autoaffermazione delle creature perché non si rese conto che il limite della riflessione e dell’esistenza cristiane è solo Cristo, allora la strada per una filosofia o una spiritualità autoreferenziale, per principio, sarebbe stata preclusa ai cristiani” (ibidem, 533). E ancora: “il problema reale sembra essere il fatto che la tensione tra ontologia e storia affonda le sue radici sia nella ‘natura umana’ sia al di fuori di essa e in Dio” (ibidem, 534). Wojciech da parte sua spiega in sintesi e con grande lucidità la differenza dei punti di vista di entrambi i teologi: “On peut dire, certes en simplificant, que si pour Rahner assumer son existence humaine, vivre pleinement en homme équivant à dire oui a Christ, à être chrétien même inconsciemment [. . .], pour Ratzinger c’est le contraire qui se produit: c’est en vivant pleinement en chrétien que l’on devient vraiment humain” (J. Wojciech, La foi comme dialogue, 186, n. 3). 50 D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 140; cfr. anche 141-159, 182-191.
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è allora l’espressione centrale di questa libertà, che quindi diviene figura centrale della storia in genere”.51
Una teologia della libertà Dopo la critica del sistema di pensiero rahneriano, Ratzinger arriva ad afferma che la libertà si presenta come punto centrale per risolvere la dicotomia tra verità e storia: la prima si realizza nella seconda per mezzo della libertà. Così, a partire dal problema dei rapporti tra la verità e le sue manifestazioni storiche (tra essere e tempo, in definitiva), arriviamo a un problema con risvolto etico e profondamente esistenziale: quello della libertà. Una riflessione sulla libertà ci farà scoprire i contenuti della verità, così come il suo profondo legame con la storia. La manifestazione della verità si dà nella storia e attraverso la libertà, secondo le condizioni stabilite in precedenza. Questa liberazione proviene dal liberarci da noi stessi e dal donarci a chi può veramente arricchire il nostro essere e far crescere la nostra libertà. Dobbiamo perciò aver presente la rivelazione di Cristo riguardo alla libertà, “questa libertà con la quale Cristo ci ha liberato” (Ga 5,1). In questo modo, Ratzinger giungerà fino alla fondazione teologica della libertà umana, ad una sua ontoteologia. La libertà di Cristo aiuterà a risolvere questo dilemma tra verità e storia: “Tale filosofia della libertà e dell’amore è allo stesso tempo una filosofia della conversione, dell’uscita da sé, della trasformazione”.52 Grazie a questa stessa libertà, il Logos si è fatto uomo, l’eternità è entrata nel tempo e la verità nella storia: “La tensione fra ontologia e storia ha in definitiva il suo fondamento nella tensione dell’essenza umana stessa, che ha bisogno di essere fuori di sé, per potere essere presso di sé; essa ha il suo fondamento nel mistero di Dio, che è libertà e che quindi chiama ogni singolo, con il suo nome, sconosciuto agli altri”.53 Ratzinger, Natura e compito della teologia, 119. Ibidem, 119. 53 Ibidem, 119-120. 51 52
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La libertà di Dio offrirà dunque altre chiavi per approfondire non solo la libertà umana, ma anche il rapporto tra verità e storia, che malgrado tutto è stato criticato da Häring e Rollet, mentre altri (Molnar, Wojciech, Corkery) lo considerano uno dei successi del pensiero ratzingeriano.54 54
Nella risposta alla recensione di Ratzinger a Christ sein (München 1974) di Hans Küng (Wer verantwortet die Aussagen der ¨Theologie?, «Theologische Revue» 70, 1974, 223-238), Häring sembra non capire tutte le sfumature del nostro autore: “Ratzinger führt zwei Gründe gegen das unbeschränkte Recht der historischen Methode an. Historische Kritik, so Ratzinger, bleibt “innerweltlicher Vernunft” verhaftet. Deshalb sind ihre Ergebnisse, je umfassender sie sein wollen, desto mehr der “Plausibilität einer Epoche” ausgeliefert” (ibidem, 13). “Es scheint plausibel zu sein: historische Kritik bleibt auf der Ebene historischer Rückfrage stehen, kann ihre eigene Ebene nicht verlassen. Gott kann aber historisch nicht erreichbar, überprüfbar sein. Muß nicht eine Art höherer Vernunft ins Spiel kommen? [. . .] Die Frage an Ratzinger dagegen lautet: Ist nicht Jesu Geschichte, die in Analogie zur Geschichte anderer Menschen erfaßt werden kann, zugleich die Geschichte der (geschichtlich erfaßbaren!) Gegenwart Gottes? [. . .] Ratzinger aber beurteilt die innerweltliche Vernunft als vieldeutig, weil sie der Plausibilitat der Epochen ausgeliefert, weil sie geschichtlich bedingt sei. Wer aber wollte die Manipulierbarkeit menschlicher Vernunft leugnen? Deshalb ist Ratzingers Antwort einleuchtend: das Dogma stellt die Wahrheit ein für allemal fest, gibt der Vernunft Halt, schafft ihr den Freiraum, innerhalb dessen sie sich nicht selber in den Rücken fällt” (H. Häring, Katholische Theologie, aber wie?, «Theologishe Quartalschrift» 156, 1976, 302-303). Tra le critiche appare anche quella di J. Rollet in Le Cardinal Ratzinger et la théologie contemporaine, Editions du Cerf, Paris 1987, 23-26, dove sviluppa una sintesi dei citati articoli di Ratzinger. Il teologo francese prospetta il dilemma tra metafisica e storia della salvezza: “La question en soi n’est pas neuve: en termes plus concrets, c’est le debat entre Athènes et Jérusalem qui se trouve exprimé là. Doit-on et peut-on exprimer le contenu de la révelation judéo-chrétienne dans les termes et la problématique de la métaphysique grecque? Respecte-t-on alors la tradition biblique et la culture contemporaine? Le probleme se repose de façon analogue en ce qui concerna la religion: le Dieu de la foi judéo-chrétienne est-il le Dieu de la religion?” (ibidem, 96). Come vedremo, Ratzinger lo propone in termini meno antagonistici: preferisce la logica dell’et-et a quella del aut-aut. Alcuni, al contrario, lo considerano un punto d’onore nel pensiero di Ratzinger. “Per alcuni versi questo libro [=Theologische Prinzipienlehre] rappresenta un interessante cambiamento metodologico nella teologia fondamentale stessa della Chiesa di Roma. Invece di costruire fondamenta filosofiche, esistenziali e antropologiche per rendere possibili rivelazione e fede, Ratzinger si chiede: «Esiste una verità che rimanga vera in ogni
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Kaes afferma che la debolezza del cristianesimo nel riconoscere la libertà diventa la sua forza, la creazione di uno “spazio per la libertà”, la cui massima concretezza si trova nella persona di Gesù Cristo.55 In fine, in un omaggio del 1998 al teologo Johann Baptist Metz (n. 1928), in occasione dei suoi sessanta anni,56 dopo aver fatto alcune considerazioni sul tempo e l’eternità in Aristotele, Plotino e san Tommaso, oltre che sui concetti di progresso in Kant e di evoluzione in Teilhard de Chardin, il prefetto Ratzinger faceva alcune considerazioni di teologia della storia, al centro delle quali si trovava di nuovo l’idea di Dio e della libertà: secondo questa concezione, il tempo ha a che fare essenzialmente con la libertà, dal momento che è un movimento della libertà. Così, per andare fino in fondo nella questione del tempo, sarà necessario così affrontare la sua fine e, di conseguenza, la questione di Dio e della nostra libertà. Il teologo bavarese rifiuta ogni determinismo ed evoluzionismo radicali, e cita Pieper: “l’evoluzione non ha martiri”, perché appunto questi sono vittime di un uso sbagliato della libertà che genera una storia crudele. Il mondo al contrario nasce dalla libertà creatrice di Dio, il quale – con il movimento cosmico – predispone, prima di tutto, un luogo per la libertà: periodo storico perché è vera?»” (P.D. Molnar, Can Theology be contemporary and true?, «The Thomist» 52, 516). “Nous avons ici, nous sembre-t-il, le principe fondamental de la théologie ratzingérienne, principe qui es en même temps la clef néccesaire de la compréhension exacte et de la juste appréciation de cette théologie” (J. Wojciech, La foi comme dialogue, 397). Corkery cerca le radici antropologiche di tale impostazione: “L’antropologia teologica di Joseph Ratzinger cerca di rendere giustizia sia alla dimensione ontologica sia a quella storica dell’essere umano. E quando dà priorità all’ontologia, sulla base dell’affermazione del Prologo al Vangelo di Giovanni sul Logos che era in principio, ha due motivi per farlo: perché crede che le questioni dell’essere non possono essere ignorate da nessuna antropologia degna di questo nome e perché si augura di contrastare ciò che vede come un rifiuto o maltrattamento di tali interrogativi in svariati influenti punti di vista filosofici moderni” (J. Corkery, The Relationship between Human Existence and Christian Salvation in the Theology of Joseph Ratzinger, pro manuscripto, Catholic University of America, Washington 1991, 228). 55 Cfr. D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 130. 56 El fin del tiempo, in J.B. Metz, J. Ratzinger, J. Moltmann, E. Goodman Thau, La provocación del discurso sobre Dios (1999), Trotta, Madrid 2001, 15-34.
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il cosmo non è neutrale nei confronti della persona, e l’uomo non è un povero parassita dell’essere, ma entrambi sono stati creati per la libertà. “L’essere non divino non è ancora per se stesso qualcosa di negativo, ma, al contrario, il frutto positivo della volontà di Dio. Naturalmente non deve dimenticarsi che esiste il rischio della libertà con tutte le sue conseguenze, del quale per noi il segno più terribile è Auschwitz, che nessun ottimismo può eludere o lasciare fuori dalla riflessione”.57 Il male è l’inevitabile pietra di scandalo della libertà, nella quale inciampiamo ancora e ancora. Ma esiste anche la possibilità di un ritorno, di un reditus a quello stato originario di amore e verità. Ratzinger propone così l’esempio della pecora smarrita: “Il pastore che la prende e la riporta a casa è il Logos stesso, la Parola eterna, il senso eterno che abita nel Figlio di Dio, che ci viene incontro e si mette la pecora sulle spalle, cioè, assume la natura umana e come Dio uomo recupera la creatura umana”. Una tesi centrale della fede neotestamentaria è che esiste la possibilità di riscattare la libertà decaduta, il tempo perso, da parte di un amore vicario e così può riconciliarci, in maniera che le ferite dell’ingiustizia e del male si convertono – tramite la sofferenza che gli assume – in segni di pace. Elabora così Ratzinger tutta una teologia della libertà, dove affronta in profondità questa dimensione essenziale del messaggio cristiano in rapporto al divenire storico. Il tempo e la storia nascono dalla libertà di Dio e nostra, e pertanto dall’amore: “Solo il Dio che rinuncia alla sua distanza come creatore e signore fino ad arrivare alla condizione di servo, che si sottomette fino al punto di lavare i piedi; soltanto Lui e il suo amore sono la forza che recupera il cosmo alla libertà e all’amore, capace di introdurre la vera autonomia, la vera libertà”. Per questo la storia può essere anche filia libertatis et amoris.58 57 58
Ibidem, 29; cfr. anche 30-32, 34. El fin del tiempo, 31-32. Sui rapporti tra fede, verità e storia afferma Kaes: “Sowohl der Versuch, den Glauben allein auf der historischen Ebene anzusiedeln, als auch das Bemühen, ihn von seinem weltverändernden Potential her zu verstehen, erkennen – so Ratzinger – durchaus etwas Richtiges. Denn der Glaube hat es tatsächlich mit dem historischen Ereignis zu tun, und er besitzt tatsächlich eine kritische Funktion gegenüber den Mächten dieser Welt. Aber die genannten Positionen
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Quindi in queste pagine siamo riusciti a vedere come risolvere tre diversi dilemmi: verità e storia, verità e libertà, e infine verità e amore. La figura del Logos agapico (Gv 1,1), che è amore e creatore (Verbum spirans amorem, lo chiamava Agostino) risolve questa falsa dialettica tra logos ed eros. Poi “tutto è venuto ad essere per mezzo di Lui, e senza di Lui nulla è venuto ad essere di ciò che esiste” (Gv 1,3): tutto il logos della Creazione è segnato dal Logos originario. Ma anche questa Verità viene rivelata nella storia e il tempo entra nell’eternità (cf. Gv 1,14): il Verbo si è fatto uomo, muore e risuscita per suo potere. L’incarnazione e la resurrezione sono quindi la chiave per spiegare la rottura tra tempo ed eternità. Così il tempo entra a sua volta nell’eternità, la storia nell’essere eterno e la materia viene glorificata. Il modello di Cristo (il Logos incarnato, morto e risorto) può aiutarci a risolvere questo dilemma tra verità e storia, tra tempo ed eternità, e noi abbiamo bisogno sia della prospettiva storica sia della prospettiva ontologica (e forse si può dire ontoteologica). Ma allo stesso tempo dobbiamo riconoscere la priorità del Logos eterno sull’incarnazione e quindi della sua resurrezione, perché queste sono le incursioni e gli sviluppi dell’eternità nel tempo. Tale processo può essere spiegato soltanto dalla libertà e dall’amore, come abbiamo visto, “dall’inizio” (Gn 1,1; Gv 1,1).
greifen immer dort zu kurz, wo sie für sich Ausschließlichkeit beanspruchen. Denn sie übersehen, daß der Glaube eine Ebene berührt, die außerhalb von Gemachtem und Machbarem liegt” (D. Kaes, Theologie im Anspruch von Geschichte und Wahrheit, 71). È espresso anche in termini ermeneutici, perché Ratzinger cerca di coniugare l’unità con la molteplicità: “Was Ratzinger für nötig hält, ist eine neue philosophische Grundlegung der Theologie, in der die hermeneutische Frage als die metaphysische Frage nach der Einheit der Wahrheit in der Verschiedenheit ihrer geschichtlichen Vermitttlungen gedacht werden muß” (ibidem, 72). “Diese Beschreibung gibt das wieder, was den Kern der Ratzingerschen Geschichtsbegriffs ausmacht: die Einheit von Sein und Werden. Wo eines der beiden Elemente fehlt, kann von Geschichte nicht geredet werden” (ibidem, 74; cfr. anche 61-62, 85 y 114, dove si esprime in termini presumibilmente gadameriani). Rollet, al contrario, contrappone un modello dogmatico all’ermeneutico, annoverando il nostro autore nel primo gruppo con una sicurezza che colpisce (cfr. J. Rollet, Le Cardinal Ratzinger et la théologie contemporaine, 85-93).
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Parte II Applicazioni
II.1
Lo studio del fenomeno religioso
Jean Daniélou e le religioni Angela Maria Mazzanti (Università di Bologna)
È opportuno porre alcune premesse. L’indagine è volta ad un approfondimento di questioni a partire da un orizzonte interpretativo storico religioso e non teologico. Inoltre, nell’esporre elementi di riflessione, anche se non sarà possibile rispettare puntualmente la diacronia o fare distinzioni sugli obiettivi specifici dei vari testi analizzati, si tenderà a segnalare la successione delle pubblicazioni e l’intento indicato dall’Autore sulla finalità del singolo saggio. L’attenzione sarà posta prioritariamente all’esigenza di cogliere concezioni nodali ricorrenti nelle formulazioni dello studioso.
Le religioni “La prima espressione dell’incontro dell’uomo con Dio, sul piano storico, è quello delle religioni antiche, anteriori alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento. In questo senso si può dire che il fatto religioso appare come un fatto umano, coestensivo alla storia dell’umanità”, scriveva J. Daniélou in Miti pagani mistero cristiano.1 È l’incipit di un saggio che è esito di conferenze rivolte a giovani e che, benché sia stato oggetto di rielaborazione, risente di una stesura che non aveva richiesto dimostrazioni specifiche inerenti ad ogni singola asserzione
1
Scritto nel 1966, il saggio è l’esito di una ricerca condotta per la preparazione di conferenze rivolte a giovani. L’assenza di note è indicativa. I riferimenti qui riportati sono tratti dalla traduzione italiana Miti pagani mistero cristiano, Edizioni Paoline, Catania 1968.
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e che rimanda, per approfondimenti, a manuali di teologia.2 È chiaro il focus che, esaminato per quanto concerne i principi teorici in vari documenti elaborati in relazione al concilio,3 individua concezioni fondamentali precisate ulteriormente: l’uomo è riconoscibile come tale, secondo gli etnologi, quando lascia tracce sia dell’uso di strumenti e tecniche sia della celebrazione di culti e riti e, si legge testualmente, “questo fatto umano di una certa fondamentale relazione tra l’uomo e Dio, noi lo attingiamo storicamente a livello delle religioni”.4 Le successive argomentazioni concernono lo stato religioso naturale dell’uomo che, non senza rilievi problematici,5 è identificato con il paganesimo. Lo studioso distingueva tre stadi relativi all’umano: l’ateismo giudicato infra-umano, il cristianesimo soprannaturale e il paganesimo naturale perché si considera implichi il riferimento a Dio. È opportuno soffermarsi immediatamente, prima di iniziare una disamina dei diversi “stadi” antropologici, sul rapporto fra “fatto umano”, “fatto religioso” e storia. L’accentuazione sul dato storico comporta una certa cognizione della religione. Gli eventi storici identificano l’o2
3
4 5
Ibidem 5-6. Scriveva J. Daniélou: “La domanda a cui il libro vuole rispondere è concernente il linguaggio. Come parlare di Dio agli uomini di oggi?. . . Questo libro è l’espressione di tale ricerca. Fu dapprima dato sotto forma di conferenze”. Si vedano fra i lavori conciliari inerenti ai rapporti fra la Chiesa e le religioni non cristiane: J. Daniélou, Secrétariat Général de l’Episcopat. Note 17/64. Le dialogue avec les non chrétiens, «Bulletin des amis du Cardinal Daniélou»14 (avril 1988) 24-28; ˙ ˙ Secrétariat Conciliaire de l’Episcopat Etudes et documents. 3 juillet 1965 – N.8 La Déclaration. ‘De Ecclesiae habitudine ad non christianos’, «Bulletin des amis du Cardinal Daniélou»14 (avril 1988) 31-32 commentati da E.- M. Laperrousaz in La religion est-elle, comme l’a souligné le Cardinal Daniélou dans ses mémoires «Création de la religiosité humaine» ?, in U. Bianchi (ed.) The Notion of «Religion» in comparative Research. Selected Proceedings of the XVI Congress of the International Association for the History of Religions. Rome,3rd -8th September, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1990, 675-682. Miti, 7. In I santi pagani del vecchio testamento, Queriniana, Brescia 1964, 6, lo studioso accennava alla difficoltà di definire “la religione naturale” per le discussioni teologiche nate nel tentativo di delimitare il concetto e concludeva scrivendo “In genere infatti si intende per “natura” ciò che costituisce l’essenza dell’uomo considerato astrattamente al di fuori della sua chiamata storica alla Grazia”.
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pera che il divino compie rapportandosi con l’umano. La storia non è concepibile senza la connessione con la spiritualità, né è possibile considerare la religione come una componente della storia. Indicativa l’esposizione di J. Ratzinger che in Fede, Verità e Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,6 fra l’altro, facendo riferimento a J. Daniélou, sottolineava il carattere astorico della via mistica e il carattere storico della fede che si basa sulla rivoluzione profetica: “la chiamata divina, da cui il profeta sa di essere raggiunto, è databile; ha un “qui” ed “ora”, con essa ha inizio una storia, è stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quelle che noi chiamiamo storia. J. Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto, rimarcando a più riprese che il cristianesimo è “essenzialmente fede in un evento”, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno “che si oppone al mondo del tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia”.7 Lo studioso francese nel Saggio sul mistero della storia8 si era soffermato infatti ad esaminare tale distinzione considerando sia le antiche dottrine della Grecia sia le religioni contemporanee dell’India e l’Islam di cui aveva messo in rilievo l’istanteismo.9 Gli studi di Mircea Eliade che evocavano la nostalgia di un eterno ritorno ad un tempo primordiale, presente nelle religioni primitive, rapportabile anche a concezioni proprie della mistica moderna, sono stati ripresi dai due teologi,10 ma è opportuno considerare il diverso orizzonte concettuale da cui nasce la valutazione del religioso e del rapporto della religione stessa con la storia che i fenomenologi (il 6
Pubblicato per i tipi di Cantagalli a Siena nel 2005. Le pagine cui si fa riferimento sono 37, 38 e 39. 7 Ratzinger, 38; nel riferimento a J. Daniélou si precisa che la citazione è tratta da Saggio sul mistero della storia, Brescia 19782 , 27ss. 8 Le citazioni dirette provengono dall’edizione del 2012 stampata da Morcelliana, 121-126. 9 Danièlou in Saggio, 123 ascriveva a Massignon la definizione di “istanteismo” attribuito al pensiero musulmano che “ignora la durata continua e conosce solo atomi del tempo, istanti (ânât)”. 10 Ratzinger, Fede, 38 e Daniélou, Saggio, 121-122.
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riferimento può riguardare altri eminenti studiosi) tendono a reputare in qualche modo successivo rispetto allo stato originario e contraddistinto da decadimento, da stadi diversificati in relazione a nature più o meno dotate.11 L’affermazione della consistenza “significativa” della storia, rivelata chiaramente nel cristianesimo, comporta ovviamente l’attestazione della consistenza unitaria della storia stessa, della “compenetrazione di storia sacra e storia profana”:12 come supporre infatti l’esistenza di una 11
È interessante, per il rilievo che le concezioni della scuola fenomenologica ebbe su J. Daniélou, notare il diverso orizzonte culturale che si evince dalle formulazioni di R. Otto in Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Feltrinelli, Milano 1994 (1º ed. 1936) e di M. Eliade nel Trattato di storia delle religioni pubblicato a Parigi nel 1948. In questo caso il riferimento è all’edizione italiana uscita per i tipi di Boringhieri a Torino nel 1986. Otto affermava che ogni religione deve presupporre l’esistenza nello spirito umano di principi a priori capaci di farla riconoscere per vera. Nel contempo è necessario considerare che “la religione si evolve nella storia, innanzi tutto per il fatto che nello sviluppo storico dello spirito umano, mercé l’interferenza dello stimolo con la disposizione, questa si traduce in atto, e assume, attraverso quella interferenza, forma e indirizzo, in secondo luogo per il fatto che in virtù della predisposizione stessa, specifiche sezioni della storia vengono riconosciute come manifestazioni del sacro. . . in terzo luogo per il fatto che sulla base dei due precedenti momenti si costituisce la compiuta solidarietà col sacro, nella conoscenza, nel sentimento, nella volontà. . .Già la «predisposizione» universale è qui solamente una pura facoltà recettiva e un principio di giudizio, non già una produzione di tali nozioni in maniera autonoma ed indipendente. Tale capacità di produzione si trova soltanto nelle «nature ben dotate»” (pp. 163-165). M. Eliade scriveva “Se le principali posizioni religiose furono date una volta per sempre, fin dal momento in cui l’uomo prese conoscenza della propria posizione esistenziale entro l’Universo, ciò non significa che la “storia” non abbia importanza per l’esperienza religiosa in sé. Tutt’altro; tutto quel che avviene nella vita dell’uomo, anche nella sua vita materiale, trova un’eco nella sua esperienza religiosa. La scoperta delle tecniche della caccia, dell’agricoltura, del metallo, ecc. non ha modificato soltanto la vita materiale dell’uomo, ha anche fecondato – forse in misura maggiore – la spiritualità umana. . . E si può dire che se la storia ha influito sull’esperienza religiosa, la sua influenza è stata questa: gli avvenimenti hanno offerto all’uomo modi inediti e diversi di essere, di scoprire se stesso e di dare un valore magico-religioso all’Universo” (pp. 480-481). 12 Daniélou, Saggio, 24.
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divisione fra storia sacra e, precisamente, cristiana e storia del mondo politico, culturale? La connessione non è determinata fondamentalmente dall’influenza delle civiltà sul dato religioso che è, per sua natura, incarnato, e, secondo una reciprocità, dall’ascendente della socialità, della politica o della ricerca scientifica sulle concezioni cristiane, ma dalla realtà stessa della storia come esito della creazione di Dio e delle opere di Dio. In sintesi J. Daniélou scriveva in La trinità e il mistero dell’esistenza che non c’è “nulla di più falso che una separazione fra la sfera religiosa e quella delle realtà materiali”. La natura stessa non è estranea al destino religioso, il cosmo partecipa della finalità umana.13 Connessa a queste asserzioni emerge la questione della possibile lettura univoca della storia stessa. Notando la parzialità nelle accentuazioni delle diverse metodologie di ricerca sia da parte degli storici, che si pongono l’obiettivo dell’accertamento dell’autenticità dei dati senza cogliere la rilevanza dell’ottica insita nello stesso tentativo di dare un “ordine” ai fatti, sia in quella dei filosofi, che hanno come scopo esclusivo l’interpretazione degli avvenimenti senza approfondimenti sulla veridicità degli stessi, J. Daniélou14 si chiedeva se fosse possibile un’indagine adeguata. Ne deriva di conseguenza anche la domanda sull’individuazione della connessione fra la lettura teologica della storia e l’investigazione sui fatti concernenti la storia “umana”.15 Esaminando le argomentazioni di uno storico e di un filosofo, lo studioso ne riconosceva analoghe 13
La citazione è tratta dalla p. 13 della seconda edizione, stampata nel 1989 a Brescia da Queriniana. Il saggio, scritto come meditazioni per un ritiro spirituale e uscito in stampa a Parigi nel 1968, esprime l’esigenza della spiritualità non solo per uomini consacrati ma anche per semplici fedeli. “La sconsacrazione del cosmo”, scriveva l’Autore a p. 13, “è una delle grandi tentazioni dell’uomo moderno, che tende a concepire il mondo della natura, in cui si esercita la scienza, come estraneo al destino religioso. L’uomo moderno tende a dissociare un destino religioso che sarebbe puramente personale da un destino cosmico che sarebbe profano e materiale: come se la religione fosse un affare privato, e il problema religioso un problema individuale e non il problema del senso dell’intero universo e quindi della sua realtà materiale”. 14 Daniélou, Saggio, 108-118. Si veda anche a p. 27 l’affermazione che la teologia della storia può offrire una soluzione che connetta la verità di diverse interpretazioni concernenti i rapporti fra religioni pagane e storia della salvezza. 15 Ibidem, 115.
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conclusioni e giudizi similari su analisi di ottiche esplicative differenti. La storia profana, scriveva in conclusione l’Autore, riceve significato nel disegno totale di Dio ma la conoscenza vera della relazione fra gli avvenimenti della storia profana e di quella sacra “rimane un mistero profondo che sfugge ad ogni tentativo di determinazione”.16 Tornando ai tre stadi antropologici, si consideri in primis l’ateismo che, escluso dall’orizzonte antico, è reputato “un fatto moderno”.17 Queste premesse risentono della fenomenologia religiosa di cui J. Daniélou ha colto concezioni e talune terminologie in varie opere.18 Ma è possibile ritenere l’ateismo fenomeno esclusivo dell’orizzonte della storia moderna? Mircea Eliade ha ribadito più volte questo assunto: in Il sacro e il profano, pur accennando a qualche distinguo su alcune personalità del mondo antico e precisando che lo stato puro della mancanza di religiosità sia difficilmente constatabile in un uomo, considerava che solo nel mondo attuale si riscontrasse la presenza di uomini areligiosi in cui esclusivamente nell’inconscio permanesse tracIbidem, 118. Significative su questi temi alcune riflessioni che F. Botturi sintetizzava in Senso storico e storicità. L’aporia della fine della storia, in C. Esposito, P. Porzio, P. Porro e V. Castellano, Verum e certum. Studi di storiografia filosofica in onore di Ada Lamacchia, Levante Editore, Bari 1998, 71-96. L’evento storico è tale perché se ne coglie il senso: “Non c’è storia semplicemente perché qualcosa accade, ma solo se l’accadimento riceve un incremento complessivo di senso che lo renda ‘evento’. Il primo modo di incremento è il riconoscimento dell’appartenenza dell’accadimento ad un logos unificante la molteplicità sincronica e diacronica in cui esso è inserito”. Ne consegue l’idea di continuità che lascia comunque spazio alla libertà di espressione umana. La libertà empirica è in relazione con un logos includente. La prospettiva salvifica appare come necessaria. Il pensiero storico che prende le mosse da considerazioni legate all’orizzonte teologico giudaico-cristiano, argomentava quindi F. Botturi, si chiarisce in ambito metafisico, ma esige, come compimento, il ritorno alla fisionomia teologica. 17 Daniélou Miti, 7: “L’ateismo è un fatto moderno, legato ad un certo numero di circostanze storiche, sociologiche e psicologiche ad un tempo, legato a un certo condizionamento. E, da questo punto di vista, non è conforme alle esigenze fondamentali della natura umana”. 18 Si veda Daniélou, Saggio, 28 in cui si fa riferimento alle “ierofanie”, rimandando ad opere di Mircea Eliade. 16
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cia della consapevolezza dell’esistenza di una realtà assoluta.19 Quali elementi possono supportare tale attestazione? L’affermazione della natura religiosa originaria nell’uomo è confortata da ricerche di paleontologia. Nei “Trattati dell’antropologia del sacro” diretti da J. Ries le cui ricerche sono connesse alle ipotesi fenomenologiche e, in particolare, negli studi di F. Facchini, le indagini su resti preistorici realizzate con lo scopo di rispondere alla questione “se il senso religioso e del sacro sia riferibile alla struttura originaria dell’esperienza umana o sia il prodotto di scelte culturali rese necessarie o comunque suggerite in una società via via più evoluta e complessa”,20 portano alla conclusione sulla presenza di un’istanza religiosa nella costituzione umana. Sarebbe 19
La pubblicazione dell’opera risale al 1967, le citazioni in nota sono tratte dall’edizione italiana del 1984 stampata da Boringhieri. M. Eliade scriveva nell’introduzione che le relazioni dell’uomo con lo spazio, il tempo, la natura sono estremamente diverse se affrontate secondo un’esperienza sacra o profana. “Basterà ricordare ciò che la città, o la casa, la Natura, gli utensili o il lavoro sono divenuti per l’uomo moderno e areligioso per cogliere sul vivo ciò che lo distingue da un uomo appartenente alle società arcaiche o anche da un contadino dell’Europa cristiana” (p. 16). Nella conclusione precisava “L’uomo religioso assume nel mondo un modo specifico di esistenza che, nonostante le numerose forme storico-religiose, è sempre riconoscibile. Qualunque sia il contesto storico nel quale è immerso, l’homo religiosus, crede sempre che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, in questo mondo si manifesta e per ciò stesso lo santifica e lo rende reale”. Contrapposto è l’uomo areligioso che “rifiuta la trascendenza, accetta la relatività della “realtà” e dubita persino del significato dell’esistenza”. Eliade ammetteva che anche le grandi culture del passato hanno avuto uomini areligiosi, ma solo nelle moderne società occidentali è avvenuto il pieno risveglio dell’uomo areligioso (p. 128). Eppure l’uomo areligioso allo stato puro è difficilmente incontrabile. L’uomo areligioso avrebbe perduto la capacità di vivere coscientemente la religione e quindi di comprenderla e di assumerla come esperienza, ma nella profondità del suo intimo permane comunque il ricordo. Alla valenza negativa di una prima “caduta” dell’uomo primordiale identificata con la distruzione della coscienza della natura religiosa originaria è subentrata una seconda “caduta”, la perdita della memoria e la riduzione del rapporto con il divino allo stadio dell’inconscio (pp. 134-135). 20 L’emergenza dell’homo religiosus. Paleoantropologia e Paleolitico in E. Anati, R. Boyer, M. Delahoutre, G. Durand, F. Facchini, C. Faïk-nzuji Madiya, I.P. Lalèyê, V. Mulago Gwa Cikala, L.V. Thomas, J. Ries, Le origini e il problema dell’Homo religiosus, I vol., Jaca Book, Milano 1989, 141.
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necessario a questo punto comprendere se sia possibile ipotizzare la perdita (indicativo è anche l’uso del termine “caduta” per individuare un certo processo) di tale innata configurazione antropologica e se sia possibile comprendere come questa sia avvenuta. Secondo U. Bianchi,21 la negatività nella valutazione della storia moderna in base all’orizzonte interpretativo fenomenologico è causata da taluni presupposti: “opposizione e trascendenza del sacro rispetto al profano e rivelazione del sacro nella ierofania e nel simbolo”, “opposizione e trascendenza del primordiale rispetto all’attuale e storico, che sarebbe a suo confronto insignificante e «caduto»”. J. Daniélou non ha indagato in modo particolare la genesi dell’ateismo, si è soffermato a rilevare alcuni dati appurabili nel contesto attuale: la dissacrazione e la separazione di Dio dall’esistenza quotidiana rappresentato dal laicismo, la dissociazione all’interno del dominio della fede fra l’insieme delle pratiche religiose e la vita,22 l’affermazione della validità esclusiva della conoscenza razionalistica e scientifica ribadita nell’affermazione che “non ci sia altra via per conoscere il reale che la scienza e che fuori di essa, non
La storia delle religioni in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni, UTET, Torino 1970, sesta ed., 160. Pone l’accento su questi elementi critici formulati da U. Bianchi N. Spineto in U. Bianchi e Mircea Eliade, in G. Casadio (a cura di), Ugo Bianchi. Una vita per la Storia delle Religioni, “il Calamo”, Roma 2002, 401-422, in particolare 418. 22 Miti, 32 “Nulla è più grave di un certo dualismo, di una certa rottura tra il campo della fede e il campo dell’esistenza temporale. Non c’è nulla di più grave, nel mondo contemporaneo, del fatto che ci sia questa specie di dissociazione tra il dominio della fede, che riguarderebbe l’insieme delle pratiche religiose, e tutta una vita che verrebbe situata su un piano che non è nemmeno pagano, poiché nel mio vocabolario, precisamente, essere pagano è ritrovare Dio dovunque, ma che si situerebbe sul piano di un laicismo che dissacra assolutamente ogni cosa e separa Dio dalla nostra esistenza quotidiana”. Su argomentazioni inerenti all’ateismo presente nel mondo contemporaneo J. Daniélou si soffermava anche in un capitolo del Saggio sul mistero della storia (83-96), in cui analizzava il fenomeno del marxismo; l’uomo è considerato il valore supremo e, di conseguenza, riconoscere la presenza di Dio è “degradante e avvilente e respingerlo dunque è la condizione essenziale d’un umanesimo autentico”. 21
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si colga il reale, ma unicamente l’io”,23 con conseguente riduzione del religioso alla soggettività individuale. La valenza dell’io è limitata: la razionalità infatti, secondo lo studioso, in questo assunto, è infondata perché circoscritta ad una esclusiva area conoscitiva: “C’è una rinuncia a danno dell’intelligenza”, sottolineava, se si considera che l’uomo non possa andare al di là del mondo fisico.24 La natura dell’io infatti comprende, se intesa nella sua totalità, la sensibilità e l’immaginazione che sono fondamentali per cogliere il reale, a condizione di arrivare allo stadio noetico, intellettuale e quindi all’oggettivo.25 Significativa è la nozione antropologica che riverbera influssi culturali sia dal punto di vista semantico che concettuale.26 Irrinunciabile in questo “a fondo” sull’umano è la menzione della concezione di logos espressa nel “discorso di Regensburg” pronunciato da Benedetto XVI.27
Miti, 20. Ibidem, 66. “Perciò importa assai difendere, continua il testo, l’intelligenza e dimostrare che questa piccola creatura non è vero che non sia buona a nulla, ma che bensì può servire non semplicemente a scoprire le leggi del cosmo, come fa oggi brillantemente nel fervore del progresso scientifico, ma anche a darci accesso ad un altro ordine, che non è più quello delle leggi della materia, ma quello di ciò che è al di là del mondo fisico. L’intelligenza ha accesso a ciò che è al-di-là della fisica; essa è capace di raggiungere delle realtà di ordine intellegibile e di raggiungerle con una certezza che giustifica assolutamente il diritto che un uomo pienamente lucido, pienamente critico, ha di considerare che la credenza in Dio non è semplicemente il risultato di un impulso del cuore, ma qualcosa che resiste perfettamente a tutte le critiche della ragione”. 25 Ibidem, 19. J. Daniélou considerava che la sensibilità e l’immaginazione, per non rimanere in uno stadio di sentimentalità “evanescente” debbano confluire ad uno stadio intellettuale, definito anche con il termine “noetico” e “noetica significa che si tratta di cogliere mediante l’intelligenza qualcosa di reale e di oggettivo”. 26 Si colgono in questi concetti tradizioni culturali che, certamente con connotazioni non identiche, si ritrovano già nel giudaismo ellenistico. Si pensi, per esempio, all’esegesi di Filone di Alessandria sui passi genesiaci inerenti all’origine dell’uomo in cui è individuata una struttura verticale che all’apice contempla il noetico la cui essenza è in relazione con il divino. 27 Discorso tenuto in occasione dell’incontro con i rappresentanti della scienza nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg (12 settembre 2006) 23 24
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Quali significati invece possono essere attribuiti al cosiddetto “paganesimo”? Il lessico dello studioso si allontana in questo caso dal linguaggio della fenomenologia che si basa sulla definizione dell’homo religiosus citato più volte,28 ritenuto forse non condivisibile totalmente perché troppo indeterminato, non corrispondente cioè alla complessità delle esperienze umane che includono anche la possibilità per l’uomo di avere accesso per grazia alla realtà soprannaturale. Il termine “pagano” è individuato secondo un’accezione particolare che non corrisponde al senso specifico della tradizione storico-religiosa.29 J. Daniélou, precisando che si tratta di una sua definizione (“nel mio vocabolario”30 ), identifica il pagano con “colui che riconosce il divino attraverso la sua Si veda, fra l’altro, M. Eliade, Il sacro, 17. J. Ries realizzò studi specifici sull’homo religiosus. In Il Sacro nella storia religiosa dell’umanità, Jaca Book, Milano 1981 (ed. or. 1978), 233, descriveva l’intento delle analisi compiute da numerosi specialisti a partire dalla semantica: “Nei tre volumi pubblicati dal nostro Centro di storia delle religioni – circa 1100 pagine – sono racchiusi i risultati di un’indagine sistematica sull’homo religiosus nelle grandi civiltà”. Il progetto si sviluppò ulteriormente con la collaborazione di numerosi studiosi e uscirono in stampa sei volumi, fra i quali, il primo ha come titolo Le origini e il problema dell’homo religiosus citato sopra. In Miti, 52 J. Daniélou riprese il termine di uomo religioso ma specificando poi la concezione di “pagano”. L’uomo religioso “si esprime sotto tutte le forme di paganesimo, storico nel passato, o futuro in tutte le forme di ricerca di Dio del mondo di domani”. 29 U. Bianchi in Problemi di Storia delle religioni, Edizioni Studium, Roma 1993 (1ª ed. 1958), 78, scriveva: “Secondo l’interpretazione tradizionale, il termine “pagano” sorse in opposizione a quello di fedele, cristiano (e in concorrenza con quello biblico di “gentile”) in un periodo in cui la nuova religione ormai aveva la prevalenza e i vecchi culti resistevano, soprattutto in campagna, nella continuazione ruralmente conservatrice della celebrazioni tradizionali nell’ambito dei pagi. Forse la spiegazione è altra e il termine paganus è un termine tecnico indicante, nella religione romana, un particolare tipo di appartenenza cultuale. In ogni caso, nel linguaggio cristiano, “pagani” furono poi anche coloro che, in ambiente totalmente diverso, tutto ispirato al neoplatonismo e al sincretismo religioso della tarda antichità, mantenevano un’aderenza sostanziale alle dottrine di questi movimenti e un’aderenza formale ai vecchi culti cittadini e familiari”. Per analogia furono poi chiamate pagane quelle religioni che non si appellavano alla rivelazione abramico-mosaica. 30 Si veda Miti, 32. 28
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manifestazione nel mondo visibile”.31 È opportuno soffermarsi a considerare questa enunciazione: applicabile all’uomo in ogni tempo e in varie circostanze della vita dello stesso individuo accentua la soggettività umana, la cui capacità di cogliere il divino implica l’esistenza di una relazione essenziale fra la natura antropologica e il divino stesso, e la presenza del trascendente nella realtà percepibile. Le diverse tipologie religiose, si pensi alle distinzioni che U. Bianchi ha elaborato in Problemi di Storia delle religioni,32 sono riassumibili in questa unica formulazione? La ricerca del quid religioso è certamente un quesito continuamente aperto.33 Si coglie un tentativo di categorizzazione in grado di includere le distinzioni specifiche? La verifica sarebbe rappresentata dall’oggettività dei simboli, di cui comunque si riconosce, in qualche modo, l’“analogia”?34 Significativo l’uso del termine “anaMiti, 13. In Secrétariat Général nel distiguere l’“ordine” delle religioni pagane da quello della rivelazione cristiana lo studioso specificava, citando Paolo VI, che, trattandosi di un cambiamento di ordine, tale ordine “est celui des représentations que les hommes se sont faites de Dieu” (25). 32 U. Bianchi in La storia delle religioni (Oggetto e metodo) in Saggi di metodologia della storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1991, 78-80, spiegava il concetto di “tipologia storica”, differenziandola da quella astratta propria della fenomenologia e da quella connessa a intuizioni ed ermeneutiche di origine speculativa. In Problemi di Storia delle religioni, citato nella n. 29, U. Bianchi presenta una serie di distinzioni tra religioni. 33 U. Bianchi si è soffermato su tale quesito in La storia delle religioni (Oggetto e metodo) in Saggi, 65-68: “È la religione un concetto universale, che abbia un significato univoco, e quindi esprima un “contenuto” comune rispetto a tutte quelle che chiamiamo religioni? E come enucleare e intendere questo “contenuto”? Esprimerebbe esso delle credenze di base comuni e/o atteggiamenti, bisogni, funzioni comuni, constatabili come tali già sul piano descrittivo e corrispondenti comunque a una “forma” sempre quella, la forma religiosa?”. Si vedano anche G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla storia delle religioni, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, 7-8 e M.V. Cerutti, Storia delle religioni. Oggetto e metodo, temi e problemi, EDUCatt, Milano 2014, 81-89. 34 Miti, 13: “Ciò che colpisce è che nei diversi paganesimi, africani, australiani, cinesi o greci, le stesse realtà cosmologiche significano i medesimi aspetti di Dio. Vuol dire che, in realtà, senza alcun influsso degli uni sugli altri, questi paganesimi vanno a finire nelle medesime esperienze e in una mitologia che è analoga negli uni e 31
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logia”35 enunciato nella riproposizione della teoria eliadiana inerente alle ierofanie che J. Daniélou segnalava citando anche i diversi studiosi della scuola fenomenologica.36 L’argomentazione si estende altresì ai riti e ai miti, a dimensioni di carattere psicologico e filosofico, come si rileva in Cristianesimo e religioni non-cristiane in cui, dopo le considerazioni sulla scoperta del sacro tramite il cosmo e le stesse azioni umane, l’attenzione è posta sull’aspetto dell’io interiore.37 A fronte di un’uniformità postulata in generale dai fenomenologi,38 il teologo, pur negli altri. Ciò dimostra che c’è un valore oggettivo dei simboli, che cioè i simboli designano oggettivamente degli aspetti di Dio, alcuni la sua bontà, altri la sua potenza, altri la sua santità”. 35 Il concetto di “analogia” formulato dallo studioso ha una notevole rilevanza nella metodologia storico-religiosa elaborata da U. Bianchi che ne spiegava il significato in La storia delle religioni (Oggetto e metodo) in Saggi, 80-81: “In questa luce, la “religione”, come anche altri termini, concetti e categorie di una fenomenologia tutta da definire storico-comparativamente, ci apparirà, più che come un “univoco”, come un “analogo”, sia sul piano concettuale che su quello obiettivo. Questa analogia implica, nelle varie forme che sulla base dei risultati storico-comparativi chiamiamo “religiose, la presenza di aspetti. . . comuni ‘filologicamente’ e storicamente ambientati. Essa implica dunque la constatazione, nelle diverse ‘religioni’, di affinità profonde, ma a tratti, di non meno profonde disparità, formali e di contenuto, oltreché di funzione”. 36 Miti, 12-13. 37 Nel saggio, tratto dal volume P. Burke (a cura di), La parola nella storia, Queriniana, Brescia 1968, 89-103, si legge: “La presenza del sacro è percepita ancora più fortemente attraverso le azioni umane”. “L’uomo percepisce la presenza di una realtà divina nel suo interiore, distinta da lui e che pure agisce dentro di lui. L’uomo percepisce questa realtà nei freni della sua coscienza, che lo rendono consapevole dell’assoluto bene e dell’assoluto male; la percepisce nell’illuminazione della sua mente, che lo mette in contatto con una verità che abita nel cuore del suo essere; la percepisce nei richiami di amore”. 38 U. Bianchi in La storia delle religioni in Storia delle religioni, 1-168, in particolare 157-159, considera criticamente le concezioni proprie dei fenomenologi, notando l’accentuazione di elementi aprioristici. N. Spineto in Ugo Bianchi e Mircea Eliade in G. Casadio (a cura di), U. Bianchi. Una vita, 419-420 scrive: “Bianchi nega che, sulla base di una indagine storica, sia possibile attestarne l’“ecumenicità” e il “carattere metastorico”. . . L’obiezione di Bianchi corrisponde ad una caratteristica effettiva dell’opera eliadiana: tra la ricerca storica e l’ipotesi archetipica va rilevata l’esistenza
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cogliendo una certa ecumenicità,39 ha affermato la connessione, o meglio, la derivazione del simbolismo positivo dal simbolismo naturale e, nel contempo, la differenziazione non solo valoriale ma, principalmente, di contenuto.40 La differenza fondamentale dei significati conferisce contenuti specifici non identificabili fra loro. Il tema concernente i simboli apre questioni di notevole interesse. Il sole, l’acqua hanno una valenza in sé o la assumono dalla realtà di cui sono immagine? I significati, secondo J. Daniélou, non sarebbero labili e transitori.41 Il fondamento naturale del singolo segno permane pur nella pluralità espressiva in cui, fra l’altro, si verificano spesso alcune rappresentazioni comuni ma non certo coincidenti; le ipotesi interpretative largamente attestate in ambiti storico-religiosi che individuano la genesi delle connessioni nei sincretismi religiosi,42 in derivazioni da influssi reciproci non risponde di un salto che non si giustifica tramite il ricorso alla comune attività storiografica, ma sulla base di una serie di scelte filosofiche di natura ermeneutica”. 39 Miti, 15: “Dico ciò a proposito di quel fatto assai degno di nota della costatazione, al termine delle ricerche della storia delle religioni, di una specie di convergenza di tutte le religioni pagane, senza alcune influenza delle une sulle altre, nel riconoscere nelle stesse realtà del cosmo il simbolo delle medesime esperienze metafisiche e spirituali [. . .] Ci sono le ierofanie del mondo celeste [. . .] Il sole è una delle ierofanie essenziali in tutte le religioni”. E nel considerare il simbolismo solare il linguaggio relativo a tale similarità si esprime tramite definizioni profondamente diverse: “Il sole è come un sacramento nel mondo pagano nella misura in cui è il segno visibile di una realtà invisibile. C’è un primo sacramentalismo che è precisamente il sacramentalismo pagano, e in cui gli oggetti materiali sono già dei segni efficaci” (pp. 15-16). 40 Dando particolare rilievo alla unitarietà di taluni simboli, J. Daniélou non trascurava di considerare le diversità essenziali, come si è sottolineato anche nella nota precedente. Si veda in particolare Saggio, 146: “Lascio da parte per il momento la questione della differenza dei valori dati a queste rappresentazioni nelle religioni pagane e in quelle rivelate. L’essenziale per il momento è notare la comunanza di rappresentazioni e di sottolineare che essa non implica una comunanza di contenuto”. 41 Saggio, 148: secondo J. Daniélou, sia l’analisi oggettiva dei simboli sia l’analisi soggettiva della funzione mitica nella psicologia del profondo portano a constatare che i simboli sono “dotati di contenuti costanti”. 42 In Ibidem, 119-134 J. Daniélou, confrontando varie religioni con il cristianesimo
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ai dati storici da cui invece si trae la teoria dei parallelismi.43 La connessione di questi simboli con la struttura umana, affermata dagli psicologi in base ad analisi specifiche, rende inoltre immediatamente intuibili tali elementi e ribadisce la concezione dell’oggettività degli archetipi. “Le interpretazioni naturaliste che restringono il contenuto dei simboli ad una semplice sublimazione della stessa vita biologica, sono erronee. Ciò che i simboli ci fanno conoscere è realmente qualcosa di Dio”.44 I simboli sono testimonianze dell’operatività nella storia di Dio.45 Da questi presupposti, che si discostano dalle concezioni dei fenomenologi,46 si origina il concetto di “tipologia” che recupera, superandolo, il simbolismo cosmico.47 discute sulle ipotesi di sincretismo, anche sul piano dottrinale avanzate da alcuni studiosi. 43 Ibidem., 146-147: “Che vi siano influenze di dettaglio è certo, ma questa non è una spiegazione sufficiente: Un’altra interpretazione consisteva nel vedere in questa comunanza di rappresentazioni le vestigia di una tradizione comune primitiva più o meno degradata. . .Tutte queste spiegazioni sono insufficienti. Bisogna arrivare alla conclusione che la comunanza di simboli in religioni diverse è l’espressione di sviluppi paralleli e che è quindi legata al contenuto oggettivo dei simboli stessi”. 44 Ibidem, 149. Il passo prosegue “Così il valore oggettivo del simbolismo religioso ci si mostra come davvero corrispondente alla natura stessa delle cose”. 45 Ibidem 151-154. La rivelazione biblica rettifica la religione naturale: Dio non si rivela solo nei cicli cosmici ma negli eventi storici. 46 Il rilievo attribuito al dato storico nel quale la natura religiosa dell’uomo si riconosce sembra, fra l’altro, delineare un diverso orizzonte concettuale nei confronti degli assunti fenomenologici che affermano un a priori antropologico, anche se potenziale e in attesa di attuazione, rispetto al verificarsi della storia. Si può fare riferimento a R. Otto, Il sacro, 163-165, già citato alla n. 5 di p. 2. M. Eliade scriveva in Il sacro, 134: “I simboli risvegliano l’esperienza individuale e la tramutano in atto spirituale, in una presa metafisica del Mondo”. 47 Ibidem, 156-158. “La rivelazione di Dio quale ce la fa conoscere la Scrittura è una rivelazione progressiva. Dio viene conosciuto, in un primo momento, tramite la sua manifestazione nel cosmo. Poi si rivela nei suoi interventi successivi nella storia. . .Di conseguenza i simboli cosmici attraverso i quali Dio è conosciuto nella rivelazione naturale, sono ripresi dalla religione abramica e dalla religione cristiana, e caricati di nuovi significati” (pp. 157-158). J. Daniélou in Messaggio evangelico e cultura ellenistica, EDB, Bologna 2010, 238 scriveva “[La relazione fra i due testamenti] riguarda la relazione storica tra i due momenti del disegno di Dio, e quando
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La singolarità dei diversi popoli è un elemento posto in particolare evidenza in questi saggi.48 In ambito diacronico si può considerare come l’incontro dell’uomo con la trascendenza nel mondo antico si sveli, in particolare, tramite il cosmo e gli astri mentre nella contemporaneità è constatabile in situazioni umane limite come la morte, l’amore, la libertà.49 Nell’articolo appena citato su Cristianesimo e religioni non-cristiane, si accentuano aspetti differenti concernenti l’“essenza”: “Le grandi religioni sono l’espressione storica dell’atto religioso nell’umanità. Le grandi religioni sono, al tempo stesso, una sola e diverse. Sono una, perché corrispondono allo stesso livello di esperienza: nel suo modo particolare, ciascuna ci rende consapevoli dei modi in cui gli uomini hanno riconosciuto Dio mediante il mondo e lo hanno cercato di là dal mondo. Al tempo stesso, la diversità è parte dell’essenza delle grandi religioni. Ciascuna è l’espressione del peculiare genio religioso di un popolo. . . La religione forma parte del patrimonio di un popolo”.50 Conseguente è l’impossibilità di cambiamento della religione assimilato all’irrealizzabile cambiamento della razza. “Lo stesso livello di esperienza” corrisponde alla definizione di “pagano”? Significativa anche la formulazione di religione come espressione storica dell’atto religioso nell’umanità.51 Complessi, anche se non eludibili, sono gli approfonstabiliamo le corrispondenze teologiche tra questi momenti per enucleare le leggi dell’azione divina, la chiamiamo tipologia, conformandoci all’uso dei Padri”. 48 Miti, 9. Parlando del cristianesimo J. Daniélou accentua l’esigenza che l’annuncio sia ricevuto nelle forme proprie del singolo popolo. Approfondimenti sulle differenti culture pagane e sul possibile rapporto con il cristianesimo sono trattati in Saggio, 44-68. 49 Ibidem, 11-12: “Il pagano contemporaneo non è un pagano del cosmo, ma un pagano dell’uomo. Egli percepisce nell’esperienza umana un certo elemento di trascendenza e di sacro. Ma questo sacro è percepito maggiormente nell’esperienza dell’amore, o nell’esperienza della morte, che nella contemplazione delle stelle”. Sarebbe opportuno fare un’ulteriore riflessione su tali concezioni nel momento attuale. 50 Cristianesimo, 2 51 E.M. Laperrousaz in The Notion, 675-682, pone la questione sulla attendibilità della definizione di religione come “creazione della religiosità umana” formulata da J. Daniélou. Dopo avere considerato gli elementi di connessione e di valorizzazione delle religioni “pagane” distinguendole dal cristianesimo e averle definite “creazione
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dimenti sulle diversità che riguardano l’“essenza”, in ambito di studi storico-religiosi.52 Un’ulteriore definizione di paganesimo fa appello ad un contenuto escludente: la mancanza di appartenenza al contesto della rivelazione storica.53 La relativa unificazione ha quindi come intendimento l’accentuazione dell’assoluta diversità della manifestazione di Dio nella storia in Cristo. L’ordine delle religioni pagane e quello della rivelazione cristiana hanno genesi totalmente difformi e prospettive non comparabili. Le prime esprimono la ricerca di Dio ad opera dell’uomo, la rivelazione consiste invece nelle manifestazioni di Dio nella storia e ha come obiettivo la salvezza.54 Le qualificazioni di infra-umano, naturale e soprannaturale esauriscono tutte le possibili varietà delle relazioni dell’uomo con il divino. Questa categorizzazione non costituirebbe fra l’altro una configurazione invariabile, ma una fisionomia umana dinamica in relazione all’esperienza esistenziale e secondo una gradazione: la trasformazione da naturale a soprannaturale non è acquisibile una volta per tutte, ma delinea un della religiosità umana”, “rappresentazioni che gli uomini si sono fatti di Dio”, realtà che esprimono la ricerca di Dio, “disposizioni differenziate in rapporto alla salvezza”, “espressioni della dimensione religiosa costitutiva dell’uomo”, “creazioni del genio religioso dei popoli”, ne ha analizzato il carattere relativo. La mancanza di permanenza temporale e “ontologica” affermata da alcuni studiosi non costituisce un criterio di discriminazione diffusamente accettato, è sul piano dottrinario che si colgono le differenziazioni. L’approfondimento infatti di talune teorie quali, per esempio, le concezioni intorno alla creazione, alla discontinuità fra le creature, alla connessione fra costituzione spirituale e materiale, manifestano, nelle enunciazioni proprie delle singole epoche, una certa validità tanto da trovare corrispondenza con gli studi scientifici attuali. Le religioni sono più propriamente, conclude l’autore, non “creazione della religiosità umana” ma “espressione della ricerca di Dio”, secondo una delle enunciazioni di J. Daniélou. 52 Si veda U. Bianchi in La storia delle religioni (Oggetto e metodo) in Saggi, 68-70. 53 Cristianesimo, 1. 54 Si vedano le pagine di Saggio, 11-30 in cui J. Daniélou, introducendo le argomentazioni successive, pone in rilievo la categoria dell’evento e mostra come la totale diversità di prospettiva originata dal cristianesimo sia stata acquisita consapevolmente nel tempo. Pur in qualche modo ricompreso nell’ottica cristiana, il contrasto con le culture greca ed ebraica è evidente.
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percorso comunque sempre verificabile nei due sensi e non disprezzabile. “Noi siamo sempre a un certo livello di tale trasformazione”, scriveva J. Daniélou. Sono riscontrabili forme pagane o superstiziose nel cristianesimo che gli intellettuali vorrebbero estirpare avendo come obiettivo una purificazione totale del cristianesimo, rendendo problematica l’adesione alla fede per i “poveri”.55 Il cristianesimo non distrugge la natura ma opera per grazia un arricchimento. “Cristianesimo e paganesimo non sono paralleli ma complementari. Essi rappresentano due momenti della relazione tra l’uomo e Dio”.56 Il Vangelo rappresenta la realizzazione.
Il cristianesimo e le religioni Rispetto alle religioni o, meglio, al “paganesimo”, “il fatto ebraicocristiano ci presenta qualcosa di assolutamente diverso. Non è semplicemente un insieme di mezzi per adorare Dio. È la testimonianza di un evento. . . Non è necessario essere cristiani per credere in Dio, ma è necessario essere cristiani per credere che Dio viene fra gli uomini. Le religioni sono un movimento dell’uomo verso Dio; la rivelazione dà testimonianza di un movimento di Dio verso l’uomo”.57 Fra il cristianesimo e le altre religioni non c’è opposizione perché realtà che non appartengono alla stessa categoria sono incompatibili, ma c’è estraneità, proprio in relazione alla diversità. Inoltre non è possibile né concepire la possibilità di un sincretismo, né assumere la posizione di un estremo radicalismo nel tentativo di distruggere il paganesimo. Il “passaggio” dal paganesimo al cristianesimo non avviene secondo un’evoluzione omogenea, ma tramite la conversione che richiede una “rottura”.58 Miti, 8. Ibidem, 10. 57 Cristianesimo, 2-3. 58 Saggio, 134: “(Il cristianesimo) non tratta con disprezzo religiosi delle religioni pagane. Ma li purifica innanzitutto da ogni errore, ossia distrugge la corruzione e 55
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Le religioni pertanto possono essere considerate sia presupposti del cristianesimo, in grado di cogliere elementi di verità, sia impedimenti all’espansione del cristianesimo stesso. Perversione e anacronismo ne determinano infatti il disvalore. Rimane comunque possibile l’attuazione da parte del cristianesimo di una prospettiva positiva che comporta non il rifiuto ma l’assunzione, l’integrazione, la trasfigurazione dei valori del paganesimo.59 Significativa è l’importanza attribuita alla natura. La storia della salvezza identifica non solo il fine dell’uomo ma quello di tutto il cosmo e passa attraverso l’avvenimento della croce di Cristo,60 in un susseguirsi di eventi che sono definiti non in base ad un piano evolutivo e neppure ad una eterogenea discontinuità, ma a “crisi”, che manifestano, secondo lo studioso, il senso religioso della storia stessa.61 Fondamentale per la comprensione del cristianesimo anche in relazione alle religioni nel mondo attuale è il passaggio compiuto nell’evansoprattutto l’idolatria. Per questo la conversione sarà sempre una rottura. Non si può mai passare dal paganesimo al cristianesimo per evoluzione omogenea”. 59 Saggio, 134: “E poi il cristianesimo conclude e completa le verità imperfette che sussistono nelle religioni pagane, con la saggezza cristiana. Esso riprende i valori naturali dell’uomo religioso, li riprende per consacrarli. Così vediamo il cristianesimo antico integrare, dopo averli purificati, i valori della filosofia greca. E così potremo vedere domani il cristianesimo riprendere, dopo averli purificati, tutti i valori che contengono l’ascesi degli Indù o la saggezza di Confucio”. 60 Ibidem, 40: “L’uomo moderno è abituato a concepire il mondo sotto forma di un’evoluzione cosmica. Se non dimostriamo come l’ordine cosmico sia dominato dalla croce di Cristo, sia sottomesso alla sua azione sovrana, v’è pericolo che la storia sacra si perda nella storia naturale, che il Cristo si dissolva nel divenire cosmico”. 61 In Ibidem, 42-43 J. Daniélou affermava che la storia non è costituita da un progresso continuo e neppure da un susseguirsi di civiltà eterogenee ma da un succedersi di kairoi che segnano il crollo di una civiltà e insieme il rinnovamento. Questi kairoi costituiscono la ripresa del kairos fondamentale che è la passione e la risurrezione di Gesù Cristo e l’anticipazione del kairos finale. Per l’individuo questo giudizio è continuamente presente nell’esistenza, ma è necessario che “tutte le realtà del mondo conoscano questa crisi che le condanna e le salva al tempo stesso. Sul concetto di crisi si vedano gli Atti di un Seminario di Studi, svolto a Bologna e uscito in stampa recentemente: A.M. Mazzanti (a cura di), Crisi e rinnovamento tra mondo classico e cristianesimo antico, Bononia University Press, Bologna 2015 (in cui compaiono, fra l’altro, riferimenti e passi di J. Daniélou).
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gelizzazione della cultura greco-romana, su cui verte principalmente l’opera di J. Daniélou. La paradigmaticità delle origini e la continuità della tradizione sono infatti dati essenziali nell’orizzonte concettuale del padre gesuita, in funzione della possibilità di lettura del presente.62 Quale rapporto emerge alle origini del cristianesimo con le religioni preesistenti, con il “paganesimo” (considerando il termine secondo la definizione abitualmente riconosciuta)? Il giudaismo ellenistico è, per Daniélou, il luogo prioritario di quell’incontro fra la cultura classica e la rivelazione che fu determinante per il cristianesimo. A fronte della cognizione dell’esigenza che il cristianesimo si incarni in futuro in varie civiltà,63 bisogna riconoscere che la Chiesa porta impresso per l’eterno il segno della sua origine semitica e del suo ellenismo impresso nella liturgia e nella teologia.64 Indicativo il titolo del capitolo settimo del Saggio (108): “Un’interpretazione biblica della storia contemporanea”. J. Daniélou non si sottrasse al compito di giudicare le ideologie contemporanee e i suoi rilievi sono permeati dalla consapevolezza dei mirabilia Dei (22) e delle testimonianze della prima comunità cristiana negli scritti patristici. Si esamini anche il Capitolo Quinto dedicato alla “Storia marxista e storia sacramentale” (83-96 e partic. 88-89 e 94-96). 63 In Saggio, 44-49 J. Daniélou ha affermato che il cristianesimo non è legato ad una civiltà particolare perché non è un fatto di civiltà, ma è l’avvenimento di Dio nella storia. L’evangelizzazione implica comunque una serie di problemi: le varie culture devono essere purificate, il passaggio della rivelazione a orizzonti ideologici e linguistici diversi è complesso e richiede tempi lunghissimi. Alcuni studiosi ritengono che l’identificazione del cristianesimo con la cultura occidentale sia inevitabile, ma è opportuno non legare troppo strettamente la Chiesa alla romanità e alla latinità e comprendere che anche l’Oriente ha in sé i fondamenti di una “preparazione” provvidenziale all’avvenimento di Cristo. 64 Scrisse J. Daniélou in Saggio 51 “Noi siamo, spiritualmente, semiti, ha detto Pio XI. Noi siamo spiritualmente anche greci”, e citava un passo di Florovsky che afferma che l’ellenismo ha assunto nella Chiesa un carattere perpetuo, incorporandosi nel suo stesso tessuto; si tratta di una categoria eterna dell’esistenza cristiana. In vari scritti J. Ratzinger ha affrontato il tema dell’ellenizzazione; si veda, fra gli altri Fede, verità e tolleranza, in particolare 93-98. Alcuni elementi problematici rilevabili negli studi sull’argomento sono focalizzati in A.M. Mazzanti, Introduzione in A. Valvo (a cura di), W. Jaeger. Cristianesimo primitivo e paideia greca con saggi integrativi di Autori vari, Bompiani, Milano 2013, 229-235. 62
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Il privilegio attribuito a Filone di Alessandria65 e la pubblicazione di una monografia su questo autore chiarisce la dinamica inerente all’ellenizzazione. “La Diaspora appariva come il mezzo provvidenziale con il quale Iahweh è annunciato a tutte e nazioni. Ora, in Filone questo atteggiamento raggiunge la sua suprema espressione. Il Giudaismo appare come la religione del vero Dio, che tutti gli uomini devono adottare e che si libera dai suoi legami nazionali”.66 La personalità di Filone, che, come scrisse lo studioso nell’“Introduzione” indicando il metodo adeguato di ricerca, può essere compresa solo se considerata alla luce dell’unità fra esperienza esistenziale e opera apologetica,67 attesta l’affermarsi dell’universalismo religioso e l’esprimersi del senso missionario. La prospettiva intravvista dall’esegeta alessandrino, che si discosta particolarmente dalla convinzione propria del giudaismo palestinese dell’inscindibile legame di religione e nazione, è l’unità fra religione d’Israele, cultura greca e impero romano.68 La relazione di Filone con il contesto culturale, sociale e politico del tempo è attestata nella monografia del padre gesuita tramite analisi su influssi filosofici che rimandano a concezioni affermate da scuole presenti in particolare in Alessandria e riguardano più specificatamente tematiche inerenti alla realtà del mondo in corrispondenza con la concezione del tempo.69 Gli apporti dell’autore ebreo, evidenti nei saggi più propriamente teorici, sono talora connessi a confutazioni che non risultano sempre unitarie e coerenti fra loro, ma che J. Daniélou ha teso a giustificare.70 Le tracce 65
L’analisi degli scritti filoniani è parte degli approfondimenti che J. Daniélou ha dedicato al contesto alessandrino, si pensi, fra l’altro, alle indagini su Origene. 66 Filone d’Alessandria, Edizioni Arkeios, Roma 1991 (1ª ed. 1958), 30. 67 J. Daniélou nell’Introduzione di Filone, 7-9, ha citato in sintesi le controverse interpretazioni dell’opera filoniana, attribuendone le erronee deduzioni alla mancanza di connessione fra l’uomo e i suoi scritti. 68 Ibidem, 28-30. 69 Ibidem, 67-84. 70 In Filone, 70-84, J. Daniélou analizzando il De providentia I e il De aeternitate mundi, affermava che la presenza di contraddizioni è determinata dall’intento espositivo degli insegnamenti ricevuti, mentre in De providentia II e in De animalibus le incongruenze sono giustificate dal rimando alle discussioni fra varie scuole.
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inconfondibili della saggezza greca e della filosofia pagana, le considerazioni sul contesto politico sono comunque funzionali allo scopo prioritario dell’opera: l’affermazione della religione giudaica. Secondo lo studioso il cristianesimo delle origini attuò un distacco e manifestò un rifiuto nell’immediato per poi cogliere, successivamente, gli elementi condivisibili. In Messaggio evangelico e cultura ellenistica71 J. Daniélou ha considerato l’intento missionario dei primi cristiani determinato non solo dal desiderio di far conoscere la verità, ma dall’amore per le anime.72 L’invito alla conversione, di cui gli apologisti diedero testimonianza personale talora estrema, è il focus del tentativo di rapporto. “Se talvolta i nostri autori fanno appello alla tolleranza, reclamando una libertà che si accorda alle altre religioni, scriveva J. Daniélou, ciò non significa affatto che essi considerino che il paganesimo sia una forma religiosa legittima. Al contrario essi pretendono proprio di strappargli le anime che esso conduce alla perdizione”.73 La critica nei confronti del mondo circostante si svolge ad ampio raggio. Le dottrine e quindi i miti, già valutati negativamente dai filosofi che avevano rifiutato l’interpretazione letterale per trarne allegorie, sono oggetto di confutazione. La filosofia, d’altra parte, non solo espone opinioni contrastanti dimostrando di essere ancora in ricerca, ma non è in grado di connettere la vita alle teorie enunciate. I costumi pagani sono esecrabili. In modo particolare, le forme cultuali consolidate che impregnavano la vita pubblica e familiare e sulla cui mancanza di partecipazione si innestavano le accuse ai cristiani, sono aborrite e considerate opera dei demoni.74 Le “religioni” misteriche sono oggetto di giudizio specifico 71
I riferimenti sono tratti dall’edizione italiana del 1975, ristampata nel 2010 da EDB. Si tenga presente che l’edizione originale di Histoire des doctrines chrétiennes avant Nicéé, pubblicato nel 1961, è composta da due volumi, il primo dei quali è intitolato Théologie du judèo-christianisme. 72 Messaggio, 19. 73 Ibidem, 23. 74 Il concetto è espresso anche in Miti, 28-29: “I primi cristiani che erano piuttosto severi rispetto alle religioni pagane, avevano la tendenza ad interpretare i riti pagani come prodotti dalla magia e ad attribuire loro una casualità demoniaca. È una spiegazione possibile”.
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e, a questo proposito, sono citati alcuni passi di Clemente Alessandrino.75 In opposizione al paganesimo è presentata la verità cristiana che, pure, in qualche modo, trova talune corrispondenze nelle affermazioni dei pagani. Unità di Dio e giudizio sono concezioni fondamentali che trovano riscontro anche negli autori pagani.76 Insieme al richiamo alla coscienza nel conflitto contro il paganesimo l’accordo del messaggio cristiano con la ragione umana è argomento ampiamente sviluppato.77 C’è una divisione nello stesso paganesimo: i culti idolatrici, suscitati dai demoni hanno operato inganni sin dall’origine, ma non tutti gli uomini hanno aderito alle menzogne. La divisione fra cristiani e pagani nasce in relazione ad una separazione già attuata in precedenza. “Il cristianesimo, come dottrina del Verbo, scriveva Daniélou, è nella continuità di tutto ciò che nel mondo pagano è vissuto secondo il logos”.78 Particolarmente interessante è la concezione della storia deducibile da tali formulazioni. Il conflitto fra paganesimo e cristianesimo è il rinnovato contrasto fra il Verbo di Dio e i demoni. Vi è continuità quindi fra i saggi della Grecia e i cristiani. Gli apologisti presentano il ripudio dell’idolatria da parte di un uomo greco non come la rottura con la tradizione ma come il frutto dell’acquisita consapevolezza della verità totale rispetto alla frammentarietà o alla parzialità precedente. Come è giustificabile questa formulazione? I fondamenti antropologici sono certamente “essenziali”. La concezione teorica sull’anima naturalmente cristiana di Tertulliano ne chiarisce la plausibilità.79 Rilevante è la tesi di Giustino sul Logos :80 il seme del Logos è stato ricevuto secondo una modalità di partecipazione da tutto il genere umano, come è chiaramente testimoniato da coloro che hanno vissuto per un ideale e hanno praticato il bene, ma sono solo i cristiani che posseggono il Messaggio, 26-28. Ibidem, 30-31. Gli apologisti considerano talune affermazioni dei pagani come ulteriori attestazioni, anche se congetturali, delle verità di cui la rivelazione rende certi. 77 Ibidem, 42-44. 78 Ibidem, 44. 79 Ibidem, 30. 80 Ibidem, 52-62. 75
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Logos nella pienezza perché hanno ricevuto la rivelazione totale tramite l’incarnazione di Cristo.81 J. Daniélou cerca di cogliere le valenze di questa tesi anche in relazione agli apporti relativi ai “prestiti” della Scrittura riscontrabili dal testo di Giustino. Il linguaggio è stoico, il pensiero platonico. Le incongruenze, rese evidenti dalle indagini degli studiosi, si chiariscono maggiormente facendo riferimento a Filone di Alessandria. Il giudaismo ellenistico assume, di conseguenza, un rilievo specifico. In Clemente82 è riproposta la teoria concernente l’attitudine naturale a conoscere Dio da parte dell’intelligenza che è data all’uomo, come dono, da Dio stesso. Ulteriore opportunità è conferita ad alcuni filosofi a cui è stato dato il dono dell’ispirazione, benché inferiore a quella dei profeti ebraici. Questa tesi, di cui ci sono cenni in Giustino, è sviluppata in particolare in Clemente che considera la filosofia per i Greci analoga alla Legge per gli Ebrei. È necessario tenere presente, fra l’altro, che l’Alessandrino considera veri maestri non i filosofi suoi contemporanei, oggetto di critica, ma i più antichi greci, o meglio i barbari che li hanno preceduti: J. Daniélou ne ha desunto una visione della filosofia più “religiosa” che “scientifica”, fondata più sull’autorità dei sapienti che su deduzioni. L’origine di tale ispirazione è sempre il Verbo che si serve degli angeli per la comunicazione. Emerge la nozione di una “rivelazione primitiva”.83 Alla tesi dell’ispirazione si affianca quella dei 81
L’azione singolare ed esclusiva di Dio nel pensiero di Giustino è spiegata in sintesi da J. Daniélou, in I santi pagani, 24: “Giustino intende parlare di un’azione soprannaturale della grazia (δύναµις) e non di un semplice esercizio della ragione. Storicamente infatti l’uomo appartiene a un ordine soprannaturale”. P. Pizzuto in La teologia della rivelazione di Jean Daniélou. Influsso su Dei Verbum e valore attuale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2003, 162-163, si sofferma riferendo gli studi di J. Daniélou sul tema dei rapporti fra stato naturale e grazia in particolare su Gregorio di Nissa che considera l’uomo creato da Dio a sua immagine come già inserito in uno stato di grazia. Sulla concezione della presenza del logos nell’uomo in relazione al Logos in testi di ambito giudaico, in autori cristiani dei primi secoli e in scritti filosofici coevi si vedano i saggi presenti in A.M. Mazzanti (a cura di), Il logos di Dio e il logos dell’uomo. Concezioni antropologiche nel mondo antico e riflessi contemporanei, Milano 2014. 82 Ibidem, 62-83. 83 Messaggio, 76.
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prestiti biblici da parte di quei barbari che, in primis, sono identificati con i giudei. Clemente presenta un’ulteriore ipotesi sull’invenzione della filosofia: la rivelazione proveniente dagli angeli decaduti che non altera dalla genesi la positività della teorizzazione ma propone verità mescolate a falsità. Gli studi sull’affermarsi del cristianesimo nella storia documentano in modo paradigmatico quale identità possa essere attribuita alle religioni. La novità del cristianesimo segnata dalla realtà della trascendenza incarnata in Cristo nella storia determina una diversità non rapportabile, non confluibile nelle “espressioni storiche dell’atto religioso dell’umanità”, nelle modalità in cui “l’uomo riconosce il divino nella sua manifestazione nel mondo visibile”, e, nel contempo, ha la capacità di rispondere alle istanze e di assumere le interpretazioni simboliche e mitologiche che l’animo umano concepisce in virtù del suo essere in relazione ontologica con Dio. Il processo in atto comporta la presenza di realtà che “cominciano e non finiscono”,84 in un’economia progressiva in cui la molteplicità delle culture non conduca al relativismo o all’omogeneizzazione ma all’espressione di aspetti differenziati in un unico messaggio.85
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Saggio, 13. Si vedano in Saggio in particolare gli epiloghi dei capitoli secondo e terzo “Il cristianesimo e le civiltà” e “La divisione delle lingue”, 54 e 68 in cui si legge: “Il suo [il riferimento è al cristianesimo] messaggio unico esprimendosi attraverso queste diverse civiltà, come attraverso un prisma, manifesta meglio questo o quello dei suoi aspetti”.
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Le religioni in Joseph Ratzinger Maria Vittoria Cerutti (Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano)
Premessa Nel presente contributo intendo delineare le caratteristiche e gli scopi dell’approccio squisitamente storico e più precisamente storicocomparativo alle religioni – e al posto del cristianesimo nel mondo delle religioni – quale sviluppato da Joseph Ratzinger e da lui considerato premessa necessaria per una valutazione teologica delle religioni e del rapporto tra cristianesimo e altre religioni. Non intendiamo, pertanto, illustrare i lineamenti di una teologia delle religioni né di una filosofia delle religioni, come espresse da Ratzinger,1 ma – appunto – le linee di una storia delle religioni intesa come approccio metodologico di tipo storico e più specificamente storico-comparativo alle religioni quali fenomeni storici. L’ambito della nostra indagine è costituito da una serie di saggi risalenti agli anni sessanta, ma tali da essere riconosciuti da Ratzinger stesso – per sua esplicita ammissione in uno scritto del 2000 – come validi nelle loro linee generali ancora agli inizi di questo nostro secolo.2 1
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“Dal 1955 al 1963, nel quadro dei miei corsi di teologia fondamentale a Freising e a Bonn avevo insegnato anche filosofia della religione e storia delle religioni e avevo scoperto l’importanza del tema delle religioni” [J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 20052 (prima ed. 2003), 13]. Si tratta del Saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000, con titolo Introduzione al cristianesimo, ieri, oggi e domani, premesso a J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico. Con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2000 (ed.or. Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, München 1968), ove il Nostro afferma: “Se oggi dovessi riscrivere l’Introduzione al Cristianesimo, non potrei non includervi tutte le esperienze degli ultimi trent’anni e, di conseguenza, non potrei non affrontare
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Le religioni in Joseph Ratzinger
Chi scrive si riconosce nella scuola di Storia delle religioni che si ispira alla lezione metodologica di Ugo Bianchi (1922-1995), allievo di Raffaele Pettazzoni (1883-1959). Con quest’ultimo nacque in Italia, negli anni venti del secolo scorso, la Storia delle religioni come disciplina scientifica, professata in sedi accademiche, con un proprio statuto epistemologico fondato sul metodo storico-comparativo. Solo in parziale continuità con quella di Pettazzoni, la proposta metodologica di Bianchi intende distanziarsi sia da un approccio storicistico (in nuce già in Pettazzoni ma esplicito in suoi allievi e non, come Angelo Brelich ed Ernesto De Martino3 ) sia dalla fenomenologia religiosa, quale venutasi a delineare – dopo gli studi di Rudolph Otto – in particolare con Gerardus van der Leeuw e Mircea Eliade. In tal modo, rifiutando, da un lato, uno storicismo che si rinchiuda entro i confini di una ricerca idiografica e proponga forme esplicite o implicite di riduzionismo del fatto religioso a fattori culturali di natura altra (sociale, economica e così via), e, dall’altro lato, una fenomenologia radicale, troppo legata a presupposti filosofici e tesa a identificare ‘strutture’ e ‘tipi’ religiosi, avulsi dal concreto terreno storico, la lezione metodologica di Bianchi viene ad additare la via di un approccio al fatto religioso e ai fatti religiosi svincolato da teorie interpretative generali e generalizzanti e libero per quanto possibile da pre-comprensioni di ordine ideologico, filosofico e teologico. Tale via si fonda sul metodo storico-comparativo, ossia un metodo induttivo e positivo (non positivistico), che a partire dallo studio – nutrito di attenzione filologico-documentaria – dei singoli fenomeni religio-
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con maggior vigore rispetto al passato anche gli interrogativi interreligiosi. Credo, tuttavia, di non aver sbagliato l’orientamento di fondo ponendo al centro della discussione la questione di Dio e la questione di Cristo, che sfocia in una ‘cristologia narrativa’ e indica il ruolo della fede nella chiesa. L’orientamento di fondo, quindi, era a mio avviso corretto” (Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 24). Perspicua, al riguardo, per limitarci a una sola citazione, la seguente espressione di E. de Martino [Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 28 (1957), 89-107, 90]: “conoscenza storica delle religioni significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò che nell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose”.
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si come fenomeni storici, manifestatisi e manifestantisi nella storia e indagabili con i mezzi della storiografia, non si fermi ad una, pur necessaria, attenzione idiografica ma si apra programmaticamente alla individuazione e allo studio di quei più vasti circuiti storici e culturali, di quella rete mobile di rapporti e di reciproche influenze nella quale ogni fenomeno religioso, in quanto fenomeno storico, è collocato. La comparazione tra fatti religiosi e processi religiosi, o comunque tra fatti inseriti in processi, porta alla individuazione di analogie significative, ossia di somiglianze e di diversità, ma mai sempre le stesse, tra quei fatti e quei processi, e tenta di offrire una ragione, storica, delle une come delle altre. Al contempo, la comparazione, sulla base di dette analogie, potrà addivenire alla costruzione di ‘tipi’ religiosi o – come preferiva chiamarle Bianchi – ‘tipologie storiche’, ossia di forme di classificazione da intendersi non come lo scopo e il fine della ricerca stessa, ma come duttili strumenti ulteriori di indagine e di interpretazione di quegli stessi fatti e processi.4 Scopo della comparazione sarà dunque il cogliere le specificità dei fenomeni comparati e con ciò l’operare una sempre più pertinente distinzione e chiarificazione degli stessi, a tutto vantaggio di una sempre miglior comprensione della ‘verità’ storica.5
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La prospettiva metodologica qui evocata trova efficace espressione in U. Bianchi, Saggi di metodologia della Storia delle religioni (Nuovi saggi 75), Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1979. Ad essa fanno riferimento, tra gli ultimi studi al riguardo, G. Casadio (a cura di), Ugo Bianchi. Una vita per la Storia delle religioni, Il Calamo, Roma 2002; G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla Storia delle religioni (Manuali di base 55), Laterza, Roma-Bari 2011, e M.V. Cerutti, Storia delle religioni. Oggetto e metodo, temi e problemi, EDUCatt, Milano 2014. Tale propspettiva appariva già efficacemente delineata nelle parole di R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, «Numen» 6 (1959), 1-14, 10-11: “In sede metodologica si tratta di vedere se la comparazione non possa essere altro che una meccanica registrazione di somiglianze e differenze, o se non si dia – invece – una comparazione che, superando il momento descrittivo e classificatorio, valga a stimolare il pensiero alla scoperta di nuovi rapporti e all’approfondimento della coscienza storica”.
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Le religioni in Joseph Ratzinger
Per un approccio storico-comparativo alla pluralità delle religioni in J. Ratzinger Il plesso di problemi (storici, filosofici, teologici, culturali, pastorali) legati alla pluralità delle religioni e al posto del cristianesimo a fronte di queste è “con acuta preveggenza e sicura lucidità” – come riconosce Piero Coda6 – individuato da Ratzinger già quando esso – ai tempi della promulgazione del decreto conciliare Nostra Aetate – “è ancora, tutto sommato, al margine della consapevolezza e del dibattito ecclesiale, se si eccettuano affondi penetranti di pensiero come quelli offerti in quegli anni da Jean Daniélou e Henri de Lubac, per non portare che due esempi ben noti alla meditazione del giovane teologo Ratzinger”.7 A noi, tuttavia, qui compete, come detto, una disamina – nelle sue linee fondamentali – dell’approccio storico alla pluralità delle religioni – e al posto del cristianesimo a fronte di esse – come sviluppato da Ratzinger, in quello spettro di saggi che sopra è stato delimitato. Perspicuo della necessità di un siffatto approccio come preliminare ad una riflessione teologica in merito a religione e religioni, appare il seguente passaggio che cade all’interno di un contributo di Ratzinger, su cristianesimo e religioni universali,8 alla miscellanea offerta nel 1964
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P. Coda, Sul posto del cristianesimo nella storia delle religioni: rilevanza e attualità di una chiave di lettura, in Aspetti del pensiero teologico di J. Ratzinger, «PATH» 6 (2007), 239-253, 240. Coda, Sul posto del cristianesimo, 240-241. Nelle sessioni del Concilio Vaticano II – osserva H. Bürkle, Religione o religioni?, in G. Tanzella-Nitti – G. Maspero (a cura di), La verità della religione. La specificità cristiana in contesto, Cantagalli, Siena 2007, 13-34 – si era ancora occupati con altri temi, in particolare quelli legati alla comprensione della rivelazione e al rapporto della Chiesa con la società. Si riconosce ai lavori pionieristici di Ratzinger e agli impulsi del suo pensiero se, riguardo al tema del rapporto del cristianesimo con le religioni non cristiane, non ci si sia limitati – come era il programma originario dei padri conciliari – a varare una dichiarazione sul rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, ma si sia approdati al documento Nostra Aetate che, appunto, mette a tema il rapporto tra il cristianesimo e un più ampio spettro di mondi religiosi (religioni tradizionali, ebraismo, islamismo, religioni asiatiche).
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a Karl Rahner per il suo sessantesimo compleanno:9 Le religioni, in fondo, sono sempre trattate come massa indistinta, considerate sempre sotto il profilo della possibilità di salvezza. La mia opinione, dopo gli anni dedicati allo studio della storia delle religioni, era che simili qualificazioni teologiche delle religioni dovessero essere precedute da una ricerca fenomenologica non impegnata in primo luogo a valutare il valore sub specie aeternitatis delle religioni e che perciò evitasse di accollarsi un problema sul quale propriamente può decidere solo il Giudice del mondo. Ero del parere che in primo luogo si dovesse cercare di avere una visione panoramica delle religioni nella loro struttura storica e spirituale. Mi sembrava che non si dovesse discutere su di un non meglio definito (e praticamente neanche analizzato) insieme di ‘religioni’, ma che si dovesse in primo luogo cercare di vedere se vi siano stati sviluppi storici comuni e se si possano riconoscere tipi fondamentali, sui quali semmai compiere poi delle valutazioni; infine che occorresse indagare su come si rapportano tra loro questi tipi fondamentali e se ci pongano di fronte ad alternative che potrebbero poi diventar oggetto di riflessioni e scelte filosofiche e teologiche.10
Tali affermazioni appaiono espressive di una istanza metodologica fondamentale per il nostro Autore, in base alla quale la valutazione teologica delle religioni deve essere preceduta da una ricerca di “sviluppi storici comuni” e di “tipi fondamentali”. Ovvero, da una indagine storica dei fenomeni religiosi, intesi e indagati non come fatti statici ma come J. Ratzinger, Der christliche Glaube und die Weltreligionen, in H. Vorgrimler hrsg., Gott in Welt. Festgabe für Karl Rahner zum 60. Geburtstag, Freiburg im Br. 1964, II, 287-305; rist. in J. Ratzinger, Vom Wiederauffinden der Mitte. Grundorientierungen, Freiburg im Br. 1997, 60-82; riproposto con il titolo Einheit und Vielfalt der Religionen. Der Ort des christlichen Glaubens in der Religionsgeschichte, in J. Kard. Ratzinger, Glaube – Wahrheit – Toleranz, Freiburg im Br. 2003, 14-37. Il contributo in questione è stato tradotto in italiano come La fede cristiana e le religioni del mondo, in Orizzonti attuali della teologia, Roma 1967, II, 319-347, e successivamente riproposto, come primo capitolo, dal titolo Unità e molteplicità delle religioni. Il posto della fede cristiana nella storia delle religioni, in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 13-43. 10 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 15-16. I corsivi sono nostri. 9
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processi dinamici, indagine cui sia strettamente legata (detto meglio altrimenti: a cui consegua) una indagine fenomenologica tesa a individuare e a descrivere – così come esse ‘appaiono’ agli occhi dell’indagatore – differenze e somiglianze e a delineare, sulla base di queste, tipi comuni fondamentali. È in questo senso che ci pare vada inteso il riferimento di Ratzinger alla fenomenologia nel passaggio sopra riportato.11 Si tratta di un riferimento che non comporta l’assunzione delle valenze metodologiche proprie della fenomenologia delle religioni quale si era sviluppata nel corso del XX secolo per contrastare i riduzionismi propri di interpretazioni del fatto religioso ispirate dall’evoluzionismo e dal positivismo ottocenteschi, e alla quale facevano riferimento – in particolare – i nomi di W. Otto (precursore, in realtà, di quella tradizione di studi), di G. van der Leeuw, di G. Widengren e, in una posizione specifica, più morfologica che fenomenologica, di M. Eliade.12 Ben vede P. Coda,13 allorché valorizza il distanziarsi di Ratzinger da una posizione quale quella fenomenologica che, tesa come è a individuare le strutture comuni soggiacenti alle manifestazioni storiche delle 11
E in molti altri luoghi ove il Nostro utilizza tale espressione. Un esempio: “In verità “Dio” (anche nell’ambito della fenomenologia della religione) è qualcosa d’altro dagli “dei”[. . .]” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 35). 12 Possiamo, qui, solo ricordare come il rapporto tra indagine storica e indagine fenomenologica fosse stato messo a tema – a partire dagli anni venti del secolo scorso – da R. Pettazzoni, il quale riteneva che la indagine storica e più specificamente storico-comparativa e quella fenomenologica dovessero costituire i due corni di una “scienza delle religioni” integrale, laddove il discepolo di Pettazzoni, U. Bianchi, riprendendo e ulteriormente articolando tale posizione, ma anche in parte prendendo le distanze da essa, avrebbe parlato della fenomenologia religiosa come di un capitolo della storia delle religioni, ossia, secondo altra formulazione, della necessità che l’indagine fenomenologica fosse costantemente controllata da quella storica. Usiamo qui l’espressione “scienza delle religioni” nella specifica accezione che essa assume in R. Pettazzoni, distinguendoci in ciò da un uso non meglio precisato, o piuttosto, da un uso della stessa espressione come somma di approcci metodologici diversi al fatto religioso e ai fatti religiosi, quale trovo, ad esempio, in Coda, Sul posto del cristianesimo, 242, che parla di “metodo (molteplice) della scienza delle religioni”. 13 Coda, Sul posto del cristianesimo. Di tale studio non condividiamo, tuttavia, alcune
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religioni e, in ultima analisi, l’univoca essenza del fatto religioso in sé, giunge a misconoscere le discontinuità tra le concrete esperienze religiose espressesi nella storia e, insieme, le loro specificità.14 affermazioni circa i rapporti tra teologia delle religioni, storia delle religioni e fenomenologia delle religioni. Afferma, infatti, lo studioso: “L’una e l’altra [. . .], scienza delle religioni e teologia, non hanno che da guadagnare da un utilizzo incrociato, e scevro da pregiudizi scientisti o fondamentalisti, dei loro rispettivi metodi” (Coda, Sul posto del cristianesimo, 242). Ritengo che l’utilizzo non possa essere incrociato ma possa essere soltanto a senso unico, ovvero che la teologia delle religioni possa servirsi dei dati forniti dalla storia delle religioni o più in generale dalla scienza delle religioni, ma non viceversa. Infatti, teologia delle religioni e storia delle religioni partono da orizzonti diversi e procedono con metodi diversi, deduttivo la prima, a partire da un orizzonte di fede (come deduttivo è il metodo della filosofia delle religioni), induttivo la seconda, a partire dall’orizzonte storico variegato delle molteplici manifestazioni che, con termine problematico e che comunque essa – la storia delle religioni – farà oggetto di indagine, sono comunemente definite “religiose”. Problematica, poi, troviamo questa ulteriore affermazione di Coda, Sul posto del cristianesimo, 243: “In questa chiara e articolata impostazione metodologica [n.d.r.: quella di Ratzinger, che l’A. aveva precedentemente esposto], trovano posto, al loro proprio livello d’esercizio, la fenomenologia, la storia e la teologia delle religioni. In tal modo, in particolare, è inoltre destituito di fondamento critico e scientifico, sin dal principio, ogni approccio che assolutizzi uno soltanto di questi metodi a detrimento degli altri: con ciò stesso, in definitiva, contravvenendo a una positiva configurazione e a un proficuo utilizzo del metodo stesso che indebitamente viene assolutizzato”. Di fatto, la Storia delle religioni, ché di questa intendo qui parlare, nel momento in cui offre un oggetto specifico e un metodo cosciente per analizzarlo, ha una posizione assoluta, nel senso di “sciolta”, ovvero ha una sua autonomia rispetto quantomeno ad approcci quali quello della filosofia delle religioni e della teologia delle religioni, pur servendosi (e per questo si parla di una “autonomia relativa”) dell’ausilio di discipline altre e diverse e in particolare di quelle che un tempo definite discipline ausiliarie della storia sono assurte a dignità di discipline autonome (ad es. numismatica, epigrafia, e così via). 14 Afferma, infatti, Coda (Sul posto del cristianesimo, 243): “A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60 del secolo scorso, Ratzinger ha giustamente di mira un’estensione impropria del metodo fenomenologico come quello che – assai diversamente dalle intuizioni originarie dei suoi propugnatori nello studio del fatto religioso [. . .] – permetterebbe di accedere a una comune “esperienza spirituale” per sé costituente il nucleo sorgivo e comune di tutte le tradizioni religiose, che dunque non farebbero altro che rappresentarne una diversa e alla fine congruente e complementare
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Lontananza dalla fenomenologia, dunque, ma anche, possiamo qui aggiungere, lontananza da posizioni proprie di quella declinazione della fenomenologia religiosa che è costituita dall’antropologia religiosa, quale è venuta configurandosi, in particolare, nella produzione scientifica di Julien Ries, e che ha al proprio centro la nozione di homo religiosus, strutturalmente aperto al sacro.15 Tale nozione non sembra trovare eco negli studi di Ratzinger né lo trova certamente in quegli studi cui traduzione storica. Così che, per usare il calzante esempio portato da Ratzinger per illustrare tale posizione, “la diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l’una nell’altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero” [n.d.r. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 24]. La plausibilità di una simile tesi, che si fonda in ultima istanza su un dato incontestabile: quello dell’esperienza religiosa come fatto universalmente umano, mostra però il suo carattere ideologico nel fatto che praticamente destituisce di rilevanza e di portata le oggettive differenze tra le diverse esperienze e le diverse tradizioni religiose. Destituendo così di rilevanza e di portata la storia e, di concerto, la rivelazione di Dio in essa. Con ciò, a ben vedere, non solo, in primis, è messa in questione l’originalità ebraico-cristiana, ma anche – direi di conseguenza – l’originalità di ogni altra autentica esperienza e tradizione religiosa, negando la possibilità e il significato di una qualunque storia delle religioni”. Osserviamo, peraltro, come non sembri condivisibile la distinzione qui delineata da Coda tra intuizioni originarie (quali quelle, come precisa lo stesso Coda (Sul posto del cristianesimo, 243, n.8), di Max Scheler, G. van der Leeuw, G. Widengren, H. Duméry) ed estensione impropria delle premesse proprie del metodo fenomenologico, il quale invece, ci pare, e già a partire da colui che in un qualche senso fu l’anticipatore della fenomenologia religiosa, ossia R. Otto, nella tensione alla ricerca di una univoca essenza del fatto religioso viene appunto a misconoscerne le diverse declinazioni storiche. U. Bianchi – alla cui lezione metodologica qui specificamente ci riferiamo – manifesta insoddisfazione per una certa modalità fenomenologica (oltre che psicologistica) di affrontare la religione, riducendola – in maniera troppo rapida e generica – a religiosità, ovvero a ‘senso del sacro’ – nello specifico con Otto – oppure a connaturata apertura dell’uomo in quanto tale al trascendente. Tali impostazioni – infatti – rischiano di far perdere di vista la specificità delle religioni e dunque anche del fatto cristiano stesso. Per Bianchi ogni impostazione fenomenologica deve essere controbilanciata o comunque attende sempre di essere integrata da una contestualizzazione storica. 15 Di tale autore è in corso di pubblicazione l’Opera Omnia (12 voll.) per i tipi dell’editore milanese Jaca Book e a cura di N. Spineto. Per un confronto tra metodo della storia delle religioni e metodo della antropologia religiosa, in relazione in particolare alla produzione scientifica di Ries, ci permettiamo rinviare a M.V. Cerutti, Storia delle
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facciamo riferimento in queste nostre pagine.16 Di fatto, tale nozione, nella sua tensione a salvare la specificità del fatto religioso e la sua irriducibilità a ciò che religioso non è, come pure – e contestualmente – ad affermare la universalità del fenomeno religioso,17 troppo facilmente viene a identificare una essenza univoca del fatto religioso e con ciò a rischiare di misconoscere le specificità delle diverse tradizioni religiose e, tra di esse, di quella ebraico-cristiana.18 religioni e antropologia religiosa, in N. Spineto (a cura di), L’antropologia religiosa di fronte alle manifestazioni della cultura e dell’arte, Jaca Book, Milano 2009, 115-126. 16 Non è questo il luogo per una disamina dei rapporti personali ed epistolari tra Ratzinger e Ries, rapporti culminati – se così ci è consentito esprimerci – nel conferimento a Ries da parte di Ratzinger della berretta cardinalizia, il 23 febbraio del 2012. In una intervista raccolta da Lorenzo Fazzini (Avvenire, 15 febbraio 2012) Ries afferma di Ratzinger: “L’ho incontrato più volte, ad esempio al Meeting di Rimini. E già nel 1978 mi aveva omaggiato di un suo libro sull’escatologia con questa dedica: «Al grande storico delle religioni Julien Ries»”. 17 Una universalità che essa viene ad affermare per via deduttiva, a partire dalla nozione – appunto – di homo religiosus, laddove la storia delle religioni – in particolare secondo la lezione metodologica di Bianchi – viene ad affermare l’universalità del fatto religioso (e parla della religione come di un “universale storico” o “universale concreto”) per via induttiva, a partire da una analisi di tipo storico e comparativo e da una nozione di religione di tipo analogico e non univoco, come sopra illustravamo. 18 In tal senso va anche la critica di Bianchi alla fenomenologia religiosa alla Otto e alla antropologia religiosa, allorché lo storico delle religioni italiano afferma: “il concetto di sacro e anche quello di homo religiosus, oltre che generici e perciò in parte arbitrari, specie il concetto di sacro, sono anche fortemente ambivalenti; lo sono non soltanto nel senso di quell’ambivalenza posta dall’Otto tra l’aspetto fascinans e quello tremendum del sacro, ma anche nel senso che la pretesa uniformità sostanziale della percezione del sacro nelle diverse religioni e culture impedisce una valutazione sia storica che teologica del processo evolutivo e ‘revolutivo’ cui il fatto religioso come ogni altro fatto è disponibile nella storia dell’umanita. In altre parole, non è che nelle diverse forme religiose Dio, o gli dei, o gli spiriti, o altre entità oggetto di credenze, siano percepiti come tali solo tramite la loro appartenenza alla categoria del sacro, oppure siano riducibili a questa, quasi che il sacro si manifesti o esista allo stato puro e in sé e per sé; ma, al contrario, la categoria del sacro costituisce un aspetto dove piu dove meno risultante da quelle diverse concezioni, dalle quali la coscienza religiosa mai prescinde. Dunque, si danno nel concreto varie e diverse forme del sacro, che si riferiscono alla diversità dei contenuti di credenza”
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La presa di distanza da parte di Ratzinger da una indagine fenomenologica che ritenga di poter attingere strutture o essenze univoche e atemporali delle religioni, e – al limite – l’essenza della religione in quanto tale, emerge ancora nel seguente passaggio che compare nello scritto di Ratzinger del 1964 in omaggio a Karl Rahner – riproposto, ultimamente, nel 2005 – al quale abbiamo già sopra fatto riferimento: La primissima impressione che si impone all’uomo quando incomincia, in materia di religione, a gettare lo sguardo al di là dei confini della propria, è quella di un illimitato pluralismo, di una molteplicità addirittura opprimente, che a priori fa apparire illusoria la questione della verità. [. . .] questa impressione non dura a lungo, ma molto presto cede il passo a un’altra: quella di una nascosta identità delle aree religiose, che si distinguono certo nei nomi e nelle immagini di superficie, ma non nei grandi simboli fondamentali e in ciò che con essi si intende. In larga misura questa impressione è giusta. Di fatto esiste un’ampia area religiosa nella quale la comunanza dell’ ‘esperienza spirituale’ (per parlare col linguaggio di Radhakrishnan) è più decisiva della diversità delle forme esterne. In modo esplicito o implicito, tante religioni stanno in quella profonda, reciproca comunicazione spirituale che nell’antichità si esprimeva nella facilità con cui le divinità potevano essere scambiate da religione a religione, ‘tradotte’, considerate identiche nel loro significato. La diversità delle religioni assomiglia alla diversità delle lingue, che sono traducibili l’una nell’altra, perché fanno riferimento alla stessa struttura di pensiero. [. . .] Come abbiamo detto, dall’impressione di piena pluralità, che per così dire rappresenta un primo stadio della riflessione, si sviluppa, in un secondo stadio, l’impressione di un’ultima identità. La filosofia moderna della religione è persuasa di poter persino addurre il fondamento di questa nascosta identità.19
Si tratta – prosegue Ratzinger – della concezione per la quale nell’esperienza mistica, ossia nella esperienza vissuta dal mistico di un contatto diretto col divino, esperienza di per sé ineffabile, starebbe il fondamento (U. Bianchi, Tra mondo e salvezza. Problemi del cristianesimo di oggi, Vita e Pensiero, Milano 1979, 215). 19 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 23-24.
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comune di ogni autentica religione e, insieme, la religione di prima mano, mentre la religione di seconda mano, espressa con molteplici variazioni formali, consisterebbe nella cognizione del divino trasmessa dal mistico a quei tanti cui non è dato compiere tale esperienza.20 Questione fondamentale, da cui potrà proseguire il cammino dell’indagine teologica, è allora – per Ratzinger – rispondere alla domanda se tale interpretazione mistica della religione regga o meno. La strada per giungere a una risposta è quella costituita da una indagine storica e comparativa. Afferma, infatti, il nostro Autore: Non c’è dubbio che tale interpretazione coglie in modo giusto gran parte del fenomeno religioso, non c’è dubbio che [. . .] esiste una segreta identità nel mondo molteplice delle religioni. È però altrettanto sicuro che essa non coglie l’intera realtà, anzi, se lo volesse fare, giungerebbe a una semplificazione errata. Quando si analizza la storia delle religioni nella sua totalità (nella misura in cui la conosciamo) si ha l’impressione di una staticità molto minore, ci si imbatte in una imponente dinamica, propria d’una storia reale (che è progresso, non costante ripetizione simbolica dell’uguale); la semplice in-distinzione a cui conduce l’interpretazione mistica viene meno a favore di uno strutturarsi ben definito, che oggi risulta oramai evidente, in cui la via mistica emerge come una via del tutto particolare tra svariate altre, in un punto assolutamente particolare della storia delle religioni, e presuppone una intera serie di sviluppi indipendenti da essa.21
È a questo punto che Ratzinger delinea quello che gli appare come lo strutturarsi storico delle religioni, scandito in tre stadi. Il primo stadio è quello delle religioni ‘cosiddette primitive’, che poi “si sviluppa nello stadio delle religioni mitiche, nelle quali le esperienze sparse dei primordi si raccolgono in una coerente visione unitaria”.22 Da questo secondo stadio, quello delle ‘religioni mitiche’, con un ulteriore e decisivo passaggio, si assiste alla uscita dal mito. Questo secondo passaggio appare alla indagine di Ratzinger strutturarsi nel modo seguente: Ibidem, 24. Ibidem, 25-26. 22 Ibidem, 26. 20 21
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Se il primo grande passo nella storia delle religioni, dunque, consiste nel passaggio dalle esperienze sparse dei primitivi al mito in grande stile, il secondo passo, decisivo e tale da determinare l’attuale carattere della religione, consiste nell’uscita dal mito. Tale passo storicamente si è verificato in tre modi: 1. Nella forma della mistica, in cui il mito delude come mera forma simbolica e si rafforza l’assolutezza dell’ineffabile esperienza vissuta. Di fatto poi la mistica si dimostra custode dei miti, rifonda il mito, che spiega come simbolo della verità. 2. La seconda forma è quella della rivoluzione monoteistica, la cui forma classica si trova in Israele. In essa il mito è rifiutato come arbitrio umano. Viene affermata l’assolutezza della chiamata divina tramite il profeta. 3. Va aggiunto come terza forma l’illuminismo (Aufklärung), il cui primo grande momento si verificò in Grecia. In esso il mito come forma di conoscenza prescientifica viene superato e si instaura l’assolutezza della conoscenza razionale. L’elemento religioso diventa privo di significato, al massimo gli rimane una certa funzione puramente formale di cerimoniale politico (= riferito alla polis).23
Questa ‘formula strutturale’ (come la definisce Ratzinger);24 a base storico-fenomenologica, mette a frutto un’ampia conoscenza di studi sulle religioni maturata nel corso degli anni di insegnamento accademico,25 risultando però, al contempo, anche talora debitrice, come Ibidem, 26-27. Ibidem, 27. 25 Per l’elenco delle attività accademiche (corsi, seminari, colloqui e conferenze accademiche) svolte dal Professor J. Ratzinger nelle Università tedesche, si veda G. Valente, Ratzinger Professore. Gli anni dello studio e dell’insegnamento nel ricordo dei colleghi e degli allievi (1946-1977), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008. Se ne evincono (ibidem, 189-196) le seguenti tappe accademiche: Rheinische Friedrich-Wilhelms – Universität Bonn – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1959-semestre estivo 1963); Westfälischen Wilhelms-Universität Münster – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1963-semestre estivo 1966); Eberhard-Karls-Universität Tübingen – Facoltà di Teologia cattolica (semestre invernale 1966-1967 – semestre invernale 1969-1970); Universität Regensburg – Facoltà di Teologia cattolica (semestre estivo 1970-semestre estivo 1977). Il 24 marzo 1977 è nominato arcivescovo di Monaco e Frisinga e è creato cardinale da Paolo VI nel Concistoro del 27 giugno dello stesso anno. Il 25 novembre del 1981 è chiamato a Roma come nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il 19 23
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preciseremo tra poco in particolare in relazione alla via monoteistica, dei limiti di quegli stessi studi. Merita, prima, un ulteriore approfondimento questo ‘schema di massima’26 cui può condurre una “critica della ragione storica in materia di religione”27 e che si pone tra due percezioni estreme e tra di loro opposte del mondo delle religioni: la prima che lo identifica come una pluralità sconfinata e la seconda che lo vede come tale da rimandare a una profonda e altrettanto sconfinata indistinzione. Orbene, prima via messa a fuoco in tale ‘schema’ è la via della mistica: “con tale termine non si designa quella forma di pietà religiosa che può trovarsi anche nell’ordine a cui appartiene la fede cristiana. Per ‘mistica’ qui si intende più radicalmente una via presente nella storia delle religioni, una disposizione che non tollera nessuna realtà sovraordinata a sé, considerando in ultima analisi le esperienze ineffabili e misteriose del mistico come l’unica realtà vincolante nell’ambito del religioso”.28 È l’atteggiamento caratteristico del Buddha come dei grandi pensatori del gruppo delle religioni induiste, persino quando le loro posizioni sono così diverse fra loro. “È la via che, con molteplici varianti, costituisce comunque lo sfondo unitario delle grandi religioni asiatiche. È carataprile del 2005 è eletto Pontefice con il nome di Benedetto XVI. L’11 febbraio 2013 comunica la sua rinuncia al ministero petrino (a partire dal 28 febbraio dello stesso anno). Quanto ai corsi di Storia delle religioni tenuti da Ratzinger negli anni della sua attività accademica, vanno ricordati i cicli di lezioni tenuti a Bonn nell’ambito del corso di Teologia Fondamentale. Fu negli anni di Bonn che conobbe l’indologo Paul Hacher, che si trasferì pure lui a Münster poco dopo il trasferimento di Ratzinger, il quale riconobbe di essergli debitore in più punti nell’ambito della storia delle religioni (J. Ratzinger-Benedetto XVI, La mia vita. Autobiografia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 112-113). Ch. Gnilka attesta (in una comunicazione personale in forma di lettera datata al 25.2.2014) l’importanza – quanto agli studi di Ratzinger sulle religioni – dell’ “influsso di Paul Hacker, professore di indologia, scienziato di ottima reputazione, convertito, grande figura nella battaglia contro la decadenza del cattolicesimo negli anni dopo il concilio (per me maestro in un senso molto profondo), che fu collega di Ratzinger a Bonn e dopo a Münster”. 26 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 28. 27 Ibidem. 28 Ibidem, 31.
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teristica di tale via l’esperienza dell’indistinzione. Il mistico sprofonda nell’oceano dell’Uno-tutto (che esso sia definito come ‘nulla’, in un’accentuata teologia negativa, o positivamente come ‘tutto’, è la stessa cosa). [. . .] La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità”.29 La categoria dell’in-distinzione si fa cifra teologica, ed ecco la teologia dell’in-distinzione, tipicamente asiatica, per la quale “tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità”.30 Venendo alla seconda via, la via monoteistica, ci preme qui osservare come Ratzinger, al riguardo, dichiari31 il suo debito nei confronti degli studi dello storico delle religioni italiano Raffaele Pettazzoni, già da noi sopra ricordato, e nello specifico dell’opera di Pettazzoni L’onniscienza di Dio.32 L’idea pettazzoniana che il monoteismo costituisca una vera e propria rivoluzione, ovvero l’irruzione – con la figura di un fondatore – di una novità radicale in un panorama religioso a sfondo politeistico, nella stagione di studi in cui venne formulata – gli anni ’50 del ventesimo secolo – intendeva contrastare non solo l’idea tipicamente evoluzionistica circa la nascita del monoteismo a seguito di una evoluzione quasi meccanica a partire da precedenti quadri politeistici,33 ma anche la nozione, cara a Wilhelm Schmidt34 e alla sua scuola, e costruita sulla base della indagine di una imponente quantità di Ibidem, 31-32. Ibidem, 32. 31 Ibidem, 33, nn. 19 e 20. 32 Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1955. 33 Come rileva Coda, Sul posto del cristianesimo, 246. 34 W. Schmidt, Der Ursprung des Gottesidee. Eine historisch-kritische und positive Studie, 1-12, Aschendorff, Münster 1912-1955. Per un approccio critico, si veda – ad esempio – Sfameni Gasparro, Introduzione alla Storia delle religioni, 81-95. 29
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dati relativi alle più arcaiche culture etnologiche contemporanee, di un Urmonotheismus o ‘monoteismo originario’, caratterizzante i popoli della preistoria e rispetto al quale i politeismi delle culture superiori rappresenterebbero (non una evoluzione, come per gli studi improntati appunto alle tesi evoluzionistiche, bensì) una devoluzione. Accogliendo la posizione critica di Pettazzoni in merito al cosiddetto ‘monoteismo originario’, Ratzinger sembra prendere indirettamente le distanze dalle tesi schmidtiane in questione, particolarmente allora diffuse negli ambienti cattolici.35 Ma la nozione pettazzoniana di rivoluzione, che verrebbe a caratterizzare i monoteismi storici (ebraismo, cristianesimo, islamismo, zoroastrismo), nati appunto – secondo la interpretazione di Pettazzoni – allorché un fondatore con atteggiamento rivoluzionario nega i tanti per affermare l’Unico, e a distinguerli dal cosiddetto (e indebitamente detto) monoteismo originario, negli studi storico-religiosi sarebbe stata assoggettata a una revisione, che ne avrebbe denunciato la rigidità, quale formula incapace di dare conto di quelle dinamiche di continuità che pur si offrono, accanto alle dinamiche di rottura, o di ‘rivoluzione’, nelle fondazioni religiose di tipo monoteistico.36
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Parlando della contrapposizione tra monoteismo e mistica, Ratzinger afferma che da tale contrapposizione sono escluse “a priori due forme di monoteismo: anzitutto le diverse forme di fede in un Dio che si possono incontrare nell’ambito primitivo e che non entrano nella dinamica storica delle grandi religioni; poi quel monoteismo evolutivo, quale si è andato formando fin dal Medioevo, diciamo, nell’India. Il monoteismo dell’India si distingue da quello di Israele per due motivi: in primo luogo esso è ordinato alla mistica, il che significa che tende al monismo e appare così solo uno stadio preliminare di quanto è più definitivo, vale a dire dell’esperienza dell’in-distinzione; in secondo luogo è sorto non, come in Israele, attraverso una rivoluzione, ma tramite l’evoluzione, e questo ha come conseguenza che non è giunto mai alla caduta degli dei, ma piuttosto a diverse forme di amichevole accomodamento tra Dio e gli dei, tra la fede in un solo Dio e quella in una pluralità di dei” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 33). 36 Perpicua di tale revisione della nozione pettazzoniana di ‘rivoluzione’ monoteistica appare la critica di U. Bianchi, come sviluppata, ad esempio, in Problemi di storia delle religioni, Edizioni Studium, Roma 19862 .
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Non ci soffermiamo sulla terza delle tre vie nelle quali si esprimerebbe, secondo la ‘formula strutturale’ proposta da Ratzinger e sopra da noi ricordata, l’uscita dal mito, ossia la via dell’ ‘illuminismo’, costituita dalle religioni dell’Aufklärung, come le designa Ratzinger, a partire dalle filosofie greche fino a quelle posizioni proprie dei tempi moderni, le quali rifiutano i miti come forma di conoscenza e subordinano l’esperienza religiosa all’assoluto della conoscenza razionale e scientifica. Ci preme invece ritornare ora alle ‘due vie’, la via mistica e la via monoteistica, e, soprattutto, in un secondo momento, sottolineare la rilevanza metodologica del procedimento con cui Ratzinger giunge a proporre la ‘formula strutturale’ sopra illustrata. Oserei dire che tale procedimento metodologico appare un guadagno ancor più importante di quanto, forse, non lo sia il suo esito, ossia la delineazione delle tre vie di uscita dal mito nella ‘formula strutturale’ sopra illustrata.
Ancora su ‘via mistica’ e ‘via monoteistica’ in J. Ratzinger Ritorniamo dunque alle due vie. In merito alla distinzione tra via mistica e via monoteistica, espressa dalla ‘formula strutturale’ di cui sopra, mette conto illustrare sia pur brevemente una sorta di evoluzione del pensiero di Ratzinger al riguardo di tale contrapposizione; il suo debito, parziale, nei confronti di analoga distinzione come occorsa in studi antecedenti e in particolare in quelli di J. Daniélou, cui Ratzinger guarda con particolare attenzione, ed infine la sua funzionalità ad una riflessione pertinente l’ambito della teologia delle religioni. Innanzitutto occorre ricordare come la ‘formula strutturale’ di cui sopra costituisca – per Ratzinger – la base per proseguire in una analisi comparativa differenziante delle religioni, la quale pervenga a identificare – su base storica prima che teologica – la specificità del cristianesimo in rapporto alle altre religioni ovvero il posto del cristianesimo nel mondo delle religioni.37 In particolare, funzionale a tale identificazione gli appare la distinzione, che egli giudica caratterizzata da una irriducibilità 37
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 37.
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marcata e insuperabile, tra la via percorsa dal monoteismo ‘di rivoluzione’, di ascendenza – come sopra detto – pettazzoniana, e la mistica ‘dell’ineffabile’, ossia la mistica nella specifica accezione proposta da Ratzinger e da noi sopra illustrata. Irriducibilità che del resto si dà anche tra mistica, sempre nel senso specifico di cui sopra, e fede, in senso biblico cristiano.38 Orbene – afferma Ratzinger – la scelta tra le due vie, quella mistica, astorica e fondata sulla concezione impersonale di un divino ineffabile, e quella monoteistica, storica, fondata sulla concezione personale di un Dio che si rivela, che possa parlare e a cui si possa parlare, “è una questione di fede, seppure di una fede che si avvale di preambula razionali. Quel che si può fare sul piano scientifico è, unicamente, tentare di conoscere ancor più da vicino la struttura delle due vie e la loro reciproca relazione”.39 È lo stesso Ratzinger, a distanza di tempo,40 e a seguito di un costante approfondimento della propria riflessione storico-fenomenologica e teologica – in ciò dimostrando, come rileva Coda,41 “umiltà e autentico spirito scientifico” –, a riconoscere una certa inadeguatezza della distinzione contrappositiva, a suo tempo proposta, tra ‘mistica’ e ‘monoteismo’.42 Il che non gli impedisce di mantenere, ed anzi di valorizzare, quella che rimane come una cifra qualificante la sua indagine storica 38
Cfr. sul tema e sulle fonti del pensiero di Ratzinger in merito a tale distinzione, Coda, Sul posto del cristianesimo, 247. 39 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 31. 40 E specificamente nelle pagine, raccolte sotto il titolo Interludio, scritte nel 2003 da Ratzinger a commento del saggio del 1964 sopra citato, offerto a Karl Rahner, e degli altri più recenti, risalenti agli anni ’90, insieme a quello riproposti in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. 41 Coda, Sul posto del cristianesimo, 247. 42 Afferma, infatti (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 45): “Oggi parlerei piuttosto di «mistica dell’in-distinzione» e di «comprensione di Dio come persona». In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia «Dio», qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’«io» e del «tu» – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a – e il dissolversi nell’Uno-tutto”.
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e fenomenologica del mondo delle religioni, ovvero la distinzione tra la concezione personale di Dio che si rivela, propria della rivelazione ebraico-cristiana e la concezione impersonale del divino ineffabile propria della via mistica, quale si dà nelle religioni dell’Estremo Oriente. Distinzione che si esprime anche e di conseguenza nei seguenti termini:43 Da questo fatto [scil. dal fatto che nella via mistica ‘Dio’ rimane del tutto passivo e l’elemento decisivo è l’esperienza dell’uomo che sperimenta la sua in-distinzione rispetto all’essere di ogni ente, mentre nella via monoteistica si crede all’operare di Dio che chiama l’uomo] consegue una differenza ancor più profonda, che sul piano della fenomenologia della religione balza particolarmente all’occhio e a sua volta genera una serie di ulteriori conseguenze. Ne risulta infatti il carattere storico della fede che si basa sulla rivoluzione profetica e il carattere astorico della via mistica. L’esperienza vissuta, da cui nella mistica tutto dipende, si esprime solo in simboli, il suo nucleo è identico in tutti i tempi. Non è il momento cronologico dell’esperienza vissuta ad essere importante, ma unicamente il suo contenuto, che equivale a un travalicamento e a una relativizzazione di ogni realtà temporale. Al contrario la chiamata divina, da cui il profeta sa d’essere raggiunto, è databile; ha un ‘qui’ ed ‘ ora’, con essa ha inizio una storia, è stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quello che noi chiamiamo storia.
Jean Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto. Sottolineando a più riprese che il cristianesimo è ‘essenzialmente fede in un evento’, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno ‘che si oppone al mondo del tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia’.44
43 44
Ibidem, 37-38. Ibidem, 38, mentre la citazione di Daniélou è – come precisa Ratzinger, ibidem n.26 – tratta dal suo Saggio sul mistero della storia, tr. it., Morcelliana, Brescia 19782 (ed. or. Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, Paris 1953), 121.
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Nel cammino di approfondimento delle due vie, Ratzinger viene così a esprimere il suo debito nei confronti di J. Daniélou.45 Egli ricorda come sia stato Daniélou a riconoscere con perspicacia la distinzione – conseguente a quella tra via astorica e via storica nel mondo delle religioni – tra le figure dei grandi fondatori delle religioni asiatiche e le figure dei patriarchi e dei profeti d’Israele, come pure tra l’agire di Dio che dà la salvezza nelle religioni bibliche e l’agire dell’uomo che cerca la salvezza; a tale riguardo riporta le parole di Daniélou, aggiornandole: Per il sincretismo [così egli dice. E noi potremmo dire: “per le diverse vie religiose al di fuori di quelle inaugurate dai profeti”] le anime salve sono quelle capaci di interiorità, a qualsiasi religione appartengano. Per il cristianesimo, salve sono quelle che credono, qualunque sia il loro grado di interiorità. Un piccolo fanciullo, un operaio oppresso dal lavoro, se credono, sono superiori ai più grandi asceti.46
45
Non è nostro compito dar conto delle disamine sviluppate da Daniélou in merito alle religioni diverse dal cristianesimo e specificamente in merito al paganesimo, al giudaismo e all’Islam. Al riguardo si potrà far utilmente riferimento – oltre a quanto segnalato nella nota precedente – alle seguenti sue opere: Les saints païens de l’Ancien Testament (tr. it. I santi pagani dell’Antico testamento, Queriniana, Brescia 19882 ), Seuil, Paris 1956; Le mystère du salut des nations (tr. it. Il mistero della salvezza delle nazioni, Morcelliana, Brescia 1954), Seuil, Paris 1948. Né qui ci compete riflettere sull’influsso (così per Juvénal Llunga Muya, La teologia delle religioni. Uno sguardo d’insieme, in G. Lorizio (a cura di), Teologia Fondamentale. Contesti, vol. 3, Città Nuova Editrice, Roma 2005, 53-118, 66) delle distinzioni operate da Daniélou in merito al mondo delle religioni, sul pensiero di H.U. von Balthasar (Das Christentum und die Weltreligionen. Ein Durchblick, Informationszentrum Berufe der Kirche, Freiburg 1979; tr. it., Cristianesimo e religioni universali, Piemme, Casale Monferrato 1987), il quale ritenne necessario operare una fondamentale distinzione tra le religioni di rivelazione (ebraismo, cristianesimo, Islam), che condividono la fede in un Dio creatore personale, e le religioni orientali, per le quali dietro i fenomeni transitori del mondo si nasconde una Realtà divina impersonale, i due gruppi essendo caratterizzati da approcci opposti, ossia da Dio alla persona umana nelle religioni monoteiste, dalla persona umana all’Assoluto divino nelle altre. 46 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 41, che cita Daniélou, Saggio sul mistero della storia, 126.
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Non ci addentreremo nelle suggestioni storico-fenomenologiche di Daniélou qui da Ratzinger evocate, né nella questione dei debiti di queste nei confronti della letteratura scientifica del tempo, ad esempio – per quanto concerne la riflessione di Daniélou sulla via astorica – nei confronti della produzione scientifica di M. Eliade.47 Segnaliamo solo come sia nella direzione di un approfondimento della via storica propria del monoteismo, e ancora una volta non senza giovarsi di suggestioni offertegli da Daniélou, che Ratzinger viene a delineare la specificità – su base storico-fenomenologica prima che teologica – della peculiare via storica costituita dal cristianesimo. Infatti, afferma Ratzinger, “si potrebbe mostrare che solo nel cristianesimo l’impostazione storica è stata seguita in modo del tutto rigoroso, e che quindi solo nel cristianesimo la via monoteistica ha esplicato i suoi effetti in modo davvero autentico”.48 E sempre in merito a una riflessione sulla peculiare storicità della via cristiana, lo stesso Ratzinger ricorda49 come, a proposito dell’islam, già il Daniélou del Saggio sul mistero della storia50 avesse valorizzato quanto già affermato da J. Moubarac, ossia che “il pensiero maomettano ignora la durata e conosce solo atomi, momenti del tempo (anat)”. La distinzione tra via mistica e via monoteistica, o, secondo la formulazione successivamente preferita da Ratzinger – come sopra visto –, tra via personale e storica e via impersonale e astorica, viene a precisarsi e ad arricchirsi nel prosieguo della riflessione di Ratzinger, confermandosi una chiave di volta del suo approccio storico e più precisamente
Ratzinger – rimandando al Daniélou del Saggio sul mistero della storia, p. 121 – afferma che “la mistica, del resto, condivide questo carattere dell’astoricità con il mito e con le religioni primitive, nelle quali, secondo Mircea Eliade, è tipica «la ribellione contro il tempo concreto, la loro nostalgia d’un periodico ritorno al mitico tempo originario»” (Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 38, mentre la citazione di M. Eliade è tratta – come precisa Ratzinger ibidem n. 27 – da Il mito dell’eterno ritorno, tr. it., Roma 1982, p. 7). 48 Ibidem, 39. 49 Ibidem, 39, n.28. 50 Daniélou, Saggio sul mistero della storia, 123. 47
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storico-comparativo al mondo delle religioni e al posto del cristianesimo in esso. Di fronte al mondo delle religioni, infatti, Ratzinger invita “a prendere atto delle differenze più tangibili in un paio di parole chiave”,51 che risultano essere, da un lato, il ‘tipo’ di religione teistica, ove l’apice dell’essere, il divino stesso, è Persona, e, dall’altro lato, larga parte della religiosità asiatica, ove l’Assoluto sta al di là del personale.52 Una contrapposizione, questa, che ne comporta una ulteriore, quella tra i concetti di separazione e di unità: “Questo vuol dire: se per il pensiero teistico l’ineliminabile contrapposizione di creatore e creazione fa parte dell’unità, la quale crea l’amore, per la mistica asiatica, invece, la fusione inscindibile all’interno dell’identità dell’uno, che è nel contempo tutto, è l’unico scopo sufficiente della sua aspirazione al divino”.53 Contestuale a tale riflessione e tale da giovarsi dei suoi guadagni, è la riflessione sviluppata dal nostro Autore in merito al rapporto tra politeismo e monoteismo, la quale evade rispetto a considerazioni ‘ingenue’ quali quelle che vedono il primo, il politeismo, come affermazione della molteplicità dell’Assoluto e il secondo, il monoteismo, come affermazione della sua unità. L’analisi di Ratzinger, infatti, viene a mostrare come vero discrimine tra politeismo e monoteismo sia piuttosto l’idea dell’inaccessibilità dell’Assoluto di contro all’idea che all’Assoluto si possa rivolgere la parola ed esso stesso possa parlare. Ne consegue la delineazione – da parte di Ratzinger – sia del carattere politeistico dell’ateismo moderno, sia della contiguità tra il politeismo del mondo antico e le religioni asiatiche, compreso il buddhismo, per altri versi così diverse da quello. Comune, infatti, all’antico politeismo e alle religioni asiatiche è l’idea che l’Assoluto divino sia impersonale o sovrapersoJ. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008, 40. 52 Distinzioni queste, e quelle che immediatamente seguiranno, per le quali Ratzinger riconosce il suo debito nei confronti di J.A. von Cuttat e in particolare di J.A. von Cuttat, Begegnung der Religionen, Johannes Verlag, Einsiedeln 1956 (tr. it., L’incontro delle religioni, Rocco, Napoli 1958). 53 J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 41. 51
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nale e non destinatario di atti religiosi positivi, i quali possono essere – invece – destinati solamente a ciò che è penultimo. Dopo aver ribadito che “l’illuminismo greco e il profetismo in Israele rappresentano ciascuno a suo modo un confronto con il problema del politeismo”,54 il nostro Autore precisa che “la posizione speciale della fede d’Israele” consiste essenzialmente nel fatto di “un Assoluto cui si possa parlare e che a sua volta possa parlare”,55 mentre la religiosità asiatica, e nello specifico la sua via mistica, attesta “una decisione sull’assoluto, che non segue così necessariamente dallo spunto politeistico e che non si registra ad esempio nell’ambito greco: il mondo (e l’uomo con esso e tutto ciò che è personale) viene compreso come l’apparizione finita dell’Infinito, solo apparenza e non essere”.56 Tuttavia, nella riaffermazione di tale distinzione tra la prospettiva biblica e quella asiatica, Ratzinger viene a precisare dove si ponga la fede cristiana rispetto a tale contrapposizione, e lo fa sulla scorta, per sua specifica e riconoscente ammissione,57 dei lavori di J.A. Cuttat,58 il quale vede la fede cristiana come il centro unificante tra l’Oriente e l’Occidente.59 Afferma Ratzinger: E tuttavia: se la fede cristiana spinge al grado massimo di severità la sua contrapposizione, c’è pur in essa contemporaneamente il superamento della contrapposizione e l’apertura all’unità, anche se in un senso del tutto diverso dall’universalismo simbolico dell’Asia. Cristo non significa infatti soltanto alterità di Dio e uomo, ma anche unità: unità di uomo e Dio, unità di uomo e uomo, in una forma tanto radicale, che Paolo – lasciandosi alle spalle tutta la mistica asiatica dell’unità – può dire: “Voi siete uno Ibidem, 46. Ibidem. 56 Ibidem, 47. Va segnalata la dipendenza, esplicitata da Ratzinger, di sue analisi del buddhismo e della ricerca da parte di questo della verità e della salvezza (ad esempio in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 240 n.23) da H. Bürkle, Der Mensch auf der Suche nach Gott. Die Frage der Religionen, Bonifatius, Paderborn 1996 (tr. it. L’uomo alla ricerca di Dio. La domanda delle religioni, Jaca Book, Milano 2000), 143-160. 57 J. Ratzinger-Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 49. 58 In particolare von Cuttat, Begegnung der Religionen. 59 J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 41. 54
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solo in Cristo Gesù” (Gal 3,28). E ci troviamo così ricondotti alle parole di Cuttat, dalle quali siamo partiti: “Nel punto dove Oriente ed Occidente si incontrano e si dividono, si erige la croce del nuovo Adamo”, il quale crea nella croce l’incunearsi dei due legni divisi, dei due mondi divisi. “Egli, infatti, è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l’inimicizia . . . per riconciliarli con Dio, ambedue in un unico corpo, mediante la croce, dopo aver ucciso in se stesso l’inimicizia” (Ef 2,14ss).60
La rigorosa distinzione su base storica e fenomenologica di processi storici, quali quelli sopra delineati e costituiti dalla via mistica e da quella monoteistica, e di caratteristiche proprie di quegli stessi processi (indistinzione vs distinzione, astoricità vs storicità, impersonalità vs personalità), è purtuttavia, nella prospettiva di Ratzinger, tesa a una affermazione teologica, e nello specifico di una teologia della storia: Tutto quel che s’è detto [scil. in merito alla distinzione tra monoteismo e mistica e alla insostenibilità di una identificazione della mistica come essenza della religione o come religione di prima mano e del mistico come del reale detentore della religione] non può né deve servire a creare una comoda giustificazione razionale per la fede cristiana nel conflitto delle religioni. Si è voluto piuttosto definire un po’ più chiaramente (eppure ancora in modo abbastanza generico) il posto del cristianesimo nel complesso della storia delle religioni, per conoscere meglio noi stessi e la nostra propria via in rapporto agli altri. Se la questione ha posto in primo piano ciò che separa, non si deve tuttavia dimenticare ciò che unisce: il fatto che noi tutti siamo parte di un’unica storia che, in vari modi, è in cammino verso Dio. Ci sembra che la conclusione decisiva sia che, per la fede cristiana, la storia delle religioni non è il ciclico ritorno di ciò che è sempre uguale, di ciò che non arriva mai al vero, che rimane al di fuori della storia. Chi è cristiano ritiene che la storia delle religioni sia una storia reale, una strada la cui direzione significa progresso, e il cui cammino significa speranza. Costui deve svolgere il suo servizio come uno che spera, che imperturbabilmente sa che il fine della storia, pur attraverso tutti i fallimenti e le contese degli 60
Ibidem, 49.
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uomini, infallibilmente si compie: la trasformazione del tohuwabohu, del caos con cui il mondo ebbe inizio, si realizza nella Gerusalemme eterna, in cui l’unico ed eterno Dio abita in mezzo agli uomini e splende ad essi come loro luce per sempre (cf. Ap 21,33; 22,5).61
Religione e religioni: qestioni di metodo Ma è giunto il momento, ora, di valorizzare la rilevanza della ‘formula strutturale’ sopra illustrata per le indicazioni metodologiche che essa offre. Infatti, ad essa Ratzinger perviene mosso dalla esigenza di mostrare che dal punto di vista storico e fenomenologico “non esiste una generica in-distinzione delle religioni e neppure la loro pluralità senza rapporto, ma si può delineare – appunto – una formula strutturale che abbracci il momento della storicità (del divenire, dello sviluppo), il momento dell’essere in costante rapporto e il momento delle diversità reali, irriducibili. [. . .] In questo schema di massima si dovrebbe afferrare l’esito a cui può condurre una ‘critica della ragione storica’ in materia di religione”. Detto in altri termini, “tra l’idea di una pluralità sconfinata e quella di una altrettanto sconfinata in-distinzione siamo rimandati invece a un numero limitato di strutture, che sono preordinate a un determinato sviluppo spirituale”.62 Una valutazione storico-fenomenologica dei fenomeni religiosi che evada dagli estremi di considerarli un coacervo anarchico di fatti e, all’opposto, di considerarli tali da offrir sotto le evidenti diversità un nucleo comune, si rivela funzionale a un giudizio teologico sulle religioni che, anche esso, evada dagli opposti costituiti, da un lato, dalla demonizzazione senza appello, dalla denuncia del totale non senso delle forme religiose altre e diverse dalla cristiana, e, dall’altro lato, dal riconoscimento delle religioni come altrettante vie ugualmente valide nel loro condurre all’Assoluto e nel loro offrire salvezza. 61 62
Fede Verità Tolleranza, 43. Ibidem, 27-28.
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Una posizione, quest’ultima, propria – seppur in forme diverse – della cosiddetta teologia pluralista delle religioni cui Ratzinger dedica particolare attenzione nel corso dei suoi studi e del suo magistero. Affermatasi gradualmente fin dagli anni cinquanta, ma impostasi negli anni ’90 in particolare con J. Hick e P. Knitter, la teologia pluralista delle religioni per Ratzinger riveste il posto che negli anni 80 rivestiva la teologia della liberazione. Se da un lato la teologia pluralista delle religioni appare come un prodotto tipico del mondo occidentale e delle sue concezioni filosofiche, ed in particolare del relativismo come filosofia dominante, dall’altro lato, per Ratzinger, si pone in continuità con le intuizioni religiose e filosofiche dell’Asia, soprattutto con quelle del subcontinente indiano. Per dirla – sempre con Ratzinger – in altri termini, la filosofia post-metafisica dell’Europa si collega meravigliosamente alla teologia negativa dell’Asia, ed è – anzi – proprio il collegamento tra questi due mondi ciò che determina agli occhi del Nostro la sua particolare influenza sul momento storico che stiamo vivendo. Orbene, funzionale a una denuncia della teologia pluralista delle religioni appare la riflessione storica e più precisamente storico-comparativa sviluppata da Ratzinger in relazione al mondo delle religioni e al posto del cristianesimo in esso. In particolare, funzionale a tale denuncia appare la modalità con cui il nostro Autore ritiene debba essere valutato su base storica il rapporto religione /religioni, ossia il rapporto tra la categoria concettuale di ‘religione’ e le religioni come fenomeni manifestantisi nella storia. In un contributo – in forma di conferenza – di J. Ratzinger, all’epoca professore di Dogmatica e di Storia dei dogmi all’Università di Münster, in un convegno tenutosi a Tutzing dal 1 al 3 aprile 1966 e organizzato dall’Accademia Evangelica di Tutzing e dall’Accademia Cattolica di Baviera, contributo sul tema Il problema dell’assolutezza del cammino cristiano di salvezza,63 l’Autore afferma che la domanda sul rapporto tra
63
Già raccolto, con altri contributi suoi, in J. Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, tr. it., Queriniana, Brescia 19722 (ed.or., Das neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Patmos Verlag, Düsseldorf 1969), 391-404, e ora
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il cristianesimo e le religioni mondiali è diventata oggi una necessità intrinseca per la fede. In relazione a tale domanda, afferma Ratzinger, la nozione di ‘assolutezza’ del cristianesimo va compresa in relazione alla affermazione che il cristianesimo non rientra in un generico concetto comune di religione insieme alle altre religioni, cosicché le diverse religioni sarebbero di diverse specie. In realtà noi ci lasciamo continuamente guidare, in maniera più o meno consapevole da quest’idea; anche la dogmatica ne è in gran parte succube, quando per esempio cerca di spiegare l’essenza del sacrificio cristiano in base a un concetto generale di sacrificio, o quello del servizio sacerdotale in base a una comprensione generale del sacerdozio. Contro una simile concezione si devono però sollevare delle obiezioni, non solo in base a considerazioni teologiche, bensì in primissimo luogo già in base a considerazioni puramente fenomenologiche: i fenomeni stessi non rendono possibile alcun concetto di religione che sia comune, continuo, onnicomprensivo. La filosofia della religione qui, volenti o nolenti, rinuncerà alla tendenza generalizzante di ogni filosofia e dovrà accettare la resistenza dei fenomeni che non sono classificabili in nessun genere universale. La religione ateistica del buddismo si oppone a ogni definizione comune con i tipi di religione teistici dell’Occidente. E nessuno ha il diritto di definire ‘religione’ solo quelle occidentali, cosa a cui facilmente tendiamo.64
Ratzinger, affrontando la questione del significato di ‘religione’, prende, dunque, le distanze da quelle posizioni che vedono la religione come un genere di cui le varie religioni sarebbero altrettante specie. Questa assimilazione del rapporto religione/religioni al rapporto genere/specie comporta – infatti – la identificazione all’interno delle religioni di una continuità, di una caratteristica comune universalmente riconoscibile e tale da riproporsi in maniera univoca in tutte loro al di sotto o al di là delle differenze. Il nostro Autore rifiuta questa posizione, in quanto essa riproposto in J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 37-57. 64 J. Ratzinger – Papa Benedetto XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, 39-40.
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non pare render conto delle abissali differenze che la indagine storica e più precisamente storico-comparativa rileva tra di esse. Chi scrive vede una forte analogia tra la posizione qui espressa dal nostro Autore sul rapporto religione/religioni e la posizione propria della lezione metodologica dello storico delle religioni Ugo Bianchi. Questi, infatti, a fronte di un ampio ventaglio di proposte metodologiche che – pur formulate in ambiti diversi – convergono nel ritenere il rapporto religione/religioni identificabile come un rapporto genere/specie o, detto in altri termini, convergono nel ritenere la nozione di religione come una nozione univoca, tale cioè da esprimere un comune denominatore (sia esso un contenuto oppure una funzione oppure una forma) presente nelle religioni, sempre identico a se stesso accanto alla cangiante gamma delle differenze, ritiene che il rapporto tra religione e religioni non sia identificabile come un rapporto tra genere e specie perché le differenze – rilevabili da una ricerca storica ossia positivoinduttiva – tra le religioni vanno altrettanto nel profondo quanto le loro somiglianze, e le une come le altre – differenze e somiglianze – non appaiono sempre le stesse. Pertanto, Bianchi afferma essere la nozione di religione non una nozione univoca (e neppure equivoca), ma una nozione ‘analogica’, nel senso aristotelico-scolastico del termine. E, pur riconoscendo il carattere storicamente condizionato della nozione moderna di ‘religione’, la quale pertiene alla storia dell’occidente nutrito di linfa cristiana, in grazia di tale carattere analogico della nozione stessa, ritiene legittimo applicare il termine religione a fenomeni pur lontani dal mondo occidentale e che offrano significative analogie con ciò che in occidente è inteso come religione e con questo termine definito.65 Con il che si ritiene di non dover rinunciare – come invece imporrebbero tendenze decostruttive cui sembra alludere Ratzinger nelle affermazioni poco sopra riportate – a una nozione, quella di religione, per designare contesti altri e diversi rispetto a quello occidentale cri65
Cfr. al riguardo U. Bianchi (a cura di), The Notion of ‘Religion’ in Comparative Research. Selected Proceedings of the XVI IAHR Congress, L’ ‘Erma’ di Bretschneider, Roma 1994.
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stiano ove essa – in parziale continuità con l’humus linguistica latina – si è formata. Ma torniamo alla riflessione sul rapporto religione vs religioni come sviluppata da Ratzinger nell’ambito dei saggi in questo nostro intervento considerati. L’attenzione alla prospettiva storica, e più specificamente storicocomparativa, lo porta a evidenziare come le religioni non stiano in un modo statico una accanto all’altra, ma si trovino in un dinamismo storico nel quale diventano anche sfide l’una per l’altra.66 Nate in momenti storici diversi e tali da conoscere dinamiche diverse, non sono equivalenti neanche dal punto di vista dei contenuti, come sopra esplicitato, ma anzi giungono – osserva il nostro Autore – ad essere contraddittorie. Pertanto – si chiede Ratzinger – come possono essere vere e mezzi della salvezza realtà contraddittorie? Una indagine che sia storica e comparativa mostra la insostenibilità di posizioni relativistiche che affermino la uguaglianza delle religioni nel senso del loro offrire – al di sotto e al di là delle differenze – un quid comune a tutte esse, un contenuto o, come si diceva sopra, un denominatore comune. È noto come l’individuazione di un tale denominatore comune sia la base su cui poggiano diverse teorie pluralistiche delle religioni in sede teologica. Ben si comprende – allora – l’insistenza di Ratzinger su un modello interpretativo del rapporto religione/religioni quale quello che andiamo illustrando. Ne troviamo conferma nel già sopra citato Saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000 del volume Introduzione al cristianesimo, scaturito dalle lezioni tenute da Ratzinger a Tubinga nel semestre estivo del 1967 a uditori di tutte le facoltà. In tale saggio, dal titolo Introduzione al cristianesimo ieri, oggi, domani, scritto nell’aprile del 2000,67 Ratzinger, dopo avere affermato come due date appaiono epocali nel secolo scorso, ovvero il 1967 e il 1989, osserva come i fatti del 1989 fossero l’inizio di una fase per la quale non solo si smise di auspicare la cessazione della 66
Si veda l’intervista rilasciata in data 28.11.2003 da J. Ratzinger ad Antonio Socci a commento di Ratzinger, Fede Verità Tolleranza (www.chiesa.espressonline.it). 67 Ratzinger, Introduzione al cristianesimo.
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religione ma, anzi, si assistette al proliferare della religione in forme diverse. Una “riscoperta della religione”, come la chiama Ratzinger, la quale tende a presentare la religione come “esperienza di vita” e in particolare come “incontro tangibile con il totalmente Altro”; tale idea di ‘religione’, al contempo, offre la caratteristica che Ratzinger denuncia in questi termini: un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto. E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. [. . .] A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte.68
In questo processo di relativizzazione – osserva il Nostro – sono sottoposti a modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire la figura di Cristo e il il concetto di Dio. Per contro, l’indagine storica del mondo delle religioni – per il nostro Autore –, se non lo rivela come una massa indistinta, non lo mostra neppure come tale da offrire un denominatore comune, ma – piuttosto – consente di individuare nella trama complessa della storia del passato e del presente sviluppi storici comuni ossia ‘tipi’ di religioni. Nella delineazione di questi tipi, Ratzinger si distanzia ancora una volta da tipiche categorizzazioni diffuse in sede teologica o fenomenologica, e propone quale distinzione di base del mondo delle religioni la distinzione tra il tipo delle religioni etniche e il tipo delle religioni universali. Se ci si sforza di riconoscere degli elementi di contatto nella varietà sconcertante delle religioni mondiali, si può anzitutto distinguere le religioni 68
Ibidem, 15-16.
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etniche dalle religioni universali, benché, certamente, anche le religioni etniche siano caratterizzate da modelli fondamentali comuni che, a loro volta, sono in modo diverso legati alle grandi tendenze delle religioni universali.69
In queste ultime, ché parlando di incontro delle religioni, è a questo ambito che occorre rivolgersi, allo stato attuale della ricerca, possiamo distinguere due tipi fondamentali, che J.-A. Cuttat ha cercato di caratterizzare con i concetti di ‘interiorità’ e ‘trascendenza’ e che qui, a partire dal loro centro concreto e anche dall’atto centrale del loro culto, mi permetto di contrapporre, certamente con una qualche semplificazione, come tipo teistico e tipo mistico. Per l’ecumenismo delle religioni, se queste diagnosi sono corrette, si offrono due vie: si può tentare di accogliere il modello teistico in quello mistico, considerando quindi il modello mistico come il più ampio, in cui anche l’eredità teistica può trovare posto, oppure si può tentare di percorrere la via opposta. [. . .] Oggi è entrata in campo una terza alternativa, che vorrei definire ‘pragmatica’: tutte le religioni dovrebbero rinunciare all’interminabile controversia sulla verità e riconoscere la loro vera essenza, la loro effettiva finalità spirituale, nell’ortoprassi, la cui via, ancora una volta, appare chiaramente tracciata dalle sfide del tempo presente. L’ortoprassi potrebbe in fondo consistere solo nel servizio alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Le religioni potrebbero conservare tutti i loro credi, forme e riti, ma finalizzati a questa giusta prassi: ‘Le riconoscerete dai loro frutti’.70
E ancora, in relazione specificamente a quella fondamentale distinzione tra una visione personale e una impersonale del divino, la quale
J. Ratzinger-Benedetto XVI, Molte religioni. Un’unica alleanza. Il rapporto tra ebrei e cristiani. Il dialogo delle religioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2007 (già pubblicato dalle Edizioni San Paolo nel 2000 con il titolo La Chiesa, Israele e le religioni del mondo; ed.or., Die Vielfalt der Religionen und der Eine Bund, Verlag Urfeld GmbH, Bad Tölz 1998), 69. 70 J. Ratzinger-Benedetto XVI, Molte religioni. Un’unica alleanza, 70. 69
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– come sopra abbiamo voluto documentare – costituisce una delle cifre costitutive del suo approccio al mondo delle religioni, Ratzinger denuncia: Sembra [. . .] che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell’essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l’ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. (. . .) L’adorazione che il Dio d’Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell’infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all’infinito.71
‘Guardiamo alla storia effettiva’ (J. Ratzinger) È ormai evidente come per Ratzinger a tale deriva relativistica occorra opporre una indagine storica e più specificamente storico-comparativa, che compari per distinguere e distingua per comprendere.72 In tale prospettiva metodologica il nostro Autore si pone per affrontare nodi problematici della cultura contemporanea, quali – e con questo esempio concludiamo la nostra riflessione – l’equazione tra monoteismo e violenza, diffusasi a seguito – in particolare – degli studi dell’egittologo Jan Assmann. Questi, come noto, identifica in quella che lui chiama ‘distinzione mosaica’ il vero spartiacque della storia delle religioni, nel suo introdurre la distinzione tra vero e falso nel mondo delle religioni, una distinzione che gli antichi politeismi non avrebbero conosciuto, al pari della conseguente distinzione tra deus e natura, tra bene e male, peccato e redenzione. 71 72
Ibidem, 72. Ci piace qui riportare l’efficace suggestione di R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres, Paris 1992 (prima ed. 1989), 16: “Il faut comparer pour distinguer, distinguer pour comprendre”.
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Le religioni in Joseph Ratzinger
Tali distinzioni nascerebbero, invece, con la introduzione della fede in un Dio unico, non più strumento – al pari degli dei delle religioni politeistiche – di traducibilità interculturale e dunque di legittimazione degli dei altri e delle religioni altre, ma strumento di uno straniamento interculturale nonché di quella carica di odio e di violenza che – per Assmann – si sarebbe sempre tradotta in atto nella storia delle religioni monoteistiche.73 Da qui la necessità – per Assmann – di un ‘ritorno’ all’Egitto, a prima della distinzione mosaica, un ritorno già vagheggiato nelle pagine bibliche e poi espresso nella storia dell’Occidente a partire dal Rinascimento e in particolare con l’Illuminismo. Alle tesi di Assmann Ratzinger risponde: “guardiamo alla storia effettiva delle religioni politeiste”. Ossia: Poiché Assmann espone le sue tesi in quanto uomo di scienza, è dunque ad esse che occorre chiedere se siano vere. [. . .] Se si guarda alla storia effettiva delle religioni politeiste, l’immagine da lui abbozzata – in maniera invero abbastanza vaga – appare essa stessa come un mito. Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loro.74
E principia una analisi storica e comparativa, in cui non potremo seguirlo passo per passo, che perviene tuttavia a “smitizzare l’immagine di un mondo degli dei così pacifico”, ovvero a dimostrare l’arbitrarietà dell’equazione monoteismo/violenza e politeismo/tolleranza. Infatti Ratzinger, sul piano delle attestazioni storiche di quei fenomeni propri delle alte culture del mondo antico che furono i politeismi, mostra le differenze tra le diverse realizzazioni storiche del politeismo e attira la attenzione sul fatto che le religioni politeiste “non sono una realtà statica, data una volta per tutte come grandezza in sé sostanzialmente identica, e che si potrebbe ricostruire se lo si desidera. Esse sono comunque
Le tematiche sviluppate da J. Assmann, Moses der Ägypter. Entzifferung einer Gedächtnisspur, München – Wien 1988 (tr. it., Mosé l’Egizio, Milano 2001), sono affrontate in particolare in Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 223-244. 74 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 230. 73
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sottomesse ad un processo storico, che possiamo osservare in modo particolarmente evidente nella tarda antichità”.75 Un processo storico cui sono sottoposte pure quelle forme narrative, solidali con i (ma non coestensive ai) complessi politeistici, che sono definite ‘miti’: I miti, che inizialmente esprimono l’esperienza del mondo e della vita, vengono vissuti nel culto e prendono forma nella poesia, perdono – proprio nel corso della loro concreta assunzione di una forma – sempre più credibilità. Lo sviluppo dell’antichità greco-romana mostra in maniera esemplare il processo per il quale la maturazione della coscienza comune inevitabilmente conduce con insistenza sempre maggiore alla domanda, se sia poi tutto vero. La questione della verità non è stata inventata da ‘Mosé’.76 Ibidem, 233. Sul dinamismo dei politeismi come realtà storiche ritorna Ratzinger poco dopo le affermazioni in questione: “Possiamo concludere: il politeismo delle ‘religioni naturali’ non è una entità statica alla quale si possa ritornare in ogni momento” (Ibidem, 237). È evidente che qui si sta contrastando l’auspicio di Assmann di un ritorno – che è una via di fuga – al politeismo, come sopra illustrato. Si osservi anche l’utilizzazione e nel contempo – ci pare – la presa di distanza di Ratzinger dalla categoria di ‘religioni naturali’, una espressione che appare virgolettata nel testo stesso. E prosegue: “Il movimento religioso procede – per quanto sia possibile vedere – in tre stadi, mentre rimane aperto l’interrogativo se il politeismo sia stato preceduto da altri modi di rivolgersi alla divinità” (Ibidem). E di seguito delinea quelli che appaiono i tre stadi di tale movimento, ossia il primo costituito dal politeismo, il quale “si trova sempre più esposto alla critica della ragione, vale a dire all’interrogativo sulla sua verità, che a poco a poco lo dissolve e – dopo una fase della doppia verità (la finzione utile e il sapere degli iniziati) – lo lascia cadere in rovina” (Ibidem). Il secondo, nel bacino del Mediterraneo e più tardi nel mondo arabo e anche in varie parti dell’Asia, costituito dal monoteismo, che “si presenta come la riconciliazione tra ragione e religione: la divinità alla quale giunge la ragione è identica al Dio che si mostra nella rivelazione. Rivelazione e ragione si corrispondono” (Ibidem, 237-238). Ma esiste anche, come faccia opposta di un esito quale quello descritto, che constava della “fusione dell’attesa greca e della sua domanda sulla verità con la risposta cristiana e la sua rivendicazione di verità” (Ibidem, 238), esiste anche – si diceva – nella tarda antichità il tentativo di restaurazione del politeismo attraverso una sua legittimazione filosofica (Ibidem, 238-239). 76 Ibidem, 233. 75
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E qui le osservazioni di Ratzinger sembrano echeggiare alcune suggestioni di Pettazzoni,77 mentre lo stesso Ratzinger78 esplicita il debito di tale sua riflessione, circa l’emergere della domanda veritativa nel ‘mondo antico degli dei’, nei confronti di Christian Gnilka.79 Emerge da tale analisi (seppur qui da noi solo abbozzata) dei contesti politeistici del mondo antico e dei loro ‘linguaggi’ mitici una caratteristica metodologica che merita di essere valorizzata: la comparazione, quale strumento di comprensione dei processi storici delle singole culture, è una comparazione non propriamente tra fatti ma tra processi.80 Tale caratteristica di una comparazione che sia fruttuosa ai fini di una sempre miglior comprensione della verità storica delle singole culture e delle loro tradizioni religiose è così ribadita dal Nostro, in occasione di una riflessione su mondo biblico e classicità di fronte del tema della condizione dell’uomo dopo la morte: Tentando di esaminare a fondo il dato storico-filosofico nella sua coerenza oggettiva, si noterà anzitutto che il confronto (qui greco-biblico) tra le civiltà e i modi di pensare è sotto l’aspetto storico senza senso. Le grandi civiltà e il pensiero da esse scaturito non sono strutture statiche, divise tra di loro da confini ben definiti. La grandezza di una civiltà si manifesta nella sua capacità di recepire, di arricchirsi o di mutare; essa dipende dal fatto di non essere incapsulata in se stessa, ma di possedere una dinamica di crescenza, per la quale è essenziale lo scambio reciproco del ricevere e del R. Pettazzoni, Verità del mito, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» 21 (1947/1948), 104-116. 78 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 233-234. 79 Ch. Gnilka, Chrêsis. Die Methode der Kirchenväter im Umgang mit der antiken Kultur. II. Kultur und Conversion, Schwabe Basel 1993. 80 Tale caratteristica della comparazione, che per essere fruttuosa in sede di studi storico-religiosi deve essere fondamentalmente una comparazione non tra fatti ma tra processi o tra fatti ma in quanto inseriti in processi, appartiene anche alla lezione metodologica di Pettazzoni e di Bianchi. Pettazzoni e Bianchi affermavano doversi attuare la comparazione tra processi religiosi e non tra singoli elementi religiosi, non tra diapositive ma tra filmati. Inoltre Bianchi affermava che la storia è fatta di contatti tra fatti, i quali sono inseriti in processi, contatti di simpatia o di ripulsione, come pure è fatta di influssi esercitati e subiti (Bianchi, Saggi di metodologia). 77
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dare. Il che significa che riguardo al nostro problema (scil. la condizione dell’uomo dopo la morte) tutte le civiltà e filosofie hanno subito un processo di trasformazione i cui singoli stadi mostrano fra di loro una notevole somiglianza.81
Il nostro compito di storici delle religioni si conclude allorché Ratzinger passa da una indagine storica a una indagine teologica, mettendo a frutto i guadagni di quella. In particolare, come abbiamo già sopra segnalato, una considerazione differenziata e non omogeneizzante delle religioni, frutto di una indagine storica e storico-comparativa, porta Ratzinger – in sede di giudizio teologico sulle religioni – a valutarne il rispettivo e diverso posto in una storia delle religioni in sé molteplice e variegata. Da qui – afferma Ratzinger – si può misurare la loro vicinanza e lontananza rispetto all’evento-Cristo che ne realizza la determinazione-vocazione storica, il loro essere in misura diversa “prov-visorie (vor-läufig) e quindi pre81
J. Ratzinger-Benedetto XVI, Escatologia. Morte e vita eterna, Edizione rinnovata e ampliata a cura di S. Ubbiali (Teologia Saggi), Cittadella Editrice, Assisi 2008 (ed.or., Eschatologie – Tod und ewiges Leben, Friedrich Pustet, Regensburg – Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007), 83-84. E prosegue il Nostro: “In tutte le civiltà troviamo infatti all’inizio la sicurezza mitica del continuo rinnovarsi delle cose, la soddisfatta sazietà dell’al di qua, il desiderio di una lunga vita nella pienezza delle ricchezze e l’assillo di perpetuarsi nei figli e nei figli dei figli. E che non è soltanto la concezione del mondo arcaico dell’Antico Testamento, ma è la visione in tutto e per tutto identica dell’Antica Grecia – Achille preferisce infatti essere mendicante nell’al di qua piuttosto che il re delle ombre, la cui vita è non vita – ed è pure quella dei primi stadi della più spiritualistica di tutte le civiltà, quella indiana [. . .]. Occorre tuttavia aggiungere: ciò nonostante, da nessuna parte la morte viene concepita come morte integrale nel senso più stretto. Ovunque viene supposto un qualche tipo di esistenza ulteriore; il puro nulla non è mai stato pensato. Questa esistenza ulteriore che pure non è vita, ma una strana mescolanza di essere e non- essere, sebbene venga da un lato invocata mediante i riti funebri, è insieme temuta: il defunto, e con lui il nulla, potrebbero irrompere nella zona della vita; per cui i riti funebri sono contemporaneamente riti di difesa che debbono relegare i defunti nel loro mondo. Forme di culto degli antenati o la credenza nei morti esistono da quando esiste l’umanità. La via verso il passato conduce attraverso le tombe (Bachofen)” (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Escatologia. Morte e vita eterna, 84).
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Le religioni in Joseph Ratzinger
corritrici (vor-läuferisch) rispetto al cristianesimo”.82 In questo senso vanno valutate positivamente. Il loro lato negativo appare quando esse si sottraggono alla propria determinazione finale e rifiutando questa apertura attribuiscono a se stesse la funzione di vie salvifiche compiute e definitive per l’umanità. Per questo, Ratzinger può parlare di un rapporto di sì e di no che lega il cristianesimo alle altre religioni.83
82 83
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 17. Ibidem, 19.
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II.2
La sensibilità liturgica
La liturgia in Daniélou. Sacra Scrittura, storia della salvezza e contemporaneità di Cristo Guillaume Derville (Pontificia Università della Santa Croce)
Permettetemi di invitarvi a considerare la vita e l’opera di Jean Daniélou sotto tre punti di vista che, a mio avviso, mostrano il suo contributo essenziale alla liturgia. Daniélou è un teologo, certo, ma ancor prima un sacerdote che celebra i santi misteri con passione, in mezzo ad un’intensa attività pastorale. Poi, come teologo, sulla scia dei Padri della Chiesa, evidenzia la stretta connessione tra la liturgia e i due Testamenti, Antico e Nuovo. Ma, soprattutto, è un teologo affascinato dal Mistero di Dio, un teologo che vede nella liturgia l’attualizzazione di tutta la storia della salvezza. Quest’ultimo punto mi sembra essenziale nel suo pensiero. Nel contesto di questo convegno intorno a due grandi teologi, non mancherò di far riferimento al pensiero di Joseph Ratzinger, giacché non manca sintonia fra di loro, aldilà di distinti approcci.
Teologo e pastore allo stesso tempo Il teologo Daniélou era un pastore zelante. Certamente, quando il sacerdote prega, adempie un impegno eminentemente sacerdotale, come ha rilevato san Tommaso d’Aquino. Il sacerdote è sempre sacerdote, il suo agire deve essere sempre sacerdotale. Quando lui insegna, lo fa sempre dal suo sacerdozio. Tuttavia, Daniélou non ha esercitato il mestiere di teologo in maniera esclusiva; per dire meglio, fu per lui un métier nel senso in cui Louis Bouyer lo definiva, e cioè interpretando la Parola di
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La liturgia in Daniélou
Dio nella Chiesa e in piena apertura all’esperienza umana concreta.1 La predicazione e la celebrazione dei sacramenti – sono entrambe delle forme di preghiera – così come l’esercizio della direzione spirituale, lo hanno accompagnato nella ricerca teologica, nell’insegnamento, le pubblicazioni, la direzione di tesi, etc. Jean Daniélou non praticava una liturgia da laboratorio. “Viveva” la liturgia: pregava l’Ufficio divino, celebrava l’Eucaristia, confessava, battezzava, benediceva matrimoni. . . Correndo il rischio di certe approssimazioni scientifiche ma con una singolare esattezza nelle sue intuizioni, egli seppe dedicarsi a un abbondante ministero pastorale e allo stesso tempo al lavoro teologico. A me sembra che sia stata proprio la vita a portare Jean Daniélou a conciliare teologia e missione. È un fenomeno paragonabile a quello particolarmente sviluppato nella seconda metà del XX secolo, in Francia, ad esempio, soprattutto nelle grandes écoles e poi nelle Università: il cosiddetto stage obbligatorio nelle aziende. Troviamo anche qualcosa di analogo e molto eloquente nella sinergia che esiste in un ospedale universitario tra la formazione teorica e la pratica della medicina; oppure nel mondo dell’agricoltura con la sinergia fra campo e scuola agraria. Tuttavia, in Teologia questo non è necessariamente il caso dei ricercatori né dei docenti. Nel suo approccio, e nel campo intellettuale che gli è proprio, tutto ciò che riguarda Jean Daniélou nasce nella esperienza ecclesiale e s’inserisce nella tradizione dei Padri della Chiesa. a.
Gli scogli di una vita sovraccarica
In che modo la simbiosi tra ministero pastorale “diretto” e lavoro teologico ha influenzato l’opera di Daniélou? Prima di tutto affrontiamo l’ostacolo dell’apparente mancanza di rigore scientifico. Forse occorre tener conto di tutte le sue occupazioni e dunque della mancanza di tempo, ma si vede pure che, indubbiamente, 1
Cfr. L. Bouyer, Le métier de théologien : Entretiens avec Georges Daix, Ad solem, Paris 2015.
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Guillaume Derville
quei tratti di un carattere spontaneo, sveglio, intuitivo, camminano di pari passo con la sua genialità. Tutti quelli che hanno letto e ascoltato Padre Daniélou riconoscono delle lacune nelle citazioni delle fonti e, a volte, nella loro interpretazione. Io stesso ne ho rilevato alcune. Così capita per esempio in occasione di una citazione di Tertulliano, inesatta, di dubbiosa autenticità e perfino interpretata in modo sbagliato.2 Sono molti quelli che hanno evidenziato queste approssimazioni di Daniélou, ma in generale senza screditarlo e facendolo in modo divertente e anche benevolo. Mi limiterò a citare il cardinale Lustiger, che fu un suo allievo prima della sua stessa ordinazione sacerdotale: “A dire il vero, i riferimenti non sempre venivano verificati. E noi andavamo in aiuto del nostro maestro per precisare citazioni, a volte fatte da lui a memoria”.3 Ciò nonostante, come ha ben fatto notare Marie-Josèphe Rondeau, Daniélou cade sempre in piedi. C’è in lui una sorta di sensus fidei, una fede quasi naturale, oserei dire. San Tommaso d’Aquino, senza sostenere che l’esistenza di Dio sia evidente, poiché giustamente non lo è, riconosce le risorse interiori che procura l’essere consapevole di 2
3
Cfr. G. Derville, Histoire, mystère, sacrements. L’initiation chrétienne dans l’œuvre de Jean Daniélou, Desclée de Brouwer, Paris 2014, 373-374. Il testo originale latino è stato modificato in primo luogo da Daniélou, che lo legge come se si trattasse del pensiero di Tertulliano mentre sembra che quest’ultimo lo metta in bocca ai suoi avversari. Per di più, il testo di Tertulliano è sotto forma d’interrogazione che si può qualificare di retorica. Infine, anche se la citazione fosse autentica, il suo significato rimarrebbe perlomeno dubbioso, a causa delle lacune nei manoscritti in questo luogo. Sarebbe infine avventuroso servirsene largamente come unico fondamento su un argomento trattato da Tertulliano in altri luoghi. J.-M. Lustiger, “Intervention” nel convegno Actualité de Jean Daniélou, Institut de France, Paris, 10 maggio 2005, in J. Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, Cerf, Paris 2006, 210. Cfr. anche Lustiger, Vingt ans de quartier latin, in Jean Daniélou 1905/1974, Axes/Cerf, Paris 1975, 146-147: “ des citations patristiques aussi splendides que d’origine parfois incertaine ou controuvée ” (delle citazioni patristiche tanto splendide quanto incerta e inesatta la loro origine). Cfr. anche Jacqueline d’Ussel, Le Père Daniélou éveilleur spirituel, in Actualité de Jean Daniélou, 118: “citations souvent approximatives” (citazioni frequentemente approssimative).
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La liturgia in Daniélou
aver invocato il creatore sin dalla tenera infanzia: “dal che deriva che le cognizioni acquisite fin dalla fanciullezza si ritengono con tale fermezza come se fossero per natura e per sé note”.4 Daniélou confessa: “quello che è più profondo in me, è l’anelito apostolico che ho ricevuto da Dio e ho ereditato da mia madre”.5 Egli aveva sviluppato, come dire, un “fiuto cattolico”, che faceva sì che le sue conclusioni, certamente suggestive, fossero sicure. Aveva confidato al cardinale Lustiger di aver rinunciato “a ciò che sarebbe potuto essere la sua ambizione legittima: una grande opera teologica universitaria”.6 Aggiungo con il cardinale Lustiger e altri, che l’opera di Padre Daniélou resta, allo stesso tempo, aperta e feconda, come manifesta questo simposio e l’interesse spontaneo che continua a riscuotere il suo pensiero.7 b.
Fecondità reciproca del contenuto della fede e della pastorale: liturgia, dottrina e vita spirituale
Comunque, se noi approfondiamo la simbiosi tra pensiero teologico e attività pastorale, scopriamo che in Daniélou la fides quæ e la fides qua, cioè il contenuto della fede e l’incontro personale con Cristo, che sostengono la missione, sono strettamente intrecciate. Così, per quanto riguarda il mistero di Dio uno e trino, egli afferma: “il dogma trinitario non è una dottrina inutile. Da esso dipende tutta la vita cristiana. È il più misterioso e insieme il più basilare”.8 Infatti, “il 4
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7 8
Tommaso D’Aqino, Contra gentiles, I, 11, in La Somma contra i gentili. Libro primo e secondo, Edizioni Studio Dominicano, Bologna, 2000, 93. “Ce qui est le plus profond en moi, c’est le désir apostolique que j’ai reçu de Dieu et hérité de mère” in Jacqueline d’Ussel, Le Père Daniélou éveilleur spirituel, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 123. “À ce qui aurait pu être sa légitime ambition d’une grande œuvre théologique universitaire” in Lustiger, “Intervention”, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 211. Cfr. ibidem, 214. “Le dogme Trinitaire n’est pas une doctrine absconse. La vie chrétienne tout entière lui est suspendue. Le plus mystérieux, il est aussi le plus élémentaire” in J. Daniélou, Dieu et nous, Grasset, Paris 1956, 213.
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Guillaume Derville
fondo dell’essere è l’amore fra le persone”,9 il che significa che l’amore “appartiene alla struttura dell’Essere”.10 Giulio Maspero ha fatto vedere al proposito la densità del pensiero di Daniélou.11 Noi troviamo qui un esempio del perché dell’inseparabilità di dottrina, pastorale, vita liturgica e vita spirituale. Infatti Gesù è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6): la verità è pastorale. Come dissi l’allora cardinale Joseph Ratzinger, “praticare la Teologia, dedicarsi alla ricerca e alla docenza teologica, non è darsi ad un lavoro freddo e disincarnato, ma occuparsi di un Dio che è amore, e al quale si accede amando”.12 Il Daniélou afferma: “La profezia infatti è l’intelligenza del mistero della storia sacra comunicata dallo Spirito Santo che, solo, scandaglia le profondità di Dio. Il mistero della storia è infatti il disegno divino di far partecipare le creature spirituali alla vita trinitaria”.13 L’esempio del battesimo è eloquente al riguardo: “Il neonato viene battezzato in nome delle tre Persone; piccolo essere di carne e di sangue, viene immerso in pieno nella vita trinitaria; tutta la sua eternità sarà solo lo spiegamento di questa prima grazia. La divinità del Verbo è dunque la pietra angolare su cui tutto poggia e senza la Idem, La Trinità e il mistero dell’esistenza, Queriniana, Brescia, 1969. Originale in francese: “le fond de l’Être est l’amour entre les Personnes” in Jean Daniélou, La Trinité et le mystère de l’existence, Col. Méditations théologiques 3, Desclée de Brouwer, Bruges 1968, 54. 10 Idem, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna, 436. Originale francese: “fait partie de la structure de l’être” in J. Daniélou, Message évangélique et culture hellénistique aux II e et III e siècle, Desclée, Paris-Tournai 1961, 340. 11 Cfr. G. Maspero, Trinità ed esistenza: un metodo teologico appreso dai Padri, in J. Lynch, G. Maspero (a cura di), Finestre aperte sul mistero. Il pensiero di Jean Daniélou. Atti del convegno promosso dalla Fraternità San Carlo e dalla Pontificia Università della Santa Croce (Roma, 9 maggio 2012), Marietti 1820, Genova–Milano 2012, 101-118. 12 J. Ratzinger, Messaggio inaugurale, in Santità e mondo, Atti del Convegno teologico di studio sugli insegnamenti del beato Josemaría Escrivá, Roma, 12-14 ottobre 1993, LEV, Roma 1994, 21. 13 J. Daniélou, Il mistero dell’avvento, “Il Pellicano”, Morcelliana, Brescia 19664 , 37; originale francese: “Car la prophétie est l’intelligence du mystère de l’histoire sainte que communique l’Esprit Saint qui seul sonde les profondeurs de Dieu. Le mystère de l’histoire, c’est en effet le dessein de Dieu de faire participer ses créatures spirituelles à la vie trinitaire” in Idem, Le mystère de l’Avent, La Sphère et la croix, Paris 1948, 38. 9
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quale tutto frana”.14 Da ciò deriva, dal punto di vista pastorale, l’importanza del battesimo dei neonati. Daniélou rifiuta certi punti di vista che “mettendo l’accento sull’aspetto soggettivo della fede anziché sull’agire oggettivo di Dio nei sacramenti [. . .] distruggono la dottrina cattolica dei sacramenti. Conducono a non vedere altro nell’eucarestia che la fede dei partecipanti e non la realtà oggettiva della transustanziazione”.15 In quanto all’Eucaristia, infatti, “una ferma riaffermazione del dogma della transustanziazione, compreso nel suo vero senso, è indispensabile dal punto di vista dogmatico, ma anche per le sue conseguenze pastorali”.16 Daniélou non mancherà di fornire prova di equilibrio insistendo sul fatto che “la verità del cristianesimo è innanzitutto nella dottrina; ma essa è pure nella testimonianza della vita che attesta la fecondità della dottrina. E questa vita corrisponde d’altronde alle aspirazioni degli uomini migliori”.17 Il contenuto del mistero, in fondo, rimane prioritario rispetto alla vita, particolarmente riguardo alla mistica, anche se questa va al di là dell’enunciato del mistero,18 da cui proviene la fecondità teologica dell’esperienza pastorale. 14
“C’est au nom des Trois personnes que le petit enfant est baptisé. Il est plongé, petit être de chair et de sang, en pleine vie trinitaire. Et toute son éternité ne sera que l’épanouissement de cette grâce première. La divinité du Verbe est donc la pierre angulaire sur laquelle tout repose, en dehors de laquelle tout s’effondre” in Idem, Dieu et nous, 213-214. 15 “En mettant l’accent sur l’aspect subjectif de la foi et non d’abord sur l’action objective de Dieu dans le sacrement [. . .] détruisent la doctrine catholique des sacrements. Elles conduisent à ne voir dans l’eucharistie que la foi des participants et non la réalité objective de la transsubstantiation” in Idem, Nouveaux Tests, Beauchesne, Paris 1970, 78. 16 “Une ferme réaffirmation du dogme de la transsubstantiation, compris en son vrai sens, est indispensable du point de vue dogmatique, mais aussi du fait de ses conséquences pastorales” in Idem, Nouveaux Tests, 56. 17 Idem, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, Il Mulino, Bologna, 1975, 39. Originale francese: “la vérité du christianisme est d’abord dans la doctrine ; mais elle est aussi dans le témoignage de la vie qui atteste la fécondité de la doctrine. Et cette vie correspond d’ailleurs aux aspirations des meilleurs des hommes” in Idem, Message évangélique et culture hellénistique, 31-33. 18 Cfr. Y. de Andia, Jean Daniélou e il rinnovamento della mistica e della patristica in Francia nel XX secolo, in J. Lynch, G. Maspero (a cura di), Finestre aperte sul mistero.
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Se la propria natura portava Daniélou a sostenere un ritmo intenso, certamente è stata la sua fede a permetterglielo. Sapeva che il cristianesimo non è un’ideologia e che sempre bisogna “ritrovare la realtà”.19 Daniélou non solo aiutava gli altri nella loro vita spirituale, afferma Canévet, ma si sapeva anche “responsabile della loro salute” e desiderava “assumersene il peso”.20 Le testimonianze di quelli che l’hanno conosciuto come pastore evidenziano che bastava vedere il Padre Daniélou celebrare il sacramento della penitenza o benedire un matrimonio per essere persuasi che questi sacramenti trasmettevano la vita divina.21 “L’esempio si univa alla parola: un intenso raccoglimento s’impossessava di lui quando all’uscita da un corso brillante o da un dibattito acceso si preparava per celebrare l’Eucarestia e cantare il Trisagion; lui si immergeva in Dio”.22 Si è parlato di lui come di una “sveglia spirituale”, di un “teologo associato a un apostolo”.23 “Per lui – ricorda Jacqueline d’Ussel dopo aver fatto una particolare menzione alle celebrazioni sacramentali del Padre Daniélou –, era la funzione propria del teologo il saliscendi, come gli angeli sulla scala di Giacobbe, tra l’eternità e il tempo”.24 Come ci riusciva? È grazie all’orazione che si consolidava l’unità tra pensiero teologico e pratica pastorale, con un arricchimento reciproco. È grazie dunque, direi, all’ “oggi” del Cristo. Quella scala di Giacobbe è Il pensiero di Jean Daniélou, 77-99, citando Daniélou, Carnets spirituels, Cerf, Paris 1993, 90: “retrouver le réel”. 19 Cfr. M. Canévet, “La vérité vous rendra libre”, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 113. 20 Ibidem 115. 21 Cfr. Derville, Histoire, mystère, sacrements, 387, citando Marie-Josèphe Rondeau. 22 “L’exemple se joignait à la parole : un intense recueillement s’emparait de lui, lorsqu’au sortir d’un cours brillant ou d’un débat enflammé il se préparait à célébrer l’Eucharistie et à chanter le Trisagion; il tombait en Dieu”, in J. d’Ussel, Le Père Daniélou éveilleur spirituel, 119. Cfr. Ge 28,12. 23 “Éveilleur spirituel”, “théologien doublé d’un apôtre”, in ibidem, 117-118. 24 “Pour lui, se souvient Jacqueline d’Ussel après avoir mentionné notamment les célébrations sacramentelles du Père Daniélou, c’était la fonction propre du théologien que de circuler comme les anges sur l’échelle de Jacob, entre l’éternité et le temps” (ibidem).
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anche la croce (cfr. Gv 1,51). Jean Daniélou faceva sue queste parole del Prologo dell’opera Le Soulier de Satin di Paul Claudel: “Sono legato alla croce di Cristo, ma la croce di Cristo non è legata a niente”.25 Non era semplicemente attaccato alla croce, ma questa, come dimostrano i suoi scritti, era l’oggetto della sua meditazione26 e celebrazione.27 Si potrebbe dire che la sua teologia era fatta in ginocchio, come quella di Tommaso, e che la croce era per lui, seguendo il motto di Agostino, cathedra docentis Magistri. Daniélou riteneva che ci fosse una pienezza, una centralità, un’universalità particolare nei sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, eucarestia e confermazione. c.
Il contesto vitale
Non è vero che la teologia diventa più feconda quando va unita all’azione pastorale ancorata nella preghiera? Tutti sappiamo bene quanto è difficile conciliare tutto ciò nella pratica, ma la croce è anche quel segno “più” che le unisce tutte nel amore, come insegnava un santo contemporaneo del Daniélou, san Josemaría Escrivá.28 Louis Bouyer, 25
“Je suis attaché à la croix du Christ, mais la croix du Christ n’est attachée à rien” in Paul Claudel, Le soulier de satin, Prologue. Cfr. J. Daniélou, Et qui est mon prochain ? Mémoires, Stock, Paris 1974, 11: “Je suis attaché à la croix, mais la croix à laquelle je suis attaché n’est attachée à rien”. Cfr. d’Ussel, Le Père Daniélou éveilleur spirituel, 122. 26 Cfr. ad es. J. Daniélou, Carnets spirituels, (anno 1937) 110; (1940) 151; (1940) 317-318; (1949) 396; Et qui est mon prochain ? Mémoires, 68-69; Le mystère de l’Avent, Seuil Paris 1948, 148; Théologie du Judéo-christianisme, Desclée, Paris-Tournai 1958, 340353: “La croix cosmique”; L’Église missionnaire «Bulletin» 11 (1985) 22. Cfr. Françoise Jacquin, Le père Daniélou et le Cercle Saint-Jean Baptiste, conférence prononcée le 21 mai 1984, «Bulletin» 11 (1985) 57. 27 Cfr. ad es. Idem, Carnets spirituels (1949) 398; Le dialogue catholique-protestant, La Palatine, Paris-Genève 1960, 208-209; Contemplation – croissance de l’Église, Communio, Fayard, Paris 1977, 99; Mythes païens et mystère chrétien, Fayard, Paris 1966, 23-24. 28 Cfr. Josemaría Escrivá, Instrucción, mayo-1935/14-IX-1950, 78, nota 137: “Le ponemos un signo más –la Cruz, como la Cruz de Cristo– a todo lo que hacemos. En nuestro espíritu todo es positivo, afirmación: todo lo hacemos por amor”.
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quando spiega le sue scelte personali nell’orientamento della sua vita, stigmatizza i “théologiens en chambre”,29 ossia i “teologi da camera”. Lui stesso confessa al riguardo: “Se la riflessione e la composizione di opere scritte, direttamente teologiche o letterarie, in cui si descrive la ricerca delle verità essenziali nel suo ambiente vitale, doveva costituire uno degli assi della mia esistenza, era nella mia vocazione seguire questa linea dentro un ministero ecclesiale. Altrimenti, a mio avviso, la teologia e ogni riflessione religiosa perdono sempre più il contatto con quello che dà loro senso. Non possono altro che ridursi ad astrazioni senza frutto, o degenerare in passatempi spesso verbali”.30 San Tommaso diceva che “maius est illuminare quam lucere solum”:31 è preferibile trasmettere le verità contemplate che soltanto contemplare queste; considerava con certa superiorità la vita di predicazione e d’insegnamento, ad instar della vita dello stesso Cristo, e ella misura in cui presupponeva una plenitudine di contemplazione.32 Fin dalle origini, come costata oggigiorno Louis Bouyer, la catechesi ha unito al kerygma “un insegnamento pratico su ciò che deve essere la vita del cristiano, così come una spiegazione del rito al quale deve
Cfr. L. Bouyer, Mémoires, Cerf, Paris 2014, 168. Appendice e appunti di Jean Duchesne, 167-168. 30 “Si la réflexion et la composition d’ouvrages soit directement théologiques soit d’une littérature où se dépeint la recherche des vérités essentielles dans tout son contexte vital devait constituer un des axes de mon existence, il était dans ma vocation de poursuivre cette ligne à l’intérieur d’un ministère d’Église. Faute de cela, me semblera-t-il toujours davantage, la théologie, toute réflexion religieuse, perd le contact avec ce qui lui donne son sens. Elle ne peut plus alors que s’évaporer en abstractions sans fruit, ou dégénérer en divertissements presque tout verbal” in Ibidem, 98. 31 Tommaso D’Aqino, STh IIa IIae q. 188 a.6. Sulla giusta comprensione di queste parole, Cfr. J.-P. Torrell, in Encyclopédie Jésus le Christ chez saint Thomas d’Aquin, Cerf, Paris 2008, nota 5, 663-664. 32 Cfr. Tommaso D’Aqino, STh III q. 40 a1 ad2: “Vita contemplativa simpliciter est melior quam activa quae occupatur circa corporales actus; sed vita activa secundum quam aliquis praedicando et docendo contemplatur, quia talis vita praesupponit abundantiam contemplationis. Et ideo Christus talem vitam elegit”. 29
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partecipare”.33 Se crediamo a Bouyer, questo insegnamento concreto proponeva un cristianesimo “innanzitutto come un fatto, l’avvenimento salvifico: il grande fatto di Cristo e della sua croce”.34 Questo è esattamente ciò che visse Daniélou, come avevano fatto i Padri della Chiesa. Qualche anno fa il cardinale Scola non esitava ad affermare: “Agostino o Ambrogio in Occidente, Crisostomo o Basilio in Oriente ci mostrano come la cura pastorale abbia arricchito la riflessione teologica e come la speculazione abbia reso più incidente, attenta, ferma e coraggiosa l’azione pastorale”.35 Si capisce bene perché, nel suo Prefazio a un mio lavoro sull’iniziazione cristiana nella teologia di Jean Daniélou, nel menzionare la vita di preghiera possa il cardinale Robert Sarah citare queste parole di papa Francesco: “Questa è una delle sfide del nostro tempo: trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non
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“Un enseignement pratique sur la vie qui doit être celle du chrétien, ainsi qu’une explication du rituel auquel il devait participer” in Bouyer, Dictionnaire Théologique, Desclée, Paris 1990 (nuova edizione), 70. 34 “Avant tout comme un fait, l’événement salutaire : le grand fait du Christ et de sa croix” (ibidem). 35 A. Scola, Tra studio e azione pastorale. Anche il teologo di professione ha bisogno della parrocchia, lectio magistralis per l’inaugurazione del anno accademico della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, in «L’Osservatore Romano», 1/12/2011, 4. Cfr. anche, ad esempio, P. Rodriguez, Álvaro del Portillo: su figura eclesial, conferencia en Barcelona, 20 de febrero de 2014: “[. . .] en la época de la gran patrística. En aquella época de la Iglesia no había un “corpus theologorum” contradistinto del “corpus episcoporum”. Hoy tenemos en diversos países –entre ellos España– “encuentros de obispos y teólogos”, pero entonces no era así: los “teólogos” eran, casi siempre, los mismos Pastores de las Iglesias, muchas veces ilustres Obispos –piensen por un momento en un san Gregorio de Nisa, en un San Ireneo de Lyon o en un San Cirilo de Alejandría– que, por exigencias de la misión de evangelizar, o para salir al paso de desviaciones y herejías, o para profundizar en la misma fe que predicaban, o para fundamentar la norma canónica de la Iglesia que regían, echaban mano de su ciencia y de su inteligencia y de sus libros. No tenían conciencia de estar haciendo algo distinto de su servicio pastoral ordinario a la grey encomendada. Así me parece que era el trabajo teológico-canónico de Álvaro del Portillo. Esto cualificó desde el principio, como acabo de decir, su actitud ante la ciencia canónica y ante las cuestiones teológicas con ella conexas”.
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un cumulo di nozioni non collegate tra loro”.36 Ed è precisamente quello che ha cercato di fare il nostro Daniélou. I sacramenti esprimono l’intima comunicazione di amore intratrinitaria e ci introducono in essa. Di istituzione divina, annunciati dalla Parola che li produce, comunicano la vita di Cristo, nello Spirito Santo. Quest’azione si esercita per mezzo della Chiesa, ed è questo l’aspetto comunitario dei sacramenti. Essi strutturano un popolo, gerarchico e carismatico, indispensabile alla comunicazione di una grazia che unisce gli uomini tra loro e che santifica al tempo stesso ciascuno di essi, perché è sorgente di una vita spirituale personale. Sacramenti e vita interiore si fondano sulla vita mistica. La liturgia è precisamente per Daniélou, come dice Rondeau, “il luogo dove si attualizza senza tregua l’incontro della comunità ecclesiale col mistero di Dio”.37 La Tradizione che commenta la Scrittura fa presente il Mistero rivelato in Cristo, e l’apporto di Daniélou è di far vedere al riguardo la fecondità della Liturgia.38
Sacra Scrittura e liturgia, secondo l’esempio dei Padri della Chiesa Il radicamento nella Scrittura, ad instar dei Padri della Chiesa: ecco il secondo aspetto del pensiero di Daniélou, particolarmente sulla liturgia, che vorrei rilevare e che è al tempo stesso essenziale e universalmente riconosciuto. Questo radicamento non è estraneo alla simbiosi tra vita pastorale e insegnamento di cui ho appena parlato. Rondeau commenta a questo riguardo un passaggio dei Diari spirituali (“Carnets spirituels”) a proposito della Scrittura nella liturgia: “Padre Daniélou dedicherà una Francesco, Discorso alla comunità della Pontificia Università Gregoriana e ai consociati del pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale, 10 aprile 2014, cit. in R. Sarah, Préface in Derville, Histoire, mystère, sacrements, 7. 37 “ Le lieu où s’actualise sans cesse la rencontre de la communauté ecclésiale avec le mystère de Dieu ” in Rondeau, Jean Daniélou théologien, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 138. 38 Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 80. 36
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parte importante della sua opera allo studio scientifico e all’applicazione pastorale di questo aspetto dei Padri della Chiesa”:39 studio e, allo stesso tempo, pastorale. Come sottolineava il cardinale Robert Sarah, attuale Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, “Jean Daniélou ha posto in evidenza la stretta embricatura della liturgia con i due Testamenti, della Parola e delle azioni di Dio”.40 a. Ritorno ai Padri ed equilibrio della teologia biblica: la liturgia come esegesi Nelle sue memorie (Mémoires), Louis Bouyer si rallegra dal fatto che i Padri della Chiesa abbiano manifestato quest’unità tra ministero e teologia, “la verità rivelata essendoci rivelata soltanto per condurci alla salvezza e condurne gli altri”.41 Come dice Paolo, “Omnis scriptura divinitus inspirata est et utilis ad docendum, ad arguendum, ad corrigendum, ad erudiendum in iustitia, ut perfectus sit homo Dei, ad omne opus bonum instructus” (2 Tim 3,16-17). Ciò invita alla prudenza e al rispetto al momento di leggere e di interpretare la Bibbia. Il Concilio Vaticano II insegna che “omne id, quod auctores inspirati seu hagiographi asserunt, retineri debeat assertum a Spiritu Sancto”:42 “tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo”. 39
“Le père Daniélou consacrera une part importante de son œuvre à l’étude scientifique et à l’exploitation pastorale de cet aspect des Pères de l’Église” in Rondeau, nota 472 in Daniélou, Carnets spirituels (1939-1940), 215-216. 40 R. Sarah, Préface in Derville, Histoire, mystère, sacrements, 5. 41 Cfr. Bouyer, Mémoires, 168: “[. . .] ces théologiens en chambre qui laissent le ministère à ce qu’ils considèrent comme une plèbe cléricale qui ne leur va pas à la cheville. Au contraire, me semble-t-il, et c’est évidemment ce que saint Thomas lui-même pensait là-dessus, tout comme les Pères de l’Église, la vérité révélée ne nous étant révélée que pour nous conduire au salut et y conduire les autres, dès qu’on en fait simple matière à cogitations et discussions, on ne sait plus ce que l’on dit, parce qu’on a commencé par ne plus savoir de quoi l’on parle”. 42 Concilio Ecum. Vaticano II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 11.
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Il ritorno ai Padri della Chiesa che Jean Daniélou promuove non sarà indolore. Il suo allievo Jean-Marie Lustiger ne ha fatto l’esperienza e si è ricordato che “su questo punto Daniélou era oggetto delle critiche più feroci da parte degli esegeti; perché ci esponeva con passione l’interpretazione dei Padri della Chiesa, la quale era considerata agli occhi dei biblisti un pio delirio”.43 L’atteggiamento del Padre Daniélou, né esegesi storico-critica liberale né pietismo, in un’epoca di caos, è stato degno “di quelli che hanno avuto il coraggio di mantenere aperta la possibilità dell’ermeneutica”.44 Che cosa ci dice Daniélou riguardo al rapporto tra Bibbia e liturgia? L’uso dell’Antico e del Nuovo Testamento nella liturgia permette di considerare questa come un vero locus theologicus. Jean Daniélou ha mostrato così l’origine giudeo-cristiana dell’applicazione liturgica di alcuni testi.45 In modo particolare il compimento dell’Antico Testamento è messo in evidenza nella liturgia, essendo essenziale il Primo Testamento per la comprensione di essa. Infatti, “le grandi solennità giudaiche di Pasqua e Pentecoste sono state assunte dal cristianesimo e arricchite, solo, di un nuovo contenuto”46 (la festa dei Tabernacoli ne costituisce un’eccezione, anche se si può collegare col battesimo cristiano, come di seguito spiegherò). Questo commento del Nuovo Testamento attraverso l’Antico permette una lettura plurale e convergente. La Quaresima, per esempio, comprende diverse risonanze bibliche: “Spesso i simboli liturgici sono 43
“Là-dessus, Daniélou faisait l’objet des critiques les plus féroces de la part des exégètes ; car il nous exposait avec passion l’interprétation des Pères de l’Église qui, aux yeux des biblistes, relevait d’un pieux délire” in Lustiger, “Intervention”, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 212. 44 “Et ceux qui ont eu le courage de maintenir ouverte la possibilité de l’herméneutique” (Ibidem, 213). 45 Cfr. ad es. Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, 276. 46 Idem, Bibbia e liturgia: la teologia biblica dei sacramenti e delle feste secondo i Padri della Chiesa, Vita e pensiero, Milano, 1958, 449. Originale francese: “les grandes solennités du judaïsme, Pâque et la Pentecôte, sont restées celles du christianisme en se chargeant seulement d’un contenu nouveau” in Idem, Bible et liturgie. La théologie biblique des sacrements et des fêtes d’après les Pères de l’Église, Cerf, Paris 1958, 449.
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alla convergenza di parecchie tradizioni. [. . .] Ed è precisamente questa convergenza di significati che genera la ricchezza religiosa di questo tempo liturgico”.47 Daniélou afferma la “continuità del Vangelo e dell’Antico Testamento”.48 Detto questo, i cristiani “non hanno esitato a rimaneggiare certi testi che avevano per loro un’importanza teologica maggiore. Questi rimaneggiamenti costituiscono qualcosa di più che semplici traduzioni: sono autentiche esegesi. Si presentano sotto la forma differenziata di fusioni, modifiche, aggiunte e soppressioni. Tali modifiche possono essere state collegate a preoccupazioni apologetiche, ma anche liturgiche, e caratterizzano un periodo assai arcaico [direi, al mio avviso, nascente, per evitare l’accezione “desueto, scaduto” dell’aggettivo “arcaico”] del cristianesimo. Peraltro lo stesso metodo dipende da un milieu (ambiente) giudeo-cristiano, non avvezzo ai metodi letterari ellenistici (i midrash). Il procedimento non è strano al Nuovo Testamento. Vediamo infatti che vi sono utilizzati testi dell’Antico Testamento che hanno subito un’elaborazione”.49 È probabile 47
“Souvent les symboles liturgiques sont à la convergence de plusieurs traditions. [. . .] Et c’est précisément cette convergence de significations qui fait la richesse religieuse de ce temps liturgique” in Idem, Essai sur le mystère de l’histoire, Seuil, Paris 1953, 253. 48 “Continuité de l’Évangile et de l’Ancien Testament” in Idem, Carnets spirituels (1945), 381. 49 Daniélou, La Teologia del Giudeo-Cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1998, 138. Originale francese: “n’ont pas hésité à remanier certains textes qui avaient pour eux une importance théologique plus grande. Ces remaniements constituent plus que des traductions : ce sont de véritables exégèses. Elles se présentent sous des formes diverses de fusions, de modifications, d’adjonctions, de suppressions. Ces modifications ont pu être liées à des préoccupations apologétiques, mais aussi liturgiques. Elles caractérisent une période très archaïque [je dirais, pour ma part, naissante, pour éviter l’acception “désuet, périmé” de l’adjectif “archaïque”] du christianisme : d’ailleurs, la méthode même relève d’un milieu judéo-chrétien, non accoutumé aux méthodes littéraires hellénistiques : ce sont les midrash. Le procédé n’est pas étranger au Nouveau Testament. Nous y voyons utilisés des textes de l’Ancien qui ont subi une élaboration” in Idem, Théologie du judéo-christianisme, 137.
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del resto che in certi casi l’uso liturgico, prima della scrittura, abbia adattato un testo al mistero che si voleva esprimere.50 Così per esempio, a proposito di Sapienza 18, 14-15, ripreso nell’antifona d’ingresso della Messa del 30 dicembre e nella domenica dell’ottava di Natale: “Dum medium silentium tenerent omnia, et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens sermo tuus, Domine, de caelis a regalibus sedibus venit”. “È possibilissimo che l’applicazione fatta dalla liturgia di questo testo alla nascita di Cristo nel mezzo della notte risalga al giudeo-cristianesimo e che noi possediamo qui un antichissimo testimonium”.51 C’è una vera interpretazione delle sacre Scritture nella liturgia, come rileva papa Benedetto XVI nelle sua esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini, che spiega su questo aspetto della liturgia come esegesi: “Occorre comprendere e vivere il valore essenziale dell’azione liturgica per la comprensione della Parola di Dio. In un certo senso, l’ermeneutica della fede riguardo alla sacra Scrittura deve sempre avere come punto di riferimento la liturgia, dove la Parola di Dio è celebrata come parola attuale e vivente”.52 Interessante il riferimento che l’esortazione fa subito dopo al “hodie” (Lc 4, 21) di Cristo, che si attualizza nelle liturgia, dove si segue “quel modo di leggere e di interpretare le sacre Scritture, a cui ricorse Cristo stesso”.53
Cfr. ibidem, 138. Idem, La Teologia del Giudeo-Cristianesimo, 303. Originale francese: “il est très possible que l’application que la liturgie fait de ce texte à la naissance du Christ au milieu de la nuit remonte au judéo-christianisme et que nous possédions là un très antique testimonium” in Jean Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, 276. Vid. anche Carnets spirituels (1940-1941) 350, (1951) 401-402 e Le signe du temple ou de la présence de Dieu, Desclée 1990, 46-47. 52 Benedetto XVI, Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini, n. 52; cfr. n. 5: “sul personale rapporto con le Sacre Scritture, sulla loro interpretazione nella liturgia”. 53 Ibidem, citando l’Ordinamento delle letture della Messa, 3. 50
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b.
La liturgia, commento del Nuovo Testamento per l’Antico
“Rappresentazione del mistero”, dice Daniélou, “la liturgia è il commento vivente del Nuovo Testamento per l’Antico”.54 Di fatto, “il Nuovo Testamento iscrive la vita di Cristo nel quadro delle feste giudaiche”55 e, per Daniélou, “non è un caso, ma un’intenzione divina evidente che ha collegato i grandi misteri della Rivelazione di Cristo con le feste ebraiche, sottolineando così come queste erano figura di ciò che doveva venire”.56 Per esempio, la celebrazione liturgica del battesimo cristiano e il tema della luce rinviano alla festa delle Capanne e al battesimo di Cristo. Il tema della luce, del resto, oltre ai testi giovannei sarebbe meno dovuto all’evento del battesimo di Cristo che alla sua celebrazione liturgica, a causa del “legame tra il battesimo di Cristo e la festa dei Tabernacoli nella liturgia giudeo-cristiana”.57 Daniélou arriva a dire, non senza poesia, a proposito dei cori che cantano il cantico dell’Esodo, che “sulle rive del mar Rosso, è la prima liturgia pasquale che si istituisce”.58 Quindi, “la liturgia ci dà le regole d’interpretazione della Scrittura [. . .]. Questa è la Scrittura vivente, la Parola sempre rivolta”,59 perché “questa scienza delle relazioni tra le diverse epoche che è la 54
“La liturgie est ce commentaire vivant du Nouveau Testament par l’Ancien”, in Daniélou, Carnets spirituels (1939), 150. 55 Idem, La Teologia del Giudeo-Cristianesimo, 501. Originale francese: “ Le Nouveau Testament inscrit la vie du Christ dans le cadre des fêtes juives ” in Idem, Théologie du judéo-christianisme, 440. 56 “Ce n’est pas un hasard, mais une intention divine évidente qui a mis en rapport les grands mystères de la Révélation du Christ avec les fêtes juives, soulignant ainsi que celles-ci étaient des figures de ce qui devait venir” in Idem, Le signe du Temple, 46-47. 57 Idem, La Teologia del Giudeo-Cristianesimo, 323. Originale francese: “lien du baptême du Christ avec la fête des Tabernacles dans la liturgie judéo-chrétienne” in Idem, Théologie du judéo-christianisme, 292. 58 “Sur les bords de la mer Rouge, c’est la première liturgie pascale qui s’institue” in Idem, L’entrée dans l’histoire du salut. Baptême et confirmation, Cerf, Paris 1950, 4. 59 “La liturgie nous apporte les règles de l’interprétation de l’Écriture [. . .]. C’est elle qui est l’Écriture vivante, la Parole toujours adressée” in Idem, Carnets spirituels (1939-1940), 204.
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scientia scripturarum di cui i Padri avevano il segreto [. . .] è la struttura stessa della liturgia”.60 Un altro esempio di commento del Nuovo Testamento dall’Antico è l’Ascensione. Poiché “festa d’idee”, cioè, percepita nel suo contenuto teologico, senza negare in nessun modo il suo carattere storico, l’Ascensione “esprime il mistero pasquale in una [. . .] prospettiva messianica: è la festa dell’instaurazione regale del Messia, come la prefigurava la liturgia dei Salmi. Il Salterio è infatti la principale fonte biblica dell’Ascensione”.61 Perciò Daniélou non dissocia mai l’Ascensione dalla sessio a dextris, nell’attesa della Parusia.62 c.
L’insegnamento dei riti
La liturgia ci aiuta dunque a penetrare nel contenuto dei misteri: illumina la nostra intelligenza della fede. Se le parole e i gesti liturgici esprimono la fede che li precede,63 così come l’amore e la speranza, se, come augura Sacrosanctum Concilium, i testi e i gesti rituali devono esprimere chiaramente le realtà sante che significano,64 essi in cambio “Cette science des relations entre les diverses époques qui est la scientia scripturarum dont les Pères avaient le secret [. . .] est la structure même de la liturgie” (Ibidem, 215-216). 61 Idem, Bibbia e liturgia, 409. Originale francese: “exprime le mystère pascal dans une [. . .] perspective messianique. Elle est la fête de l’instauration royale du Messie, telle que la préfigurait la liturgie des Psaumes. C’est le Psautier qui est le principal lieu biblique de l’Ascension” in Idem, Bible et liturgie, 410. Cfr. Ps 24(23); Ps 110(109) (fonte essenziale della teologia dell’ascensione). Cfr. Derville, Histoire, mystère, sacrements. L’initiation chrétienne dans l’œuvre de Jean Daniélou, 172. 62 Cfr. Daniélou, Bible et liturgie, 337; Théologie du Judéo-christianisme, 321-322; Études d’exégèse judéo-chrétienne. Les Testimonia, Beauchesne, Paris 1966, 42-49; Essai sur le mystère de l’histoire, 202; Jean Baptiste témoin de l’Agneau, Seuil, Paris 1964, 53. 63 Cfr. Concilio Ecum. Vaticano II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 9/1. 64 Cfr. ibidem, 21/2: “Textus et ritus ita ordinari oportet, ut sancta, quae significant, clarius exprimant”. 60
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arricchiscono la nostra fede65 e stimolano la nostra riflessione. Così per esempio, a proposito del bacio del Cantico dei Cantici 1,1, Daniélou rileva che il rito che consiste nel baciare la pietra dell’altare, simbolo di Cristo, diventa figura dell’incarnazione, e poi del contatto dell’anima col Cristo. Esprime anche il mistero battesimale: è nel suo contesto che Gregorio di Nissa rievoca il ritorno del figliol prodigo, e Daniélou commenta: “Il bacio (φίληµα) significa il sacramento nel suo insieme, come l’unione con Cristo”.66 Tante volte i gesti sono ancora più espressivi delle parole. Così con l’imposizione delle mani, l’unzione delle mani o la prostrazione nelle ordinazioni. Come dice Ratzinger, “giunti al punto culminante della liturgia dell’ordinazione sacerdotale, le parole tacciano e parlino i gesti. [. . .] L’imposizione è un gesto di presa di possesso. [. . .] In questo segno dell’unzione delle mani si esprime tutto quello che realmente il sacerdozio è e significa: esse devono portare il Corpo del Signore, annunciare la remissione dei peccati, condurre gli uomini alla preghiera, e pregare esse stesse, e devono benedire”.67 La liturgia ci invita ad accordare l’intelligenza ai gesti e alla voce: mentem suam voci accomodent,68 ha detto il Concilio. In liturgia enim Deus ad populum suum loquitur; Christus adhuc evangelium annuntiat.69 Cfr. ibidem, 10/2. “ Le baiser (φίληµα) signifie le sacrement dans son ensemble, comme union avec le Christ ” in Daniélou, Platonisme et théologie mystique, 36-37. 67 Ratzinger, I gesti dell’ordinazione sacerdotale, in Opera Omnia, vol. XII, LEV, Roma 2010, 635-636. 68 Cfr. Concilio Ecum. Vaticano II, Const. Sacrosanctum Concilium, 11/1. 69 Cfr. ibidem, 33/1. Un insegnamento che possiamo trarre dalla ricchezza teologica della liturgia, per citare solamente un esempio al di fuori dell’opera di Daniélou, ma interessante per la sua attualità, riguarda il realismo sacramentale. Se è vero che la preghiera eucaristica forma un insieme, non è meno vero che nelle quattro Preghiere eucaristiche principali del rito romano le parole dell’istituzione pronunciate sul pane e sul vino non lasciano dubbi riguardo allo spazio temporale dove ha luogo la transustanziazione. È la ragione per la quale durante i secoli la liturgia ha prescritto che siano adorati in ginocchio il Corpo e il Sangue del Signore subito dopo la pronuncia delle parole consacratorie del Canone romano. Quindi, è impossibile che la Chiesa abbia potuto sbagliarsi in modo universale e durante un periodo di tempo 65 66
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Legem credendi lex statuat supplicandi.70 L’adagio prende qui una connotazione particolare. La preghiera della liturgia si nutre della scrittura Santa e, come in un vivo riflesso di luce, ne illumina il senso. Risulta che la chiave della scienza delle Scritture non è altra che la persona di Cristo nel suo mistero. Il Concilio non dice altro quando esorta, a proposito dell’insegnamento della liturgia, affinché il suo legame con la teologia dogmatica, la teologia biblica, la teologia spirituale e la teologia pastorale appaia chiaramente; e il Concilio dice come farlo: mettendo in luce il mistero di Cristo e la storia della salvezza.71 Ora Daniélou ha anticipato questo auspicio del Concilio Vaticano II ed egli ha risposto alla sua attesa, mettendo in luce il Mistero di Cristo e la storia della Salvezza nella liturgia.
Il mistero nel tempo: l’attualizzazione della Storia della Salvezza nella liturgia Cinque saggi di Jean Daniélou portano nel titolo la parola “mistero”. Incontriamo difatti: mistero della storia, mistero della salvezza delle nazioni, mistero dell’Avvento, mistero cristiano, cultura e mistero. Ciò che interessa qui il teologo, come Rondeau ha segnalato, è Dio: quando adopera la parola “mistero”, Jean Daniélou “intende sottolineare che sono cose di Dio che danno da riflettere – tale è l’oggetto dei libri che portano questi titoli – ma di cui la realtà ultima sfugge alla presa
così lungo (dal secolo XII fino ad oggi). La liturgia ci conferma dunque un aspetto essenziale del mysterium fidei dell’Eucaristia. 70 Prospero di Aqitania, Epistulae, 217 Indiculus C8: PL 51, 209 (DS 246), cit. in Catechismo della Chiesa Cattolica, 1124. 71 Cfr. Concilio Ecum. Vaticano II, Const. Sacrosanctum Concilium, 16: “Curent insuper aliarum disciplinarum magistri, imprimis theologiae dogmaticae, sacrae Scripturae, theologiae spiritualis et pastoralis ita, ex intrinsecis exigentiis proprii uniuscuiusque obiecti, mysterium Christi et historiam salutis excolere, ut exinde earum connexio cum Liturgia et unitas sacerdotalis institutionis aperte clarescant”. Sulla catechesi, cfr. Decreto Christus Dominus, 14/1.
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della ragione”.72 Egli fa sempre riferimento all’unico mistero, quello del disegno di Dio rivelato in Cristo: il mistero paolino dell’economia della Salvezza (Ef 1,9 ss.). a.
La tipologia e la simbologia dei riti
L’analogia biblica “collega l’Eucarestia alla Scrittura, mostrando nell’Eucarestia la continuazione, nel tempo della Chiesa, delle azioni divine nei due Testamenti”.73 Daniélou sottolinea l’analogia dell’agire divino e ne identifica cinque categorie essenziali: creazione, liberazione, alleanza, giudizio, dimora o presenza (che comprendono l’illuminazione e la santificazione). I sacramenti sono nella storia il luogo privilegiato dell’esercizio di questi tipi di agire divino (“les mœurs de Dieu”). In tale contesto, Daniélou attribuisce una grande importanza alla simbolica. Di passaggio, bisogna riconoscere che il Nostro diffidò di una certa forma di razionalismo. Contempliamo il mistero, possiamo cercare di approfondirne la natura, ma non lo comprenderemo mai perfettamente. Perciò lo stesso discorso su Dio è anche un mistero. Comunque bisogna aggiungere che il teologo non negava in nessun modo la realtà obiettiva delle cose né la capacità dell’intelligenza di conoscerle.74 Nella propria simbologia sacramentale, la tradizione cristiana “altro non è che l’espressione del Nuovo Testamento stesso”.75 Perciò “la simbolica dei riti viene così a corroborare la tipologia dei testi”, afferma 72
“ Entend marquer que ce sont choses de Dieu qui donnent à réfléchir – tel est l’objet des livres qui portent ces titres – mais dont la réalité ultime échappe aux prises de la raison ” in Rondeau, “Jean Daniélou théologien”, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 142. 73 “Rattache l’eucharistie à l’Écriture, en nous montrant en elle la continuation dans le temps de l’Église des actions divines dans les deux testaments” in Daniélou, “Sacrements et histoire du salut”, in Parole de Dieu et liturgie, Cerf, Paris 1958, 59. 74 Cfr. Rondeau, “Jean Daniélou théologien”, in Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, 145. 75 Daniélou, Bibbia e liturgia, 277. Originale francese: “simplement l’expression du Nouveau Testament lui-même” in Idem, Bible et liturgie, 282-283.
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Daniélou a proposito dello stare in piedi, “onde mostrare nella Pentecoste la figura del secolo futuro e della risurrezione a venire”.76 Non esita ad affermare che “la liturgia di cui i simboli cristiani costituiscono il nucleo centrale, appare dunque come un modo proprio di conoscenza teologica. Non è solamente azione ma logos. È la contemplazione – attraverso il velo dei simboli – del Dio vivente, che si rivela attraverso le sue grandi opere, nella natura e nella storia”.77 Come spiega Ratzinger in una sua meditazione sulla pesca di 153 pesci dopo una notte infruttuosa (Cfr. Gv 21,1-14) non dubita di affermare che “l’essenza del messaggio simbolico [. . .] mira a tener desto lo sguardo su ciò che non è possibile definire con concetti esatti”.78 A proposito dell’esecuzione del cantico dell’Esodo nella veglia pasquale, Daniélou riconosce la liturgia come “maestra di dottrina”79 perché mostra la fedeltà del Dio che libera il suo popolo; ed è anche “maestra di esegesi”:80 “L’universo liturgico è questa sinfonia meravigliosa dove appaiono le corrispondenze tra i differenti momenti della storia della salvezza, e dove la liturgia ci fa passare dall’Antico Testamento ai sacramenti, dall’escatologia alla spiritualità, dal Nuovo Testamento all’escatologia in virtù di queste analogie fondamentali. La conoscenza di queste corrispondenze è la conoscenza che avevano i Padri, l’intelligenza spirituale della Scrittura. E perciò la Liturgia è maestra di esegesi”.81 Idem, Bibbia e liturgia, 444. Originale francese: “la symbolique des rites vient corroborer la typologie des textes pour montrer dans la Pentecôte la figure du siècle futur et de la Résurrection à venir” in Idem, Bible et liturgie, 444. 77 “La liturgie, dont les symboles chrétiens constituent le noyau central, apparaît donc comme un mode propre de connaissance théologique. Elle n’est pas seulement action, mais logos. Elle est la contemplation, à travers le voile des symboles, du Dieu vivant se révélant à travers ses grandes œuvres, dans la nature et dans l’histoire” in Idem, Essai sur le mystère de l’histoire, 141. 78 Ratzinger, Tutto è vano senza di Lui, in Opera Omnia, vol. XII, LEV, Roma 2010, 544. 79 “Maîtresse de doctrine” in Daniélou, L’entrée dans l’histoire du salut, 204. 80 “Maîtresse d’exégèse” in Idem, Sacrements et histoire du salut, 68. 81 “L’univers liturgique est cette symphonie merveilleuse où les correspondances entre les différents moments de l’histoire du salut apparaissent, et où la liturgie nous fait passer de l’Ancien Testament aux sacrements, de l’eschatologie à la spiritualité, du 76
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C’è dunque un rapporto essenziale tra la storia della salvezza in quanto si svolge nel tempo e la liturgia che ne dà forma. Daniélou costata il nesso esistente tra la liturgia domenicale e la teologia della storia presso i Padri, “secondo cui il tempo liturgico rappresenta il sacramento del tempo della storia sacra. Bibbia e liturgia, teologia e mistica convergono in una stessa prospettiva escatologica di cui rappresentano i diversi aspetti tra cui, tuttavia, non mancano corrispondenze. Veniamo in tal modo a trovarci al centro di una concezione dove lo stesso tema – quello della settimana e dell’ottavo giorno – sussiste sotto forme diverse: prefigurato nel Vecchio Testamento, realizzato in Cristo, sacramentalmente presente nella liturgia, concluso dall’escatologia. Ogni scuola pone l’accento su di un aspetto particolare, ma tutto si ricollega al tema centrale”.82 b.
La centralità del mistero pasquale e il tempo
Nel mio libro su Daniélou cerco di evidenziare come per lui “la Pasqua ricapitola tutta la storia religiosa dell’umanità”.83 Il teologo lo spiega così: “Il tempo definisce infatti la festa liturgica della Pasqua in opposizione al mistero cristiano considerato nel suo insieme. Il simbolismo del tempo Nouveau Testament à l’eschatologie en vertu de ces analogies fondamentales. La connaissance de ces correspondances est le savoir chrétien tel que le comprenaient les Pères, l’intelligence spirituelle de l’Écriture. Et c’est en quoi la Liturgie est maîtresse d’exégèse.” in ibidem. 82 Idem, Bibbia e liturgia, 374. Originale francese: “Chez eux le temps liturgique représente le sacrement du temps de l’histoire sacrée. Bible, liturgie, théologie et mystique convergent dans une même perspective eschatologique dont elles représentent des vues diverses, entre lesquelles existent des correspondances. Nous sommes donc au cœur d’une conception où un même thème, celui de la semaine et du huitième jour, subsiste sous des modes divers, préfigurés dans l’Ancien Testament, accompli dans le Christ présent sacramentellement dans la liturgie, achevé par l’eschatologie. L’accent est mis par telle ou telle école sur tel aspect. Mais tout se rattache à un même thème central.” in Idem, Bible et liturgie, 374-375. 83 “Pâques récapitule toute l’histoire religieuse de l’humanité,” in Idem, Mythes païens et mystère chrétien, 24.
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sarà quindi peculiare alla festa liturgica, non diversamente da quanto s’è già rilevato a proposito della domenica. Attraverso il ciclo annuale il mistero di Cristo si inserisce nel ciclo cosmico e questo, a sua volta, ne diventa come una prima figurazione. L’anno liturgico ci introduce alla simbolica del tempo”.84 Il tempo liturgico manifesta questa congiunzione tra il simbolismo del tempo e la partecipazione al mistero di Cristo nella liturgia. “Il ciclo liturgico è vera partecipazione attuale al mistero di Cristo”.85 Il mistero pasquale ricapitola in qualche modo tutti i misteri di Cristo. Il discorso di Daniélou prende un accento berulliano quando afferma: “La contemplazione della vita del Verbo incarnato è ciò che la liturgia ci fa rivivere ogni anno. Durante l’Avvento innanzitutto, quando ce lo mostra preparando la sua venuta in mezzo al popolo dell’antica Alleanza; nei misteri nascosti di Betlemme e di Nazareth; nella sua vita pubblica. Il tempo della settimana santa ci fa vivere il suo abbassamento nella passione, il suo annientamento nella morte. Lo vediamo poi nella risurrezione e lo contempliamo, alla fine dell’anno liturgico, nella festa di Tutti i Santi, nel suo ritorno glorioso, nella piena manifestazione del suo regno eterno”.86 Idem, Bibbia e liturgia, 388. Originale francese: “C’est le temps qui caractérise en effet la fête liturgique de Pâque par opposition au mystère chrétien pris en son ensemble. C’est donc le temps dont le symbolisme sera particulier à la fête liturgique, comme nous l’avons déjà dit à propos du dimanche. Par le cycle annuel, le mystère du Christ s’inscrit dans le cycle cosmique et le cycle cosmique en devient comme une première figuration. L’année liturgique nous introduit dans la symbolique du temps” in Idem, Bible et liturgie, 389. 85 “ Le cycle liturgique est vraiment participation actuelle au mystère du Christ ” in Idem, Carnets spirituels, (1940-1941) 354. 86 “La contemplation des états du Verbe incarné est ce que chaque année la liturgie nous fait revivre. Pendant l’Avent tout d’abord, où elle nous le montre préparant sa propre venue à l’intérieur du peuple de l’ancienne Alliance ; dans les mystères cachés de Bethléem et de Nazareth ; dans sa vie publique. Le temps de la semaine sainte nous fait vivre son état d’abaissement dans la passion, son état d’anéantissement dans la mort. Nous le voyons ensuite dans l’état de la résurrection et nous le contemplons, à la fin de l’année liturgique, à la fête de la Toussaint, dans son retour glorieux, dans la pleine manifestation de son royaume éternel” in Idem, Jean Baptiste, 132. 84
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Ricapitolazione di tutta la storia dell’umanità Bisognerebbe aggiungere che il mistero di Cristo ricapitola a sua volta tutta la storia dell’umanità. In questo senso, Daniélou può scrivere: “Non solo dunque del culto veterotestamentario Cristo realizza le figure, ma tutti i sacrifici che in tutte le religioni e in ogni tempo l’uomo ha offerto a Dio, egli assume e trasfonde nel suo proprio sacrificio. Le specie del pane e del vino significano questo carattere universale dell’eucaristia, e ad esso la liturgia della Messa allude allorché ce ne mostra la prefigurazione nel “santo sacrificio, l’ostia immacolata, offerta dal gran sacerdote Melchisedec”.87 Come scrive Gutiérrez-Martín, “nel più profondo della sua struttura sacramentale, ogni sacramento è, in ultima istanza, una realtà che, procedente della natura e della cultura – il profano –, tramite la presenza del mistero pasquale di Cristo riceve un nuovo significato ed un nuovo modo di essere – il sacro – che esprime la sua verità più radicale: quello che dal medesimo instante della creazione strava chiamato ad essere. Così, nella celebrazione eucaristica, in virtù del mandato istituzionale (‘questo è il mio corpo’-‘questo è il mio sangue’), frumento e frutto della vite – natura, mondo –, pane e vino – storia, cultura –, si convertano, una volta ‘consacrati’–, nella presenza sacramentale del corpo offerto e del sangue versato da Cristo sulla croce”.88 Allo stesso tempo, negli anni cinquanta, Daniélou stimava che la riflessione teologica della prima generazione cristiana mirasse prima di tutto a segnare la fine dell’ordine giudaico e la sua sostituzione con la Idem, Bibbia e liturgia, 196-197. Originale francese: “Ce n’est pas seulement le culte de l’Ancien Testament dont le Christ réalise les figures, mais ce sont tous les sacrifices que dans toutes les religions et dans tous les temps les hommes ont offerts à Dieu, qu’il assume et transsubstantie dans son propre sacrifice. C’est le caractère universel du sacrifice de l’eucharistie que signifient les apparences du pain et du vin et c’est là ce que veut dire la liturgie de la Messe quand elle nous le montre préfiguré dans le ‘’saint sacrifice, l’hostie immaculée”, offert par le grand prêtre Melchisédech” in Idem, Bible et liturgie, 201. 88 J.L. Gutiérrez-Martín, La narración de lo sagrado en una sociedad secular, in Alfonso Berlanga (ed.), Adorar a Dios en la liturgia, EUNSA, Pamplona 2015, 56-57. 87
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realtà cristiana che aveva annunciato.89 Col progresso della riflessione teologica si parlerà piuttosto del compimento anziché della sostituzione. Daniélou esprime in alcune linee ammirevoli ciò che lui chiama “struttura sacramentale” del mistero: “Ma si vide che il mistero cristiano comportava a sua volta una struttura sacramentale cioè che nella Chiesa le realtà spirituali si esprimevano attraverso segni visibili. Aboliti i pani dell’offerta, alla Chiesa restava un altro pane. Il tempio di Gerusalemme era distrutto e compiuto nel Cristo totale, tabernacolo della presenza divina, ma la Chiesa possedeva anche le chiese di pietra, legate alla presenza eucaristica. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. La sua essenza si esprime attraverso queste realtà sensibili, e in ciò consiste appunto la liturgia”.90 Se la liturgia è maestra di dottrina e ci insegna a leggere le sacre Scritture, a rovescio sono queste che hanno forgiato la liturgia cristiana. Questa è preghiera, “sacrificio mediante la parola”,91 e culto conforme al Logos (Cfr. Rm 12,1). Come spiega Joseph Ratzinger, la forma base della liturgia cristiana come tale è determinata dalla fede biblica, dal Levitico letto nell’intero contesto della Bibbia (ad esempio, Esodo e Genesi) fino ai Vangeli e al Apocalisse.92 Questa circolarità è possibile perché in realtà tutto è centrato su Cristo, descritto nel Apocalisse, dice Ratzinger, come “questo Agnello immolato, che da immolato vive”93 Cfr. Daniélou, Bible et liturgie, 328. Idem, Bibbia e liturgia, 323-324. Originale francese: “Il est apparu aussi que ce mystère chrétien comportait à son tour une structure sacramentelle, c’est-à-dire que dans l’Église les réalités spirituelles s’exprimaient à travers des signes visibles. Les pains de proposition étaient abolis, mais l’Église possédait un autre pain. Le Temple de Jérusalem était détruit et accompli dans le Christ total, lieu de la Présence divine, mais l’Église possédait aussi des églises de pierre, liées à la présence eucharistique. Le christianisme n’est pas une réalité purement spirituelle. Son essence spirituelle s’exprime à travers ces réalités visibles, et c’est là précisément la liturgie” in Idem, Bible et liturgie, 328. 91 Ratzinger, Lo spirito della liturgia, I, 3, in Opera Omnia, vol. XII, LEV, Roma 2010, 57. 92 Cfr. ibidem, 47-61. 93 Ibidem, 50; Cfr. Ap 5. 89 90
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ed è “il vero soggetto della liturgia”.94 Nel mio studio sulla storia e i sacramenti nel Daniélou, fu condotto a concludere che i sacramenti “misteriosamente lasciano l’impronta sempre più profonda nel cuore dell’uomo di questa aspirazione a una più alta gloria: Marana tha. Amen, vieni Signore Gesù!”.95 E cosi anche conclude Joseph Ratzinger sulla teologia della liturgia: “la natura della liturgia è in ultima analisi sintetizzata nell’esclamazione orante tramandata da Paolo (1Cor 16,22) e della Didachè: Maran atha – nostro Signore è presente – vieni, Signore nostro!”96 Così si pregava il Signore di essere di nuovo presente nella celebrazione dell’Eucaristia, e così si prega tuttora nel “oggi” della liturgia:97 il Signore viene nell’Eucaristia, verrà alla fine dei tempi.
Conclusione Jean Daniélou ha messo in rilievo la sfida d’una vita in cui la preghiera, la pastorale e il mestiere di teologo sono intimamente unite. Ha mostrato, grazie alla sua conoscenza dei Padri, lo stretto intreccio della liturgia e dei due Testamenti, della Parola e delle azioni di Dio, della storia della salvezza e dei sacramenti, della catechesi e della liturgia. La tipologia fu sempre la chiave di questi lavori. La Scrittura si illumina con la Scrittura. La liturgia la manifesta. La storia della salvezza è al centro della liturgia, si attualizza nella liturgia. In questo senso, questa breve evocazione della liturgia nell’opera di Daniélou potrebbe intitolarsi in modo più esatto “Liturgia e storia della salvezza in Daniélou”. Egli infatti considera la liturgia nell’ambito di una comprensione della storia della salvezza. In questo senso, “la liturgia è essenzialmente una simbolica del tempo, dove i tempi dell’anno divenIbidem, IV. Teologia della liturgia, in Opera Omnia, vol. XII, 748. Derville, Histoire, mystère, sacrements, 701. 96 Ratzinger, IV. Teologia della liturgia, in Opera Omnia, vol. XI, 749; Cfr. Didachè, X, 6. 97 Cfr. Daniélou, Carnets (1939-1940) 214; Théologie du Judéo-christianisme, 432. Cfr. Derville, Histoire, mystère, sacrements, 669-670, 676-779. 94 95
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tano segni delle realtà della storia della salvezza”.98 Al centro, la persona di Cristo, perché “la liturgia ci mostra, compiuti nelle sue membra, i misteri prima realizzati nel suo Capo”.99 Sono famose queste risonanze dei misteri della vita temporale di Cristo, che ho rievocato in occasione del precedente simposio di 9 maggio 2012.100 Tutta la vita di Cristo si attualizza nella liturgia in una misteriosa contemporaneità. Si può in questo senso applicare alla liturgia in modo eminente queste parole di Papa Francesco: “L’Amore che è lo Spirito, e che dimora nella Chiesa, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede”.101
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“La liturgie est essentiellement une symbolique du temps, où les temps de l’année deviennent signes des réalités de l’histoire du salut” in Daniélou, Essai sur le mystère de l’histoire, 257. 99 “La liturgie nous montre, accomplis dans les membres, les mystères d’abord réalisés dans le Chef” (Ibidem, 252). 100 Cfr. Derville, Risonanze dei misteri della vita di Gesù nei sacramenti, in J. Lynch, G. Maspero (a cura di), Finestre aperte sul mistero. Il pensiero di Jean Daniélou, 49-75. 101 Francesco, Enciclica Lumen fidei, 29 giugno 2013, 38.
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Joseph Ratzinger e la liturgia Juan José Silvestre (Pontificia Università della Santa Croce)
“Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia”.1 Queste parole, pronunciate da Benedetto XVI in un incontro con i sacerdoti della diocesi di Roma, rappresentano un’ottima introduzione a questa comunicazione. Ci sembra utile, in primo luogo, offrire alcune pennellate tratte dalla vita di Joseph Ratzinger che riteniamo siano particolarmente importanti da un punto di vista liturgico. Gli elementi biografici e la riflessione che il protagonista stesso opera su di essi ci permetteranno, allo stesso tempo, di vedere la ripercussione che hanno avuto in tutti i suoi insegnamenti teologici e liturgici.
Un’infanzia piena di amore per la Chiesa, famiglia di Dio, e per la sua liturgia È a tutti noto che Joseph Ratzinger è una persona innamorata della liturgia. Come egli stesso afferma: “La liturgia della Chiesa è stata per me fin dall’infanzia la realtà centrale della mia vita”.2 Ricordando, infatti, il giorno della sua nascita, diceva: “Sono nato il 16 aprile 1927, Sabato Santo, a Marktl sull’Inn. In famiglia veniva spesso ricordato che il giorno della mia nascita era l’ultimo della Settimana Santa e la vigilia di Pasqua, tanto più che io fui battezzato il mattino successivo alla mia nascita, con l’acqua appena benedetta della notte pasquale, che allora veniva 1
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Benedetto XVI, Discorso nell’incontro con sacerdoti e diaconi della diocesi di Roma, 2 marzo 2006. Benedetto XVI, Prefazio in J. Ratzinger, Opera omnia vol. XI, Teologia della liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 6.
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Joseph Ratzinger e la liturgia
celebrata al mattino: l’essere il primo battezzato della nuova acqua era un importante segno premonitore. Personalmente sono sempre stato grato per il fatto che, in questo modo, la mia vita sia stata fin dall’inizio immersa nel mistero pasquale, dal momento che non poteva che essere un segno di benedizione”.3 E, anni dopo, tornava sull’argomento: “Questo giorno è sempre immerso nel Mistero Pasquale, nel Mistero della Croce e della Risurrezione, e nell’anno della mia nascita è stato espresso in modo particolare: era il Sabato Santo, il giorno del silenzio di Dio, dell’apparente assenza, della morte di Dio, ma anche il giorno nel quale si annunciava la Risurrezione”.4 E ancora: “Indubbiamente, non era la domenica di Pasqua ma, appunto, il Sabato Santo. Eppure, quanto più ci penso, tanto più mi pare una caratteristica della nostra esistenza umana, che ancora attende la Pasqua, non è ancora la luce piena, ma fiduciosa si avvia verso di essa”.5 La sua infanzia è stata caratterizzata da una vita di pietà incentrata sulla liturgia, che apprese presso la sua famiglia e che poi vivrà anche nella grande famiglia della Chiesa. Da un lato fu decisivo l’aiuto dei suoi genitori. Avevano ricevuto da un parroco molto aperto – dirà poi Ratzinger – lo Schott come regalo di nozze nel 1920. Lo Schott era un libro di preghiere per bambini ispirato al Messale, dove lo sviluppo degli atti liturgici era illustrato con immagini, accompagnate anche da qualche breve preghiera che sintetizzava quelle integrali delle parti della Messa. Questo libro, sempre molto presente nella famiglia di Joseph Ratzinger, fu utilizzato dai genitori per educare i loro figli fin da piccoli alla liturgia.6 Fin da piccolo quindi cercò di immergersi in questa Sapienza presente nella liturgia. Alcune sue parole ci riportano verso la sua infanzia e risuonano per la loro semplicità, ma anche per la perfetta continuità
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5 6
J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 6. Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa in occasione dell’85º genetliaco del Santo Padre, 16 aprile 2012. J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, 6. Ibidem, 17.
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con il suo pensiero liturgico lungo la sua vita: “Ricevetti uno Schott 7 per bambini, in cui erano già riportati i testi più importanti della liturgia; poi lo Schott della domenica, in cui la liturgia della domenica e dei giorni festiva era riportata integralmente, e, infine, il messale quotidiano completo. Ogni nuovo passo che mi faceva entrare più profondamente nella liturgia era per me un grande avvenimento. I volumetti che di volta in volta io ricevevo erano qualcosa di prezioso, come non poteva sognarne di più belli. Era un’avventura avvincente entrare a poco a poco nel misterioso mondo della liturgia, che si svolgeva là, sull’altare, davanti a noi e per noi”.8 E prosegue ricordando come la liturgia sia “della Chiesa”, qualcosa da vivere e che deve rispondere a ogni singolo momento della storia per porsi in ascolto dello Spirito Santo: “Comprendevo sempre più chiaramente che qui io incontravo una realtà che non era stata inventata da qualcuno, che non era la creazione di un’autorità qualsiasi, né di una singola grande personalità. Questo misterioso intreccio di testi e di azioni era cresciuto nel corso dei secoli dalla fede della Chiesa. Portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana. Ogni secolo vi aveva apportato qualcosa di suo: le introduzioni ci permettevano di capire quel che aveva avuto origine nella Chiesa primitiva, nel medioevo, in epoca moderna. Non tutto era logico, molte cose erano complicate e non era sempre facile orientarsi. Ma proprio per questo l’edificio era meraviglioso e ci si sentiva a casa. Ovviamente, da bambino non capivo ogni singolo particolare, ma il mio cammino con la liturgia era un processo di continua crescita in una grande realtà che superava tutte le individualità e le generazioni, che diventava occasione di stupore e scoperte sempre nuovi. L’inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato 7
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Lo stesso Ratzinger spiega cosa è questo Schott: “C’era un libro di preghiera per i bambini ispirato al messale, in cui lo svolgersi dell’azione liturgica era illustrato con immagini, così che si potesse seguire bene quel che avveniva; esso presentava poi di volta in volta una breve preghiera, in cui l’essenziale delle singole parti della liturgia veniva sintetizzato e reso accessibile per la preghiera dei bambini” (Ibidem). Ibidem.
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attraverso tutte le fasi della mia vita; per questo, non posso non parlarne continuamente”.9
La liturgia fondamento della vita cristiana e della teologia Dobbiamo ora fare un salto in avanti in questa breve introduzione biografico-liturgica su Joseph Ratzinger e mettere da parte con nostalgia la freschezza e la profondità di queste confidenze dei suoi anni di infanzia.10 Ci occuperemo ora del giovane studente di Teologia a Monaco che prende contatto con il movimento liturgico sia attraverso la lettura delle opere di Casel e Guardini, sia assistendo alle lezioni del teologo di pastorale Pascher.11 Sono assai indicative le riflessioni del nostro autore su questa epoca della sua vita: “Fino ad allora [1948 quando legge il libro Eucaristia di Pascher, n.d.a.] il mio atteggiamento nei confronti del movimento liturgico era stato contrassegnato da qualche riserva. In molti dei suoi rappresentanti mi pareva di cogliere un razionalismo e uno storicismo unilaterali, un atteggiamento troppo mirato alla forma e all’originarietà storica, ma che lasciava trasparire una strana freddezza nei confronti dei valori del sentimento, che la Chiesa ci faceva invece sperimentare come il luogo in cui l’anima si sente a casa propria. Certo, lo Schott mi era molto caro, anzi, insostituibile. L’accesso alla liturgia e alla sua autentica celebrazione, a cui esso aveva spianato la strada, era per me il contributo indiscutibilmente positivo del movimento liturgico. Ma mi disturbava una certa ristrettezza di molti dei suoi sostenitori, che volevano far valere solo una forma”.12 Termina poi queste riflessioni dicendo: “Grazie alle lezioni di Pascher e alla solennità con la quale ci insegnava a celebrare la liturgia, secondo il suo spirito più profondo, Ibidem. Cfr. C. Cologne – P. Colonge, Benoît XVI. La joie de croire, Cerf, Paris 2011; P. Blanco, Benedicto XVI: el Papa alemán, Planeta, Barcelona 2010; R. Moynihan, La Vision spirituelle de Benoît XVI, Ed. Fides, Montreal 2007. 11 Cfr. R. Reyes, L’unità del pensiero liturgico di Joseph Ratzinger, BEL-Subsidia 158, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2011, 59-65. 12 J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, 57. 9
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anch’io divenni un sostenitore del movimento liturgico. Come avevo imparato a comprendere il Nuovo Testamento quale anima di tutta la teologia, così capii che la liturgia ne era il fondamento vitale, senza di cui essa finisce per inaridirsi”.13 Del resto, è sempre la liturgia, come afferma lui stesso, la ragione dei suoi studi di teologia: “La materia che scelsi fu la teologia fondamentale, perché prima di tutto volevo andare al fondo della domanda: perché noi crediamo? Ma in questa domanda fin dall’inizio era compresa intrinsecamente l’altra domanda, quella della giusta risposta da dare a Dio e quindi la domanda circa il culto divino. A partire da qui vanno compresi i miei lavori sulla liturgia. Il mio obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza umana”.14 E più avanti aggiunge: “L’intenzione essenziale dell’opera era quella di collocare la liturgia, al di là delle questioni spesso grette circa questa o quella forma”.15 È in effetti una costante della sua vita e dei suoi scritti che, di fronte a un certo ridondante riformismo esteriore, egli abbia di mira una riforma interiore che possa perfino giungere in futuro ad avere implicazioni pratiche. Ma questo può essere soltanto il frutto di un’assimilazione interiore. Si potrebbe dire, usando le sue stesse parole, che di fronte alle controversie su temi liturgici “la questione è piuttosto: che cosa è la liturgia in base alla sua essenza? Quali sono i suoi criteri intrinseci? Solo dopo aver chiarito questo, si può chiedere ulteriormente: che cosa deve rimanere? Che cosa può e che cosa deve forse essere cambiato?”.16
Ibidem, 58. Benedetto XVI, Prefazio in J. Ratzinger, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, 6. 15 Ibidem, 8. 16 Idem, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, 633. 13 14
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Il Concilio Vaticano II: riscoprire il primato di Dio Gli aspetti biografico-liturgici degli anni del Concilio Vaticano II e del periodo successivo a questo evento storico fondamentale per la vita della Chiesa non possono essere oggetto di analisi in questo intervento, ma vorrei sottolineare due aspetti che ritengo della massima importanza se vogliamo approfondire la comprensione della liturgia da parte di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI: il primato di Dio e la relazione tra liturgia e mistero pasquale. Joseph Ratzinger descrive questi anni con tono poetico: “Si potrebbe dire che la liturgia era allora – nel 1918 –, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva – grazie al Concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure”.17 In effetti, il 4 dicembre 1963 Papa Paolo VI promulgò la costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, che i padri conciliari avevano approvato poco prima quasi all’unanimità.18 Fu un momento memorabile perché era il primo frutto del Concilio voluto da Giovanni XXIII, preparato da un grande movimento liturgico e pastorale, nonché dall’opera magisteriale e liturgica dei Pontefici precedenti San Pio X e il venerabile Pio XII. In merito allo studio del tema liturgico durante il Concilio, Joseph Ratzinger dirà, non senza una certa polemica, “che, poi, questo testo J. Ratzinger, Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, Friburgo 2000. Traduzione italiana: Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, 5-6. 18 Effettivamente, lo Schema sulla Liturgia fu approvato il 22 novembre 1963 (2158 placet, 19 non placet). Il 4 dicembre fu effettuata la solenne votazione Della costituzione Sacrosanctum Concilium (2147 placet, 4 non placet) e fu promulgata da Paolo VI, esattamente 400 anni dopo la fine del Concilio di Trento (1545-1563). 17
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sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio”.19 In tal senso, anni dopo, divenuto Papa, approfondisce e completa questa idea: “Nella preparazione del Vaticano II, l’interrogativo prevalente e a cui l’Assise conciliare intendeva dare risposta era: “Chiesa, che dici di te stessa?”. Approfondendo tale domanda, i Padri conciliari furono, per così dire, ricondotti al cuore della risposta: si trattava di ripartire da Dio, celebrato, professato e testimoniato. Esteriormente a caso, ma fondamentalmente non a caso, infatti, la prima Costituzione approvata fu quella sulla Sacra Liturgia: il culto divino orienta l’uomo verso la Città futura e restituisce a Dio il suo primato, plasma la Chiesa, incessantemente convocata dalla Parola, e mostra al mondo la fecondità dell’incontro con Dio”.20 Come già aveva fatto notare il beato Paolo VI nella conclusione della seconda sessione del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI anni più tardi ricordava: “Cominciando con l’argomento della liturgia, si poneva inequivocabilmente in luce il primato di Dio,
J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, 91. Anni dopo ripeterà la stessa idea: “Il fatto che il tema della liturgia si sia trovato proprio all’inizio dei lavori conciliari e che la Costituzione che ne tratta sia divenuto il suo primo risultato fu – se visto dall’esterno – piuttosto un caso. Papa Giovanni aveva convocato l’Assemblea dei Vescovi nel desiderio, da tutti condiviso con gioia, di ribadire la presenza del cristianesimo in un’epoca di profondi cambiamenti, ma senza proporle un programma determinato. Dalle commissioni preparatorie era stata messa insieme un’ampia serie di progetti. Mancava però una bussola per poter trovare la strada in questa abbondanza di proposte. Fra tutti i progetti, il testo sulla sacra liturgia sembrò quello meno controverso. Così esso apparve il più adatto a servire quasi come una specie di esercizio con il quale i Padri potessero apprendere i metodi del lavoro conciliare” (Benedetto XVI, Prefazio in J. Ratzinger, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, 5). 20 Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea della CEI, 24 maggio 2012. 19
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la priorità assoluta del tema Dio. Prima di tutto Dio: questo ci dice l’iniziare con la liturgia”.21 Si potrebbe affermare, a nostro modo di vedere – e riteniamo che questa sia anche la tesi di fondo di Joseph Ratzinger – che il Vaticano II cominciando dalla liturgia, pur se per motivi in apparenza pratici, conferì un’architettura ben precisa al Concilio: la prima cosa è l’adorazione e, quindi, Dio. In virtù di ciò, l’approvazione della costituzione Sacrosanctum Concilium si colloca, in primo luogo, in linea con la Regola benedettina Operi Dei nihil praeponatur. A sua volta, la costituzione Lumen gentium, sulla Chiesa, sarebbe essenzialmente legata a quella precedente. La Chiesa si lascerebbe guidare dall’orazione, dalla missione di dare gloria a Dio. In tal senso, sembra logico che la terza costituzione – Dei Verbum – parli della Parola di Dio che in ogni tempo convoca e rinnova la Chiesa. Infine, la quarta costituzione – Gaudium et spes – mostrerebbe come deve avere luogo nella vita attiva questa glorificazione di Dio, attraverso il portare al mondo la luce ricevuta da Dio che converte e trasforma questo stesso mondo in gloria di Dio.22 La gloria di Dio è l’uomo vivente (Cfr. 1Cor 10,31). E la vita dell’uomo è la visione di Dio.23 Recuperare questo “primato” di Dio era quindi un obiettivo fondamentale del Concilio Vaticano II e continua a esserlo a cinquanta anni di distanza. Questo primato di Dio nella liturgia, inoltre, riflette tutta una teologia, in quanto “dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono, come di consueto, modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell’uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede cristiana”24 . Benedetto XVI, Prefazio in J. Ratzinger, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, 5. 22 Cfr. J. Ratzinger, “L’ecclesiologia della costituzione Lumen Gentium” in J. Ratzinger, Weg Gemeinschaft des Glaubens, Sankt Ulrich, Augsburgo 2002. Traduzione italiana: La comunione nella Chiesa, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 132-133. 23 Cfr. Ireneo, Contro le eresie IV, 20, 7: PG 7, 1037. 24 J. Ratzinger, Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1985, 123. 21
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Possiamo concludere questo prima tema con alcune parole di Benedetto XVI che riassumono e presentano in prima persona la liturgia e la sua collocazione nell’evento conciliare e, allo stesso tempo, ci introducono al prossimo argomento: “Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. Operi Dei nihil praeponatur: questa parola della Regola di san Benedetto (Cfr. 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali. Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo”25 .
La liturgia come attualizzazione del mistero pasqale La liturgia intesa come attualizzazione del mistero pasquale è il secondo aspetto che considero essenziale per comprendere la sua produzione liturgica e il vero insegnamento conciliare. Come affermava Benedetto XVI, “il rinnovamento delle forme esterne, desiderato dai Padri Conciliari, era proteso a rendere più facile l’entrare nell’intima 25
Benedetto XVI, Discorso nell’incontro con i parroci e il clero della diocesi di Roma, 14 febbraio 2013.
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profondità del mistero. Il suo vero scopo era di condurre la gente ad un incontro personale con il Signore, presente nell’Eucaristia, e così al Dio vivente, in modo che, mediante questo contatto con l’amore di Cristo, l’amore reciproco dei suoi fratelli e delle sue sorelle potesse anch’esso crescere. Tuttavia, non raramente, la revisione delle forme liturgiche è rimasta ad un livello esteriore, e la “partecipazione attiva” è stata confusa con l’agire esterno. Pertanto, rimane ancora molto da fare sulla via del vero rinnovamento liturgico. In un mondo cambiato, sempre più fisso sulle cose materiali, dobbiamo imparare a riconoscere di nuovo la presenza misteriosa del Signore Risorto, il solo che può dar respiro e profondità alla nostra vita”26 . Qual è il mistero in cui dobbiamo entrare? Non c’è dubbio che si tratti del mistero pasquale e anche se questa è una affermazione ammessa a prima vista quasi da tutti, vorrei soffermarmi lo stesso su di essa. Alcune parole pronunciate da Joseph Ratzinger in un discorso del 2003 mettono in luce il motivo per cui ritengo conveniente farlo. Diceva in quell’occasione l’allora cardinale: “A mio parere, la maggior parte dei problemi collegati all’applicazione concreta della riforma liturgica ha a che fare con il fatto che non si è tenuto sufficientemente presente che il punto di partenza del Concilio è la Pasqua; ci si è attenuti troppo alle cose puramente pratiche rischiando di perdere di vista ciò che sta al centro. Mi sembra perciò essenziale riprendere questo approccio come criterio di rinnovamento ed approfondire ulteriormente ciò che il Concilio necessariamente ha solo accennato. Pasqua significa inseparabilità di Croce e Risurrezione, così come è presentata soprattutto nel Vangelo di Giovanni”27 . Per questo poi può concludere: “Un’idea di fondo del Concilio è, infine, il riferimento al Mistero pasquale: nella Pasqua si sintetizza l’intera storia della salvezza, è presente in forma concentrata l’intera opera della redenzione. Si può ben dire che la Pasqua costituisce la categoria centrale della teologia liturgica del Concilio”28 . Idem, Messaggio per la chiusura del 50º Congresso Eucaristico Internazionale a Dublino, 17 giugno2012. 27 J. Ratzinger, Opera omnia, vol. XI, Teologia della litugia, 775. 28 Ibidem, 774. 26
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Giunti a questo punto sembra opportuno domandarsi perché il contenuto del Mistero pasquale e la sua relazione con le nostre celebrazioni liturgiche risulti estraneo al cristiano di oggi? Ovviamente, in queste pagine non potremo tentare altro che un approccio a questo problema attraverso l’opera di Joseph Ratzinger, e cercare di incominciare a dare un abbozzo di risposta.
L’“oblio” del mistero pasqale Il nucleo del problema il nostro autore lo ha indicato nel libro Cantate al Signore un canto nuovo29 , dove ricordava che la situazione della fede e della teologia in Europa è oggi caratterizzata da una smobilitazione ecclesiale. L’antitesi Gesù sì, Chiesa no sembra riassumere bene il pensiero di tutta una generazione, come ha detto in varie occasioni Papa Francesco30 . Ma dietro questa diffusa contrapposizione tra Gesù e la Chiesa si nasconde un problema cristologico. La vera antitesi si può esprimere con questa formula: Gesù sì, Cristo no, o Gesù sì, Figlio di Dio no. Ci troviamo quindi di fronte a una questione cristologica essenziale. Per parecchie persone Gesù è solo un personaggio storico importante tra tanti altri. Si avvicinano a Gesù dall’esterno, per così dire. Grandi studiosi riconoscono la sua altezza morale e spirituale, nonché il suo influsso sulla storia dell’umanità, paragonandolo a Buddha, Confucio, Socrate e altri saggi e “grandi” personaggi della storia. Non giungono però a riconoscerlo nella sua unicità31 . Di lui attrae soltanto il lato umano. Riconoscerlo come Figlio Unigenito di Dio sembra allontanarlo da noi e confinarlo nell’inaccessibile e irreale fino a sottometterlo alla
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J. Ratzinger, “Cristo e la Chiesa. Problemi attuali di teologia e conseguenze per la catechesi”, in J. Ratzinger, Ein neues Lied für den Herrn. Christusglaube und Liturgie inder Gegenwart, Herder, Friburgo 1995. Traduzione italiana: Cantate al Signore un canto nuovo, Jaca Book, Milano 1996, 39-48. 30 Cfr. Francesco, Omelia 1 gennaio 2014; Udienza generale, 29 maggio 2013. 31 Cfr. Benedetto XVI, Omelia nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 2007.
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“amministrazione” del potere ecclesiastico. La separazione tra Gesù e il Cristo corrisponderebbe dunque alla separazione tra Gesù e la Chiesa. In realtà, come diceva Benedetto XVI, “Se gli uomini dimenticano Dio è anche perché spesso si riduce la persona di Gesù a un uomo sapiente e ne viene affievolita se non negata la divinità. Questo modo di pensare impedisce di cogliere la novità radicale del cristianesimo, perché se Gesù non è il Figlio unico del Padre, allora nemmeno Dio è venuto a visitare la storia dell’uomo, abbiamo solo idee umane di Dio. L’incarnazione, invece, appartiene al cuore del Vangelo!”32 . Questa forte visione cristocentrica attraversa tutta la fede e per questo “è necessario che i cristiani sperimentino che non seguono un personaggio della storia passata, bensì Cristo vivo, presente nell’oggi ed ora delle loro vite. Egli è il Vivente che cammina al nostro fianco, rivelandoci il senso degli avvenimenti, del dolore e della morte, dell’allegria e della festa, entrando nelle nostre case e rimanendo in esse, alimentandoci col Pane che dà la vita. Per questo la celebrazione domenicale dell’Eucaristia deve essere il centro della vita cristiana”33 . Se la vera crisi investe la cristologia e non l’ecclesiologia, a che cosa è dunque dovuta? Le cause ovviamente sono varie: la riduzione del mondo a ciò che è empiricamente dimostrabile, la riduzione della vita umana al solo aspetto esistenziale, ecc. Seguendo il nostro autore, ci concentreremo però su un aspetto che ci sembra fondamentale, ovvero la perdita dell’immagine di Dio, del Dio vivo e vero, che avanza incessantemente fin dai tempi dell’Illuminismo34 . Il deismo si è praticamente imposto nella coscienza generale. Non è più possibile concepire un Dio che si preoccupa degli individui e che agisce nel mondo. Dio può aver originato al principio l’universo, ammesso che lo abbia fatto, ma nel mondo dei lumi non gli resta nulla altro da fare. Non si accetta che Dio entri vivamente nella nostra vita. Dio al massimo può essere un’idea spiIdem, Discorso nell’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 13 giugno 2011. 33 Idem, Discorso nella sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007. 34 Cfr. J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, 41-43. 32
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rituale, un complemento edificante per la mia vita, ma resta un qualcosa di indefinito appartenente alla sfera soggettiva. Sembra quasi ridicolo immaginare che possano interessargli le nostre azioni buone o malvagie. Siamo così piccoli e insignificanti di fronte alla grandezza dell’universo. Sembra mitologico attribuire a Dio un’azione nel mondo. Ci sono fenomeni inspiegabili ma le cause vanno ricercate altrove. La superstizione sembra avere maggiore fondamento della fede; gli dei – ovvero fatti inspiegabili nel corso della nostra vita, con i quali dobbiamo tagliare corto – sono più credibili di Dio. Se Dio non ha nulla a che fare con noi, decade anche l’idea del peccato. Così che un atto umano possa offendere Dio è ormai ritenuto inimmaginabile da molti. Non ci sono margini per un’idea di redenzione nel senso classico della dottrina cattolica, perché appena qualcuno arriva a interrogarsi sulla causa del male nel mondo e della propria esistenza nel peccato. Sono assai illuminanti a questo riguardo alcune parole di Benedetto XVI: “Se ci domandiamo: perché la Croce? la risposta, in termini radicali, è questa: perché esiste il male, anzi, il peccato, che secondo le Scritture è la causa profonda di ogni male. Ma questa affermazione non è affatto scontata, e la stessa parola peccato da molti non è accettata, perché presuppone una visione religiosa del mondo e dell’uomo. In effetti è vero: se si elimina Dio dall’orizzonte del mondo, non si può parlare di peccato. Come quando si nasconde il sole, spariscono le ombre; l’ombra appare solo se c’è il sole; così l’eclissi di Dio comporta necessariamente l’eclissi del peccato. Perciò il senso del peccato – che è cosa diversa dal senso di colpa come lo intende la psicologia – si acquista riscoprendo il senso di Dio”35 . Siamo di fronte a una visione del mondo in cui non c’è posto per il concetto di peccato e di redenzione e dove tantomeno ci può essere spazio per un Figlio di Dio venuto al mondo per salvarci dal peccato e che muoia sulla croce per questa causa. “A partire di qui – dirà Ratzinger – si spiega ancora una volta la fondamentale mutazione nella 35
Benedetto XVI, Angelus, 13 marzo 2011.
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comprensione di culto e liturgia verificatasi negli ultimi tempi (da lungo preparati): il loro soggetto primo non è Dio, e nemmeno Cristo, ma il noi dei celebranti. E la liturgia non può nemmeno avere l’adorazione come senso primario; per essa anzi non c’è alcuna motivazione, in una concezione deistica di Dio. Così pure non si può parlare di espiazione, di sacrificio, di remissione dei peccati. Si tratta piuttosto di questo, che i celebranti si assicurino della loro comunione fraterna e così escano dell’isolamento in cui l’esistenza moderna rinchiude il singolo. Si tratta di trasmettere esperienze di liberazione, di gioia, di riconciliazione, di denunciare ciò che è dannoso e di dare impulsi per l’azione. Per questo è la comunità che deve costruire da sé la sua liturgia, e non riceverla di tradizioni divenute incomprensibili. Essa presenta se stessa e celebra se stessa”36 . Un’attenta lettura di questa diagnosi può essere un ottimo stimolo per un fecondo esame di coscienza sulle celebrazioni liturgiche e sul nostro sentire liturgico. Ora probabilmente si comprende un po’ di più perché molte volte il mistero pasquale e la sua celebrazione-attualizzazione non costituiscono il centro né della celebrazione liturgica, né della vita della comunità cristiana e di ognuno dei suoi membri. Esiste, invece, “una mentalità incapace di accettare la possibilità di un reale intervento divino in questo mondo in soccorso dell’uomo. La confessione di un intervento redentore di Dio per cambiare questa situazione di alienazione e di peccato è vista da quanti condividono la visione deista come integralista, e lo stesso giudizio è dato a proposito di un segnale sacramentale che rende presente il sacrificio redentore. Più accettabile, ai loro occhi, sarebbe la celebrazione di un segnale che corrispondesse a un vago sentimento di comunità”37 .
36 37
J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, 42. Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Regione Norte 2 di Brasile in visita “ad limina apostolorum”, 15 aprile 2010.
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Recuperare il mistero pasqale nella liturgia e nella nostra vita La risposta a questa mentalità deista passa per la riscoperta del mistero pasquale e presuppone, allo stesso tempo, tentare di dire cosa esso sia e cosa abbia a che vedere con noi. L’uomo che desidera l’unione con Dio, come intuisce e si prepara, spesso senza saperlo nemmeno, a partecipare al mistero di Cristo? La risposta nasce spontanea. È Gesù Cristo con la sua vita e specialmente con la sua passione, morte, resurrezione e ascensione – ovvero con il suo mistero pasquale – a rendere possibile questa comunione con Dio. A partire da questa realtà, una volta aperte le porte all’unione con Dio, possiamo varcare la soglia. E lo possiamo fare nella Chiesa dove, in unità con Cristo per mezzo dello Spirito Santo, possiamo dialogare con il Padre. Che cosa è allora il mistero pasquale, e cosa ha a che vedere con noi? Joseph Ratzinger risponde collocandosi in un contesto di filiazione, preghiera e sacrificio per gli altri che caratterizza tutta la vita di Gesù. Qui risalta l’evento dell’Ultima Cena e l’istituzione dell’Eucarestia che “è la grande preghiera di Gesù e della Chiesa”38 . Le parole ivi pronunciate da Gesù sono un anticipo della sua morte, una trasformazione di ciò che non ha senso in un senso che si schiude dinanzi a noi. Parole che sono vere e non semplici metafore o espressioni retoriche, perché non sono semplici parole: la morte reale del Signore le sostiene. Di fatto, l’atteggiamento sacrificale con il quale Gesù glorifica il Padre è l’aspetto fondamentale del culto reso da Cristo al Padre e fonda la spiritualità autentica dell’orazione. La glorificazione del Padre da parte di Cristo non avviene tanto con le parole, ma con la vita. La morte di Gesù, in tal modo, ci rivela la chiave per comprendere l’Ultima Cena: la Cena è anticipo della morte, la trasformazione di una morte violenta in sacrificio volontario, in quell’atto d’amore che redime il mondo. E la morte acquisisce il proprio significato attraverso l’atto d’amore infinito
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Idem, Udienza generale, 11 gennaio 2012.
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della Cena. Cena e Croce insieme sono l’unica e indivisibile origine dell’Eucarestia. Questa morte, a sua volta, sarebbe un che di vacuo se non fosse vero che l’amore è più forte della morte. La morte ci si presenta priva di contenuto e le parole sono vane se non giunge la Resurrezione a mostrarci che sono state pronunciate con l’autorità di Dio. La Resurrezione è la risposta e l’interpretazione divina della Croce. Abbiamo evidenziato, assieme al nostro autore, che la Cena fu anticipo della morte violenta, e che la Croce senza il gesto della Cena sarebbe priva di significato. Ora dobbiamo affermare che la Cena anticipa anche la Resurrezione. La Cena senza la Croce e la Croce senza la Cena non avrebbero senso. Entrambe però sarebbero una speranza delusa senza la Resurrezione. La Resurrezione fu, dirà Benedetto XVI, “come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che sciolse l’intreccio fino ad allora indissolubile del “muori e divieni”. Essa inaugurò una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale, in modo trasformato, è stata integrata anche la materia e attraverso la quale emerge un mondo nuovo. È chiaro che questo avvenimento non è un qualche miracolo del passato il cui accadimento potrebbe essere per noi in fondo indifferente. È un salto di qualità nella storia dell’“evoluzione” e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé”39 . Con ciò, le parole e i gesti della Cena, la morte e la Resurrezione sono unite. Questa triade è ciò che noi chiamiamo mistero pasquale, origine e fonte da cui scaturisce l’Eucarestia. “L’intero Triduum paschale è come raccolto, anticipato, e concentrato per sempre nel dono eucaristico”40 . Cristo ci offre la sua croce, ci attrae alla sua presenza. Il Signore non vuole che restiamo semplici spettatori di questo mistero d’amore41 . Idem, Omelia nella Veglia Pasquale, 15 aprile 2006. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003, n. 5. 41 “L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione” (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, n. 13). 39 40
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Questa è la grandezza dell’opera di Cristo: Egli non rimane su un piano distinto e isolato di fronte a noi, condannandoci a una mera passività. Egli si identifica con noi a tal punto che si appropria dei nostri peccati, mentre noi ci appropriamo del suo essere. Dio si fa uomo, assume un corpo e viene incontro a noi che viviamo nella carne. È un sacrum commercium, uno scambio tra Dio e gli uomini di cui già parlavano i Padri. Se ci facciamo domande su quanto accadde durante l’Ultima Cena, che si rinnova ogni volta che celebriamo l’Eucarestia e che si prolunga nella Liturgia delle Ore, possiamo rispondere con le parole del nostro autore: “Dio, il Dio vivente stabilisce con noi una comunione di pace, anzi, Egli crea una consanguineità tra sé e noi. Mediante l’incarnazione di Gesù, mediante il suo sangue versato siamo stati tirati dentro una consanguineità molto reale con Gesù e quindi con Dio stesso. Il sangue di Gesù è il suo amore, nel quale la vita divina e quella umana sono divenute una cosa sola”42 . Questa particolare consanguineità, questo “essere uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28) implica morire a noi stessi per vivere con Cristo, per Cristo e in Cristo. Ed è quello che accade, in primo luogo, nel Battesimo, che è assai di più di un bagno, assai di più che una semplice presentazione in società43 . “Il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell’incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione”44 . Allo stesso tempo, Gesù Cristo trasformando il suo sacrificio e la sua morte in parola – in orazione – rende possibile la rap-presentazione della sua morte, che può essere resa presente perché Egli vive nell’oraIdem, Omelia nella Santa Messa in Cena Domini, 9 aprile 2009. Cfr. Idem, Lett. enc. Spe salvi, n. 10; Omelia nella Veglia Pasquale, 7 aprile 2007. 44 Idem, Udienza generale, 10 dicembre 2008. 42 43
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zione e l’orazione attraversa i secoli45 . Questa morte è effettivamente comunicabile e noi possiamo entrare in questa orazione trasformante, possiamo prendervi parte. “E questo dunque, il nuovo sacrificio che lui ci ha donato, in cui ci accoglie tutti: poiché ha fatto della morte la parola di ringraziamento e di amore, può ora essere presente lungo tutti i tempi come fonte della vita, mentre noi possiamo entrare in lui nella condivisione di questa preghiera”46 . In tal senso, ci pare importante sottolineare il carattere di orazione della Santa Messa, anche dal punto di vista della morfologia della celebrazione eucaristica47 : “La celebrazione eucaristica è il più grande e il più alto atto di preghiera, e costituisce il centro e la fonte da cui anche le altre forme ricevono la linfa”48 . In realtà, “la comunione tra Dio e l’uomo realizzata nella persona di Gesù diviene comunicabile nel mistero pasquale, cioè nella Morte e Risurrezione del Signore. L’Eucaristia è la nostra partecipazione al mistero pasquale e così essa costituisce la Chiesa, il corpo di Cristo”49 . Per questo sia il sacramento del Battesimo che quello dell’Eucarestia fanno parte dell’esistenza cristiana. In fin dei conti, solo nella comunione con Lui, realizzata nella fede e nei sacramenti, malgrado tutte le nostre carenze ci convertiamo in sacrificio vivo e possiamo offrire il vero culto50 . Di fatto, “partecipare all’Eucaristia, comunicare con il corpo e il sangue di Cristo esige la liturgia della Cfr. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesú di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 160. 46 J. Ratzinger, Gott ist uns nah: Eucharistie Mitte des Lebens, Sankt Ulrich, Augsburgo 2001 contiene J. Ratzinger, Eucharistie – Mitte der Kirche. Vier Predigten, Munich 1978. Traduzione italiana: Il Dio vicino: l’Eucaristia cuore della vita cristiana, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 46. 47 Cfr. J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesú di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, 157-164; J. Ratzinger, “Forma e contenuto della Celebrazione eucaristica” in J. Ratzinger, Opera omnia, vol. XI, Teologia della liturgia, 412-429. 48 Benedetto XVI, Omelia in un’ordinazione sacerdotale, 3 maggio 2009. 49 J. Ratzinger, Il cammino pasquale, Ancora, Milano 1985, 140. 50 Cfr. Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Lumen Gentium, n. 11. In questo senso è interessante leggere G. Derville, La liturgia del trabajo. Levantado de la tierra atraeré a todos hacia mí (Jn 12,32) en la experiencia de San Josemaría Escrivá de Balaguer, in «Scripta Theologica» 38 (2006/2) 821-854. 45
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vita, la partecipazione alla passione del Servo di Dio”51 . Tutto ciò ci porta a concludere che se nella vita di Gesù l’orazione è la chiave, lo è anche nella sua passione, morte e resurrezione. L’orazione è ciò che caratterizza l’Eucarestia e che deve impregnare tutta la nostra vita. Come afferma il Papa emerito: “il nostro vivere quotidiano nel nostro corpo, nelle piccole cose, dovrebbe essere ispirato, profuso, immerso nella realtà divina, dovrebbe divenire azione insieme con Dio. Questo non vuol dire che dobbiamo sempre pensare a Dio, ma che dobbiamo essere realmente penetrati dalla realtà di Dio, così che tutta la nostra vita – e non solo alcuni pensieri – siano liturgia, siano adorazione”52 . Vogliamo concludere il nostro intervento con alcune parole dalle forti tinte poetiche, con le quali Benedetto XVI presentava questo incontro con Dio informato dall’amore: “La liturgia è il luogo privilegiato per l’ascolto della Parola divina, che rende presenti gli atti salvifici del Signore, ma è pure l’ambito nel quale sale la preghiera comunitaria che celebra l’amore divino. Dio e uomo s’incontrano in un abbraccio di salvezza, che trova il suo compimento proprio nella celebrazione liturgica”53 .
J. Ratzinger, Il cammino pasquale, 106. Benedetto XVI, Lectio divina nel Seminario romano maggiore, 15 febbraio 2012. 53 Idem, Udienza generale, 5 ottobre 2005. 51
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II.3
La prospettiva missionaria
“Da un estremo all’altro”: la missione in Jean Daniélou Jonah Lynch (Pontificia Università Gregoriana, Roma)
O Gesù! Vedo queste immense folle – e vedo il tuo desiderio immenso di nutrirle. E questa folla ha fame. Cosa manca, o Gesù? Abbiamo bisogno di santi, veri santi. [. . .] Ti chiedo di suscitare dei santi. Da parte mia, mi sento profondamente indegno di questo. Aiutami ad essere semplicemente un buon servo. (Carnets, 296)
Introduzione Nella sua giovinezza, Daniélou faticava a comprendere chiaramente il rapporto reciproco tra l’azione e la contemplazione nella sua vita. Gli sembrava che la prima fosse in contraddizione con la seconda, o perlomeno successiva cronologicamente e ontologicamente. Ma la sua personalità inquieta e brillante lo portava continuamente a sentire urgente l’azione. Come trovare l’unità della propria vita? Una prima risposta si trova nel suo diario: “l’azione stessa è l’esercizio e la dimostrazione dell’amore, l’amore della volontà, fedeltà, devozione, di cui la dolcezza della preghiera è la risposta e la ricompensa”.1 Per Daniélou era chiaro che non poteva sacrificare né la sua vita intima di 1
J. Daniélou, Carnets spirituels, Cerf, Paris 1993, 20072 (=Carnets), 45.
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preghiera, né il suo desiderio di agire nel mondo. Vedeva che doveva “unificare la mia vita attraverso il desiderio di Dio, anziché fare due parti con la formula: ‘nascondi la mia anima [. . .] lontano dal tumulto degli uomini’”.2 L’unità che cercava doveva tenere conto di entrambe le estremità. “Il mio errore è di aver distinto l’ambito umano, l’attività, come cattivo e disturbante – e l’ambito divino, la pura passività, come la sola realtà”.3 L’unità che Daniélou cercava nella propria vita è la stessa che è cercata dagli uomini e donne di ogni lingua e cultura. Cercano una strada verso Dio che non richiede l’uscita dal mondo, che per quasi tutti sarebbe impossibile. Cercano una strada che non separa la vita spirituale dalla vita mondana, il soprannaturale dal naturale. Cercano Cristo, l’uomoDio. Perciò non sorprende il fatto che al cuore del pensiero missionario di Jean Daniélou c’è la croce. Sulla croce, il Figlio di Dio viene lacerato tra cielo e terra. Egli appartiene sia al cielo, sia alla terra, e accetta di portare dentro di se lo scandalo della separazione tra gli uomini e Dio. Per Daniélou, il missionario accetta altrettanto di essere configurato alla croce di Cristo, teso tra le due estremità opposte della contemplazione e dell’azione. Cristo, “senza lasciare il seno della Trinità, si estende fino alle estreme frontiere della miseria umana, e riempie tutto l’intervallo”.4 Nello stesso modo, il missionario vive immerso nella vita della Trinità e immerso nella vita degli uomini, e accetta di portare dentro la propria carne la conseguente tensione. Un missionario non oppone più la contemplazione all’azione, ma vede che l’azione è missione, configurazione alla missione del Figlio. Dicendo questo, in un certo senso abbiamo già detto tutto. Ma non è inutile dettagliare ulteriormente la posizione di Daniélou, per meglio comprendere il significato della missione. Per fare ciò, confrontiamo due tesi contrapposte. La prima, presente in molti strati della cultura 2 3 4
Carnets, 63. Carnets, 88. Idem, D’une extremité à l’autre, in F. Jacqin, Histoire du cercle St. Jean Baptiste, Beauchesne, Paris 1987, 246.
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europea e nordamericana, ritiene che le religioni sono in sé portatori di valori importanti. Contengono molto di buono e di bello, e presentano anche delle importanti somiglianze. Si è tentato perciò di pensare alla categoria “religione” come a una cosa sostanzialmente omogenea, buona, con effetti simili anche se sotto vesti variegate. Questa opinione è molto diffusa, e non solo nel senso superficialmente irenica che non vuole vedere contrasti. È anche una posizione seria che nasce dall’osservazione di elementi positivi e costruttivi in ogni popolo e religione. Si cita ad esempio il rispetto per la trascendenza di Dio proprio dell’Islam, il primato del mondo spirituale dell’Induismo, e la saggezza di Confucio. Tuttavia è piuttosto frequente che si passi da questa posizione di rispetto a delle conseguenze eccessive, ad esempio ritenendo che tutte le religioni sono strade a Dio e quindi la conversione al cristianesimo non solo non è necessario, ma non è neanche utile. Occorre qualche distinzione qui per comprendere il significato dell’azione missionaria, innanzitutto quella di Cristo stesso. La seconda posizione è il reciproco, che si può indicare con la tesi che H. Kraemer, discepolo di K. Barth, ha espresso nel suo Il messaggio cristiano in un mondo non-cristiano. Kraemer sostiene che il messaggio cristiano, in quanto messaggio divino, non incontra nulla che lo prepari nel mondo. Il mondo, e in particolare le religioni, sono essenzialmente il rifiuto di Dio, e ostacolo alla conversione a Cristo. Questa idea può sembrare superficiale come la prima, ma anche qui vi è una verità importante. Se il vero Dio si manifesta nella carne e viene a camminare sulla terra, cosa si può fare se non convertirsi a lui? Pone l’uomo di fronte a una decisione radicale, per lui o contro di lui, tertium non datur. Se questo uomo è Dio, questo fatto cambia tutto e non può lasciare nessuno indifferente. Esige la conversione, ma il mondo è lontano dall’essersi convertito. Quindi, occorre la missione. Queste due posizioni sono esaminati nel “manifesto missionario” di Daniélou, Le mystère du salut des nations. Il capitolo drammaticamente intitolato “ciò che deve vivere e ciò che deve morire” indica che in ogni religione e cultura ci sono elementi che sono vere ricchezze e che 321
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devono vivere, e altri elementi che devono essere purificati. Ciò che deve rimanere sono le ricchezze che sono una vera preparazione per ricevere la buona novella di Cristo. Tale era la filosofia greca: insufficiente da sola a dare la salvezza al mondo, ma una preziosa preparazione per comprendere e esprimere ciò che è stato rivelato in Cristo. Per Daniélou, lo stesso si può dire della legislazione romana e dello spirito nordico che ha dato impulso a tanta cultura medievale, e anche delle culture dell’India e della Cina, che hanno ricchezze che ancora non sono entrate a far parte della Chiesa. Essa attende il loro contributo, e il vestito della Sposa non sarà completa fino a che non contenga tutti i colori che appartengono a questi popoli. Allo stesso tempo, ogni cultura contiene elementi che devono essere purificati. Qui sta il dramma di Israele, secondo Daniélou: non ha accettato la purificazione finale che l’avrebbe permessa di accogliere il suo sospirato salvatore. Lo stesso dramma, reso in modo più simpatico, si trova nell’affermazione di un uomo cinese che “se Dio avesse deciso di farsi uomo, sarebbe diventato sicuramente cinese, perché è il popolo più stabile e colto del mondo”. Potrebbe aver ragione nel suo giudizio sulla cultura cinese, eppure è proprio questo (giusto) orgoglio che deve far spazio per lasciare che Cristo entri e porti la cultura cinese alla sua piena fioritura. La creazione La dicotomia che abbiamo così abbozzato evidentemente richiede una soluzione complessa. Daniélou indica una strada che inizia nella contemplazione del mistero della creazione. Sottolinea l’unità dell’azione delle tre persone divine: nella creazione, il Padre agisce attraverso la sua Parola, nello Spirito. “Tutta la creazione è sospesa in ogni istante dalla parola creativa. Non sussiste se non nella misura in cui è offerta. È interamente, in ogni istante, sostenuto in esistenza. Questa visione assolutamente radicale è a volte ciò che ci aiuta di più a trovare nuo-
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vamente un rapporto autentico con Dio e con la creazione”.5 Daniélou tornava spesso alla creazione e alla dipendenza ontologica per fondare la sua fede. “Per riscoprire la realtà della Trinità in se stessa, dobbiamo cominciare dalla manifestazione della Trinità nella creazione stessa”.6 Il mondo materiale ha il suo origine nell’azione delle Tre Persone, ed è chiamata ad essere trasfigurata da loro. Quest’idea è una critica profonda del modo solito di concepire il mondo, come cosmo desacralizzato, estraneo a ogni origine o destino divino.7 Daniélou nota la dissociazione tra un destino religioso puramente personale e il destino cosmico del mondo materiale. Si potrebbe dire che il tentativo di affermare la dignità indipendente del mondo materiale e le sue strutture conoscitive (scienza, filosofia) appare a prima vista come l’esaltazione delle sue capacità. Ma in realtà, lo vota alla disperazione, perché non può attraversare lo iato tra il materiale e lo spirituale. Daniélou afferma invece che alla sua origine, il mondo materiale è legato alla Trinità. Perciò, il suo destino spirituale non è l’annullamento del suo valore intrinseco, ma il suo compimento. Contemplazione e ricerca scientifica riguardano lo stesso mondo, che origina in Dio. Secondo Daniélou, la grazia è già presente nell’inizio dell’ordine cosmica. È presente nei primi uomini,8 molto prima della vocazione di Abramo, come si vede dalle sue parole positive e piene di stima per l’uomo pagano, che si trovano in molte opere, in particolare la serie di ritiri 5
6 7
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J. Daniélou, La Trinité et le mystère de l’existence, Desclée de Brouwer, Paris 1968 (=La Trinité), 15-16. La Trinité, 14. René Guenon scrive: “La civiltà moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia: fra tutte quelle che conosciamo essa è la sola che si sia sviluppata in un senso puramente materiale, la sola altresì che non si fondi su alcuno principio d’ordine superiore. Tale sviluppo materiale, che prosegue ormai da parecchi secoli e va accelerandosi sempre più, è stato accompagnato da un regresso intellettuale che esso è del tutto incapace di compensare”. (R. Guenon, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 19943 , 15). È suggestiva in questo senso una recente scoperta che sembra indicare una forma arcaica di carità fra ominidi vissuti circa 1,8 milioni di anni fa. Vedi D. Lordkipanidze et al., A complete skull from Dmanisi, Georgia, and the Evolutionary Biology of early Homo, «Science» 342 (18 ott. 2013) 326-331
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pubblicati come Les saints paiens de l’ancien testament. Il pagano può percepire nella bellezza del creato e nella potenza delle forze naturali, nei cicli delle stagioni e della fecondità, una presenza a lui superiore. Attraverso il mondo visibile, qualcosa del mondo invisibile può essere conosciuto. In questo senso Daniélou non accetta il pessimismo di chi vede nel paganesimo un puro ostacolo alla fede in Gesù Cristo.9 Per lui, la religiosità naturale dell’umanità è un presupposto indispensabile per la rivelazione della grazia.10 Ricordiamo qui una pagina del suo primo libro, Le signe du temple: A un primo livello, che non è cristiano per essenza, ma che si trova a far parte del patrimonio storico del cristianesimo, e che ordinariamente si degrada fuori di esso, il mistero cristiano è il mistero della creazione. Intendo per questo non solamente la dipendenza originale dell’Universo rispetto al Dio personale e trascendente, ma anche la dipendenza attuale di ogni cosa da Lui, e per conseguenza una presenza di Dio che dona al Cosmo intero un valore sacrale.11 9
Il tema è legato alla disputa sulla natura e la grazia, perché l’esistenza di santi prima della redenzione di Cristo metterebbe in difficoltà l’interpretazione che vorrebbe separare nettamente tra il prima e il dopo: i personaggi trattati dal nostro autore sono considerati dalla Bibbia in un ordine storico che è già dall’inizio un ordine di grazia. Tutt’ora il canone Romano cita alcuni fra di loro come facenti parte dei “santi”. Poco importa poi se l’uno o l’altro di essi possa sembrare mitologico più che storico: anche se Melchisedek, Enoch o Giobbe raccogliessero i tratti di più persone storiche, ciò non metterebbe in discussione il carattere storico dei typoi che rappresentano. “Je me refuse avec l’Eglise à les rejeter dans la catégorie des mythes. Ils attestent qu’il y a eu parmi le païens de saints prêtres, de saints rois, de saints justes” (J. Daniélou, Les saints païens de l’ancien testament, Seuil, Paris 1955, 11-12). 10 È una tesi classica del pensiero cattolico. Vedi H. U. von Balthasar e la sua introduzione al libro di J. Danièlou Prayer: mission of the Church, Eerdmans, Grand Rapids 1996 (Prayer), xiii. 11 “A un premier degré, et qui n’est pas chrétien par essence, mais qui se trouve faire partie du patrimoine historique du christianisme, et qui se dégrade d’ordinaire en dehors de lui, le mystère chrétien est le mystère de la création. J’entends par là non seulement une dépendance originelle de l’Univers par rapport à un Dieu personnel et transcendant, mais la dépendance actuelle de toutes choses à son égard; et par conséquent une présence de Dieu qui donne au Cosmos tout entier une valeur
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Dirà, tipologicamente, che anche “L’alleanza cosmica è già un’alleanza di grazia”.12 Daniélou si appoggia in questo giudizio su idee antiche come i logoi spermatikoi di Giustino, e sul testo nella lettera agli Ebrei che elogia la fede esemplare di tre uomini che vengono prima della chiamata di Abramo, Abele, Enoch, e Noè (Eb 11, 4-7), e parla di Melchisedek come di una persona addirittura superiore ad Abramo, “fatto simile al Figlio di Dio” (Eb 7, 3). A questo punto si aprono una serie di questioni circa la salvezza dei non-cristiani. Le tesi di Daniélou in questo campo sono state oggetto di molto apprezzamento e di molte critiche. Ad esempio, una tesi alla Gregoriana nel 1970 scritta da R.E. Verastegui argomentava per una “tendenza Daniélou” nell’interpretazione del significato delle religioni non-cristiani nella storia della salvezza, che si opporrebbe ad un’altra linea rappresentata dal “cristianesimo anonimo” di K. Rahner. Questo giudizio è stato recepito anche nel documento della Commissione Teologica Internazionale nel suo rapporto Cristianesimo e religioni (1996).13 Per i nostri fini è sufficiente qui ricordare che Daniélou affermava sia una lettura “positiva” della storia pre-cristiana come preparazione, sia la necessità in un mondo caduto che questa stessa storia fosse redenta e trasfigurata. Daniélou era cosciente della tentazione di affermare un “universalismo dissolvente”, un universalismo fatto più di buone intenzioni che di chiare distinzioni. In Le mystère du salut des nations, afferma chiaramente che la mistica plotiniana, ad esempio, è stata una “preparazione provvidenziale di cui il cristianesimo si è servito”.14 Nello stesso tempo, non si stanca mai di ribadire, con Pascal, l’esistenza di sacrale”. (Idem, Le signe du temple ou De la présence de Dieu, Gallimard, Paris 1942, 9). 12 Idem, Les saints paiens de l’ancien testament, Ed. du Seuil, Paris 1956, 29. 13 Per un’analisi della questione della priorità di Daniélou e non invece di De Lubac nel pensare e esporre ciò che si chiama “tendenza Daniélou”, si veda I. Morali, J. Daniélou e la teologia della salvezza dei non cristiani in H. De Lubac: Dati ed argomenti per il superamento della tesi di R. E. Verastegui sulla Tendence Daniélou, «Euntes Docete» LIII/1 (2000) 29-51. 14 J. Daniélou, Le mystère du salut des nations, Éd. du Seuil, Paris 1946, 54.
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“ordini” diversi: né la religione naturale, né la speculazione filosofica, sono dello stesso ordine dell’evento storico dell’Incarnazione del Figlio di Dio.15 È qui che bisogna focalizzare l’attenzione per capire come tenere insieme continuità e discontinuità, preparazione e trasfigurazione, nella vita e nella missione del cristiano. Su questo sfondo, riprendiamo l’affermazione fondamentale del pensiero di Daniélou sulla missione. Coincide con la tesi classica: la missione del cristiano è la continuazione della missione di Cristo, come impariamo dal vangelo di Giovanni: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo” (Gv 17, 18).16 Sarebbe interessante a questo proposito confrontare il testo Dio e noi di Daniélou con Il senso religioso di L. Giussani. A nostro parere ci sono tanti punti di contatto, tali che si potrebbe ipotizzare una dipendenza significativa del secondo dal primo, che lo predata di pochi anni e che si sa è stato letto e apprezzato da Giussani appena pubblicato. Egli lo dava infatti da leggere ai suoi studenti negli anni Cinquanta. L’insistenza sulla categoria di evento sarebbe un elemento importante in questo confronto. 16 In un piccolo libro meditativo pubblicato postumo con il titolo Contemplation: croissanie de l’Eglise (Fayard 1977), Danielou espone il nucleo del suo pensiero in proposito. Si tratta di un libro che nasce da una serie di conferenze o ritiri, come molti dei libri più divulgativi del nostro Autore, e conserva il carattere talvolta estemporaneo di questo tipo di insegnamento. Il testo segue uno sviluppo Trinitario: dall’incontro con il Dio vivente, ai presupposti di questo incontro nella storia della salvezza nell’Antico Testamento, all’incontro con Cristo e il mistero della redenzione nel Nuovo Testamento, e infine all’esistenza nello Spirito nella Chiesa. Per Daniélou la missione non era una sottocategoria della teologia. Come gli altri temi che lo preoccupavano particolarmente, come i sacramenti (prolungamento dei magnalia dei, le grandi azioni di Dio nella storia) e il significato della storia, la missione costituisce nel pensiero di Daniélou una linea continua che non si delimita facilmente. Nella prefazione a firma di Von Balthasar, leggiamo ciò che sarà evidente a ogni lettore di Daniélou: anche se si può individuare una struttura classica, ben fondata nella tradizione della Chiesa e nella Scrittura, questa struttura ha le maglie abbastanza larghe da ospitare considerazioni di ogni genere, con un movimento a volte circolare, a volte più errabondo ancora. Fa parte dello charme dell’Autore; ma è anche una caratteristica profonda e importante del suo lavoro. Ogni tema si intreccia con ogni altra, ed è difficile dare un’esposizione completa che non sia, per la sua completezza stessa, un po’ aggrovigliata. Credo che in questo Daniélou si sentiva giustificato dallo stile che ha imparato nei suoi studi patristici: non esita di 15
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Come si vede da questa citazione, parlare di missione implica i rapporti intratrinitari. La missione del cristiano è il prolungamento (per usare una parola cara a Daniélou) della missione del Figlio, e si svolge quindi in stretta analogia alla sua. Possiamo sintetizzare questa analogia con due parole: incarnazione e redenzione, che sono la trasposizione sul piano della storia della salvezza della dicotomia con cui abbiamo cominciato. Incarnazione L’incarnazione del Figlio di Dio era il suo ingresso nel mondo. Anche se ci sono parole dure contro il “mondo” nel quarto vangelo, e la tentazione nel deserto in Lc 4 e Mt 4 indica il primato dello spirituale, sarebbe sbagliato interpretare questi elementi nel senso dualistico di un’opposizione tra materia e spirito. Dio si è fatto uomo, ha vissuto, sofferto, è morto ed è risorto nella sua umanità. Per Daniélou, ciò significa che il mondo creato, anche se decaduto e sottomesso alla morte, rimane un mondo buono. Il mondo creato da Dio è lo stesso mondo che Egli è venuto a salvare. Negli anni della sua maturità, in Les laics et la mission de l’eglise, scriverà che “niente sarebbe più falso che affermare che c’è da una parte la Chiesa e dall’altra il mondo ateo. Il mondo non è ateo. Ci sono degli atei nel mondo, ma il mondo stesso è divino. Gli atei sono un accidente”.17
citare poesie o pensatori lontani dal suo campo specifico, né di scrivere in modo poetico e di lasciare spazio ai salti intuitivi che gli erano naturali, forse anche perché così facevano i grandi del terzo e quarto secolo che più di altri hanno formato il suo spirito. In questo si potrebbe forse vedere qualche somiglianza fra gli scritti di Daniélou e quelli del suo amico e compagno di banco a Fourvière, von Balthasar. Ma a differenza di quest’ultimo, Daniélou ha insegnato per tutta la vita, sia nelle aule sia nei ritiri per laici, e ha imparato in questo modo a coniugare profondità e semplicità. Questo è un elemento importante che lo avvicina allo stile di J. Ratzinger. 17 J. Daniélou, Les laics et la mission de l’eglise, Editions du centurion, Paris 1962 (=Les laics), 119.
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Di conseguenza, il missionario dovrà “incarnarsi” nella cultura in cui si trova, farsi tutto a tutti, come indica san Paolo. Daniélou era in contatto con molte persone che avevano questa attenzione, come l’abbé Monchanin18 in India. In uno dei suoi libri, elogia un chierico a Damasco che era riuscito a farsi accettare negli ambienti musulmani perché parlava perfettamente l’arabo.19 Mentre questo esempio è debole, mostra che c’è un’urgenza nella carità che determina la formazione di competenze intellettuali, umane, scientifiche, e che porta il missionario ad assumere il carattere di un determinato ambiente per lievitarlo. Queste considerazioni nascono immediatamente dalla contemplazione della condiscendenza di Cristo e la sua disponibilità a condividere in tutto, eccetto il peccato, la condizione umana. È un’ideale molto impegnativa se realizzata seriamente. Non è cosmesi, ma la condivisione seria della vita altrui. Pensiamo, come esempio nella vita personale del nostro autore, all’enorme energia richiesta a Danielou per i suoi impegni di insegnamento e scrittura, per dar vita e spessore al lavoro culturale missionario del Circolo san Giovanni Battista, alla rivista Dieu Vivant, agli incontri con gli intellettuali, come quelli con George Bataille20 organizzati da Marcel Moré, agli interventi in televisione. . . e osserviamo come Daniélou ha fatto tutto ciò senza glissare sull’essenziale della fede, vediamo che l’incarnazione vissuta richiede grande dedizione. Uno degli esempi più 18
Jules Monchanin, dopo qualche anno di ministero a Lyons, aveva sentito la chiamata a impiantare la Chiesa in India partendo dalla cultura dei Veda. Intendeva un’inculturazione “come se fossimo nell’anno 34 dell’era cristiana”. Il contatto con lui ha profondamente nutrito il pensiero di Daniélou e il suo gruppo di giovani studenti nel Circolo san Giovanni Battista. Vedi J. Monchanin, Mystique de l’Inde, mystère chrétien, Fayard, Paris 1974. 19 Les laics, 122. 20 George Bataille, noto per le sue tesi sull’erotismo e per un libro dal titolo Expérience intérieure, che cerca di creare una spiritualità naturale indipendente di ogni dogmatismo, e di guardare a grandi mistici come Giovanni della Croce e Teresa di Lisieux – senza tuttavia credere in Gesù, la Trinità, o la Chiesa. Per una discussione dettagliata e illuminante sul rapporto fra Daniélou e Bataille, vedi S. Lewis, Contestation and Epektasis in the “Discussion on Sin”, «Analectica Hermeneutica» 4 (2012) 1-33.
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brillanti di questa condivisione è il dialogo pubblico con l’ebreo André Chouraqui21 , in cui Daniélou ha dato prova di profonda conoscenza e sincera simpatia per le posizioni del suo interlocutore, e allo stesso tempo è riuscito ad esprimere in pubblico il suo desiderio che l’altro incontrasse Cristo. “In quanto sono cristiano, devo annunciare Gesù Cristo a lei, e spero una sola cosa, che lei lo riconosca – il che non mi impedisce di rispettare profondamente i valori del giudaismo”.22 È anche vero, e Daniélou lo dice frequentemente, che il missionario deve fare i conti con la sua incompleta santità. Non può iniziare dal Cantico del Sole, scrive ad un certo punto del Mistero della salvezza delle nazioni, ma deve ricordare che anche la missione di san Francesco comprende il dolore delle stimmate. Scrive ancora, a proposito delle periferie in cui amava avventurarsi: bisogna che abbiamo delle anime di diamante per essere capaci di mescolarci [con i pagani] senza essere contaminati. È il marchio di un’anima veramente pura di essere capace di passare attraverso tutte le cose, ritenendo ciò che è buono e eliminando ciò che è cattivo. [. . .] Tutto sarebbe mancato se, andando verso di loro, fossimo noi a diventare come loro e non loro che diventano come noi. Allora ci sarebbe incarnazione, ma senza trasfigurazione, non vale nulla.23
Redenzione Che cosa si intende per “trasfigurazione”? Per Daniélou, il punto irriducibile nell’incontro con gli altri è il bisogno di salvezza. Tutta la simpatia reciproca, lo studio, l’avvicinarsi all’altro, è un prerequisito Pubblicato con il titolo Dialogo con Israele. J. Daniélou, Et qui est mon prochain?, Stock, Paris 1974, 150. 23 Idem, Le mystère du salut, 88. Sia detto a margine: la prudenza non era una virtù connaturale a Daniélou. Era per natura piuttosto un uomo degli estremi, allo stesso tempo mistico e uomo d’azione, nella tradizione dei più grandi gesuiti. Era consapevole di correre dei rischi, e si ha l’impressione che i numerosi testi simili a quello che ho citato, sia nelle sue conferenze sia nei suoi diari privati, erano un richiamo si ai suoi ascoltatori, ma anche un richiamo a se stesso. 21 22
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necessario ma insufficiente per operare la salvezza dal peccato e dalla morte. Assieme alla lettura positiva della creazione, occorre anche guardare il fatto che il mondo è caduto e anela alla redenzione che è incapace di operare con i propri mezzi. In questo senso, l’Incarnazione appare non come un fine, ma come un passo necessario e intermedio attraverso cui la divinizzazione dell’umanità avviene. Danielou insiste su questo punto. Scrive: “se dobbiamo rivolgerci verso il mondo, è affinché possiamo rivolgere il mondo verso Cristo, e l’Incarnazione è il primo tempo di un movimento che deve essere compiuto nella Trasfigurazione, cioè nella penetrazione del mondo dalla luce di Cristo”.24 Come ha affermato lungo tutta la sua vita, citando le varie formulazioni patristiche, Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio. Questo passaggio non avviene a buon prezzo. Da Cristo ha richiesto la morte. La sua missione incontra il male, e nella collisione con esso si scatena la guerra nel cielo di cui leggiamo nell’Apocalisse. Nel suo Essai sur le mystère de l’histoire, Daniélou scrive che “la missione non è soltanto una presentazione del messaggio evangelico adattato alle civiltà differenti. Si tratta di un conflitto contro le forze del male. E questo conflitto si gioca nei misteriosi combattimenti della santità. È per mezzo della preghiera e la penitenza che i demoni sono cacciati”.25 Tutto ciò suggerisce che anche dal missionario un prezzo alto sarà richiesto. Ricordiamo quel titolo drammatico: “Ciò che deve vivere e ciò che deve morire” da Le mystère di salut des nations. La stessa serietà che motiva lo studio e il lavoro culturale di entrare in contatto con l’altro, fino a farsi cinese con i cinesi, porta fino alla croce, al sangue versato per amore. E la vittoria avviene attraverso il fallimento totale, offerto al Padre, come è stato per Cristo. Il sacrificio, però, ha come scopo la vita. Le doglie del parto sono il preludio alla bellezza di una nuova vita, non lo scopo stesso.26 È Ibidem, 71. Idem, Essai sur le mystère de l’histoire, Éd. du Seuil, Paris 1953 (=Essai), 207. 26 Vedi Rm 8. 24
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notevole come per Daniélou la dinamica che abbiamo rapidamente disegnato sfoci senza soluzione di continuità nelle espressioni più varie, persino nella politica. Qui ci limitiamo a fare due brevi esempi di questo, forse per invogliare qualcuno a studiare più a fondo questo aspetto del pensiero di Danielou. Egli amava citare Giorgio La Pira, come esempio dell’integrazione tra fede e vita pubblica. E la notte prima della sua morte, aveva parola altissime per una figura di uomo pubblico santo (e perciò missionario), Sant’Ivo: Che sete di vedere riconosciuta la realtà delle cose, la grandezza di Dio confessata da tutti, la verità che è l’ordine delle cose riconosciuta e confessata dalle persone, e attraverso loro, l’ordine ristabilito nella società! Perché sant’Ivo, non lo dimentichiamo, è stato un teologo, un predicatore, ma anche allo stesso tempo un uomo di diritto, un uomo della giustizia, cioè un uomo pratico, un uomo che cercava di far passare nell’esistenza cristiana la verità della fede cristiana, di far riconoscere la dignità dell’uomo perché è un figlio di Dio, di difendere il diritto di coloro che erano oppressi dai soldi o dalla potenza.27
La fretta missionaria Fino a qui, abbiamo visto per sommi capi una spiritualità missionaria abbastanza classica. Questo era un punto di onore per Daniélou, che non si vedeva come il proponente di una soluzione radicalmente nuova. Non voleva alterare il peso relativo negli elementi essenziali della vita cristiana. Piuttosto volevo ricuperare alcuni elementi perenni dalla Chiesa dei primi secoli per illuminare i bisogni della Chiesa di oggi. Ciò che rende la sua proposta originale non sta in una nuova articolazione degli elementi in gioco, ma nella completezza della sua visione, che include la storia cosmica con la storia della salvezza in un intero continuo, il che lo rende altamente pedagogico.
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J. Daniélou, Homélies au pardon de Saint Yves le 19 mai 1974, «Bulletin des amis du Cardinal Daniélou» 1 (1975) 20.
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Assieme alla visione equilibrata che abbiamo cercato di descrivere sopra, Daniélou ha spesso insistito su un’altra questione, che situa la missione al cuore del significato del tempo storico presente. Egli dice, in una parola, che con la missione si affretta la parusia. Nelle pagine dell’Essai sur le mystère de l’histoire, sviluppa quest’idea nel capitolo intitolato “La speranza”. Da una parte, notiamo la sua fede: Fra amici, tutto è comune; fra Dio e noi, tutto è comune; essendo Figli, abbiamo un diritto ai beni divini. [. . .] Aspiriamo a che ciò che si è cominciato si realizzi, che la vita invada tutto. . . . Attendiamo che la salvezza acquisita dal Cristo sia estesa a tutti gli uomini. E questo l’attendiamo non per la fine dei tempi, ma all’interno del tempo. È l’oggetto più immediato della speranza.28
Daniélou nota che uno può avere il desiderio di essere presi da Gesù con una tale forza da non poter più ritornare agli idoli che tante volte lo hanno sedotto. “Ma il Signore è saggio, e non vuole darci questo. Da che è attraverso le nostre lente fedeltà e i nostri umili esercizi di preghiera, le nostre umili pratiche di carità, che si elabora in noi la sostanza incorruttibile dell’amore spirituale e non il fervore di un istante che passa come un fuoco di paglia”.29 Daniélou si chiede: “cosa possiamo fare, già ora, per lavorare alla liberazione dell’uomo?” Sa, e l’ha scritto molte volte, che il lavoro del cristiano non può eliminare la sofferenza e il male. Sa pure che per quanto riguarda il tentativo importante di lenire le sofferenze, di dar da mangiare agli affamati e curare i malati, non è detto che i cristiani siano più bravi a farlo che i musulmani o gli atei. Ben spesso, dice Daniélou, gli atei sono altrettanto capaci, o anche più capaci dei cristiani, di risolvere problemi di ordine materiale. Ammette tutto questo, ma Daniélou ricorda pure la parola di Péguy, che ha detto che “non lavorare, e pregare per riempire ciò che manca, 28 29
Essai, 336-337. Essai, 338.
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trovo che sia maleducato”.30 È una parola precisa e efficace: più che illogico, il quietismo è maleducato, ingrato, meschino. Un grande cuore vuole dare qualcosa a colui che ama. Un grande cuore vuole partecipare alla battaglia, non soltanto godere dei frutti della vittoria. In un testo dedicato ai laici scrive che “l’opera è di Dio. Ma a questa opera ognuno deve cooperare. Ogni cristiano è operaio con Dio”.31 È in questo senso che Daniélou cita la seconda lettera di Pietro (2Pt 3:11) e il finale del vangelo di Matteo (Mt 24:14). La scrittura afferma che c’è qualcosa che possiamo fare per affrettare la liberazione e la trasfigurazione del mondo. Possiamo lavorare all’evangelizzazione del mondo, affrettare la conversione delle anime in vista della parusia, cioè il compimento di tutte le attese. “Noi siamo all’interno di questo processo di compimento”.32 A margine, è interessante notare la somiglianza tra questa idea e il recente testo del papa emerito (Urbaniana, 23 ottobre 2014), che riecheggia alcuni dei temi più cari a Daniélou. Vi troviamo due linee in particolare, il movimento di compimento delle attese dei popoli, e nello stesso tempo la loro ricchezza che e’ chiamata a far parte del vestito multicolore della Chiesa. Ratzinger scrive: Le religioni sono in movimento a livello storico, cosi come sono in movimento i popoli e le culture. Esistono religioni in attesa. Le religioni tribali sono di questo tipo: hanno il loro momento storico e tuttavia sono in attesa di un incontro più grande che le porti alla pienezza. Noi, come cristiani, siamo convinti che, nel silenzio, esse attendano l’incontro con Gesù Cristo, la luce che viene da lui, che sola può condurle completamente alla loro verità. E Cristo attende loro. L’incontro con lui non è l’irruzione di un estraneo che distrugge la loro propria cultura e la loro propria storia. È, invece, l’ingresso in qualcosa di più grande, verso cui esse sono in cammino. Perciò quest’incontro è sempre, a un tempo, purificazione e maturazione. Les laics, 122 Idem, Approches du Christ, Grasset, Paris 1960, 228. 32 Essai, 340.
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Peraltro, l’incontro è sempre reciproco. Cristo attende la loro storia, la loro saggezza, la loro visione delle cose.33
Il missionario ha ricevuto il dono della fede e desidera, con lo stesso cuore di Cristo, estendere il dono a coloro che non l’hanno ancora conosciuto e abbracciato. Ragionando per analogia con l’Incarnazione del Figlio di Dio, Daniélou afferma che la missione avviene nell’amore che va alla ricerca delle persone che ama. La parola di Dio viene a cercare le persone perché le ama. Il punto di partenza per ogni apostolato è di amare come Cristo ama; cioè, con un amore che realizza nell’altro ciò che Cristo ama in lui. Questo è l’atteggiamento basico del missionario, amare nelle anime ciò che lo Spirito cerca di compiere in loro, di co-spirare con questa azione dello Spirito che cerca di rendere ogni anima umana un capolavoro.34
Il missionario è come la mano di Cristo, che vuole risanare il cieco nato; come la Sua voce, che vuole consolare la vedova di Nain; è come i suoi piedi che hanno camminato per tutta la Giudea annunciando la liberazione dei prigionieri. Ancora di più, se notiamo questa bella parola, “co-spirare”, il missionario respira insieme a Cristo, in qualche modo egli si muove assieme allo Spirito inviato dal Padre e dal Figlio. Il missionario partecipa realmente alla missione eterna del Figlio, e sa, per usare la simpatica formulazione di Daniélou, che “tutti, senza eccezione, i Maometti, i Confucio, i Karl Marx, tutti quelli che volete si troveranno ultimamente davanti alla Trinità. È semplicemente caritatevole avvisare la gente anzitempo”.35 Dentro a quel tono vivace e sorridente troviamo l’esperienza che sta al cuore della missione secondo Daniélou, la carità. È l’amore del Padre per il mondo che lo spinge ad inviare il Figlio (1Gv 3,16). È l’amore del Figlio che raggiunge i discepoli e li converte. Alla cena dell’addio, egli svela i nessi: “come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato J. Ratzinger, Discorso all’Università Urbaniana, 23 ottobre 2014. Prayer, 108. 35 J. Daniélou, Mythes paiens et mystère chrétien, Fayard, Paris 1966, 89.
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voi. Rimanete nel mio amore”. (Gv 15, 9) E prosegue: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. Di conseguenza, occorre “dare la vita per i propri amici”. E questo sacrificio ha come scopo la fecondità: “io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. (Gv 15, 12-16) Infine, ritorniamo alla frase con la quale abbiamo iniziato: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo”. (Gv 17, 18) Nel contesto dell’amore crocifisso, si può comprendere un’affermazione che riprende il senso aperto e rispettoso verso la varietà delle culture con cui abbiamo aperto questo articolo. Daniélou asserisce in Le mystère de l’avent che “il grande ostacolo all’unità e di voler esser al centro. [. . .] Nella misura in cui vogliamo essere al centro, cioè nella misura in cui Cristo non è l’unico centro, noi ci opponiamo a lui”.36 Fino a questo punto, l’affermazione non è particolarmente sorprendente. Ma Daniélou scrive anche che persino la chiesa Latina non è il centro, nel senso che la chiesa Latina non può imporre le sue strutture sulla chiesa dell’Est, né le sue idee su tanti temi. Non è facile immaginare e accettare che ci sia una chiesa veramente Russa, Indiana, o Cinese – ma per Daniélou, proprio questo vuol dire l’unità. Il rispetto per ciò che costituisce l’altro nella sua essenza è la condizione dell’unità nella carità, e si oppone all’imperialismo o la pressione esterna. Questo rispetto presuppone la croce, presuppone la rinuncia al proprio egoismo, imperialismo, volontà di imporsi sugli altri, e desiderio di essere servito dagli altri. “Dobbiamo invece decidere di essere i servi degli altri. Cristo stesso ha fatto questa rinuncia: la morte di Cristo è la morte simbolica di tutto il popolo ebraico con i suoi privilegi, significa accettare in lui la distruzione di tutto ciò che esisteva prima, in modo che i pagani possano entrare nella Chiesa”.37 Per Daniélou, la missione doveva essere popolare e accessibile all’uomo comune. Un suo amico, Xavier Tilliette, ha scritto che egli “deplorava la speculazione teologica, decorata con il nome confuso della ricerca, Idem, Le mystère de l’avent, Éd. du Seuil, Paris 1948, 155. Notiamo l’assonanza con il richiamo di Francesco di essere “decentrati”. 37 Essai, 157. 36
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e anche la sacramentalità pastorale utopica e senza radici, senza l’esperienza vera e molteplice della gente, delle anime, dei loro bisogni e la loro fame. Sfidava la teologia del laboratorio con tutta la sua forza”.38 Daniélou stesso, con meno enfasi e più profondità, diceva che “dobbiamo sperare che la massa degli uomini sia cristiana. La nostra posizione oggi non può essere diversa da quella dei primi apostoli, che intendevano portare il vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini, non soltanto ad una élite spirituale, ma ai poveri, cioè alle masse, la gente umile, le famiglie”.39 Un esempio di missione Il missionario Daniélou univa in se stesso le profondità della vita mistica e l’azione più febbrile, la simpatia per ogni cultura e il radicamento stabile dentro alla storia cristiana e occidentale. Ha trovato la sua identità, l’unità della propria vita, come immagine e somiglianza del Missionario divino, Gesù Cristo. Un esempio particolarmente eloquente che illustra l’identità missionaria di Daniélou riguarda il suo rapporto con il suo fratello Alain. Alain è nato nel 1907, due anni dopo Jean. A differenza del primogenito, ha vissuto dalla tenera età un’avversione all’educazione cristiana che sua madre offriva loro. Alla fine della sua adolescenza, ha dichiarato di essere omosessuale, si è traslocato, e ha cominciato a convivere con un amante. A causa di questo atto, sua madre Madeleine ha smesso di sostenerlo economicamente. Dopo la rottura con la famiglia, Alain ha presto lasciato la Francia. Nei suoi viaggi ha studiato la musica folkloristica di paesi come la Cambogia, l’Afghanistan, e l’Algeria. In seguito, è andato in India e ha lavorato per un tempo alla guida della scuola di musica che R. Tagore ha fondato. Poi è andato a Benares ed è stato iniziato come induista. 38 39
X. Tilliette, “Avant-propos”, in Carnets, 16. J. Daniélou, La risposta dei teologi, in A.A. V.V. La risposta dei teologi, Queriniana, Brescia 1969, 50.
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Nel ricordo di quelli anni, Alain ha parole amare per tutti i membri della sua famiglia, ma per Jean ha anche delle parole di stima. Scrive, per esempio, “egli aveva, durante un tempo, celebrato una messa per gli omosessuali. Cercava di aiutare i prigionieri, i delinquenti, i giovani in difficoltà, le prostitute. Non aveva alcun pregiudizio borghese”.40 E ancora: “Verso di me, Jean è stato sempre perfettamente gentile. Ha conservato tutta la vita un rimorso per il modo in cui la famiglia mi aveva trattato, lasciandomi senza appiglio. L’ha spesso detto agli amici comuni”.41 Esistono numerosi riferimenti ad Alain nei Carnets di Jean Daniélou, il diario privato in cui ha tenuto traccia dei suoi ritiri e pensieri più privati per decenni. Spesso sono preghiere piene di amore per il fratello fisicamente e spiritualmente lontano. Troviamo in quelle pagine anche una lettera scritta ai superiori nel 1936, in cui Jean elenca i motivi che lo portano a desiderare di essere inviato come missionario in Cina. Il terzo di questi motivi dice che “una vita di gesuita non è completa senza la partecipazione alla passione del nostro Signore”. Daniélou ammette di avere paura che si rilasserà in questa disponibilità a condividere la passione di Cristo, e ritiene che le difficoltà della vita missionaria sarebbero un aiuto in tal senso. Ma l’ultima riga è ciò che veramente sorprende. Scrive: “mi sembrerebbe di non essere vissuto invano se, a causa di essa, l’anima di Alain sia salvata e non so quale misura di immolazione Dio desidera da me per questo”.42 Qualche anno più tardi, durante il grande ritiro del “Terzo anno”, scrive nella stessa vena: “Gesù, ho capito che tu non voglia che io distingui i miei peccati dai peccati altrui, ma che io entri più profondamente nel tuo cuore e che, come tu prendi i peccati del mondo, anche io prenda i peccati del mondo: che io mi consideri responsabile dei peccati di quelli che tu vorrai: di Alain, dei miei fratelli del Terzo anno, di ogni uomo che ti piacerà”.43 A. Daniélou, Le chemin du labyrinthe, Editions du Rocher, Monaco 1993, 37. Ibidem, 36. 42 Carnets, 50. 43 Ibidem, 308-9. Marie-Josephe Rondeau, curatrice dei Carnets, mi ha confermato questo fatto nel corso di un’intervista privata nella sua casa parigina il 24 ottobre 2013.
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Il martirio, lo scambio mirabile della propria vita a favore della vita di chi si ama: questo è il fuoco segreto nel cuore missionario. Questa è la nostra somiglianza con la missione del Figlio, inviato dal Padre nel mondo perché gli uomini e le donne abbiano la vita, abbondantemente.
Lo ha anche scritto, nel suo articolo “Jean Daniélou théologien”, in J. Fontaine (Ed.), Actualité de Jean Daniélou, Cerf, Paris 2006, 147, nota 2. In diversi altri passaggi dei Carnets Alain appare come il destinatario di preghiere.
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Ratzinger sulla base antropologica della missione Vincent Twomey SVD Maynooth
La missione della Chiesa è uno dei temi fondamentali che caratterizzano la teologia di Joseph Ratzinger; tutto il suo lavoro teologico è mosso dal suo forte senso della missione che Dio ha dato alla Chiesa. La sua prima area di specializzazione fu la teologia fondamentale, che scelse, come ci ha detto egli stesso, per contribuire a dare una risposta attuale alla questione della ratio spei, la questione del motivo della nostra speranza (1Pt 3:15). E così, sin dall’inizio della sua attività come docente, si specializzò in teologia fondamentale e mostrò un particolare interesse per la storia delle religioni e gli studi religiosi comparati. La sua frequentazione fin da subito delle religioni del mondo è stata per lui una fonte d’ispirazione straordinaria dagli anni Novanta in poi, quando il rapporto tra il cristianesimo e le religioni del mondo divenne un argomento centrale in teologia e altrove. In qualità di perito al Concilio Vaticano II, ebbe accesso diretto al decreto Ad Gentes sull’attività missionaria della Chiesa, ma anche ad altri documenti più specificamente teologici, prodotti dal Concilio, come ha indicato egli stesso in un articolo successivo al Concilio, tutti contrassegnati dall’idea missionaria1 . Nella fase iniziale della sua carriera di teologo, si era anche confrontato con quelle teologie della speranza che, a loro volta, si trasformarono nelle varie teologie della liberazione e che tendevano a interpretare la salvezza sempre più in termini intramondani e in realtà politici. Questi sono tutti argomenti su cui vale la pena soffermare l’attenzione al fine di delineare una teologia della missione, ma essi sono anche così ricchi e vasti da 1
Cfr. J. Ratzinger, “Konzilsaussagen über die Mission ausserhalb des Missionsdekrets” in J. Schütte, Mission nach dem Konzil, Mainz 1967, 39.
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Ratzinger sulla base antropologica della missione
non poter essere trattati in questa sede. Ho preso la decisione di limitare qui il mio contributo a un argomento più circoscritto, cioè di delineare molto brevemente il modo in cui la coscienza può essere vista come base antropologica della missione della Chiesa. A mo’ di introduzione al mio argomento principale, ho intenzione di tratteggiare un primo tentativo sviluppato da Ratzinger al tempo del Concilio di delineare la sua più profonda comprensione della missione della Chiesa in una prospettiva oggettiva, prima di passare alla prospettiva soggettiva, che sarebbe la base antropologica per la missione. La Chiesa: segno tra le nazioni2 L’evento Cristo ha decretato il destino del mondo. È tale fatto l’origine della responsabilità della Chiesa nei confronti del mondo. Questo è il vero contenuto dell’assioma di Cipriano “salus extra ecclesiam non est”, se correttamente compreso, ovvero dal punto di vista delle forze in azione per la salvezza di ognuno dentro e fuori la Chiesa visibile.3 Come possa essere così è difficile da dire, ma Ratzinger prova a dare il seguente suggerimento. Le moderne ricerche scientifiche indicano che tutto l’essere del mondo si caratterizza per una storia ascendente che culmina nell’irruzione dello spirito. Lo spirito è essenzialmente apertura all’Assoluto e questo perché il mondo diventa una cosa sola [Einung] con l’Assoluto. La fede porta a compimento la comprensione umana della direzione della storia mostrando che lo scopo del mondo è, davvero, l’unione reale di tutto ciò che esiste con Dio, unione che solo Dio può operare. La fede aggiunge il fatto che “la decisiva irruzione finale, che trascende totalmente l’irruzione della natura in spirito, è avvenuta in Gesù Cristo, nell’uomo che era allo stesso tempo Figlio di Dio e davvero una sola cosa con Dio”. Di conseguenza, il significato 2
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“Kirche – Zeichen under den Völkern”, (pubblicato per la prima volta nel 1964) in J. Ratzinger, Gesammelte Schrifiten [=JRGS], Gerard Ludwig Müller (a c. di), Freiburg, Basel, Vienna 2010, 8/2, 1021-34. Cfr. ibidem, 1032.
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del resto della storia è “entrare nell’evento Cristo, nel quale lo scopo della storia è divenuto realtà”.4 Il rapporto tra la storia ascendente del cosmo e la venuta di Cristo è tale che la prima è una precondizione della seconda (o una sua preparazione), mentre, d’altra parte, Cristo assicura al mondo ciò che esso non sarebbe mai riuscito ad ottenere da solo. Da allora, la storia riceve il suo significato da Cristo, il quale influenza la storia attraverso la natura “rappresentativa” o vicaria della sua azione. Ciò significa che le persone possono trovarsi nello stadio preparatorio, anche dopo la venuta di Cristo, stato chiamato tradizionalmente dalla teologia “votum ecclesiae”. E, ovviamente, tali persone possono sbagliare direzione in tale stadio di preparazione. Come ciò avvenga in pratica per quanto riguarda i singoli individui lo sa solo Dio. Ratzinger arriva alla conclusione che la funzione della Chiesa nella realtà intera è rendere l’avvento di Cristo presente nella storia ed essere il compimento, l’accrescimento di tale avvenimento penetrando la storia intera.5 Ciò si realizza soprattutto nell’insieme del sistema sacramentale centrato sull’Eucarestia inteso come liturgia cosmica.6 L’essenza e il significato della missione, allora, non significano che la salvezza dei non-cristiani è possibile soltanto attraverso l’incorporazione visibile alla Chiesa. Piuttosto significa che “la salvezza di Cristo presente nella Chiesa è un potere che traina, che ha lo scopo di attrarre a sé tutto il cosmo; inoltre, la missione appartiene essenzialmente a [la natura della Chiesa come segno], essa è l’atteggiamento [Gestus] di apertura,
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Ibidem, 1033. “La Chiesa è così il segno pubblicamente eretto dell’intento salvifico di Dio nei confronti del mondo, l’effettivo sacramento dell’unione fraterna di Dio con l’umanità”. (Ibidem, 1034) “. . .[il Santissimo Sacramento] porta in sé una dinamica che mira alla trasformazione dell’umanità e del mondo nel nuovo cielo e nella nuova terra, nell’unità del corpo risorto di Cristo”.. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Milano 2001, 83. Cfr. anche p. 86. Per un approccio al tema più completo, si consulti il suo “Kommunion – Kommunität – Sendung”, in JRGS 8/1, 308-332 (soprattutto 322-7); “Eucharistie und Mission” in JRGS 11, 397-423.
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di essere-per-l’-altro, senza il quale essa non potrebbe più essere se stessa”.7 La missione di Cristo è stata fondare la Chiesa non fine a se stessa ma per il bene della non-Chiesa, l’umanità intera, ciò che il Nuovo Testamento chiama “i molti”.8 Proprio come Cristo morì per i molti, la Chiesa, partecipando alla sua missione, esiste per i molti. “Questa guarigione del tutto si verifica, per volere di Dio, nell’antitesi dialettica tra i pochi e i molti, in cui i pochi sono il punto di partenza dal quale Dio cerca di salvare i molti”.9 Questa, allora, (per quanto abbozzato, per mia stessa ammissione, molto inadeguatamente), è la comprensione ratzingeriana di base della missione della Chiesa all’interno della storia della salvezza, in una prospettiva, per così dire, oggettiva.
La salvezza nella sua applicazione al soggetto E cosa avviene per quanto riguarda l’aspetto soggettivo della questione? In altre parole, alla luce dell’interpretazione conciliare dell’assioma “salus extra ecclesiam non est”, una persona come viene salvata al di fuori dalle frontiere visibili della Chiesa?10 Ratzinger si accosta alla questione cercando di scoprire di cosa, secondo le Scritture, ci sia bisogno per essere cristiani. In primo luogo, il Nuovo Testamento insegna che “se si ha l’amore, si ha tutto”. Ma nessuno ha veramente l’amore (cfr. Rm 3,23: tutti hanno peccato e non meritano la gloria di Dio): il nostro amore è infangato e deformato dall’egoismo. Dal momento che tale è la condizione umana, da quel punto di vista per la legge noi saremmo condannati, se non fosse per il fatto che Cristo paga con l’eccedenza del suo amore vicario il deficit del nostro amore. C’è bisogno solo di una cosa: che apriamo le mani e accettiamo il Op. cit., JRGS 8/2, 1032. Cfr. Rm 5:12-21; Mc 10.45 par, Mc 14:24 par. 9 J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Queriniana, Brescia 2005, 94. 10 Quanto segue si basa su Idem, “Kein Heil außerhalb der Kirche?” in op. cit., JRGS 8/2, 1050-77. 7 8
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dono della sua misericordia. Questo gesto di aprirci al regalo dell’amore vicario del Signore viene chiamato da Paolo “fede”.11
Seguendo Yves Congar, Ratzinger dice che la fede nella sua pienezza presuppone tutta la pienezza di quelle realtà testimoniate dalla Bibbia, ma che c’è anche qualcosa come una “fede prima della fede”, la cui natura è difficile da determinare, se non dicendo che è più della semplice buona volontà. Più precisamente, è l’opposto di ciò che gli antichi chiamavano “hubris”, autogiustificazione; è ciò che nella Bibbia viene definito “semplicità di cuore”12 , come nell’espressione “i poveri di spirito”, gli anawim. La fede sviluppata appieno è un’estensione di tale atteggiamento. Il Nuovo Testamento, dunque, ci dà due risposte, in apparenza contraddittorie, ma che di fatto formano un insieme unitario: da una parte, “L’amore da solo basta”, e dall’altra “solo la fede basta”. Entrambi, insieme, esprimono un’inclinazione ad andare oltre se stessi, in cui la persona umana inizia ad abbandonare il proprio egoismo e a stendere la mano verso l’altro. Per questo motivo, il fratello, il compagno è il luogo in cui viene messa alla prova tale inclinazione; in questo “tu”, il “Tu” di Dio viene incontro alla persona in incognito.13
Ma, in aggiunta, si possono scegliere altre presenze in incognito sotto varie forme, come quelle molte realtà nel mondo religioso o profano, che per ognuno possono essere una chiamata o un aiuto nell’esodo salvifico oltre se stessi. Ma è anche chiaro che ci sono cose che non possono mai essere una presenza in incognito di Dio, come l’odio, l’egoismo edonistico o l’orgoglio. E queste non le si può scegliere14 .
Ibidem, 1070. Si veda il mio articolo, “Ratzinger on Theology as a Spiritual Sense” in D.J. Keating (Ed.), Entering into the Mind of Christ. The True Nature of Theology (Omaha, NB, 2-14), 49. 13 Op. cit., JRGS 8/2, 1070-1. 14 Cfr. ibidem, 1071, in cui si cita Congar. 11 12
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Ciò porta alla discussione approfondita di una concezione molto diffusa, ma falsa, della coscienza come semplice conseguenza delle convinzioni di una persona. Se la coscienza fosse paragonabile alle convinzioni personali, allora bisognerebbe vedere “nell’eroismo delle SS, la crudele esattezza della loro obbedienza perversa” una specie di votum ecclesiae (desiderio della Chiesa o battesimo implicito). Un caso così estremo mostra chiaramente la posta in gioco. Nella misura in cui la chiamata della coscienza venga paragonata a quelle convinzioni che hanno raggiunto un certo status sociale e storico, allora ciò equivale semplicemente all’affermazione che, essendo fedeli a qualsiasi sistema nel quale ci si ritrovi, ci si può salvare. Commenta Ratzinger che, sebbene oggi possa sembrare generoso e progressista sperare che un musulmano diventi un musulmano migliore, che un hindu diventi un hindu migliore, etc, tale visione si dimostra assurda se portata alle sue logiche conseguenze: per esempio che un cannibale debba diventare un cannibale migliore, una SS una SS migliore, etc. Ciò che è sbagliato in tale concezione è il rendere il sistema, l’istituzione, un idolo. Infatti, quello che salva l’uomo non è il sistema, ma qualcosa che trascende qualsiasi sistema: l’amore e la fede che mette fine all’egoismo e alla hubris autodistruttiva. “Le religioni sono una spinta verso la salvezza nella misura in cui inducono una persona ad un simile atteggiamento; sono d’impaccio alla salvezza nella misura in cui sono un ostacolo a tale inclinazione”.15 Inoltre, se le religioni esistenti e i sistemi ideologici potessero salvare le persone, allora l’umanità sarebbe chiusa in se stessa e divisa in identità culturali separate. Ciò significherebbe, in linea di principio, che la comunicazione con gli altri al di fuori della sfera culturale sarebbe esclusa a priori. “Per contrasto, la fede in Cristo implica la convinzione che vi è una chiamata a superare queste identità a se stanti e che soltanto in questo modo, andando verso l’unità dello spirito, la storia raggiunge la sua pienezza”.16
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Ibidem, 1072. Ibidem.
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Ma c’è un aspetto ulteriore da considerare, fa notare Ratzinger. Se per coscienza si intende una leale aderenza al sistema in cui ci si è ritrovati, allora non si tratta, come invece dovrebbe essere, di una coscienza intesa come “la chiamata di Dio comune a tutti”; ma, piuttosto, di un semplice riflesso sociale, del super-ego di un determinato gruppo. Egli domanda retoricamente: bisogna preservare tale super-ego o cercare di disfarsene dal momento che intralcia la vera chiamata dell’uomo? Difatti, la coscienza non dice a uno di essere hindu e a un altro cannibale e a un altro ancora musulmano e così via. “Ciò che dice ad ognuno di loro è che, nel bel mezzo dei loro sistemi e spesso in contrasto con essi, viene ordinato loro di fare una cosa, di essere umani nei confronti dei propri consimili, di amare. Soltanto in questo modo si realizza un votum (il ‘desiderio di Cristo’), quando si segue questa voce”.17 Vivere secondo coscienza significa non essere prigioniero delle proprie cosiddette convinzioni, ma rispondere alla chiamata che viene rivolta ad ogni essere umano: la chiamata alla fede e all’amore. Se si vive secondo questa legge di base del cristianesimo, allora probabilmente si può usare il termine “cristianesimo anonimo”, che Ratzinger definisce “discutibile”. In un altro contesto, egli scrisse più incisivamente: Nella sua teologia della storia delle religioni il cristianesimo non prende affatto partito per l’uomo religioso, per il conservatore, che si attiene alle regole del gioco delle sue istituzioni ereditarie; il “no” cristiano agli dèi significa piuttosto un’opzione in favore del ribelle che per amore della coscienza osa evadere dalle consuetudini. Forse questo tratto rivoluzionario del cristianesimo è stato tenuto coperto troppo a lungo sotto modelli conservatori.18
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Ibidem, 1073. Nell’edizione inglese, si veda la nota a piè di pagina che fa riferimento al suo libro Die Einheit der Nationen, 41-57. Edizione italiana con traduzione di G. Colombi: J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 19-20.
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Il cristianesimo e le religioni del mondo19 Forse, fra i tanti, il documento più importante emanato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai tempi in cui Ratzinger era prefetto è la Dominus Iesus (2000), proprio nel bel mezzo delle celebrazioni per l’arrivo del Terzo Millennio e come articolazione dell’intero scopo di tali celebrazioni. Tre anni più tardi, egli pubblicò una raccolta di articoli che, con una sola eccezione, aveva scritto negli anni Novanta quando il dibattito sulla teologia pluralista delle religioni era al suo culmine. La raccolta si intitola: Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo. Tutti gli articoli in questione trattano lo stesso argomento ma da prospettive diverse, ovvero “la fede in Gesù Cristo come unico Salvatore e la fede nell’indivisibilità della Chiesa da Cristo”.20 Nella prefazione, egli scrive che la pubblicazione della Dominus Iesus aveva provocato indignazione non soltanto nella moderna società occidentale, ma anche nelle grandi culture non cristiane, come quella dell’India. Venne descritto come un documento contrassegnato da intolleranza e da arroganza religiosa in contrasto con il mondo d’oggi. Ratzinger commenta che tutto ciò che la Chiesa cattolica poté fare fu “proporre con tutta umiltà la domanda che Martin Buber pose una volta a un ateo: «e se fosse vero?»”.21 E questo è il punto fondamentale. Di base le domande sorte sfociano nella domanda sulla verità: “Si può conoscere la verità? O il problema della verità nell’ambito della religione e della fede è puramente e semplicemente inappropriato?”.22 La risposta della chiesa, che Ratzinger cerca di articolare nel corso del libro, è “sì” alla prima domanda e un fermo “no” alla seconda. Il fermo sì della Chiesa si basa sul fatto che Dio ha rivelato se stesso all’uomo e, così facendo, ha rivelato l’uomo all’uomo, come afferma il Vaticano II. La fede cristiana 19
Si veda W.A. Auler, “Die Kirche und die Vielfalt der Religionen. Die ekklesiologische-religionstheologischen Studien von Joseph Ratzinger” in Ch. Schaller (ed.), Kirche – Sakrament – Gemeinschaft, Regensburg 2011, 365-384. 20 “Interludio” in J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza, 53. 21 Ibidem, 7. 22 Ibidem, 8.
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riguarda prima di tutto l’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo. Ma ciò, a sua volta, richiede da parte dell’uomo la capacità di conoscere la verità, il cui rifiuto nel mondo moderno si chiama relativismo “il problema più grande della nostra epoca”.23 L’unico capitolo del libro ad essere stato scritto prima degli anni Novanta è il primo, e in vari modi, anticipa i temi fondamentali degli scritti successivi. Nel contributo a un Festschrift per il sessantesimo compleanno di Rahner, Ratzinger si occupò del posto del cristianesimo nella storia delle religioni.24 Rifiutando come inadeguata qualsiasi riduzione della “religione” a una generalizzazione filosofica e mettendo in discussione l’assunto comune che vede le culture come entità statiche, guarda le religioni del mondo come fenomeni storici per scoprire per contrasto l’unicità del cristianesimo. Difatti, si occupa principalmente (ma non solo) delle grandi religioni dell’Asia. La rivoluzione monoteista (Israele prima e il cristianesimo poi), ad esempio, differisce radicalmente dalle religioni asiatiche. In primo luogo, tutto ciò che conta nelle religioni mistiche orientali è l’esperienza dell’uomo: Dio rimane interamente passivo. D’altra parte, nel monoteismo la chiamata divina del profeta può essere localizzata nel tempo e quella chiamata costituisce ciò che noi definiamo storia. Come fa notare Jean Daniélou, il cristianesimo “è essenzialmente fede in un evento”.25 In secondo luogo, in confronto alle imponenti personalità religiose dell’Asia, gli attori principali nella storia della Salvezza (come Abramo, Isacco e Giacobbe e i profeti) “appaiono terra terra”.26 L’uomo non si innalza a Dio attraversando i vari stadi dell’essere per vedere il divino, ma “è vero l’opposto: è Dio che cerca l’uomo in mezzo alle cose del mondo e della terra”. Di sua spontanea volontà, Dio entra in relazione con l’uomo cosicché il misticismo biblico “non è principalmente il trovare una verità, Ibidem, 75. Dopo il collasso del marxismo nel 1989, “il relativismo è divenuto il problema centrale per la fede nella nostra epoca” (ibidem, 121). 24 Scritto nel 1963, pubblicato nuovamente in Fede, verità e tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 15-43. 25 Ibidem, 38, in cui cita J. Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Brescia 1978, 121. 26 Ibidem, 40. 23
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ma l’agire di Dio stesso che dà forma alla storia. Il senso di essa non risiede nel rendersi visibile della realtà divina all’uomo, ma nel rendere colui che riceve la rivelazione protagonista della storia divina”.27 (Qui Ratzinger cita di nuovo Daniélou). In fine, a differenza delle religioni mistiche dell’oriente, il cristianesimo non riconosce una religione a due livelli, dove soltanto il mistico può fare esperienza diretta, di prima mano, del divino e il comune credente si deve accontentare dei simboli religiosi, esperienza, per così dire, di seconda mano. Nel cristianesimo, “di prima mano qui è solo Dio stesso. Gli uomini sono, tutti e ognuno, di seconda mano: al servizio della chiamata divina”.28 Ognuno risponde direttamente alla chiamata di Dio. Ratzinger conclude la sua prima incursione nella questione del rapporto tra cristianesimo e religioni del mondo proponendo una nuova visione per il futuro – la speranza escatologica dell’unione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini alla fine dei tempi verso cui sono dirette tutte le religioni e tutti i popoli. Nel contributo che sottomise alla sottocommissione conciliare che stava preparando la bozza finale di Ad gentes, Ratzinger scriveva: I valori culturali e religiosi delle nazioni non sono semplicemente valori naturali che precedono il Vangelo e in quanto tali semplicemente si aggiungono ad esso. Una simile prospettiva allo stesso tempo sottovaluta e sopravvaluta quei lavori. Nel nostro mondo, naturale e soprannaturale non sono mai nettamente separati, ma si compenetrano. Pertanto, tutti i valori veramente umani sono caratterizzati sia da una divina aspirazione soprannaturale sia dal peccato umano. Non possono mai essere aggiunti semplicemente al Vangelo, ma sono al servizio del Vangelo, secondo la legge della croce e della resurrezione. La religione pagana muore nella fede cristiana, ma nella stessa fede la religione umana si innalza e offre alla fede le forme in cui in vari modi si articola la fede.29 Ibidem, 41. Ibidem, 42. 29 Cfr. J. Wicks, “Six Texts by Prof. Joseph Ratzinger as peritus before and during Vatican Council II”, Gregorianum 89 (2008) 289. 27
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Riassumendo, la sua concezione di tutte le religioni e delle loro espressioni culturali è dinamica, non statica, nella misura in cui sono aperte a nuovi approfondimenti ed esperienze e sono capaci di autotrascendenza e di arricchirsi mutuamente. Per Ratzinger, tutte le culture hanno una dimensione di avvento: sono in attesa di compimento, che è possibile soltanto in Cristo. Approfondiamo un po’ di più questo argomento. Cultura e coscienza30 La cultura, secondo Ratzinger, “è la forma di espressione comunitaria, sviluppatasi storicamente, delle conoscenze e dei giudizi che caratterizzano la vita di una comunità”.31 In altre parole, la cultura riguarda la comprensione da parte di una società del posto che occupa nel mondo, dei valori da difendere e del proprio ruolo nel tessuto delle relazioni che la costituiscono in quanto società; riguarda il modo di essere umani. “Nel problema dell’uomo e del mondo è sempre incluso il problema della divinità, come problema previo e fondante”.32 Questo andare oltre il visibile, apre la porta alla Divinità e si collega all’abilità di qualche individuo di trascendere se stesso, andare al fondo di tutte le cose ed entrare in comunicazione con la Divinità, per trovare supporto reciproco in una più grande dimensione sociale, “le cui conoscenze egli può per così dire prendere a prestito e sviluppare”.33 Le culture si sviluppano nel tempo, venendo a contatto con nuove realtà e assimilando nuove percezioni. “Storicità delle culture significa la loro attitudine ad aprirsi e ad accogliere la trasformazione mediante l’incontro”.34 Questa è, dunque, 30
Si veda P. Casarella, “Culture and Conscience in the Thought of Joseph Ratzinger/Pope Benedict XVI” in J.C. Cavadini (Ed.), Explorations in the Theology of Benedict XVI, Notre Dame IN 2012, 63-83. Si veda anche D.V. Twomey SVD, “Ratzinger on modern culture, truth and conscience” in Forum Theologiczne XIII (2012) 155-70. 31 Ratzinger, Fede, verità, tolleranza, 62. 32 Ibidem, 63. 33 Ibidem. 34 Ibidem, 64.
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la dimensione di avvento delle culture, per usare un’espressione coniata da Theodore Haecker. Dal momento che la stessa fede cristiana può esistere soltanto in una particolare forma culturale, il termine “inculturazione” è forse inadeguato e dovrebbe venire sostituito dal termine “interculturalità”. Tale asserzione è lo sviluppo di ciò che Ratzinger definisce la natura potenzialmente universale delle culture, vale a dire, la loro capacità intrinseca di essere aperte alle altre culture, alla verità, e dunque aperte a un ulteriore arricchimento. Per quanto riguarda la relazione tra il cristianesimo e le religioni del mondo, oggi sono stati identificati tre atteggiamenti teologici fondamentali: uno pone l’accento sull’esclusività del cristianesimo (per esempio, Karl Barth), l’altro è descritto in termini di inclusivisimo (associato ad esempio a Karl Rahner), mentre la terza posizione (che è diventata quella predominante) è conosciuta come la teologia pluralista delle religioni (John Hick e Paul Knitter). Ratzinger le critica tutte e tre per due motivi. Prima di tutto, tutte e tre si basano su un’identificazione troppo affrettata della religione con la questione della salvezza. È vero, chiede retoricamente, che la salvezza è legata alla religione? Senza dubbio dobbiamo osservare il quadro più ampio dell’intera esistenza umana. (Mi sembra che questo sia il punto da mettere in risalto, dal momento che fa riferimento all’intera portata del comportamento morale e non solo all’osservanza di rituali religiosi). In secondo luogo, le tre posizioni tendono a occuparsi delle religioni del mondo indiscriminatamente. Oggi non c’è quasi bisogno di evidenziare che non tutte le religioni per se conducono gli uomini a quanto di più alto e nobile ci sia; in realtà, esse stesse esistono in una varietà di forme, alcune delle quali possono essere (e sono) altamente distruttive.35 Ma la domanda fondamentale formulata dai teologi delle religioni pluralisti è essenziale: bisogna semplicemente trarre il meglio da qualsiasi religione in cui ci si ritrovi e dal modo in cui agiscono gli altri intorno?
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Cfr. ibidem, 53. Il 19 gennaio 2004, dibattendo con Jürgen Habermas a Monaco, il cardinale Ratzinger parlò liberamente delle patologie della religione, fortemente pericolose, come delle patologie della ragione.
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O [l’uomo] non deve in ogni caso essere in ricerca, adoperarsi per avere una coscienza purificata e così avvicinarsi – almeno questo! – alle forme più pure della sua religione? Se non possiamo né dobbiamo presupporre una tale disposizione interiore in chi si trova in cammino, viene meno anche il fondamento antropologico della missione.36
Tale base antropologica per la missione viene illustrata nelle Scritture. Commentando l’episodio dei Magi, papa Benedetto XVI scrive che essi non erano solo astronomi o “saggi”. “[Essi] rappresentavano la dinamica dell’andare dal di là, intrinseca alle religioni – una dinamica che è ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche della filosofia nel senso originario della parola”.37 Si deve al fatto che gli Apostoli e i primi discepoli ebrei erano alla ricerca della “speranza d’Israele” che essi furono capaci di riconoscere il Signore. Allo stesso modo, erano i Gentili “timorati di Dio”, insoddisfatti delle loro tradizioni religiose e alla ricerca della verità, ad essere aperti alla fede e a diventare i primi cristiani38 . Questo, a mio avviso, è il nocciolo della teologia della missione di Ratzinger: vale a dire la coscienza primordiale che è data a ogni persona umana dal momento in cui è stata creata a immagine e somiglianza di Dio. Essa spinge l’uomo a cercare la verità, a cercare oltre la superficie delle cose, oltre le rivendicazioni degli usi e dei costumi comunemente accettati. Si deve far distinzione tra questo e il secondo livello di coscienza, vale a dire un giudizio su una particolare azione da fare o da non fare all’interno della sfera della storia. Il primo livello di coscienza, per così dire, ontologico, allora, consiste nel fatto che qualcosa di simile a una memoria primitiva (eine Urerinneung) del bene è infusa in noi; che vi è una interna tendenza essenziale nell’uomo creato Ibidem, 54. Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli, Milano 2012, 111. 38 Sin dall’inizio della sua carriera accademica, Ratzinger ha sempre sottolineato che la Chiesa primitiva, che rifiutava il mondo delle religioni pagane, aveva trovato degli alleati nei filosofi, cioé coloro che erano critici nei confronti dei valori culturali e religiosi ereditati. Si veda la sua lezione inaugurale del 1959 a Bonn, pubblicata di nuovo con il titolo Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, a cura di Heino Sonnemans, Marcianum Press, Venezia 2007.
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a somiglianza di Dio verso quanto è in conformità con Dio [. . .] Questa anamnesi dell’origine, che risulta da quella costituzione del nostro essere che è conforme a Dio, non è una conoscenza concettuale e articolata, un tesoro di contenuti richiamabili. È come un senso interno, capacità di ricognizione, cosicché la persona che è chiamata in questo modo e che interiormente non sia offuscata, riconosce la sua eco in sé39 .
Sant’Agostino formulò tale concetto in maniera più semplice come l’orientamento al bene inciso dentro di noi. Secondo Ratzinger, su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il Vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr Is 42,4). Infatti la missione si giustifica se i destinatari, nell’incontro con la parola del Vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.40
E, ovviamente, dovremmo essere consapevoli del fatto che con “pagani” qui ci si riferisce anche a quelli che Ratzinger una volta descrisse come i “nuovi pagani”, gli occidentali che a parole si dicono cristiani41 . Ratzinger è acutamente consapevole del fatto che la fede cristiana sa che vi è molto di umano nelle sue particolari forme culturali, e anche molto che ha bisogno di essere purificato. Per questo egli comprende che uno dei valori positivi del dialogo genuino con le religioni del mondo è contribuire a quel processo di autocritica e così di autopurificazione. Ma la fede cristiana è certa tuttavia anche di essere, nel suo nocciolo, il rivelarsi della verità stessa, e quindi di essere redenzione, poiché la vera sciagura dell’uomo proprio l’essere all’oscuro della verità. Ciò che falsa il nostro agire, e ci J. Ratzinger, Wahrheit, Werte Macht. Prüfsteine der pluralistischen Gesellschaft, Knecht, Freiburg-Basil-Wien 19942 , 51-2. Si veda anche Idem, L’elogio della coscienza, Cantagalli, Siena 2009; Per una critica si veda S. Chalmers, Conscience in Context. Historical and Existential Perspectives, Oxford, Bern, etc. 2014, 243-61. 40 Ratzinger, L’elogio della coscienza, 25. 41 Cfr. Idem, “Die neuen Heiden und die Kirche”, in JRGS 8/2, 1143-58.
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mette gli uni contro gli altri, è che non vediamo chiaro in noi stessi, siamo alienati da noi stessi, staccati del fondamento del nostro essere, da Dio. Quando la verità fa dono di sé, siamo tratti fuori dalle alienazioni, da quello che separa; subentra un criterio comune che non fa violenza ad alcuna cultura, ma porta ciascuna al suo proprio cuore, poiché ognuna, in ultima istanza, è attesa della verità.42
Qui Ratzinger esprime una delle ragioni fondamentali per la missione: testimoniare pubblicamente la verità, l’autorivelazione di Dio in Cristo. È, secondo le sue parole, “l’obbligo morale di mandare tutti i popoli a scuola da Gesù. Poiché Egli è la verità in persona e perciò la via per essere uomini”.43 Ratzinger, inoltre, riassume la sua convinzione che le culture del mondo sono modellate dalle religioni del mondo: nonostante le grandi differenze di espressione, esse condividono valori morali comuni a tutte (e riunite nella Regola d’Oro), ma vivono anche nell’attesa di una verità più grande, l’autorivelazione di Dio.
Conclusione Qualsiasi tentativo di delineare completamente la teologia della missione di Ratzinger dovrebbe mostrare come le sue idee si siano sviluppate partendo dall’iniziale visione ampia e generale della Chiesa come strumento di cui Dio si serve per condurre l’umanità all’unificazione finale, quando Dio sarà tutto in tutti fino a giungere a una teologia più personale e spirituale centrata sulla persona di Cristo e la persona umana. All’inizio, il suo interesse per il tema della missione era in qualche modo estrinseco ai suoi interessi principali, come quello della centralità della “pro-esistenza” cristiana, dove la Chiesa viene vista come i pochi scelti per i molti, o quello di cosa significhi essere cristiani oggi, se non c’è bisogno di essere cristiani battezzati per essere salvati. La visione generale dei suoi primi tempi da teologo, che sembra essere stata influenzata dalle idee di Teilhard de Chardin, per quanto mai abbandonate, con il 42 43
Idem, Fede, Verità, Tolleranza, 69. Ibidem, 69.
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passar del tempo cede il passo a preoccupazioni più concrete poiché diventa sempre più consapevole della minaccia costituita dal relativismo e delle sfide lanciate dalle teologie pluraliste della religione,44 che tendevano ad identificare al più la missione al dialogo. In tale contesto, la questione della verità diventa di primaria importanza per Ratzinger e con essa la riscoperta della coscienza, l’apparato sensoriale della verità, come base antropologica per la missione. Mi sembra che quello che Rahner aveva proposto come la dimensione esistenziale soprannaturale nell’uomo può essere più accuratamente identificata con la coscienza primordiale, elemento che ha basi filosofiche e teologiche più solide. A tal proposito, non sono in grado di rintracciare negli scritti di Ratzinger qualcosa di simile ad una coscienza dell’urgenza della missione nel significato proprio di proclamare la Buona Novella ai non battezzati o, se battezzati, ai cristiani soltanto a parole. Per quanto ne so, si avvicina maggiormente alla questione nel suo libriccino sulla cristologia spirituale: La vera azione liberatrice della Chiesa consiste nel conservare la verità nel mondo [. . .] Il reale atto di liberazione della Chiesa che essa non può differire e che proprio oggi è di grande urgenza, consiste nel conservare la verità nel mondo; nel fatto che Dio esiste; nel fatto che Dio ci conosce, nel fatto che Dio è al modo con cui Gesù Cristo è e che egli in lui ci dà la via. Solo se si dà questo, c’è anche la coscienza, la capacità dell’uomo di giungere alla verità, con la quale ciascuno è a contatto con Dio ed è più grande di tutti i sistemi pensabili del mondo.45
E forse tali affermazioni sono sufficienti.
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Ratzinger mette anche in evidenza le comuni premesse filosofiche di notevole spessore delle religioni asiatiche e del relativismo occidentale. 45 J. Ratzinger, Guardare il Crocifisso, Jaca Book, Milano 2005, 112-113.
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“Il y a toujours un jour qi n’est pas la même chose qe la veille”: Il cristianesimo e la storia negli scritti di Charles Péguy John Milbank (Nottingham University)
La storia e l’evento (i) Forse si può dire che la storia è il centro dell’interesse della vita e del lavoro di Charles Péguy. Egli è un personaggio storico come agitatore politico e polemista; la sua poesia cerca non tanto di evocare il passato dei Vangeli e della storia di Francia quanto di ri-rappresentarlo, rivivificarlo e di risuscitarlo nel presente; la sua filosofia ha molto a che fare con la natura della storia e del tempo, ma in modo da denunciare pubblicamente ogni versione teoreticamente scissa di tale aspetto in quanto alla base del nucleo stesso del moderno errore post-cristiano. In tal modo le sue riflessioni teoretiche costituiscono un ponte tra la sua attività di agitazione politica che sostengono e il suo atto poetico di rimemorizzazione del mistero cristiano. Quest’ultimo liturgicamente era 355
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tutt’uno con il suo modus agendi più nascosto, più tragico, più familiare e privato, che egli considerava anche come un linguaggio dell’impegno più storico e più genuinamente sociale.1 Talvolta si considera che queste tre sfaccettature dell’impegno di Péguy con la storia – e il suo impegno storico – costituiscano tre diverse fasi: il socialismo laicista, la critica dello scientismo laicista e dello storicismo e un completo quanto anomalo abbraccio della fede cattolica. Ma, sebbene in certo senso tale prospettiva sia in parte vera, adottarla in maniera esclusiva probabilmente significa cadere vittima dello stesso inganno che Péguy condannava più di tutto: ovvero quello di sostituire un documento storico “empirico” con la realtà del tempo vissuto che ha a che fare con il flusso e la fusione della memoria. Così, per qualsiasi autore e meno che mai per Péguy, non vi sono, in origine, nel corso del loro lavoro stadi sequenziali separati e circoscritti, ma piuttosto anticipazioni, sovrapposizioni, recuperi e rimandi complessi. Ciò a volte può giustificare fino a un certo punto il trattamento dell’intera oeuvre di un autore come un tutt’uno, relativamente con scarsa attenzione a periodizzazioni, adattamenti, sviluppi e cambiamenti d’opinione. Nel caso di Péguy, tale tipo di procedimento sembra abbondantemente giustificato al punto che egli uniformò sommamente la condotta al credo, in tal modo che la sua scrittura guarda sempre a un’illuminazione successiva, mentre allo stesso modo essa ritorna sempre su se stessa e a precedenti fasi autoriali, dal livello micro a quello macro, dall’espressione singola (piena di assonanze verbali) attraverso la frase, il paragrafo e il libro, alla sua intera serie sequenziale di scritti, che comportava un forte lavoro di riscrittura e riadattamento. Perciò il lavoro di Péguy manca di una strutturazione normale o di uno sviluppo narrativo e argomentativo. E, di conseguenza, esso oppone resistenza non solo a qualsiasi ristrutturazione successiva, ma anche a 1
Si veda C. Péguy. Notre Jeunesse nella traduzione anglofona, in A. Dru (a cura di), Temporal and Eternal, Liberty Fund, Indianapolis 2001, 3-82, di due saggi: una versione parziale di Notre Jeunesse (Folio, Parigi 1993) [e Clio I, ndt]. In particolare la versione inglese omette il peana al dreyfusardo ebreo ateo, che Péguy considerava il suo mentore supremo, Bernard Lazare.
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ogni esegesi verificabile o persino a ogni atto di interpretazione. Apparentemente esso è illisible, illeggibile, come suggeriva Bruno Latour, quarantuno anni fa, nell’anniversario della nascita (l’anno in cui sto scrivendo, il 2014, è l’anniversario della morte avvenuta allo scoppio della Prima battaglia della Marne).2 Semplicemente facendo variazioni su tema, Péguy lascia inespressi procedimenti, ipotesi, indicazioni e conclusioni. Di conseguenza, il lettore deve provare a riempire i vuoti, anche se per fare ciò nello spirito di una sistematica chiusura interpretativa, tradirà sicuramente l’originale idioma di Péguy senza cuciture e dal finale aperto, laddove, come dice Latour, è impossibile riesumare il linguaggio dal contenuto: ne sarebbe un esempio vedere la sua lunga discussione su Les Châtiments di Hugo come meramente illustrativa piuttosto che costitutiva dell’argomento di Clio II. Dal momento che è impossibile dire cosa è basilare e condizionante nell’opera di Péguy, in contrapposizione a ciò che è accidentale e condizionato, il lettore non può interpretare genuinamente, ma solo glossare, o ripetere differentemente in una sorta di prosieguo del testo in termini di metodo e contenuto insieme. Eppure, come vedremo, cercare tale relazione con Péguy vuol dire entrare in una posizione letteraria e storica che egli pensa si dovrebbe tenere nei confronti di ogni artefatto storico considerato come testo e spiegazione di un testo. Se si rispetta tale carattere della sua opus, di ripiegarsi costantemente su se stessa e di cogliere senza fine il procedimento dal contesto e il contesto dal procedimento, allora diventa chiaro che non si possono separare la sua prima produzione da quella di transizione e da quella matura, né il lavoro letterario da quello storico, politico, filosofico e teologico. Il socialismo di Péguy rimane cruciale per la sua teologia, mentre al contrario le sue realizzazioni poetiche cattoliche coronano il suo impegno politico. E il cardine teoretico-sostanziale qui è la sua riflessione del periodo di mezzo sulla relazione tra tempo ed eternità e tra eternità e tempo. Di nuovo, nel considerarlo scopriamo che i pensieri 2
B. Latour, “Les raisons profondes du style répétitive de Péguy” in Péguy écrivain: colloque du centenaire, Klinsieck, Paris 1973, 78-102.
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di Péguy sul metodo storico sono inscindibili dalla sua filosofia del corso reale della storia umana. La riflessione in esame si focalizza nondimeno su una critica del progressismo secolare. Nel corso di Clio II, Péguy da repubblicano mette in discussione l’atteggiamento usuale della sinistra nei confronti della Rivoluzione francese, che la considerava il superamento degli abusi da parte dell’avanzata delle idee illuminate riguardo ai diritti dell’uomo3 . Invece, Péguy suggerisce che l’ancien régime più o meno collassò di per sé. Una monarchia e un’aristocrazia cristiane un tempo gloriose, non del tutto sorde alla chiamata al servizio caritatevole, non completamente dedite al culto del denaro, alla fine si estinsero a causa della loro sbilanciata decadenza. Al contrario, la rivoluzione non è nata in primo luogo in uno spirito di critica negativa né dall’assunzione di ideali astratti, ma piuttosto come una nuova mistique, un ineffabile nuovo senso di fratellanza in un determinato tempo e luogo, in un gruppo unico di amici, che ha espresso se stesso, come si sa, nell’assalto alla Bastiglia. Tale avvenimento sin dall’inizio ha preso il linguaggio di un rituale, divenendo così la commemorazione di se stesso e avvenendo semplicemente come un novum, come un’inaugurazione radicale, dal momento che aveva tale carattere paradossale di essere originalmente ripetuto. Ma ai suoi giorni, agli esordi del Ventesimo secolo, pensa Péguy, l’impeto rivoluzionario ha sofferto un viellissement prematuro, tale che il particolarissimo spirito che era penetrato tra i dreyfusardi, cosa che nuovamente unì mystiques ebrei, cattolici e repubblicani, ha portato all’ultimo capitolo autentico della storia del repubblicanesimo francese.4 Abbracciando la delusione del progresso, tale impeto ha già tradito le sue fondamenta ineffabilmente rituali fino a inabissarsi nella condizione di mera politique. Invece di essere esclusivamente rivolto al diritto assoluto e alla dignità di ogni essere umano in ogni tempo e luogo, e con la sempre rinnovata chiamata all’associazione, si è arreso a un 3 4
C. Péguy, Clio, Gallimard, Paris 1932. Idem, Notre Jeunesse.
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costante sacrificio essenzialmente utilitaristico di tutto e tutti a beneficio delle future generazioni, un sacrificio che deve, dunque, essere ripetuto all’infinito e senza senso. Il veicolo di tale mostruoso processo è lo stato, che ha in tal modo perso contatto con l’antica città e civiltà in favore di una registrazione, etichettatura e organizzazione strumentale e burocratica delle risorse umane. Laicité è arrivata a significare non una separazione possibilmente benefica tra religione e potere, che potrebbe maturare fino alla crescita della libertà spirituale, ma una pubblica negazione dogmatica dell’eterno, con il suo rapporto immediato con ogni momento presente (che in tal modo non è negato, ma sostenuto nel suo significato irriducibile) in favore della religione civile dell’avvenire come nostra unica fonte di proposito condiviso e di redenzione attesa da parte di discendenti infinitamente progrediti. Dal momento che questo nuovo culto è un affare di quantificazione e calcolo, il nuovo mediatore sacro è il denaro e si può ipotizzare che è in virtù di tale mediazione che Péguy pensa che noi ora siamo entrati nell’era post-cristiana, che semplicemente tira avanti senza far minimamente riferimento alle nozioni di creazione, peccato, incarnazione, redenzione, grazia e dannazione.5 Il dato ontologico, con la perdita temporale, il guadagno, la disperazione e la speranza, ora hanno invece tutti carattere pecuniario tale che molte persone corrono il rischio di entrare in una condizione di indifferenza peggiore di quella dei peccatori, che in negativo comprendono il dramma della salvezza e della dannazione. Ma ci sono ancora i ministri del nuovo sacramento del sistema monetario e i nuovi chierici, gli “intellettuali” che asseriscono di possedere un equivalente sociale e storico della comprensione sperimentale e tecnologica della natura. Si possono trovare nelle università, ma in ultima analisi lavorano per lo stato e possono ben essere reclutati per l’apparato amministrativo statale. Ed essenzialmente si presentano sotto due 5
Idem, L’Argent, De Equateurs, Paris 2008. Dell’adozione da parte di Péguy della tematica in origine maistriana della vicinanza tra santo e peccatore, si veda lo scritto incredibilmente penetrante di Richard Griffith “Le sacré et le dé-sacré: Péguy and the Maistrian Tradition of French Catholicism”, presentato per il seminario Maison Française, tenutosi ad Oxford in occasione del centenario della morte di Péguy.
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forme diverse: o sono teorici a priori del sociale, i “sociologi” che hanno fantasticato su determinate leggi astoriche di una supposta costante sociale, al posto della costanza dell’eternità, o invece sono empiristi, storici professionisti che devono dare determinati resoconti “totali” e accuratissimi di avvenimenti ed epoche storiche, al fine di tracciare gli avanzamenti o gli indietreggiamenti della società nel tempo. Péguy sta qui pensando all’eredità di Jules Michelet (che egli d’altra parte ammirava per aver riesumato la storia del popolo). E dal momento che l’appoggio della “histoire totale” venne costruito su tale eredità, si può intendere che egli scriva per criticare l’approccio annaliste, che arrivò in anticipo a dominare la storiografia francese del Ventesimo secolo. Contro questo nuovo storicismo laico e positivista, Péguy introduce in Clio II una famosa critica devastante. Essa consiste in quattro argomenti principali. Primo, gli antichi e non i moderni avevano ragione: la storia non è un processo tecnico artificiale che tende ad un progresso aggregativo, ma rimane il tempo di un organismo o di un animale, per quanto prodigiosamente intelligente e liberamente inventivo. Dal momento che le civiltà sono anche culture, naturalmente sorgono, godono di una breve maturità, ma poi si logorano nelle loro consuetudini e alla fine deperiscono. Come vedremo più avanti, è cruciale per la teologia piuttosto drastica di Péguy il fatto che anche l’avvenimento cristiano e la città cristiana alla fine non hanno potuto evitare questo processo ed era forse inverosimile farlo. Insistendo sull’ineludibile vieillissement, Péguy ci indica, come molti altri poco dopo di lui, quali Spengler, Toynbee e Dawson, una prospettiva interculturale della metastoria e ci allontana da fantasie angustamente etnocentriche di progresso continuo che le metastorie idealistiche del XIX secolo avevano avuto la tendenza di promuovere. All’interno delle civiltà, per lui, il progresso relativo non dipende da crescite incrementali, ma dalla renaissance costante, dal costante ritorno ad fontes e dai costanti daccapo e daccapo. Come sottolinea Latour, questo motif del “ritorno” in Péguy non riguarda mai l’essere reazionario o conservatore, ma piuttosto una rivisitazione delle radici neglette che rimangono per
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sempre nuove e sorprendenti, per sempre avanguardia di una cultura alle sue origini. La decadenza o vieillissement alla fine è, comunque, quasi inevitabile, dal momento che le culture non sono fondate su abilità materiali che probabilmente non si perdono o possono prontamente essere recuperate, e nemmeno su idee che possono essere scritte nero su bianco e formalizzate e così sempre riapplicate, anche se vengono temporaneamente dimenticate. Invece, le culture si fondano su una mystique, termine con cui Péguy intende qualcosa di simile a un insieme condiviso interpersonalmente di pratiche rituali che legano insieme il materiale e il simbolico e la cui logica rimane fino a un certo punto ineffabile e così, proprio per questo motivo, vitale e ispiratrice. Si potrebbe sottolineare a questo punto che è caratteristico dei filosofi cattolici della storia, da Vico a Ballache, a Schlegel a Dawson e Voegelin, rendere in ultima istanza determinante il rituale e il religioso, piuttosto che l’ideale o il materiale, che tendono tutti e due ad essere le preferenze oscillanti dei metastorici protestanti o dei loro successori atei. In tal modo, come enfatizza soprattutto Christopher Dawson, il loro approccio è molto più consono alle conclusioni dell’etnografia che riguarda il “preistorico” – con il quale, ciò nonostante, la nostra “storia” può essere vista molto plausibilmente, dopotutto, in un continuum.6 Il secondo argomento ha a che fare precisamente con questa questione delle origini. La storiografia esamina i documenti al fine di registrare i fatti con accuratezza, ma proprio questo supposto realismo è destinato a mancare la realtà degli eventi. Tutti gli eventi e quelli significativi preparati in segreto, specialmente, sono più orali che scritti e acquisiscono lo statuto di eventi soltanto retrospettivamente, nei termini della loro influenza successiva. Come uno scritto di letteratura, si suggerisce in Clio II, qualsiasi “registrazione” di questo processo è soltanto una “versione”, soltanto un’interpretazione di un processo più fondamentale. Proprio perché tale processo è sempre un’ispirazione dinamica finalizzata all’acquisizione del tipo di significato che deve sempre connotare 6
Ch. Dawson, The Age of the Gods, Sheed and Ward, London 1933.
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un evento, rimane fino a un certo livello oscuro e ineffabile, bloccato nella sua latenza originaria, che (si potrebbe dire come il “potenziale” aristotelico) è cionondimeno una realtà ontologica e, per di più, del tipo più denso. Così ci si ritrova alla presenza del paradosso per cui un evento, per essere tale, deve già aver registrato se stesso, cosicché la storia sia sempre già storiografia, e che la realtà umana vissuta sia originariamente adombrata dalla letteratura e il reale dal fittizio. Il “poetico” è doppio, in modo che senza qualcosa che sia stato “fabbricato” nel regno dell’immaginazione, niente è materialmente “fatto” come evento o factum. L’autentica realtà dell’evento richiede questo apparente supplemento. Eppure, per ricomporre il paradosso, anche se il supplemento non è necessariamente un’alienazione di tipo hegeliano, esso sin da principio, contiene alcuni elementi di declino e insufficienza (più simile a un’emanazione neoplatonica), dal momento che la novella ispirazione della nuova irruzione non riesce mai a esprimersi con piena soddisfazione, anche se tale espressione non viene “dopo” l’origine, ma coincide con essa. Ciò significa che l’espressione è semplicemente inadeguata all’ispirazione perché non riesce ad essere sufficientemente ispirata, non riesce ad arrivare ad un’adeguata ispirazione che emergerebbe già come un’espressione più piena. Si nota la stessa tensione nell’atteggiamento di Péguy nei confronti del pensiero e della composizione: da un lato c’è un’inesauribile intuizione, dall’altro l’intuizione autentica ha sempre già iniziato ad essere il lavoro pazientemente ripetuto dell’elaborazione discorsiva. È proprio per questo doppio paradosso che, in tutta l’oeuvre di Péguy c’è una tensione tra il tema dell’“originale puro”, che è già gravido di tutto ciò che avverrà, e la necessità di “allungare il passo”, andare avanti e rischiare di crescere, vivere e morire, se si vuole essere completi e chiaramente autentici. Ciò lo rende, come nessun altro dai tempi di William Blake, poeta dell’innocenza, dell’esperienza e della loro interazione. L’esperienza, come ripetizione originale, è stata già avviata per sempre; eppure allo stesso modo essa non aggiunge niente a un’innocenza che tradisce sempre e la cui potenzialità d’ispirazione originale, giocosa 362
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e liturgica, contiene tutto ciò che può essere imparato in anticipo e precede sempre qualsiasi cosa che possa essere espressa o scoperta. Così il vecchio ha perduto la freschezza del bambino ed è paragonato a lui ancora una volta soltanto nella misura in cui, alla fine della sua vita, egli ha di fronte a sé lo stesso che ha di fronte a sé il bimbo, nella forma dell’eternità. Di conseguenza, tutti gli ultimi giorni della Bastiglia sono pallidi echi dei primi, tradendo quella innocenza che non tornerà più, eppure allo stesso tempo, c’è stato soltanto un primo giorno dal momento che i successivi sin dall’inizio lo hanno ripetuto in un’autocommemorazione.7 Per un simile capovolgimento, le ninfee più tarde della famosa serie di Monet appaiono fresche e più “originali” e “basilari” dei fiori dipinti prima. Si potrebbe perciò dire che Péguy, in una serie, considera evento la seconda occorrenza come la prima dal momento che è la sua commemorazione e deve essere accaduto almeno due volte per essere accaduto una volta. Eppure allo stesso tempo l’avvenimento è Primario e non è affatto inscritto in una serie, perché è il principio indiviso di tutta la serie. Ciò equivale, sulla scia di Bergson, a un tipo di applicazione di considerazioni neoplatoniche a processi orizzontali, temporali. E da entrambi i lati del paradosso, ci si muove qui all’interno del tempo reale, vissuto, esperito e ricordato, se si fa riferimento alla nozione bergsoniana di durée. Esperisco un avvenimento passato soltanto perché quando me ne ricordo lo collego per significato ad altri avvenimenti precedenti o posteriori in una fusione intima che è estranea a qualsiasi puntualità “spazializzata” del tempo dell’orologio. Soltanto se viene infinitamente ripetuto non-identicamente nel futuro, la sua rilevanza permane e il suo forte carattere di avvenimento continua a profilarsi. Una rivoluzione fallita quasi letteralmente non “avviene” nella stessa misura in cui avviene una che va a buon fine. Allo stesso tempo, il trasferimento di durata di Péguy da un piano psichico a uno storico denota da parte sua una certa denigrazione 7
Per un approfondimento sui paradossi della ripetizione e discussioni su Péguy, si veda C. Pickstock, Repetition and Identity, OUP, Oxford 2013.
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della dualità bergsoniana tra tempo interno psichico fuso e le semplici apparizioni esterne degli eventi discreti. Al contrario, per Péguy, se il tempo umano è sempre prima di tutto pubblico, in quanto fisicamente mediato dal movimento e convenzionalmente simbolico secondo le demarcazioni del calendario, allora la durata consisterà, anche per la memoria interna, in nient’altro che una catena8 di eventi che, sebbene abbiano natura concatenata, rimangono anche misteriosamente separati. La catena è fatta solo di anelli, sebbene non si verifichi mai il caso di un anello solitario. E il segno di tale separazione è che nessun avvenimento reale può essere pienamente assorbito in una sequenza. Se mai fosse “finito” una volta e per sempre, o pienamente determinabile, sarebbe impossibile che avesse rilevanza epistemologica o che la prima volta fosse ontologicamente accaduto. Gli eventi più decisivi, senza i quali non ci sarebbe storia umana, si verificano proprio perché sono saturi di significato – di altri eventi, molte parole e conseguenze verbali e fisiche che li circondano da tutte le parti, ma per ragioni che non possiamo spiegare del tutto. In ogni caso, per Péguy gli accademici ignorano irrealisticamente e acriticamente entrambe le facce del paradosso. Non riescono a capire che la casualità storica è retrospettiva, che ciò che è accaduto una volta dipende da cosa è successo dopo, e non riescono neanche a comprendere che gli avvenimenti importanti sono tali proprio perché indefinibili e perché ci si può discutere sopra all’infinito. Di conseguenza, un rapporto vissuto in forma popolare con gli eventi, attraverso memoria privata, pettegolezzi e versioni romanzate, poiché più accessibile all’insegnante di un liceo di provincia che non al professore parigino, si avvicina di più in ogni caso alla realtà storica rispetto alle pedanti ricerche degli storici – riflessione che per Péguy restituisce molto della faccenda dell’esegesi biblica in stile Renan, pietosamente assurda nei confronti dell’evento più saturo di tutti. Per il curatore dei Cahiers de la Quinzaine è perciò il caso che il sofisticatamente metafisico vada a braccetto con l’innata saggezza folclorica, laddove il trionfo dello “scientifico” in campo umanistico è in 8
In italiano nel testo (ndt).
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realtà il trionfo della media cultura e del camaleontismo. Ciò, secondo lui, è stato il destino dei suoi compagni dreyfusardi di un tempo, che una volta sostenevano, pluralisticamente, i diritti della mystique ebraica a cui nessun vero cattolico può mai mancare di rispetto, ma che adesso supporta un dogmatismo secolare nel dimenticare che la rivoluzione stessa nacque in un’atmosfera di apertura liturgica. Il terzo argomento ha a che fare con un’ulteriore implicazione del carattere saturo dell’avvenimento. E ciò è tale che non ci può essere, in linea di principio, nessuna storia esaustiva, anche se i professori parlano e agiscono come se ciò fosse possibile. Un avvenimento può durare un minuto o un giorno, eppure le ricerche sulla sua realtà necessariamente durano più a lungo e non hanno mai fine. Ciò avviene perché un fatto eccede tutte le sue circostanze causali su cui si può discutere all’infinito poiché sono innumerevoli quando si divide in modo infinitesimale il processo locale e immediato di un evento o quando si allude al panorama di tutte le sue infinite diramazioni nel tempo e nello spazio. Il vero interesse della storiografia consiste nel circoscrivere il finito, eppure risulta che l’evento come esempio di particolare unicità finita sembra così coincidere con l’infinito. In tal modo non si hanno mai prove sufficienti per alcunché (specialmente per quanto riguarda l’antichità) o quasi sempre troppe (specialmente per la modernità). E, dal momento che un evento esiste soltanto nella ripetizione, non ci si può neppure davvero staccare dal passato per produrre soltanto storia oggettiva, quantunque anche la storia soggettiva sia problematica, dal momento che la stessa indeterminatezza storica accompagna le domande “chi siamo davvero?” e “a che cosa equivalgono davvero le idee di ciascuno di noi nel presente?”. L’unica storia possibile consisterebbe allora in una mediazione tra oggettivo e soggettivo che richiederebbe una fedeltà remissiva a un certo passato orizzonte di valore e allo stesso tempo un impegno ulteriore ad esplorare quell’orizzonte in futuro. Eppure se è il futuro concepito come aggregativo, ad essere solo proiettato dal suo passato storico, come per il positivismo prevalente, allora tale sforzo storiografico sarebbe allontanato dal dibattito. Péguy sembra dunque intendere non soltanto che è possibile esclusivamente 365
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una storia impegnata, ma che solo una storia sacrale può superare la strategia delle aporie scettiche che ha delineato. La “spiegazione” di un avvenimento deve cedere il passo – come il metodo al contenuto narrato – al carattere rivelatore di un avvenimento di per sé divulgativo e strutturante e sempre orizzonte sostanziale che supera qualsiasi mera prospettiva formale. Ne consegue che se dobbiamo spiegare la storia in generale allora ciò richiederà fede nell’esplorazione di certi eventi e forse di un solo evento supremo che ci permetta di costruire narrazioni di portata umana universale. Tale implicazione è messa a paragone e sviluppata più nello specifico in relazione alla quarta critica dell’atteggiamento storico della nuova “epoca degli intellettuali”. Qui passiamo dal livello della registrazione empirica a quello dell’esempio empirico e della raccomandazione sociologica all’azione. A questo livello possiamo localizzare ancora una volta il tema della religione civile dell’avvenire. Péguy afferma che questo credo laico rende incoerenti tutte le nozioni di giustizia e dunque di etica. Ciò perché all’eternità e al Dio dell’eternità abbiamo sostituito la storia e così la sua guardiana pagana personificata, Clio, che ci dice che non ha mai preteso di governare da sola. Non c’è più un Uno eterno che giudichi tutti noi qui giù, ma, invece, ognuno di noi in futuro è infinitamente soggetto al giudizio revisionista di un grande numero indefinito di persone che saranno anch’esse sostituiti in modo imprecisato e a loro volta rimpiazzati. Eppure i loro verdetti su di noi e i nostri effetti su di loro sono sconosciuti; la loro anticipazione è inutile e per questo non dovrebbe essere eretta, come avviene sovente, a principio secondo cui guidare la nostra pratica sociale e individuale. Inoltre, l’incertezza di tale guida può soltanto incoraggiare un errare sul versante dell’azione autosacrificale o persino autodistruttiva in un incredibile eccesso di patologica autoumiliazione religiosa. I cento anni successivi al 1914 hanno abbondantemente confermato la diagnosi di Péguy. Così sembrerebbe che dopotutto ogni diritto dell’Uomo e la sacralità del tempo che passa possono soltanto essere visti alla luce dell’eternità. Paradossalmente, è l’eternità a salvaguardare la rilevanza del momento presente; mentre è una pura e semplice prospettiva temporale a tradirla 366
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e a violarla. Allo stesso modo è soltanto un eterno senso di giustizia che può correttamente giudicare ogni epoca che passa: Péguy crede che un simile giudizio sul regime di Napoleone III sia stato mediato dagli Châtiments di Hugo, in cui le rime delle strofe finali che a volte scadono nel ridicolo lo “incoronano” negativamente con il verdetto di autofallimento e collasso autodeterminato. In Clio I, Péguy (di conseguenza) denunciò les curés laïques qui nient la part d’éternel du temporel (“i sacerdoti laici che negano l’aspetto eterno del temporale”) intendendo dire che ciò impedisce il formarsi di una coscienza della storia umana, dal momento che essa si fonda sempre sull’iniziazione mistica (facendo forse eco a Pierre-Simon Ballanche) e una storiografia genuina deve riflettere su questa realtà elusiva.9 Qui bisognerebbe ricordarsi che Péguy frequentemente allude al fatto che l’antica città pagana si basava ancora sull’eternità e sull’anima, e che l’antico eroismo, che egli pensa trascendere il politeismo antico, non sarebbe stato possibile senza tali convinzioni, che lo sostennero durante e dopo il disastro.10 Così per lui il tempo postcristiano è particolarmente terribile ed è forse nato dal fatto che un corrotto e tardo cristianesimo (specialmente dopo Cartesio) aveva già in parte messo sul trono la sfera psichica e quella spirituale considerandole scisse dal corpo, eppure non immediatamente e necessariamente coinvolte nella trascendenza.11 E quasi sicuramente è implicito che la modernità ha svalutato la scoperta cristiana della dignità tragica della vita nel tempo dal suo contrastante riferimento all’eterno, per produrre il suo sterile culto dell’avvenire. In tal modo, il postcristiano ha ricomposto in maniera triste e austera una modernità che stava per iniziare, in ogni caso, secondo Clio I, nel mondo tardo antico, ma che l’Incarnazione aveva interrotto – una Per una traduzione, anche se leggermente incompleta, si veda Temporal and Eternal, 85-165. 10 In Véronique, Péguy afferma che le due civiltà umane più grandi, quella mediterranea pagana antica e quella cristiana medievale, entrambe si fondavano unicamente sul disastro. Cfr. C. Péguy, Véronique: Dialogue de l’histoire et de l’âme charnelle, Gallimard, Paris 1972, 269-271. 11 “Note Conjointe sur M. Descartes et La Philosophie Cartésienne” in Oeuvres en Prose, 1909-1914, Gallimard, Paris 1961, 1357-1552. 9
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modernità pagana “presentista” di decadenza edonistica, il passaggio dalla filosofia all’occultismo e dalla legge alla forza romana brutalmente organizzata. All’inghiottimento decadente della dimensione eterna e psichica nel dissipato presente, ha aggiunto il culto postcristiano che svolge ora il ruolo di celebrazione di un eschaton secolare e indefinito. (ii) Qui ci si può soffermare a pensare che la visione di Péguy della storicità cristiana è profondamente non-gioachimita. L’abbate calabrese del 12º secolo aveva indirizzato una parte notevole del pensiero cristiano sulla storia lontano dai suoi ormeggi patristici e specificamente agostiniani, che avevano considerato l’Incarnazione culmine dell’era successiva alla Caduta avendo per conseguenza una graduale apertura al Logos divino o seconda persona della Trinità.12 Con l’incarnazione del Logos, l’eschaton è già arrivato e la storia è già compiuta. Per quanto, nonostante tutto, continui per un periodo di tempo relativamente breve (di durata sconosciuta), questa è, per Agostino, una storia d’intensa incarnazione del totus Christi,13 che è il corpo di Cristo in quanto Chiesa, Civitas Dei. Per quanto riguarda i Padri in generale, così come per Agostino, l’insieme dei significati spirituali dell’Antico Testamento si realizzano allegoricamente in questa figura dell’Unico Cristo, che nondimeno includeva il suo corpo esteso. Si trova qui tutta la rivelazione “spirituale” a cui tendeva il Nuovo Testamento, e che può essere adeguatamente messa in evidenza e anche completata essenzialmente (come sostenevano i primi autori medievali tra cui Ruperto di Deutz) soltanto dalla lettura allegorica che i Padri diedero della Bibbia stessa.14 Eppure, tale apertura “spirituale” è ancora quella dell’inaspettata incarnazione
Si veda J. Ratzinger, The Theology of History in St Bonaventure, Franciscan Herald Press, Chicago 1989. 13 Per questo topos si veda soprattutto Enarrationes in Psalmos. 14 Ratzinger, The Theology of History, 1-55. 12
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di Dio, la sola che permette agli esseri umani, al contrario, di ritrovare il loro destino spirituale di beatitudine finale. L’approccio di Péguy effettivamente fa rivivere, in modo nuovo e per certi versi moderno, proprio questa visione della storia agostiniana e cristocentrica, che tuttavia era stata intralciata da Gioacchino, con un intervento che avrebbe avuto un’eco teologica e poi secolare molto duratura.15 In primo luogo, per il calabrese, seguendo l’innovazione a lui contemporanea di scrittori quali Ruperto di Deutz, Onorio Augustodunense e Anselmo di Havelberg, viene in realtà contraddetta la precisa affermazione di Agostino secondo cui non si possono fare paragoni precisi tra gli eventi avvenuti dopo Cristo (come l’incoronazione di Carlo Magno) e gli avvenimenti dell’Antico Testamento. Per Agostino tale rifiuto è inevitabile se si considera che Cristo, in quanto Dio incarnato, ha irrevocabilmente e insuperabilmente portato a compimento tutti gli annunci dell’Antico Testamento. Ma Gioacchino rileva ed estende certi rifiuti di questa visione da parte di altri scrittori monastici, che effettivamente considerano l’era successiva alla venuta di Cristo come un’epoca del mondo nuova e non soltanto finale, escatologica. Da tale punto di vista, si può considerare che condottieri politici come Carlo Magno furono profetizzati dalle loro controparti dell’Antico Testamento. Una simile prospettiva effettivamente inizia a vedere in Cristo una cerniera o medium oltre che una fine o l’inizio della fine.16 Ma, in secondo luogo, Gioacchino è andato troppo oltre suggerendo che l’era successiva alla venuta di Cristo stava cedendo il passo a una nuova era dello Spirito, un’epoca post-istituzionale di compimento puro e universale dell’apostolato. Questa nuova mossa intellettuale dà origine all’idea paradossale di un’epoca futura tutta all’interno del tempo materiale che è tuttavia caratterizzata da una spiritualizzazione, o di fatto da una disincarnazione. Joseph Ratzinger al riguardo dice giustamente che “spiritualizzazione” e “pneumatizzazione” non sono ancora sinonimo di “idealizzazione”, eppure si potrebbe affermare che 15 16
Si veda H. de Lubac, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Cerf, Paris 2014. Ratzinger, The Theology of History, 56-109.
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l’idea in qualche modo contraddittoria di un futuro “reso etereo” su questa stessa terra materiale deve quasi inevitabilmente andare alla deriva nella direzione dell’idealizzazione.17 Ciò perché è proprio questo paradosso che, come affermava Henri de Lubac, col tempo incoraggia fondamentalmente a secolarizzare e a sostituire un’eternità spirituale con un futuro spiritualizzato realizzato sulla terra. De Lubac alla fine vide ciò come l’altra faccia complementare e definitiva della pura natura. Proprio come l’idea di una natura pienamente completa senza riferimenti soprannaturali dà spazio in anticipo al “puramente secolare”, così la speranza gioachimita concede curiosamente a questa pura natura, se purificata, il riconoscimento del puramente spirituale a prescindere dalle necessità materiali, sessuali, familiari e politiche umane.18 Sicuramente tale speranza è proprio il contrario della fede nel Dio incarnato, della sequela di un Dio che ci ha rinnovati immergendosi letteralmente nei normali, finiti processi umani. Inoltre, come ha dimostrato Joseph Ratzinger nella sua tesi dottorale, mentre i francescani spirituali arrivarono ad associare la venuta di san Francesco e la mendicità radicale con l’irruzione dell’aeon pneumatico, anche i membri principali dell’ordine, sotto la guida di san Bonaventura, il Generale francescano, hanno accettato la prima parte dell’innovativo approccio di Gioacchino (condiviso con alcuni dei suoi predecessori), ma in nessun modo la seconda. Perciò per Bonaventura, oltre il livello di senso allegorico che punta interamente a Cristo, vi sono alcune theoriae profetiche che indicano futuri eventi nell’epoca cristiana, inclusa la comparsa di san Francesco e san Domenico.19 Di conseguenza, quest’epoca ha un destino gradatamente “spiritualizzante”: una propensione finale alla pura contemplazione e ciò può apparire paradossale se si considera il coinvolgimento col “mondo esterno” degli ordini mendicanti, di molto superiore a quello degli ordini monastici. Eppure, a differenza dell’ordine domenicano, che fu fondato Ratzinger, The Theology of History, 187, n.82. Si veda J. Milbank, The Suspended Middle, Eerdmas, Grand Rapids 2015, soprattutto p. 64. 19 Ratzinger, The Theology of History, 1-55, 109-114. 17 18
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per predicare e contrastare l’eresia (catara), in un certo senso i francescani si trovarono divisi tra la spinta verso uno stato più puro di contemplazione, oltre il supporto materiale del rito e della regola, da una parte, e la missione predicatrice dall’altra.20 Si può ravvisare in tale biforcazione una tendenza a separare a tutti gli effetti soprannaturale e naturale nelle rispettive purezze, mentre la tensione domenicana a conoscere più a fondo Dio è sempre unita al desiderio di comunicarLo. Per questo nel secondo caso il nuovo abbraccio di un destino più “apostolico”, che comporta allo stesso tempo un rigore più spirituale e un orientamento più esterno, tiene tuttavia molto in considerazione la concezione patristica e agostiniana, in cui la crescita spirituale o “deificazione” non va contro, ma anzi include un’incarnazione profondamente radicata o il divenire solidale con i casi di questo mondo. Entrambi gli aspetti erano ovviamente presenti anche per i francescani, ma tendevano a trovarsi maggiormente in antitesi, o, dove erano riconciliati, a riguardare un’identificazione con il mondo naturale preculturale, nel rifiuto dell’artificiosità tipica della natura umana.21 Così, mentre per i domenicani, la storia successiva alla venuta di Cristo resta la mediazione del Dio-Uomo attraverso il suo complesso ed esteso corpo sociopolitico (e perciò per ora imperfetto), per i francescani e in special modo per Bonaventura, diventa più una spinta disincarnatrice verso la massima acquisizione della perfetta contemplazione spirituale tra individui essenzialmente isolati.22 Dal momento che tale scopo comporta per loro Si veda S. Tugwell OP, ‘Introduction’ a Early Dominicans: Selected Writings, Paulist Press, New York 1982, 1-47. 21 Si veda G. Agamben, The Highest Poverty; Monastic Rules and Forms of Life, trans. Adam Kotsko, Stanford CA, Stanford UP 2013. 22 Si veda E. Voegelin, voce “Saint Francis” in History of Political Ideas Volume II: The Middle Ages to Aquinas, 135-143. Voegelin forse è quello che si è spinto più avanti, considerando ambivalente la percezione (almeno) di san Francesco come alter Christus. De Lubac di sicuro ha ragione a dire (La Postérité, 139) che l’uomo nuovamente “spirituale”, san Francesco, era tale solo in quanto stigmatizzato, ma Voegelin (un luterano cattolicizzante che era estremamente vicino a de Lubac e che parte spesso dalle sue tesi teologiche) prova i rischi teologici che immediatamente derivano da una certa tendenza a leggere ciò come mettersi sullo stesso piano di Cristo da 20
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che l’intelletto si arrenda alle emozioni e alla volontà, a questo punto si scopre, già, come anticipò de Lubac (almeno per quanto riguarda gli spirituali francescani), una certa idolatria della “libertà” e concezione del futuro come rilascio o “emancipazione” della libertà che alla fine informerà quasi tutte le ideologie secolari. La delicata ferita aperta nella concezione cristiana della storia da Gioacchino e dai francescani in generale (non solamente dagli spirituali francescani) si fa sentire ancora ai giorni nostri. Così, per esempio, Henri de Lubac, Jean Daniélou e Joseph Ratzinger all’unisono sostengono il rifiuto della seconda tesi più importante di Gioacchino, l’era dello Spirito, e convengono su ciò che al riguardo più accomuna Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Comunque, Ratzinger, nella fase giovanile della sua tesi dottrinale sulla teologia della storia secondo Bonaventura, sembrava assegnare uguale validità alla posizione di Tommaso più agostiniana sulla storia e a quella più gioachimita di Bonaventura, che è simile alla prima tesi principale di Gioacchino sui parallelismi tra i tanti avvenimenti delle epoche del Vecchio e del Nuovo Testamento. Questa concessione sembrerebbe in contrasto con l’agostinismo di Ratzinger (da cui egli aveva sempre saputo che Bonaventura aveva preso le distanze)23 con il suo successivo approccio alla teologia prepotentemente parte di un semplice essere umano. Lette in questo modo, le stimmate cessano di essere un equilibrio che si incarna in vista di una perfezione pneumatica, per essere piuttosto la maschera stessa del rifiuto del corpo. Così tale lettura traduce il destino assolutamente nuovo di Francesco nei termini dello stesso dubbio paradosso che con Gioacchino si fa strada l’idea di un “futuro spirituale sulla terra”: ovvero un destino puramente spirituale e beatificato in questa vita e in questo attuale corpo materiale. Intimamente connessa con ciò è la tendenza, come recentemente analizzato da Aaron Riches, delle cristologie francescane (incluso il caso di Bonaventura) ad essere in qualche modo semi-nestoriane: la perfezione di Cristo come individuo umano viene in un certo senso offuscata dalla Sua personificazione divina, che, al contrario, Tommaso enfatizzava fino a raggiungere un livello del tutto iperbolico. 23 In The Theology of History egli nota che la teologica trinitaria dell’Aquinate è di gran lunga più agostiniana di quella di Bonaventura. Oggi, sulla scia di de Lubac, che asserì che l’agostinianismo di Tommaso è ‘plus conséquent’ di quello del Generale Francescano (La postérité spirituelle, 159), anche noi ci rendiamo conto che è l’Aquinate ad aderire più fedelmente alla teoria agostiniana della conoscenza come
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lubachiano, con il suo incisivo e ammirevole rifiuto, specialmente da Papa, che possa verificarsi un totale superamento dell’“ellenizzazione” della teologia cristiana e il suo mantenimento per niente volontarista né sentimentale della centralità teologica di una ragione integra (che includa pienamente la dimensione affettiva). Tuttavia, nella piena maturità della sua scrittura teologica si trovano affermazioni secondo cui la cristologia non deve essere concepita come Dio che “affonda ulteriormente le radici nel mondo”, ma piuttosto come un incoraggiamento alla trascendenza spirituale del mondo, come se, apparentemente, queste due cose fossero, in realtà, in antitesi.24 Eppure si può notare qui che questo “affondare ulteriormente le radici” si illuminazione, con modifiche aristoteliche (discutibilmente del tutto coerenti con Agostino, che non nega mai il ruolo cruciale della mediazione dei sensi), molto meno drastica di quelle avicenniane di Bonaventura, che spingono la dottrina insieme in direzione di un certo ontologismo e apriorismo. (Sebbene come giustamente nota Ratzinger, Bonaventura stesso considerò la visione di Aquino della conoscenza umana una variante della teoria illuminazionista). Ciò avviene mantenendo la tendenza parimenti avicenniana di Bonaventura a considerare le idee divine esemplificate univocamente, sebbene in gradi diversi sia nell’ordine di Dio sia del creato, e dunque reciprocamente “simili” attraverso il divario infinito/finito, effettivamente bypassando uno vero schema emanazionista e partecipativo. Proprio per questo Van Steenberghen potrebbe aver avuto ragione nel vedere più semi di una filosofia veramente teologicamente indipendente in Bonaventura che non nell’Aquinate, per quanto ciò possa sembrare andare quasi completamente contro la superficie dei loro testi. Infatti in Tommaso una metafisica in special modo indipendente deve in definitiva riferirsi in toto alla teologia, mentre in Bonaventura un certo numero di tesi filosofiche prese piuttosto casualmente da Avicenna, specialmente per quanto riguarda la pluralità delle forme, non tutte si integrano così bene nella sua teologia esemplarista e incentrata sul Logos, e tendono piuttosto a distorcerla. E mentre la sua metafisica sembra totalmente essere una teologia, gli inizi di un’univoca reversibilità di “somiglianza” come tra le forme nel Creatore e nella Creazione suggerisce che, dopotutto Dio è incluso “trascendentalmente” (come dirà specificamente Scoto più tardi) in un campo più generico dell’essere. Ratzinger riconosce molto del rifiuto di Van Steenberghen della lettura gilsoniana di un Bonaventura agostiniano, ma oggi si può essere d’accordo ancor più con il medievalista belga. Si veda The Theology of History, 119-163. 24 J. Ratzinger, Introduction to Christianity, trans. J.R. Foster, Ignatius, San Francisco 1990, 332-334.
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identifica problematicamente con l’aspetto più istituzionale della Chiesa, piuttosto che con l’incorporazione e la socializzazione in quanto tali, che sicuramente hanno una missione molto più ampia e di base davvero interpersonale. Allo stesso modo l’Incarnazione vista come “il radicamento di Dio” viene associata da Ratzinger in special modo all’isolamento dell’umanità di Cristo dalla sua divinità. È difficile comprendere, tuttavia, come una cosa del genere possa essere stata coinvolta in una presunta divisione patristica relativamente precoce dell’escatologia dalla pneumatologia, che è ciò che Ratzinger qui afferma: “la Chiesa non fu più concepita carismaticamente nell’ottica della pneumatologia, ma fu vista esclusivamente dal punto di vista di un’Incarnazione troppo legata alla terra e alla fine spiegata interamente sulla base delle categorie di potere del pensiero mondano” (anche se Ratzinger pensa che questa degenerazione finale si verificò molto molto più tardi). Ma gli approcci cristologici patristici alla Chiesa assumevano piuttosto una specie di “comunicazione di idiomi”, e mentre qualsiasi “assunzione di Dio nell’umanità” viene rifiutata da Atanasio, a causa dell’incommensurabile primato ontologico del divino, l’“assunzione dell’umanità nella divinità” implica una tale permeazione di tutto ciò che riguarda la natura umana da parte della divinità che senza dubbio la possiamo vedere come un “radicamento” di Dio. Inoltre, nella migliore teologia patristica (in Agostino, per esempio) la coscienza fisicamente organica della Chiesa come corpo di Cristo non è forse equilibrata e qualificata dal senso interpersonale della Chiesa come Cristo che dona ai suoi seguaci il potere di riceverLo, concessione che è esattamente tutt’uno con la processione eterna dello Spirito dal Figlio? Ma se, come per Ratzinger in questo testo, “si tratta qui non dello Spirito in quanto persona nel seno di Dio, ma in quanto potenza di Dio che si schiude con la Risurrezione di Gesù”, allora non ci potrebbe essere il pericolo di pensare all’azione dello Spirito in modo troppo impersonale e soltanto “dinamicamente” come alla potenza della Divinità unita? Ed il pericolo di pensarla nel suo raggiungerci problematicamente separata dalla nostra partecipazione alle relazioni trinitarie – cosa che è problematica se le Persone della Trinità sono costituite dalle loro 374
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relazioni. In generale, Ratzinger in modo ammirevole vuole pensare Essere e Storia insieme, e mantenere dunque un profondo legame tra la Trinità eterna e la storia della Salvezza. Così deplora giustamente qualsiasi tendenza a “storicizzare” l’invocazione della Trinità nel Credo tanto da ritenere che la sezione sulla creazione riguardi soltanto Dio Padre. Eppure qualsiasi lettura teologica di questo tipo del credo sicuramente avviene soltanto molto più tardi, e sarebbe strano biasimare la stessa “storicizzazione” per un eccessivo legame dello Spirito con il suo emergere dal Cristo incarnato, rendendo con ciò la terza sezione del credo “un prolungamento della storia di Cristo nel dono dello Spirito e, perciò, come un riferimento agli ‘ultimi giorni’ che intercorrono tra la venuta di Cristo e il suo ritorno”.25 Strano, perché la “storicizzazione” sta qui producendo il risultato opposto a quello lamentato da Ratzinger per quanto riguarda la prima parte del Credo, ovvero la separazione dell’azione del Padre nella creazione da quella delle altre due Persone. Perché in questo caso egli sta lamentando un’eccessiva prossimità tra il Figlio e lo Spirito! Ma in quel caso, allora il focus storico sull’evento della mediazione temporale dello Spirito per mezzo del Figlio non sta forse raggiungendo proprio quell’unità di ontologia trinitaria e storia della salvezza che Ratzinger ricerca così giustamente? A questo punto, l’apparente desiderio di garantire più indipendenza alla discesa verticale dello Spirito è dichiaratamente tutt’uno con una certa scissione dello stretto legame tra l’azione economica dello spirito con l’escatologia e con il Cristo incarnato visto già come “la fine”. Invece, sembra essere presente un profondo desiderio bonaventuriano di associare lo Spirito al significato di una storia in un certo modo extracristica – perché sempre più soggetta a una tendenza spiritualizzante e, così, disincarnante – successiva a Cristo, che dopotutto non sarebbe la fine. Un certo rischio di strappare via la pneumatologia sia dalla dottrina trinitaria sia da quella cristologica forse trapela anche dall’urgenza di Ratzinger che l’ecclesiologia “si stacchi dalla dottrina dello Spirito Santo e dei Suoi doni” – piuttosto che, sembrerebbe, da un uguale co25
Ibidem, 332.
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inizio con la tematica del corpo di Cristo.26 Come ovvia conseguenza, Ratzinger afferma che lo “scopo” di una simile dottrina è “la storia di Dio con l’uomo” o, in alternativa, della “funzione della storia di Cristo per l’umanità intera”. Tali affermazioni potrebbero essere lette come il tentativo di subordinare, alla maniera di Bonaventura, l’Incarnazione al complesso della storia delle relazioni di Dio con il mondo, prima e dopo di Cristo, con l’evento-Cristo in qualche modo sottilmente ridotto alla “funzione” di cardine esemplare della storia. Per una simile visione, si potrebbe pensare che il vero punto dell’Incarnazione sia effettuare una deificazione spiritualizzante di tutti gli uomini, piuttosto che l’inclusione totalmente nuova e paradossale di Dio e Uomo all’interno di una determinata “forma” finita ma infinita. E tale è l’unica forma che, in un mondo decaduto, la deificazione può avere adesso, seppure miracolosamente persino in un eccesso di deificazione: “E [hai fatto sì] che un dono più grande della grazia purificatrice la carne e il sangue: la presenza di Dio, Egli Stesso, nella sua essenza divina”.27 Se è vero che si può essere d’accordo con Ratzinger sul fatto che l’Incarnazione e il dono dello Spirito si appartengono l’un l’altro, è anche vero che, se il peso poggia troppo su quest’ultimo, allora tale appartenenza reciproca non è più unita alle “relazioni sostanziali” della Trinità, che Bonaventura iniziò di fatto a disenfatizzare. Certamente bisogna insistere piuttosto sul fatto che non possiamo mai ricevere verticalmente lo Spirito, dal momento che è lo Spirito del Padre e del Figlio, a meno che noi non Lo riceviamo anche orizzontalmente dal Cristo Dio-Uomo e dalla Sua trasmissione ecclesiastica attraverso molti altri esseri umani. In tal senso, non ci può essere un aspetto “carismatico” genuinamente verticale della storia separato dalla dimensione orizzontale, organica, istituzionale, filtrata dalla tradizione. Potrebbe sembrare più che sorprendente vedere Joseph Ratzinger assumere in qualche modo tale separazione; eppure ciò può essere una 26 27
Ibidem, 333. “And can a higher gift than grace / our flesh and blood refine / God’s presence and his very self / And essence all divine?” (John Henry Newman, from ‘Praise to the Holiest in the Height’).
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logica conseguenza di una persistente ammirazione per alcuni aspetti dell’approccio di Bonaventura alla storia. Comunque, in seguito in molte altre occasioni la sua enfasi successiva è più puramente agostiniana e tomistica, come quando esplicitamente pone l’accento sul fatto che la gloria della Chiesa è mischiarsi alla confusione, inclusa la confusione politica, dell’esistenza umana,28 e anche quando confuta l’accezione luterana di mera “comunità” spirituale, in contrasto con quella di successio trasmessa nel tempo.29 Allo stesso modo potrebbe sembrare che l’ammirazione e la difesa di Bonaventura da parte del giovane Ratzinger non sia rimasta senza qualche eco nella sua teologia posteriore. Ma la teologia bonaventuriana della storia è problematica proprio nella misura in cui sostiene, sulla scia di Gioacchino, la quasi contraddizione costituita dal sembrare prendere più seriamente in considerazione gli avvenimenti della storia dall’Incarnazione in poi e allo stesso tempo di tenere in poco conto tali eventi come se fossero avvenimenti “vuoti”, che si reggono soltanto sullo spirituale. Al contrario, Jean Daniélou, come Henri de Lubac, rimase più consistentemente agostiniano nel concepire la storia come Anno Domini, estensione dell’Incarnazione.30 Questa visione, come abbiamo visto, appare assegnare meno importanza provvidenziale agli eventi specifici nella storia della Chiesa e a quel punto può anche essere vista come “causa della secolarizzazione” di tali eventi. Ma, d’altra parte, ciò avviene perché segue la logica dell’Incarnazione con più coerenza: tutta la dimensione meramente umana è ora di ugual valore sacro e tutta la storia della Chiesa è satura di significato divino-umano che in definitiva non è che un tutt’uno. Eppure unità non significa stasi: sia Agostino sia Tommaso insistevano sul fatto che
Ratzinger, Introduction to Christianity, 343. Idem, Principles of Catholic Theology: Building Stones for a Fundamental Theology, trans. Mary Frances McCarthy S.M.D., Ignatius Press, San Francisco 1987, 290-294. 30 J. Daniélou, ‘Christology and History’ in The Lord of History: Reflections on the Inner Meaning of History, trans. Nigel Abercrombie, Longmans, London 1958, 183-202, sp. p. 201. 28
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l’Incarnazione ha migliorato la condizione umana e ha introdotto nel tempo il progresso.31 Si può collegare questo aspetto “secolarizzante” dell’approccio agostiniano-tomista alla storia, come il giovane Ratzinger notò così profondamente, all’atteggiamento di Tommaso nei confronti del regresso infinito nella questione della causalità. Il dottore angelico non ammetteva ciò (e in tal modo è facile notare che il suo “argomento cosmologico” richiede che si accetti, come dovuta, la visione aristotelico-neoplatonica e non quella newtoniana di causalità ultima) soltanto nel caso di una serie verticale di cause in cui la potenza causale in modo rilevante si erige asimmetricamente al di sopra dell’effetto causato, come nella serie che dà inizio a ogni uomo e che poi si innalza al livello del “corpo elementare” e poi al “sole” e così via.32 Una serie sostanziale del genere deve, secondo Tommaso, concludersi definitivamente con una causa prima. In ogni caso razionalmente ciò non esclude (in opposizione dei requisiti della fede che sembra dare per scontata un’origine nel tempo della Creazione)33 una serie accidentale di cause efficienti, tali che l’uomo potrebbe essere stato generato dall’uomo ad infinitum. Con questa audace concessione ad Aristotele, si capisce davvero il motivo per cui Dante abbia posto l’Aquinate in Paradiso così vicino a Sigieri di Brabante, anche se in atto di correggerlo (proprio come accoppia parallelamente Bonaventura con Gioacchino). Comunque, il Generale francescano confuta tale visione, considerando invece il tempo stesso coinvolto nella egressio e regressio metafisiche (ed essenzialmente
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Per tale motivo non sembra vero il fatto che il riconoscimento di un aspetto “dinamico” della storia umana risale soltanto a Gioacchino. Così sono leggermente perplesso per quanto riguarda l’assegnazione da parte di de Lubac di un elemento gioachimita a Pierre Buchez, socialista cristiano francese del XIX secolo, semplicemente basandosi sull’identificazione esatta di un aspetto dinamico e non soltanto conservatore nel suo pensiero. Si veda La postérité spirituelle, 520. 32 STh I. q. 46 a.2 ad 7. 33 Ma sicuramente Origene non lo aveva pensato, mentre d’altra parte sosteneva integralmente la dipendenza radicale della Creazione. Questa oggi deve essere sicuramente una questione aperta?
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neoplatoniche) dell’essere, che anche l’Aquinate riconosceva. Così per Bonaventura letteralmente il tempo inizia e finisce in Dio. Nella sua tesi di dottorato Ratzinger sembra simpatizzare fortemente con questa visione che permette di nuovo, in un modo intrinsecamente richiesto dalla fede cristiana, alla conoscenza della storia di essere pienamente scientifica. Egli ragiona sul fatto che se gli eventi nel tempo e nella storia sono soltanto accidentali e fuori dalla portata della vera conoscenza, cosa propria degli universali, allora è difficile capire come le rivendicazioni cristiane del significato unico e universale degli accadimenti specifici possano guadagnare appoggio – eccetto, si potrebbe aggiungere, in termini abbastanza rozzamente fideistici. Comunque, ci si può chiedere se la risposta di Bonaventura a tale problema sia coerente o accettabile. Non tende forse a confondere la dimensione orizzontale con quella verticale o la dimensione ontica con quella ontologica? Di fatto, forse la tendenza già univocista di Bonaventura a vedere le stesse formae distinte che assumono realizzazione finita o infinita lo incoraggia a fondere e confondere inizio e inaugurazione ontologici e ontici. Si può esprimere tale punto, al contrario, dicendo che, mentre, in un senso, il prendere in considerazione da parte di Tommaso una creazione eterna (la serie infinita di cause accidentali) sembra una concessione ad Aristotele e alla verità biforcata di Sigeri, in un altro senso, potrebbe anche essere letta come una visione molto più radicale della natura della dipendenza del creato secondo cui essa non comporta alcun cambiamento e quindi necessariamente alcun “inizio” in senso ordinario. Dunque non è che l’Aquinate stia dicendo che, razionalmente parlando, il mondo può essere increato ed eternamente immanente alla maniera pagana, ma piuttosto che persino questa “eternità pagana”, una volta ipotizzata, deve essere riconosciuta in verticale come radicalmente emergente, senza riserve, ex nihilo da Dio.34 Ciononostante, questa visione tomistica lascia l’evento temporale come se non avesse interesse scientifico? A questo punto, per una risposta più lunga ci sarebbe bisogno di esplorare i modi in cui Tommaso, in un 34
Rowan Williams mi ha fatto tale osservazione tempo fa.
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certo eccesso di aristotelismo, nondimeno rende cruciali le proprietà “accidentali” (e specialmente il potere conoscitivo dell’anima umana) nella definizione dell’essenza di una cosa. Ma più decisivamente si può arguire che il caso più estremo di tale paradosso in Tommaso riguarda il modo in cui per lui come per i Padri, Cristo è pienamente umano, dal momento che esiste in uno stato che normalmente implica la personalità e tuttavia è solo una persona – e persino, almeno nella Summa Theologiae, soltanto nell’essere – in quanto Dio.35 Così, per l’Aquinate, si potrebbe chiosare, l’unica possibilità di un evento storico scientificamente rilevante dipende dall’Incarnazione, dove la causa prima e universale ha assunto in sé un’esistenza umana particolare e una storia umana specifica. Nel fare questo, per l’Aquinate (e per i Padri) ha assunto in sé la natura umana in quanto tale e così, si potrebbe azzardare per di più, la storia umana in quanto tale, che dopo la Caduta è completamente il tempo della graduale redenzione cristologica e dunque, con e dopo Cristo, il tempo della fine e il compimento della fine. È dunque in termini strettamente cristologici che Tommaso mette assieme la metafisica di Dio come esse con la sua visione della storia nella sua durata per tutta la storia della salvezza, dal momento che, per lui, l’essere di Cristo (almeno nella Summa) interamente è il divino “essere” stesso, senza aggiunte o residui ontici. In tal modo tutta la storia e di fatto il tempo cosmico sarebbero messi in salvo dal destino d’irrilevanza accidentale pagana, ma in un modo diverso da quello congegnato da Bonaventura. Da un punto di vista tomistico, il problema di quest’ultimo sarebbe che ciò sostituisce un innalzamento cristologico della storia a rilevanza scientifica con un tipo di santificazione o ontologizzazione del tempo in quanto tale, cosa che può perfino essere considerata una prefigurazione della mossa intellettuale compiuta infine nel XX secolo da Heidegger. Di conseguenza, mentre per Bonaventura Cristo è radicalmente il medium, rimane il pericolo che Egli divenga il centro del tempo in modo tale che questa categoria lo supera, proprio come l’Essenza divina 35
STh III, q.17 a.2.
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supererebbe il Figlio eterno, se quest’ultimo non fosse costituito da relazioni sostanziali (tesi da cui si allontana Bonaventura). Per l’Aquinate, al contrario, l’Incarnazione in un certo senso coincide con il tempo tout court, poiché dice che, all’interno del tempo, la perfezione precede l’imperfezione in quanto gli stati perfetti sono la causa efficiente di quelli imperfetti, mentre allo stesso modo l’imperfezione precede la perfezione in quanto le cose solo gradualmente raggiungono la propria finalità.36 Così il tempo in generale è costituito dall’oscillazione tra queste due priorità, che tuttavia solo con Cristo si verificano simultaneamente: Cristo è allo stesso tempo la causa e la realizzazione della sua perfezione. Proprio perché Cristo in tal modo racchiude in sé l’intera dinamica temporale, si confaceva a Cristo arrivare dopo l’inizio, ma prima della fine dei tempi. Come osserva Ratzinger, ciò suggerisce che, per l’Aquinate come per Bonaventura, Cristo è il centro e il punto mediano; comunque il fatto che Tommaso richiami l’attenzione sulla coincidenza unica delle priorità assicura radicalmente che per il Dottore Angelico Cristo lo è soltanto in quanto allo stesso tempo inizio assoluto e fine assoluta.37 E data questa coincidenza, l’ulteriore opera storica della nostra perfezione deificata che sorge da Cristo come causa efficiente è anche il portare a termine il suo perfezionamento come fine ultimo, di una “pienezza” che è già su di noi, dal momento che la legge nuova del Vangelo già rappresenta l’irruzione della Città celeste nel regno della legge antica38 . Per tale ragione il tempo della Chiesa e la vera natura della Chiesa terrena prima di tutto si dovrebbero interpretare come appartenenti al tempo di Cristo e al tempo della fine. Di certo tale focalizzazione cristologica senza rimorsi non nega quell’aspetto della Chiesa che è la STh III, q. 1 a.6 resp. Ratzinger piuttosto stranamente suggerisce, nelle note della sua tesi, che in questo passaggio l’Aquinate si allontana ancora di più di quanto avesse fatto Bonaventura dall’associazione patristica di Incarnazione e finalità. Ma questo non concorda del tutto qui con la sua visione generale dell’Aquinate, non che sia questo il caso, come ho tentato di spiegare sopra nel corpo principale del testo. Si veda anche de Lubac, La postérité spirituelle, 159. 38 Tommaso d’Aqino, In 4 Sent. d.1 q.1 a.2. 36 37
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sua continua costituzione da parte dello Spirito Santo: piuttosto il punto è che, dall’esordio di Maria, la discesa dell’Incarnazione corrisponde a una salita spirituale che è tutt’uno con la ricettività e la risposta umana. (iii) Nei termini di Charles Péguy ciò significa che la vita cristiana “ripete” sempre l’unico evento-Cristo, eppure non allo stesso modo, ma nei termini di una libertà integrale che è resa possibile e non danneggiata da questa “successione”. Per quanto nuova, la visione péguyiana della storia va considerata agostiniana e non gioachimita proprio per tale ragione, oltre al suo travolgente rifiuto euristicamente guidato del culto dell’avvenire come tendenza precisa a disincarnare l’umanità, forzandoci sempre a sacrificare il presente corporeo in favore di un ideale e così del futuro spirituale. Invece di pericolosi schemi “metafisici” volti a creare in futuro un nuovo tipo di essere umano, insieme puramente materiale e irreligioso (pura natura) eppure anche immanentemente spirituale e ascetico (gioachinismo secolarizzato), Péguy insisté sul fatto che la sua via di socialismo mutualistico (molto vicino alla Dottrina sociale della Chiesa) rappresentava la modesta richiesta non utopica e raggiungibile di una distribuzione più giusta delle risorse economiche del mondo.39 Nondimeno, nonostante il suo assalto al nuovo clero laico che, sempre in Clio I, sosteneva il culto postcristiano della libertà futura, Péguy allo stesso modo denunciava “gli ecclesiastici che negano il temporale nell’eterno” e riteneva anche che tale gruppo sociale fosse più colpevole per quanto riguarda la secolarizzazione: ignorando l’epocale scoperta cristiana del significato del temporale, essi avevano aiutato ad assicurare la sua colonizzazione da parte di forze puramente laiche. Una volta scoperto, il temporale non può essere semplicemente dimenticato, 39
Si veda lo svolgimento del suo dibattito con Jean Jaurès su queste tematiche in de Lubac, La postérité spirituelle, 751.
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eppure se il cristianesimo lo abbandona, allora il suo significato sarà inteso semplicemente in termini materiali. Ma in origine il nuovo valore del temporale acquisiva rilevanza per l’eternità stessa in conseguenza dell’Incarnazione e del nostro ingresso sacramentale nella beatitudine – le iniziazioni hanno inizio nel tempo, ma sono confermate per sempre nel loro inizio e irreversibilità. La nuova valutazione del tempo riguardava il processo con cui Dio irrompeva nella dimensione temporale non per dominarla ma per redimerla; tuttavia nel corso delle epoche Anno Domini tale “macchina”, come la definisce Péguy, è stata ribaltata, cosicché tutte le faccende temporali sono sacrificate nel nome di un calcolo redentivo crudamente positivistico (che forse anticipa quello moderno, monetario) a calcoli apparentemente eterni. Così gli interessi laici sono stati anche sacrificati a quelli clericali e la vocazione del clero ad aiutare il mondo è stata sacrificata ad un interesse istituzionale per regolarlo e amministralo. Comprensibilmente i laici potrebbero volere emanciparsi da una procedura così distorta che è arrivata a confondere (e qui si può pensare alla protesta laica di Dante di molto precedente) la priorità della dimensione spirituale con gli ipocriti interessi temporali dei rappresentanti di tale priorità. Nel caso della recente storia francese, ciò ha anche portato la Chiesa a farsi nuovamente complice dell’aperto antisemitismo, cosicché l’incapacità di Péguy di entrare in comunione sacramentale con la Chiesa era in parte dovuta all’inconcepibilità per lui di qualsiasi associazione con gli antidreyfusardi di un tempo. Di certo ci si può chiedere se tale estraniamento dalla dimensione liturgica ufficiale non facesse parte di ciò che lo aveva portato a un senso così acuto della permeazione di tutta la realtà umana ad opera delle azioni liturgiche.40 Da questa accesa doppia critica del clero laico ed ecclesiastico si può dedurre che per Péguy solo un cristianesimo che prenda in seria considerazione l’unità del temporale e dell’eterno sarà capace di restituire 40
Si veda C. Pickstock, After Writing: On the Liturgical Consummation of Philosophy, Blackwell, Oxford 1997.
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una giusta visione alla storia in quanto tale. Con questo egli intende un cristianesimo pienamente incarnazionale, e sembra suggerire che la mystique cristiana ha fallito perché il suo aspetto incarnazionale non è mai stato compreso fino in fondo, anche se, nel Medioevo francese, questo aspetto era più marcato di oggi. Non ci si è mai resi totalmente conto del fatto che l’Incarnazione implica uno stato uguale per l’esistenza e gli interessi laici e un servizio piuttosto che un rifiuto del mondo e dei suoi amori e delle sue ansietà.
L’evento cristiano Nei termini dei quattro punti critici di Péguy sulla storia e la storiografia, si può affermare che le problematiche che identifica al riguardo sono superate da lui nei termini di una concezione cristiana di un governo provvidenziale del corso della storia – sebbene solo nella misura in cui ciò viene rivisto nella particolare direzione teoretica di Péguy, che richiede una radicalizzazione e di conseguenza una purificazione dell’ortodossia, nella misura in cui il suo scopo è renderla più incarnazionale. Prima di tutto, allora, nei termini del carattere organico della storia come irruzione che fiorisce imprevedibilmente e decade inevitabilmente. Attraverso la sua pratica verbale in prosa ma più specialmente in poesia, Péguy collega questo al carattere pastorale dei Vangeli e alle infinite analogie agresti delle parabole di Cristo. Ciò suggerisce che il cristianesimo, derivando dalla nascita di Dio nel tempo, è un processo storico dalle radici particolarmente profonde, che intreccia crescita fisica e spirituale, come è palese nel caso unico medievale di una avanzata cultura centrata sul paese, sul villaggio, sul monastero e sui campi piuttosto che su grandi città che sfruttano entroterra rurali. Il modo in cui Péguy parla della Francia dell’Alto Medioevo come se fosse in diretta continuità con la Palestina del tempo di Cristo è sicuramente dovuto non solo a un nazionalismo fantasioso (anche se non ne è del tutto libero), ma piuttosto alla sua sensazione che la cristianità, con tutte le sue terribili colpe, ha cercato soprattutto di realizzare gli imperativi del Vangelo e sotto certi aspetti la Francia gotica ha rappresentato davvero 384
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l’acme e il fulcro di tale sforzo.41 Come ha scritto Bruno Latour, è come se Péguy, nelle sue lunghe poesie in verso libero, fatte di imitazioni ed ampliamento di didatticismo, incanto, ripetizione e parallelismo biblici, stesse cercando di scrivere un nuovo quinto vangelo, non in uno spirito gnostico qualsiasi, ma proprio per riaffermare con freschezza e così con qualche differenza il messaggio evangelico originario. Deve aver pensato che solo questo, in tempi così disperati, avrebbe potuto controbilanciare la decadenza in cui vessava il cristianesimo. Eppure il suo atteggiamento nei confronti del declino è complesso. Soprattutto Péguy pensava, e non senza echi agostiniani, che Dio, rischiando l’incarnazione nel tempo, ha rischiato non solo la morte di suo Figlio, ma il declino storico del credo in sé. Manifestare pienamente Se stesso in forma umana era stato necessario, non solo davanti al peccato, ma anche per far confrontare onestamente gli esseri umani con la Sua verità e lasciare alla libertà umana se accettarla o rifiutarla. Può ben essere, pensa Péguy in Clio I, che l’epoca postcristiana renda più che mai la fede sopravvissuta una faccenda di pura fede dal momento che essa è ora il prodotto di una libertà resistente. Eppure in contemporanea, il divino nel tempo è un organismo particolarmente imperituro. Quando si presenta una difficoltà, che adesso aumenterà sempre, è il momento, continua Péguy che l’offerta cristiana di compassionevole sollievo venga alla ribalta in modo unico. Inoltre, 41
Come ha fatto notare il professor David Gervais al seminario di Oxford, ci si potrebbe aspettare che la lode di Péguy in Le porche du mystère de la deuxième virtu della supremazia dei giardini francesi e dell’incomparabile bellezza della campagna francese dia fastidio agli inglesi fino a non fargli accogliere la poesia, ma ve ne è già una prima eco sulle labbra del re invasore inglese Enrico V di Shakespeare. Sarebbe anche interessante notare come la parallela anglomania di Chesterton e Belloc fosse anche in parte francofilia e suggerisce che il fatto che Péguy in Gran Bretagna sia relativamente sconosciuto a un pubblico acculturato (sebbene non da molti dei migliori poeti) ha meno a che fare con la sua incorregibile francesità che con il modo in cui siano stati generalmente ignorati nelle metropoli inglesi gli scrittori sorti dal popolo e che perseguivano tematiche religiose e socialmente conservatrici e lo stesso per quanto riguarda scrittori nativi quali Ivor Gurney, David Jones e persino il primo e il tardo David Herbert Lawrence.
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alla luce dell’eternità c’è un nascosto e ora genuino progresso, pensiero che Péguy elabora nella sua lunga poesia Le porche du mystère de la deuxième virtu.42 Tutta la finita vita umana scorre in cerchi, e quindi noi dovremmo ripetutamente inscrivere tali cerchi non al di fuori di uno obiettivo, non per raggiungere un qualche punto finito, ma giocosamente, come bambini e al di là di una speranza che non è speranza di qualcosa di definito, ma oscuramente speranza remota di beatitudine eterna, nella quale l’inutilità oltre il limite verrà completata infinitamente. Per quanto riguarda l’uomo caduto e divenuto adulto, tale circolo finito ma senza fine può darci facilmente una sensazione di futilità e decadenza, mentre le abitudini si fanno stantie e stanche e “Colui che viene dietro cancella i passi di quello che è davanti”,43 eppure, dal punto di vista di Dio, piuttosto ogni volta che noi percorriamo il cerchio con una leggera differenza, compiamo atti di amore e servizio quotidiano con una variazione stilistica e queste variazioni formano il proprio ritmo incrementale e gradualmente “equivalgono” a una linea di sviluppo di merito accumulato. Proprio perché Dio si è fatto bambino, ha vissuto in una famiglia, ha fatto per trent’anni parte dell’ambiente umano normale e poi è entrato nella sfera pubblica soltanto per gli ultimi tre anni e per poi morire, l’aspetto puramente ludico, gioioso della vita fine a se stessa come vissuta dai gigli del campo è stato affermato dall’evento dell’Incarnazione in un modo senza precedenti. Di conseguenza, nonostante la sua sottomissione alla decadenza, è stato garantito alla Chiesa che non passerà né che alla fine verrà meno, perché sfugge al destino di rovina che grava su qualsiasi artificio puramente culturale, dall’inizio più legato ai processi biologici. La parola si è fatta carne e così la resurrezione spirituale è assicurata come la primavera in arrivo. La seconda critica degli storici riguarda il doppio paradosso dell’origine e della ripetizione. Nel registro teologico, sono enfatizzate entrambe le sfaccettature. Le origini sono singolari, cruciali, fragili seppur vitali. Per una traduzione inglese si veda quella a cura di D. Schindler Jr, Portal of the Mystery of Hope, Continuum, London 1986. 43 Portal of the Mystery of Hope, 115.
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Ogni essere vivente e ogni realtà culturale cresce da fragili boccioli che possono essere strappati via dal vento. Ogni distruzione è sicura e facile e può essere l’opera del momento. La crescita e il successo sono, al contrario, lunghi, precari, duri e derivano da un caso irrisorio, irrisoriamente unico e contingente. Dio si affida a questo processo e decreta che i processi che iniziano con apparente casualità nel tempo, come l’incarnazione, l’eucaristia, la croce e l’iniziazione sacramentale dureranno per tutta l’eternità. Anzi Péguy non esita a dire che se essi sono vincolati all’eternità e l’eternità è semplice e inalterabile, allora incomprensibilmente l’eternità deve trarre anche la sua origine dal tempo. Quest’origine non sfugge neppure al pathos di ogni origine. Molti esseri umani non hanno mai visto Cristo fisicamente sulla terra – e non ci può essere stato nulla di paragonabile. Una vivacità travolgente e inimmaginabile è stata a lungo ritardata e ora è per sempre svanita. D’altra parte, è ugualmente vero che Cristo è venuto soltanto una volta e per tutte perché egli viene sempre; che la vivacità originale è presente a causa della sua ripetizione eucaristica. È ugualmente vero che Cristo era il Dio unicamente incarnato, l’Unico prima delle serie, anche perché egli era “uno” semplicemente ordinario, il primo delle serie: il fondatore di una città, della Chiesa e il primo di molti santi, come così frequentemente dichiara Péguy. Così l’ignobile sospetto che molta della storia di Giovanna d’Arco sia mitica è un tutt’uno con lo stesso sospetto sulla storia di Cristo: in entrambi i casi, la memoria popolare può essere ritenuta più affidabile della ricerca accademica di “prove”, dal momento che solo questa memoria è costitutiva– “retrospettivamente” eppure “originariamente” di ogni evento genuino in quanto tale, che deve essere per prima cosa preservato affinché possa avvenire del tutto, e quindi “essere studiato”. Per di più, coloro che per primi videro Cristo non riuscirono spesso a riconoscerlo o lo abbandonarono, non capendo affatto chi fosse.44 Anche se grazie al senno di poi della 44
C. Péguy, ‘Un Nouveau Théologien: M. Fernand Laudet’ in Oeuvres en Prose, 19091914, Gallimard, Paris 1961, 899ss.
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Chiesa, potrebbe infatti anche darsi, come insiste così ostinatamente la contadina Giovanna d’Arco in Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc, che la nobiltà e i contadini della Francia cristiana non lo avrebbero mai abbandonato nel Getsemani.45 Ma anche nel registro teologico, si acuisce la tensione tra le due facce del paradosso delle origini. Dio stesso prima della creazione del mondo era perfetto e completo – perché è andato oltre se stesso, aggiungendo qualcosa a ciò a cui niente può essere aggiunto, il finito all’infinito e il temporale all’eterno? Così facendo, la gloria drammatica del tragico è acquisita, insieme alla fragile bellezza di ciò che è scarso perché è finito, la malinconia del transeunte e soprattutto il trionfo eroico della libertà che scommette, sopporta e rimane salda nelle avversità. Ma niente in tutto questo può realmente bilanciare l’apparente disonore della sufficienza innocente di Dio con l’ansia paterna della cura e con l’agonia della perdita.46 La “mitologizzazione” di Péguy delle perplessità metafisiche qui non è per nulla paragonabile all’ingenuità dell’idioma per esso utilizzato, come vedremo a breve. Per il momento, tuttavia, è importante comprendere che è l’inizio finito a portare in effetti il sintetico equilibrio tra l’inizio eterno e il finale sviluppo finito, in una maniera completamente incarnazionale. Così la “notte”, ne La porche du mystère de la deuxième virtue è la durata bergsoniana dell’essere stesso – a differenza del “giorno” unico e continuo, e soltanto perforato dai giorni come da buchi, analogamente al mare dalle isole o “un grande muro nero” dalle finestre.47 Una personificazione del genere della travolgente presenza sofianica (perché sicuramente simile alla sapienza creata della Bibbia) è Per una traduzione inglese integrale si veda The Mystery of the Charity of Joan of Arc trad. Julian Green, Hollis and Carter, London 1950. La più recente traduzione per il teatro a cura di Jeffrey Wainwright (Carcanet, Manchester 1986) si rifà a una performance parigina del 1986, che operò alcuni tagli nel testo e aggiunse anche del materiale da altri drammi di Péguy su santa Giovanna. 46 Si veda Clio I, Portal of the Mystery of Hope e ‘The Mystery of the Holy Innocents’ [Le Mystère des saint-innocents] in The Holy Innocents and Other Poems, trad. Pansy Pakenham, Harvill, London 1956, 69-165. 47 Portal of the Mystery of Hope, 123. 45
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come Dio, semplice e onnigenerante, oltre ad essere onnifertilizzante, onniconfortante e onniguarente attraverso il sonno. Ma a differenza di Dio, essa racchiude un potenziale finito e un abbraccio misterioso e meramente finito e anticipato di ogni giorno a cui dà origine e che alla fine concluderà nella notte ultima della redenzione: “l’ultimo giorno che è diverso da tutti gli altri”.48 Allo stesso modo, ne Le mystère des saints-innocents, i Santi Innocenti uccisi da Erode, nonostante non abbiano vissuto la loro vita finita, vengono identificati da Péguy (in accordo con la tradizione) con i 144.000 santi che nell’Apocalisse stanno immediatamente attorno al trono di Dio. Nessuno sta gerarchicamente più in alto, perché assolutamente niente è aggiunto dall’esperienza alla pura innocenza e alla sua azione perfezionata.49 Questo non è sentimentalismo teologico, ma l’assoluto contrario: un rifiuto rigoroso di ogni sopravalutazione sentimentale del dramma e il superamento della tentazione, che è ancora sempre un’esperienza di contaminazione che necessariamente corrode. Eppure allo stesso tempo, l’elevazione da parte di Péguy dell’innocenza è controbilanciata dall’elevazione anche del peccatore pentito e dell’ambivalente guerriero adulto. Tutto ciò è perché, come egli afferma incessantemente, sono proprio la qualità dell’innocenza infantile e la speranza che permettono al santo e all’eroe di delimitare il terribile e il corrosivo, di sopportare e di passare oltre. Di qui l’innocenza giunta al massimo livello, come quella che dobbiamo attribuire a coloro che, nelle narrazioni evangeliche della nascita, sono stati sostituiti sacrificalmente persino al sostituto divino (un altro motivo per cui per Péguy Cristo è soltanto un cittadino tra i tanti) è ancora in nuce, anticipazione e coinvolgimento ultimo – come quello della notte per ogni giorno – dell’intera gamma dell’esperienza umana nella misura in cui essa è umana, che significa fresca, originale e ispiratrice. L’originale è ciò che è già ripetuto, proprio come il ripetuto non identicamente rimane l’originale, perché il bene in realtà è uno e le mancanze di esperienza alla fine sono niente. 48 49
Ibidem, 113. Si veda The Mystery of the Holy Innocents.
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In definitiva questa tematica è per Péguy sia mariologica sia sofiologica. Maria è la notte e l’infanzia umanamente manifeste, dal momento che essa è l’unica creazione umana adulta ad essere rimasta innocente, ma lei è questa origine assoluta, soltanto dall’inizio sempre ripetuto in lei della parola incarnata e della Chiesa. Nonostante ciò, nel cuore del cristianesimo di Péguy (e in contrasto con il rifiuto protestante) si erge il paradosso estremo che in qualche modo la grazia divina e la sua opera eterna dipendono dal fiat mariano. In un certo senso, per Péguy, un’oscura contadina è l’autrice della nostra redenzione e anche della nostra creazione, la cui eterna azione, dalla sua prospettiva, è univoca, unilaterale e indivisibile. Il temporale in tal modo guida l’eterno, proprio come una volta una contadina marciò davanti al Re alla testa dell’esercito francese.50 Nel terzo punto della critica, abbiamo visto che l’evento umano narrato rivela manifestamente e racchiude in sé paradossalmente un processo e una circostanza infiniti. L’implicita soluzione di Péguy di tale rompicapo è sicuramente che, proprio per questa ragione, l’Incarnazione è l’unico evento veramente definito e assicurato – precisamente definito e circoscritto in virtù della piena coincidenza con l’infinito e l’eterno. Tale ispirazione indica che il finito, per essere tale, richiede in un solo punto finito, un’identificazione totale con l’infinito e la partecipazione di altre cose finite a quella realtà per assicurare la loro stessa realtà in grado discendente. Proprio per tale ragione, il segno cruciale dell’era cristiana è che essa è scaturita interamente dall’unico evento irreversibile ed interamente trasfigurante sul quale la città cristiana è stata incessantemente edificata.51 Ma esso non risolve il rompicapo inverso del perché l’infinito dovrebbe richiedere il finito. A questo punto i tropi mitologici di Péguy 50
Il parallelismo viene fatto notare da Bruno Latour. Oltre all’articolo già citato, si veda anche il saggio più tardo, scritto a quarantun’anni dal primo per il centenario della morte di Péguy, ‘Nous sommes les vainçus’ in Cahiers de l’Histoire de la Philosophie, volume du centenaire pour la Mort de Charles Péguy, ed. Camille Riquier, Le Cerf, Paris 2014, 15-18. 51 Véronique, passim.
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sembrano esprimere un fondamentale accordo con Eriugena, Bérulle e Malebranche: Dio per essere Dio non può fare a meno nemmeno della mancanza; il perfetto non può mancare nemmeno dell’imperfetto. Così la generosità piena di Dio deve creare e in fine, per risolvere il rompicapo della gloria espansiva di Dio (nella creazione e nella redenzione) che è non-Dio in un unico senso eppure ancora Dio in un altro, deve diventare Egli stesso incarnatamente finito, mentre d’altra parte rimane al contrario e senza riserve infinito. Date queste verità estreme, ne consegue per Péguy che Dio ha fatto in qualche modo l’impossibile: mettere l’eternità irrischiabile a rischio di rifiuto. Come chiarisce la sua cruciale lettura delle tre parabole della dracma perduta, della pecora perduta e del figlio perduto (il figliol prodigo), ciò non significa soltanto il rifiuto da parte di un altro avvertito come dolore, ma la reale perdita del proprio essere come càpita a un padre umano che ha perso suo figlio per morte o per sbaglio. Le parabole di sicuro devono significare che colui che è perduto conta di più dei molti che sono al sicuro, perché ogni singolo è vitale per Dio in misura tale che quello mancante ed essenziale viene in effetti cercato e amato anche più degli altri. Perciò Dio stesso dunque si mette in gioco. Eppure Péguy non sta difendendo nessun tipo di hegelismo tragico e ateo: egli crede pienamente nell’immutabilità divina. Ne consegue dunque che tale credo può essere sostenuto soltanto se Dio vuole alla fine che tutto sia salvato, e anche che, in un certo modo misterioso e sconosciuto, per l’immutabilità eterna di Dio, è compresente il sempre e la fine. Per tale motivo, l’universalismo apparentemente non ortodosso di Péguy, che egli condivide nondimeno con altri teologi ortodossi tra cui Origene, Gregorio di Nissa, Eriugena e Giuliana di Norwich, deriva per lui dalla sua interpretazione logica dell’ortodossia. Ma è anche supportato dalle altre considerazioni che hanno più a che fare con la storia. Ne Le Mystère de la charité de Jeanne d’Arc, Giovanna accusa un “colpo” nella sua devozione perché non può accettare che le sue preghiere e le sue sofferenze non aiuteranno i dannati neanche di una
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briciola.52 Ma lei con grande forza suggerisce anche che se i dannati non possono essere salvati, allora non può esserlo nessun serio peccatore. Questo perché ogni stato di peccato grave comporta la disperazione e Giovanna rifiuta la pia affermazione francescana di madame Gervaise secondo cui noi non possiamo mai essere sicuri del volere divino. Al di fuori di ciò, dice Giovanna, sappiamo molto bene quando qualcuno si è dannato se niente interviene ulteriormente. E per di più Giovanna afferma che la corrente condizione della Francia sotto le devastazioni della guerra equivale a un letterale stato d’inferno sulla terra perché gli assassini omicidi sono in tal modo dannati, ma anche molto simili (con un tocco sottilmente nietzschiano) alle loro vittime, che possono aver fallito sia nel loro dovere di resistenza sia potrebbero essere state contaminate dalla loro sofferenza perdendo la fede in Dio. Di certo si può obiettare con madame Gervaise (l’usuale portavoce di Péguy) che ciò potrebbe in molti casi eroici non avvenire, ma è qui che Giovanna, la contadina, conserva la prospettiva socialista di Péguy dentro di sé e del suo cattolicesimo. Molto spesso, di sicuro, coloro che non hanno il pane quotidiano perderanno il gusto per il pane del sacramento, anche se essi ne avranno ancor più bisogno.53 Così per Péguy l’esigenza 52
Giovanna dichiara anche che, sebbene più smorzatamente rispetto alle opere precedenti su di lei, sarebbe pronta a dannarsi se potesse salvare gli altri – tema che va da Leon Bloy fino a Georges Bernanos (che nel romanzo Sous le Soleil de Satan lo identifica come la più diabolica di tutte le tentazioni). Ma in Péguy, non sembrerebbe avere un grande ruolo, dal momento che è più una maschera dell’ardore di Giovanna; senza dubbio troppo iperbolico a questo punto, ma non quando si scaglia contro l’idea della futilità delle preghiere per i dannati. 53 Dal momento che il dramma risale al 1910, ciò dimostra che il socialismo di Péguy sopravvive nel suo periodo cattolico. Se in questo periodo egli esibiva un nuovo senso di dignità dei poveri e persino la necessità di santità dei poveri, come fa notare giustamente Richard Griffiths, ciò forse manifesta immediatamente un nuovo realismo circa l’impossibilità di bandire per sempre la povertà (le cui cause possono essere accidentali); la coscienza che ogni sfortuna può essere purgante e in definitiva la coscienza che la “spoliazione” è un certo senso necessaria per tutti, cosicché il problema del culto del denaro allo stesso modo o addirittura di più incoraggia la sfortuna del benessere tanto quanto causa anche una ingiustificabile tensione. Ma, come nel caso di Notre Jeunesse, di sicuro Péguy non trascurò mai l’imperativo di
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incarnazionale e socialista di salvare il corpo come l’anima è tutt’uno con la tesi teologica secondo cui sono soltanto gli apparentemente dannati ad aver bisogno di essere redenti. Per salvare del tutto le anime, le dobbiamo infatti salvare dall’inferno, qui e nell’aldilà. Non vedere ciò è supporre ingannevolmente che il peccato stesso è meno dell’inferno. Così dobbiamo opporci a qualsiasi macchinazione infernale: dobbiamo sfamare i corpi per sfamare le anime; dobbiamo opporci alla mediazione del profitto se vogliamo instillare la mediazione della grazia, e dobbiamo opporci alla guerra e alla violenza in quanto essenza reale del male. Eppure, contro Jean Jaurès e tutte le tendenze pacifistiche di sinistra, non c’è un “diritto alla pace” come c’è alla vita o alla libertà: gli interessi della pace come falso universale non possono calpestare i diritti alla giustizia del singolo innocente. Così dal momento che la guerra come la violenza che è ingiusta coercizione è la sorgente di qualsiasi ingiustizia, prima di tutto dobbiamo fare guerra alla guerra. Ma questa controviolenza, se non va intesa come collusione con gli effetti della violenza, deve a volte comportare l’ambiguità della violenza reale e di una letterale battaglia, come per Giovanna o san Luigi re di Francia che partì per la crociata. Altrimenti non solo non vi è giustizia ma nemmeno carità, dal momento che le anime non porteranno frutto, se i corpi vengono trascurati. Così Péguy alla fine andò in trincea nella fede che stava per combattere nella guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre. Eppure, nel suo caso tale fede non era un ingenuo errore di calcolo politico, ma piuttosto l’espressione dell’unico atteggiamento possibile che giustificherebbe qualsiasi resistenza fisica. È anche importante vedere come questo tema si riallacci alla questione della contingenza assoluta delle origini storiche. Gesù avrebbe combatalleviare la povertà, né di fare guerra alle sue cause strutturali, com’è palese ne L’Argent. Allo stesso modo egli non trascurò mai l’esigenza di giustizia economica e di realizzazione sociale e creativa per tutti, anche se egli successivamente (e acutamente) suggerisce che la rimozione di qualsiasi gerarchia sociale ed educativa può essere soltanto sinonimo di incoraggiamento di una gerarchia monetaria e burocratica corrotta.
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tuto gli inglesi o i burgundi? E gli apostoli? Che la particolarità storica dell’Incarnazione renda tale quesito imponderabile fa sicuramente parte dell’opinione di Péguy circa la storicità radicale dell’Incarnazione, nonostante la sua universalità; un punto che include anche la storicità radicale della Chiesa e della Francia nei loro particolari destini universali. Cristo come persona e specialmente Persona divina non può essere confinato soltanto nel suo tempo, eppure anche lui è vincolato, in modo tale che noi non possiamo essere davvero certi che egli avrebbe dimostrato carità in altre circostante nello stesso modo “pacifistico”. Questo perché anche la sua relativa capacità di pacificare non può essere valutata separatamente da una strategia divina in un tempo e in un posto particolari, dal momento che l’adozione di quel tempo e di quello spazio era parte tattica di una strategia universale ed eterna. In quel tempo e in quel luogo, Gesù è venuto a trovare un diverso tipo di città postpolitica che si sarebbe anche provvidenzialmente mescolato alla città romana e all’Impero romano. Il suo compito era questo, e non farsi carico e difendere soltanto i governi politici. Ma chi può dire cosa avrebbe fatto nel Getsemani, se fosse stato sorretto da lealtà feudale e che relazione tra il transpolitico e la città politica sarebbe allora immediatamente risultata? Molto probabilmente tale supporto è possibile soltanto dopo una lunga storia sicura e vincente della Chiesa, ma proprio perché è stato stabilito questo meccanismo, e va dall’eternità verso il tempo, dallo spirito verso il corpo, e anche dal corpo mistico allo stato politico (secondario al sociale per Péguy, anche se vitale per il sociale, dal momento che egli non era un completo anarchico), per Giovanna e Luigi ora, come forse non prima, è caritatevole e santo combattere con armi fisiche. Contrariamente a Giovanna, la francescana madame Gervaise consiglia la rinuncia al mondo come l’essenza dei Vangeli, non avendo preoccupazioni per il lavoro, il cibo, la battaglia e la procreazione. Ma per Giovanna e sembrerebbe per Péguy ciò è prematuro: per ora, nel bel mezzo del tempo ci devono essere sempre nuove nascite e nuove opere, se il grande viaggio e la processione delle anime verso Dio, dai quali Egli in qualche modo dipende, devono essere portati avanti. 394
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Soltanto quando verrà l’ora, alla fine, nella notte finale, si mostrerà vera la prospettiva di madame Gervaise (che non è totalmente sbagliata e che di solito è giusta): allora il mondo sarà de-creato e tutto ritornerà a Dio. Tutti gli inizi, tuttavia, innocentemente ripetuti rimarranno per sempre e saranno eternamente costitutivi. È da tale prospettiva escatologica che alla fine viene mossa la quarta critica dello storicismo secolare. La deviazione del giudizio finale verso un futuro umano sempre posposto si rivela una parodia della speranza cristiana, come indica sempre Clio II. La speranza, afferma Péguy, è la virtù teologale più anomalmente notevole eppure allo stesso tempo cruciale rispetto a fede e carità. La fede dovrebbe sorgere prontamente, date le glorie manifeste di Dio; la carità è sicuramente sollecitata dalla sofferenza, ma il fatto che noi dovremmo continuare a sperare nonostante il suo mancato adempimento sembra molto più sorprendente.54 Ma qui Péguy presenta la speranza come una ragazzina che non spera niente in particolare, ma gioca in continuazione senza sosta, ripercorrendo i propri passi e nella speranza di una giocosità sempre più divertente. Ciò, egli indica, è il modo in cui noi dovremmo sperare: realizzando che nelle nostre non-ricerche circolari viene per sempre aggiunto qualcosa di nuovo e che il fatto che ogni giorno è all’apparenza simile a quello prima non significa, anche nella nostra esperienza, che non ci saranno giorni diversi e sorprendenti, saturi di nuovi avvenimenti e nuove aperture. “C’è sempre un giorno che non è uguale a quello prima” dice Hauvette, la contadinella amica di Giovanna.55 Sempre un giorno speciale nella nostra vita, sempre una giornata al mare, un giorno della Bastiglia, il giorno di Natale e di Pasqua, e in fine il giorno in cui i giorni termineranno. Da questi giorni finiti della speranza aperta deriva per Péguy non necessariamente qualsiasi miglioramento del mondo, e probabilmente l’inverso, come la verità di solito porta alla rabbia, ma nondimeno ne derivano alcuni schemi che forniscono i prerequisiti della trasformazione nei termini di un’offerta di espiazione, perdono e 54 55
Si veda The Portal of the Mystery of Hope. Si veda l’edizione per il teatro della Carcanet, 84.
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mutua cura. All’infuori di questi giorni, continuiamo a sperare, e questo è ciò che ci spinge a edificare città e case, fondare famiglie e rischiare di mettere al mondo bambini. Per questo il desiderio di destini futuri che noi non arriveremo a vedere non è una sottomissione sacrificale ai loro verdetti futuri sul nostro passato, ma una continuazione del rischio divino creatore non soltanto nell’interesse dei nostri bambini e dei loro figli e dei figli dei loro figli, ma per l’intera razza umana nella sua eterna unità. Un rischio nondimeno assunto per Péguy nella speranzosa fiducia di una libera decisione ultima e universale da parte delle creature libere in favore della libertà eterna.56
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È possibile leggere l’insistenza di Péguy su tutto ciò che riguarda il tempo, l’Incarnazione, la speranza, l’escatologia, la nazione, le forze armate e la politica in relazione con la ri-assorbimento delle tematiche ebraiche nel cristianesimo. Così il suo patriottismo francese ha implicazioni opposte per quanto riguarda gli ebrei rispetto a quelle di Charles Maurras e i suoi successori. Si può sentire, allo stesso modo, un’eco (per quanto probabilmente inconscio) delle concezioni cabaliste e chassidiche di salvezza nei termini di un recupero della gloria divina stessa raccogliendo le sue perdute “scintille sparse” nella reiterata interpretazione di Péguy delle tre parabole della perdita.
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Appendice Contributi di supporto
L’antropologia ratzingeriana dell’Imago Dei come via di uscita dallo storicismo teologico Isabel Troconis Iribarren (Pontificia Università della Santa Croce, Roma)
Introduzione Come è noto, Joseph Ratzinger è un teologo che si contraddistingue per il suo grande apprezzamento per la storia in teologia. A favore di ciò parla non soltanto la sua Habilitationschrift sulla Rivelazione e la teologia della storia in san Bonaventura1 così come le sue ricerche sul rapporto storia-fede;2 ma pure il suo metodo teologico stesso, nel quale l’esame storico e filologico delle fonti (Liturgia3 ,
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Gesammelte Schriften, Band II.: Offenbarung Verständins und Geschichtstheologie Bonaventuras, Herder, Freibug im Breisgau 2009. “La difesa del legame inscindibile tra fede cristiana e verità, tra dimensione storico-salvifica del messaggio cristiano e livello ontologico rappresenta uno dei cardini dell’intera rifflessione teologica di Ratzinger, presente fin dalle prime opere (cfr. Der Gott des Glaubens), ripreso in I ntroduzione al cristianesimo e affrontato poi dettagliatamente in diversi articoli riuniti successivamente nella Theologische Prinzipienlehre” (A. Bellandi, Fede cristiana come “stare e comprendere”. La giustificazione dei fondamenti della fede in Joseph Ratzinger, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996. 105-106, nota 17). Cfr., per esempio, il capitolo su l’altare e l’orientamento della preghiera nella liturgia della sua opera Lo spirito della Liturgia nel volume XI della sua Opera Omnia (LEV, Città del Vaticano, 2010). Sull’importanza dello studio storico delle fonti liturgiche: “un rinnovamento liturgico che non vuole essere distruzione e dispersione e non vuole porre una contrapposizione generalizzata al posto della forza unificatrice della liturgia, non può ignorare l’eredità liturgica della patristica” (Natura e compito della Teologia, 160).
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Sacra Scrittura4 e Padri della Chiesa5 ) ha sempre avuto un posto centrale. Ma, l’apprezzamento di Joseph Ratzinger per la storia6 è un apprezzamento teologico, il che vuol dire critico: perché non qualsiasi comprensione della storia è compatibile con la fede cristiana, ma solo quelle aperte alla possibilità di un agire divino nel mondo. Infatti, come afferma uno dei più noti studiosi del suo pensiero, per Ratzinger l’assunzione acritica delle moderne filosofie della storia si trova alla base delle principali difficoltà della odierna teologia (sia dogmatica7
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Cfr., fra altri: Opera Omnia, vol. 6/1: Gesù di Nazareth, 120-121: “Il metodo storico – proprio per l’intrinseca natura della teologia e della fede – è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico”. Si pensi, ad esempio, al suo lavoro dottorale sulla eclesiologia di sant’Agostino. Circa l’importanza che Ratzinger concede ai Padri nel lavoro teologico, cfr.: I Padri nella teologia contemporanea in: Natura e compito della Teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993. 143-162: “i Padri non sono [. . .] definiti semplicemente dal fatto che sono “antichi”, e neppure l’essere cronologicamente vicini all’origine del Nuovo Testamento prova abbastanza che essi gli stanno al di dentro [. . .]. Se la loro primitività cronologica deve avere un significato teologico positivo, questo può derivare soltanto dal fatto che essi in modo speciale appartengono all’evento originario” (p. 155). “Scrittura e Padri appartengono allo stesso ambito come parola e risposta. Certo, l’una non è l’altra, non hanno la stessa valenza e la stessa forza normativa [. . .], ma entrambe, per quanto diverse e non confondibili tra loro, non sono però neppure separabili. Infatti solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva” (p. 156). Un po’ più avanti, sempre in riferimento ai Padri, Ratzinger parla dell’ “irrevocabilità di quella prima risposta che ha dato alla parola la sua configurazione storica” (p. 157). In questa piccola frase il teologo tedesco riesce a sintetizzare le raggioni, allo stesso tempo storiche e teologiche, per cui nel suo lavoro ermeneutico la teologia non può prescindere del loro contributo. “Solo chi si pone nella storia può anche superarla, ma chi non ne vuole tener conto resta imprigionato in essa” (Natura e compito della Teologia, 161). “Secondo Ratzinger, alla base di tutte le difficoltà della moderna teologia dogmatica, c’è un problema di fondo. Si tratta della natura del processo storico, in relazione alla trascendenza di Dio e alla sua verità” (A. Nichols, Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. 239-240). O nelle stesse parole di Ratzinger: “Questa domanda introduce nel problema fondamentale dell’attuale teologia in genere, posta
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che biblica8 e liturgica9 ) nel senso che, costretta a confrontarsi con queste nuove teorie, essa molte volte finì per risolvere la verità cristiana in processo di divenire storico,10 operando così una autentica reductio theologiae in historiam. Per Ratzinger questo storicismo teologico è il risultato di due importanti cambiamenti, intrecciati fra di loro, accaduti nel panorama culturale occidentale a partire dalla modernità. Da una parte, della trasformazione dell’idea di verità innescata dall’apparizione di un nuovo paradigma di conoscenza – la certezza –, che fece sì che la verità non venisse più considerata come una proprietà dell’ente stesso – che prima era considerato vero, dotato di razionalità, data la sua condizione di sostantivazione di Logos divino (verum est ens) –, ma che venisse capita: prima, come una proprietà dei fatti umani – giacché solo possiamo comprendere ciò che noi stessi abbiamo fatto (verum quia factum) – e più avanti, dopo la crisi dello Storicismo, come una proprietà dei progetti umani, di ciò che grazie alla razionalità tecnico-scientifica, siamo in grado di fare del nostro futuro (verum quia faciendum).11 Come secondo cambiamento Ratzinger indica l’apparizione di un nuovo paradigma nel rapporto fede-storia: il paradigma della discontinuità. Spiega il nostro autore che questo fu introdotto da figure come Lutero in reazione contro la società cristiana del suo tempo. Originariamente la salvezza cristiana era stata capita come una storia che era salvifica in sotto il segno del dissenso tra storia e dogma” (La festa della fede in: Opera Omnia, vol. 11: Teologia della Liturgia, LEV, Città del Vaticano 2010. 418). 8 Cfr. l’introduzione di Gesù di Nazareth. Dal battesimo al Giordano fino alla Trasfigurazione in: Opera Omnia, vol. 6/1: Gesù di Nazareth. La figura e il messaggio, LEV, Città del Vaticano 2013. 9 Si veda, per esempio, Forma e contenuto della celebrazione eucaristica in: Opera Omnia, vol. 11: Teologia della Liturgia, specialmente le pp. 429-430. 10 “La realtà cristiana era concepita come l’assoluto, il manifestarsi dell’immutabile verità divina, ma ora essa doveva porsi di fronte alle categorie di storia e di storicità così che quanto più ci si coinvolgeva nel problema della storicità tanto più sembrava che il carattere assoluto della verità cristiana si risolvesse nel processo del divenire storico” (Natura e compito della Teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993. 109-110). 11 Cfr. Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia 199611 . 27ss.
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modo escatologico, cioè: che poteva offrire salvezza perché, inserita (“incarnata”) nella storia profana, faceva però riferimento a qualcosa che si trovava al di sopra di essa. Ma nei tempi del riformatore di Wittenberg questo carattere escatologico della salvezza cristiana si era indebolito a favore di una concezione che tendeva ad identificare la società cristiana dell’epoca col Regno definitivo di Dio12 e quindi, quando questa società attraversò dei momenti di decadenza morale, per proteggere il cristianesimo Lutero fece la mossa opposta: cercò di sradicarlo dalla storia, facendolo diventare un puro “non ancora”, il che portò con sé l’apparizione di una nuova interpretazione della realtà cristiana, che utilizzava come criterio ermeneutico il paradigma della discontinuità: Abbiamo tratteggiato una forma della autocomprensione cristiana in cui storia e salvezza si trovavano intimamente mescolate, ed ecco che attualmente ci troviamo davanti a un modo assolutamente contrario di determinare i rapporti fra fede e storia, modo inaugurato da Lutero. Se fino ad ora la continuità di questa storia era stata costitutiva della concezione del cristianesimo come storia della salvezza, ecco che ora il cristianesimo appare essenzialmente sotto il segno della discontinuità. Se fino ad ora esso aveva preso la forma essenzialmente di comunità e di Chiesa, ora diviene determinante il pro me, il fatto in ultima analisi discontinuo, che ciò riguarda il singolo [. . .]. E poiché l’ontologia appariva come l’espressione filosofica fondamentale del concetto di continuità, è essa che viene combattuta come la corruzione apportata dalla scolastica, più tardi si dirà dall’ellenismo, nel cristianesimo, onde poi opporgli l’idea di storia.13
Come si può apprezzare da questo paragrafo, per Joseph Ratzinger questa frattura fra storia e fede è ciò che paradossalmente sta alla base della espulsione della filosofia dalla teologia e, per tanto, della sua storicizzazione. Perché, infatti, spinta dal lodevole desiderio di difendere la trascendenza divina, a partire da Lutero, la teologia riformista rifiutò Cfr. Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1986. 99ss; e anche Natura e compito della teologia, 22. 13 Elementi di teologia fondamentale, 102-103. 12
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sempre di più la filosofia14 e optò invece per “un pensare a partire dalla Parola Biblica”15 che in molti casi portò alla riduzione della salvezza alla storia. Per Ratzinger questa reductio diede luogo a due tappe. La prima rimase “entro la struttura tradizionale della ricerca, [. . .] concentrandosi [. . .] sul problema della relazione fra storia e essenza, del ruolo di mediazione della storia in rapporto all’essenziale”.16 Invece la seconda, più rivoluzionaria rispetto alla prima, coniugò la storia essenzialmente al futuro, comprendendola come salvezza non per motivo di un suo supposto ruolo di mediazione verso la trascendenza, ma perché, in quanto tempo non ancora accaduto, costituiva lo spazio necessario per lo sviluppo della libera autodeterminazione umana.17 Come si vede, si tratta di due correnti diverse: per la prima la storia sarebbe salvifica come mezzo, per l’altra, invece, come fine. In ogni modo, per il nostro autore in entrambi i casi la comprensione della salvezza diventò storicista, perché ambedue le correnti sostenevano una radicale rottura fra condizione storica dell’uomo e vita di fede. Così lo spiega lo stesso Ratzinger a proposito della dottrina paolina del Cristo come secondo Adamo: Si sa che Lutero, almeno in una parte della sua opera, ha talmente accentuato la differenza causata dall’alienazione, la quale si esprime nel modello dei due Adamo, che l’Adamo storico è soltanto legno e pietra, paragonato alla nuova esistenza inaugurata nella fede. Secondo la sua opera prima, egli quanto all’esistenza toccatagli sulla terra continuerebbe ad essere tale anche ulteriormente, cosicché tutto l’agire dell’uomo, dal punto di vista della salvezza, non potrebbe essere che peccato, mentre lo stesso peccato non sarebbe in grado di sopprimere la nuova esistenza
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Per considerarla “espressione [. . .] dell’uomo che non sa nulla della grazia a che cerca di costruirsi da sé la propria sapienza e la propria giustizia” (Natura e compito della Teologia, 22). 15 Ibidem, 22. 16 Elementi di teologia fondamentale, 103. 17 Cfr. Elementi di teologia fondamentale, 103-104.
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portata dalla fede. Qui i due termini sono pensati in una rigorosa discontinuità e per tanto non esiste già più per principio l’ontologia, cioè una continuità e identità dell’essenza, che abbracci anche le differenze della storia.18
Come rappresentanti di questa posizione Ratzinger menziona grandi figure come Barth,19 Bultmann20 e Moltmann. Riferendosi a loro afferma: Tutte queste dottrine non sono che delle variazioni di un solo e medesimo sforzo per descrivere la fede come salvezza in maniera puramente d’evento storico, rifiutando le categorie dell’essenza e risolvendo il problema della mediazione della storia nei confronti dell’essenza col sopprimere quest’ultima e con il dichiarare che solo la storia è quanto ha consistenza d’essere ed essenzialità.21
Potremmo continuare approfondendo le idee di Joseph Ratzinger al riguardo, nel fatto che per lui tutte queste teologie abbiano in comune l’idea che l’evento salvifico non possa mai oggettivizzarsi in essere o in esistente, o nel fatto che l’azione personale di Dio manchi interamente di una dimensione oggettiva.22 Ma penso che basti con quanto detto finora per capire che, secondo Ratzinger, il problema dello storicismo teologico ha le sue radici in questa rottura fra storia e ontologia. Passiamo a considerare invece come il nostro autore concepisca il rapporto fra ontologia e storia.
Ibidem, 106-107. “Che descrive la fede come l’azione di Dio sull’uomo e nell’uomo senza aggancio umano” (Elementi di Teologia Fondamentale, 107). 20 “Che, rigettando la continuità lineare, descrive la fede come l’‘adesso’ di volta in volta ricorrente della decisione, che si compie solo nell’atto puntuale dell’istante” (Elementi di Teologia Fondamentale, 107). 21 Elementi di teologia fondamentale, 107. 22 Cfr. Gesammelte Schriften, Band II: Offenbarung Verständins und Geschichtstheologie Bonaventuras, 60-61. 18
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Salvezza e antropologia Visto che la riflessione sullo storicismo ci ha portato alla considerazione della nozione di salvezza, incentreremo pure in essa lo studio del pensiero di Ratzinger sulla questione. Tradizionalmente la salvezza è stata esperimentata e descritta come liberazione e come compimento. Questa è l’immagine salvifica fondamentale che troviamo pure nel pensiero del teologo tedesco. Ma a lui piace parlare di questa liberazione e di questo compimento come di un ritorno dell’uomo a se stesso [zu sich selbe kommen]23 e alla sua essenza;24 come un diventare se stesso [werden wir selbst];25 come la liberazione dell’essere dell’uomo [Entschränkung des Seins]26 e dell’umanità originaria [Freilegung des eigentlich Menschlichen];27 come l’apertura definitiva dell’uomo verso gli aspetti sepolti della sua essenza [Eröffnung des Menschen auf sein verschüttetes Wesenliches];28 come realizzazione della piena unità con se stesso [die völlige Einheit mit sich selbst];29 e come agire/vivere secondo la verità del suo essere.30 In altre Introduzione al Cristianesimo, 208-209 e 227 [Gesammelte Schriften, Band IV.: Einführung in das Christentum, Herder, Freiburg im Breisgau 2014. 212 e 230]; Elementi di Teologia Fondamentale, 139 [Theologische Prinzipienlehre. Bausteine zur Fundamentaltheologie, Erich Wewel Verlag, München 1982. 196]; In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino 2006. 101 [Im Anfang schuf Gott. Vier Münchener Fastenpredigten über Schöpfung und Fall, Erich Wewel Verlag, München 1986. 57]. 24 Elementi di Teologia Fondamentale, 97, 98-99 e 103, [Theologische Prinzipienlehre, 160, 161 e 165]. 25 In principio Dio creò il cielo e la terra, 100 [Im Anfang schuf Gott, 56]. 26 Escatologia. Morte e vita eterna, Citadella Editrice, Assisi 19963 . 247 [Gesammelte Schriften, Band X.: Auferstehung und ewiges Leben, Herder, Freiburg im Breisgau 2012. 237]. 27 Elementi di Teologia Fondamentale, 100 [Theologische Prinzipienlehre, 162]. 28 Ibidem. 29 Escatologia. Morte e vita eterna, 81 [Auferstehung und ewiges Leben, 88-89]. 30 In principio Dio creò il cielo e la terra, 95 [Im Anfang schuf Gott, 54]; Opera Omnia, vol. 6/1: Gesù di Nazareth, 620 [Gesammelte Schriften, Band VI/I.: Jesus von Nazareth. Beitrage zur Christologie, Herder, Friburg im Breigau 2013. 563]. 23
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parole, per Ratzinger salvezza vuol dire liberazione e compimento della propria essenza. Davanti a una tale affermazione si potrebbe avere l’impressione che il nostro autore si sia spostato verso l’estremo opposto della bilancia, e che al posto di una reductio salutis in historiam proponga una reductio salutis in essentiam. Questa impressione, però, scompare quando ci fermiamo a considerare come concepisca quella essenza alla quale l’uomo deve “tornare” per poter essere salvo. La prima cosa che si dovrebbe forse dire su questo argomento è che Ratzinger pensa l’uomo biblicamente, cioè: dalla sua caratterizzazione scritturistica come imago Dei (cfr. Gn 1,27), espressione che lui capisce fondamentalmente come la sua originaria referenzialità a Dio. Questa è l’idea che compare, per esempio, nella sua Habilitationschrift sulla comprensione della Rivelazione e la teologia della storia in san Bonaventura. Lì l’allora giovane professore, spiega che l’uomo è immagine di Dio perché, a differenza di quelle creature che sono soltanto umbra et vestigium, – perché per loro Dio è soltanto la causa del suo essere –, per l’uomo Dio è anche oggetto di conoscenza e amore: Per “traccia” e “ombra” Dio è soltanto “causa”, mentre che per “immagine” è anche “oggetto di conoscenza” (obiectum) (cfr. Bonaventura, Sc Chr q.4 c [V 24]). In maniera che somiglianza con Dio vuol dire essere rivolto a Dio, conoscenza di Dio. Significa non uno stato o il rango di un essere rinchiuso in se stesso, bensì l’apertura di un essere verso Dio, vuol dire una relazione di conoscenza e di amore di Dio.31
Ma come si vede, per Ratzinger questo riferimento dell’uomo a Dio non è semplicemente una relazione statica, ma piuttosto una orientazione attiva, una tendenza, un vero e proprio desiderio: Da ciò risulta la formidabile dinamica, che abita nel concetto bonaventuriano d’imago: immagine significa non solo una relazione, bensì – nella 31
Gesammelte Schriften, Band II: Offenbarung Verständins und Geschichtstheologie Bonaventuras, 320-321 (la traduzione è mia).
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misura in cui questa relazione qui sotto (così come già anche nel Paradiso) è rotta e incompiuta (cfr. Bonaventura, II Sent d.23 a.2 q.3 c [II 543 b]) – un movimento, una brama [Sehnzucht] verso la totale unità con Dio. In questa misura la dottrina della somiglianza divina nell’uomo è identica alla dottrina della brama naturale dell’uomo verso Dio.32
Si potrebbe avere la tentazione di non accettare queste citazioni come dimostrazione del pensiero ratzingeriano e di considerarli come idee esclusivamente bonaventuriane, e infatti questo sarebbe il caso se non fosse perché guardando il resto della sua produzione teologica si scopre che queste idee costituiscono una specie di filo rosso che percorre tutta la sua antropologia. Ciò si vede, per esempio, nel suo articolo Gratia praesupponit naturam, scritto in occasione del sessantesimo compleanno del suo maestro e amico Gottlieb Söhngen. Lì Ratzinger spiega che l’uomo è natura: qualcosa di già dato con la creazione; ma che allo stesso tempo è anche spirito, il che vuol dire che quel “già dato” che l’uomo ha ricevuto con la creazione possiede una apertura esistenziale, una tendenza verso qualcosa che sta al di là di se stesso e che lui non può ottenere con le sue sole forze ma unicamente grazie a un dono di Dio che spetta a lui accogliere: Uno spirito puramente naturale è inconcepibile; per lo spirito è essenziale il non poter rimanere da solo. Deve venir sostenuto da ciò che è maggiore di lui, da ciò che è “soprannaturale”. Questo “soprannaturale” non cessa mai di essere grazia liberamente donata [. . .]; non smette mai di essere “soprannaturale”, non derivabile quindi da pura natura. E, nello stesso tempo, la struttura speciale dello spirito è così reale, la sua immediatezza con Dio così intima che egli non può vivere veramente se non nell’essere sostenuto direttamente da Dio; lo spirito supera sempre la pura natura [. . .]; esso non può esistere se non nella forma del dialogo e della libertà.33
32 33
Ibidem. Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1973. 146.
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La stessa idea compare anche in Escatologia. Morte e vita eterna. Lì il nostro autore definisce l’uomo come unità di corpo e anima,34 intendendo l’anima (psykhe) come forma corporis, cioè: come entelechia del corpo che, allo stesso stesso tempo, è anche spirito. Quest’affermazione così classica acquista in Ratzinger delle tonalità peculiari, a causa della sua – appena indicata – comprensione relazionale e “desiderosa” dello spirito. Quindi, anche da questo punto di vista, per Ratzinger l’uomo appare come un’essere essenzialmente riferito a Dio. Pure nel suo opuscolo In principio Dio creò il cielo e la terra troviamo queste idee sulla tensione esistenziale dell’uomo verso Dio e verso gli altri: La somiglianza con Dio significa per prima cosa che l’uomo non è chiuso in sé stesso. Se egli tenta di esserlo, tradisce sé stesso. La somiglianza con Dio significa “riferimento”; è una dinamica che mette in moto l’uomo e lo orienta al completamente altro; significa capacità di relazione, significa che l’uomo è capace di Dio. Di conseguenza l’uomo è se stesso alla massima potenza quando esce da se, quando è capace di dire “Tu” a Dio.35
Un altro luogo dove si conferma l’assimilazione delle idee bonaventuriane da parte di Ratzinger è Libertà e verità. Lì36 – così come in Introduzione al Cristianesimo –37 il teologo tedesco spiega la somiglianza divina nell’uomo stabilendo una comparazione analogica fra persona umana e Persone divine, e più specificamente fra l’uomo e la seconda Persona della Trinità. Prendendo questa via, Ratzinger riesce a mostrare come a somiglianza del Figlio, il cui distintivo personale consiste nel suo procedere dal Padre (essere-da) e nel suo tornare a Lui (essere-per) nell’Amore dello Spirito Santo; così anche l’uomo è un essere-da Dio [Sein-von] e un essere-per Dio [Sein-für]. Il Figlio lo è in quanto, generato eternamente dal Padre, riceve tutto ciò che è da Lui e a Lui lo Cfr. Escatologia. Morte e vita eterna, 158ss. In principio Dio creò il cielo e la terra, 68-69. 36 Cfr., Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Edizioni Cantagalli, Siena 2003. 261-262. 37 Cfr. Introduzione al Cristianesimo, 145-146. 34 35
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restituisce in un atto di amorosa e totale autodedizione. L’uomo, invece, lo è in quanto, creato per amore dal nulla da Dio, ha ricevuto da Lui tutto cio che è e, per tanto, si trova essenzialmente riferito a Lui.
Conclusioni Dopo questo breve esame degli scritti del teologo tedesco, possiamo già trarre alcune conseguenze per la nostra questione: In primo luogo possiamo dire che per Joseph Ratzinger l’uomo è immagine di Dio a due livelli: uno, che potremmo definire come “dinamicorelazionale”, e un altro, che potremmo chiamare “di somiglianza”. Per livello “dinamico-relazionale” mi riferisco piuttosto alla dimensione simbolica della nozione d’immagine. Cioè, al fatto che una immagine è sempre qualcosa che ne rappresenta un’altra e perciò il suo essere consiste nel rinviare, nel fare riferimento a una cosa che sta al di là di essa.38 Questo è il senso in cui i primi testi citati (la tesi di Ratzinger su Bonaventura, Gratia praesupponit naturam, Escatologia e In principio Dio creò il cielo e la terra) parlano dell’uomo come immagine di Dio. Col secondo livello, invece, mi riferisco alla dimensione di somiglianza pure contenuta nella comprensione ratzingeriana dell’uomo come imago Dei. In questo secondo senso l’uomo sarebbe immagine di Dio perché gli assomiglia, perché, analogamente a come succede con le Persone divine, pure lui è un sussistente relazionale, un co-esistente: un essere-da, un essere-con e un essere-per. Questo è il senso con il quale l’espressione “immagine di Dio” viene utilizzata da Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo e Libertà e verità. Come si può notare, questi due livelli si trovano intrecciati fra di loro, nel senso che la relazionalità che fa dell’uomo un essere somigliante a Dio, è anzitutto la sua referenzialità verso Dio e, derivatamente, quella verso gli altri esseri. Una seconda conclusione che emerge dalla riflessione su i testi esposti è che l’antropologia ratzingeriana dell’imago Dei si fonda sulla sua 38
Cfr. In principio Dio creò il cielo e la terra, 68-69.
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comprensione relazionale della Creazione, sul fatto che per Ratzinger Dio non crea solo con Sapienza ma piuttosto attraverso la sua Parola, cioè: attraverso una Sapienza che allo stesso tempo è anche relazione.39 Questa prospettiva permette al nostro autore di presentare la Creazione come un dialogo amoroso fra Dio e le sue creature. Dialogo che nel caso dell’uomo acquista delle caratteristiche peculiari perché, a differenza di ciò che accade con il resto degli esseri, Dio gli uomini li conosce e li ama in modo individuale e particolare, Lui “chiama ogni singolo con il suo nome, sconosciuto agli altri”.40 Ciò determina che per gli uomini Dio non sia solo causa dalla quale dipendono ma pure oggetto con il quale si relazionano attraverso la conoscenza e l’amore, con il quale si rapportano in modo personale. Questo porta con sé pure il fatto che l’apertura esistenziale dell’uomo verso Dio sia, da un lato, qualcosa di proprio – o, in terminologia tomista, naturale –, nel senso che esso non costituisce per lui una dimensione aggiunta dall’esterno, ma qualcosa che sta ancorata nel più profondo del suo essere. Ma, da un altro lato, questa apertura lo mette pure al di là della sola natura perché, trattandosi di una tendenza verso Dio, essa lo spinge verso qualcosa che sta al di là e al di sopra di se stesso. Arrivati a questo punto possiamo finalmente rispondere alla nostra domanda iniziale. Avevamo cominciato il nostro percorso dicendo che Ratzinger concepisce la salvezza come il “ritorno a se stesso”, come l’arrivare all’“identità con la propria essenza”, come “raggiungere ciò che le caratterizza come uomo”. Adesso, dopo questo breve esame della sua antropologia, possiamo affermare che queste descrizioni non sono enunciati di una salvezza né autoreferenziale né esclusivamente ontologica perché, caratterizzando l’essenza dell’uomo come riferimento dinamico e libero verso Dio, come co-esistenza, e come desiderio di Dio, ci risulta che la sua salvezza solo può essere raggiunta sotto la forma di esodo, di uscita da sé verso la “comunione con il totalmente Altro”; il che soltanto può avere luogo nell’esercizio della propria libertà, cioè: nella storia. 39 40
Cfr., Introduzione al Cristianesimo, 145. Elementi di Teologia Fondamentale, 120.
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Così vediamo come l’antropologia ratzingeriana dell’imago Dei, rende possibile un concetto di salvezza che riesce a mettere insieme ontologia e storia, che riesce a creare una “continuità e identità dell’essenza, che abbracci anche le differenze della storia”:41 “La tensione fra ontologia e storia ha in definitiva il suo fondamento nella tensione dell’essenza umana stessa, che ha bisogno di essere fuori di sé, per poter essere presso di sé; essa ha il suo fondamento nel mistero di Dio, che è libertà e che quindi chiama ogni singolo con il suo nome, sconosciuto agli altri: in tal modo nel particolare, a lui si dà in possesso il tutto”.42
41 42
Ibidem, 107. Ibidem, 120.
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Daniélou teologo sistematico? Il concetto di akolouthía in Gregorio di Nissa e il suo uso nell’opera di Jean Daniélou Sincero Mantelli (Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna)
Alla domanda se Jean Daniélou fosse un teologo, Marie-Josèphe Rondeau rispondeva che la sua formazione lo escluderebbe dall’universo teologico in senso stretto – per la mancata appartenenza alla corrente tomista.1 In realtà, muovendo come il coetaneo svizzero Hans Urs von Balthasar dallo studio dei primi secoli cristiani e soprattutto dei Padri della Chiesa, il francese Daniélou aveva compreso per tempo che il rinnovamento della teologia poteva venire soltanto da una ripresa immediata del pensiero dei Padri, unitamente alla riscoperta della Scrittura e della liturgia. Le condanne della Nouvelle théologie non colpirono Daniélou, se non già confuso con Yves Congar ed Henri de Lubac tra gli esponenti del movimento, certo ascritto all’universo degli storici e degli spirituali; ma il clima doveva rapidamente cambiare alle soglie del Concilio Vaticano II, quando papa Giovanni XXIII lo chiamò quale perito della commissione dottrinale. Anche se tale invito sembra mutare la posizione di Daniélou, ciò che più impedì di considerarlo un teologo fu l’assenza, nella sua produzione scientifica, di opere organiche – come quelle di de Lubac e von Balthasar. Daniélou amava giustapporre le riflessioni, accumularle in pubblicazioni successive nelle quali riprendeva motivi precedenti con piccole e grandi innovazioni, in un costante sforzo di manutenzione caratteristico dei grandi studiosi di estrazione storica e filologica. Non compose mai summae, anzitutto perché dedicò molto 1
M.-J. Rondeau, Jean Daniélou théologien, in J. Fontaine (ed.), Actualité de Jean Daniélou, Éditions du Cerf, Paris 2006, 127-136.
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del suo tempo all’apostolato e perché, per sua stessa ammissione, non aveva una mens sistematica: “Je n’ai pas la puissance philosophique et l’esprit de synthèse qui me permettraient de faire une grande oeuvre théologique. Je connais ici mes limites”.2 Ma si può dire di lui che, pur non avendo scritto una formale storia della teologia, allo studio di questa egli ha dato innumerevoli preziosi contributi. Sarebbe dunque ozioso riprendere il discorso dall’equazione della Rondeau fra tomismo e teologia o dalle sue conclusioni su Daniélou teologo non sistematico. Giova se mai porsi un quesito ulteriore: si può ritrovare, o ricostruire, una certa “sistematicità” – un filo rosso – nell’opera non sistematica di Daniélou? Di lui già la stessa Rondeau aveva sorprendentemente affermato: “Il réclamait le pluralisme théologique dans le respect réciproque. C’est-à-dire que, s’il demandait qu’on les laissât, lui et ses amis, tenter des systématisations théologiques non thomistes”.3 Per Daniélou la fede cristiana impone una certa sistematicità per essere pensata: tuttavia, egli rivendica l’esistenza di altre vie per giungere alla sintesi, non ritenendo il tomismo adatto al contesto contemporaneo.4 Un suggerimento importante alla nostra ricerca viene dal libretto del 1942 Le signe du Temple ou de la presence de Dieu, di cui de Lubac ebbe a dire che, in apparenza così originale, era in realtà totalmente tradizionale, perché non si accontenta semplicemente di riprendere temi patristici, ma fa suo il metodo dei Padri.5 Proprio di metodo parla Daniélou nelle prime pagine dell’opera: “Il Tempio, con l’Alleanza è una delle realtà essenziali della Bibbia, uno dei sensi secondo cui la decifriamo”. Nella patristica Daniélou ritrova categorie bibliche che permettono di costruire una teologia, di ravvisare una costruzione coerente del pensiero attraverso una lettura trasversale dei testi biblici letterariamente non connessi tra di loro, sottratti così a una totale quanto
2 3 4 5
Ibidem, 152. Ibidem, 137. Ibidem, 137. Ibidem, 139.
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fatale disomogeneità.6 A ben guardare, la riflessione sul tempio non è l’analisi di un tópos letterario oppure il commento a passi scelti su base tematica, bensì una vera e propria sintesi teologica al lume di una categoria capace di mettere ordine e far emergere il senso della storia della salvezza dal principio alla consumazione finale: “[. . .] Questo mistero della storia continua sotto i nostri occhi. Ci dona la chiave di quella relazione drammatica che continuamente attira e respinge i tre mondi: pagano, giudaico e cristiano, che rappresentano le tre grandi epoche”.7 Frequentando assiduamente i Padri, Daniélou viene in contatto con opere di teologia sistematica. Accanto alla sapientia che si ritrova nella vita e nella riflessione della Chiesa antica, i Padri sono testimoni anche di un’attività riflessiva e critica (scientia): esistono numerosi esempi di questa tendenza (De principiis, trattati sull’Incarnazione, sulla Trinità e sullo Spirito Santo, opere antiereticali); e Daniélou ne studia i testi, indagando tra i primi l’influsso che la filosofia del basso impero, in primis il neoplatonismo, ebbe su quelle riflessioni insieme ai tentativi speculativi della Chiesa degli inizi. La Rondeau, tuttavia, dà un giudizio fuorviante su questo aspetto “vichiano” del lavoro intellettuale di Daniélou: “Mais ces études sont restées pour lui d’ordre historique. Elles ne lui ont pas été source d’inspiration”.8 Sembra dunque opportuno ritornare alla biografia intellettuale del futuro cardinale, per ricordare che allo scolasticato di Lyon-Fourvière (1936-1939), durante gli studi insieme a von Balthasar, egli scoprì l’opera e la teologia di Gregorio di Nissa imbattendosi nel concetto di akolouthía/consequentia (enchaînement), ossia di quella concatenazione che permette di interpretare un fenomeno o un testo analizzando quanto lo lega agli elementi che lo precedono e lo seguono. Lo studio di questa 6
7
8
J. Daniélou, Il segno del Tempio ovvero della presenza di Dio (1942), Morcelliana, Brescia 1953, 7. Ibidem, 52. Si può anche ipotizzare, pur senza precisi elementi al riguardo, che lo schema degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola abbia influenzato la tendenza a ricondurre a unitaria coerenza il percorso del cristiano nell’unità semplice e armonica di Dio: B. Pottier, Le Grégoire de Nysse de Jean Daniélou. Platonisme et théologie mystique (1944): Eros et agapé, «Nouvelle revue théologique» 128 (2006) 262. Rondeau, Jean Daniélou, 148.
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categoria, più teologica che filosofica, negli scritti del Nisseno getta una luce diversa sulla questione di Daniélou “teologo sistematico”, poiché l’uso che egli fa di questo concetto e la sua stessa tendenza a organizzare sistematicamente il pensiero degli autori da lui approfonditi, in particolare Gregorio di Nissa, sono testimoni della sua capacità di intuire il mistero cristiano nella sua profonda unità e coerenza, senza per questo dover costruire trattazioni esaustive e concluse. La sistematicità teologica ricercata da Daniélou è infatti quella relativa all’unità del mistero, che si articola e si può indagare in molteplici aspetti nel suo storico disvelarsi, ma non può mai essere esaurito, per intima eccedenza, da una trattazione umana. Prima di entrare nel merito del termine akolouthía, conviene insistere sul ruolo di Gregorio di Nissa e della sua teologia nel percorso di ricerca di Daniélou, che nel 1944 pubblicava la sua dissertazione dottorale sulla dottrina spirituale di Gregorio di Nissa, Platonisme et théologie mystique:9 con questa monografia egli si inseriva nel filone di ricerca su platonismo e teologia mistica assai vivo in quegli anni e sistematizzava il percorso spirituale indicato da Gregorio nelle sue opere secondo tre tappe (via purgativa, illuminativa e unitiva), che appariranno solo successivamente nel linguaggio dei maestri dello spirito. Indicava così in Gregorio la fonte di questi successivi sviluppi o applicava le tre tappe non gregoriane per sistematizzare il pensiero del Nisseno? Ciò che colpisce, e che suscitò perplessità fin dall’uscita dell’opera di Daniélou, è la tendenza a ordinare e sistematizzare gli scritti di Gregorio di Nissa secondo schemi volta a volta inverati da testi e immagini dell’autore e poi collegati ad altri schemi del pensiero antico, in particolare quelli di Origene.10 D’altro canto, anche le critiche rivolte da Walter Völker e altri a questa sistematizzazione, che sembrava arbitraria, confermano solo l’inclinazione di Daniélou a organizzare coerentemente il pensiero antico. Tali critiche non lo avrebbero poi J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique. Essai sur la doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse, Aubier, Paris 1944. 10 Cfr. Pottier, Le Grégoire de Nysse, 258-273: “Tous les spécialistes ont critiqué cette manière dont Daniélou systématise Grégoire et ils n’ont pas tort sans doute” (262). 9
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distolto dal suo tentativo sistematico, dal momento che anche le monografie successive su Origene (1948) e su Filone (1958) seguono lo stesso schema tripartito.11 Due anni dopo, riflettendo sul pericolo radicale costituito dall’ateismo per il pensiero cristiano, scrive: “La seconda [causa] è la virulenza delle forme attuali di ateismo, che mettono in questione non tanto un aspetto particolare del cristianesimo, ma la sua visione complessiva del mondo, e ciò obbliga i cristiani a una presa di coscienza più ampia anche in merito all’originalità della loro dottrina”.12 Anche se indirettamente, questo passo fa intuire che per Daniélou il compito della teologia è “sistematico”, perché la critica contemporanea alla Weltanschauung cristiana è radicale e totale. D’altro canto occorre porre attenzione al fatto che per Daniélou la sistematizzazione teologica può presentare dei grossi rischi, come nell’affaire modernista, che aveva messo in luce i limiti del razionalismo che tratta Dio come qualsiasi altro oggetto perdendo il senso della trascendenza.13 Ma proprio nel suo sforzo per il rinnovamento teologico, partito da un entusiastico ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, avverte subito, insieme alla grande opportunità,14 un rischio da non sottovalutare, cioè di perdere di mira l’orizzonte d’insieme della visione cristiana: “Il ritorno alla Bibbia si accompagna a un rinnovamento notevole della teologia patristica. E ciò non sorprende se ci si rammenta che l’opera dei Padri è in gran Pottier, Le Grégoire de Nysse, 262, 267-271. J. Daniélou, Gli orientamenti attuali del pensiero religioso (1946), in G. Pasqale, Jean Daniélou, Morcelliana, Brescia 2011, 101. 13 Ibidem, 101-103, 117. 14 “Un primo tratto importante del pensiero religioso contemporaneo è il fatto che si è ripreso contatto con le fonti essenziali che sono la Bibbia, i Padri della Chiesa, la liturgia. Certamente questo contatto, teoricamente, non è mai stato perso. Ma dopo il tredicesimo secolo la teologia, che fino a quel momento era stata essenzialmente commentario della Bibbia, si è costituita come scienza autonoma. Autonomia che fu, a suo tempo, fattore di progresso. Ma ne è conseguita una rottura progressiva fra l’esegesi e la teologia – sviluppandosi ciascuna disciplina secondo il suo proprio metodo –, e un progressivo impoverimento della teologia stessa. Il protestantesimo manifesta un violento ritorno alla Bibbia, a condanna di una teologia puramente scolastica”. Ibidem, 105. 11 12
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parte un ampio commento alla sacra Scrittura che, da Ippolito di Roma a Bernardo di Chiaravalle, costituisce l’ambito specifico del pensiero cristiano. Il pensiero cristiano ha cercato, infatti, per secoli di stabilire queste corrispondenze fra l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento, la liturgia, la spiritualità, l’escatologia, – scienza meravigliosa in cui tutto il pensiero cristiano trovava la sua unità e della quale il nostro tempo aveva perduto la chiave”.15 Passando a considerare come la teologia attuale non possa ignorare le istanze del corpo di Cristo, ovvero non debba essere slegata dall’apostolato, Daniélou torna sul tema dell’unità della visione cristiana: “Ma, d’altro canto, il teologo deve anche situare i valori in una visione totale dell’uomo cristiano e, di conseguenza, mostrare bene il primato della nuova creazione operata nell’uomo dalla grazia, la quale si dischiude nelle virtù teologali, princìpi della familiarità con Dio e della carità soprannaturale con gli uomini”.16 Pasquale offre, poi, una significativa suggestione circa il nuovo modo usato da Daniélou per dare sistematicità al pensiero teologico: “Se nessuna sintesi teologica è qui proposta, un angolo del velo è sollevato, tuttavia, per lasciar intravedere i grandi tratti di una teologia, a dispetto dell’assenza di una summa che raccolga in maniera organica un pensiero talvolta non compiuto nella sua elaborazione”.17 Per dare consistenza alla considerazione di Daniélou quale teologo “sistematico”, entriamo nella questione particolare del concetto di akolouthía, che come detto egli studia nell’opera del Nisseno. Gregorio – nota Daniélou – si discosta consapevolmente da Basilio nel commentare il testo della creazione (Gn 1), perché intende offrire non solo – come aveva fatto il fratello – una lettura dei singoli elementi del racconto biblico, ma mostrare come tutti i tasselli della narrazione siano intrinsecamente concatenati e abbisognino, di conseguenza, di una lettura logica, coerente e unitaria all’interno dell’intero episodio. Lo stesso Gregorio applica la parola akolouthía all’esegesi di un testo, in quanIbidem, 107. Ibidem, 123. 17 Pasqale, Jean Daniélou, 126. 15 16
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to si dipana in una successione ordinata che esprime il progresso del pensiero dell’autore. In campo esegetico il termine può semplicemente indicare la trama di un racconto o il contesto di un passo, sempre in riferimento alla logica d’insieme. Ma ciò che più conta è l’applicazione dell’akolouthía al testo biblico: già la tradizione esegetica aveva adattato alla Scrittura il metodo usato dai grammatici specialmente per spiegare testi letterari, per procedere dal senso dell’insieme di un ampio contesto all’interpretazione di un particolare. Secondo Gregorio, poi, ricercare l’ordine del testo equivale a mettersi sulle tracce della successione dei fatti (historía) che il brano intende riferire. Pertanto la consequenzialità (akolouthía) con cui l’autore sacro riferisce i fatti, ad esempio i momenti della creazione, non è casuale: ha un significato che l’esegeta ha il compito di afferrare (theoría). Il livello di tale visione varierà a seconda del tipo di esegesi che si intende perseguire, sia essa letterale o allegorica: in entrambi i casi, comunque, l’interpretazione dovrà decifrare e seguire un ordine, cioè un’akolouthía. Anche Girolamo18 condivide questa concezione di Gregorio e ciò non deve destare stupore, perché la fonte del Nisseno è appunto Origene: “Cette conception d’une akolouthia intelligible qu’il faut dégager à partir de la succession historique apparaît chez Origène, dont Grégoire ici est dependant”.19 Questo concetto aveva già una lunga storia: il primo riferimento è ad Aristotele, dal quale deriva l’idea di akolouthía come base del pensiero scientifico che ricerca la concatenazione necessaria dei fenomeni; il secondo è a Plotino, dal quale è mediato l’aspetto più originale e decisivo della consequentia, vale a dire il fatto che la coerenza e la verità di un particolare aspetto si dimostrano mediante il loro legame con i princìpi primi (archaí) e attraverso il riferimento a una comprensione d’insieme (theoría); il terzo è allo stoicismo, il cui lessico filosofico si riferisce all’“ordine del mondo”; il quarto è a Galeno, autore peraltro citato esplicitamente da Gregorio, il quale afferma che per gli Girolamo, In Hab. 2, 3, 1. Cfr. Introduzione, in S. Mantelli (a cura di), Girolamo. Commento al profeta Abacuc, c.d.s. 19 J. Daniélou, Akolouthia chez Grégoire de Nysse, «Revue des Sciences Religieuses» 27 (1953) 239 in riferimento a Or., Princ. 4, 2, 9; CIo. 20, 12; 10, 26. 18
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stoici l’akolouthía designa il metodo scientifico stesso, che si sforza di collegare i fenomeni ai loro princìpi (archaí). Proprio quest’ultimo riferimento ci fa ritrovare la fonte dell’uso proprio e originale che Gregorio vuol fare del metodo di indagine sotteso al termine akolouthía, vale a dire che la vera conoscenza deve tendere a ritrovare il legame necessario che unisce i fenomeni.20 Alcuni anni dopo, la riflessione di Daniélou giunge a maturazione nel testo L’être et le temps chez Grégoire de Nysse,21 dove riprende anche il saggio sintetizzato sopra e lo fonde in uno sguardo d’insieme, che muove dallo studio del vocabolario del Nisseno, pur consapevole dei limiti di un’analisi lessicografica. L’utilizzazione e la trasformazione di categorie stoiche (akolouthía; tropé) da parte di Gregorio per esprimere il suo concetto di tempo e di storia conducono Daniélou a ricostruire il suo pensiero non solo sull’essere ma anche sul tempo, cioè la sua teologia della storia. Egli, dunque, svolge la sua ricerca tenendo presenti l’intera produzione di Gregorio e la letteratura critica al riguardo, ma si concentra su un versante parziale, quello del vocabolario, per arrivare ad elementi di sintesi, ritenendo i lessemi indagati capaci di dischiudere il pensiero complessivo di questo autore. Si tratta di termini chiave, capaci di organizzare e sistematizzare il pensiero del Nisseno: il verificare se l’intuizione di Daniélou sia confermata dai testi è un’altra questione, tuttavia per il teologo gesuita è possibile avvalersi di dati storico-letterari per arrivare a un sistema teologico coerente e unitario. Questa consapevolezza appare in tutta la sua chiarezza nell’introduzione all’opera, in cui afferma di vedere in Gregorio un autore che attraverso “brevi scritti d’insieme” è stato capace di costruire “[una] visione d’insieme, con la sua peculiarità sistematica”. Daniélou ritrova queste caratteristiche analizzando le diverse influenze filosofiche e religiose che animarono la riflessione di Gregorio e, in seconda battuta, mettendo in luce che la sua opera “rimane pur sempre una sintesi originale, molto esatta nei suoi collegamenti principali”. Lo studio del lessico lo 20 21
Ibidem, 219-249. J. Daniélou, L’être et le temps chez Grégoire de Nysse, Brill, Leiden 1970.
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porta a cogliere la sintesi gregoriana come una filosofia dell’essere e del tempo, ovvero a mettere in luce il tratto originale del suo pensiero che consiste nella coordinazione di questi due aspetti. Ciò che più conta per la nostra ricerca, però, è l’indicazione di metodo in cui Daniélou teorizza il suo modus operandi: dallo studio analitico di alcuni vocaboli ricorrenti (storico-letterario) arriva a trovarne due particolarmente significativi “per esprimere la sua concezione del tempo e dello spazio”, cioè akolouthía e tropé. Mentre conferma con questo saggio l’influenza filoniana sul pensiero del Nisseno e contemporaneamente ne fa emergere l’originalità, Daniélou ritiene di non essere arrivato alla sintesi del pensiero del suo autore – il metodo seguito per sua stessa ammissione è parziale –, ma pensa di averla resa possibile con uno studio non preconcetto delle sue fonti. Al riconoscimento dei limiti della ricerca, però, segue una dichiarazione sul lavoro svolto che ci illumina: “Pensiamo che questi materiali non si presentino in modo inorganico, ma che il loro raggruppamento indichi già alcune linee d’insieme. Essi si sono riuniti intorno a tre aspetti principali, che costituiscono le maggiori suddivisioni del libro: la struttura dell’universo, la natura dello spirito, la crescita dell’uomo. In conclusione, vorremmo dire che ci auguriamo che questo lavoro storico sia anche un contributo al rinnovamento del pensiero filosofico del cristianesimo”. L’opera di Gregorio che gli appare “esemplare [. . .], perché unisce l’arditezza della ricerca all’attendibilità della fede”, diventa paradigmatica anche nell’ispirare la teologia patristica di Daniélou che, seguendo il criterio dell’akolouthía, parte dalla coerenza testuale per arrivare alla scienza del reale, ovvero a una visione d’insieme del mistero cristiano. Ci sembra di aver posto le premesse, attraverso questa discussione purtroppo desultoria dell’opera di Daniélou, per studiare il suo metodo teologico formatosi sotto la spinta della riflessione del Nisseno, capace di far emergere la consequenziale unità e organicità del mistero, senza per questo dover cedere alla creazione di sistemi chiusi e onnicomprensivi. La necessità di una visione d’insieme, insita peraltro nel mistero cristiano, è stata reclamata da altri autori, anche in ambiti non propriamente 421
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teologici. Una voce autorevole a questo proposito è quella di Joseph Ratzinger, che in questo simposio è accostato alla figura di Daniélou. Nell’ambito di un convegno tenutosi a Parigi e Lione nel 1983, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede mise a tema la necessità di un insegnamento sistematico della dottrina cristiana nella catechesi.22 Anzitutto notò che, se la composizione del catechismo come libro risale al tempo della Riforma, in realtà la trasmissione dei contenuti della fede, inseriti in una struttura coerente e unitaria, risale al catecumenato. Questo mette radicalmente in discussione la tendenza pastorale odierna che ha fatto propria l’ipertrofia del metodo rispetto al contenuto, tipica nella pedagogia contemporanea, insieme all’idea marxista di subordinare la teoria alla prassi e al fatto di non avere più il coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso. In conclusione, afferma Ratzinger, questa modalità di insegnamento fa perdere di vista l’unità del mistero di fede e la possibilità di costruire relazioni strutturate fra i diversi articoli del Credo. Proprio Benedetto XVI, che non esitò ad attribuire il titolo di teologo a Daniélou, ci ha fatto pensare a questa esigenza che, messa in luce nella catechesi, deve crescere a partire dalla teologia.23 Ma come tenere insieme l’esigenza di andare alle fonti e quella di essere attenti al pensiero contemporaneo, senza umiliare l’intrinseca necessità di una soluzione sistematica del pensare teologico? La teologia patristica, che Daniélou studia e imita nella sua riflessione sul mistero cristiano – il ressourcement diventa nelle sue mani sorgente di rinnovamento anche del metodo teologico –, non è sistematica in quanto crea un sistema che organizza e limita il mistero divino, ma coglie la coerenza di tale mistero e ne fa intuire l’unità, la semplicità e la verità, mostrando la concatenazione armoniosa dei membra che a prima vista si presentano disiecta a colui che lo indaga. Nelle mani del teologo Daniélou l’akolouthía J. Ratzinger, Transmission de la Foi et sources de la Foi, in D.J. Ryan, J. Ratzinger, G. Daniels & F. Marcharski, Transmettre la foi aujourd’hui, Éditions du Centurion, Paris 1983, 41-61. 23 “Comment ne pas évoquer la figure de ce théologien de la Compagnie de Jésus”. Rondeau, Jean Daniélou, 11. 22
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Sincero Mantelli
come elemento filosofico per la costruzione della teologia della storia della salvezza (corpo mistico) e della teologia mistica e sacramentale (vita spirituale in tre tappe) diventa una categoria capace di far assurgere la sua indagine al rango di pensiero cristiano unitario, cioè sistematico.
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J. Ratzinger come Agostino: Religiosità della ragione, laicità della fede. L’attualità di un dibattito antico Giuseppe Fidelibus (Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara)
La correlazione tra ragione e religione viene oggi comunemente stabilita secondo una previa equivalenza: ragione a laicità, fede a religione – salvo muoversi poi in un contesto di significato dove tra queste due equivalenze si arriva a stabilire un rapporto di opposizione, quando non addirittura di contrapposizione in ordine di principio.1 Nell’attuale quadro storico-sociale segnato dal funesto fenomeno del terrorismo internazionale – spesso pretestuosamente motivato in senso religioso – vorremmo provare a ripensare criticamente un tale presupposto alla luce di alcuni passaggi nei quali il teologo J. Ratzinger rilegge il nostro tempo, facendo sua la provocazione di un dialogo critico ad esso pertinente, sebbene situato in un’epoca storicamente distante dal presente. Alcuni passaggi di questa rilettura – lo diciamo esplicitamente – hanno rappresentato, almeno per noi, occasione per una vera e propria scoperta di carattere storico-filosofico e per un’autentica provocazione sul piano teoretico.2 1
2
Un tale contesto viene ampiamente descritto e criticamente affrontato in un volume dal titolo sicuramente eloquente: V. Cesarone, F. P. Ciglia, O. Tolone (a cura di), Filosofia e religione nemiche mortali? Scritti in onore di Pietro De Vitiis, Edizioni ETS, Pisa 2012. Lontanissimi da ogni vanitoso spirito di autocelebrazione, ricordiamo in questa sede i nostri quasi tre anni di lavoro che hanno acceso in noi il senso di stupore e gratitudine presso una tale scoperta. Dichiariamo ora il debito che questa nostra esperienza di allora deve agli studi agostiniani dell’allora Cardinale J. Ratzinger; si tratta di: G. Fidelibus, Ragione, religione, città. Una rilettura filosofica del libro VIII del De civitate Dei di Sant’Agostino, Edigrafital, Teramo 2002.
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Il contesto, la qestione, la prospettiva Nel corso del suo noto dialogo con J. Habermas, Ratzinger fa osservare: Nel frattempo non ci spaventa più tanto la paura di una grande guerra, bensì la paura del terrorismo onnipresente, che può colpire e attivarsi in ogni luogo. L’umanità, vediamo oggi, non ha bisogno della grande guerra per rendere invivibile il mondo. I poteri anonimi del terrore, che possono essere presenti ovunque, sono sufficientemente forti da perseguitarci tutti fin nella vita d’ogni giorno, dove permane la minaccia che elementi criminali guadagnino l’accesso a grandi potenziali di distruzione e perciò possano sprofondare il mondo nel caos [. . .] Se il terrorismo è alimentato dal fanatismo religioso, come è, la religione è salvifica e risanatrice, o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi e perciò induce all’intolleranza e al terrorismo? La religione non deve pertanto essere posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata?3 .
Se la situazione storico-sociale così descritta è attraversata dal pericolo di collusione tra potere e criminalità, ad essere chiamato in causa, più propriamente al cospetto del pensiero, è quello pretestuoso tra fenomeno terroristico e giustificazione religiosa della pratica criminale. L’interrogativo di Ratzinger su un necessario, auspicabile controllo razionale su questa malaugurata strumentalizzazione del religioso ci porta subito al cuore della questione. È lo stesso Habermas che, da filosofo, ce ne propone i termini in ambito odierno: Le teorie postmoderne concettualizzano le crisi attraverso una critica della ragione: non le descrivono come la conseguenza di un esaurimento selettivo dei potenziali di razionalità comunque insiti nella modernità occidentale, ma come logico risultato del programma di una razionalizzazione spirituale e sociale autodistruttiva. Uno scetticismo radicale nei confronti della ragione è invero originariamente estraneo alla tradizione cattolica.4 3
4
J. Habermas, J. Ratzinger, Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, Katolische Akademie in Bayern 2004, Verlag Herder GmbH Freiburg im Breisgau 2005; tr. it. G. Bosetti (a cura di), Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005 (da cui citiamo), 70-71. Habermas-Ratzinger, Ragione e fede, 52-53.
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Insomma, nell’articolata congerie delle posizioni di marca postmoderna, per una seria critica della ragione, non appaiono percorribili né la via dello scetticismo radicale – piuttosto imperante – nei confronti del suo potenziale né quella che fa leva su un suo presunto potere onnicomprensivo. Il filosofo tedesco riconosce però, in tale contesto, alla tradizione cattolica una posizione realisticamente aperta ed alternativa ad entrambe quelle vie. Il teologo J. Ratzinger sembra aprire, a questo punto, una prospettiva di dialogo nell’orizzonte critico dischiuso da Habermas.5 Egli scoraggia subito ogni tentativo di appoggiarsi ad una qualche forma di dogmatismo religioso, facendo osservare: Ci sono patologie nella religione che sono assai pericolose [. . .] Ma [. . .] esistono patologie anche nella ragione (cosa che all’umanità oggi non è altrettanto nota); una hybris della ragione, che non è meno pericolosa [. . .] Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente.6
Niente scappatoie, dunque. Il vero snodo teoretico è situato laddove sia possibile questa chiarificazione a tutto campo per un riconoscimento reciproco. Ne deriva subito un richiamo provocatorio alla stessa tradizione cattolica evocata da Habermas. L’asse portante di questa reciproca chiarificazione coinvolge a pieno titolo – a detta di Ratzinger – l’essenza stessa del cristianesimo ed il suo eventuale apporto ad un tale riconoscimento reciproco. L’operazione appare però tutt’altro che scontatamente facile. Questo asse, segnato dal dialogo tra religione e ragione in ambito odierno, investe infatti il cristianesimo sul piano di quella che viene 5
6
C’è chi ha voluto far risaltare esplicitamente la peculiarità teoretica del contributo di Habermas nel contesto del dibattito: “in quel dialogo era già stato Habermas a concedere con convinzione che [. . .] il contenuto esistenziale e valoriale del vissuto religioso rappresenta per la ragione, nella crisi dell’individualità postmoderna, una sfida cognitiva a tutto campo” (E. Mazzarella, Identità e integrazione tra religione e democrazia, in: D. Bosco-R. Garaventa-L. Gentile-C. Tuozzolo (a cura di), Logica Ontologia ed Etica. Studi in onore di Raffaele Ciafardone, Franco Angeli, Milano 2011, 399-400). Habermas-Ratzinger, Ragione e fede, 79-80 (Corsivo dell’autore).
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indicata come una sua, storicamente inedita, crisi di identità; la crisi, appunto, della sua intrinseca pretesa alla verità. Ora, nella produzione culturale dell’allora Cardinale la messa a tema di questa crisi precede il dialogo del 2004.7 Il nucleo interrogativo di fondo è se in questa crisi dell’umanità, ove emerge la divisione tra ragione e religione con le loro rispettive “patologie”, possa ancora avere un senso ragionevole la nozione di cristianesimo come religio vera. “Questa crisi – fa osservare Ratzinger – ha una doppia dimensione: innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se sia giusto, in fondo, applicare il concetto di verità alla religione, in altri termini, se sia dato all’uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine”.8 Si direbbe che, per l’autore, l’epoca della crisi della ragione costringa la religione (ma a maggior ragione il cristianesimo) ad una serietà di verifica quanto al suo intrinseco contenuto veritativo. La possibilità stessa della collaborazione e del riconoscimento tra fede e ragione viene, così, fatta dipendere dalla verifica della fede nella tradizione cattolica in modo da venire a capo – ragionevolmente e senza sotterfugi apologetici – della “sua” crisi: quella, appunto, della sua intrinseca pretesa alla verità. È problema premesso – storicamente e teoreticamente – ad ogni possibile sviluppo nel dialogo: “Come si vede, dietro tutti i vari problemi, l’autentico problema è quello della verità. Si può conoscere la verità? O il problema della verità nell’ambito della religione e della fede è puramente e semplicemente inappropriato? Ma, allora, che cosa significa la fede, che cosa significa positivamente la religione se non può entrare in rapporto con la verità?”.9 Così impostata, la posizione del teologo cattolico di fronte alla proposta del filosofo appare particolarmente esigente più con la religione che neanche con il lavoro della ragione. 7
8
9
La questione della verità del cristianesimo costituisce un motivo centrale nella riflessione teologica di Ratzinger. Essa sta pure in capo alla conferenza, tenuta dal porporato cattolico nel 1999 presso la Sorbona di Parigi ed ha una sua feconda vicenda editoriale. Noi vi attingeremo subito, facendo riferimento all’edizione in lingua italiana comparsa nel 2003 in un saggio composito sull’argomento. J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, 170. Ibidem, 8.
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D’altra parte la preminenza data alla questione della verità in fatto di religione è ritenuta conditio sine qua non del suo effettivo contributo a questo lavoro: il dialogo tra ragione e fede non è autoreferenziale ma si dà, per la seconda, come subordinato ed aperto all’ordine superiore della verità. Se dunque il primo servizio della religione al dialogo con la ragione dipende dalla verifica della sua verità, d’altro canto senza previo credito dato alla verità, la fede potrà solo contagiare patologicamente lo sforzo già oneroso e criticamente infragilito dell’odierna ragione. Il ché equivale a ritenere che fuori dalla verifica della sua verità, la religione non potrà pretendere per sé l’ascolto dall’umana ragione: la cecità della religione quanto al vero non farebbe bene alla ragione. Il riferimento suggestivo alla parabola buddhista dell’elefante e dei ciechi viene efficacemente applicato da Ratzinger allo stato della questione nell’uomo contemporaneo.10 Egli ne ricava utilmente un quadro della situazione per cui la disputa tra le religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi nati. Poiché sembra che di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi. Per il pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una prospettiva più favorevole rispetto alle altre religioni, anzi: con la sua pretesa alla verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra conoscenza del divino, sembra caratterizzato da un fanatismo particolarmente stolto, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata nella sua propria esperienza [. . .] L’uomo non
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Così la si può leggere nel saggio del 2003: “[. . .] una volta, un re dell’India del Nord riunì in un posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti ai presenti fece passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: “Un elefante è così”. Altri poterono toccare l’orecchio o la zanna, la proboscide, il dorso, la zampa, la parte posteriore, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a ciascuno: “Com’è un elefante?”. E secondo la parte che avevano toccato, rispondevano: “È come un cesto intrecciato. . .”, “è come un vaso. . .”, “è come la bure di un aratro. . .”, “è come un magazzino. . .”, “è come un pilastro. . .”, “è come un mortaio. . .”, “è come una scopa. . .”. Allora – continua la parabola – si misero a discutere, urlando: “L’elefante è così”, “no, è così”, si scagliarono gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re” (Ibidem, 170).
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può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco nato. L’addio alla verità non può mai essere definitivo.11
L’apparente indifferenza della ragione a tal questione o l’illusoria soddisfazione di non doverci fare più i conti non sono una soluzione del problema, esse denotano piuttosto uno stato patologicamente ingannevole della ragione in se stessa. Il teologo J. Ratzinger vede invece in tale situazione l’occasione per riproporre la domanda sulla verità del cristianesimo, dunque sulla sua originaria “pretesa” nell’ambito del variegato universo delle religioni. Riandare criticamente al fondamento di questa peculiarità comporta non solo mettere a tema la radice della sua “crisi” odierna ma, al contempo, affrontare senza timore “le diverse istanze che sono state sollevate contro la rivendicazione, da parte del cristianesimo, della verità nel campo della filosofia, delle scienze naturali, della storia”.12 Attestarsi, dunque, sui fondamenti originari della sua pretesa risiede, a detta del teologo tedesco, il miglior servizio del cristianesimo a quella “reciproca chiarificazione” tra ragione e fede, tra ragione e religione, necessaria per “riconoscersi reciprocamente” in un dialogo costruttivo e non-falsificante nell’attuale contesto problematico. È questa la modalità con cui il teologo J. Ratzinger corrisponde all’appello del connazionale filosofo J. Habermas: seguire un “processo di argomentazione sensibile alla verità” ed attenervisi – una modalità che impressiona per onestà intellettuale oltre che per effettivo rigore teoretico. Ora, ci risulta quanto mai significativo e davvero spiazzante il fatto che, per svolgere una tale operazione, Ratzinger attinga lumi da un antico dibattito, seguendo il quale perviene alle sue conclusioni propositive sul presente.13 TrattanIbidem, 170-173. Ibidem, 173. 13 Prima di proseguire nella nostra disamina annotiamo di passaggio che, proprio grazie ad un tale modo di procedere, ci disponiamo a reperire e ricevere – dall’eminente studioso del pensiero del vescovo d’Ippona – indicazioni utili per rispondere oggi alla nostra “vecchia” domanda di giovane liceale. Come mai – ci si chiedeva – il plurisecolare cristianesimo medievale – proprio sul piano della ragione teologica e della sua domanda su Dio – non ha valorizzato la pur potente ed intensa religiosità 11
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dosi della pretesa di verità in ambito “religioso”, si sarebbe portati a pensare subito al noto ed innovativo saggio filosofico agostiniano dall’eloquente titolo De vera religione, sicuramente pertinente all’argomento?! Ed invece. . .
Quel testo illuminante del cristianesimo antico Ci troviamo spostati su ben altro terreno dell’immensa mole dell’opera agostiniana: “Che io sappia – esordisce cautamente nella sua conferenza del 1999 alla Sorbona – non esiste alcun testo del cristianesimo antico che getti sulla questione tanta luce quanto il confronto di Agostino con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio Varrone”.14 Tale confronto ha luogo nelle pagine che occupano i libri IV, VI e VII del De civitate Dei con riferimento alle Antiquitates, opera nella quale il reatino raccoglie con sistematicità l’intero patrimonio teologicoreligioso dell’antichità. La tripartizione sostanziale di tale patrimonio in theologia mythica, theologia civilis e theologia naturalis (physiké) è data secondo 4 parametri di fondo: i rispettivi teologi competenti (i poeti, i popoli, i filosofi), le relative sedi ove vengono coltivate (il teatro, l’urbs, il kósmos), il contenuto appropriato (le favole sugli dèi, il culto relativo, la domanda su chi sono gli dèi) ed infine le realtà che esse indicano (alle prime due corrispondono le istituzioni divine degli uomini, la teologia naturale invece si occupa della “natura degli dèi). Stando a simili parametri – l’ultimo, in particolare, relativo alle res su cui vertono – la conclusione di Varrone, sottolineata dal vescovo d’Ippona e messa a profitto da Ratzinger, è duplice. In prima istanza tutta la differenza si riduce a quella che c’è tra la fisica nel significato proprio dell’antichità classica e la religione cultuale dall’altra parte (. . .) Così religio (termine che designa essenzialmente il culto) e realtà, la conoscenza per così dire “esistenziale” della tragedia greca e si è invece incentrato, preferendola, sull’indagine filosofica della razionalità ellenica? Il seguito può ritenersi un fruttuoso apporto nell’acclarare una plausibile ed appagante risposta a quella questione. 14 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 173.
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razionale del reale, si configurano come due sfere separate, l’una accanto all’altra. La religio non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione politica. È un’istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.15
D’altra parte, il dio dei filosofi (Varrone adotta l’espressione stoica di anima mundi in una tendenza fortemente monoteistica, sebbene affissata sulla nozione greca di kósmos) non si dà come oggetto di religio/culto, ragion per cui verità e religione, conoscenza razionale e ordinamento cultuale sono situati su due piani totalmente diversi. L’ordinamento cultuale, il mondo concreto della religione, non appartiene all’ordine delle res, della realtà come tale, ma a quello dei mores – dei costumi. Non sono – conclude Ratzinger – gli dèi che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha istituito gli dèi, la cui venerazione è essenziale per l’ordinamento dello Stato e per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un fenomeno politico.16
In un tale regime dualistico di pensiero non si sfugge, oggi come allora, ad un’insana alternativa tra la “tendenza alla depoliticizzazione dei cittadini” (Habermas) per via filosofica e quella alla debilitazione del razionale per via religiosa (Ratzinger). Così, mentre lo spazio cosmico della teologia naturale si libra su di un cielo astratto dalla vita della civitas ed i filosofi non hanno diritto di cittadinanza né alcuna competenza sulla pubblica piazza, la vita dei popoli viene consegnata, col culto, alla teologia di stato, lasciandosi così beare dal contenuto delle favole sugli dèi, create dai poeti in funzione del potere politico. Il quadro che ne scaturisce è quello di una duplice contrapposizione d’analogia: quella tra verità e religione e quella tra ragione e culto. In tale contesto di significati J. Ratzinger ravvisa l’esautoramento del religioso, identificato ormai col culto tout-court, dal terreno della realtà (res). Ciò che risulta dall’eredità del dialogo tra Agostino e Varrone è la concezione di un 15 16
Ibidem, 176 (corsivi dell’autore). Ibidem, 174 (corsivi dell’autore).
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ordinamento giuridico della città (dunque del politico correlato) che poggia tutto sul congedo del culto e della religione corrispettiva dall’istanza normativa di verità; per converso, questa si vede delegittimata proprio sul terreno fondativo su cui viene fatta poggiare la vita della civitas. La fondazione della città sta sotto il segno di un’immunizzazione di principio dalla norma del vero. Il ché equivale a riconoscere che il contesto politico e quello religioso-cultuale rifuggono così (ed è qui che viene individuato il motivo attualizzante di quel dibattito in ordine al “nuovo” odierno) da ogni “processo di argomentazione sensibile alla verità”. Sostenere o “rivendicare” qualsivoglia forma di diritto non è più competenza della ragione bensì di una politica privata di ogni controllo razionale e di una religione cui è coessenziale l’elemento mitico-irrazionale. In questa direzione – almeno così a noi pare di poter riconoscere – Ratzinger imprime, con la sua “critica della religione”, un rinnovato vigore alla verifica dell’attuale statuto critico della ragione stessa. Ciò che evidenzia di quel dibattito è che ad un diritto senza verità viene fatto corrispondere una verità senza diritto di cittadinanza politica: la ragione si vede esautorata per via politica una volta identificata – questa – con l’intero suo apparato mitico-religioso. È quanto il vescovo cristiano Agostino è messo in grado di rilevare sulla scorta delle ricerche del pagano Varrone: mentre le sorti della città sono sottratte alla competenza del lavoro della ragione ed al contatto legittimante della verità, il potere dello Stato si autolegittima nell’uso ideologico-funzionale della religione. Una tale consacrazione “teologica” della divisione tra ragione e città si vede esplicitamente derivata da un principio di potere e realizza a tal fine, legittimandola in linea di principio, una concezione strumentale della ragione. Il campo della pratica religiosa si rende infatti immune dalle esigenze normative di una conoscenza razionale al servizio della verità. Sta qui la fonte della disagevole posizione di pensiero nella quale si viene a trovare il reatino di fronte alla plurisecolare tradizione religiosa greco-romana. La tripartizione delle competenze “teologiche” nella sistematizzazione varroniana della tradizione antica risuona, al tempo stesso, teoreticamente disagevole ma anche ragionevolmente provocatoria per i nostri 433
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tre soggetti in parola: Varrone ne soffre l’irrazionalità evidente e le vistose aporie epistemiche17 , Agostino ne fa occasione per mostrare la ragionevolezza e la pertinenza della proposta cristiana18 , Ratzinger vi trae un’eloquente lezione sull’argomento per il nostro tempo. Torniamo dunque ad Agostino – invita il teologo tedesco nel suo saggio. Dov’è che egli situa il cristianesimo nella triade varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell’ambito della “teologia fisica”, nell’ambito della razionalità filosofica. Si trova così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli Apologisti del II secolo [. . .] Il cristianesimo ha, in questa prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità filosofica non nelle religioni.19
Non possiamo lasciarci sfuggire la svolta epistemica, prima che esegetica, che corre lungo il filo di queste osservazioni di J. Ratzinger. La metabolizzazione dell’opera di Varrone per conto di Agostino è parte Si rileggano le accorate pagine del De civitate (il libro 6 in particolare) nelle quali Agostino ben descrive queste criticità ravvisate e personalmente sofferte dallo stimatissimo Varrone: “O Marco Varrone, sei l’uomo più intelligente e indubbiamente il più colto di tutti (homo omnium acutissimus et sine ulla dubitatione doctissimus), ma sei comunque un uomo e non Dio [. . .] Scorgi però che le cose divine (res divinae) si devono distinguere dalle vuote e menzognere fandonie umane (ab humanis nugis atque mendaciis) ma temi di offendere le depravate opinioni popolari e le consuetudini (consuetudines) del superstizioso culto pubblico”. Di fronte al potere politico della consuetudo in fatto di religione Agostino evidenzia un Varrone teoreticamente immobilizzato dalla menzogna che tocca e presiede alla versione mitico-fabulosa ed a quella civile della teologia tradizionale. Menzogna è propriamente “consuetudine” alla privazione di verità – come assenza di realtà – in fatto di res divinae: “entrambe tuttavia – ne conclude Agostino – sono così amiche tra di loro per comunanza col falso (consortio falsitatis), da essere egualmente gradite ai dèmoni cui è propria la dottrina nemica della verità (doctrina inimica est veritatis)!” (De civitate Dei 6, 6, 1; PL 41, 182-183 – traduzione nostra) 18 In questo senso egli esprime, già nelle prime righe del De civitate Dei, la coscienza della portata dell’intrapresa, l’essere impegnato in un magnum opus et arduum (De civ. Dei praefatio; PL 41, 13) che esige un lavoro ed un dialogo critico che competono alla ragione. 19 Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 177-178. 17
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di quel suo lavoro di ragione con cui prospetta il cristianesimo come l’inizio della possibilità – al contempo di diritto e di fatto – della ragione di avere campo aperto sul terreno della religione come su quello della civitas. Il dibattito tra i due mette a tema, sul piano della conoscenza razionale (filosofia), la verità su Dio, dunque su ciò che viene posto a fondamento della civitas: la “laicizzazione” di questa passa proprio per la demitizzazione del fenomeno religioso ad opera del lavoro della ragione, raccordando, mediante questo lavoro, la fondazione della civitas al problema stesso della “fondazione del mondo”. Agostino “illuminista” è figura suggestiva che Ratzinger individua all’interno di questo dialogo critico nel tardoantico: l’opzione primigenia del cristianesimo a favore della razionalità filosofica antica anziché per il mondo delle religioni costituisce un’acquisizione notevole sul piano storiografico come su quello teoretico. In Agostino – fedele in ciò al cristianesimo delle origini – la ragione viene sorpresa nell’atto del gettare luce nuova su quell’insano dualismo a motivo del quale il politico ed il religioso si sostanziano in un comune regime di immunizzazione e preclusione dalle esigenze del vero. Il vescovo d’Ippona, infatti, richiama a quel divino che può essere percepito dall’analisi razionale della realtà. In altri termini – aggiunge Ratzinger – Agostino identifica il monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che s’intende quando il cristianesimo [. . .] si presenta con la rivendicazione di essere la religio vera. Il che significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza.20 20
Ibidem, 178 (corsivo dell’autore). La diversa prospettiva che ne deriva quanto alla civitas ereditata da Varrone è specificata da Ratzinger in altra sede; nella concezione agostiniana essa vede convergere in unità l’istanza storica e quella metafisica. I piani si presentano così rovesciati: “la dipendenza della religione dalla civitas enunciata da Varrone si radica da ultimo nel fatto che nessuna linea di collegamento conduce dal “vero Dio” alla religione. Dio non tocca l’uomo e Dio, come non fonda nessuna città, così non fonda religione alcuna. Il fatto che Dio non entra nella storia, bensì è un Dio puramente (meta-)fisico, ha come conseguenza che la religione non raggiunge Dio,
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Le fonti della religione non coincidono con quelle della fede cristiana: né la fantasia mitico-poietica né il potere politico (compresa la sua forma attuale data dal processo democratico) sono a capo della novità di quel fenomeno. Il giudizio del teologo cattolico, recettivo all’insegnamento di Agostino, suggella i termini della “laicità” che connota la sostanza della fede cristiana: se la sua base è la conoscenza allora è la ragione il suo proprio interlocutore. Questo può indicare a miglior titolo la direzione per un processo di declericalizzazione/laicizzazione della civitas e, correlativamente, di legittimazione politica della razionalità filosofica. Risulta così acclarato il significativo contributo che Agostino/Ratzinger danno alla laicità del dibattito in corso.21 Con ciò risalta al contempo la connaturale “laicità” della fede cristiana a confronto con la sostanziale coloritura clericale della religione tardoantica: ciò in forza dell’avvenimento della “laicizzazione” a cui si sottopone il divino medesimo nella persona del Verbo fatto uomo, dentro la congerie ordinaria delle circostanze che corredano la storia. Ne consegue, ora, un’altra acquisizione per il nostro dibattito; essa non sfugge alla considerazione del nostro teologo: “nel cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità, doveva necessariamente considerarsi ma resta del tutto non metafisica. Agostino viceversa, presupponendo il fatto storico che Dio è entrato in questo mondo, può contemporaneamente riferire la religione a questo Dio, cioè comprenderla in piena unità con la metafisica. Entrambi i principi apologetici del cristianesimo, apparentemente disparati, nesso con la storia e nesso con la metafisica, mostrano qui la loro unità radicale” (J. Ratzinger, Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche, Ismaning 1954; trad. it. A. Dusini (a cura di), Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1978, 278). Sin qui la chiave della risposta alla questione da noi posta nella nota 13, p. 430. 21 È quanto mai significativo che chi come Agostino ha redatto l’opera De civitate Dei è anche colui che ha scritto da laico, in dialogo coi pensatori (filosofi) pagani ed in linea con la preminente tradizione patristica, un De vera religione. Il rilievo vale altrettanto per chi, come l’allora cardinale J. Ratzinger, si è cimentato in un memorabile dialogo critico col laico M. Pera sui temi più scottanti della cultura attuale: M. Pera-J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004.
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come universale ed essere portato a tutti i popoli”.22 Declericalizzazione e demitologizzazione. Si tratta qui della scoperta, affatto scontata, della religiosità della ragione centrata sulla novità della pretesa inedita del “vero Dio”. L’esperibilità di quest’ultimo sul terreno della conoscenza storica costituisce un fattore di purificazione delle possibilità della ragione e, contemporaneamente, di sopraelevazione del suo ambito di competenza. Essa attinge “per se” un terreno che non è “suo” non potendovi reclamare alcun possesso. Se ciò doveva apparire, ai tempi, intollerabile nemico della religione (ateismo) è perché, certamente, il senso della proposta cristiana “non si fondava sulla relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto l’utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”.23 Quanto alla pretesa del “vero Dio” non si tratta appena di “farsi-una-ragione-della-religione” bensì di scoprire il senso religioso della ragione come apertura polarizzata originariamente sulla conoscenza della verità del divino. In questa prospettiva la religiosità non si dà più come indiscriminata indifferenza al vero in nome del servizio nel culto. Entrare conoscitivamente nel merito della verità delle res divinae costituisce il centro affettivo (il “cuore”) del problema delle res humanae: trova così legittimazione epistemica l’indagine teologica, avendo essa trovato davvero la sua propria “res”. D’altro canto, il filosofico domandare greco trova ora su questo terreno conoscitivo – e non più su quello del culto – la sua strutturale dimensione religiosa. Si direbbe dunque che, per Ratzinger, proprio in forza di questa sua “laicità” – centrata sulla ragione – la fede cristiana non entra nel mondo in connivenza con la “religione oppio dei popoli” bensì in sostanziale contestazione critica con essa in quanto formalizzazione destitutiva e degenerativa della dignità della ragione. D’ora in poi e sotto l’azione dell’avvento della fede cristiana la religiosità si connota conoscitivamente e, reciprocamente, la conoscenza scopre la sua origi22 23
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 178. Ibidem, 179.
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naria connotazione religiosa. Non si tratta più di mettere la ragione in dialogo con la religione ma di riconoscere alla ragione la sua elementare e coessenziale dinamica religiosa; non solo, è proprio qui che risiede la sua capacità di differenziarsi cognitivamente dal mondo mito-poietico delle religioni. A ciò sta in capo l’annuncio di un Dio la cui pretesa di “verità” non solo non rifugge dalle vie dell’umana conoscenza né ad esse si sottrae, anzi esige, per potersi esplicitamente dichiarare e farsi liberamente accettare, il lavoro della sua necessaria verifica che compete alla ragione. D’ora in poi il suo il suo campo d’indagine supera la misura del suo potere, proprio rendendosi oggetto legittimo della sua competenza epistemologica (teo-logia). Religiosità della ragione, laicità della fede. . . allora. Ed ora? Che ne è della lezione di quel dialogo ovvero di quella “vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”? La rivisitazione ratzingeriana di quel dialogo fa risaltare subito come storiograficamente e teoreticamente pertinente il dire, già citato, di Habermas: “Uno scetticismo radicale nei confronti della ragione è invero originariamente estraneo alla tradizione cattolica”: se vi è una “radicalità” è quella di una originaria connaturalità della ragione a questa tradizione. Egli stesso ne fa fede nell’oggi quando riconosce come filosoficamente auspicabile per lui quella che fu, storicamente, la corrispondenza alla ragione della “rivoluzione” cristiana nel/per il pensiero tardoantico. Il suo intento in proposito è esplicitamente dichiarato in termini ragionevolmente appropriati a quella che egli stesso denomina “modernità contrita”: Qui trova oggi risonanza quel teorema secondo cui solo l’orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente potrebbe far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita [. . .] Per questo vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La filosofia deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’interno, assumendolo come una sfida cognitiva.24
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Habermas – Ratzinger, Ragione e fede, 53 (corsivo dell’autore).
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Lungi dal confondere una simile istanza con una forma aggiornata dell’antica gnosi, il pronunciamento di Habermas stabilisce piuttosto una condizione essenziale per il dialogo odierno tra fede e ragione, tra la razionalità filosofica ed il mondo delle religioni. “Prendere sul serio questo fenomeno dall’interno” significa appunto, per la filosofia, ritenere la corrispondenza dell’esperienza della fede ad un problema che è-della-ragione come tale; analogamente, assumerlo “come una sfida cognitiva” è recepirne l’essenziale inerenza – senza legittima pretesa ricomprensiva del suo oggetto – allo statuto epistemico proprio della razionalità filosofica. Con ciò il pensatore tedesco incontra favorevolmente il richiamo di J. Ratzinger ad una riscoperta della religiosità della ragione filosofica nella sua originaria apertura interrogativa, apertura tutta attestata, incondizionatamente, sull’esigenza di verità. Se è oggi epistemologicamente conveniente (per “far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita”) che la filosofia si appresti ad assumere normativamente, cioè “dall’interno”, questa che è riconosciuta come la sua sfida cognitiva – vale a dire quell’ “orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente” – è altrettanto urgente che la fede cristiana torni a portare (con rinnovate e più urgenti ragioni) il suo contributo originario ed originale al nostro tempo: la laicità della “vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa della verità. . .) la vittoria del pensiero sul mondo delle religioni”. Come nel dialogo a distanza tra Agostino e Varrone così in quello odierno tra Habermas e Ratzinger l’assetto teoretico-normativo dell’attuale rapporto tra fede e ragione trova il suo fondamento costruttivo nella comune ricerca di questa irrinunciabile, inderogabile “vittoria”. Anziché dichiararsi guerra, perseguire questa vittoria comune. Recepire questa sfida cognitiva comporta, infatti, per la filosofia l’opportunità di trarre profitto – oggi più che allora – da una delle conquiste più alte che la ragione abbia attinto nella storia dagli approvvigionamenti culturali della fede cristiana: nell’economia di quest’ultima la misura e la statura della dignità della ragione coincidono con la sua facoltà di attingere e riconoscere la verità sulle res divinae unitamente alla scoperta del loro nesso con le res humanae. Il quanto mai prezioso e rinnovato incontro tra razionalità e 439
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fede operato dalla “vittoria della verità” rappresenta oggi la questione aperta su cui si può decidere profittevolmente la vita del pensiero e dei popoli (politica e società), in un’epoca che vede il proliferare delle conquiste della ragione (la tecnica) da una parte ed il discredito di essa dall’altra (nihilismo e relativismo, postmodernità). Nel mezzo della crisi della ragione, quella relativa all’intrinseca pretesa cristiana alla verità può trovare ora una qualche possibilità di essere affrontata con ragioni utili ad un dialogo costruttivo ed esente da ogni formalismo. Alla voce di Habermas in ambito filosofico corrisponde quella, altrettanto autorevole, di J. Ratzinger nell’odierno panorama della teologia; quale sarebbe, dunque, la funzione che la fede potrà far valere come conveniente al lavoro della ragione – oggi? Risposta: “Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest’ultima – messa sulla strada della fede – possa vedere di nuovo da se”.25 La risposta insinua la prospettiva per la quale, nella proposta della fede, il lavoro della ragione può trovare un alleato non trascurabile in quel suo “processo di argomentazione sensibile alla verità”. In questa direzione prospettica si può anche verificare la valenza antropologica e la ricaduta socio-politica di un tale auspicabile incontro; lo stesso Ratzinger ce le propone sinteticamente: “L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte le differenze della sua storia e delle sue creazioni comunitarie, è un identico e unico essere. Quest’essere unico che è l’uomo, nella profondità della sua esistenza, viene intercettato dalla verità stessa”.26 È proprio in questa capacità d’intercettamento dell’umano – nella complessità delle sue
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 142. La ratio che presiede a norma di una tale offerta risanatrice è presto detta: la fede stessa è chiamata a rispondere all’appello della verità nell’originaria pretesa di Cristo di non confondersi con una consuetudine ma di identificarsi con la verità in persona. 26 Ibidem, 67 25
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dimensioni – che la verità della fede cristiana può dirsi ragionevolmente e adeguatamente comprovata. Ci si può chiedere ora: a quale condizione essa potrà essere presa sul serio “dall’interno” della razionalità filosofica ed assunta a titolo di una non impertinente sfida cognitiva entro tutte le svariate latitudini culturali ed attraverso l’articolata molteplicità delle traversie esistenziali? Cosa può fare ragionevolmente sperare che la fede si veda liberamente accolta nell’avventura conoscitiva di una ragione in crisi? Nella risposta di Ratzinger si profila una motivazione antropologica anziché un’argomentazione di ordine teologico: ancora la fede potrà far breccia “perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo [. . .] Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito”.27 Nell’assunzione di questa via antropologica come insostituibile istanza metodologica risiede la peculiare laicità della risposta della fede cristiana alla domanda religiosa della ragione, nel mezzo della sua crisi postmoderna e tra le macerie umane del terrorismo dilagante: proprio la risposta su cui J. Ratzinger dischiude il suo magistrale contributo al dibattito in corso. Di essa proviamo, in conclusione, a raccogliere alcuni rilievi metodologici di fondo.
Dischiusure Ciò che in primo luogo risalta nella proposta di Ratzinger è la necessità di un’opzione primigenia alla quale la fede cristiana è chiamata, in consonanza con la tradizione di pensiero del cristianesimo delle origini di cui Agostino, nel suo dialogo con Varrone, ci è presentato come testimone anticipatore. Tale opzione sovrintende ad ogni prospettiva metodologicamente percorribile: “La fede cristiana è oggi come ieri l’opzione per la priorità della ragione e del razionale [. . .] Con la sua opzione a favore del primato della ragione, il cristianesimo resta ancor oggi “razionalità”, e penso che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per forza, contrariamente a tutte le apparenze, 27
Ibidem, 143
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non un’evoluzione ma un’involuzione della razionalità”.28 A fronte dell’irrazionalità di miti riemergenti e di slanci religiosi a sfondo emotivo una tale opzione è diretta filiazione di quella convinzione fondamentale per la quale al principio di tutte le cose c’è il moto creativo della ragione (In principio erat Verbum). Così la fede cristiana prendeva e prende le distanze dovute dal mondo mitico delle religioni: la sua confusione con esse è solo – oggi come allora – frutto di grave mancanza di discernimento razionale. C’è tuttavia chi, ai giorni nostri, ha acutamente osservato come “in questa temperie postmoderna, impaurita di sé [. . .] riemerge il basso di fondo di ogni vita che almeno una volta si sia interrogata su se stessa, o sia stata costretta a farlo. Il sentimento della friabilità dell’umano, e questo a dispetto di tutte le utopie di salvezza del moderno affidate alla scienza alla tecnica all’ingegneria sociale della politica; e con esso la fine del mito che l’economia della salvezza potesse essere ristretta al mondo dell’al di qua”29 . Al cospetto di una tale sfida la fede deve poter trovare ancora il modo di presentare ragionevolmente la percorribilità attuale della sua originaria opzione per la razionalità. Si potrebbe forse pensare ad un annacquamento di questa sua opzione al cospetto “di ogni vita che almeno una volta si sia interrogata su se stessa, o sia stata costretta a farlo”? Forse che dinanzi a quel “sentimento della friabilità dell’umano” si tratterà di rinunciare – con la pantomima del cosiddetto “aggiornamento” – alla pretesa di verità che il cristianesimo ha rivendicato in obbedienza all’identità del suo Fondatore? Nella ricognizione di simili questioni fatta da Ratzinger la questione sembra ancora più radicale e suona come richiamo ad una maggiore autenticità, suggerendo un’altra fonte di forza persuasiva: la rivendicazione del cristianesimo di essere la religio vera – ammonisce interrogativamente – sarebbe dunque superata dal progresso della razionalità? Il cristianesimo è dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a inserirsi nella visione neoplatonica o buddhista o indù della verità e del simbolo, a contentarsi [. . .] di mostrare della faccia di Dio la parte rivolta 28 29
Ibidem, 190-191. Mazzarella, Identità e integrazione, 399.
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verso l’Europa? Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono far fronte [. . .] I problemi delle istituzioni così come delle persone, nella Chiesa, derivano in ultima istanza dal potente impatto di questa questione [. . .] questa provocazione radicale [. . .] non può trovare risposte puramente teoriche, così come la religione, in quanto atteggiamento supremo dell’uomo, non è mai solo teoria. Esige quella combinazione di pensiero e di azione, su cui era fondata la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.30
Nel vasto e variegato supermarket religioso dell’attuale mondo globalizzato si tratta – nell’insegnamento di Ratzinger – di tener viva questa primigenia “forza persuasiva” nell’incontro con la domanda religiosa di ciascun uomo. La “radicalità” della questione (il suo non potere trovare risposte puramente teoriche) consiste nel fatto di toccare il nucleo animatore dell’annuncio cristiano (basato non su sola teoria ma su viva combinazione di vita e pensiero): l’insorgenza storica del lògos nella forma personale del Verbum caro factum est. Ciò stabilisce, metodologicamente, la percorribilità storica dell’opzione cristiana per la razionalità (lògos). La dinamica stessa della razionalità filosofica ne potrà essere intercettata “dall’interno”. Ora e fuori da questa insorgenza la stessa istanza della religio vera perderebbe ogni possibilità di significato per la vicenda temporale dell’esistenza umana. D’altro canto, le movenze più radicalmente critiche – con l’odierna forma nichilistica in pieno mondo globalizzato – sembrano reclamarne ed invocarne l’urgenza anziché perseguirne, in via di principio, la delegittimazione: “in presenza di troppi candidati «veri» ad essere Dio – ha eloquentemente dichiarato E. Mazzarella – e tra questi andrebbe computata anche la sua assenza, la sua negazione nichilistica, non certo il meno potente tra gli dei in circolazione, proverei con una formula a dire che quello di cui abbiamo bisogno è di un’idea «buona» di Dio, piuttosto che di un’idea «vera»”.31 In tale prospettiva il candidato “buono” e quello “ve30 31
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 186 (corsivo dell’autore). Mazzarella, Identità e integrazione, 404. È alquanto interessante notare che l’affermazione dello studioso napoletano succede ad una contestuale rivisitazione – nell’articolo citato – del dialogo tra J. Habermas e J. Ratzinger.
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ro” rimangono entrambi accomunati nelle sorti di un Dio comunque ipostatizzato in “idea”, dunque esistenzialmente impercorribile dall’uomo ed ordinariamente inaccessibile. Nella proposta cristiana indicata da Ratzinger l’economia del “vero” e quella “del “buono” si presentano, invece, sostanzialmente inscindibili nell’ordine dell’avvenimento che li rende esperibili e, dunque, ragionevolmente “accettabili”. Egli situa la questione su di un piano che è metodologicamente ancor più esigente, oggi, al cospetto del pensiero; si tratta di individuare un’altra via di accesso, che non sia l’idea, sulla quale la ragione sia messa in grado di riconoscere come “buono” il “vero” Dio: il tentativo di ridare, in questa crisi dell’umanità, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per così dire, puntare ugualmente sull’ortoprassi e sull’ortodossia. Al livello più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi – come sempre, in ultima analisi –, nel fatto che l’amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l’amore e l’amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e il fine di tutto.32
Con ciò la questione metodologica trova una profittevole dischiusura all’interno della stessa pretesa cristiana alla verità. Nell’agostiniano/cristiano ordo amoris si realizza, infatti, l’unità normativa di verità e bontà. Quest’ultima viene a costituire semplicemente la modalità oblativa ed ostensiva della verità di Dio nei riguardi della ragione e della libertà degli uomini, pluralmente individuabili. Nella giurisdizione dell’ordo amoris la verità stessa non si dà nella modalità della “appropriazione” bensì in quella di un’esperienza di relazione, di un’esperienza che è relazione: ad essa si è liberamente convocati così come si è, senza precondizioni (etiche, culturali, religiose o sociali). D’altro canto, proprio nella dimensione oblativa ed ostensiva dell’unità tra ragione ed amore, tra verità e bontà nell’ordo amoris si rende possibile la scoperta e l’affermazione dell’altro come locus propizio del compimento di sé: non si tratta di “avere in tasca la verità” né d’imporla a chicchessia, ma di 32
Ratzinger, Fede Verità Tolleranza, 192 (corsivo dell’autore).
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sperimentarne – in gusto, piacere e convenienza – la bontà nel farsela, per così dire, regalare per mano dell’altro. Se, per Ratzinger, la verità (su/di Dio) non è questione di “averla-in-tasca”, la (Sua) bontà è tutt’altro che oggetto di umana pretesa. Ciò è intrinsecamente costitutivo della pretesa cristiana alla verità. Si tratta di una pertinente uscita da sé, in un libero esodo dalle proprie misure senza la quale diventa inaccessibile la piena dimensione dell’umana dignità. Sta qui la connotazione totalmente laicale della fede cristiana; la sua stessa forza persuasiva è fatta poggiare interamente sull’esperibilità della bontà e della verità in cui si propone la persona del Verbum. L’avvenimento dell’impatto storico con essa non consiste semplicemente in un prolungamento teologico-religioso della razionalità filosofica bensì la scoperta di un’altra fonte di ragioni per il suo connaturale senso religioso: l’esperienza – non appena “l’idea” – di vedersi incondizionatamente amati nelle dimensioni fontali ed integrali della natura stessa del proprio essere uomini. I connotati che rendono quest’esperienza – che identifica la fede nelle vicende intramondane – riconoscibile come tale al cospetto dell’umana ragione sono: la gratuità della sua origine, la ragionevolezza della sua credibilità umana, la verificabilità storica della sua proposta di vita nell’ordine del presente, la sorprendente familiarità conoscitiva con la realtà – vissuta ed affermata fino al suo senso ultimo. Con simili connotati metodologici la fede cristiana si propone come spazio rivelativo storico per il disvelamento del divino nell’ordine della domanda religiosa dell’umana ragione. Proprio in questa tenuta metodologica della sua esperibilità lo stesso contenuto dogmatico della fede cristiana può sottrarsi laicamente ad ogni clericale riduzione secolarizzante – nelle variegate forme “sacerdotali” dell’odierno mondo globale (cfr. i nuovi clercs dello spazio tecnologico-cibernautico). È stato obiettato che questo medesimo mondo può forse fare a meno di un Dio che si incarni nella storia, e che si faccia carico del suo travaglio, che è il presupposto di ogni secolarizzazione “positiva” del divino (è il caso del cristianesimo), ma non può fare a meno di un Dio che la rispetti, che ne rispetti, nell’autonomia, l’autonomia
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dell’uomo che vi vive, che per la fede, per ogni fede, deve sempre restare un “invitato” alla salvezza, non un coscritto delle “guerre sante”.33
Tra invitati alla salvezza e coscritti di guerre sante, sta di fatto che la storia – quella odierna a maggior titolo di cronaca – annovera tra le sue pagine funeste quelle scritte con sangue sparso “in-nome-di” una fede. Ciò, tuttavia, suona per Ratzinger come una ragione in più per rivisitare criticamente, ai nostri giorni, la questione del metodo che qualifica la proposta della fede cristiana all’uomo d’oggi nel cuore stesso della sua pretesa di verità. Prima di delegittimare indifferentemente (“per ogni fede”), è più ragionevole gettare luce di discernimento critico su una tale questione per rispondere alla domanda: di ché si tratta quando si parla di fede cristiana e del suo dichiararsi religio vera al cospetto di religioni e culture d’ogni specie? Qual è il portato più autorevole del suo dirsi tale al cospetto dei nostri contemporanei? Nel rispondere egli riutilizza – quasi a ridosso dell’inizio del suo pontificato – un termine sintetico che raccorda alla tradizione della fede delle origini e nel cui senso ravvisa l’espressione paradigmatica di questo metodo; di fatto, quella nel quale si svela la sua suprema attualità, la perenne novità del vero che vi si comunica: Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini.34 33 34
Mazzarella, Identità e integrazione, 409. J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli. Siena 2005, 63-64.
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La “testimonianza” della novità umana generata dalla fede segna, in Ratzinger, il vertice del suo metodo sulla scena della storia. Il testimone non appare qui come un semplice “invitato alla salvezza” bensì una mediazione personale per accertarne ragionevolmente veridicità e credibilità. La sua consistenza è tutta riposta nella res che attesta; la sua identità personale è radicalmente correlata all’iniziativa beneficiaria e gratuita di un “Altro”. Nel suo io già albeggia la soggettività relazionale del noi. Alla sua vitalità è consegnato anche il destino del dialogo odierno tra fede e razionalità filosofica: la sfida cognitiva evocata da Habermas raggiunge in essa il suo apogeo sul piano teoretico e si accende, in forte coloritura antropologica, sul piano storico. Nella logica di un tale fenomeno si trova delegittimata ogni forma di connivenza col metodo delle “guerre sante”35 : la santità degli uomini anziché quella delle guerre avrà diritto di cittadinanza nel regime di pensiero animato dall’esperienza della fede36 . In essa risplende propositivamente la circolarità inscindibile, interna alla vita divina, dell’unità trascendentale tra verità, bontà e bellezza: la sua testimonianza identifica perciò il nucleo ove si accende massimamente quella sfida cognitiva in cui Habermas indica il punto d’intersezione e d’intendimento nell’attuale dialogo tra la fede e la razionalità filosofica. Al cospetto di un tale testimone si è condotti, infatti, sul terreno di una vita ove corrono in simbiosi antropologica la laicità della fede e la religiosità animatrice del cuore interrogante della ragione. Ne deriva che la testimonianza, nella concezione cristiana di J. Ratzinger, non è fenomeno annoverabile nella cosiddetta letteratura dell’edificante, in esso vive e si profila invece un’opera che è genuina paternità del pensiero. Riproponendolo egli si pone in continuità con la tradizione dei primi teologi del cristianesimo. Nel suo alveo si rende 35
Una volta in più mi è data occasione per ribadire in proposito che le attuali emergenze terroristiche, che si vogliono da molte parti riconducibili alle tradizionali forme di “guerre di religione”, sono da annoverare a fenomeni di ben altro segno: non si danno – che lo si voglia o no – guerre-di-religione bensì, sempre e solo, guerre e conflitti di pensiero anche quando questi portassero quella malaugurata denominazione. 36 Si veda, nel merito, il significativo volume: Benedetto XVI – J. Ratzinger, La santità non passa mai di moda, LEV, Roma 2009.
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compiutamente attuale l’opzione di Agostino e del cristianesimo delle origini per la razionalità filosofica anziché per i miti delle religioni. Di ciò J. Ratzinger è stato ed è autorevole testimone ai nostri giorni, nel secolo delle camere a gas e dei campi di sterminio, dei gulag e delle pulizie etniche, del progresso tecnologico e delle “idee assassine” spesso costruite su di esso. Vogliamo perciò affidare la conclusione del nostro percorso ad una delle pagine più efficaci ed eloquenti della sua autorevole e prolifica produzione teologica. Intento a commentare, ancora una volta, il pensiero e la vicenda umana di Sant’Agostino, egli evoca – con sconcertante pertinenza all’argomento da noi preso in considerazione – il racconto della clamorosa conversione dell’insigne retore neoplatonico M. Vittorino. Da quella pagina delle Confessioni trae un insegnamento che può esprimere sinteticamente e più felicemente il senso delle nostre riflessioni. In esso sono armonicamente adunate le istanze di fondo fin qui raccolte. Ratzinger come Agostino: nel loro segno può tornare ancora una volta profittevole constatare l’attualità di quella testimonianza che sconvolse di stupore gli ambienti intellettuali e popolari del mondo tardoantico. Lontano da ogni tentazione apologetica, l’impressione lasciata da quel fatto sul neoconvertito africano può suonare ancora provocatoriamente feconda in chi voglia avventurarsi in un serio lavoro di pensiero sull’argomento; così Ratzinger in quella pagina che ci permettiamo di riportare integralmente, con i toni della sua retrospettiva sul tardoantico: il cristianesimo non è un sistema di nozioni, bensì una via. Il ‘noi’ dei credenti non è un accessorio, buono per spiriti piccini; è invece, in un certo senso, la sostanza stessa: la fraterna comunione inter-umana è una realtà situata su un piano completamente diverso da quello in cui viene a collocarsi la mera “idea”. Se il platonismo dà un’idea della verità, la fede cristiana ci offre invece la verità come via; e solo in quanto essa assurge a via, può dirsi divenuta verità dell’uomo. La verità vista come mera nozione, come pura idea, resta priva di mordente; autentica verità dell’uomo essa lo diventa soltanto come via che lo chiama direttamente in causa, come via che egli può e deve battere [. . .] La fede cristiana non è una idea bensì una vita; non è uno spirito a
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sé stante, bensì un’incarnazione, uno spirito incorporato nella storia e nel suo ‘noi’. Non è una mistica dell’auto-identificazione dello spirito con Dio, bensì obbedienza e servizio; superamento di sé, liberazione del soggetto credente ottenuta tramite la sua assunzione in servizio da parte del non fatto e non pensato da lui; affrancamento acquisito mediante il lasciarsi impegnare per il bene dell’intero corpo sociale.37
Appena tre anni dopo che queste righe sono state scritte, il mondo ha dovuto fare i conti con una voce venuta dagli agghiaccianti gulag siberiani; la sua testimonianza è poi riecheggiata (per iscritto. . .) tra gli scranni dell’autorevole commissione del Premio Nobel per la letteratura. La consonanza del pronunciamento dello scrittore A. Solženicyn col dire del teologo J. Ratzinger attesta inequivocabilmente – dal cuore del secolo trascorso – la laicità del giudizio comune e l’urgenza profetica contenuta in una tale conclusione; una luce provocatoria sul nostro tempo brilla nelle solide parole della loro concorde testimonianza: vano è reiterare – si legge nel testo scritto da Solženicyn per quell’inedita occasione – ciò che al cuore è maledetto [. . .] concezioni cervellotiche, forzate, non superano la prova della trasposizione in immagini, queste e quelle non reggono e finiscono per rivelarsi deboli e scialbe, e non convincono nessuno. Le opere che invece attingono alla verità e riescono a darcene una rappresentazione intensa e viva, ci conquistano, ci 37
J. Ratzinger, Einführung in das Christentum. Vorlesungen über das Apostolische Glaubensbekenntnis, Kösel- Verlag, München 1968; tr. it. E. Martinelli (a cura di), Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1968, 1984 settima edizione (da cui citiamo), 64. In seguito ed in veste di Sommo Pontefice indicherà, con rilievi estetici, uno dei compiti più importanti che attendono oggigiorno una tale identità della fede cristiana sul piano della sua ormai indilazionabile pretesa alla verità: “superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza [. . .] In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo” (Benedetto XVI, da: Omelia per la Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia, Barcellona, 7 novembre 2010).
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J. Ratzinger come Agostino: Religiosità della ragione, laicità della fede
coinvolgono irresistibilmente e nessuno, mai, neanche di qui a un secolo, potrà inficiarne il valore. Non sarà forse – conclude interrogativamente e con tono autobiografico lo scrittore russo – che l’antica formula dei tre elementi Verità, Bene e Bellezza non è poi così arcaica ed enfatica quale ci sembrava al tempo della nostra giovinezza materialistica e presuntuosa?38
Affidiamo – come approdo di queste nostre dischiusure – alla discrezione del lettore la possibilità di trarre profitto, con giudizio sul nostro tempo vissuto, da questa singolare corrispondenza di voci e di pensiero da noi intercettata.
38
La traduzione in italiano dal russo compare ora integralmente in: Aleksandr Solženicyn, Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà 1967-1974 (trad. it. a cura di S. Rapetti), Jaca Book, Milano 2015, 79-80.
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Indice dei nomi
Abelardo, 56 Agostino, 5, 27, 31, 47, 54, 57, 64, 93, 171, 179, 201, 276, 278, 352, 368, 369, 373, 374, 377, 400, 425, 431-436, 439, 441, 448 Ambrogio, 278 Anselmo di Havelberg, 369 Aristotele, 120, 199, 378, 379, 419 Arostegi, 3, 10, 41, 178 Assmann, 261-263 Ballache, 361 Balthasar, 36, 72, 96, 118, 153, 179, 249, 324, 326, 327, 413, 415 Barth, 20, 66, 136, 186, 321, 350, 404 Basilio, 9, 278, 418 Basilio di Cesarea, 9 Bataille, 328
Benedetto, 3, 25, 27-29, 31, 32, 56, 57, 70, 73, 75, 155-157, 166, 169, 170, 173, 215, 243, 251, 252, 256, 260, 265, 283, 297, 298, 301-305, 307-310, 312, 314, 315, 351, 422, 446, 447, 449 Benoit, 48, 50-55, 58, 66, 68 Bernardo, 14, 154, 418 Bérulle, 391 Bianchi, 16, 17, 208, 214, 216-218, 222, 232, 233, 236, 238-240, 245, 257, 264 Blake, 362 Blanco Sarto, 4, 15, 175, 188, 195 Bonaventura, 12, 24, 56, 60, 62, 98-102, 107, 111, 115, 153, 154, 156, 157, 163, 179, 180, 370-373, 451
Indice dei nomi
376-381, 399, 406, 407, 409 Bouyer, 269, 270, 276-278, 280 Brague, 79, 143 Brelich, 232 Brox, 41 Bruguès, 8 Buber, 346 Buddha, 243, 307 Bultmann, 88, 104, 136, 160, 186, 188, 404 Cartesio, 367 Casel, 300 Cerutti, 4, 17, 18, 217, 231, 233, 238 Chrétien, 89, 90 Cipriano, 340 Claudel, 276 Clemente Alessandrino, 51, 63, 95, 228 Coda, 146, 234, 236-238, 244, 247 Confucio, 224, 307, 321, 334 Congar, 343, 413 Corkery, 198, 199 Crisostomo, 278 Cullmann, 7, 134, 136, 158, 163, 186 Cuttat, 251-253, 260 d’Ussel, 271, 272, 275, 276 Dante, 156, 378, 383 Dantine, 41 452
Dawson, 360, 361 de Chardin, 136, 199, 353 de Lubac, 234, 325, 369-372, 377, 378, 381, 382, 413, 414 Derville, 4, 19, 269, 271, 275, 279, 280, 285, 294, 295, 314 Dodd, 160 Eliade, 16, 209, 210, 212-214, 216, 218, 220, 232, 236, 250 Eriugena, 391 Escrivá, 147, 273, 276, 314 Faulhaber, 159 Fidelibus, 5, 25, 425 Filone, 215, 226, 229, 416, 417 Flores d’Arcais, 159 Florovsky, 76, 225 Fontaine, 72, 124, 271, 272, 275, 279, 281, 288, 338, 413 Freud, 72 Geiselmann, 46, 47, 53, 61 Gioacchino, 24, 180, 369, 370, 372, 377, 378 Giovanni della Croce, 155, 328 Giovanni Paolo II, 78, 97, 312 Girolamo, 56, 57, 419 Giuliana di Norwich, 391 Giustino, 228, 229, 325 Gnilka, 243, 264 Grabmann, 178
Indice dei nomi
Gregorio di Nissa, 5, 9, 13, 25, 94, 117-119, 121, 125, 130, 131, 136, 138, 141, 148, 229, 286, 391, 413, 415, 416 Guardini, 116, 300 Guido di Orchellis, 57 Habermas, 350, 426, 427, 430, 432, 438-440, 443, 447 Haecker, 350 Häring, 54, 56, 66, 198 Hegel, 72, 176 Heidegger, 118, 137, 160, 177, 187, 380 Hemmerle, 146 Hick, 255, 350 Hofmann, 106, 153 Hölderlin, 176 Hugo, 357, 367 Ignazio di Loyola, 155, 415 Ireneo, 3, 27, 32-35, 53, 57, 64, 65, 80, 81, 130, 142, 278, 304 Kaes, 175, 179, 181, 182, 184-188, 194, 196, 199-201 Kannengiesser, 124 Kant, 72, 199 Käsemann, 41, 193 Kasper, 109, 176, 177 Knitter, 255, 350 Kraemer, 321
Küng, 41, 198 La Pira, 331 Latour, 357, 360, 385, 390 Lugaresi, 4, 11, 12, 69, 79, 85, 86 Lustiger, 271, 272, 281 Lutero, 99, 180, 401-403 Lynch, 5, 20, 21, 25, 273, 274, 295, 319 Malebranche, 391 Mandouze, 51, 54, 58 Mantelli, 5, 25, 413, 419 Marcione, 89, 94 Marx, 72, 334 Maspero, 4, 13, 25, 115, 116, 121, 234, 273, 274, 295 Mazzanti, 4, 16-18, 22, 79, 207, 224, 225, 229 Mazzarella, 427, 442, 443, 446 Metz, 193, 199 Michelet, 360 Michels, 41, 55 Milbank, 5, 8, 22-24, 179, 355, 370 Molnar, 195, 198, 199 Moltmann, 108, 199, 404 Monchanin, 17, 328 Moré, 328 Moubarac, 250 Musurillo, 128 Nestorio, 47, 52 Newman, 178, 376 453
Indice dei nomi
Nietszche, 72 Onorio Augustodunense, 369 Origene, 9, 50-52, 55, 80, 85, 119, 128, 131, 226, 378, 391, 416, 417, 419 Otto, 64, 210, 220, 232, 236, 238, 239 Overbeck, 50-52, 54, 58 papa Francesco, 23, 73, 116, 278, 295, 307 Pascal, 285, 325 Pascher, 300 Péguy, 5, 8, 22-24, 332, 355-369, 382-396 Pettazzoni, 232, 233, 236, 244, 245, 264 Platone, 55, 119 Plotino, 199, 419 Rahner, 41, 60-62, 157, 185, 189, 190, 194-196, 235, 240, 247, 325, 347, 350, 354 Ries, 17, 213, 216, 238, 239 Rollet, 198, 201 Rondeau, 72, 271, 275, 279, 280, 287, 288, 337, 413-415, 422 Ruperto di Deutz, 368, 369 San Domenico, 155, 370 San Francesco, 155, 164, 179, 329, 370, 371 454
Sarah, 278-280 Saverio, 155 Schelling, 176 Schlegel, 361 Schmaus, 46, 178 Schmidt, 244 Sigeri, 379 Silvestre, 5, 19, 20, 297 Socrate, 307 Söhngen, 179, 186, 407 Solženicyn, 449, 450 Teresa d’Ávila, 155 Tertulliano, 51, 52, 63, 228, 271 Thils, 41, 136, 179 Tillich, 136 Tilliette, 335, 336 Tommaso, 24, 153, 156, 187, 199, 269, 271, 272, 276, 277, 372, 373, 377-381 Toynbee, 360 Tremblay, 3, 9, 21, 27, 28, 32, 34-36, 146 Troconis, 5, 25, 399 Twomey, 5, 21, 22, 339, 349 van der Leeuw, 232, 236, 238 Varrone, 431-435, 439, 441 Verastegui, 325 Vico, 361 Vincenzo di Lerins, 10, 49, 52, 54, 55, 58 Vittorino, 448 Voegelin, 361, 371
Indice dei nomi
Weimer, 4, 14, 15, 153, 164, 173 Weizierl, 55 Widengren, 236, 238
Wojciech, 178, 185, 196, 198, 199 Wozniak, 12, 13 Woźniak, 4, 97, 101
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