Storia del diritto in età medievale e moderna [2 ed.] 9791221100334

È opinione corrente che il diritto attuale derivi dall’insieme delle leggi emanate dallo Stato. Ciò ha un buon fondo di

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Table of contents :
Cover
Occhiello
Premessa alla seconda edizione
Premessa alla prima edizione
Presentazione
I Impero romano e fonti del diritto
II Dal tardo impero romano occidentale ai regni romano-germanici
III La chiesa e il suo diritto
IV Il periodo germanico
V Soggezione personale e rapporti feudali
VI Chiesa ed impero fra crisi e rinnovamento a cavallo del millennio
VII Riemersione del diritto nel nuovo millennio
VIII I comuni
IX Il rinascimento giuridico
X Chiesa, impero, monarchie
XI Lo "ius commune" tardomedievale nell'Europa continentale
XII Gli statuti comunali
XIII Umanesimo e diritto
XIV Verso lo stato moderno
XV Aspetti giuridici e dottrina dell'età moderna
XVI Ambizioni di cambiamento giuridico nell'ultima età moderna
Appendice
Indice
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Storia del diritto in età medievale e moderna [2 ed.]
 9791221100334

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Storia del diritto in età medievale e moderna

In copertina: L’imperatore Costantino offre a papa Silvestro I la tiara imperiale, simbolo del potere temporale, affresco nell’Oratorio di San Silvestro a Roma.

Gian Savino Pene Vidari

Storia del diritto in età medievale e moderna con revisioni ed integrazioni di

Caterina Bonzo, Paola Casana, Valerio Gigliotti

SECONDA EDIZIONE

© Copyright 2023 – G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 979-12-211-0033-4

G. Giappichelli Editore

Questo libro è stato stampato su carta certificata, riciclabile al 100%

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

A distanza di quattro anni dalla pubblicazione dell’opera si è approntata, per esigenze didattiche, una seconda edizione in cui sono stati introdotti alcuni capitoli nuovi e revisionati ed integrati in alcune parti quelli già esistenti. La struttura del Manuale, così come i criteri metodologici seguiti, sono rimasti – ci auguriamo – fedeli all’impostazione scelta dal compianto prof. Pene Vidari, il cui intento, da lui richiamato nella Premessa alla prima edizione, ci permettiamo di far nostro come pegno di memoria e gratitudine all’Autore per la meritoria opera di supporto all’insegnamento della Storia del diritto: «Quanto esposto nei due manuali (uno per l’età medievale e moderna ed uno per quella contemporanea) è tutto indispensabile per una conoscenza – anche solo elementare – degli aspetti fondamentali del diritto di questo lungo periodo di oltre 15 secoli. Lo studente deve quindi studiarlo con cura ed attenzione. Queste pagine sono destinate ad agevolarlo nell’apprendimento di quanto più ampiamente è esposto a lezione dal docente» (Gian Savino Pene Vidari).

I CURATORI Caterina Bonzo Paola Casana Valerio Gigliotti

*** Il capitolo III è da attribuirsi al professor Valerio Gigliotti. Il capitolo XII è da attribuirsi alla professoressa Caterina Bonzo.

PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

Il Corso di studi magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza è funzionale alla formazione culturale e metodologica del futuro giurista: egli la utilizzerà poi per la sua specifica competenza professionale. La capacità di ragionamento e d’inquadramento dei fenomeni giuridici deriva da una gamma ampia e articolata di conoscenze comuni, ispirate da una didattica formativa generale: le riforme di questo inizio di millennio hanno previsto (in genere al 1° anno) un insegnamento di storia del diritto, di inquadramento delle vicende che hanno portato al diritto attuale. Il giovane studente alle prime armi con gli studi di giurisprudenza deve quindi procurarsi una visione d’insieme della storia del diritto, praticamente dal sec. V al sec. XXI: non è certo poco, nel breve lasso di tempo delle lezioni di un anno accademico. È presupposta perciò la persistenza di un minimo di conoscenze storiche apprese in precedenza, recuperabili anche grazie ad alcune Cartine storiche riportate sul sito della casa editrice (www.giappichelli.it); è ammessa peraltro un’acquisizione ancora parziale di concetti ed istituti giuridici. La storia giuridica europea di oltre 1500 anni presenta molteplici aspetti: è necessario perciò effettuare delle scelte, data l’esiguità del tempo a disposizione. È stato questo il problema più difficile e delicato da superare. Mi è parso opportuno preferire quegli argomenti, che mi sono sembrati essenziali per la formazione di un attuale giurista. In questa prospettiva, ho considerato perciò maggiormente adatti quelli più legati ai nostri interessi presenti, o per la vicinanza cronologica o per l’attuale sensibilità, come quelli sulla posizione del legislatore, del giurista o del giudice entro l’ordinamento. Si tratta di una scelta senza dubbio opinabile, ma necessaria, se si devono purtroppo operare dei ‘tagli’ per cercare di restare nel ristretto ambito temporale ed oggettivo indicato. Questa indispensabile limitazione ai punti ritenuti essenziali ha comportato una compressione della parte più nozionistica, con l’avvertenza però che per illustrare i diversi concetti si deve pur sempre partire dall’analisi e dall’apprendimento di un certo numero di elementi.

PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

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Ne consegue che quanto esposto nei due manuali (uno per l’età medievale e moderna ed uno per quella contemporanea) è tutto indispensabile per una conoscenza – anche solo elementare – degli aspetti fondamentali del diritto di questo lungo periodo di oltre 15 secoli. Lo studente deve quindi studiarlo con cura ed attenzione. Queste pagine sono destinate ad agevolarlo nell’apprendimento di quanto più ampiamente è esposto o sottolineato a lezione dal docente. Gian Savino Pene Vidari

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PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE

PRESENTAZIONE

È opinione corrente che il diritto attuale derivi dall’insieme delle leggi emanate dallo Stato. Ciò ha un buon fondo di verità, ma non è tutto. In effetti, la situazione è più complessa, perché il diritto comprende le regole coattive destinate a disciplinare la società, derivanti non solo dalle norme statali ma pure da quelle extrastatuali (come quelle internazionali, comunitarie, regionali, locali, particolari). Inoltre non rileva solo quando e come le norme sono poste, ma anche come sono interpretate e come sono applicate nel cosiddetto diritto vivente. La prospettiva corrente deriva da un’impostazione che vede nello Stato l’unica fonte di produzione normativa, tipica dei secc. XIX-XX. Tale prospettiva è venuta però recentemente appannandosi, e si rivela superata, in seguito ad una certa crisi dello “Stato” nell’ultimo scorcio del sec. XX, compresso dall’evoluzione di enti soprastanti (O.N.U., Unione Europea …) e sottostanti (Regioni, Comuni…) con competenza anche normativa, oltre che affiancato dalla ripresa di altre forme di aggregazione sociale. Se volgiamo lo sguardo ad un passato più remoto, la situazione si appanna ulteriormente, perché le fonti normative sono state ben più numerose varie e intrecciate tra loro. Uno sguardo indietro può quindi far percepire meglio la situazione, nella fluidità del presente ed anche nelle prospettive future, secondo una presumibile linea evolutiva di ripiegamento della funzione normativa dello Stato, dopo la grande espansione del sec. XX. La sempre maggiore complessità della società contemporanea comporta però una disciplina più dettagliata dei suoi complicati e raffinati meccanismi, e perciò una normativa – statuale ed extrastatuale – sempre più minuziosa e complicata. In questa il cittadino comune (il “quivis ex populo” della tradizione romana) fatica a districarsi ed è portato allora a ricorrere all’esperto delle regole, cioè al giurista. Le funzioni di quest’ultimo quindi aumentano e sono di conseguenza sempre più indispensabili per il buon funzionamento della società del sec. XXI. La perspicacia del giurista deve tener presente l’evoluzione del diritto e delle fonti giuridiche, aperta al futuro anche grazie alla conoscenza ed alla valutazione del passato.

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

Se il diritto comprende il complesso delle regole coattive secondo le quali vive una determinata società politica, in questi ultimi due (o tre) secoli tali regole sono state espresse in gran parte – ma non solo – dalla “legge”, frutto della volontà politica di chi deteneva il potere, impersonata dal legislatore, che in Europa in precedenza era il principe (prima assoluto, poi costituzionale) ed oggi è generalmente il parlamento, considerato – più o meno fondatamente – espressione, a seconda dei tempi, della volontà “nazionale” o di quella “popolare”. Lo scostamento da tali regole comporta una violazione del diritto, e quindi la necessità che questo sia ripristinato per il corretto funzionamento della società: è quanto oggi si dice ‘amministrazione della giustizia’, con intervento del ‘giudice’ a ‘fare giustizia’ secondo le regole del diritto, per riportare l’ordine – in precedenza violato – nella convivenza civile. Attualmente si dovrebbe incaricare di questo reintegro lo Stato, entità nel complesso di per sé astratta, ma in effetti più o meno incombente (a seconda dei tempi e dei luoghi) tramite i suoi ‘rappresentanti’, e come tale in genere sentita con un certo disagio dal singolo individuo, che tende invece a dimenticarne la funzione di tutela dell’ordine e della convivenza civile. Si pensa comunemente che lo Stato sia in pratica sempre esistito, ma in effetti si può dire che nell’attuale accezione si è formato gradualmente in Europa con l’età moderna, nei suoi tre classici elementi di territorio, popolazione e sovranità: si parla così di “Stato moderno”, o più semplicemente di “Stato”. In altri continenti non si è verificato nulla di simile; essi, anzi, sono stati progressivamente assoggettati ad una prepotente colonizzazione delle principali potenze europee, che solo dal sec. XX sono venute via via ritirandosi. Esse hanno così lasciato spazio a modelli statuali nel complesso simili ai propri, che avrebbero dovuto avvicinarsi a quelli contemporanei europei, ma le cui terre sono spesso state travagliate da lotte tribali o da un’evoluzione verso regimi dittatoriali ben diversi da quelli coevi dell’Europa o dell’America settentrionale, che avrebbero dovuto esserne l’esempio. In Europa la realizzazione dello Stato si verifica per lo più con la progressiva affermazione, sul piano storico-politico, di un principe, che riesce ad imporre il suo potere assoluto ed assorbente – “sovrano” – su un determinato territorio ed a tutte le persone che vi si trovano, superando così il particolarismo locale, personale, cetuale e di gruppi sociali del medioevo. Si tratta di un processo storico complesso, che si è realizzato in modo graduale e discontinuo, ma che finisce col caratterizzare l’Europa dell’età moderna, pur con differenze – anche notevoli – da zona a zona. Dal punto di vista storico si nota gradualmente la realizzazione prima del potere assoluto (o quasi ...) del “sovrano”, poi spesso la riduzione di questo potere (nel sec. XIX) per concessioni costituzionali, con il riconoscimento

PRESENTAZIONE

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della sovranità in capo alla “nazione”, infine con la ‘spersonalizzazione’ dello Stato dal legame con una determinata dinastia principesca e con l’attribuzione della sovranità di quel territorio alla “nazione” o al “popolo”. Tale modello, sviluppatosi in specie nell’Europa occidentale, dovrebbe diffondersi da un punto di vista formale – pur con anomalie ed indubbie difficoltà sostanziali – nelle altre parti del mondo. Esso, però, a partire dalla seconda metà del sec. XX, è affiancato pure da tendenze sovrastatuali, che sono portate a limitare o controllare un’eccessiva espressione della sovranità statale, a favore di una più ampia collaborazione interstatuale. Le grandi civiltà del passato hanno tramandato alla storia dell’uomo alcune delle loro specifiche acquisizioni: quella romana ci ha lasciato – fra l’altro – il diritto, i concetti ed il ragionamento giuridico (così come a quella greca siamo debitori della filosofia e delle sue speculazioni teoriche, a quella babilonese risalgono le basi delle nostre conoscenze astronomiche). Si può anche dire che ogni società ha un suo diritto, se con ciò intendiamo il complesso delle regole coattive secondo cui vive e si regola quella società: non sono stati certo i Romani i primi ad individuare un’articolata serie di norme per la propria vita associata. Basti pensare – per quanto a noi noto – alla poderosa stele di Hammurabi, che a Parigi troneggia in una sala del Louvre, in cui il re babilonese (vissuto verso il 2250 a.C.) ha fatto scolpire in 44 righe di scrittura cuneiforme numerose disposizioni della legislazione del suo tempo. Ma i Romani per primi – a quanto se ne sa – hanno ‘inventato’ il diritto, nel senso che dalle singole norme hanno saputo dedurre una raffinata costruzione di concetti e di teoria generale, hanno dedicato specifica attenzione – anche grazie alle acquisizioni della filosofia greca – al ragionamento giuridico, hanno individuato in proposito una particolare categoria di esperti (“iuris periti”, “iuris prudentes”), tanto da fare della loro attività una professione di rilievo. Ad essi i Romani si rivolgevano per avere consigli sul comportamento da tenere, per dirimere le proprie controversie, per amministrare la giustizia, per aggiornare lo stesso diritto. Sono i Romani ad aver creato la “iuris prudentia” (e, di conseguenza, la figura professionale del giurista): l’hanno tramandata – pur con l’ampia pausa regressiva dei secoli altomedievali – sino a noi. L’aspirazione di questo corso è quella di cercare di far riflettere lo studente che si affaccia allo studio della “giurisprudenza” per diventare “giurista” sulle origini della sua professione, sul metodo da essa acquisito nel corso dei secoli, sulla sua identità come conoscitore ed interprete delle norme del suo tempo (e di quelle future) partendo da un inquadramento – per quanto sommario – delle basi ideali e storiche del diritto anteriore, sul quale è venuto poggiando il nostro.

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

I IMPERO ROMANO E FONTI DEL DIRITTO

SOMMARIO: 1. Diritto ed Impero romano. – 2. Uno sguardo all’ultimo Impero romano. – 3. La giurisprudenza e le fonti giuridiche.

1. Diritto ed Impero romano In Italia una lunga tradizione distingue fra l’insegnamento universitario del diritto romano e quello dei periodi successivi. Nel rispetto di questa tradizione, un esame – per quanto rapido – delle caratteristiche del “diritto” nei secoli altomedievali comporta un confronto con quanto lo ha preceduto (anche per la grande levatura del diritto romano): la progressiva perdita, per secoli, delle conoscenze acquisite col diritto romano ha costituito un impoverimento enorme, da ogni punto di vista. Si deve perciò fare almeno un cenno alle caratteristiche essenziali del diritto romano tardoantico: si notano subito almeno tre punti, e cioè la raffinata organizzazione amministrativa dell’Impero del tempo (rispetto alla pochezza successiva), l’emersione della Chiesa (in seguito pure basilare per la vita sociale), l’importanza dei giuristi e della scienza giuridica per la conoscenza ed applicazione del diritto e della giustizia (sostituiti in seguito con altre approssimative soluzioni). L’eredità del periodo tardoantico solo in piccola parte si è trasmessa a quello successivo (ove al massimo qualcosa faticosamente è perdurato), per una completa diversità di concezioni di vita, di mentalità, di ordinamento. Un mondo si è venuto consumando e perdendo, un altro vi è subentrato (non in positivo, anche per il diritto). Negli anni della nascita di Cristo, Ottaviano Augusto ha instaurato a Roma il principato ereditario, che si è trasformato molto presto in impero. Le guerre si svolgono ormai in zone di confine, ben lontane da Roma e dal ba-

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

cino del Mediterraneo a questa soggetto, a cui sono assicurati secoli di pace e di benessere. Tale situazione di stabilità facilita il rispetto del diritto e la sua pacifica evoluzione. Col tempo si assiste alla divinizzazione della figura dell’imperatore. Nel 212 l’editto di Caracalla riconosce la cittadinanza romana a tutti i provinciali liberi. Alla fine del terzo secolo (284-305) l’imperatore Diocleziano introduce una vasta riorganizzazione, centrale e periferica, dell’Impero, per renderne più efficiente l’amministrazione e pure per contrastare la tendenza all’elevazione ad imperatore da parte dell’esercito di propri generali. Tale ultimo obiettivo viene presto disatteso dalle lotte che portano al potere imperiale il solo Costantino. Questi nel 313 emana l’editto di tolleranza dei Cristiani e nel 330 fonda una nuova capitale orientale dell’Impero, che battezza in proprio onore Costantinopoli (la località prima era detta Bisanzio), lasciando anche effettivamente Roma. Si accentua così la suddivisione dell’Impero in due parti, una occidentale con capitale Roma ed una orientale con capitale Costantinopoli. Nel 380 l’imperatore Teodosio I vieta i culti diversi da quello cristiano, che diventa quindi religione di stato. Alla sua morte (395) i due figli si spartiscono ufficialmente l’Impero, con ciò accentuandone d’ora in poi la bipartizione: ad Arcadio l’Oriente, ad Onorio l’Occidente. Nel frattempo la Chiesa cristiana è venuta organizzandosi secondo una propria impostazione. In ogni città il popolo cristiano elegge (o, meglio, in genere acclama) un proprio capo spirituale, il vescovo, che sovrintende alla vita religiosa della città e dei dintorni. Tra i vescovi, alcuni vengono ad assumere una superiorità rispetto ad altri, come quello di Roma (“papa” o “pontefice”) ed i vari patriarchi (come quelli di Aquileia, Alessandria o Costantinopoli). Tra i vescovi si svolgono riunioni collegiali, dette concili, locali o generali, in cui si prendono decisioni di rilievo per la fede cristiana: ad esempio, nel concilio di Nicea del 325 si decide che è eretica la tesi del vescovo Ario (i cui seguaci perciò sono detti “ariani”, ma senza alcun riferimento razziale, bensì solo religioso), la quale sostiene che le tre “persone” della Trinità non hanno la “stessa essenza” (in specie il Figlio rispetto al Padre). Nel secolo V si svolgono frequenti e violente spedizioni armate e migrazioni di popoli germanici in Occidente (“barbari” rispetto all’evoluta civiltà romana). Il loro risultato positivo porta all’affermazione dei nuovi regni germanici, più o meno sensibili alla tradizione romana: i Visigoti nella Gallia meridionale e poi in Spagna, i Vandali in Spagna e poi in Africa, i Franchi in Gallia, i Burgundi fra questa ed il Reno, gli Eruli e poi gli Ostrogoti in Italia. Restano comunque sacche di persistenza romana, difesa dai latifondisti locali con proprie truppe, coordinate per lo più con difensori delle mura cittadine, spesso ispirate dai vescovi. L’Impero romano d’Occidente, via via già me-

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nomato, termina formalmente col 476, mentre quello d’Oriente durerà sino al sec. XV. Ciò non impedisce che proprio un imperatore bizantino, Giustiniano, nella prima metà del successivo sec. VI coltivi il progetto di un grande ripristino della tradizione romano-bizantina: fa raccogliere i testi basilari del diritto romano, avvia la riconquista della parte occidentale dell’Impero, che si arresta però – ed inoltre per un solo quindicennio – all’Italia. È proprio grazie a Giustiniano che è giunta sino a noi la testimonianza della grande fioritura del diritto romano: senza le sue raccolte gran parte dei testi giuridici romani si sarebbe persa. Poi è praticamente il buio. Nel 568 scendono in Italia i Longobardi e la dominazione bizantina nella nostra penisola si riduce di molto. La civiltà romana, anche del tempo tardoantico, si è ormai esaurita: subentra in pieno il periodo germanico.

2. Uno sguardo all’ultimo Impero romano La plurisecolare durata del dominio romano è stata favorita da un’efficace organizzazione, basata – oltre che sulla forza militare – sulle regole giuridiche. La capacità di predisporle e di affidarsi ad esse è stata una delle ragioni di una così lunga esistenza. Lo stesso esercito funzionava secondo regole ben precise, che ne differenziavano l’azione da altri gruppi di armati. Nel caso di Roma, il diritto ha avuto una rilevante importanza per l’espansione e la sopravvivenza della sua dominazione, perché è stato tramite il diritto che si è attuata la disciplina del funzionamento, al centro come alla periferia, delle istituzioni romane. Altri imperi (come quello macedone) si sono sfaldati presto, affidati com’erano più alla personalità dei fondatori che ad un’efficace organizzazione fissata da norme giuridiche. L’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.) ha avviato una grande riorganizzazione dell’Impero, completata poi da Costantino (morto nel 337). Tale ordinamento vede al vertice l’imperatore, considerato ormai fonte di ogni potere: intorno a lui c’è una corte di funzionari, con compiti precisi, in cui sono compresi non pochi giuristi. Esistono specifiche mansioni per i diversi uffici, fissate da norme: si afferma il concetto del funzionario, con le sue competenze (da cui non deve debordare, e su cui altri non devono inserirsi). L’ufficio prevale sulla persona: ognuno deve attenersi alle funzioni prefissate, sia nell’amministrazione centrale che in quella periferica. Le cariche militari sono separate da quelle civili; a sé stanno poi quelle finanziarie. I due imperatori (uno in Oriente, uno in Occidente) sono coadiuvati da due Cesari (peraltro non sempre designati) e dai propri funzionari centrali

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

(“quaestor sacri palatii”, “magister officiorum”, ecc.). L’Impero è suddiviso in quattro grandi prefetture, affidate ad un prefetto del pretorio: l’Oriente; l’Illirico; l’Italia (e l’Africa); le Gallie (e la Spagna). Ciascuna di esse è divisa in diocesi (6 in Oriente, 6 in Occidente) ed affidata ad un vicario. Ogni diocesi è suddivisa in province (114 in tutto), a capo di ciascuna delle quali sta un “rector” o “praeses” (preside). In ogni provincia, poi, si trovano le diverse città (“municipia”), rette dalla “curia” dei cittadini notabili locali (“decuriones”). Le funzioni civili sono separate da quelle militari. L’esercito è composto da fanteria e cavalleria: a capo dei fanti c’è un “magister peditum”, dei cavalieri un “magister militum”. Se il comando è unificato, è affidato ad un “magister militum utriusque militiae”. Seguono poi, in gerarchia, i graduati inferiori. La capacità bellica dell’esercito si basa sulla sua organizzazione (dovuta a norme precise), oltre che sulle armi e sull’addestramento. Col tempo vengono arruolati pure uomini estranei all’Impero, dato lo scarso interesse dei cittadini a farne parte: si infiltrano così gruppi di germani, che in tal modo acquisiscono le conoscenze belliche imperiali. Nell’esercito esistono truppe stanziate lungo i confini (per lo più il corso del Danubio e del Reno): sono i “milites” limitanei o “ripenses”, a cui spesso sono cedute terre da sfruttare (e difendere da aggressioni esterne lungo il confine, o “limes”). Nelle retrovie sono poi sistemati altri contingenti di armati, pronti ad accorrere in caso di necessità. Per l’esercito vigono disposizioni particolari e più semplici, che facilitano la vita del militare e favoriscono una certa elasticità nelle precise regole del diritto romano; ciò vale in specie per coloro che non sono romani e seguono tradizioni diverse (come i gruppi germanici assoldati). Esiste inoltre un apparato finanziario, incaricato di riscuotere i tributi e di retribuire i dipendenti imperiali, sia civili che militari. La progressiva inefficienza di questo settore viene causando gravi disfunzioni nell’amministrazione, con conseguente possibilità di autonome iniziative dei funzionari e dei militari per procurarsi direttamente denaro (corruzione, prevaricazioni, appropriazioni violente, requisizioni): è la crisi del sistema.

Il diritto romano distingue fra “cittadini romani” (dopo l’editto di Caracalla del 212 tutti i “liberi”, anche delle Provincie italiche) con capacità giuridica e politica, distinti dai “servi”, privi di capacità giuridica (quindi simili a beni). La donna libera ha capacità giuridica, pur con alcune limitazioni. Esistono poi differenziazioni fra le persone a seconda della condizione sociale di appartenenza. La normativa che regge l’Impero è di per sé apprezzabile e dimostra la capacità romana di giovarsi delle regole giuridiche per far funzionare il complesso ordinamento imperiale. Essa però negli ultimi secoli si rivela non solo troppo macchinosa, ma soprattutto spesso disattesa. Ciò causa non solo

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disfunzioni, ma sfiducia: ad esempio, la cattiva amministrazione della giustizia finisce con l’indurre i cittadini ad evitarla e ad affidarsi piuttosto al vescovo per dirimere le controversie. L’inadeguato funzionamento dell’apparato pubblico, unito ad altri gravi elementi di crisi economica, sociale e militare, porta tra IV e V secolo alla progressiva decadenza ed all’insicurezza nella stessa difesa dei confini e dell’ordine pubblico, in specie nella parte occidentale dell’Impero.

3. La giurisprudenza e le fonti giuridiche Se il diritto romano ha rappresentato qualcosa nella storia della civiltà, ciò è dovuto alle acquisizioni ‘scientifiche’ e concettuali maturate tramite la giurisprudenza, cioè tramite il ragionamento dei suoi esperti (“iuris periti”). Il periodo più significativo della “giurisprudenza” romana è stato quello fra il 200 a.C. ed il 200 d.C.: in questo arco di tempo di quattro secoli si è consolidata la fama degli esperti del diritto (“iurisperiti”) e delle loro scuole, a cui i cittadini ed i politici romani chiedevano consulenze 1 decisive per la risoluzione delle controversie, secondo la loro interpretazione di quanto stabiliva il diritto (“ius”). A tali esperti, infatti, la società del tempo riconosceva la capacità e la competenza di dedurre tramite il proprio ragionamento giuridico (“interpretatio”) – condotto con metodo scientifico e con approfondimenti concettuali – le regole desumibili da una serie di princìpi e di comportamenti, che costituivano lo “ius”. Accanto allo “ius” esisteva pure un certo numero di “leges” (votate in un periodo più antico dall’assemblea popolare, in seguito dal Senato), nonché di editti delle autorità politiche, di cui questi esperti tenevano conto. Era però soprattutto sui princìpi dello “ius” (dedotti dall’esame della vita e della mentalità del tempo) che si sviluppava la loro “interpretatio” 2. Si deve peraltro constatare che già nell’età repubblicana le leggi sono venute via via aumentando. Con il progressivo affermarsi del potere imperiale si assiste ad un rapido di1 Si sofferma su questi aspetti il corso di Storia del diritto romano; qui basti rilevare che lo stesso magistrato romano destinato a risolvere le controversie, precisate le ragioni del contendere, rinviava le parti al giurisperito per la soluzione del caso. 2 La “interpretatio” del giurista romano è molto più della nostra attuale interpretazione: egli provvedeva alla risoluzione del caso tenendo conto dei diversi princìpi giuridici a lui noti, in pratica con un’autonomia di giudizio e di valutazioni che gli era riconosciuta in quanto egli conosceva “la scienza” ed i “segreti” del diritto, come avveniva per il medico o il chimico nel loro campo di conoscenze.

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latarsi della legislazione, monopolizzata dall’imperatore (e dai suoi collaboratori, nonché dagli organi imperiali): le “leges” (nelle loro diverse accezioni) vengono a comprimere ed a ridurre via via la portata dello “ius” e della “interpretatio prudentium”. Il diritto tende a divenire sempre più espressione della volontà del legislatore (imperiale) nell’assolutezza dei suoi comandi ed a richiedere sempre meno l’intervento – anche creativo ma autonomo – dei giuristi. Questi, anzi, sono indotti spesso ad inserirsi nella stessa amministrazione imperiale, con funzioni sia legislative che giudiziarie: in tal modo l’antica tradizione giurisprudenziale – con i suoi metodi logici e scientifici – viene ricompresa entro l’apparato amministrativo pubblico, per collaborare dall’interno di questo alla produzione di un diritto legislativo, che promana in ultima analisi dalla volontà autoritaria del principe-legislatore e non deriva più dalla considerazione autonoma – da parte dei giuristi – dei princìpi che reggono la vita e la mentalità della società del tempo. L’ampiezza della legislazione imperiale indusse sin dal sec. IV alcuni privati a redigerne delle raccolte: sono note in proposito quelle del Codice Gregoriano e del Codice Ermogeniano, che riunivano i rescritti imperiali sino ai tempi di Diocleziano. Di tali compilazioni si ha solo la notizia e si è perso il testo: possono essere ricordate perché per prime furono redatte a forma di libro (e non di rotolo di papiro) e presero il nome di “codice”, termine che nei secoli fu poi usato dai giuristi in varie accezioni 3. All’esempio di tali iniziative private si è rifatto l’imperatore d’Oriente Teodosio II, che nel 438 ha promulgato per la sua zona di competenza un’ampia raccolta di leggi imperiali emanate da Costantino in poi: si tratta del Codice Teodosiano, suddiviso per argomenti in 16 libri (e questi in titoli), in cui – per ogni materia – le costituzioni sono riunite in sequenza cronologica. L’imperatore occidentale Valentiniano III ne ha contemporaneamente esteso la vigenza in Occidente 4, ove il Codice Teodosiano ha avuto una profonda influenza, perché per secoli ha tramandato la conoscenza della tradizione romana nelle zone (Spagna e Francia) in cui non è stata in seguito adottata la compilazio3

I codici Gregoriano ed Ermogeniano furono naturalmente usati per redigere le raccolte tardoimperiali successive. 4 Valentiniano III era il giovane genero dell’imperatore orientale Teodosio II. Egli era figlio di Galla Placidia, sorella dell’imperatore Onorio: era quindi nipote di quest’ultimo, morto nel 423. Fu inadeguato al suo ruolo e durante il suo regno (423-455) si sfaldò praticamente la parte occidentale dell’Impero. La necessità di recezione del Codice Teodosiano in Occidente dimostra ormai l’impermeabilità tra le due parti dell’Impero (ed infatti la legislazione occidentale non fu generalmente in uso in Oriente, perché non recepita). Teodosio II si era proposto di procedere pure ad una raccolta di opinioni dei giuristi (“iura”) sui diversi istituti giuridici, ma non vi giunse.

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ne giustinianea. Non solo, ma nella stessa Italia centro-settentrionale l’uso per un secolo del diritto romano teodosiano non è stato completamente scalzato dal successivo diritto giustinianeo, ben presto trascurato per l’invasione longobarda. Anche il Codice Teodosiano non si è conservato nella sua interezza. Oggi ne sono note delle parti, tramandate anche grazie alla successiva legislazione visigotica, che ne ha riprodotto numerosi passi (nel “Breviario Alariciano” o “Lex romana Wisigothorum”). Un secolo dopo, un altro imperatore bizantino, Giustiniano, si è preoccupato di far redigere una serie di raccolte delle fonti giuridiche romane, opera imponente, portata a termine in soli cinque anni, dal 529 al 534, grazie all’impegno del suo ministro Triboniano, esperto giurista 5. All’inizio si previde solo di aggiornare l’opera di Teodosio e si redasse un nuovo “Codex Iustinianus” (oggi perso). Nel corso del lavoro il programma si ampliò notevolmente: sembrò opportuno riunire non solo le “leges” imperiali sui diversi argomenti o istituti, ma anche – cosa molto più laboriosa – gli “iura”, cioè l’insieme delle regole dello “ius”, enunciate nel corso dei secoli dai più significativi giuristi romani 6. In circa tre anni quest’opera imponente fu pronta: nel 533 Giustiniano emanò infatti il “Digesto” (o “Pandette”), cioè gli “iura digesta” riuniti in 50 libri in cui erano riportati, argomento per argomento, i frammenti delle opere dei giuristi romani, che potevano essere utili per approfondire la conoscenza dei singoli istituti giuridici 7. Si trattava di una raccolta poderosa, sino ad allora mai riuscita (nonostante qualche precedente tentativo), grazie alla quale conosciamo la scienza giuridica romana: se non fosse stata realizzata, ben poco si sarebbe conservato della grande e secolare dottrina dei giuristi romani. Durante l’elaborazione del Digesto apparve importante redigere pure un 5

In effetti, si trattò di un lavoro particolarmente complesso e laborioso, giunto a compimento grazie alla capacità, alle conoscenze giuridiche ed alle raccolte di testi possedute da Triboniano, che seppe pure ampiamente giovarsi di compilazioni preesistenti. Argomento per argomento si trattava non solo di scegliere i passi più significativi, ma di coordinarli fra loro (… anche con interpolazioni) e farne un complesso normativo coerente: fu opera veramente imponente. 6 Con la compilazione giustinianea e con l’opera di Triboniano riemerge la scienza giuridica, nella prospettiva di una restaurazione giuridica, che le condizioni dell’epoca non consentivano, nonostante la persistenza delle scuole di diritto di Costantinopoli e di Berito. Essa però non segna solo un punto basilare per la consegna ai posteri del patrimonio giuridico romano, ma indica anche una ripresa significativa – per quanto temporanea – dell’elaborazione del diritto a livello scientifico. 7 I frammenti dei singoli giuristi sono riuniti per argomenti, in modo che il lettore abbia a disposizione ciascuno di questi in modo coordinato, con suddivisioni per materia in libri, titoli, capitoli.

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manuale con i concetti ed i princìpi generali di tutto il diritto romano, utile soprattutto per gli studenti e per chi volesse conoscerne i punti essenziali. In proposito già esisteva un’opera divulgativa di un giurista del III secolo d.C., le “Institutiones” di Gaio. Su tale modello (l’unica opera del diritto romano giunta fortunosamente sino a noi, rinvenuta nella prima metà del sec. XIX in un palinsesto veronese) furono redatte le “Institutiones” di Giustiniano (in 4 libri), destinate agli studenti (in specie delle due grandi sedi di Costantinopoli e di Berito), emanate pure direttamente come legge imperiale da Giustiniano. A questo punto il “Codex Iustinianus” di qualche anno prima sembrò superato e da aggiornare anche nella sistematica al più perfezionato metodo di lavoro del Digesto. La Commissione di giuristi presieduta da Triboniano si rimise al lavoro e – sulla base dell’organizzazione del Digesto – predispose il “Novus Codex Iustinianus repetitae praelectionis”, detto brevemente poi “Codex” (o Codice), in 12 libri, in cui erano naturalmente riportate – argomento per argomento – le diverse “leges” considerate utili ancora ai tempi giustinianei. Il Codex fu emanato nel 534. L’imponente lavoro di queste raccolte, tutte giunte sino a noi, non è stato concepito e realizzato in funzione storico-antiquaria per conservare la conoscenza delle acquisizioni giuridiche romane, ma è stato fatto da un principe (tramite suoi collaboratori) di epoca ormai tarda (bizantina) per dotare positivamente il suo impero ed i sudditi di un diritto valido per il proprio tempo. Ne consegue che queste raccolte giuridiche (tutte emanate come leggi, anche le Istituzioni), pur ispirandosi ad un passato venerato, dovevano costituire le regole da rispettare nel sec. VI, per le aspettative di un imperatore (assoluto e cristiano) di tale epoca. I passi dei giuristi romani, quindi, nel momento stesso in cui sono stati riportati, sono stati pure qua e là ‘ritoccati’ secondo le aspettative dei redattori, oltre che per coordinarli fra loro. Tali ‘ritocchi’, detti interpolazioni (o spregiativamente nel sec. XVI “emblemata Triboniani”) modificano per lo più lo stesso senso del pensiero originario, ma rispondono alle esigenze legislative giustinianee. Naturalmente le interpolazioni non risultano espressamente, ma sono desunte dallo studioso in base a conoscenze logico-filologiche: la critica storica si è affannata a discuterne dal sec. XV in poi, con l’aspirazione di ricostruire l’originario pensiero giuridico romano (“classico”) e non solo quello giustinianeo. Ciò vale nella prospettiva degli studi di diritto romano, non di quelli dedicati ai tempi successivi, per i quali le raccolte giustinianee sono un punto di partenza per l’analisi della storia giuridica medievale e posteriore (e non un punto d’arrivo per retrocedere alla ricostruzione del diritto romano, come avviene negli studi di diritto romano). Senza dubbio si deve però rilevare l’importanza – positiva o negativa, secondo le diverse valutazioni – del cosciente intervento di Triboniano e col-

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laboratori per sfruttare la grande tradizione dottrinaria anteriore ma nello stesso tempo per plasmarla per le proprie esigenze di politica legislativa. L’opera compilativa di Giustiniano, già di per sé sin qui imponente, non si è arrestata a raccogliere (ma pure coordinare ed aggiornare) tutto il diritto precedente, ma è proseguita con la sua legislazione successiva: lo stesso imperatore ha quindi fatto redigere una quarta raccolta, quella delle “Novellae constitutiones” (detta poi rapidamente “Novelle”) comprendente le 168 “costituzioni” (= leggi) da lui emanate nel trentennio posteriore. In tal modo la sua opera poté dirsi conclusa. Egli fu convinto di conservarla così nel tempo, al punto da vietare di sottoporla ad interpretazioni e commenti (divieto peraltro disatteso). Nel suo complesso la poderosa opera delle quattro compilazioni (Digesto, Istituzioni, Codice e Novelle) fu poi detta secoli dopo “corpus iuris civilis”. Quando Giustiniano, verso la fine della vita, riuscì a riconquistare l’Italia, vi estese queste raccolte con la “Pragmatica Sanctio” del 554, emanata su richiesta del pontefice del tempo (“pro petitione Vigilii”), in sostituzione del diritto teodosiano (rimasto invece in uso oltre le Alpi per le popolazioni di tradizione romana). La conquista longobarda di buona parte della penisola vi fece però abbandonare (o notevolmente ridurre) la portata del diritto giustinianeo, che restò invece in uso ancora a lungo nell’Italia meridionale. Delle raccolte giustinianee si perse comunque la traccia nell’alto medioevo, e soprattutto del Digesto, l’opera più raffinata fra esse, ma anche più significativa della dottrina giuridica romana. Solo nel sec. XI le migliorate condizioni culturali italiane fecero riemergere dall’oblio i “libri legales” giustinianei, che ripresero ad essere usati e studiati nel loro complesso grazie al recupero fattone da Irnerio e dalla “scuola di Bologna”, di cui si dirà a suo tempo 8. In tal modo essi sono stati al centro del diritto europeo continentale sino alla fine del sec. XVIII e si sono rivelati basilari per la costruzione del “diritto comune” in Europa tra medioevo ed età moderna, nonché per la diffusione sovranazionale di un complesso di concetti, di istituti e di princìpi giuridici, che – specie in campo privatistico – sono divenuti patrimonio comune dei giuristi del mondo. Senza il “corpus iuris” giustinianeo non solo si sarebbe persa nella quasi 8 Nell’alto medioevo si persero ben presto le tracce della compilazione giustinianea nel suo complesso: le sue costruzioni dottrinarie erano troppo raffinate, per poter essere anche solo capite da una cultura molto impoverita (quando c’era). Ciò avvenne soprattutto per la compilazione più elevata, il Digesto. Del Codice circolarono in Occidente alcuni limitati estratti o sunti (“epitomi”); un po’ più diffusa fu l’opera più semplice, cioè il manuale elementare delle Istituzioni, anch’esso in forma epitomata. Qualcosa si tramandò tramite la cultura ecclesiastica, ma per lunghi secoli il gran lavoro giustinianeo restò sepolto nell’oblio, sino alla riscoperta tra la fine del sec. XI ed i primi anni del successivo, nell’Italia centrale: se ne riparlerà.

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totalità la grande esperienza dottrinaria romana 9, ma anche la scienza giuridica non avrebbe avuto – dal sec. XI in poi – una delle basi su cui svilupparsi. L’opera di Giustiniano non può quindi essere dimenticata.

LE RACCOLTE GIUSTINIANEE I “libri legales” giustinianei hanno avuto nel corso dei secoli numerose edizioni. L’edizione critica attualmente in uso è quella di Mommsen-Krueger, apparsa negli ultimi decenni del sec. XIX, frutto di un attento confronto fra i diversi manoscritti: il primo volume pubblica il testo di Istituzioni e Digesto, il secondo il Codice, il terzo le Novelle. Si riporta – dall’edizione di Berlino del 1902 – la riproduzione di parte della prima pagina del Digesto, riguardante il titolo “De iustitia et iure” del primo libro, del quale sono riportati parte del primo frammento (di Ulpiano) ed i frammenti 5 e 6 (di Ermogeniano e di Ulpiano). DOMINI NOSTRI SACRATISSIMI PRINCIPIS

IUS TINIANI IURIS ENUCLEATI EX OMNI VETERE IURE COLLECTI

DIGES TORUM S EU P ANDECTARUM LIBER PRIMUS.

In ogni frammento è indicata la fonte (con l’autore). Gli editori hanno precisato i paragrafi all’interno di ogni frammento (ed in nota le varianti). Il sistema attuale di citazione si basa sulla numerazione di frammenti (e paragrafi) di questa edizione; quello medievale faceva invece riferimento alle parole iniziali dei frammenti.

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In pratica al di fuori della compilazione giustinianea abbiamo oggi solo il manuale delle Istituzioni di Gaio (conservato nella sua completezza dal palinsesto veronese), i “Fragmenta Vaticana” (altro palinsesto scoperto da Angelo Mai con passi di giuristi romani) e i frammenti legislativi riportati dalla Lex romana Wisigothorum.

II DAL TARDO IMPERO ROMANO OCCIDENTALE AI REGNI ROMANO-GERMANICI

SOMMARIO: 1. Invasioni barbariche in occidente, Impero romano-bizantino in oriente. – 2. I Germani. – 3. I regni romano-germanici. – 4. L’Italia prima ostrogota, poi bizantina.

1. Invasioni barbariche in occidente, Impero romano-bizantino in oriente L’Impero romano, per quanto in difficoltà, in Oriente è riuscito in qualche modo a reggere alla crisi economico-finanziaria e sociale, ma in specie istituzionale e militare; in Occidente no. I popoli germanici, che premevano ai confini, in parecchi casi erano già stati autorizzati come “foederati” (“foedus” = patto) con accordi a varcarli ed a sistemarsi in specifici terreni imperiali con l’impegno di difenderli da altre intrusioni; non sempre tali accordi hanno retto, con l’invasione quindi di altre terre e con l’avvio in Occidente di quelle migrazioni, che ne hanno modificato del tutto la geografia politica nel sec. V.

Sin dai primi anni del secolo i Visigoti del re Alarico sono penetrati in Italia, saccheggiando anche Roma nel 410, per sistemarsi poi con un loro regno fra la Gallia meridionale e la Spagna (418): da questa hanno cacciato i Vandali (giuntivi un decennio prima), che sono quindi passati in Africa (429), conquistata con violenza in pochi anni e da cui nel 455 si sono lanciati nel noto sacco di Roma. Nel frattempo i Franchi si erano installati in parte della Gallia, i Burgundi (quali federati) tra questa e l’attuale Svizzera, mentre le spedizioni degli Unni partivano dalla Pannonia (attuale Ungheria, ove avevano le loro basi) e terrorizzavano quasi ogni anno ampie zone dell’Impero (nel 452 fu papa Leone Magno a farli in qualche modo recedere, quasi pronti a giungere alle porte di Roma). L’Impero in Occidente è quasi solo un simulacro.

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Nel 476 termina formalmente l’Impero romano d’Occidente: il capo erulo Odoacre, sconfitto l’esercito di Oreste, padre dell’ultimo imperatore (Romolo Augustolo), invia le insegne imperiali a Costantinopoli, per regnare in Italia sul suo popolo, come in questi anni è avvenuto ed avviene altrove in Occidente 1. La data è quasi simbolica, a causa della grave situazione che c’era prima e continua dopo; ha però un suo significato formale, perché attesta sul piano giuridico il termine dell’Impero in Occidente. Le insegne imperiali sono spedite altrove. Dopo un quindicennio Odoacre deve fronteggiare la venuta in Italia degli Ostrogoti capeggiati da Teodorico, re del suo popolo, ma pure inviato dell’imperatore orientale come condottiero di un esercito federato (quello goto) col titolo di “magister militum utriusque militiae”. Teodorico alla fine prevale: inizia nella penisola la dominazione gota, che durerà circa mezzo secolo. Essa si avvia con auspici incoraggianti, perché Teodorico pare tentare di far convivere in modo ragionevole i suoi goti (armati) con l’élite romana rimasta (civile). I goti sono ariani: questo crea alcuni contrasti con la popolazione romana cattolica, contrasti che tendono ad acuirsi col tempo. Il tentativo di convivenza non si realizza, anche perché le iniziali speranze dell’élite romana devono constatare che la prevalenza politico-militare è ormai degli invasori, per quanto non particolarmente numerosi.

Poco dopo la metà del sec. VI in Italia ai Goti si sostituiscono direttamente i Bizantini, che sono riusciti a prevalere su loro dopo una lunga guerra, in cui quasi tutti i Goti hanno finito per scomparire. La riconquista dell’imperatore Giustiniano (553) porta all’estensione alla nostra penisola del suo “corpus iuris” (554), con la “pragmatica sanctio pro petitione Vigilii” (cioè con un provvedimento richiesto da papa Vigilio, a testimonianza – ancora una volta – dell’ascendente non solo spirituale del vescovo di Roma). In teoria ritorna la romanità, in effetti si tratta di dominazione greco-bizantina, incardinata in Ravenna, la nuova capitale, in via definitiva. In tal modo, mentre la tradizione romana del resto d’Europa resta ancorata al diritto teodosiano, in Italia essa si aggiorna con il più raffinato diritto giustinianeo. Non è però durata molto in tutta la penisola 2. Nel 568 – quindici anni dopo – uno dei popoli germanici meno influenza1

Poco dopo, nelle Gallie, si consolida definitivamente sotto Clodoveo (480-511) il vasto regno dei Franchi. 2 L’analisi storico-giuridica è al § 4 di questo capitolo.

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ti dal contatto con il mondo tardoantico, quello dei Longobardi, entra dal Friuli nell’Italia settentrionale ed in poco tempo (un anno circa) dilaga in tutta la pianura padana e va pure oltre. Per la prima volta l’Italia è spaccata in due, tra Longobardi e Bizantini 3. Per molti secoli resterà suddivisa e frammentata sul piano politico, sino all’unificazione del 1861. Per la prima volta un consistente e fiero popolo germanico si insedia in determinate zone della penisola e vi porta le sue radicate tradizioni, che sconvolgono del tutto l’ordinamento precedente. Si tratta perciò di rievocarne in sintesi le caratteristiche di vita e gli usi con incidenza giuridica.

2. I Germani I Romani ed i Bizantini hanno considerato “barbari” i popoli germanici, con un termine spregiativo che è continuato a lungo. Il grado di civiltà era indubbiamente diverso, notoriamente a svantaggio dei Germani: diciamo ora che era un ‘altro’ tipo di civiltà. I Germani non avevano scrittura: non hanno potuto tramandarci che ben poco della loro vita anteriore ai contatti coi Romani. Solo recenti ricerche archeologiche ne hanno fatto conoscere alcuni reperti della vita quotidiana. Le prime notizie sono quelle tramandate dalle opere di Cesare e di Tacito: rivelano consuetudini antiche, un po’ modificate in seguito dal rapporto con il mondo romano. Quando, nei secc. V-VI, i diversi popoli germanici invadono le terre imperiali si presentano con le loro caratteristiche originarie, ma pure con modificazioni recepite dalla civiltà romana, dato che sovente hanno combattuto entro eserciti romani e spesso hanno dimorato per periodi più o meno lunghi vicino al confine (al di qua o al di là). Sono stati, ad esempio, sovente cristianizzati, per lo più secondo l’“eresia ariana”: la religione può avere quindi modificato alcune tradizioni ataviche, per quanto recepita in modo alquanto approssimativo ed in specie secondo un’impostazione “eretica” rispetto a quella cattolica dei Romani. I Germani non conoscono un ordinamento pubblico nel senso della tradizione romana. Vivono, migrano e combattono organizzati per gruppi familiari e gentilizi, sotto capi riconosciuti per il carisma del sangue, del valore militare e dell’acume strategico. La famiglia (in senso patriarcale, allargata ad una parentela piuttosto ampia, con servi, pascoli ed armenti in comune) è alla base della vita sociale, con un proprio capo. Più famiglie discendenti da un antico progenitore comune si raggruppano fra loro in momenti delicati

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Cfr. infra, § 2 del capitolo sul periodo germanico.

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(migrazioni, guerre, occupazioni ...) con un nesso gentilizio, costituendo quella che i Longobardi dicono la “fara”; più fare, a loro volta, possono darsi un capo comune, detto – secondo termine latino – “dux”. La terminologia tramite la quale conosciamo le istituzioni germaniche non è infatti quella originaria, ma quella latina: quindi il capo della famiglia è il “pater”, quello delle fare “dux”, quello del popolo “rex”, l’assemblea del popolo armato è l’“exercitus” e così via. Le denominazioni ataviche si sono per lo più perse. Al momento delle migrazioni entro l’Impero la figura del re presso certi popoli più sensibili all’impostazione romana (come i Goti) era già stabilmente affermata; in altri (come i Longobardi) non ancora del tutto, ed il re era eletto solo per particolari esigenze, in specie belliche. I capi politici, comunque, erano acclamati dall’assemblea del popolo in armi (“exercitus”) su proposta di qualche notabile sulla base del prestigio derivante dalle origini di sangue e dalle capacità dimostrate. Solo nei popoli più influenzati dai contatti con l’Impero accanto al re sono emersi alcuni collaboratori stabili, ma si può dire che fosse evanescente un’organizzazione pubblica. La stessa giustizia era considerata estranea ai compiti regi, affidata alla vendetta della famiglia dell’offeso (“faida”), per superare la quale quella dell’offensore – se non intendeva, con onta, consegnare l’offensore stesso all’offeso perché provvedesse a sua discrezione – poteva procedere al “guidrigildo”. Questo consisteva in una prestazione (all’inizio in natura, poi – con gli insediamenti in Occidente – in denaro) 4 versata come indennizzo alla famiglia dell’offeso e serviva per evitare la guerra privata delle due famiglie, che altrimenti si apriva, perché era indecoroso per quella dell’offeso non lavare l’onta e difendere non solo l’offeso ma il proprio onore nel suo complesso. Tali gravi inimicizie potevano durare a lungo e coinvolgere altre famiglie amiche a sostegno reciproco: si apriva così una guerra fra bande private, che finiva per sconvolgere l’ordine pubblico. In certi casi poteva intervenire l’assemblea (“exercitus”), e col tempo presso certi popoli ebbe specifici compiti in proposito (ad es. Franchi). Solo progressivamente fu preso in considerazione anche l’intervento regio, che si presentò poi come usuale 5. 4 Il guidrigildo col tempo è stato considerato con favore dai re, perché evitava la guerra privata e quindi i pericoli per l’ordine pubblico. Dopo un primo stadio di contropartita in natura (ad es. armenti), viene fissato in una somma di denaro (quando questo entra nell’uso). Esso varia non solo secondo il tipo di offesa (lesione di un braccio, percosse, ecc.) ma anche secondo la qualità dell’offeso (nobile o no, germano o romano, uomo o donna, ecc.) e le modalità (es. di notte, con inganno): è previsto con una minuziosa casistica. 5 L’interesse del re a tenere sotto controllo (… nel limite del possibile) l’ordine pub-

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La prova di un certo comportamento era ottenuta con l’ordalia (giudizio di Dio): l’accusato era sottoposto ad una prova (del fuoco, dell’acqua, delle armi o duello) per verificare la bontà o meno dell’azione contestata. Questa soluzione piuttosto arcaica, fiduciosa nell’intervento divino in ogni occasione della vita, col tempo poté essere in certi casi sostituita dal giuramento (davanti a Dio ...), ma in ogni caso indica una concezione di diritto e di giustizia ben diversa da quella attuale e da quella romana. Anzi, mi sembra che proprio tale grande distanza indichi che nella tradizione germanica il “diritto” come da noi inteso non risulti presente 6. La propensione dei Germani è per la guerra, la razzia, l’acquisizione violenta dei beni, non per la vita pacifica (e di conseguenza il diritto) o per la coltivazione. Originariamente nomadi (pur riducendo col tempo la portata di tale tipo di vita), non coltivano la terra in modo intensivo (non sanno farlo bene, e lo considerano un certo disonore), ma la sfruttano in modo estensivo per l’allevamento delle mandrie, a cui provvede il gruppo familiare nel suo complesso. Ne consegue una diversa sensibilità per il rapporto con la terra, meno marcata verso la proprietà e più verso l’utilizzazione (in pratica il possesso), meno interessata all’attribuzione al singolo e spesso riferita al gruppo familiare o gentilizio. Il singolo può essere invece sensibile ad un suo esclusivo possesso di beni mobili rilevanti, come il cavallo, le armi, gli attrezzi per il controllo degli animali. Mentre la prospettiva romana (stanziale) semina e coltiva per raccogliere, quella germanica (nomade) raccoglie quanto la natura o altri producono. C’è un particolare compiacimento, e prestigio, per il Germano nel razziare beni altrui: forza fisica e guerra (privata o di gruppo) sono alla base della sua vita. Ciò è agli antipodi dell’aspirazione alla “pax” romana ... Il suo legame non è col territorio, ma fra le persone: il vincolo basilare germanico è quello di stirpe o di sangue. A differenza della tradizione romana, il capo ha una posizione di supremazia riferita ad un gruppo di persone, non ad un’area geografica. Quest’impostazione si protrarrà a lungo: anche dopo gli stanziamenti, spesso il controllo del territorio è solo la conseguenza del comando sul gruppo etnico ivi stanziato. È l’opposto del secolare dominio romano sul terblico ha portato lui ed i suoi agenti ad intervenire per favorire il guidrigildo: in parecchi casi ciò ha condotto col tempo al versamento di una parte del guidrigildo al re (o ai suoi agenti), e quindi ad un primo stadio di intervento regio nella giustizia. 6 Se alla base del comportamento c’è la sola forza (o violenza), non c’è spazio per una qualche regola, a cui collegare il diritto; se poi questo è frutto di una valutazione razionale dei vari comportamenti secondo le regole prefissate, a maggior ragione non riesce a trovare collocazione in un meccanismo che segua solo la prevalenza fisica (e non la considerazione di torto/ragione secondo regole prefissate).

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ritorio, prevalente rispetto a quello sulle persone, e si riverbera sulla stessa organizzazione tardoimperiale già vista. Nel gruppo germanico conta unicamente chi può portare le armi e combattere: solo chi partecipa all’“exercitus” (cioè l’arimanno = exercitalis), che costituiva una specie di assemblea del popolo, si può esprimere per le decisioni di rilievo ed ha diritti. È l’“exercitus” che acclama il suo capo, cioè il “rex”. Tutti gli uomini capaci di combattere ne fanno parte: il giovane verso i 14 anni – dopo una particolare cerimonia di vestizione delle armi – vi viene ammesso. Chi non è più in grado di combattere (per anzianità, ferite, ecc.) ne è escluso e perde la possibilità di far sentire la sua voce. Il minore di 14 anni è sotto la tutela paterna; dopo, è maggiorenne. La donna, esclusa dalle armi, non ha la capacità di agire: per tutta la vita necessita della protezionetutela e rappresentanza (mundio) prima del padre, poi del marito (se essi mancano, del parente più prossimo, in genere fratello o figlio). Tale soggezione ad un uomo (mundoaldo) resta per tutta la vita della donna, sebbene possa mutare l’uomo titolare del mundio 7. La famiglia è il perno della società germanica: raggruppa per vincolo di sangue sotto un “pater” anche servi, semiliberi (aldii), altre persone. Esistono beni mobili personali e familiari, ma per lo più le terre (e gli armenti) sono sfruttate comunitariamente dal gruppo familiare, anche se finisce pure col realizzarsi una proprietà del singolo. Il testamento non è inizialmente noto: alla morte del “pater” i beni passano per lo più al nuovo “pater” come titolarità e responsabilità, nella stessa prospettiva comunitaria di prima. La famiglia deve proteggere i suoi membri: solo in essa e con essa questi trovano tutela, perché un singolo – isolato – non ha sicurezza. Ogni famiglia ha le sue strategie, le sue alleanze, i suoi legami esterni; se si sente troppo debole, può allearsi o confluire in una famiglia amica più potente. La forza, anche fisica, della famiglia è alla base della fortuna e sopravvivenza della famiglia stessa, e quindi dei suoi singoli membri. Da quanto detto può emergere una grande differenza d’impostazione esistenziale fra Germani e Romani. A lungo questi ultimi sono riusciti a controllarli; dal sec. V ciò non è più avvenuto ed i Germani in parecchi casi hanno preso il sopravvento, imponendosi con la forza. Naturalmente ne è derivato un grave e lungo periodo di disordine, per la stessa concezione di 7

Questa posizione di inferiorità della donna quanto a capacità di agire può non incidere sulla titolarità dei beni (ad es. nei regimi comunitari fra coniugi), ma resta per secoli, tanto da far prevedere ancora in età moderna un’incapacità ad agire della donna. La tradizione romana, invece, le riconosceva tale capacità di agire. Ciò differenzierà a lungo la situazione italiana da quella transalpina, a lungo sensibile a quest’influenza germanica.

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vita dei Germani. Unica a prevalere è stata la forza: si può dire che il diritto sia scomparso, sommerso da questa. Ove c’è solo la forza, non può esserci il diritto, comportante la risoluzione di un’eventuale controversia tramite le regole previste dalla pacifica convivenza. La situazione di questi secoli presenta aspetti ben poco ‘giuridici’, se considerati con la nostra attuale sensibilità: proprio per questa grande differenza sembra opportuno delineare le sole linee essenziali.

3. I regni romano-germanici Nelle terre occidentali già dell’Impero si insediano nel sec. V consistenti gruppi di popoli germanici, dando vita ai regni visigoto (in Gallia meridionale e Spagna), burgundo (nella Gallia orientale), ostrogoto (in Italia), franco (nelle Gallie). I Germani vi dominano e vi portano la loro mentalità e le loro tradizioni, belliche e gentilizie, con frequenti spoliazioni ed uccisioni dei precedenti proprietari e notabili. I Romani sopravvissuti vi si trovano per lo più in pericolo, ma non si può dire siano ridotti in uno stato generale di servitù o semilibertà, come voleva un filone della storiografia ottocentesca. I nuovi dominatori possono recepire – a seconda dei regni – anche certi aspetti del mondo romano e consentire pure ai Romani di continuare nella propria tradizione giuridica, ove non interferisca con la loro dominazione. La situazione è però chiaramente rovesciata rispetto a prima, quando l’ordinamento era quello romano ed al massimo alcune tradizioni dei militari germanici federati vi erano tollerate. Ora sono i Germani a comandare: è per loro scelta se qualcosa può essere conservato. Goti e Burgundi sembrano i più sensibili alla precedente situazione ed a recepire pure qualcosa per l’organizzazione dei propri regni, non cancellando del tutto forme di collaborazione con qualche notabile sopravvissuto. I nuovi regni dei secc. V-VI non sembrano ignorare del tutto il sistema organizzativo precedente, per quanto ispirati dal legame gentilizio e “popolare” nella loro essenza. Essi segnano, comunque, un punto di ‘non ritorno’: sulle ceneri dell’Impero romano nasce buona parte di quella geografia politica europea, che resta sino a noi: la Francia (dei Franchi), l’Inghilterra (di Angli e Sassoni), buona parte della Spagna (dei Visigoti), la Germania (ove restano altre stirpi), frutto degli insediamenti “nazionali”, che le attuali tendenze sovranazionali aspirano a superare.

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I vari popoli germanici dilagano nei nuovi territori acquisiti e vi si espandono, riducendo quella più stretta contiguità che avevano in precedenza: continuano a vivere secondo le loro consuetudini, che però – a contatto con un’altra consolidata civiltà – rischiano di appannarsi e modificarsi. L’impatto è forte, per quanto ogni gruppo etnico tenda a vivere per suo conto: le antiche consuetudini non possono non risentire della tradizione romana, nella specie teodosiana, a cui si ispira la stessa Chiesa.

Ne deriva il principio della personalità del diritto, contrapposto a quello (consueto nell’Impero romano) della territorialità. Per il primo, ciascun individuo applica il diritto della “sua” stirpe (“nazione”) e quindi in un territorio possono essere in uso più diritti se vi convivono più popoli; per il secondo, in quell’area geografica non può esserci invece che un solo diritto, cioè quello voluto dai capi territoriali. La personalità del diritto si rivela più consona a gruppi sociali conviventi in uno stesso territorio, coesi al loro interno e quasi impermeabili verso l’esterno, spesso con livello di civiltà diverso. Si trova nei regni romano-germanici, ma pure nelle terre coloniali del sec. XIX, in ordinamenti limitatamente accentrati. La territorialità del diritto è invece abituale in Europa nello stato moderno e in quelli contemporanei. Per i regni romano-germanici la personalità del diritto non è una scelta di per sé cosciente (come nei domìni coloniali ottocenteschi), ma piuttosto la conseguenza per i Germani della sola attenzione alla propria “nazione” e di un loro ridotto interesse per il dominio territoriale, nonché dell’evanescenza del loro ordinamento pubblico. Ogni gruppo etnico è lasciato alle sue consuetudini giuridiche, purché non intacchi le regole – a volte anche di sudditanza – nella convivenza con gli altri: la personalità del diritto trova quindi un preciso limite nell’ordine pubblico, per il quale naturalmente vigono le regole usate o fissate da chi comanda. Ciò consente però alle diverse stirpi germaniche a volte coesistenti di vivere ciascuna secondo i propri usi, ed ai Romani sopravvissuti di continuare nella loro precedente tradizione giuridica. La persistenza, comunque, di un diritto romano “volgare” produce pure una sua empirica ed approssimativa influenza sulle stesse consuetudini germaniche: diluite nell’ampio spazio degli insediamenti, a contatto con la più elevata civiltà dei vinti, circoscritte dalla nuova religione cristiana seguita, esse perdono vigore, riducono alcune loro asprezze e cominciano pure a recepire alcuni concetti o istituti romani (come, ad esempio, quello della rappresentanza, o le donazioni per l’anima ed a causa di morte anticipatrici del testamento).

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Al fine di conservare e precisare le consuetudini popolari vigenti, nei diversi regni esse sono state quindi messe poi per iscritto, in un latino che aspirava a rispettarne i contenuti, con possibili interventi integrativi sia di un’autorità regia, che sovrintese all’iniziativa, sia di esperti sensibili alle influenze di altri diritti (tra cui quello romano). Ne sono risultate le cosiddette “leges barbarorum”, di cui le prime sono state quelle dei Visigoti (Codice Euriciano, 476-79), dei Burgundi (Lex Burgundionum, 501-11), dei Franchi (Pactus legis Salicae, 507-11), a cui sono seguite quelle di altri popoli (come gli Alamanni, i Bavari, i Sassoni) sino alla fine del sec. VIII. Si parla comunemente di “leges”, ma in effetti si tratta di raccolte di consuetudini, per quanto legislativamente emanate dai diversi re: concettualmente si tratta di un diritto “popolare”, non imposto dal legislatore. Naturalmente, nel corso del tempo (tra i secc. VI-VIII) la redazione scritta ha potuto apparire insufficiente, perché alcune consuetudini sono cambiate ed altre a loro volta sono state trascurate, e quindi i re hanno provveduto ad una ulteriore compilazione, come è avvenuto presso i Visigoti o i Franchi. In due regni tra i più benevoli verso la tradizione romana, quello dei Visigoti e quello dei Burgundi, i re hanno pure fatto raccogliere le norme di questa: si tratta della “Lex romana Wisigothorum” (506), emanata da Alarico II (e detta quindi pure “Breviario Alariciano”), e la “Lex romana Burgundionum”. La prima è senz’altro più importante: riporta ampie parti del Codice Teodosiano, a cui unisce un’“interpretatio” visigotica (che pare rifarsi ad una tradizione anteriore), ed ha avuto larga e lunga influenza oltre lo stesso regno visigoto, in Gallia e pure in Italia. Per l’Europa medievale è stata infatti il ponte per la conoscenza del diritto teodosiano. Il pur non elevato livello attesta comunque il retaggio del diritto romano e l’autorità ad esso riconosciuta in alcuni regni germanici. Il passar del tempo ha però portato ad un maggior legame con il territorio, ad un certo contatto fra i diversi gruppi etnici ed al formarsi di consuetudini locali, con una certa tendenza alla riduzione della frammentazione del diritto per “nationes” ed all’uniformità di regole (a volte scritte, spesso consuetudinarie) per un certo territorio. Ciò è avvenuto anche grazie alle norme ecclesiastiche, di particolare rilievo per la società del tempo, in cui la Chiesa ha svolto un ruolo rilevante. La propensione germanica all’avventura ed alla razzia ha minato la tranquillità interna dei regni: gruppi di ‘potenti’ e di ‘prepotenti’ armati hanno continuato ad agire ed imporsi con la forza, ignorandone i divieti. In questa società violenta i Romani superstiti non hanno avuto vita facile, anche dopo aver rinunciato a buona parte delle proprie terre (per lo più o la metà o un

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terzo): i deboli erano indotti a ritirarsi nei monasteri oppure a cercare direttamente protezione presso qualcuno dei ‘potenti’, data la ridotta speranza di aver pace, se non con la preghiera. In effetti, sin dal tardo Impero i torbidi esistenti avevano indotto un certo numero di persone a cercarsi dei protettori con una “commendatio” a “potentes” locali, a cui erano spesso offerti anche i propri beni personali da proteggere (per riaverli in uso – per richiesta o preghiera personale – a nome del protettore: “precaria”). Questa tendenza non si arresta in seguito, anche perché in armonia con certi usi dei notabili germanici (re o duchi, ad esempio) di radunare intorno a sé amici fedeli (“vassi”) da loro protetti, pronti ad aiutarli (sino alla morte) in guerra sulla base di un vincolo personale particolarmente stretto. Alla mancanza di tranquillità territoriale sopperiva ancora una volta il vincolo personale, che poteva assumere intensità diverse, sino alla soggezione. La molteplicità delle situazioni poteva causare anche differenze in proposito, ma in conclusione si venivano ad instaurare vincoli personali, che finivano per aggregare fra loro persone anche di livelli diversi, con gerarchie di dipendenza sociale – e pure conseguenze di condizione giuridica – che tendevano a fissarsi sulla base della prepotenza e della forza.

4. L’Italia prima ostrogota, poi bizantina L’insediamento degli Ostrogoti in Italia negli ultimi anni del sec. V porta nella penisola un popolo non particolarmente numeroso, tra i più vicini alla tradizione romana e quindi non malvisto all’inizio dalla persistente élite dirigente locale. Il loro re Teodorico cerca di giungere ad una convivenza generale, che veda i Goti garantire con le loro armi difesa ed ordine (... entro i limiti del tempo), previo mantenimento tramite i frutti delle terre già romane. In proposito egli si ispira al preesistente sistema tardoimperiale della “hospitalitas”, in base al quale ai militari presenti sul territorio andava ⅓ del raccolto, per il mantenimento dell’esercito. In effetti la soluzione era maturata di fatto, di fronte alla colpevole assente o ridotta retribuzione delle milizie imperiali: formalmente a lungo vietata, si era però consolidata di fronte alla cronica insufficienza di retribuzione dei militari, ma pure in conseguenza delle loro non infrequenti prepotenze. Per evitare che essi si appropriassero – con razzie e senza limiti alla violenza – di quanto pensavano loro utile, si addivenne ad una certa prassi di destinare ⅓ dei raccolti locali al mantenimento delle truppe da parte degli stessi proprietari. I capi militari dovevano però (come? e quando?) impedire requisizioni ulteriori e violenze personali.

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Teodorico cercò di applicare su larga scala questa prassi: ai suoi Goti in quanto militari (e tutori dell’ordine esterno ed interno) doveva essere destinato ⅓ delle abitazioni e delle terre (con relativi coltivatori). Inizialmente l’élite senatoria italiana si rivelò soddisfatta: il progetto doveva portare maggior tranquillità dopo non pochi disordini e quindi piacere a molti. Non riuscì però a decollare, per incomprensioni (e possibili intemperanze da una parte, inganni dall’altra) e contrasti, favoriti anche dalla diversità di religione, dato che i Goti erano ariani. Nell’occasione, la “hospitalitas” rivelò i suoi limiti, perché se poteva anche essere utile per evitare guai peggiori ai civili quando i militari erano solo federati, era ben diverso averli quali dominatori, con le armi in pugno e la loro propensione alla violenza: era ormai molto difficile volerli fermare nelle loro appropriazioni. Azioni di forza da un lato, sotterfugi dall’altro minarono la fiducia nell’operazione, e pure i rapporti fra i due gruppi etnici. Già durante la fine del regno di Teodorico la speranza di una onorevole convivenza fra Romani e Goti era compromessa: la situazione si è poi deteriorata ulteriormente con i re goti successivi a Teodorico. Il travagliato mezzo secolo di dominazione gota non ha fiaccato la tradizione romano-volgare, sostenuta dalla Chiesa, ma non ha neppure lasciato un segno particolare. A metà del sec. VI l’Italia è stata conquistata direttamente dai Bizantini dopo una lunga guerra, in cui è morta gran parte dei Goti. Il sogno giustinianeo di riconquista dell’Occidente si è però dovuto fermare alla nostra penisola: vi ha esteso con la “Pragmatica sanctio” del 554 le sue nuove raccolte normative 8, troppo presto cancellate dall’invasione longobarda per potersi imporre a fondo sulla prassi teodosiana e volgare, e fors’anche troppo elevate per l’ormai modesta ed imbarbarita cultura locale. È stato un sogno comunque grandioso, testimoniato anche sul piano visivo ed artistico: nello splendore di Ravenna capitale si stagliano ancor oggi le poderose cupole delle basiliche di San Vitale e di Sant’Apollinare in Classe coi loro mosaici, e non sono nemmeno comparabili con il tozzo mausoleo barbarico di Teodorico e neppure col basso e buio mausoleo di Galla Placidia del tardo Impero romano. A differenza del mondo romano-barbarico, la civiltà bizantina sa di nuovo assurgere ai livelli della romanità, che Giustiniano vuole ripristinare. La dominazione bizantina è però greca, non romana. È centralizzata e burocraticizzata; è esosamente fiscale. Ma è espressione di un ordinamento pubblico incisivo, ben diverso da quello piuttosto evanescente dei regni romano-germanici. Il cronista Procopio di Cesarea ne attacca l’assolutismo, il 8

Cfr. supra, capitolo precedente, § 4, in fine.

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fiscalismo, le atrocità e pure le inefficienze, ma – pur con le sue crepe – essa attesta un ben preciso sistema di governo attento al controllo del territorio ed alle competenze dei suoi organi e dipendenti, secondo la tradizionale impostazione gerarchica romana. Ritorna il diritto come base del funzionamento pubblico, pur con i grossi limiti tirannici del tempo. Questo sistema burocratico-organizzativo resta a lungo nei territori bizantini, anche quando essi devono ridursi ad alcune sole zone italiane meridionali, sino alla fine della dominazione nella penisola (sec. XI). Gli organi potranno variare, ma il principio burocratico ispiratore non cambierà, anche in secoli in cui le istituzioni feudali altrove hanno invece fatto ampiamente prevalere i rapporti personali e di fedeltà su quelli impersonali dell’ufficio. È un modello di per sé significativo, proprio perché diverso da quelli europei coevi, testimone di un passato ormai remoto ma pure di prospettive future nell’età moderna. Una sintesi in via esemplificativa di tale modello può essere utile, per percepirne la differenza rispetto ai puri legami personali. A rappresentare l’imperatore in Italia è l’esarca (o patrizio), già alto comandante militare, che siede in Ravenna e detiene tutto il potere, militare e civile. Accanto a lui sta una corte di funzionari centrali con specifiche competenze: il prefetto del pretorio (... vecchia carica) per la parte finanziaria e giudiziaria, il “quaestor sacri palatii” (altra vecchia carica ...), altri funzionari componenti la cancelleria. Il territorio è diviso in province: vi è nominato a capo un duca, sotto cui ci sono i tribuni (uno per città) e sotto ancora i vicari o locopositi (nei centri minori). Col tempo le province sono dette ducati, e – benché le cariche militari siano state distinte da quelle civili – il duca vi esercita poi poteri militari e civili dopo l’invasione longobarda a causa delle esigenze belliche. Il duca, di nomina bizantina, finisce pure col tempo con l’essere parzialmente elettivo ed ereditario, dato che Giustiniano ha stabilito che egli sia designato con elezione da parte dei notabili locali, che prenderanno via via il sopravvento. C’è divisione fra cariche militari e civili, suddivisione fra quelle centrali e periferiche, e per competenze fra quelle tributarie, giudiziarie ed altre. Ogni organo ha le sue competenze, tanto di funzioni che di territorio. Ciò peraltro sulla carta, perché poi la vita pratica ne ha appannato le distinzioni, come si è detto per quelle fra militari e civili, a causa della guerra, in cui i militari prendono il sopravvento. Nel corso dei secoli l’amministrazione bizantina subirà cambiamenti, anche considerevoli, sia di organi che di estensione territoriale, ma il suo principio ispiratore non sarà rivisto: si tratterà sempre di funzionari – più o meno elevati – mai di titolari di feudi o di incarichi personali. Di conseguenza, alla base della loro azione si troveranno regole più precise e non solo consuetudinarie, per quanto non sempre rispettate: il diritto sembra meno assente che altrove, anche se forse disatteso.

III LA CHIESA E IL SUO DIRITTO

SOMMARIO: 1. Alcune distinzioni sulla nozione di ‘diritto della Chiesa’. – 2. Ebraismo e Cristianesimo. – 3. L’organizzazione della Chiesa primitiva. – 4. La dimensione ‘normativa’ nella Chiesa delle origini. – 5. Le fonti del diritto canonico primitivo. – 6. I rapporti tra ordinamento laico ed ordinamento ecclesiastico (secc. I-V).

1. Alcune distinzioni sulla nozione di ‘diritto della Chiesa’ Il Cristianesimo riveste un ruolo determinante e centrale nella definizione della civiltà occidentale e, di conseguenza, nella ridefinizione delle istituzioni, dei fondamenti dei sistemi di diritto e delle loro interpretazioni, dal I secolo dopo Cristo in poi e soprattutto tra IV e XI secolo. L’esperienza giuridica in rapporto al Cristianesimo si può dire che abbia origine con la fondazione stessa della Chiesa (da ecclesìa = assemblea) ad opera di Gesù di Nazareth. Il mistero della Chiesa è presente in varie accezioni. Anzitutto la Chiesa è intesa, secondo la metafora organicistica di S. Paolo come il corpo di Cristo (1 Cor. 12, 12: “Come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo”); inoltre la Chiesa è una comunità di persone (il Popolo di Dio), una società costituita da tutti gli uomini e le donne che hanno ricevuto il battesimo e che condividono la medesima fede, la comunione, la Parola di Dio, i sacramenti e la disciplina ecclesiastica. La Chiesa sulla terra partecipa all’unica missione di Cristo: annunciare il Regno di Dio e condurre ogni uomo alla salvezza, in attesa della parousìa, ossia la seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi. La missione della Chiesa si può quindi declinare in tre ‘funzioni’ o ‘munera’: 1. santificare (munus sanctificandi): è quanto concerne tutta la dimensione sacramentale e liturgica; 2. insegnare (munus docendi): si riferisce all’attività di insegnamento della

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Chiesa ad opera del magistero del Romano Pontefice e degli altri pastori, i vescovi in primo luogo; 3. governare (munus regendi): riguarda l’aspetto istituzionale della Chiesa, ossia la regolamentazione e il governo del Popolo di Dio nella sua composizione gerarchica e ministeriale. La Chiesa, già alle sue origini, possiede una intrinseca dimensione ‘normativa’, anche se occorre meglio specificare l’accezione semantica di questa espressione per evitare equivoci. Convenzionalmente, per indicare l’insieme dei fattori che forniscono alla Chiesa cattolica la struttura di una società giuridicamente organizzata, si utilizza l’espressione diritto canonico (in latino ius canonicum). Sotto il profilo etimologico l’aggettivo canonico deriva dal greco kánon che significa regola e dal IV sec. d.C. il termine fu utilizzato per indicare le norme ecclesiastiche finalizzate a regolamentare la vita del popolo di Dio, in modo da distinguerle anche terminologicamente dai nómoi (o leges, in latino), ossia le leggi emanate per disciplinare la vita delle popolazioni costituitesi in società civili e politiche. Il Concilio di Nicea (325 d.C.) utilizzò per la prima volta in forma ufficiale la categoria dei canones disciplinares, cioè delle norme giuridiche ecclesiastiche in senso proprio, distinguendoli così dai canones fidei (le regole dogmatiche della fede) e dai canones morum (le norme morali). A partire dall’VIII secolo l’espressione diritto canonico entra nell’uso comune per indicare il diritto della Chiesa 1, ossia l’insieme della giuridicità insita nel corpo di Cristo che si incarna nel corpo sociale della Chiesa e il complesso delle norme poste dalla legittima autorità ecclesiastica per regolamentare la comunità dei fedeli. Il diritto canonico, quindi, assume il carattere di confessionalità, ossia si caratterizza per essere un diritto religioso, destinato in primo luogo a regolare la società dei fedeli in Cristo

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Nel corso dei secoli il diritto della Chiesa cattolica è stato indicato anche con espressioni diverse: ius sacrum (= diritto sacro), ius decretalium (= diritto delle decretali), ius pontificium (= diritto pontificio). Una espressione che merita attenzione è quella di ius ecclesiasticum (= diritto ecclesiastico) che, pur se nella storia fu impiegato talora come equivalente di diritto canonico, nel linguaggio giuridico contemporaneo indica una branca ben distinta della scienza e della normativa giuridica, ed in particolare quel ramo del diritto pubblico che ha ad oggetto le norme poste dal legislatore laico, statuale, a disciplina del fenomeno religioso e dei rapporti tra lo stato e le confessioni religiose. Infine occorre segnalare che, dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) per indicare il diritto della Chiesa è subentrato, accanto alla tradizionale denominazione di diritto canonico, l’uso dell’espressione, valorizzata in particolare dal prof. Rinaldo Bertolino, di diritto ecclesiale (ius ecclesiale), che meglio sembra rispondere alle ragioni fondative della dimensione normativa in rapporto al mistero della Chiesa.

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– cioè di coloro che sono battezzati nella Chiesa – il cui fine supremo è la salvezza delle anime (la salus animarum). Tuttavia, questa accezione del diritto della Chiesa non è l’unica a venire in considerazione per chi si accosti al fenomeno giuridico occidentale, specie nella sua dimensione storica. A varie riprese, nel corso dei secoli, è stata posta, da parte di movimenti e correnti di pensiero, una questione problematica circa la necessità e perfino la legittimità di un ordinamento giuridico per la Chiesa: si pensi alle eresie gnostiche dei primi secoli e dell’alto medioevo, ai movimenti spiritualisti, alle dottrine della Riforma – in particolare luterana – nel XVI secolo, fino alle posizioni antigiuridiciste in seno alla Chiesa stessa a partire dagli anni Sessanta del Novecento e fino ai giorni nostri. I termini del problema che ritorna – pur in forme diverse – sono sostanzialmente i seguenti: la ‘legge’ e il ‘Vangelo’ sono tra loro compatibili? I modelli che vennero nei secoli contrapposti furono quelli di una Chiesa spirituale e carismatica (identificata nel modello delle prime comunità cristiane), fondata solo sulla Parola di Dio, da una parte, e di una istituzione retta su norme di diritto e leggi canoniche dall’altra, sostanzialmente corrispondente a quella che il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I qualificarono come “società giuridicamente perfetta” (societas iuridice pefecta), autonoma gerarchicamente e indipendente. Porre la questione in tali termini, tuttavia, appare oggi erroneo e fuorviante, in quanto non tiene conto della complessità della natura della Chiesa che è al contempo realtà visibile e invisibile, spirituale e sociale, carismatica e istituzionale, sacramentale e giuridica. Pertanto è sicuramente vero che la Chiesa intesa come comunità di puri spiriti (la cosiddetta ‘Chiesa trionfante’, Ecclesia triumphans) non ha alcun bisogno del diritto: essa è perfetta, ormai, in virtù della perfezione che coloro che la compongono (i martiri, i santi e coloro che sono morti in grazia di Dio) hanno raggiunto nella perfetta comunione personale con Dio. D’altra parte, tuttavia, occorre tenere conto che la Chiesa intesa come comunità di persone in carne ed ossa, nel tempo e nella storia (la ‘Chiesa militante’, Ecclesia militans), è ancora in cammino verso la Salvezza e, vivendo immersa nella dimensione giuridica, dal diritto non può in alcun modo prescindere. Il diritto canonico, che pure ha come fine la salvezza delle anime, certo non può avere la pretesa di garantire il raggiungimento di tale fine, ma esso nella sua funzione ordinatrice della comunità ecclesiale, secondo verità e giustizia, regola i rapporti all’interno del popolo di Dio e favorisce il perseguimento del fine della salvezza sia sotto il profilo individuale e personale che comunitario. E proprio la storia del diritto ci testimonia questa consapevolezza presente già nei primi secoli di sviluppo delle comunità cristiane, le quali fin dalle origini si dotarono di un sistema di

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norme volte a regolare la propria vita interna. La peculiarità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, istituzione di origine soprannaturale e con finalità soprannaturali, implica una duplice natura, divina e umana, della Chiesa che si riflette anche sulla configurazione del proprio diritto. Secondo una distinzione operata dalla Seconda Scolastica (XVI secolo), il diritto canonico si compone di due nuclei fondamentali: il diritto divino (ius divinum) e il diritto umano (ius humanum). Il diritto divino è costituito da quello che Ivo di Chartres (1040-1115) indicava come il sostrato immutabile del diritto della Chiesa, ossia la dimensione normativa che proviene da Dio stesso. A sua volta esso si suddivide in diritto divino naturale e diritto divino positivo. Il diritto divino naturale è costituito dall’insieme dei princìpi non scritti che sono impressi da Dio nella coscienza degli esseri umani e che hanno valore universale; esso attiene al piano della Creazione, sussiste a prescindere da qualunque forma di legislazione positiva ed è intrinsecamente valido, anche senza che un legislatore umano lo riconosca come tale. A questo nucleo sono ad esempio da ricondurre i diritti umani fondamentali, ossia le spettanze che devono essere riconosciute ad ogni essere umano in forza e in ragione della sola dignità propria della persona (ad es. il diritto ad essere liberi nella scelta dello stato di vita, il diritto alla salvaguardia della vita umana o della propria reputazione, il diritto a contrarre matrimonio, ecc.). Il diritto divino positivo, invece, è costituito dalle norme che sono state manifestate attraverso la Rivelazione per mezzo di Gesù Cristo, e pertanto è anche detto diritto rivelato. A tale nucleo devono ricondursi i diritti e doveri soprannaturali che si riferiscono non alla persona in sé, ma alla persona in quanto incorporata a Cristo mediante il battesimo. Pertanto il diritto divino positivo è costituito dall’insieme dei princìpi strutturalmente connessi alla Chiesa e di cui costituiscono il nucleo irreformabile della sua costituzione, indisponibili perfino da parte del supremo legislatore ecclesiastico, ossia il Romano Pontefice. Tuttavia anche se immodificabile non significa che esso non possa essere continuamente approfondito e meglio conosciuto attraverso la scienza canonistica e il Magistero che, seguendo la Tradizione apostolica e lo sviluppo della prassi secolare della Chiesa nella storia, attesta il convincimento della comunità dei fedeli (sensus fidei) che si esprime nelle prassi morali e nella liturgia. Fondamentale per questo approfondimento sarà l’apporto della scienza teologica fornito alla scienza canonistica. Il diritto umano è, invece, il diritto posto dall’autorità umana, ossia dai soggetti competenti nella Chiesa. In quanto tale questa componente del diritto sarà contingente e mutevole, perfettibile, ma pur sempre vincolata al rispetto assoluto del diritto divino, naturale e positivo: se una norma di dirit-

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to umano contravvenisse ad una di diritto divino naturale, essa sarebbe illegittima e dovrebbe essere eliminata o comunque non osservata. Solo al diritto umano si applicheranno gli istituti che esprimono l’elasticità del diritto canonico, come la dispensa, la tolleranza, l’equità canonica, in quanto eminentemente destinate ad attenuare il rigore della legge per salvaguardare il bene spirituale supremo del fedele, ossia la salvezza dell’anima. Il diritto canonico, tuttavia, in considerazione della sua vocazione universalistica, non può e non deve essere considerato solo entro i limiti dell’accezione tecnica del ‘diritto delle Chiesa cattolica’, bensì come elemento caratterizzante l’intera esperienza giuridica occidentale fino ai giorni nostri. Il diritto canonico si caratterizza, infatti, per un intrinseco dinamismo che rende la norma canonica ‘mobile’ ed ‘elastica’, ossia adattiva in relazione alla situazione concreta di fatto che è chiamata a regolare e soprattutto al soggetto, o ai soggetti, che ne sono destinatari. Avendo quale fine primo la salvezza della singola persona e, al contempo, il bene della comunità costituita da tutti gli esseri umani a cui è destinato l’annuncio evangelico, il diritto canonico si caratterizza per una intrinseca missionarietà. Oggi potremmo dire che l’esigenza di annuncio evangelico, la tutela della dignità e dei diritti della persona, la promozione sociale e umana sono annoverabili tra le finalità più evidenti di una forma normativa che può avvalersi di quel carattere di duttilità ed elasticità di cui invece i diritti secolari positivistici sono sprovvisti. Per questa ragione il diritto canonico, specie nella sua declinazione storica, assume un carattere primario e fondamentale nella formazione culturale del giurista di tradizione occidentale. La storia del diritto canonico consente infatti di illuminare la lunga evoluzione del nostro sistema giuridico, sia sotto il profilo delle istituzioni che della scienza e della legislazione ma consente anche di comprendere meglio le dimensioni ‘normative’ alternative a quelle positivistiche, come ad esempio la normatività etica e i suoi rapporti con i valori di una società in evoluzione sempre più rapida e ‘liquida’ e con le connesse sfide antropologiche e sociali: dai rapporti con le istituzioni secolari, a quelli connessi all’economia o al multiculturalismo. Infine la conoscenza della storia del diritto della Chiesa assume una funzione fondamentale nella formazione del giurista contemporaneo, in quanto costituisce un utile strumento per affinarne la ‘coscienza storica’, e in particolar modo per consentire a chi si accosta all’esperienza giuridica occidentale di comprendere che la forma di normatività positivistica rappresentata dalla forma ‘legge’ emanata da un legislatore statuale non è l’unica e soprattutto non lo è stata per molti secoli. Ben prima e in modo assai più completo e complesso l’essere umano ha maturato nella storia forme differenti di normatività, spesso legate a regole etiche di comportamento, a norme morali, a usi e consuetudini connessi

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ad una determinata appartenenza a un gruppo sociale. Queste forme di normatività hanno istituito – ed istituiscono ancora oggi – legami e nessi di osservanza ancora più forti all’interno di comunità a base religiosa, come appunto il diritto canonico, che – a differenza degli altri ordinamenti statuali – si è sviluppato senza soluzioni di continuità e senza cesure dalla Chiesa delle origini ad oggi. Nel corso del medioevo, la forma politica della Respublica gentium christianarum (il Sacro Romano Impero), sancendo una intima unità di intenti tra l’autorità secolare (l’Impero) e quella religiosa (il Papato) contribuì a formare una percezione di appartenenza unitaria all’unica comunità di fede – quella cristiana – e al conseguente sviluppo della civiltà giuridica europea. Il legame di appartenenza, a qualsiasi livello, dall’imperatore, al papa, ai corpi intermedi, ai mercanti e fino all’ultimo dei mezzadri, alla stessa fede e all’unica Chiesa permise l’instaurarsi di una simmetria perfetta tra diritto secolare (ius seculare) e diritto canonico (ius canonicum) che diede vita a quella particolare esperienza giuridica denominata ‘l’uno e l’altro diritto’ (utrumque ius), una esperienza unica e singolarissima nel panorama storico, che consentì per circa 1500 anni la covigenza di due esperienze giuridiche, una a matrice secolare l’altra religiosa, sia sotto il profilo della legislazione che della scienza giuridica. Tra medioevo e prima età moderna il diritto canonico ha influenzato ampiamente la configurazione degli ordinamenti secolari. Si pensi al contributo che il sistema assembleare della Chiesa (i concili, i conclavi, i capitoli religiosi) ha offerto alla configurazione dei moderni ordinamenti democratici e rappresentativi e delle regole che li ispirano: di origine canonistica è ad esempio il principio maggioritario, in base al quale nelle assemblee è legittimata a prevalere la volontà della maggioranza sulla minoranza. Più in generale tutti i principali concetti che fondano il diritto pubblico possiedono una matrice canonistica, primo tra tutti quello di sovranità, frutto della secolarizzazione di concetti teologici che ispirarono le teorie canonistiche dei secoli XI e XII. Anche nel diritto privato molte sono le eredità del diritto canonico: si pensi ad esempio al concetto di persona giuridica, che nasce sulla base di una metafora che individuava nella Chiesa il ‘corpo’ di Cristo e che diventa, traslata sul piano giuridico, la finzione per cui si immagina che laddove esista un ente, insieme di persone o di beni, destinato a uno scopo, l’ordinamento ritiene che sussista una persona a cui sono imputabili rapporti giuridici distinti rispetto a quelli che fanno capo alle persone fisiche che compongono l’ente stesso. O ancora l’istituto del matrimonio civile previsto dagli stati, che altro non è che la secolarizzazione del matrimonio canonico, di cui riprende le strutture e le norme fondamentali, deprivate soltanto degli

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elementi puramente sacramentali e religiosi. E lo stesso ambito del diritto penale non è immune da una importante eredità di concetti e di strutture canonistiche: si pensi solo a tutto lo sviluppo del processo romano-canonico di impianto inquisitorio sviluppatosi in ambito ecclesiastico nel XII secolo e che venne poi ampiamente recepito dagli ordinamenti secolari nei secoli successivi. La conoscenza della storia del diritto canonico è dunque di primaria importanza non solo per l’arricchimento culturale ma per la formazione stessa della professionalità del giurista contemporaneo, chiamato sempre di più, nella nostra epoca di globalizzazione, ad essere interprete di fenomeni giuridici trasversali rispetto agli ordinamenti statuali. L’influenza del diritto della Chiesa, per molti secoli e fino alla separazione delle due famiglie giuridiche di civil law e di common law, fu particolarmente significativa per la formazione di entrambi i sistemi giuridici, continentale e anglo-americano. Si pensi ad esempio al caso della giurisdizione di Equity e al funzionamento della Chancery Division nel sistema giurisdizionale inglese, evidentemente di derivazione canonistica. Proprio il fenomeno della globalizzazione e del multiculturalismo, in cui il giurista contemporaneo è chiamato ad operare, costituisce un utilissimo banco di prova in cui il recupero dei fondamenti canonistici può trovare applicazione: la globalizzazione tende ad affermare nell’esperienza giuridica i princìpi della personalità e della trans-nazionalità, esattamente opposti a quelli di statualità e territorialità della norma che furono alla base delle codificazioni moderne e che portarono all’estromissione del diritto canonico dai sistemi giuridici secolari. Inoltre i princìpi etici di cui il diritto canonico è custode e propiziatore, quali la centralità della dignità della persona e dei suoi diritti, o il recupero del valore della giustizia quale fondamento del sistema normativo positivo sembrano essere di primaria importanza per la formazione di qualunque operatore giuridico chiamato a confrontarsi con la società complessa contemporanea e la crisi del diritto che la attraversa.

2. Ebraismo e Cristianesimo L’impatto che il Cristianesimo ebbe sul sistema istituzionale, sociale, culturale e religioso degli ultimi secoli del mondo antico fu estremamente forte. Il modello di fede e di religione proposto dall’annuncio evangelico fu straordinariamente innovativo ed ebbe notevoli conseguenze anche sul piano dei rapporti sociali e giuridici con le istituzioni secolari. Il diritto cristiano delle

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origini presentava tuttavia alcuni legami ‘forti’ con un altro diritto religioso in cui in qualche modo il Cristianesimo si era formato, ossia il diritto ebraico. Si tratta di due ‘diritti sacri’ che presentano alcune analogie accanto ad indubbie, sostanziali differenze. Entrambi possiedono infatti un fondamento del proprio ‘diritto’ entro un testo sacro, l’Antico Testamento per gli ebrei, a cui si aggiungerà il Nuovo Testamento per i cristiani. Tanto per l’Ebraismo quanto per il Cristianesimo Dio non è solo ispiratore delle leggi ma ne è artefice e creatore; Dio è in altri termini la fonte prima del diritto. Per il diritto ebraico la legge divina è rivelata agli uomini tramite Mosè, con cui Iahwè stipula la sua alleanza con il popolo eletto, Israele. Il concetto di alleanza (in ebraico berīt) indica la stipulazione di un patto che si instaura però tra parti in posizione diseguale, Iahwhé e il popolo di Israele. La legge scritta è la prima fonte del diritto ebraico, è rivelata personalmente da Iahwè a Mosè, unico profeta legislatore, tramite le tavole del Sinai (le ‘dieci parole’ o ‘dieci comandamenti’, intesi come mitzvah, ossia ‘obbligazioni’) e costituisce la Torah scritta (corrispondente al Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia ebraica), che non può essere modificata da alcuno, ma può solo essere obbedita e commentata. I comandamenti, si noti, non sono presentati come ‘imperativi’, ma come ‘rivelazioni’, ossia esprimono il rapporto tra Creatore e creatura e vengono dati da Dio agli uomini per poter far sì che essi, osservando tali impegni, possano perfezionare se stessi e migliorare la vita della comunità in cui vivono. Accanto alla Torah si forma, come seconda fonte del diritto ebraico, la Kabbala (tradizione) che comprende i Libri Profetici, i Libri Storici e Sapienziali della Bibbia ebraica. Dal momento che la legge scritta non poteva essere modificata, due secoli prima di Cristo viene introdotta nell’Ebraismo una terza fonte la Torah orale, ossia l’interpretazione delle norme divine scritte come supplemento indispensabile per la loro corretta comprensione e applicazione. Questa fonte si basa sull’interpretazione, sull’utilizzo del ragionamento logico e sulla giurisprudenza (halakhot): tra III e V secolo d.C. si sviluppano su queste prospettive la Mishnah, raccolta di tradizioni orali e delle principali interpretazioni dei maestri e il Talmud, una compilazione in cui è contenuta tutta la legge orale, ossia le consuetudini degli anziani e le opinioni giurisprudenziali dei maestri (rabbini). Questo sistema delle fonti del diritto ebraico riveste un’importanza fondamentale per la comprensione dello sviluppo del diritto della nascente Chiesa cristiana: il complesso normativo ebraico è anzitutto di natura morale ma tale normatività ‘etica’ influenzerà ampiamente anche la concezione stessa del diritto, soprattutto nell’esperienza occidentale, in cui l’influenza della dimensione normativa etica della Torah si coniugherà con quella di origine

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greco-romana del dìkaion (ius in latino), ossia della proporzione giusta tra realtà e persona. Il Cristianesimo, che si innesta sulla tradizione ebraica e ne rimarrà debitore a lungo, soprattutto nelle prime fasi di formazione delle comunità cristiane, supera il concetto di Antica Alleanza con quello di Nuova Alleanza, che sarà rivelata, a livello scritturistico, nel Nuovo Testamento (i quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli, il corpus epistolare, l’Apocalisse). La differenza rispetto all’Antica Alleanza è che ora il rapporto obbligatorio bilaterale asimmetrico è attenuato, in favore di un altro modello obbligatorio, quello tra ‘testatore’ ed ‘eredi’: Cristo è il Figlio unigenito di Dio, entrato nella storia con l’incarnazione e, in forza della propria duplice natura, divina e umana, dà compimento alla promessa di Dio, rendendo tutti gli esseri umani figli ed eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rm 8, 17). Il sacrificio di Cristo (la sua Passione e morte in croce), che assume su di sé i peccati di ogni essere umano in ogni tempo, e la Risurrezione, che segna la vittoria della vita eterna sulla morte, danno compimento alle promesse divine, instaurando un vincolo particolarissimo – ‘giuridico’ potremmo dire – tra Cristo/Dio, in quanto ‘testatore’ e l’umanità intera, in quanto ‘erede’ (Mt. 26, 28; Mc. 14, 24). Tale ‘alleanza’ è portata a compimento e perfezionata dall’istituzione dell’eucarestia (Lc 22, 20; I Cor. 11, 25). Possiamo così comprendere come la ‘nuova alleanza’ presupponga la ‘antica’, ma al contempo la superi in un compimento definitivo.

3. L’organizzazione della Chiesa primitiva La predicazione e il messaggio di Gesù di Nazareth hanno da subito presentato il carattere di universalità: non si trattava di un insegnamento rivolto a un ‘gruppo’ di persone ‘elette’ ma a tutti gli esseri umani di ogni luogo e di ogni tempo. La dimensione ‘fondazionale’ della Chiesa è tradizionalmente riconosciuta in due passi del Nuovo Testamento: la funzione primaziale conferita da Cristo a Pietro (Mt. 16, 18-19) 2 e il mandato missionario conferito agli Apostoli dopo la Pentecoste e prima dell’Ascensione (Mc. 16, 15-20) 3. 2 Mt. 16, 18-19: “E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non la potranno vincere. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli”. 3 Mc. 16, 15-20: “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma

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In questi due elementi noi ritroviamo il nucleo della futura struttura organizzativa della Chiesa cattolica, affidata al magistero (dal prefisso latino magis = maggiore, indica la funzione di insegnamento) e al ministero (dal prefisso latino minus = più piccolo, indica la dimensione di ‘servizio’) degli Apostoli e dei loro successori, i vescovi (episcopi, dal greco epìskopoi = sorveglianti), sotto la guida del primo tra loro, ossia Pietro, i cui successori saranno i vescovi di Roma, i Romani Pontefici, vicari di Cristo. Nella formazione delle prime comunità cristiane, nel I secolo, non si impone tuttavia un modello di organizzazione unitario, bensì coesistono due forme organizzative, non oppositive tra loro sia pure diversificate. Il primo modello è quello che faceva riferimento alle comunità di Gerusalemme e della Palestina, che in parte si innestavano ancora sulla tradizione ebraica: esse sono tradizionalmente definite giudeo-cristiane. L’organizzazione di queste comunità è incentrata soprattutto sull’ufficio dei sacerdoti (o presbiteri, dal greco presbyteroi = i più anziani) e richiama la struttura delle sinagoghe e delle comunità ebraiche (compresa quella degli esseni di Qumràn), governate da una classe sacerdotale di ‘anziani’ – gli ispettori della sinagoga – piuttosto elitaria. I presbiteri sono ordinati attraverso l’imposizione delle mani e hanno il compito di custodire la tradizione e apostolica e di governare la comunità. L’altro modello di comunità faceva invece riferimento all’apostolo S. Paolo di Tarso (da cui il nome di comunità paoline) ed erano costituite soprattutto da persone provenienti dal paganesimo (gentili); tra esse la più importante comunità è quella fondata a Roma (intorno al 50 d.C.), capitale dell’Impero, secondo la tradizione (riportata da S. Ireneo di Lione) dagli apostoli Pietro e Paolo che vi morirono subendo il martirio. In tali comunità si assiste a una fungibilità di funzioni tra episcopi e presbiteri, dove sostanzialmente ad affermarsi è il carisma (ossia la particolare qualità che caratterizza ognuno nel proprio ministero, che poteva essere anche, oltre a quello di vescovo o presbitero, quello di dottore o di profeta) 4. I due chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno’. Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”. 4 1 Cor. 12, 4-11: “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un

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modelli, tuttavia, non rimarranno a lungo distinti; già alla fine dell’attività missionaria di S. Paolo (morto circa nel 67 d.C.) si avvia una identificazione tra il titolo greco di episcopo e quello ebraico di ispettore della sinagoga e quindi l’assimilazione degli episcopi delle comunità paoline ai presbiteri delle comunità giudeo-cristiane. Per far fronte alle numerose problematiche che la Chiesa si trova a vivere sia al suo interno, a causa dello sviluppo di dottrine che sviavano dal retto insegnamento della Chiesa (le eresie, tra cui in particolare quella gnostica), sia all’esterno, per via delle persecuzioni soprattutto ad opera dell’Impero romano, ben presto, tra II e III secolo, la Chiesa si dotò di una struttura organizzativa ‘gerarchica’, in parte ispirata anche dai modelli tecnici offerti dal diritto romano. All’inizio del III secolo la Chiesa (ecclesia = assemblea) assumerà la connotazione di una vera e propria comunità ordinamentale, ossia costituita in una struttura che risponde a regole di ordine e di disciplina strutturali ispirate ad un principio di autorità che le consentiva un’autonomia istituzionale in grado di rispondere agli attacchi interni ed esterni. In ogni comunità inizia ad affermarsi una precisa distinzione tra ordo (ossia l’ordine del ministero sacerdotale) e plebs (cioè il popolo di Dio, i fedeli, uomini e donne, non consacrati). Responsabile della comunità è il vescovo (o episcopo), successore degli apostoli, il quale sul fondamento del precetto di S. Paolo (I Cor. 6, 1-8) esercita una ampia funzione giurisdizionale sulla comunità e sul territorio circostante (che viene identificata come diocesi, una distinzione amministrativa di origine bizantina). Il vescovo è assistito dai diaconi (diàkonos in greco significa servitore), i quali lo coadiuvano nel servizio liturgico e nelle opere di carità, in particolare nel sostentamento agli orfani, alle vedove e ai bisognosi. Molto presto si afferma la presenza del collegio dei presbiteri (dal greco presbyteros, che significa i più anziani), cioè i sacerdoti, che partecipano al ministero del vescovo e sono gerarchicamente sovraordinati rispetto ai diaconi. Vescovi, presbiteri e diaconi ricevono l’ordine sacro attraverso l’imposizione delle mani. Il vescovo riveste un potere molto forte all’interno della propria diocesi, sotto il profilo di governo, liturgico e amministrativo; inoltre siede in tribunale, ha competenza disciplinare interna alla diocesi, dirime le controversie tra i cristiani appartenenti alla propria comunità e giudica applicando le altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”.

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norme del diritto romano o quelle cosiddette ‘canoniche’, ossia norme di natura essenzialmente morale derivanti dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione (consuetudine). La sentenza è pronunciata in modo retto e ad ispirare il giudizio devono essere sempre i princìpi di misericordia, di carità e soprattutto di equità, che esprimono il criterio di giustizia che deve informare il giudizio cristiano e indurre al pentimento chi è riconosciuto colpevole di aver commesso un torto nei confronti di un altro membro della comunità. Tra i vescovi si creò, fin dai primi secoli, una gerarchia interna, basata essenzialmente sull’importanza della città sede della diocesi di cui il vescovo era a capo. Le sedi più importanti dell’Occidente, riconosciute dall’imperatore e dai concili, erano cinque: Roma, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli, Alessandria d’Egitto, con un precocissimo riconoscimento di superiorità di onore della sede di Roma, fondata dall’apostolo S. Pietro. Ai vescovi delle sedi maggiori, poi, detti metropoliti, spettava il coordinamento dei vescovi delle sedi periferiche (suffraganei) e il potere di ricevere in appello le sentenze emanate contro di loro. In età tardoantica si afferma la prassi definita elezione canonica per cui i vescovi sono eletti dal clero locale, successivamente acclamati da tutta la popolazione dei fedeli e poi consacrati, mediante l’imposizione delle mani, dagli altri vescovi della provincia ecclesiastica e dal metropolita. I vescovi si riuniscono tra loro in assemblee, chiamate sinodi o concili, che esprimono la dimensione ‘pluralistica’ e partecipativa del governo della Chiesa. I concili possono essere ecumenici, provinciali o locali a seconda che siano convocati tutti i vescovi della cristianità, oppure solo quelli di una determinata provincia o località. I più importanti concili ecumenici dei primi cinque secoli furono quelli di Nicea (325), in cui si condannò l’eresia del presbitero Ario (arianesimo) il quale riteneva che Cristo, Figlio di Dio, fosse stato creato dal Padre e quindi possedesse una natura subordinata e non identica rispetto al Padre stesso; il primo concilio di Costantinopoli (381), il primo concilio di Efeso (431) e il concilio di Calcedonia (451), in cui furono definiti i fondamenti teologici della fede cristiana (oggi contenuti nel Credo detto per questo niceno-costantinopolitano). Durante le riunioni dei concili vengono definite sia questioni relative alla fede, alla dottrina e alla liturgia, sia questioni di natura disciplinare e organizzativa. Le norme emanate dai concili prendono il nome di canoni (da kànon = regola). In virtù dell’investitura ricevuta da Pietro da parte di Cristo (Mt. 16, 1819) fin dai primi secoli si afferma il principio per cui il vescovo di Roma, successore di Pietro, riveste un primato di onore nei confronti di tutti gli altri vescovi, in quanto a lui spetta il compito di farsi “custode della fede e della disciplina”, quindi di garantire sotto il profilo dottrinale, liturgico e

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istituzionale, l’unità della Chiesa cattolica. A tale ‘primato di onore’ si verrà ad affiancare, progressivamente, a partire dal III secolo, un primato di giurisdizione su tutte le altre chiese. Durante il sinodo di Sardica (343-344) al vescovo di Roma viene riconosciuta la prerogativa di costituire l’istanza giuridica di appello per i vescovi che fossero stati condannati da un sinodo provinciale, assumendo quindi il ruolo di autorità di controllo, anche giuridico, nella Chiesa universale. Tuttavia, dal IV secolo in poi, si assiste ad un progressivo rafforzamento del primato di giurisdizione papale, ad opera di diversi papi: Damaso (366-384) ristabilisce l’unità dell’episcopato occidentale sotto il papa dopo la divisione dovuta alla crisi ariana; Siricio (384-399) in applicazione di un precetto di S. Paolo (sollicitudo omnium ecclesiarum) riconosce al vescovo di Roma la potestà episcopale universale su tutte le chiese locali; e Innocenzo I (402-407) stabilisce che sia il vescovo di Roma ad essere giudice ultimo di tutte le cause maggiori decise dai sinodi. Tuttavia fu solo con papa Leone I detto “Magno” (440-461) che si sviluppò la prima formulazione sistematica di una ‘dottrina del primato di giurisdizione papale’, fondata sul principio che l’unione mistica tra Cristo e Pietro si rinnova tra Pietro e i suoi successori, che ne sono vicari. La sede di Pietro diviene quindi, nella dottrina di Leone Magno, garanzia della comunione dei vescovi di tutta la cristianità. Avvalendosi dei concetti tratti dal diritto romano (principatus, dignitas, ius potestatis, ecc.) papa Leone I rivendica al vescovo che risiede a Roma un ruolo gerarchicamente sovraordinato rispetto a tutti gli altri vescovi, quasi una rifondazione dell’universalismo imperiale operato però sulla base cristiana delle comunità e dei vescovi che ne sono a capo. La Chiesa però, si è detto, presenta anche una componente comunitaria non ‘ordinata’ ma laicale, la plebs, il ‘popolo di Dio’, ossia tutte le donne e gli uomini che sono battezzati nella fede cristiana e che aderiscono all’annuncio evangelico e seguono la disciplina e la liturgia della Chiesa. Anche tra i laici, tuttavia, sono presenti ‘ministeri’ – ossia ruoli specifici e riconosciuti dalla comunità – di natura diversa però rispetto a quella dei tre ministeri ‘ordinati’ (cioè quelli di coloro che ricevono l’ordine sacro: vescovi, presbiteri, diaconi): questi ministeri si definiscono ‘istituiti’ e hanno ad oggetto l’assistenza alla liturgia (accoliti), la lettura della Parola di Dio (lettori), oppure il servizio della preghiera e dell’assistenza materiale (vedove), o l’insegnamento dei primi fondamenti della fede (dottore o catechista) e infine l’assistenza ai ministri ordinati nelle rispettive funzioni (ad esempio il suddiacono o, in qualche testimonianza, le diaconesse che avevano il compito di assistere i diaconi). Gli ordini sacri sono riservati solo alle persone battezzate di sesso maschile, mentre come si è detto i ministeri istituiti erano probabilmente, nelle comunità delle origini, conferiti anche alle donne.

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4. La dimensione ‘normativa’ nella Chiesa delle origini L’annuncio evangelico e il diffondersi delle comunità cristiane, in Oriente come in Occidente, creò un fortissimo impatto di contrasto con i valori sociali, etici, religiosi e le regole di convivenza politica fino ad allora esistenti. I cristiani – qualunque cristiano, dal vescovo di Roma al più umile dei fedeli – vivono nel loro tempo secondo uno ‘stile di vita’ assai differente da quello di tutti gli altri membri della società. I cristiani anzitutto non vivono ‘separati’ dal mondo, come una ‘setta’, ma al contrario – salvo, ovviamente, i periodi dei primi tre secoli in cui le persecuzioni ad opera delle autorità li costringono ad una ‘clandestinità’ necessaria per la sopravvivenza – essi ambiscono ad essere bene integrati ‘nel mondo’. Le ‘norme’ secondo cui vivono i cristiani, in questo periodo, non sono di natura tecnico-giuridica ma etica e morale, e assolutamente non meno vincolanti che le prime. L’osservanza di princìpi etico-religiosi comporta conseguenze significative sul piano dei rapporti familiari, sociali e politici: si pensi, a mero titolo di esempio, al valore sacro del matrimonio e della sua indissolubilità, alla valorizzazione della dignità della persona umana – di ogni persona, senza distinzione di sesso, nazionalità, condizione sociale, culturale o economica –, alla condanna della crudeltà e della schiavitù, all’obbligo della gratuità del prestito di denaro, alla valorizzazione della verità nella testimonianza, o al precetto di rispetto dell’autorità secolare accanto a quella religiosa. Il messaggio che proviene dagli insegnamenti evangelici è in questi primi secoli contenuto soprattutto nel testo sacro, la Bibbia, Antico e soprattutto Nuovo Testamento, il cui canone (ossia la separazione tra testi autentici e testi apocrifi) viene fissato tra II e IV secolo. Tra i molti, due passi evangelici risultano ‘programmatici’ per comprendere la ‘rivoluzione’ apportata dal Cristianesimo rispetto ad alcuni valori tradizionali del mondo antico. Vale la pena richiamarli. Il primo riguarda il comandamento (quindi un obbligo etico ma vincolante) più importante per i cristiani: il cosiddetto comandamento dell’amore contenuto nel Vangelo di Matteo 22, 36-40: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.

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L’amore per Dio anzitutto e, di conseguenza, per tutti coloro con cui si viene in contatto nel corso della vita (il prossimo, cioè coloro che ci sono proximi, ossia ‘vicini’), senza distinzioni di sorta, costituiscono il più impegnativo e gravoso impegno che il cristiano si assume con il battesimo e che gli consente di aspirare alla Salvezza. Il capitolo 6 del Vangelo di Luca (vv. 27-38) indica poi alcune regole di comportamento che Cristo stesso propone ai suoi discepoli per l’attuazione della pienezza di vita: “Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”.

Come risulta evidente, la ‘logica’ con cui i ‘precetti’ sono impartiti sembra rovesciata rispetto a quella comune e i valori che vengono proposti sono sicuramente in forte contrapposizione con quelli che la società e l’istinto umano, di allora e di sempre, tendono ad osservare. Amare chi ci odia, fare del bene a chi ci fa soffrire, benedire chi ci maledice, pregare per chi ci maltratta sono coppie concettuali costruite per antitesi, che ovviamente non si spiegano se non alla luce del primo e più grande di tutti i comandamenti, di cui si è detto sopra: solo l’amore infinito e disinteressato per Dio e per il nostro prossimo giustifica quanto altrimenti risulterebbe controintuitivo e inapplicabile in una logica puramente umana. Lo stesso criterio del giudizio di Dio nei confronti di ogni essere umano è affidato ad una Giustizia che ha come criterio la misura di reciprocità che ogni persona utilizzerà nei confronti del suo prossimo: “non giudicate e non sarete giudicati … perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”.

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Il tema della misura nel giudizio rinvia al criterio che informò il nascente sistema normativo della Chiesa, quello della misericordia, con cui si indicava l’applicazione benevola e mite della norma come conseguenza della compassione che Dio prova, nel suo amore infinito per ogni creatura, nei confronti del peccatore. Non vi è, come sottolineò in seguito S. Tommaso d’Aquino (1225-1274), contraddizione tra esigenze di giustizia e istanze di misericordia, in quanto la misericordia va al di là di quanto la giustizia, applicata nella sua forma rigida, esige, e in certo qual modo la porta a compimento. Tuttavia il fu il principio dell’equità (aequitas canonica) a divenire centrale per il futuro sviluppo del diritto canonico, specie nei secoli della cosiddetta ‘età classica’ (XII-XIV). Il rapporto tra il rigore della legge e l’equità implicava una riflessione profonda sul rapporto tra diritto, giustizia e carità, a lungo affrontato anche dai Padri della Chiesa. S. Agostino aveva sostenuto, in un celebre passo del De natura et gratia, che la carità perfetta coincide con la perfetta giustizia 5 mentre S. Isidoro di Siviglia identificava la giustizia con l’aequitas, l’equità, ritenendo che essa fosse un concetto differente rispetto a quelli meno rigorosi di misericordia e di indulgenza. Il fine primario della salvezza delle anime giustifica la coesistenza, nel diritto canonico, di norme strettamente giuridiche con altre parimenti autoritative ma di natura eticoreligiosa o pastorale: è una caratteristica unica e peculiare nei sistemi giuridici, in grado di garantire a tutto il diritto occidentale, anche secolare, un sostrato etico che doveva informare le regole della legislazione positiva. Tuttavia il diritto della Chiesa, fin dalle origini, si trova di fronte ad una aporia apparente, cioè a un dualismo tra legge e spirito che già S. Paolo aveva sottolineato (1 Cor. 3, 6: “la lettera uccide, lo spirito invece vivifica”): da un lato la norma immutabile e irreformabile di una legge di cui autore è Dio stesso, dall’altro la mobilità e plasticità di un diritto ‘umano’ che deve tener conto della situazione di fatto per raggiungere il fine ultimo, ossia la salvezza delle anime che realizza la piena Giustizia di Dio. Ecco dunque che a soccorrerci in questa apparente contraddizione interviene l’elemento dell’equità, ossia il principio che regola in modo elastico e duttile il diritto umano al fine di conformarlo alla perfetta giustizia. Uno strumento prezioso, che consentiva al giudice una graduazione della pena così come l’applicazione di soluzioni nuove e creative che conformassero la soluzione di diritto alla concreta esigenza della realtà di fatto e alla situazione personale, assai più efficace rispetto alle rigide norme dei diritti secolari. 5

S. Agostino, De natura et gratia, 70, 84 (CSEL, 60, p. 298): “Caritas magna, magna iustitia est; caritas perfecta, perfecta iustitia est” (“Grande carità è grande giustizia; la carità perfetta è perfetta giustizia”)

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5. Le fonti del diritto canonico primitivo Le fonti teologiche del diritto della Chiesa – in particolare di quella parte che noi oggi definiamo come diritto divino – sono contenute pertanto in primo luogo nella Sacra Scrittura: intorno al 120 d.C. l’apologeta greco-cristiano Giustino individua la nozione di un nucleo immutabile del diritto della Chiesa, la lex divina (legge divina) che si è rivelata progressivamente nella storia e stabilisce pertanto che la legge antica del Vecchio Testamento trovi pieno compimento solo nella legge nuova rivelata da Cristo tramite il Nuovo Testamento. Accanto alla Sacra Scrittura un’altra fonte fondamentale per il nascente diritto canonico è la Tradizione, che manifesta la dimensione consuetudinaria del diritto della Chiesa. La Tradizione si declina sotto tre aspetti: il deposito della fede, ossia l’insieme delle verità rivelate da Cristo agli apostoli e da questi trasmesse ai vescovi sotto l’assistenza dello Spirito Santo; il magistero vivente, vale a dire l’insegnamento che proviene dal papa e dai vescovi in materia di fede e di morale; e la successione apostolica, cioè l’ininterrotto avvicendarsi, senza soluzione di continuità, dei papi e dei vescovi nel corso della storia. Intorno al 180 fu soprattutto l’apologista S. Ireneo di Lione (130 ca-202) a riconoscere nel sistema costituito dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione il nucleo fondativo del diritto della Chiesa; intorno al V secolo S. Vincenzo di Lérins (+ 450 ca) richiamerà un’ulteriore fonte ad integrazione delle precedenti, ossia il magistero vivente dei Padri, ossia il commento e l’interpretazione della Scrittura ad opera dei vescovi riuniti in concilio o anche isolatamente purché in accordo dottrinale. La stagione della grande Patristica greca e latina completò quindi il sistema delle fonti teologiche del diritto divino e per molti secoli costituì una fonte preziosa per la definizione di molti aspetti teologici, liturgici e disciplinari. Per i Padri della Chiesa la Sacra Scrittura costituiva un elemento organico, unitario, espressione della rivelazione dell’unico Dio. Uno dei problemi che maggiormente occupava gli esegeti era costituito dalla concordanza tra l’Antico e il Nuovo Testamento e dalla coerenza interna tra i diversi testi o libri della Scrittura. L’opera ermeneutica dei Padri della Chiesa fu fondamentale sotto questo profilo per dimostrare come le diverse parti della Bibbia non fossero contrastanti tra loro, anche se differenti (“diversi sed non adversi”): S. Agostino, vescovo di Ippona (354-430) utilizza un’espressione efficace per indicare come l’opera interpretativa della ragione umana sia lo strumento essenziale per ricondurre ad una coerenza interna tutta la Scrittura: “le parole divine sembrano contrastanti tra loro, se non ci assiste l’intelletto” 6. 6 S. Agostino, Sermones de Scriptura, 24, 4, in PL 38, 164: “Litigare videntur divina eloquia: contraria sonare putantur nisi adsit intellectus”.

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Nel VI secolo un altro grande Padre della Chiesa latina, papa Gregorio I (detto “Magno”, 540-604) fornì un contributo sostanziale alla questione dell’esegesi scritturale. Proveniente dai ranghi dell’aristocrazia senatoria romana, funzionario imperiale prima ed eletto vescovo di Roma nel 590, costituisce una ‘cerniera’ fondamentale nello snodo di questi secoli particolarmente complessi per la Chiesa, stretta tra problemi di disciplina interna e i rapporti particolarmente difficili con i dominatori longobardi. Nei numerosi scritti e soprattutto nel suo ricchissimo Epistolario (che costituiranno una delle fonti principali recepite nel Decretum di Graziano) Gregorio Magno affronta a più riprese problemi di esegesi finalizzati alla risoluzione di problemi pratici di disciplina, di pratica religiosa e di liturgia (a lui si deve l’importante riforma liturgica che introdusse nel rito quella caratteristica forma di canto in lingua latina che da questo papa prese il nome di gregoriano). Pur operando una distinzione chiara tra le norme di diritto secolare (leges) e le norme ecclesiastiche (canones), Gregorio riconosce che la fonte normativa primaria, di natura etica, si rintraccia nella Sacra Scrittura, in quanto in essa sono rinvenibili i princìpi di condotta che Cristo stesso ha lasciato alla sua Chiesa. Il metodo esegetico proposto da Gregorio Magno per risolvere alcuni problemi pastorali consiste quindi nel ricondurre un quesito dubbio ad un passo della Scrittura, il quale potrà essere interpretato anche con riferimento al contesto, ossia a passi contestualmente affini a quello che viene esaminato. È molto interessante notare come tale metodo sarà però ripreso nel XII secolo al momento della rinascita degli studi giuridici. Le prime raccolte normative della Chiesa furono compilate indicativamente tra la fine del I e il III secolo e verso la fine del IV secolo furono accorpate in sillogi denominate collezioni pseudoapostoliche, in quanto per giustificarne l’autorevolezza si attribuivano, più o meno veridicamente, agli Apostoli stessi. Tali collezioni risultano assai importanti per la ricostruzione degli sviluppi progressivi, istituzionali e giuridici, delle prime comunità cristiane. La più antica di esse, la Didaché, è scritta in greco e si compone di 16 capitoli, in cui sono contenute norme soprattutto di carattere morale e liturgico e presenta inoltre la definizione dei rapporti tra la gerarchia ordinaria (vescovi e diaconi) e quella straordinaria (carismatici: dottori, catechisti, diaconesse). Un’altra opera fondamentale è la Tradizione apostolica, attribuita a S. Ippolito, composta in greco a Roma intorno al 218, in cui troviamo contenuta una descrizione degli usi e della disciplina liturgica e istituzionale della Chiesa antica: sono presenti norme sull’ordinazione sacra e il trattamento giuridico di alcuni sacramenti e istituti ecclesiastici come il catecumenato, il digiuno, il battesimo, i riti di sepoltura, l’eucarestia. Occorre poi ancora citare la Didascalia degli apostoli, che tratta delle ordinazioni di diaconi e diaco-

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nesse, degli aiuti ai martiri (i cristiani che sono disposti a morire per testimoniare la propria fede), della cura dei bisognosi e dei fanciulli e infine i Canoni apostolici (85 o 50 a seconda dei manoscritti) che presentano per la prima volta una più compiuta formulazione giuridica relativa soprattutto alle sanzioni da adottare nei confronti degli illeciti commessi dal clero. In tutte queste collezioni pseudoapostoliche l’aspetto liturgico e pastorale si intreccia con quello più strettamente ‘giuridico’, e dimostra come la norma etica e il precetto morale e di fede fosse la cifra della ‘normatività’ delle prime comunità cristiane; un elemento che caratterizzerà il diritto canonico anche nei secoli successivi, in cui si costituirà come scienza autonoma ad opera di Ivo di Chartres e di Graziano e, più in generale, rappresenta un elemento fondamentale per tutto il diritto comune medievale. Per completare la presentazione delle fonti del diritto canonico occorre ricordare la legislazione di ‘ius humanum’, ossia proveniente dall’autorità ecclesiastica, la quale si afferma a partire dal secolo IV e si sostanzia essenzialmente nei già ricordati canoni conciliari (cioè le decisioni, tradotte in norme scritte, deliberate nei concili – soprattutto ecumenici – e aventi ad oggetto materia di fede o di disciplina e organizzazione della Chiesa) e nelle decretali pontificie. Queste ultime (dal latino litterae decretales o semplicemente decretales) erano norme con cui il papa rispondeva ad una questione particolare che gli veniva sottoposta da un chierico o da un laico, la cui decisione assumeva un valore generale e universale, vincolante per tutta la Chiesa. Dopo la riforma di Gregorio VII (1073) e l’avvicendarsi sul soglio di Pietro di grandi papi canonisti e teocrati (Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV, Bonifacio VIII), la decretale tenderà a divenire la fonte principale del diritto canonico. Due fonti occorre ancora richiamare per completare il quadro della nascente dimensione normativa all’interno della Chiesa d’Occidente: le regole monastiche e i libri penitenziali. Tra III e IV secolo in Medio Oriente si sviluppa il monachesimo cristiano, ossia la particolare scelta di vita di coloro che abbandonavano completamente il mondo per vivere nella solitudine (éremos, da cui il termine di eremita, per indicare gli asceti che vivevano nel deserto) oppure per associarsi insieme in comunità o cenobi (dal termine greco coinòbios, indicante la vita in comune), al fine di ricercare una comunione più intensa con Dio ed innalzarsi verso la santità. In ambito cristiano, in Egitto, Antonio il Grande (251-356) è considerato l’iniziatore della via eremitica e Pacomio (292-348) di quella cenobitica. I monaci provenienti dall’oriente bizantino, dall’Africa o dall’Irlanda diffusero a poco a poco lo stile di vita monastico anche nell’Europa occidentale. Dopo il 529 a Cassino, su un monte e sulle rovine di

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templi pagani, venne fondato, ad opera di un monaco originario di Norcia di nome Benedetto (480-547), uno dei più importanti cenobi monastici. Intorno al 540 S. Benedetto decise di dotare l’ordine religioso da lui fondato (i Benedettini) di una Regola, ossia di un dettagliato sistema di norme e prescrizioni che disciplinavano la vita dei monaci nel cenobio. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci, ossia l’obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero (contro la prassi del vagabondaggio allora piuttosto diffusa presso alcuni monaci) e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l’obbedienza all’abate, il ‘padre amoroso’ (il nome deriva proprio dal siriaco abbà = padre) mai chiamato superiore, concepito come padre di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora (= prega e lavora). L’autorità dell’abate – che viene eletto dalla “maggioranza più sana dei monaci” in ragione delle proprie qualità personali e non in base ad un criterio di prestigio sociale o di anzianità – è esercitata nell’interesse della comunità, in derivazione dell’insegnamento evangelico per cui l’autorità non è potere, ma servizio (così come Cristo è venuto per servire e non per essere servito: Mc. 10, 45). La vita dei monaci è scandita dalla preghiera, che viene recitata insieme giorno e notte, e dal lavoro, sia manuale che intellettuale, come testimonia la intensa attività di copiatura e conservazione di manoscritti che l’ordine benedettino ha esercitato nel corso del medioevo. La regola prevede che i monaci siano tenuti ad un rigoroso rispetto dei tre consigli evangelici: la povertà (non possono possedere nulla individualmente), la castità e l’obbedienza all’abate. Anche in Inghilterra ed in Irlanda si sviluppò, tra VI e VIII secolo, un importante filone monastico ad opera di vescovi o abati famosi come Teodoro di Canterbury (602-690), Beda il Venerabile (673-735) o San Colombano (540-615), che importerà il monachesimo irlandese in Italia fondando un importante monastero a Bobbio. Già a partire dal VI secolo si sviluppa, proprio in Irlanda, un genere letterario estremamente interessante, il penitenziale, ossia un testo ad uso dei confessori, in cui, con metodo casuistico, veniva assegnata e descritta per ogni peccato una penitenza corrispondente, graduata in base alla dignità della persona (tanto più è elevata la dignità del penitente tanto più severa sarà la pena) e alla gravità del peccato commesso (si va dal digiuno, alla preghiera, all’osservanza di periodi di castità, fino alle pene pecuniarie, anche di ingente entità, o all’esilio). Molto interessante è notare come, a fronte del diritto laico (germanico soprattutto) che si limitava a stabile un corrispettivo oggettivo tra offesa subita e ‘tariffa’ da pagare in compensazione del torto (compensazione della pena o guidrigildo), i peni-

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tenziali valorizzano al massimo l’elemento soggettivo e intenzionale di chi ha commesso l’illecito (con una tendenziale sovrapposizione del ‘peccato’ con quello che oggi noi definiremmo ‘delitto’, ossia un illecito prevalentemente in ambito penale). Questa dimensione di attenzione alla volontà dell’agente era giustificata dal rovesciamento dello schema classico della penitenza operato dal sistema irlandese, che alla penitenza pubblica (ci si poteva confessare una sola volta nella vita, pubblicamente, davanti al vescovo e alla comunità) aveva sostituito la penitenza personale, che poteva essere comminata anche più volte nella vita. La confessione diventa quindi ripetibile, nella convinzione che solo quando la persona ha piena consapevolezza di aver trasgredito una norma religiosa o morale e volontariamente sceglie tale condotta si può riconoscere la commissione di un peccato e, analogamente, solo l’intenzione di sincero pentimento permette l’assoluzione o l’irrogazione di una penitenza attenuata. La valorizzazione dell’elemento intenzionale (o ‘soggettivo’) rivestirà un’importanza fondamentale per il successivo sviluppo del diritto penale, sia canonico che secolare.

6. I rapporti tra ordinamento laico ed ordinamento ecclesiastico (secc. I-V) Il rapporto tra Cristianesimo e autorità politica si instaura, già alle sue origini, in una situazione di conflittualità: come apprendiamo dai Vangeli e dalle fonti storiche coeve che li confermano, il periodo in cui Gesù di Nazareth vive e svolge la sua vita pubblica è il periodo della dominazione romana in Palestina, provincia dell’Impero. Il Regno di Giudea, reso ricco e prospero dal re Erode il Grande, divenne una delle prefetture della Provincia romana di Siria nel 6 d.C., anno nel quale l’ultimo sovrano locale, Archelao, fu arrestato ed esiliato in Gallia, come richiesto della popolazione locale che ne denunciò il malgoverno direttamente all’imperatore Augusto. Il prefetto di Giudea governava la Giudea romana (Iudaea) o da Cesarea Marittima o da Gerusalemme, sede del Secondo Tempio (il luogo più sacro per gli Ebrei), dove si trovava anche la Fortezza Antonia, sede della coorte romana che controllava la città. Non tutto il territorio all’epoca di Gesù era sotto il controllo romano: la Galilea e la Perea, dal 4 a.C. al 39 d.C., furono governate separatamente dal tetrarca Erode Antipa, figlio di Erode il Grande. I romani non riuscirono a comprendere le esigenze delle élites ebraiche locali, così come queste ultime non riuscirono a intendere il modo di fare politica a Roma. Le turbolenze politiche erano frequenti: basterà qui ricordare le due grandi ribellioni organizzate già nel 6 e nel 7 d.C. dal pretendente al trono Giuda il Galileo. Ai tempi della predicazione di Gesù, l’imperatore era Tibe-

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rio (42 a.C.-37 d.C.), e il Prefetto di Giudea Ponzio Pilato (dal 29 al 36 d.C.). Al tempo di Gesù, tuttavia, l’istituzione di governo locale era di natura teocratica, e l’autorità suprema della nazione ebraica era il Sinedrio (parola greca che significa “consesso”), composto da 71 membri, che svolgeva funzioni amministrative e giurisdizionali in ultimo grado. Di sua competenza erano gli affari religiosi, amministrativi e giudiziari della Giudea; disponeva di una propria milizia e poteva emanare sentenze di morte, benché non potesse eseguirle senza il consenso dell’autorità romana. I processi erano regolati da norme procedurali dettagliate e molto rigorose. Le figure che compongono il Sinedrio sono molteplici. Anzitutto troviamo i sadducei, che costituivano la ricca e potente classe sacerdotale entro cui veniva eletto il sommo sacerdote; i sadducei collaboravano ovviamente con l’autorità romana che, in cambio dell’ossequio e della sottomissione, consentiva la sopravvivenza del culto religioso nel Tempio e delle funzioni del Sinedrio. Un’altra classe sociale molto rilevante era quella dei farisei, che erano però laici, ossia non appartenevano all’ordine sacerdotale. I farisei si caratterizzano per una osservanza scrupolosa della legge ebraica, di cui spesso moltiplicavano i precetti ostentandone il rispetto e correndo quindi il rischio di dimenticare che la salvezza rimane sempre dono di Dio e non è frutto o ricompensa delle opere umane. Costoro erano molto ammirati dalla popolazione per la loro perfezione nell’osservanza della legge, mentre saranno oggetto delle principali obiezioni da parte di Gesù. Gli scribi erano invece gli specialisti nello studio della Sacra Scrittura e nella spiegazione dei precetti della legge. Si facevano chiamare “rabbi”, cioè maestri ed erano quasi tutti farisei. Infine troviamo due categorie sociali importanti ma non collegate alle istituzioni teocratiche, ossia i pubblicani, cioè gli esattori delle tasse per conto dei romani, invisi per questo alla popolazione e gli zeloti, accesi nazionalisti che incentivavano la resistenza armata per liberare il popolo ebraico dalla occupazione romana. Com’è noto il processo a Gesù di Nazareth fu doppio, così come la sua condanna: il Sinedrio lo ritenne colpevole di bestemmia nel proclamarsi Messia, Figlio di Dio e re dei Giudei e lo condannò a morte, condanna che venne poi ratificata dal prefetto di Giudea Ponzio Pilato che ne ordinò la flagellazione e la crocifissione (secondo l’uso della pena infamante comminata dal diritto romano per gli schiavi e i ribelli). Il rapporto tra l’ordinamento secolare e quello religioso è chiaramente definito dall’insegnamento stesso di Cristo, il quale interrogato capziosamente dai farisei sulla liceità o meno di pagare le tasse al dominatore romano (cioè a Cesare, ossia all’imperatore) rispose, prendendo spunto dall’effigie di Tiberio sulla moneta dovuta per il tributo, con la nota e icastica espressione, rimasta

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proverbiale: “rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mt. 22, 21; Mc. 13, 17, Lc. 20, 25). La posizione assunta da Gesù, e poi riconfermata successivamente da S. Paolo (Rm. 13, 1-7) che invitava a rimanere sottomessi alle autorità superiori e ai magistrati, segna un punto di partenza fondamentale per la posizione delle basi della separazione tra i due ordinamenti, secolare e religioso, entrambi riconosciuti legittimi e degni di rispetto, distinti e indipendenti ma non indifferenti l’uno rispetto all’altro. I primi tre secoli dell’era cristiana furono tuttavia caratterizzati da una fortissima ostilità sia delle autorità ebraiche che dell’Impero nei confronti dei cristiani, i quali subirono numerose persecuzioni che procurarono molte migliaia di vittime. Il Cristianesimo, in questo periodo, fu sempre formalmente considerato una religione illecita, tendenzialmente pericolosa per la stabilità dell’ordine pubblico e pertanto punibile con le pene più gravi e infamanti: i cristiani venivano accusati di empietà in quanto si rifiutavano di compiere l’ossequio e i sacrifici, obbligatori per legge, all’imperatore romano e agli dei della religione ufficiale. All’inizio del IV secolo, tuttavia, la condizione giuridica delle comunità cristiane era destinata ad un rapido cambiamento di rotta: nel 311 un editto emanato a Serdica dall’Augusto d’Oriente Galerio riconosceva per la prima volta al Cristianesimo lo statuto di religio licita, ossia di culto riconosciuto e ammesso dall’Impero romano; le persecuzioni iniziarono a cessare e due anni più tardi, nel 313, i due Augusti, di Oriente (Licinio) e d’Occidente (Costantino il Grande), si incontrarono a Milano, nuova capitale della parte occidentale dell’Impero, per ratificare i provvedimenti presi con l’editto di Serdica del 311 ed estenderli al resto dell’Impero. Il provvedimento, noto come Editto di Milano non fu tecnicamente un editto, bensì un insieme di istruzioni date ai governatori in cui si accordava ai cristiani la tolleranza e l’esenzione fiscale, oltre a riconoscere la libertà di culto e a prevedere l’obbligo di restituzione di tutti i luoghi, beni e possedimenti in precedenza acquistati, requisiti o espropriati alle comunità cristiane durante il lungo periodo delle persecuzioni. Nel 380 l’imperatore Teodosio I a Tessalonica con un provvedimento denominato Cunctos populos (dalle parole iniziali della legge, più noto come Editto di Tessalonica), successivamente inserito prima nel Codice Teodosiano poi come prima legge del Codice di Giustiniano, dichiarerà il Cristianesimo nella forma stabilita dal Concilio di Nicea (325) come religione ufficiale dell’Impero e, di conseguenza, proibiti il culto ariano e tutti gli altri culti pagani. La svolta fu ovviamente estremamente significativa, se solo di pensi che ancora nei primi anni del IV secolo l’imperatore Diocleziano aveva portato avanti una delle più cruente persecuzioni contro i cristiani. Lo stretto rapporto che nel IV secolo si instaura tra Chiesa e Impero comporta tuttavia

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anche una notevole presunzione, da parte degli imperatori, di intervenire nelle questioni teologiche e religiose, soprattutto dibattute all’interno dei concili, che spesso sono convocati dallo stesso imperatore il quale partecipava alle sessioni e ne seguiva le discussioni. Il nuovo assetto dell’Impero romano ‘cristianizzato’ – sia in Oriente che in Occidente – comportò alcune conseguenze anche sotto il profilo più formalmente giuridico e dell’amministrazione della giustizia. La legislazione imperiale, infatti, di Teodosio II prima e di Giustiniano poi, recepì progressivamente i valori e i princìpi etici del Cristianesimo, pur ovviamente sempre con lo sforzo di armonizzarli con l’assetto istituzionale romano che non doveva venire scardinato. Accanto ad alcune tutele di chiara matrice cristiana, come il riconoscimento della dignità della persona umana, la garanzia di gratuità del prestito, il rifiuto della vendetta come metodo di risoluzione delle controversie, altri istituti del diritto romano vengono invece mantenuti, come ad esempio fu il caso del divorzio che Giustiniano volle conservare (anche se per casi molto limitati) pur in violazione del precetto di indissolubilità del matrimonio cristiano. Un ruolo di primo piano nella gestione dell’amministrazione della giustizia viene svolto, a partire da Costantino in poi, dalla figura del vescovo, che assunse progressivamente il ruolo di giudice-arbitro nelle controversie non solo interne alla comunità ma anche tra laici ed ecclesiastici (episcopalis audientia). Costantino stesso concesse alle parti in lite di scegliere se farsi giudicare dal governatore della provincia o dal vescovo; molto spesso le parti sceglievano il giudizio episcopale in quanto ispirato a maggior flessibilità in applicazione dei criteri di misericordia e di equità propri del diritto canonico. La legislazione teodosiana e giustinianea aveva poi riconosciuto agli ecclesiastici, considerati utilissimi componenti dell’apparato burocratico imperiale, una normativa specifica che prevedeva ad esempio il privilegio di foro, ossia la possibilità per i membri del clero di essere giudicati dal proprio vescovo e non dalla giurisdizione secolare imperiale. Molti tra i vescovi più importanti di questi secoli, che furono anche Padri della Chiesa, da S. Agostino a S. Ambrogio vescovo di Milano, a papa S. Gregorio Magno, svolsero ruoli di prima importanza nell’amministrazione della giustizia e contribuirono all’affermazione dei valori cristiani nel sistema istituzionale ed amministrativo che, soprattutto in Occidente, riconosceva progressivamente come punto di riferimento più la Chiesa che l’Impero, oramai in una fase di forte declino. Se da un lato il ruolo degli ecclesiastici veniva a ricoprire così un prestigio indiscusso e sempre maggiore nell’Europa occidentale, d’altro canto si andava profilando un crescente problema di suddivisione di competenze tra l’autorità secolare e l’autorità religiosa. Mentre in epoca di persecuzioni la separazione tra l’ordinamento secolare – rap-

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presentato da un imperatore a cui i cristiani si rifiutavano di tributare l’ossequio, pur rispettandone le leggi – e l’ordinamento ecclesiastico risultava ben definito, a partire dalla fine del IV secolo gli imperatori saranno per la quasi totalità cristiani e pertanto, specie nella parte orientale dell’Impero, l’intervento dell’imperatore nella vita della Chiesa era considerato perfettamente lecito se non addirittura dovuto: gli imperatori bizantini si ritenevano investiti di un’autorità religiosa quasi pari a quella dei vescovi o addirittura del papa (da cui il nome di cesaro-papismo ad indicare questa attitudine imperiale). In Occidente, invece, la posizione della Chiesa nel delimitare la propria competenza fu decisamente più netta. Un episodio rimane emblematico di questa tensione: nel 390, dopo la rappresaglia dell’imperatore Teodosio contro gli abitanti di Tessalonica (l’odierna Salonicco), colpevoli di aver assassinato il governatore della città, il vescovo S. Ambrogio, venuto a conoscenza della strage, scrisse una lettera vibrante di sdegno all’imperatore imponendogli un’espiazione, pena la scomunica; Teodosio all’inizio esitò ma poi fu costretto ad accettare la richiesta. Per S. Ambrogio, infatti, era ben chiara la diversa funzione che ricopriva l’imperatore nella sfera temporale, in cui possedeva una suprema ed indiscussa autorità e nella sfera spirituale, in cui egli era un semplice fedele, come tale soggetto ai precetti evangelici e all’autorità della Chiesa. Fu però solo nel 494 che papa Gelasio I (492-496) formulò una teoria sulla reciproca suddivisione delle sfere di competenza tra papa e imperatore destinata ad avere ampio seguito nel medioevo. In una lettera indirizzata all’imperatore d’Oriente Anastasio I Gelasio scrive che il mondo è retto da due dignità distinte ma non subordinate, in quanto entrambe derivanti da Dio stesso: la sacra autorità (auctoritas sacrata) dei pontefici e la potestà regale (regalis potestas) dell’imperatore. Pur essendo ordinate a funzioni diverse, l’una a guidare i fedeli attraverso la Chiesa, l’altra a sovraintendere alle cose del mondo, Gelasio concludeva che all’autorità spirituale era riconosciuta una dignità maggiore poiché ai sacerdoti verrà chiesto da Dio conto anche dell’operato dell’imperatore, in quanto anch’egli cristiano e quindi ‘semplice’ fedele 7. 7

Gelasio I, Epistola XII ad Atanasio Augusto (494), in Epistolae Romanorum Pontificum, ed. Thiel, Brunsbergae, 1867, v. I, p. 350: “Duo quippe sunt, imperator Auguste, quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacra pontificum, et regalis potestas. In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus Domino in divino reddituri sunt examine rationem” (“Due sono infatti i poteri, o Augusto imperatore, attraverso i quali è retto principalmente questo mondo: l’autorità sacra dei pontefici e la potestà regale. Tra i due l’importanza dei sacerdoti è più grande, in quanto essi dovranno rendere ragione al tribunale divino anche degli stessi sovrani”).

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La questione posta in termini ‘dualistici’ da Gelasio ovviamente non risolveva il complesso tema dei confini tra autorità secolare e autorità spirituale, che attraverserà tutta la storia dell’Occidente, passando dalla problematica relazione tra la Chiesa, l’Impero bizantino e i Longobardi, alla costituzione del Sacro Romano Impero 8, dal medioevo fino all’età moderna e contemporanea in cui il tema del rapporto Stato-Chiesa continua ad essere oggetto di dibattiti e riflessioni in ambito politico, giuridico, ecclesiologico e culturale. Tuttavia la peculiarità che caratterizza l’esperienza giuridica occidentale è quella di aver sempre mantenuto una distinzione tra la sfera religiosa e la sfera civile del diritto, coesistenti in una dialettica e in una tensione continua, talora anche dura e oppositiva ma che ha consentito lo sviluppo pluralista e democratico della civiltà europea occidentale.

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Su cui si ritornerà nel cap. IV, § 5-6.

IV IL PERIODO GERMANICO

SOMMARIO: 1. Vicende storico-istituzionali fra i secc. VI-VIII. – 2. I Longobardi. – 3. I Franchi. – 4. L’espansione araba. – 5. La Chiesa e il dominio pontificio. – 6. Carlo Magno e il Sacro Romano Impero (S.R.I.).

1. Vicende storico-istituzionali fra i secc. VI-VIII Con la fine del sec. VI il retaggio dell’eredità romana sembra affievolirsi in un’Europa sempre più germanica: i Franchi si sono stabilizzati nelle Gallie ed hanno sottomesso anche i Burgundi, i Visigoti in Spagna hanno dato vita ormai ad una dominazione autonoma, il progetto giustinianeo di riconquista occidentale è svanito, i Longobardi sfondano in Italia (568) e si insediano in gran parte della penisola. Nel 622 d.C. inizia l’era della nuova religione (Islam) fondata da Maometto (morto nel 632) sulla base del Corano, galvanizzando all’espansione un popolo, che nei secc. VII-VIII si rivela inarrestabile in Asia, Africa, Europa: dal 711 si insedia in Spagna e dieci anni dopo dilaga in Francia sin quasi alle porte di Parigi, ove nel 732 viene sconfitto a Poitiers dai Franchi capeggiati da Carlo Martello (che salva così la cristianità) ed è ricacciato oltre i Pirenei. Il regno franco, passato alla nuova dinastia di Carlo Martello nella persona di suo figlio Pipino (751), prende nuovo vigore, anche militare: il figlio di Pipino, Carlo (re dal 768) conquista il regno longobardo (774) e si impegna in altre lunghe campagne militari vittoriose, che lo portano a dominare tutta l’Europa dall’Ebro all’Elba. Signore pressoché di tutta la parte occidentale del continente, nell’anno 800 Carlo “Magno” è incoronato a Roma da papa Leone III imperatore del “Sacro Romano Impero” (S.R.I.). Per volontà pontificia e franca rinasce un’istituzione che non è però certo il vecchio Impero romano d’Occidente, ma che resta per un millennio nella storia d’Europa

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(sino al 1806, per la rinuncia imposta agli Asburgo da Napoleone) e vi ha pesato molto nei secoli medievali. Il Sacro Romano Impero è un gigante dai piedi d’argilla: già Carlo Magno (morto nel 814) fatica a tenerlo territorialmente unito contro le tendenze centrifughe. Ciò a maggior ragione si verifica col figlio Lodovico (morto nel 840), sino a che i tre figli di questo se lo spartiscono in tre parti (843, trattato di Verdun), col titolo imperiale (unito alle terre italiane ed a quelle dei futuri Paesi Bassi) al solo Lotario, mentre a Lodovico va la Germania, a Carlo la Francia. La crisi continua coi successori di Lotario (morto nel 855), cioè con Lodovico II (morto nel 875), Carlo il Calvo (morto nel 877), Carlo il Grosso (morto nel 888). A questa grave crisi si unisce l’evoluzione delle istituzioni vassallitico-feudali, che minano dall’interno l’impero: passatane la titolarità in area tedesca, Ottone I (morto nel 973) cerca di vivificarne l’organizzazione con le investiture agli ecclesiastici, che porteranno però (secc. XI-XII) alla lunga lotta con la Chiesa per le investiture, terminata con il concordato di Worms (1122).

La rinascita culturale ed economica del sec. XI fa sentire poi i suoi effetti e rivela la sua importanza per il rinascimento giuridico avvenuto tra la fine del sec. XI ed il successivo. La stanchezza per il puro uso della forza (e della guerra) rafforza l’aspirazione a trovare regole, a cui affidare la risoluzione dei contrasti: è il ritorno al principio dell’uso del diritto. Ciò porta alla riforma gregoriana in ambito ecclesiastico, alla nascita dei Comuni, alla riscoperta del diritto giustinianeo, della scienza giuridica e della funzione del giurista. Si apre uno scenario nuovo, sul palcoscenico italiano, nel quale viene a muoversi lo stesso Impero con Federico I (morto nel 1190) e Federico II (morto nel 1250). Un mondo molto diverso è ormai tornato alla ribalta.

2. I Longobardi Nel 568 il popolo longobardo sotto la guida di re Alboino invade l’Italia. Proviene dalla Pannonia (= Ungheria attuale) e vi entra dal Friuli. I Bizantini, inopinatamente, non vi si oppongono con decisione: nel giro di un anno l’invasione dilaga nella pianura padana, raggiunge la Toscana; gruppi avventurosi si spingono sino ad occupare ampie zone a Spoleto e Benevento.

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Si tratta di un popolo tra i più vicini alle tradizioni germaniche, ancora instabile negli insediamenti, bellicoso e violento, che si insedia per gruppi di “fare” sotto una guida carismatica (dux): come capo delle sue genti, il “dux” (= duca) sovrintende pure alla zona controllata. Il vincolo è quindi personale, solo mediatamente territoriale. Secondo la tradizione germanica ogni uomo in armi (arimanno) è titolare di diritti e partecipa alle decisioni collettive dell’assemblea dei liberi (exercitus) eleggendo pure il duca e il re; gli altri non contano (possono essere liberi, semiliberi o aldii, oppure servi). Fra chi non conta ci sono pure i Romani conquistati: la loro sorte dipende dalle contingenti situazioni locali. Si può dire che le loro tradizioni – anche giuridiche – non siano disturbate (perché irrilevanti) purché non contrastino con le esigenze longobarde. Non si può parlare di convivenza. I Longobardi conquistano e comandano a piacimento: lasciano agli altri solo quanto a loro non interessa. Il punto di riferimento non sono le regole (o il diritto), ma la forza. Nemmeno la religione può mitigarne l’irruente bellicosità: il loro cristianesimo resta imbevuto di paganesimo, per di più secondo la “eresia” ariana. È questo il momento in Italia di cesura con la romanità e di vera entrata del germanesimo nella penisola. Il re si stabilisce a Pavia. La carica non ha però ancora una tradizionale stabilità: ucciso Alboino (572) e due anni dopo il successore Clefi (574), per dieci anni i Longobardi non eleggono un nuovo re, restando unicamente sotto i duchi (una trentina) che comandano i gruppi delle varie fare. Finita in pratica la grande spedizione militare, un capo unico poteva sembrare inutile: ormai ciascun gruppo razziava e guerreggiava per conto suo 1. In questo contesto le violenze erano usuali, anche fra Germani, ed i Latini era tanto se si salvavano. L’invasione longobarda di altre terre, a danno di Franchi o Bizantini, si arresta, ed anzi i contrasti endemici rendono vulnerabili le stesse conquiste. I vari capi longobardi percepiscono il pericolo della frammentazione: nel 584 l’assemblea del popolo elegge un nuovo re nella persona di Autari, figlio di Clefi. D’ora in poi la figura del re resta, ed anzi si consolida via via nel tempo erodendo i poteri sia dell’assemblea sia dei duchi, a sua volta influenzata dalla progressiva rilevanza della tradizione bizantina per la successione di padre in figlio, con la cooptazione nell’ultimo periodo del regno longobardo.

1 Per la contingente insensibilità alla necessità di un rex, dopo la spedizione e la conquista di gran parte dell’Italia, cfr. supra, capitolo precedente, § 2.

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La capitale si fissa definitivamente a Pavia. Intorno al re si sviluppa l’attività di alcuni collaboratori, che formano una piccola corte, partendo da compiti anche modesti, copiando modelli stranieri (anche bizantini): il “marpais” (o “strator”, inizialmente il custode dei cavalli regi), lo “stolesatz” (o “maior domus”, all’inizio l’approvvigionatore del gruppo regio), altri “domestici” (come gli “ostiarii” o i “delitiosi”, su modello ravennate). Su ciò si innesta poi la cancelleria, col referendario e i notai regi: proprio questa sopravviverà a lungo alla stessa fine del regno. Dal nulla (addirittura dall’inesistenza del re) viene via via formandosi un piccolo corpo di persone con compiti che potremmo dire approssimativamente ‘amministrativi’.

Presso la corte regia a Pavia nell’ultimo secolo del regno ci si cimenta anche con elementari attività giuridiche ed è svolto un rudimentale insegnamento del diritto, mentre si preparano le leggi regie successive all’editto di Rotari: il re diventa persino legislatore. È un cambiamento considerevole, che indica l’affermarsi del potere regio: il re abbastanza presto viene a voler nominare i diversi duchi, dirigere il popolo ormai territorialmente stanziato, imporsi come autorità unica. Si può capire che tale tendenza, accentuatasi con gli ultimi re, incontri resistenze alla periferia e nei vecchi ceppi germanici gelosi della loro autonomia: il popolo, ormai territorializzato da tempo in un’area geografica molto grande, finisce col rispondere poco alle chiamate del re per l’assemblea annuale (alla quale sono indotti a recarsi solo alcuni notabili) e soprattutto per l’adunata generale dell’“exercitus” per la guerra. Non è da escludere che la fine del regno sia proprio la conseguenza – per re Desiderio e suo figlio Adelchi – di una scarsa sensibilità ‘popolare’ e ducale alla richiesta di aderire alla difesa e ad accorrere nell’“exercitus” per guerreggiare contro i Franchi. Accanto al re si trovano pure a Pavia persone a lui legate da una particolare fedeltà, pronte ad affiancarlo nella guerra (ed a morire con lui e per lui): si tratta dei “gasindi”, che sono “in obsequio regis” 2, suoi compagni di avventure e di vita, da lui mantenuti. Si tratta di un fenomeno comune ad altri popoli germanici (come i “comites” del “palatium” regio dei Franchi). Non è detto siano liberi: sono persone pronte a tutto per il re, ripagate nello stesso modo. Il vincolo personale è sopra tutto. Non solo il re si trova in questa situazione: ciò si verifica pure presso i duchi più potenti (ad 2

L’“obsequium” è un legame personale diretto (qui verso il re), che per gli usi germanici impone al gasindio la disponibilità ad eseguire ogni ordine del suo signore in modo pienamente fiduciario (ad es., battendosi per lui sino alla morte).

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es. di Benevento o Spoleto) o altri personaggi autorevoli. Tali gasindi rispondono direttamente al re delle loro azioni, non ad altre autorità: sono “in verbo regis” (cioè sotto la sua diretta protezione). Il privilegio personale è sopra tutto. Il potere regio presso i Longobardi si afferma come unitario: non è diviso fra i figli del re morto nemmeno quando si afferma l’ereditarietà. Si vedrà che diversa è invece la situazione del regno franco. In un primo tempo è l’assemblea che elegge il successore del re morto, per lo più però entro la parentela precedente (anche femminile); poi questa non fa che accettare la successione del figlio al padre, che negli ultimi tempi può anche avere già provveduto alla cooptazione nella carica (ad es. l’ultimo caso, con re Desiderio ed il figlio Adelchi). Il re finisce con l’imporsi sui duchi (salvo quelli meridionali), il cui potere da originario (a capo delle fare stanziatesi sul territorio) si modifica in derivato dal re per sua nomina; anzi, in parecchi casi il re destituisce pure alcuni duchi e ne nomina altri. Dopo l’interregno il ripristino della figura del re necessitava di un potere effettivo, che egli non aveva ancora rispetto ai duchi: perciò, oltre al potere che gli derivava dalla sua famiglia, al re designato è stato assegnato – con valore ormai territoriale – un ulteriore potere in ogni terra controllata dai duchi, che rinunciavano a circa ¼ di quanto loro competeva in favore del re. In tal modo il re si trovava a poter condizionare da vicino i duchi nelle zone di loro spettanza: su queste terre (e relativi uomini) di propria competenza il re era allora rappresentato da suoi inviati, detti “gastaldi”, da lui stesso nominati e destituibili a suo arbitrio. Tra il gastaldo ed il duca c’è una differenza sostanziale: il gastaldo è amministratore delle terre (e uomini) del re nella zona, dal re nominato e revocabile, e deriva quindi il suo potere da quello del re. Il duca è invece il capo delle fare locali, eletto dall’assemblea di queste, con potere quindi originario anche rispetto al re; col tempo, però, questa situazione tende ad appannarsi, ed il re riesce a sovrapporsi – anche se non ovunque e non sempre – imponendo con sua nomina il duca, che quindi finisce con l’essere un delegato del re, fonte ormai del potere. Il decorso del tempo giova all’affermazione della preminenza regia, su modello tanto bizantino che di un ordinamento più accentrato. Lo spontaneismo germanico basato sul ‘popolo’ si appanna sia riguardo alla figura del duca sia riguardo alla stessa assemblea. Il ‘popolo in armi’ semovente si trasforma in stanziale: la monarchia con i suoi (modesti) organi ed il suo (modesto) accentramento non può essere che vincente. Non è detto che proprio ciò non la porti – per defezione degli scontenti – alla sconfitta finale. Il re afferma anche la sua autorità procedendo alla fissazione scritta del-

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le consuetudini del popolo, a 75 anni dall’invasione. Nel 643 infatti re Rotari ne fa compilare una raccolta e la fa approvare dall’“exercitus” (cioè dal popolo in armi, convocato per la conquista della Liguria). Si tratta dell’“editto di Rotari”, emanato dal re, anche se questo non afferma ancora espressamente un suo potere legislativo: dichiara solo di aver raccolto le antiche consuetudini popolari (“cadarfide”) “quae scriptae non erant” e quindi di essersi prestato ad una pura opera compilatoria, che è stata confermata dal popolo in armi (“per gairethinx”), pur ammettendo di aver dovuto “corregere” qua e là ove necessario. Compiuto questo primo passo da Rotari (formalmente rispettoso dell’originario potere assembleare), alcuni re successivi (Grimoaldo, Liutprando, Astolfo) emaneranno direttamente delle aggiunte all’editto: il potere legislativo regio si è così del tutto completato. I 388 capitoli dell’editto di Rotari, redatti in un latino piuttosto approssimativo (che comunque non sempre ‘rende’ bene termini o concetti germanici) sono un testimone importante delle consuetudini esistenti: in tal modo – fissate nello scritto – esse non rischiano di appannarsi o scomparire. A oltre mezzo secolo dall’invasione, infatti, esse sono in pericolo, sia per la dispersione del popolo in uno spazio troppo ampio, sia per eventuali diverse abitudini di vita (stanziale) intervenute in loco, sia per l’influenza della nuova religione o della contiguità coi latini ed il loro diritto romanovolgare. I gruppi longobardi più tradizionalisti possono essere turbati da ciò: Rotari si mostra sensibile a queste preoccupazioni proprio mentre convoca l’“exercitus” per riprendere dopo molto tempo le passate spedizioni militari e ripristina la tradizione “popolare”. Ciò non impedisce però che il re proceda d’autorità, intervenga su alcune consuetudini, presenti il complesso all’approvazione popolare; l’opera conservativa – pur con ritocchi – consente peraltro la preservazione dell’essenziale, altrimenti in pericolo di memoria storica. I compilatori hanno seguito anche testi di altre “leggi” germaniche e fonti romane, sono stati sensibili all’esigenza di affermare su tutto l’autorità regia, ma nel complesso hanno consolidato le regole di vita del popolo longobardo, con le modificazioni intervenute. La consuetudine non è fissa nel tempo, ma cambia, ed è comprensibile che parte dell’antica tradizione ‘nazionale’ si sia modificata dopo l’invasione: troppi erano stati i mutamenti. L’essenza della tradizione germanica però resta: l’editto di Rotari è infatti espressione del mondo germanico e in seguito ne fisserà a fondo l’influenza in Italia. Eccone qualche cenno.

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L’EDITTO DI ROTARI L’editto di Rotari ha continuato ad essere applicato anche dopo la caduta del regno longobardo ed è stato utilizzato dalla popolazione di tradizione longobarda durante la dominazione franca: è confluito così nel “Liber papiensis” in uso nel periodo successivo, giungendo ad essere poi inserito con questo in appendice alla raccolta giustinianea da parte dei giuristi dell’epoca del seguente rinascimento giuridico. Inoltre, è rimasto nella tradizione giuridica meridionale per la persistenza – sino all’avvento dei Normanni nel sec. XII – del ducato longobardo di Benevento. L’uso dell’editto si è quindi protratto nei secoli, anche con certe modificazioni nel testo. Nel sec. XIX una precisa ricostruzione critica secondo i manoscritti più antichi ha portato all’edizione scientifica del Pertz nel vol. IV delle “Leges” dei “Monumenta Germaniae Historica” (Hannover 1868) e del Baudi di Vesme nei “Monumenta Historiae Patriae” (Torino 1855). Come si può notare sin dal proemio, e dalla sua stessa intitolazione, il latino usato non è certo quello classico. In esso si precisa che l’intervento del re (cioè dei suoi esperti) non è stato solo di accertamento delle antiche consuetudini popolari, ma anche di aggiornamento ed integrazione (“che rinnovi e corregga tutte le precedenti ed aggiunga ciò che manca e tolga il superfluo”): è l’avvio del potere legislativo del re longobardo, che intende però rifarsi al valore della tradizione ed inizia il suo editto con l’elenco – in senso quasi mitico – dei re che lo hanno preceduto. In nomine domini incipit edictum quem renovavit dominus Rothari vir excellentissimo rex genti Langobardorum cum primatos iudices suos. Ego in dei nomine hrotarit vir excellentissimus, et septimodecimum rex gentis langobardorum, anno deo propitiante regni mei octabo, aetatisque tricesimo octabo, indictione secunda, et post adventum in provincia italiae langobardorum, ex quo alboin tunc temporis regem precedentem divina potentia adducti sunt, anno septuagesimo sexto feliciter. Dato ticino in palatio (...) Considerantes dei omnipotentis gratiam, necessarium esse prospeximus presentem corregere legem, quae priores omnes renovet et emendet, et quod deest adiciat, et quod superfluum est abscidat, in unum previdimus volumine conplectendum (...) nomina regum antecessorum nostrorum, ex quo in gente nostra langobardorum reges nominati coeperunt esse, in quantum per antiquos homines didicimus, in hoc membranum adnotari iussimus. Fuit primus rex agilmund (...).

Numerose disposizioni dell’editto hanno rilievo penale, per cercare di contenere una società molto violenta, e fissano, in modo estremamente casistico, le “composizioni” verso l’offeso e la sua famiglia, a cui era tenuto il colpevole del reato. Accanto a molte altre previsioni, con sanzioni nel complesso sempre pesanti, se ne riportano qui – a titolo meramente esemplicativo – alcune fra le più semplici, ma nello stesso tempo significative, riguardanti le sanzioni per alcuni casi di aggressioni o violenze al viso o alla testa.

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[48] De oculo evulso. Si quis alii oculum excusserit pro mortuum adpretietur, qualiter in angar-gathungi, id est secundum qualitatem personae; et medietas praetii ipsius componatur ad ipsum, qui oculum excusserit. [49] De naso absciso. Si quis alii nasum absciderit, medietatem pretii ipsius conponat ut supra. [50] De labro absciso. Si quis alii labrun absciderit, conponat solidos sedicem, et si dentes apparuerint unus, duo aut tres, conponat solideos viginti. [51] De dentes priores. Si quis alii dentem excusserit, qui in risu apparit, pro uno dentem dit solidos sidicem; si duo aut amplius fuerint in risu apparentis, per hoc numero conponantur et adpretietur. [52] De dentes maxillares. Si quis alii dentem maxillarem unum aut plures excusserit, per unum dentem conponat solidos octo. [53] De aure abscisa. Si quis alii aurem absciderit, quartam partem pretii ipsius ei conponat.

L’influenza dell’editto di Rotari e delle leggi dei successivi re longobardi si è fatta sentire ancora per secoli in Italia anche dopo la caduta del regno longobardo, con l’impostazione della “composizione” del reo con l’offeso o la sua famiglia, per evitarne la vendetta. A tale composizione si è poi affiancata (ed a volte sostituita) una seconda composizione, verso il tutore dell’ordine pubblico locale (re o – in seguito – signore feudale), per evitarne la reazione: in tal modo la composizione è venuta ad assumere la ben diversa figura di riconoscimento da parte del colpevole dell’infrazione della pace pubblica (e non più di quella privata).

C’è l’impostazione familiare germanica, col potere del padre, i beni in capo alla famiglia, il legame di gruppo, il mundio sulla donna, l’emancipazione del figlio atto alle armi e l’adozione davanti all’esercito (“per gairethinx”). C’è l’accettazione della vendetta familiare (faida), a cui si affianca però la composizione della lite, preferita dal re per limitare i danni all’ordine pubblico, fissata con riferimento ad una minuta casistica di violazioni, di offesi ed offensori (e, di conseguenza, composizioni pecuniarie differenziate). Ci sono pure duello e giuramento per dirimere le controversie, secondo un’impostazione derivante dall’ordalia (o “giudizio di Dio”): ciò è ben diverso da quanto previsto nella tradizione latina (la quale è alla ricerca del rispetto della regola giuridica, non dell’intervento soprannaturale, per individuare il ‘torto’). C’è inoltre l’autorità del re – che si affaccia qua e là, ma in modo abbastanza diffuso – ad affermare il suo potere superiore, nell’ordinamento pubblico, nella giustizia, nella stessa società. L’editto di Rotari è una delle “leges” germaniche consolidatrici delle consuetudini ‘popolari’. Con alcuni re successivi si ha una vera attività legislativa autonoma del re anche sul piano teorico. In proposito Liutprando legifera alquanto ampiamente: vi si nota un’influenza cattolica ed ecclesiastica, ma pure della riemersa tradizione romana. Questa si è conservata grazie alla

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Chiesa ed alla personalità del diritto, ma ormai Liutprando legifera in modo unitario per tutti i sudditi, longobardi e latini. L’unitarietà del potere del re supera le ‘nazionalità’: i ‘romani’ che non sono scomparsi riemergono. Con la successiva legislazione di Astolfo sembra anzi che essi – se ricchi – possano affiancare nell’esercito i Longobardi: l’invito a parteciparvi è rivolto pure ai “negotiatores”, che si può presumere fossero più latini che germani, data la scarsa propensione di questi al commercio. L’“exercitus” non è neppure più quello ‘nazionale’ dei liberi longobardi (arimanni). Dopo due secoli le “nationes” sono venute un po’ integrandosi nel territorio. Se nei documenti dell’epoca restano le dichiarazioni dei singoli di voler seguire la ‘legge’ della propria ‘nazione’ per lo svolgimento di determinati atti giuridici (con applicazione quindi della personalità del diritto), in effetti il territorio è venuto cementando i gruppi sociali e si stanno formando quindi specifici usi locali (della “terra”, del “fondo”, della “zona”, della “città”), andando oltre le divisioni di stirpe. Alla caduta del regno, i Longobardi sono però ben radicati nelle terre italiane acquisite e la tradizione della loro ‘nazione’ vi resta ancora a lungo, anche se il dominio politico-militare passa ai Franchi, dopo che il loro re Carlo ha sconfitto in Italia l’ultimo re longobardo, Desiderio (774). I Franchi, dopo la vittoria, non espellono i Longobardi: al massimo possono cambiarne i capi politici ed introdurne di propri. Mentre quindi nella penisola resta una forte tradizione longobarda accanto a quella latina, non se ne ha una veramente franca: i Franchi restano oltre le Alpi, al massimo spostano alcuni gruppi di élite militare a comandare. La tradizione germanica in Italia sarà tendenzialmente quella longobarda.

3. I Franchi I Franchi, già “federati” imperiali, si sono insediati a sud della foce del Reno e poi nelle Gallie, sino a costituire un regno autonomo con la fine del sec. V. Molto numerosi (e divisi pure in più schiatte), sono stati portati dal re Clodoveo (480-511) a convertirsi subito dal paganesimo al cattolicesimo senza passare per l’eresia ariana. Ciò ha facilitato i rapporti con il clero cattolico e con i Romani delle Gallie: per quanto l’insediamento sia violento, lo è meno che altrove. Popolosi e potenti, i Franchi sconfissero gli altri popoli germanici presenti nelle Gallie o nelle vicinanze (Visigoti, Burgundi ...) tra la fine del sec. V e l’inizio del successivo. Possono essere significativi alcuni aspetti del loro regno. La monarchia era consolidata, con tendenza ereditaria, legittimata con unzione religiosa ed acclamazione assembleare. Il regno è stato però percepi-

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to in senso patrimoniale, in armonia con l’insensibilità germanica per la distinzione fra ‘pubblico’ e ‘privato’. Non si è fatta quindi differenza tra la titolarità del regno e quella di altri beni da dividere fra gli eredi del re morto. In base alla tradizione della schiatta dei Franchi Salii (“lex salica”) ne sono state inoltre eccettuate le figlie, dato che tale consuetudine le escludeva dalla successione nelle terre familiari. Questa concezione patrimoniale del regno, specifica di quello franco, lo fa precipitare spesso in lotte intestine, che ne minano la grande forza espansiva. La partizione dei territori del regno fra i discendenti del re porta infatti a guerre fratricide, ricomposte solo con la prevalenza di uno dei belligeranti, alla cui morte si ritorna alla stessa endemica frammentazione successoria. La forza bellica franca si consuma così all’interno, senza riuscire più ad incidere all’esterno come nei primi tempi del regno. Ogni pretendente ad una parte del regno, nelle lotte con gli altri, è indotto a valorizzare il legame personale con i suoi ‘fedeli’, secondo la tradizione germanica dei “vassi”, che presso il re franco prendono sovente il nome di “comites”, a comporre intorno a lui il “comitatus”, gruppo di uomini devoti sino alla morte, al sostentamento dei quali provvede il re stesso a corte: sono i “comites palatini”, siti con lui nel “palatium”, detti perciò sbrigativamente “paladini” (tra i quali la leggenda inneggerà al fido Rolando/Orlando di Carlo Magno, cantato a secoli di distanza pure dall’Ariosto ...). Mentre nel “palatium” i “comites” sono i ‘fedeli’ di cui il re dispone a volontà per varie incombenze (quindi con un’idea opposta a quella burocraticoamministrativa della competenza, di tradizione romana), accanto al re si trovano pure alcuni collaboratori con compiti fissi (presi per lo più fra i ‘fedeli’ “comites”), come il “maior domus” (maggiordomo, sovrintendente alla dimora del re, in seguito divenuto il suo ‘factotum’), il “marescalcus” (maresciallo, o “comes stabuli” cioè connestabile, preposto ai cavalli del re), il “senescalcus” (per gli approvvigionamenti), il coppiere, il tesoriere, ed altri: sono compiti all’inizio modesti (come negli altri regni), aumentati però molto quando la monarchia estende il suo potere e la corte aspira al fascino del modello bizantino. È la stessa tendenza, più in grande, degli altri regni germanici. Tra i secc. VII-VIII la dinastia merovingia si infiacchisce, nel periodo dei cosiddetti re-fannulloni (rois fénéants): è il maestro di palazzo (“maior domus”) a reggere il regno (o le sue porzioni). Nel 732 è proprio il maestro di palazzo Carlo Martello ad organizzare per conto del re l’opposizione all’invasione araba, che sfocia nella vittoriosa battaglia di Poitiers. I legami da lui intrecciati riescono però – alla morte del re – a far eleggere dall’assemblea popolare quale re il proprio figlio Pipino: cambia così la dinastia, con giuramento del popolo al nuovo re. È facile pensare che le clientele vassallatiche

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personalmente reclutate dal maestro di palazzo abbiano avuto il loro peso nell’acclamazione popolare del figlio a re: i vassi anche sulla scena politica vengono a recitare una loro parte. Lo schema territoriale del regno resta permeato di collegamenti fideistici e personali di stampo germanico. La concezione patrimoniale del regno induce con frequenza il re a procedere ad ampie donazioni del patrimonio regio ad enti ecclesiastici (vescovadi e monasteri), ma pure a “fideles”: tali terre passano ai nuovi titolari con le loro caratteristiche, quindi anche con le eventuali esenzioni fiscali (quali beni già demaniali romani). Ciò naturalmente depaupera il patrimonio regio (ormai non si può dire ‘pubblico’). Col tempo, si stabilizza comunque il rapporto fra i Franchi dominatori e gli elementi romani, anche grazie alla posizione della Chiesa cattolica, i cui vescovi hanno un ruolo di rilievo nell’ordinamento franco. Il regno risulta infatti – di norma – dipendente dal re e dalla sua corte con sede usuale a Parigi (quando non ci sono guerre fra le fazioni, con periodi di frazionamento). Le parti del territorio sono a loro volta soggette ciascuna ad un conte inviato dal re, di sua nomina e revoca. Tali conti periferici, a capo della “contea”, peraltro possono spesso di fatto conservare il potere ereditariamente ed insediarsi quindi con stabilità, perdendo così il nesso personale iniziale col re che li ha inviati. Essi sono soggetti a controlli periodici di altri inviati della corte (“missi dominici”) per lo più in coppia (in modo che si controllino a vicenda), cioè spesso un altro conte ed un vescovo, cosa quest’ultima che testimonia del ruolo anche politico della Chiesa franca. Questa impostazione della monarchia perdura con i Carolingi e quindi influisce pure su certe caratteristiche del successivo Sacro Romano Impero: ereditarietà, patrimonialità, vincoli vassallatici ne mineranno presto l’ampio territorio, così come si protrarranno le interconnessioni con la Chiesa (incoronazione pontificia dell’imperatore, investiture, “tuitio” imperiale della Chiesa). Esse, già profonde sotto i regno di Pipino, aumentano ancora dopo la conquista dell’Italia centro-settentrionale da parte del figlio Carlo (774), che sostituisce la sua dominazione a quella dell’ultimo re longobardo.

4. L’espansione araba L’espansione araba in tutta l’area del Mediterraneo è stata dirompente e molto estesa: ha per lo più bloccato quanto di traffico marittimo si era conservato ed ha limitato ancor più l’economia europea alla produzione terriera, alquanto modesta e localizzata. Oltre alla costa africana, la Spagna e la Sicilia sono state conquistate dagli Arabi, che vi hanno introdotto la loro fiorente

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civiltà, ben più evoluta di quella europea del tempo, oltre alle loro istituzioni, nello stesso tempo religiose e civili. In contrapposizione, si sono impegnati a contrastarli da una parte i Bizantini, dall’altro i Carolingi, con resistenza ed impermeabilità delle istituzioni cristiane verso quelle arabe. Ciò non ha impedito però che la Sicilia musulmana abbia portato con sé una sua tradizione specifica – in parte pure giuridica – anche dopo la riconquista cattolica dei Normanni nel sec. XII. A partire proprio da questo secolo la ripresa cristiana ha ribaltato a sua volta la situazione ed ha portato con le Crociate la guerra nella ‘Terra santa’ araba. I conflitti con l’Islam sono durati secoli, anche se affiancati a periodi di relativa convivenza ed a traffici commerciali. Essi non possono essere ignorati nella storia europea, con le gravi crisi intervenute sino alla fine del sec. XVII, che videro anche i Musulmani distruggere l’Impero bizantino (sec. XV) e giungere sino alle porte di Vienna (sec. XVII). La religione islamica rifiutava le immagini. Quella cristiana invece le ammetteva, con forme devozionali a volte anche molto accentuate. Il culto delle immagini prosperava in particolare nelle terre bizantine e rappresentava pure una cospicua risorsa di prestigio, potere e reddito dei monasteri e dei monaci. All’inizio del 700 in Anatolia (cioè nella parte orientale dell’Impero bizantino) si sviluppò un movimento contrario al culto delle immagini che prese il nome di eresia pauliciana e che finì per essere condiviso dalla stessa politica imperiale della Casata degli Isaurici. Essa portò a contrasti profondi nell’ambiente cristiano sia in Oriente che in Italia, per quella che fu detta dalla Chiesa cattolica la eresia iconoclasta (cioè – dal greco – di rottura delle immagini). Islam e Cristianesimo si contrastavano sul piano religioso e politico, ma a volte finirono pure per influenzarsi. Si deve comunque notare che la nostra attuale sensibilità, intrisa sin dal sec. XVIII di valori laici, mal si presta a percepire l’interconnessione esistita per secoli fra religione e politica, fra princìpi religiosi e princìpi sulla convivenza civile. Per secoli nella sensibilità comune una distinzione in proposito fu molto evanescente: ciò è rimasto ad esempio nel mondo islamico, mentre si è invece separato nella civiltà occidentale. La religione ha però avuto un peso decisivo quale ‘collante’ della società sino a quando i ‘valori’ dello Stato moderno non si sono affermati, nel pensiero politico, nella società, nelle diverse componenti della comunità (spesso per gradi di partecipazione e consapevolezza). Solo se si tiene conto di questa considerazione si riesce a percepire la differenza fra l’età contemporanea e quelle passate, fra gli ordinamenti attuali e quelli precedenti, fra il diritto odierno e quello anteriore, anche con riferimento alla diversità fra le istituzioni occidentali e quelle islamiche ancor oggi.

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5. La Chiesa e il dominio pontificio La Chiesa nell’alto medioevo è ormai ben organizzata. Oltre al sistema usuale gerarchico che collega papa, vescovi, presbiteri, diaconi, fedeli, esiste quello dei monasteri, in via di organizzazione in base a singole iniziative, ad esempio grazie alla “regola” benedettina o a quella irlandese di san Colombano. La Chiesa come istituzione guida i suoi ‘fedeli’; viene individuando le regole di vita a questi indicate tramite raccolte scritte compilate da suoi esperti (diritto canonico); svolge però anche un forte ruolo di sostegno alla vita sociale, di fronte alla latitanza di altri poteri. Nelle città italiane scompaginate dalle invasioni e dalle razzie il vescovo è elemento di riferimento e di ordine per la ricerca di un minimo di vita associata, che si preoccupi della riparazione delle mura e della loro custodia, dell’ordine cittadino interno e della vita quotidiana. Le istituzioni ecclesiastiche non sono avulse da quella che oggi si dice la “vita civile”, nel generale appannamento di questa in tali secoli. Accanto alle autorità ecclesiastiche via via operano i titolari delle diverse cariche politiche, spesso costituite dal capo militare locale, si tratti di quello ostrogoto, del duca bizantino o di quello longobardo. Tale capo sovrintende all’ordine interno ed esterno del territorio, fra cui c’è pure – a tutela dell’ordine – la funzione giudiziaria. Non si tratta di un giudice ‘tecnico’, esperto di norme giuridiche. Presso gli Ostrogoti accanto al “comes Gothorum” che giudica i goti siede pure un “prudens” esperto della tradizione romana se in causa c’è un romano. Con i Bizantini è il duca locale a giudicare. Con i Longobardi si tratta del duca (che in un primo momento è il ‘capo dei suoi’ e in un momento successivo è il capo del territorio tutto e quindi ha una competenza territoriale), che però interviene solo se non c’è la faida e se si deve decidere su un guidrigildo controverso. Si tratta di capi politici, che affidano al loro giudizio ‘politico’ (e poco ‘giuridico’) la decisione, in un periodo in cui prevalgono le regole consuetudinarie, ben pochi sanno leggere (e quindi non possono rifarsi a norme scritte), il duello risolve più del ragionamento. Spesso si valuta a livello equitativo; in questi casi, però, la credibilità del giudice è tutto, ed allora spesso le parti preferiscono rivolgersi alla “episcopalis audientia” del vescovo piuttosto che ai capi politici, più abituati alle armi che alla valutazione equitativa. Si tratta di una ‘giustizia’ ben diversa da quella a noi consueta (... posto che il duello possa oggi soddisfarci anche solo come espressione di giustizia). Purtroppo però sovente questo tipo di giudizio – più equitativo che strettamente giuridico – non viene neppure richiesto: spesso si sviluppano infatti vere e proprie guerre private, nelle quali sono coinvolti gruppi considerevoli di persone, con la prevalenza quindi

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del puro uso della forza per risolvere le controversie, contro cui la Chiesa prende spesso posizione. La Chiesa altomedievale svolge la sua funzione religiosa, ma accanto ed oltre essa si impegna in altre attività, che oggi siamo portati a considerare ‘civili’, affidate ad istituzioni diverse. Essa non dovrebbe avere un vero ruolo ‘politico’, ma di fatto se ne occupa per una parte. In effetti, l’ordine politico sulle persone e sul territorio è soprattutto di carattere militare: la Chiesa non giunge a svolgere anche questo, sebbene in alcuni casi contribuisca a realizzarlo. In proposito, in Italia dopo l’invasione longobarda la resistenza bizantina si è a lungo arroccata in Centro-Italia in una linea di castelli o città fortificate, che dall’Esarcato (cioè Romagna e parte delle Marche) giungeva sino a Roma e dintorni facendo perno su Perugia: per circa un secolo e mezzo Papato e Bizantini si sono reciprocamente aiutati nell’opposizione ai Longobardi. Ciò, anche dopo la conversione di questi ultimi al cattolicesimo (per l’impegno della regina Teodolinda) ed i migliorati rapporti fra Roma e Pavia, in specie nel periodo di regno di Liutprando (la cui legislazione risente pure dell’influenza cattolica). I rapporti fra Papato e Impero bizantino si sono guastati e sono divenuti del tutto ostili a partire dai primi decenni dell’VIII secolo e con gli anni immediatamente successivi. Sensibili alle accuse di idolatria mosse al cristianesimo da parte dei fedeli dell’Islam, i pauliciani (una setta eretica di ispirazione gnostica, sviluppatasi in Armenia nel VII secolo il cui fondatore Paul-ik si considerava figlio di S. Paolo di Tarso e depositario dei suoi insegnamenti) intrapresero un’autentica ‘guerra’ al culto delle immagini sacre, ritenute fonte di idolatria. Al movimento pauliciano finì per aderire (anche se le fonti più recenti ridimensionano tale adesione) l’imperatore bizantino Leone III Isaurico (675 ca-741), originario di Germanicea, il quale si ritiene abbia supportato il movimento di condanna e distruzione delle immagini sacre (iconoclastia, dal greco: distruzione delle immagini) ormai molto diffuso nell’Impero. Nel 726, infatti, Leone III, secondo alcune fonti, pare abbia emanato una legislazione che supportava la cosiddetta “eresia iconoclasta” e vietato non solo la produzione ed il commercio delle immagini sacre, ma anche il culto di queste ultime, operando quindi una pesante interferenza nelle questioni religiose. Un’ipotesi di tale orientamento imperiale potrebbe essere ricondotta alle pressioni dei vescovi iconoclasti dell’Asia Minore (primo tra tutti Costantino di Nacolea ) a favore di tale eresia ; inoltre una serie di disastri naturali (ultimo dei quali un devastante maremoto nel mar Egeo) forse avrebbe convinto l’Imperatore che essi fossero dovuti all’ira divina contro la venerazione delle icone. Fu certo un duro colpo per i monasteri, ma pure un attacco anticulturale alle icone ed ai mosaici, che erano stati prodotti e che

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furono distrutti. La “eresia” iconoclasta fu naturalmente condannata dalla Chiesa romana. La lotta non riguardò solo l’Oriente, ma coinvolse pure a fondo l’Italia bizantina, ove le prescrizioni imperiali impegnarono l’esarca di Ravenna. Esse furono però osteggiate con decisione sia dalla Chiesa e dal pontefice sia dalla popolazione locale. A differenza che a Costantinopoli, a Ravenna i famosi mosaici giustinianei non furono distrutti. L’esarca però fu costretto dagli ordini ricevuti a cercare di imporre anche con la forza l’abolizione del culto delle immagini, a cui invece la popolazione – sostenuta, ed un po’ sobillata, dal clero – non voleva rinunciare, specie nei casi in cui alcune icone erano considerate miracolose o particolarmente venerate. L’esarca si trovò impotente: un tentativo di marciare su Roma (contro la resistenza pontificia) d’accordo con il re longobardo Liutprando (a tanto era giunto l’esarca!) si arenò per il disimpegno longobardo; le stesse truppe bizantine reclutate in Italia si rifiutarono di agire contro i renitenti. La ribellione locale e l’incapacità bizantina di domarla fecero sì che l’autorità dell’esarca nelle terre bizantine dell’area romana non fosse più rispettata: in questo vuoto di potere l’unico ad essere seguito fu il papa, che da capo spirituale divenne così anche capo politico. Il territorio laziale si trovò quindi ad essere retto da autorità locali, che agivano per conto del vescovo di Roma. Un’iniziativa longobarda di sovrapporsi ai Bizantini fu poi frenata dallo stesso re Liutprando, che anzi provvide espressamente a ‘donare’ al papa il borgo fortificato di Sutri (con un atto di omaggio verso il capo della Cattolicità, atto considerato in seguito da alcuni di pura incidenza privata, da altri di valore anche pubblicistico, pur essendo palese che all’epoca tali differenziazioni non erano sentite). In questo periodo, comunque, si afferma in un’area alquanto ampia intorno a Roma l’autorità politica dal vescovo di Roma, e non solo quella spirituale. Di fronte alle pretese longobarde del re Astolfo (successore di Liutprando), il pontefice a metà del sec. VIII chiese la protezione del re franco Pipino (714-768) figlio di Carlo Martello e padre di Carlo Magno, prima maggiordomo e poi Re dei Franchi, col cui appoggio respinse la minaccia longobarda (754). La richiesta rivolta a Pipino non era casuale: infatti i Franchi erano la sola popolazione germanica che si era convertita direttamente, al tempo del re Clodoveo (466-511) dal paganesimo al cattolicesimo, senza passare attraverso la fase dell’eresia ariana (come accadde per i Longobardi, ad esempio). Per questa fedeltà al Papato i Franchi non potevano che risultare gli alleati ideali agli occhi del papa Stefano II. È quindi nel sec. VIII, ed in specie verso la metà del secolo, che si afferma definitivamente la posizione del pontefice come capo politico, in un ter-

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ritorio piuttosto vasto intorno a Roma, che si può fare approssimativamente coincidere con il Lazio settentrionale e parte dell’Umbria. Tale condizione durerà, come noto, sino al 1870, quando con la conquista di Roma da parte delle truppe italiane lo Stato pontificio scomparirà per “debellatio”. Esso è durato quindi circa 1000 anni. Per inciso si può ricordare che un minuscolo stato sotto la sovranità del pontefice è stato poi ripristinato in Roma nel 1929 con i “patti lateranensi”, detto “Città del Vaticano”, tuttora esistente.

Alla situazione di fatto maturata nel sec. VIII si cercò di dare una giustificazione documentale: fu perciò ‘costruita’ la “donazione di Costantino”, falso documentario (ma rappresentativo per i contemporanei di una realtà effettiva), che però a lungo fu generalmente considerato a tutti gli effetti valido. Solo nel sec. XV l’umanista Lorenzo Valla ne dimostrò in modo inoppugnabile la falsità 3. Il documento è stato conservato in due versioni, una latina ed una greca, redatte fra i secc. VIII-IX. Si può pensare che non avrebbe tratto in inganno la raffinata cancelleria imperiale bizantina, mentre poteva più facilmente essere accettato in ambiente longobardo o franco, ed anche dell’esarcato. Sino al sec. XV, comunque, fu considerato genuino, inserito in raccolte di norme canoniche, usato ufficialmente dai pontefici almeno a partire dalla metà del sec. XI, riconosciuto valido dall’ambiente imperiale occidentale in momenti di tensione nei secc. XII-XIV. Nel documento si afferma che l’imperatore romano Costantino, guarito dalla lebbra e divenuto cristiano 4, dopo essersi reso conto dell’importanza della carica del successore di Pietro, decideva di riconoscere al pontefice romano tutti gli onori regali e di donargli la città di Roma e le province occidentali e stabiliva di ritirarsi nella nuova città di Costantinopoli 5, in modo che il pontefice potesse agire indisturbato nel suo magistero e nel suo potere sulle terre che gli assegnava. In tal modo, da parte dello stesso imperatore romano, era riconosciuta l’autorità politica del papa su Roma e – tendenzialmente – sull’Italia. La ‘costruzione’ del documento dovette essere opera di ambienti vicini alla curia romana, per legittimare una situazione di fatto, che rischiava di essere cancellata da qualche evento militare o politico. Una prima ipotesi, collegata al 3

Proprio l’approccio umanistico, di ricostruzione genuina delle ‘antichità’ romane, fu quello usato dal Valla (giurista e docente universitario) nell’opera “De falsa credita et ementita Constantini donatione” (1440) per dimostrare la falsità del documento, in base al fatto che alcuni termini e determinate magistrature non potevano essere attribuiti al periodo costantiniano. 4 Anche tali due presupposti sono risultati storicamente molto discutibili … 5 In effetti, è nota la fondazione della nuova capitale dell’Impero da parte di Costantino, di famiglia orientale, al posto della piccola località anteriore di Bisanzio (che però poi coi secoli riprese il suo nome).

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presupposto che la redazione greca sia anteriore 6, pensa alla contrapposizione all’esarca bizantino nel periodo dell’eresia iconoclasta. Una seconda, connessa invece con la precedenza della redazione latina, ipotizza che la compilazione sia avvenuta durante la contrapposizione alla spedizione verso Roma del re longobardo Astolfo, per contestarne sul piano giuridico le pretese e soprattutto per chiedere con fondamento ai Franchi un aiuto militare che contrastasse i Longobardi (come infatti avvenne) 7. Una terza ipotesi si indirizza alla giustificazione dell’iniziativa di papa Stefano II di recarsi a Parigi a consacrare quale re Pipino, usurpatore rispetto ai Merovingi, con la richiesta del suo aiuto contro i Longobardi 8.

Come noto, l’aiuto del re Pipino fu decisivo; sceso a Roma, vi consolidò il dominio pontificio e lasciò nuovamente la zona al papa. L’aiuto franco del 754-56 si rinnovò poi con Carlo (figlio di Pipino) e portò nel Natale dell’anno 800 all’incoronazione di questo in Roma, da parte del papa Leone III, quale imperatore del Sacro Romano Impero. La Chiesa cattolica si inserì ancora di più nelle istituzioni ‘civili’, secondo uno schema già in atto nella monarchia franca.

6. Carlo Magno e il Sacro Romano Impero (S.R.I.) Per volontà del papa e di Carlo Magno tornava in Occidente un impero: era “sacro”, perché appoggiato dalla Chiesa e da questa voluto (con l’incoronazione, legittimante). Era giustificato dall’ampiezza del territorio soggetto: dall’Ebro in Spagna (a fronteggiare l’Islam) all’Elba in Germania (ad espandersi ancora oltre, per cristianizzare popoli pagani). Era logico che 6 Il testo della donazione è conservato in manoscritti, con testo a volte greco ed a volte latino. Si può pensare che la redazione originaria sia stata quella della lingua dell’autorità, a cui il documento voleva essere esibito. Per questo, se il testo greco fosse precedente, sarebbe stato ‘costruito’ per farlo leggere ai Bizantini in Italia (non troppo raffinati, perché altrimenti avrebbero potuto scoprire il falso); se fosse anteriore quello latino sarebbe stato concepito per mostrarlo a chi usava questa lingua, con probabilità Longobardi o Franchi. 7 Per quanto sia meno credibile la precedenza della ‘costruzione’ del testo latino su quello greco, sul piano politico sembra la più giustificabile dal punto di vista logico e politico. 8 In tal caso la falsificazione sarebbe avvenuta per ‘coprire’ da critiche interne all’ambiente di curia o religioso il papa Stefano recatosi poi sino a Parigi ad incoronare il re della nuova dinastia franca per confermarne la legittimazione.

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Carlo fosse “imperatore” cioè “re dei re”: sotto di lui c’erano i suoi familiari re in Italia (sulle spoglie dei Longobardi), in Aquitania, e in altri territori sottomessi a rispettivi re. Ma era anche una contrapposizione al rivale imperatore bizantino, che accusò il colpo inferto dall’incoronazione pontificia di Carlo e solo faticosamente ne accettò la carica. La capitale non fu certo Roma, volutamente pontificia; si spostò, anzi, dalle terre dei Franchi verso la Germania e fu per lo più Aquisgrana, oggi Aachen, verso l’alto Reno: finì con l’essere un impero ancor più tedesco. Carlo cercò di dare un certo assetto territoriale al suo enorme impero, minato peraltro da tendenze centrifughe già durante la sua vita. Il governo locale fu affidato a persone di sua fiducia, nominate da lui in genere a vita, dette conti (circa 400). Ognuno di essi sovrintendeva alla propria contea: non era stipendiato, ma riceveva il reddito diretto di una parte delle terre e di una parte delle composizioni dovute al re e di altri tributi a questo spettanti. Era titolare del potere di comando (“bannum”) nella contea, volto alla conservazione dell’ordine interno, alla difesa verso l’esterno, al sostegno dal territorio verso l’imperatore. Fra questi compiti rientrava naturalmente la giustizia. Il conte poteva poi nominare ufficiali minori sul territorio. In zone ‘difficili’ (come quelle di confine) più contee potevano essere riunite in una marca (o marchesato) sotto un marchese (o margravio), al fine di accrescere il potere locale del delegato imperiale. Per controllare i singoli conti Carlo Magno utilizzò i “missi dominici”, da lui inviati (in genere a coppie, formate per lo più da un altro conte e da un ecclesiastico, spesso un vescovo) periodicamente a verificarne l’operato e a sentire le lamentele della popolazione locale, anche circa la giustizia, nonché a proteggere le istituzioni ecclesiastiche locali e le “miserabiles persone”. I “missi”, inoltre, svolgevano per conto imperiale quanto era necessario in loco, come l’esazione di tributi, la preparazione di campagne militari, l’esecuzione di comandi o istruzioni centrali.

Alle varie esigenze del suo S.R.I. Carlo Magno provvide con un certo numero di “capitularia”, cioè con leggi scritte, che indicano una ripresa del potere legislativo in un periodo nel quale ci si affidava unicamente alla consuetudine ed alla prassi. Il ritorno dei “capitularia”, alcuni dei quali di rilievo, dimostra un’idea nel complesso innovativa dell’organizzazione del territorio; lascia però anche l’impressione che – nonostante l’impegno – si sia trattato di una legislazione che non riuscì ad incidere a fondo, anche per la scarsa recettività locale (nel generale analfabetismo, a cui sembra lo stesso Carlo fosse piuttosto vicino). Il ricorso alla scrittura, indispensabile per reg-

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gere un così vasto territorio, avvenne, ma nel complesso non riuscì ad imporsi, nonostante una certa rifioritura culturale del periodo carolingio. Tra i poteri dell’imperatore c’era quello di comando in generale (“bannum”), che in concreto prendeva diversi aspetti (ma quello naturalmente principale era l’eribanno, cioè la chiamata alle armi); vi si univa l’impegno per la giustizia, che previde il ricorso al re in caso di torti subiti in precedenti giudizi (primo passo verso un certo rozzo appello contro una sentenza) e pure l’avocazione all’imperatore di qualunque controversia, dato che la giustizia suprema era la sua. L’imperatore, inoltre, si arrogava la “tuitio” (tutela) sui deboli e sulla Chiesa: ciò comportava un’impostazione cesaropapista, con interferenze nella vita ecclesiastica e nelle questioni religiose (… al fine di protezione) e fu il presupposto anche di ingerenze successive. La propensione franca alla patrimonializzazione ed alla frammentazione del regno non risparmiò nemmeno il grande impero costruito militarmente da Carlo. Alla sua morte il figlio Ludovico riuscì a non vederlo smembrato solo con lotte continue e cruente. Alla morte di Ludovico i tre discendenti se lo spartirono, ma la carica di imperatore restò sempre in capo ad una sola persona. Il titolare del S.R.I. rimase quindi uno (con eventuali lotte fra i diversi pretendenti) per secoli ed ebbe un potere politico dipendente dalle sue capacità e dalla sua forza militare sino al sec. XIII. Praticamente durante il medioevo la figura dell’imperatore del S.R.I. come capo politico della Cristianità occidentale fu accettata, in specie dai giuristi, per reggere il mondo circa il potere temporale, riservando piuttosto lo spirituale al papa. Il territorio di incidenza effettiva dell’imperatore del S.R.I. fu però solo quello dell’area centrale dell’Europa, dal mare del Nord al Mediterraneo (cioè, verticalmente, dalla Germania all’Italia). Altrove si vennero sviluppando diversi regni, per difendere la cui autonomia fu sostenuto in seguito – anche da giuristi – che “rex in regno suo est imperator”. Nel sec. XVI, poi, la teoria di Jean Bodin sulla sovranità del re di Francia venne a pretendere anche sul piano teorico l’assoluta indipendenza di questo regno dall’impero. La figura dell’imperatore come superiore capo della Cristianità si protrasse comunque a lungo sino all’età moderna, ed il suo prestigio come “re dei re” si rivelò ancora per dirimere controversie fra diversi pretendenti principeschi sino al sec. XVII. Il titolo imperiale restò, peraltro, in età moderna nel Casato degli Asburgo sino al 1806, quando il vittorioso Napoleone (fattosi a sua volta incoronare dal papa a Parigi imperatore dei Francesi nel 1804) impose loro la rinuncia al titolo 9. 9 In fin dei conti sul piano formale ci poteva essere un solo imperatore; ormai, dal punto di vista di Napoleone, questo era lui…

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Il S.R.I. nella concezione carolingia doveva avere una consistenza territoriale, che avrebbe potuto essere simile – ma certo non eguale – a quella che attualmente si attribuisce allo Stato. Ciò in effetti non riuscì a realizzarsi perché il tempo non era né maturo né propizio e fu ben presto travolto dal particolarismo feudale. Nella sua millenaria esistenza il S.R.I. ha presentato un ordinamento originario ma pluralistico: al suo interno si svilupparono ben presto autonomie molto marcate di altre autorità o enti (quali regni, principati, comuni cittadini). Al S.R.I. fu riconosciuta una generale superiorità formale, ma tali enti pretesero – e realizzarono – una propria specie di autogoverno locale, con organi, milizie, politica interna ed estera propri (anche se formalmente non indipendenti ma rispettosi della superiorità imperiale). Tale superiorità teorica generale era infatti in contemporanea coesistenza con le “libertà” delle diverse entità locali, sviluppatesi per consuetudine nelle pieghe di un sistema che si era venuto basando sulle investiture feudali. Una posizione a sé aveva inoltre la Chiesa, per quanto soggetta alla “tuitio” (= tutela) imperiale: la sua autorità, anzi, si venne affiancando a quella del S.R.I. ed a condizionarne il designato anche grazie alla necessità per l’imperatore di essere legittimato nel suo potere tramite l’incoronazione da parte del pontefice. Per secoli il diritto pubblico europeo accettò al suo vertice il S.R.I., ma ne pretese limitato l’esercizio da regole consuetudinarie, in parte fluttuanti nei secoli nonostante quanto era stato riscoperto nei testi giustinianei, per l’esistenza di altre autorità nell’Europa occidentale del tempo. In epoca carolingia e postcarolingia l’organizzazione imperiale è stata affiancata (ed in certo qual senso integrata) da legami personali e concessioni beneficiarie già in uso nella tradizione franco-carolingia. Ciò non avrebbe dovuto di per sé influire sugli uffici pubblici, ed in specie sulle contee, ma in effetti col tempo queste situazioni personali concorrenti contribuirono a minare dall’interno le strutture del S.R.I., indebolite a loro volta dalla concezione patrimoniale del regno franco e dalla sua tradizione di bellicosità e di particolarismo locale, propria dei vari gruppi popolari ed etnici. Sembra quindi necessaria una rapida ricostruzione di questi vincoli personali.

V SOGGEZIONE PERSONALE E RAPPORTI FEUDALI

SOMMARIO: 1. Tradizione secolare di vincoli personali. – 2. Le premesse. – 3. Elementi del feudo. – 4. Modificazioni nell’essenza del feudo. – 5. Il contratto feudale. – 6. Ordinamento feudale. Tipi di feudo.

1. Tradizione secolare di vincoli personali Il rifiuto della soggezione personale di un uomo ad un altro è talmente entrato tra i princìpi della cultura occidentale, che può sembrarci quasi ovvio. Invece in passato non è stato così ovunque. Il vincolo personale, anzi, è stato per secoli alla base dello stesso ordinamento giuridico occidentale, concretizzato nel legame vassallatico e feudale. Solo in seguito alla nota “rivoluzione” francese del luglio 1789 il regime feudale è stato abolito nell’agosto dello stesso anno in Francia e poi via via – ma neppur troppo rapidamente – in Europa e nel mondo. Nell’Europa franca dei secc. VIII-IX il vincolo vassallatico si era sviluppato ed aveva portato ad un certo modello organizzativo imperniato sul legame personale, che si è poi affermato completamente nel successivo ordinamento feudale. Naturalmente, nella sua ampia diffusione (pressoché millenaria nel tempo, ed europea e coloniale nello spazio) questo “sistema” è mutato considerevolmente, pur conservando la sua essenza di soggezione all’ossequio ed alla “fedeltà” di un uomo verso un altro. Ciò ai nostri occhi può sembrare eccessivo, ma così non appariva in secoli in cui la mancanza di ogni protezione pubblica lasciava il singolo in balìa della forza di armati prepotenti ed induceva alla ricerca di qualche “protettore” influente. In età moderna questo vincolo si è appannato e quasi spento nei rapporti feudali tra signore e vassallo (trasformatisi praticamente in amministrativi), ma si è conservato molto spesso in Europa e nelle colonie degli Stati europei

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da parte dei rustici o dei membri delle comunità verso il vassallo investito del feudo, con forme di soggezione personale e di prestazioni individuali o comunitarie (omaggi personali, corvées, decime, taglie, ecc.), che solo la ventata della rivoluzione francese è venuta a spezzare. Il legame personale, persosi ai vertici, è restato quindi ancora a lungo, specie nelle campagne, a vincolare i sottoposti al regime feudale.

2. Le premesse Nell’ambiente latino del tardo-impero, di fronte alla precarietà dell’ordine pubblico, si erano presentate anche forme di protezione del singolo da parte di un “potente”, al quale il primo offriva i suoi beni, con preghiera (“precaria”) di riaverli in concessione a nome del potente, che ‘copriva’ con la sua autorità sia i beni che la persona di chi si era messo sotto la sua protezione. Tali beni venivano tenuti in “precaria” sino a quando la protezione durava (con uno sviluppo abnorme del termine “precario” sino ai nostri giorni). Anche nell’ultimo periodo imperiale, quindi, i legami personali potevano assumere un rilievo, che l’ordinamento di per sé non prevedeva. Parallelamente, esistevano pure già forme di “benefici”. Era il caso dei “milites limitanei” o “ripenses”, ai quali l’Impero concedeva, verso i confini, terre in beneficio, cioè in uso, perché nello sfruttarle e nel difenderle preservassero nello stesso tempo i confini dell’Impero da invasioni. Il “beneficio” quindi era dato in corrispettivo della funzione svolta e durava sino a quando questa era effettuata. Su tale modello, inoltre, si erano sviluppati dai secc. IV-V i “benefici” ecclesiastici, che la Chiesa – divenuta titolare di determinati beni per liberalità di suoi membri – concedeva ai ministri del culto cristiano, perché con tale reddito materiale potessero sostentarsi ed attendere quindi meglio al loro ministero spirituale, con minori preoccupazioni concrete. Durante le invasioni barbariche diverse situazioni possono a modo loro essersi ispirate a questi precedenti. Gli aumentati timori per la sopravvivenza hanno accentuato forme di protezione da parte di personaggi “potenti”, a cui i singoli erano indotti a rivolgersi. Non solo, ma la propensione germanica verso le armi e lo scarso interesse per la coltivazione, nonché lo stesso esempio della “hospitalitas” del tardo Impero, hanno portato – nei casi di minor violenza degli invasori (come nei progetti sia degli Ostrogoti che dei Visigoti) – a forme di mantenimento dei militari da parte dei locali (latifondisti o no) in corrispettivo della preservazione di un certo ordine pubblico. La sfuggente tutela di tale ordine da parte di chi deteneva il potere politico

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rendeva infatti molto preoccupante la sopravvivenza e causava tentativi di generica autotutela, fra i quali si erano con probabilità sviluppate anche forme diverse di soggezione personale a “potenti” al fine di riceverne una anche minima protezione sia fisica che della produzione agricola. Per converso, i capi politico-militari, nel distribuire ai propri militari terre e beni, potevano anche indicare qualche approssimativo accordo con le popolazioni locali perché queste ne coltivassero i fondi, naturalmente con pesanti impegni di consegna del raccolto. A loro volta le tendenze germaniche verso la guerra e l’avventura potevano indurre a vincoli di particolare comunanza di vita bellica ed esistenziale, tali da accomunare più persone in uno stesso destino nella buona come nella cattiva sorte. In specie, i capi pubblici e militari avevano intorno a sé un gruppo di “compagni” votati alla fedeltà sino alla morte, ai quali a loro volta tali capi si sentivano strettamente legati, condividendo il medesimo tipo di vita e mantenendoli presso di sé: erano i “vassi” del re o di un potente, il cui destino era legato al capo. Si è già detto dei gasindi della corte longobarda, dei vassi o “antrustiones” di quella franca, componenti di quella “trustis” nel “palatium” regio, da cui sono emersi i “comites palatini” franchi. A tali uomini di stretta fiducia, pronti ad ogni avventura accanto – e per – il proprio signore, era comprensibile che questo potesse rivolgersi per azioni e compiti delicati (spesso militari), perché il legame fiduciario in tale ambiente era il più elevato e sicuro. Nella Francia del sec. VIII Carlo Martello, maestro di palazzo preoccupato di coagulare intorno a sé stretti legami personali che sostenessero il suo operato, si è giovato di tali tendenze per creare un reticolo di rapporti di “fedeltà”, in capo ad una serie di “vassi” a lui devoti, gratificati dal godimento di immobili spesso requisiti ad enti ecclesiastici. In tal modo questi vassi hanno potuto rafforzare la loro stessa forza militare, formando un consistente gruppo di “milites” a cavallo, che è riuscito a fermare la temuta cavalleria araba a Poitiers; essi con ogni probabilità sono stati pure quelli che in seguito alla scomparsa del re hanno fatto pendere la scelta dell’assemblea a favore di Pipino, figlio di Carlo Martello, cambiando così dinastia. Tali linee di tendenza non sono scomparse, ed anzi sono venute rafforzando la forza militare dell’esercito franco, portandolo alle vittorie ed all’espansione esterna dei tempi di Pipino e Carlo Magno. Il vincolo personale si è consolidato già nei secc. VIII-IX in una specifica cerimonia, a pubblicizzare una situazione che poteva non sempre essere nota e che nella mentalità dell’epoca giovava ad entrambe le persone palesare, perché divenivano in tal modo più temute in conseguenza della loro forza congiunta. In primo luogo il vasso esprimeva l’impegno alla fedeltà in ginoc-

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chio, disarmato ed a mani giunte di fronte al signore, che era in genere seduto regalmente su uno scranno, raccomandandosi così a lui (“commendatio”) per averne protezione. Il signore la manifestava congiungendo le sue mani su quelle del vasso inginocchiato e quindi lo “beneficiava” di una concessione – per lo più di terre – in modo da assicurare al vasso un certo sostentamento e lo “investiva” di esse ponendo la sua spada (o anche solo un bastone) sul capo del vasso, che poi faceva alzare, giungendo in parecchi casi al reciproco abbraccio o scambio del bacio (sulla guancia). Tale cerimonia simbolica si è poi evoluta in vari modi, con espresso giuramento del vasso e con redazione di atti scritti attestanti sia l’avvenimento che la concessione beneficiaria, secondo formule tramandatesi poi nella tradizione cancelleresca e notarile europea.

3. Elementi del feudo Gli elementi che si uniscono nel feudo sono il vassallaggio (o “commendazione”) ed il beneficio, il primo più legato alla tradizione germanica, il secondo maggiormente a quella latina. Il termine “feudum” è alquanto tardo: la sua prima apparizione nota è di fine sec. IX ed indica all’epoca un bene dato in ricompensa. In precedenza si usava per lo più semplicemente l’espressione “beneficium”. In effetti il beneficio è stato poi considerato dalla dottrina giuridica uno degli elementi essenziali del feudo, insieme al vassallaggio (o commendazione). Entrambi erano già in uso da tempo, il beneficio più legato alla tradizione latina, il vassallaggio a quella germanica, come già detto. Il primo riguardava una concessione in uso di terre (o di un’altra fonte di reddito), il secondo si riferiva ad un vincolo personale di una persona verso l’altra. Quando, in un certo contesto storico-militare, ad un vasso è stato concesso un beneficio perché tramite il reddito di questo potesse sostenersi economicamente per aiutare il proprio signore in guerra si può pensare che sia emerso un nuovo istituto, il feudo, nel complesso diverso da quanto esisteva prima; esso ha avuto molta fortuna nel tempo, ma è anche mutato nel corso dei secoli. Esistevano già da molto tempo forme di dipendenza personale non unite a concessioni beneficiarie, e parallelamente esistevano terre concesse senza vincoli personali. In epoca carolingia avviene la fusione e la ricostruzione successiva parla allora di feudo. Si può dire che si sia trattato di un fenomeno partito dalle esigenze concrete, senza alcun progetto organico: la necessità di avere elementi di fiducia, pronti a battersi militarmente col proprio signore, nello stesso tempo economicamente sostenuti da suoi beni perché all’occorrenza fossero validamente armati, ha portato ad estendere i vassi ed

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a dotarli di benefici per averli pronti alla battaglia ed al servizio. In questo momento si può dire che alcuni elementi preesistenti in modo fra loro autonomo finiscono per essere sfruttati insieme e fusi, a costruire il feudo, in un ambiente che ignora lo scritto, vive sulla parola data e sul giuramento, si basa sulla tradizione e sulla consuetudine. In tale contesto, la documentazione delle singole situazioni si perde, e gli stessi comportamenti possono nel tempo subire modificazioni fors’anche impercettibili ma progressive e rilevanti, che nell’arco degli anni portano alla modificazione stessa delle regole consuetudinarie ed a plasmarle via via secondo le esigenze prevalenti nella società dell’epoca. Ciò spiega perché, se il feudo come istituto è in pratica millenario, esso è venuto notevolmente cambiando nel tempo e nello spazio in numerosi suoi aspetti, finendo così col presentarne via via anche di profondamente diversi, persino rispetto ai suoi stessi concetti ispiratori. Le terre concesse dal re erano spesso demaniali, o perché direttamente del re o perché già da questo destinate a suo tempo ad enti ecclesiastici (monasteri e vescovadi) ed in seguito ‘girate’ a propri vassi: tali terre demaniali in parecchi casi avevano un regime particolare di “immunità” da tributi o controlli degli inviati o dei funzionari del re, che trovavano una loro antica giustificazione nella lontana tradizione imperiale romana dei beni demaniali. L’investito di tali beni intese che essi passassero a lui nella stessa situazione reale in cui si trovavano prima, e si considerò quindi investito di beni “immuni” da intromissioni di controlli regi, che riguardavano in genere tre aspetti, cioè l’“introitus” (il diritto degli inviati del re di entrare in tali terre per eseguirvi controlli, comandi o provvedimenti regi), l’“exactio” (cioè la riscossione di tributi regi) e la “districtio” (cioè l’amministrazione della giustizia). Il vasso, d’altronde, godeva – in quanto suo “uomo” – della diretta fiducia del re (o signore), che lo aveva gratificato con questo “beneficio”: era più che comprensibile che si considerasse direttamente investito a rappresentarlo nelle terre ottenute, e che quindi volesse escludere ogni altra ingerenza che non fosse la propria. In base a tale impostazione, favorita dalla progressiva debolezza della Corona nei confronti dei vassi, si può quindi comprendere che questi si considerassero gli esclusivi rappresentanti del re nelle terre avute in concessione, sia che queste fossero originariamente demaniali sia che non lo fossero, in un ambiente prettamente regolato dalla consuetudine e dalla forza, in cui quindi la fluttuazione delle pretese era frequente e dipendeva in buona parte dal prestigio militare e sociale del vasso. In definitiva, a questo riuscì per lo più di escludere – comunque – altre persone dalle sue terre, divenute quindi a tutti gli effetti “immuni”: è la cosiddetta immunità negativa (perché nega intromissioni altrui). Da questa si

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passò facilmente, sempre in via consuetudinaria, a quella “positiva”, perché – esclusi altri – fu lo stesso vasso concessionario ad esercitare in tali terre ogni potere, tanto di ordine e comando quanto di imposizione tributaria e di giustizia, perché in loco personaggio di maggior prestigio e forza, oltre che investito dal re. In questo modo si rivelò quindi titolare di quel “potere di banno”, che all’epoca era riconosciuto a chi era a capo di un certo territorio, senza grandi distinzioni fra la sfera pubblicistica e quella privatistica. Si realizzarono pure riconoscimenti generali (in specie ad enti ecclesiastici, particolarmente monasteri) di immunità per tutti i beni posseduti, quindi anche per quelli tenuti a titolo che oggi diremmo privato: in tal modo l’immunità copriva e legittimava sul piano giuridico – anche verso i sottoposti – il potere economico acquisito nel corso del tempo da quel certo soggetto (o ente) senza distinzione fra le modalità di acquisizione dei beni, in parecchi casi difficili da dimostrare in un ambiente poco portato alla documentazione scritta, basato invece sulla consuetudine. Quest’ultima situazione si riferiva anche – persino al di fuori dei legami feudali – a quei “potentes”, che in modo autonomo si imposero fra i secc. IX-X in vari territori dell’Europa postcarolingia tormentati dalle invasioni ungare, normanne e saracene, nei quali venne sia sviluppandosi quel particolaristico fenomeno dell’“incastellamento” 1 sia consolidandosi di fatto un potere territoriale di signori locali 2. È quella che l’attuale storiografia identifica nella cosiddetta “signoria di banno”, parallela ed autonoma rispetto a quella dei vassi, ma in definitiva sviluppatasi sulle spoglie del sistema carolingio, per essere poi col tempo inglobata nello stesso ordine feudale, quando tali signori finirono col veder riconosciute da apposite investiture imperiali, regie o vescovili il potere da loro esercitato di fatto sulle terre che erano già da 1

La recente storiografia ha sottolineato la tendenza, in questo travagliato periodo, alla costruzione di castelli e luoghi fortificati di difesa da razzie e predoni: un ‘potente’ locale vi si arrocca coi suoi uomini (e le famiglie a lui sottomesse) e crea così non solo uno strumento di difesa per sé ed i suoi, ma fonda pure un centro di potere dal quale può controllare un’intera zona. In tal modo si presenta, oltre ogni eventuale ulteriore legittimazione formale, quale ‘signore’ di quella zona, a cui gli abitanti – volenti o nolenti – devono sottostare. Ciò, naturalmente, può causare lotte e guerre private con altri analoghi ‘signori’ concorrenti o vicini, ma vede emergere dal basso autonomi centri di potere, senza connessioni con le istituzioni formali del tempo. 2 Potevano già esistere ‘potentes’ locali, con ascendente sulla popolazione di una zona: nel vuoto di potere dell’epoca, essi si rivelavano i soli a garantire un certo ordine (… il ‘loro’) all’interno e contro l’esterno: potevano ‘incastellarsi’ o no (… ma molti lo hanno fatto), ma erano coloro che controllavano – magari con accese lotte e guerre locali – quella certa zona. Il fenomeno è attestato in varie parti d’Europa.

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loro controllate. In tal modo un potere di fatto sviluppatosi fuori – se non contro – il sistema politico dell’epoca ha finito con l’essere inglobato in esso, perché i titolari di questo – alla ricerca di appoggi locali – sono stati via via indotti a coinvolgere fra i propri fautori (o “fideles”, più o meno fedeli …) signori locali militarmente temibili. L’immunità non è di per sé un vero elemento del feudo: ne è in genere una conseguenza, che difende il potere del signore locale verso l’alto (“immunità negativa”), ma nello stesso tempo lo fa riconoscere verso il basso come il capo territoriale: in tal modo egli si impone ai sudditi con una serie spesso lunga (ed oppressiva) di poteri e di pretese, che per molti secoli saranno quelli che verranno caratterizzando il dominio feudale (“immunità positiva”). Dall’“immunità negativa” si sviluppa quindi un fascio di poteri del feudatario verso i sottoposti (“immunità positiva”), che dal basso medioevo in poi saranno quelli che lo caratterizzeranno sino alla fine dell’età moderna. Sono poteri variabili, tra i quali si possono ricordare quello del governo locale, di garanzia dell’ordine interno e della giustizia (almeno di primo grado), di imposizione di tributi e di prestazioni personali (corvées), di sfruttamento di determinati beni (pascoli, boschi, acque) o manufatti (come ponti, mulini o forni). La rinnovata scienza giuridica basso-medievale ha parlato quindi di una suddivisione di quello che era stato il “dominium” romano unitario: al signore concedente spetta il “dominium eminens” (o “directum”, perché tutelato processualmente con un’“actio directa” in giudizio) riguardante una superiorità feudale spesso più teorica che effettiva, che comprende alcuni specifici diritti ma tende ad appannarsi sempre più nella figura del “souzerain” di tradizione francese, che non è il “sovrano” pieno (= “souverain”). Il concessionario è titolare a sua volta di un “dominium utile” (tutelato processualmente da una “actio utilis” davanti al giudice), che investe in pratica lo sfruttamento materiale del bene, pur restandone la titolarità eminente in capo al “senior”. Quest’ultimo ha diritto agli atti ricognitivi della proprietà ad ogni cambiamento di persona (concedente e/o concessionario) ed agli atti di omaggio e di conseguenti contribuzioni tributarie, ma oltre non va: il dominio effettivo è ormai del concessionario. Tale situazione si protrarrà per secoli, sino alla fine del regime feudale. Questo in età moderna vincolerà al principe i diversi feudatari su un piano che sarà nel complesso amministrativo (salvo casi marginali di particolari tensioni) e rivestirà un suo pesante significato vincolante – e spesso oppressivo – solo verso il basso, cioè nei confronti dei rustici e dei sudditi del feudatario locale. Il vincolo feudale quindi, se in periodo medievale presenta le sue caratteristiche principali nei rapporti fra signore-concedente e vassallo-

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concessionario, in età moderna vede ridursi il rilievo di questo legame (inizialmente di soggezione, poi via via più sfumato) ed emergere soprattutto la superiorità del vassallo nei confronti dei “rustici” ad esso soggetti (e della conseguente comunità), sulla base di vincoli personali perduranti ancora in Europa nel sec. XVIII, anche se con intensità e rilievo diversi nelle diverse terre del continente (ad es. meno marcati nell’Italia centro-settentrionale, più forti in Austria, Germania e Spagna). Sarà nei confronti di questa situazione che si leveranno prima gli strali di alcuni intellettuali illuministi, soprattutto in Francia, e poi la famosa rivoluzione del 1789, che spazzerà via – anche se gradatamente – il sistema.

4. Modificazioni nell’essenza del feudo Il legame feudale doveva vincolare il vasso concessionario al “senior” concedente per le azioni belliche e per altri eventuali impegni. Di per sé, dato che all’origine del rapporto stava una fiducia personale, poteva apparire consequenziale che con il cambiamento della “fides” – in specie con la morte di una delle parti – il beneficio ritornasse al concedente, che ne avrebbe disposto ex novo a favore di un suo “fedele”. Il figlio poteva ben avere rapporti diversi da quelli del padre. In effetti, invece, ciò non è stato frequente, perché il progressivo radicamento del vasso e dei suoi familiari nelle terre del beneficio e le difficoltà di sostituirli dal centro con un altro “commendato” hanno per lo più portato il figlio (o altro successore) a subentrare nello stesso tipo di rapporto del padre, anche se i legami personali potevano essere meno intensi fra le nuove persone, con il giuramento di proseguire nella stessa “fedeltà” del predecessore. D’altronde, la crisi del sistema di governo carolingio, ben presto manifestatasi, non consentiva di poter imporre con facilità dal centro un diverso titolare del beneficio a suo tempo concesso: ne conseguì una frequente prosecuzione di un familiare del vasso precedente piuttosto che un cambiamento radicale, col solo vincolo per lui di subentrare completamente negli obblighi anteriori. Restava però pur sempre la possibilità di sostituzione, a discrezione del concedente (e posto che avesse la forza di imporre un altro concessionario). L’aspirazione dei vassi di evitare quest’ipotesi riuscì di fatto a realizzarsi quasi sempre: trovò addirittura un espresso riconoscimento imperiale nell’877 da parte di Carlo il Calvo, in uno dei rari capitolari del tempo. Questo imperatore, per dare garanzie ai vassi da lui convocati per una spedizione militare, prima di partire per essa, a Quierzy-sur-Oise, si impegnò a conservare al figlio il beneficio o la carica del padre, che fosse morto in guerra con lui. Era

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un provvedimento di per sé contingente, comprensibile da parte di un capo militare debole per attirare a sé gli incerti e spronarli al combattimento, ma anche per attestare che l’imperatore non poteva dimenticare chi si era sacrificato per lui e lo riconosceva nella persona del figlio. Questo caso particolare, riconosciuto per iscritto nel capitolare di Quiercy (o “Carisiacum”), ha consentito ad un gruppo potente come quello dei vassi di estendere in modo notevole per prassi consuetudinaria la specifica previsione scritta e di considerare sancita l’ereditarietà per tutti i feudi “maggiori”, cioè quelli concessi direttamente dal re (“maggiori” non per l’entità del beneficio, ma per la qualità della concessione, più prestigiosa perché di provenienza regia), purché il figlio del vasso morto si impegnasse allo stesso “omaggio” ed alle stesse prestazioni del padre. Il figlio non era certo il padre, ma i riflettori erano puntati ormai più sull’oggetto che sulla persona (cioè più sulle prestazioni che sul vincolo fiduciario o personale) e quindi si poteva sostenere che negli usi del tempo la discrezionalità del concedente nello scegliersi i suoi “fideles” si era via via persa. In nemmeno un secolo la situazione di fatto era venuta rovesciando quella che era la base concettuale, ma in un ambiente, in cui effettività e consuetudine prevalevano, il tempo e le situazioni di fatto erano decisive (anche per il formarsi del diritto dell’epoca). In seguito questa tendenza si accentuò ancora. A poco più di un secolo e mezzo di distanza dal già ricordato riconoscimento dell’ereditarietà dei feudi maggiori (877), nel 1037 l’imperatore Corrado II il Salico lo estese a tutti i feudi (anche ai “minori”, cioè a quelli subinfeudati) con l’“edictum de beneficiis” (o “constitutio de feudis”). In base ad esso si riconobbe l’ereditarietà per ogni tipo di feudo, e nella sostanza l’irrevocabilità della concessione, salvo che in caso di “certa et convicta culpa” da parte dell’investito. La situazione di fatto esistente non era ormai molto dissimile da questa, ma l’espressa affermazione scritta imperiale ne corroborò la rilevanza 3. L’ordinamento feudale si consolidava. Il vassallo poteva perdere il feudo solo in seguito a precise gravi mancanze (identificate dagli usi feudali, come la fellonia o la ribellione al signore), giudicate ed accertate da una “curia” (cioè riunione giudiziaria) dei suoi pari, cioè degli altri investiti dallo stesso signore 4. Il feudo 3 La concessione imperiale, in effetti, tendeva pure a ridurre il potere dei feudali maggiori (ormai sicuri dell’ereditarietà), che sino ad allora potevano invece comportarsi come volevano nei confronti dei propri feudatari (sub-infeudati da loro). In tal modo questo riconoscimento generale equiparava nelle aspettative tutti i feudali, maggiori e minori, dando garanzie a questi ultimi verso i feudali maggiori. 4 Da un lato per spirito di corpo i pari potevano parteggiare per il vasso-collega (pensando anche che la prossima volta poteva toccare pure a loro di essere accusati …),

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era così considerato trasmissibile (in genere ereditariamente, ma pure altrimenti) e perdeva pertanto gran parte di quel significato “personale” di legame fra il “signore” e il vassallo.

5. Il contratto feudale Il “senior” conservava il suo potere di superiore, riconosciuto con l’omaggio ed il giuramento di fedeltà del vasso, che aveva pur sempre una sua importanza, in una società in cui il giuramento (davanti a Dio) impegnava seriamente la persona. In tale occasione il vassallo manifestava in genere la sua fedeltà con una prestazione (per lo più in denaro), rinnovata ad ogni cambiamento di titolare del rapporto feudale. Il vassallo aveva nei confronti del signore obblighi determinati dagli usi feudali (si viveva in un ambiente consuetudinario …), che si potevano sintetizzare nell’“auxilium et consilium” dovuto al signore, ad ogni sua richiesta. L’“ausilio” consisteva nell’impegno militare (e comprendeva pure il peso materiale e finanziario per mantenere gli armati, ma anche per dotare le figlie o riscattare il signore prigioniero). Il “consiglio” si materializzava nel prestare ogni consulenza al proprio “dominus” e consisteva per lo più nel partecipare alle riunioni indette dal signore (in genere si trattava della “curia” signorile, che si esprimeva sulla giustizia locale, ma c’erano pure convocazioni varie per prendere decisioni politiche collettive). In tal modo il vassallo dimostrava la sua fedeltà e non poteva essere privato del feudo se non dopo un giudizio di colpevolezza emesso dalla “curia” dei propri pari convocata in contraddittorio dal signore. Alla sua morte il feudo passava agli eredi, con modalità diverse a seconda dei tipi di feudo, secondo gli usi. Per alcuni di questi era pure ammessa l’alienabilità del feudo, purché il nuovo titolare assolvesse agli stessi obblighi del predecessore e ricevesse l’investitura (e quindi il gradimento) del signore, con ciò subentrando del tutto all’alienante e versando per lo più al signore una somma di “ricognizione”. Il feudo era ormai divenuto un vero e proprio contratto, per quanto con regole proprie (spesso variabili a seconda dei tipi di feudo, delle epoche e dei territori). Se conservava ancora qualche aspetto della “fedeltà” primitiva, si era via via ridotto il significato del vincolo personale tra “sedall’altro ogni vasso era obbligato all’“obsequium” ed al “consilium” verso il signore e quindi era tenuto a sostenerne le ragioni nella riunione della “curia”. La valutazione poteva quindi presentarsi in teoria equilibrata (le ragioni concrete e le situazioni di forza e di fatto, poi, potevano incidere in modo diverso …).

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nior” e vasso, tanto da spostare le valutazioni da un ambito fiduciario e morale ad uno più propriamente patrimoniale e giuridico, nel quale le controversie furono per secoli intense e numerose, basate sulle consuetudini via via consolidatesi (e, col tempo, pure sulla precisa documentazione scritta delle investiture concesse). Tali consuetudini sviluppatesi nell’Italia centro-settentrionale furono ad un certo punto riunite in una raccolta che prese il nome di “Libri feudorum” e fu inserita poi dai giuristi italiani al termine del “corpus iuris” giustinianeo 5. In tal modo la fluttuazione consuetudinaria subì un arresto (ma certo non una conclusione) e fu più semplice districarsi fra gli usi feudali della nostra penisola. Ciò favorì, anzi, una certa loro utilizzazione anche oltre le Alpi, sebbene le consuetudini non fossero sempre omogenee con le terre transalpine, ed anzi si può dire che oltralpe la tradizione feudale si sia conservata in modo più diffuso e radicato (per l’atrofia del fermento comunale successivo) e pure più vicino a certi princìpi originari del feudo (come si dirà per il cosiddetto “feudo di tradizione franca”). Il contratto feudale fu un modello molto usato nel medioevo. Esso divenne usuale almeno dal sec. X e fu utilizzato – contro le origini consuetudinarie – in forma scritta per documentare le investiture concesse dai vari principi e signori, secondo formule diffusesi presso i notai e le cancellerie del tempo. Tale contratto, con contenuti politico-giurisdizionali, proseguì nei secoli successivi. Fu utilizzato pure (almeno a partire dal sec. XI) addirittura per attestare in forma scritta concessioni meramente agricole di terre: per quanto nella forma notarile queste risultino come “feudi”, non devono essere però assolutamente confuse con le “vere” investiture feudali di poteri immunitari (per lo più con poteri d’ordine, di comando o di giurisdizione) ad un vassallo. La diffusione del feudo e del contratto feudale nel basso medioevo continuò in periodo ‘comunale’, tanto che gli stessi comuni lo utilizzarono ampiamente nella loro espansione politico-territoriale. Esso venne però modificando ulteriormente alcune caratteristiche, sul piano dei vincoli personali riducendo quelli fra concedente e concessionario ma conservando per lo più ancora in età moderna – pur con alcuni temperamenti – quelli fra il vassallo-concessionario ed i soggetti sottoposti al suo potere di comando, di banno, di giurisdizione. Infine, si deve far notare che appare oggi piuttosto antistorica (specie per i secoli anteriori al Mille) una ricostruzione dell’epoca postcarolingia secondo una rigida “piramide” di investiture feudali che scende dall’imperatore o dai re ai vassi maggiori (o “in capite”, perché investiti “sul loro capo” dalla maggiore autorità), da questi vassi ai valvassori, da questi ultimi ai valvassini, 5

Di esso si parlerà nel futuro capitolo, § 3.

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e così via. Una tale ricostruzione della “età” o del “sistema” feudale, effettuata nel sec. XIX dalla storiografia tedesca, sembra attualmente troppo rigida, poiché “feudalizza” in un sistema compiuto una realtà in movimento, nella quale non tutto era ricompreso secondo questo semplificatorio schema gerarchico. Non tutto il territorio del S.R.I. era inquadrato in questo rigido “sistema”: numerose erano le zone con signorie di fatto estranee a questa cascata di infeudazioni dall’alto; non poche inoltre erano le terre non infeudate, ed in corrispondenza – specie in Italia – le persone “libere” nelle città e nelle campagne. La società non era tutta “feudale” ed ordinata secondo legami – più o meno stretti – di carattere personale. Ciò non impedisce però di prendere atto che – se non è esistito un vero e proprio “sistema feudale” – la pratica delle investiture feudali e dei vincoli personali è però quella che negli usi del tempo ha caratterizzato il periodo postcarolingio: questo è l’aspetto più significativo, che anche dal punto di vista giuridico merita ricordare e che porta a parlare di periodo feudale. Esso avrebbe dovuto, nelle primitive intenzioni, rafforzare tramite i vincoli personali le deleghe di potere locale affidate dal limitato apparato centrale agli inviati nelle zone periferiche, in specie conti e marchesi. In effetti, si è prodotto il risultato opposto: di fronte alla debolezza del potere centrale postcarolingio, gli ufficiali periferici – per lo più vassi – hanno finito con l’interpretare nel corso del tempo il potere locale loro affidato dal centro in modo autonomo, finendo col dare un significato più di facciata che effettivo alla concessione dei “benefici” loro affidati, acuendo pertanto la crisi dello stesso impero carolingio, spezzettato ben presto in tanti particolarismi locali, ulteriormente diversificati fra loro. Inoltre, non sono stati infrequenti i casi di signorie (“di banno”) affermatesi di fatto e con la forza, nella debolezza del potere pubblico del tempo, signorie che hanno poi finito con l’essere legittimate – in un modo o nell’altro – da una qualche investitura feudale ottenuta da un principe o un “superior”, in tal modo inserendosi col tempo nello stesso ordinamento feudale. Si deve sottolineare, infine, che per secoli l’ambiente feudale è stato retto da un complesso di regole consuetudinarie, solo straordinariamente affiancate da norme scritte (come ad es. il capitolare di Quierzy, ma – come si è visto – esso stesso “interpretato” ed esteso per prassi consuetudinaria ben oltre il suo preciso dettato). Ciò ne ha facilitato l’evoluzione (e pure una certa differenziazione fra zona e zona), ma anche l’aderenza ai cambiamenti della vita sociale. Naturalmente, ne è derivata pure una difficoltà di accertamento, nonostante l’esistenza di alcuni esperti in materia: i gruppi o gli elementi più forti o insistenti possono essere riusciti quindi a far sentire meglio le proprie esigenze ed i loro interessi, portando nel tempo a quelle modificazioni progressive, che hanno mutato del feudo – istituto di per sé consuetudinario –

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numerosi aspetti. Può essere di un certo interesse esaminare alcune vicende, proprio per avvicinarsi – in un periodo come il nostro, retto ormai da una rigida normativa scritta – ad un istituto plasmato dagli usi (per quanto nel sec. XIII in buona parte consolidati poi anch’essi in forma scritta) e quindi con caratteristiche più “mobili”, a differenza dei nostri attuali.

6. Ordinamento feudale. Tipi di feudo A cavallo del millennio (ed ancora in seguito) la società europea risulta divisa in varie categorie sociali: fra tutte è preminente quella dei “milites”, cioè di coloro che sono stati educati alla guerra sin dall’infanzia e portano legittimamente le armi. Essi si impongono agli altri con la loro forza e fanno della vita militare il fine della propria esistenza: sembrano quindi indotti a dar rilievo più alla vigoria fisica ed alla guerra che alla ragione ed al diritto. Sono coloro che di fatto comandano e si impongono ai contemporanei. In questo ambiente militare le disquisizioni giuridiche in genere fanno poca presa: ragione e torto sono affidati soprattutto alle armi (ed al massimo alle consuetudini di vita vissuta). In questa società sono venute delineandosi stratificazioni diverse, che si ispirano all’ordinamento feudale: i “principes” in vetta, poi gradatamente i vari “seniores” (capitanei, valvassori, valvassini, signori), con titoli diversi. Costoro, salva la fedeltà al loro signore, possono a loro volta sub-infeudare il beneficio avuto (che può subire pure ulteriori sub-infeudazioni). Tale diffusa tendenza porta ad una polverizzazione degli stessi rapporti feudali, perché il vincolo costituito dal contratto feudale vale fra i due contraenti ma non si estende – né discende o sale – oltre: “il signore del mio signore non è mio signore”, dato che “il vassallo di un mio vassallo non è mio vassallo”. Ne consegue che ben presto questa pluralità di rapporti feudali non produce solo un esteso ed acceso particolarismo (derivante da ogni contratto beneficiario), ma genera praticamente una paralisi nel sistema, coi suoi diversi livelli di feudi non sempre fra loro omogenei.

TIPI DI FEUDO La distinzione fra i diversi tipi di feudo disciplinati nella raccolta di consuetudini feudali usate in Italia (“Libri feudorum”) è giunta a contarne 44, sintetizzati in un noto “arbor feudorum”, che ha avuto anche una buona fortuna editoriale. Fra le distinzioni più frequenti si possono ricordare quelle fra: ecclesiastico (2) e secolare (3), nobile (6) e ignobile (9), trasmissibile in via solo maschile (14) o anche femminile (15), ligio (23) e non (24), divisibile (27) e indivi-

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sibile (28), franco (31) e non (32). Tali distinzioni, già ben presenti alla prassi ed alla dottrina del sec. XIII, restano sino alla fine del sistema feudale, cioè del sec. XVIII.

L’ordinamento feudale è quello che caratterizza il tempo, ma nel suo interno è venuto a presentarsi con variabili e differenziazioni: l’estesa diffusione in Europa e la lunga durata nel tempo, ma soprattutto la regolamentazione consuetudinaria, connessa con le modificazioni derivanti dall’evoluzione sociale, militare ed economica, ne hanno favorito uno sviluppo non omoge-

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neo. I tipi di feudo sono quindi numerosi e fra loro diversi. La raccolta delle consuetudini feudali usate in Italia, detta “Libri feudorum”, ne annovera 44. Le categorie sono peraltro costruite “ex post” dalla dottrina, poiché il feudo si sviluppa nella pratica senza dipendere da alcuna regola preconcetta … e quindi può smentire ogni previsione. Presupposto del feudo sembra il servizio militare da prestare al “senior”: logico che si richieda all’investito di essere un “miles”. Questa è la regola. Ma c’è l’eccezione: per l’ecclesiastico e la donna, che non vanno in guerra (il primo per divieto giuridico, la seconda per motivi fisici). A tali persone il feudo non potrebbe essere dato (in mancanza della capacità a riceverlo, detta “manus feudi”). Esistono invece feudi egualmente loro concessi, in certe specifiche circostanze o zone europee: è sufficiente che il servizio militare sia prestato da un loro rappresentante, detto sovente “advocatus” (nei feudi femminili è spesso il marito dell’infeudata) 6, che presta questo e gli altri servizi feudali dovuti per il beneficio (giustizia penale, fiscalità, comando delle milizie, ordine pubblico, ecc.). Il feudo non è noto ai Longobardi. Emerge nella tradizione franca e viene poi diffuso nell’Italia centro-settentrionale in periodo postcarolingio, con un contenuto maggiormente patrimoniale: è il feudo della tradizione italica (“iure Langobardorum”, cioè secondo gli usi della “Langobardia”, termine con cui si denomina l’Italia centro-settentrionale), è divisibile fra tutti i figli maschi dell’investito (che ne assolvono gli obblighi insieme, in consorzio), ereditabile anche dalla figlia in mancanza di figli, alienabile purché l’acquirente subentri in tutti gli obblighi esistenti. È una particolarità rispetto alla consuetudine transalpina, “iure Francorum”, ove il feudo è indivisibile e trasmesso in genere per primogenitura, escluso alla donna, inalienabile. La tradizione francese sembra più ‘pura’, e si tramanda – oltre che in Inghilterra – anche in Italia nei feudi istituiti nell’Italia meridionale dai Normanni (non per nulla provenienti dalla Normandia francese) ed in seguito (sec. XIII) dagli Angioini. Nella penisola, quindi, finiscono col convivere due diverse tradizioni feudali, quella centrosettentrionale più patrimoniale e quella meridionale meno distante dai tratti originari, meno parcellizzata e più controllata dal signore concedente. 6

Il termine “advocatus” nell’alto medioevo indica in genere un rappresentante, come in questo caso (o anche il “campione”, che si batte per una persona nel duello). Con la rinascita giuridica dei secc. XI-XII e con l’affermarsi del processo giudiziario con partecipazione di giuristi per accertare le ragioni delle parti, “advocatus” è il giurista che rappresenta la persona nel giudizio per sostenere le sue ragioni. È da tale periodo che assume quindi il significato ‘tecnico’, che ha tuttora.

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Il vassallo dev’essere fedele al suo signore; può però accadere che abbia ricevuto un beneficio da un signore ed un altro da un altro. A chi dovrà essere più fedele, specie se essi saranno fra loro in guerra? Di per sé ciò non avrebbe dovuto succedere, perché la fedeltà ad un signore ne escludeva una seconda ad un altro; ma nella progressiva patrimonializzazione del contratto feudale e nell’appannamento dei caratteri originari non era impossibile. La prassi ha portato quindi alla realizzazione del feudo “ligio”, il cui vincolo di fedeltà era così forte da imporre al vassallo di andare contro chiunque (salvo l’imperatore), anche contro i propri parenti. Naturalmente, non si poteva però essere uomo “ligio” che di un solo “senior”. In quest’ordinamento feudale i vincoli col signore concedente si sono per lo più venuti col tempo riducendo (ed ancor più nelle signorie ecclesiastiche): il vassallo finiva spesso per sentirsi il vero titolare del beneficio (per cui i giuristi conieranno la tipologia del “dominium utile”). Al concedente restavano nella prassi alcuni sbiaditi diritti di superiorità eminente (a cui i giuristi riferiranno il cosiddetto “dominium eminens” o “directum”). La consuetudine, basilare per il plasmarsi degli istituti feudali, considerava sempre più appannati i diritti del concedente, dall’imperatore agli altri principi e signori. Ciò finì col ridurre sempre più i legami non solo personali ma anche patrimoniali dell’infeudato col proprio “superior” e col far considerare il beneficio a disposizione del vassallo, previa la generica dichiarazione di riconoscersene investito e di prestare il fodro imperiale ed alcuni altri “onori” (tra cui quelli – spesso patrimoniali – dovuti ad ogni mutamento di titolarità del feudo). In definitiva la superiorità era più apparente che reale e il vassallo si considerava ben più che nel pieno possesso del feudo. Da tale posizione egli faceva ampiamente sentire il suo potere sui sottoposti e sulle loro comunità, tanto patrimoniale (con imposizione di bannalità e corvées) e giuridico (con diritti signorili, tributari e personali a volte limitativi della stessa libertà individuale) quanto di comando (con propri delegati a dirigere le comunità) e giurisdizionale (con amministrazione della giustizia nei confronti dei sottoposti). Il feudo in tal modo è venuto nel corso dei secoli a vincolare non tanto al signore il vassallo quanto al vassallo i singoli individui da lui dipendenti – personalmente o territorialmente – a lungo ancora tenuti (sino alla fine del sec. XVIII) al giuramento di fedeltà col cambiamento di ogni feudatario locale. Nel medioevo questi vincoli potevano essere anche diversificati a seconda dei soggetti e del loro “status” personale, ma finirono per lo più col consolidarsi con contenuto territoriale in capo alle diverse comunità, tramite una progressiva evoluzione da personali a territoriali (per tale modifica poté giocare anche un certo ruolo l’omogeneità locale della cosiddetta “consue-

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tudo fundi”, sul quale erano stanziati i diversi rustici). Tra medioevo ed età moderna le varie regole locali vengono poi a prendere una forma scritta, sia nelle carte di franchigia (o di “libertà”) delle singole comunità rurali, sia nei più completi statuti comunali (in genere concessi dal feudatario dietro versamento di contribuzioni pecuniarie, sulla base di un testo predisposto da delegati, a volte del signore stesso, a volte della comunità). L’istituto feudale prosegue a lungo, per tutta l’età moderna, ed è alla base dell’organizzazione delle diverse comunità rurali, ciascuna soggetta – con i suoi componenti – ad un certo feudatario, il quale ne è investito dal principe che ha il potere politico sul territorio. Tale feudo è, senza dubbio, molto diverso da quello carolingio e postcarolingio. Nella sua pressoché millenaria esistenza la disciplina più consuetudinaria che scritta (sebbene col tempo la forma scritta – dello stesso contratto feudale – sia venuta ad avere la sua incidenza) ne ha permesso considerevoli cambiamenti, tanto nel tempo quanto nello spazio. Pur nella mutevolezza, l’essenza è stata quella della soggezione personale (per lo più giurata) ad un “signore”: ciò non è stato certo irrilevante anche dal punto giuridico, in questo lungo lasso di tempo, anche se ha coinvolto solo una parte della popolazione, almeno in un ossequioso rispetto nei confronti del signore. Questa resta a lungo, nel complesso, la situazione delle campagne, mentre quella delle città si sviluppa sin dal medioevo verso forme di “libertà”, che si realizzano in Europa in modo differenziato (ma in genere diverso ed autonomo) e prendono in Italia un rilievo particolare.

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VI CHIESA ED IMPERO FRA CRISI E RINNOVAMENTO A CAVALLO DEL MILLENNIO

SOMMARIO: 1. Crisi ed evoluzione del S.R.I. – 2. La riforma dei costumi del clero e la contrarietà della Chiesa ad investiture ecclesiastiche da parte dei laici. – 3. La lotta per le investiture.

1. Crisi ed evoluzione del S.R.I. Il grande impero territoriale europeo costruito da Carlo Magno, faticosamente conservato per alcuni decenni, si è presto sfaldato: negli ultimi anni del sec. IX era praticamente un ricordo. La tradizione franca della patrimonializzazione del regno ha prevalso sin dalla metà del secolo (al tempo dei nipoti di Carlo, con Lotario riconosciuto imperatore, ma con poteri effettivi solo su circa un terzo del territorio). La tendenza germanica ai legami personali ed alla bellicosità per gruppi di armati ha fatto naufragare l’impostazione pubblica di una suddivisione per contee ed ha portato al particolarismo di signorie autonome o di benefici o feudi ereditari. Solo con la metà del sec. X la nuova dinastia di imperatori della Casa di Sassonia affermatasi nel 951 con Ottone I ripristina in parte il prestigio e il potere dell’imperatore sul pontefice e sugli ecclesiastici, in un ambiente però ormai feudale, in cui vengono a giocare un ruolo specifico le dignità comitali affidate ad ecclesiastici (in specie ai cosiddetti “vescovi-conti”). I conti non sono più gli ufficiali del periodo carolingio: sono i signori feudali – laici o ecclesiastici – investiti del titolo comitale, che derivano il loro potere formale dall’investitura, ma lo mantengono nella sostanza in modo autonomo ed autosufficiente in loco. Si deve il fodro (cioè il mantenimento) 1 all’esercito im1

L’obbligo al mantenimento dell’esercito imperiale rientra fra quelli feudali, ma ha

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periale quando è nella zona (ed in specie in Italia quando l’imperatore scende per farsi incoronare dal papa), ma in pratica quasi tutto finisce lì, nonostante la “fedeltà” dovuta sul piano formale in ogni frangente. La stessa scelta ottoniana per i vescovi-conti lascia trasparire nella sostanza l’ormai relativo rilievo dell’aiuto militare da prestare al “senior”, senza dubbio limitato (e dal punto di vista giuridico impossibile, se non per interposta persona) da parte di un ecclesiastico. La scelta ottoniana ha però una sua ragione. Il vescovo non può, giuridicamente, aver figli: alla sua morte l’imperatore tramite persone di fiducia (… armate …) è spesso in grado di interferire sulla “elezione canonica” del successore. In tal modo aggira l’ereditarietà dei feudi e si assicura nel tempo persone fedeli (nella sostanza, e non solo al momento del giuramento di fedeltà, che, inoltre, per gli ecclesiastici dovrebbe essere ancor più vincolante). Il prestigio morale e sociale del vescovo, capo della Chiesa locale, aiuta inoltre a consolidarne e difenderne il potere politico, a vantaggio della conservazione dell’ordine voluto dall’imperatore. Se si tratta, inoltre, dell’elezione del vescovo di Roma, l’imperatore stesso riesce ad assicurarsi un controllo di fatto, che sembra ben più incisivo della tradizionale “tuitio” carolingia … Questa commistione fra trono ed altare, con prevalenza imperiale e laica, si protrae per quasi un secolo e dura pure oltre l’estinzione della Casa di Sassonia. Essa suscita anche reazioni in una parte della feudalità laica, ma assicura all’imperatore un discreto controllo della situazione: nelle città ci sono i vescovi-conti, coadiuvati per lo più da un’élite locale che si affaccia sulla scena politica; nelle campagne restano i signori ed i conti precedenti, in parecchi casi un po’ ridimensionati nei loro autonomi poteri ereditari. Il coinvolgimento della Chiesa nella diretta gestione temporale aumenta senza dubbio il potere degli ecclesiastici (clero regolare e monasteri) e ne stimola le aspettative di governo (che erano vive in specie in quei cadetti delle famiglie feudali che avevano sovente abbracciato – più o meno convintasuscitato controversie anche rilevanti. Di per sé negli usi iniziali sembra riguardasse il fieno per i cavalli, ma l’uso si allargò poi all’approvvigionamento di tutto l’esercito (non solo i cavalli, ma pure i cavalieri …). Da parte italiana si intese che il fodro fosse dovuto all’esercito imperiale in marcia verso Roma per l’investitura dell’imperatore da parte pontificia, con riferimento ad una prassi di decenni d’assenza imperiale nella penisola. Da parte imperiale, invece, si pretese il fodro per l’esercito imperiale per tutto il periodo in cui esso si trovò nella penisola. Ai tempi di Federico I non solo le venute furono numerose, ma durarono a lungo: l’obbligo al mantenimento perdurava … e costava (e, se non soddisfatto, portava a razzie dirette …). Si trattò di uno dei punti controversi fra Comuni e Impero (il Barbarossa pretendeva il fodro sempre se in Italia …): con la pace di Costanza (cap. 29) se ne precisò la portata, ma in modo piuttosto ambiguo.

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mente – la vita religiosa). Ciò realizza comunque una commistione fra l’attività religiosa e quella civile svolta dagli ecclesiastici, con possibili reciproche interferenze e – di conseguenza – appannamento di una parte dei loro consueti obiettivi spirituali, a causa delle aumentate – ed a volte pure ricercate – incombenze politico-civili (gestione della vita sociale, infeudazioni ed attività economico-militari, e così via). La parte culturalmente più elevata e più sensibile all’essenza del messaggio cristiano, all’avanguardia della società del tempo, ne è profondamente turbata e vagheggia quindi un cambiamento nella vita del clero e dell’ambiente religioso.

2. La riforma dei costumi del clero e la contrarietà della Chiesa ad investiture ecclesiastiche da parte dei laici Le ‘distrazioni’ degli ecclesiastici dalla loro missione religiosa hanno via via suscitato un progressivo movimento di reazione dall’interno nella parte più consapevole della Chiesa, preoccupata dell’eccessivo interesse prestato da numerosi ecclesiastici per la vita ‘civile’ quotidiana, anche grazie alle cariche politico-istituzionali ricoperte. Se ne è fatto portavoce soprattutto un filone culturale, che ha trovato il suo centro motore nell’abbazia di Cluny (in Borgogna), dotata di una particolare autonomia 2. Ne deriva un intenso messaggio di riforma della mentalità, dei costumi, degli obiettivi e della vita degli ecclesiastici. Ciò porta, a cavallo dei secc. X-XI, anche a vivaci contrasti all’interno della Chiesa: riguarda la richiesta di ritorno alla semplicità spirituale delle origini e contesta la “simonia” dei chierici, intesa non già come vera corruzione (per l’acquisto di cariche, vita immorale, clientelismo e così via), ma anche solo come dimenticanza dei valori religiosi ed ultraterreni per il mero perseguimento di obiettivi materiali e terreni. Il dinamico movimento riformatore ha trovato poi in personaggi come san Pier Damiani ed Ildebrando di Soana (futuro papa) accaniti propugnatori ed è giunto poco oltre la metà del sec. XI a porre sul trono papale pontefici favorevoli alle sue tesi 3. Ciò si è realizzato già con Niccolò II (papa dal 1059 al 1061): nel 1059 un “decretum electionis pontificalis”, conseguente ad una decisione conciliare, stabiliva che l’elezione del pontefice fosse basata 2

L’abbazia di Cluny godeva di un privilegio speciale, che consentiva al suo abate di dipendere direttamente dal pontefice: fu quindi più facile ai riformatori (collegati fra loro in numerosi monasteri direttamente con Cluny) trovare appoggio nell’abate contro pressioni esterne, anche ecclesiastiche. 3 Sin dal 1046, peraltro, l’imperatore aveva designato papi tedeschi a lui favorevoli.

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sulla designazione effettuata dai soli cardinali, a cui sarebbero seguite poi l’approvazione del clero romano e l’acclamazione del popolo. In tal modo per l’elezione pontificia era abbandonata la cosiddetta “elezione canonica” di tradizione secolare: i laici (in specie grandi casati romani, oltre l’imperatore) ne erano del tutto esautorati, a vantaggio della sola élite cardinalizia 4. Le resistenze dello stesso clero alle istanze riformistiche furono consistenti, ma l’elezione a papa del medesimo Ildebrando nel 1073 (col nome di Gregorio VII, 1073-1085) assicurò al “partito” riformatore una netta prevalenza, che si manifestò ben presto in energiche prese di posizione tanto contro le investiture degli ecclesiastici da parte dell’imperatore e di signori laici quanto riguardo alle cosiddette “libertà” della Chiesa. In proposito è molto noto un documento, redatto verso il 1075, detto “Dictatus papae” 5, che sintetizza i punti salienti delle posizioni programmatiche di papa Gregorio VII, di rivendicazione del primato pontificio sulle Chiese locali e nella stessa Chiesa, e di valutazione pontificia dell’operato dei laici, compreso l’imperatore.

Ildebrando di Soana, eletto papa nel 1073 come Gregorio VII in via privata avrebbe appuntato, probabilmente due anni dopo, 27 punti programmatici delle tesi principali sostenute dai riformatori della Chiesa, di cui era fra i personaggi più in vista. A tale movimento pertanto si è dato il nome convenzionale di “riforma gregoriana”. Tali affermazioni sintetizzano pretese notevoli nei confronti dell’impero, dei laici, degli stessi ecclesiastici e delle Chiese locali ed affermano su tutti la primazia della Chiesa di Roma e del papa. È una svolta notevole rispetto alla situazione anteriore, senza dubbio rilevante per il futuro, sebbene non tutte le enunciazioni si siano realizzate. Se ne riportano [con traduzione] alcune delle più significative. 1. Quod Romana ecclesia a solo Domino sit fundata 2. Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis 3. Quod ille solus possit deponere episcopos vel reconciliare

1. La chiesa Romana è stata fondata solo dal Signore 2. Solo il Romano pontefice è chiamato, di diritto, universale 3. Soltanto lui ha il potere di deporre o di reintegrare i vescovi

4 Il sistema è ancor oggi in uso, dopo quasi un millennio, anche se il numero dei cardinali è cresciuto notevolmente (dalla decina iniziale). 5 La notorietà delle affermazioni del “Dictatus papae” non deve far dimenticare che ne è incerta la pur rilevante caratterizzazione formale, perché si discute se sia un vero documento ufficiale oppure un semplice (per quanto importante) appunto privato. La stessa datazione è quindi approssimativa.

CHIESA ED IMPERO FRA CRISI E RINNOVAMENTO A CAVALLO DEL MILLENNIO

6. Quod cum excommunicatis ab illo inter cetera nec in eadem domo debemus manere 7. Quod illi soli licet pro temporis necessitate novas leges condere, novas plebes congregare, de canonica abbatiam facere et e contra, divitem episcopatum dividere et inopes unire 8. Quod solus possit uti imperialibus insigniis 12. Quod illi liceat imperatores deponere 19. Quod a nemine ipse iudicari debeat 21. Quod maiores cause cuiuscunque ecclesie ad eam referri debeant

26. Quod catholicus non habeatur, qui non concordat Romane ecclesie

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6. Non dobbiamo avere relazioni e soprattutto non dobbiamo rimanere nella stessa casa con quanti sono stati da lui scomunicati 7. Solo a lui è permesso emanare nuove leggi secondo le necessità dei tempi, riunire nuove congregazioni plebane, rendere abbazia una canonica e viceversa, dividere un episcopato ricco ed accorpare quelli poveri 8. Solo lui può servirsi delle insegne imperiali 12. A lui è lecito deporre gli imperatori 19. Egli non deve essere giudicato da nessuno 21. Le cause di maggior importanza – qualunque sia la chiesa – devono essere rimesse alla sede apostolica 26. Non si deve considerare cattolico chi non concorda con la chiesa Romana

Affermazioni come la 7, la 8 e la 26 erano estremamente impegnative, ma pure significative di una visione che vedeva nel Papato di Roma la direzione non solo della vita spirituale dei fedeli ma pure di quella civile e politica. Potevano essere anche eccessive o contingenti, ma sembravano ispirate – contro l’antica ed equilibrata teoria gelasiana – alla considerazione della religione come una ispiratrice e direttrice del “fedele uomo”, come nel complesso avveniva in altre religioni (cfr. supra, cap. primo, § 3).

La personalità di Gregorio VII attira su di sé – anche nel suo integralismo – l’attenzione che viene prestata a tutto questo movimento riformatore, al punto che si parla per lo più di “riforma gregoriana”. Le istanze riformatrici, partite dalla rivendicazione della purezza dei costumi e degli ideali religiosi per sostenere la libertà della Chiesa dalle intromissioni – pratiche e spirituali – del potere temporale, si sono venute accentuando, sino a sostenere con Gregorio VII – nella sua lucida esposizione – la supremazia della Chiesa rispetto al potere temporale. Esse possono essersi un poco attutite o rese più malleabili nei decenni successivi, ma hanno avuto un grande rilievo per la vita della Chiesa e della stessa società europea.

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

Nell’immediato le tesi “gregoriane” hanno portato per circa mezzo secolo a quel profondo contrasto ideologico, politico e militare con l’Impero, che prende il nome di “lotta per le investiture”, che nel 1122 il concordato di Worms cercherà di sanare. Già non è poco. Nel lungo periodo però la svolta della riforma ecclesiastica del sec. XI si è rivelata ancora più importante, andando anche oltre l’ambito strettamente ecclesiastico. In primo luogo, la Chiesa è riuscita a darsi – dal suo interno – una spiritualità nuova: lo ha fatto anche con una rigida legislazione dall’alto (elemento innovativo quanto alle fonti del diritto), contro l’accondiscendenza originaria verso permissive tradizioni locali. In secondo luogo, la Chiesa si è dotata di una precisa disciplina interna e di un’organizzazione saldamente gerarchica, al cui vertice svettava il papato di Roma (oltre al pontefice, la curia romana, il collegio cardinalizio). Infine, la controversia tra Chiesa ed Impero ha caratterizzato di sé, sino al Trecento (di Dante e di Marsilio da Padova) la cultura basso-medievale e si è sviluppata – oltre che in campo militare e politico – sul terreno pienamente giuridico, dimostrando il rilievo che il diritto era venuto assumendo nell’ambiente del tempo (elemento, questo, nel complesso nuovo rispetto alla valutazione della pura forza in auge nei secoli precedenti) 6. La Chiesa emersa dalla riforma gregoriana è del tutto consapevole non solo della sua “missione” spirituale, ma anche della sua forza politico-culturale rispetto al potere temporale. Presenta una struttura accentrata, capace di imporsi sulla periferia (con la legislazione e con i suoi strumenti di pressione spirituale) e di contrastare tendenze centrifughe o localistiche: è in grado di far sentire la sua autorità e di lottare nell’immediato contro l’Impero, in seguito con le future unità statuali. Nonostante una certa eccessiva tendenza (in Gregorio VII) alla supremazia, la Chiesa si attesta sulla posizione della difesa – a volte sin troppo pronunciata – delle proprie “libertà”. È un lungo cammino che durerà nei secoli, passando anche per aspirazioni teocratiche, a volte sostenute ma nel complesso non realizzatesi.

3. La lotta per le investiture La diffusione di investiture di poteri pubblici (comitali o immunitari) a vescovi ed abati da parte di imperatori, principi e signori laici comportava spesso una specifica scelta – o almeno ingerenza – di questi ultimi riguardo alla persona ecclesiastica che ne sarebbe divenuta titolare. La nomina quindi

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Cfr. infra, capitolo sul rinascimento giuridico.

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finiva coll’essere in mano al signore concedente i poteri pubblici, che prevaleva sul procedimento di designazione ecclesiastica, dato che risultava nel complesso difficile separare il conferimento dell’ufficio ecclesiastico da quello dei poteri temporali. In tal modo la carica ecclesiastica, in quanto accoppiata a quella civile, era ricoperta da un ecclesiastico scelto dall’autorità civile tramite l’investitura da questa effettuata. Tale investitura, anzi, riguardava pure spesso l’ufficio spirituale, perché si svolgeva con la consegna anche di anello e pastorale, simboli delle funzioni spirituali. Il problema sotteso alla lotta per le investiture è dunque di natura anzitutto giuridica, prima ancora che politica ed istituzionale. Gli ecclesiastici – i vescovi e gli abati maggiori in particolare – infatti, si trovavano nella condizione di dover ricevere una ‘doppia investitura’: ecclesiastica (da parte del Papa o di un suo delegato), che conferiva loro la giurisdizione canonica e laica (da parte dell’Imperatore) che attribuiva la giurisdizione secolare sui territori che ricevevano in beneficio. Ovviamente su questa base nascerà e si svilupperà il conflitto di competenza tra la Chiesa e l’Impero. Per giustificare tale prassi si potevano richiamare i precedenti della “tuitio” imperiale verso la Chiesa romana del periodo carolingio o una “costituzione” emanata a Roma nell’824 da Lotario per conto del padre Lodovico imperatore, nonché in generale il diritto di patronato del signore fondatore di un’abbazia comportante l’indicazione del relativo abate (fenomeno non infrequente); si trattava però di una situazione, che minava la libertà della Chiesa (libertas Ecclesiae) nella designazione dei suoi ministri di culto. Tra i secc. X e XI ciò prese una dimensione tale, da richiamare la contestazione dei fautori della riforma della Chiesa, anche perché non furono infrequenti episodi di vera simonia (erogazione di denaro, promesse di favori, collusione d’interessi), con grave scandalo dei fedeli. Il sistema stesso della “elezione canonica” si prestava ad essere addomesticato a tali distorsioni per le pressioni (e pure prepotenze) signorili, volte ad una determinata scelta mirata, quando non si utilizzava direttamente un’investitura, che metteva tutti – autorità ecclesiastiche comprese – di fronte al fatto compiuto. Gli imperatori della Casa di Sassonia e poi di Franconia (tra la metà del sec. X ed il sec. XI) largheggiarono in investiture di poteri pubblici ad ecclesiastici, ma pure in diretti interventi per imporre persone a loro fedeli. Ciò era inoltre favorito dal fatto che numerosi componenti – specie se cadetti – di famiglie nobili ed altolocate erano destinati alla vita ecclesiastica e potevano essere sensibili in modo particolare al richiamo di poteri temporali non molto dissimili da quelli del proprio casato, con ciò inserendosi quindi nei rapporti politici del tempo e delle loro stesse famiglie. Le contestazioni riformatrici trovavano pertanto nello stesso clero ampie e forti resistenze a

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modificare la situazione, data la contaminazione fra l’organizzazione ecclesiastica e le istituzioni feudali. Interessi dinastici e debolezze umane favorivano la protrazione dell’esistente, ma – di fronte ad episodi criticati ed a volte scandalosi – le istanze riformistiche acquisirono adesioni. Un punto a loro vantaggio fu la riforma dell’elezione pontificia, che dal 1059 tolse all’imperatore ed ai casati romani la formale possibilità di entrare nella scelta e la affidò ai soli cardinali. Restavano però vescovadi ed abbazie. Con il pontificato di Gregorio VII entrò nel vivo la polemica circa la libertas Ecclesiae anche su questo punto: fu rivendicata alla sola Chiesa ogni decisione in proposito. Designato da questa il titolare dell’ufficio, le autorità civili potevano poi effettuare o meno l’infeudazione, ma dovevano – comunque – prendere atto della titolarità della carica ecclesiastica. La politica imperiale delle investiture ai vescovi-conti di ottoniana memoria entrava così completamente in crisi: non le era più agevole investire di poteri pubblici un ecclesiastico, con ciò designandolo anche nell’ufficio. La tesi imperiale si basava, d’altronde, su una prassi ormai pressoché secolare (ed è noto quanto la consuetudine pesasse nella società del tempo) e sulla rilevanza politico-istituzionale dell’investitura anche di anello e bastone pastorale da parte dell’autorità civile. Nel contesto dell’epoca, infatti, i signori locali (oltre, naturalmente, i principi e l’imperatore) avevano una considerevole autorevolezza nei loro domini e potevano in tal modo suggellare col loro appoggio il rilievo dell’ufficio ecclesiastico ricoperto, a cui aggiungevano gli specifici poteri temporali delegati. La polemica prese per la prima volta una vera e propria dimensione anche giuridica: fautori delle posizioni filoimperiali (di conservazione dell’esistente, pur con ridimensionamenti) e di quelle filopontificie (di autonomia negli uffici ecclesiastici) contrapposero con libelli e scritti polemici le diverse argomentazioni non solo politiche, religiose o morali, ma spesso anche strettamente giuridiche. Il contrasto, vivacissimo, infiammò per oltre mezzo secolo l’Europa, e l’Italia in particolare: in pratica, per la prima volta dopo molto tempo il diritto venne ad essere invocato a fondo per motivare e sostenere le proprie ragioni. In tale situazione giocò, naturalmente, anche la forza. L’imperatore Enrico IV, in specie, difese con convinto accanimento le posizioni imperiali, ma il papato romano – anche dopo Gregorio VII – non rinunciò a battersi con ogni mezzo a sostegno delle proprie tesi. Giunse anche a scomunicare l’imperatore, liberando i sudditi dall’obbligo di obbedienza e chiese l’aiuto diretto di potenti principi feudali, fra cui la “gran contessa” Matilde di Canossa. La feudalità, specie in Italia, si spaccò in due “partiti” in guerra fra loro, in cui laici ed ecclesiastici si mescolavano a seconda delle propensioni perso-

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nali (ed anche dei diversi momenti). Per oltre mezzo secolo la lotta – pur con pause – impegnò i contendenti e ne fiaccò le forze 7. Si giunse, finalmente, nel 1122 ad una composizione della controversia, tramite il Concordato di Worms. Entrambe le parti, alquanto stremate, potevano considerare onorevole la soluzione finale, ma nel complesso fu la Chiesa – rispetto alla situazione di partenza – a trarre il maggior vantaggio dalla lunga lotta, perché riuscì a liberarsi formalmente dall’incombente controllo imperiale e signorile sui propri uffici. Il compromesso definitivo fu possibile anche grazie al contributo dei giuristi (con distinzioni, ad esempio, fra ufficio e possesso, tra aspetti temporali e spirituali, tra investitura feudale ed immissione nell’ufficio con la consegna di anello e pastorale): il diritto stava ormai acquisendo un rilievo notevole nella società del tempo (come si vedrà fra poco). Il concordato si concluse mediante la pubblicazione di due documenti: il “privilegio” di Callisto II e il “precetto” di Enrico V; con il primo il Papa concesse all’Imperatore (e soltanto a lui, tema che fu oggetto di dibattito sull’applicazione del concordato anche ai successori di Enrico V) che le elezioni alle sedi vescovili o abbaziali di terre spettanti al regno di Germania avvenissero contestualmente alla presenza del Papa (o di un suo delegato) e del re o d’un messo regio senza simonia e senza violenza; in caso di contrasto nell’elezione sarebbe stato lecito al re a o chi per lui dare il suo aiuto o consenso alla “sanior pars”. Inoltre l’eletto avrebbe ricevuto dal sovrano l’investitura delle “regalie” per mezzo dello scettro senza sottostare ad alcuna esazione e in conformità avrebbe prestato l’omaggio dovuto. Nelle altre parti dell’Impero e cioè in Italia e in Borgogna, il vescovo eletto avrebbe prima ricevuto l’investitura canonica da parte del Papa e solo successivamente, entro sei mesi, avrebbe ricevuto l’investitura temporale da parte del sovrano (o di un suo delegato) e prestato conforme omaggio , salvi i diritti pertinenti alla Chiesa romana. Termini che Enrico V poté senz’altro accettare in quanto in Borgogna il re non svolgeva un ruolo determinante e nell’Italia imperiale i vescovi iniziavano ad arretrare di fronte alla sempre più invasiva presenza dei comuni. Di fatto anche in Germania, comunque, il potere imperiale risultava indebolito in quanto crollava definitivamente l’assetto definito 7

Non sembra il caso di seguirne le diverse vicende. Si può solo sottolineare che con la parte imperiale furono anche numerosi feudali ecclesiastici (come il vescovo di Trento o il patriarca di Aquileia), con quella pontificia anche laici come Matilde di Canossa, che però alla fine della vita si riavvicinò all’imperatore, causando ulteriori contrasti per la successione ai suoi beni personali. Si può notare pure che la feudalità italiana si svenò in questi contrasti, dei quali si giovò la nascita del Comune nelle città.

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dall’antico privilegium ottoniano. L’Imperatore, inoltre, in forza del suo “precetto” rinunciava a ogni investitura per anulum et baculum e prometteva di concedere a tutte le chiese del regno e dell’Impero «che vi sia fatta una elezione canonica e una consacrazione libera»; prometteva ancora alla Chiesa romana e alle altre chiese la restituzione dei beni loro tolti da lui e da suo padre e s’impegnava di mantenere pace con la Santa Sede e di assicurare ad essa la sua protezione e difesa. Questi accordi furono approvati e giurati dai grandi dell’Impero a Bamberga l’11 novembre 1122; il Papa ne prese atto ufficiale nel Concilio Lateranense del marzo 1123. La lunga controversia si concludeva con un riconoscimento della piena autonomia dell’elezione papale da intromissione o conferma imperiale e pure della “libertas Ecclesiae” da ingerenze laiche, per una Chiesa riformata e centralmente ormai organizzata, nella quale la superiorità pontificia si faceva sentire sul clero (ed i vescovi) in sede locale. Dal conflitto era ridimensionato il ruolo dell’Impero ed erano promosse le autonomie politiche, sia nazionali in Francia ed Inghilterra sia cittadine in Italia, mentre la Chiesa romana vedeva riconosciuta la sua suprema autorità spirituale sui cristiani ed il suo primato gerarchico – anche disciplinare – sulle Chiese locali.

VII RIEMERSIONE DEL DIRITTO NEL NUOVO MILLENNIO

SOMMARIO: 1. La “rinascita” del nuovo millennio. – 2. I Comuni. – 3. La rivalutazione dell’importanza del diritto. – 4. Evoluzione delle supreme istituzioni medievali.

1. La “rinascita” del nuovo millennio È leggendaria, ma nota, la “rinascita dell’anno mille”: culturale (con la ripresa della diffusione dello scritto), religiosa (con il successo progressivo della “riforma gregoriana”), economica (con la piena espansione degli scambi, del mercato, dei traffici mediterranei, a superare la cosiddetta economia curtense chiusa in sé), giuridica (con l’affermazione della scienza del diritto e l’utilizzazione di quest’ultimo a regolare i rapporti sociali), territoriale (con lo sviluppo della città e la prevalenza dell’ambiente cittadino su quello della campagna), sociale (con l’ascesa dei piccoli “milites” e dei “burgenses” cittadini), politica (con l’esplosione del Comune, specie nell’Italia centrosettentrionale).

2. I Comuni La vivacità del nuovo millennio parte per lo più dalle città: queste, per quanto in crisi o difficoltà nell’alto medioevo, non sono scomparse nell’Europa mediterranea, ed in specie in Italia, da cui si è in buona parte mossa la “rinascita” del nuovo millennio. Proprio qui sono venute sviluppandosi le autonomie comunali, che hanno capovolto – dal basso – l’impostazione delle istituzioni politiche medievali (per secoli rette solo dall’alto) e che hanno rappresentato un elemento dirompente nell’ordinamento sia

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dell’Impero che del feudo. Sovente proprio nella città si sono sviluppate sia le scuole – laiche ed ecclesiastiche – portatrici di una nuova cultura (nella quale non si può non ricordare quella giuridica) sia le istituzioni comunali, innovative e dinamiche in confronto ad un’impalcatura feudale rissosa e minata nel suo seno dalla lunga lotta per le investiture e dalla sua congenita bellicosità. Esistono città in cui il Comune è divenuto sin quasi dalle origini talmente forte, da imporsi come l’unico ente territoriale locale (“Stato-città”), pronto ad espandersi sulla campagna circostante (e pure a conquistare altre città). In parecchi casi, però, il Comune deve confrontarsi con i precedenti detentori del potere politico (vescovo-conte, conti, marchesi, re … ecc.): può giungere ad emanciparsene a fatica, ma può pure doverne accettare la superiorità ottenendo solo alcune forme d’autonomia. In Italia esempi di Staticittà sono Venezia o Milano, Firenze o Genova; esempi di Comuni emancipatisi (con qualche fatica) possono essere Vercelli o Bologna, Asti o Verona; esempi di Comuni ancora in parte soggetti possono essere Roma o quelli meridionali (“congelati” nelle loro precoci autonomie dalla conquista normanna). Per lo più oltre le Alpi il fenomeno comunale sul piano politico prende quest’ultima più limitata dimensione. In ogni caso, ovunque, “L’aria della città rende liberi”: questo è l’elemento basilare ed essenziale dell’esistenza del Comune.

3. La rivalutazione dell’importanza del diritto La rinascita cittadina si fa sentire anche – e in modo particolare – nel diritto: la ‘nuova’ più dinamica società dei secc. XI-XII ne riscopre l’importanza e quasi sembra metterlo al centro del suo sviluppo. Alla ricerca delle regole per la società contemporanea rispondono la riemersione e l’interpretazione del vecchio “corpus iuris” giustinianeo dopo 500 anni d’oblio, così come la ‘nuova’ organizzazione del diritto della Chiesa: per la risoluzione di una controversia si tende a sostituire alla vittoria nella guerra privata la sentenza del “iudex” in base al diritto. Il “miles” non scompare, ma accanto a lui si pongono – col chierico – il “burgensis” e l’esperto di diritto: rinasce – dopo secoli – una nuova professione, quella del giurista (“iudex”, “iurisperitus”, ma pure “notarius”, come si dirà), che si tramanda sino ai nostri giorni. Come il cavaliere è allevato alla cavalcata e alla guerra, così il giurista è istruito al diritto ed alla scienza giuridica da “maestri” famosi. L’affluenza al loro insegnamento fa sorgere l’Università, di ieri e di oggi. La rinascita del diritto e l’affermazione

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dell’ambiente dei giuristi modificano vistosamente le modalità della risoluzione dei conflitti familiari e sociali con una ‘composizione’ raggiunta senza scontri fisici, duelli o guerre, ma tramite il ragionamento giuridico. È una prospettiva nuova, che necessita di tempo per affermarsi, ma che consente in definitiva una convivenza meno difficoltosa. Le ‘regole’ per garantire quest’ultima sono indispensabili alla società: il giurista, esperto proprio di esse, vi acquisisce ben presto un posto ed un ruolo notevoli, a volte decisamente privilegiati accanto ai “potentes” del tempo, armato della sola sua scienza in un ambiente di “milites” armati. Il diritto nel nuovo millennio, dopo il ‘rodaggio’ del primo secolo, viene ad essere uno dei cardini della società, e tale resta fino ai nostri giorni. La ‘svolta’ dal sec. XII giunge quindi sino ad ora. Merita perciò una certa attenzione, nei suoi diversi aspetti: le fonti (civili e canoniche), l’Università e le sue scuole, la scienza giuridica ed i vari metodi di approfondimento, la pratica del diritto e la posizione del giurista nella società del tempo. In questo periodo riemerge definitivamente il diritto scritto rispetto a quello consuetudinario: solo sui testi del primo può appoggiarsi un ragionamento scientifico e consequenziale, impossibile invece nella stessa incertezza e mutabilità della consuetudine. Ma è anche il momento nel quale riprende nel suo completo vigore il principio della territorialità del diritto, sostenuto per lo più in area comunale, rispetto a quello della personalità del diritto, nonostante la persistenza di privilegi di ceto o di persona. Ritorna in primo piano l’esigenza di certezza ed uniformità di regole giuridiche note e sicure prima del compimento di un atto, che proprio in base ad esse dovrà essere valutato. Per la certezza del testo scritto efficace nel territorio del Comune saranno redatti gli statuti comunali, cioè le norme volute dal Comune per la disciplina della vita cittadina, facendo riemergere il principio di una legislazione scritta locale, anche se dall’eccessiva loro proliferazione si raggiungerà un risultato confuso, non corrispondente alle iniziali aspettative della legislazione comunale.

4. Evoluzione delle supreme istituzioni medievali Anche nel nuovo millennio Chiesa ed Impero sono rimasti al centro ed all’apice della vita politico-istituzionale medievale, come lo erano stati nei due secoli precedenti e lo saranno ancora lungo (per almeno per tre, per lo più in contrapposizione). Sono i “due soli” di Dante, a cui guarda l’uomo medievale. La riforma gregoriana ha rigenerato dal suo interno la Chiesa e ne ha

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riavvicinato obiettivi ed atteggiamento ad una maggiore realizzazione della vita cristiana, ma ha anche portato all’affermazione di una sua libertà di scelte giuridico-istituzionali che rivendica piena autonomia dal potere imperiale e laico, ed anzi supremazia su esso; di ciò è sintetica espressione ideologica il “Dictatus Papae” che – se si vuole – si può considerare in qualcuna delle 27 incisive affermazioni 1. La successiva lotta per le investiture 2 con i diversi imperatori (ed in specie Enrico IV) è stata materialmente cruenta ed ha inciso a fondo sulla potenza dell’ambiente dei “milites”, che vi hanno preso parte; è stata però già condotta senza esclusione di colpi con motivazioni dottrinarie e giuridiche, ad attestazione della rinnovata incidenza del diritto e della validità delle sue motivazioni in una società in fase di rinnovamento e di crescita sul piano culturale. La riforma gregoriana, inoltre, è venuta affermando un’autorevolezza di guida e di comando alla Chiesa romana (e di conseguenza al suo capo spirituale, il Pontefice), tale da sottomettere all’accentramento in essa tutte le decisioni principali riguardanti la Cristianità. In tal modo, partita dall’aspirazione al controllo dei costumi del clero e dei fedeli, la riforma gregoriana è venuta ad accentrare presso la Chiesa romana e la Curia il controllo sulle varie Chiese locali, che – nonostante ogni professione di adeguamento unitario – avevano di fatto conservato nei secoli una loro certa autonomia. Mentre la Chiesa romana accentuava il suo potere (anche verso le singole Chiese locali, oltre che sui fedeli), l’Impero invece nella prima metà del sec. XII veniva perdendo posizioni e potere, non solo dopo il concordato di Worms con la Chiesa a conclusione della lotta per le investiture (1122), ma anche per un trentennio di lotte (1125-1152) intestine in Germania fra i vari pretendenti al titolo di imperatore. Ne è conseguita una minore attenzione alla difesa delle prerogative, anche giuridiche, dell’Impero che ha consentito ad istituzioni politiche in ascesa – come i Comuni in Italia o diverse monarchie, nonché potenti principi feudali, in Europa – di esprimere forze centrifughe nei confronti del teorico “unum imperium” difeso ancora a fatica da Enrico IV di Franconia (morto nel 1106). Solo con la metà del sec. XII l’avvento sul trono imperiale (1152) di un personaggio di forte personalità e di notevole forza militare quale Federico I di Svevia (1123-1190) ha fatto riemergere l’aspirazione a far rispettare appieno le prerogative imperiali, senza peraltro raggiungere appieno i progetti previsti né da lui né dal nipote Federico II (1194-1250).

1 2

Su esso, cfr. già in particolare, supra, § 2 del capitolo precedente. In sintesi, cfr. supra, § 3 del capitolo precedente.

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Il sec. XI è inoltre quello di inizio delle Crociate per la conquista di Gerusalemme e del Santo Sepolcro (1099), cha ha visto Chiesa ed Impero a volte uniti ed a volte autonomi, ma ha avviato nell’Asia mediorientale parecchie spedizioni militari contro gli “infedeli” ed ha consentito agli emergenti Comuni marittimi italiani di riprendere in gran parte il controllo del Mediterraneo orientale, di insediare fiorenti colonie sulla terra-ferma con modalità giuridiche particolari e di avviare traffici considerevoli, nei quali si sono affermate consuetudini marittime, che avranno il loro rilievo nel formarsi secolare del diritto commerciale.

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VIII I COMUNI

SOMMARIO: 1. Origini e caratteristiche iniziali. – 2. Sviluppo e difesa dell’autonomia comunale. – 3. Dai consoli al podestà comunale. – 4. Corporazioni e diritto dei mercanti. Il “Comune del popolo” o “delle arti”. – 5. Dal Comune alla Signoria. Il Principato.

1. Origini e caratteristiche iniziali Le città in periodo germanico hanno attraversato una crisi considerevole, in parecchi casi scomparendo nelle zone transalpine. In area mediterranea esse sono rimaste, ma sono state facilmente bersaglio di distruzioni e violenze da parte delle diverse invasioni e razzie (sino a quelle ungare e saracene dei secc. IX-X). Alla guida si sono succeduti vari capi politici (come i duchi longobardi, i conti franchi o i vescovi-conti), ma forte vi è stata comunque pure l’autorità religiosa del vescovo, che in numerosi frangenti si è accollato anche compiti civili. La riduzione dell’attività artigiana e mercantile in un’economia chiusa all’autosufficienza ha danneggiato senza dubbio gli aggregati urbani, penalizzati inoltre dalla mancanza di sicurezza e dalle costanti guerre locali. Dopo oltre cinque secoli di difficoltà, l’ambiente cittadino con il millennio riprende vigore grazie ad una relativa tranquillità ed al miglioramento degli scambi e dei traffici, resi meno insicuri anche sul mare grazie all’opera delle Crociate. La città medievale, d’altronde, non è quella d’età contemporanea: se vi abitano artigiani e mercanti, non vi mancano persone dedite ad attività agricole, entro e fuori le mura. Può esservi il mercato, tipico luogo di scambio anche tra la città e la campagna circostante, ma la città è saldamente fortificata e chiusa entro le sue mura, per la cui difesa sin dall’alto medioevo si è in qualche modo impegnata la comunità cittadina con le autorità politico-militari. Sin dal secolo XI alcune città, in Italia come oltre le Alpi, ottengono privilegi che ne differenziano la situazione giuridica rispetto alla campagna cir-

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costante: esenzioni tributarie, garanzie per il mercato, riconoscimenti per la “pace” cittadina (contro la litigiosità dei “milites” interni), trattamenti di favore per i propri mercanti, condizioni di “libertà” (di circolazione, di disponibilità dei beni, di giustizia locale, ed altro) per i propri cittadini. Ove, inoltre, si è affermata la preminenza politica del vescovo (vescovo-conte, o anche solo vescovo immunitario), questo deve coinvolgere nel governo cittadino un certo numero di maggiorenti laici locali per incarichi militari, giudiziari e d’ordine pubblico incompatibili con la sua condizione ecclesiastica: si forma in tal modo un’élite cittadina di governo, che tende a cambiare fiduciariamente col mutare dei vescovi, ma che viene progressivamente avviata ad occuparsi dell’amministrazione della città. Durante il cinquantennio della lotta per le investiture da un lato l’élite feudale si spacca e si consuma (anche fisicamente) nell’estenuante disputa politico-militare, dall’altro l’élite cittadina (nella quale si segnalano piccoli “milites” e borghesi emergenti, come notai, artigiani, mercanti) prende coscienza dei suoi mezzi (oltre che delle proprie ambizioni) e tende a condizionare il suo appoggio ai diversi contendenti. A loro volta le città marittime o meridionali dell’Italia si giovano del più sicuro controllo cristiano del mare (anche grazie alle Crociate) e si avviano ad una precoce espansione. Sono queste alcune delle premesse allo sviluppo del Comune, che prende piede in Italia sin dall’ultimo periodo del sec. XI e vi si diffonde rapidamente, anche per imitazione (fenomeno d’indubbia importanza, in questo come in altri casi), varcando ben presto le Alpi. È difficile la ricostruzione delle origini del Comune nelle diverse città. Esistono elementi simili, che concorrono in modo diverso alla nascita del “Comune”, ma ognuno presenta sue specificità locali. Il fenomeno inizialmente (secc. XI-XII) è soprattutto italiano, ma si è diffuso poi in tutta Europa (anche se spesso in modo politicamente meno significativo, a causa della permanenza della città sotto la supremazia di un signore, pur con la sua precisa – più o meno lata – autonomia). Sovente si trova di colpo operante il Comune con i suoi organi significativi (in specie i consoli e l’assemblea) senza che se ne possano cogliere le fasi di preparazione o di nascita: si prende atto di ciò e si dice che dev’esserci stata una qualche manifestazione – spesso giurata – dei cittadini (o, meglio, di una parte di essi) di volersi organizzare per proprio conto rispetto alla situazione precedente: è la “coniuratio”, che a volte può sapere di ‘congiura’, ma che altre volte può essere conseguenza – anche di fatto – di una ribellione a qualche atto del signore della città, o anche solo una presa di posizione progressiva senza specifiche violenze. È una constatazione ‘giuridica’ di un fenomeno che può aver avuto origini diverse. Il Comune è esistente: ciò dimostra che c’è un consenso dei cittadini (o, almeno della parte più attiva) a seguire i nuovi organi (comunali).

I COMUNI

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Il Comune, a seconda dei casi, può essere sorto – fra l’altro – da una ribellione violenta al signore locale (come a Milano), da una serie di concessioni via via ottenute (come a Pisa, addirittura dall’imperatore), da un’evoluzione progressiva rispetto alla persistente concorrenza – almeno per un certo periodo – di poteri col signore (come ad Asti o Vercelli col vescovo), dalla fondazione di una nuova città (fenomeno soprattutto transalpino, ma in qualche caso presente in Italia, come ad Udine o Alessandria). Si può pensare che abbiano giocato un certo ruolo le tendenze associative per gruppi di persone del periodo medievale, la posizione della città come luogo fortificato con mura, il formarsi di un’élite cittadina autonoma durante il governo vescovile. Eventuali ricostruzioni sulle origini del Comune (su cui si è cimentata la storiografia europea otto-novecentesca) possono però riferirsi ad alcuni casi, ma non hanno validità generale.

Il primo periodo comunale (secc. XI-XII) presenta quindi caratteri simili, anche se con variazioni nelle singole città. Elementi nuovi e salienti sono: la designazione ‘dal basso’ alle cariche comunali, la loro gratuità (con prestazione volontaria a favore del bene comune) e temporaneità, la partecipazione dei cittadini (o almeno della parte più attiva fra essi) alle decisioni. In genere gli organi sono di tre livelli: in ordine ascendente, l’assemblea, il consiglio, i consoli. Ci sono differenze locali rispetto a questo schema generale, ma esistono pure frequenti imitazioni da una città all’altra. L’assemblea (“concio”, “parlascium”, “arrengo”) riunisce coloro che fanno parte del Comune, per lo più i capofamiglia (e comunque uomini). Non ha periodicità fissa, ma si riunisce per le decisioni più importanti, specie nel primo periodo; ha un andamento anche un po’ tumultuoso e deve essere ‘guidata’ dai notabili del momento. Vi partecipano naturalmente i “cives”, che non sono peraltro tutti gli abitanti, ma solo coloro che fanno parte del “comune”. Questo all’inizio si presenta infatti con estensione più personale (secondo una diffusa tendenza del tempo) che territoriale e quindi comprende chi ha partecipato alla “coniuratio” ed esclude per lo più feudali dimoranti in città, sudditi signorili, ecclesiastici, plebe locale, stranieri. Il Comune si impone progressivamente come unico ente politico cittadino, quindi con efficacia territoriale, ma – salva espressa ammissione – l’assemblea resta limitata ai “cittadini”, che sono anche coloro che godono dei diritti (“privilegi” …) derivanti dal Comune. L’assemblea, peraltro, finisce spesso emarginata (cioè raramente convocata), anche per la sua eccessiva ampiezza, a favore degli organi consiliari, nel frattempo accresciutisi. Da essa, comunque, continuano ad essere per lo più esclusi quei “cives” immigrati o abitanti nel-

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la campagna circostante ormai conquistata (“comitatini”) 1, che si rivelano “cittadini” più per gli oneri che per il diritto a partecipare alla vita pubblica, secondo un’accezione più limitata di “cittadinanza”. L’assemblea, convocata in genere solo per ratificare particolari avvenimenti (come i trattati con altri Comuni o signori), può essere stata poi rispolverata nell’ultimo periodo comunale, quando un signore ormai emergente in città la convocava per farsi affidare in via formale dal “popolo” il potere (ormai acquisito): in tale periodo era peraltro spesso assemblea degli uomini della sua “parte” (con ‘prudente’ assenza dei contrari …). Il consiglio di credenza è l’organo centrale della vita comunale, chiamato a riunioni periodiche anche molto ravvicinate, di cui fanno parte i notabili cittadini (“homines credentes”, cioè degni di credito), più o meno numeroso e variabile a seconda dei diversi comuni, in cui sono decisi i principali problemi: dalla designazione (in vario modo) dei consoli e degli ufficiali comunali alla politica interna ed estera, dalla legislazione statutaria locale alla vita economica (dazi, corporazioni, mercato) e sociale (rapporti ecclesiastici e religiosi, cittadinatici, contratti agrari, e così via). Il consiglio di credenza – o semplicemente la “credenza” – viene per lo più accrescendo il numero dei componenti per soddisfare la richiesta di maggiore partecipazione (sia dei singoli quartieri o territori cittadini sia dei diversi gruppi sociali) ed a volte si suddivide in più consigli, nei quali trovano rappresentanza (ed anche a volte prevalenza) le componenti “popolari” delle corporazioni professionali (in specie nel “Consiglio grosso”). Il consiglio elegge in vario modo (per lo più con elezione di elettori appositi, quindi di secondo grado) i singoli ufficiali comunali, tutti generalmente a tempo (in genere un anno), sui quali svolge un complessivo controllo. Al vertice del Comune nel sec. XII si trovano i consoli, magistratura collegiale (a seconda dei Comuni, da 2 a 20), temporanea (in genere un anno o sei mesi), gratuita, elettiva (in genere con elezione indiretta dal consiglio, a volte dall’arrengo). Sono per lo più scelti entro le famiglie più influenti, spesso a rappresentare i diversi rioni (o “porte”) della città oppure le diverse componenti sociali (“milites”, “negotiatores”, professionisti, artigiani, “pedi-

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Il termine deriva dal fatto di abitare nel “contado”, cioè nella campagna circostante la città, nella quale si era generalmente ritirato il conte o era presente una serie di signori feudali, nei confronti dei quali il Comune aveva provveduto ad espandersi (ed a conquistarli). La campagna così acquisita dal Comune avrebbe dovuto portare alla cittadinanza tali “comitatini” (o contadini), sovente dimostratisi favorevoli alla sua espansione: essi sono stati spesso gratificati con la “cittadinanza” (= cives) del Comune, ma hanno avuto diritti ridotti quanto alla vita politica cittadina.

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tes”). La collegialità dovrebbe garantire la compartecipazione dei vari gruppi cittadini al governo, ma col tempo le divisioni ‘partigiane’ intaccano tale collegialità e mettono in crisi l’istituto. La pomposa denominazione risale alla tradizione repubblicana romana, ma non esiste in proposito alcuna soluzione di continuità. Tra i consoli in alcuni Comuni avvengono col tempo delle specializzazioni nelle attività: così, alcuni seguono gli affari politici (“consules de communi”), altri l’amministrazione della giustizia (“consules de placito”). Ai consoli tocca la direzione piena degli affari comunali, in esecuzione delle decisioni di fondo del consiglio (del quale in genere fanno parte, spesso in posizione preminente): comando delle truppe e difesa delle mura (con turni di guardia e manutenzione militare), sovrintendenza delle entrate e uscite comunali, rapporti con gli altri Comuni e signori circostanti, mantenimento dell’ordine interno ed attenzione alla vita economica e amministrativa, provvedimenti di polizia locale, e così via. Per tutto questo dirigono un numero più o meno elevato (a seconda del Comune) di dipendenti comunali (come dazieri o messi, giudici o notai comunali, massari o clavari, ecc.).

2. Sviluppo e difesa dell’autonomia comunale Nel corso del sec. XII il nuovo ordinamento comunale ha assestato ed esteso il suo funzionamento e la sua dimensione, ma ha pure dovuto superare l’opposizione imperiale, in alcuni periodi decisa e violenta. All’interno della città l’ordinamento comunale diviene territoriale e si impone su quanto non ha inizialmente aderito ad esso (come signori feudali, ecclesiastici, casate familiari, popolo ‘minuto’). Possono esistere momenti di tensione (in specie, in certi casi, con potenti signori locali o col vescovo immunitario), ma il Comune riesce in definitiva a porsi praticamente come l’unico ente che controlla il territorio cittadino. Dopo secoli di appannamento, ai vincoli personali si sovrappone e si impone in città il potere territoriale del Comune. È un ritorno alla territorialità del diritto, che preannuncia i futuri ordinamenti statali, e che non scomparirà più. Il Comune si lancia però anche fuori della città, nel “districtus” circostante (spesso disegnato secondo i confini del vescovado locale), vi sottopone con vari strumenti alla propria “iurisdictio” signori e comunità ed estende quindi il suo potere territoriale ad una zona più o meno ampia intorno alla città. In alcuni casi (ad es. Milano) giunge ad assoggettare città vicine, o a preoccupare col suo espansionismo altri Comuni della regione (ad es. Pavia e Como). Se si consolida in città e volge lo sguardo pure fuori, l’ordinamento co-

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munale si trova però anche a dover legittimare la sua esistenza nei confronti del superiore potere imperiale. Subentrato in modo più o meno rivoluzionario ai precedenti signori feudali, esso tende a giustificare la sua esistenza rifacendosi al particolarismo ed ai privilegi locali affermatisi consuetudinariamente nell’ambito e sulle spoglie di un potere imperiale piuttosto evanescente, ma nel rispetto formale di quest’ultimo: la sua “libertas” realizzatasi per usi e privilegi (a volte anche imperiali) non è indipendenza dall’impero, ma sul piano formale solo autonomia, anche se molto ampia. Lo sviluppo comunale italiano della prima metà del sec. XII è stato favorito dall’assenza fisica per un trentennio dell’imperatore, trattenuto oltre le Alpi dalla difficoltà di conservarvisi al potere (1125-1154). Salito alla carica un personaggio potente come Federico I di Svevia (detto il Barbarossa) e disceso in Italia nel 1154 per l’incoronazione, ottenuta nel 1155, questi è stato subito colpito dallo stato di disordine della penisola e dalla scarsa propensione delle diverse autorità locali (in specie i Comuni, ma pure signori feudali) a sottomettersi pedissequamente all’autorità imperiale, da lui impersonata. Ha deciso quindi di mettervi ordine ritenendo che ciò rientrasse non solo nei suoi diritti ma anche fra i suoi doveri. Ridisceso nel 1158, ha convocato una dieta (= riunione) delle principali autorità dell’Italia centro-settentrionale a Roncaglia (fra Cremona e Piacenza) per ridurle alla soggezione e precisare quali fossero gli eventuali margini d’autonomia locale: a tale scopo vi ha fatto convenire pure quali esperti di diritto i “quattro dottori” bolognesi (la cui fama era già diffusa) perché si pronunciassero in merito ai diritti dell’imperatore (“quae sint regalia”) 2. I quattro giuristi, sulla base dei “libri legales” giustinianei da loro studiati, fecero un elenco dettagliato dei diritti imperiali, fra cui quello di nominare a tutte le cariche pubbliche: i passi giustinianei, d’altronde, non potevano che contenere affermazioni di tal genere, riferendosi ad un periodo assolutistico. Il parere fu quindi favorevole a Federico I, che in base ad esso emanò una specifica “costituzione” su “quae sint regalia” 3.

2 Come si vedrà nel successivo capitolo a Bologna si era sviluppato un rinnovato insegnamento del diritto, di cui questi erano i maestri più noti: sono stati invitati ad esporre (con un parere “pro veritate”) quali fossero i diritti dell’imperatore, naturalmente perché ognuno li rispettasse. 3 Anche tale costituzione (in una forma peraltro più ridotta rispetto al testo iniziale, ritrovato nella sua interezza solo da meno di mezzo secolo) è riportata nel “Volumen” nella parte finale del “corpus iuris” (cfr. infra, capitolo successivo).

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Alla dieta erano presenti signori feudali e rappresentanti comunali (fra cui anche giuristi, inesperti però di diritto giustinianeo): la fama dei nuovi testi e dei dottori bolognesi si impose su eventuali perplessità emergenti dalla prassi feudale italiana degli ultimi decenni. Consoli e signori piegarono il capo, con il recondito pensiero che con questa rigida situazione desunta dai “libri legales” dovesse essere considerata pure quella esistente di fatto nella penisola. Qui, infatti, da tempo ormai Comuni e feudatari si reggevano senza dipendere direttamente dall’imperatore, in modo autonomo: era la “libertas” delle città e dei signori, che – per privilegio espresso, oppure per consuetudine ormai acquisita – riconoscevano la superiorità formale dell’imperatore (e quando scendeva in Italia per farsi incoronare pagavano il fodro usuale per mantenere lui e il suo esercito nel viaggio), ma per il resto si consideravano autonomi nel loro potere locale. Proprio contro questa situazione ‘lassista’ pensava di doversi imporre il nuovo imperatore, ripristinando – dopo decenni – un’autorità ed un potere che risultavano dalle fonti giustinianee, ma che apparivano molto sbiaditi nella memoria dei contemporanei. I dottori bolognesi si erano pronunciati secondo i ‘sacri’ testi romani, e ad essi si riferiva l’imperatore: la loro autorità (ed autorevolezza) aveva messo a tacere eventuali opposizioni, ma una rigida applicazione delle loro affermazioni per l’uomo dell’epoca poteva sapere più di innovazione sull’esistente che di puro rispetto testuale. Da troppo tempo la situazione non era più quella.

In base ai testi giustinianei ed alla normativa da lui ribadita, Federico Barbarossa si considerava l’unica sorgente del potere: da lui solo potevano essere investiti o nominati i signori o i magistrati locali e doveva dipendere la loro autorità. La contrapposizione dei due punti di vista non poteva essere più netta, dato che la “libertas” ormai acquisita da feudatari e Comuni di autoreggersi e di gestire l’ordine e le risorse locali non era considerata in loco di per sé indipendenza da un potere imperiale che essi riconoscevano, ma autonomia – anche se molto estesa –, frutto di un ordinamento basato su usi ormai consolidati, che lo stesso imperatore non poteva disconoscere.

Di queste posizioni si fecero portatori soprattutto i Comuni, che volevano continuare ad eleggersi i propri consoli e non sottostare alla nomina di delegati imperiali a reggere la città; i feudali – spesso in contrasto coi Comuni vicini – si allinearono più facilmente alle posizioni imperiali nel gioco politico della propria contrarietà all’espansione comunale. A sua volta il Barbarossa si segnalò quale imperatore ‘germanico’ attento con la sua politica all’Italia, ove si fermò anche a lungo e discese numerose volte con eserciti, tramite i quali impose con

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la forza il suo punto di vista ai renitenti. La controversia si protrasse per anni, con fasi alterne: l’imperatore prevaleva con le sue armi quando era presente, ma in sua assenza i Comuni contrari rialzavano la testa e spesso colpivano coloro che si erano allineati sulle posizioni imperiali. Per i Comuni si trattò in certi momenti di lotta per la stessa sopravvivenza, data la determinazione del Barbarossa nel sostenere l’unitarietà e l’esclusività del potere dell’imperatore, dal quale ogni altro doveva dipendere e derivare, anche nella sostanza. Federico I sostenuto dalla fortuna militare per un decennio impose la sua impostazione e inviò suoi delegati (“podestà”) 4 a comandare i comuni recalcitranti 5. Il Comune poteva anche non scomparire 6, ma la sua autonomia si riduceva di molto. Dal 1168 i successi militari non arrisero però più come prima all’imperatore 7, impegnato poi anche con problemi transalpini: la morsa della sua intransigenza finì col ridursi, dando nuovo vigore al partito comunale, generalmente appoggiato anche dal Papato.

Dopo un trentennio di contrasti, lotte armate, distruzioni e tregue (Lega lombarda, distruzione di Milano, fondazione di Alessandria e conseguente fallito assedio, battaglia di Legnano, accordi di Venezia …), si giunse nel 1183 alla cosiddetta ‘pace’ di Costanza. Come di frequente, si trattava di un compromesso, che intendeva chiudere una lunga controversia e non poteva soddisfare completamente nessuna delle due parti. Per questo la ‘pace’ 8, in4

Non è detto che proprio questa introduzione, imposta dall’imperatore, possa aver ispirato – quasi per assurdo – i Comuni ad adottare loro stessi il sistema del “podestà esterno”, scelto però da loro (e certo non dall’Impero!). 5 Con alcuni Comuni, meno contrari (come Pisa, ma pure Genova, Pavia, Piacenza …), Federico I si comportò concedendo anche discreti privilegi, che finirono per attirarli (spesso riuscendovi) nell’orbita imperiale. 6 Come noto, Federico I distrusse espressamente Milano, capofila della Lega lombarda. Nei confronti di altri agì con durezza, imponendo suoi podestà e suoi fedeli a controllare la città. 7 Fondata Alessandria (col nome alla nuova città dato in onore di papa Alessandro III, che sosteneva i Comuni) quando Federico I era in Germania, questi appena potè vi piombò con un esercito, ma a causa dell’inclemenza del tempo e dell’inverno non riuscì a conquistarla e distruggerla (1168). In seguito il suo esercito non riuscì più, come prima, ad imporsi completamente; nel 1174, anzi subì una sconfitta (sebbene meno rilevante di quanto poi magnificato dai Comuni lombardi) a Legnano … 8 Si trattò politicamente di ‘pace’, ma non sul piano formale. Federico imperatore non poteva riconoscere una controparte, che ai suoi occhi era solo composta di ribelli. Nelle trattative i giuristi – che riuscirono a sciogliere parecchi nodi, che impedivano un accordo – escogitarono la soluzione formale di un atto unilaterale, con cui l’imperatore (con i suoi alleati) riprendeva sotto la sua protezione i ribelli, ritornati ubbidienti, e con-

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serita poi al termine del “Volumen” dei “libri legales” bolognesi con la “constitutio quae sint regalia” ed i “libri feudorum” 9 – e quindi munita di particolare autorevolezza – finì con l’essere in seguito violata di frequente, in specie dai Comuni (in momenti di appannamento dell’autorità imperiale in Italia). Dal documento di Costanza i Comuni vedevano ammessa la loro autonomia (conquistatasi tra l’altro sul campo) per privilegio imperiale generale, ma trovavano ribadita la superiorità dell’imperatore, a cui era riservato riconoscere i magistrati cittadini (per lo più i consoli), i quali dovevano giurargli fedeltà: in tal modo il Comune era inserito entro l’impalcatura feudale del tempo e poteva muoversi solo entro i limiti – e gli steccati – di questa. La legittimazione per usucapione di usurpazioni comunali di immobili e diritti pubblici doveva essere accertata da specifiche commissioni locali presiedute da messi imperiali o vescovi; la giustizia locale di primo grado poteva essere amministrata da magistrati comunali secondo gli usi cittadini e le “leggi” imperiali 10, ma in appello toccava all’imperatore (o ai suoi delegati). I Comuni potevano avere milizie proprie, ma erano – naturalmente – tenuti alla fedeltà all’imperatore, a cui era dovuto il fodro imperiale in genere, e non solo in occasione della discesa in Italia per l’incoronazione da parte pontificia. Questi ed altri punti specifici sul piano formale potevano essere accettati dalle parti 11 a conclusione della lunga lotta, forse però già con il recondito proposito di darvi quella ‘interpretazione’ a proprio favore, che il tempo avesse consentito. cedeva loro determinati privilegi: questo è lo ‘schema’ della ‘pace’, che quindi sul piano formale figura come pura concessione unilaterale imperiale, secondo l’impostazione feudale del tempo. 9 Cfr. supra il § 5 del capitolo sui rapporti feudali e infra, § 2 nel capitolo sul rinascimento giuridico. 10 Fra le “leggi” imperiali si dovevano implicitamente includere i “libri legales” giustinianei, che quindi di fatto trovavano un ulteriore riconoscimento generale (se mai ne avessero avuto necessità). Fra gli “usi” (o mores) furono intese le norme cittadine, nelle quali già si trovavano (e si estesero poi) gli statuti comunali. Lo schema era quello di “leges-mores” proprio del diritto giustinianeo: altre fonti non se ne prevedevano … Ancora una volta alla base dell’ispirazione è l’impostazione delle fonti giuridiche proprie dell’assolutismo bizantino, anche se ormai fuori del tempo. 11 La ‘pace’ di Costanza sul piano formale era un ‘privilegio’ concesso dall’imperatore ad alcuni Comuni (= Lega lombarda!) tornati ubbidienti sotto la sua protezione: per essi soli avrebbe dovuto valere. Invece fu considerata – estensivamente – come concessione fatta in generale, quindi non solo a quelli ivi presenti (e ‘privilegiati’), ma a tutti. Le ‘parti’ perciò furono “interpretate” in modo – per così dire – molto elastico, a vantaggio comunale.

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LA “PACE” DI COSTANZA (1183) La “pace” di Costanza è stata inserita dai giuristi medievali nelle costituzioni “extravagantes” del “volumen” (quinta ed ultima parte del “corpus iuris” giustinianeo secondo la partizione dell’età del diritto comune, contenente pure le Istituzioni e le Novelle), con il successivo commento trecentesco di Baldo degli Ubaldi. Nell’intitolazione si dice che tale “pace” è intervenuta fra l’imperatore Federico, il figlio Enrico ed un gruppo di nobili tedeschi da una parte, e dall’altra un gruppo di città dell’Italia settentrionale: questa, in concreto, è stata la situazione effettiva. Sul piano formale, invece, nel proemio del documento si afferma che si tratta di una concessione dell’imperatore (e del figlio), che riprende sotto la sua benevolenza le città italiane ribellatesi a lui: per l’autorità imperiale dell’epoca non era possibile una prospettiva diversa, il potere supremo facendo capo al solo imperatore e non potendo quindi ipotizzarsi una “pace” fra questo e dei sudditi già ribelli. Lo stesso riscoperto diritto giustinianeo poteva giustificare quest’impostazione. Ne deriva quindi che la “pace” sia costruita sul piano formale come una “concessione” unilaterale dell’imperatore, unica fonte del potere politico, alle città, alle località ed alle persone della “associazione” (cioè la “lega lombarda”), senza menzionare mai espressamente quelle nuove istituzioni politiche che si erano formate in Italia, cioè i comuni: per l’imperatore esistono solo i sudditi e – geograficamente – le città, non altre istituzioni estranee al suo volere. Nos Romanorum imperator Fridericus et filius noster Henricus Romanorum rex concedimus vobis civitatibus, locis et personis Societatis regalia et consuetudines vestras tam in civitate quam extra civitatem (...) habeatis, sicut hactenus habuistis, vel habetis; extra, vero, omnes consuetudines sine contradictione exerceatis, quas ab antiquo exercetis, scilicet in fodro nemoribus et pascuis et pontibus, aquis et molendinis, sicut ab antiquo habere consuevistis vel habetis in exercitu, in munitionibus civitatum, in iurisdictione, tam in criminalibus causis quam in pecuniariis, intus et extra, et in ceteris que ad commoditatem spectant civitatum. (...) [8] In civitate illa in qua episcopus per privilegium imperatoris vel regis comitatum habet, si consules per ipsum episcopum consulatum recipere solent, ab ipso recipiant, sicut recipere consueverunt; alioquin unaquaque civitas a nobis consulatum recipiet. (...) [11] Consules qui in civitatibus constituentur, tales sint, qui fidelitatem nobis fecerint vel faciant antequam consulatum recipiant. (...) [29] Nobis intrantibus in Lombardiam fodrum consuetum et regale, qui solent et debent et quando solent et debent, prestabunt, et vias et pontes bona fide et sine fraude et sufficienter reficient in eundo et redeundo; mercatum sufficiens nobis et nostris euntibus et redeuntibus bona fide et sine fraude prestabunt. [30] In omni decimo anno fidelitates renovabunt in his, qui nobis fecerint, cum nos petierimus, vel per nos vel per nostrum nuncium. (...)

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Ai membri della “societas” (cioè la Lega) Federico I “concede” quei diritti a lui spettanti (“regalia”) e quelle regole di vita associata (“consuetudines”), di cui da tempo essi godono nella città, e così pure riconosce quanto hanno da tempo acquistato [per usucapione, anche nel campo pubblicistico, senza distinguere quindi fra ambito pubblico ed ambito privato] anche fuori città, come ad esempio riguardo a diritti su beni comuni (boschi, pascoli, pedaggi, acque e mulini), alla possibilità di armarsi e fortificare la città, di amministrare la giustizia sia penale che civile, di provvedere a quello che riguarda la città. In ciascuna di queste gli abitanti potranno eleggere propri capi (= consules), che riceveranno l’investitura dal vescovo se così è in uso [nel caso di vescovoconte], altrimenti direttamente dall’imperatore o da un suo delegato (art. 8): in tal modo l’autonomia comunale viene inserita nell’ordinamento feudale esistente ed ogni comune si presenta rispetto all’imperatore come sottoposto, in una posizione simile ad un vassallo. Di conseguenza, è espressamente previsto (art. 11) che i consoli eletti in ogni città prima di iniziare il loro mandato prestino fedeltà all’imperatore [articolo della “pace” ben presto disatteso]. È ribadito (art. 29) l’obbligo dei comuni – e di ogni vassallo – di prestare il consueto “fodro imperiale” al passaggio in Italia dell’imperatore col suo seguito ed il suo esercito, in occasione della sua discesa nella penisola. In ogni caso (art. 30) ogni decennio i comuni saranno tenuti a rinnovare la loro fedeltà a richiesta dell’imperatore o di un suo delegato: in tal modo le nuove istituzioni comunali venivano inserite nell’impalcatura feudale esistente. Tale progetto, peraltro, fu ben presto disatteso, anche per la difficoltà pratica della sua realizzazione: le previste “fidelitates” ed investiture dei consoli restarono per lo più sulla carta ...

L’improvvisa morte di Federico Barbarossa durante la Crociata in Terrasanta (1190), il breve periodo di titolarità imperiale del figlio Enrico VI e la sua repentina scomparsa (a soli 32 anni, nel 1197) fecero ripiombare l’Impero nella crisi, anche per la giovanissima età del figlio di Enrico VI, Federico, nato dal matrimonio di questo con Costanza d’Altavilla, figlia del re di Sicilia ed ivi educato. Ne approfittarono naturalmente i Comuni 12. Riuscito a salire sul trono imperiale come Federico II, questi portò però ben presto

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In pratica i Comuni, grazie all’assenza in Italia di controllo imperiale per i contrasti che impegnavano i vari pretendenti alla successione imperiale, ritornarono all’autogoverno precedente, ma non erano più quelli di mezzo secolo prima in via di affermazione, bensì veri e propri staterelli autonomi. Essi quindi non solo ripresero le loro autonomie, ma crebbero in profondità ed estensione nel loro potere di governo locale.

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i suoi interessi sulla situazione italiana e – grazie anche alle disponibilità finanziarie del regno di Sicilia 13 – riprese con nuovo vigore ed incisività anche maggiore del nonno l’impegno per portare sotto l’effettiva autorità imperiale (cioè sua) l’autonomia comunale. Pur tra vicende alterne, sembrò – tra il 1220 e il 1240 – che il programma federiciano riuscisse ad imporsi: ogni Comune doveva avere un capo (“potestas”) di nomina imperiale e – per quanto con sue milizie, magistrature e statuti cittadini – doveva fare una politica in armonia con quella imperiale. L’autonomia formale del Comune non era annullata, ma nella sostanza era sottoposta al volere dell’imperatore e dei suoi fautori locali (“ghibellini”) 14. L’Italia centro-settentrionale era diretta per conto di Federico II da un potente signore feudale (Ezzelino da Romano) col titolo di “capitano imperiale”, sotto cui stavano i “vicari imperiali” a sovrintendere sulle varie zone regionali, entro le quali i singoli podestà (nominati per lo più da Ezzelino) reggevano i diversi Comuni 15: era un sistema piramidale ben più rigido di quello del Barbarossa, programmato inoltre da un imperatore di matrice, vita e presenza italiane, quindi ancora più attivo del nonno nella penisola. Ad oltre mezzo secolo dalle lotte passate, ed a poco meno di qualche decennio dalla ‘pace’ di Costanza, il Comune non poteva ormai più essere contestato dall’imperatore come ente politico; poteva essere però colpito nella sostanza riguardo alla sua notevole autonomia. Nell’ultimo decennio di vita di Federico II il programma apparve a lui stesso irrealizzabile ed ancor più lo fu dopo la sua scomparsa (1250): il Comune non avrebbe più dovuto temere per la legittimazione della sua esistenza verso l’Impero (e l’esterno), ma le sue lotte intestine lo avevano già portato – o lo stavano portando – ad un’instabilità istituzionale, che prima o poi lo consegneranno ad una Signoria.

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Su Federico re di Sicilia (e pure imperatore come Federico II di Svevia), cfr. infra, § 4 del capitolo su Chiesa, Impero, Monarchie. 14 È questo, in specie, il tempo delle fazioni, facilitate da contrasti locali ulteriori: i contrari all’impero, guelfi (sostenuti dal Papa); i favorevoli, ghibellini (questi spesso antichi signori feudali della zona). 15 Tali inviati si reggevano con truppe imperiali o ghibelline e quindi avevano un sostegno militare coordinato dal “partito” imperiale, capeggiato da Ezzelino (e Federico II).

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3. Dai consoli al podestà comunale All’interno del Comune, già durante la difesa dell’autonomia comunale dalle pretese imperiali, erano venuti emergendo anche contrasti, più o meno accesi, che hanno portato alla formazione di fazioni o “partiti” 16 contrapposti e che nella seconda metà del sec. XII hanno messo in difficoltà la stessa collegialità della magistratura consolare, a causa delle controversie locali in cui sono finiti coinvolti gli stessi consoli. La crisi conflittuale si accentua col tempo: sin dagli ultimi decenni del sec. XII alcuni Comuni preferiscono chiamare al comando cittadino una sola persona, estranea alle fazioni interne, che per un limitato periodo regga (con retribuzione) il Comune e sia controllata nel suo operato alla fine del mandato. I consoli vengono quindi progressivamente lasciando il posto a questo nuovo magistrato che ha la “potestas” riconosciutagli dal Comune di comandare la città, ed è detto podestà 17. In un secolo di vita il Comune è ormai venuto ad imporsi in modo esclusivo sul territorio, ed ha spesso esteso il suo potere sulla campagna circostante (“disctrictus”), a volte pure su altre città (come fanno Milano, Genova, Firenze …): può permettersi retribuzioni prima impossibili. L’esempio dei ricchi Comuni viene imitato praticamente ovunque 18. L’elezione di uno straniero a podestà è un ‘costo’ economico e politico, da cui il Comune si attende (troppo ottimisticamente) la pacificazione interna. Il podestà è concepito come un ‘tecnico’ che deve reggere la città secondo le istruzioni degli organi collegiali comunali (il consiglio di credenza e gli al16

Tali partiti nascono per contrapposizioni varie (“parti”) a seconda dei casi: di gruppi familiari antagonisti, di zone (o “porte”) della città, di ceti sociali (milites, mercanti di rilievo, artigiani, piccoli feudali, ecc.). Di fronte ai pericoli iniziali di sopravvivenza del Comune le rivalità non esplodono per la necessità di far fronte comune al nemico esterno (per lo più il Barbarossa), poi – data la conquistata sicurezza – si accentuano e causano le lotte fra le “parti” (da cui il termine “partito”), che sfiancano la vita comunale. Non si deve dimenticare inoltre la contrapposizione fra “ghibellini” (favorevoli ad una politica di accomodamento con l’Impero) e “guelfi” (decisamente a ciò contrari e fautori delle ragioni della Chiesa contro l’Impero) come si è già detto alla nota 14. 17 In effetti, un esempio (… in negativo, ma pur sempre un esempio) poteva essere stato fornito dai podestà imperiali imposti in certi momenti ad alcuni Comuni sopra i loro consoli da Federico I quando era riuscito con la forza a sovrapporre per qualche tempo al Comune il potere imperiale. 18 Il podestà esterno, retribuito, diviene una costante nei Comuni italiani: non solo in quelli che hanno costituito delle specie di città-Stato (come quelli appena ricordati), ma anche in quelli meno potenti e ricchi, spesso dipendenti da un vescovo o da un signore feudale. In tali ultimi casi il reggente comunale viene anche detto vicario (del signore), ma la disciplina è nel complesso analoga.

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tri consigli eventualmente sopravvenuti): restano sotto di lui i funzionari minori (dazieri, messi, ecc. …), ma può portare lui stesso uomini di sua fiducia quali suoi collaboratori per comandare le truppe, amministrare la giustizia, garantire l’ordine interno (cosa non facile, visti i contrasti di fazione). La carica di podestà dura per lo più sei mesi o un anno ed è fissata da uno specifico contratto scritto col prescelto: è spesso un comandante militare o un giurista (e si fa affiancare allora rispettivamente da un giudice o da un militare). La retribuzione concordata (piuttosto alta) comprende l’attività sua e quella dei suoi collaboratori (in certi casi alcune centinaia, per i Comuni maggiori) che compongono la sua “famiglia” (i veri membri della famiglia del podestà sono invece generalmente esclusi dalla città). Al termine del periodo previsto, ormai sostituito dal successore, il podestà con la sua “famiglia” è sottoposto a “sindacato” (per circa 15 giorni): ogni cittadino può lamentarsi del suo operato presso appositi “sindicatores”, che valuteranno la fondatezza delle lamentele e – se fondate – dedurranno dalla retribuzione pattuita il risarcimento del danno. Il meccanismo, di per sé encomiabile e in teoria garantistico per i cittadini 19, nella pratica non ha funzionato molto, perché troppo influenzato dalla ‘simpatia’ o meno del gruppo dirigente comunale (di cui i “sindicatores” erano espressione) per l’attività generale del podestà 20. L’istituto del podestà si è poi tramandato a lungo nei secoli, utilizzato da Comuni, Signorie e Principati per inviare in una località soggetta un proprio delegato ad amministrarla; anche il sindacato perdura, ma – nonostante la sua possibile bontà teorica – non incide a fondo nel suo connotato garantistico per gli amministrati. Nell’ambiente comunale vengono sviluppandosi ed organizzandosi le associazioni di coloro che svolgono una stessa attività artigianale o professionale: esse prendono il nome di corporazioni delle arti (ad es. dei tessitori o dei fabbri) o di collegi (per lo più delle “arti liberali”, come quelle dei medici o

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Il principio di un controllo successivo verso chi ha ricoperto una carica pubblica, sollecitato da una qualunque lamentela di uno degli amministrati, è stato anche di recente proposto per le nostre stesse istituzioni, ed opera attualmente in alcuni Stati stranieri. Ragionevole e garantista in teoria, suscita perplessità se viene poi realizzato entro una cornice di valutazione ‘politica’, sia da chi si lamenta sia da chi giudica (e questo è il maggior limite dell’istituto). 20 Il giudizio ‘politico’ sull’operato del podestà ha quindi nel complesso fatto naufragare in concreto il sindacato, che – se fosse stato contenuto su aspetti giuridici – avrebbe potuto costituire un buono strumento per il funzionamento delle istituzioni. Ancora in età moderna il sindacato è in atto verso i podestà inviati dai signori ad amministrare le comunità dipendenti e dimostra il limite di un controllo ‘politico’ (e non giuridico).

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dei giuristi). Tali corporazioni hanno una loro disciplina interna e propri statuti approvati dal Comune, da cui sono controllate 21. Il Comune si afferma appieno nell’Italia del Duecento e sarà l’elemento più dinamico nella penisola per almeno due secoli. Due grandi Comuni come Venezia e Genova costituiranno due importanti Stati in attività anche nel Mediterraneo orientale, abbattuti solo a fine Settecento dall’espansione napoleonica. Altri due Comuni, come Milano e Firenze, conquisteranno anch’essi un’intera regione e daranno vita ad una Signoria ed uno Stato, che durerà per secoli. Ancor oggi la piccola repubblica di San Marino è rimasta fortunosamente (… quasi fortuitamente) a reggersi in prosecuzione della tradizione medievale. La rinascita cittadina concretizzatasi nel Comune si è propagata praticamente in tutta Europa, con organi e “libertà” riconosciuti dai signori territoriali ove non è riuscita a svilupparsi con la stessa elevata autonomia della nostra penisola. Si è trattato di un movimento imponente, che ha portato una ventata di compartecipazione alla gestione della vita collettiva, più o meno marcata a seconda delle località, ma comunque significativa rispetto ad un ambiente per secoli retto dall’alto, spesso con la forza e la violenza. Il detto tedesco “l’aria della città rende liberi” può essere fin troppo ottimistico, ma fissa un’immagine che per secoli ha attirato nei Comuni i sudditi signorili della campagna o del contado (i “contadini”) ed ha considerato la vita in città assicurata da maggiori garanzie per i diritti del singolo riguardo ai diritti individuali, la giustizia, le prestazioni personali, la vita associata. Non è poco, anche se nel mondo comunale esistono zone d’ombra ed i momenti delle lotte partigiane e del governo di fazione possono aver ridotto i diritti dei cittadini, sino al governo più autoritario della Signoria, interna o esterna. Questo ampio movimento partecipativo, portatore anche al singolo di alcuni diritti “di libertà”, si è manifestato (con un procedimento che si potrebbe dire forse un po’ lento, ma a macchia d’olio) anche nelle campagne circostanti, a volte conquistate dal Comune, a volte rimaste ai diversi signori locali. Qui in genere fra Trecento e Quattrocento 22 le diverse comunità rurali hanno ottenuto – in modo più o meno violento, a seconda dei luoghi – alcuni riconoscimenti di diritti elementari o di alcune autonomie comunitarie, che sono stati scritti e fissati in genere in “carte di franchigia” o “di libertà” riguardanti i limiti del potere del signore (a volte lo stesso Comune cittadi21

Sulle corporazioni e sul “governo del popolo”, cfr. in specie il paragrafo successivo. In alcune zone italiane ciò avviene già nel Duecento (ad es. in certe comunità toscane), in altre parecchio più tardi, e spesso fra Cinquecento e Seicento (ad es. in certe località meridionali). Si può dire quindi che l’indicazione temporale è piuttosto oscillante. 22

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no) circa l’attività dei suoi delegati in loco, le prestazioni da destinargli, l’amministrazione della giustizia, lo sfruttamento dei beni comuni, la possibilità di una certa organizzazione comunitaria, ed altro ancora. Il principio della compartecipazione alla gestione della vita collettiva, proprio della rinascita comunale, si contrappone senza dubbio al sistema di organizzazione feudale: all’inizio si insinua quasi nel particolarismo dei “privilegi” di questo, poi esplode soprattutto in Italia col sec. XII, e coesiste a lungo con lo stesso feudo 23. Anzi, in molti casi (nelle comunità italiane come nei Comuni transalpini o in quelli italiani soggetti poi a Signoria) il fenomeno si stabilizza secondo autonomie, che provengono dagli stessi riconoscimenti signorili (spesso nella forma di “privilegi”). Il fermento cittadino dei secc. XI-XII che porta alla formazione ed all’affermazione del Comune ha una dimensione europea, che vivacizza ovunque le istituzioni. Esso ha poi un’evoluzione parzialmente diversa, perché in numerose zone è frenato dalla persistenza di poteri signorili (ad es. in Germania, Svizzera o Austria) o dall’affermazione di regni (ad es. Francia, Spagna, Italia meridionale), mentre nell’Italia centro-settentrionale in numerosi casi il suo sviluppo tumultuoso finisce nel trasformarsi – dopo annose lotte intestine – in Signoria. In ogni caso nell’ambiente comunale lo sviluppo economico-commerciale prende notevole dimensione e si concretizza nel riconoscimento delle “arti” o “corporazioni” di mercanti, artigiani o professionisti, che vengono a svolgere un ruolo importante per le stesse istituzioni cittadine, in parecchi casi assumendo un ruolo primario o egemone nello stesso Comune (“Comune del popolo o delle arti”), come si vedrà fra poco. L’ambiente cittadino, inoltre, nei secc. XII-XIII presenta una situazione favorevole alla rinascita ed allo sviluppo del diritto per l’aspirazione a ridurre le lotte armate entro la città ed a dirimere le controversie non con la pura forza, ma secondo norme nuove (o rinnovate), a valutazione di esperti delle stesse, cioè i giuristi. Il rinascimento del diritto dei secc. XII-XIII trova un forte elemento di stimolo e di sostegno dal mondo comunale.

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Come già accennato, spesso è lo stesso Comune ad infeudare a famiglie cittadine di rilievo terre acquisite nel “districtus” circostante, ed anche oltre (come nel caso di Pisa, con infeudazioni in Sardegna …). Inoltre per secoli, accanto ai territori controllati (e pure infeudati) dai Comuni, ne esistono altri di spettanza di antiche casate feudali che continuano nei loro feudi secolari sino alla fine del sec. XVIII.

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4. Corporazioni e diritto dei mercanti. Il “Comune del popolo” o “delle arti” Il fenomeno associativo è frequente nel medioevo, data la debolezza del singolo rispetto all’ambiente circostante e data la complessiva mancanza di strutture pubbliche: egli trova un primo punto di riferimento e di aggregazione nella famiglia (intesa come ampio gruppo parentale o casato) ma pure tra chi lo affianca nella vita religiosa (Chiesa), nella città (Comune), nell’attività quotidiana (corporazione). Coloro che fanno lo stesso mestiere sono portati dalla comunanza degli interessi a collegarsi fra loro per difenderne e tramandarne l’essenza, assicurarne il pacifico esercizio e gli utili, garantirne prestigio e potere rispetto agli altri mestieri ed alla comunità. Nell’ambiente comunale prendono perciò vigore ed acquistano un ruolo di rilievo le corporazioni delle “arti”. Ci sono quelle degli artigiani, dei mercanti, dei professionisti. Con i secc. XII-XIII le corporazioni (o “arti”) hanno modo di svilupparsi entro ed accanto al Comune: dal punto di vista della storia giuridica sono da ricordare per tre importanti motivi. C’è in primo luogo la loro organizzazione interna, nel complesso simile, spesso per imitazione, anche se frutto di uno spontaneismo locale, che presenta pure differenze. Compongono l’“arte” coloro che – sulla base del medesimo mestiere esercitato, di “maestro” o capobottega – l’hanno fondata o ne sono divenuti membri. L’esservi ammessi non è facile: si deve superare una prova (“capolavoro”), che a giudizio dei componenti garantisca a loro ed alla comunità che l’aspirante conosce bene i segreti dell’“arte” e sarà in grado di svolgere la sua attività con competenza. L’ammissione, inoltre, presenta margini di opinabilità, perché ogni nuovo membro ammesso è pure un potenziale concorrente: i “maestri” esistenti non gradiscono veder proliferare troppo altre botteghe … I “maestri” membri della corporazione eleggono ogni anno un “console” o “priore”, che la dirige per i rapporti interni (giurisdizione entro l’arte, apprendistato, nuove ammissioni, rapporti fra i membri), nella difesa dei prezzi (d’acquisto della materia prima e dei prodotti), nelle opere assistenziali (cappelle e altare del santo patrono, sepoltura dei membri, aiuto ad orfani e vedove di maestri), nei rapporti con le altre arti (controversie, attività comuni e concorrenziali) e con l’esterno (trattati comunali di commercio e di scambio, rappresaglie, guerre commerciali, dazi e trasporti), nonché col Comune per la sua politica economica. I rapporti con questo vengono ad assumere una particolare importanza ed inducono la corporazione a seguirne da vicino le decisioni, in modo che non contrastino con l’attività dei propri componenti.

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Fra le corporazioni, in genere di artigiani e di mercanti (cioè delle “arti meccaniche”), sono da considerare un po’ a parte – ma con obiettivi nel complesso simili – i “collegia” professionali delle “arti liberali”, cioè di avvocati e giudici, notai, medici, professori universitari 24. Anche in essi c’è un “prior” annuale, ci sono i componenti e pure i praticanti o apprendisti, che sperano – superato l’esame del collegio – di esservi poi ammessi 25. Ogni membro al momento dell’ammissione viene “immatricolato”, cioè iscritto nell’elenco dei componenti: d’ora in poi è strettamente tenuto – sotto la vigilanza del priore – a rispettare le regole dell’arte, a garanzia della bontà dell’esercizio o del prodotto verso la collettività e pure del prestigio della corporazione 26. Nessuno può esercitare quella certa attività se non è iscritto alla corporazione. Questa vigila perché ogni membro la svolga seriamente. In tal modo la collettività è garantita, ma pure i membri della corporazione sono protetti da concorrenza scorretta 27. Col tempo la rigidità manifestata dall’“arte” nell’ammissione di nuovi membri (con impedimento di aprire nuove botteghe concorrenziali) ha fatto parlare di “corporativismo”, così come l’eccessiva difesa interna della propria attività rispetto alla concorrenza estera. Il sistema si è però protratto in Europa sino alla fine del sec. XVIII, quando le idee fisiocratiche e liberiste hanno ispirato via via alcuni Governi ‘illuminati’ (a fine Settecento, ad es. in Toscana) e quelli della rivoluzione francese ad abolire le corporazioni e la disciplina ad esse collegata, che affidava loro la gestione di quelle specifiche attività. Un secondo motivo di interesse per la storia giuridica è dato dagli istituti giuridici emersi nei rapporti fra i mercanti medievali. Il sistema del “privilegio” dell’epoca ha favorito infatti la formazione di regole proprie per le loro contrattazioni, che – diffusesi spesso per secoli in via consuetudinaria nei mercati di ogni contrada – hanno dato vita a quello che oggi diciamo diritto commerciale. Queste norme erano usate da e tra mercanti: per secoli hanno 24

Le arti “meccaniche” riguardavano attività per lo più manuali o fisiche, quelle “liberali” (sin dal periodo romano tipiche degli uomini “liberi”) erano svolte tramite la scienza o l’impegno intellettuale. 25 A secoli di distanza, è l’esame di laurea, quello di avvocato, quello “di Stato” per il medico … 26 Si parla oggi di garanzia del consumatore, di deontologia professionale, di esecuzione “a regola d’arte”. 27 Oggi si parla di marchi contraffatti, di evasione fiscale, di elusione della normativa fissata, di concorrenza sleale, ecc. …

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costituito il loro “diritto particolare” 28. Con l’inizio del sec. XIX però sono state per lo più estese a tutti e regolano oggi importantissimi settori della vita economica mondiale, nel complesso con poche diversità locali nella legislazione statale. Non è possibile soffermarsi nel dettaglio su tali istituti, né seguirne la storia. Si devono però ricordare, fra l’altro, la banca ed i contratti bancari, la cambiale e l’assegno, la società (in nome collettivo, in accomandita, per quote), l’associazione in partecipazione, l’agenzia, l’assicurazione, il trasporto, il fallimento. Si tratta di istituti o contratti sviluppatisi a volte con difficoltà a causa del divieto d’usura (= interessi) a lungo sostenuto dalla Chiesa, a sostegno dei quali però la capacità tecnica manifestata da notai e giuristi ha saputo fornire agli operatori economici gli strumenti giuridici per superare le difficoltà ed offrire soluzioni, anche raffinate, che hanno permesso all’ambiente mercantile di operare e progredire 29. Inoltre la giustizia fra mercanti è stata in genere realizzata tramite appositi tribunali commerciali (detti spesso Consolato) appoggiati al complesso delle arti (o Mercanzia), con proprie regole processuali ispirate alla rapidità, all’equità ed alla buona fede, che hanno avuto rilievo nella vita pratica del diritto. È un punto di particolare rilevanza, che merita sottolineare, per il rilievo avuto nei secc. XIX-XX ma per gli stessi esempi ispiratori dell’attuale vita giuridica. Un terzo motivo di interesse è quello dell’incidenza delle corporazioni nell’evoluzione istituzionale del Comune. Al primo periodo caratterizzato dal governo dei consoli è seguito quello del podestà: in certi comuni del Centro-Italia (come Bologna, Firenze, Perugia) ne è subentrato un terzo, col governo “delle arti”. Una concomitanza di fattori ha portato le corporazioni addirittura al comando del Comune. Un primo elemento sta nel favore mercantile per una situazione di pace o convivenza, portata allo sviluppo dei 28

Tale diritto particolare, su base consuetudinaria, era applicato sin dai porti del Mar Nero e del Mediterraneo orientale sino a quelli dell’Atlantico e del Mare del Nord: in parte messo per iscritto (Ordinanze di Barcellona, Consolato del mare, Ordonnance du Commerce, Ordonnance de la Marine …), è comunque circolato ovunque al di fuori dell’autorità pubblica che l’aveva consolidato in forma scritta. Alcuni commercialisti attuali usano in proposito impropriamente il termine di “lex mercatoria”. 29 La capacità tecnica dei notai medievali di redigere contratti di mutuo o d’assicurazione mascherati per non incorrere nel reato d’usura ha incontrato la piena fiducia dei mercanti dell’epoca, così come le costruzioni teoriche elaborate dai giuristi per aggirare la tipicità contrattuale romana ed offrire alle nuove esigenze commerciali un ‘nuovo’ diritto, di cui la pratica mercantile europea si è non solo giovata ma pure fidata con rispetto per secoli.

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traffici: ne consegue la contrarietà al clima di perenne bellicosità maturato nei Comuni a causa delle continue lotte partigiane interne. Di fronte alla necessità di ordine, le corporazioni se ne sono fatte carico, imponendo al Comune le loro condizioni. Un secondo elemento sta nella limitata partecipazione di diverse componenti cittadine – fra cui quella professionale e mercantile – all’effettivo governo comunale, spesso limitato ai maggiorenti (e ad alcuni giuristi o mercanti emergenti): nei secc. XIII-XIV questo ricco ceto vuole avervi più influenza e tramite le corporazioni (in cui è già organizzato) dà la scalata al potere locale, o almeno lo condiziona. Un terzo elemento gioca verso quest’evoluzione: l’imperfetto funzionamento del regime podestarile, su cui le “arti” hanno voluto intervenire con modificazioni istituzionali a proprio vantaggio. Le corporazioni si erano sviluppate in modo per lo più autonomo, ma sovente erano state controllate dal governo comunale, che fissava con la propria legislazione (“statuti comunali”) le regole per il loro funzionamento e per l’esercizio dell’attività dei componenti. Sul piano formale, quindi, le corporazioni erano soggette ad un certo controllo comunale. In alcune città (come Venezia) la loro grande proliferazione ne aveva polverizzato l’incidenza, ed il controllo dei tradizionali maggiorenti comunali non si è mai persa. In altre città (come Milano) la loro indubbia rilevanza economica non ha avuto modo di farsi sentire efficacemente sul piano politico perché l’affermazione della Signoria ne ha bloccato eventuali aspirazioni. In altre, invece, situazioni particolari hanno permesso alle “arti” di svolgere un ruolo istituzionale di rilievo nel Comune ed anche di reggerne le sorti. In parecchie città le diverse “arti” sono venute a coordinarsi infatti fra loro, creando – con consenso comunale – una specie di vertice del mondo commerciale, a difesa degli interessi particolari dei mercanti (per la politica annonaria, daziaria o economica comunale, l’espansione dei mercati, l’amministrazione della giustizia fra mercanti di corporazioni diverse, ecc.), detta spesso “Mercanzia”, retta da un collegio di “anziani” 30 delle diverse corporazioni. A loro volta le varie arti, di fronte alle lotte cittadine, si sono venute organizzando al proprio interno anche militarmente per difendere con la forza i loro interessi primari (più o meno minacciati). Tale impostazione ha portato entro il Comune un complesso paramilitare spesso comandato da un “capitano del popolo” (o “delle arti”) 31 che nelle lotte cittadine ha fatto sen30

Il termine è usato con una certa frequenza per indicare sia l’organo sia il singolo componente designato da una certa corporazione a rappresentarla. 31 Questa organizzazione paramilitare delle arti utilizza sia suoi componenti sia persone esterne e forma delle “societates armorum” del “popolo delle arti”, che si contrap-

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tire – anche vigorosamente – il suo peso ed ha imposto rilevanti riforme istituzionali, portando il “popolo” al potere. Tale “popolo” è quello riunito nelle “arti”, capeggiato dai priori o “anziani” delle stesse, contrapposto agli organi consueti del Comune del podestà, ma anche al “popolo minuto” dei lavoranti e della plebe. In alcune città questa contrapposizione fra le istituzioni del “popolo” e quelle del vecchio Comune è stata risolta con compromessi, che hanno affiancato gli organismi “popolari” a quelli comunali classici e portato ad una certa coesistenza di centri di potere (ad es. Vercelli); in altre si è avuta la prevalenza “popolare” e si è giunti al cosiddetto vero “governo del popolo” (come a Bologna e Firenze). In questi casi il vecchio ceto magnatizio è stato emarginato (ed a volte bandito dalla città) e con un’apposita legislazione “di parte” il Comune è stato retto dai membri e rappresentanti delle arti, con provvedimenti “antimagnatizi” giustificati con la necessità di una pace cittadina altrimenti impossibile per la litigiosità delle vecchie famiglie (come l’abbattimento di torri e case fortificate, oppure l’obbligo di far parte di un’arte per accedere alle cariche comunali) 32. Accanto o in sostituzione dei vecchi Consigli (ad es. di credenza) si affermano altri organi come il Consiglio degli anziani o i Priori (ciascuno a rappresentare un’arte); il Capitano del popolo (o anche “di giustizia”) a sua volta sostituisce o affianca il podestà nel comando militare e nel controllo dell’ordine pubblico. Il “governo del popolo” è rappresentativo delle arti, “partigiano” come esse: non può essere inteso come espressione di tutta la cittadinanza. Inoltre nell’organizzazione piramidale delle corporazioni giocano un ruolo solo i “maestri” (o, meglio, alcuni di loro) ed i “sottoposti” contano ben poco. Esso è però significativo di un ulteriore sviluppo comunale, realizzatosi in specie in città del Centro-Italia, alla ricerca di nuovi assetti istituzionali, che si rivelano però alquanto instabili ed aprono anche la strada ad una Signoria (nata spesso dall’interno, per l’emersione di un “signore” sostenuto dalle arti a reggere continuativamente la città). Il “comune del popolo” governa per conto ed a favore delle arti: certe volte riesce a sopraffare le precedenti istituzioni podestarili e ad imporre i pongono alle consorterie dei ‘magnati’ (o patrizi) a volte organizzate singolarmente dai vari casati militari, a volte direttamente legate al comune podestarile tradizionale. Naturalmente, si tratta di una situazione fluida nel tempo e nello spazio, difficile da schematizzare in sintesi. 32 Sono famosi in proposito gli “ordinamenti sacrati e sacratissimi” antimagnatizi (= antighibellini) bolognesi del 1255, oppure la legislazione fiorentina del 1280 (istitutrice dei “Priori” delle arti) e poi quella degli “ordinamenti di giustizia” del 1293 (con previsione del Gonfaloniere di giustizia, tratto da un’arte ogni sei mesi, sopra i Priori).

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suoi organi (Capitano, Anziani, Consiglio grosso …) come unitari per tutto il Comune. In altri casi c’è una convivenza tra vecchie e nuove istituzioni, in un equilibrio precario nel quale si bilanciano via via soluzioni spesso temporanee, a testimonianza di una costante crisi istituzionale, alla quale può alla fine portare soluzione la mano ‘forte’ di un “signore”, che si impone su tutti. Si tratta di situazioni tipiche della nostra penisola, perché nel Sud Italia ed oltre le Alpi (… ma pure in Friuli o in Piemonte) la presenza di re e prìncipi controlla in ogni caso lo sviluppo – esistente – delle corporazioni e ne impedisce qualunque ruolo politico. In tali situazioni, infatti, le corporazioni godono di una limitata autonomia per riconoscimento (“privilegio”) del principe, ed oltre non vanno. In questa più ridotta veste le corporazioni, anche nel Centro Italia, continuano dal sec. XV ancora per secoli a svolgere le loro funzioni per l’esercizio ordinato di una certa attività, sino alle critiche del sec. XVIII, che – trasformatesi in piena contestazione, a favore del libero mercato – le fanno sopprimere in seguito all’influenza della rivoluzione francese in Francia, in Italia e nell’Europa continentale.

5. Dal Comune alla Signoria. Il Principato La lotta tra le fazioni cittadine in Italia conduce il Comune alla Signoria. Le modalità variano, ma il risultato è analogo: a conclusione di determinate vicende politiche o militari, la volontà del signore si afferma come quella rilevante nella vita del Comune. Spesso sul piano formale restano – con modifiche – gli organi comunali precedenti, ma composti in modo tale da essere proni o condizionati dalle decisioni del signore (o di suoi delegati). In parecchi casi una fazione, per prevalere sull’altra, è indotta ad allearsi ad un potente signore feudale della zona, che così è facilitato a prendere il sopravvento in città in modo violento o anche per dedizione comunale grazie alla momentanea prevalenza del ‘partito’ a lui collegato: in seguito il signore ed il suo casato si consolidano nel Comune e vi agiscono in base al solo potere acquisito, più o meno connesso con la fazione che a suo tempo li ha chiamati in città. Alla base del potere del signore sta allora l’atto di dedizione ‘spontanea’ del Comune (per lo più solennemente attestato da un documento notarile), considerato poi per secoli vincolante nelle singole condizioni espresse fra il signore ed il Comune. È, ad esempio, il caso della signoria dei Savoia su Ivrea. In altri casi un capo-fazione cittadino riesce a far prevalere la sua fazione sulle altre e sull’onda di tale successo si fa acclamare da un’assemblea popolare “signore” del Comune: il vecchio arrengo riprende per una volta il rilie-

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vo di un tempo e l’acclamazione di quest’assemblea generale (nella quale, per … prudenza, sono convenuti i soli fautori del ‘partito’ vincente) legittima il potere acquisito. In tal caso, naturalmente, è all’attestazione delle decisioni di tale assemblea (tramandate da apposito strumento notarile) che farà riferimento in seguito il potere del signore, eletto per un certo tempo (1-5-10 anni, a vita, infine senza limiti, anche successori) con varia denominazione (come “dominus”, “potestas”, “capitaneus”). È, ad esempio, il caso della signoria dei Torriani o dei Visconti a Milano. In altri casi ancora, durante il “governo delle arti” nel Comune, i contrasti cittadini fanno aspirare ad un periodo di tranquillità, del quale sembra potersi presentare come garante una personalità benvista dalle corporazioni ma nello stesso tempo non osteggiata dalle altre componenti della vita cittadina: essa viene chiamata a capo del Comune (con titoli vari, secondo i casi) e vi si conserva al potere, riuscendo ad ‘addomesticare’ alle sue scelte politiche i precedenti organi comunali, più o meno modificati nel frattempo, È il caso, ad esempio, dei Medici a Firenze (in epoca ormai tarda, nel sec. XV). L’avvento della Signoria solo in certi casi modifica radicalmente la struttura comunale: in genere il signore preferisce non segnare troppo sul piano formale il cambiamento, conservando gli organi esistenti, ma epurandone (anche con l’esilio o altre gravi sanzioni) i componenti a lui contrari. Piuttosto, accanto a tali organi, possono esserne affiancati altri, di piena fiducia signorile, ai quali – quando necessario – sono confidate le decisioni più delicate: in essi, fra i consiglieri, non mancano giuristi, coinvolti nell’azione di governo. Quest’impostazione può quindi portare ad una specie di ‘diarchia’ fra vecchie e nuove istituzioni, comunali e signorili, che convivono e consentono al signore di decidere una ‘sua’ (nuova) linea politica mimetizzata negli schemi degli organi precedenti. Nei confronti dei sudditi il signore legittima la sua posizione tramite la dedizione comunale, l’acclamazione popolare o la delega ad assumere le funzioni di “dominus” cittadino, in ciò rifacendosi sul piano formale ad una volontà popolare (pervenuta dal basso), che in certi casi nasconde – più o meno bene – una posizione di forza. Alla metà del Trecento Bartolo osservava che l’Italia del suo tempo era pressoché “tota plena tyrannis” per “defectu tituli” perché considerava coartate o inadeguate – e quindi inefficaci – tali manifestazioni di volontà 33. Esse, inoltre, rilevavano all’interno del Comune, ma per il solo periodo previsto, e non molto verso l’esterno. La Signoria – a tempo e ‘ad personam’ – non è ancora il Principato, perpetuo ed ereditario. 33 L’altra ipotesi di tirannia per Bartolo era quella per “defectu exercitii”, a causa di un esercizio autoritario, scorretto o arbitrario del potere.

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Uno strumento utilizzato dai diversi signori per giustificare e sostenere il proprio potere è stato quello del vicariato imperiale (o – in qualche caso – pontificio). L’istituto era quello concepito a suo tempo dall’imperatore Federico II per l’Italia centro-settentrionale ed ai giuristi consulenti del signore poteva apparire adeguato: in una delle rare comparse dell’imperatore nella penisola i signori del sec. XIV si precipitavano alla sua corte (o al suo seguito) e – grazie al corrispettivo versato o promesso – ottenevano il titolo di ‘vicario imperiale’ per quel Comune (e terre annesse) già da tempo soggetto al signore. In tal modo sul piano formale il signore si vedeva legittimato sia verso l’interno (in modo maggiore di prima) sia verso l’esterno. C’era però una differenza sostanziale: il signore riceveva il titolo (formale), ma si doveva reggere (nella sostanza) con proprie forze nel Comune, ed anzi versava all’imperatore almeno una certa somma di denaro, mentre i vicari federiciani di un tempo si reggevano con forze (= milizie) imperiali (o di fautori) e ricevevano contributi per sostenersi. Nel sec. XIV l’Impero offre al massimo un titolo vuoto, non ha alcun sostegno da dare (anzi, ne riceve, in denaro …): il signore dev’essere autosufficiente. Ma è già soddisfatto se la sua forza è corroborata da un riconoscimento dall’alto, sebbene solo formale. Non è detto che la Signoria duri a lungo, nonostante l’aspettativa del titolare: molte sono state scalzate da altre, sostenute da fautori diversi, ma giuridicamente impostate in modo analogo. Superato un signore (= tiranno?), ne emergeva un altro. Se però la Signoria durava, il momento più delicato si rivelava quello della successione. Il signore poteva essere riuscito a protrarre nel tempo il suo potere (ad es. da 1 a 5 anni, poi più a lungo, poi a vita ...), ma il vincolo personale poteva arrestarsi con lui. Ove il suo prestigio fosse forte, il signore poteva però iniziare a cooptare accanto a sé un familiare (figlio o fratello), che avrebbe potuto in caso di assenza (o di morte) sostituirlo. Questa soluzione si è tramandata prima di fatto, poi in certi casi pure di diritto, con formale previsione del successore: un primo gradino dell’affermazione ereditaria era superato. Un altro sistema attuabile era quello di ottenere un vicariato (dall’imperatore o dal papa, secondo le terre di competenza) non solo personale, ma ereditario: in tal caso esisteva pure la ‘copertura’ formale. La Signoria stava facendo un passo importante per trasformarsi in Principato, con riconoscimento perpetuo ed ereditario per un certo casato a reggere il Comune e le terre dipendenti. È il caso, ad esempio, dei Visconti (giunti al titolo di duchi) in Lombardia (e Milano) e dei Medici in Toscana (e Firenze). Più facile è stato per vecchie dinastie feudali, come quelle dei Savoia o degli Este, estendere il titolo esistente alle acquisizioni territoriali effettuate, considerando le terre inglobate nelle investiture avute.

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La Signoria, se all’inizio sembra spesso mimetizzarsi nelle istituzioni esistenti, col tempo fa sentire il suo peso: finisce così con l’inaridirne l’esistenza svuotandole di contenuto, poi col sostituirsi ad esse. I più ridotti, autoritari ed efficienti collaboratori e consiglieri (singoli o collegiali) del signore succedono così ai più numerosi e dispersivi – nelle decisioni, ma pure nel potere – organi comunali. Il più compatto gruppo della Signoria, in cui militari e giuristi sono spesso i punti di riferimento, subentra a reggere la città, emargina e cancella istituzioni comunali di prestigiosa memoria: le cancella, ma si comporta come se il Comune perdurasse nel tempo. Per secoli si è spesso parlato ancora di “Comune”, sebbene nella sostanza molto cambiato, se non morto, da lunga data. La Signoria sfocia nel Principato quando la dinastia insediatasi in città riesce a reggersi ereditariamente nel tempo e ad affermare il suo pieno potere territoriale in città e dintorni (più o meno vasti). Il principe si ispira agli ordinamenti monarchici esistenti in Europa, si considera la fonte unica del potere locale e si preoccupa solo di garantirsi il riconoscimento imperiale o pontificio, comportandosi per il resto a livello internazionale come l’unico interlocutore cittadino. Naturalmente, organizza in modo del tutto personale il suo potere locale, trascurando ormai la precedente organizzazione comunale, se non in funzione delle sue esigenze specifiche, a cui sono piegate le istituzioni cittadine. Coinvolge in ciò pertanto un certo numero di giuristi. La Signoria ed il Principato in Italia muovono dal Comune e nell’ordinamento comunale hanno le loro origini. Se è comprensibile che col tempo finiscano col propendere verso soluzioni simili a quelle monarchiche, le origini continuano a farsi sentire nel tempo, perché la posizione e gli organi della città dominante (sul cui Comune la Signoria si è formata) continueranno ad avere la loro rilevanza ed a prevalere nel territorio. Il ducato di Milano e il granducato di Toscana avranno sempre istituzioni modellate in modo da risentire del peso degli organi comunali di Milano e di Firenze, città che saranno sempre non solo le capitali, ma pure quelle con organi dominanti in tutto lo Stato. Mentre Genova e Venezia conservano istituzioni comunali (di tendenza peraltro aristocratica) ed i loro due Stati ‘repubblicani’ (in un’Europa di príncipi) resteranno sino al periodo napoleonico, a Milano e Firenze si instaura la Signoria, ma questa non appiattisce la prevalenza ed il dominio del relativo Comune sul territorio conquistato ma li conserva appieno, pur ponendosi al vertice dei rispettivi territori. Con la Signoria, ed a maggior ragione col Principato, si accentuano alcune linee già presenti nel Comune. C’è l’ufficio, con le sue funzioni, a cui è preposto un “ufficiale” o “funzionario”. Esse sono determinate, e non spettano ad altri: è il principio della “competenza”. C’è una gerarchia fra esse: si

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precisa una “competenza gerarchica” e “funzionale” fra gli uffici. Emerge quella che si dirà la burocrazia. Gli uffici sono per lo più affidati a tempo, a volontà del principe, anche per appalto; si fa peraltro strada pure una linea che valuta anche capacità, competenza ed efficienza, e non è solo legata alla simpatia o al beneplacito del signore. Si va verso lo Stato moderno, anche se in modo altalenante, estemporaneo e piuttosto confuso.

IX IL RINASCIMENTO GIURIDICO

SOMMARIO: 1. La riscoperta del diritto. – 2. La rinascita romanistica bolognese. – 3. La nuova scienza giuridica. – 4. Figure della scuola dei glossatori. – 5. L’Università. – 6. Graziano e l’origine della scienza canonistica. – 7. Il “corpus iuris canonici”.

1. La riscoperta del diritto Per secoli l’elemento dirimente delle controversie medievali è stata la forza, con frequenti guerre private fra famiglie, gruppi sociali, signori. I “milites” erano allevati alla guerra, autorizzati a portare le armi: il cavaliere armato incuteva terrore ai civili senz’armi, fossero rustici, mercanti o viandanti (chi temeva le armi poteva rifugiarsi in monastero …). Si cercava la protezione del proprio gruppo familiare o sociale, di un ‘potente’ armato, del borgo fortificato. Ancora all’inizio del sec. XI l’imperatore Ottone III, per evitare l’estesa bellicosità delle guerre private, imponeva che le controversie fossero risolte “per pugnam”, cioè tramite il duello 1. Esistono pure notizie di soluzioni giudiziali secondo regole giuridiche, spesso consuetudinarie, ma si può dubitare che ciò avvenisse sulla base di un filo di ragionamento giuridico: il giudice era un ‘politico’, che amministrava la giustizia con l’obiettivo di garantire l’ordine pubblico (per quanto poteva e riusciva) e di evitare un malcontento, che sarebbe sfociato in una guerra privata. Nel sec. XI, ad attestazione della ‘rinascita’ – fors’anche un po’ lenta – di una prospettiva diversa, per iniziativa ecclesiastica si sono diffuse le “tregue di Dio”, che aspiravano a ridurre la consueta belligeranza, dato che quest’ultima – nonostante tutto – sembrava avesse raggiunto livelli considerati ormai intollerabili. Si fa faticosamente strada l’idea che buona parte delle guerre private possa essere evitata o fermata tramite una deci1 Questo principio risaliva, d’altronde, già al periodo longobardo, come ricorda un anonimo commento a un editto di Liutprando.

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sione superiore, che peraltro non è facile a trovarsi, di fronte al vuoto di potere (imperiale) ed alla rissosità delle parti. Nel corso del tempo, però, qualche barlume di speranza può contribuire a far abbandonare sia la guerra che il duello per affidarsi piuttosto alla decisione ‘ragionata’ tramite il diritto, da parte di un giudice che ne sia esperto. Il cammino può essere ancora lungo, ma può anche trovare uno sbocco positivo per ridurre l’uso della forza. La rinascita culturale del sec. XI contribuisce efficacemente in proposito: nelle diverse scuole, monastiche o cittadine, fra i volumi conservati, riassunti ed usati finiscono con esserci pure testi giuridici, non solo della tradizione germanica e feudale, ma anche di quella romana: di essi possono giovarsi in modo più specifico quei “notari”, che sono chiamati in misura crescente a tramandare per iscritto l’attestazione di determinati atti giuridici, e quindi sono direttamente interessati a prepararsi dei modelli di ciascuno dei più frequenti (sono quei prototipi dei singoli atti, con le loro “formule”, che prendono per lo più nome di “formulari”) 2. Un contributo indubbio all’approfondimento culturale sotto il profilo del diritto viene poi dall’ampio movimento di purificazione della vita della Chiesa noto come “riforma gregoriana”, che induce i fautori delle diverse posizioni a sostenerle pure dal punto di vista delle ragioni giuridiche e quindi a conoscere ed approfondire testi di contenuto giuridico. In proposito, sono significative le contrapposte tesi, enunciate con appositi scritti, a sostegno delle ragioni – religiose, politiche, filosofiche, ma anche giuridiche – da un lato della Chiesa e dall’altro dell’Impero durante la decennale controversia della lotta per le investiture. Si sono conservate specifiche testimonianze che nella seconda metà del sec. XI, ed in specie verso la fine, si accentua l’interesse per l’uso delle fonti della tradizione romanistica. Riemerge pure – dopo secoli d’oblio – l’uso del Digesto, la raccolta più raffinata – ma più difficile – dell’opera giustinianea: la prima notizia si ha nel 1076 nel placito (= giudizio) svoltosi a Marturi (Toscana), a cui prende parte il “legis doctor” Pepo: su di lui la nostra storiografia si è soffermata anche di recente, perché un esperto di tale nome – omonimo o la stessa persona? – risulta da alcune fonti attivo presso la contessa 2 Il notaio esiste già nell’alto medioevo per conservare la memoria di qualche atto giuridico, ma acquisisce – anche qualitativamente – un rilievo molto diverso con la rinascita giuridica dei secc. XI-XII, vedendosi riconosciuto una specifica funzione certificatrice dalla società comunale. Per questo affina le sue conoscenze e qualità professionali e predispone dei “fac-simili” (= formule) dei principali negozi giuridici di sua competenza. Per la preparazione di tali formule (che, riunite fra loro, danno luogo al “formulario”) si giova delle ‘nuove’ conoscenze dei “libri legales” giustinianei. Gli stessi maestri bolognesi si impegnano in tal senso: si sa che Irnerio ha ispirato lui stesso le formule di atti notarili e che altri maestri hanno predisposto dei formulari notarili.

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Matilde di Canossa e pure docente di un insegnamento – peraltro considerato modesto – a Bologna. Senza entrare nei dettagli, si può constatare che alla fine del sec. XI nella zona del Centro Italia fra la Toscana, Modena e Bologna si concentrano testimonianze di una specifica ripresa d’interesse per la conoscenza e per l’uso nelle decisioni giudiziali dei testi giustinianei, generalmente trascurati per secoli.

2. La rinascita romanistica bolognese L’esperto che tra la fine del sec. XI ed i primi decenni del successivo ha riesumato questi testi, li ha riordinati, studiati ed illustrati ad allievi è stato Irnerio (Irnerius, Wernerius, Guarnerius nelle fonti): è il vero protagonista della riscoperta e della valorizzazione degli antichi “libri legales” giustinianei, nonché fondatore della “scuola di Bologna” o “dei glossatori”, alla base delle origini della stessa Università (un tempo “degli studenti”, ora “degli studi”). È una figura fondamentale per la storia giuridica, mitica e un po’ mitizzata, della quale ancora recentemente si è discusso. I 14 documenti sinora noti sulla vita di Irnerio vanno dal 1112 al 1125: si può ipotizzare sia vissuto fra il 1050/60 ed il 1130. Si sa che ha avuto rapporti con la contessa Matilde di Canossa e pure (1116-1125) con l’imperatore Enrico V (di cui ha sostenuto la nomina dell’antipapa Gregorio VIII contro la curia romana, incorrendo nella scomunica); si sa pure che è stato il fondatore di una scuola di diritto a Bologna, nella quale ha illustrato agli allievi le caratteristiche delle raccolte giustinianee da lui riscoperte, riorganizzate e specificamente studiate. Se nell’alto medioevo le Istituzioni – almeno in parte – sono state conosciute e sono un po’ circolate, non così era avvenuto per Digesto, Codice e Novelle, i cui testi sono stati ignorati sino al sec. XI. Probabilmente Irnerio ne ha inseguito i manoscritti esistenti in area emiliana 3: li ha poi coordinati, ritoccati e studiati, dando per la prima volta dopo secoli rilievo soprattutto al Digesto ed ai primi nove libri del Codice e facendo passare un po’ in secondo piano le più elementari Istituzioni. Nella tradizione della “scuola” di giuristi da lui fondata è stato sempre considerato la “lucerna iuris”, che ha saputo ricostruire il testo dei “libri legales” giustinianei, studiarli quando ancora erano trascurati, coglierne l’importanza e tramandare ai posteri le sue conoscenze tramite l’insegnamento, essendo stato il “primus illu3

Non si deve dimenticare che proprio Ravenna, non molto distante, è stata la capitale giustinianea dell’Italia: i manoscritti di tale diritto dovevano quindi aver avuto una certa diffusione in zona.

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minator scientiae nostrae”. Così riporta a metà Duecento, quindi ad oltre un secolo di distanza, un successivo discepolo e maestro della scuola, Odofredo. Lo stesso Odofredo ricorda in modo un po’ leggendario il ritrovamento progressivo delle diverse parti della raccolta, che è stata tramandata poi nei secoli (sino a fine Settecento) in conseguenza di tali vicende. Dei 50 libri del Digesto Irnerio ebbe a disposizione quelli iniziali (1-24 tit. II), che chiamò “Digestum vetus”: poiché si interrompevano bruscamente, cercò altri manoscritti. Trovò i libri 3950, che denominò “Digestum novum”. Mancava però ancora la parte centrale: dopo ulteriori ricerche fu trovata e, poiché rafforzava (e completava) le conoscenze, fu detto “Digestum infortiatum” (libri 24.III-38). I “libri legales” della tradizione bolognese sono quindi cinque: 1. Digestum vetus; 2. Digestum infortiatum; 3. Digestum novum; 4. Codex (primi 9 libri); 5. Volumen (Istituzioni; ultimi 3 libri del Codex; Novelle in numero di 134 divise in 9 collazioni; alcune costituzioni imperiali successive e la pace di Costanza; “Libri feudorum”).

Questi cinque poderosi volumi, che i giuristi della “scuola di Bologna” fondata da Irnerio illustrarono con le loro “glosse”, compongono quello che è stato poi detto per secoli il “corpus iuris civilis”: nella loro considerazione si tratta del complesso della ‘legge’ in assoluto, cioè dei princìpi che valgono per ogni società civile, come un testo sacro. Il giurista trova questi cinque “libri legales” come un “prius” rispetto al suo operato: deve solo ‘interpretarli’, applicarli e farli applicare. Contengono le regole eterne per la società umana (eterne come quelle della fisica o della natura), che la scienza (del diritto come della fisica) può solo studiare ed approfondire. Esistono e basta: nella prospettiva della “scuola di Bologna” il giurista può unicamente prenderne atto e diffonderne la sostanza al mondo circostante, quasi come un sacerdote laico. Questa grande fiducia di Irnerio e degli allievi nei “libri legales” ha contagiato con una rapidità imprevedibile e stupefacente la società circostante. Essi erano stati emanati secoli addietro dall’imperatore bizantino Giustiniano, di cui gli imperatori contemporanei (del S.R.I.) si consideravano – a torto o ragione – i continuatori; ma erano passati più di cinque secoli d’oblio … Nessuno tra i politici del tempo si preoccupò di ribadirne la vigenza: eppure dal sec. XII al sec. XVIII furono alla base degli ordinamenti dell’Europa continentale senza eccessive contestazioni 4. La cieca fiducia dei maestri bo4

I “libri legales”, nella versione più ampia del “corpus iuris civilis” glossato sono stati alla base della formazione dei concetti giuridici usati per secoli in Europa: i vari diritti locali (statuti comunali, legislazione principesca e statale) li hanno sempre presupposti e

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lognesi nella bontà assoluta del loro contenuto e dei loro precetti superò ogni problematica di promulgazione o di attualità: erano i “libri legales” per antonomasia ed al loro testo si doveva credere. Esso non sempre era accessibile con facilità: doveva essere ‘interpretato’ da un esperto, tramite un metodo acquisito con una scienza conosciuta dopo studi appositi, mirati ad apprendere le necessarie tecniche interpretative. Ancora a fine sec. XI il diritto non aveva una posizione definita nell’insegnamento delle arti liberali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) e non era distinto con precisione dall’etica e dalla logica (entro le diverse partizioni delle arti del trivio, in specie della retorica). Non era quindi oggetto di uno specifico studio nelle scuole del tempo. Lo stesso Irnerio sembra sia stato un maestro del trivio, che si è via via appassionato alla conoscenza – entro lo studio delle arti del trivio – delle problematiche giuridiche e della ricostruzione dei testi che le trattavano. Il suo merito è stato quello di scindere il diritto come scienza a sé, di studiarlo a parte e di costruirne una precisa autonomia dall’etica e dalla logica. Ciò non impediva al giurista di porsi il problema dell’eticità della norma giuridica, né di adottare strumenti logici per interpretarne il contenuto, ma gli consentiva però di rivendicare un proprio campo di valutazione – giuridico – diverso da quello della morale, e propri metodi di lavoro scientifico accanto a quelli della logica. Ormai, comunque, si era affermata un’autonoma “scientia iuris”, distinta da quella del trivio (ed a maggior ragione del quadrivio), con una sua “scuola” (di Irnerio ed allievi) ed una sua metodologia di studio (vari tipi di “glosse”, “summe”, “formulari”, ecc.). Dopo – e con – la riscoperta irneriana dei testi giustianianei il diritto nasceva come scienza a sé, con una sua metodologia d’approccio e di studio, ma anche di insegnamento (la “scuola di Bologna”); ma nasceva pure una vera e propria professione nuova, quella del giurista, l’unico esperto in grado di maneggiare con la nuova metodologia scientifica l’oscuro complesso dei “libri legales”. Poteva essere una scienza trascurata dal mondo circostante, fine a se stessa. Invece attecchì, rapidamente, con un successo che può sembrare persino eccessivo, senza dubbio imprevedibile in così poco tempo. È un fenomeno di cui si prende atto, anche se si può cercare di ricostruirne qualche ragione (altre si possono trovare nella fortuna, nell’imitazione, nella credibilità – e pure credulità – umana, e così via). Si è detto della stanchezza del tempo per la risoluzione dei contrasti con le guerre private. Una delle stesse radici del Comune sta nella ricerca della si sono inseriti accanto ad essi: nessuno ne ha mai contestato per secoli i principi contenuti. Solo la “interpretatio” dei giuristi ne ha eventualmente adeguato via via le affermazioni alla vita del tempo.

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tregua e della pace entro le mura cittadine. Ai politici del tempo giuristi e giudici potevano sembrare adatti, con le loro conoscenze, per limitare, incanalare, dirimere i dissensi senza giungere alle armi: varie indicazioni in tal senso possono esserci fra i secc. XI e XII. Nel mondo comunale emergente, inoltre, le élites cittadine potevano intravedere un nuovo sistema ‘giuridico’ per gestire la società diverso da quello ‘bellico’ del passato feudale, da magnificare ai concittadini: non per nulla la ‘giustizia’ comunale era affidata spesso ad esperti di diritto più presentabili dei precedenti delegati del potere comitale … L’effervescenza dell’ambiente cittadino necessitava ormai di un diritto scritto più raffinato di quello degli usi, per i traffici mercantili o i contratti agrari, i trattati internazionali o le operazioni finanziarie, gli appalti o gli investimenti mobiliari e immobiliari, e così via: i “libri legales” ed i consigli dei giuristi si rivelavano sempre più utili … La credibilità del ‘nuovo’ mondo giuridico sembrò aprire prospettive insperate alla parte più dinamica della società del sec. XII: fu la fortuna degli esperti di diritto del tempo, ma anche della “scienza” giuridica, e della “scuola” che la insegnava. La fama di questo ‘nuovo’ diritto, di qualità superiore e ben diversa da quanto (per consuetudini locali ed usi feudali) sino ad allora era noto, si diffuse con buona rapidità: politici, notabili e uomini comuni pensarono di giovarsene per le loro esigenze. Per non citare che un episodio – molto noto – quando nel 1158 l’imperatore Federico I riunì a Roncaglia i principali politici (comunali e feudali) del Centro-Nord dell’Italia, chiese ai quattro allievi e successori di Irnerio nella “scuola di Bologna” di esprimersi circa i suoi diritti patrimoniali in quanto imperatore (“iura regalia”, o “regalie”): essi diedero concordi il loro parere e tutti i presenti ne accettarono il risultato, data l’autorevolezza della fonte. La soluzione, favorevole alle aspettative imperiali, poté spiacere a gran parte dei convenuti, ma non fu discussa da nessuno degli inviati comunali, nonostante la pesante ricaduta politica per le loro autonomie: sia la richiesta del parere sia la conclusione della riunione sono significative del prestigio ormai raggiunto ben oltre Bologna e l’Italia dalla fama del ‘nuovo’ diritto.

3. La nuova scienza giuridica Irnerio ha coordinato e studiato i “libri legales”, da lui per primo coscientemente esaminati. Ha constatato la preminenza dottrinaria del Digesto (nella suddivisione delle tre parti da lui fatta) e dei primi nove libri del Codice (poiché gli ultimi tre riguardavano soprattutto il funzionamento dell’impero bizantino e si rivelavano quindi non attuali). Nella sua analisi ha preso atto della difficoltà concettuale di numerosi passi e pure della necessità di coor-

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dinare la trattazione di argomenti simili fra le diverse fonti (ed anche all’interno di queste): in proposito ha fatto la cosa più semplice ipotizzabile, ed ha scritto dei sintetici appunti di spiegazione e di coordinamento dei vari passi, in margine o tra le righe del testo. Sono le cosiddette “glosse”, marginali o interlineari. Questo metodo di studio, significativo della volontà di aderenza al testo, è stato alla base dell’opera di Irnerio e della sua “scuola”, detta appunto “dei glossatori”, attiva fra la prima metà del sec. XII e la metà del sec. XIII. Essa ha come sua base Bologna (ed è quindi detta pure “scuola di Bologna”), ma si espande pure – in seguito a spostamenti di maestri con i loro allievi – altrove, come a Modena, Padova, Napoli, Montpellier, sino ad un fallito tentativo (del glossatore Vacario) a Londra.

LE GLOSSE Lo studente si procura (a pagamento, da un copista) il testo giustinianeo o lo scrive direttamente sotto dettatura del maestro sul foglio di pergamena, con ampi margini bianchi. Il maestro, letto il testo di un frammento giustinianeo (una “lex”, o anche solo un paragrafo), ne spiega il significato e lo commenta confrontandolo con le affermazioni di altri passi: lo studente ne sintetizza l’insegnamento con una o più glosse (a volte direttamente fra una riga e l’altra – glosse interlineari –, più spesso nei vasti margini ai bordi – glosse marginali –) tramite brevi frasi, spesso abbreviate con un sistema convenzionale, che diventa tipico dei soli giuristi (e ne viene a conservare quasi un “segreto dell’arte” o professionale).

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Il libro di pergamena viene a sintetizzare – e ricordare – l’insegnamento del maestro allo studente, che lo porterà con sé nel corso della sua futura attività. Spesso, però, il libro serve pure in seguito ad altri studenti, che annotano l’insegnamento di ulteriori maestri, a volte indicando al termine di una glossa il nome (siglato o abbreviato) del maestro che l’ha esposta. Nel libro manoscritto si formano così diversi strati di glosse di vari maestri e si riempiono via via i larghi margini. Per comodità di studenti (e maestri) si sviluppa inoltre l’attività di copisti (“stationarii”), che in apposite botteghe offrono (a pagamento) sia il testo giustinianeo che le glosse a studenti ricchi (e non molto diligenti …). Le glosse vengono così a sovrapporsi le une alle altre: nel frammento qui riprodotto non sono ancora molte, ma via via si accumuleranno, a ricordare l’insegnamento dei vari maestri, con opinioni a volte anche diverse. Nel Duecento si sente la necessità di mettere ordine fra le diverse glosse manoscritte nei vari codici, ma l’impresa non è facile: ci riuscirà alla metà del secolo Accursio. La sua “glossa ordinaria” ha grande successo e viene a sostituire la trascrizione degli altri codici anteriori: questi, considerati ormai superati, sono spesso distrutti. Ne consegue che, mentre si sono conservati molti codici con la “glossa accursiana”, sono rari quelli con glosse preaccursione. Ad esempio, il frammento qui riportato è stato usato per la rilegatura di un codice successivo. Esso riguarda un punto del Digesto (D. 18.2.10-12) con glosse preaccursiane nell’ampio margine destro della carta, a spiegazione del testo giustinianeo riportato nella colonna a sinistra.

Alla base del lavoro di studio delle raccolte giustinianee stanno le glosse: per chiarire sinteticamente il significato di una parola, di una frase, di un concetto; per richiamare altri passi paralleli (in connessione, in contrapposizione, ad integrazione); per discutere l’applicazione o la comparazione della fattispecie indicata nel frammento ad altre simili o diverse di altri passi. Naturalmente, lo spazio nel manoscritto è molto limitato: ai margini del testo (lasciati appositamente ampi) si abbreviano annotazioni e rinvii, secondo uno schema mentale noto nella scuola, che renderà però spesso le glosse accessibili ai soli esperti del ramo (e salverà quindi verso l’esterno la professionalità dei giuristi, come i “segreti” dei tintori o dei medici) 5. La progressione dei maestri nello studio fa aumentare le glosse marginali: spesso l’autore le conclude con la sua sigla. Nei manoscritti possono stratificarsene di differenti persone anche di tempi diversi, frutto di uno studio ripetuto, specie nei punti più tormentati o interessanti. 5

Ogni corporazione aveva i suoi ‘segreti’: i testi giuridici, tramite queste sigle o abbreviazioni, potevano essere capiti solo da chi avesse appreso la conoscenza di tali ‘segreti’ da qualunque ‘maestro’ in diritto.

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Per Irnerio ed allievi i “libri legales” contengono il diritto vigente: devono coordinarne bene i passi. La loro ammirazione per essi è immensa (o presentata come tale …), perché contengono le massime dottrinarie del vivere civile, fuori dello spazio e del tempo. Irnerio si rende però conto che l’ultima raccolta giustinianea, le Novelle, è di livello diverso, perché riporta in modo non sintetico la legislazione dello stesso imperatore successiva al Codice: per comodità e sinteticità pensa opportuno coordinarne le prolisse disposizioni col Codice stesso (naturalmente nel manoscritto da lui adottato, coi soli primi nove libri). Inserisce perciò nei punti del Codice che trattano di argomento analogo una sintetica sua redazione della norma giuridica enunciata (per lo più in modo ampolloso) nelle Novelle: si tratta di un frammento aggiuntivo, che favorisce la conoscenza del “ius novum” delle Novelle giustinianee e coordina il Codice con esse, con specifica indicazione della provenienza. Irnerio denomina tale suo frammento “Autentica”, perché le Novelle gli sono note tramite una versione detta “Authenticum” (come se tramandasse – cosa infondata – il testo autentico delle costituzioni giustinianee, ma che era comunque più vicino ad esse di altre raccolte in uso nel medioevo): fa quindi un’opera di integrazione – e, se si vuole, di interpolazione – della stessa raccolta giustinianea, per quanto da lui quasi sacralizzata. D’ora in poi le “Autentiche” redatte da Irnerio saranno tramandate entro i manoscritti del Codice e circoleranno con la stessa rilevanza normativa degli altri frammenti. Si potrà, naturalmente, controllare il contenuto facendo capo al testo della Novella esistente nell’“Authenticum”; ma la credibilità di Irnerio e delle sue capacità – unita alla pigra acquiescenza del giurista – porterà per secoli i giuristi ad usare le “Autentiche” irneriane sullo stesso piano del resto. Non si verifica solo ciò: col tempo si darà alla tradizione consolidata delle glosse marginali (nella futura redazione accursiana) lo stesso valore del testo giustinianeo, dato che le glosse servono per ‘interpretarne’ la sostanza. In tal modo sia Irnerio con l’inserimento delle sue “Autentiche” entro il Codice sia tutta la sua scuola con le glosse ai “libri legales” e la rielaborazione dei concetti in essi contenuti finiscono – tramite la loro “interpretazione” – col prendere parte attiva alla formazione del ‘nuovo’ diritto scritto scaturito nei secc. XI-XIII in Europa, sebbene teoricamente esso si presenti come una pura riesumazione di un diritto (romano) di dimensione senza tempo né spazio. Il giurista medievale è venuto assumendo per l’uomo del suo tempo la figura di colui che gli illustra – desumendole dai “libri legales” – le regole secondo le quali ‘deve’ reggersi ogni fase della vita e della società contemporanea. Il rifiuto della soluzione di forza per favorire la convivenza civile porta ad una fiducia notevole (forse fin eccessiva, se esaminata dall’interno dell’ambiente giuridico, ma comprensibile se vista dall’esterno) nel diritto e

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nella perspicacia dei giuristi per individuare le soluzioni ‘ragionevoli’ per l’uomo della propria epoca, data la mancanza o ridotta incidenza della legislazione del tempo 6. Irnerio illustra i risultati dei suoi studi agli allievi presenti nella sua scuola privata. Lo studente non prende solo appunti, deve procurarsi pure il testo: si avvia un metodo didattico che integra dettatura del testo, suo commento esegetico, confronti con passi paralleli, costruzione degli istituti e distinzioni conseguenti, discussione di casi pratici e collegamento con la vita contemporanea. La scuola di Bologna si affina via via anche nel metodo didattico: non tutto è attribuibile sin dall’inizio ad Irnerio. Sin dalla sua opera, però, c’è un interessamento per la stessa pratica notarile, che lascia trasparire in questi giuristi attenti alla teoria generale pure un legame con la realtà del presente. La glossa è lo strumento principale di studio e dopo Irnerio sarà costantemente usata dai maestri successivi. Altri strumenti però si affiancano via via, sollecitati dalle esigenze della scuola, frutto spesso di iniziative autonome dei maestri più importanti: si tratta di generi letterari raffinati, coi quali la “scuola di Bologna” si segnala per la levatura teorica e la capacità di costruire un ‘nuovo’ diritto tramite concetti e categorie giuridiche derivati dai “libri legales” ma rielaborati per il proprio tempo. Tra gli altri, si possono ricordare le “distinctiones” fra passi ed istituti paralleli a chiarire concetti e fattispecie diversi 7; i “brocarda” per argomentare fra tesi contrapposte davanti ai giudici e per affermare e ricordare con frasi lapidarie princìpi importanti di diritto 8; le “quaestiones” per esaminare casi concreti e applicare ad essi le costruzioni teoriche via via elaborate 9; i “quare” e le “dissensiones”, 6

Ciò a differenza dell’eccessiva frequenza della legislazione nei secc. XX-XXI, la cui proliferazione è giunta a causare anche incongruenze e incertezza sulla norma da seguire, fra le tante. 7 Le “distinctiones” sono tra gli strumenti basilari della logica giuridica; frutto di numerose distinzioni sia fra ipotesi sia fra casi, sono state a loro volta raccolte nella scuola e tramandate da manoscritti appositi. 8 La raccolta di “brocarda” di Azzone è la più nota. Si tratta di espressioni sintetiche, quasi proverbi giuridici (ispirati a passi giustinianei), a favore o contro una certa soluzione, che si adottavano per memorizzare determinati princìpi giuridici ed erano molto utili sia sul piano didattico che nella pratica. 9 Nelle “quaestiones” si dibatteva – e risolveva – un caso concreto. Si prese l’abitudine di porre la questione agli studenti e di farli esercitare in due gruppi (uno ‘pro’ ed uno contro), con la soluzione finale del maestro. Il sabato, giorno di semivacanza, era spesso dedicato a ciò, per cui si parlò di “quaestiones sabbatinae”. Erano utili esercitazioni pratiche per lo studente. Un altro tipo di “quaestiones” fu quello dei casi affrontati direttamente dal maestro in una sua trattazione specifica, in cui si poneva il

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in cui si discutevano le motivazioni alla base di una certa regola giuridica o quelle di illustri maestri a sostenere princìpi e soluzioni in contrapposizione 10. Accanto a questi generi letterari più teorici, e spesso direttamente connessi con l’insegnamento e la formazione del giurista, due hanno avuto grande successo pure presso i pratici ed i giuristi già in attività: gli “ordines iudiciorum” e le “summae”.

AZZONE, BROCARDA I “Brocarda” indicano i passi giustinianei favorevoli e contrari alla soluzione di un determinato problema giuridico, secondo l’impostazione casistica dei glossatori. Azzone ha raccolto numerosi “brocarda” già elaborati anche da altri autori, a cui in seguito furono fatte ulteriori aggiunte da altri giuristi. Nel sec. XVI si procedette alla diffusione dell’opera tramite la stampa (la prima fu edita a Venezia nel 1566).

Il “brocardum” riprodotto riguarda il principio secondo cui non è possibile fare nel proprio fondo qualcosa che nuoccia al vicino [senza averne giovamento], principio ancora attualmente riconosciuto dal divieto di atti emulativi (art. 833 c.c.). Il “brocardo” è costruito esponendo prima i passi favorevoli, poi quelli contrari, infine risolvendo il caso discusso. Lo studente mandava a meproblema e lo risolveva (dopo avere espresso lui stesso i “contra” e i “pro”) nel corso della trattazione monografica dell’argomento. 10 Con le “dissensiones” la scuola ricordava le posizioni contrapposte tenute da maestri diversi su determinati problemi o argomenti: servivano per valutare la validità delle une o delle altre, per esercitare al ragionamento, per conoscere punti di vista divergenti (a volte rimasti tali). Molto note in proposito sono alcune raccolte di “dissensiones dominorum”, che tramandano tesi diverse fra i grandi maestri bolognesi.

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moria la conclusione del caso tramite una frase sintetica ed inicisiva che lo rendesse facilmente comprensibile e poteva in tal modo giovarsene poi nella sua attività pratica, risalendo solo se necessario ai passi a sostegno del “brocardo”. In tal modo ogni “brocardo” col tempo è venuto a presentarsi quasi come un proverbio giuridico di facile comunicazione.

L’“ordo iudiciarius” 11 nasce per la pratica e non per la didattica, anche se l’avvio è con ogni probabilità pervenuto da Bulgaro, uno dei quattro “dottori” allievi di Irnerio. Il maestro redattore vi comprende le spiegazioni teoriche dei diversi istituti ed i relativi “fac-simile” (cioè le “formulae”) che avvocati, giudici e notai possono prendere a modello per la redazione degli atti scritti di loro competenza. Il maestro imposta ed illustra il quadro teorico di quella certa “azione” (secondo la terminologia romana), con una serie di specie e sottospecie, in previsione delle più frequenti ipotesi concrete e lo conclude con la proposta di un modello che l’operatore giuridico potrà seguire in tutto o in parte. I maestri bolognesi sono dei teorici che non ignorano le esigenze dei pratici (anche solo per convenienza di cassa o di manovalanza, a seconda delle diverse prospettive …). Data l’importanza ed il successo di tale genere, si sono naturalmente susseguiti parecchi “ordines iudiciorum”. Le “summae”, più o meno ampie e significative, sono tipiche del medioevo e non potevano mancare nemmeno in campo giuridico. Sono, naturalmente, il frutto di un’opera di sintesi, delineata a tavolino (cosa che vale pure per ogni “ordo iudiciarius”) e non a scuola: l’autore pensa ormai che le conoscenze si siano consolidate. Esse sono quindi frutto non solo di menti sintetiche, ma anche di un periodo di conoscenze ormai maturo. Possono esserne state redatte su singoli argomenti, quindi con prospettive più specifiche; alcune riescono invece a raggiungere una dimensione pressoché generale e seguono in tal caso la disposizione e la successione per argomenti di uno dei “libri legales”, per lo più il Codice. La “summa” più nota è quella di Azzone: la sua “Summa Codicis” è stata considerata per secoli la sintesi per eccellenza delle conoscenze giuridiche a livello anche di pratici (è noto il detto “chi non ha Azo non vada a palazzo”, cioè in udienza), oggetto ancora di tante edizioni dopo la scoperta della stampa. Molto più rara è invece l’edizione della “Summa Codicis” di Piacentino, al11

Nell’“ordo iudiciarius” sono esposti – azione per azione, cioè in pratica istituto per istituto – i princìpi teorici ed i fac-simile (= formule) di citazioni (= libelli), che servono all’avvocato in causa. Didatticamente lo studente, ormai preparato da uno studio istituzionale alla costruzione del suo ragionamento giuridico, si esercita su una serie di problemi concatenati; per la pratica, questa sarà la guida che il neo-dottore potrà usare come avvocato. Si tratta quindi di un ‘genere’ di studio molto utile anche nella pratica giuridica.

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tra illustre – e precedente – summa, scalzata da quella successiva di Azzone. L’insegnamento della “scuola” di Bologna – anche altrove, dopo la diaspora di maestri famosi – si è basata comunque sulla lettura (ed eventuale preventiva trascrizione manuale da parte dello studente) del testo giustinianeo e sulla sua esegesi tramite la glossa. Lo studente seguiva negli anni le lezioni sui vari “libri legales” e se ne glossava i margini secondo l’insegnamento e le glosse dei maestri, ne approfondiva eventualmente i contenuti con i “brocarda” o le quaestiones”, si appropriava di un metodo di studio (e di interpretazione), oltre che fisicamente dei “libri legales”, e ripartiva per le terre da cui era giunto e nelle quali pensava di mettere poi a frutto (anche economico …) le conoscenze acquisite. I maestri della “scuola della glossa” erano però numerosi, anche solo a Bologna, e non sempre con le stesse idee e la stessa “interpretatio”: col tempo si sono venute così accatastando opinioni e glosse anche diverse, sparse su tutti i punti dei “libri legales”. A distanza di oltre un secolo dalle origini della “scuola” era necessario mettere un po’ d’ordine nel complesso delle glosse. La “scuola” era progredita grazie al contributo dato da tutti i maestri (pur se in modo ‘dialettico’ – per non dire a volte polemico – fra loro): era indispensabile fare ora delle scelte per delineare un panorama organico e coerente fra i singoli contributi (e le diverse glosse, spesso ‘firmate’ dai vari maestri). Azzone aveva già corredato di un suo “apparato” 12 di glosse gran parte dei “libri legales” e poteva quindi aver già cercato di offrire un coerente complesso interpretativo, ma l’opera non era completa ed onnicomprensiva. Vi provvide un altro maestro, suo allievo, Accursio, che – esaminate le glosse dei diversi autori ai singoli passi – scelse quelle a suo giudizio migliori e coordinate fra loro e ne corredò tutto il “corpus iuris”. Accursio fece opera più di coordinamento che personale, si basò in buona parte sulle glosse dell’apparato di Azzone (e pure di Ugolino), ma fornì in tal modo un complesso coordinato di glosse (più di 90.000), adottando quelle da lui giudicate più valide e fra loro complementari o integrate, intervenendo naturalmente con ulteriori sue glosse anche in modo diretto. Raccolse così quella che è detta la “glossa accursiana” o “ordinaria” o “magna glossa”. Questa monumentale opera, compiuta nei decenni centrali del sec. XIII (Accursio visse fino al 1259-63), è il punto d’arrivo di questa “scuola”, perché da allora in poi l’esistenza di tale complesso armonico ha fatto trascurare le singole glosse precedenti, ha scoraggiato ulteriori iniziative, è stato il costante punto di riferimento per l’esegesi dei testi 12

L’“apparato” è una serie concatenata di glosse a tutto un titolo o libro del “corpus iuris”. È frutto di un insegnamento continuo del maestro, non di un suo sporadico impegno su un singolo frammento. Di Azzone, oltre ad apparati, abbiamo pure una “Lectura Codicis”, che è molto simile ad un apparato completo di glosse a tutto il Codice.

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giustinianei. Dalla metà del sec. XIII al sec. XVIII le riproduzioni di questi, prima manoscritte poi a stampa, saranno accompagnate dalla glossa accursiana, al punto che si darà lo stesso valore normativo tanto al testo che alla glossa. La “glossa ordinaria” è quindi la consolidazione di oltre un secolo d’impegno dei glossatori, ma pure la conclusione del loro lavoro, che resta come base normativa sino all’avvento dei codici nel sec. XIX. GLOSSA ACCURSIANA L’opera di Accursio, a metà sec. XIII, ha dato organicità al lavoro di più di un secolo di studio ed interpretazione dei glossatori. La sua “glossa ordinaria” ad ogni parte dei “libri legales”, frutto di una scelta fra le diverse opinioni (e glosse di disparati autori), si è imposta sulle glosse precedenti e sui manoscritti che le tramandavano: d’ora in poi sarà la sola ad essere trascritta ed in seguito – con la scoperta della stampa – edita a corredo dei testi giustinianei, tanto da venire a costituire un “tutt’uno” con essi. Le numerosissime riproduzioni, sia manoscritte che a stampa, possono anche un po’ divergere fra loro, ma un’edizione critica attenta a tutte le varianti è quanto mai laboriosa e complessa e sinora non è stata realizzata. Nella prima metà del sec. XX Pietro Torelli aveva avviato un’edizione critica della glossa accursiana alle Istituzioni, con un encomiabile ed impegnativo lavoro, che si è però arrestato con la sua morte, quando non era giunto nemmeno a metà dell’opera. Si riporta qui la parte della prima pagina dell’edizione critica del Torelli della glossa accursiana al primo libro delle Istituzioni, apparsa nel 1939.

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4. Figure della scuola dei glossatori Alla scuola del mitico fondatore Irnerio si sono formati numerosi giuristi. Alcuni a loro volta hanno aperto una propria scuola, in cui tramandare la conoscenza e il metodo di studio di questo ‘nuovo diritto’: si ricordano in proposito i “quattro dottori”, allievi di Irnerio: Bulgaro, Martino, Iacopo ed Ugo, noti col loro insegnamento al punto da essere convocati dall’imperatore nel 1158 a Roncaglia per precisarne le competenze. Essi diedero ulteriore impulso allo studio dei testi giustinianei, disputando anche fra loro, ad esempio sulla latitudine della “interpretatio”, ed in specie sul suo radicamento maggiore o minore al testo e sul suo rapporto con l’“aequitas”: Bulgaro preferiva restare più aderente al testo, Martino accettava anche di scostarsene a favore dell’“aequitas”. La scuola di Martino, più filosofeggiante, ebbe probabilmente minore incidenza nella pratica e fu poi rappresentata dall’allievo Piacentino, giurista raffinato ma allontanatosi poi da Bologna per insegnare in altre città ed infine a Montpellier, ove morì. La scuola di Bulgaro ebbe maggior fortuna, sia per la probabile partenza da essa di iniziative pratiche come quelle degli “ordines iudiciorum” e delle “quaestiones disputatae”, sia per la personalità degli allievi – e poi maestri – Rogerio (autore di una delle prime “summae” al Codice e fondatore o vivificatore di questo filone didattico in Provenza) e Giovanni Bassiano (particolarmente sensibile alla pratica ed alla vita del tempo). Mentre a Bologna fiorivano queste ed altre scuole private, il fenomeno si estendeva in altre città (come Piacenza o Mantova) e la rivale Modena brillava grazie a Pillio da Medicina, allievo di Piacentino, attento alle esigenze della pratica ed allo studio della materia feudale (con un apparato di glosse ai “libri feudorum”) ma pure ad un insegnamento non solo teorico ma vicino alla problematiche concrete con la periodica discussione con gli studenti di “quaestiones” ispirate dai casi della vita. Il maestro di maggior rilievo tra i secc. XII-XIII è però Azzone (morto nel 1220-30), allievo di Giovanni Bassiano, docente bolognese di grande impegno e successo. La sua ampia elaborazione e collezione di glosse sfocerà, a metà Duecento, nella “glossa ordinaria” di Accursio. La sua “Summa Codicis” è una sintesi ammirevole per chiarezza e completezza della dottrina bolognese, esposta seguendo l’ordine per materia del Codice ma comprensiva delle conoscenze di tutti i “libri legales”: sarà il punto di riferimento della corrispondente “Summa” canonistica dell’Ostiense (il cardinale di Ostia, Enrico da Susa) e come questa diffusa per secoli ed usata ovunque nel periodo del diritto comune.

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Un allievo di Azzone, il fiorentino Accursio, può dirsi completi a Bologna un ciclo di un secolo e mezzo, compilando a metà Duecento la “glossa ordinaria”, che per secoli apparirà ai margini di ogni pagina delle raccolte giustinianee. Sembra quasi che a questo punto il dinamismo scientifico dei maestri di diritto, diffusisi ormai in varie sedi in Europa, perda vigore. Per circa mezzo secolo si susseguono insegnamento ed opere di “dottori” di grande rispetto, alla ricerca fors’anche di nuove strade: queste perverranno invece dalla scuola transalpina di Orléans e daranno vita nel Trecento al nuovo filone di studio dei “Commentatori”.

5. L’Università Nel 1888, per compiacere Giosuè Carducci, è stato festeggiato l’ottavo centenario dell’Università di Bologna: in effetti, però, nel 1088 non esisteva – né a Bologna né altrove – alcuna Università, se con tale denominazione si indica un’istituzione di studio e di didattica di livello scientifico, in cui confluiscono docenti ed allievi. A Bologna c’era al massimo – e con probabilità un po’ dopo, a cavallo del secolo – qualche scuola, privata, di diritto, in specie quella di Irnerio. Si può dire che è da questa modesta base che in seguito si è sviluppata quella che oggi è detta “Università” e che nel medioevo era spesso denominata “Studium”. La fortuna dell’insegnamento privato di Irnerio e poi dei suoi allievi (almeno i “quattro dottori” successivi) ha visto formarsi a Bologna singole “scuole” in locali (modesti) procurati dal maestro, a cui sono affluiti – a pagamento – studenti desiderosi di far proprie le sue conoscenze per metterle a profitto nella vita (probabilmente quali professionisti del diritto, soprattutto nei Comuni ormai in via di affermazione). L’avvio dell’“Università” può quindi essere ascritto al campo del diritto, all’epoca emergente dalla disordinata ed aleatoria violenza dei secoli precedenti. Gli studenti dovevano versare al docente la somma (“collecta”) pattuita e formavano con lui un gruppo unitario (“comitiva”). Il rapido sviluppo delle scuole giuridiche bolognesi vi ha fatto affluire, nel giro di qualche decennio, numerosi studenti, anche da terre lontane, a volte legati da conoscenze familiari o regionali, che hanno preso l’abitudine di ritrovarsi a seconda delle zone d’origine, cioè per “nationes” (lombardi, svizzeri, tedeschi, francesi, napoletani, ecc. …). Questo gruppo di alcune centinaia di stranieri entro la città di Bologna aveva le sue regole di vita e le sue esigenze (lezioni, goliardia, alloggi, vitto, ecc. …), più o meno in armonia con quelle del locale Comune: si trattava nel suo complesso di una “universitas” (cioè di un’associazione di

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persone secondo l’impostazione medievale) particolare, col suo peso – anche economico, data l’agiatezza media di tali studenti – in una città non grande come la Bologna dell’epoca. Questa “universitas” di studenti, fors’anche un po’ agitata, aveva incontrato inoltre, sin dalla metà del sec. XII, una specifica protezione imperiale, concessa grazie all’interessamento dei maestri del tempo. Nel 1155 Federico I (“Barbarossa”) aveva riconosciuto per privilegio imperiale (costituzione “Habita” 13) che i maestri avessero giurisdizione speciale (civile e penale) sui loro allievi, che gli studenti potessero circolare liberamente in tutte le terre dell’Impero, fossero esentati da ogni tributo locale, fossero immuni da rappresaglie. Era un privilegio significativo, che per secoli l’ambiente universitario (non solo bolognese) sbandiererà: fu inserito – come recente costituzione imperiale – nella parte terminale del “Volumen” (cioè negli stessi “libri legales” giustinianei) 14. Nel frattempo l’intraprendenza associativa studentesca era venuta individuando dei capi, utili non solo in campo goliardico, ma anche per far sentire la voce degli studenti nei confronti dei maestri e del Comune, con cui non sempre tutto filava liscio. Le varie “nationes” si concentrarono a Bologna in due raggruppamenti, quello dei “citramontani” (cioè italiani) e quello degli “ultramontani” (cioè transalpini), ciascuno con uno studente come proprio “rector” 15. Anche la generale “universitas scholarium” ebbe un suo “rector”. L’Università nasce quindi a Bologna come associazione degli studenti e tale resta a lungo: il rettore è perciò uno studente. Egli rappresenta i colleghi nelle trattative coi professori sulla didattica (compenso, lezioni, attività didattiche integrative, disponibilità di testi, ecc. …) e col Comune (ordine pubblico, alloggi, vitto, divertimenti, ecc. …). Su questo modello si sviluppano poi le altre Università (ma quella parigina di teologia come “universitas” dei docenti). Verso la fine del sec. XII la concentrazione bolognese delle scuole giuridiche presenta condizioni, che inducono alcuni maestri a recarsi altrove: Ro13

Le costituzioni imperiali, come d’altronde le decretali pontificie (ed ancor oggi le encicliche papali), sono ricordate sulla base della prima, o delle prime, parole iniziali. 14 Per la reviviscenza dell’Impero, condivisa dai recenti titolari del S.R.I. (compiaciuti della ‘cosa’), la continuità dei “libri legales” giustinianei nel diritto imperiale medievale giustificava l’inserimento nel “Volumen” di materiale ‘imperiale’ dopo le Novelle giustinianee: ciò avvenne per i “Libri feudorum”, per la pace di Costanza, per la “Habita”, e per alcune altre costituzioni imperiali e fonti dell’epoca. 15 Ciò è continuato sino a quando la “universitas” era degli studenti, senza intervento pubblico. Col tempo, la prevalenza – e poi la pressoché totale influenza – dell’intervento pubblico ha portato alla “Università degli studi” retta da un delegato pubblico (del Comune o dello Stato finanziatore). La soluzione italiana attuale risale al sec. XIX.

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gerio e Piacentino in Provenza (ed in specie a Montpellier), Pillio a Modena (1182), Vacario in Inghilterra (ove peraltro la reazione dei giudici locali attaccati alla loro tradizione si oppone all’insegnamento dei “libri legales” giustinianei). Col Duecento la situazione non migliora, anche per un certo irrigidimento del Comune, nonostante il fiorente prestigio delle scuole bolognesi. I papi Innocenzo III (1210) e Onorio III (1226) inviano espressamente ai maestri e studenti bolognesi le proprie compilazioni di decretali (sono due delle “quinque compilationes antiquae”) perché vi siano conosciute, studiate ed in seguito applicate dai futuri giuristi. Lo stesso pontefice Onorio III è intervenuto qualche anno prima (1219) per tutelare gli studenti in conflitto col Comune, imponendo – in funzione garantistica, ma certo con l’occhio anche alle posizioni ecclesiastiche – che fosse l’arcidiacono della Chiesa bolognese a conferire il titolo di dottore a conclusione degli studi (e dell’esame di laurea). È il periodo delle migrazioni di gruppi di docenti e studenti da Bologna, con fondazione di altre Università. Alcune città presentano scuole giuridiche universitarie solo per un certo periodo (come Vicenza, Arezzo, Piacenza); in altre invece esse si radicano ed acquisiscono fama: a Padova dal 1222 (in seguito ad una grossa diaspora da Bologna), a Siena dalla metà del Duecento, a Perugia da fine secolo. Nel 1228 un gruppo universitario padovano stipula un articolato accordo con il Comune di Vercelli per spostarvisi: pure in questa città iniziano insegnamenti e vita universitaria, che non decollano però definitivamente anche a causa delle tensioni fra le fazioni cittadine. Spesso per attirare nella nuova sede maestri ed allievi il Comune si accolla uno “stipendium” fisso per i maestri, in modo da ridurre la “collecta” dovuta dagli studenti: la parte ‘pubblica’ inizia così ad infilarsi nelle scuole private ed a fissare – con lo stipendio – gli obblighi del docente 16. Questa impostazione si nota in modo particolare per l’Università di Napoli, fondata nel 1224 da Federico II (re di Sicilia, oltre che imperatore). Può essere considerata la prima istituzione universitaria pubblica: gli stipendi sono regi, i sudditi del regno devono studiarvi senza recarsi altrove, i professori sono spesso collegati con la vita del “Regnum”. La fondazione, inoltre, appare indirizzata a procurare giuristi preparati (… e filoimperiali) in previsione anche di un loro inserimento nell’amministrazione del “Regnum”, di cui Federico II percepisce l’importanza: è una prospettiva programmatica 16

Con l’età moderna, l’Università – nel medioevo di studenti e docenti – diventa “di Stato”: finanziata da questo, è da questo retta legislativamente ed amministrativamente, ed i titoli conferiti hanno valore non più universale ma territorialmente limitato a quello Stato.

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di rilievo che si svilupperà nelle “Università di Stato” in età moderna e che per l’epoca appare precorritrice. Il modello universitario bolognese si diffonde tra Duecento e Trecento in Europa: in Italia (Pisa, Pavia, oltre le già ricordate), ed all’estero (Orléans, Coimbra, Heidelberg, Vienna, Praga …). L’intervento e l’interessamento pubblico per lo più aumentano. La lingua è sempre ed in ogni luogo il latino, parlato dai giuristi di ogni terra. I manoscritti circolano ovunque e vi portano le stesse conoscenze. Si forma così una cultura giuridica comune a tutti i giuristi, oltre ogni barriera fisica o ideologica. Nelle Università accanto al diritto civile si viene insegnando anche quello canonico: ci si laurea “in utroque iure”. Gli studenti forse circolano un po’ meno di prima, ma sono comunque piuttosto mobili, attratti dalla fama dei diversi maestri e dalle condizioni locali (di sistemazione, di tranquillità e appetibilità cittadina, di conoscenze personali). A supporto degli studenti nelle città universitarie si sviluppano attività di scrivani di manoscritti e di copisti di testi giuridici in apposite botteghe (“stationarii”), che possono – a pagamento – fornire il costoso materiale didattico, che alla fine degli studi ognuno porterà con sé come prezioso strumento di lavoro per tutta la vita. L’Università nel Duecento prende tutta una sua organizzazione, che ne fa un’istituzione cittadina molto diversa dalle scuole private iniziali. Senza entrare nel dettaglio, si può dire che lo studente è inizialmente iscritto nella “matricola” della corporazione studentesca, che l’orario delle lezioni è preciso e piuttosto pesante, che le fonti più studiate sono il “Digestum vetus” ed il “Codex”, che col tempo gli studenti seguono lezioni di più professori (e non di uno solo, come all’inizio), che alle lezioni tradizionali sono affiancati altri strumenti didattici, come le “repetitiones” 17, i “brocarda”, le “quaestiones”. Un buon apprendimento civilistico si protrae per 7/8 anni, uno canonistico per 6 circa. Alla fine lo studente, tramite una cerimonia solenne (e piuttosto costosa), dopo approfonditi accertamenti dei professori sulle sue conoscenze e sulle sue capacità dialettiche, può laurearsi “dottore”, ed a sua volta “docere” ad altri studenti, oppure avviarsi alle professioni legali, all’epoca abbastanza redditizie. Un aspetto significativo si deve ancora rilevare: il diritto ‘nuovo’ diffuso dalla “scuola di Bologna” e poi dall’Università è un diritto dotto, imparato 17

La “repetitio” è un approfondimento scientifico della lettura di un titolo giustinianeo: è espressione di un particolare impegno del docente, molto più dettagliato ed intenso delle più semplici glosse. Solo alcuni ‘maestri’, e solo per alcuni titoli (= argomenti), si lanciano in “repetitiones”. Sarà un metodo seguito in specie nei secc. XIV-XV.

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sui “libri legales”, frutto di anni di studio e di costruzioni teoriche raffinate, di livello qualitativo di gran lunga superiore – nemmeno comparabile – rispetto alla pratica ed agli usi feudali del tempo. Per questo i maestri bolognesi acquistano subito grande notorietà: imperatori, pontefici, Comuni, signori feudali, monasteri, mercanti ed uomini qualunque li stimano apportatori di un sostegno giuridico alle loro pretese ben diverso da quello precedente. Un affermato giudice feudale milanese come Oberto dell’Orto, ben addentro proprio alla pratica feudale duecentesca, manda suo figlio alle scuole bolognesi perché ne riconosce la superiorità culturale (vista in modo forse fin troppo compiaciuto dai maestri …): solo dopo l’apprendimento della “dottrina” universitaria il giurista così formato si dedicherà alla pratica forense. Non si parte più dalla pratica accanto a un giudice o avvocato: si parte dagli anni della formazione teorica sui “libri legales”, perché con questo imponente bagaglio culturale sarà poi possibile dedicarsi alla pratica. Muoversi subito da questa è brancolare senza conoscenze di base, incapaci di percepire persino le regole elementari, alla mercè della dottrina degli altri giuristi. Per questo gli studi giuridici universitari hanno successo per secoli in tutta Europa: sono il “prius” dottrinario per poter discutere di un qualunque problema giuridico, che partendo dalla sola pratica si rivelerebbe insolubile. In questo modo emerge una comune piattaforma di conoscenze, di linguaggio e di metodo di lavoro del giurista “dotto” nella parte continentale dell’Europa, frutto dell’unitario insegnamento universitario, dal medioevo in poi.

6. Graziano e l’origine della scienza canonistica La Chiesa, come si è detto, fin dalle origini aveva sviluppato un ordinamento proprio, in cui gli aspetti religiosi, teologici, giuridici e istituzionali erano fra loro connessi. Per secoli si era ispirata alla tradizione romanistica ed aveva annoverato raccolte di testi di vario genere nei secoli anteriori al Mille. Nel periodo della riforma gregoriana si avverte tuttavia l’esigenza di dotare la Chiesa di strumenti giuridici più efficaci e soprattutto più sistematici rispetto alla nuova configurazione che l’assetto istituzionale voluto da Gregorio VII ormai richiedeva. Tra le numerose collezioni di fonti canoniche che precedono il Decreto di Graziano la più significativa risulta quella del vescovo Ivo di Chartres (10401115) il quale, con la propria opera, intese mediare nuove idee e testi con la tradizione transalpina della teologia, soprattutto della scuola di Chartres. Tre sono le collezioni che ci provengono dalla riflessione di Ivo: la Tripartita,

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suddivisa in tre parti e contenente alcune raccolte di decretali pontificie, canoni conciliari e testi patristici; il Decretum, opera principale suddivisa in 17 libri che univa testi teologici e morali a fonti giuridiche e la Panormia, una sintesi ragionata del Decretum. Ivo di Chartres non è solo un ‘anticipatore’ del lavoro di riordinamento delle fonti operato da Graziano, ma qualcosa di più. Convinto sostenitore della riforma gregoriana Ivo si rende conto, per primo, della necessità di realizzare una armonia tra le diverse fonti del diritto canonico (consonantia canonum) e di eliminare le contraddizioni che non giovano all’unità della lunga tradizione dei canoni conciliari e delle interpretazioni dei Padri della Chiesa. Nel compiere questa operazione Ivo di Chartres prende atto tuttavia che nel diritto canonico esistono due componenti fondamentali, che corrispondono alla realtà normativa della Chiesa e né dà conto nel Prologo al suo Decretum: egli individua nella legge eterna, voluta da Dio, un nucleo immobile che può solo essere osservato, ai fini della salvezza; accanto ad esso un diritto che proviene invece dall’uomo ed è emanato dalla Chiesa, a cui serve come strumento per indirizzare gli uomini alla salvezza, nella storia. Questo secondo nucleo, derivato dalla Tradizione e dalla sapienza pastorale, si traduce in norme mobilissime e duttili, in grado di adattarsi alla realtà e alla contingenza storica per ottenere il fine della salus animarum per raggiungere la quale si potrà anche derogare o sospendere la legge tramite l’istituto della dispensatio, che manifesta il carattere tipico di elasticità del diritto canonico. Sempre dalla scuola teologica di Chartres, e in particolare dal pensiero di Pietro Abelardo (1079-1142), perverrà la consapevolezza fondamentale che il rapporto tra filosofia e teologia comporta una rivoluzione del pensiero destinata ad investire anche il diritto. In particolare si ritiene che lo strumento di cui l’uomo dispone per collegare le leggi della natura con la condotta umana sia la ragione. E proprio alla ragione ci si dovrà affidare, anche sul piano del diritto, per cercare di sanare le contraddizioni tra le auctoritates derivanti dal mondo classico e dal diritto romano e quelle di provenienza ecclesiale (i passi della Sacra Scrittura, le interpretazioni dei Padri della Chiesa, ecc.). È in questo clima culturale, che si affianca alla rinascita degli studi di diritto romano operata da Irnerio e dalla sua scuola a Bologna che si trova ad operare Graziano, il quale dal suo monastero bolognese (di san Felice e Naborre) con ogni probabilità era venuto a conoscenza dell’insegnamento giuridico della scuola di Irnerio, di cui doveva essere di poco più giovane. Di fronte alla fortuna del ‘nuovo’ diritto illustrato dalle scuole bolognesi, in cui probabilmente si trovò ad insegnare, ed alle loro metodologie interpretative,

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Graziano pensò di poter intervenire per mettere ordine nella complessità delle collezioni canoniche precedenti in armonia con le prospettive unitarie della riforma gregoriana. Raccolse perciò per argomento i passi (“canoni”) della normativa della Chiesa cercando di dare ad essi una interpretazione che – con una certa elasticità – li collegasse fra loro in modo coerente e coordinato. Riunì così circa 3900 testi fra loro eterogenei da alcuni passi delle Scritturead altri di Padri della Chiesa, dai canoni di concili di terre ed epoche diversissime alle decretali pontificie e ai frammenti del diritto romano …) a cui applicò il metodo dialettico che proveniva da Abelardo (dalla sua opera Sic et Non) e da Ivo di Chartres, e che era già anche stato utilizzato dai glossatori civilisti. In sostanza, per armonizzare le fonti e i passi talora contrastanti tra loro, Graziano applica un criterio ermeneutico che gli consenta di mostrare una continuità con la tradizione canonistica del primo millennio. Al termine di questa opera di interpretazione e selezione dei testi Graziano dimostra, tramite l’apposizione di un proprio dictum (cioè la propria conclusione), come le discordanze tra le varie fonti siano solo apparenti. L’opera prese il nome già di per sé evocativo di Concordia dei canoni discordanti (Concordia discordantium canonum), o semplicemente Decretum Gratiani (o Decretum) ed ebbe una genesi piuttosto lunga, con diverse fasi di redazione, tra il 1130 e il 1158, anche se la data fissata convenzionalmente per la sua stesura è indicata nel 1140. Nella sua forma definitiva il Decretum si compone di tre parti: la Prima pars è composta di 101 distinctiones, opera del discepolo Paucapalea a cui si devono anche le addizioni marginali (successivamente confluite nel testo) che prendono il nome di paleae. La distinctio è lo strumento derivante dalla logica con cui è possibile operare una serie continua di scomposizioni della materia trattata, attraverso cui si rende possibile una semplificazione dei concetti giuridici e l’eliminazione delle eventuali contraddizioni. La Secunda pars del Decretum (ultima ad essere concepita nel progetto originario) è invece composta da 36 causae (cioè controversie fittizie), suddivise al loro interno in quaestiones. Lo strumento della quaestio è quello che meglio rappresenta il metodo dialettico mediato dalla teologia dell’epoca: posta una tesi si citano una serie di testi autorevoli (auctoritates) a sostegno di una certa soluzione (propositio); in seguito si portano altri testi (introdotti dall’espressione ‘sed contra’…) a difesa della soluzione opposta (oppositio) e, infine, si conclude con una riflessione (solutio) che dimostra la plausibilità degli uni piuttosto che degli altri argomenti (è il dictum apposto da Graziano). Una sorta di vero e proprio ‘processo’ virtuale alle tesi, articolato in difese e controdeduzioni, proprio come accadeva nella forma orale della quaestio disputata durante le lezioni universitarie.

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La Tertia pars del Decretum era invece costituita da un trattatello (forse opera degli allievi di Irnerio, aggiunto postumo) dal titolo De consecratione, che trattava la materia sacramentale. La raccolta ha avuto grande, quasi immediato, successo. È opera privata, mai ufficialmente promulgata dalla Chiesa, ma è stata ben presto da questa considerata come ufficiale. I singoli brani potevano avere un’eventuale autorità di per sé, originaria; i “dicta” inseriti da Graziano, no; eppure tutto il complesso fu considerato dalla Chiesa per secoli la base ufficiale del proprio diritto, sino al 1917 (data dell’emanazione del primo Codice di Diritto Canonico). Il testo del “Decretum” fu subito oggetto di insegnamento e di commento: si formò ben presto una scuola ed una schiera di studiosi in materia, che furono detti “Decretisti”. Anche qui nacquero in proposito glosse e summae: anche il “Decretum” ebbe una sua “glossa ordinaria” che lo accompagnò per secoli. Fu però oggetto pure di infiltrazioni e integrazioni, tanto che nel sec. XVI la Chiesa nominò un’apposita commissione di “correctores romani”, che ne ricostituirono – con una certa fatica – il testo ritenuto genuino.

“DECRETUM GRATIANI” L’edizione critica del “Decretum” è stata effettuata dal Friedberg (Lipsia, 1908) ed è frutto di una paziente opera di collazione di numerosi manoscritti. Se ne riporta la parte superiore della prima pagina, con l’inizio. Il “Decretum” è suddiviso in tre parti: questa prima è composta di 101 distinctiones, raggruppanti i singoli “canoni” (cioè norme, o regole, da cui derivò poi la denominazione di “diritto canonico”). La “distinctio prima” tocca il problema generale “de iure naturae et constitutionis” ed inizia con alcune brevi frasi introduttive di Graziano (in corsivo), riassuntive di affermazioni dedotte da testi romanistici ed ecclesiastici. La raccolta comincia (causa I) con un passo di Isidoro di Siviglia, a cui segue (in corsivo) un altro “dictum” esplicativo di Graziano. La seconda colonna della prima pagina dell’edizione Friedberg riporta la causa V sulla consuetudine, tratta anch’essa da Isidoro, a cui segue un “dictum” esplicativo di Graziano (in corsivo). Viene poi la sintetica causa VI, anch’essa tratta da Isidoro. Come si può notare, si tratta di princìpi sul diritto in generale ispirati dalla tradizione romanistica.

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CONCORDIA

DISCORDANTIUM CANONUM, AC PRIMUM

DE

IURE

NATURAE ET CONSTITUTIONIS

Il Friedberg riporta pure al termine della pagina le varianti della sua edizione rispetto a quella “romana”, frutto dell’edizione per così dire ufficiale effettuata nel sec. XVII dai “correctores romani” incaricati dalla Curia pontificia. Infine, nella parte terminale di ogni pagina dell’edzione Friedberg, si trovano le annotazioni delle varianti con riferimento ai diversi manoscritti utilizzati.

La fama di Graziano, innalzata dalla scuola che sulla sua raccolta si è sviluppata, è stata immensa: è ricordato come il vero fondatore del diritto canonico. Dante lo colloca in Paradiso (Par. X, 132-135: Quell’ altro fiammeggiare esce del riso /di Grazïan, che l’uno e l’altro foro / aiutò sì che piace in paradiso) per indicare colui che ha “separato l’uno e l’altro foro”, cioè quello interno della coscienza (retto da morale e teologia) da quello esterno delle azioni (retto dal diritto). A seguito del metodo inaugurato da Graziano inizierà a svilupparsi una scienza canonistica simile a quella inaugurata da Irnerio per il diritto civile. Ancora per un secolo circa la scienza civilistica prevarrà su quella canonistica nel livello, nell’insegnamento e nei risultati, ma col tempo avverrà una reciproca influenza dei due ambiti principali del diritto ‘dotto’ (civile e canonico) che porterà nelle Università l’insegnamento del diritto canonico accanto al civile, i civilisti stessi ad occuparsi pure di diritto canonico, gli studenti a laurearsi contemporaneamente in entrambi i diritti (“in utroque iure”), i giuristi ad utilizzarli entrambi in modo eguale, il diritto “comune” in Europa a comprenderli entrambi (salva, poi, nel XVI secolo,

IL RINASCIMENTO GIURIDICO

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l’estromissione del diritto canonico nei territori che aderirono alla Riforma protestante).

7. Il “corpus iuris canonici” Il “Decretum” è stata la prima grande raccolta – per quanto privata – del diritto canonico ufficiale della Chiesa romana. Il successo suo, e della “scuola” che lo ha studiato, porta – nel giro di alcuni decenni – ad altre cinque raccolte, sollecitate dall’esistenza di una legislazione ecclesiastica in questo periodo piuttosto intensa, favorita dal dinamismo della Chiesa e dalla centralizzazione romana successiva alla riforma gregoriana. La possibilità di ricorso diretto al pontefice aumentava infatti i suoi interventi su quesiti o appelli a lui rivolti: queste “lettere decretali” – superato il caso specifico esaminato – potevano poi servire come norma generale per risolvere futuri casi analoghi. Se ne curarono perciò via via (dal 1190 al 1226) cinque raccolte, due delle quali (la terza e la quinta) emanate direttamente da pontefici (Innocenzo III e Onorio III), dette poi Quinque compilationes antiquae Basandosi su esse, infatti, papa Gregorio IX incaricò nel 1230 il domenicano San Raimondo di Peñafort di redigere una raccolta ufficiale di tali decretali, che sostituì quelle precedenti. Questa raccolta fu ‘pubblicata’ dal pontefice mediante la bolla Rex cificus il 5 settembre 1234 con il nome di “Decretales Extravagantes Gregorii IX” e successivamente inviata alle Università di Bologna (sede dei giuristi) e di Parigi (sede dei teologi) perché fosse conosciuta, studiata ed applicata da fedeli e dotti. Circola poi anche con la più semplice denominazione di “Decretales”, ma soprattutto di “Liber Extra”, perché raccoglie quanto è rimasto fuori (“extra”) dal “Decretum” di Graziano (o perché da lui trascurato o perché – in molto maggior misura – emanato successivamente). Si affianca quindi al “Decretum” ed è la seconda grande fonte del diritto canonico, la più importante e commentata durante il medioevo. Si compone di cinque libri, secondo la suddivisione per materia operata da Bernardo da Pavia. Il primo libro si occupa delle fonti del diritto, delle questioni relative ai vescovi e ai chierici e del compito e della figura del giudice; il secondo libro tratta in modo organico il diritto processuale; il terzo è dedicato alla disciplina del clero, ai diritti patrimoniali e ai sacramenti; il libro quarto contiene le norme sul matrimonio e il quinto libro quelle relative ai delitti, alle pene e in generale al processo penale canonico. Per ricordare questo schema, che verrà replicato anche per le altre raccolte di decretali che comporranno il Corpus Iuris Canonici, si utilizzava una formula mnemonica: iudex, iudicium, clerus,

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connubia, crimen. Il Liber Extra costituisce un altro grande ‘monumento’ al quale si dedicano espressamente numerosi studiosi, detti perciò “Decretalisti”: fra i maggiori si segnalano Sinibaldo dei Fieschi (poi papa Innocenzo IV), Enrico da Susa (detto l’Ostiense perché cardinale di Ostia, autore pure di una famosa “summa” canonistica detta per l’appunto “Summa aurea”), Giovanni d’Andrea, che elaborano corposi “commentaria” delle Decretali. Queste ricevono inoltre non poche glosse, da cui è tratta una “glossa ordinaria”, opera di Giovanni d’Andrea e Bernardo da Parma, che sarà sempre riprodotta ai margini del testo. Ai cinque “libri” delle Decretali papa Bonifacio VIII aggiunge un “Liber Sextus”, che fa pubblicare, ad opera di una commissione, in via ufficiale nel 1298, diviso anch’esso al suo interno in cinque ulteriori libri. È la terza grande raccolta (anche sul piano quantitativo) della Chiesa, il cui periodo di rilievo sta terminando. Seguono ancora nel sec. XIV le meno corpose “Clementinae” (1314-17) e le non ufficiali “Extravagantes” ed “Extravagantes communes”. Il complesso della legislazione canonica è così terminato: nell’anno 1500 il francese Jean Chappuis ne cura un’edizione, a cui – in parallelo con la raccolta civilistica – attribuisce la denominazione di “corpus iuris canonici”. Sostanza e norme restano invariate nei secoli, anche dopo gli interventi – limitati – dei “correctores romani” (sec. XVI), fino al 1917, quando la Chiesa vi ha sostituito il codice di diritto canonico. La forma in tal modo è mutata, anche se la sostanza tradizionale – semplificata e meglio amalgamata nel codice – è naturalmente rimasta.

X CHIESA, IMPERO, MONARCHIE

SOMMARIO: 1. Le principali istituzioni in età medievale avanzata. – 2. La Chiesa dopo la riforma gregoriana. – 3. L’Impero tra i secc. XII-XIII. – 4. Monarchie e parlamenti medievali.

1. Le principali istituzioni in età medievale avanzata Il nuovo millennio aveva visto maturare molte novità giuridico-istituzionali preannunciatesi alla fine del precedente. Si è già vista la prorompente nascita e permanenza del Comune cittadino in Italia, ma si è avuto modo pure di prendere atto della riscoperta del diritto, della rinascita professionale del giurista, formatosi al ragionamento giuridico nelle “universitates” studentesche grazie all’insegnamento colto di “maestri”, che commentavano i “libri legales” giustinianei adattandoli alla vita del tempo, mentre la Chiesa veniva compilando le sue basilari raccolte di diritto canonico. Anch’esse erano oggetto di studio, in modo che l’allievo poteva concludere la sua carriera con il titolo di “doctor in utroque iure” ed avviarsi alla pratica del diritto (come giudice, avvocato, funzionario) con il bagaglio culturale acquisito grazie agli studi universitari. La laurea aveva valore ovunque e generale, purché l’Università fosse stata fondata dal titolare di una delle due istituzioni universali dell’epoca, l’imperatore o il pontefice. Il neo-dottore tendeva poi a farsi ammettere in uno dei collegi di giuristi di una delle città, ove avrebbe svolto la sua attività. L’ambiente politico e sociale circostante, per quanto piuttosto fiducioso nella capacità del giurista di dirimere le controversie senza giungere alle armi, era peraltro pur sempre bellicoso: si prefiggeva di usare il diritto, ma passava pure alla violenza se le pretese avanzate tramite quest’ultimo non erano soddisfatte. La soluzione giuridica era auspicabile, ma non ne escludeva altre di carattere bellico. Gli esempi sono quanto mai numerosi in proposito, ma col nuovo millennio spesso prima della battaglia militare (o accanto ad essa) si intrecciava quella legale, con le pretese di ciascuna parte.

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2. La Chiesa dopo la riforma gregoriana La Chiesa romana ha saputo giovarsi della rinascita giuridica con grande acume, rafforzandosi inoltre notevolmente sul piano del prestigio (verso i fedeli, le Chiese locali, le altre istituzioni politiche, i nuovi ordini monastici in specie domenicani e francescani) e del potere (contrapponendosi all’Impero, reprimendo l’eresia degli Albigesi e dei Catari, lanciando altre Crociate). Essa è venuta in tal modo ad imporre il suo dinamismo politico, ad ottenere l’accentramento presso il papa e la curia romana delle decisioni più (o anche forse meno …) importanti per la Cristianità, ad appropriarsi di un potere legislativo (tramite “Decretum” e “Decretales”) altrimenti per lo più ignoto ai secoli precedenti del medioevo. Passando anche tramite il diritto, la Chiesa romana ha imposto a tutti i fedeli (e alla gerarchia ecclesiastica) di sottostare e far capo ad essa: è stato un cambio di passo qualitativo (e non solo quantitativo) che durerà alcuni secoli e che è riuscito ad imporsi con una certa facilità anche su alcune “eresie” contemporanee. Tra Duecento e Trecento papi di grande personalità (come Innocenzo III o Gregorio IX) sono politicamente riusciti a resistere alle ambizioni di ripresa imperiale (nei decenni della prima metà del sec. XIII di maggior auge di Federico II di Svevia) ed a concepire una politica di tendenza teocratica, che ha diviso ogni zona d’Italia (e d’Europa) nei due noti ‘partiti’ dei “guelfi” (filoecclesiastici) e “ghibellini” (filoimperiali). Nella seconda metà del sec. XIII il secolare contrasto – anche giuridico – fra Chiesa ed Impero ha perso rilievo per la crisi di quest’ultimo ed alla fine del secolo il papa del momento Bonifacio VIII 1 ha potuto per l’anno 1300 lanciare da Roma ed in Roma il primo Giubileo della storia. Sembrava che il nuovo secolo si aprisse sul piano del diritto in modo anche un po’ diverso, con le conseguenze spirituali assicurate al fedele partecipe del Giubileo … In effetti, però, dopo pochi anni il papa e la curia sono stati costretti a lasciare Roma per Avignone (1305). Iniziava per la Chiesa il cosiddetto “esilio avignonese” (1305-1377), di soggezione ideale alla monarchia francese. Il grande sogno teocratico, avviato da Gregorio VII e perseguito nei confronti dell’Impero dall’energia di alcuni suoi successori (quali Innocenzo III, Gregorio IX o Bonifa1

Benedetto Caetani è stato peraltro, quale papa Bonifacio VIII, un pontefice non solo inviso a Dante, ma molto discusso per i suoi comportamenti terreni alquanto spregiudicati … Dopo un’elezione al soglio pontificio piuttosto discussa (anche giuridicamente) il disegno teocratico papale, favorito dall’evanescenza imperiale contemporanea, si è infranta nel contrasto con Filippo IV di Francia (“il bello”), iniziato per una questione giuridica (arresto di un vescovo da parte del re).

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cio VIII) si era infranto non tanto contro un Impero ormai evanescente quanto piuttosto per l’emersione in Europa su questi tradizionali contendenti di alcune monarchie, ormai potenti nel nuovo clima politico del sec. XIV.

3. L’Impero tra i secc. XII-XIII Le aspirazioni di supremazia imperiale di Federico I di Svevia (“Barbarossa”) lo hanno indotto a far sposare il proprio figlio Enrico (VI come imperatore) con Costanza d’Altavilla, erede del regno normanno di Sicilia, in tal modo rafforzando notevolmente la posizione militare e finanziaria della dinastia sveva. Morto peraltro giovane l’imperatore Enrico VI di Svevia (1197), l’unico figlio nato dal matrimonio (Federico) era un bambino di pochi anni: è riuscito a conservare sotto la reggenza della madre la corona sicula, ma non quella imperiale, contesa fra pretendenti tedeschi e insidiata dalla teocrazia di papa Innocenzo III. Questi nel 1220 ha peraltro incoronato a Roma quale imperatore il giovane Federico II, principe però di formazione non transalpina ma di elevata cultura siculo-normanna. Come imperatore egli si è impegnato a fondo nella lotta ai Comuni ed al Papato nella nostra penisola, ottenendo per un primo ventennio risultati notevoli anche in Italia settentrionale, ma privilegiando sempre il “suo” regno di Sicilia. In questo ventennio le lotte fra “guelfi” e “ghibellini” sono state notevoli, anche dal punto di vista giuridico, spesso con prevalenza ghibellina. La prospettiva ‘imperiale’ di Federico II è soprattutto italiana e lascia già intravedere un’impostazione, che non ignora il proprio regno di Sicilia. Alla sua morte (1250) la politica pontificia contrasta i diversi pretendenti tedeschi all’Impero e questo nella seconda metà del sec. XIII non è più in grado di svolgere con oggettività quel ruolo “universale”, che aveva sino ad allora sostenuto. I tentativi dei nuovi imperatori tedeschi del sec. XIV non riescono a risollevare se non al massimo in modo formale la posizione del S.R.I., mentre la Chiesa nello stesso secolo soffre dell’“esilio avignonese”. Le due grandi istituzioni “universali” della Cristianità, protagoniste del panorama europeo dei secc. XII-XIII, col sec. XIV perdono la loro notevole centralità e – per quanto ancora di indubbio rilievo – vedono emergere in Europa alcune monarchie, che sembravano in passato ridotte ad un ruolo marginale rispetto alle grandi istituzioni “universali” tipiche dei secoli principali del medioevo. Queste ultime peraltro conservano la titolarità ideale delle due grandi raccolte giuridiche, sulle quali poggia il diritto di questi secoli e di quelli successivi, cioè il “corpus iuris civilis” ed il “corpus iuris canonici” con il conseguente fondamentale aggiornamento giurisprudenziale.

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4. Monarchie e parlamenti medievali Sin dalla fine del sec. IX l’imperatore del S.R.I. aveva in concreto sotto di sé solo Germania ed Italia: poteva al massimo aspirare ad un certo “obsequium” dagli altri re. La riscoperta dei “libri legales” giustinianei e la loro interpretazione bolognese sull’esclusività ed assolutezza del potere imperiale potevano peraltro far riemergere sue aspettative in proposito. In contrapposizione, però, tra i secc. XII e XIII furono sviluppate sostanziose tesi dottrinarie – rispondenti per lo più alla realtà – secondo cui “rex in regno suo est imperator”: si segnalarono in proposito sia alcuni canonisti sia alcuni giuristi francesi, attenti a sostenere nella specie il rifiuto del re di Francia a sottostare – anche solo sul piano formale – a qualsiasi superiore. Tale affermazione, a lungo discussa e variamente commentata, partiva dalla situazione di fatto e si impegnava per darvi una valida motivazione giuridica: alla fin fine risultò vincente 2. Mentre, d’altronde, l’Impero finiva con l’incassare più sconfitte (lotta per le investiture, contrasti coi Comuni italiani, lotte intestine …) che affermazioni, le monarchie in Europa facevano la propria strada: l’Impero non poteva certo imporsi su esse 3, anche solo sul piano formale. Si trattava, peraltro, di monarchie ben diverse da quelle che possiamo oggi a prima vista immaginare: il re dei secc. XI-XIII, in un ordinamento di tipo feudale, aveva una superiorità di principio, che solo in alcuni casi – e solo sotto alcuni re – si sostanziava anche in un vero potere sul territorio del regno. Questo infatti passava tramite i grandi baroni feudali ed a volte anche attraverso le regole dei privilegi cittadini. Il re visitava spesso le diverse zone del regno, vi imponeva la sua ‘pace’ contro le guerre private, vi faceva sentire la sua presenza e la ‘sua’ giustizia a riparare i torti, vi andava a ricevere la fedeltà di sudditi e signori feudali, ma non riusciva in genere a far sentire il suo effettivo peso di comando territoriale, se non nelle zone – non moltissime – da lui controllate direttamente. In ogni feudo la sua autorità passava attraverso i signori locali – suoi feudali … – dai quali quelle terre dipendevano, in modo pressoché effettivo: ad essi il re finiva per doversi rivolgere se voleva radunare un esercito (composto anche da truppe regie, ma soprattutto feudali), riscuotere un tributo, far applicare una legge. Il re non aveva per lo più 2 Si potrebbe dire, con concetti contemporanei, che guardava a quella che è detta sovranità. L’impostazione moderna, affermata solo nel sec. XVI da Jean Bodin, non era però percepibile nello stesso modo nel medioevo, ancorato al concetto dell’“unum imperium”. 3 Nella battaglia di Bouvines, d’altronde, il re di Francia riuscì vincitore contro l’eletto all’impero Ottone di Brunswick e il re normanno Giovanni I (“senza terra”).

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sul territorio suoi ufficiali diretti: doveva passare tramite i suoi feudali … Era anche eccezionale che legiferasse: all’epoca il diritto era percepito come un insieme di regole esterne allo stesso re, sovrastanti il suddito ma pure il re, il quale doveva seguirle lui stesso perché fissate dalla convivenza del popolo (consuetudini) o da princìpi secolari ritenuti immutabili (i “libri legales” e le norme canoniche), che i giuristi illustravano ai contemporanei (re compreso). Le monarchie del basso medioevo, quindi, presentavano un “particolarismo” politico e giuridico molto diffuso, che solo progressivamente ed in età moderna sarà ridimensionato dall’estensione dei poteri dei diversi prìncipi. In queste monarchie medievali, basate sull’ordinamento feudale, se il re ha una ridotta incisività sulle terre a lui non direttamente soggette, ha però la possibilità – specie col sec. XIV – di riunire i sudditi nelle assemblee parlamentari, che caratterizzano le monarchie rispetto ai Comuni (ed alle Signorie sovrappostesi). In questi ultimi infatti la prevalenza degli organi consiliari o assembleari della città dominante ha impedito la formazione di altri tipi di riunioni, mentre nelle monarchie la tendenza feudale a riunire i vassi per “auxilium et consilium” al proprio signore porta in Europa – tra la fine del medioevo e la prima età moderna – ai “parlamenti” (o “assemblee degli stati”). Si tratta di riunioni convocate dal re, nelle quali convengono i tre “ordini” o “stati” (cetuali) di cui si compone il regno: i nobili, gli ecclesiastici, i “burgenses” (= borghesi) cioè i rappresentanti delle terre o città demaniali (= direttamente dipendenti dalla Corona). Tali assemblee parlamentari si trovano negli ordinamenti monarchici dell’Inghilterra, della Spagna, dei Paesi Bassi, della Francia, dell’Italia, della Germania, di parecchie zone dell’Est europeo (Boemia, Polonia, ecc.). Presentano fra loro differenze anche consistenti, ma tutte sono di convocazione regia e composizione cetuale. In età moderna in alcune zone (Francia, Italia non meridionale o insulare) non saranno più riuniti, in altre (Spagna, Fiandre) persistono, in un’altra ancora (Inghilterra) cambiano e danno origine all’istituto parlamentare dell’età contemporanea, diverso da quello medievale. I tre “ordini” riuniscono quella che può essere considerata l’élite del regno: in Sicilia e Spagna si parla dei tre “bracci” che sostengono la Corona (i nobili con la spada, gli ecclesiastici con la preghiera, i borghesi con le contribuzioni in denaro). Il re può convocarli per riceverne il giuramento di fedeltà, per comunicare loro qualcosa di importante (come un nuovo corpo di norme scritte), ma soprattutto per averne aiuto, o in un momento delicato o a scadenza periodica (ove ciò è d’uso), in specie per riscuotere con il loro consenso una contribuzione (più o meno straordinaria) detta spesso “donativo”. Questa si rivela nel tempo la causa principale del “parlamento”: poiché sono in pratica inesistenti tributi ordinari (se non alcuni indiretti), il re

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può essere costretto a riunire i “tre stati” per chiedere un contributo straordinario dai sudditi, generalmente per la necessità di armare un esercito per una guerra o per garantire l’ordine pubblico. I feudali possono contribuire a volte con le loro milizie (o sostituirvi una somma di denaro), gli ecclesiastici con la preghiera, i “burgenses” con una somma (a volte sostituita da armati): è, in certo qual senso, un aggiornamento dell’antico “auxilium” feudale. In genere la richiesta complessiva del re (o dei suoi delegati) viene discussa da ciascuno dei tre “ordini” a sé, controllata in ciascuno di essi nell’ammontare globale e suddivisa poi fra i componenti: ciascuno tende – naturalmente – a ridurre la sua quota ed a rimbalzarla sul vicino … Alla fine si giunge ad una soluzione (spesso faticosa, dopo contrasti anche duri, a volte pure con sanzioni fisiche …), che viene approvata dal parlamento generale e messa per iscritto. In genere il voto avviene per “ordini” o “stati” e quindi quello favorevole di due (spesso nobiltà e clero) impegna anche il terzo. Solo dopo tali votazioni il re può mandare i suoi esattori a riscuotere il contributo; in caso contrario, la richiesta non è legittima e può essere rifiutata, perché “quod omnes tangit, ab omnibus adprobari debet”. Questo è un “brocardo” 4 desunto da un passo privatistico del corpus iuris giustinianeo 5, che la prassi medievale vuole applicata a tali casi. Nel parlamento la discussione – generale o per ordini – viene spesso ampliata dagli astanti ad altri argomenti: al “donativo” è sovente condizionato il buon funzionamento del regno, e quindi si chiedono – quasi in cambio – provvedimenti regi (anche legislativi) per ridurre gli aspetti criticati o per avere privilegi per il proprio gruppo sociale. Il parlamento è quindi anche l’occasione per ottenere un miglioramento dell’esistente (ad esempio, miglior 4 Come già detto, i “brocarda” sono affermazioni sintetiche (quasi proverbi) appoggiate su precisi passi giustinianei, che il giurista cita (a memoria) per corroborare le sue affermazioni, dato che attestano un principio desunto dai “libri legales”. Si tratta, naturalmente, di valutare – nel caso concreto – se è utilizzato a proposito … 5 In effetti, il “brocardo” è desunto dal diritto privato e riguarda la necessità che i contitolari di un diritto (nel caso esaminato, comproprietari) approvino in via straordinaria il suo esercizio. Il “brocardo” quindi è – con indubbia fatica – esteso tramite l’“interpretatio” da un istituto specifico del diritto privato ad una valenza generale nel diritto pubblico: è un esempio della facilità con cui l’interprete medievale applica ad un’esigenza sentita un principio giuridico nato in tutt’altro contesto (o istituto) … In concreto, però, il “brocardo” afferma – per quanto con un’interpretazione piuttosto … libera – che sul piano fiscale un tributo può essere riscosso dal re solo se i rappresentanti di chi ne è gravato ne hanno accettato l’imposizione. Gli “omnes” sono i rappresentanti degli onerati: si afferma così non solo un principio garantistico, ma anche quello rappresentativo (difficile da percepire appieno nel medioevo, e qui sostenuto addirittura partendo da uno specifico caso di un istituto privatistico).

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giustizia, minori vessazioni, privilegi locali, riduzione o controllo delle spese regie, ecc.) nell’ottica dell’élite del tempo, che alla fin fine accetta di pagare, ma chiede pure di contribuire non solo coi suoi soldi ma anche con le sue critiche a ridurre le disfunzioni del sistema o i suoi svantaggi specifici. Per questo la Corona si adatta a convocare il parlamento solo quando si trova in vera difficoltà economica o militare, perché spesso nelle riunioni emergono critiche, richieste e reazioni indesiderate. A loro volta, i membri dei tre “stati” attendono la convocazione parlamentare per far presenti le disfunzioni dell’ordinamento, ottenere privilegi per sé, condizionare – se ed ove possibile – la politica regia. Si realizza così una dialettica fra Corona ed “ordini”, che ha uno sviluppo anche diverso nelle epoche e nelle zone europee a seconda della forza politica dell’una (re) o delle altre parti (spesso i nobili riescono ad imporsi sugli altri due “stati” … ed i “burgenses” finiscono con l’essere i più colpiti). In Inghilterra l’istituto parlamentare è funzionante ed efficace sin dal sec. XIII (e vi ottiene la “magna charta”): la sua tradizione secolare sarà sempre un limite per la Corona, pur nelle diverse e complesse vicende. In area spagnola (e quindi in Italia anche in Sardegna 6 e Sicilia 7) il parlamento (“estados”, “estamientos”, stamenti in Sardegna, bracci in Sicilia) ha una secolare tradizione anche grazie al potere dei nobili (baroni): si affermano in definitiva nella prassi riunioni periodiche (in Sicilia circa ogni tre anni, in Sardegna ogni decennio), discussioni di un certo rilievo, controlli sulla spesa del donativo 8. Il parlamento siciliano è inoltre quello che – dopo la ribellione antiangioina – elegge addirittura, eccezionalmente, il re e per tutto il Trecento condiziona abbastanza i re del ramo aragonese cadetto. Esso è l’unico in Italia a durare sino al sec. XIX, a testimonianza di una radicata ed efficace tra6 Nel sec. XIV gli Aragonesi hanno conquistato la Sardegna (spogliandone le repubbliche di Pisa e di Genova) e ne sono stati investiti dal Papa (in base alla donazione di Costantino). L’isola è rimasta sotto la dominazione spagnola sino al sec. XVIII, quando è passata – per accordi diplomatici – ai Savoia, divenuti così “re di Sardegna”. 7 La Sicilia è passata sotto gli Aragonesi in via definitiva dai primi anni del sec. XIV ed è rimasta sotto influenza spagnola ancora per tutta l’età moderna. Il parlamento siciliano ha però ottenuto che vi fosse insediato un ramo collaterale della dinastia, che si è poi legato all’isola (e nel sec. XV ha pure riconquistato la parte continentale del regno, cioè il regno di Napoli, riunificando quindi il “Regnum” ma riportando però la capitale da Palermo a Napoli … con secolare astio del baronaggio siciliano). 8 Nel sec. XV si afferma in Sicilia un controllo di delegati del parlamento (12: quattro per “braccio”, a comporre la “Deputazione”), che nel triennio di tempo fra una riunione assembleare e l’altra controllano come le somme deliberate sono riscosse (ed appaltate) dal re e soprattutto da lui spese.

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dizione. Molto più blanda è la vita del parlamento napoletano, osteggiato sin da Carlo d’Angiò e anche in seguito poco vivace. Ciò si verifica pure nei domini pontifici, ove non esiste una tradizione parlamentare unitaria e le riunioni della marca d’Ancona sono quelle meno evanescenti 9. Più consistenti ed incisive sono le riunioni del parlamento del Friuli sotto il patriarca d’Aquileia, che – grazie anche alla posizione religiosa del monarca – riesce a condizionarne la politica 10 sino a quando il patriarcato non è sottomesso nel sec. XV dalla repubblica di Venezia. Infine, nei domini sabaudi esistono più riunioni di parlamenti provinciali (Savoia, Vaud, Piemonte), che si consolidano tra Trecento e Quattrocento e che negli ultimi anni di questo secolo e nei primi del successivo condizionano con le loro decisioni la politica ducale 11. Le monarchie medievali tendono ad ignorare il concetto di “unum imperium” rimasto praticamente sulla carta, nonostante la permanenza di un titolare evanescente del S.R.I. Esse perseguono la loro politica particolare: di qualcuna pare necessario un cenno, specie per alcune particolari caratteristiche o per lo sviluppo successivo. La monarchia francese, antagonista per eccellenza nei confronti dell’Impero, non era particolarmente florida perché limitata nell’estensione (era senza le terre normanne, meridionali e borgognone) e contenuta nei possedimenti diretti, ma all’inizio del sec. XIII riusciva ad espandere la sua autorità su territori prima non controllati 12, in buona parte però col sistema feuda9

Nel parlamento della marca d’Ancona, riunito a Fano nel 1357, il legato pontificio Egidio Albornoz ha “pubblicato” un corpo di leggi per governare la zona, le note “Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae” (dette pure, dal nome dell’autore, “Constitutiones Aegidianae”). 10 Il parlamento friulano tra i secc. XIV-XV “reggeva la contrada” ed aveva acquisito un certo potere politico accanto al governo patriarcale. 11 A cavallo dei secc. XV-XVI il parlamento della zona piemontese del ducato acquisita un certo potere e lo rafforza poi nel sec. XVI nei confronti del debole duca Carlo II, che è condizionato dai limiti imposti dall’assemblea dei “tre stati” del Piemonte sul piano tributario. I vincoli fissati dalle riunioni parlamentari del Piemonte alle richieste finanziarie di Carlo II porteranno il figlio Emanuele Filiberto (riconquistato il ducato dopo la dominazione francese) a non convocare più nella seconda metà del sec. XVI i “tre stati” piemontesi, ma solo quelli valdostani. 12 Con la vittoria di Bouvines (1214) il re di Francia ottiene una vasta parte dei territori normanni a nord della Loira, con la crociata contro gli Albigesi (1209-29) arriva alla zona prepirenaica nel sud della Francia.

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le. Nel frattempo, inoltre, iniziava a dotarsi – anche se con discontinuità – di inviati del re sul territorio (balivi e senescalchi), di una corte sovrana di giustizia in ultima istanza (la “Cour de parlement” parigina), di un organo di controllo della contabilità degli ufficiali regi (la Corte dei conti), di una certa tradizione legislativa (le “ordonnances”). Si trattava di un primo avvio di accentramento, a tutto vantaggio del potere regio. Nella penisola iberica i regni cattolici nei secc. XI-XIII approfittavano della crisi istituzionale interna al mondo arabo e ne riducevano la dominazione al territorio meridionale (regno di Granada). Nella penisola, quindi, si affermavano i regni cristiani del Portogallo (a ovest), di Castiglia (al centro) e d’Aragona (ad est, con propensione anche marittima, che ne porterà poi la dominazione pure in zone italiane). Tali regni, peraltro, sono tesi allo sforzo militare antiarabo, per il quale il re utilizza un’impostazione feudale, che gli consente progressi territoriali, ma lascia ampio spazio proprio ai signori localmente infeudati. Il regno d’Inghilterra a metà sec. XI viene conquistato dai Normanni 13. Si trattava di un bellicoso gruppo di guerrieri, di origine nordica (Vichinghi), stanziatisi nel sec. IX in quella parte occidentale della Francia, che è detta Normandia, perché conquistata da questi avventurosi “uomini del nord” (nord-mann), giuntivi per mare, dedicatisi poi a lungo a saccheggi e scorrerie 14. Nella prima metà del sec. XI un gruppo di questi si lancia alla conquista dell’Inghilterra (in mano ad una dinastia sassone), un altro si avventura nell’Italia meridionale. Il regno fondato in Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore vede insediati signori feudali (compagni nell’avventura) ma vede anche conservati poteri giurisdizionali al re: nonostante la feudalizzazione, il re dispone di un certo potere locale tramite suoi ufficiali e riesce a far sentire il suo peso nell’amministrazione della giustizia, ove si affermano princìpi consuetudinari ed una prassi giudiziale, che si rivelano impermeabili all’introduzione del diritto romano-giustinianeo ed alla penetrazione della dottrina

13 Il primo re normanno è Guglielmo il Conquistatore, vincitore nel 1066 della battaglia di Hastings sui Sassoni. 14 Per frenarne l’irruente intraprendenza i re di Francia sin dalla fine del sec. IX avevano loro concesso ampi territori nella attuale Normandia, ma solo dopo un secolo ne riuscirono a contenere le tendenze predatorie in zona. Dopo non molto tempo, alcuni gruppi partirono – sempre sul mare – all’avventura in Inghilterra, in Spagna, in Italia meridionale …

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giuridica bolognese (portata nell’isola dal glossatore Vacario, ma respinta) 15. Di qui inizia il distacco della tradizione giuridica continentale europea (“civil law”) da quella inglese (“common law”, così detta perché comune all’isola rispetto alle ulteriori tradizioni particolari e locali). Nel 1215 il re, in crisi dopo la sconfitta nella battaglia di Bouvines dell’anno prima 16, riconosce ai signori feudali (= baroni) con la “magna charta libertatum” una serie di privilegi o “libertates”. Si tratta di un documento di matrice medievale, che però è venuto assumendo nei secoli un rilievo particolare: da un lato perché – sebbene concesso – è stato poi interpretato come accordo fra re e baroni (e quindi come limite al potere del principe), dall’altro, perché – sebbene concesso ai baroni – ha affermato princìpi che travalicavano il loro ceto. Ai baroni riconosceva di poter essere giudicati dalla curia dei pari (art. 21), di non versare contributi se non dopo una loro decisione collegiale (cioè del “parlamento”) (art. 12), di non essere arrestati se non previo giudizio di colpevolezza dei pari. Accanto a questi ed altri privilegi (“libertates”) baronali, erano però ammessi alcuni riconoscimenti di carattere generale: la libertà della Chiesa d’Inghilterra (art. 1) 17, la necessità di una decisione parlamentare per imporre alle città ed ai sudditi contribuzioni regie (art. 14) 18, il divieto di arresti arbitrari (art. 39) 19, la libertà di circolazione per i mercanti (art. 41) ed in genere quella di varcare i confini del regno (art. 41).

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Sono stati soprattutto i giudici delle Corti inglesi legate alle consuetudini feudali locali ad opporsi all’infiltrazione di un diritto scritto e di princìpi diversi, quali cercava di diffondere Vacario, la cui iniziativa fallì. 16 A causa della sconfitta di Bouvines Giovanni “senza terra” dovette riconoscere al re di Francia tutte le terre normanne a nord della Loira, scontentando ampiamente i signori normanni in Francia e in Inghilterra e rischiando qui una loro vera rivolta contro di lui. 17 Anche in Inghilterra la Chiesa aveva rifiutato di soggiacere al potere regio, in armonia con le pretese gregoriane: dopo non pochi contrasti, questo primo articolo riconosceva la “libertà” della Chiesa locale, e quindi le aspettative di questa. 18 Questo sarà uno dei punti determinanti e qualificanti dell’attività parlamentare nei confronti del re. 19 Si tratta di un punto fermo di tutta la tradizione inglese, molto meno sul continente tra medioevo ed età moderna.

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“MAGNA CHARTA LIBERTATUM” (15 giugno 1215) Due fra i più noti capitoli sono l’art. 12 e l’art. 39: il testo presenta un’esposizione senza dubbio medievale, ma il contenuto si è conservato nei secoli, sino a poter anche rappresentare un’anticipazione di princìpi maturati in epoca molto successiva. [12] Nullum scutagium vel auxilium ponatur in regno nostro, nisi per commune consilium regni nostri, nisi ad corpum nostrum redimendum et primogenitum filium nostrum militem faciendum et ad filiam nostram primogenitam semel maritandam, et ad hoc non fiat nisi rationabile ausilium; simili modo fiat de auxiliis de civitate Londiniarum. (…) [39] Nullus liber homo capiatur vel imprisonetur aut disseisiatur aut utlagetur aut exuletur aut aliquo modo destruatur, nec super eum ibimus nec super eum mittemus, nisi per legale iudicium parium suorum vel per legem terre.

L’art. 12 prevede che il re non possa imporre alcuna contribuzione militare, personale o pecuniaria nel regno, se non previa apposita deliberazione dell’assemblea parlamentare, salvo che in tre casi (cioè per il proprio riscatto dalla prigione, per armare militare il suo primogenito, per il primo matrimonio della sua primogenita). L’impegno richiesto ai vassalli dev’essere comunque ragionevole, così come i sussidi richiesti alla città di Londra. Il re si trova quindi vincolato (salvo che nei tre casi eccezionali della sua prigionia, del cavalierato del primogenito e del matrimonio della primogenita, per cui il contributo – comunque “ragionevole” – è automatico) alla decisione degli stessi vassalli, garantiti pertanto dalla necessità del consenso della loro assemblea alla contribuzione ed alle modalità della sua prestazione. L’art. 39 fissa le garanzie riconosciute ad ogni uomo libero, accentuate nel caso di vassalli dalla necessità che si pronunci in proposito la curia dei pari, oltre all’obbligo generale del rispetto delle consuetudini esistenti: il re non può privare nessuno della libertà personale, incarcerare, privare dei propri beni, esiliare o comunque danneggiare qualcuno nella persona e nei beni.

Alla “magna charta” del 1215 si suole far risalire il parlamentarismo ed il contrattualismo, di cui l’Inghilterra è stata considerata sempre la bandiera. Tale ‘lettura’ del documento del 1215 (da valutare comunque nel suo contesto medievale) può essere un po’ eccessiva e troppo anticipatrice di situazioni e di concetti che prenderanno corpo solo con i secc. XVII-XVIII; può essere però suggestiva per riconoscere matrice secolare a princìpi radicatisi in età moderna nel mondo anglosassone e riconosciuti ormai un punto fermo nella storia della civiltà.

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Un altro regno fondato dai Normanni è quello di Sicilia (il “Regnum” per antonomasia nella tradizione italiana), di cui è stato incoronato nel 1130 a Palermo Ruggero II d’Altavilla. Da circa un secolo gruppi di Normanni erano giunti nell’Italia meridionale, ove li aveva attirati a guerreggiare per le varie parti la lotta costante fra territori bizantini (Calabria e Puglia), longobardi (ducato di Benevento, Salerno e Capua) e signorie o città autonome (ducato di Napoli, principato di Salerno, Gaeta, Amalfi), mente la Sicilia era in mano araba. Dopo aver combattuto per gli uni o per gli altri, un gruppo di Normanni sotto la guida dei fratelli d’Altavilla si lanciò prima nella conquista della Puglia bizantina 20, poi della Sicilia araba e riuscì nell’impresa, consolidandola infine con l’acquisizione di tutto il resto del meridione. La fortunosa avventura ebbe riconoscimento ufficiale con l’investitura del regno di Sicilia data a Ruggero II da parte pontificia (prima dall’antipapa Anacleto, poi dalla conferma nel 1139 di papa Innocenzo II) 21. L’investitura pontificia poteva trovare giustificazione nella donazione di Costantino, con cui la Chiesa sosteneva di essere stata gratificata anche del Sud Italia; si ispirava inoltre alla riconduzione alla cristianità della Sicilia, obiettivo per il quale Ruggiero fu anche riconosciuto “legato pontificio” nell’isola. Tale funzione, data in via temporanea dal papa, fu considerata ereditaria dalla monarchia e ben più ampia nei poteri 22, tanto da intendervi compresi il controllo della designazione dei vescovi e le cause canoniche in appello. L’infeudazione del “Regnum” comportava la soggezione formale del re all’investitura pontificia ed un suo comportamento secondo l’“obsequium” feudale: restò foriera di periodi di tensione – anche gravi – sino al sec. XVIII. La legazia apostolica, a sua volta, innescò fini problemi giuridici addirittura sino al sec. XIX, quando vi fu la formale rinuncia statale ad essa 23. 20

Dopo lo scisma orientale del 1054 la Chiesa di Roma era molto interessata a ‘rilatinizzare’ l’Italia meridionale per evitarne il passaggio sotto l’influenza religiosa costantinopolitana. Essa quindi non vide negativamente l’impresa normanna, oltre la sua violenza. 21 In effetti, papa Innocenzo II provvide alla conferma nel 1139 quando cadde prigioniero di Ruggero II dopo la battaglia del Garigliano e aspirava a tornare in libertà … 22 La bolla pontificia di papa Urbano II del 1098 a favore di Ruggero d’Altavilla era temporanea, personale e piuttosto limitata e tendeva a riparare un ‘errore diplomatico’ del papa verso Ruggero. In effetti, essa fu intesa in modo molto più ampio dal legato, che – sulla base della tradizione sia bizantina che carolingia – la intese come una sua supervisione (in pieno contrasto con le pretese gregoriane della Curia papale del tempo) sui vescovi e sul clero locale. Oltre tutto, destinata all’isola, fu poi intesa dalla Corona valida per tutto il regno. 23 Ciò avvenne, addirittura, nel 1871 da parte del Regno d’Italia con la “legge delle guarentigie” (art. 15).

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Il “Regnum”, con queste ed altre particolarità giuridiche, è rimasto per secoli la più estesa – ed a lungo più importante – monarchia italiana, sino al 1860. Esso ha giocato un ruolo di rilievo anche nelle vicende politiche della penisola (e del Mediterraneo), sino all’Unità. Il re normanno si insedia su terre già bizantine e già arabe, grazie ad una conquista militare che inserisce i nuovi dominatori in una realtà preesistente. I Normanni portano dalla Francia una certa tradizione feudale: il re non può non gratificare di feudi i propri compagni d’avventura, secondo la tradizione affermatasi nelle terre transalpine d’origine. Il feudo introdotto nel Meridione dai Normanni è quindi quello “iure Francorum” (indivisibile, non trasmissibile in via femminile, non alienabile senza consenso del “senior”) e non “iure Langobardorum” in atto nella penisola 24. La tradizione bizantina si fa però sentire, perché non scompare con le infeudazioni il concorrente controllo regio sul territorio per amministrare la giustizia e ricavare contribuzioni a suo favore tramite propri ufficiali (giustizieri e camerari), così come si impone sulle città la sua autorità (che gela le nascenti prospettive di autogoverno comunale). Non si assiste quindi alla tipica polverizzazione del potere regio di tradizione feudale, sia per l’attenzione dei re normanni alla conservazione del proprio potere periferico sia per la tradizione bizantina ed araba in tal senso. In Sicilia, anzi, la sovrapposizione del regno alla capillare imposizione tributaria araba giova ampiamente alle finanze della monarchia, che fra quelle europee coeve si segnala per gli ampi mezzi finanziari. Questa particolare situazione porta spesso a valutare questa monarchia medievale come la più vicina a quei sistemi di governo che sono propri dei regni d’età moderna e al funzionamento di uno Stato. Ciò può risultare nei rapporti fra re, territorio e sudditi, perché il primo conserva una buona parte dei poteri, che non sono quindi – come altrove – del tutto appannati dalla mediazione feudale. Resta però una limitazione d’origine, dovuta alla signoria eminente pontificia conseguente all’infeudazione, che non lascia parlare – sul piano formale, non effettivo – di piena sovranità 25.

24 Nel sud Italia, nonostante una prassi molto vicina al feudo, l’istituto non era ancora pienamente affermato, e ne erano esenti le terre arabe e bizantine: si può quindi dire in generale che è stato l’avvento normanno ad introdurre il feudo nell’Italia meridionale, naturalmente secondo la loro tradizione ‘franca’. 25 La superiorità feudale pontificia si è fatta sentire nel sostenere l’avvento al trono di Federico II e – dopo la sua morte – con l’investitura a Carlo d’Angiò; in età moderna tale superiorità induce poi a sua volta il re di Napoli a concedere in feudo terre a protetti dal papa …

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Il re, dopo la conquista, insiste sulla necessità della sua presenza per la “pace”, che solo la superiorità della ‘corona’ sul territorio può assicurare: per questo la persona del re è sacra (secondo la tradizione franca e bizantina). Tale sacralità deve essere riconosciuta ovunque, i suoi ufficiali locali sono ‘sacri’, le “res regales” (beni demaniali) sono consistenti nonostante le infeudazioni, la sua autorità è affermata anche sul clero locale, un suo inviato (baiulo) amministra l’ordine nelle città. Ruggero II si spinge a dettare un gruppo di norme per il funzionamento del regno, emanate nel 1140 di fronte all’assemblea generale (“Assise” 26 di Ariano Irpino). In armonia con il regno normanno d’Inghilterra, ma anche con la tradizione meridionale bizantina ed araba, il re di Sicilia si giova di un gruppo di funzionari-fiduciari che lo aiutano – con specifiche competenze – in quella che possiamo dire l’amministrazione centrale. È un’impostazione medievale desunta da esempi precedenti, ma pure precorritrice dell’organizzazione dello Stato moderno. Il concetto delle funzioni e della competenza (per materia e per territorio) è tipico infatti di quest’ultimo (ed è per lo più organicamente assente nelle monarchie medievali, basate soprattutto sul rapporto fiduciario dei collaboratori col re). Vi troviamo alcuni alti funzionari (sette), fra i quali il Gran giustiziere (a capo della giustizia regia e quindi dei giustizieri locali), il Logoteta (a capo della sua segreteria particolare ed uomo di sua fiducia), il Gran cameraro (a capo dei camerari locali preposti alle entrate regie) con gli uffici finanziari della Gran Secrezia (su modello di riscossione araba e bizantina, ma – come organo – oggetto di frequenti trasformazioni). Una caratteristica di rilievo del regno è la distribuzione territoriale di giustizieri (= giudici) e camerari (= esattori) regi a nomina periodica (per lo più annuale) pure in zone ove esistono non solo terre demaniali (= regie) ma anche feudi. Senza dubbio ciò comporta rivalità – e spesso tensioni – con i locali signori feudali (= baroni), ma consente al re di tenere questi ultimi sotto controllo, di essere il punto di riferimento per i sudditi scontenti dei baroni, di avere un rapporto consistente con tutto il territorio (e non solo con le terre demaniali). A loro volta le città – in genere non infeudate e quindi demaniali – sono rette da un “baiulo” di nomina regia: tali “universitates” cittadine possono godere di privilegi regi, di natura anche tributaria, ma non giungono a quell’autogoverno tipico dei Comuni centro-settentrionali, a cui potevano essere indirizzate dallo sviluppo precoce di alcune città nel sec. XI, perché la conquista normanna ne ha bloccato la sorgente tendenza autonomistica. 26 Tale termine indica di per sé l’assemblea, ma nel caso specifico è pure usato per la raccolta normativa.

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Il re in situazioni particolari (come giuramento di fedeltà, emanazione di norme) riunisce un’assemblea di notabili (baroni ed ecclesiastici) e “fideles” (popolo) per prendere atto della situazione e “contemplare la maestà” del sovrano. Tali assemblee (= assise) non sono né deliberative né consultive: sono solo recettizie. Ciò avviene, ad esempio, nel 1140 per venire a conoscenza delle leggi regie (Assise di Ariano), al fine di dare loro la pubblicità opportuna. Da tali premesse prende avvio quello che dal sec. XIII in poi sarà detto il “parlamento” (o congregazione) dei “tre stati” del regno di Sicilia, coinvolgente i baroni, gli ecclesiastici ed i rappresentanti delle terre (cioè soprattutto le città) demaniali. Il “Regnum”, così organizzato sin dai tempi di Ruggero II, che è riuscito ad arginare il potere dei baroni (suoi iniziali compagni d’avventura) per affermare un cosciente e significativo potere regio, continua presso i successori, sin verso la fine del sec. XII senza grandi cambiamenti, se non per un aumento di rilievo dell’assemblea dei baroni grazie alle successive rivalità dei pretendenti alla successione al trono. A fine secolo le difficoltà della successione portano ad una certa crisi della monarchia (e dei suoi uffici) a vantaggio dei baroni. Ciò prosegue pure nei primi anni di regno di Federico II 27, succeduto in quanto figlio di Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II 28. Il giovane re ripristina però ben presto il suo potere nel regno ed introduce alcuni cambiamenti, che non modificano sostanzialmente l’organizzazione precedente. Riguardo alle “assise”, riconosce loro un maggior rilievo (ed anche potere) ed una certa periodicità e rappresentatività: si può dire che sia nel periodo del suo regno (1198-1250) che si afferma il parlamento siciliano (“collo-

27 La sua successione non è stata facile, non solo per la tenera età, ma anche per l’opposizione di parte dei baroni normanni a veder proseguire la dinastia sotto gli Svevi in base ad una successione per linea femminile (tramite la madre, figlia di Ruggero II). Già il padre Enrico aveva faticato a piegare l’opposizione di un numero ragguardevole di baroni. La successione di Federico II è agevolata dall’appoggio pontificio ma consente comunque nei primi anni di regno – con il giovane re sotto tutela – ai signori feudali di espandere il loro potere. 28 Di per sé la tradizione del “feudo franco” escludeva la successione per linea femminile: si trattava non di un feudo qualunque, ma dello stesso regno … Già Enrico VI aveva faticato non poco a sostenere i diritti ereditari della moglie Costanza, anche se si poteva dire che ciò valeva per i feudi dati dal re, non per lo stesso regno, infeudato dal pontefice. L’appoggio di questo fu determinante per la successione di Federico II. Ciò non impedirà che quest’ultimo, divenuto adulto, abbia avuto lunghi e profondi contrasti con pontefici successivi, tanto da essere scomunicato (e da essere parificato da ambienti ecclesiastici all’anti-Cristo …).

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quium”) composto dei tre “ordini” o “stati” dei baroni, ecclesiastici, rappresentanti di città e terre demaniali, riunito dal re per sentire le lagnanze dei sudditi (di vario livello) e le loro aspettative. Tale parlamento avrà una lunga storia, ininterrotta sino alla prima metà del sec. XIX, con momenti anche di particolare rilievo, come quando dopo i “vespri siciliani” (1282) pretenderà di esprimersi sul futuro re o quando (1812) la sua opposizione al re porterà temporaneamente ad una costituzione nell’isola. Il lungo regno (mezzo secolo) di una personalità come Federico II ha avuto un indubbio peso nel regno. L’unione nella sua persona della titolarità della monarchia meridionale e dell’Impero (almeno per un trentennio, 12201250) ha modificato molte cose: tra queste, l’impegno di Federico per imporsi sui Comuni italiani ha provato a fondo le finanze del Regnum (1220-40); l’unione delle due cariche ha incontrato l’opposizione pontificia e fatto discutere dell’infeudazione del regno e della legazia; la visione ‘maiestatica’ del suo potere ha portato ad indubbie sue manifestazioni assolutistiche anche nel Regnum; la prospettiva medievale del ‘re-giudice’ assente sul piano legislativo si è mutata in quella moderna del ‘re-legislatore’, la cui espressione principale sono le “constitutiones” emanate a Melfi nel 1231 (nel parlamento) dette pure “Constitutiones augustales” 29 o “regnum regni Siciliae” 30. Con tale corpo di norme, di indubbia consistenza, il re riprendeva quelle precedenti (sin dalle “assise” di Ruggero II di Ariano), per riordinare “funditus” (= dalle fondamenta) il regno, ma forniva pure – nonostante l’aperto dissenso pontificio – un complesso legislativo che si presentava come un’innovazione considerevole per l’epoca e resterà per secoli alla base dell’ordinamento del regno 31. La visione di Federico II, senza dubbio centralistica ed assolutista, accentua il potere regio anche alla periferia del regno e ne fa un modello che trascende l’impostazione medievale per notevoli similitudini con l’organizzazione statale successiva. In più, la concezione ‘maiestatica’ della sua posizione e della possibilità di modificare col suo volere la stessa precedente tradi-

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Il significato del termine è controverso fra gli interpreti, perché tali costituzioni si riferivano al Regnum e Federico poteva essere “augustus” in quanto imperatore, ma non con riferimento al regno di Sicilia. C’è chi dice che si fa riferimento al mese dell’emanazione, chi si sofferma su altri aspetti nebulosi. La raccolta è pure detta “Constitutiones melfitanae” dalla località di emanazione. 30 Tale accezione sottolinea il legame della compilazione del 1231 con la legislazione precedente, che riprende ma aggiorna ed amplia in modo notevole. 31 La raccolta, emanata per tutto il territorio del regno, resta in vigore anche nel Regno di Napoli angioino ed è il corpo più significativo delle leggi di tutto il meridione anche in età moderna.

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zione di governo (a vantaggio, naturalmente, della monarchia ed a sfavore dei baroni) può aver portato – per la prospettiva medievale, sensibile alla conservazione delle regole consuetudinarie – anche a contestarne il governo come prevaricatore rispetto agli usi consolidati del regno 32. Ciò ha potuto avvenire anche perché negli “usi” affermatisi con i suoi immediati predecessori ed anche nei primissimi anni del suo regno i baroni avevano ampliato i propri poteri a danno della monarchia, che in seguito Federico ha non solo riportato alle dimensioni precedenti, ma pure esteso a suo favore 33. È stata eccessiva la storiografia ottocentesca quando ha voluto considerare Federico – uomo del suo tempo – un principe simile a quelli d’età moderna; senza dubbio però numerose sue posizioni – anche ‘maiestatiche’ – sembrano precorrere i secoli ed aprirsi a prospettive di governo che si riveleranno attuali solo molto tempo dopo, col sovrano d’età moderna. Una monarchia particolare è quella dei dominî pontifici, affidata al vescovo di Roma in quanto capo della Cristianità. Ciò all’epoca avviene formalmente in base alla donazione di Costantino, ma prosegue anche dopo l’accertamento della sua falsità 34. Dura sino al 1870 35. La monarchia, a diffe32

La prospettiva medievale, secondo cui il re è vincolato alle regole fondamentali del regno (è ‘sotto’ o ‘dentro’ esse, non ‘sopra’) nei rapporti coi feudatari e coi sudditi, non ne accetta la superiorità legislativa: il re è ‘dentro’ il meccanismo, non può modificare unilateralmente le regole del suo funzionamento. Se si comporta così, modifica le regole del gioco (volute da Dio: è l’anti-Cristo!) ed è lui per primo a non poter essere ubbidito perché prevaricatore … (sembra di sentire con secoli d’anticipo alcuni teorici “monarcomaci”). A sua volta, Federico intende modificare “funditus” il funzionamento del regno, legiferando in proposito. La contrapposizione tra le due tesi è quindi netta. 33 Alla morte di Federico II (1250), gli successe il figlio illegittimo Manfredi, ma il favore del Papa, signore eminente del Regnum, andò a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, che si conquistò militarmente il regno di Sicilia di cui era stato formalmente investito. La dominazione angioina perse però la Sicilia, i cui baroni si ribellarono (1282, “Vespri siciliani”) anche grazie all’aiuto aragonese: il parlamento siciliano elesse re di Sicilia il figlio del re d’Aragona (nipote di Federico II) e il regno angioino di Napoli perse la Sicilia, in mano aragonese. Nel sec. XV, addirittura, il re aragonese di Palermo conquistò tutto il regno di Napoli e riunificò il Meridione. 34 Dopo che l’umanista Lorenzo Valla ha dimostrato la falsità del documento (1440) la situazione per secoli non è mutata, nel rispetto della tradizione e della libertà di magistero spirituale del Papa. 35 Come noto, la fine del dominio temporale pontificio è avvenuta per “debellatio” da parte del Regno d’Italia. Il Pontefice non è quindi più stato anche capo politico dal 1870 al 1929, quando – in seguito ai patti lateranensi – è stato costituito, in una piccola ma simbolica parte di Roma, il minuscolo Stato della “Città del Vaticano”, a lui soggetto.

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renza delle altre, è elettiva: in seguito alla riforma gregoriana (sec. XI), l’elettorato attivo è riconosciuto ai cardinali, cioè ai religiosi più autorevoli, per superare i precedenti contrasti delle fazioni romane. La designazione (dal basso) non esclude che sul piano religioso l’eletto sia per i Cristiani il rappresentante di Cristo in terra. Il rilievo di capo spirituale ed universale tende a ridurre nella figura del papa quello di capo politico, limitato ad una certa area territoriale; inoltre, può far sì che l’importanza di questioni religiose o spirituali universali condizioni le decisioni politiche locali, che possono apparire secondarie rispetto ai problemi universali della Chiesa 36. Il potere politico del papa non ha uno specifico supporto militare, per le stesse caratteristiche della sua posizione religiosa: ne consegue un’intrinseca necessità di protezione da parte di prìncipi secolari. Durante periodi di tensione nella Cristianità, inoltre, la designazione di antipapi indebolisce senza dubbio l’autorità legittima. Questa, per di più, necessita per farsi valere della collaborazione di laici, che costituiscono in genere l’élite dirigente di fiducia del pontefice: essa tende a mutare con ogni nuovo papa e quindi non presenta quella continuità di governo che è frequente nelle altre monarchie dinastiche 37. La monarchia pontificia presenta indubbi elementi intrinseci di debolezza. La stessa elezione cardinalizia, se può sganciare la designazione del pontefice dalle lotte fra i casati romani, non libera poi l’esercizio del potere locale dai loro condizionamenti quotidiani, acuiti dalle consistenti infeudazioni di cui fruiscono le grandi famiglie romane. Se pontefici dalla spiccata personalità sono riusciti nei secc. XI-XIII a sottrarsi ai pesanti condizionamenti imperiali anche riguardo ai loro poteri e ad affermare – fra l’altro – l’importanza dell’incoronazione papale dell’imperatore e l’autonomia pontificia per la nomina agli uffici ecclesiastici, in occasione di tali contrasti hanno dovuto appoggiarsi sul sostegno politico e militare locale e quindi sono stati portati a lasciare ai potenti feudali pontifici gestione pressoché piena nei loro territori, accontentandosi di una formale soggezione feudale. Ne è derivata quindi una scarsa incidenza pontificia per il governo dei domìni della Chiesa, proprio mentre il papa e la sua “curia” riuscivano tra i secc. XI e XIII ad affermare la loro generale superiorità gerarchica spirituale sul clero e sui fe36 In parecchie circostanze, nel corso dei secoli, sono state malignamente espresse osservazioni critiche in senso opposto, volte a lasciare il dubbio che la Chiesa possa aver tenuto una certa posizione per motivi più temporali che spirituali … 37 Un nuovo Papa tende a portarsi accanto collaboratori di sua esperimentata fiducia (anche al di fuori di prospettive nepotistiche, presenti per secoli) e quindi a procedere ad un ricambio complessivo, ben più di quanto avvenga in qualunque monarchia ereditaria, in cui di frequente i collaboratori di un re continuano col successore.

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deli delle diverse terre cristiane, anche grazie alla già ricordata importante legislazione canonica. Delle due grandi monarchie dell’Italia centro-meridionale, quella pontificia appare quindi la più evanescente fra i regni quanto a potere politico per la sua intrinseca essenza, mentre quella normanno-sveva si presenta come la più compatta ed organizzata nell’esercizio del suo potere e nel controllo del territorio, fra gli esempi coevi. Sono due modelli fra loro diversi, curiosamente accomunati dal fatto di far capo entrambi alla donazione costantiniana (che li esclude dalle “terrae imperii”) e – se si vuole – dalla formale soggezione feudale del re di Sicilia allo stesso pontefice. I due regni, in concreto, differiscono quindi vistosamente quanto al sistema di governo.

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XI LO “IUS COMMUNE” TARDOMEDIEVALE NELL’EUROPA CONTINENTALE

SOMMARIO: 1. Dall’ordine politico ad un ordine giuridico. – 2. La dottrina giuridica: dalla “scuola” dei glossatori a quella dei commentatori. – 3. Il sistema dello “ius commune” europeo. – 4. La “interpretatio”. – 5. Il giurista: dalla teoria alla pratica.

1. Dall’ordine politico ad un ordine giuridico Nella prima metà del Trecento la Chiesa e l’Impero, cioè le due istituzioni universali della Cristianità (i “due soli” danteschi), sono in crisi, una nell’esilio avignonese, l’altro con titolari sempre meno rispettati in Europa. Eppure i due complessi normativi che fanno capo ad essi (= diritto civile e diritto canonico) sono alla base della società dell’Europa continentale del tempo grazie all’opera di interpretazione e di diffusione dei giuristi: il diritto ‘dotto’ appreso nelle Università si espande nella sua fama come insieme di regole superiori a quelle locali (usi, statuti, ecc.) e cetuali (consuetudini feudali, mercantili, ecc.), che i politici del tempo (re, principi, signori, Comuni, ecc.) devono far rispettare ed applicare dai propri giudici. Il diritto giustinianeo e quello canonico, insegnati e divulgati mediante la ‘interpretazione’ degli esperti (“magistri”, “doctores”), sono considerati espressione di regole connaturate al buon funzionamento della convivenza (= “societas”) umana, cioè come “ius commune” universale. Sembra affacciarsi la constatazione che, nella crisi dei poteri universali, l’ordine medievale possa essere cercato tramite il diritto (e – o soprattutto – non più con la violenza e la forza): esso si sostanzia nelle regole illustrate dalla dottrina degli esperti: alla loro ‘scienza’ è affidato un compito delicato e rispettato, quello di individuare – nel magma dei princìpi scritti nei testi legali – la regola da seguire, rispettare e far rispettare per quel singolo caso. La loro ‘scienza’ è apprezzata e riverita: la loro consulenza diventa un mestiere.

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Si consolida nella vita quotidiana la figura del giurista professionale (pratico del diritto, e non solo ‘maestro’ di studi), si rafforzano i “collegia”corporativi dei giuristi entro il sistema delle “arti” dei vari Comuni. Si può essere avvocato o giudice, perché si è comunque un esperto di diritto, un esperto cioè dello “ius commune” di espansione e rilevanza continentale. La prospettiva europea punta ancora lo sguardo sull’Italia per quanto riguarda il diritto e la scienza giuridica, in cui a metà Trecento emergono personalità come Bartolo e Baldo, ma lo scenario generale si allarga ormai oltre le Alpi: la nostra penisola, priva del Papato (ad Avignone) e travagliata spesso dalla rissosità locale, perde rilievo nell’Europa del tempo. In questo quadro complessivo il tardo medioevo mostra quindi quale aspetto di indubbio interesse proprio sul piano del diritto la piena maturazione della scienza giuridica e la diffusione europea dello “ius commune”, mentre dal punto di vista politico-istituzionale già esaminato hanno un certo rilievo l’avvento della Signoria nei Comuni italiani e lo sviluppo in Europa dei “tre stati” o parlamenti monarchici medievali.

2. La dottrina giuridica: dalla “scuola” dei glossatori a quella dei commentatori Per oltre un secolo il ‘nuovo’ diritto di matrice bolognese si era basato sul metodo della glossa, ma vi aveva aggiunto via via altri strumenti interpretativi (come le “distinctiones”, le “quaestiones”, ecc.). Un perfezionamento della glossa è quello della “lectura”, con cui un maestro approfondisce via via l’esame di una parte organica dei “libri legales”, sotto ogni aspetto (sostanziale e metodologico): è nota – ed edita – la “lectura” di Azzone al Codice, così come sono note – ed edite – le “lecturae” di Odofredo (maestro rivale di Accursio) alle diverse parti dei testi giustinianei. Dagli anni Settanta del Duecento l’uso della “lectura” viene rinnovato non a Bologna, ma in Francia, dalla “scuola di Orléans”, cioè da Jacques de Révigny e Pierre de Belleperche. Questi arricchiscono la logica interpretativa del giurista con un’utilizzazione attenta della dialettica (in uso in specie nelle scuole transalpine) e con gli strumenti desunti dalla logica aristotelica, percepiti anche tramite la tomistica 1. Il ragionamento argomentativo del giurista così si raffina e le sue “lecturae” dei passi giustinianei offrono nuovi appro1

È nota la grande importanza della rilettura medievale delle opere di Aristotele, anche tramite l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino (che nel 1265 provvede alla stesura della sua “Summa teologica”).

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fondimenti logici per risolvere col diritto in modo più ampio e dettagliato i problemi posti dalla società del tempo. Con tali sistemi il giurista tramite la sua “interpretazione” riesce ad evitare eventuali incongruenze dei passi giustinianei, a colmarne le lacune in aderenza alle esigenze della vita medievale, a costruire una disciplina che – pur partendo dal testo – ne travalica il contenuto, in modo da fornire un coerente sistema di regole da offrire all’uomo della propria epoca. Il nuovo metodo logico-dialettico della “scuola di Orléans” viene recepito in Italia da un intellettuale toscano, Cino da Pistoia (nato verso il 1270, morto nel 1336), giurista ma pure poeta (e amico di Dante). La sua opera maggiore, la “Lectura super Codice” (1312/14) utilizza in modo accorto la dialettica, si apre alle “quaestiones” ed ai casi della vita, ma ha sempre presente l’unitarietà dei princìpi giuridici, che deve ispirare l’“interpretatio” con la consapevolezza di un diritto organico nel suo complesso. L’introduzione in Italia di questo nuovo metodo logico-dogmatico raffina gli strumenti argomentativi del giurista, ne allarga il commento ai singoli passi giustinianei e lo estende alla costruzione dei princìpi generali su cui si basano i diversi istituti: l’insegnamento di Cino viene raccolto da Bartolo da Sassoferrato (1313/14-1357), il personaggio più celebre di questa scuola, detta dei Commentatori, ed uno dei più grandi giuristi in assoluto. Bartolo nella sua non lunga vita (è morto poco più che quarantenne) è stato molto attivo: grande maestro dell’Ateneo perugino (con vasti e profondi “Commentaria” alle diverse parti dei “libri legales”), notevole redattore di trattati su temi specifici (le rappresaglie, la tirannide 2, le acque, ecc.), è stato pure un famoso avvocato (con un grande ‘studio’ professionale, fiorente e numeroso, uno dei primi del tempo, da cui sono usciti “consilia” a centinaia). La fama di Bartolo è quella dei Commentatori e del loro metodo logicodialettico: le sue opere avranno grande fortuna editoriale 3 ed ancora in età moderna ci saranno cattedre universitarie di “bartolismo” (sino in Portogallo), mentre resisterà a lungo il detto “nemo iurista nisi bartolista”.

2 Il trattato sulla tirannide è stato di recente ripresentato al pubblico con traduzione italiana a fronte da Diego Quaglioni, in modo da facilitarne la conoscenza, anche con un puntuale commento. 3 Con la scoperta della stampa, l’edizione dei manoscritti delle opere di Bartolo è un ‘affare’ editoriale (perché un giurista anche mediocre non può non possederle), al punto che saranno stampate col suo nome anche opere altrui, che circoleranno per secoli come sue e solo nel sec. XX saranno correttamente attribuite.

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BARTOLO, DE TYRANNIA Nella “scuola” trecentesca dei Commentatori si sviluppa già la tendenza a svolgere un “trattato” specifico su un certo argomento. È riprodotto qui un breve passo di quello di Bartolo sulla tirannide, cioè su quei diffusi casi di Signorie abusive o prevaricanti, che all’epoca si erano sviluppate nei Comuni italiani. La classificazione di Bartolo riguardo alla tirannide “ex defectu tituli” oppure “ex defectu exercitii” si è rivelata essenziale non solo per la storia istituzionale ma anche per quella delle dottrine politiche.

La fama di Bartolo è dovuta alla levatura culturale e tecnico-giuridica del commento delle diverse parti del “corpus iuris” giustinianeo, per lo più svolto nell’insegnamento universitario perugino. Il ragionamento argomentativo del giurista diviene particolarmente denso e complesso, sostenuto dalle acquisizioni della logica aristotelica: tramite la “interpretatio” dei passi giustinianei egli giunge anche a costruire istituti giuridici del tutto nuovi per la società del tempo, nel campo del diritto sia sostanziale che processuale. Un esempio può essere quello del “tiranno” (anche se in un senso non così malevolo come oggi), con riferimento al signore che è riuscito ad affermare il suo potere in un Comune, tanto da far constatare a Bartolo che “Italia est tota plena tyrannis”. I tiranni sono tali in modo manifesto o occulto, a volte per mancanza di titolo

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legittimante il loro potere (dal popolo o dall’imperatore), a volte per l’esercizio assolutista del loro governo, aspetti dei quali l’autore esamina via via le caratteristiche. Il giurista dell’Ateneo perugino non è stato quindi solo un profondo tecnico del diritto, ma anche un esperto e sensibile conoscitore della realtà politica della sua epoca.

Bartolo è stato solamente civilista. Il suo allievo Baldo degli Ubaldi (perugino, morto nel 1400) ne ha proseguito l’opera, applicandosi anche in altri settori, come il diritto canonico, quello feudale, quello mercantile: non raggiunge le vette di Bartolo, ma estende le sue conoscenze – e consulenze – praticamente a tutti i rami del diritto. È un giurista completo, la cui lunga attività si è fatta sentire nel numero delle opere, nella loro tipologia (commentari, trattati, consigli, aggiunte ad opere di altri autori, glossa alla pace di Costanza, consulenze mercantili, ecc.), nella varietà dei campi trattati. Con Bartolo e Baldo la dottrina del “Commento” acquista fama europea ed acquisisce una metodologia che dura a lungo nel tempo e caratterizza quello che si dirà ancora nel Seicento il “bartolismo” o il “mos italicus”, perché tale metodo di lavoro resta tipico dei giuristi italiani, fra i quali numerosi saranno quelli rinomati ovunque, come Paolo di Castro, Filippo Decio, il canonista Nicolò dei Tedeschi (= “abbas panormitanus”). Con la scuola del Commento la dottrina giuridica medievale raggiunge il vertice: la tecnica logico-dialettica offre all’“interpretatio” del giurista la possibilità di partire dal testo giustinianeo ma di giungere a princìpi e soluzioni di piena novità rispetto ad esso, di costruire un ordinato complesso di regole da presentare all’uomo del tempo come ragionevoli ed adatte al pacifico funzionamento della società, di impiantare un sistema di diritto comune a tutta l’Europa, nel quale le diverse fonti (civili, canoniche, feudali, regie, cittadine, mercantili, ecc.) trovano un loro spazio ed un buon coordinamento e gli istituti giuridici ricevono completa costruzione dogmatica: è il “sistema” dello “ius commune”, esteso pressoché in tutta l’Europa continentale del tempo.

3. Il sistema dello “ius commune” europeo Tra la fine del Duecento ed il Trecento il diritto ‘dotto’ di origine bolognese si espande in Europa. Da un lato, lo utilizzano giuristi formatisi nelle Università esistenti (per lo più in Italia o in Francia) che, rientrati nelle terre d’origine, vi portano il bagaglio culturale di cui si sono arricchiti e con esso

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“interpretano” sia i “libri legales” sia il diritto locale (usi feudali, norme cittadine, signorili o di ceto). Dall’altro, sorgono parecchie nuove Università, in cui si diffonde questo tipo di insegnamento sulla scia dell’esigenza di trovarselo direttamente in loco: anche Torino nel sec. XV apre la sua Università, naturalmente con studi giuridici, in base ad una bolla pontificia del 1404 4. La società europea, e non solo italiana, prende atto a tutti i livelli dell’importanza del giurista per la vita del tempo. Tale professione, avviata in Italia e Francia meridionale sin dal sec. XII, si propaga in tutto il continente (Inghilterra esclusa): si tratta dell’esperto di un diritto scritto, dotato della “scienza” appresa in un’Università, capace di individuare le regole per risolvere il caso concreto, di argomentare con conoscenze specifiche fra le diverse soluzioni ipotizzabili, di destreggiarsi con perizia fra i vari tipi di norme esistenti (oltre che giustinianee e canoniche, feudali, signorili, consuetudinarie locali e cittadine, mercantili, ecc.), di sostenere e difendere i diritti di singoli, comunità e signori, di giudicare in proposito. È una nuova professione, ‘liberale’ e senz’armi (se non culturali), che si affaccia in Europa, e non scompare più. Per questo inizialmente si sostengono lunghi viaggi e costosi soggiorni in un’Università (Bologna, ma pure Padova più appetita dai Tedeschi, ecc.), poi si cerca da parte delle autorità pubbliche locali di costruirsene una meno distante da casa, come avviene tra i secc. XIV-XV in area tedesca 5. Il giurista del tempo parte dalle conoscenze universitarie: per anni studia con più maestri sui testi giustinianei (ma pure canonici, per la laurea “in utroque iure”), si appropria delle tecniche argomentative, memorizza numerosi “brocarda”, si procura i testi essenziali: con questo bagaglio culturale (accertato nella sua consistenza dalla discussione di varie ‘tesi’ pro e contro su dati argomenti, a cui segue la “laurea” finale), può iniziare poi la sua professione: confronterà allora le sue capacità dottrinarie e argomentative, nonché la perspicacia giuridica, con la vita e le norme locali, che “interpreterà” con le conoscenze ed i metodi scientifici faticosamente acquisiti. Di qui dipenderanno le sue fortune personali. Tali conoscenze superano ogni barriera geografica e sono universali, come i concetti e la metodologia dialettica im4

Perché il titolo di “dottore” acquisito in un’Università fosse universale (e quindi ovunque valido e ‘spendibile’) era necessario che l’Università fosse stata riconosciuta espressamente da una delle due autorità supreme medievali, cioè con diploma imperiale o bolla pontificia: ancora una volta ritorna la concezione politica generale del tempo, per una ‘finzione’ che supera il periodo di effettività dei “due soli” danteschi, ormai col Trecento molto scoloriti. 5 Si possono ricordare nel Trecento le Università di Praga (1348), Vienna (1365), Heidelberg (1386), Colonia (1388), Erfurt (1392). Ad esse seguono nel Quattrocento Lipsia (1409), Friburgo (1457), Basilea (1460), Tubinga (1477), e così via.

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parati: con essi il giurista ‘dotto’ (formatosi cioè in una Università) riesce a padroneggiare ogni fonte giuridica, a destreggiarsi fra gli usi locali, a consigliare i comportamenti da tenere. È di un livello qualitativamente ben superiore al mero conoscitore delle consuetudini o degli statuti locali, che è un praticone senza capacità di percepire i concetti giuridici, di distinguere fra diverse costruzioni dottrinarie, di districarsi nelle distinzioni fra istituti giuridici. Si parte dalla formazione scientifica, grazie alla quale si potranno risolvere i problemi della pratica: fare il contrario è impossibile, perché mancano le basi e gli strumenti culturali adeguati 6. Tale giurista potrà svolgere diverse attività, anche contemporaneamente: illustrerà le norme da seguire per un caso concreto, consiglierà la posizione da tenere su un certo problema o le modalità con cui stipulare un contratto, difenderà i diritti di un cliente in una causa, darà un parere al giudice col “consilium sapientis” 7, farà il consulente per un ente (Comune, monastero, vescovado), preparerà la bozza di un accordo mercantile, collaborerà con la signoria locale per la gestione del potere. Egli darà comunque al cliente committente l’assistenza richiesta e la fiducia di avere al fianco un esperto per districarsi nella ‘selva’ delle norme giuridiche e nella vita giornaliera. Le controversie si prevengono con l’accortezza giuridica: se eventualmente nascono, si affrontano con gli strumenti del diritto e non con la forza o le armi (… si spera). Il diritto dell’epoca non è facile da individuare. La legislazione (a cui siamo oggi sin troppo abituati) non è generalizzata nel medioevo. È praticamente assente quella imperiale generale; c’è quella canonica ma è settoriale (per quanto generale); quella regia non è frequente (salvo nel Regnum Siciliae e in Spagna) ed è diffusa al solo regno; quella cittadina (statuti e privilegi comunali) è fin troppo ampia e mutevole (e si deve allora individuare quale statuto è eventualmente vigente) e comunque territorialmente limitata. Esistono poi raccolte scritte di consuetudini o di ceto (ad es. “Libri feudorum”) o locali (ad es. consuetudini di Alessandria) da coordinare con gli usi successivi, nonché altri generi di consuetudini, come quelle mercantili o marittime. Tutto ciò, inoltre, deve essere inquadrato nei concetti giuridici generali contenuti nei “libri legales” giustinianei 8: la definizione degli istituti giuridici si trova nel solo diritto ‘dotto’. 6 La situazione non è mutata col tempo: anche oggi è previsto l’insegnamento teorico-scientifico universitario, grazie alla cui formazione sarà possibile affrontare i problemi della pratica giuridica. 7 Su tale situazione si tornerà fra poco. 8 Quando, ad esempio, una legge o uno statuto parlano di proprietario o comodatario, dote o fedecommesso, dettando una certa disciplina specifica, è alla dottrina giuri-

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Tale diritto ‘dotto’ è quindi diffuso coi suoi concetti e con la sua costruzione scientifica oltre ogni divisione politica: è lo “ius commune” dell’Europa del tempo. Questo “ius commune” si basa sull’elaborazione dei concetti e della disciplina che la “interpretatio” dei giuristi medievali trae dai testi dei “libri legales” giustinianei per lo “ius civile” e dalle collezioni canoniche per lo “ius canonum”. Il diritto comune, quindi, è il frutto della riflessione della scienza giuridica, cioè dei diversi ‘maestri’, sui testi: la loro intermediazione culturale è indispensabile. Il diritto comune non è direttamente fornito dal passo giustinianeo o dal canone del “Decretum”: è frutto di quanto su tali fonti ha costruito la speculazione giuridica. Il diritto romano, ad esempio, non viene applicato “tout court” secondo il testo di un certo frammento giustinianeo, ma secondo il collegamento (e la costruzione) che la “interpretatio” dei giuristi medievali effettua con altri passi (a volte anche canonici), secondo la mentalità del tempo. Il giurista non ‘inventa’ una regola giuridica: parte sempre da un passo scritto, per lo più dei “libri legales”. Su tale base elabora il suo ragionamento giuridico, che alla fine può giungere a soluzioni anche diverse da quelle che la semplice lettura del passo lascerebbe a tutta prima dedurre. La regola valida nello “ius commune” è quella terminale della sua “interpretatio”, non quella letterale del passo 9. Il giurista del tempo pensa che nel complesso dei “libri legales” siano contenute tutte le regole giuridiche: è sufficiente che egli, con la sua scienza, sappia individuarle 10. L’ordine del creato secondo la sensibilità dell’uomo medievale ha un suo ‘ordine giuridico’: tocca al giurista scoprirlo e farlo emergere con la sua scienza 11. Tale ordine, naturalmente, riguarda ogni aspetto della vita e vale ovunque oltre ogni frontiera politica: l’insieme delle regole individuate dal giurista è quindi generale e pertanto si tratta di uno “ius commune” a tutta la Cristianità, onnicomprensivo e senza lacune, perché entro lo “ius commune” il giurista riesce sempre a scoprire la regola valida per il caso concreto. Lo “ius commune” costituisce un sistema completo ma complesso, comprendente al suo interno diversi tipi di norme, che – fra loro coordinate – dica che si deve fare capo per sapere a chi si riferisce la disposizione e quali sono le caratteristiche e le regole riguardanti i diversi istituti. 9 Alla “interpretatio” è dedicato il paragrafo successivo. 10 La ‘scienza’ del giurista si comporta come quella del medico (nell’individuazione delle caratteristiche del malato e delle cure), del chimico (nella ‘scoperta’ della composizione degli oggetti) e così via … 11 Ha sottolineato molto efficacemente questi aspetti il libro di Paolo Grossi su “L’ordine giuridico medievale” (ed. Laterza).

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compongono appunto il diritto comune usato in Europa, dal medioevo sino ai codici ottocenteschi. La terminologia, le basi concettuali, i princìpi, le costruzioni teoriche 12, i metodi argomentativi sono tutti del diritto comune: con essi e su essi può poi innestarsi la specifica disciplina di un caso o di un aspetto fissati dagli usi o dalla legislazione locali. Nel sistema del diritto comune le regole generali del diritto romano-canonico sono coordinate ed integrate con quelle dello “ius proprium”, cioè con legislazione (regia o comunale), usi (locali o cetuali), accordi fra istituzioni o enti, e così via. Tale coordinamento è naturalmente affidato al giurista ‘dotto’, che nel corso dei secoli può anche dare soluzioni in parte diverse. Ad esempio, mentre nei secc. XIII-XIV egli è più portato a sostenere le regole desunte dal diritto comune su quelle della legislazione locale (in specie comunale), salvo si tratti di norme derogatorie o speciali 13, in età moderna è propenso a dare la prevalenza alla legislazione locale (spesso ormai principesca), considerando piuttosto residuale la disciplina del diritto comune 14. Il “sistema” del diritto comune europeo consegue dalla matrice culturale unitaria dei giuristi ‘dotti’ e fa naturalmente circolare ovunque le loro costruzioni scientifiche e le loro opere. Esso è usato senza alcun dubbio in Italia, in Spagna e nella Francia centro-meridionale nei cosiddetti “pays de droit écrit”, che lo seguono appieno, mentre nei “pays de droit coutumier” (Francia del centro-nord) è solo seguito nei concetti generali in quanto ‘ragionevoli’ (cioè in quanto “ratio scripta”). Inoltre in Francia esiste qualche sospetto della Corona che esso possa essere legato con l’Impero e quindi non sempre è accettato senza discussione: la Francia comunque è ‘dentro’ il sistema del diritto comune 15, per quanto un po’ critica di certe posizioni dot12

I concetti, come ad esempio quello di proprietà, detenzione, usufrutto, servitù, ecc. sono forniti dalla dottrina. La legislazione locale dell’epoca li presuppone e li usa dando su qualche aspetto la sua disciplina specifica, ma non procede mai a definizioni o concettualizzazioni: queste sono affidate alla scienza dell’epoca (che non è detto non vari un po’ nei secoli …). 13 A volte si sostiene pure dai giuristi, a difesa della disciplina del diritto comune, l’incompetenza locale ad emanare norme in campi in cui la Chiesa (matrimonio, eresia, usura, ecc.) ha la competenza esclusiva, oppure se la caratteristica degli istituti è inderogabile (testamento, legittima, alimenti, ecc.), oppure anche la necessità di una “interpretazione” restrittiva degli statuti comunali. 14 L’espansione della legislazione principesca finisce per imporsi in età moderna, sostenuta anche dalla “interpretazione” dei giuristi del principe e dei ‘suoi’ tribunali supremi. 15 Non per nulla proprio in Francia è nata, a Orléans, la “scuola” dei Commentatori, il cui insegnamento è poi proseguito nelle Università francesi (Montpellier, Tolosa, Valence, Orléans, Grenoble, ecc.).

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trinarie. La stessa espansione in Germania nei secc. XIV-XV delle Università, nate sempre con insegnamenti giuridici, vi attesta già la diffusione del diritto comune, per quanto contrastato dai diritti cetuali e locali. Esso è definitivamente rafforzato ed affermato, in tutta l’area tedesca, dalla fondazione nel 1495 del Supremo Tribunale Camerale dell’Impero, che dovrà giudicare “secondo il diritto comune dell’Impero”, composto di otto giudici con specifica preparazione giuridica nello “ius commune”, a cui doveva ispirarsi nella sua attività: d’ora in poi (ed addirittura per tutto il sec. XIX) la Germania resta pienamente aperta alla “recezione” di questo diritto ‘dotto’, nel quale ha un posto di rilievo la “interpretatio” del giurista.

4. La “interpretatio” La “interpretatio” non è solo l’interpretazione di oggi: è molto di più. Sul piano concettuale l’attuale interpretazione di una norma scritta la spiega, ma non la supera: dalla fine del sec. XVIII viviamo in un sistema formalmente legislativo e l’interprete dovrebbe attenersi alla legge, non andarvi oltre, anche se non sempre sembra che egli si fermi a questo punto 16. La “interpretatio” medievale non ha questo limite concettuale: parte sempre da un testo scritto (per lo più il “corpus iuris” giustinianeo), ma può superarne il dettato, per giungere anche ad individuare una regola giuridica nuova o diversa. Tramite i suoi metodi interpretativi (appresi come “scientia iuris” all’Università) il giurista può concludere con un principio innovativo, desunto dall’insieme delle regole esistenti e dal loro ‘spirito’ complessivo (“ratio”): in effetti la “iurisprudentia” (= scienza del diritto) crea una nuova regola, affiancata ormai alle precedenti, se condivisa dai vari “iurisperiti”. Le divergenze fra essi, non infrequenti né secondarie, tendono a comporsi entro l’unicità del sistema del diritto comune universale come singole opinioni dottrinarie diverse per tutto il medioevo. Solo con l’età moderna il sistema basato sulla “interpretatio” comincia ad avere qualche contestazione e qualche crepa, ma dura sino al sec. XVIII. La “interpretatio” è alla base del sistema. Grazie ad essa il giurista adegua 16

Si tornerà su ciò in seguito. Si può precisare però sin d’ora che sempre più spesso avviene che – nella complessità, mutevolezza e pluralità delle fonti legislative attuali – sia il giurista (e il giudice) con la sua “interpretazione” a indicare la regola giuridica da seguire … anche se si continua a dire che la legge è sacra, e che la legge è come tale da applicare con grande fedeltà perché espressione della volontà del popolo, espressa dai suoi rappresentanti …

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i testi giustinianei alla vita del tempo ed indica alla propria collettività le regole da seguire. Si vive in un diritto giurisprudenziale, non legislativo: non solo perché sono poche – o contingenti – le leggi medievali, ma soprattutto perché la società è retta con regole indicate dal giurisperito, non dal legislatore. Naturalmente, il loro adeguamento avviene nello stesso modo: il giurista ha quindi una posizione di grande rilievo nella vita del tempo, perché è colui che dice come ci si deve comportare, che precisa le “regole del gioco” (e spesso non solo le precisa, ma le indica … e costruisce pure con la sua “interpretatio”). Il singolo è un giocatore ‘dentro’ il ‘gioco’, e così pure il re, che nel medioevo può essere anche lui un giocatore, oppure l’arbitro (= giudice) del gioco, non colui che ne fissa le regole (come avviene poi con la legislazione d’età moderna …). La “interpretatio” non è solo esplicativa (= spiegazione di una norma), è anche innovativa (= creazione di una norma). Le regole sono “in corpore iuris”, dentro l’insieme dell’ordine giuridico voluto da Dio: la volontà umana non può alterarlo 17, al massimo la scienza può dedurne i princìpi ed i meccanismi tramite la sua “interpretatio”. La mentalità medievale si attiene passivamente a questo sistema, lo considera superiore alle forze umane, immanente alla realtà terrena. Alle nostre attuali concezioni ciò può sembrare strano o eccessivo: per chiarire meglio il concetto sembra perciò opportuno fare qualche esempio, fra i tanti.

Un primo esempio può riguardare un istituto di particolare rilievo nel medioevo, quale il feudo. Titolare del bene immobile concesso in beneficio in teoria non poteva essere che il signore concedente, titolare quindi del “dominium” sul bene; in effetti, però, nei secc. XII-XIII ormai era il concessionario a comportarsi come un proprietario e non se ne potevano disconoscere i poteri di fatto. Nei testi romani il “dominium” era però costruito come un diritto pieno ed esclusivo in capo all’unico proprietario. Sin dall’epoca dei glossatori si è allora fatto notare che un passo del giurista romano Paolo riguardo ad un tipo di fondi (pubblici) dati in concessione – gli “agri vectigales” – diceva che ai concessionari, anche se non “domini”, era però riconosciuta una tutela ‘reale’ (cioè verso tutti) con un’“actio” specifica (‘utile’), perché parificabili ai “domini”. Tramite la loro “interpretatio” i glossatori partirono da tale passo per estendere la tutela ‘reale’ al concessionario del feudo 18: costruirono così circa 17 Può precisare alcuni singoli aspetti concreti o contingenti, a cui provvede la legislazione comunale, o anche regia, ma oltre non va: Federico II, che in Sicilia vuole modificare “funditus” il Regnum – e quindi nella sostanza le ‘regole del gioco’ – si prende l’accusa di “anti-Cristo” … 18 In effetti si estese il caso degli “agri vectigales” (specifici di un certo periodo e di certe situazioni scomparse) ben oltre la sua portata, per usarlo per il diffusissimo fenomeno

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il feudo la figura del “dominio diviso” (di per sé in contrasto con l’unicità ed unitarietà del “dominium” contenuto nei testi romani) e riconobbero un’“actio directa” al concedente ed un’“actio utilis” al concessionario del feudo, giungendo quindi a spezzare il concetto stesso di proprietà del mondo romano. Raggiunsero la tutela del feudatario secondo le aspettative del proprio tempo e conclusero che era anch’egli “dominus” (non solo parificato al “dominus” come diceva Paolo per il concessionario dell’“ager vectigalis”), ma scalfirono il concetto unitario della proprietà romana, dato che nel mondo medievale si parlò di “dominium eminens”, oppure “directum” (del concedente) e di “dominium utile” (del feudatario, concessionario) sullo stesso bene. Al concedente, infatti, la giurisprudenza medievale riconosceva una “actio directa” a tutela di questo suo diritto, al concessionario una “actio utilis”. L’innovazione fu quindi importante e rilevante. Un secondo esempio può essere quello dell’obbligo del marito di prestare gli alimenti alla moglie. Nel diritto romano non era contemplato, perché la moglie aveva la dote. La dottrina medievale ne discuteva, sembrando iniqua l’esclusione. Jacques de Révigny superò gli ostacoli: c’era un passo romano che imponeva al marito di dare sepoltura adeguata alla moglie: ne dedusse – estensivamente – che se il marito doveva occuparsene da morta, a maggior ragione doveva farlo da viva. La “ratio legis” imponeva il mantenimento della moglie, prima di quello del funerale: quanto il diritto romano non prescriveva, veniva ad essere stabilito dalla “interpretatio” del giurista medievale. Un altro caso può essere quello del fedecommesso, istituto creato dalla giurisprudenza medievale sulla base di alcuni spunti romani. Il diritto romano ammetteva che esistesse un obbligo fiduciario attribuito in un singolo caso dal testatore, ma nel complesso oltre non andava. I giuristi medievali, sulla base di una mentalità molto favorevole a riconoscere che il patrimonio di un casato non si disperdesse col tempo in tante parti ma restasse unito e affidato dal testatore per tutte le generazioni successive ad un solo erede per volta, riconobbe e costruì come vero e proprio istituto il fedecommesso, sul quale si soffermarono pure specifici trattati. In tal modo si riconosceva che un testatore potesse imporre che il suo patrimonio fosse vincolato nei secoli a passare integro ed omogeneo di erede in erede (in genere di primogenito in primogenito), con esclusione per le generazioni successive di poterne disporre. La partenza stava nelle fonti romane, ma l’istituto e le sue conseguenze sono tutte medievali, e giungono a tramandare inalterati per secoli – di titolare in titolare – i beni vincolati dal fedecommesso, sino alla fine dell’ancien régime. Allo stesso obiettivo, di conservazione del patrimonio del casato, mirava la “dote congrua”, ignota al diritto romano, che conosceva bene la dote ma non prevedeva che tramite essa (costituita a favore della donna, perché col marito medievale del feudo. Inoltre, si fece dire a Paolo il contrario di quanto affermava, perché se Paolo diceva “sebbene non siano proprietari, tuttavia …”, si “interpretò” nel senso che “come se fossero proprietari, allora” e quindi il concessionario finì con l’essere equiparato al proprietario (o, almeno, ad un ‘certo’ proprietario, quello del feudo).

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sostenesse la nuova famiglia) la donna perdesse il diritto ad ereditare beni nella famiglia d’origine. Ciò invece venne costruito dai giuristi medievali: i notai predisposero schemi di atti di dote che imponevano con giuramento (… sacro e intangibile …) alla dotata di rinunciare a qualunque diritto ereditario (compresa la legittima), ed i dottrinari giustificarono queste clausole contro i passi romani che imponevano il rispetto della quota di legittima. Nel mondo medievale (e moderno) la “dote congrua” fu molto diffusa e consentì – con essa – di ‘liquidare’ la donna che usciva dalla famiglia d’origine. Pratici e notai trovarono le soluzioni per soddisfare i traffici mercantili ‘interpretando’ con inventiva i testi romani, piegandoli alle aspettative del tempo: ad esempio, costruirono come una compravendita l’uso diffuso fra i mercanti medievali dell’assicurazione. Nel diritto romano i contratti erano quelli tipici: l’assicurazione non c’era, ed in più nel medioevo essa era in sospetto di usura 19. Non avrebbe dovuto essere nemmeno concepibile. I pratici del diritto allora, per giustificarne l’uso mercantile, la considerarono come una specie – tutta particolare – di compravendita 20: i notai o i sensali – dietro eventuale consiglio di giuristi esperti del ramo – predisposero perciò degli schemi contrattuali, che permisero la diffusione dell’assicurazione nella pratica, sotto una veste che le consentisse di essere giuridicamente valida ed ammessa. In tal modo il giurista riuscì a soddisfare l’esigenza del mercante e della società contemporanea, ‘inventando’ un contratto nuovo nonostante la tipicità romana.

La “interpretatio” parte dal testo, ma non si limita certo alla sua spiegazione o esegesi: non è solo sua integrazione, è spesso modificazione, correzione, aggiunta rispetto al diritto romano. Grazie all’attività del giurista lo “ius commune” è costruzione nuova, apportatrice delle regole del diritto alla società del tempo. Poiché la società varia, è comprensibile che ne possano variare pure le regole: ciò avviene non con la legge (come ora), ma con l’“interpretatio”. Al giurista tocca quindi una funzione anche creativa: è un riconoscimento inconsapevole da parte dei contemporanei, convinti però che la ‘scienza’ accerti solo e non crei. Può essere eccessivo, ed anche un poco mistificante, ma è quanto accaduto, nella fiducia – forse un po’ ingenua, ma comunque convinta – da parte della mentalità medievale.

19 C’era il forte sospetto che si trattasse in molti casi di una forma di interesse, oppure che nascondesse il pagamento di un interesse: ciò all’epoca era considerato usura dalla Chiesa, che vietava il conseguimento di un interesse sui prestiti effettuati. 20 Senza entrare nel dettaglio, si trattava – a seconda delle costruzioni giuridiche – o di un impegno fittizio ad acquistare le merci assicurate poi persesi (con obbligo quindi di pagarne il valore) o dell’acquisto (in termini monetari) del rischio corso dall’assicurato.

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La “interpretatio” deve apparire ‘ragionevole’, ha le sue regole ed i suoi meccanismi interni allo “ius commune”, a cui deve attenersi, ma può spingersi alla creazione di regole nuove: il mondo circostante riconosce al giurista la guida nel campo delle regole. I giuristi devono essere nel complesso compatti in quest’opera di costruzione: le crepe del sistema iniziano quando dall’esterno si percepisce qualche astrusità, assurdità, irrazionalità delle loro costruzioni e ci si viene a chiedere se la fiducia loro affidata sia da concedere in modo così incondizionato. Ma ci vorranno dei secoli perché alle perplessità segua l’abbandono del sistema: prima, poco a poco, sarà la legge del principe – che all’epoca impersona, per convenzione, la volontà di tutti – ad affiancare le ‘sue’ regole a quelle dei giuristi, e ad imporre via via che siano le ‘sue’ a prevalere sulle loro. Ma su ciò si tornerà: saremo ormai in età moderna.

5. Il giurista: dalla teoria alla pratica Nell’alto medioevo la prevalenza della norma orale e consuetudinaria non ha consentito un vero e proprio ragionamento giuridico, possibile solo se la base di partenza è costituita da testi scritti: l’esperto del diritto era un semplice praticone, al massimo conoscitore degli antichi usi popolari o locali, il cui intervento ne consentiva il ricordo e l’utilizzazione analoga al passato. Con la riscoperta del diritto romano e con lo studio scientifico dei suoi testi grazie alla ‘scuola’ dei glossatori cambia del tutto lo scenario: da Irnerio in poi risorge la “scientia iuris”, che si materializza sia nel suo prodotto (le glosse e le opere dei ‘glossatori’) sia in chi lo costruisce e lo sa usare (il giurista). A limitazione della bellicosità medievale la riemersone di un complesso di regole scritte secondo cui superare i contrasti senza passare alla forza bruta affida infatti un ruolo di primo piano a chi le padroneggia, cioè al giurista. Si è parlato sino ad ora dei ‘maestri’, cioè di coloro che con le loro riflessioni hanno elaborato la dottrina scientifica del rinascimento giuridico bolognese e ne hanno divulgato le conoscenze tramite l’insegnamento universitario. Si tratta adesso di sintetizzare la posizione del ben più ampio numero di coloro che – sulla base di quanto appreso nelle scuole frequentate – lo hanno applicato nella pratica. Si è già delineata la loro formazione universitaria: è il caso di considerare rapidamente la loro attività nella vita quotidiana. Si parte dalla percezione del tempo che il giurista tramite le sue conoscenze e le sue capacità riesca ad illuminare chi si rivolge a lui, o per evitare (come consulente) una controversia o per risolverla (come giudice o arbitro) o per volgerla a vantaggio del cliente (come avvocato) sia vincendola sia limitandone le conseguenze negative. Si tratta di una vera e propria professione, diffusa per lo

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più nelle città: per esercitarla, secondo la prospettiva corporativa medievale, è necessario far parte del collegio dei giuristi cittadini. Come si è detto, per entrarvi si deve superare l’esame di ammissione, con cui si valutano le conoscenze del candidato. In seguito se ne devono rispettare le regole. Il giurista ‘collegiato’ può svolgere attività anche diverse, a seconda delle necessità del cliente e della situazione in cui opera. Può essere sentito per un parere sul comportamento da tenere, sul contratto da stipulare, sulle clausole da inserirvi, e così via. È l’esperto che deve dipanare la matassa, perché – ad esempio – fra disciplina romanistica, statuto locale, usi del tempo, regole tramandate, normativa canonica il cliente vuole essere bene indirizzato. Se, poi, su quel problema sorgerà un contrasto con altri, il cliente potrà cercare di risolverlo o in modo transattivo, o con l’arbitrato, o rivolgendosi al giudice (comunque non usando la via della forza, ma quella del diritto). Per la transazione è di nuovo pronto il giurista; altrimenti, con la sua assistenza si può pensare ad un arbitrato, soluzione spesso preferita: la giustizia comunale o signorile infatti non sempre era gradita, perché si era affermata con una certa fatica nello stesso Comune, ed inoltre era sovente affidata a non giuristi, dato che solo nelle grandi città questi erano chiamati direttamente a tale compito. Se poi si va dal giudice, il giurista collegiato assiste come avvocato il suo cliente. In armonia col riscoperto “corpus iuris” giustinianeo il processo si svolge per iscritto, secondo regole e procedimenti rielaborati negli “ordines iudiciorum” dai maestri del tempo, contro la precedente tradizione orale, per consentire lo sviluppo del ragionamento del giurista ‘dotto’ ed un giudizio conseguente. Il sistema processuale quale ancor oggi possediamo è quello che viene formandosi in questo periodo. Naturalmente ci sono stati cambiamenti anche consistenti, ma i princìpi costitutivi e lo schema generale risalgono alla costruzione medievale dello “ius commune”. Le soluzioni ‘politiche’, equitative, ‘a buon senso’, proprie della giustizia anteriore sono abbandonate perché approssimative: si conosce ormai il ‘nuovo’ e vero diritto, basato sui “libri legales”, sostenuto dall’argomentazione logica del giurista: ad esso ci si deve attenere e su esso si devono giudicare le controversie sul comportamento tenuto. È necessario che la causa sia risolta in base a princìpi di stretto diritto, con testi, metodi, argomentazioni propri del diritto, cioè del suo esperto, il giurista. Spesso però il giudice è un ‘politico’, o comunque non un giurista: per destreggiarsi fra le diverse tesi e risolvere la causa può allora chiedere lumi ad un giurista, possibilmente di fama, tramite il cosiddetto “consilium sapientis”. Il “sapiens” interpellato esprime in modo motivato la soluzione del caso, rispondendo tecnicamente anche alle osservazioni degli avvocati (cosa

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che solo un giurista era in grado di fare): il giudice emana quindi la sentenza secondo il “consilium sapientis” e si trincera dietro la ‘sapienza’ dell’esperto, con ciò riparandosi anche da eventuali contestazioni durante il sindacato del suo operato al termine della carica. In tal modo la giustizia medievale assicura una sentenza tecnica anche quando il giudice tecnico non è, ma in tal modo eleva a giudice il giurista “sapiens” interpellato: il processo del diritto comune non può che essere condotto e concluso secondo le regole specifiche e raffinate del diritto ‘dotto’. Con il tempo, peraltro, sempre più a giudicare è chiamato un giurista, e quindi l’uso del “consilium sapientis” si riduce. Il giurista, d’altronde, può trovarsi abbastanza spesso a svolgere in modo ambivalente la funzione di avvocato e di giudice, oltre la ricordata ipotesi di elaborazione di un “consilium sapientis” (in cui ad es. un avvocato esterno interpellato nel “consilium” dal giudice finisce per decidere la causa). Spesso, infatti, la carica di giudice è temporanea ed un giurista può ad esempio per un certo tempo alternare l’una e l’altra attività, e pure dare pareri a clienti esterni alla sua giurisdizione su problemi che comunque non vi rientrino. Inoltre, può svolgere attività specifiche di carattere amministrativo o politico per conto di Comuni o Signori, come, in particolare, gran parte delle trattative e dei trattati diplomatici. Nei Principati e nelle Monarchie i giuristi sono inoltre chiamati spesso a funzioni delicate, quando non entrano direttamente nella ridotta amministrazione dell’epoca. Nel periodo del rinascimento giuridico medievale non solo nasce la professione (‘liberale’) del giurista, ma essa trova pure uno spazio via via maggiore nella società, da un lato per la constatazione della sua utilità per uno sviluppo coerente e tranquillo della convivenza civile, dall’altro per un senso di sicurezza che può dare il suo sussidio di fronte alla complessità di certe situazioni. Il giurista non serve solo quando già si litiga, ma per prevenire il litigio. Inoltre, nel progressivo affermarsi dell’attività pubblica, è utile per le sue conoscenze e capacità di destreggiarsi nella normativa vigente: non per nulla sin dalla metà del sec. XIII i prìncipi più avveduti hanno visto nell’Università una fucina di futuri validi collaboratori (come Federico II per l’Università di Napoli). Altra professione ‘liberale’, avviata dal rinascimento giuridico medievale ai connotati che ha tuttora nel mondo (salvo che nelle zone del “common law”), è quella del notaio. Il notaio non scompare nemmeno nell’alto medioevo, poiché rappresenta colui che sa scrivere per una società analfabeta (anche se poco propensa all’uso dello scritto): porta con sé la garanzia di scrivere correttamente quanto gli viene chiesto (e che l’interlocutore non è in grado di controllare …) e quindi è uomo di “pubblica fede”. Tale requisito

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gli viene riconosciuto con la nomina da parte di un’autorità indiscussa come il re, l’imperatore, il pontefice (o loro specifici delegati, come i conti di Lomello, delegati istituzionalmente dall’Impero per la nomina di notai in Italia settentrionale). Il notaio redige soprattutto documenti con connotati giuridici: deve quindi saper non solo scrivere, non solo riportare esattamente quanto espresso dalle parti, ma anche esporlo in veste giuridica corretta e quindi sapersi destreggiare fra i diversi tipi di contratti per redigere il testo. Già prima del rinascimento giuridico bolognese è predisposta tutta una serie di “fac-simile” (= “formulae”) di atti notarili per facilitare il lavoro del notaio, che da essi prende gli schemi, le parti o le frasi che intende riportare nel documento che sta redigendo. Queste raccolte di “formule”, dette formulari, sono diffuse già prima della riscoperta dei “libri legales” giustinianei e sono ispirate in parte alla tradizione romana, in parte a quella germanica (ad esempio per la vendita di un terreno, per la donazione di un bene, per la costituzione di una dote, ecc.). Tali formulari dovevano essere molto diffusi presso i notai, perché ne facilitavano l’attività: alcuni si sono conservati, molti si sono persi. Il salto qualitativo offerto dalla scienza giuridica dei secc. XII-XIII si è fatto sentire notevolmente anche in questo campo. Al notaio non erano necessarie raffinatezze giuridiche particolari, ma le conoscenze essenziali, alla luce anche delle recenti acquisizioni nel campo del diritto. Secondo la tradizione, Irnerio stesso avrebbe redatto un nuovo formulario 21; nel sec. XIII parecchi formulari furono predisposti dai maestri di diritto ad uso dei notai, i quali erano ormai organizzati in appositi collegi diversi da quelli dei giuristi. Per essi, inoltre, furono organizzati corsi più semplici e leggeri (come impegno e conoscenze, tempo dedicato e spesa) nelle stesse scuole universitarie, la cui frequenza poteva essere affiancata alla pratica professionale. Le formule ed i formulari si fecero più raffinati e completi, più adeguati alle diverse esigenze contrattuali o testamentarie, in modo che il notaio aggiornato potesse offrire alla clientela un’ampia gamma di soluzioni adatte alle sue esigenze e soprattutto tali da non causare in seguito discussioni sull’esecuzione o le conseguenze del contratto. Tra formulari ispirati dalla dottrina dei glossatori e soluzioni predisposte da singoli professionisti il notariato italiano riuscì a rispondere con impostazioni e schemi nuovi alle esigenze della società – e soprattutto dei mercanti – del tempo ed a presentarsi come un elemento di garanzia per la sicurezza dei traffici, commerciali e non. Nel sec. XIII la fiducia si concretizzò nel ricono21 Non può però essere quello che alla fine del sec. XIX è stato pubblicato sotto il suo nome.

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scimento del valore assoluto di “pubblica fede” a quanto dal notaio era scritto ed attestato. È un salto qualitativo di indubbio rilievo: nei secoli precedenti il documento notarile poteva servire per ricordare il compimento di un atto giuridico, ma in una controversia doveva essere vagliato dal giudice con prove o testimonianze (se necessario, fornite dallo stesso notaio); col sec. XIII la dottrina giuridica – e quindi poi il giudice – accetta direttamente come vero quanto riportato dal notaio nella specifica forma dello “instrumentum” (purché, naturalmente, redatto secondo le modalità richieste dalle stesse regole dell’“arte” notarile), che può essere contestato davanti al giudice solo impugnandone la veridicità, generalmente piuttosto difficile da sostenere e dimostrare. È da tale momento – e dura sino ad ora – che lo “strumento” notarile (redatto secondo quanto prescrivono le regole dell’“arte” e la dottrina giuridica conferma) è “atto pubblico”, cioè documento la cui veridicità è presunta sino a prova contraria, per quanto redatto fra privati: lo attesta la “pubblica fede” riconosciuta dall’ordinamento al notaio, quale garante della serietà e correttezza degli atti giuridici che avvengono col suo intervento. Il notaio per la società civile è un ‘tecnico’ del diritto, al quale il cliente si rivolge fiduciariamente per essere aiutato a compiere una certa azione con conseguenze per il diritto: in primo luogo lo consiglia su quale atto giuridico scegliere (e con quali clausole), in secondo redige lo strumento nell’interesse del cliente ma pure nel rispetto della fiducia che la società ripone nel notaio quale corretto interprete del diritto esistente, e quindi attesta a tutti che l’atto si è svolto legittimamente. L’attività del notaio non serve solo per ricordare quanto avvenuto, ma anche per certificare ai terzi che è avvenuto bene. Ne consegue che dello strumento notarile ci si può fidare: la dottrina medievale riconosce quindi ad esso anche valore esecutivo (come, ad esempio, avviene per la pronuncia di un giudice). L’esecutorietà immediata fatica ad essere riconosciuta oltre le Alpi, ma è un ulteriore elemento che dimostra la fiducia nell’attività del notaio e la sua importanza. L’essenza della figura del notaio italiano, da un lato consulente del cliente e redattore nel suo interesse dello “instrumentum”, dall’altro garante della pubblica fede nell’interesse della società, dal sec. XIV si espande in Europa: attualmente è molto diffuso nel mondo (“notariato latino”), a tutela della legittimità delle contrattazioni oltre che per la ricerca delle soluzioni giuridiche più adatte alle esigenze dei committenti. L’attività del notaio serve perciò non solo per documentare quanto si compie, ma anche per attestarne la legittimità verso i terzi, e per evitare future contestazioni in proposito (e quindi l’eventuale ricorso ad avvocati e giudici), a garanzia del buon funzionamento dello stesso ordinamento nel suo complesso.

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All’inventiva, alla capacità di abbinare dottrina e pratica, alla perspicacia dei giuristi medievali – teorici, consulenti e notai – si deve la predisposizione di soluzioni nuove ed adatte alle esigenze della società del tempo, come i nuovi contratti mercantili (di società, d’assicurazione o di banca, ecc.) rimasti sino ad ora, oppure come gli strumenti ideati per conservare il patrimonio del casato (ad esempio dote congrua o fedecommesso) oggi superati, ma rimasti sino alla fine del Settecento. Il rinascimento giuridico medievale non apre solo la strada al sistema dello “ius commune” europeo: fa sbocciare pure le professioni giuridiche nelle loro diverse accezioni e vede avviarsi in esse quelle dell’avvocato, del giudice, del funzionario, del notaio, che restano nelle loro caratteristiche essenziali sino ai nostri giorni. Si tratta quindi di un periodo di indubbio rilievo per l’ambiente del diritto.

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XII GLI STATUTI COMUNALI

SOMMARIO: 1. Inquadramento. – 2. Gli statuti comunali nel sistema delle fonti di diritto comune. – 3. Forma e struttura degli statuti. – 4. Il contenuto degli statuti. – 5. Gli statuti rurali. – 6. Gli statuti associativi.

1. Inquadramento Nelle vicende delle città comunali tra XII e XIV secolo la storia delle fonti giuridiche locali è strettamente legata allo sviluppo politico-istituzionale. La formazione di ampi corpi statutari – nei quali viene a concentrarsi la normativa locale – si realizza infatti maggiormente dopo la vittoria riportata dalla Lega Lombarda sul partito imperiale nella battaglia di Legnano del 1176 e la successiva pace di Costanza del 1183, proprio nel periodo in cui il governo consolare viene superato dall’assetto podestarile, all’insegna di un contestuale accentramento istituzionale. A questo momento tendenzialmente risale la massima espansione della struttura urbanistica e sociale del comune, che richiede un’attenzione nuova nel governo dell’ordine pubblico; d’altro canto, il podestà, che di regola è forestiero, al momento di assunzione dell’incarico deve impegnarsi a rispettare e a far rispettare la normativa comunale, che è perciò opportuno sia ben identificata in un corpo unitario. Lo statuto si stabilizza poi intorno al Trecento: il passaggio del comune alla Signoria comporta inevitabilmente una prevalenza degli ordini e della normativa del signore, ma gli statuti precedenti non vengono scalzati, rimanendo a lungo per la comunità segno tangibile di una solida continuità identitaria. Lo stesso legame tra vicende istituzionali e fenomeno statutario spiega anche perché quest’ultimo abbia caratterizzato in modo prevalente l’Italia centro-settentrionale, dove i comuni – proprio per l’assenza prolungata dell’Imperatore – si erano guadagnati ampi spazi di libertà, rispetto ai comuni dell’area meridionale, meno sviluppati nell’autonomia a causa del con-

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trollo esercitato dal Regnum Siciliae, che sin dalla dominazione normanna tendeva a soffocare le consuetudini locali.

2. Gli statuti comunali nel sistema delle fonti di diritto comune Gli statuti medievali sono il frutto più originale della potestà normativa rivendicata dalle autonomie locali nei confronti dell’autorità imperiale. Il comune, più che lottare per una piena indipendenza politica dall’Impero – che peraltro cerca di impedirne lo sviluppo con una lotta almeno trentennale – aspira soprattutto ad un’ampia autonomia giuridica, cioè ad individuare liberamente le regole da seguire all’interno della comunità, senza peraltro arrivare a mettere in dubbio la sostanziale unità politica imperiale. I precetti così definiti – che si tratti della trascrizione di norme consuetudinarie più risalenti o delle determinazioni più recenti degli organi comunali – non risultano necessariamente e non sempre del tutto originali, se confrontate con le disposizioni di altre realtà della stessa zona geografica: essi però si pongono comunque come la risposta più efficace del singolo comune alle necessità locali e sono dunque fondamentali per comprendere tanto la compagine istituzionale interna quanto gli aspetti peculiari della vita comunitaria di ciascuna realtà cittadina. Rispetto al più ampio sistema delle fonti di diritto comune, il diritto specifico dei singoli comuni si pone come un diritto particolare (ius proprium), distinto e diverso innanzitutto dal diritto romano-giustinianeo, nel quale l’autorità imperiale cerca uno strumento di consolidamento grazie al prestigio della tradizione giuridica occidentale più antica. Questa viene superata a livello locale dalle scelte specifiche elaborate in modo duttile dalle diverse comunità prevalentemente sulla base delle proprie consuetudini, ma è pur sempre presupposta: per quanto i comuni possano dirsi autonomi, il loro diritto non può porsi in contrasto con il diritto romano-giustinianeo in quanto diritto di un’autorità universale (cioè dell’Impero) e, comunque, solo in essa possono essere trovate le definizioni dei diversi istituti giuridici e la loro disciplina fondamentale, rispetto alla quale il diritto comunale può spingersi a modificare soltanto specifici aspetti. Analogamente quest’ultimo non può sovvertire i principi fondamentali del diritto canonico, né pronunciarsi su temi di competenza esclusiva della Chiesa, come in materia di eresia, dove al più la norma statutaria si limita a richiamare il contenuto delle disposizioni papali. Il valore effettivo della fonte giuridica statutaria può essere compreso solo tenendo conto della natura ‘pluriordinamentale’ del sistema di diritto comu-

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ne: questo connotato impedisce di delineare con freddezza positivistica per l’età medievale una precisa gerarchia delle fonti, che certamente penalizzerebbe gli statuti, data la loro vocazione specialistica e localistica. Questi testi non hanno mai la pretesa di dettare una disciplina esaustiva, neanche lontanamente paragonabile con quella dei futuri codici ottocenteschi, rigorosi nell’escludere ulteriori fonti di produzione: essi, al contrario, costituiscono un ‘diritto particolare’ rispetto al diritto giustinianeo, riscoperto e studiato nelle università dopo l’anno Mille, e con esso sono in un equilibrio tanto armonico quanto difficile da comprendere oggi, alla luce della rigida statualità del diritto che contraddistingue l’attuale ordinamento, nel quale le fonti sono rigidamente ordinate e graduate. Dunque, più o meno esplicitamente, la normativa comunale presuppone sempre e necessariamente delle fonti suppletive, sia interne (per esempio, accordi, deliberazioni o consuetudini) sia all’esterno (diritto romano giustinianeo e diritto canonico), anche con una valenza interpretativa. Del resto, il contenuto giuridico delle norme statutarie è complessivamente modesto, non tanto per la trascuratezza o la superficialità del legislatore comunale, quanto per la concretezza delle esigenze e delle problematiche locali che giustamente attendevano una risposta puntuale (per lo più di carattere pubblicistico, dal diritto lato sensu delle istituzioni al diritto urbanistico, dal diritto rurale al diritto penale e processuale, con pochi e specifici cenni alla materia privatistica). Assai più complesso è invece stabilire di volta in volta il grado di integrazione della fonte statutaria (lex municipalis o ius proprium civitatis) rispetto al più ampio contesto normativo di riferimento, nel quale gli statuti dovettero necessariamente operare, senza rischiare di compromettere l’esistenza dell’istituzione di cui erano espressione. La mentalità del tempo non pretende dallo statuto la completezza di regolamentazione perché, nel caso di lacune, sa di poter attingere alla consuetudine locale (lasciata in parte fuori dal testo), alla legislazione signorile e in ultimo al diritto romano. Si tratta però di un rapporto spesso delicatissimo e spinoso: generalmente furono gli stessi statuti a fissare i criteri – non sempre uniformi da una realtà all’altra – di validità delle diverse fonti eventualmente concorrenti su una medesima questione, riconoscendo la preminenza alla legislazione signorile nei comuni soggetti; ove mancasse invece una regolamentazione formale, sarebbe spettato piuttosto al giurista pratico, attraverso argomentazioni raffinate e articolate e non senza qualche incognita, far emergere il peso specifico della norma locale, magari nel corso di una consulenza o in sede contenziosa. Nel complesso, comunque, era pacifico che, in mancanza di altre fonti concorrenti, la norma locale avrebbe dovuto prevalere. Certamente un tema delicato fu la legittimità dello stesso ius statuendi ri-

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vendicato dai comuni medievali, che tentavano di integrare o correggere quello che agli occhi dei giuristi del tempo era il diritto per eccellenza, cioè il diritto romano, il diritto dell’Impero; il dissidio era evidente, tanto più che secondo i passi del Corpus iuris civilis, l’unico a poter legiferare era il Principe. Inizialmente si cercò di giustificare il potere normativo dei comuni – già peraltro ampiamente esercitato da tempo, in via di fatto e in modo continuativo – sulla base di una permissio imperiale, cioè di una concessione unilaterale dell’Imperatore che, con la pace di Costanza del 1183, riconosceva formalmente ai comuni il diritto a darsi delle proprie regole (privilegium pacis Constantiae). In effetti, l’Imperatore non aveva fatto altro che prendere atto di quanto conquistato dai comuni sul campo. La mentalità medievale non poteva certo ancora concepire dei diritti innati e originali, come invece sarebbe stato affermato dal Giusnaturalismo secentesco; ci si limitava a giustificare la potestas statuendi quale acquisizione consuetudinaria, resa possibile dall’assenza prolungata dell’Imperatore in Italia e dalla contestuale intraprendenza dei comuni stessi. Col tempo però la debolezza intrinseca di questa impostazione, che faceva discendere la legittimità degli statuti direttamente dalla superiorità dell’autorità imperiale, venne superata da ragionamenti diversi, finalizzati a radicare più profondamente l’autonomia statutaria. Fondamentale fu dapprima l’apporto di Bartolo da Sassoferrato elaborato attorno al concetto di iurisdictio, la cui ampiezza e pienezza pareva giustificare sufficientemente la necessità di norme giuridiche interne all’area di estensione della comunità; nel giro di poco, peraltro, anche questa argomentazione dovette cedere il passo a quella più raffinata ed evoluta di Baldo degli Ubaldi, allievo di Bartolo, che sulla base del celebre passo del Digesto lex Omnes populi giunse a difendere in modo più solido la capacità normativa dei comuni (potestas condendi statuta) sulla base dello ius gentium (diritto delle genti), conferendo agli statuti un criterio di legittimazione originario e comunque scardinato dalle logiche di potere del tempo: per il fatto stesso di esistere, la comunità avrebbe dovuto inevitabilmente dotarsi di regole di convivenza, in quanto essenziali per la conservazione dell’ordine interno e per la gestione degli interessi comuni. Pur con qualche cambio di marcia in ordine alla legittimazione teorica, per parecchi secoli questi corpi normativi sono stati comunque di fatto indispensabili per la ‘tenuta’ della comunità cittadina, che in essi poteva trovare disposizioni del tutto originali ove il diritto romano non si fosse espresso o quantomeno parzialmente diverse o più dettagliate rispetto a quanto eventualmente da esso già disciplinato, sia pur tenuto conto della rinnovata interpretatio data dalla scienza giuridica medievale e moderna. Gli statuti sono

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poi stati nel tempo oggetto di una attività editoriale molto intensa: in particolare, la circolazione delle edizioni a stampa cinquecentesche ha favorito un’operazione di ‘fissazione’ – per così dire – di un testo ormai sedimentato da anni, rendendo la normativa meglio disponibile ai giuristi pratici (giudici o avvocati), spesso coinvolti dalle stesse istituzioni nella rivendicazione di complesse pretese o nella contestazione di quelle avversarie. La più facile reperibilità dei testi scritti ha per altro verso garantito al potere politico d’età moderna uno strumento di maggior controllo rispetto alle spinte autonomistiche e centrifughe provenienti dal basso. A fronte di una più sicura e semplificata circolazione degli statuti, l’efficacia normativa si è infatti gradualmente smorzata a partire dall’età moderna quando la legislazione principesca ha assunto via via un peso sempre maggiore, anche per la regolamentazione di alcuni aspetti specifici tradizionalmente disciplinati dalla normativa locale. Progressivamente si è iniziato a considerare quegli stessi statuti – a lungo intesi come il vessillo più prestigioso delle autonomie locali – piuttosto come un fattore di eccessivo particolarismo giuridico e un ostacolo ingombrante alla razionalizzazione del sistema di diritto comune, specialmente per la trascuratezza delle disposizioni statutarie, eccessivamente legate alla dimensione fattuale. Le critiche illuministiche, severamente innescate contro l’oscurità del diritto dei secoli precedenti, presero dunque a bersaglio proprio gli statuti, facendo prevalere l’idea che i limiti della tradizionale disciplina casistica e particolare potessero essere superati solo grazie alla individuazione di una normativa elaborata per regole generali, come del resto invocato ormai da tempo. Paradossalmente, proprio quando con l’avvento dei codici la validità normativa degli statuti è stata radicalmente minata, si è presto avviata – in una prospettiva però molto diversa, essenzialmente ‘dotta’ ed erudita – un’attività di recupero e di riscoperta dei testi medievali, nel loro valore meramente antiquario (e non più autenticamente normativo), nell’ambito di una più generale valorizzazione, di gusto tipicamente romantico, di usi e costumi antichi. La tendenza a riscoprire le radici storiche delle diverse comunità proseguì per tutto l’Ottocento, fino al periodo risorgimentale. Ancora alle soglie dell’Unificazione nazionale, le normative locali si presentavano quale espressione di un patrimonio culturale molto eterogeneo che la nuova compagine statale voleva recuperare e valorizzazione, ma anche armonizzare e ricomporre ad unità. Anche oggi, sulla base dell’art. 6 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), ciascun comune – come già, del resto, aveva previsto la legge 142 del 1990 – è dotato di

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un proprio statuto: esso è però inserito in un sistema gerarchico di norme che garantiscono certamente le autonomie locali, ma pure il rispetto della Costituzione repubblicana, secondo una rigida ripartizione di competenze normative. Lo statuto medievale, invece, riuscì ad avere una forza – prima ancora che una forma – radicalmente diversa perché diversa era la realtà istituzionale che vi si identificava e la complessa trama di rapporti in cui si inseriva.

3. Forma e struttura degli statuti comunali Gli statuti costituiscono l’espressione più rappresentativa dello “ius proprium” locale: di fronte all’insufficienza della sola norma consuetudinaria, le istituzioni comunali o comunitarie hanno cercato nelle disposizioni statutarie un elemento normativo idoneo a risolvere le questioni che la quotidianità di una rinnovata vita socio-economica faceva rapidamente emergere. Essi, da un lato, segnano un vigoroso ritorno alla norma scritta – ritenuta più adeguata a garantire maggior certezza, nel mutato e più complesso contesto delle relazioni comunali, rispetto alle consuetudini orali, prevalenti nell’alto medioevo; dall’altro, marcano un significativo recupero del criterio di applicazione della norma su base territoriale, dopo secoli di prevalente vigenza del principio di personalità del diritto. Lo statuto ha un ruolo simbolico altissimo: è senz’altro il riflesso di un’epoca, ma è tanto più lo specchio dell’identità normativa comunale. Esso costituisce la più tradizionale ed emblematica manifestazione dell’autonomia di una specifica comunità, tanto cercata dal basso quanto costantemente guardata con diffidenza – quando non apertamente ostacolata – prima di tutto da parte dell’Imperatore, e poi in varia misura dai prìncipi moderni che aspirano ad esercitare un potere politico sovrano e perciò sempre più capillare sul territorio. Nello statuto confluivano innanzitutto i brevia, ovvero i giuramenti prestati dai magistrati comunali nel momento in cui accettavano l’incarico: con i brevia venivano specificate, secondo quanto stabilito dall’organo assembleare, la durata della carica, le diverse mansioni collegate (poteri giudiziari, diplomatici, amministrativi, militari) prima dei consoli e poi del podestà, individuandone pure le modalità di esercizio. Si trattava di un impegno formale e solenne assunto innanzi alla comunità, avente ad oggetto il rispetto delle norme comunali. Secondo la struttura tipica del documento notarile giurato, i brevia erano inizialmente redatti in prima persona, a sottolineare l’impegno personale assunto dal singolo magistrato; successivamente, viene preferita una forma più oggettiva, in terza persona. Anche la comunità era chiamata a

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impegnarsi nel rispetto delle norme fondamentali del comune, attraverso dei corrispondenti brevia. Una seconda componente è rappresentata dalle risoluzioni stabilite dagli organi comunali nella forma legislativa; in una fase iniziale il termine statutum, che poi nel tempo andrà invece ad indicare la raccolta nel suo complesso, indica soltanto la deliberazione assunta su un oggetto specifico. Si tratta di norme giuridiche scritte del tutto occasionali, che si susseguono in forma alluvionale e progressivamente introdotte sulla base delle scelte politiche operate dalla comunità cittadina attraverso le proprie magistrature e le proprie assemblee. Più che di un provvedimento innovativo, può talvolta trattarsi della semplice trascrizione di qualche specifica consuetudine locale da valorizzare in quanto distinta dagli usi generali seguiti nella più ampia area geografica in cui era collocato il singolo Comune. Certamente la parte più ampia e originale degli statuti risiede proprio nelle consuetudini locali che si voleva raccogliere nella loro complessità, in modo più stabile e duraturo, garantendole nella loro forma autentica e originaria, meglio di quanto potesse consentire la tradizionale trasmissione orale: del resto, in nessun altro periodo della storia giuridica la fonte consuetudinaria ha avuto uno sviluppo ed una diffusione paragonabili a quelli avuti nel Medioevo. Al di là della natura delle singole disposizioni, la riunione in un corpo unitario di tutto questo materiale – a cui arrivano molti comuni dell’Italia centro settentrionale fin dalla prima metà del XIII secolo – è dettata dall’esigenza di assicurarne l’applicazione da parte degli stessi giudici: il testo scritto, elaborato generalmente da apposite figure (statutarii) – privi forse di una preparazione tecnico-giuridica, ma senz’altro attenti alle esigenze della comunità e comunque spesso affiancati da un notaio – era poi fatto approvare dall’assemblea, così da divenire legge generale della città. Nel corso del Duecento – anche facendo ricorso a giuristi, non necessariamente della stessa città – quasi ogni comune riuscì a raccogliere in una sede unitaria, il corpus statutorum o statutum, i Brevia dei consoli, le consuetudini in forma scritta e le leggi approvate dal comune. Queste fonti costituivano il nucleo più robusto del diritto della città: la concentrazione in un testo unitario della normativa locale, oltre a favorirne la conoscibilità, attribuiva alla stessa una maggior consistenza e stabilità, al di là delle contingenze proprie dei singoli provvedimenti assunti fino ad allora. Tale era il valore identificativo della compilazione unitaria che proprio su di essa giuravano – di osservare e di far osservare – gli stessi organi comunali al momento dell’assunzione della carica. Gli statuti – fino alla fine del XIII secolo in lingua latina, poi volgare –

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sono inizialmente redatti nella forma materiale di voluminosi codici manoscritti, spesso per scrupolo conservativo in più copie, in molti casi arricchiti da eleganti decorazioni cromatiche (fregi, capilettere e miniature). Non raramente la trascrizione manuale dei testi favoriva la trasmissione di errori che nel tempo potevano alterare significativamente il contenuto del documento originale. Lo statuto era tanto prezioso per la comunità da essere materialmente custodito nel palazzo comunale con particolari accorgimenti (‘codice della catena’) affinché potesse essere consultato in sicurezza sia da chi doveva amministrare la giustizia, sia da chiunque vi avesse interesse all’interno della comunità, escludendo peraltro il rischio di possibili trafugamenti o di alterazioni materiali del manoscritto. Dalla metà del XV secolo le nuove tecniche tipografiche a caratteri mobili favorirono una maggiore e più rigorosa diffusione del documento autentico, agevolando anche le operazioni di continuo aggiornamento grazie al più rapido susseguirsi delle diverse edizioni; per contro, la stampa non garantiva di per sé una maggiore autorità giuridica alle disposizioni normative, ma con essa il comune intendeva ribadire l’attaccamento geloso alla propria autonomia, di fatto ormai sempre più condizionata dal potere signorile, più o meno incombente, ma dal quale comunque dipendeva il riconoscimento della stessa vigenza dello statuto. L’esigenza di tener conto dei cambiamenti istituzionali e dei mutati equilibri politici interni tra le fazioni richiedeva a più riprese degli adeguamenti della normativa statutaria (addiciones): questi interventi correttivi o integrativi erano elaborati, specialmente nei comuni di un certo rilievo, da apposite figure (statutari o riformatori) che, per la particolare esperienza, garantivano la riuscita dell’aggiornamento – nel rispetto della volontà degli organi comunali e fin del signore, ove si trattasse di comuni soggetti – superando le antinomie o le ripetizioni che potevano invece verificarsi con aggiunte inserite in modo più caotico, realizzando una stratificazione normativa di non semplice ricostruzione. La chiarezza legislativa era perseguita quale garanzia sia di stabilità interna che nei rapporti con l’esterno: innanzitutto verso gli altri comuni, e poi verso il vescovo, i vari feudatari e signori locali, fino all’Imperatore.

4. Il contenuto degli statuti Un ruolo importante ha giocato il fenomeno dell’imitazione, che caratterizza la vita delle istituzioni non meno e non diversamente da quanto accade per alcune mode o tendenze che segnano nel tempo le abitudini di vita o il gusto: molte comunità hanno iniziato a realizzare dei complessi statutari

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perché così avevano visto fare dalle comunità vicine, intuendo come questa novità potesse positivamente incidere nell’organizzazione interna e nell’amministrazione locale. Il fenomeno statutario si espande dunque a macchia d’olio, in modo spontaneo, perché i comuni tendono a realizzare – per libera adesione della stessa comunità – ciò che in altre realtà comunitarie è già stato concretizzato, dotandosi di uno statuto: ed è logico che in questa dinamica si tenda a importare anche le soluzioni concrete messe a punto altrove, ispirandosi cioè non solo nella scelta di fondo di darsi uno statuto, ma anche nella fissazione di analoghi contenuti. Non raramente era il solo prestigio di qualche particolare realtà cittadina a giustificare l’inserimento di alcune disposizioni che, secondo lo ius proprium locale, non sarebbero state necessarie perché estranee al contesto. Anche grazie al fenomeno imitativo, si possono non troppo difficilmente individuare alcuni tratti comuni a tutti i complessi statutari coevi. Le norme statutarie racchiudevano i principi basilari della normativa interna, ma almeno in un primo tempo si caratterizzavano per scarsa organicità e una impostazione nel complesso piuttosto rozza: in genere, si trattava di norme inserite alluvionalmente, cioè aggiunte una dopo l’altra secondo un criterio meramente cronologico, senza essere coordinate fra loro. Col tempo le disposizioni furono ordinate in modo più sistematico, venendo suddivise in diversi libri, ciascuno dotato di rubriche ben dettagliate. Questo vale specialmente nei comuni di maggiori dimensioni, mentre la struttura degli statuti delle comunità più modeste si mantiene indistinta. Seppure in modo non tecnico, gli statuti possono essere definiti come la norma fondamentale dei comuni, per così dire ‘costituzionale”, in cui si mescolano disposizioni di varia natura. Tradizionalmente si iniziava con quelle in materia pubblicistica, dirette a disciplinare l’organizzazione interna del comune e i meccanismi di funzionamento del governo, la composizione e la durata delle magistrature cittadine, le rispettive funzioni, con particolare attenzione agli oneri e alle regole di condotta imposte al podestà e alla sua familia. Fatto salvo quanto definito eventualmente dal signore locale, un secondo blocco era destinato a disciplinare l’amministrazione della giustizia comunale, con indicazioni importanti sulle competenze in materia di giurisdizione civile e penale e sui gradi di giudizio. In ordine al processo civile – oltre a disposizioni specifiche, per esempio, sulla citazione, sull’esecuzione delle sentenze e sulle garanzie delle obbligazioni – era piuttosto ricorrente la previsione di una procedura sommaria e semplificata, ovvero di un rito abbreviato più spedito rispetto alle formalità del processo romano-canonico, così come di forme di giustizia arbitrale in grado di garantire in determinate materie una tutela più equa oltre che una procedura rapida e snella. In que-

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sta stessa sede potevano trovare collocazione anche alcuni minimi accenni a specifici istituti privatistici (soprattutto successioni, rapporti patrimoniali fra i coniugi, dote, e, più in generale, al diritto di famiglia o all’esazione dei crediti), con disposizioni di matrice prevalentemente consuetudinaria. Segue poi di norma la parte dedicata al diritto penale, sia sostanziale che processuale, con disposizioni finalizzate al mantenimento dell’ordine pubblico secondo procedure predefinite e gestite dagli organi comunali, evitando forme di violenza privata. La configurazione – per nulla esaustiva – di specifiche ipotesi di reato, delle modalità di repressione e la severità dell’apparato sanzionatorio (spesso tratto dalla consuetudine e comunque ancora includente la condanna al bando e la pena capitale per i fatti più gravi) sottolineano indirettamente il rilievo riconosciuto a determinati beni, anche con riferimento alle attività locali più significative ed essenziali per la stessa identità della comunità o per la sua sussistenza economica. Generalmente sono poi presenti ulteriori disposizioni, di più difficile classificazione secondo le nette partizioni dei meglio definiti attuali settori giuridici disciplinari, ma che offrono spesso uno spaccato interessantissimo quanto variegato delle peculiarità specifiche di ogni realtà comunale. Sia pur con accenti in parte diversi, si disciplina per esempio il risarcimento imposto per i danni arrecati ai proprietari o ai conduttori di fondi agricoli, per la cui quantificazione il comune avrebbe contato su funzionari (camparii); si impongono precetti di tipo urbanistico o lato sensu amministrativo, prescrizioni in ordine alla gestione dei beni comuni, alla tutela dei campi e alla conservazione dei prodotti agricoli (che in età moderna costituiranno oggetto dei cosiddetti “bandi campestri”), al controllo delle merci e alla salubrità ambientale, alla pulizia delle strade e alla gestione di attività rischiose (come la macellazione o la tintura), allo svolgimento di fiere e mercati; norme di carattere fiscale relative alle entrate e alle uscite comunali, al pagamento di imposte e gabelle e alla fissazione dei prezzi di alcuni prodotti; si definiscono figure particolari di funzionari (oltre ai camparii, anche economi, ragionieri, verificatori di pesi e misure, messi), con speciale sensibilità per l’attività di documentazione notarile, molto delicata sia a servizio di privati che di organi del comune. Nello statuto rimane infine traccia delle diverse pattuizioni o accordi stipulati dal comune con singoli soggetti o con altre comunità, dai quali si può desumere il grado di autonomia e di rilievo politico raggiunto dallo stesso nel territorio circostante. Al di là dei singoli casi, nel complesso la normativa statutaria raramente si dilunga a ripetere quanto è chiaramente disciplinato dal diritto romano giustinianeo e comprensibilmente già noto ai giuristi; ci si preoccupa, invece, di esplicitare eventuali peculiarità locali della disciplina interna rispetto all’isti-

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tuto generale, nella misura in cui il diritto romano abbia dato prova di non essere più completamente rispondente alle nuove esigenze del tempo o nel caso, per esempio, si ponga una urgenza particolare di salvaguardare taluni beni comuni, rassicurare le relazioni comunitarie o mantenere viva qualche consuetudine più risalente, radicata talvolta nella tradizione altomedievale. Si tratta in ogni caso di una fonte normativa molto eterogenea, non facilmente riconducibile agli schemi nitidi dell’ordinamento attuale; l’impianto degli statuti rimane caratterizzato da un’estenuante casistica, nel tentativo di prevedere per quanto possibile il maggior ventaglio di situazioni da regolamentare, o le ipotesi di intervento delle autorità comunali, senza però quella pretesa di esaustività che sarebbe stata di certi complessi normativi ottocenteschi (i codici) e senza contemplare principi di carattere più generale, rinvenibili pur sempre in via sussidiaria nel diritto romano giustinianeo, sebbene soltanto da chi poteva averne gli strumenti tecnici, ovvero dai giuristi. Alcune disposizioni sembrano dotate di una forza superiore, in quanto poste a tutela di beni fondamentali per il vivere comune, e pertanto riescono a durare nel tempo, reggendo quasi inalterate rispetto ai cambiamenti istituzionali, mantenendosi a lungo nelle diverse redazioni statutarie che si susseguono; altre sono invece maggiormente dettate da necessità transitorie, e dunque destinate ad essere più facilmente superate nel tempo, o quantomeno risultano intimamente legate alla situazione politica del momento, e pertanto esposte alla stessa mutevolezza. Lo stesso Dante Alighieri denunciò sarcasticamente per il comune fiorentino come i provvedimenti approvati “d’ottobre” non durassero neppure fino “a mezzo novembre”. Tendenzialmente di fronte alle difficoltà interpretative che possono sorgere dall’applicazione dello statuto nel tempo, viene preferita l’interpretazione autentica, affidata o direttamente all’organo che ha deliberato la disposizione o comunque ad una magistratura specifica del comune, escludendo comunque tendenzialmente la competenza dei dottori.

5. Gli statuti rurali Nella città medievale c’è anche una componente agricola che lo statuto ovviamente contempla; in alcuni casi, le norme cittadine si spingono a disciplinare anche la vita delle zone agricole esterne alle mura e, insieme, anche l’organizzazione delle comunità rurali circostanti che dunque ancor più dipendono dalla città egemone. Ove però manchi questa forza espansiva del comune dominante, agli statuti cittadini si affiancano allora gli statuti rurali. Si tratta di testi scritti corposi, abbastanza organici, strutturati internamente

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in libri, molto diversificati per contenuto in quanto rispecchiano le peculiarità ed esigenze proprie del territorio, seppure con una certa omogeneità all’interno di una stessa area geografica. Tendenzialmente sono di epoca successiva al Quattrocento e vengono concessi dai signori locali o per benevola scelta o per soddisfare alcune rivendicazioni della popolazione, scongiurando così più preoccupanti ribellioni locali. Talvolta i signori possono spingersi a concedere uno statuto rurale anche a seguito di negoziazioni o patteggiamenti con la stessa comunità che riesce, per così dire, in modo diplomatico a ottenere alcuni privilegi. Talvolta col termine statuto rurale ci si riferisce a mere carte di franchigia, raccolte di consuetudini, usi civici o principi localmente condivisi in materia agricola o pastorale. Prima del XV secolo la salda tenuta del governo signorile e la forza dello stesso comune cittadino dominante impediscono uno sviluppo adeguato degli statuti rurali. Il fenomeno dell’imitazione condiziona lo sviluppo anche del comune rurale, che frequentemente si ispira ad altre comunità simili o anche allo statuto della città dominante, inserendo rubriche non sempre strettamente necessarie, ma che riescono a dare prestigio al testo complessivo: peraltro, gli statuti rurali – più ancora di quelli cittadini – risentono evidentemente, almeno in alcune parti, delle caratteristiche del territorio dove sono ubicati, dovendo dare un rilievo diverso a certe attività o condotte umane in modo differente a seconda che si tratti per esempio di pianura, collina o montagna, con una distribuzione non omogenea dei beni comuni (campi, boschi, acque) e con una difforme predisposizione alle attività economiche (agricoltura, allevamento, commercio, artigianato).

6. Gli statuti associativi All’interno delle comunità cittadine sono poi ammessi gli statuti delle diverse associazioni che pullulano tra mercanti, artigiani (conciatori, calzolai, tessitori, macellai…), medici, notai, avvocati e tutti coloro che, esercitando la stessa arte – ‘meccanica’ o ‘intellettuale’ che sia –, abbiano interesse a regolare la propria attività sia nei rapporti tra gli iscritti o gli aspiranti tali sia verso l’esterno (con le istituzioni comunali, con le altre arti, con la clientela…). Si tratta di statuti ispirati – quanto a forma e struttura – sul modello dello statuto cittadino, ma diretti a disciplinare ogni aspetto della specifica attività svolta. Durante il comune del popolo, con l’acquisizione da parte delle corporazioni di un peso politico spiccato rispetto alla mera rappresentanza degli interessi professionali ed economici del proprio gruppo, anche gli statuti iniziano a contemplare al loro interno norme di maggior respiro (dazi e mono-

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poli, zecca, lavori pubblici), ridimensionate nuovamente con l’avvento della signoria. Sul modello dello statuto cittadino sono poi realizzati i corpi normativi delle ulteriori realtà associative a carattere religioso, caritatevole e assistenziale, diffusissime nella società medievali: anche per questi – pur con uno spirito complessivo diverso, dettato dalle finalità particolari dell’ente – la normativa viene strutturata in modo sostanzialmente analogo, contribuendo ad arricchire significativamente il panorama variegato delle fonti di ius proprium, che a lungo vivacizzano il più ampio sistema di diritto comune.

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SOMMARIO: 1. Dalla “interpretatio” del giurista medievale allo studio umanistico delle fonti. – 2. Umanesimo giuridico. – 3. Tradizione e novità nella dottrina giuridica. – 4. Dall’umanesimo alla questione della libertà religiosa.

1. Dalla “interpretatio” del giurista medievale allo studio umanistico delle fonti La rinascita giuridica partita dalla scuola di Bologna è stata tutta medievale: fiduciosa nei testi, rispettosa dell’esistente, entro le fonti e il sistema, non desiderosa di trovare qualcosa ‘fuori’ di esso. La sua “interpretatio”, anche quando è innovativa, si sviluppa nel presupposto di essere una componente del sistema, non di debordare. Opposta è invece la prospettiva con il “rinascimento” umanistico, critico verso i testi, alla ricerca di soluzioni nuove ‘oltre’ questi ed oltre l’esistente, fiducioso nell’intelligenza, nell’intraprendenza e nella capacità dell’uomo, che riesce a piegare la natura con la sua volontà. La scienza giuridica medievale “interpreta” le fonti giuridiche fornite dalla raccolta di Giustiniano senza discuterne la genuinità; quella umanistica discute proprio questa e la sottopone innanzitutto al vaglio corrosivo della sua valutazione testuale, storica ed ideologica. Alla medievale accettazione acritica dei testi subentra la puntuale critica umanistica, che aspira a ricostruire il grande passato della classicità romana e greca (e dei giuristi di tale epoca), non apprezza molto il periodo tardoantico ed il medioevo, accusa Triboniano – e di conseguenza l’imperatore Giustiniano – di falsificazioni (per le cosiddette “interpolazioni”). La raccolta giustinianea, osannata nel medioevo come fonte quasi ‘sacra’, viene contestata dagli umanisti perché ha contraffatto i passi del diritto romano classico. Il “rinascimento” artistico e culturale, avviato nell’Italia quattrocentesca, a fine secolo si affaccia oltre le Alpi ed incrina sicurezze faticosamente acquisite anche nel campo del diritto. Poco

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può essere accettato senza spirito critico dall’“uomo rinato” alla ragione ed al libero arbitrio nel Quattrocento: anche le regole giuridiche devono essere oggetto di discussione, e le stesse opinioni di un Bartolo o di un Baldo necessitano di essere vagliate nelle loro fonti e nei loro contenuti. Il vento dell’umanesimo tocca anche il diritto. È però tutta la società a venirne investita: è il mondo che cambia, sotto la spinta dell’attivismo rinascimentale e della sua fiducia nelle capacità dell’uomo. L’individuo medievale (in preghiera ed in attesa della luce e dell’aiuto sovrannaturali) è diverso da quello rinascimentale (in attività con le sue forze per imporsi da solo sulla natura circostante): “suae quisque fortunae faber”. L’uomo ‘fa’ il mondo, non ne è sopraffatto: cerca di dominarlo fiducioso nelle sue capacità intellettuali e fisiche. E, come ‘fa’ il mondo, può ‘fare’ anche il diritto: con la sua volontà – quale legislatore – può plasmarlo direttamente senza dover passare attraverso i passi giustinianei e la loro “interpretatio” da parte della dottrina. L’uomo non è solo ‘entro’ il gioco (= la convivenza sociale) svolto secondo regole esterne ad esso (o eterne o volute da Dio): può dettare lui stesso come legislatore le regole del gioco secondo cui si muove. In tal caso il ‘diritto’ è tutto ‘umano’ e non ha più nulla di immanente. Ciò non avviene di colpo ed ha necessità di una maturazione anche lunga, ma con il rinascimento dei secc. XV-XVI si lascia la prospettiva medievale e si entra in quella moderna e contemporanea anche nel campo del diritto. Per secoli il legislatore (all’inizio impersonato dal principe) accetta il sistema giuridico esistente ed interviene solo frammentariamente a ‘dettare il diritto’, ma la strada è ormai questa e si va via via allargando. Il Quattrocento è – in generale – il secolo della riscoperta dell’uomo, ma anche – in particolare – quello di tre grandi scoperte (frutto della stessa fiducia dell’uomo in sé): dell’utilizzazione della polvere da sparo, della stampa, dell’America. Il mondo non è più come prima, anche se le conseguenze incidono solo col tempo. L’uso della polvere da sparo ha modificato profondamente il modo di fare la guerra ed ha messo in crisi la figura e la forza del cavaliere medievale; la stampa ha portato ad una diffusione libraria e culturale prima impossibile (con ricadute anche nel campo del diritto); l’America ha spostato il baricentro politico ed economico (dal Mediterraneo all’Atlantico, dall’Italia alle nuove potenze marittime). A secoli di distanza non si può ignorare l’importanza di queste svolte. L’Italia, protagonista politica e culturale nel medioevo, è stata la culla dell’umanesimo. Nel Cinquecento ne esporta però le acquisizioni oltre le Alpi e diventa in definitiva comprimaria, perché le conseguenze giuridiche principali sono transalpine e perché inoltre è qui che attecchiscono la contestazione di Lutero e il successo della “riforma”, che pesano sul Papato romano e che portano la discussione in tutta Europa.

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2. Umanesimo giuridico L’umanesimo giuridico nasce in Italia e si pone subito il problema della genuinità dei testi utilizzati e della loro connessione con le fonti romane. Si è visto che sin dal 1440 Lorenzo Valla (1400-1457) ha dimostrato la falsità – medievale – della “donazione di Costantino”. In quest’ottica c’è il vasto problema del confronto della versione bolognese e medievale del Digesto (“litera bononiensis”) con il manoscritto dei tempi bizantini conservato prima a Pisa e poi a Firenze (“litera pisana”) 1: la collazione ha già interessato un letterato come il Poliziano (1454-1494) ed attira altri studiosi come il Bolognini (1447-1508). Tali analisi portano alla constatazione di numerose differenze, che fanno escludere un archetipo comune e minano quindi alla radice la cieca fiducia nei passi tramandati dalla tradizione manoscritta bolognese e medievale (“Vulgata”). La critica del testo si affina, con l’obiettivo di ricostruire il pensiero della grande giurisprudenza romana del periodo ‘classico’ dalle incrostazioni ed interpolazioni successive o bizantine: il culto dei classici è uno dei punti fermi degli umanisti di ogni terra e tendenza. Essi quindi, nello stesso momento in cui ricostruiscono le ‘vestigia’ classiche, dimostrano la storicità delle fonti in uso e ne inficiano pertanto il significato ‘eterno’ e ‘naturale’ preteso per esse dalla giurisprudenza medievale. Di conseguenza, secondo i giuristi umanisti le fonti del “corpus iuris civilis” non possono essere usate in modo acritico, ma devono essere studiate nella loro genesi e valutate nella loro sostanza dalla “interpretatio”, che per tali giuristi viene quindi a comprendere anche aspetti di critica testuale e storica, oltre a quelli di razionalità ed integrazione nel sistema del diritto comune. L’umanesimo giuridico critica le interpolazioni giustinianee, la composizione della raccolta e l’ordine nella disposizione dei diversi frammenti, ma anche l’incoerenza di questi nei diversi argomenti. In tal modo viene a minare parte delle posizioni acquisite dalla dottrina dei Commentatori. Dopo la polemica critica (‘pars destruens’) esso non riesce però ad offrire una completa nuova soluzione ricostruttiva (‘pars construens’): le singole critiche su specifici punti o passi non sono sfociate nel complesso in una nuova impostazione generale chiara ed innovativa. La critica all’opera giustinianea e 1

Si tratta di un manoscritto di poco successivo alla redazione giustinianea, nei secc. XI-XII esistente ad Amalfi, di dove i Pisani lo portarono nella propria città; conquistata Pisa dai Fiorentini, questi lo trasferirono a Firenze, dove ancor oggi si trova attentamente custodito nella biblioteca Laurenziana. Sin dal medioevo, quindi, il manoscritto aveva una fama particolare, se fu considerato degno di acquisizione, quasi come trofeo di guerra.

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l’aspirazione – storica – a ricostruire il diritto romano classico non hanno portato a soluzioni nuove per il diritto e la vita del Cinquecento, ma si sono per lo più fermate agli aspetti eruditi senza incidere in quelli operativi: significativamente, questo filone culturale è anche detto quello dei “giuristi culti” (cioè dotti). Si tratta di un metodo di analisi del “corpus iuris” che, avviato dall’umanesimo – anche letterario – in Italia (Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano), ha avuto il maggior esponente nel giurista lombardo Andrea Alciato (1492-1550), che con equilibrio ha saputo però non staccarsi del tutto dalla tradizione dottrinaria anteriore. L’Alciato si è poi spostato dall’Università di Pavia, in Francia: a Bourges ha avuto come allievo colui che sarà il più importante studioso di questa “scuola”, cioè Jacques Cujas (Cuiacio/Cuiacius, 1522-1590). Anche in altre zone europee questo metodo ha avuto adesioni di rilievo, come quella dello svizzero Ulrich Zäsy (Zasio, 1461-1532), ma ha trovato terreno fertile soprattutto in Francia, sin dagli inizi con Guillaume Budé (Budeo, 1467-1540) e poi nel Cinquecento con tutta una fioritura di studi e di studiosi, tanto che si parla di “mos gallicus” (cioè di metodo francese) nello studio e nell’insegnamento del diritto, contrapposto al tradizionale “mos italicus” (cioè metodo italiano) di ascendenza bartolista. Gli studiosi francesi sono per lo più ugonotti (cioè calvinisti favorevoli alla Riforma e contrari alla Chiesa romana), polemici contro la raccolta e le interpolazioni giustinianee (Hotman scrive nel 1567 l’“Antitribonianus”), fautori del diritto ‘nazionale’ francese e dell’uso della lingua volgare (il francese contro il latino), ma soprattutto della ricerca entro il “corpus iuris” delle regole ‘razionali’, da usarsi nel proprio tempo. Per essi la raccolta giustinianea dev’essere utilizzata non “ratione imperii” (con riferimento – contrastato – al vecchio argomento del valore universale del diritto romano collegato a quello dell’Impero), ma “imperio rationis” (cioè per la razionalità – da ricostruire ed illustrare dalla dottrina – dei princìpi in essa contenuti). I giuristi ‘culti’ si indirizzano verso alcuni tipi di studi, di per sé significativi. In primo luogo sta la critica testuale delle fonti: vi si sono cimentati praticamente tutti i giuristi umanisti. Prima di utilizzare i vari passi ne discutono origini ed eventuali interpolazioni, mettono in rilievo collegamenti con altri passi dello stesso autore (o di altri coevi), ne storicizzano la portata. Solo dopo ciò ne affrontano il contenuto e lo valutano entro il sistema del diritto comune, che non contestano nel suo complesso, ma discutono in alcune soluzioni o affermazioni. In certi casi l’impegno filologico-testuale resta fine a se stesso: la ricostruzione del testo soddisfa l’interesse ‘letterario’ (e antiqua-

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rio) dello studioso e non lo sollecita ad una ulteriore considerazione tecnicogiuridica. Questa mera prospettiva storica è quella che induce i ‘pratici’ ad accusare tale metodo di studio umanistico di inconcludenza sul piano giuridico operativo. In prosecuzione di questi interessi, alcuni eruditi provvedono ad una nuova edizione, a stampa, filologicamente corretta, delle antiche fonti, con ricerca e comparazione pure fra manoscritti: si possono ricordare – fra l’altro – la nuova edizione del “corpus iuris civilis” curata da Denis Godefroy (Gotofredus) e quella del “Codice Teodosiano” effettuata dal fratello Giacomo, ma anche quella dell’“editto di Teodorico” di Pierre Pithou 2. Si tratta di opere che intendono offrire al pubblico degli interpreti in via preliminare un testo corretto, sul quale costruire il ragionamento successivo, che altrimenti si rivelerebbe inutile ed inaffidabile, perché basato su fonti non sicure o credibili. Questo grande impegno filologico-testuale, possibile solo ad alcuni specialisti, a buona parte dei giuristi ‘pratici’ (incapaci peraltro a volte di percepirne le finezze filologiche) sembra però alquanto inconcludente, perché fornisce in definitiva edizioni non molto diverse da quelle in uso, per quanto senza dubbio più raffinate. In altri casi gli studi testuali si rivelano direttamente funzionali alla ricostruzione sostanziale degli istituti e del diritto dell’epoca, come avviene in genere nell’opera di Alciato o Cuiacio. Se però si dimostrava che il diritto romano giustinianeo era diverso da quello ‘classico’ (e per lo più a quest’ultimo inferiore), si doveva ammettere allora che il “corpus iuris” non solo perdeva quella ‘sacralità’ di cui era stato in precedenza ammantato, ma doveva anche essere – storicamente – considerato come la fonte di ‘una’ delle costruzioni e soluzioni possibili, certo non l’unica. Dalla critica testuale umanistica discendeva il ‘dubbio’ dell’uomo rinascimentale, alla ricerca di una sua verità, da affidare alla sola capacità umana di ragionamento. Ne conseguiva che il diritto finiva con l’essere una scienza ‘umana’, senza dubbio con le sue regole ed i suoi meccanismi interpretativi, ma affidato alle doti dell’uomo ‘dotto’ (= “culto”), senza nulla di immanente. 2

Di tale editto non esiste attualmente alcun manoscritto. Il Pithou (1539-1596), erudito specializzato in edizioni di fonti del tardo diritto romano, ha tramandato con tale edizione una fonte su cui la nostra storiografia giuridica nel sec. XX si è divisa: contro la tradizione che attribuiva l’editto all’ostrogoto Teodorico regnante in Italia (come si è visto), un gruppo di studiosi si è pronunciato per l’attribuzione al re visigoto Teodorico, quindi alla dominazione di Gallia meridionale e Spagna pirenaica. L’opera dell’umanista cinquecentesco, preziosa per la riscoperta di fonti e la loro edizione, è stata quindi oggetto di specifiche discussioni scientifiche ancora alcuni decenni fa.

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La relatività dei precedenti punti di riferimento su cui basare le regole giuridiche poteva quindi lasciare aperta la stessa determinazione di queste ultime, sebbene i giuristi “culti” continuassero a considerarsi inseriti nell’insieme dello “ius commune” europeo: aspiravano solo a vederci più chiaro. Per il momento, peraltro, avevano sollevato problemi, non li avevano risolti. In proposito, alcuni pensarono che la posizione del sovrano (in specie, in Francia, il re) consentisse di superare l’“impasse”: egli avrebbe potuto, dall’alto della sua autorità (per alcuni, come Bodin, già sovranità), precisare quali erano le regole da seguire nel suo Stato. Storicizzata la compilazione giustinianea, il giurista ‘culto’ si rivolge al princìpe per averne un’altra: è il caso di Francesco Hotman (1524-1590), che auspica una nuova compilazione regia, frutto della legislazione del sovrano, ma soprattutto tesa a riscrivere i princìpi del diritto comune per dare loro maggior chiarezza. La legge del princìpe è chiamata a semplificare il sistema, non a cambiarne i connotati: essa ribadisce – ma chiarisce – le regole contenute nello “ius commune”, non le sostituisce. Quest’aspirazione non riesce a realizzarsi nella Francia del sec. XVI, ma resta nelle aspettative transalpine ed avrà una prima parziale risposta nelle “ordonnances” del re Luigi XIV. Un altro filone di giuristi ‘culti’, preso atto dell’opinabilità di quanto è presente nel “corpus iuris”, cerca di dedurre da esso un nuovo complesso di regole ‘secondo ragione’, cioè secondo la pura forza del raziocinio umano, per dare nuova veste al sistema del diritto comune. Ad essi sembra che si raggiunga meglio la soluzione basandosi sulle più semplici Istituzioni piuttosto che sul Digesto: si tratta di Francesco Baudouin (1520-1573), Francesco Connan (1508-1551) e soprattutto Ugo Doneau (Donello/Donellus, 15271591). L’opera di quest’ultimo 3 cerca di costruire in modo più logico e razionale le regole contenute nei testi giustinianei, ormai considerati confusi e farragginosi, recependo il patrimonio culturale medievale, ma riorganizzandolo ‘secondo ragione’. Tale lavoro rappresenta la conclusione di uno sforzo non indifferente di razionalizzazione del diritto dell’epoca, aspirazione di un certo numero di giuristi ‘culti’. Il punto d’arrivo di Donello merita un cenno per due motivi: da un lato, offre una sua nuova impostazione delle regole dello “ius commune” ma non le contesta nella loro impostazione generale; dall’altro, aspira a dare ad esse un ordine ‘naturale’ che ne rispetta l’essenza, secondo una prospettiva che in certo senso può collegarlo al pur diverso futuro razionalismo cartesiano di Domat. 3 I “Commentaria” di Donello (ed. 1589-99) sono stati ristampati molte volte ed a lungo (ancora nella prima metà dell’Ottocento nello Stato pontificio).

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Questi giuristi ‘culti’ possono criticare la raccolta e la sistematica giustinianee, ma sono ‘entro’ il sistema del diritto comune europeo, non alla ricerca di soluzioni diverse, ‘fuori’ da esso (ad esempio, come avverrebbe se si auspicasse che tutto derivasse dalla legge “sovrana” – senza limiti – del principe). Essi possono contestare, in quanto ugonotti, il diritto canonico; possono auspicare una riorganizzazione dei princìpi del diritto comune ‘secondo ragione’, a superamento della confusa enunciazione giustinianea o medievale; possono invocare maggiore attenzione alle “coutumes” locali o alla legislazione regia, secondo le aspirazioni culturali (e ‘nazionali’) francesi del Cinquecento; in definitiva, però, aspirano ad una riforma dall’interno del sistema del diritto comune europeo, non alla sua cancellazione o sostituzione. Ben diversa – e demolitrice – sarà la critica settecentesca dell’illuminismo. Le loro aspettative, peraltro, si scontrano con la dura realtà: non sempre le loro critiche riescono poi a costruire qualcosa di positivo e valido per il sistema del diritto comune; gli oppositori a tali cambiamenti sono validi ed agguerriti; un consistente gruppo di ‘pratici’ li considera nebulosi e piuttosto velleitari, e quindi preferisce continuare secondo il metodo tradizionale, pur aggiornato secondo le esigenze del tempo.

3. Tradizione e novità nella dottrina giuridica L’umanesimo giuridico raccoglie adesioni in Francia, ma non altrove. In Spagna, Italia e Germania 4 Università e pratici preferiscono il solito metodo di studio dei Commentatori, impersonato da Bartolo e dal Bartolismo. Al “mos gallicus iura docendi” 5 contrappongono il “mos italicus” dalle prestigiose cattedre di Tubinga e di Oxford 6 maestri universitari come Matteo Gribaldi Mofa (morto nel 1562) ed Alberico Gentili (1552-1608), vicini alla

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Come già detto, l’istituzione del Supremo Tribunale Camerale dell’Impero ha rafforzato la tradizione romanistica in Germania e l’ha inserita a fondo per tutta l’età moderna (ed oltre) nel sistema del diritto comune: l’area tedesca era quindi particolarmente sensibile ai metodi di studio del diritto romano, tanto che vi sono state istituite numerose ulteriori Università. 5 È significativo che si parli di “mos … iura docendi”, con riferimento proprio al metodo d’insegnamento universitario (più che alla pratica): si può quindi comprendere che la risposta – a favore del metodo tradizionale – provenga da due affermati cattedratici. 6 Alberico Gentili porta con successo le sue conoscenze romanistiche in Inghilterra, ove in precedenza i giuristi del “common law” le avevano rifiutate (sin dai tempi del glossatore Vacario).

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“riforma” religiosa ma non a quella del diritto 7: in appositi ed approfonditi saggi difendono ed illustrano la bontà del metodo tradizionale. Gli studi dei giuristi culti sembrano ricchi di erudizione ma poveri di risultati sia per l’efficacia dell’insegnamento 8 che per l’esercizio della pratica 9. All’ombra del dubbio sulle fonti medievali avanzata dall’umanesimo giuridico rispondono nel frattempo le riflessioni filosofiche della “scuola di Salamanca”, sui legami fra diritto romano, morale e princìpi di diritto naturale e divino. Si tratta di valutazioni nel solco della tradizione tomistica di un gruppo di studiosi spagnoli di teologia ma anche di diritto, ispirati dalla parte sul diritto della “Summa teologica” di san Tommaso d’Aquino: per questo si parla anche di “Seconda scolastica spagnola” (oltre che di “scuola di Salamanca”, dalla sede universitaria a cui tali autori erano legati). È considerato fondatore di questo filone culturale Francesco Vitoria (1483 circa-1546), a cui fecero eco altri studiosi (Domenico Soto, Luigi Molina) ed infine Francesco Suarez (1548-1617). Se alcuni raffinati giuristi ‘culti’ avevano messo in discussione i princìpi del diritto romano sulla base della ragione umana, i teologi della “scuola di Salamanca” li consideravano dal punto di vista della morale e di un diritto naturale che regola il comportamento umano. Tanto i primi restavano appesi all’ombra del dubbio, tanto i secondi cercavano di ancorare il diritto a qualcosa che – per quanto immanente – ne fissasse dei binari, cioè un percorso entro il quale vederlo operare. La loro aspirazione, in specie di Suarez, era quella di vederlo collegato a princìpi di ragione: la ragione si trovava alla base del diritto naturale, ed a quest’ultimo si doveva ispirare il diritto positivo. La speculazione teologico-filosofica, in definitiva, richiedeva che le regole concrete fissate per il comportamento umano discendessero dal diritto naturale, inteso come immanente, ma ispirato dalla ragione, data da Dio all’uomo perché ne facesse buon uso. La ragione dell’uomo demiurgico dell’uma7 Entrambi hanno dovuto abbandonare l’Italia per le loro opinioni religiose, contrarie alla Chiesa romana (Gribaldi Mofa vicino ai sociniani, Gentili ai calvinisti): colpisce quindi che rifiutino la metodologia didattica dei ‘culti’, per lo più di fede ugonotta (cioè calvinista), ed a maggior ragione quindi la loro opposizione metodologica ha un senso, non risultando per nulla influenzata dalle scelte religiose (in questi due “maestri” particolarmente radicate). 8 Anche a Torino l’insegnamento di Cuiacio, chiamato da Emanuele Filiberto per dar prestigio alla riaperta e rinnovata Università di Torino, dura solo un anno. In complesso sembra in generale che anche gli studenti fossero più favorevoli al metodo d’insegnamento tradizionale, considerato meno prolisso e più efficace per la futura professione. 9 In effetti, parecchie delle indagini e delle osservazioni dei ‘culti’ si rivelavano meramente erudite (anche se culturalmente stimolanti) per la pratica giuridica.

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nesimo prendeva negli studiosi spagnoli un aspetto più mite e coerente con l’ordine naturale del Creato, ma era pur sempre l’elemento a cui commisurare le regole giuridiche concrete. Una tale impostazione consentiva nuova fiducia nella tradizione giuridica, che doveva però essere adattata ‘con ragione’ alla personalità di ogni uomo ed alle esigenze di buon funzionamento della comunità organizzata. La “scuola di Salamanca”, più teologica che giuridica, ha avuto una notevole rilevanza per il successivo sviluppo giuridico, sebbene criticata per la sua dipendenza filosofica dalla tomistica da parte di qualche giurista 10. L’accoppiamento di ragione e diritto naturale rappresentava il punto di congiunzione con la tradizione giuridica medievale d’impostazione cristiana, ma si collega pure con le posteriori teorie giusnaturalistiche (in specie di Grozio) a sfondo laico. Inoltre il suo interesse per il rispetto della morale e per la persona umana è stato uno dei punti di partenza per la successiva affermazione dei diritti soggettivi in capo ad ogni uomo. Si può inoltre notare che dall’alto delle sue riflessioni teologico-filosofiche, essa ha rintuzzato in concreto le critiche ‘culte’ (del filone razionalistico di Connan e Donello) verso le posizioni tradizionali dello studio del diritto romano ed in tal modo ha rafforzato in modo indiretto le convinzioni di coloro che non intendevano abbandonare la metodologia del “bartolismo”: questo poteva continuare – e nella penisola iberica nel Seicento ebbe una fortuna particolare 11 – coi suoi usuali strumenti di studio. Ciò non escludeva però che nella sua “interpretatio” il giurista tradizionale non dovesse tener presenti i parametri enunciati dalla “scuola di Salamanca” con riferimento alla morale, al diritto naturale, alla persona umana. Per non fare che qualche esempio, la “scuola di Salamanca”, in specie con Vitoria e con Suarez, ha cercato di individuare i caratteri della “guerra giusta”, si è posta il problema dell’espansione coloniale e della cristianizzazione dei “selvaggi”, si è interrogata sulla condizione degli “indios” nelle Americhe e ne ha pure contestato la riduzione in schiavitù, ha sottolineato l’importanza basilare del consenso per la costituzione del contratto, si è impegnata per trovare un fondamento di diritto naturale al diritto di proprietà. Dalla teologia e dalla morale essa è quindi pure discesa a prendere posizione su gravi problemi di specifico interesse per il giurista. Il metodo tradizionale di “interpretatio” del diritto ha superato la ventata critica dei ‘culti’: è proseguita in “Commentaria” ai “libri legales”, in lucrosi

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Si può ricordare, ad esempio, Alberico Gentili. Ancora nel Seicento in Portogallo esisteva uno specifico insegnamento di “bartolismo”.

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“consilia”, in vari “tractatus” su istituti o problemi particolari. Si è però pure impegnato con studi specifici in settori nel complesso nuovi, come quello penale e quello commerciale. In quest’ultimo l’anconitano Bartolomeo Stracca ha pubblicato (1553) un trattato sul mercante e sui contratti commerciali, che ha giustificato l’attività dei mercanti ed ha rappresentato una svolta nella storia del diritto commerciale: l’autore infatti inquadrava nel sistema romanistico del tempo le operazioni mercantili ormai usuali nelle piazze europee ed inseriva con abilità entro la prospettiva dello “ius commune” una fiorente attività e tutta una serie di contratti sino ad allora lasciati alle consuetudini del commercio sopranazionale. D’ora in poi le conoscenze del diritto ‘dotto’ seguiranno con ben maggior impegno questo ricco e vivace settore dell’economia, con pareri ed opere a stampa, che lasceranno il segno ancora sul nostro attuale diritto commerciale. La stampa, infatti, sin dal Cinquecento 12 ha rappresentato un grande strumento di diffusione delle conoscenze anche nel mondo del diritto. Se in precedenza era difficile (e costoso) per un giurista procurarsi un numero anche non elevato di manoscritti, e doveva quindi accontentarsi di quelli acquisiti quando era studente all’Università e di pochi altri, con la diffusione delle opere a stampa (per quanto con tiratura ancora limitata) la situazione è profondamente mutata. La nuova scoperta ha favorito un salto quantitativo, ma anche qualitativo, per le ben maggiori e migliori conoscenze che un giurista aggiornato poteva permettersi. L’esigenza di approfondimenti professionali lo spingevano a comprare, i librai erano ben contenti di vendere, gli editori di stampare altri volumi. Il mercato del libro giuridico è stato molto fiorente: vi si sono specializzate soprattutto le piazze di Lione e Venezia.

Si è pubblicato di tutto, in specie – naturalmente – le opere più in uso: “corpus iuris” (civile e canonico), Summae (in specie di Azzone per il civile e dell’Ostiense per il canonico), opere di Bartolo, di Baldo, di autori quattrocinquecenteschi. Si è pubblicato in modo anche approssimativo, per non dire a volte scorretto, senza alcun limite o rispetto per gli autori ed anche per gli acquirenti 13: 12 In effetti, sin dal Quattrocento si sono iniziati a stampare testi giuridici: si calcola che già in questo secolo ne siano stati editi circa 2000 (i libri editi nel sec. XV sono detti “incunaboli”, perché nel primissimo periodo della stampa, quando la sua primitiva organizzazione era ancora “nella culla”). 13 Non esisteva, naturalmente (e sino al sec. XIX) alcun diritto d’autore: editori scorretti ristampavano in proprio fortunate edizioni altrui, pubblicavano testi di un autore meno noto col nome di uno più vendibile sul mercato, ‘tagliavano’ parti di manoscritti

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il libro giuridico aveva un florido ed ampio mercato, in tutta Europa. Nel 1583-84 un editore veneziano specializzato, Francesco Ziletti, si lanciò nell’edizione di una grande raccolta giuridica, di 18 grandi volumi ‘in folio’, dei principali “tractatus”, raggruppati per argomenti, dei maggiori giuristi di ogni tempo. Corredata di accurati e voluminosi indici per argomento, questa poderosa opera può essere considerata una specie di enciclopedia giuridica per il suo tempo. La diffusione della stampa e dei libri offriva però al giurista un ventaglio di opinioni e di prospettive, che faceva ancora di più notare la povertà di testi di un secolo prima, ma che poneva pure problemi di scelta fra soluzioni diverse, ora per la troppa abbondanza. Se ne potevano giovare gli avvocati per sostenere le ragioni dei clienti, meno i giudici e la semplificazione dell’amministrazione della giustizia. Sin dai primi anni del Cinquecento un professore dell’Università di Torino, Giovanni Nevizzano, nel presentare l’edizione di un repertorio di tutte le opere note, già si lamentava dell’eccessivo numero di opinioni dottrinarie edite ed auspicava che un intervento legislativo di qualche principe venisse a mettervi ordine ed a riportare un po’ di certezza fra la varietà di soluzioni interpretative diffuse dalle opere pubblicate. E si era solo nel 1522 … L’alluvione delle edizioni giuridiche era appena all’inizio.

Nel complesso, le critiche umanistiche non erano riuscite ad intaccare a fondo la fiducia dei giuristi nel sistema del diritto comune: questa è venuta invece a vacillare di fronte alle sempre più numerose edizioni di opinioni di ‘dottori’, la cui possibile divergente “interpretatio” finiva per mettere in crisi il sistema (per la troppa abbondanza …). Un primo rimedio fu adottato dalla paziente attenzione degli stessi giuristi: non si limitarono più a riportare a sostegno della propria tesi l’‘autorità’ di qualche noto ‘dottore’, ma con un’analisi estesa ricercarono la “communis opinio doctorum”, che finirono col citare in ogni componente. L’attività però si appesantiva, e così pure gli scritti giuridici, sia nei processi che nelle opere a stampa; questa sembrava però nei fatti l’unica via percorribile. La “communis opinio doctorum” divenne l’obiettivo della “interpretatio”, ma il rinvio ad una mole consistente di “doctores” rendeva il ragionamento molto più complesso, e soprattutto ripetitivo e farragginoso. Il sistema giuridico si complicava ulteriormente, ed aumentava in oscurità: sembrava quasi un circolo vizioso; quale poteva essere però l’autorità capace di arrestarlo? ritenute inutili e le univano ad altri, e così via. Ad esempio, col nome di Bartolo (richiestissimo) circolavano opere a stampa non sue; manoscritti di un autore furono scambiati con quelli di un altro (Pierre Belleperche con Jacques de Révigny fra i ‘maestri’ della “scuola d’Orleans”), e così via.

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Chiesa romana ed Impero non erano ormai più rappresentativi dell’unitarietà europea: potevano essere in grado di sostituirli i singoli Stati? Da un lato, non sempre questi erano già all’altezza di porsi un simile obiettivo; dall’altro, potevano solo mettere eventualmente ordine nell’ambito del proprio territorio, quindi con risposte comunque particolari rispetto allo “ius commune” europeo. Questa, comunque, è stata la strada percorsa, per quanto accidentata e lenta. La soluzione ultima – ma in pari tempo conclusiva per lo stesso sistema del diritto comune – sarà quella dei codici ottocenteschi. Nel frattempo si procedette con iniziative settoriali e territorialmente limitate. In Francia, alle richieste dei ‘culti’ (Hotman ed altri) di un intervento regio per indicare alcune scelte fra quelle proposte dalla “interpretatio”, la monarchia cercò di dare una risposta, ma i lavori preparatori non giunsero ad ottenere la sanzione regia conclusiva 14. Solo con Luigi XIV, in una prospettiva ormai diversa, si perverrà nella seconda metà del Seicento ad “ordonnances” generali su singoli argomenti 15. Tra i secc. XVI-XVII non si raggiunse però in proposito alcuna soluzione operativa. Altrove qualche intervento specifico ci fu 16, ma nel complesso il principe non venne per il momento a cercare di risolvere direttamente le oscurità ed incertezze giurisprudenziali. Piuttosto, fu percorsa un’altra strada, parallela ed un po’ meno incisiva (ma anche meno impositiva) rispetto a quella della legislazione principesca. Negli Stati d’età moderna si affermò l’autorità di un (a volte anche più) Tribunale statale supremo (Rota, Senato, Cour de parlement, ecc.): si attribuì – entro lo Stato – valore di ‘precedente’ alle soluzioni dottrinarie seguite nelle sue decisioni, in modo che a quel certo punto di diritto così da esso enunciato dovessero in seguito attenersi tutti i giudici dello Stato 17. Entro questo, 14

Si tratta del cosiddetto “code Henri III”, preparato durante il regno di Enrico III di Francia (1575-89), mai munito però di sanzione ed emanazione regia, quindi rimasto come raccolta privata. 15 Se ne parlerà a proposito della monarchia francese nel capitolo successivo. 16 Alcuni prìncipi fissarono drasticamente quali giuristi potessero vedere citate le loro opinioni: ad esempio, già nel 1427 Giovanni II di Castiglia vietava la citazione di giuristi successivi a Giovanni d’Andrea (canonista) e Bartolo. Nel 1613 il duca d’Urbino elencava i giuristi che – soli – potevano essere citati, 6 civilisti (fra cui naturalmente Bartolo e Baldo) e 4 penalisti. 17 Tale ‘precedente’ era vincolante entro lo Stato; ciò non escludeva, inoltre, che anche all’estero quella certa interpretazione fosse seguita in quanto ‘ragionevole’, dato che sovente la collezione delle decisioni di questi Tribunali Supremi era pubblicata per farla conoscere meglio, all’interno ed all’estero: in fin dei conti, si era pur sempre entro il sistema europeo dello “ius commune”.

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quindi, si poteva pensare di ricostruire una certa omogeneità della “interpretatio”, affidata però non più ai “doctores” per la loro levatura scientifica, ma ai giudici supremi in quanto muniti dell’autorità principesca. Si stamparono pertanto raccolte delle loro “decisiones”, che vennero ad affiancare gli altri volumi giuridici. Il raggiungimento dell’obiettivo unitario si sviluppa quindi in una prospettiva diversa, nella quale veniva a pesare ormai l’autorità dello Stato, affidata alle “decisiones” dei suoi giudici più elevati, non il prestigio della scienza (anche se si può pensare che al supremo esercizio della ‘giustizia del principe’ fossero chiamati i giuristi più affermati …). Si può notare, inoltre, che a quest’aspirazione di “interpretatio” unitaria è data risposta tramite il lavoro autonomo degli stessi giuristi (in questi casi, quelli sedenti nel Tribunale supremo), con i metodi tradizionali della “scientia iuris”, non per un intervento d’autorità della ‘legge’ del principe volta a dirimere opposte opinioni interpretative: in questo periodo al ‘corpo’ dei giuristi viene ancora riconosciuta una propria autonoma capacità e autorevolezza di lavoro e di valutazione 18. Si tratta di un palliativo, che può costituire un miglioramento entro lo Stato, ma sul piano generale dimostra ormai la debolezza del sistema, perché la possibilità di ‘precedenti’ diversi nei vari Stati inficia l’unitarietà dello “ius commune” dell’Europa continentale. In età moderna anche quest’ultima eredità del diritto medievale viene quindi corrompendosi, via via frammentata non solo dalla progressiva emersione della legislazione statale, ma anche dall’infiltrazione della possibilità di una “interpretatio” diversa a seconda delle linee seguite dai singoli Tribunali supremi, per quanto l’opera di questi ultimi in linea tendenziale debba essere pensata in armonia con i princìpi dello “ius commune” europeo.

4. Dall’umanesimo alla questione della libertà religiosa L’umanista, fiducioso nella sua personalità e libertà di pensiero, poteva essere indotto con facilità a rispondere da solo ai più elevati problemi esistenziali sulla base dei documenti acquisiti e studiati, in minore o maggiore ortodossia con l’insegnamento ufficiale della Chiesa: rivendicava un’autonomia di pensiero, da questa più o meno tollerata o sospettata. Spesso si trattava di un risultato non solo interiore, ma diffuso ormai anche con la stampa: è 18

Ben diversa sarà la posizione del legislatore di fine Settecento, che riserverà a se stesso persino l’interpretazione (come si dirà, ad esempio col famoso “reféré legislatif” del 1790, che riprenderà peraltro altre analoghe imposizioni di prìncipi settecenteschi).

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nota in proposito la fama europea di Erasmo da Rotterdam. L’aumento di questo genere di umanisti, e l’edizione delle loro opere, ha preoccupato la Chiesa romana, che ha preteso di valutarne l’ortodossia, spesso giungendo ad imporre a tali umanisti (tra cui non pochi giuristi) di lasciare l’Italia per l’eccessiva pretesa di libertà di pensiero e di libertà religiosa. Proprio a sostegno di quest’ultima, contro la Chiesa romana, si è ad esempio espressa una famiglia di noti giuristi, i Sozzini, che daranno vita ad un filone ereticale ramingo in Europa ma poi giunto anche ad ispirare – a secoli di distanza – la costituzione degli Stati Uniti d’America in tema di libertà religiosa. La Chiesa romana, dalla riforma gregoriana in poi, aveva sempre sostenuto un centralismo organizzativo e dogmatico, che si è conservato nonostante gli scismi, ma che dal sec. XV ha trovato nello stesso ambiente ecclesiastico profonde perplessità sia in alcuni giuristi di fama (come Niccolò de’ Tedeschi, detto “l’abbas panormitanus”) sia nelle Chiese locali. Tali critiche, favorite anche dall’ambiente umanistico del tempo, hanno condotto ai concili, prima di Costanza (1414-18) poi di Basilea (1431-49), nei quali la tesi della prevalenza del concilio sul papa metteva in discussione la primazia papale. Tale tesi risulterà alla fine perdente, ma è una delle premesse per la “Prammatica sanzione” (1438), con cui il re di Francia si è proclamato protettore della Chiesa nazionale francese e dei suoi “privilegi” contro l’accentramento romano. La Chiesa francese è rimasta saldamente legata alla Chiesa cattolica di Roma, ma ha seguito alcune regole proprie (“Chiesa gallicana”) sotto la protezione del “cristianissimo” 19 re di Francia. Non è del tutto cesaropapismo, ma è senza dubbio un particolarismo di rilievo, sotto un ‘tutore’ di peso quale il re. In Inghilterra i malumori della Chiesa anglicana verso Roma hanno portato il re ad assumere un ruolo ben maggiore, in quanto egli ne è divenuto direttamente il capo (1531), formalmente per difenderne l’autonomia dal Papato, in concreto giovandosene ampiamente per affermare il suo potere nei confronti dei beni ecclesiastici e dei sudditi. In Germania la debolezza della posizione imperiale ha visto la radicata e consistente avversione locale (sia del basso clero che dei fedeli) nei confronti delle pretese economiche e dell’accentramento pontificio trovare accoglienza in alcuni dei prìncipi territoriali: ciò ha preso un vero connotato di rivolta contro la Chiesa di Roma quando alcuni di questi prìncipi hanno sostenuto Lutero e le sue pretese di “riforma” della Chiesa (1517-19) contro l’ortodossia cattolica difesa dall’imperatore Carlo V. La secolare unicità della Chiesa di Roma viene spazzata via per sempre dalla “Riforma” luterana. 19 È una qualifica ottenuta dal re di Francia da parte della stessa Santa Sede romana nel sec. XVI.

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La diffusione della religione “riformata” secondo l’impostazione luterana, a cui se ne sono aggiunte altre (in specie in Svizzera quelle di Zwingli e di Calvino), ha portato l’Europa alle ‘guerre di religione’ fra Cattolici (favorevoli alla Chiesa di Roma) e Riformati (contrari, secondo la fede della propria fede “riformata”, nelle sue ulteriori suddivisioni). Si è trattato di più di cent’anni (tra i secc. XVI-XVII) particolarmente tormentati per le diverse popolazioni, divise e straziate dai loro contrasti religiosi. In questo contesto i capi politici locali (re, prìncipi, ecc.) hanno giocato un ruolo non indifferente, con ricadute di rilievo anche nel campo del diritto. In primo luogo, si constata la grande importanza data da ogni persona dell’epoca alla propria fede religiosa: per affermarla e per difenderla si è disposti a grandi sacrifici, anche a perdere i beni e la vita. Ciò non vale solo per alcuni individui particolarmente motivati: è percepito pressoché da tutti 20. In secondo luogo, il diritto dell’epoca non difende la libertà religiosa individuale (come auspicato dall’umanesimo), ma accetta l’impostazione secondo cui il capo politico territoriale può imporre o vietare una certa fede religiosa: non si è ancora affermato il principio della libertà religiosa, e nemmeno quello della tolleranza in materia. Eppure, nella sostanza, proprio i sacrifici sopportati a difesa della fede individuale indicano il radicamento della percezione in ogni suddito che essa rappresenta un elemento inscindibile della sua personalità: per salvaguardarlo si rischia persino la vita, che ne sarebbe altrimenti mutilata nei suoi princìpi basilari. Infine, ammessa l’accettazione della potestà del principe di fissare la religione (o le religioni) riconosciuta nel suo territorio, il suddito di altra fede può aspirare ad una sola, ‘benevola’, concessione: quella di emigrare altrove, con gravi sacrifici nel lasciare quanto ha nel luogo (in specie se coltiva la sua terra) e nel doversi trovare altrove un non facile sostentamento. Nella società del sec. XVI i princìpi di libertà non sono ancora presenti (come negli ultimi decenni del sec. XVIII), e nel complesso neppure percepiti: il cammino per la loro affermazione come diritti inalienabili dell’uomo è ancora lungo, anche se proprio dalla rivendicazione dell’esercizio della propria fede religiosa partiranno gli stimoli per tale affermazione 21. 20 Attualmente in Europa la situazione sembra molto cambiata, sfociata in una discreta apatia. Altrove – ad esempio in Asia – la rilevanza della religione pare invece sostanzialmente la stessa: la convinzione nella propria fede gioca pertanto un ruolo importante nella stessa collocazione del singolo nella società. 21 Uno dei grandi ‘maestri’ dell’Università di Torino, Francesco Ruffini, autore di un famoso libro sui diritti di libertà proprio in periodo fascista (quando erano pretermessi), ha fatto notare che il diritto della libertà religiosa è stato il “nocciolo duro” dei diritti di

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Dopo tre decenni di lotte sanguinose, in Germania si giunge nel 1555 alla pacificazione di Augusta, che rappresenta una prima tappa di rilievo per il diritto ecclesiastico europeo, perché alcuni dei punti affermati sono stati considerati validi anche oltre i territori tedeschi. Il principio basilare è quello della libera scelta da parte di ogni principe territoriale della politica religiosa verso i suoi sudditi: l’imperatore non può imporre nulla in proposito. Esso è concentrato nel motto “cuius regio, illius et religio”: in quella certa regione, c’è quella determinata religione, col sottinteso potere per il capo politico locale di sceglierla lui. È senza dubbio un’affermazione ‘liberale’ a favore dei signori territoriali ed un regresso dell’autorità imperiale; è però pure un’affermazione altrettanto illiberale nei confronti dei singoli sudditi, che in una materia per essi così importante come quella della fede devono sottostare alla volontà ed alle scelte del proprio principe. Questa è la chiave di volta su cui si basa d’ora in poi la situazione tedesca, ma è la stessa a cui si ispirano gli altri prìncipi europei, in Francia, Inghilterra, Spagna o Italia. La libertà di scelta è del solo capo politico, i sudditi seguono. In pratica, per questi non esiste alcuna libertà – e neppure tolleranza – religiosa: ciò spiega da un lato le emigrazioni, ma pure le ribellioni di consistenti gruppi di sudditi di fede diversa, nonché le lotte interne fra essi, che hanno lacerato l’Europa dei secoli XVI-XVII. Il diritto pubblico europeo consente al principe territoriale una sua politica religiosa: è un segno inequivoco del suo porsi a comandare come ‘sovrano’ nello Stato. Egli può scegliere per sé una confessione religiosa, e può – di conseguenza – respingere dal suo territorio le confessioni diverse (“ius reprobandi”). Può però anche ammetterne qualche altra (“ius recipiendi”): in tal caso consente l’“exercitium religionis”, che può essere “pubblico” (cioè con ministri di culto, chiese, funzioni pubbliche) oppure solo “privato” (senza manifestazioni esterne, ma praticato in privato), secondo il principio della “tolleranza”, che non è libertà (ma solo sopportazione statale delle forme e manifestazioni espressamente consentite, perché il resto è vietato) 22, dato che esiste un’unica religione “di Stato”, quella voluta dal principe. I

libertà ed il primo rivendicato, sia sul piano storico sia su quello dell’intensità della rivendicazione. La libertà religiosa ha quindi un rilievo particolare nella storia della formazione dei diritti inalienabili dell’uomo. 22 La “tolleranza” consente l’esercizio di quel culto a quelle certe condizioni fissate dal principe, oltre no: ad esempio, solo in un determinato territorio, con divieto di propaganda religiosa, e così via. È il ‘sistema’ nel complesso previsto dall’editto di Nantes (1598) per gli Ugonotti francesi e quello esistente in genere nei confronti degli ebrei, nonché quello sabaudo per i Valdesi.

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sudditi di fede diversa da quella di Stato (o da quelle tollerate) hanno due sole possibilità: o convertirsi o emigrare entro breve termine. Tale impostazione, espressamente prevista per la Germania nel 1555, è ribadita ed estesa poi nell’ampia pace di Westfalia (1648): è quindi quella in atto nei diversi Stati europei tra la seconda metà del sec. XVII e quello successivo. L’adozione della “religione di Stato” e l’ammissione al massimo della tolleranza verso altri culti porta spesso a lotte interne, nonché a contrasti con le minoranze religiose, che assumono anche intensità notevole 23. Il principe come capo “sovrano” dello Stato si impegna direttamente in proposito, rischiando anche di farlo precipitare nella guerra civile, come avviene nella Francia di fine Cinquecento e nell’Inghilterra di metà Seicento. La scelta ‘assoluta’ del principe in una materia particolarmente sentita all’epoca, come quella religiosa, può farne affermare drasticamente il potere di comando e quindi la sovranità, ma col rischio in certi casi di vedersene contestata l’autorità perché egli vuole imporre scelte esistenziali non condivise. Attraverso le guerre di religione passa la stessa affermazione del potere ‘sovrano’ del principe quale capo dello Stato. Il rifiuto della “Riforma” di riconoscere l’autorità della Chiesa di Roma crea d’ora in poi un solco profondo nella Cristianità, ma influisce pure nel campo del diritto. L’unitarietà dello “ius comune” continua nell’Europa continentale, ma ne è ridotta nella sostanza la portata, perché prìncipi (e Stati) nonché giuristi di religione “riformata” non riconoscono più rilevanza al diritto canonico, espressione del Pontificato romano. D’ora in poi, quindi, il diritto comune europeo si basa sulle stesse fonti anteriori per l’ambiente cattolico, ma si limita a quello della tradizione romanistica per quello “riformato”.

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Basti ricordare, nella Francia del Cinquecento, le guerre contro gli Ugonotti (156298), nell’Inghilterra del Seicento le guerre ed i contrasti contro i Cattolici, in Spagna ed in certe terre italiane l’attività del tribunale dell’Inquisizione a sostegno dell’ortodossia cattolica.

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XIV VERSO LO STATO MODERNO

SOMMARIO: 1. Il rafforzamento del potere del principe come base per lo Stato moderno. – 2. Jean Bodin e le tendenze verso lo Stato moderno. – 3. Le grandi monarchie europee nella prima età moderna. – 3.1. Regno di Spagna. – 3.2. S.R.I. – 3.3. Regno di Francia. – 3.4. Olanda. – 3.5. Regno d’Inghilterra.

1. Il rafforzamento del potere del principe come base per lo Stato moderno In età moderna l’autorità dello Stato viene ad assumere un’importanza sempre maggiore riguardo al diritto. Si tratta di vedere non solo come si affermi, ma anche quale possa essere la portata di tale autorità. Non pare che sia stato predisposto alcun programma generale di espansione del potere statale: questo si realizza, empiricamente, a seconda dei luoghi e dei tempi, in corrispondenza con l’estensione dei poteri del principe rispetto agli altri centri di potere (esterni ed interni ai suoi domìni) ed alle resistenze da essi frapposte. Sul piano storico non esiste una sola – o certa – linea di tendenza: ne coesistono parecchie, a differenziare la situazione nelle diverse zone europee e la progressiva affermazione in esse dell’autorità statale. Pare si possa però dire che questa si realizza grazie all’estensione dei poteri del principe, compatibilmente con la realtà in cui si trova ad operare. Senza esaminare l’evoluzione del concetto di Stato dal punto di vista delle dottrine politiche, pare più utile delineare l’affermazione storico-giuridica dello Stato moderno, ripercorrendo a grandi linee le realizzazioni europee più significative. In generale si può constatare che esso si sviluppa via via soprattutto tramite l’assolutezza e l’estensione dei poteri del principe, se e quando questo riesce ad imporsi sul particolarismo e sul pluralismo dei centri di potere tipici del medioevo. Non esiste in proposito un programma organico: l’estensione avviene per lo più, empiricamente, dove e quando possibile. Prima di seguire sinteticamente le singole vicende principali, può es-

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sere opportuno esaminare in generale quali sono i principali campi o aspetti in cui ciò tende a realizzarsi. Tre grandi monarchie – Francia, Spagna, Inghilterra – si affacciano con caratteristiche statali, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, alla ribalta europea e due di esse vengono a scontrarsi anche nella nostra penisola, ove restano invece tanti piccoli principati in contrasto fra loro, condizionati o soggiogati dall’affermazione di queste grandi monarchie, che costituiscono ormai i nuovi modelli istituzionali europei. A sua volta il S.R.I. conserva la sua struttura tradizionale, con la sola innovazione che dal 1531 i “grandi” elettori hanno accettato di designare ad imperatore la persona indicata dal predecessore: dal 1438 in poi la carica resta sempre nella Casa d’Asburgo ed i principi elettori vengono godendo di progressiva autonomia 1. Si va verso lo “Stato moderno”, o semplicemente verso lo “Stato”: si tratta di un concetto ancora vago e di un’impostazione istituzionale nebulosa, che prende una certa maggiore precisazione con “Les six livres de la république” 2 del francese Jean Bodin editi nel 1576 e con le iniziative accentratrici della monarchia francese. In effetti, però, la nostra concezione attuale (… un po’ in regresso …) dello Stato è parecchio distante dalle situazioni dell’epoca, nelle quali persistono molti aspetti particolaristici legati alla tradizione, che contrastano con l’assolutezza del potere principesco e con la sovranità statale. Nel Cinquecento, comunque, esistono situazioni e caratteristiche istituzionali – in specie in Francia – che portano a vedervi un processo “statale” in corso: legislazione regia; giustizia – ove possibile – legata al re; accentramento e lotta al particolarismo (locale, cetuale, personale); nomina regia di funzionari centrali e periferici; esercito regio; monetazione regia; avvio della fiscalità regia, della burocrazia e del controllo sulle autonomie locali ed ecclesiastiche; e così via. Si deve inoltre notare la difficoltà di individuare nella realtà storica un vero modello di “Stato moderno” (o “Stato”), data la comprensibile differenza fra teoria e pratica: il modello teorico rappresenta uno schema concettuale di riferimento rispetto a situazioni concrete con le loro peculiarità, nell’età moderna co-

1 Da Massimiliano I (1493) in poi l’incoronazione avveniva da parte dell’arcivescovo di Magonza (salvo quella di Carlo V, effettuata a Bologna dal Papa). Significativa è stata nel 1495 l’istituzione del Supremo Tribunale Camerale dell’Impero, che ha portato alla recezione del diritto comune in Germania, pur con qualche perplessità. Salvo ciò, ogni principe ha seguito la sua politica (anche religiosa) locale e non ha inciso a lungo sulle vicende europee. 2 Il termine “Stato” all’epoca è per lo più identificato con la “respublica” di tradizione romana (ed umanistica): la “république” bodiniana è quindi lo Stato, naturalmente monarchico, con riferimento in specie proprio alla monarchia francese del tempo.

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me in quella contemporanea. Sembra più semplice parlare direttamente di “Stato” piuttosto che di “Stato moderno”, dato che il punto di riferimento è la nostra attuale costruzione di “Stato”, e dato che non sembra opportuno utilizzare questo termine per il periodo medievale, le cui realtà hanno caratteristiche diverse.

2. Jean Bodin e le tendenze verso lo Stato moderno Secondo la tradizionale dottrina giuridica lo Stato presenta tre elementi: popolo, territorio, sovranità. Essi nella prima età moderna non sono ancora presenti con le attuali caratteristiche: solo progressivamente prendono i connotati contemporanei (in specie la sovranità). In questo periodo esiste uno “Stato patrimoniale”, di cui è titolare il principe, che considera come suo ‘patrimonio’ il territorio dello Stato e come sudditi (senza diritti autonomi) coloro che compongono il popolo. In effetti, però, questa sua considerazione incontra limiti consistenti: sul territorio esistono infatti diritti e poteri (anche pubblici) di Comuni, signori feudali, Chiesa, singoli individui (ad es. stranieri, difesi dal loro Stato); il popolo è organizzato pure secondo istituzioni intermedie (come Comuni, signorie feudali, corporazioni mercantili e professionali, istituzioni ecclesiastiche) che ne regolano anch’esse la vita. La sovranità non è ancora completa. Si tratta allora di vedere quali sono le caratteristiche più significative dell’epoca. Il francese Jean Bodin se ne fa portavoce, con l’edizione (1576) dei “Six livres de la République”, in cui analizza lo Stato del suo tempo, con riferimento soprattutto al regno di Francia. L’aspirazione d’ordine 3 porta Bodin a riconoscere al potere legislativo del principe, cioè dello Stato, il compito di organizzarlo e preservarlo: per Bodin la legislazione è un elemento importante della sovranità, che per la prima volta egli sa presentare nella sua essenza. La legge statale può trovare un limite estremo nel diritto naturale o nelle “leggi fondamentali” della monarchia 4, ma è il principale strumento – autoritario – tramite il quale il principe riesce a regolare il buon funzionamento 3 La Francia dell’epoca era travagliata dalle guerre di religione, e la monarchia faticava a porvi ordine. 4 Si è discusso a lungo in Francia di queste “leggi fondamentali”, di contenuto consuetudinario, tese ad impedire al re-legislatore di passare ad un regime dispotico (… da uno assoluto …). Fra esse, le regole della successione al trono, quelle del rispetto della Chiesa, delle convocazioni dei “tre Stati”, dei privilegi locali o cetuali già riconosciuti dal re. Il vincolo di tali punti per la legge regia non porta però Bodin ad accettare alcuna forma di contrattualismo fra re e sudditi: il re comanda sui sudditi con le sue leggi, senza discussioni.

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della società. Il re comanda con la sua legge, il suddito ubbidisce ed esegue: questa può essere, in sintesi, la sovranità dello Stato. Bodin vede nella legge anche uno strumento di governo (cosa nel complesso nuova), ma soprattutto d’ordine: nella sua costruzione teorica la funzione legislativa dello Stato è particolarmente importante 5.

JEAN BODIN Les six livres de la république, 1576 Nella Francia della seconda metà del Cinquecento la Corona non riesce ad imporre la sua autorità sull’autonomia dei signori feudali e sui contrasti di religione: Jean Bodin, sulla base di un’ampia cultura umanistica, aspira a veder realizzato un ordine dettato dal re, in una prospettiva unitaria in cui emerge il concetto di Stato (“res publica”, “république”). Egli insiste perciò sull’esigenza che esista un “potere assoluto” che riesce ad imporsi ad ogni altro, potere che dev’essere pure “perpetuo” cioè non limitato nel tempo. Esso si esprime nella “sovranità”, la cui manifestazione principale – secondo Bodin – è quella di legiferare, cioè di fissare regole obbligatorie per tutti i consociati, che il re è legittimato a porre, ma pure a cambiare per sua autorità (contro il contrattualismo medievale, in base al principio del “princeps legibus solutus” di ascendenza romano-imperiale).

5 La legge dev’essere poi rispettata ed applicata: l’aspirazione astratta di Bodin non sempre trovava un riscontro nella realtà francese del tempo, nonostante la speranza dell’autore …

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Libro I, cap. VIII Della sovranità “La sovranità è il potere assoluto e perpetuo di uno Stato, che i Romani chiamavano ‘maiestas’ (...). Il principe non è soggetto alle sue leggi né alle leggi dei suoi predecessori, ma è peraltro tenuto alle convenzioni giuste e ragionevoli da lui stipulate, all’osservanza delle quali sono interessati i sudditi in generale o in particolare”.

Jean Bodin si presenta da un lato come il teorico della sovranità, dall’altro come il fautore di un’ampia attività di legislazione, tramite la quale il principe – cioè la “res publica” – afferma il suo potere. Esistono però due limiti in proposito: il primo è quello delle norme “naturali” (in effetti quelle divine), il secondo quello delle “convenzioni giuste e ragionevoli” stipulate dal principe, che possono aver creato aspettative nei sudditi, e che quindi egli non può violare. Tramite un’esposizione dotta (ma alquanto contorta) Bodin nella sua ricerca di ordine viene quindi ad esaltare il ruolo del re-legislatore ed a delineare sul piano politico un ordinamento pubblico nel quale primeggia l’autorità munita di “sovranità” (contro le diverse autonomie anteriori) e quindi a rappresentare una tappa di rilievo per la formazione della concezione dello “Stato moderno”.

Dal re-giudice medievale si passa al re-legislatore d’età moderna, anche se per gradi. Nei secc. XV-XVII la legge del principe non si sostituisce per lo più alle regole del diritto comune (e in Francia pure delle “coutumes” messe per iscritto): le affianca, precisa, chiarisce. Spesso la legislazione è contingente, complementare, non ancora del tutto sostitutiva: ciò avverrà generalmente solo nel sec. XVIII. Le stesse leggi organiche dell’epoca (“Constitutiones dominii mediolanensis”, “Constitutio carolina”, “Ordini nuovi” di Emanuele Filiberto, “Ordonnances” francesi, ecc. …) tendono a mettere con chiarezza per iscritto regole giuridiche esistenti (ma frammentarie o confuse o discusse) più che a darne di completamente di nuove. Pur così rispettosa, la legislazione del principe si presenta comunque con connotati di indubbia novità, per l’ampiezza, la frequenza, l’incisività. Nel complesso, si può capire come sia l’aspetto che più colpisce Bodin circa lo Stato del suo tempo. In precedenza le regole giuridiche erano rivelate dalla scienza dei giuristi e dalla loro “interpretatio”; ora esse sempre più finiscono per essere fissate dalla legge emanata dal principe. È pure vero che si sostiene che quest’ultimo si immedesima in quanto desiderano i ‘suoi’ sudditi e ne esprime le esigenze, ma è da lui – in definitiva – che d’ora in poi provengono le nuove regole per i propri sudditi. Il cambiamento non è irrilevante.

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Altra funzione statale importante è quella di governo. Per provvedere ad essa si creano o estendono in una città, presa a capitale fissa 6, organi stabili che si differenziano dalla corte: in tal modo si distinguono dai servizi di corte, riguardanti la persona e la famiglia del principe, i veri e propri uffici di governo, attribuiti per lo più a cancellieri, ministri o altri funzionari. L’organizzazione di quest’amministrazione centrale può peccare di organicità, ma è comunque un inizio significativo di quella che nei secoli diverrà la burocrazia pubblica. Su tale linea si erano già avviati efficacemente i nostri Comuni medievali: le Signorie ed i Principati italiani ne hanno seguito naturalmente la strada. In genere il principe si fa assistere da un Consiglio, composto di collaboratori fissi (ed a volte anche di altri membri contingenti), il cui esempio più significativo è il Consiglio regio francese, che si articola a sua volta in parecchie sezioni specifiche (Consiglio privato, di finanza, delle spese, ecc. …). L’origine è medievale, ma l’evoluzione è moderna. Da un Consiglio a riunione saltuaria con varietà d’argomenti, composto degli uomini di fiducia del re (che sono spesso suoi congiunti e sono anche fluttuanti nella partecipazione) si passa ad un Consiglio con convocazione tendenzialmente periodica, su temi precisi e ricorrenti, a cui prendono parte con regolarità i maggiori responsabili di governo (e solo in via eccezionale persone di corte). Il modello generale non è dissimile pure in Spagna, ove però al Consiglio regio (con competenze generali) se ne affiancano altri con competenze specifiche (o di territorio o di materia). Sul piano formale il ruolo di questi Consigli è – come indica la stessa terminologia – consultivo, essendo libero il re di scostarsene a piacimento (ed anche di non presenziarvi). In genere le conclusioni prese finiscono però col divenire operative: nella sostanza quindi i Consigli sono al vertice decisionale dello Stato. Alle funzioni di governo, civili e militari, accudiscono singoli esperti del ramo, con denominazioni diverse: cancelliere o guardasigilli per la giustizia; segretari (o ministri) per i settori di politica estera, interna, finanziaria ecc.; marescialli, ammiragli, ecc. per le questioni militari. Inizia una differenziazione per materia fra i diversi funzionari, che avvia una distinzione di competenze, in senso orizzontale per funzioni ed oggetto, in senso verticale per una gerarchia che scende dal capo di quelle funzioni (funzionario-capo) ai subordinati (in scala fra loro). La costruzione di questa impalcatura gerarchica è inizialmente approssimativa, connessa ancora a lungo con l’arbitrio 6

In periodo medievale il principe con la sua corte tendeva a non avere una dimora fissa, ma a spostarsi attraverso i territori (ed i castelli) a lui soggetti, in modo da ‘farsi ammirare’, amministrarvi la giustizia, e controllare le situazioni locali.

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del principe piuttosto che con le capacità ed i meriti, aleatoria a seconda delle vicende stesse della dinastia o della corte, ma viene a costruire – pur con periodi critici – un corpo di funzionari ed impiegati, che finiscono col rappresentare la stessa continuità dello Stato. Il decorso del tempo porta pure ad un cambiamento di prospettiva e di mentalità di un certo rilievo: si passa da quelle del feudale a quelle del funzionario. Il vincolo di fedeltà al proprio principe, in certi casi corroborato ancora da cerimonie formali (come giuramento o presentazione genuflessa) in prosieguo di tempo – in specie nella scala gerarchica più bassa – prende un aspetto meno personalizzato e lascia emergere più il vincolo burocratico dell’inserimento nell’attività dello Stato (sebbene il sentimentale legame con la dinastia resti in genere sino alla fine dell’ancien régime), tanto più quando si collega all’acquisto dell’ufficio per la venalità della carica. Alla fin fine si entra al servizio dello Stato più che a quello del principe (anche se lo stesso termine di “servizio” fa ricordare un lontano passato fiduciario). L’accentramento progressivo del potere nelle mani del principe ne aumenta l’assolutezza, ma nello stesso tempo tende a ridurre il suo ruolo personale, perché egli nell’esercizio di tale potere sempre più deve dipendere dai collaboratori di cui è costretto a contornarsi: alla fin fine la burocrazia in quanto tale (organizzata cioè come corpo) viene ad essere non solo lo strumento – più o meno docile – nelle mani del principe, ma è essa stessa la vera macchina dello Stato, con una conseguente profonda spersonalizzazione del potere. Ciò si realizza appieno solo dalla fine dell’ancien régime in poi, quando più che al servizio del principe si penserà di essere al servizio dello Stato, ma trova i suoi germi sin dai secoli dell’età moderna. L’amministrazione centrale può farsi sentire a fondo sul territorio solo tramite una diffusione capillare di uffici periferici: questi all’inizio sono pochi, coprono solo alcune materie e devono svolgere la loro opera accanto alla sussistente organizzazione del particolarismo locale, costituito dai feudi, dai Comuni, dalle corporazioni, dalla Chiesa, con facilità di contrasti sul piano operativo, nella sfera della giurisdizione, in materia tributaria, e così via. È infatti spesso proprio nell’incisività dell’azione sul territorio che lo Stato misura la sua capacità assorbente di imporsi sulle altre precedenti forme di aggregazione sociale: solo se – ed ove – lo Stato moderno riesce, tramite i suoi organi periferici, a sovrapporvisi, può dirsi che esso ha superato le anteriori forme di particolarismo locale e di pluralismo di poteri. Si può constatare però che ancor oggi, in certi casi e in certe zone, ciò non è ancora completamente avvenuto … Nella Francia del Cinquecento il re manda suoi funzionari (intendenti) nelle diverse province per amministrare la giustizia e sovrintendere all’ordine

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pubblico ed alle finanze. I risultati non sono inizialmente brillanti, anche per la crisi dinastica dell’epoca; alla lunga, però, essi ed altri inviati statali fanno sentire il peso dell’autorità centrale su feudi e comunità e con la loro presenza tendono a ridurre il particolarismo locale. A loro volta, naturalmente, sono poi soggetti ad un controllo sul loro operato da parte dell’amministrazione centrale, anche sul piano contabile (da parte della Corte dei conti). Al principe compete, sin dal medioevo, la funzione di amministrare la ‘sua’ giustizia. In età moderna egli si concentra su quella ‘alta’ (reati più gravi) e d’appello e revisione, lasciando per lo più ancora quella ‘bassa’ e di primo grado ai giudici locali, feudali o cittadini. In genere non si ingerisce per il momento nelle giustizie ‘speciali’ (per mercanti, studenti universitari, militari, ecc.) e rispetta quella della Chiesa locale (ma può anche in certi casi entrare in contrasto con essa per la giurisdizione). La giustizia statale non è quindi ancora esclusiva. Lo diverrà solo col tempo, in specie con la rivoluzione francese e col sec. XIX. Per l’alta giurisdizione e l’appello sono previsti tribunali statali supremi (Rota, Senato, Cour de parlement, ecc.) composti di giuristi di nomina regia, che – anche a livello d’immagine – ‘rappresentano’ la giustizia del principe. Per questo, come si è detto, le loro decisioni hanno valore di ‘precedente’ per risolvere i casi successivi accaduti nello Stato, ad affermare un’unica ed unitaria giustizia del principe nel territorio. Inoltre, per il loro prestigio interno ed estero queste decisioni sono per lo più diffuse a stampa, in modo da farle conoscere ovunque nell’Europa dello “ius commune”. Tali organi, composti generalmente dai giuristi più affidabili agli occhi del principe perché di sua nomina, costituiscono i suoi principali collaboratori in materia di giustizia, ed anche di redazione delle leggi. In questa veste generalmente svolgono pure l’attività di “interinazione” o registrazione delle leggi (o editti) statali: ogni provvedimento legislativo per divenire efficace dev’essere registrato dalla Corte suprema dello Stato, che lo inserisce all’interno del suo registro o raccolta legislativa, per provvedere poi alla sua applicazione 7. Prima della “interinazione” la Corte, in quanto supremo consesso dei giudici statali, ne valuta la validità ed opportunità in rapporto al diritto esistente e quindi non procede all’interinazione se vi nota qualche vizio: in tal caso rinvia la legge al principe, motivando e illustrando i punti da modificare. Tale attività di collaborazione, al fine di ‘illuminare’ il principe su aspetti della sua legislazione opinabili o incompatibili con l’ordinamento, si trasforma peraltro pure in una specie di controllo della stessa produzione le-

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Di qui può facilmente dedursi la denominazione data a questo procedimento.

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gislativa, svolto dalla Corte nell’interesse – per così dire – dello Stato (potere di rimostranza). Negli usi affermatisi in proposito nei vari Stati in genere si consolida poi un principio secondo cui il principe può insistere per il testo già inviato e la Corte insistere a sua volta nel diniego, ma al terzo invio questa deve cedere ed interinare: il suo intervento a sollecitare un ripensamento finisce con l’esaurirsi di fronte all’insistenza – ed alla prevalenza – dell’autorità sovrana. Si tratta, comunque, di un potere di un certo rilievo, che un organo dello Stato è chiamato a svolgere nell’interesse di quest’ultimo anche nei confronti del principe. Una funzione basilare svolta dal sovrano è quella della difesa: dell’ordine pubblico e della pace sociale all’interno, dei confini e dell’autonomia dall’estero verso l’esterno. Si realizza solo con un valido gruppo d’armati: il principe d’età moderna è ben conscio di doversi dotare di un solido esercito, da lui direttamente dipendente ben oltre l’antica risposta dei vassalli medievali alla chiamata del proprio signore. La diffusione delle armi da fuoco ha rinnovato la conduzione della guerra, condizionata dall’arruolamento di fanterie numerose, oltre che dall’eventuale assoldamento di condottieri e compagnie di ventura. Il principe deve predisporre un piano organico di sviluppo e di mantenimento di un suo esercito, la cui dimensione si è di molto ampliata: solo così può recitare un ruolo nelle guerre del tempo. Viene a costituirsi perciò un esercito stanziale sotto diretto comando del principe, organizzato secondo una rigida gerarchia militare, con un suo ordine, una sua amministrazione (anche logistica), un suo preciso funzionamento. Tra medioevo ed età moderna c’è stato un cambiamento militare considerevole, dirigistico ed accentrato. La progressiva estensione degli organi e dei collaboratori centrali, quella di funzionari periferici, nonché l’impegno militare comportano costi non indifferenti: il quadro di spesa è ben più ampio di quello medievale. Il principe (e lo Stato) in proposito si rivelano sempre assetati di denaro, che solo a fatica si riesce a trovare. L’ordinamento tributario e l’organizzazione fiscale si rinnovano con lentezza, nonostante l’impegno del principe e dei suoi collaboratori: in questa importante materia il retaggio ed il particolarismo medievali si fanno sentire, perché nel complesso si notano più interventi contingenti o straordinari che un vero piano organico. È sempre emergenza, con la necessità di ricorrere a banchieri oppure ad odiosi prestiti forzosi. Solo nel sec. XVIII apparirà una programmazione di una certa organicità del sistema tributario. In precedenza ogni Stato ha provveduto in modo particolaristico e disorganico, qualche volta con incisività, quasi sempre con approssimazione.

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Solo a fatica lo Stato dell’età moderna supera il sistema della contribuzione – più o meno periodica – del “donativo” concesso al principe dall’assemblea dei Tre Stati, che ha rappresentato la fonte basilare d’entrate della monarchia medievale 8. Esso si rivela spesso defatigante e modesto nei risultati, ma è comunque un palliativo, a cui il governo non ha il coraggio di rinunciare. Si tentano, naturalmente, nuove vie. La fonte principale si rivela quella delle imposte indirette, come gabelle (ad es. sul sale) e dazi (ad es. sul vino o sulla seta) applicati anche all’interno dello Stato, ed a cui si possono aggiungere il monopolio statale (ad es. sul tabacco o sul ferro) e le tasse sui servizi (ad es. la carta bollata per gli atti giudiziari o notarili). Tali imposte risultavano più facili da riscuotere, per quanto meno eque di quelle dirette, che in certi casi erano applicate (sul modello dei libri “d’estimo” dei Comuni medievali), ma nel complesso in modo non omogeneo ed equilibrato per la mancanza di mezzi adeguati. In genere, infatti, lo Stato presenta gravi carenze strutturali per la predisposizione dei tributi e soprattutto per la loro esazione: è costretto quindi ad “appaltarne” la riscossione a privati (o a società di mercanti), patteggiandone un’entrata forfettaria e lasciando ad essi l’onere ed il rischio (… ma pure il guadagno della riscossione). Nello stesso momento in cui afferma il proprio potere impositivo (superando il particolarismo e contrattualismo di matrice medievale) lo Stato non è poi in grado di mostrarsi all’altezza di trarne le dovute conseguenze e deve affidarsi a privati, la cui azione in genere si realizza in modo autonomo e poco armonico con l’obiettivo dell’imposizione pubblica 9. Tale situazione non riguarda solo la fiscalità. Essa degenera, con dimensioni anche consistenti, per la necessità di denaro da parte del principe: dietro anticipata riscossione di una determinata somma da un privato, il principe, come può appaltare l’esazione di una gabella in una certa zona, così finisce per nominare una persona ad un determinato ufficio statale (a tempo, a vita, ereditariamente). È la “vendita degli uffici”, in uso nella Francia secen8

Nei domini spagnoli questo sistema è ancora seguito grazie alle entrate della Corona dal Nuovo Mondo; in Francia è abbandonato con la metà del Seicento (l’ultima assemblea è del 1614); anche nell’Italia non spagnola il sistema nel Seicento si perde (e persino nel Napoletano spagnolo). 9 L’appaltatore sopporta l’onere dell’esazione con persone da lui retribuite, ma mette un particolare impegno (sino ad un vero accanimento) nella riscossione, per non perdere il profitto previsto, anche in presenza di gravi calamità sopravvenute: ciò causa, comprensibilmente, un facile astio non solo verso l’esattore ma anche verso l’imposizione e lo Stato. Questo a volte deve assicurare il suo intervento autoritario e sanzionatorio a sostegno della riscossione; a volte è invece l’appaltatore a provvedere con proprio personale specializzato (cioè armato … a detrimento dell’autorità e del prestigio statale).

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tesca, cioè proprio da parte di quella monarchia che si rivela strutturalmente la più avanzata nei meccanismi dello Stato moderno. La “vendita degli uffici” mostra una concezione patrimoniale dell’ufficio, antitetica ad un suo inquadramento nella struttura statale ispirato al buon funzionamento dell’apparato pubblico (a vantaggio cioè dell’“interesse comune”), mentre in questi casi finisce con l’imporsi il tornaconto personale della persona che ha “comprato” la carica (e che – presumibilmente – desidera ‘rientrare’ della somma versata …) 10. Tendenzialmente meno grave, ma comunque discutibile, è stata inoltre la diffusa tendenza a retribuire in parte gli ufficiali pubblici (ad integrazione del limitato stipendio) con una cointeressenza su quanto lo Stato ricavava dalla loro attività. Un esempio è quello del giudice, la cui retribuzione (non elevata) era accresciuta dalle “sportule”, cioè dal versamento di una percentuale sul valore o l’importanza della controversia effettuato dalle parti in causa. Da un lato ciò poteva stimolare l’attività del funzionario, da un altro però poteva lasciare dei dubbi che il suo attivismo fosse fin troppo interessato alla riscossione della “sportula”, e che finisse con l’esserne avvantaggiata la parte destinata (o disponibile) ad un maggior versamento. Le spese dell’amministrazione pubblica in tali casi potevano essere contenute, ma le cointeressenze delle persone chiamate a farla funzionare potevano lasciare almeno un velo di perplessità (e anche di più) sulla bontà del suo funzionamento. Erano presenti senza dubbio zone d’ombra, vischiosità ed imperfezioni in ogni Stato, che si avviava in concreto verso quelle caratteristiche che fanno parlare di “Stato moderno”. Nello stesso tempo sussistevano non pochi aspetti di quel particolarismo e pluralismo medievale, che conservava nello Stato “privilegi” e diversità locali (come quelle fra una città e l’altra), di ceto (ad esempio, fra nobili e borghesi, fra ecclesiastici e laici, fra corporazioni mercantili), di gruppi sociali (come fra sudditi cittadini e contadini), con differenze sensibili nella giurisdizione, nei tributi, nello stesso rispetto dell’ordine pubblico. Tali sopravvivenze minavano o riducevano l’effettiva incidenza della sovranità del principe e quindi dello Stato, da un lato su tutto il popolo (dei sudditi), dall’altro su tutto il territorio. Ciò non impedisce però di prendere atto di questo processo, che, per quanto lungo e faticoso, pur con pause e regressi, vede via via dilatarsi il controllo e la sovranità del principe 10

Si trattava di uffici anche rilevanti nell’apparato pubblico, comportanti responsabilità e spesso riscossione di denaro dai sudditi (… comprensibile quindi l’appetibilità). Tra questi, nel campo del diritto, si possono ricordare la vendita delle “piazze” di notaio e di giudice (per le quali però l’acquirente doveva avere i requisiti professionali richiesti, oppure delegare l’esercizio a persona che li possedesse).

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sui sudditi e sul territorio, con la riduzione del peso dei corpi intermedi, ed affermarsi col tempo di conseguenza il cosiddetto Stato moderno.

3. Le grandi monarchie europee nella prima età moderna In età moderna vicende storiche fra loro diverse fanno emergere in Europa – come si è detto – tre monarchie, superiori alle altre per forza militare, estensione territoriale, prospettive future. Sono i regni di Spagna, Francia, Inghilterra. In area tedesca l’Impero si trova frenato dalle sue divisioni interne dovute anche ai conflitti religiosi, mentre la parcellizzazione della nostra penisola in numerosi staterelli ne determina la caduta sotto l’influenza di altre potenze, con la sola eccezione della repubblica di Venezia, peraltro in regresso di fronte all’espansione turca. Sul piano istituzionale queste tre grandi monarchie offrono differenze interessanti nella loro organizzazione interna. Inoltre, esse rappresentano un elemento di definitiva rottura nei confronti del sistema politico medievale “universale” e nel diritto pubblico europeo del tempo vengono a porsi come vere – e nuove – entità statali.

3.1. Regno di Spagna Alla fine del sec. XV il completamento della “reconquista” cattolica della penisola iberica 11 e l’unione dei regni di Castiglia e d’Aragona 12 portano ad un unico regno di Spagna. Ne è titolare dal 1516 Carlo V d’Asburgo, che pochi anni dopo diviene pure imperatore del S.R.I. 13. L’unione personale in Carlo V della corona di Spagna e del titolo imperiale ha portato ad un’impostazione piuttosto tradizionalista anche in quel 11

Con il 1496 cade Granada, ultima terra araba in Spagna. Il matrimonio (1469) fra Isabella (erede del trono di Castiglia) e Ferdinando (erede del trono d’Aragona) porta ciascuno di essi a regnare sulle terre del proprio casato: dal 1479 la Spagna è di fatto unificata sotto questa coppia reale. La loro unica figlia Giovanna (“la pazza”) sposa Filippo d’Asburgo figlio dell’imperatore Massimiliano: il loro figlio Carlo diventa re di Spagna (1516) e imperatore (1519; incoronazione, 1520). 13 Carlo V d’Asburgo è nipote di Ferdinando il Cattolico ed eredita nel 1516 dal nonno materno il regno di Spagna; eredita pure dal nonno paterno, Massimiliano d’Asburgo, il titolo imperiale: in tal modo gli Asburgo assurgono al trono spagnolo e nello stesso tempo all’Impero. 12

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regno di Spagna, che era sulla cresta dell’onda in quanto beneficiario dei tesori acquisiti nelle Americhe. Carlo, educato secondo prospettive culturali borgognone e gotico-internazionali, non si è rivelato molto sensibile al nuovo messaggio rinascimentale-umanistico, a differenza del suo antagonista Francesco I di Francia: ha preferito perciò una prospettiva tradizionale, di reviviscenza dell’Impero come del feudo, quindi con un impianto anche in campo pubblicistico legato alla fedeltà ed al vincolo personale più che all’organizzazione burocratico-funzionale degli uffici secondo una prospettiva statale innovativa. Si può capire che l’imperatore (specie in Germania ed in Italia) aspirasse a far rivivere certi aspetti della tradizione feudale; ma in un regno nel complesso nuovo ed in ascesa grazie alle conquiste transoceaniche, come quello spagnolo, le soluzioni avrebbero potuto essere anche diverse. Esse invece si mossero secondo la stessa ottica, usata inoltre pure per il “Nuovo Mondo”. Nelle Americhe la distanza, le difficoltà di controllo e la necessità di affidarsi per la conquista e l’espansione all’intraprendenza – sin troppo ‘interessata’ – di alcuni personaggi ‘d’avventura’ (come Cortes o Pizarro) portò al sistema delle investiture e delle “encomiendas”, che assoggettava in modo pseudoservile gli indigeni al signore investito, senza preoccuparsi di proteggere non solo le popolazioni locali ma nemmeno i diritti della Corona, deboli rispetto ai ‘conquistatori’ dei diversi territori. Prospettive tradizionali si notano pure in Spagna. Il nuovo regno non decolla come avrebbe potuto, nel complesso limitato dalla prosecuzione del particolarismo dei precedenti regni di Castiglia e d’Aragona, che la fondazione e l’organizzazione di una nuova capitale (Madrid) non riescono a superare. La stessa istituzione di alcuni Consigli regi di competenza centrale non è sufficiente a far prendere decisioni omogenee e dirette per tutto il regno. Ad esso si aggiungono, inoltre, le terre africane, quelle dei Paesi Bassi e quelle italiane (Sicilia, Napoletano, Sardegna, Lombardia) anch’esse frutto di un’unione personale nella figura del re di Spagna e quindi con propri ordinamenti locali e particolari. Nel regno di Spagna, pertanto, persiste l’impostazione di tradizione feudale, con pochi organi centrali, una pressoché inesistente amministrazione periferica (sostituita dal feudo), delle assemblee dei tre Stati dei diversi territori, una ridotta incidenza del re sul territorio anche dal punto di vista legislativo e giudiziario. L’unica novità di rilievo è quella di un unitario Consiglio di Stato, a cui però si aggiungono nella capitale altri Consigli settoriali (come il Consiglio degli Ordini) o territoriali (come il Consiglio d’Italia, quello delle Indie, ecc.), i quali per le loro competenze particolari nel complesso sminuiscono il peso unitario del Consiglio di Stato. Il regno di Spagna del Cinquecento è quello nel quale “non tramonta mai

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il sole”, capace di imporre i suoi disegni egemonici in Europa. Dal punto di vista istituzionale risulta però legato alla tradizionale impostazione contrattualistica medievale, che trova nella figura del re il punto d’incontro personale delle diverse terre (Castiglia, Aragona, Paesi Bassi, Sardegna, Sicilia, Napoletano, Lombardia, ecc.), ciascuna con la propria disciplina ed organizzazione particolare (Cortes o Tre Stati, leggi territoriali, privilegi cittadini, feudi, ecc.): non può non esserci un minimo di funzionari centrali (come nei Consigli, ad esempio), ma è proprio il minimo; anche la legislazione è indirizzata specificamente ai singoli territori piuttosto che all’unitarietà di tutti i domìni. Non si può dire che non esista un potere statale (con unione personale nel re dei diversi territori), ma nel complesso ancora un po’ ispirato alla continuità medievale e meno alle innovazioni dell’età moderna. Con la morte di Carlo V, quale re di Spagna (con i possedimenti coloniali, italiani e dei Paesi Bassi) gli subentra il figlio Filippo II, mentre i territori tedeschi ed in specie austriaci (col titolo di imperatore del S.R.I.) passano al Casato degli Asburgo. Il regno di Spagna si presenta ormai come un vero Stato anche nei confronti del S.R.I., ma al suo interno non persegue una politica di accentramento o unificazione dei propri domini: è la più potente monarchia del tempo, che trova l’unificazione nella sola persona del re, rappresentato per la più da viceré o governatori nei diversi territori riuniti nel regno, ciascuno con la propria tradizionale autonomia (ad es. per normativa, franchigie, parlamenti, nobiltà), controllati dalla capitale grazie ad appositi Consigli e da un’amministrazione centrale poco numerosa e poco invasiva. Il regno di Spagna, quindi, appare ancora nel sec. XVII come lo Stato meno influenzato dalle tendenze modernalizzanti, tipiche invece della monarchia francese.

3.2. S.R.I. Nell’ambito della tradizione medievale, l’imperatore del S.R.I. figura ancora come un “superior” per dirimere alcune controversie (specie successorie o di precedenze formali), ma ha un ruolo soprattutto rappresentativo. Un elemento di unitarietà è stata la creazione dal 1495 del Supremo Tribunale Camerale dell’Impero, composto di otto giudici con specifica conoscenza dello “ius commune”, secondo cui avrebbero giudicato, portando alla recezione ufficiale di quest’ultimo in area tedesca 14. 14 Pur restando localmente in vigore i diversi diritti territoriali e cetuali, i vari prìncipi – pur autonomi – furono infatti indotti a giovarsi di giuristi dello “ius commune”, che

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L’attribuzione del titolo imperiale alla Casa d’Asburgo dalla metà del sec. XVI vede quest’ultima comportarsi nella sostanza più come monarchia del suo specifico Stato che come titolare del S.R.I., in armonia con la tendenza tedesca. Si constata inoltre che in Germania il processo “statale” avviene a favore dei vari prìncipi locali ed a danno dell’imperatore: la tendenza di sviluppo verso lo Stato moderno rivela quindi un andamento opposto rispetto a quello esistente in Francia. L’Impero è comunque l’elemento di coesione formale di tutto il territorio germanico: un recente filone storiografico tedesco tende quasi ad assimilarne alcuni aspetti all’attuale Unione Europea sovrastatuale.

3.3. Regno di Francia Il regno di Francia è quello nel quale si percepisce meglio, sin dalla seconda metà del Quattrocento, il percorso che porta alla formazione dello Stato secondo l’accezione moderna. Non vi scompaiono i feudi ed i privilegi cittadini o cetuali, ma questi vengono progressivamente ridotti o incanalati in modo da far primeggiare su essi la ‘sovranità’ del re: lo attestano non solo la legislazione generale e la creazione ed il funzionamento degli organi centrali ma anche l’esistenza di funzionari regi periferici a limitazione e controllo delle autonomie locali. Si notano anche pause e temporanei regressi 15, ma nel suo complesso la situazione del regno mostra uno sviluppo che porta il re di Francia da “souzerain” (= signore feudale superiore agli altri signori) a vero “souverain” (= sovrano su tutti i sudditi, signori e non). La sovranità si realizza per tappe successive, senza dubbio non ispirate da un progetto generale (che manca), ma dovuto ad una serie di avvenimenti, maturati via via in modo fors’anche un po’ casuale, in conseguenza dei quali si può constatare – sul piano storico – che la generale aspirazione (questa, sì, costante) dei diversi re ad affermare il loro potere ha portato in definitiva a questo risultato. Almeno dal sec. XIV il re di Francia ha messo fra sé e l’imperatore un preciso muro ideale (“rex in regno suo est imperator”), che esclude interferenze di quest’ultimo, ed anche solo segni di formale superiorità: il regno di Francia non ha nessun legame con l’Impero, c’è parità. Col sec. XV il re di portarono un bagaglio di conoscenze, che arricchirono culturalmente i territori tedeschi e vi fecero sorgere diverse Università per apprendere proprio questo diritto ‘dotto’. 15 Regressi si notano, ad esempio, nel periodo dei contrasti per la questione religiosa (seconda metà del Cinquecento), altri per la venalità delle cariche (in specie nel Seicento).

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Francia, profittando delle dichiarazioni del concilio di Basilea 16, afferma il suo potere di tutore delle “libertà gallicane” rispetto alla Chiesa di Roma e riesce a presentarsi quale protettore della “Chiesa francese”, inserendosi fra questa e la Santa Sede 17. In tal modo il regno è preservato da ingerenze sia imperiali che pontificie, e verso l’esterno può affermare la sua piena sovranità. Verso l’interno la situazione era più difficile da padroneggiare: i passi per la costruzione di una moderna monarchia nazionale furono quindi più d’uno, tenendo anche conto che la Francia era stata particolarmente segnata dalla ‘guerra dei cent’anni’ con gli Inglesi (1339-1436), guerra che a suo tempo ne aveva messo a dura prova la stessa sopravvivenza come regno nazionale. Nella seconda metà del Quattrocento il regno si era ormai pienamente ripreso ed era pronto – a fine secolo – per le ‘guerre d’Italia’ ed il più che cinquantennale scontro europeo con gli Asburgo e la Spagna (14941559), caratterizzato soprattutto dalla rivalità personale tra Francesco I (re: 1515-1547) e Carlo V (re: 1516-1556). Esso si era dotato di una diretta forza militare, senza dover necessariamente dipendere da truppe feudali, e poteva competere autonomamente in Europa: le grandi monarchie quattrocinquecentesche si affermano infatti in primo luogo in questo campo e si dotano di un apparato bellico, che sta alla base della loro espansione. I regni di Francia, Spagna, Inghilterra non hanno solo una dimensione territoriale più ampia in Europa: hanno una potenza militare, che altri non possiedono. Per questo vengono a confrontarsi anche fuori dei loro stretti confini (in Italia, ma pure nelle Americhe e sui mari), facendo un salto qualitativo, che nel complesso sul piano bellico gli staterelli italiani (Venezia compresa) e l’Impero non riescono a parificare e contrastare. In Francia l’accentramento regio si nota sia nella capitale (Parigi) che in periferia. Sin dal sec. XIV era stata costituita a Parigi una Corte dei conti, che aveva il compito di controllare la contabilità di chi agiva non solo nella capitale ma anche in provincia per conto del re; tale impostazione è stata potenziata nel sec. XV. Esistevano infatti dei funzionari regi che – accanto ai signori feudali – nelle diverse terre francesi dovevano garantire l’ordine

16 Il concilio di Basilea (1431-49) aveva riaffermato il principio della superiorità del concilio (ecumenico) sul papa, già sostenuto nel precedente concilio di Costanza (141418): nel 1438 il re di Francia Carlo VII ne recepì il messaggio sulla superiorità conciliare e stabilì (“pragmatica sanctio” di Bourges) la necessità di consenso regio per la nomina dei vescovi e la difesa delle “libertà” della Chiesa di Francia (“libertà gallicane”) rispetto alla Chiesa di Roma. 17 Con il concordato del 1516 (fra re e papa) il re di Francia otteneva un suo ruolo quale tutore della “Chiesa di Francia” e delle “libertà gallicane”.

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pubblico e militare (governatori), il controllo dei privilegi locali e delle contribuzioni a favore del re (balivi e senescalchi); nel Cinquecento nelle diverse province sono stati aggiunti ad essi gli intendenti (specie per la parte tributaria). Inoltre, a seconda delle necessità e delle situazioni, il re poteva inviare dei suoi commissari straordinari e temporanei a sovrintendere alle contingenti esigenze di certe zone. Non si trattava di un piano organico e preordinato, ma di una linea di tendenza tesa a far sentire via via – quando se ne presentava l’occasione – la presenza dell’autorità regia nelle diverse terre francesi in vario modo passate nel tempo sotto la sua soggezione. Non si può pensare che esista nel Cinquecento una burocrazia secondo la nostra attuale concezione. Accanto al re si trova però una schiera di funzionari, con compiti abbastanza precisi, che permettono perciò di intravvedere competenze di organi ed uffici, legati quindi non solo alla fiducia personale ed al rapporto individuale col sovrano. Il più importante fra essi 18 è il Cancelliere, guarda-sigilli della Corona, esperto di questioni giuridiche e responsabile verso il re del buon funzionamento della ‘sua’ giustizia: la figura e le competenze del Cancelliere si stanno evolvendo dalla concezione personale medievale verso quella ministeriale d’età moderna. Organo supremo della giustizia regia inoltre è il Parlamento (Cour de Parlement) con sede a Parigi, con competenza territoriale unitaria per tutto lo Stato, corte giudicante suprema composta di giuristi di nomina regia. L’ampiezza del regno porta però ad affiancare al Parlamento parigino altri Parlamenti provinciali (Cour de Parlement di Tolosa, 1420; del Delfinato, 1455; di Bordeaux, 1462; ecc.), composti anch’essi di giudici nominati dal re, competenti per la ‘sua’ suprema giustizia nelle distanti zone dello Stato al posto di quello parigino, considerato peraltro quello più importante, organo centrale della giustizia regia 19. Il re è il centro-motore dello Stato: viene assistito – con funzione consultiva – da un Consiglio regio, che dalle caratteristiche medievali (itinerante col re, fluttuante nei membri, con sedute e compiti variabili) viene prenden18

Grandi ufficiali erano pure, fra gli altri, il Connestabile (comandante supremo dell’esercito), l’Ammiraglio (a capo della marina), il Gran Maestro della Casa Reale. Solo col tempo le cariche furono fisse e abbastanza delineate nelle competenze. 19 Non si devono assolutamente confondere questi “Parlamenti” (ciascuno dei quali detto “Cour de parlement”, corte parlamentare) con i “parlamenti” o assemblee dei Tre Stati: si tratta di due organi del tutto diversi, purtroppo con denominazione simile. La “Cour de parlement” è suprema Corte di giustizia, organo giudiziario composto di giuristi di nomina regia, con attività permanente nel tempo. La “assemblea dei Tre Stati” riunisce, su convocazione regia temporanea (a volte con cadenza regolare nel tempo), i tre “ordini” (nobili, ecclesiastici, rappresentanti cittadini) che sul piano politico (e tributario) rappresentano i sudditi verso il re.

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do col tempo struttura, competenze e sede maggiormente fisse, delineandosi quindi come un organo stabile e continuativo. Esso, inoltre, viene suddividendosi in Sezioni specializzate in materie specifiche (questioni di governo, di finanze, di giustizia, ecclesiastiche, ecc.), che indicano l’esistenza di un organo ormai complesso, parte integrante dell’amministrazione centrale. Funzione consultiva svolgono pure i “Tre Stati” (di ecclesiastici, nobili, rappresentanti delle città demaniali), di origine ed impostazione medievali, che tocca al re convocare e far discutere secondo un certo ordine del giorno, per far votare poi ciascuno separato dall’altro. Le assemblee degli “Stati generali” non scompaiono nel sec. XVI, ed anzi in questo periodo si consolida l’idea che essi incarnino l’espressione dell’opinione generale dei sudditi; la Corona mostra però di preferire ad essi altre congregazioni, di nomina regia. Ciò lascia intendere un certo disagio della monarchia a convocare i “Tre Stati”, che infatti non sono riuniti con frequenza, sino a scomparire dopo il 1614, superati da consultazioni di organi o persone di più stretta fiducia regia, in una prospettiva di allontanamento dalla tradizione cetuale medievale. L’attività in cui spicca la novità della monarchia francese è quella della legislazione: si passa dal re-giudice d’impostazione medievale al re-legislatore d’età moderna. La Corona francese si segnala infatti nel sec. XVI per le “ordonnances” emanate con validità generale (di Lione del 1510, di VillersCotterêts del 1539, ecc.) per innovare nella disciplina del regno: la novità incisiva del potere legislativo regio colpisce in modo particolare la riflessione di Jean Bodin, che – come si è detto – tende a vedere in esso l’essenza della potestà sovrana, cioè del nuovo Stato che avanza nella società europea di fine Cinquecento. Numerosi giuristi francesi, di tendenza umanistica, non criticano solo la tradizione del diritto comune: aspirano ad innovare in essa tramite l’intervento diretto del re-legislatore. È proprio dalla metà del Cinquecento che cominciano a levarsi voci, fra i giuristi francesi, per chiedere una nuova raccolta di “leggi” in sostituzione della disciplina del diritto comune, con la fiducia che il re (quello di Francia) saprà rispondervi adeguatamente: l’ambiente dei giuristi “culti” accetta di buon grado la nuova figura del relegislatore 20. Se la Corona non giunge però ancora a dotare la Francia di quella raccolta legislativa di “diritto nazionale” auspicata da alcuni giuristi culti, innova peraltro su due punti non insignificanti in materia. In primo luogo, con l’“ordonnance” di Villers-Cotterêts (1539) segue il principio ‘nazionale’ stabilendo che d’ora in poi gli atti giuridici abbandoneranno il latino e saranno 20

Su tali giuristi, cfr. il capitolo precedente.

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redatti in francese: è il distacco dalla tradizione internazionale medievale della lingua latina. In secondo luogo la Corona (in aderenza con l’“ordonnance” quattrocentesca di Montils-les-Tours) avvia la redazione per iscritto delle “coutumes” (cioè delle consuetudini) delle diverse regioni francesi: la legislazione regia, in definitiva, viene ad interferire anche sulla configurazione dell’altra fonte del diritto – per adesione popolare –, la consuetudine. Il complesso procedimento di consolidazione scritta delle “coutumes” delle varie zone francesi, avviato, coordinato e controllato dalla Corona, è durato più di un secolo, con effetti di rilievo. Senza dubbio in questo procedimento il peso del controllo (ed a volte pure impulso) regio si è fatto sentire accanto all’opera dei redattori locali: il potere legislativo statale, anche nella raccolta delle “coutumes”, non è stato inerte o neutro. Una volta messe per iscritto, le “coutumes” sono state più chiare, accertate e precise, in specie per i funzionari statali chiamati ad applicarle. Inoltre da tale momento in poi la loro interpretazione è stata effettuata coi metodi usuali dei giuristi, più vicini alla tradizione giuridica (ed anche alla legislazione) che alle “coutumes”. In più, una volta consolidato, il diritto consuetudinario è stato – per così dire – congelato e fissato nel tempo: non è stato quindi facilitato ad aggiornarsi, mentre la legislazione regia continuava invece nelle sue innovazioni. Il meccanismo della redazione in iscritto delle “coutumes” (e della conseguente loro edizione) si è quindi rivelato un elemento di chiarezza per il diritto locale, ma anche – in definitiva – di espansione della legislazione regia. La monarchia anche qui ha fatto sentire il suo peso sulle autonomie e sul particolarismo locale (con un risultato finale in contrasto con le premesse ed aspettative iniziali delle singole zone). Dopo la crisi delle guerre di religione (1562-98), il regno di Francia trova una certa tranquillità con l’editto di tolleranza verso gli Ugonotti (Nantes, 1598) e si avvia col sec. XVII verso l’assolutismo (Luigi XIII, 1610-43; Luigi XIV, “il re Sole”, 1643-1715). È noto il detto attribuito al “re Sole” (la cui splendente luce – sovrana – illumina l’ambiente e le persone): “Lo Stato sono io”. La Corona si procura con imposte (dirette ed indirette) e con interventi specifici in campo economico (come le manifatture) entrate proprie 21, con cui far fronte alle ingenti spese, militari ed amministrative: di conseguenza, non convoca più le fastidiose 22 assemblee generali dei Tre Stati per 21

Fra queste, c’è anche la vendita degli uffici, che non depone certo a favore di un concetto moderno di sovranità dello Stato, ma avviene per impellenti necessità di bilancio. Si calcola che Luigi XIV abbia provveduto alla “vendita” di 40.000 uffici … le casse regie lo richiedevano! 22 Durante le assemblee i rappresentanti dei Tre Stati resistevano sempre troppo

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avere sussidi straordinari. Proprio la loro mancata convocazione dopo il 1614 attesta la tendenza assolutistica in atto 23. Il re è al centro dell’ordinamento: al suo fianco c’è da secoli il “Consiglio regio”, ma vengono a svolgere una più attiva opera con lui i suoi ministri (il Cancelliere, 4 Segretari di Stato, il Controllore generale delle finanze), coi quali prende le decisioni principali, e sotto i quali ci sono gli ufficiali centrali gerarchicamente subordinati. Tra i ministri, uno può prendere una prevalenza specifica (Sully, Richelieu, Mazzarino …), ma di fatto (non di diritto). Il re ha i suoi specifici rappresentanti in ogni provincia del regno 24: sono gli intendenti, “di giustizia, polizia e finanze”, ai quali è affidata nella zona di competenza “l’esecuzione degli ordini del re” 25. A seconda della circoscrizione, mutano un po’ le funzioni degli intendenti, ma ad essi è demandata la rappresentanza del re – e dello Stato – nella provincia: circa la giustizia, esercitano quella amministrativa e controllano l’attività giurisdizionale nella circoscrizione; quanto alla polizia, sovrintendono all’ordine pubblico, vegliano sull’attività (ed il bilancio) di tutte le comunità, vigilano sui beni demaniali, sui lavori pubblici e sull’attività economica della provincia; quanto poi alle finanze, sono i responsabili delle entrate ed uscite regie nella zona. In generale, inoltre, devono essere pronti ad eseguire qualunque ordine del re. Tramite gli intendenti l’autorità – di più, il potere – del principe si fa sentire in modo diretto e capillare in ogni provincia: la sovranità dello Stato penetra in profondità in tutto il territorio 26, dato che feudali, comunità ed altri corpi intermedi sentono accanto – e sopra – “l’occhio e l’orecchio” dell’intendente che vigila su di loro e sovrintende alla vita provinciale. sull’entità del donativo, lamentavano tutte le disfunzioni dell’amministrazione regia, richiedevano cambiamenti e privilegi, che il governo del re non voleva concedere: in definitiva, queste assemblee si rivelavano fastidiose ed ingombranti per la politica – assolutista – del re. 23 Dopo l’assemblea del 1614, avvenuta durante la minorità di Luigi XIII, si avrà solo la convocazione del 1788, prodromo della “rivoluzione” del 1789: gli “Stati generali” sono stati convocati solo in momenti di crisi, perché se la Corona poteva farne a meno, non vi provvedeva. 24 La circoscrizione provinciale era detta “generalità”: essa era nata dal punto di vista finanziario, poi è stata utilizzata anche con altri obiettivi. 25 La generalizzazione dell’ufficio, già esistente, è stata effettuata da Richelieu: nel sec. XVIII gli intendenti sono poco più di una trentina (pare 33). 26 In alcune regioni (Borgogna, Bretagna, ecc.) si erano conservate delle riunioni particolari dei Tre Stati locali: con essi dovevano fare ancora un po’ i conti gli intendenti della zona, specie per quanto riguardava giustizia e finanze, ma si trattava di situazioni specifiche.

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Il re si arroga un potere legislativo, che tende ad aumentare senza limiti, se non per le fumose “leggi fondamentali” che reggono la Corona 27: in specie, emana anche “Ordonnances” di carattere generale. Esse infatti, pur rifacendosi a regole in buona parte già esistenti, danno una disciplina organica, dettagliata, innovativa e chiara ad interi settori del diritto: si tratta di quelle di Luigi XIV sul processo civile (1667) e criminale (1670), sul commercio (1673) e la marina (1681), sulle colonie (“code noir”, 1685), ed in seguito di quelle di Luigi XV sulle donazioni (1731), sui testamenti (1735) e le sostituzioni (1747). È un modo senza dubbio nuovo del sovrano di presentarsi quale fonte delle stesse regole generali della vita associata, non solo a garanzia dell’“ordine” (cioè nel campo del diritto pubblico, penale o processuale), ma anche dello stesso diritto privato (come avviene con le “ordonnances” settecentesche), sino ad allora lasciato alle “coutumes” o ai princìpi del diritto comune. La legislazione del sovrano può ormai disciplinare ogni aspetto: il volere del principe si può imporre su ogni materia senza che i sudditi possano contrapporre alcun proprio diritto.

“Ordonnance” sul processo civile del re di Francia Luigi XIV (1667) Sin dal sec. XVI i re di Francia hanno emanato con una certa regolarità leggi generali per il loro regno, dette “ordonnances”. Luigi XIV ne ha accentuato il valore organico per la disciplina di alcuni settori nella seconda metà del sec. XVII. Una delle più famose è la “Ordonnance civile”, con cui nel 1667 il re volle dettare una normativa precisa e generale per lo svolgimento del processo civile, in precedenza lasciata alla dottrina ed alla prassi dei singoli organi giudicanti: in tal modo l’uniformità della legge regia veniva a sostituirsi alle regole del diritto comune ed ai particolari usi locali. C’era però il rischio che i tribunali ed i giudici si scostassero dalla disciplina regia e tramite una loro specifica “interpretazione” giungessero a farle dire cose diverse: il sovrano (... come a suo tempo Giustiniano ...) vietò qualunque “interpretazione” del testo e pretese che nel caso di dubbi ci si rivolgesse direttamente al re per avere le precisazioni necessarie. In tal modo esisteva la sola autorità normativa regia, scompa-

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Già Bodin richiamava le consuetudinarie “lois fondamentales” della Corona quale limite al potere legislativo del re, peraltro con una certa nebulosità. Si può pensare ai princìpi di successione al trono, all’indisponibilità della Corona, alla cattolicità del regno ma nello stesso tempo all’indipendenza dal Papato, alla difesa della Francia dall’asservimento all’estero. Tali princìpi, sbandierati dai fautori dell’assolutismo come limiti al potere del re, in effetti consentivano a quest’ultimo margini enormi nella legislazione ed erano troppo generici perché si possa veramente parlare di un complesso di regole consuetudinarie che reggevano in modo costituzionale il trono di Francia.

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riva l’attività della dottrina e della giurisprudenza: c’era solo l’autorità legislativa sovrana. È la posizione che alla fine del sec. XVIII sarà ancor più nettamente affermata, in specie col sistema del “référé législatif” imposto dalla legislazione rivoluzionaria francese nel 1790: l’unica interpretazione possibile è quella “autentica”, dello stesso legislatore.

L’“ordonnance”, nei suoi primi articoli, di contenuto generale, precisa in modo tassativo (art. 7) che, se nel corso dei processi davanti ad una Corte di giustizia sopravviene qualche dubbio sull’applicazione o sul testo di qualche norma regia (quindi, non solo dell’“ordonnance” in questione), è vietata ogni interpretazione dottrinaria, ma dovrà essere interpellato il re, per conoscerne l’interpretazione. Di conseguenza (art. 8) saranno nulle le sentenze emanate contrariamente a tale precetto ed i giudici che le avranno emanate saranno considerati responsabili dei danni causati. L’intervento legislativo regio è senza dubbio pesante; può aver causato un certo sconcerto iniziale, in specie nei giudici supremi delle “Cour de parlement” francesi, ma nel complesso la sua eccessiva severità non ha portato a particolari conseguenze, la disposizione essendo stata per lo più ben presto disattesa.

Anche nel campo della giustizia il sovrano ha un potere pressoché assoluto, ma a volte la resistenza delle supreme Corti giudicanti (Cour de Parlement centrale di Parigi, ma pure qualche altra provinciale) ne impedisce o rallenta le decisioni: sembra, in definitiva, questo l’unico freno alla sua volontà, favorito dalla venalità delle cariche, che consente all’acquirente di non temere la perdita del posto comperato. L’affermazione della sovranità dello

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Stato – e del principe – si presenta nella Francia dei secc. XVII-XVIII in modo così pieno e marcato, che in Europa è questa la situazione nota e presentata come tipica. Non solo, ma proprio la politica estera francese di questi secoli ne mostra una tendenza espansiva che mina la sovranità altrui. Non si tratta solo di applicazione dell’economia mercantilistica, ma della concezione ‘patrimoniale’ del regno da parte della dinastia al potere, che in Europa porta alle “guerre di successione” e che si rivela in contrasto concettuale con lo stesso principio di “sovranità” dello Stato, in Europa ed altrove.

3.4. Olanda La situazione olandese merita un rapido cenno non solo per il notevole livello economico raggiunto tra i secc. XVI-XVII, ma in particolare per la costanza con cui ha perseguito la propria sovranità, ispirata soprattutto dall’aspirazione alla libertà religiosa. I Paesi Bassi (Belgio ed Olanda) appartenevano al ramo spagnolo degli Asburgo: mentre in Belgio la grande maggioranza della popolazione era cattolica, in Olanda questa era calvinista (ed anzi qui si erano rifugiati numerosi Calvinisti altrove perseguitati). Sin dalla metà del Cinquecento i Calvinisti olandesi hanno rivendicato – senza successo verso la Spagna – ampia autonomia politica e libertà religiosa. Questa caparbia aspirazione è riuscita a realizzarsi appieno solo nel 1648, con il riconoscimento ufficiale della repubblica olandese, da ricordare per due motivi. In primo luogo, di fronte a tutta una serie di regni, qui c’è una nuova repubblica (per quanto guidata da alcuni notabili). Proprio con la pace di Westfalia (1648) si staccano ufficialmente dall’Impero due repubbliche: con questa olandese, c’è quella (federale) svizzera. In secondo luogo, in Olanda viene formalmente riconosciuta una certa libertà religiosa, e non solo la tolleranza (come proprio con la pace di Westfalia è riconosciuto altrove): libertà è ben più di tolleranza, anche se la libertà religiosa è in concreto piuttosto disattesa, ma è comunque il punto di partenza per il riconoscimento di diritti innati nell’uomo.

3.5. Regno d’Inghilterra In Inghilterra la posizione del re nella prima età moderna non è riuscita ad andare oltre quella di tradizione medievale, se non per la sua assunzione al vertice della Chiesa anglicana (1531). La nobiltà e l’assemblea parlamentare condizionano infatti il re, la cui figura – certamente non agevolata dalle crisi e lotte dinastiche del sec. XV – solo all’inizio del Cinquecento vede sta-

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gliarsi il lungo regno di Enrico VIII (1509-1547) a dare stabilità alla Corona. Questo re, infatti, da iniziale oppositore della “riforma” passa in seguito a sostenerla ed a realizzare l’autonomia della Chiesa anglicana dall’autorità pontificia e – pur essendo un laico – diviene capo supremo della Chiesa e del clero inglesi, in tal modo unendo potere temporale e spirituale. Tale posizione resta nei secoli a vantaggio della Corona e rafforza senza dubbio il potere della monarchia, finendo così con l’inserire la Chiesa sotto quest’ultima. L’intervento della monarchia nella questione religiosa ne aumenta il potere, anche per la notevole entità del patrimonio ecclesiastico acquisito; viene inoltre a porla pure come parte (e non come arbitro) nelle controversie che nei secc. XVI-XVII travagliano non solo la Gran Bretagna ma tutta l’Europa in materia religiosa: se da un lato la Corona inglese tende a cementare lo Stato sulla base di una fede comune del ‘suo popolo’, dall’altro viene a subirne i contraccolpi, che portano verso la metà del sec. XVI all’adozione di una confessione religiosa particolare nel filone dei culti “riformati”, con un’ulteriore crisi dinastica. In definitiva, però, la religione anglicana “riformata” si rivela l’elemento di coesione nazionale: la Corona se ne giova, per lo stesso ruolo che ha il re quale capo della Chiesa anglicana 28. Nei secc. XVII-XVIII, tanto la Francia può essere l’emblema dello Stato – e del regno – assoluto, tanto l’Inghilterra può esserlo di quello limitato (dal parlamento). In Inghilterra ciò è avvenuto in conseguenza di gravi sconvolgimenti politici, e con la destituzione – in due momenti diversi – di due re (uno dei quali, Carlo I, condannato ed ucciso nel 1649). In Inghilterra, inoltre, sono avvenuti alcuni importanti riconoscimenti legislativi di diritti in capo ai sudditi (a differenza, naturalmente, di quanto avveniva in Francia). Le vicende cinquecentesche avevano portato il re a capo della Chiesa d’Inghilterra; esse nello stesso tempo non avevano però depresso troppo (come avverrà poco dopo in Francia) il potere del parlamento di tradizione medievale, che era riuscito ad ottenere di partecipare col re alla legislazione. Di fronte a tendenze assolutiste del re, il Parlamento nel 1628 riuscì a far affermare per legge alcuni diritti soggettivi nella “Petition of Rights”: la Corona non poteva imporre nessuna tassa senza consenso parlamentare; nessuno poteva essere arbitrariamente incarcerato né punito senza un processo “opportuno”. Ciò non impedì però una politica intollerante del re, capo della Chiesa anglicana, verso Cattolici e Puritani 29. A metà Seicento le tendenze 28

Ciò causa, peraltro, ulteriori gravi crisi nel sec. XVII, perché la monarchia è coinvolta sempre immediatamente nei contrasti religiosi e perché ogni scelta regia in materia diviene subito un problema di Stato. 29 Si trattava, in pratica, di Calvinisti, non allineati con le posizioni della Chiesa angli-

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assolutiste del re si scontrarono con la resistenza parlamentare (nobiliare e cittadina) e portarono alla guerra civile (1642-48), alla sconfitta regia, al processo nei confronti del re 30 ed alla sua decapitazione (1649) 31, nonché alla successiva proclamazione della repubblica (1649-60) sotto la protezione dittatoriale 32 di Cromwell, con una costituzione scritta (rimasta peraltro sulla carta). Morto Cromwell (1658), il Parlamento – autoconvocatosi – decise (1660) per il ripristino della monarchia, ma richiese che il re fosse coadiuvato da un Consiglio privato della Corona. Il re, a sua volta, si giovò piuttosto di un suo – più o meno segreto – Consiglio di governo (“Cabinet”, così denominato, perché riunito in una piccola camera di fianco a quella del re). Le aspirazioni assolutiste del re restaurato 33 si scontrarono quindi con il Parlamento. Questo aveva da tempo abbandonato la medievale adunanza nei “Tre Stati” e si riuniva ormai nella composizione della “Camera dei Lords” (nobili ed ecclesiastici) e della “Camera dei comuni” (rappresentanti delle comunità), quindi con quella struttura bicamerale, che nel sistema consuetudinario inglese non è più mutata. È stato perciò questo il periodo nel quale il parlamento è passato dalla struttura medievale a quella moderna e contemporanea: è un cambiamento senza dubbio importante per la storia istituzionale, tenendo conto del rilievo del sistema parlamentare inglese quale modello di riferimento del costituzionalismo moderno. cana. Molti Puritani emigrarono in massa, verso l’Olanda o verso l’America (ove nel 1620 i “Padri pellegrini” fecero il famoso giuramento sulla nave Mayflower prima di sbarcare). 30 Era in pratica la prima volta che un re era processato: Carlo I si difese con una certa perizia, ma fu condannato a morte quale “tiranno, traditore e nemico della Nazione”, per aver avviato la guerra contro il Parlamento, violando perciò le regole consuetudinarie di vita del regno (non si parla espressamente di costituzione consuetudinaria della monarchia, ma questa risulta in modo implicito dalla condanna). Analoga situazione si avrà nella Francia ‘rivoluzionaria’ con la condanna del re Luigi XVI (1793). 31 È questa la “prima rivoluzione inglese”, detta pure “Great Rebellion”. 32 In effetti Cromwell, presentandosi come difensore del Parlamento contro l’assolutismo del re Carlo I, proclamata la repubblica e proclamatosene protettore, avviò un regime dittatoriale sciogliendo proprio quel Parlamento che all’inizio sosteneva. Il tormentato decennio della sua dittatura si chiuse con la sua morte (1658): dopo un biennio d’incertezza, si tornò alla monarchia. Delle riforme del decennio repubblicano nessuna fu conservata. 33 Il re Carlo II era stato educato alla corte di Luigi XIV di Francia: benché al momento della restaurazione della monarchia avesse giurato quanto preteso dal Parlamento, la sua formazione francese si fece sentire in seguito e non poté non scontrarsi con un Parlamento conscio della sua forza e memore delle precedenti battaglie vinte.

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Tensioni religiose e contrasti politici portarono la monarchia inglese a nuove crisi col Parlamento, che nel 1679 impose per legge l’“Habeas corpus”, a garanzia della libertà personale di ogni suddito da arresti arbitrari non convalidati dal giudice 34. È un privilegio fondamentale, affermato con chiarezza, rimasto nel tempo a garanzia della persona da oppressioni dell’esecutivo. Dieci anni dopo, la situazione precipitò: il re dell’epoca 35, sospettato di essere troppo filo-cattolico, fu costretto ad abdicare e fu chiamato sul trono il capo della repubblica olandese, suo genero Guglielmo d’Orange (1688), dopo la pressoché incruenta e “gloriosa rivoluzione” 36. L’anno dopo questo giurava il “Bill of Rights” (Carta dei diritti), che – fra l’altro – lo impegnava verso il Parlamento a rispettarne l’attività legislativa e le leggi, a riconoscere la libera elezione dei deputati e l’immunità parlamentare, a non introdurre imposte senza consenso parlamentare.

Il “Bill of Rights” Nel 1689 il Parlamento inglese votava, ed il re giurava, un preciso impegno al rispetto dei poteri del parlamento (e della sua potestà legislativa) e dei diritti dei sudditi. Questa sintetica dichiarazione, esposta in 13 punti, vincolava la Corona e concludeva affermando che questi erano i “veri, antichi e incontestabili diritti e libertà del popolo di questo regno” e che come tali dovevano essere in futuro sempre “formalmente e strettamente” conservati e rispettati.

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Si tratta di un principio di libertà rimasto sino ai nostri giorni: la polizia (cioè l’organo esecutivo) non può tenere in stato d’arresto (“stato di fermo”) un cittadino se non per breve tempo (all’epoca 20 giorni, ora molto meno), scaduto il quale egli ritorna in libertà, a meno che l’arresto sia convalidato da apposito provvedimento del giudice (che quindi figura quale garante sia delle necessità di tutela dell’ordinamento sia del diritto individuale alla libertà). 35 Il re Giacomo II era cattolico e nel 1672 aveva dichiarato la tolleranza verso i Cattolici, a cui il Parlamento l’anno dopo aveva contrapposto altre norme contrarie. A differenza del re precedente (il fratello Carlo II), protestante, Giacomo II era quindi considerato con sospetto; il punto decisivo fu la nascita di un figlio, che poteva ripresentare il problema di un nuovo re cattolico. Il Parlamento preferì cambiare (in certo qual senso entro la dinastia), affidando la corona al genero Guglielmo d’Orange. 36 Si tratta della cosiddetta “Seconda rivoluzione inglese”, denominata “Glorious Rebellion”. Guglielmo d’Orange era il genero del re Giacomo II, appena costretto alla fuga, ma era di sicura fede riformata: si restava in certo qual senso nella stessa famiglia, purché di fede ‘sicura’.

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“1°. È illegale il preteso potere dell’autorità reale di sospendere le leggi o l’esecuzione delle leggi, senza il consenso del Parlamento. 2°. È illegale il preteso potere regio di dispensare dalle leggi o dall’esecuzione delle leggi, come è stato usurpato ed esercitato per il passato. (...) 4°. È illegale un’esazione di denaro per la corona o al suo uso (...) senza il consenso del Parlamento, per un tempo più lungo, o in una maniera diversa da quella che è o sarà consentita dal Parlamento. (...) 7°. I sudditi protestanti possono avere per loro difesa delle armi conformi alla loro condizione e permesse dalla legge. 8°. Le elezioni dei membri del Parlamento devono essere libere. 9°. La libertà di parola, di discussione o di procedura in seno al Parlamento, non può essere ostacolata o messa in discussione se non in Parlamento. (...) 13°. Infine (...) il Parlamento dovrà essere frequentemente riunito.”

Tale legge è una delle principali basi dell’ordinamento costituzionale consuetudinario inglese sino ad ora, accresciuta da altri usi maturati soprattutto nel sec. XVIII.

Dopo queste convulse vicende la situazione si stabilizzava: il re era limitato nel suo potere dal Parlamento (e dal proprio giuramento), si faceva assistere dal proprio “Cabinet”, ma doveva chiamare in esso (cioè nel suo “Governo”) elementi ben visti dalla maggioranza del Parlamento. In questo si erano venuti infatti delineando due ‘partiti’ (liberali e conservatori) e quindi pure quel meccanismo parlamentare di maggioranza e minoranza, che farà a lungo parlare di sé. In modo ancora un po’ nebuloso prendeva corpo il sistema costituzionale consuetudinario inglese: re (non assoluto) a capo dell’esecutivo (cioè di un Governo composto di ministri facenti parte del “gabinetto” del re), governo formato di membri a loro volta in buoni rapporti con la maggioranza del Parlamento, quest’ultimo con potere legislativo (in collaborazione col re), garanzie minime di libertà per i sudditi. Estintasi la dinastia regnante nel 1714, vi subentrò per successione quella – tedesca – degli Hannover. Si può notare quindi che, comunque, nel diritto pubblico europeo del tempo finivano col continuare ad essere applicate le regole successorie (di carattere di per sé patrimoniale e privatistico) anche da parte di quel Parlamento inglese, che si era segnalato per la sensibilità – moderna – ai limiti al potere regio, a vantaggio non solo proprio ma pure dei singoli individui. Si deve però notare anche un altro punto: il nuovo re (Giorgio I) non conosceva la lingua inglese ed era quindi poco portato a seguire il lavoro del suo governo (“Cabinet”). Questo finì col riunirsi per lo più da solo e col vedersi collegato più a fondo con il Parlamento e la sua

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maggioranza: venne affermandosi la necessità che il Governo godesse della fiducia di questa (e fosse per lo più composto dei personaggi più autorevoli della stessa). Ne derivò perciò il legame di fiducia fra maggioranza parlamentare e Governo, ormai organo a parte rispetto ad una Corona, che si era un po’ scostata dai singoli problemi esecutivi. Il sistema consuetudinario inglese poteva così dirsi nelle sue linee essenziali delineato: basato sulla consuetudine, poteva assestarsi di continuo, ma i punti basilari si erano venuti fissando. Essi ispireranno Locke e Montesquieu, saranno discussi e propagandati dagli intellettuali sette-ottocenteschi: sono frutto peraltro di complesse vicende politiche ed in parte pure di una certa casualità 37; certo non sono conseguenza di un progetto unitario o di un piano preordinato. Sono frutto della vita, con la vita si modificheranno, sempre in via consuetudinaria. Proprio per sottolineare questo processo storico è stato necessario ricordarne le tappe salienti: non hanno avuto né hanno risposto a nulla di programmato. I pensatori per lo più sono venuti dopo, non prima 38. L’equilibrio così raggiunto dall’ordinamento costituzionale inglese nel sec. XVIII è sembrato appetibile ad alcuni intellettuali continentali (come Montesquieu) ed ha tenuto l’isola estranea alle polemiche e riforme illuministe.

37 Si può pensare ad esempio alla casualità dell’esistenza o mancanza di figli di alcuni re, che portò spesso nella seconda metà del Seicento a successione di fratelli o sorelle, per mancanza di discendenti diretti (pure l’inattesa nascita di un figlio al già maturo Giacomo II fu la scintilla che fece esplodere la seconda rivoluzione). 38 Ciò, nonostante la vivace frequenza di progetti e di aspettative del periodo della guerra civile e della repubblica di metà Seicento.

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SOMMARIO: 1. Il Seicento. – 2. Dal principe allo Stato. – 3. Stati italiani più significativi. – 3.1. Dominî spagnoli. – 3.2. Territori pontifici. – 3.3. Stati sabaudi. – 4. Il diritto e lo stato di natura. Hobbes, Locke, Grozio. – 5. La dottrina privatistica. – 6. Il sistema giuridico.

1. Il Seicento Nel Seicento le guerre di religione continuano ad insanguinare l’Europa centrale, mentre dopo il concilio di Trento (svoltosi dal 1545 al 1563) si sviluppa la Controriforma cattolica, incisiva soprattutto nell’Europa meridionale, Italia compresa. Nel 1534 Ignazio di Loyola fonda la “Compagnia di Gesù” con l’aspirazione di rigenerare sotto rigida osservanza pontificia il Cattolicesimo anche presso l’élite dirigente (con una organizzazione didattica apposita). Dopo il concilio tridentino la Chiesa introduce in ogni parrocchia i registri di battesimo, matrimonio e sepoltura, per riordinare la vita religiosa dei fedeli; nel 1564 istituisce l’“Indice dei libri proibiti”; procede inoltre ad una radicale riorganizzazione interna, con la creazione di 15 “Congregazioni” (ciascuna presieduta da un cardinale), che da Roma devono sovrintendere – con competenza per materia – al buon funzionamento della Chiesa. È, in pratica, il primo esempio efficace di 15 “ministeri”, che provvedono, con una visione organica ed accentrata, al “governo” della Chiesa cattolica.

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Registri di “stato”: concilio di Trento (1563) Per cercare un punto d’incontro unitario tra la Chiesa romana e le posizioni critiche verso quest’ultima, e per riportare unitarietà fra le diverse istanze della “riforma” e l’ortodossia romana, si aprì a Trento nel 1545 un importante concilio della Chiesa, al fine di ritrovare l’unità dei Cristiani. Tali aspettative si rivelarono eccessivamente ottimistiche: il concilio, protrattosi – con interruzioni – per quasi un ventennio (dal 1545 al 1563), finì col sancire la spaccatura fra la Chiesa “cattolica” di Roma e le altre Chiese “riformate”. Nel concilio di Trento la Chiesa cattolica seppe trovare però una nuova coesione interna e dotarsi di strumenti giuridico-organizzativi con cui contrastare le critiche e la diffusione della “riforma”, in specie nella parte meridionale dell’Europa. Tra le altre disposizioni prese, ha un suo rilievo quella che impose ad ogni parroco di registrare con precisione i battesimi, i matrimoni ed i funerali avvenuti nella propria parrocchia: in tal modo ogni fedele era “schedato” in tre momenti particolari della propria vita (inizio-fine) e se ne poteva controllare lo “status” (libero o no) circa il matrimonio, portando per la prima volta ordine in un settore, nel quale si erano notate in passato non poche disfunzioni. La Chiesa cattolica nella sua riorganizzazione post-tridentina veniva quindi – ben prima delle autorità civili – a voler conoscere la condizione di ogni fedele in quello che sarà poi detto (solo a fine Settecento) lo “stato civile” e che è oggi prerogativa pretesa dallo Stato. I provvedimenti tridentini furono presi in connessione con la riforma del matrimonio, in funzione della precisa conoscenza dello “status” dei nubendi, e furono adottati nel corso della XXIV Sessione (11 novembre 1563). CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) – SESSIONE XXIV (11-XI-1563) Canoni sulla riforma del matrimonio “Cap. 1 – Il parroco deve tenere un registro, in cui annotare i nomi dei coniugi e dei testimoni, il giorno e il luogo della celebrazione, e lo deve diligentemente custodire presso di sé. Cap. 2 – Il parroco, prima di recarsi a conferire il battesimo, si informi diligentemente presso gli interessati, quale o quali persone hanno scelto come padrini del battezzato; di conseguenza ammetterà a tale ufficio soltanto chi è stato designato, trascriverà i loro nomi nel registro, e li informerà della parentela che hanno contratto.” Riportato dall’edizione: Conciliorum Oecumenicorum decreta, a cura di G. ALBERIGO e altri, Bologna, 1996, pp. 756 e 758.

Le deliberazioni del concilio di Trento sono tuttora operanti per la Chiesa cattolica, nella sostanza recepite nel suo attuale codice di diritto canonico. A loro volta, i diversi Stati hanno previsto – a partire dai secc. XVIII-XIX – analoghi sistemi di registrazione dello “stato civile” nella propria legislazione.

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La Spagna è la grande potenza europea fra Cinquecento e Seicento. Nel 1571 ha favorito la vittoria navale di Lepanto, che ha fermato l’avanzata dei Turchi e la loro espansione mediterranea (avvenuta per lo più a danno di Venezia). Non riesce però ad imporsi sull’Inghilterra (1588, rotta marittima della “invincibile armata”), che le subentra nel controllo della navigazione oceanica. Ha comunque la preminenza netta nella nostra penisola, dato che dopo la pace di Cateau Cambrésis (1559) fanno parte della Corona di Spagna per unione personale la Lombardia, la Sardegna, la Sicilia ed il Napoletano, gravitano politicamente sotto la sua influenza il ricostituito ducato di Savoia di Emanuele Filiberto (già comandante in capo dell’esercito spagnolo), la repubblica di Genova (legata alla Spagna per prestiti e scambi commerciali), il granducato mediceo di Toscana (ripristinato dagli Spagnoli) e in parte lo Stato pontificio (retto a volte anche da pontefici spagnoli o filospagnoli). L’Italia, nella prima metà del Cinquecento straziata dalle guerre ivi combattute fra le potenze europee, in seguito non vi viene più coinvolta a fondo direttamente (se non per qualche momento nel Nord Italia) e gode quindi di una certa tranquillità, anche se ciò non ne arresta il regresso generale. La grande potenza della Corona spagnola non riesce però a concretizzarsi con efficacia e non comporta mutamenti istituzionali profondi rispetto all’impostazione tradizionale imperniata su feudi e particolarismi locali. Lo stesso grande sostegno dato all’ortodossia della Chiesa romana si conclude senza risultati istituzionali rilevanti. La Francia, dilaniata dai contrasti religiosi nella seconda metà del Cinquecento, nel Seicento con un’accorta politica militare ed estera riesce a riemergere prepotentemente ed a fine secolo si segnala come la nuova grande potenza europea, ma anche come quella che è riuscita a rinnovarsi con più efficacia nella prospettiva di instaurare uno Stato accentrato e tendenzialmente assoluto, nel quale si sta dissolvendo buona parte dei particolarismi locali. In Germania le costanti guerre religiose vedono indebolirsi ancor più la posizione dell’imperatore, che con la pace di Westfalia (1648) a conclusione della “guerra dei Trent’anni” (1618-1648) deve riconoscere la sovranità degli Stati territoriali tedeschi e sottoporre all’approvazione della Dieta la legislazione (prima direttamente emanata dall’imperatore). Tale pace, inoltre, conferma il principio della religione di Stato ma nello stesso tempo la possibilità di tolleranza religiosa anche nei confronti dei Calvinisti 1. Nei Paesi Bassi la coriacea opposizione religiosa e ‘nazionale’ olandese alla 1

Nella pace di Augusta del 1555 ciò era ammesso solo per Cattolici e Luterani: i Calvinisti ne erano esclusi e si fecero ampiamente sentire a difendere la loro fede religiosa nel Nord Europa per tutta la prima metà del Seicento.

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dominazione spagnola sfocia (1648) nel riconoscimento formale della repubblica dell’Olanda, che a sua volta ammette formalmente la libertà religiosa. L’Inghilterra nel Seicento è travagliata da sussulti regi verso l’assolutismo, che incontrano però forti resistenze: dopo ben due periodi di lotte civili, a fine secolo è ridimensionato il potere regio ed affermato quel ruolo del parlamento, che la fa indicare come la madrepatria del parlamentarismo moderno, secondo una prospettiva di Stato non assoluto, nel quale sin dal sec. XVII il potere legislativo sta nelle mani dei due rami del parlamento e non in quelle del re. In questo periodo si vengono delineando meglio le attività dello Stato, nonché l’organizzazione (al momento più centrale che periferica) dei suoi organi. Se anche lo Stato tende ancora ad identificarsi col principe, in effetti il processo di spersonalizzazione dalla Corona e dal regnante è in atto, in specie per quanto concerne l’amministrazione interna. Quanto all’estero, invece, le prospettive della politica dinastica e dello Stato patrimoniale portano la politica europea dei secc. XVII-XVIII a concepire i destini dei diversi Stati come se si trattasse di successioni in un qualunque patrimonio ereditario da parte delle diverse dinastie: lo attestano le ben note guerre “di successione”, che impegnano le potenze europee dell’epoca e dimostrano una concezione ancora del tutto “patrimoniale” (da parte dei diversi casati) del territorio europeo 2. Nell’Europa del tempo, d’altronde, la scienza politica si interroga sulle caratteristiche sia dell’essenza dello Stato, sia della sua organizzazione, sia del suo funzionamento. Se a soluzioni assolutiste accedono Bodin e Hobbes, il clima cambia con l’olandese Grozio e soprattutto con Locke ed i successivi autori giusnaturalisti sei-settecenteschi, che aprono una discussione di ampia portata, su cui si segnaleranno i grandi nomi dell’illuminismo della metà del Settecento 3. In questo contesto, anche il diritto – per quanto in misura minore della politica – veniva ad essere coinvolto. La diffusione dei libri giuridici lasciava 2

Basti pensare – in Italia – alle risalenti pretese ereditarie sabaude sul Monferrato e poi alla secentesca “guerra di successione” ai Gonzaga per Mantova e Monferrato, ma soprattutto alle tre grandi “guerre di successione” europee dei secc. XVII-XVIII, per il trono di Spagna, per quello austriaco e per quello polacco, proprio mentre nell’Europa del Settecento si discettava ampiamente ormai di diritto naturale e di princìpi di diritto internazionale ispirati dalla ragione … 3 A fronte di questi elevati ragionamenti dottrinari, le “guerre di successione” nella pratica politico-militare dell’Europa settecentesca però continuavano. Teoria e pratica operavano per linee fra loro parallele … e non si incontravano, anche se la prima in alcuni casi poteva essere collegabile alla seconda, come si cercherà di far notare.

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la sensazione di un impressionante complesso di opinioni dottrinarie, difficili però da padroneggiare per la risoluzione dei casi da decidere: ad intervenire per limitare quest’oscurità potevano adoperarsi i giuristi (e – come si è visto – spesso le Corti supreme), ma anche la legislazione. Dal principe (e dallo Stato) ci si poteva quindi attendere qualcosa in materia: la legislazione dei secc. XVII-XVIII non mancò in proposito. Non mancarono però neppure contributi di giuristi, come quelli di Grozio o di Domat, nella speranza di avviare ad un ordine razionale il complesso diritto comune. Il Seicento non riuscì per lo più a trovare risposte operative nel campo del sistema giuridico, mentre ne offrì di rilievo in quello istituzionale e dell’ordinamento pubblico. Si tratta ora di vederne qualche indicazione più precisa.

2. Dal principe allo Stato La concezione pubblicistica moderna non considerava più il principe dei secc. XVII-XVIII al vertice di una piramide feudale di vassalli e sudditi, vincolato da regole scritte e consuetudinarie nei rapporti con essi maturate nei secoli: lo vedeva invece direttamente titolare di un potere “sovrano”, illimitato su tutti i sudditi, libero da ogni intermediazione di raggruppamenti, ceti o istituzioni come da ogni precedente regola o accordo locale (“lex terrae”). La pubblicistica francese sembrava in tal senso eloquente, alla luce anche della situazione politica transalpina in Francia e Spagna, mentre in Germania il quadro generale era meno chiaro, influenzato ancora dalla tradizione medievale. In Inghilterra la teoria hobbesiana era in armonia con ciò, ma a metà Seicento la reazione nobiliare e parlamentare all’assolutismo regio dimostrava che la “lex terrae” nell’isola era ancora molto radicata. L’assolutezza del potere del principe, illustrata da Bodin con il concetto di sovranità, comportava analoga situazione nell’ente che egli si presentava a rappresentare, la “république”, cioè lo Stato (l’antica “respublica” romana per gli umanisti). Lo Stato ed il principe-sovrano non avevano però tutte le incombenze (e neppure le funzioni) dei nostri tempi. In proposito, anzi, ci si accontentava – e già era molto – che essi assicurassero ai consociati (“sudditi”, cioè senza alcun diritto verso il sovrano) l’ordine interno ed esterno. In tal modo lo Stato – ed il principe – venivano a contatto diretto con ogni suddito, senza altre intermediazioni: lo Stato garantiva sicurezza, il suddito obbediva. In questo clima di prevista tranquillità (... in concreto non sempre perfetta ...) il suddito svolgeva poi le sue attività quotidiane sotto la tutela del “governo” del principe: tale “governo”, realizzato dai ministri e funzionari regi (= burocrazia), provvede alla legislazione per fissare le regole di pacifica

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convivenza, all’attività amministrativa per assicurarne la difesa all’interno del territorio ed ai confini verso l’esterno, all’amministrazione della giustizia per punire chi non rispetta tale situazione. La sovranità si è venuta esprimendo in età moderna tramite sostanziose innovazioni, tutte indirizzate ad affermare l’autorità del principe (e dello Stato) su situazioni in precedenza in parte poco (o nulla) controllate. In primo luogo c’è la marcata propensione alla legislazione, che assume un’estensione ed una profondità nuove. C’è poi il potenziamento o la creazione di organi centrali di governo con specifiche competenze, tramite i quali si accentua la direzione politica ed amministrativa. In proposito, ciò si sviluppa anche, in alcuni casi, con una distribuzione locale nel territorio di funzionari, che diffondono perifericamente il potere del principe, con la tendenza a controllare o ridurre le autonomie locali di feudi, comunità ed istituzioni ecclesiastiche. Ordine pubblico e giustizia rientrano così, anche localmente, fra i compiti diretti (e non mediati, perché affidati a feudali o altri) del principe e dello Stato: sono delegati – al centro ed alla periferia – a funzionari e militari il primo, a giudici statali la seconda. La giustizia, infatti, è considerata per lo più una delle espressioni dell’‘amministrazione’, quella incaricata di sovrintendere che gli ordini (= le leggi) del principe siano rispettati e l’ordine interno salvaguardato. Accanto a queste già importanti funzioni, esercito e finanze, comunque, sono i due punti basilari in cui si gioca l’affermazione concreta dello Stato in età moderna. Il suddito fruisce – per così dire in ‘negativo’ – di tale attività dello Stato, perché da questo riceve la difesa dell’ordine in un ambiente pacificato, entro cui può vivere ed operare: legislazione, amministrazione, giustizia – nelle quali si esprime la sovranità – sono a ciò preordinate. Ad altro lo Stato non pensa: questo obiettivo minimo deve però raggiungerlo, altrimenti manca alla sua stessa funzione (e si rivela inesistente, non realizzando la sua sovranità). D’altronde, solo lo Stato (e il principe) può porsi questo obiettivo: all’epoca, nessun altro individuo o ente è in grado di esprimere la sovranità. In prosieguo di tempo (e ciò avverrà a partire dal sec. XVIII inoltrato) a questa funzione ‘in negativo’ del sovrano (cioè del principe munito di “sovranità”, in altre parole dello Stato) si aspira ad aggiungerne un’altra ‘in positivo’. Il sovrano deve non solo assicurare al suddito ordine e protezione (grazie ai quali ognuno può poi procurarsi, per sua personale iniziativa, il benessere), ma deve fornirgli direttamente – quindi ‘in positivo’ – “felicità” e benessere. Dallo “Stato patrimoniale” secentesco si passa così allo “Stato di polizia” settecentesco, teso ad offrire al suddito un miglior livello di vita (istruzione, assistenza, lavoro …) secondo un programma fissato d’autorità dal sovrano nell’interesse dei sudditi, come si vedrà in seguito.

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Tanto più il sovrano si impegna nell’obiettivo di assicurare l’ordine (verso l’interno e verso l’esterno), tanto più va incontro a spese: non può che farle sostenere dai sudditi. Per ottenerne il pagamento, e per attestare loro l’impegno profuso verso l’ordine, deve però aumentare i dipendenti statali, con conseguente lievitazione della spesa. È una spirale, che vede estendersi la burocrazia (civile, e – all’epoca in specie – militare), ma pure il debito pubblico ed una maggiore pressione fiscale. Lo Stato aumenta la sua dimensione: è una linea di tendenza, che prosegue nei secoli, fino a portare alla spersonalizzazione dei rapporti fra Stato e funzionario, e pure fra ufficiale pubblico e singoli soggetti. È opportuno, a questo punto, esaminare un po’ più da vicino le situazioni concrete più significative, in Italia ed in Europa. Del progressivo avvio delle principali monarchie europee verso le istituzioni e l’organizzazione dello Stato moderno già si è detto alla fine del precedente capitolo. Si tratta ora di sintetizzare gli aspetti meritevoli di una certa menzione degli Stati della nostra penisola, ormai peraltro marginali nella situazione continentale anche per quanto riguarda le nuove caratteristiche statuali.

3. Stati italiani più significativi La penisola italiana infatti non è più al centro della politica e del diritto dell’Europa dopo la metà del Cinquecento. Nella mediocrità della situazione, sul piano istituzionale meritano qualche specifica osservazione tre tipi di territori: quelli spagnoli per le loro particolarità locali, quelli pontifici per le innovazioni ‘moderne’ ispirate dalla Controriforma, quelli sabaudi per il programma accentratore – anch’esso ‘moderno’ – attuato con la restaurazione del duca Emanuele Filiberto.

3.1. Dominî spagnoli Dal grande regno di Spagna dei secc. XVI-XVII dipendevano quattro ampi territori italiani: Sardegna e Sicilia da secoli, Italia meridionale (= regno di Napoli) e Lombardia dopo la vittoria nelle guerre sulle pretese francesi (sec. XVI). Dipendevano però in modo diverso, perché ciascuno dei quattro territori era legato alla Spagna da unione “personale” nella figura del re, e conservava una sua autonoma posizione verso la Corona ed un suo ordinamento locale. Non esisteva nessun legame fra essi, se non la sottoposizione alle unitarie valutazioni di politica generale del Supremo Consiglio d’Italia sedente a Madrid per tre di essi (la Sardegna, aragonese dal sec. XIV,

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ne era esclusa, poiché continuava ad essere unita secondo tradizione alle terre aragonesi). Nell’ambito dell’unitario sistema del diritto comune anche la legislazione territoriale speciale era diversa: in Lombardia si applicava la disciplina organica dettata dalla raccolta delle “Constitutiones dominii mediolanensis” del 1541, nel Napoletano ed in Sicilia alla base c’erano ancora le “Constitutiones melfitanae” di Federico II del 1231, in Sardegna la trecentesca “Carta de logu” di Eleonora d’Arborea. Con queste ed altre disposizioni tipiche di ciascuno dei quattro territori spagnoli erano inoltre in vigore quelle ‘proprie’ di ogni Comune. Naturalmente, le stesse norme generali emanate in Spagna per tutto il regno nel suo complesso dovevano essere “pubblicate” in ciascuno dei quattro domìni italiani per esservi in vigore, perché ognuno aveva un proprio specifico ordinamento. L’assenza fisica del re, insediato in Spagna, ne giustificava in ciascuno dei regni (Sardegna, Sicilia e Napoletano) la rappresentanza da parte di un Viceré, funzionario civile. La Lombardia, invece, era retta da un Governatore, militare con funzioni anche civili: fra l’altro, non essendo essa un regno ma un ducato, sul piano formale non poteva esserci un viceré. Inoltre, si trattava dell’unico territorio con minaccia di guerra 4: un militare poteva essere più adatto. Viceré e Governatori erano inviati regi (i Viceré normalmente per tre anni), avevano poteri pressoché illimitati nel periodo del mandato e rispondevano del loro operato al Supremo Consiglio d’Italia 5. Erano assistiti da uno (o più) Consigli locali, composti di personalità sia della zona 6 sia spagnole, in genere con funzioni consultive (solo a Napoli per lo più con voto deliberativo). Sotto i Viceré e il Governatore stava la burocrazia locale, nella quale – specie a Napoli – un ruolo di notevole rilievo, anche politico, avevano i giuristi. Viceré e Governatore avevano una carica temporanea abbastanza breve e spesso conoscevano poco la zona: i membri di tali Consigli, più duraturi, potevano quindi avere un ruolo anche considerevole nel coadiuvarli nelle decisioni 7. 4 In Sardegna ed in Sicilia la difesa militare era più facile, essendo necessario un attacco dal mare: bastava la protezione della potente marina spagnola. Analoga situazione poteva presentare il Regno di Napoli, dato che era contornato dal mare ed aveva a nord i territori pontifici, dai quali non ci si poteva aspettare un’invasione militare. Per questi tre territori era quindi sufficiente il controllo dell’ordine pubblico interno, a cui, potevano bastare le competenze (anche eventualmente, ma eccezionalmente, militari) del Viceré. 5 Salvo che per la Sardegna, come si è detto: questa era aggregata al Supremo Consiglio d’Aragona. 6 Poteva però anche trattarsi di feudatari locali, di famiglie però di origine iberica. 7 Ad esempio, il Consiglio Segreto a Milano frenò gli abusi del Governatore duca d’Ossuna, i Consigli napoletani provvidero spesso a prendere le decisioni viceregie.

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In questi territori esisteva un’estesa e potente feudalità, a cui il dominio spagnolo lasciò ampia autonomia, anche perché rimpolpata con nuove investiture a casati spagnoli: ciò favorì la quiete locale, ma rallentò l’affermazione statale, frenata dal controllo particolare del territorio da parte dei signori feudali e delle città demaniali. In proposito, mentre l’assemblea dei Tre Stati nel Napoletano non fu più convocata dopo il 1642 (ed anche prima non contò molto), in Sardegna e Sicilia invece fu riunita regolarmente (anche se in Sardegna solo ogni decennio), ebbe un’attività discreta e fece sentire la voce ed il peso delle autonomie locali. In specie ciò ebbe rilievo in Sicilia, ove i tre grandi Comuni demaniali (Palermo, Catania, Messina) ed i principali baroni sostennero a fondo i loro privilegi (cioè le loro “libertà” medievali) contro l’invadenza vicereale e statale, ottenendo spesso ascolto anche alla corte di Madrid 8. Le istituzioni parlamentari, convocate periodicamente dal Viceré e riunite sotto la sua presidenza, sia in Sicilia che in Sardegna difesero con puntiglio le autonomie isolane 9, anche grazie alla lontananza dal Governo centrale madrileno. La stessa organizzazione del regno di Spagna, d’altronde, fondata su una pluralità di regni collegati dall’unione personale nella figura del re, favoriva il mantenimento di questi particolarismi locali, con aspetti che alla lunga richiamano quasi esperienze federali. La differente storia istituzionale poneva la Lombardia in una situazione un po’ diversa dagli altri territori, data la prosecuzione di organi ducali anteriori. Oltre al Consiglio segreto, organo consultivo del Governatore (a cui però in certe occasioni seppe opporsi), è da ricordare il Senato di Milano, istituito in periodo francese in continuazione dei precedenti Consigli del ducato sforzesco, conservato dagli Spagnoli. Si tratta di una Corte sovrana, cioè del supremo tribunale della Lombardia, con compiti giudiziari, a cui se ne aggiungevano altri di natura legislativa o amministrativa, dato che non esisteva all’epoca alcuna “separazione dei poteri”. I membri (poco meno di una 8

Non si può ignorare che i legami, anche parentali, con potenti casati spagnoli di alcune famiglie isolane (di origine a volte iberica) superarono in alcune circostanze gli stessi Viceré e raggiunsero direttamente la corte madrilena … I Viceré quindi si trovarono a dover agire con una certa circospezione, in specie nei confronti di alcuni potenti baroni siciliani, gelosi difensori delle proprie prerogative signorili nei loro feudi. 9 Ad esempio, nel 1582 la Deputazione del parlamento siciliano (composta di 12 persone deputate a controllare la spesa del donativo da parte governativa) ottenne una sede fissa nel palazzo reale di Palermo, per poter svolgere con continuità tale controllo sulla stessa amministrazione viceregia. A loro volta, gli Stamenti sardi a metà Seicento (1665) ottennero garanzie per ogni suddito rispetto ad eventuali prepotenze viceregie.

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ventina) erano per più di due terzi giuristi affermati 10: al Senato era affidata la giustizia penale suprema, ma pure quella (penale e civile) in appello rispetto ai giudizi di primo grado (dei giudici feudali o comunali). In tal modo il Senato poteva svolgere una funzione unificatrice nello Stato rispetto al particolarismo locale (anche legislativo, dovuto agli Statuti comunali) circa l’amministrazione della giustizia. Esso, inoltre, quale giudice supremo, poteva indicare con le sue decisioni (cioè sentenze motivate), munite del valore di “precedente” per futuri casi analoghi, le linee da seguire in tutto lo Stato riguardo alla “interpretatio” dei punti controversi del diritto comune. Al Senato di Milano spettava pure il potere di interinazione di ogni legge o editto, secondo la tradizione delle Corti sovrane francesi; in effetti, però, pressato dal Governatore, ne fece un uso limitato, utilizzando scarsamente il potere di rimostranza, a differenza di alcune Corti francesi (ed anche in parte dei Senati sabaudi nella seconda metà del Seicento) 11. Nel Regno di Napoli proseguì il rispetto dell’omaggio feudale verso il Papa per l’antica investitura del tempo normanno, nonostante la dimostrata falsità della donazione costantiniana. Ciò di per sé limitava sul piano formale la sovranità dello Stato, perché esso dipendeva dalla “superiorità” feudale pontificia: per quieto vivere il problema fu quasi ignorato, ed anzi di fatto avvennero pure benevole infeudazioni a protetti pontifici di terre vicine ai confini coi domìni papali 12. Solo nel Settecento lo Stato napoletano sollevò poi il problema: ne nacque, naturalmente, un vivace contrasto politico 13, come si vedrà. Nel complesso i domìni italiani furono considerati dalla Corona spagnola alla stessa stregua di quelli dei Paesi Bassi o di altri territori: ebbero decen10

Dei 17 membri, 12 erano giureconsulti, 5 nobili. Il presidente era di nomina regia: ogni altro membro era di nomina regia sulla base di una terna proposta dagli altri senatori in carica. Spesso si cercava di rispettare una provenienza dalle diverse zone lombarde. 11 Non è da escludere, però, vi abbia giocato il problema della venalità dell’ufficio: nelle Corti francesi i membri, acquistato il posto, potevano permettersi un’autonomia d’azione (oltre che di pensiero), che altrove poteva sembrare ‘pericolosa’ per i rischi di revoca che comportava … 12 Fissati ormai per i papi i divieti di infeudazione di terre pontificie a loro protetti (… spesso parenti, anche di cardinali), si trovò così il compiacente “escamotage” presso il vicino Regno di Napoli … a sua volta sul piano politico disponibile, per non venire a ridiscutere della problematica della sovranità. 13 In effetti l’infeudazione pontificia riguardava a suo tempo il regno di Sicilia, ma in età moderna se ne discusse in specie con riferimento al regno di Napoli (e si trascurò il regno di Sicilia, sotto la dominazione politica dello stesso principe, ma in effetti con un proprio particolare ordinamento dopo i “vespri siciliani”).

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trati organi di governo insediati nelle diverse capitali, guidati da Viceré o Governatore, ma non furono affiancati in modo organico da altri funzionari periferici nelle diverse terre dei singoli regni o ducati per istituire una capillare rete di burocrazia statale. Gli ufficiali spagnoli, in pratica, si limitarono a dirigere dalle diverse capitali tutto il territorio di ogni regno, affidandosi per il governo, il controllo e l’ordine dei singoli luoghi all’attività dei signori feudali o dei reggenti delle città demaniali. Il grande regno di Spagna finì così col favorire la prosecuzione del particolarismo locale e di centri di potere locali contrapposti alla sovranità statale unitaria.

3.2. Territori pontifici Si è già fatta notare la particolarità della monarchia pontificia elettiva, praticamente senza esercito, con una prospettiva volta ai problemi generali della religione cattolica e dei Cattolici oltre che a quelli di controllo del territorio politicamente soggetto. Ciò sin dal medioevo ha reso frammentario, discontinuo ed anomalo il governo papale. L’organizzazione data a metà Trecento dal cardinale Albornoz ai territori pontifici è rimasta, ma non è stata sempre applicata. Nel Quattro-Cinquecento la politica di ‘grande nepotismo’ di parecchi papi (Borgia, Medici, Della Rovere, Farnese) porta a ‘benevole’ infeudazioni di parte dei territori pontifici a membri del proprio casato, che costituiscono domìni quasi esclusivi. Essi si aggiungono ad altri già esistenti localmente (i Varano a Camerino, i Montefeltro a Urbino …), accanto ai possedimenti feudali delle grandi famiglie romane (Orsini, Colonna, Caetani, ecc.). Il controllo del territorio si può dire in mano più a questi signori feudali locali che all’autorità pontificia centrale. Le crisi conciliari (della prima metà del Quattrocento) e quelle della Riforma (nel Cinquecento), indebolendo la Chiesa romana sul piano religioso europeo, non hanno potuto non influire anche sul suo controllo politico dei domìni dell’Italia centrale. Il concilio di Trento (1545-63) ha riorganizzato la vita ecclesiastica e spirituale in generale; nello stesso tempo la Controriforma ha anche favorito indirettamente un miglioramento nel controllo territoriale dello Stato della Chiesa. La costituzione delle 15 “Congregazioni” (1587) riformava tutta l’organizzazione centrale romana e creava in pratica dei ‘ministeri’ (per usare un termine attuale) competenti per argomento sui principali problemi della Chiesa: era una riforma ‘moderna’, che ispirerà altri Stati 14. 14 Le Congregazioni restano nell’organizzazione della Chiesa romana praticamente sin quasi ai nostri giorni: l’efficacia della riforma è stata quindi notevole. Inoltre, l’im-

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Di tali Congregazioni, una parte sovrintendeva agli affari ecclesiastici generali, un’altra allo specifico governo del territorio: a questo attendeva in particolare la “Congregazione del buon governo”, che quindi aveva la diretta competenza di evitare gli abusi passati. In questo periodo, inoltre, una bolla pontificia abolì il ‘grande nepotismo’ vietando infeudazioni di terre a parenti papali: il ‘clima’ della Controriforma portava ordine anche nello Stato. Il territorio pontificio era suddiviso in varie province, con ordinamento peraltro variabile e particolarismo locale accentuato: feudi e comuni conservavano per lo più i loro privilegi, ma dovevano rispettare la superiore autorità pontificia, che si intrometteva nei loro eventuali rapporti 15. Nelle Marche sopravviveva (sino a metà sec. XVIII) l’assemblea parlamentare, composta però solo dai rappresentanti comunali, convocata e presieduta dal Governatore della Marca. Ogni provincia era retta da Rettori o Governatori, ma le quattro principali (Bologna, Ferrara, Romagna, Marche) avevano generalmente a capo un “cardinal-legato” ed erano dette quindi Legazie. Sotto ciascuno di essi stavano, come d’uso, i Rettori o Governatori. Le principali città avevano una disciplina autonoma; Roma, in specie, godeva di un suo speciale ordinamento. Questa riorganizzazione di fine sec. XVII (dovuta in gran parte al papa Sisto V) subì peraltro numerosi cambiamenti e deroghe e non riuscì ad essere incisiva come previsto. Sparito il ‘grande nepotismo’, se ne manifestò a volte uno più modesto (‘piccolo nepotismo’), per alcune cariche affidate a parenti del papa, persone peraltro di sua fiducia. In proposito, accadde che la politica ecclesiastica e romana fosse in parte affidata ad un cardinale della sua famiglia, il cosiddetto “cardinal nepote”, coinvolto nella segreteria pontificia, dalla quale col tempo è disceso l’ufficio del “cardinale segretario di Stato”, che ancora attualmente sovrintende alla politica della Chiesa romana. Le tendenze accentratrici dell’epoca hanno portato alla riorganizzazione di altri importanti uffici centrali: nella seconda metà del Cinquecento la Chiesa si rivela all’avanguardia in questo campo. Importanti in proposito sono il Tribunale della Sacra Rota (tuttora esistente) e quello della Segnatura, nonché la Camera apostolica, corrispondente ad un attuale Ministero delle postazione ‘ministeriale’ e gerarchica – rigidamente impostata nel periodo della Controriforma – è stata un esempio rilevante per l’organizzazione amministrativa di altri Stati (anche per il prestigio della Chiesa dell’epoca, all’avanguardia per le innovazioni decise dalla Controriforma). 15 In materia d’ordine interno, erano vietate le guerre locali (… ma come si contrastavano?) e si sovrapponeva la superiore giustizia papale; con l’estero era vietato entrare in rapporti senza autorizzazione pontificia.

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finanze. Tali uffici centrali danno alla Chiesa una struttura che essa dal periodo della Controriforma ha conservato sino al sec. XX e che all’epoca la faceva additare quale esempio per la sua efficacia organizzativa.

3.3. Stati sabaudi La pace di Cateau-Cambrésis (1559) ha restituito ad Emanuele Filiberto le terre del ducato di Savoia, che i Francesi nell’ultimo trentennio avevano conquistato al padre, il debole Carlo II, morto a Vercelli nel 1553, ultima città praticamente rimastagli. Tali territori si estendevano fra i due versanti alpini (Savoia e terre vicine al di là, Val d’Aosta e Piemonte – ma non Monferrato e Saluzzese – al di qua) e giungevano nel Nizzardo fino al mare. Si trattava di domìni feudali, acquisiti dai Savoia a partire dal sec. XI, prima oltre le Alpi (contea di Maurienne, poi di Savoia), in seguito nelle valli di Susa e di Aosta, dalle quali si erano espansi via via verso la pianura piemontese, con dedizioni anche di alcuni Comuni (come Torino e Ivrea) a partire dal sec. XIII. Giunti al mare (Nizza) nel sec. XIV, i Savoia erano divenuti duchi nel 1416 per concessione imperiale ad Amedeo VIII, che aveva anche dato una disciplina abbastanza organica ai suoi domìni con la normativa dei “Decreta seu statuta” (1430). Il ducato ne riceveva una certa organizzazione centrale 16 e locale 17, secondo un progetto di controllo del territorio, peraltro disomogeneo, feudale, disseminato di privilegi comunali, senza una capitale fissa 18. Per la dinastia, in ascesa per oltre un secolo, poco prima del16 Il modello poteva essere quello francese, regno verso il quale continuava nel complesso a guardare la dinastia. Oltre ad una ormai secolare Camera dei conti (per il controllo contabile), accanto al duca c’era un “Consilum cum domino residens” (che lo seguiva anche nei suoi spostamenti) per trattare dei problemi politici generali; per quelli locali esistevano due consigli con sede fissa, competenti uno per le terre transalpine (“Consilum Chamberiaci residens”) ed uno per quelle cisalpine (“Consilum Taurini residens”), con funzioni anche giudiziarie. 17 Il territorio del ducato era diviso in baliaggi (= province) con a capo un balivo, (bailli, baiulus); ogni baliaggio era suddiviso in castellanie, con a capo un castellano. Tali ufficiali sabaudi avevano competenze amministrative e militari (con piccoli contingenti di truppe al soldo ducale) e seguivano le vicende del loro territorio, controllando pure i signori feudali ed i Comuni soggetti (ciascuno col proprio ordinamento particolare), per quanto possibile, nei limiti delle autonomie di questi. 18 I Savoia abitualmente risiedevano nei loro castelli (per lo più in Savoia), ma – come d’uso presso i prìncipi feudali – circolavano spesso nei loro territori (di castello in castello) per far sentire la loro presenza, amministrare la ‘loro’ giustizia, ottenere la fedeltà dai sudditi. La corte era itinerante, nella solita prospettiva feudale.

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la metà del sec. XV iniziava però un periodo difficile 19, da cui non riusciva a sollevarsi: si vedeva così privata di quasi tutti i possedimenti secolari 20 dall’invasione francese del 1536 e dalla guerra franco-spagnola combattuta anche in Piemonte 21. Emanuele Filiberto 22, ripresi con una certa fatica i domìni aviti dopo la pace di Cateau-Cambrésis, li riorganizzò efficacemente, con piglio militare 23 e prospettiva accentratrice 24, secondo le tendenze del tempo 25, tanto che può essere considerato il rifondatore dello Stato. Per la persistenza di differenze istituzionali fra una zona e l’altra si tende però a preferire ancora l’espressione di “Stati sabaudi” 26. 19

A causa di contrasti dinastici, morti precoci di duchi, rivalità fra Piemontesi e Savoiardi, ma pure per la debolezza di alcuni duchi (come Ludovico I o Carlo II). 20 In pratica restavano a Carlo II Vercelli (ove morì in miseria) e la Valle d’Aosta (formalmente suddita, ma organizzata militarmente in modo autonomo); dubbia era la situazione di Cuneo e Nizza. Tutto il resto era ormai francese: la stessa feudalità, col passar degli anni, si era assuefatta alla prospettiva della soggezione alla Francia. Poche erano le famiglie feudali rimaste filosabaude. Ciò consentì ad Emanuele Filiberto, ritornato, di non sentirsi tenuto a rispettare i privilegi antichi, che – a suo giudizio – i sudditi poco meritavano. 21 Tale guerra, con alterne vicende, aveva visto Francesi e Ispano-imperiali impossessarsi delle diverse piazzeforti, gran parte delle quali erano però in mano francese. 22 Emanuele Filiberto, preso atto dello sfacelo del ducato, si era avviato alla carriera militare nell’esercito spagnolo di Carlo V, suo zio d’acquisto (in quanto marito della sorella di Beatrice di Portogallo, madre di Emanuele Filiberto e moglie di Carlo II di Savoia): vi aveva fatto fortuna, ed era stato il comandante in capo di tutto l’esercito spagnolo che aveva sconfitto i Francesi nella battaglia di San Quintino, in conseguenza della quale si stipulò la pace di Cateau-Cambrésis del 1559. Emanuele Filiberto ritornava nel ducato già di suo padre non solo per la restaurazione voluta dagli Spagnoli (da tempo alleati dei Savoia, che proprio per ciò avevano visto occupati i loro territori dai nemici Francesi), ma anche perché era il generale che aveva condotto alla vittoria gli Spagnoli. 23 Non per nulla si trattava di un militare di carriera, passato a compiti civili e politici di capo del proprio Stato. 24 Emanuele Filiberto, filospagnolo, in tale prospettiva segue più l’esempio accentratore francese che quello spagnolo, più feudalizzante, perché più consono al suo programma contrario a riconoscere privilegi o autonomie a coloro che – a suo giudizio – non erano stati sufficientemente fedeli a suo padre ed alla dinastia. Egli, peraltro, aveva sposato una principessa francese, Margherita, figlia di Francesco I di Francia. 25 A metà Cinquecento assolutismo ed accentramento, ove possibile, erano nei programmi dei prìncipi europei. 26 Emanuele Filiberto rifonda lo Stato e fa cadere molti dei privilegi e particolarismi medievali, ma non riesce ad appianare la diversità istituzionale fra Savoia, Nizzardo, antiche terre piemontesi, Vercellese, Astigiano … La sua opera è però basilare per un pro-

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Egli scelse per prima cosa una capitale fissa: in uno Stato moderno non era più possibile pensare ad un duca itinerante in visita assidua ai suoi domìni feudali. L’organizzazione e la vita dello Stato richiedevano un centro di potere fisso, sede delle sue principali strutture: esse erano inconcepibili se non accanto ad un principe stanziale. Scelse Torino 27, dal punto di vista geografico ben posizionata nella zona piemontese, da cui aspirava ad ingrandire i suoi possedimenti 28. Questi, per quanto esausti per le guerre patite, dovevano però alimentare con continuità le finanze ducali: lasciò cadere le contribuzioni straordinarie contrattate con le assemblee dei Tre Stati e ne introdusse di fisse 29, con cui poteva sostenere meglio le spese statali 30, in primo luogo per l’esercito, che per le sue stesse passate esperienze gli stava cesso di unificazione che – arrestandosi nel Seicento – sarà proseguito con autorità da Vittorio Amedeo II (1685-1730). 27 All’epoca si trattava di una città non superiore a numerose altre sabaude: l’ubicazione centrale sembrava più adatta, anche per i collegamenti transalpini. Fu la fortuna di Torino. 28 La constatazione della potenza del limitrofo regno di Francia faceva escludere una capitale transalpina: la prospettiva d’espansione poteva essere solo verso l’Italia. La dinastia, savoiarda, veniva ad italianizzarsi. All’inizio il duca prese in locazione parte del palazzo vescovile: solo col tempo venne costruito quello che è detto palazzo reale. Esperto militare, Emanuele Filiberto munì la sua capitale di una poderosa cittadella, che seppe dimostrare la sua efficacia soprattutto oltre un secolo dopo sotto l’assedio francese. 29 Oltre alla gabella del sale, che generalizzò nello Stato, Emanuele Filiberto impose il “tasso”, contribuzione annuale che ogni comunità doveva versare al duca in base alla presumibile ricchezza in essa prodotta. Tale valutazione induttiva era basata su dati oggettivi, comparativamente considerati tra un luogo e l’altro: fissato il prodotto presumibile, annualmente ne era indicata la percentuale da versare al fisco. Ogni comunità ne era responsabile verso il duca nella persona dei suoi amministratori locali: ciascuna comunità si doveva preoccupare di distribuire al suo interno autonomamente le singole contribuzioni, dato che al duca interessava solo la somma globale, che doveva essergli versata, comunque acquisita entro la comunità. Esistevano, naturalmente, disparità fra una comunità e l’altra (e spesso la più forte scaricava sull’altra parte di quanto le sarebbe toccato …) e soprattutto disparità entro la comunità (ove non sempre i maggiorenti erano pure i maggiori contribuenti …), ma il sistema consentiva comunque al duca di avere una consistente entrata fiscale annuale percepibile senza troppe discussioni ogni volta. 30 Emanuele Filiberto aveva presenti le resistenze (… non infondate ai nostri occhi) dei Tre Stati piemontesi alle reiterate richieste di finanziamenti fatte dal padre, Carlo II: a suo giudizio, si era trattato di una delle cause della disfatta sabauda di fronte all’avanzata francese. È quindi comprensibile che abbia previsto un sistema fisso e continuativo per superare il rifiuto di contribuzioni straordinarie o la defatigante discussione del loro ammontare. La sua autorità riuscì ad imporsi rifiutando il contrattualismo medievale, basandosi invece sulla sovranità del principe (in un paese provato dalle guerre, ma pure un po’ in colpa per avere giurato fedeltà ai Francesi …).

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particolarmente a cuore 31. Riuscì in tal modo ad avere una base certa e stabile, su cui fare affidamento, sia per le entrate che per la difesa, due puntichiave per l’efficacia di governo dello Stato del tempo. Dopo una prima convocazione per farsi rinnovare il giuramento di fedeltà, l’assemblea dei Tre Stati non fu più convocata, se non in Valle d’Aosta 32: da un lato era il rifiuto del vecchio contrattualismo medievale e la contemporanea affermazione ducale della propria sovranità piena 33, dall’altro era la constatazione che – tramite la diretta imposizione di ordinari tributi ducali – quelli parlamentari straordinari erano superati. È una svolta di un certo rilievo nell’ordinamento del piccolo Stato, tanto sul piano pratico che su quello teorico 34. Per il funzionamento dello Stato il duca si giovò della collaborazione di tre Segretari (con competenze agli Interni, agli Esteri, all’Esercito), nonché della consulenza di un Consiglio di Stato composto di membri di sua nomina. Considerò primario il ripristino dell’ordine interno, per assicurare il quale volle organizzare meglio l’amministrazione della giustizia, in modo che fosse controllabile dal duca. Se non modificò quella feudale e cittadina di primo grado, istituì però in ogni circoscrizione del ducato (province) dei giudici di sua nomina (prefetti), che col loro buon livello facessero sentire localmente la giustizia del principe. In ultimo grado previde l’attività giurisdizionale di due “Corti sovrane”, dette Senati, una per la Savoia ed una per il Piemonte, a cui nel sec. XVII ne sarà poi aggiunta una terza per il Nizzardo. Si trattava di organi giudiziari, di nomina ducale, già introdotti dai Francesi (Cour de parlement): Emanuele Filiberto in pratica li conservò, così 31

Emanuele Filiberto riuscì a costituire così un buon esercito ducale, a cui potevano aggiungersi – in caso di estrema necessità di difesa del territorio da invasioni – milizie paesane a ciò addestrate. È uno dei pochi casi di coinvolgimento locale nella guerra, per lo più rifiutato dai prìncipi, per non armare i sudditi (per paura di eventuali ribellioni). 32 La Valle d’Aosta, in armi, si era dichiarata contraria all’invasione francese, che l’aveva risparmiata: l’assemblea parlamentare valdostana aveva conservato la sua formale fedeltà ai Savoia, ma in effetti aveva retto la valle in modo autonomo. Ciò, comunque, aveva convinto Emanuele Filiberto a consentirne la periodica riunione e la concessione di una contribuzione globale che sostituiva il “tasso” in vigore altrove. 33 La restituzione dei territori avuti dopo la pace di Cateau-Cambrésis aveva convinto Emanuele Filiberto di essersi riconquistato il ducato sul campo per propri meriti e di non doversi sentire obbligato ai precedenti patti di dedizione locali, specie nei confronti di chi nel frattempo aveva giurato fedeltà ai Francesi senza porsi troppi problemi. 34 Sono note, d’altronde, le tendenze assolutistiche del tempo … Nel ventennio del suo governo, Emanauele Filiberto è riuscito a portare a compimento parecchi progetti, a differenza di altri prìncipi.

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come fecero pure a Milano gli Spagnoli. Questi Senati giudicavano in ultima istanza; le loro decisioni (= sentenze motivate) avevano valore di ‘precedente’ per i punti di diritto risolti e quindi davano l’indirizzo interpretativo ai giudici inferiori, che in ciò dovevano seguirli; avevano inoltre il compito di ‘interinare’ gli editti ducali e pertanto avevano pure il diritto di rimostranza nel caso di mancata interinazione, come si è detto. In tal modo la giustizia – a differenza del medioevo – veniva ad avere una configurazione nel complesso piramidale, con al vertice il principe, ma con intervento (o controllo) dei Senati. Proprio per provvedere ad una migliore – e più rapida – amministrazione della giustizia Emanuele Filiberto emanò gli “Ordini Nuovi”, in un libro dei quali dettò la disciplina essenziale del processo civile, nell’altro quella del processo penale 35. Non si trattava di una regolamentazione molto diversa da quella in atto nello “ius commune”, di cui spesso erano precisati e sintetizzati i meccanismi: era però più chiara, fatta propria dal principe e come tale autoritariamente imposta a tutti i giudici dello Stato (anche a quelli feudali …), esposta in volgare (e non più in latino), dettata soprattutto per rendere più veloce il processo (contro le sottigliezze defatiganti dei forensi e le pigrizie dei giudici …). Tale disciplina doveva valere prima e contro tutto: per la prima volta nei domìni sabaudi era affermata con decisione la priorità assoluta della legislazione del principe 36. Il duca impose poi, sull’esempio francese, che gli atti giudiziari e notarili fossero scritti in volgare; il fine poteva essere una maggiore intelleggibilità, ma il mezzo è stato l’intervento autoritario del sovrano, anche contro la volontà dei privati. La legge del principe impartiva ordini, i sudditi eseguivano, tanto per questo più ridotto aspetto quanto per l’imposizione fiscale o per l’amministrazione della giustizia. L’assolutezza del potere del principe prendeva piede 37, nonostante la conservazione dei privilegi feudali e cittadini: per il suo esercizio aveva necessità di esperti validi, e quindi di giuristi. Il duca si preoccupò perciò di riorganizzare validamente gli studi universitari, interrottisi durante l’occupazione francese. Rifondò praticamente l’Università 35

La disciplina del processo civile è del 1561; quella del processo penale del 1565-68. Già Amedeo VIII aveva provato qualcosa di analogo per i suoi “Decreta seu statuta” del 1430, ma non aveva avuto fortuna. A più di un secolo di distanza, in un contesto ormai diverso, Emanuele Filiberto giungeva ove l’antenato non era riuscito. 37 Sul piano teorico Emanuele Filiberto riconosceva la legittimazione del suo potere dal titolo di duca e di vicario imperiale (ed alla fine degli “Ordini nuovi” riportava la concessione imperiale del vicariato), ma in concreto e politicamente si considerava a tutti gli effetti titolare della sovranità nei suoi Stati. 36

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di Torino, che prese veste di “Studium” di Stato, dato che Emanuele Filiberto vietò a studenti e professori di andare all’estero: per elevarne livello e prestigio fissò buone retribuzioni dei docenti a carico dello Stato e chiamò professori stranieri di fama, fra cui il ben noto Cuiacio 38. Anche questo attesta l’impegno per dare una solida struttura amministrativa al proprio Stato 39. Le basi dell’ordinamento statale, poste nel ventennio di governo di Emanuele Filiberto, si sono rivelate proficue in seguito, anche durante le travagliate vicende della dinastia nel sec. XVII, sino alla ripresa e riaffermazione grazie alla forte personalità di Vittorio Amedeo II (1685-1730), che con una spregiudicata politica è riuscito a divenire re (prima di Sicilia nel 1713, poi di Sardegna nel 1720). Con lui l’assolutezza del potere del principe, sul modello della monarchia francese, raggiunge in Italia uno dei punti più significativi: afferma il suo pieno potere legislativo con la raccolta organica delle “Regie Costituzioni” (1723 e 1729), controlla e quasi mortifica l’antica nobiltà, interviene pesantemente nella politica ecclesiastica, si impone sulle comunità con funzionari statali inviati in ogni provincia (intendenti), riorganizza in modo accentrato insegnamento ed Università, riforma la giustizia e la magistratura facendo sentire il peso del suo solo volere.

4. Il diritto e lo stato di natura. Hobbes, Locke, Grozio L’ambiente dei giuristi dell’età moderna non è rimasto insensibile a cambiamenti via via avvenuti in concomitanza con l’affermazione del potere del principe e di quello oggi detto dello Stato moderno. Le loro riflessioni, diffuse dalla stampa, hanno avuto un’eco maggiore di prima, tramandate com’erano un tempo unicamente dall’insegnamento o dai manoscritti. Già in passato anche sul piano giuridico c’erano state dispute importanti, riguardo alla lotta per le investiture, ai contrasti Comuni-Impero, alle Signorie. Temi come quelli della posizione e dei poteri del principe, dell’autonomia della fede religiosa personale, della guerra o della conquista non potevano non essere particolarmente sentiti nel dibattito dei dotti. In più adesso c’era la stampa, a fare da cassa di risonanza e ad allargare le conoscenze e le discussioni. Anche i “consilia” dati ai prìncipi da giuristi di fama per risolvere spe38

Cuiacio si fermò solo un anno, altri professori stranieri invece si radicarono accanto a docenti piemontesi noti, come Cravetta, al quale il duca impose con la forza di rientrare dall’Università di Pavia. 39 Laureati in giurisprudenza di buon livello venivano infatti a sostenere la nascente amministrazione, in specie nel campo giudiziario.

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cifiche controversie erano editi e rientravano fra gli strumenti di discussione politica. Data la diffusione dei testi e delle posizioni, non è possibile dare se non qualche cenno sui personaggi e sulle opinioni di maggior rilievo. Naturalmente, da parte di un certo numero di giuristi ‘culti’ legati all’ambiente ugonotto si polemizzò contro prìncipi che imponevano una determinata religione (non calvinista). Ne emerse un filone europeo di “monarcomachi”, portati a giustificare persino l’omicidio del principe, se irrispettoso o violatore di un patto sociale fra governati e governante comprendente la libertà religiosa. Ci furono però pure posizioni meno cruente e più moderate, comunque tutte orientate a difendere la possibilità di professare il proprio ‘credo’ religioso; fra queste, si può ricordare quella, tollerante, dei Sociniani, facenti capo alle idee dei discendenti di un noto giurista italiano, Socini (o Sozzini) 40, impegnatisi a fondo proprio nel sostenere – anche sul piano del diritto – la libertà religiosa, in un ambiente all’epoca particolarmente conflittuale e intransigente in materia. Le opere a cui si deve portare maggior attenzione sono quelle, molto note, di autori che si posero il problema dei poteri – e dei limiti – del principe, e di conseguenza dello Stato. Si è già sintetizzato il pensiero cinquecentesco di Jean Bodin, sensibile ad illustrare sul piano teorico lo sviluppo di una monarchia (francese) avviata a porsi come “sovrana”, in un processo storico indirizzato verso l’assolutismo. Altri in Francia ne accentueranno la tendenza, fino alla tesi del potere del re per diritto divino del secentesco Bossuet. Il teorico di maggior rilievo dell’assolutismo regio è però l’inglese Tommaso Hobbes (1588-1679), che nel “De cive” (1642) e nel “Leviatano” (1651 in inglese, 1668 in latino) offre la prima grande costruzione scientifica moderna dello Stato e del diritto, in chiave assolutistica, muovendo dal diritto naturale. Vissuto spesso in Francia, filomonarchico e assolutista, influenzato dalle tormentate pretese della Corona inglese del tempo, Hobbes parte dalla sua valutazione – pessimistica – che nello stato di natura e per propensione “naturale” l’uomo non si dimostra portato alla vita pacifica ed al diritto, ma alla violenza ed alla sopraffazione (“homo homini lupus”). Ne consegue che la vita associata non può presentarsi che come “bellum omnium contra omnes”: e 40

Mariano Socini ‘junior’ (per distinguerlo dal ‘senior’, giurista quattrocentesco, ancora più noto, autore di trattati civilistici apprezzati) è stato docente di un certo rilievo all’Università di Bologna verso la metà del Cinquecento. Il figlio ed il nipote furono ispiratori di questo filone della “riforma”, che ebbe seguito in Europa (sino alla Polonia), fu perseguitato e vide alcuni membri varcare l’Oceano, portando le idee sociniane in America (con influenza anche sulle dichiarazioni dei diritti di fine Settecento).

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qui, allora, l’uomo per quanto forte e vincitore di molti simili non potrà che temere di finire o prima o poi ucciso da un altro contendente. A questo punto, Hobbes pensa che l’istinto di sopravvivenza dell’uomo lo induca allora ad accettare un ‘patto leonino’ con il principe, in base al quale questo gli garantisce protezione e pace in cambio di totale ed indiscussa obbedienza. Dallo Stato di natura l’uomo esce non con diritti, ma con l’esigenza di salvare la propria vita, per soddisfare la quale rinuncia ad ogni suo possibile diritto, pago di ubbidire (da “suddito”) pur di sopravvivere. Ne consegue che principe e Stato sono autorizzati ad ogni tipo di comando: è l’assolutismo. Addirittura, il principe è fonte della legge (si torna ai princìpi degli imperatori romani …) e quindi non è tenuto a rispettarla, perché è sopra di essa: nemmeno in questa trova un freno al suo operato. La posizione di Hobbes è estremista: ogni rischio di anarchia deve essere evitato tramite il riconoscimento di un’autorità assoluta, anche a costo di sacrificare ogni diritto individuale e la libertà. La sua prospettiva è smentita di fatto sul piano giuridicopolitico dalla “prima rivoluzione inglese”, ma attesta come – pur partendo dallo stato di natura – si possa giungere a giustificare, in condizioni estreme, l’assolutismo. A meno di mezzo secolo di distanza, poco dopo la seconda “gloriosa rivoluzione”, un altro studioso inglese, John Locke (1632-1704), partendo anche lui dallo ‘stato di natura’ (come Hobbes) giunge a conclusioni diametralmente opposte, nel “Secondo trattato sul governo civile” (1690). Lo stato di natura vi è illustrato in modo molto diverso da Hobbes (con cui Locke non può non essere in polemica): esso è retto non dalla forza, ma da ragione, eguaglianza, libertà. Nello stato di natura l’uomo ha dei diritti: la ragione insegna che essi devono essere preservati ed è quindi necessaria un’autorità a cui affidarne la tutela. Si tratta del principe (o dello Stato), a cui concordemente (= per contratto) ogni uomo riconosce tale potere, ma senza rinunciare a tutto (come voleva Hobbes), ed anzi riservandosi proprio quei diritti, che provengono dallo stato di natura. Già, per Locke, lo stato di natura non può essere confuso – come voleva Hobbes – con quello di guerra; inoltre sarebbe un assurdo (= irrazionale, cioè contro lo stesso stato di natura) per l’uomo uscire da uno stato di natura (benevolo) comprensivo di diritti per ‘entrare in società’ ed accettare di perdere proprio quei diritti che lo stato di natura gli riconosceva. Il patto fra governati e governanti per consentire a questi di reggere (e dirigere) la società non può giungere sino ad escludere i diritti innati. Due sono le conseguenze principali: il patto sociale considera presupposti – e intangibili – i diritti innati; esso impegna entrambe le parti, e quindi tan-

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to i governati (a rispettare le regole di convivenza fissate dai governanti) quanto i governanti (a non debordare dagli accordi presi, col rischio di una ribellione del popolo – cioè dell’insieme degli individui che ne sono titolari – in caso di gravi violazioni). In questi punti sta la giustificazione delle rivoluzioni inglesi 41, ma anche la base della democrazia liberale individualista che emergerà dalle future ‘dichiarazioni dei diritti’ e rivoluzioni americana e francese di un secolo dopo. Locke distingue fra potere legislativo e potere esecutivo, e preferisce vederli attribuiti ad organi diversi, per evitare pericoli di concentrazione assolutistica: anche in ciò può aver presente la situazione recente dell’Inghilterra, con il Parlamento per il legislativo ed il re per l’esecutivo. Alcune sue ricostruzioni dello stato di natura possono essere un po’ ingenue, alcuni passaggi da questo al patto sociale ed alla posizione dei governanti possono essere un po’ arditi, ma il suo pensiero ha lasciato una traccia profonda, non solo nell’Inghilterra del suo tempo appena pacificata, ma in Europa ed in America per tutto il Settecento. Sarà in specie ad alcune sue affermazioni che si rifaranno le ‘dichiarazioni dei diritti’ dei ‘buoni popoli’ del nuovo Continente americano: John Locke ha avuto un peso notevole per le vicende – anche istituzionali – successive.

JOHN LOCKE Secondo saggio sul governo civile (1690) L’evoluzione del pensiero di John Locke è stata considerevole; il punto più rilevante riguarda i due trattati sul governo elaborati verso il 1680, di cui il secondo è stato edito nel 1690, dopo la “gloriosa rivoluzione” che ha portato sul trono d’Inghilterra Guglielmo d’Orange. In vari passi Locke insiste sulla necessità di partire dallo “stato di natura” e fa presente che esso è “uno stato di perfetta libertà nel regolare le proprie azioni e nel disporre dei propri averi e della propria persona come si pensa opportuno entro i limiti della legge di natura” e rappresenta pure una condizione di eguaglianza fra i singoli individui, di modo che “tutti essendo eguali e indipendenti, nessuno deve ledere un altro nella sua vita, salute, libertà e proprietà”. Tale stato riguarda gli “uomini viventi insieme in conformità con la ragione, senza un superiore che abbia il potere di giudicarli” (lib. II, 19). Lo stato di natura risponde quindi a ragione e comporta l’esistenza – innata – del diritto alla vita, alla salute, alla libertà, alla proprietà. Con il passaggio dallo stato di natura a quello di società l’uomo non 41

Non si deve dimenticare che Locke (dall’Olanda, ove si era rifugiato) è stato fautore della rivoluzione che ha portato a re d’Inghilterra Guglielmo d’Orange, e che l’edizione dell’opera avviene poco dopo, nel 1690.

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può perderli: il contratto sociale su cui si basa il potere dello Stato e dei governanti deve garantirli. Pur essendo quindi in ogni Stato il potere legislativo quello supremo, trova un preciso limite in questi quattro diritti: se li viola, è legittima la resistenza. In Locke trovano quindi la loro base il garantismo ed il costituzionalismo moderni. “Per comprendere bene il potere politico, derivandolo dalla sua origine, dobbiamo considerare quale sia lo stato naturale in cui tutti gli uomini vivono: esso è uno stato di completa libertà nel regolare le proprie azioni e nel disporre delle cose e delle persone, come sembra più opportuno, nell’ambito della legge naturale, senza chiedere licenza, né dipendere dalla volontà di chicchessia. È, inoltre, uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e giurisdizione è reciproca, essendo tutti sullo stesso piano. (...) Nessuno ignora questo rapporto di eguaglianza che esiste tra noi e quelli fatti a nostra somiglianza. (...) Pur essendo questo uno stato di libertà, non è peraltro uno stato di licenza: sebbene l’uomo allo stato naturale goda di una libertà incondizionata nel disporre della propria persona e dei propri averi, non ha, tuttavia, quella di distruggere né se stesso né qualsiasi creatura in suo possesso. (...) Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che condiziona tutti: questa legge è rappresentata dalla ragione, che insegna, a chi è disposto a prestarle ascolto, che, essendo tutti eguali e liberi, nessuno dovrebbe attentare alla vita, alla salute, alla libertà ed agli averi altrui. (...) Non in virtù di un patto qualsiasi si pone termine allo stato di natura tra gli uomini, ma soltanto in base all’accordo reciproco di entrare in un’unica comunità e di formare un solo corpo politico.”

Oltre ad essere state quasi alla base del garantismo consuetudinario inglese, le affermazioni di Locke hanno riscosso notevole successo fra gli intellettuali del sec. XVIII. Fra gli altri, ne sarà a fondo influenzato Montesquieu. Inoltre queste enunciazioni, nel complesso abbastanza facilmente comprensibili, si sono diffuse nel Settecento presso gli elementi più colti dei coloni inglesi sbarcati in America e contribuiranno ad ispirarne le motivazioni ideali della contrapposizione alla madre-patria, sino all’indipendenza. Da secoli esse sono pure un ‘classico’ delle concezioni liberali di limitazione del potere dei governanti e dello Stato.

Alla natura e al diritto naturale si collega anche la dottrina di un altro studioso secentesco, più ‘giurista’ dei due precedenti, ma non meno importante, l’olandese Ugo Grozio (Huig de Groot, 1582-1645), la cui opera più famosa, il “De iure belli ac pacis” è stata edita a Parigi (ove l’autore era esule) nel 1625. Di religione calvinista 42, Grozio risente di una certa influenza 42 In effetti Grozio era stato perseguitato nella ‘liberale’ Olanda dagli stessi Calvinisti perché di una corrente minoritaria e dopo la prigionia si era rifugiato a Parigi … Ciò

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delle concezioni giusnaturalistiche della cattolica “Scuola di Salamanca”, ma vuole fornire la sua costruzione del diritto – in specie nei rapporti internazionali – su base prettamente laica e razionale. Egli, partendo da intuizioni di altri giuristi anteriori 43, viene infatti a prospettare un ordine giuridico sopranazionale basato sul principio per cui “pacta sunt servanda”: è considerato il fondatore del nostro diritto internazionale, imperniato sulla parità di rapporti formali fra i diversi Stati sovrani. La superiorità dell’Impero ormai non è più presa in considerazione: ci sono invece gli Stati, sovrani, ciascuno su piede di parità con l’altro. Più di vent’anni prima della pace di Westfalia del 1648, Grozio presenta un “diritto delle genti” (secondo l’espressione con cui era indicato il diritto internazionale) fra Stati, ciascuno con gli stessi diritti sovrani degli altri. La sua sensibilità politica di olandese travagliato dalle difficoltà del suo paese lo porta a sostenere – contro gli Inglesi – la libertà dei mari e del commercio marittimo, nonché la problematica della liceità della guerra e quindi della ‘guerra giusta’ nei due aspetti giuridici del suo inizio (“ius ad bellum”) e del suo successivo svolgimento (“ius in bello”). Per Grozio il diritto deve rispondere alle caratteristiche essenziali della natura umana, caratterizzata da razionalità e socievolezza. Con questi due punti di partenza si presenta il ‘diritto naturale’, espresso per le esigenze dell’uomo, nel quale trovano posto il rispetto per la proprietà, l’obbligo di non contravvenire agli impegni presi, la responsabilità penale personale. Su questi ed altri princìpi deve basarsi il diritto positivo. Grozio nel complesso risente ancora dell’umanesimo rinascimentale e del giusnaturalismo aristotelico (nella versione della “seconda scolastica” spagnola), ma la grandissima fortuna successiva del suo pensiero – forse eccessiva – lo ha portato ad essere considerato il punto di partenza del giusnaturalismo moderno, in specie del filone tedesco da Pufendorf (1632-1694) in poi.

5. La dottrina privatistica Giurista molto importante per la dottrina contemporanea e successiva è stato il francese Jean Domat (1625-1696), la cui aspirazione è stata quella di ‘mettere ordine’ nel diritto del suo tempo, di fronte al discreto disordine che – come magistrato – constatava giornalmente esistere. Le sue osservazioni, e non impedisce che sia sensibile alle opinioni dei filosofi-giuristi cattolici spagnoli (in specie Vitoria e Suarez). 43 Ad esempio gli italiani Pietrino Belli e Alberico Gentili.

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soprattutto la sua costruzione dottrinaria, hanno avuto una grande influenza nella formazione delle generazioni successive dei giuristi francesi, sino alla redazione del codice civile del 1804, tanto da esserne considerato – con il successivo Pothier (1699-1772) – uno dei due ‘padri’ ispiratori. La sua opera dottrinaria è composta di due parti, di cui la prima (“Les Loix civiles dans leur ordre naturel”, 1689-94) ben più importante, alla quale seguirà la seconda (“Le droit public”, postumo ed incompleto, 1697). Domat è un romanista, che in continuazione di Donello, a differenza di altri giuristi francesi, apprezza molto in sé i princìpi del “corpus iuris” giustinianeo, ma ne critica invece a fondo l’incongrua disposizione. Il diritto privato romano gli appare corrispondente a ragione (e quindi ‘naturale’) nei princìpi, irrazionale invece nell’organizzazione. L’ordine ‘naturale’ e razionale (siamo nella Francia cartesiana) deve procedere dalle definizioni ai princìpi, dai princìpi alle regole: deve essere costruito ‘geometricamente’ secondo una nuova architettura: è quanto Domat effettua nella parte delle “Loix civiles”, con una prospettiva di semplificazione e chiarificazione del diritto privato (in specie in tema di obbligazioni e successioni). Domat ha dato nuovo ordine ai princìpi del diritto privato romano (contro numerosi critici francesi), ne ha illustrato la razionalità e la ragionevolezza logica (“l’esprit”) e ne ha presentato una nuova organizzazione sistematica. Sono le categorie e le distinzioni che in buona parte saranno utilizzate nel testo definitivo del codice civile del 1804. Domat è soprattutto un civilista, come dimostra l’ampia redazione della prima parte della sua opera. La seconda è stata destinata al diritto pubblico (per così dire, costituzionale e amministrativo) ed a quello processuale (procedura civile e procedura penale): per quanto incompleta e postuma, presenta un disegno chiaro e preciso. Anche quest’impostazione generale ha avuto il suo seguito, non subito, ma al momento della codificazione napoleonica (1804-1810): la suddivisione per materia fra i vari codici risente senza dubbio del suo piano architettonico generale 44. In prosecuzione all’opera di Domat, un altro giurista francese, vissuto nel secolo successivo, è importante per l’influenza che avrà sui redattori del codice civile francese del 1804: si tratta di Robert-Joseph Pothier (1699-1772). Il giurista tramite la sua cultura doveva a suo giudizio riuscire a costruire in 44

Poiché, come noto, ancor oggi l’impostazione dei codici napoleonici è quella per lo più seguita dal diritto codificato (anche in Italia), si può quindi facilmente dedurre il rilievo che il piano architettonico generale di Domat ha avuto nel campo del diritto nei secoli successivi, sino ai nostri giorni. Si può dire empiricamente che Domat e Pothier siano stati, rispettivamente, il “nonno” ed il “padre” del codice civile francese del 1804.

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modo unitario i diversi istituti giuridici partendo dalle diverse fonti della tradizione francese (del diritto romano, del diritto consuetudinario, della legislazione regia, delle decisioni dei magistrati): cercò di dare in proposito il suo contributo con una riesposizione della tradizione romanistica (“Pandectae justinianeae in nouvum ordinem digestae ...”, Parigi 1748-52), ma pure con numerosi trattati, in cui si prefisse un’esposizione organica via via dei singoli istituti (i più significativi sono il “Traité des obligations”, ParigiOrléans 1761-64, il “Traité du contrat de vente”, Parigi-Orléans 1762, il “Traité du droit de domaine de propriété”, Parigi-Orléans 1772). In tal modo Pothier offrì ai giuristi del suo tempo soluzioni operative e pratiche, più accessibili della costruzione teorica di Domat: fu quindi parecchio seguito dai redattori napoleonici del progetto definitivo di “code civil”. Per tutta l’età moderna si sono susseguite opere giuridiche a stampa di numerosi autori, che hanno contribuito ad approfondire i diversi problemi, ma pure a rendere più complesso un quadro generale, che non sembra il caso di seguire. In specie, accanto ai numerosi trattati con argomenti specifici, sono stati molto diffusi due ‘generi’ letterari: le edizioni di “consilia” (con il limite di essere influenzati in certi casi dalla necessità dell’autore di sostenere le ragioni del suo cliente …) e le raccolte di “decisiones” dei principali tribunali europei, per lo più Corti sovrane, con le motivazioni dottrinarie delle loro sentenze. Tali opere avevano un rilievo senza dubbio maggiore nello Stato del tribunale di emanazione, ma avevano pure – per la fama di alcuni di questi tribunali – una circolazione internazionale, ed anzi erano a volte gli stessi prìncipi a favorirne la stampa per accrescere il prestigio dei propri tribunali. Nei secc. XVII-XVIII si afferma inoltre un’importante filone di dottrina sul diritto mercantile, con rilevanza naturalmente internazionale (come il diritto commerciale del tempo), dopo che con la metà del sec. XVI l’edizione del “De mercatura” dello Stracca ha aperto alla riflessione dei giuristi ed alla costruzione del diritto comune gli usi ed i contratti mercantili. Non si giungerà in proposito, se non alla fine del Settecento, ad organiche opere dottrinarie, ma nell’ampia casistica si vengono a segnalare in tutta Europa le “decisiones” di importanti tribunali commerciali (tra cui la Rota genovese) e la rielaborazione dei “consilia” del genovese Casaregi, editi nei “Discursus legales de commercio” a partire dal 1707. A conclusione, si può ricordare ancora un giurista italiano, il più noto del Seicento, Giovanni Battista De Luca (1613-83), grande avvocato e consulen-

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te napoletano, che nei 15 volumi del suo “Theatrum veritatis ac iustitiae” (1669-73) ha raccolto le migliaia di casi trattati come avvocato e consulente, dimostrando di volersi in parte staccare dalla ricorrenti citazioni di opinioni di altri giuristi. Egli, infatti, preferisce esporre la consequenzialità e coerenza del ‘suo’ ragionamento giuridico, limitando il richiamo all’autorevolezza di altri autori: è la fiducia nella propria opera di giurista ed il rifiuto della ridondanza nella citazioni altrui. Proprio ciò dimostra la stanchezza e la noia di un illustre giurista per l’eccesso di citazioni dottrinarie. Il De Luca, inoltre, merita di essere ricordato per un manuale di sintesi (“Il Dottor Volgare”), in italiano, in cui illustra in modo nel complesso elementare ad un pubblico colto, ma non di giuristi o esperti, le principali regole giuridiche, secondo un’aspirazione divulgativa, che non era frequente, ma che poteva indubbiamente essere utile al di fuori del ceto dei giuristi.

6. Il sistema giuridico Il sistema giuridico dell’età moderna resta quello del diritto comune, nonostante le crepe, le oscurità, le incongruenze. Sin dal Cinquecento si sono levate voci ed aspirazioni di studiosi (Nevizzano, Hotman …) tese a cambiarlo e superarlo, ma la soluzione non era né facile né pronta. Mancava inoltre l’autorità che potesse provvedervi. Nel Settecento Ludovico Antonio Muratori, sottolineandone le manchevolezze, si rivolgerà invano all’imperatore ed al pontefice per un loro intervento, ma già prima queste erano autorità ormai ‘spuntate’, non in grado di affrontare nemmeno il problema. Toccava agli Stati, ma né essi né la situazione erano nel complesso maturi, per le vischiosità – oltre le difficoltà – che impedivano una riforma radicale. Il cardine del sistema stava quindi ancora nella secolare “interpretatio” dei giuristi, cioè nella dottrina giuridica del diritto comune, che si basava sui passi del “corpus iuris civilis” e del “corpus iuris canonici”, ma che da queste fonti poteva nello stesso tempo dedurre anche princìpi nuovi. La ventata umanistica ne aveva messo in rilievo non pochi limiti sul piano storico o logico, ne aveva scalfito alcune sicurezze, ma nel complesso non ne aveva distrutto la credibilità complessiva. Il “mos gallicus” non ha in generale abbattuto il “mos italicus”, che in Europa ha continuato per la sua strada, pur con i comprensibili aggiornamenti. La diffusione a stampa di opinioni sempre più numerose e varie ne ha però reso troppo frastagliate e diverse le conclusioni, causando insicurezza ed oscurità nel sistema. Nel presupposto di conservarlo, ma con l’obiettivo di migliorarlo, sono stati fatti passi – ciascuno in modo coerente, ma autonomo rispetto agli altri – in almeno tre direzioni.

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Di uno si è già detto: si è cercato di dare un valore ed un’incidenza superiori ad un certo genere di soluzioni, o perché comuni (“communis opinio doctorum”) o perché qualche principe ha previsto per legge che nel suo Stato l’opinione di alcuni giuristi famosi (Bartolo, Baldo …) prevalesse. Ma si è pure stabilito di dare valore di ‘precedente’ in quel certo Stato alle soluzioni ed ai princìpi seguiti dalle decisioni del supremo tribunale dello Stato. Tali “decisiones” sono state raccolte, commentate (secondo la metodologia del diritto comune) ed edite per farle conoscere ai pratici del tempo perché conoscessero le precedenti decisioni giurisprudenziali e ad esse si attenessero pure in seguito, come d’altronde avrebbe poi fatto il supremo tribunale principesco 45. L’autorevolezza di alcune di queste raccolte ha però superato i confini locali e si è quindi affiancata in Europa alle altre raccolte giuridiche, ma alla base di ciascuna di esse stava, pur sempre l’autorità del principe, in nome del quale l’organo di emanazione agiva. In una seconda direzione si è mossa, pur secondo strade diverse, una parte – in certo senso la più sensibile o raffinata – della dottrina cinquesecentesca. Si può dire che abbia proseguito secondo le prospettive di quel filone ‘culto’, che ha trovato la migliore espressione in Donello ed ha inseguito – anche se in modo ancora un po’ nebuloso – la ragionevolezza degli istituti e del sistema. Obiettivi diversi, ma nel complesso con traguardi finali consimili, si possono individuare pure nella ricerca della “naturalis ratio” (legata alla morale) degli studiosi della Seconda Scolastica della Scuola di Salamanca. L’ordinamento giuridico deve aspirare ad avvicinarsi alla ragione, rispondente ad una delle caratteristiche essenziali dell’uomo: ne consegue che i singoli princìpi che formano il sistema (= l’ordinamento) giuridico devono essere fra loro concatenati da logica e razionalità. Verso questo risultato finale sembrano muoversi – pur da punti di partenza e per strade differenti – giuristi diversi fra loro (tra quelli ricordati, Locke, Grozio e Domat). Si riconoscono le irrazionalità ed incongruenze esistenti, ma la scienza dello studioso di diritto aspira a smussarne con la ragione le asperità o le differenze per ricomporle in un sistema razionale. Questo può continuare a partire dai princìpi e dai passi del diritto comune, ma la scienza giuridica deve ricomporli in una nuova sintesi, che pare in un certo senso ispirata dallo spirito cartesiano del secolo, dalla ‘natura’ e dal diritto naturale. Si forma così il filone del giusnaturalismo sei-settecentesco. Mentre sono date alle stampe naturalmente nuove opere, con ulteriori

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Cfr. supra, § 3 del capitolo Umanesimo e diritto.

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opinioni che non possono se non rendere più complesse le singole soluzioni, gli studiosi più sensibili alle indubbie difficoltà del sistema ne prospettano quindi una riorganizzazione secondo princìpi ispirati alla ‘natura’ dell’uomo ed alla razionalità. In proposito la ricomposizione concettuale e sistematica di Domat è eloquente. Ad essa si collega l’opera di Pothier, che la approfondisce e completa. Ciò non avrà un rilievo immediato nella pratica (che continuerà secondo la sua forza d’inerzia), ma sarà nel lungo periodo un punto importante di riferimento sia per la formazione dei giuristi (francesi) sia per la successiva riforma (e la rifondazione) dell’ordinamento tramite la codificazione. Una terza via percorsa al fine di semplificare il sistema è stata quella della legislazione. Ciò a tutta prima può sembrare in contrapposizione col diritto comune, o almeno un ulteriore elemento di complessità, perché alle regole ed ai princìpi dello “ius commune” si vengono ad aggiungere le leggi dei singoli Stati. La situazione dev’essere però esaminata con un minimo d’attenzione. La legislazione d’età moderna aspira per lo più non a contrapporsi ma ad integrarsi col (e nel) sistema del diritto comune. Essa può venire a differenziare l’ordinamento di uno Stato dall’altro, ma riconosce sopra di sé l’insieme dei princìpi e dei concetti dello “ius commune”: non intende generalmente enunciarne o costruirne di nuovi, prende atto di quelli esistenti (proprietà, omicidio, dolo, tutela, ecc.), di cui si propone piuttosto di dare una specifica disciplina locale su singoli aspetti o problemi. Naturalmente le regole determinate dalla legge prevalgono in quello Stato sull’eventuale disciplina del diritto comune, che quindi – più la legislazione si estende – più vi si presenta come residuale. Ma il diritto comune resta come ‘collante’ generale di tutto l’ordinamento statuale, ed inoltre come collegamento unitario con quello degli altri Stati. La legislazione può però agire anche in un altro modo. In alcuni casi – importanti – il principe percepisce che la complessità del diritto comune – a causa di opinioni dottrinarie contrastanti – ne rende oscuro il sistema: procede allora, in un certo settore o su una determinata materia, a predisporre con una sua legge organica la disciplina complessiva, ispirandosi alle stesse regole già presenti nel diritto comune, ma facendo scelte precise e chiare in sostituzione della pluralità o dell’oscurità delle soluzioni. Il legislatore fissa le regole per il suo Stato, ma non le inventa “ex novo”, le sceglie per lo più fra quelle esistenti nella complessità del diritto comune. Ciò si nota con una certa facilità, ad esempio nelle “Ordonnances” di Luigi XIV sulla procedura (e pure già negli “Ordini nuovi” di Emanuele Filiberto): d’ora in poi il processo che già si svolgeva secondo regole simili ma più lente e complesse deve

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seguire quanto imposto con legge. Le stesse “Ordonnances” francesi sul commercio e sulla marina non dettano una disciplina di per sé nuova, ma esprimono in modo chiaro regole diffuse a livello europeo nell’ambiente mercantile: per questo sono leggi francesi (e quindi vigenti in Francia), ma possono anche essere seguite ed usate oltre i confini francesi, perché mettono per iscritto (= consolidano) regole preesistenti di ampio uso. In tal modo il legislatore fissa, sceglie, precisa con la sua forza imperativa quanto in buona parte già è presente nel complesso sistema del diritto comune, anche se può cogliere l’occasione per inserire pure delle novità. Lo spirito comunque è quello di sostenere e chiarire il sistema, non di sostituirlo. Il diritto comune resta, anche se invecchiato e criticato. La legislazione statale gli si affianca, ma non ha ancora la forza di abbatterlo: la dottrina dei giuristi persiste a guidare le ‘regole del gioco’ della vita sociale, con il prestigio della scienza. Ma accanto ad essa si inserisce la legislazione, forte dell’autorità impositiva dello Stato. Col tempo, naturalmente – ma non sempre meritoriamente – finirà con l’imporsi, tra Settecento e Ottocento.

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XVI AMBIZIONI DI CAMBIAMENTO GIURIDICO NELL’ULTIMA ETÀ MODERNA

SOMMARIO: 1. La legge strumento di riforma del principe illuminato. – 2. Per un sistema giuridico nuovo: aspettative dalla codificazione. – 3. Verso una giustizia ‘nuova’? – 4. Politica tributaria statale innovativa. – 5. Proposte riformatrici e prìncipi “illuminati”. – 6. Alcuni esempi: Montesquieu, Rousseau, Kant, Beccaria. – 7. Il sovrano e l’abolizione dei privilegi cetuali. – 8. Il sovrano contro i privilegi ecclesiastici. – 9. Il sovrano contro i privilegi nobiliari. – 10. Politica e legislazione del sovrano verso corporazioni e comunità. – 11. Le riforme settecentesche in Italia. – 12. Germi delle idee delle riforme settecentesche.

1. La legge strumento di riforma del principe illuminato L’ultimo periodo dell’età moderna dalla fine del Seicento alla fine del Settecento rivela la ricerca di un nuovo assetto giuridico, che poi si estende pure a quello sociale e politico. Esso presenta aspetti di rilievo, anche perché si può dire l’inizio di quanto esiste tuttora nella cosiddetta cultura occidentale, che è apparsa negli ultimi secoli quella predominante. Si tratta, peraltro, di elementi diversi, fra loro a volte anche contradditori: in questa sede ne sono richiamate solo alcune linee essenziali, data la loro notorietà. L’ordinamento giuridico è da tempo criticato: l’aspirazione a rinnovare il sistema del diritto comune è nota e diffusa, ma non trova efficaci risposte realizzatrici. Il razionalismo secentesco (di Bacon, Descartes, Leibnitz …) favorisce la prospettiva di un diritto ‘razionale’ in armonia con la tendenza ‘naturale’ dell’uomo come essere fornito di ragione: porta sia alle già ricordate conclusioni ‘romanistiche’ di Domat sia alla ricerca – sull’esempio di Grozio – dei princìpi giuridici di “diritto naturale”, su cui si sofferma il filone del “giusnaturalismo”, di area soprattutto tedesca, dei vari Pufendorf (16321694), Tomasius (1655-1728), Heinecke (Heineccius, 1681-1741) e Wolff (1670-1754), a cui si possono aggiungere gli svizzeri Barbeyrac (1674-1744) e

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Vattel (1714-1767), particolarmente noto quest’ultimo per l’individuazione di un “diritto delle genti” basato sugli Stati sovrani e quindi del diritto internazionale dell’epoca. Tali studiosi si augurano la costruzione di un diritto razionale, per lo più affidato all’iniziativa dei regnanti, in armonia con le tendenze assolutistiche del tempo. L’aspirazione al rinnovamento del diritto comune si trova, pur con prospettive diverse, anche nelle opere di due studiosi italiani, Muratori (16721750) e Beccaria (1738-1794). Entrambi auspicano – invano – un codice, che sostituisca il sistema esistente, ma il primo senza ulteriori cambiamenti politico-sociali, il secondo – illuminista – invece per una riforma generale, di cui il codice è solo un tassello o un elemento. Proprio la diversità fra queste due posizioni può indicare la varietà d’impostazioni, che verso la metà del Settecento si sviluppano tramite quel movimento intellettuale (= illuminismo) di matrice francese, che aspira ad un mutamento generale non solo dell’ordinamento giuridico ma anche di quello politico e sociale, realizzato da prìncipi “illuminati” dalle opere dei dotti europei e dalla ragione umana. Viene così progettato, nelle accademie, nei salotti intellettuali e dietro le scrivanie degli studiosi pure un nuovo assetto, politico oltre che giuridico, fornito da un principe (= Stato) assoluto, che in tal modo incide pure sulla società contemporanea. Per tutta la prima metà del Settecento, sino alla pace di Aquisgrana (1748), in Europa si era guerreggiato tra i diversi Stati (= prìncipi) nelle cosiddette “guerre di successione”, quindi con una concezione del tutto patrimoniale dei diversi regni, pretesi o destinati – come una qualunque altra eredità – a seconda delle parentele dinastiche. Nel frattempo, la dottrina giuridico-politica, specie in area tedesca, era venuta proponendo di estendere i compiti del principe (= Stato) da quelli di conservazione dell’ordine (interno ed esterno) pure a quelli di miglioramento sociale (‘felicità’ e ‘benessere’): era la “scienza del governo”, che veniva a provvedere alla sicurezza ed alla prosperità dei sudditi nello “Stato di polizia”. Questo termine non aveva quel senso denigratorio assunto in seguito 1 ed intendeva indicare l’impegno del principe (= Stato) per stimolare la produzione e la circolazione della ricchezza (= ‘benessere’) secondo le teorie mercantilistiche, ma pure per migliorare le condizioni di vita dei sudditi con l’istruzione, l’assistenza e la be1

Il termine si carica di un significato negativo in periodo liberale, indicando un sistema senza libertà. All’epoca non preoccupa questo aspetto, ancora poco – o solo relativamente – appetito nel primo Settecento, rispetto alle aspettative migliorative del livello di vita attese dall’intervento statale (… fra l’altro non sempre migliorativo … con comprensibili ulteriori lamentele per la sua autoritarietà ed arbitrarietà).

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neficenza. In tale prospettiva, le connesse maggiori spese statali dovevano essere sostenute da maggiori entrate e da una migliore organizzazione amministrativa, di cui si occupavano le cosiddette “scienze camerali” 2 riguardo alle attività amministrative e finanziarie (la “camera regis” si occupava da secoli delle entrate – e quindi del bilancio – del principe). Il quadro fornito dallo “Stato di polizia” era ben più vasto di quello precedente 3 ed imponeva un impegno maggiore sia dei regnanti che della “scienza camerale” 4: era, nel complesso, il nuovo obiettivo che i regnanti (= gli Stati) potevano assumersi dopo la pace di Aquisgrana. In effetti, nella seconda metà del Settecento in Europa il periodo di tranquillità – salvo alcune eccezioni 5 – fu abbastanza lungo e permise un interessamento dei governanti alla struttura ed alla vita interna dello Stato, che le precedenti vicende belliche in certi casi non avevano consentito 6. In connessione con questa favorevole situazione politica, nonché con le prospettive avanzate dalla “Cameralistica” tedesca 7, si è venuta sviluppando l’“età dei lumi” d’ispirazione francese, che in parecchie zone europee nel quarantennio 1750-1790 ha portato ad un programma di riforme non solo in campo giuridico, ma anche in quello politico e sociale, ispirate a precisi progetti di ampio respiro, di cui si sono fatti iniziatori e portatori direttamente i governi dell’epoca. 2

Si parla in genere di “Cameralistica”, sviluppata soprattutto in area tedesca, ove la persistenza dei “ceti” e delle riunioni di questi fa sentire in modo meno marcato l’assolutezza del potere del principe. 3 Lo “Stato di polizia” prevedeva un impegno dello Stato, che lo “Stato patrimoniale” non portava con sé, essendo questo interessato solo alla conservazione della pace sociale, quindi alla protrazione dell’esistente. Si tratta, d’altronde, di considerazioni ‘ex post’ dell’attività statale, che in ogni realtà concreta poteva essere anche diversa … Le categorie possono servire per semplificare, ma la vita (e la storia) possono essere più complesse. 4 La scienza quindi si affidava il ruolo di indicare al principe, per l’interesse pubblico (= dello Stato), i mezzi ed i fini: nascevano così la scienza dell’amministrazione e quella finanziaria ... 5 Naturalmente, continuarono i contrasti in Germania fra Austria e Prussia (con guerre ulteriori) e quelli extraeuropei, ma nel complesso il periodo fu abbastanza pacifico, specie se raffrontato a quello precedente. 6 L’Italia (salvo il Nord-Ovest) non era stata toccata neppure prima da guerre, ma ciò non aveva comunque condotto a cambiamenti, a testimonianza della staticità della penisola. 7 La scienza “cameralistica” si sviluppa in area tedesca, ove la staticità della presenza dei “ceti” e della loro rappresentanza consente di preoccuparsi dell’efficienza dell’amministrazione principesca senza timori eccessivi, in una situazione peraltro di mancanza di prospettive per i diritti del singolo, a cui è invece sensibile l’illuminismo di matrice francese.

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Le “riforme dei prìncipi”, espressione dell’“assolutismo illuminato”, per la prima volta tendono ad incidere dall’alto sull’organizzazione della società e ad imporre d’autorità determinate soluzioni, nel presupposto che ciò conduca ad un maggior benessere (= all’epoca “felicità”) a favore di sudditi, i quali in ogni caso ne sono coinvolti in modo passivo secondo un programma predisposto dai loro sovrani. Si tratta di una prospettiva innovativa di intervento statale a modifica dell’assetto sociale, della tradizione e dell’ordinamento esistenti, di cui prendono l’iniziativa gli stessi governanti. Ciò incontra adesioni e reazioni (con valutazioni anche diverse da parte della nostra storiografia 8), ma è comunque un fatto nuovo nel panorama della storia europea. Il governo – e lo Stato – si impegnano non solo per garantire la tranquillità dell’esistente, ma anche per avviare l’evoluzione della società in una certa direzione, peraltro autoritariamente individuata 9. Ad oltre due secoli di distanza, non si può non far notare l’importanza di tale novità, ormai divenuta usuale nella politica legislativa “di sviluppo” di uno Stato 10. Per raggiungere gli obiettivi prefissi lo Stato si giova dello strumento della legislazione. La legge, da manifestazione delle tradizioni o delle aspettative maturate nella società (e ‘sapientemente’ percepite dai governanti) 11, si trasforma in elemento propulsivo della stessa, anche contro le tradizioni di vita – ingenue, passive, superate? – di una parte più o meno ampia della popolazione. La legge diventa quindi strumento di governo, elemento attivo per un certo ‘programma’ politico da perseguire, mentre in precedenza non doveva 8 Naturalmente, sono sottolineate non poche ‘conquiste’ illuministe; sono però pure fatte presenti la matrice elitaria ed assolutista delle riforme, nonché un’impostazione partigiana, che non rispetta le ampie autonomie esistenti (ad esempio di Chiesa, ceti, comunità singoli territori), né le voci dissenzienti. 9 Colpisce la sicurezza – e l’assolutezza – con cui a volte alcune riforme sono programmate e portate avanti ... senza dubbi sulla bontà del programma e sul successo per la ‘felicità’ dei sudditi (a volte pure perplessi o contrari) … 10 La situazione contemporanea può influenzare il nostro giudizio sul passato, ma non si deve dimenticare che oggi è sin troppo usuale l’uso settecentesco della legislazione per sostenere le riforme: anche per questo ‘la legge’ può essere in crisi, specie quando le riforme da essa previste o non sono condivise o non si realizzano o non raggiungono comunque i risultati proposti. 11 In età moderna, come si è detto, si pensava che il legislatore dovesse esprimere aspettative condivise dai sudditi, non un proprio comando autoritario ‘senza’ o ‘contro’ le aspirazioni della popolazione: era un principio non scritto, ma insito nella tradizione dell’ordinamento. Proprio il “principe illuminato” va oltre: legifera per un obiettivo, anche non sentito da una parte consistente della popolazione, nel presupposto che i ‘lumi’ della sua ragione siano capaci di vedere quanto le tenebre da cui i sudditi sono circondati non consentono loro di percepire.

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essere se non una corretta espressione della normale vita del tempo. Essa aumenta quindi di molto il suo ruolo, anche ‘politico’. Ne deriva che pure il diritto viene ad essere considerato quasi la sommatoria delle leggi esistenti, e non più come l’insieme delle regole – spesso consuetudinarie – dell’usuale e secolare flusso della vita dell’uomo 12. Esso inoltre si presenta non più come ‘neutro’ rispetto alla società, bensì come espressione di una determinata ‘politica legislativa’ voluta dai governanti per raggiungere gli obiettivi da essi voluti, sopra ed oltre le abitudini di vita dei sudditi. Legge e diritto, quindi, perdono le caratteristiche di ‘neutralità’, che per secoli i giuristi con la loro “interpretatio” hanno cercato di sostenere 13, ma diventano parte della politica, e come questa sono allora soggetti alle valutazioni di merito (in senso positivo o negativo) dei consociati. Questi importanti cambiamenti di prospettiva si realizzano nell’Europa settecentesca, ma in modo diverso, o con ripercussioni differenti. Il regno di Francia, assolutista, si rivela impermeabile a queste istanze e refrattario a tali riforme, proprio mentre è la Francia il centro d’irradiazione dell’illuminismo. Il regno d’Inghilterra, dotato ormai di un suo sistema di vita e sul piano politico di un ordinamento di governo misto fra Corona e Parlamento, dimostra scarso interesse verso queste prospettive e prosegue in una tradizione ormai consolidata. L’area in cui si sviluppano invece con una certa incisività questi progetti riformatori è quella mitteleuropea, del regno di Prussia (in grande ascesa) 14 e dell’Impero asburgico (in faticosa riemersione statale) 15. In Italia le tendenze riformistiche sono adottate da dinastie di recente 12

In effetti, per secoli il diritto non è stato identificato con la legislazione, data la ridotta rilevanza di quest’ultima e – al contrario – l’incidenza del diritto comune. Solo dal Settecento in poi questa prospettiva si ribalta, sino all’attuale eccesso. 13 I giuristi non potevano che sostenere che legge ed “interpretatio” corrispondevano alle aspettative del popolo, dato che non era loro riconosciuto alcun potere legislativo; diverso poteva ormai essere il potere “sovrano” del principe, anche se nella stessa Francia assolutista si richiamavano le oscure “loix fondamentales” che vincolavano la Corona (fra cui poteva pure intravedersi il principio di legiferare secondo le aspettative dei governati). 14 Il principato di Brandeburgo a metà Seicento si è trasformato in regno di Prussia grazie all’opera di Federico Guglielmo I (1640-88); un altro Federico Guglielmo (17131740) avvia su scala europea il regno, che vi si afferma definitivamente con Federico II (1740-1786). 15 L’impero asburgico, superato nel 1683 l’assedio turco di Vienna, si riprende e Carlo VI riesce con la “prammatica sanzione” (1713) ad assicurare la successione alla figlia Maria Teresa (1740-80), che – pur con difficoltà – si conquista un posto nello scacchiere delle potenze europee. Nel 1736 sposa Francesco di Lorena, al quale nel 1738 (pace di Vienna) viene destinata la Toscana.

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inserimento nella penisola in conseguenza delle attribuzioni dall’alto delle “guerre di successione” 16: i Borboni a Parma ed a Napoli, gli Asburgo e i Lorena in Lombardia e in Toscana. Un caso a sé è il regno di Sardegna sabaudo, ove riforme (di marca meramente assolutista) sono già avvenute nei primi decenni del Settecento. Nel complesso si può dire che queste riforme attecchiscano in Prussia ed Austria, falliscano nell’Italia borbonica, si realizzino in Toscana e Lombardia. Tali riforme rafforzano la posizione del principe – e dello Stato – e ne accentuano la sovranità: gli altri ‘corpi’ o enti presenti nel territorio sono ridimensionati e ne sono soggiogati. La nobiltà subisce condizionamenti e limiti nelle sue secolari autonomie; la Chiesa tramite il giurisdizionalismo viene imbrigliata e controllata; le comunità locali sentono il peso ed il controllo dei funzionari statali inviati in periferia; le corporazioni mercantili ed i collegi professionali subiscono forti condizionamenti sovrani, quando non scompaiono. Per converso, l’amministrazione statale si estende direttamente nel territorio e non dipende più – o molto meno – dall’intermediazione dei ‘corpi intermedi’; la giustizia in genere viene amministrata da giudici statali e comunque si deve svolgere secondo le regole volute per tutti dallo Stato; aumentano considerevolmente le imposte dovute direttamente allo Stato ed in conseguenza le sue capacità di spesa, fra cui quelle per un più potente ed efficiente apparato militare, pronto a farsi sentire in modo deciso sul territorio. Nel complesso questa situazione, sviluppatasi in modi diversi in parecchi Stati ‘illuminati’ del Settecento, viene a rafforzare la posizione di un principe che finisce col trovare sotto di sé solo sudditi fra loro meno dissimili, essendo stati ridotti – ma non ancora aboliti – i secolari privilegi dei vari gruppi sociali: in tal modo il principe è veramente “sovrano”, cioè titolare assoluto del potere su nobiltà, clero, città demaniali, di cui sono stati ridimensionati i privilegi del passato. Nel complesso ciò si è realizzato pure nella Francia assolutista, ma senza alcuna riforma ‘illuminata’ (come pure nei domìni sabau16

Al termine delle guerra di successione spagnola la pace di Utrecht (1713) attribuisce i territori già spagnoli di Sardegna, Napoletano e Lombardia all’Austria, della Sicilia ai Savoia. Con la pace dell’Aia (1720) i Savoia devono lasciare la Sicilia (che torna alla Spagna) per la Sardegna, loro ceduta dall’Austria. Dopo la guerra di successione polacca, la pace di Vienna (1738) introduce – nel quadro dell’equilibrio europeo – nuove dinastie in Italia: la Toscana va a Francesco di Lorena marito di Maria Teresa d’Austria, (che ha lasciato la Lorena al candidato francese in Polonia Leczsynski); Napoli e la Sicilia toccano a Carlo di Borbone; Parma e Piacenza sono attribuite all’Austria. Dieci anni dopo, la pace di Aquisgrana (1748) destina Parma e Piacenza a Filippo di Borbone (fratello di Carlo, re a Napoli) a danno dell’Austria, che perde pure parte dei territori occidentali della Lombardia a favore dei Savoia, che giungono al confine del Ticino.

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di); non è avvenuto invece nel ‘governo misto’ inglese, in cui la Corona non ha colpito i “corpi intermedi” e non può non esserne condizionata. Tutto ciò nel Settecento porta comunque ad un’indubbia affermazione dello Stato e della sua sovranità, all’epoca in mano naturalmente al principe. Le assemblee dei “Tre Stati” (nobili, ecclesiastici, rappresentanti cittadini) di tradizione medievale tendono quindi a modificarsi del tutto (Inghilterra) o scomparire (Francia): ove si conservano (Germania, Spagna, Sicilia) hanno per lo più aspetto tralatizio. Il riformismo illuminato trova nel principe il propulsore, che coi suoi ‘lumi’ prende nuove iniziative per conto dei sudditi, pensando di agire nel loro interesse, senza che questi abbiano alcun diritto di sorta. In ciò sta uno dei suoi limiti. Il principe prima è “sovrano” (= con potere assoluto), poi “illuminato”. Ben diversa è l’impostazione dei “diritti innati”, che – sull’onda del pensiero di Locke, ma pure di Montesquieu e di Rousseau – affacciano dal 1776 le “dichiarazioni dei diritti” delle colonie inglesi d’America, e che nel 1789 afferma la famosa “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” della rivoluzione francese. Con queste “dichiarazioni” si apre il periodo “liberale” e l’era dei diritti – più o meno lati – del “cittadino” (non più “suddito”). Con gli ultimi decenni del Settecento c’è quindi un salto di qualità nei rapporti governanti-governati: la sovranità non fa più capo ai primi, ma ai secondi 17, titolari diretti di ben precisi diritti, degni di partecipare con propri ‘rappresentanti’ alla legislazione ed al governo. È un salto di qualità garantista, che – pur con annebbiamenti ed omissioni 18 – giunge sino ai nostri giorni. Un ruolo decisivo in proposito hanno avuto le opere di alcuni intellettuali, le cui idee diffuse dalla stampa hanno ispirato il cambiamento: tra i più noti, Montesquieu e Rousseau, ma pure Kant e Beccaria. È la prima volta nella storia che le idee degli intellettuali trovano così ampia accoglienza operativa a livello politico. I giuristi non sono in speciale evidenza, ma il diritto lo è, perché è proprio uno dei punti sui quali si concentra l’attenzione, sia per come si aspira a vederlo cambiato sia per il ruolo della legge quale elemento e strumento del cambiamento. In proposito l’ultima età moderna segna proprio nel nostro settore un punto di ‘non ritorno’, sino ai nostri giorni. 17 Come si vedrà, in epoca liberale la sovranità fa capo alla “nazione” composta dei cittadini politicamente consapevoli del loro destino comune, in seguito al “popolo” comprensivo di ogni cittadino. 18 Non si può, naturalmente, dimenticare che i regimi totalitari hanno voluto ignorare tali diritti, come le dittature comuniste, nazista, fascista o franchista, nonché altri regimi tuttora purtroppo presenti nel mondo.

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2. Per un sistema giuridico nuovo: aspettative dalla codificazione Sono state già prese in considerazione le critiche dei giuristi al sistema del diritto comune dal Cinquecento in poi: troppo complesso, confuso e oscuro, incerto, incongruente e irrazionale. Da tempo l’ambiente giuridico auspicava un cambiamento completo, ma i tentativi avviati non si erano realizzati. Le stesse grandi “Ordonnances” francesi o le “Regie costituzioni” sabaude avevano riordinato alcuni settori portandovi un po’ più di chiarezza, ma non avevano mutato il sistema. Un punto terminale di queste critiche possono essere le osservazioni “Dei difetti della giurisprudenza” (1742) di Ludovico Antonio Muratori, con richiesta al pontefice Benedetto XIV di farsi promotore di una semplificazione e di un miglioramento del sistema 19. Il Muratori, noto storico modenese, lanciava pesanti critiche al funzionamento della giustizia del tempo con la speranza di una riforma strutturale interna, senza giungere ad una rifondazione radicale, come indicavano invece i giusnaturalisti. Egli può quindi essere considerato quale ultima espressione di quei giuristi 20, che erano desiderosi di riformare il sistema senza abbatterlo. A questa radicale soluzione erano invece indirizzati i filosofi e giuristi giusnaturalisti, che da Pufendorf in poi consideravano ormai irrecuperabile la situazione, perché il diritto esistente era non solo troppo complesso ed incerto, ma anche – e soprattutto – ingiusto ed irrazionale. Erano gli stessi princìpi – al momento contro quelli “di natura” – a dover essere riscritti: non era concepibile solo una ristrutturazione, era necessario costruire tutto ‘ex novo’, con ragione e “secondo natura”. Ad esempio, persino nel diritto privato diritti delle persone e di famiglia, diritti sulle cose, obbligazioni, successioni non potevano restare ancorati ai princìpi esistenti, che a maggior ragione dovevano cambiare negli altri campi (diritto penale, processo, ecc. …). Si doveva ricostruire il diritto dalle fondamenta (cioè sulla base di nuovi princìpi) partendo dal “diritto di natura”, dalla tutela dell’individuo e della sua proprietà, dal consenso, dal rispetto dei patti, dalla difesa dell’ordine, secondo affermazioni risalenti a Grozio e via via sviluppate. 19 Il Muratori nel 1726 si era già rivolto all’imperatore Carlo VI con un progetto “De codice carolino” rimasto del tutto inascoltato. Miglior sorte non è toccata all’opera a stampa del 1742, che ha peraltro avuto una notorietà ed una diffusione rilevanti (a differenza della precedente iniziativa, rimasta inedita sino al 1935). 20 Il Muratori è noto come fondatore della moderna storiografia in Italia, ma aveva pure una buona conoscenza dell’ambiente giuridico essendosi laureato in giurisprudenza, per quanto avesse poi proseguito i suoi studi storici ed ‘antiquari’ con altri interessi principali.

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I giusnaturalisti volevano abbattere e cambiare del tutto il sistema giuridico esistente e lo stesso desideravano gli illuministi: si trattava più di ‘filosofi’ (o politologi) che di giuristi, ma le richieste erano queste. Il diritto non solo era oscuro ed incerto: soprattutto era ingiusto, e quindi doveva essere cambiato dalle radici. I “giurisperiti”, a loro volta, sembravano additati spesso come corresponsabili non solo del cattivo funzionamento del sistema esistente (come sosteneva pure Muratori), ma anche della passiva accettazione di princìpi iniqui. Ne conseguiva una palese diffidenza – per non dire contrarietà – nei confronti di chi si destreggiava fra testi e strumenti giuridici, che agli intellettuali settecenteschi sembravano sovente un paravento per difendere una situazione insostenibile, che i pratici del diritto maneggiavano a proprio vantaggio. Il cambiamento era rappresentato da una proposta – ed una parola – quasi magiche (anche se variamente intese): predisporre un ‘codice nuovo’. Il procedimento per giungervi era quello della codificazione, e gli Stati più sensibili alle istanze riformatrici vi si applicarono: Prussia, Austria, Toscana. Naturalmente, nella codificazione – e pure nei successivi codici, quando giunsero – c’erano due anime: quella di coloro che aspiravano solo ad avere un nuovo diritto più semplice e chiaro (senza radicali cambiamenti nei princìpi); quella di coloro che tramite la codificazione volevano riscrivere dalle fondamenta le basi delle regole giuridiche. Le aspettative della prima tendenza facevano capo soprattutto a giuristi, quelle della seconda annoveravano fra i fautori – con giuristi – intellettuali dai vasti progetti innovatori. Questi fecero sempre sentire la loro voce, ma spesso nei punti decisivi o conclusivi dovettero lasciar spazio a giuristi. Il codice sembrava il ‘nuovo’ strumento tramite il quale dare un ‘nuovo’ diritto alla società riformata dai sovrani dell’assolutismo ‘illuminato’. Il codice doveva sostituire la complessa ed oscura disciplina del diritto comune: quanto alla forma, doveva essere certo nelle affermazioni, semplice e comprensibile nell’esposizione, completo nella struttura (cioè senza integrazioni di altre fonti esterne), ma doveva pure – quanto alla sostanza – contenere regole ispirate a quei princìpi razionali e “naturali”, che la cultura settecentesca stava delineando ed indicando, ben diversi da quelli da secoli desunti dal diritto romano. Tali princìpi “naturali” non potevano che presentarsi come universali: il codice auspicato dagli intellettuali dell’illuminismo settecentesco doveva venire a contenere una disciplina generale sovrastatuale. Queste aspettative erano costrette però a passare attraverso le iniziative dei prìncipi (= degli Stati) dell’epoca e quindi finivano col legarsi alle singole legislazioni statuali (che avrebbero peraltro potuto essere coordinate fra loro nella sostanza).

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L’attesa per un codice universale restò però tale, perché in effetti la codificazione si tinse sempre di più di statualità: i codici, quando saranno finalmente emanati (fra fine Settecento ed inizio Ottocento), saranno proprio l’espressione della statualità del diritto contro il precedente universalismo del diritto comune. Ciò potrà essere stato favorito dallo sviluppo nel frattempo della sensibilità romantica (fautrice di una disciplina particolare per ogni “nazione”, cioè ogni Stato, rispondente ai suoi “caratteri specifici”), ma è fuor di dubbio che la codificazione, partita dal cosmopolitismo settecentesco, ha invece favorito una formale statualità del diritto. A metà Settecento si misero al lavoro per ciò con impegno le Corti austriaca e prussiana (e pure in seguito quella toscana), ma i risultati non furono né rapidi né facili né – in generale – subito soddisfacenti. Il ‘nuovo’ diritto auspicato faticò non poco a prendere la forma giuridica indispensabile, nonostante l’ampia aspettativa suscitata nel suo inizio dalla codificazione.

Il più difficile da redigere, ma anche il più significativo, era il codice di diritto civile. I primi progetti avviati per giungervi, tanto in Prussia (1751) quanto in Austria (1766), non soddisfecero e furono abbandonati. Solo nel 1794 la Prussia avrà il suo codice di diritto privato (Allgemeines Landrecht = Diritto comune territoriale), peraltro ancora piuttosto complesso. Ancor dopo si pervenne ad un codice civile nei domìni austriaci: per la sola Galizia questo fu emanato nel 1797, ma si dovette attendere il 1811 per avere un nuovo “codice civile generale” (Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch = ABGB). Nel frattempo, in Francia, dopo alcuni progetti del periodo rivoluzionario di fine Settecento, fu emanato nel 1804 il “code civil” napoleonico, col quale si tende in genere a considerare finalmente realizzato il periodo dei codici 21. Maggior fortuna ebbe in Austria la codificazione processuale sia civile (1781) che penale (1788): fu un passo avanti notevole per una disciplina unitaria, chiara e semplificata del processo, sebbene ancora ferma a princìpi assolutistici, come quelli della discrezionalità del giudice, delle “prove legali” o della persistente assenza del diritto alla difesa. In materia le garanzie giungeranno solo dopo la rivoluzione francese, per quanto circoscritte in periodo napoleonico. L’assolutismo illuminato avviò un processo riformato, che ricevette l’assetto definitivo nei codici napoleonici della Francia postrivoluzionaria. Le istanze della seconda metà del Settecento furono comunque decisive per un cambio di sistema, cosa che in concreto si rivelò però più difficile di quanto le aspettative prevedessero. Una situazione consimile si verificò nel diritto penale, ove le ampie critiche illuministiche alla situazione esistente non riuscirono però a portare appieno a soluzioni operative, come auspicato. Da un lato, il codice penale austriaco di

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Dei codici francesi si parlerà a suo tempo.

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Giuseppe II del 1787, pur affermando il principio di stretta legalità e l’unicità del soggetto penale, conservava la pena di morte e le pene corporali. Dall’altro, la “Leopoldina”, emanata l’anno prima (1786) in Toscana dal fratello Pietro Leopoldo, se era la prima legge nel mondo ad abolire la pena di morte, si dimostrava per altri aspetti non così innovativa come l’illuminismo giuridico si attendeva. Il ‘problema penale’, denunciato a lungo dagli intellettuali settecenteschi, trovava gli stessi sovrani “illuminati” piuttosto cauti nel seguirne le proposte decisamente innovative. Anche in questo settore le aspettative furono soddisfatte solo in parte.

Alcuni di questi codici, come quello penale austriaco del 1787, hanno già superato singolarmente il sistema del diritto comune, ma questo non è ancora completamente sostituito nell’ordinamento: tale cambiamento è completato e completo solo con i successivi codici napoleonici. Per questo la nostra storiografia è propensa a considerare i cinque codici napoleonici come il punto di mutamento definitivo dal sistema del diritto comune a quello dei codici: la loro semplicità, chiarezza e razionalità si unisce generalmente alla loro ‘completezza’ 22 e comporta l’abbandono delle altre fonti del diritto e del sistema del diritto comune 23. Per un ‘nuovo’ diritto, comunque, gli ultimi decenni del Settecento hanno segnato una strada dalla quale non si è più tornati indietro. La via della codificazione, intrapresa sotto la spinta del riformismo illuminato in alcuni Stati, nell’Ottocento fu seguita in altri sull’onda dell’esempio della Francia postrivoluzionaria: nel giro di un cinquantennio il nuovo sistema del diritto codificato sembrò in Europa quello adatto ai tempi. Solo l’Inghilterra se ne astenne, conservando il sistema che vi si era affermato con una tradizione secolare. Non tutti i codici furono però simili: senza entrare per ora nel dettaglio, sembra opportuno rilevare che alcuni si prefissero maggiori cambiamenti anche sostanziali (come a suo tempo auspicato dai “filosofi”), altri preferirono non innovare troppo nei princìpi, pur mutando radicalmente il sistema generale (= il codice) entro cui comprenderli, in sostituzione di quello precedente (= diritto comune). La spinta alla codificazione proviene dall’illuminismo. La realizzazione è 22 La ‘completezza’ del sistema comporta che in caso di lacune non si faccia riferimento ad altre fonti (= eterointegrazione), ma si utilizzino i princìpi in esso contenuti tramite procedimento analogico (= autointegrazione). 23 Oltre alla dottrina del diritto comune, al “corpus iuris civilis” ed a quello canonico, si abbandonano le precedenti leggi locali (statali e comunali), le raccolte di consuetudini, di diritto feudale, corporativo, e così via. Il ‘nuovo’ sistema codificato si basa sul solo codice.

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però ancora immatura con la fine del Settecento: si concretizza in modo completo nella Francia napoleonica, in un ambiente che non può non risentire delle affermazioni delle “lumières” ma che non esclude un recupero della tradizione giuridica ed un assestamento della società e dell’ordine dopo l’ampia vampata rivoluzionaria. Coi cinque codici napoleonici (1804-1810) si gira però completamente pagina rispetto al sistema giuridico anteriore: è quello che – ad oltre due secoli di distanza – resta ancora nel mondo attuale, pur con crepe notevoli e vaste istanze di cambiamento, peraltro non facili da realizzare. Si può, d’altronde, constatare – sul piano storico – che questo è stato il momento in cui nell’Europa continentale si è passati – con parecchia fatica – dal sistema del diritto comune a quello del diritto codificato.

3. Verso una giustizia ‘nuova’? Le critiche europee alla giustizia settecentesca sono vaste e profonde. Provengono da ampi settori dell’opinione pubblica e della popolazione e comprendono la stessa élite dirigente e parecchi governi dell’epoca. Non sono solo gli intellettuali giusnaturalisti o illuministi a denunciare errori, inefficienze e disfunzioni: gli stessi sovrani mostrano di esserne al corrente, ed anche di voler a volte intervenire platealmente, come nel noto caso di Federico II di Prussia riguardo al mulino del “Sans souci”, in cui per due volte il re volle decidere di persona contro le soluzioni di togati a suo parere insensibili di fronte alla realtà 24. Prìncipi ed intellettuali hanno l’impressione che i riti 24 Un mugnaio gestiva un mulino (denominato “Sans-souci”, da cui il nome di tutto il caso) e doveva pagare un canone feudale annuo per l’acqua (di cui era titolare un signore), che faceva lavorare il mulino. L’acqua era stata deviata da un terzo: il mulino non poteva più lavorare. Il mugnaio non pagò più il canone, dato che non godeva più dell’acqua. Condannato al pagamento per gli impegni a suo tempo presi, lo rifiutò: il mulino fu messo all’asta. Il mugnaio riuscì a farsi ricevere dal re, che si convinse delle sue buone ragioni sostanziali ed ordinò il riesame della controversia. I giudici diedero di nuovo torto al mugnaio: Federico II avocò a sé il caso, lo affidò ad altri giudici, i quali – nonostante le pressioni del re – giudicarono anche loro contro il mugnaio. Federico II allora fece arrestare questi ultimi giudici perché colpevoli di aver tradito la sua fiducia, ordinando che fossero puniti in modo esemplare. Ciò non avvenne: il re si convinse che i giudici agissero contro equità e si spalleggiassero tra di loro (e trascurò l’idea che si rifacessero tutti a princìpi di diritto diversi dai suoi, equitativi). Decise allora d’autorità che i giudici ultimi fossero detenuti per un anno in una fortezza ed indennizzassero il mugnaio, che aveva perduto lavoro e mulino (mugnaio noto per la famosa frase secondo cui c’era finalmente giustizia a Berlino). Il caso suscitò grande discussione. Uno dei primi atti del successore di Federico II fu quello della riabilitazione dei giudici colpiti dall’ira di questo.

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ed i ragionamenti, in cui giuristi e giudici incanalano diritto e giustizia, non corrispondano alle esigenze della società. Ne consegue un atteggiamento di sospetto – e spesso di critica e sfiducia – nei confronti dell’ambiente dei tecnici del diritto, considerati privi di sensibilità per la realtà del tempo: proprio per questo si pensa di frequente che le riforme settecentesche debbano realizzarsi con leggi adottate anche contro eventuali osservazioni diverse di affermati organi giuridici di consulenza del principe, in un’atmosfera quindi ben differente da quella dei secoli precedenti, quando i più affermati consiglieri del principe in tema di legislazione erano i giuristi. Ciò può spiegare anche perché nell’ultimo decennio del Settecento le successive innovazioni ‘rivoluzionarie’ francesi siano state spesso contrarie (o insensibili) all’ambiente forense o giudiziario. In primo luogo si denunciano le eccessive formalità e lentezze dell’amministrazione della giustizia, attribuite ad un sistema ‘sofistico’ e ‘formalista’ costruito dai giuristi, da abbattere o cambiare radicalmente. Per questo i Governi pongono mano ad una nuova disciplina dei processi e dell’ordinamento giudiziario (in Italia nel regno di Sardegna, in Lombardia, nel regno di Napoli): ciò è attuato con legge del principe, quindi con espansione del suo potere rispetto al precedente “ordo iuris” frutto della secolare “interpretatio” dei giuristi. La nuova disciplina statale del processo deve inoltre valere per tutto il territorio, in base ad un principio di uniformità affermato con forza dall’illuminismo: si applica quindi anche a quella giurisdizione (in genere di primo grado), che fa ancora capo a feudi e città: è quindi una riduzione dell’autonomia dei gruppi privilegiati ed un’estensione del ‘sovrano’ potere del principe. I risultati, peraltro, non sono così brillanti come previsto e restano comunque, pur con snellimenti ed accelerazioni, entro il sistema del diritto comune. Si fa strada, inoltre, la tendenza regia ad affermare che in caso di lacune tocchi al re provvedere direttamente, contro la precedente soluzione di affidarsi alla dottrina. È un ulteriore tassello di espansione dell’assolutezza del potere del principe-sovrano. Alla stessa conclusione giunge un’altra critica: quella dell’eccessivo “arbitrio” del giudice nella valutazione delle prove e nella determinazione della pena: la soluzione viene trovata affidando la riduzione del potere del giudice ad un’indicazione più precisa dei limiti entro i quali deve svolgersi l’attività giudiziale, affidata – naturalmente – alla legge del principe. Anche in questo caso la discrezionalità della giustizia feudale o cittadina viene compressa o eliminata: ciò è di un certo rilievo, perché era spesso proprio grazie ad essa che i giudici non statali potevano decidere tenendo presenti le aspettative di chi li aveva nominati. È un altro aspetto dei ‘privilegi’ che viene legislativamente a cadere. Possono essere significative le pagine di illuministi noti, co-

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me Beccaria o Filangieri, che pensano di attribuire alla legge del principe – come ad un ‘toccasana’ – questi ed altri compiti: alla legge del sovrano è data, con ottimistica fiducia, la funzione di mettere ordine in ogni aspetto della giustizia, nel presupposto che il suo sia un intervento giusto ed equilibrato 25. Le perplessità settecentesche verso i giudici togati inducono alcuni intellettuali a proporre pure “giurie popolari” su modello inglese, che saranno realizzate in Francia nei momenti più ‘caldi’ della rivoluzione, ma che non trovano per lo più consenso effettivo in Italia, ove la magistratura togata è stata conservata. Piuttosto, è stata criticata la complessità delle competenze stratificatesi nel tempo presso organi giudicanti diversi e speciali e si è invocata una semplificazione e razionalizzazione del sistema giudiziario, che però i “sovrani illuminati” solo in parte sono riusciti a realizzare. Ciò si è verificato in Lombardia, mentre nel Napoletano tale riforma si può dire fallita. Sarà, piuttosto, il successivo periodo di dominazione francese a portare in Italia uniformità processuale, pur senza introdurre la giuria popolare (come in Francia). L’opinabilità delle “prove legali” e della credibilità del metodo indiziario, gli eccessi della tortura e del suo uso causano pesanti critiche al sistema processuale penale, delle quali alcuni “prìncipi illuminati” tengono conto, ma in modo parziale: se la tortura viene mitigata ed in qualche caso abolita, i meccanismi del sistema inquisitorio non sono abbandonati (anche se attenuati) perché sono in definitiva inseribili ed utili in una prospettiva assolutistica. Le garanzie processuali, presenti nella tradizione inglese, saranno introdotte solo con le successive innovazioni liberali.

Esiste inoltre un ‘problema penale’, che discute sulle caratteristiche della pena, con prospettive diverse fra il filone proporzionalista (o retributivo), quello utilitarista e quello umanitario. In effetti, però, la criticata durezza delle pene non viene di molto ribaltata. Un punto ideale di indubbio rilievo – e prestigio – viene in ogni caso a marcare la già ricordata “Leopoldina” (1786), abolitrice della pena di morte, secondo l’insegnamento e l’auspicio di Cesare Beccaria ne “Dei delitti e delle pene” (1764). Si tratta del primo caso in assoluto sul piano legislativo: per quanto Leopoldo II inserisca l’abolizione della pena di morte in un contesto normativo non eccessivamente tenero verso il condannato, si deve sottolineare comunque tale abolizione, 25

La prospettiva illuminista (confermata dalla “dichiarazione dei diritti” dell’agosto 1789) vedeva nella legge un’espressione della volontà generale, in armonia con le esigenze della società: non prendeva in considerazione un uso partigiano o distorto della legislazione (come a volte possibile …).

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constatando purtroppo che, a ben oltre due secoli di distanza, ciò non è ancora stato seguito ovunque nel mondo. Le affermazioni e le aspettative degli intellettuali non sempre trovano accoglienza da parte dei prìncipi. La materia penale è quella su cui si accentuano le critiche illuministiche, che però solo in parte sono seguite dai governi settecenteschi: resteranno nel tempo, e come tali finiranno con l’avere lento ma progressivo ascolto. Ad esempio, nell’Europa continentale il principio di legalità (“nullum crimen sine lege”), seguito solo in Austria dal codice penale Giuseppino del 1787, sarà alla base dei codici ottocenteschi, così come quello dell’irretroattività della legge penale e il divieto di applicazione analogica delle norme penali. Lo stesso può valere per il principio della personalità della responsabilità penale, nonché per quello che la pena sia certa 26, pronta 27 e proporzionata al delitto 28. Le aspettative dei “lumi” della ragione in tema di giustizia sono avviate a realizzazione in alcuni Stati nella seconda metà del Settecento: si segnalano in proposito i territori asburgici, ove parecchi miglioramenti giungono a compimento grazie alla “Leopoldina” in Toscana (1786), al codice penale (1787) ed all’ordinamento sui giudizi penali (1788) di Giuseppe II nei domini austriaci (e quindi in Lombardia). Le opere degli illuministi danno uno scossone all’ambiente, portano ad una razionalizzazione e semplificazione nell’Impero asburgico (e quindi in Lombardia), giungendo sino all’abolizione della tortura e (in Toscana) della pena di morte: si tratta di novità senza dubbio importanti, di particolare significato. Non è tutto, ma è già qualcosa. Il riformismo “illuminato”, d’altronde, avviene pur sempre entro una cornice assolutistica. Il garantismo potrà svilupparsi solo in tempi successivi, in un contesto liberale, anche in tema di giustizia.

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Contro un’ampia discrezionalità del giudice e le “prove legali” si affermerà il principio che tocchi direttamente alla legge fissare la pena, con un minimo ed un massimo (entro cui il giudice dovrà stare), a garanzia del reo. 27 Si tratta di un’aspirazione spesso espressa, non sempre realizzata, da un lato per la lentezza del procedimento giudiziario, dall’altro per le esigenze di garanzie da dare all’imputato. 28 La proporzionalità sarà uno dei punti fermi dell’impostazione liberale e della “scuola classica” del diritto penale; tale esigenza non è scomparsa, ma è stata unita ad altre nel frattempo emerse nella scienza criminalistica, connesse con le caratteristiche sia del reo (pericolosità, imputabilità, ecc. …) che del reato.

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4. Politica tributaria statale innovativa Il principe d’età moderna ha una continua e progressiva necessità di denaro: le sue spese aumentano, in specie nel campo militare, per l’estensione dei ‘suoi’ dipendenti e dei maggiori impegni che deve fronteggiare. Spesso non si distingue ancora nemmeno fra spese personali o della Corte e spese – per così dire – “statali”, così come non si individua ancora completamente la diversità fra beni della dinastia e beni demaniali. In campo finanziario non si fa molta differenza fra denaro del principe e del suo casato e denaro “statale”. Nei bilanci pubblici più avanzati proprio nel Settecento cominciano però distinzioni in proposito, favorite dalla Cameralistica e tenute presenti ad esempio in Austria, sebbene principe e Stato tendano ancora ad essere per lo più considerati in modo indistinto. L’esigenza di maggiori entrate causa una maggiore imposizione: continua in genere quella di natura indiretta, di più semplice esazione. La riscossione, a sua volta, è per lo più appaltata, con notevoli vantaggi per gli esattori privati che vi provvedono. Solo l’Impero asburgico (e quindi la Lombardia) si lancia con un’ardita riforma di metà Settecento ad una riscossione diretta: è un frutto illuministico. Lo Stato tende a sovrapporre tributi suoi alla stratificazione storica di tributi locali differenziati nel territorio, con un’aspirazione razionalizzatrice, che peraltro si rivela spesso più gravosa di prima (e quindi solleva non poche resistenze o lamentele locali). Gli antichi princìpi ‘pattizi’, difesi in Inghilterra, nel continente sono superati – e sopraffatti – ormai dalla pretesa sovranità del principe (e statale): la nuova impostazione continentale è quindi quella dell’assolutezza del potere impositivo dello Stato basato sulla sua sovranità. Ne consegue che gran parte – se non tutti – dei privilegi tributari, di cui godevano con abbondanza gruppi e ceti privilegiati sia attaccata da un governo del principe, affamato di entrate, in nome di una perequazione tributaria, che incontra favore in una parte dell’opinione pubblica riformatrice. Ne dovrebbero fare le spese soprattutto i beni feudali, quelli ecclesiastici, i privilegi cittadini e corporativi, le secolari particolarità di un territorio rispetto ad un altro. In effetti, però, le resistenze sono state in proposito dure e coriacee: non sempre il principe è riuscito a superarle, a dimostrazione della persistenza e della forza del particolarismo locale o centrale. Spesso si giunge ad un compromesso onorevole, ed a volte anche a veri cedimenti sovrani, in nome della formale persistente ‘benevolenza’ regia verso certi suoi ‘sudditi’ fedeli: proprio questa situazione dimostra la relatività della capacità o possibilità del principe di imporsi nella variegata società d’ancien régime.

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Un’importante, ampia e decisa riforma tributaria è quella teresiana, attuata anche in Lombardia, che – dopo un decennio di lavoro (1750-60) – ha consentito la redazione di un catasto di carattere moderno 29 di tutti i terreni, che ha permesso la tassazione diretta di ogni unità particellare in modo proporzionale alla valutazione del suo reddito medio, senza distinzione fra i titolari e quindi con eliminazione di ogni privilegio soggettivo. In tal modo un peso più equo e diretto sulla media presunta del reddito di ogni terreno consentiva di ridurre in generale la tassazione indiretta, ma anche di favorire l’incremento di produttività della terra, considerata dai Fisiocratici il vero elemento produttivo: la tassazione del reddito medio (valutato con accurati calcoli), infatti, doveva indurre il conduttore ad una produzione migliore, perché – se sopra la media – non colpita dalla tassazione (mentre doveva spingerlo a raggiungere almeno la media, perché altrimenti doveva pagare una parte di tributo per un reddito non acquisito). L’impostazione del catasto teresiano sarà seguita nel corso dell’Ottocento da numerosi Stati ed ispirerà la politica liberista otto-novecentesca; è tuttora alla base del nostro catasto-terreni e catasto-fabbricati ed è un esempio rimasto nel mondo dal Settecento in poi, per quanto naturalmente perfettibile. L’imposizione diretta e proporzionale su base catastale può apparire oggi superata e poco ‘sociale’ per l’aliquota costante e non progressiva, ma ha rappresentato un punto essenziale per l’evoluzione della fiscalità; si è comunque trattato di un indubbio miglioramento qualitativo rispetto al precedente sistema non proporzionale ed all’imposta indiretta. Esso, inoltre, secondo le tesi fisiocratiche, si è prestato ad un incremento della produttività, che – se può aver arricchito i conduttori – ha però aumentato la produzione, con vantaggi di carattere generale.

L’imposizione fiscale basata sulla catastazione dei terreni ha messo in primo piano come contribuenti i possessori e conduttori della terra: in Toscana ed in Lombardia le riforme settecentesche hanno avuto anche un’altra importante conseguenza, sul piano politico-istituzionale. Sono stati infatti questi possessori e conduttori terrieri ad essere considerati gli elementi portanti delle comunità contadine e delle loro amministrazioni locali, con un’impostazione del tutto nuova rispetto alla secolare prevalenza in sede locale delle persone investite di feudi. Dopo secoli, la prospettiva qui è venuta mutan29

Il nuovo catasto particellare sostituisce quello “descrittivo “ da secoli in uso, ma non in grado di contrastare le evasioni o elusioni connesse con le dichiarazioni personali: grazie al progresso scientifico nel Settecento le rilevazioni geometriche e trigonometriche consentono di individuare senza omissioni e imprecisioni tutto il territorio censito (con espresse elaborazioni cartografiche). Inoltre, la valutazione “media” del prodotto annuale dei diversi tipi di terreni e di colture consente la tassazione proporzionale di ogni titolare di reddito medio presunto.

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do, ed il centro d’interesse per lo Stato ed il principe – anche sul piano politico-amministrativo – è passato alla categoria dei maggiori contribuenti piuttosto che ai discendenti delle antiche élites feudali. Ciò si è realizzato in conseguenza delle contemporanee teorie fisiocratiche, ma fors’anche in connessione con l’aspirazione delle nuove dinastie – pilotate dalla politica europea in domìni di recente acquisizione – di trovare punti di sostegno più moderni per i propri troni. Il cambiamento, comunque, sul piano giuridico-politico è di rilievo: dopo secoli, le riforme dei prìncipi tendono ad incidere non solo nelle strutture amministrative locali, ma anche in quelle della stessa società. Non è proprio una rivoluzione, ma un segno di mutamento di indubbia rilevanza.

5. Proposte riformatrici e prìncipi “illuminati” Gli intellettuali settecenteschi aspiravano a costruire ex novo non solo il diritto, ma tutta la società e la sua struttura politica secondo i ‘lumi’ della ragione. Già in passato erano stati concepiti ed esposti programmi con analoghe finalità: i loro autori però erano stati considerati dai governanti e dai contemporanei come “utopisti” (da Tommaso Moro a Tommaso Campanella …) e relegati fra il carcere e l’indifferenza generale. Nel Settecento invece la situazione è ben diversa: questi programmi, per quanto tollerati con sospetto dalla Corona in Francia, altrove sono considerati, discussi ed a volte accolti (sia pure in parte), ad esempio presso le Corti di Berlino, Vienna, Napoli o Firenze. Per la prima volta i programmi di governo includono fra i loro intendimenti alcune delle proposte concepite a tavolino. Non si tratta di accoglienza ingenua. Le riforme dei prìncipi ‘illuminati’ non ne minano il potere, anzi spesso possono renderlo più assoluto, cioè “sovrano” (come all’epoca si può pensare debba avvenire in un vero Stato “moderno”). Esse tendono a ridisegnare il diritto, ma pure la società, abolendo o riducendo secolari privilegi considerati ormai anacronistici (in capo a nobili, ecclesiastici, corporazioni): dopo tali riforme i ceti già privilegiati sono ridimensionati nella loro essenza – e nel loro potere anche politico – e perdono le precedenti possibilità di contrapposizione nei confronti del principe, “sovrano” in ogni senso. L’abbassamento dei ceti privilegiati li livella – o meglio, avvicina – al diritto comune, non a vantaggio specifico della crescita di altri, ma a favore del solo potere esistente, dal quale tutto promana, quello del “sovrano” 30. 30 Ciò non esclude che una più equilibrata struttura sociale derivante dalle riforme veda migliorare la condizione economica (e pure politico-amministrativa) di gruppi ed

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Può essere ragionevole considerare inoltre che poteva esistere pure un onesto e benevolo interessamento del principe per il buon funzionamento del ‘suo’ Stato e per il futuro del ‘suo’ popolo, da avviare e dirigere verso quelle soluzioni di “benessere” e di “felicità”, su cui insistono – con ottimismo fors’anche eccessivo – sia le proposte degli intellettuali sia le prospettive di riforma enunciate dai prìncipi illuminati 31. Come si è detto, la legislazione è uno degli strumenti operativi in proposito e quindi il diritto è coinvolto direttamente in questi programmi, divenendo perciò oggetto di discussione e di scontro fra i fautori ed i contrari alle innovazioni. Ciò può presentarsi come una netta inversione rispetto al passato, quando si intendeva che il diritto fosse elemento non di parte ma di equilibrio della società, con princìpi fuori del tempo e dello spazio. La nuova filosofia “dei lumi” comporta quindi un radicale mutamento anche nella concezione del diritto, e sulla sua stessa funzione, che da una tendenziale imparzialità passa a palese strumento della politica 32. Le proposte dei “philosophes” settecenteschi, avanzate negli scritti e discusse nelle accademie e nei salotti, sono a volte prese in considerazione in qualche misura da alcuni governanti 33, ma filtrate naturalmente in rapporto con le proprie esigenze di governo: in qualche caso possono essere utilizzate per la politica legislativa del sovrano, in altri sono trascurate. Questo capita con una certa frequenza: solo col tempo se ne può constatare l’influenza sulle decisioni politiche successive. Ciò avviene, ad esempio, per le osservazioni (e le conseguenti proposte) di due intellettuali, che saranno tra i più noti e seguiti, cioè Montesquieu (1689-1755) e Rousseau (17121788). Le loro idee non ispirano alcuna iniziativa ad essi contemporanea, ma a partire dalle rivoluzioni americana e francese di fine secolo influenzeranno scelte politiche anche di molto successive. Sia l’“Esprit des Lois” (I elementi (in specie borghesi, contadini o provinciali) prima nel complesso emarginati, ma questi non sono certo in grado di impensierire il sovrano, come potevano essere la Chiesa o alleanze fra nobili. 31 Ciò si può facilmente leggere in genere nel proemio delle diverse leggi, con cui si volevano realizzare le riforme, nel quale il principe indicava gli obiettivi ed i fini che si proponeva. 32 Anche se può sostenersi che l’imparzialità non esiste, e che anzi proprio una bonaria neutralità è già uno schieramento di parte a favore dell’ordine costituito, in effetti mi sembra che un’accentuata parzialità sulle scelte politiche di fondo qualifichi in ogni modo diritto e legislazione in modo ben diverso di quando questi cercano di non dipendere espressamente dalle scelte politiche di fondo. 33 Certo non a Parigi o Londra e – in Italia – a Roma, Torino o Venezia; più facilmente a Berlino o Vienna, e – in Italia – a Firenze, Milano o Napoli.

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princìpi ispiratori delle leggi, 1748) di Montesquieu che “Le contrat social” (Il contratto sociale, 1762) di Rousseau sono tuttora due classici fondamentali della filosofia politica, a cui si è ancora ispirata anche la nostra attuale costituzione. Non si possono seguire in questa sede le principali proposte illuministe, ma qualche rapido cenno – opinabile nelle scelte – è indispensabile. In proposito sembrano almeno da ricordare, fra i tanti, alcuni princìpi enunciati da quattro autori: due di cultura francese (Montesquieu e Rousseau), uno tedesco (Kant), uno italiano (Beccaria). La loro influenza è stata diversa; soprattutto, ha visto alcune loro affermazioni subire interpretazioni ed adattamenti, che ne hanno diffuso la fama in modo derivante anche dalle propensioni politiche e giuridiche dei diversi momenti. Montesquieu e Beccaria possono essersi giovati – per quanto ci riguarda – di una certa maggior conoscenza dell’ambiente giuridico per essersi laureati in giurisprudenza (e per essere stato il primo pure giudice per un certo periodo). Essi non mostrano però una particolare simpatia per l’ambiente forense, che anzi colpiscono con pesanti critiche.

6. Alcuni esempi: Montesquieu, Rousseau, Kant, Beccaria Montesquieu, per quanto giurista di formazione, è soprattutto un uomo di lettere che utilizza la sua dimestichezza col diritto per illustrare in modo ‘scientifico’, e con ampi riferimenti storici e comparatistici, le diverse possibilità e caratteristiche di regimi politici. Tra le numerose sue affermazioni, alcune sono state particolarmente apprezzate e sottolineate, anche a distanza di secoli. È un nobile 34, che critica a fondo il sistema (assolutista) entro cui è inserita la nobiltà nel regno di Francia, ma apprezza quello “misto” (o “limitato”) del regno d’Inghilterra (ove ha soggiornato), nel quale la nobiltà svolge un ruolo positivo. Non si mostra però nel complesso favorevole a repub-

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In effetti, si chiamava Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu: è noto quindi col titolo nobiliare. Divenuto avvocato a Bordeaux (1708), è stato prima consigliere (1714) poi presidente (1716) della corte giudiziaria del “parlement” di Bordeaux, carica ereditata – come il titolo – da uno zio (secondo il sistema francese della venalità delle cariche). Tale attività però non lo soddisfa appieno: nel 1721 pubblica le “Lettres persanes” e nel 1722 si installa a Parigi, ove resta a coltivare gli studi letterari e politici, tanto che nel 1725 “vende” la carica di giudice. Il sistema della venalità delle cariche (che critica) non solo non gli era ignoto, ma gli aveva pure portato qualche vantaggio …

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bliche aristocratiche (come quella veneziana), preferendo in genere una monarchia temperata. Sottolinea comunque spesso la relatività (e storicità) dei regimi politici, coprendo con una certa vena di scetticismo la ricerca di una verità assoluta, a suo giudizio impossibile (ed in ciò mostra una duttilità mancante al polemico Rousseau). Montesquieu è famoso soprattutto per il principio del “bilanciamento” dei tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario). Essi non devono (… come nella Francia dell’epoca) far capo ad un solo organo (… il re di Francia), ma essere distribuiti fra più organi in modo che ciascuno di essi controlli e bilanci i poteri degli altri. La sua impostazione è generalmente nota come “separazione” dei tre poteri, ma la sua prospettiva è più quella di un bilanciamento (fra organi diversi) che di una netta separazione (di tre specifici organi). Certo, l’aver voluto distinguere fra chi fa le leggi, chi le esegue, chi controlla come sono applicate fa emergere l’idea di aver organi appositi, con un particolare risalto assunto dall’attività giudiziaria, che per lo più sino ad allora era parte dell’amministrazione (cioè dell’esecutivo). Il suo modello politico ispiratore si trova in quello consuetudinario inglese (con un potere legislativo impersonato dal Parlamento, un esecutivo dal Governo del Re, un giudiziario di togati e giurie popolari), così come quello dei diritti innati pare legato alle posizioni di Locke. Si può capire, perciò, il suo successo anche presso gli elementi colti delle colonie americane, che – peraltro – pochi decenni dopo si opporranno proprio alle decisioni di quel Parlamento inglese apprezzato da Montesquieu.

C. MONTESQUIEU L’esprit des lois (1748) Il libro, frutto di una meditata elaborazione, svolge ampie considerazioni sui diversi regimi politici. Trattando della situazione dell’Inghilterra (ove l’autore è vissuto a lungo), il Montesquieu esprime in sintesi la sua valutazione di un ordinamento che ammira (libro XI, cap. 6) ed espone quindi – in modo quasi incidentale – quella teoria sulla separazione o bilanciamento dei poteri, che lo renderà famoso: “perché non si possa abusare del potere, è necessario che, per mezzo della disposizione delle cose, il potere fermi il potere” (libro XI, cap. 4). La tripartizione dei poteri appare dedotta da Locke, per quanto aggiornata, così come il principio della necessità di libertà per il cittadino, da assicurare tramite la legge. Si tratta dell’essenza del garantismo e del costituzionalismo moderni, che si affermeranno con le rivoluzioni americana e francese di fine Settecento.

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CAPO VI. Della costituzione d’Inghilterra “Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato. (...) Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente. Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati.” (...) Riportato dall’edizione e traduzione di S. COTTA, Lo spirito delle leggi di Charles de Secondat barone di Montesquieu, Utet, Torino, 1951, pp. 275-277.

Le incisive affermazioni precedenti tendono quasi a perdersi in un libro, che affronta numerosi argomenti più di politica che di diritto, divaga spesso con digressioni storiche su antiche situazioni del passato e non sempre è così categorico (ma preciso) come in questo punto. L’importanza di queste concise enunciazioni è stata invece enorme, tanto che spesso Montesquieu è conosciuto solo per esse, mentre ha avuto notevole rilevanza anche per altre osservazioni (come minimo quelle sulla rappresentanza, sulla legge e sulla posizione del giudice).

Al giudice l’“Esprit des lois” chiede non di essere “interprete” (come sostenuto dalla secolare dottrina del diritto comune), ma solo e semplicemente “bocca della legge”: questa spetta al potere legislativo, ed il magistrato non deve invaderne la sfera di competenza. Egli può, al massimo, giungere a vedere quale è lo “spirito” (cioè il principio ispiratore) della legge: se essa è inadeguata, non tocca al giudice cercare di provvedere, ma al legislatore. Ad ognuno i suoi compiti, nel rispetto dei tre poteri. Un altro aspetto per cui l’opera di Montesquieu è famosa è quello della rappresentanza. Con una visione più moderata (ed elitaria) di Rousseau, Montesquieu diffida (se non respinge) della partecipazione diretta di tutto il popolo alle decisioni politiche (= democrazia diretta e referendum): preferisce che esso si esprima tramite delegati eletti (= sistema rappresentativo) da

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un corpo di elettori consapevoli del comune destino politico (= “nazione”, con suffragio per lo più ristretto). Fra le numerose affermazioni dell’“Esprit des lois”, queste sono state le più fortunate, seguite tanto nelle vicende della rivoluzione americana quanto dagli ambienti liberali (moderati) di quella francese. Esse si sono tramandate nel tempo, ma hanno un po’ inaridito la ricchezza di prospettive di un’opera, che ha comunque rappresentato una pietra miliare per il costituzionalismo ed il garantismo sino ai nostri giorni, nonostante l’oscillazione – un po’ relativistica – dell’autore fra le più ampie discussioni riguardo ai regimi politici in genere. Molto diverso, anche nello stile, si presenta “Il contratto sociale” di Jean-Jacques Rousseau, un quindicennio dopo (1762): opera non finita, nelle non molte pagine presenta un’intensità di affermazioni, spesso polemiche, che sono rimaste famose. Per Rousseau 35 l’uomo – nato libero – è in effetti compresso dalle convenienze della società. La vita in società è però necessaria, e quindi necessario (e non libero) è il contratto sociale. La sovranità appartiene non al principe (... il re di Francia dell’epoca) ma al popolo, ed a questo in modo indivisibile, inalienabile ed uguale per ogni “cittadino”. Ne consegue che i diritti innati (di libertà) non possono mai essere né ceduti né violati e che non è soddisfacente la democrazia rappresentativa (con elezione di delegati in Parlamento), ma è auspicabile invece quella diretta (con partecipazione diretta di tutto il popolo, a suffragio universale). La legge è espressa dalla maggioranza del popolo: essa di per sé rappresenta la volontà generale, a cui tutti – anche la minoranza – devono sottostare. La bontà della legge sta apoditticamente nel fatto che è decisa dalla maggioranza: essa è generale ed astratta ed indirizza l’attività del popolo (e – indirettamente – del governo). La rigidità del comando legislativo può essere pesante (e persino oppressiva per il singolo), ma risponde al rispetto del disegno politico della maggioranza, e deve quindi imporsi (anche con danno del singolo …). Rousseau non è solo il teorico della sovranità popolare, della

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Ginevrino, Rousseau risente un po’ nel carattere dei rigidi aspetti ‘calvinisti’ della sua città, ma è di cultura decisamente francese e conduce una vita nel complesso varia, disagiata ed abbastanza avventurosa (almeno sino alla maturità avanzata). Ciò lo porta anche ad una diversificata produzione letteraria, di cui interessa in questa sede “Il contratto sociale” (1a ed. 1762, con varianti successive), al quale sono da aggiungere pure altri saggi, come il “Progetto di costituzione per la Corsica” (1765) e le “Considerazioni sul governo di Polonia” (scritte nel 1772, ma edite postume nel 1782).

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democrazia diretta e del suffragio universale, è il rigoroso sostenitore dei diritti innati ma pure della sacralità della legge. Data la rilevanza di quest’ultima, consegue la quasi irrilevanza della figura del giurista, la cui attività può addirittura finire con l’essere un po’ deleteria alla lineare applicazione delle legge. In armonia con le già esistenti perplessità settecentesche verso le astrusità dei giuristi, le taglienti affermazioni di Rousseau si faranno sentire anche più avanti, con la sfiducia palese dei ‘rivoluzionari’ francesi verso l’ambiente togato. Filosofo di grande prestigio della seconda metà del Settecento, Emanuele Kant (1724-1804) si presenta ad esprimere già il superamento di certi princìpi dell’assolutismo illuminato per l’adozione di quelli del successivo periodo liberale 36. Kant non porta solo a conclusione, anche giuridica, la distinzione fra diritto e morale delineata tra i giusnaturalisti da Thomasius, ma insiste soprattutto sulla necessità che l’ordinamento assicuri ad ogni individuo una fascia di libertà, proseguendo sul piano filosofico il discorso illuminista e polemista di Voltaire. Contro l’impostazione utilitaristica di Bentham, Kant richiede alla legge (ancora una volta centro-motore dell’ordinamento e del diritto) di assicurare al “cittadino” una serie di libertà, delle quali sarà lui stesso a decidere – nel suo libero arbitrio – l’utilizzazione. Il principe ‘illuminato’, demiurgo della società ma anche programmatore della strada della “felicità” per un suddito nel complesso ignaro e sottomesso, viene superato da un ordinamento pubblico (“misto” o parlamentare), nel quale il legislatore non fissa d’autorità gli obiettivi e le modalità che l’individuo seguirà, ma riesce a costruire un ambiente “di libertà”, in cui questo potrà autonomamente scegliere i propri obiettivi e gli strumenti a lui più congeniali per raggiungerli. È la prospettiva ideale del futuro Ottocento garantista e liberale, ma anche individualista e “borghese”. Il nobile milanese Cesare Beccaria (1738-1794) ha pubblicato, anonimo, nel 1764 “Dei delitti e delle pene”: il libro ha posto agli intellettuali ed ai governi del tempo il “problema penale”, visto da un giovane illuminista appena

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Nato a Königsberg nella Prussia orientale, vi ha insegnato all’Università e vi è morto, dopo una vita locale estremamente regolare e di studio. È il grande filosofo ‘laico’ dell’imperativo morale: con la sua notevole – ed ampia – opera di studioso ha avuto un rilievo considerevole anche in campo giuridico. Segna il punto d’arrivo e di passaggio dal giusnaturalismo al diritto del sec. XIX contraddistinto dalla codificazione. Al suo insegnamento si ispirano da un lato le teorie liberali, ma dall’altro pure l’allievo Carlo Marx.

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ventiseienne, sulla base anche di ampie discussioni scambiate con i suoi amici Verri 37. La vivacità polemica del volumetto, l’incisività degli argomenti e della trattazione, l’utilitaristica proposta di decise soluzioni ai diversi problemi hanno procurato subito all’opera successo universale. Il punto più noto è quello dell’appassionata accusa all’inutilità e disumanità della pena di morte, per un messaggio che è rimasto nella storia umana, purtroppo ancor oggi in parte disatteso.

CESARE BECCARIA Dei delitti e delle pene (1764) – Inizio Cesare Beccaria, primogenito di un nobile e prestigioso casato milanese, si laureò in giurisprudenza nel 1758 all’Università di Pavia. Entrato in conflitto con la famiglia per aver sposato una giovane non nobile (1760), visse per alcuni anni in povertà, sostenuto dall’amicizia dei fratelli Pietro ed Alessandro Verri, giovani nobili milanesi di alcuni anni maggiori di lui, con cui condivideva un profondo fervore illuminista. Spinto dai due Verri, il giovane Beccaria venne via via discutendo e scrivendo un saggio sulla questione penale, ampiamente dibattuta a metà Settecento, mettendo a frutto le conoscenze giuridiche acquisite, ma soprattutto le vaste letture di illuministi europei effettuate. Ne nacque un piccolo libro che, pubblicato anonimo nel 1764, per quanto un po’ discontinuo, ebbe un grande successo internazionale e diede al giovane autore vasta fama europea. Sin dal proemio, dedicato “a chi legge”, Cesare Beccaria dimostra una profonda critica – quasi astiosa – nei confronti del sistema del diritto comune, in armonia con le idee di gran parte degli illuministi europei. Le espressioni sono senza dubbio pesanti (e fors’anche un po’ antistoriche, come d’altronde avveniva nell’ambiente illuminista ed era tipico di un giovane): “alcuni avanzi” (in senso spregiativo) di norme dei Romani conquistatori (pure in senso spregiativo) “raccolti” oltre mille anni fa da un antico despota come Giustiniano sono alla base dell’attuale diritto: già questo, nota Beccaria, ne dimostra l’assurdità. Ma non basta: vi si sono aggiunte tradizioni germaniche ed un’interpretazione secolare di giuristi, che non ha portato chiarezza ma “farraginosi volumi”. Ne è quindi derivata quella “tradizione di opinioni” che è diffusa nell’Europa con37

Primogenito di un agiato casato marchionale, Beccaria entra in conflitto con la sua famiglia perché sposa una ragazza non nobile (1760): vive perciò in miseria aiutato dai due amici Verri, grazie ai quali trova poi un compromesso coi suoi genitori (1762). Il libro è frutto di intense letture di illuministi e di discussioni con Pietro ed Alessandro Verri. Personaggio timido ed introverso, il giovane Beccaria ha retto male all’improvvisa celebrità e non ha confermato in seguito le prospettive apertesi col 1764. Ha poi condotto una vita abbastanza normale a Milano, con alcuni incarichi pubblici, senza alcun segnale di ripresa della precoce genialità.

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tinentale (e che era detta “diritto comune”), e che non si capisce neppure perché tutti finiscano a seguire: Beccaria ricorda – quasi a caso, ma a ragion veduta – tre penalisti, di secoli passati, noti per i contributi dati alla dottrina penalistica, ma anche alla sua stessa complessità e severità: il tedesco Benedetto Carpzov (1595-1666), l’italiano – ed alessandrino – Giulio Claro (1525-1575), il romano Prospero Farinacci (1544-1618). Alle ormai risalenti – e in buona parte oppressive – opinioni di queste ‘autorità’ dottrinali continuavano a rifarsi i politici ed i giudici settecenteschi, quasi si trattasse di “leggi” indiscusse, che invece – secondo Cesare Beccaria – avrebbero meritato ben altra valutazione da parte dei contemporanei. “A chi legge” “Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Constantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dí d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono uno scolo de’ secoli i piú barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a’ direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente”.

Il tanto autorevole diritto romano per Beccaria è ridotto ad “uno scolo de’ secoli i più barbari”: si deve cambiare completamente sistema sulla base non di regole arcaiche, tralatizie e ingiuste, ma adottandone altre del tutto nuove, dettate dalla ragione, rispondenti alla natura dell’uomo ed alla sua umanità, in funzione dell’utilità sociale e del benessere collettivo. Ciò si può ottenere solo con un intervento rinnovatore del principe, che, “illuminato” dalla ragione, tramite una nuova legge organica da questa ispirata, ridisegni completamente il sistema penale. Con la trattazione dei diversi aspetti di questo Cesare Baccaria aspira ad aiutare il principe a prendere conoscenza dei problemi esistenti ed a dettarne la nuova soluzione legislativa: il giovane autore, infatti, ha una immensa fiducia della legge del principe “illuminato”, nella quale ripone la sua speranza di cambiamento. È la legge, infatti, a dover essere la fonte del diritto, non la dottrina o la giurisprudenza: è con l’illuminismo che si afferma quella concezione del diritto ‘legislativo’ (e non ‘giurisprudenziale’) che è alla base della codificazione (in sostituzione del precedente sistema del diritto comune).

Il giovane illuminista, da poco più di un quinquennio laureato in giurisprudenza (Pavia, 1758), denuncia le incongruenze, le arretratezze, la triste –

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ed inefficiente – caratteristica del sistema penale del suo tempo ed ha buon gioco nel proporre al ‘sovrano illuminato’ di rifondarlo su nuove basi, più utili alla società, più umane, più efficaci, più razionali. Parecchie delle affermazioni di Beccaria – certo non tutte – sono state accolte dalla politica criminale successiva: il reato come attentato alla sovranità dello Stato; la legge come unica base della pena (principio di legalità: nullum crimen sine lege); la pena come sanzione minima ma necessaria (“l’atrocità delle pene è inutile”), proporzionale alla gravità del crimine commesso; la sanzione prevista in modo certo dalla legge, eguale per tutti i rei (anche i nobili …), applicata dal giudice senza discrezionalità (quasi autonomamente), con rapidità e con umanità (senza inutili tormenti). CESARE BECCARIA Dei delitti e delle pene (1764) – cap. 28: Della pena di morte Il trattatello di Cesare Beccaria esamina i diversi aspetti del “problema penale”, ampiamente discusso dall’illuminismo settecentesco riguardo sia alla parte sostanziale che a quella processuale. Il punto più noto – e più duraturo nella sua polemica – riguarda la pena di morte, considerata non solo ingiusta e disumana, ma pure inutile ed inefficace come deterrente: se alcune motivazioni avrebbero forse potuto essere anche più stringenti, è indubbio che Cesare Beccaria è passato alla storia soprattutto per la sua contrarietà alla pena di morte, che purtroppo ancor oggi non è stata ovunque cancellata. Fra gli spunti polemici, quello più significativo può essere il primo, che merita leggere nella sua interezza. “§ XXVIII. DELLA PENA DI MORTE” “Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.”

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Il primo legislatore che seguirà l’opinione del Beccaria sarà il giovane granduca di Toscana Pietro Leopoldo (figlio secondogenito di Maria Teresa d’Austria), che poco più di un ventennio dopo, nel 1786, abolirà nel suo granducato la pena di morte con l’emanazione di nuove norme penali e processuali (la “Leopoldina”). Nel periodo immediatamente successivo il suo esempio non sarà seguito: nella stessa Francia rivoluzionaria apparirà addirittura la ghigliottina. La stessa iniziale codificazione penale ottocentesca conserverà la pena di morte.

Cesare Beccaria rivela una concezione utilitaristica del diritto penale oggi nel complesso un po’ superata, ma si presenta ancora attuale quanto all’interesse per la prevenzione del reato, alla richiesta di umanità della pena, alla pretesa di certezza e di rapidità dell’intervento sanzionatorio dello Stato (e del giudice), alla prospettiva di depenalizzazione di certi comportamenti: ancor oggi il suo agile trattatello è non solo accessibile ma anche istruttivo, e non unicamente per la “battaglia” sulla pena di morte. Il diritto penale contemporaneo vi trova un significativo punto di partenza. Numerosi altri intellettuali settecenteschi hanno saputo offrire contributi di rilievo per il ‘nuovo’ diritto, che i ‘lumi’ della ragione volevano offrire alla società. Essi non possono essere ricordati in questa sede, ma hanno ispirato spesso la legislazione successiva. La ‘filosofia’ pressoché generale di questi studiosi – pur fra loro diversi – sembra esser stata infatti la grande fiducia nella legge e nel legislatore per dare una disciplina ragionevole ed organica alla società. Di qui nasce il “mito” della legge come espressione generale ed astratta (e pure “giusta” …) delle esigenze dei consociati, in una prospettiva che ha marcato pressoché due secoli di vita successiva. Tale prospettiva oggi appare senza dubbio in crisi (se non superata) nella civiltà contemporanea. Il “mito” della legge ha, di conseguenza, ridimensionato la figura del giurista: l’attuale crisi del sistema ‘legislativo’ può riportarlo alla ribalta come elemento di mediazione e di ricerca dell’ordine in una società sempre più complessa, ma pure sempre meno disposta alle costruzioni di una legislazione (per lo più ancora statale) spesso inadeguata ai rapidi cambiamenti ed agli sconfinamenti sovrastatuali.

7. Il sovrano e l’abolizione dei privilegi cetuali Si è già detto che il sovrano settecentesco tende a ridurre i privilegi in una prospettiva di livellamento “razionale”, dalla quale trae vantaggio lui stesso

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per primo. Egli difende quello che si potrebbe dire l’interesse generale, ma finisce pure per accrescere il suo potere. Ciò avviene in specie nei confronti della Chiesa, della nobiltà, delle corporazioni, delle comunità, di cui tende a ridimensionare i vari privilegi giurisdizionali, personali, penali, ma soprattutto tributari (comportanti in passato vaste esenzioni in specie per i beni feudali ed ecclesiastici): si tratta di centri di un pluralismo di potere, che – se ridotti – limitano meno la sua sovranità. Per realizzare tale politica, è spesso usato lo strumento della legislazione, per quanto con metodi e tempi diversi, da esaminare in qualche aspetto specifico.

8. Il sovrano contro i privilegi ecclesiastici La Chiesa della Controriforma aveva acquisito un rilievo considerevole in ogni Stato dei secc. XVII-XVIII. Essa si era arrogata la difesa dell’ortodossia e dell’ordine religiosi nei confronti di posizioni eretiche o eterodosse, con sconfinamenti peraltro nel campo della società e della quotidianità. I prìncipi – e gli Stati – cattolici se ne erano giovati, ma non potevano non esserne pure condizionati. Stabilizzatesi ormai nei diversi territori dell’Europa settecentesca le divisioni religiose, si trattava per gli Stati di seguire in proposito una propria politica, detta per l’appunto “ecclesiastica”. Nei territori a prevalente religione “riformata” le Chiese locali si reggevano per lo più grazie al sostegno del sovrano, che quindi – in Inghilterra come in Olanda o in Prussia – le aveva sotto il proprio controllo. Diversa era invece la situazione nei territori a forte prevalenza cattolica, i cui sovrani non sempre si sentivano in grado di padroneggiare con sicurezza la notevole rilevanza della Chiesa e della “curia” di Roma. A favore di questa e dei privilegi ecclesiastici esisteva inoltre un filone culturale (= curialismo), sviluppatosi in seguito alla bolla “in coena Domini” 38, sostenitore della supremazia ecclesiastica a tutela della religione e dell’ordine costituito: in contrapposizione, sin dal Seicento si è svilup38 La bolla pontificia, risalente ad Urbano V (sec. XIV), è stata ripresa più volte in seguito ed in specie da papa Pio V nel periodo della Controriforma: rivendicava particolari poteri della Chiesa nella lotta all’eresia, prevedendone la supremazia in proposito rispetto al potere secolare. Proprio per questo non fu accettata ovunque: persino Filippo II di Spagna, noto per il suo intransigente sostegno all’ambiente cattolico, ne rifiutò la pubblicazione (e quindi la vigenza) nei suoi territori. La bolla fu uno degli emblemi della Controriforma, a difesa dell’“ordine” cattolico del tempo: prendendo spunto da essa, i “curialisti” sostennero il magistero ecclesiastico nella lotta all’eresia ma pure nell’indirizzo della società del tempo.

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pato un altro filone di pensiero (= giurisdizionalismo) a difesa delle posizioni dello Stato e della sua giurisdizione sul territorio, comprendente in esso pure quella sulla Chiesa e sugli ecclesiastici locali 39. La rivendicazione della sovranità dello Stato – e quindi della sua giurisdizione – portò nel Settecento a contrasti vivaci dal punto di vista politico e giuridico, ma pure a polemiche intense sostenute spesso da illuministi di fama, come Voltaire. Le pretese statali furono di almeno tre tipi: in ordine per così dire crescente, esse riguardarono la difesa delle prerogative ‘sovrane’ dello Stato dalle ingerenze ecclesiastiche; la piena giurisdizione statale sul territorio (da cui “giurisdizionalismo”) contro le pretese autonomie ecclesiastiche; infine il controllo da parte dello Stato nel proprio territorio della stessa attività della Chiesa (con le posizioni estreme del “giuseppinismo”, così detto perché sostenuto da Giuseppe II d’Austria). Si tratta di tre livelli di posizioni, che si manifestarono con strumenti diversi, e che furono sostenute in modo differente dai vari prìncipi, giungendo alle pretese estreme solo in alcuni casi o in certi periodi di maggiore tensione. Per cercare di superare proprio questi contrasti, alcuni Stati e la Santa Sede giunsero a soluzioni compromissorie con “Concordati”, che segnarono – provvisoriamente – dei punti d’incontro per parecchie controversie, proprio sul piano del diritto e grazie alla mediazione della prospettiva giuridica. Lo Stato pretese in primo luogo la piena sovranità sul proprio territorio, in contrasto – se così si vuole – con l’originarietà che la Chiesa, come ente anch’esso sovrano ed extraterritoriale, sosteneva esistesse riguardo alle proprie posizioni. Non si può dire che lo Stato, nel difendere la propria sovranità, si preoccupasse molto di quella – altrettanto originaria – della Chiesa e della secolare “libertas” di questa … Ciò si realizzò, da parte statale, con istituti come l’“exequatur”, il “placet” e l’“appel comme d’abus”, tesi tutti a sottoporre a controllo statale le decisioni ecclesiastiche prima che divenissero esecutive sul territorio.

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Si possono ricordare in proposito le posizioni di noti personaggi, come il veneziano fra’ Paolo Sarpi o poi il napoletano Pietro Giannone. Si deve però pure ricordare che sin dall’alto medioevo la Chiesa (episcopalis audientia, diritto d’asilo …) aveva una sua autonomia giurisdizionale, che si era col tempo spesso accresciuta con privilegi giurisdizionali a feudi ecclesiastici: nel Settecento quest’autonomia giurisdizionale (non solo sugli ecclesiastici) veniva a configgere con quella che il principe – e lo Stato – aspiravano ad avere in via esclusiva.

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L’“exequatur” riguardava gli atti delle autorità ecclesiastiche, il “placet” si riferiva alle nomine effettuate dalle stesse: perché tali atti o nomine potessero aver vigore (e quindi essere eseguiti) nello Stato, necessitavano dell’assenso del principe (o dei suoi funzionari), tramite un’espressa sottoscrizione positiva (“si esegua”, per l’atto; “piace”, per la persona nominata). In tal modo il principe controllava azioni e persone di provenienza ecclesiastica, fossero ad esempio una dispensa o una nomina. La Chiesa, per quanto ente originario, trovava così la sua attività limitata in quel territorio statale dal controllo del principe (= Stato), che pretendeva di esservi l’unico titolare della sovranità. L’“appel come d’abus”, di origine francese, consisteva inoltre – secondo lo stesso principio ispiratore – nella possibilità che il giudice supremo dello Stato (o altro a ciò delegato) riesaminasse un caso già deciso da un tribunale ecclesiastico per propria competenza prima che divenisse esecutivo nel territorio statale.

Un secondo gruppo di pretese statali riguardò la sottoposizione degli ecclesiastici alle stesse regole (giurisdizionali, tributarie, penali, ecc.) degli altri sudditi, con abolizione quindi dei relativi – secolari – privilegi. In base alla “ecclesiastica libertas” sin dal medioevo la Chiesa sosteneva l’esistenza di ampie immunità per gli enti e le persone ecclesiastiche, che Comuni e prìncipi non sempre erano stati disposti a riconoscere. I contrasti furono variamente risolti nei secoli, anche a seconda della forza politica e delle situazioni locali. Spesso agli ecclesiastici era stata riconosciuta una propria giurisdizione (anche nel penale) affidata all’autorità ecclesiastica, un’ampia esenzione personale da tributi e prestazioni individuali, un’altrettanto vasta esenzione per i beni degli enti ecclesiastici (… la cosiddetta “manomorta”, data la tendenza al costante accrescimento di questi). Per la difesa della fede, inoltre, in parecchi territori cattolici erano operanti in modo autonomo i tribunali dell’Inquisizione, che agivano al di fuori dell’ordinario sistema giudiziario statale, ma alle cui decisioni lo Stato doveva poi fornire il proprio braccio secolare. La reazione giurisdizionalista volle riportare tutto ciò sotto il controllo della disciplina ordinaria: eliminazione dei locali tribunali dell’Inquisizione, sottoposizione delle persone e degli enti ecclesiastici alle “pubbliche gravezze” ed alla giurisdizione pubblica ordinaria, con alcune limitate eccezioni (ad es. per la competenza gerarchica sugli ecclesiastici, per quella dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale, ecc.). Si aprirono numerose controversie, che però in parecchi Stati si chiusero in genere – anche se con riduzioni e mediazioni – a loro vantaggio (salvo che nel centro-sud della nostra penisola). È un piccolo inizio – entro l’ancien régime – di quanto avverrà in conseguenza della rivoluzione francese.

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Lo Stato pretese però pure di ingerirsi nella stessa amministrazione ecclesiastica e nell’organizzazione della Chiesa: ciò avvenne solo a tratti, e non ovunque, ma si realizzò per alcuni aspetti o problemi con una certa frequenza. Ad esempio, nel caso di benefici ecclesiastici vacanti (come abbazie o vescovadi) lo Stato ne pretese l’amministrazione sino alla nomina effettiva del nuovo titolare (che poteva essere anche a lungo ritardata rifiutando via via il “placet” ai designati …): in tal modo poté ingerirsi a fondo nella stessa attività degli enti ecclesiastici. Questi, inoltre, finivano per essere condizionabili dalla possibilità di rifiuto dell’“exequatur” ai loro atti, che – in mancanza – non potevano avere esecuzione. Un punto di ancor più palese ingerenza nella vita della Chiesa si ebbe quando alcuni Stati esclusero dal loro territorio istituzioni religiose puramente contemplative (quindi con un giudizio di merito sull’opportunità dell’esistenza di enti ecclesiastici) e ne acquisirono i relativi beni. Analoghi provvedimenti parecchi Stati presero nei confronti della congregazione dei Gesuiti (considerati troppo “curialisti” e ‘maneggioni’ a favore della Chiesa) e dei loro beni: l’ondata di espulsioni fu così estesa ed intensa, che finì per influenzare lo stesso Pontefice, che nel 1773 soppresse addirittura l’ordine (ricostituito solo nel 1814). Non si può dire che la politica giurisdizionalista qui sia stata solo limitativa di privilegi …

In qualche caso, infine, alcuni prìncipi vollero intervenire nella stessa vita religiosa cattolica. Ad esempio, Giuseppe II d’Austria stabilì che il matrimonio fosse da considerare come un contratto civile, oltre che come un sacramento: esso era sempre stato lasciato alla disciplina ed alla competenza della Chiesa (ed anche alla sua giurisdizione), mentre la legislazione giuseppina volle non solo darvi una propria normativa, ma fissarne pure alcuni requisiti difformi da quelli canonici e la conseguente giurisdizione laica. È l’inizio del matrimonio civile.

Lo stesso Giuseppe II pretese inoltre di fissare tempi e modalità del calendario delle festività religiose e di alcune norme liturgiche, entrando così ad occuparsi – nei suoi domìni – della vita religiosa dei sudditi: queste sue posizioni estreme fecero sì che per esse si parlasse pure di “giuseppinismo”, o “febronianesimo” (dall’intellettuale che lo ispirò) 40. Il fratello Pietro Leopoldo, a sua volta, so40

Si trattava di Febronio, forma italiana dello pseudonimo latino Iustinus Febronius, sotto il quale Johann Nicolas Von Honteim pubblicò la sua opera principale “De statu praesenti Ecclesiae et legitima potestate Romani Pontificis” (1763), decisamente giurisdizionalista.

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stenne a fondo il vescovo di Pistoia, Scipione de’ Ricci, propugnatore dell’autonomia dei vescovi nei confronti della Chiesa romana, sino ad un famoso sinodo di Pistoia del 1780, in cui il potere episcopale fu contrapposto a quello pontificio, con conseguente condanna papale. Le posizioni estreme di questi due fratelli della Casa d’Asburgo possono indicare come la contrapposizione Stato-Chiesa negli anni Settanta-Ottanta del Settecento abbia raggiunto notevoli punti di polemica verso la Chiesa sino a volersi intromettere in questioni religiose.

Nel complesso si può concludere constatando l’importanza di tali problemi nella seconda metà del Settecento per la sovranità dello Stato, con punte polemiche anche eccessive, ma pure con un impegno a ridurre l’ingerenza della Chiesa nell’ordinamento statale, secondo una prospettiva generale che è all’origine di quell’impostazione ‘laica’, che ne contraddistingue da oltre due secoli la posizione, a differenza di altre esperienze ancor oggi decisamente confessionali in ordinamenti dell’Africa o dell’Asia. In queste polemiche la legislazione è stata uno strumento ampiamente utilizzato per i fini di politica ecclesiastica perseguiti dal principe (e dallo Stato da lui impersonato) ad affermazione della propria sovranità.

9. Il sovrano contro i privilegi nobiliari Meno marcata si può dire sia stata la politica – e la legislazione – di compressione dei privilegi nobiliari: una riduzione ed una razionalizzazione sono per lo più avvenute, con resistenze palesi o striscianti dei nobili, ma in complesso con punte di minor tensione rispetto ai rapporti Stato-Chiesa. Era indubbio interesse del principe la riduzione di poteri (e conseguenti privilegi) della nobiltà: vi si sono impegnati – con successo – sovrani assoluti per nulla ‘illuminati’ come i re di Francia Luigi XIV e Luigi XV o il re di Sardegna Vittorio Amedeo II, tra Seicento e Settecento. I successivi re ‘illuminati’ d’Austria, Prussia o Russia (Caterina II) ne hanno seguito le orme, pur con metodi diversi. I sovrani avevano però interesse a deprimere, non ad abolire la nobiltà, che restava pur sempre uno dei pilastri principali – essenzialmente il più importante – dei loro troni: provvedimenti limitativi non devono essere quindi confusi con la ben diversa prospettiva derivante dalla rivoluzione francese, di abolizione e completa eliminazione della nobiltà. Il primo punto, di partenza, è quello della verifica del titolo feudale o di nobiltà. In proposito il più attento ed intransigente può essere considerato Vittorio Amedeo II di Savoia, che nel 1720 pretese di controllare i titoli dei

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suoi feudatari ed in parecchi casi – in mancanza di formali giustificazioni delle infeudazioni passate (spesso in modo anche solo parziale) – considerò il feudo (o parte) rientrato nella disponibilità della Corona, con nuova infeudazione (allo stesso titolare o ad altri) ed introito di un buon corrispettivo. Non c’è nulla di riforma: c’è unicamente un controllo puntiglioso, per rimpinguare l’esausta cassa del principe. Il sistema feudale (naturalmente secondo l’impostazione ormai amministrativa dell’epoca) è conservato nel suo insieme: ne sono solo eventualmente mutati i componenti, se privi di titolo legittimante 41. Il feudo, poi, al momento della concessione o del rinnovo comporta il pagamento di una discreta somma (di ricognizione), che entra nelle casse del principe, il quale per essa investe il titolare di diritti feudali. I diritti feudali comportano generalmente nella località il controllo dell’ordine pubblico, la giurisdizione (civile e penale) almeno di primo grado, l’esercizio di diversi diritti demaniali e fiscali, prestazioni personali da parte dei sudditi: il rapporto tra i sudditi della località (e le comunità ivi esistenti) ed il principe passa attraverso la mediazione del feudatario. È proprio ciò che l’assolutismo (illuminato e non) aspira a ridurre ed in qualche modo a controllare, con modalità che variano nel tempo e nello spazio, ma che tendono ad aumentare, per un rapporto più immediato tra sudditi e sovrano. Per l’ordine pubblico, eventuali milizie del principe stanziate nella zona possono essere un elemento di aiuto del feudatario e di freno di disordini, ma anche di interferenza nei suoi confronti. Quanto alla giustizia, sempre più quella feudale – in genere affidata a legulei e notai nominati dal feudatario – viene a doversi svolgere secondo regole (anche piuttosto dettagliate) fissate dal principe; nei gradi successivi al primo, inoltre, essa è ormai in mano ai giudici di designazione statale, che quindi impongono le loro soluzioni su eventuali precedenti decisioni (fors’anche un po’ partigiane). La percezione di tributi feudali si affianca ormai ad altre contribuzioni – di singoli o di comunità – dovute direttamente al principe, che determina lui stesso oggetto, entità e modalità di riscossione (a volte anche tramite propri delegati) superando d’autorità il feudatario (sino al caso della capillare formazione del catasto teresiano, che non solo supera i feudatari, ma assoggetta anche loro alla rilevazione ed al pagamento). Sono inoltre abbastanza diffuse nel Settecento leggi statali, che fissano limiti alle prestazioni personali verso i signori locali, anche per riservare parte delle forze dei sudditi a quelle destinate al principe.

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Si accompagna, inoltre, una componente politica, perché agli antichi casati (più o meno fedeli) il re viene ad affiancare una ‘nuova’ nobiltà infeudata dopo le avocazioni, portata ad una maggiore fedeltà per la recente nomina.

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La delimitazione legislativa dei diritti feudali può essere frutto di una prospettiva ‘illuminata’, ma è comunque frequente nel sec. XVIII e tende a verificare, ridurre o cancellare i privilegi feudali esistenti. La stessa possibilità di trasferimento (per vendita o per successione) del feudo verso la fine del secolo viene ad incontrare seri vincoli legislativi, spesso ispirati dalla pesante critica illuministica nei confronti dei fedecommessi e dei privilegi dei primogeniti a danno dei cadetti e delle donne. In questo l’assolutismo illuminato fa sentire con incisività la sua vena innovatrice anche nei confronti dell’élite nobiliare. Essa, inoltre, in alcune zone (ad es. in Toscana o in Lombardia, ma pure in Piemonte) viene a veder notevolmente ridotto il peso sociale ed il prestigio della sua posizione sull’ambiente contadino dipendente dal feudo per la politica legislativa sovrana a favore di un rapporto immediato fra le comunità ed il principe, che trascura ormai la mediazione del feudatario locale. È una prospettiva innovativa, che ancora una volta vede emergere la figura del principe illuminato a danno del signore feudale, peraltro ben assestato ancora nei possedimenti dei propri feudi. La fisiocrazia preferirebbe ormai vederne scomparire la stessa funzione a favore dei coltivatori e dei diretti produttori (che da meri utilisti del fondo dovrebbero esserne considerati come i proprietari), ma a ciò non giunge l’assolutismo illuminato: ci vorrà il soprassalto della rivoluzione francese. Feudo e nobiltà, in fin dei conti, restano alla base dei troni dei sovrani illuminati, per quanto ridimensionati ed assoggettati al benvolere del principe.

10. Politica e legislazione del sovrano verso corporazioni e comunità Si tratta di ceti e settori meno privilegiati degli altri due e quindi meno toccati dall’intervento legislativo del principe. Questo, anzi, in alcuni casi può finire anche per favorirli. La prospettiva fisiocratica, spesso presente nella legislazione dell’assolutismo illuminato, da un lato può colpire corporazioni artigiane e collegi professionali a favore di aperture liberiste per l’esercizio di tali attività, dall’altro considera con favore le comunità dei “possessori” contadini, che appaiono i più diretti artefici dei prodotti della terra. L’ambiente commerciale si è giovato per secoli di regole ed organi giudicanti propri, al di sopra ed al di fuori di confini politici. Lo Stato assoluto non ha potuto non inserirsi anche qui, in specie in un secolo come il Seicento, caratterizzato dal mercantilismo: il Settecento ne ha ricevuto l’eredità. Le due “ordonnances” di Luigi XIV sul commercio (1673) e sulla marina (1681) hanno rappresentato una ben precisa discesa della legge del sovrano a dare un ‘suo’ ordine ad un campo retto da secoli con regole in gran parte

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consuetudinarie ed internazionali, come gli stessi traffici commerciali: si è trattato di un intervento significativo, di ‘appropriazione’ da parte della legge del principe di un importante settore della vita economica. Lo Stato è entrato a dettare le sue regole all’ambiente mercantile 42, che d’ora in poi ne sarà condizionato, in Francia come altrove 43. Le due “ordonnances” di Luigi XIV hanno messo per iscritto molte regole in atto nelle piazze mercantili europee, consolidando quindi con maggior certezza e chiarezza usi esistenti: ciò spiega perché in seguito esse siano state a lungo utilizzate ben oltre i confini francesi, in armonia con la vocazione internazionale del mondo commerciale. Esse hanno però dato nello stesso tempo agli istituti mercantili quella certa disciplina, che voleva la legge del re di Francia: dopo questo pesante intervento legislativo (per quanto positivo) lo spontaneismo secolare degli usi commerciali non è più stato quello di prima.

Il “milieu” commerciale sin dal medioevo si era giovato del privilegio personale di ogni appartenente alle corporazioni di avere una propria giustizia mercantile, da parte della corporazione stessa (se si trattava di controversia interna) oppure da parte di un apposito tribunale commerciale (per controversie tra membri di corporazioni diverse, per materia o territorio) composto di esperti – spesso mercanti – chiamati ad esprimersi con rapidità e senza particolari motivazioni giuridiche. Tale privilegio è stato generalmente confermato dai prìncipi assoluti, anche ‘illuminati’, almeno sino all’abolizione delle corporazioni. Anche in seguito, però, la specifica giurisdizione di appositi tribunali commerciali è stata conservata: essa infatti, sebbene affidata a tribunali considerati speciali (contro l’uniformità di giurisdizione invocata spesso dagli illuministi), rispondeva proprio a quell’esigenza di rapidità, equità ed assenza di sottigliezze giuridiche, che numerosi illuministi (come i Verri, Beccaria o Filangieri) richiedevano con insistenza – e non vedevano 42

Già in precedenza c’erano stati interventi pubblici nel settore, ad esempio da parte degli statuti di Genova o delle ordinanze di Barcellona, ma si era trattato di interventi settoriali o contingenti rispetto agli usi commerciali sopranazionali. Con le “ordonnances” di Luigi XIV la prospettiva invece cambia, perché viene data legislativamente disciplina ad un intero settore dell’ambiente mercantile. 43 Non si può ignorare, d’altronde, che proprio il mercantilismo secentesco vede affrontarsi sugli oceani le marine francese, inglese ed olandese per il commercio coloniale e che proprio i contrasti (e le guerre) dell’esclusivismo mercantilista in tema di trasporto marittimo portano Ugo Grozio ad invocare – da parte olandese – il “mare liberum”, come si è visto.

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attuate – nella giustizia dell’epoca. Questo specifico ‘privilegio’ dell’ambiente commerciale è stato quindi per lo più conservato dall’assolutismo illuminato perché in armonia con le aspettative del tempo. Le corporazioni stesse in alcuni Stati sono state però controllate con maggior attenzione, se non addirittura abolite (come in Toscana), perché considerate un freno allo sviluppo economico: le loro regole (di accesso, attività produttiva, controllo della bontà del prodotto, commercio dello stesso, ecc.) sembravano ad alcuni sovrani illuminati troppo indirizzate a favorire chi ne faceva parte, a detrimento degli altri. Erano, in pratica, troppo “corporative”, secondo un’espressione che è sorta proprio dalle frequenti critiche, fisiocratiche ed illuministe, alle secolari corporazioni di origine medievale, che agli occhi degli intellettuali settecenteschi avevano ormai fatto il loro tempo. Queste critiche solo in certi casi hanno portato a provvedimenti legislativi di abolizione o anche solo di ridimensionamento o controllo delle corporazioni o dei collegi professionali, ma sono alla base della successiva abolizione ‘rivoluzionaria’ di impostazione liberista. Nel sistema di privilegio dell’ancien régime, alcuni di questi – anche consistenti – riguardavano territori da secoli posseduti dalla Casa regnante (a cui come tali era riservato un particolare trattamento), oppure città ‘demaniali’ di speciale rilevanza (anch’esse destinatarie di privilegi specifici). La legislazione dell’assolutismo illuminato ha per lo più eliminato – o almeno ridotto – tutto ciò, per una disciplina omogenea e generale in tutto lo Stato. Possono esserne derivate reazioni locali, anche consistenti, ma in definitiva esse non sono riuscite a contrastare una politica legislativa, che portava il principe a porsi come “sovrano” in egual modo su tutto il territorio. Proprio per questo egli è stato indotto a dare ad esso una disciplina attenta a farvi sentire – anche a livello periferico – la sua autorità (accanto a quella del feudatario o della gerarchia ecclesiastica), con propri delegati diretti per la giustizia, per l’ordine pubblico, il controllo delle comunità, la riscossione dei tributi. In tal modo si è venuta delineando un’amministrazione statale periferica, che dalla ridotta forma iniziale prenderà via via in seguito una dimensione ed una rilevanza molto più marcate, sino alla notevole attuale incidenza.

11. Le riforme settecentesche in Italia Le prime riforme settecentesche in Italia sono di matrice assolutista, e non ancora illuminista. Sono realizzate nei domìni sabaudi dal duca Vittorio Amedeo II, divenuto re nel 1713 (di Sicilia; di Sardegna nel 1720): nei primi decenni del sec. XVIII egli introduce notevoli innovazioni, tese – sul model-

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

lo assolutista francese – a rafforzare in modo considerevole il suo potere, come già si è detto 44. Vittorio Amedeo II di Savoia riorganizza per una maggiore efficienza gli organi centrali ed invia in ogni provincia un suo funzionario – l’intendente –, col compito di rappresentarvi il sovrano e di controllare feudatari e comunità locali, in specie sul piano finanziario ed amministrativo, tanto che vi è considerato “l’occhio e l’orecchio” del principe. Vittorio Amedeo II ingaggia dispute giurisdizionaliste con la Curia romana, utilizzando a fondo “placet” ed “exequatur”, e conclude un Concordato alquanto vantaggioso per lo Stato. Nello stesso tempo si impone sulla nobiltà, di cui pretende di controllare le antiche investiture ed a cui affianca nuovi investiti, che presume a lui più fedeli. Afferma con autorità il suo potere legislativo con una raccolta organica della normativa sabauda, che rinnova anche nella forma con le “Leggi e Costituzioni di Sua Maestà” (dette usualmente “Regie Costituzioni”): si avvia così verso la codificazione, ma tale raccolta non è ancora da considerare un codice, bensì solo una “consolidazione” riscritta della legislazione sabauda, che resta nel sistema del diritto comune. Il principe si impegna per un riequilibrio della distribuzione dell’imposizione fiscale fra le diverse comunità (perequazione); impone la sua volontà in tema di confessioni religiose (editti prima di intolleranza e poi di tolleranza verso i Valdesi); avvia una disciplina unitaria del funzionamento delle comunità locali (che il figlio Carlo Emanuele III completerà); sottomette alla sua autorità eventuali aspirazioni d’autonomia dei Senati e ne riduce – se non elimina – l’incisività del potere di interinazione; riorganizza in modo accentrato ed autoritario l’insegnamento superiore e quello universitario. Dopo i difficili periodi delle “reggenze” secentesche e dopo l’invasione francese, Vittorio Amedeo II rifonda lo Stato e ne plasma quella struttura solida ed accentrata, che resta sino all’Unità.

Di ispirazione diversa, ormai illuminista, sono invece le notevoli riforme introdotte in Lombardia dalla nuova dinastia asburgica, dopo l’avvento di Maria Teresa d’Austria (1740). Si è già parlato dell’introduzione del catasto, in attuazione delle nuove concezioni in materia tributaria, così come delle tendenze giurisdizionaliste (in specie del figlio Giuseppe II), dell’avvio della codificazione o delle innovazioni in materia penale. In mezzo secolo di regno (1740-1790) di Maria Teresa (più moderata) e di Giuseppe II (più intransigente nelle riforme, sino ad una certa astrattezza, oltre che rigidità) sono condotte innovazioni strutturali, che lasciano il segno – anche nella mentalità e nella concezione dello Stato – sino ai nostri giorni. Sul piano intellettuale, 44

Cfr. supra, § 3 c. del capitolo precedente.

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inoltre, la Milano di Pietro ed Alessandro Verri e di Cesare Beccaria è legata tanto all’illuminismo giusnaturalista viennese quanto a quello degli enciclopedisti parigini ed è una delle città di rilievo dell’Europa dei salotti settecenteschi. Diverso è l’ambiente quando Pietro Leopoldo succede al fratello Giuseppe nel 1790: la stagione delle riforme si è ormai spenta, lo spettro della “rivoluzione” angustia i troni europei e la stessa Corona austriaca. Pietro Leopoldo, riformatore in Toscana, a Vienna (e quindi a Milano) è immobilista, se non conservatore. Pietro Leopoldo, succeduto (1765-1790) al padre quale granduca di Toscana, aveva infatti avviato a Firenze – anche se non sempre realizzato – riforme considerevoli, sino a giungere ad un progetto di costituzione, pionieristico nel suo genere, perché prospettava già, per iniziativa del principe, una costituzione scritta che ne limitava i poteri. Era l’estremo limite del riformismo “illuminato”: è rimasto però a livello progettuale. Pietro Leopoldo si è segnalato – come si è detto – sia per l’impostazione giurisdizionalista verso la Chiesa, sia per quella liberista in campo economico (con l’abolizione delle corporazioni), sia per quella fisiocratico-amministrativa di riorganizzazione delle comunità locali sulla base del ceto dei possidenti. Il risultato di maggior prestigio del suo periodo toscano di regno è però la “Leopoldina”, un complesso di norme penali e processuali nel quale per la prima volta è stata bandita la pena di morte (1786). Sul piano codificatorio la “Leopoldina” è ancora piuttosto imperfetta: ancora discorsiva (e non impositiva) nella forma, comprensiva di disposizioni tanto penali che processuali, piuttosto disorganica, alquanto immatura anche dal punto di vista penale, la “Leopoldina” è però passata giustamente alla storia per il suo rifiuto di principio della pena di morte, pur non ignorando pene corporali anche pesanti (e non sempre umanitarie).

La “Leopoldina” (1786) e l’abolizione della pena di morte Pietro Leopoldo di Lorena, secondogenito di Maria Teresa d’Austria e di Francesco Stefano di Lorena, successe al padre quale granduca di Toscana nel 1765 col nome di Leopoldo I. Il fratello primogenito Giuseppe successe invece alla madre come imperatore d’Austria nel 1780 come Giuseppe II; alla morte di quest’ultimo nel 1790, Pietro Leopoldo lasciò la Toscana per salire sul trono austriaco col nome di Leopoldo II. Il periodo di governo in Toscana fu caratterizzato da riforme illuministiche, in concorrenza con quelle austriache di Giuseppe II. Nel 1786 Pietro Leopoldo emanò una “Riforma della legislazione criminale toscana” nota poi col nome di “Leopoldina”, composta di un preambolo e 119 articoli o capitoli contenenti disposizioni di diritto penale tanto sostanziale quanto processuale.

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

A differenza dei futuri codici, la forma della “Leopoldina” è discorsiva e non ancora tassativamente dispositiva; vuole innovare nel diritto toscano, ma non tronca completamente con quello previgente; unisce disposizioni di contenuto sostanziale con altre di natura processuale. Dimostra invece uno spirito nuovo nella previsione della pena in misura proporzionale all’azione criminosa compiuta, nell’affidare al giudice non solo la qualità ma anche la quantità della pena, nella considerazione “umanitaria” (e non meramente afflittiva o “esemplare”) della pena, nel divieto della pena di mutilazione delle membra, nell’abolizione della tortura giudiziaria e delle cosiddette prove privilegiate. Per la prima volta nella storia la “Leopoldina” esclude dalle pene previste quella di morte: lo fa per un motivo umanitario, che illustra, ma anche per scarsa fiducia nella deterrenza della sua previsione (cap. 51). “LI. Abbiamo veduto con orrore con quanta facilità nella passata legislazione era decretata la pena di morte per delitti ancor non gravi, ed avendo considerato che l’oggetto della pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del reo, figlio anche esso della società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza, nei rei dei più gravi ed atroci delitti, che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il pubblico esempio che il governo nella punizione dei delitti, e nel servire agli oggetti ai quali questa unicamente è diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al reo, che tale efficacia, e moderazione insieme si ottiene più che con la pena di morte, con la pena dei lavori pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla società un cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza, e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo toscano, siamo venuti nella determinazione di abolire come abbiamo abolito con la presente legge per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente, sia contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte vogliamo in questa parte cessate ed abolite”.

Già appare l’esigenza della “correzione del reo” (impossibile se è ucciso), ma pure la volontà di “moderazione” del principe rispetto alle “feroci” pene del tempo, anche se ne persistono indubbiamente di pesanti, come quella ai lavori forzati in Maremma (cap. 55). Non tutto può apparirci oggi consono alle nostre idee, ma non si deve ignorare che la legge rompeva un sistema secolare, è di oltre due secoli fa, e che purtroppo ancora attualmente non sono pochi gli Stati (anche di rilievo) in cui la pena di morte esiste ed è applicata …

Le riforme, invece, non sono nel complesso state realizzate né nel ducato di Parma né nel regno di Napoli: all’annuncio o all’avvio di esse non sono seguiti i risultati, perché la debolezza o i timori dei prìncipi (e dello Stato) sono stati superati dalle reazioni dei contrari ad esse. Nel ducato di Parma l’avvento di Filippo V di Borbone (1749) e del suo collaboratore (illumini-

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sta) Guglielmo Du Tillot ha dato impulso ad una serie di progetti governativi, che però generalmente si sono arenati, salvo che nel campo della politica ecclesiastica, ove l’energico giurisdizionalismo ha portato ad un rigido controllo statale, tanto più significativo in quanto si trattava di un territorio originariamente legato alla Santa Sede (che a suo tempo ne aveva investito i Farnese, a cui i Borbone erano succeduti). Nell’Italia meridionale, regno di Napoli e di Sicilia sono stati riuniti sotto Carlo III di Borbone (1734-59), il quale ha avviato un programma di riforme, che non si sono però realizzate in modo definitivo per la scarsa fiducia nei progetti di fronte all’opposizione dei ceti privilegiati. Ciò ha dimostrato la debolezza statale rispetto al particolarismo personale e locale, con conseguenze che nell’Italia meridionale si sono protratte ancora per secoli a danno dell’autorità statale. Principale collaboratore del re è stato l’intellettuale pisano Bernardo Tanucci, che ha perseguito – in definitiva senza successo – una politica anticuriale ed antibaronale: il suo obiettivo di rafforzare il potere del principe – e dello Stato – e di affermarne la piena sovranità non è riuscito a realizzarsi, nonostante iniziali risultati positivi. Il Tanucci ha cercato di svincolare il “Regnum” dalla secolare soggezione all’investitura pontificia, risalente alla sua stessa origine normanna, rifiutando l’omaggio della “mula bianca” annualmente inviata al Papa in segno di soggezione feudale, con ciò rivendicando la completa sovranità nel regno. Dopo un periodo di notevole tensione, l’omaggio è però ripreso. La politica giurisdizionalista, culminata nel 1767 con la cacciata dei Gesuiti, si è a sua volta venuta attutendo, anche in seguito all’estromissione del Tanucci (1777). La politica di quest’ultimo intendeva affermare la sovranità dello Stato non solo verso la Chiesa ma anche nei confronti dei baroni feudali. Tale impegno si è concentrato sulla giustizia (feudale e di primo grado), con la fissazione di regole statali valide ovunque per l’amministrazione della giustizia, che ne riducesse l’arbitrio locale, ad esempio nella scelta dei giudici, nel procedimento seguito, nelle pene comminate (e relative “composizioni” di superata concezione medievale): si trattava di disposizioni comprensibili nell’ottica di uno Stato settecentesco, ma esse suscitarono reazioni vivaci e finirono in definitiva con l’essere disattese, con la protrazione dell’esistente. Il riformismo illuminista, sebbene sostenuto nel regno da intellettuali del prestigio di Genovesi, Pagano o Filangieri, non è riuscito in definitiva ad imporsi sull’ordine da secoli esistente, né nel Napoletano né in Sicilia. Lo Stato vi si è dimostrato troppo debole, a vantaggio dei secolari privilegi locali e personali.

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

12. Germi delle idee e delle riforme settecentesche Si è parlato a lungo dell’evoluzione dello Stato nei secoli dell’età moderna. I suoi elementi costitutivi sono venuti sviluppandosi ed aggregandosi in modo vario e con differente intensità, ma secondo una tendenza generale, che vede diminuire – ed anche perdersi – il pluralismo dei centri di potere, e così pure il particolarismo normativo e territoriale, a favore dell’unitarietà della sovranità statale. Si tratta di un processo storico che avviene in Europa ed in Italia, con intensità diversa, ma che è diffuso e già ben presente nel Settecento d’ancien régime. Dai germi ivi presenti si svilupperanno numerose importanti innovazioni successive, di cui ci occuperemo fra poco ed in seguito. L’ondata rivoluzionaria francese, in base all’unitarietà della “nazione” ed al rapporto diretto Stato-cittadino senza alcuna intermediazione, cancellerà in seguito i “corpi” intermedi (feudo, corporazioni) o ne annullerà il rilievo politico (comunità, Chiesa, gruppi familiari): in tal modo il “cittadino”, dotato dei suoi “diritti innati” e di altri, quale soggetto politico formalmente partecipe dello Stato, si troverà ad essere da solo di fronte a quest’ultimo. I “corpi” intermedi, a cui il singolo era solito fare riferimento per la vita quotidiana ma anche per assistenza e protezione nei confronti del “sovrano”, non hanno più rilievo: ogni individuo ha formalmente i suoi diritti, ma non trova più le precedenti istituzioni a coinvolgerlo e proteggerlo nella propria organizzazione. Le costituzioni di fine sec. XVIII e del sec. XIX ne affermano i diritti formali nei confronti della sovranità dello Stato (altrimenti assoluta), ma nella sostanza non ne assicurano la protezione, l’assistenza o il sostegno, quali sembravano parzialmente previsti da alcune precedenti istituzioni. Tocca al singolo, garantito nei suoi diritti entro e verso lo Stato, trovarsi da solo gli spazi e gli strumenti del proprio sviluppo, derivante dalle capacità personali e risorse patrimoniali: sarà l’età dell’individualismo, ma anche dell’intraprendenza meritocratica del “mondo borghese”. Nel regime di “libertà” ognuno deve far conto su di sé, senza aspettarsi aiuti esterni. Lo Stato, come si è visto, si è venuto formando progressivamente in età moderna: sotto l’aspetto giuridico i suoi elementi concettuali e le sue caratteristiche saranno individuati con incisività dalla dottrina ottocentesca. Le costituzioni ‘liberali’ dei secc. XVIII-XIX aspireranno ad enunciare – a garanzia del “cittadino” – i limiti che lo Stato deve lasciare (per così dire ‘in negativo’) alla libera esplicazione dei diritti e delle attività individuali: esse indicano l’‘ordine’ che lo Stato deve assicurare al singolo per favorirne la pacifica esistenza, ma pure i confini da non valicare per non invaderne la sfera di vita privata. Ogni “cittadino” risulta formalmente eguale agli altri, senza al-

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cuna considerazione per le eventuali – ma esistenti – diversità personali, patrimoniali o cetuali. Col tempo ciò apparirà parziale e troppo ridotto. Ne consegue che le successive costituzioni occidentali del sec. XX, a partire da quella tedesca di Weimar, uniranno ai precedenti princìpi della tradizione liberale – che sono alla base di ogni garantismo costituzionale – l’impegno “sociale” (per così dire ‘in positivo’) dello Stato per far sì che nella vita quotidiana le singole differenze di capacità personale o economica abbiano minore influenza, per un più equilibrato sviluppo sociale. Secondo tale considerazione, la precedente prospettiva unica, che considerava solo il rapporto fra il singolo cittadino e lo Stato (ed escludeva “corpi” intermedi), si viene attutendo, per farvi rientrare pure istituzioni intermedie (associazioni politiche o sindacali, enti locali, Chiesa, ecc.), nelle quali il cittadino può trovare un punto di riferimento per la sua vita quotidiana. Queste non devono minare il rapporto (primario) fra Stato e cittadino, ma possono contribuire positivamente alla vita di quest’ultimo, e quindi rientrano (pur se completamente diverse da quelle d’ancien régime) nella considerazione del quadro generale dell’ordinamento costituzionale. In tal modo l’intermediazione di enti diversi dallo Stato, in specie territoriali (come le Regioni), rientra in gioco. È il caso, fra gli altri, di quanto previsto dalla nostra attuale Costituzione repubblicana. Lo Stato segue le vicende dei tempi, con le sue stesse caratteristiche: presenta un’evoluzione sul piano sia storico sia geografico, che varia nello spazio e nel tempo, ma trova numerose delle sue prospettive nelle idee settecentesche, in alcuni casi già realizzate (come l’abolizione delle corporazioni in Toscana). Noi abbiamo soprattutto presente la situazione che ci è più vicina, quella dell’Europa: ormai da decenni si afferma che qui “lo Stato è in crisi”, troppo piccolo o incompleto per essere ancora l’unico a coinvolgere il “cittadino”, troppo distante nella sensibilità del singolo, rispetto ad altre istituzioni. Sopra i diversi Stati c’è – almeno – l’aspirazione (proprio ora in parte messa in discussione) verso la Unione europea; sotto, quella di un ruolo specifico per le comunità territoriali minori; di fianco, inoltre, emergono tendenze ad un nuovo coordinamento fra territori interstatuali. L’unicità della sovranità territoriale dello Stato rivela attualmente in Europa crepe consistenti, da cui si vedono emergere pure nuove prospettive, aperte ad aggregazioni diverse coesistenti con lo Stato. Esso si è venuto via via formando nel nostro continente nei secoli dell’età moderna, ma vi appare oggi in una fase di transizione, che lo trova tuttora attore privilegiato ma ormai non più esclusivo. Il futuro potrà delinearne i nuovi contorni, dopo la fallimentare esperienza ‘statualistica’ a suo tempo avviata e non felicemente conclusa nell’Europa orientale. Il futuro, inoltre, potrà pure indicare – in Africa come

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

in Asia – quali saranno i punti d’arrivo di una costruzione “statuale”, che le realtà politiche sviluppatesi nelle zone postcoloniali hanno inteso – con risultati altalenanti – raggiungere secondo un esempio ‘europeo’, che non sempre si è adattato alle situazioni locali. Il modello di “Stato” di matrice europea, infatti, è stato pure ‘esportato’ altrove, ma ha trovato numerose difficoltà ad essere realizzato. La storia ha offerto un certo modello di “Stato”: il futuro ne indicherà gli ulteriori sviluppi, in Europa e nel mondo.

APPENDICE Principali date significative per la storia giuridica medievale e moderna

476 cessazione formale dell’Impero romano d’occidente 529-34 emanazione a Costantinopoli delle raccolte legislative giustinianee 554 pragmatica sanctio 568 entrata dei Longobardi in Italia 643 editto di Rotari 726 eresia iconoclasta 732 battaglia di Poitiers 774 fine del regno longobardo 800 inizio del Sacro Romano Impero 877 capitulare Carisiacum 1037 edictum de beneficiis 1059 decretum electionis pontificalis 1122 concordato di Worms 1112-25 notizie sulla vita di Irnerio 1130 Ruggero II re di Sicilia 1140 (dopo) Concordia discordantium canonum 1158 dieta di Roncaglia 1183 “pace” di Costanza 1215 “magna charta” inglese 1231 constitutiones melfitanae 1234 Decretales Gregorii IX 1240-60 glossa accursiana 1250 morte di Federico II di Svevia 1495 Supremo Tribunale Camerale dell’Impero (diritto romano-comune) 1517-19 Lutero 1531 Re capo della Chiesa anglicana 1553 Stracca, De mercatura seu mercatore 1555 pacificazione di Augusta 1559 pace di Cateau-Cambrésis 1545-63 concilio di Trento 1576 Bodin, Les six livres de la république

330 1623 1648 1667-85 1679 1689 1690 1689-94 1742 1748 1748 1750-60 1762 1764 1776 1786

STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

Grozio, De iure belli ac pacis pace di Westfalia ordonnances di Luigi XIV Habeas corpus Bill of Rights Locke, Secondo saggio sul governo civile Domat, Les loix civiles dans leur ordre naturel Muratori, Dei difetti della giurisprudenza pace di Aquisgrana Montesquieu, L’esprit des lois catasto teresiano in Lombardia Rousseau, Il contratto sociale Beccaria, Dei delitti e delle pene “Dichiarazioni dei diritti” americana “La Leopoldina”

INDICE

pag.

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE PRESENTAZIONE

VII VIII XI

I IMPERO ROMANO, E FONTI DEL DIRITTO 1. 2. 3.

Diritto ed Impero romano Uno sguardo all’ultimo Impero romano La giurisprudenza e le fonti giuridiche

1 3 5

II DAL TARDO IMPERO ROMANO OCCIDENTALE AI REGNI ROMANO-GERMANICI 1. 2. 3. 4.

Invasioni barbariche in occidente, Impero romano-bizantino in oriente I Germani I regni romano-germanici L’Italia prima ostrogota, poi bizantina

11 13 17 20

III LA CHIESA E IL SUO DIRITTO 1.

Alcune distinzioni sulla nozione di ‘diritto della Chiesa’

23

332

STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

pag. 2. 3. 4. 5. 6.

Ebraismo e Cristianesimo L’organizzazione della Chiesa primitiva La dimensione ‘normativa’ nella Chiesa delle origini Le fonti del diritto canonico primitivo I rapporti tra ordinamento laico ed ordinamento ecclesiastico (secc. I-V)

29 31 36 39 43

IV IL PERIODO GERMANICO 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Vicende storico-istituzionali fra i secc. VI-VIII I Longobardi I Franchi L’espansione araba La Chiesa e il dominio pontificio Carlo Magno e il Sacro Romano Impero (S.R.I.)

49 50 57 59 61 65

V SOGGEZIONE PERSONALE E RAPPORTI FEUDALI 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Tradizione secolare di vincoli personali Le premesse Elementi del feudo Modificazioni nell’essenza del feudo Il contratto feudale Ordinamento feudale. Tipi di feudo

69 70 72 76 78 81

VI CHIESA ED IMPERO FRA CRISI E RINNOVAMENTO A CAVALLO DEL MILLENNIO 1. 2. 3.

Crisi ed evoluzione del S.R.I. La riforma dei costumi del clero e la contrarietà della Chiesa ad investiture ecclesiastiche da parte dei laici La lotta per le investiture

87 89 92

INDICE

333 pag.

VII RIEMERSIONE DEL DIRITTO NEL NUOVO MILLENNIO 1. 2. 3. 4.

La “rinascita” del nuovo millennio I Comuni La rivalutazione dell’importanza del diritto Evoluzione delle supreme istituzioni medievali

97 97 98 99

VIII I COMUNI 1. 2. 3. 4. 5.

Origini e caratteristiche iniziali Sviluppo e difesa dell’autonomia comunale Dai consoli al podestà comunale Corporazioni e diritto dei mercanti. Il “Comune del popolo” o “delle arti” Dal Comune alla Signoria. Il Principato

103 107 115 119 124

IX IL RINASCIMENTO GIURIDICO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La riscoperta del diritto La rinascita romanistica bolognese La nuova scienza giuridica Figure della scuola dei glossatori L’Università Graziano e l’origine della scienza canonistica Il “corpus iuris canonici”

129 131 134 143 144 148 153

X CHIESA, IMPERO, MONARCHIE 1. 2. 3. 4.

Le principali istituzioni in età medievale avanzata La Chiesa dopo la riforma gregoriana L’Impero tra i secc. XII-XIII Monarchie e parlamenti medievali

155 156 157 158

334

STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

pag.

XI LO “IUS COMMUNE” TARDOMEDIEVALE NELL’EUROPA CONTINENTALE 1. 2. 3. 4. 5.

Dall’ordine politico ad un ordine giuridico La dottrina giuridica: dalla “scuola” dei glossatori a quella dei commentatori Il sistema dello “ius commune” europeo La “interpretatio” Il giurista: dalla teoria alla pratica

175 176 179 184 188

XII GLI STATUTI COMUNALI 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Inquadramento Gli statuti comunali nel sistema delle fonti di diritto comune Forma e struttura degli statuti Il contenuto degli statuti Gli statuti rurali Gli statuti associativi

195 196 200 202 205 206

XIII UMANESIMO E DIRITTO 1. 2. 3. 4.

Dalla “interpretatio” del giurista medievale allo studio umanistico delle fonti Umanesimo giuridico Tradizione e novità nella dottrina giuridica Dall’umanesimo alla questione della libertà religiosa

209 211 215 221

XIV VERSO LO STATO MODERNO 1.

Il rafforzamento del potere del principe come base per lo Stato moderno

227

INDICE

335 pag.

2. 3.

Jean Bodin e le tendenze verso lo Stato moderno Le grandi monarchie europee nella prima età moderna 3.1. Regno di Spagna 3.2. S.R.I. 3.3. Regno di Francia 3.4. Olanda 3.5. Regno d’Inghilterra

229 238 238 240 241 249 249

XV ASPETTI GIURIDICI E DOTTRINA DELL’ETÀ MODERNA 1. 2. 3.

4. 5. 6.

Il Seicento Dal principe allo Stato Stati italiani più significativi 3.1. Dominî spagnoli 3.2. Territori pontifici 3.3. Stati sabaudi Il diritto e lo stato di natura. Hobbes, Locke, Grozio La dottrina privatistica Il sistema giuridico

255 259 261 261 265 267 272 277 280

XVI AMBIZIONI DI CAMBIAMENTO GIURIDICO NELL’ULTIMA ETÀ MODERNA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

La legge strumento di riforma del principe illuminato Per un sistema giuridico nuovo: aspettative dalla codificazione Verso una giustizia ‘nuova’? Politica tributaria statale innovativa Proposte riformatrici e prìncipi “illuminati” Alcuni esempi: Montesquieu, Rousseau, Kant, Beccaria Il sovrano e l’abolizione dei privilegi cetuali Il sovrano contro i privilegi ecclesiastici Il sovrano contro i privilegi nobiliari Politica e legislazione del sovrano verso corporazioni e comunità

285 292 296 300 302 304 312 313 317 319

336

STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

pag. 11. Le riforme settecentesche in Italia 12. Germi delle idee e delle riforme settecentesche

321 326

APPENDICE Principali date significative per la storia giuridica medievale e moderna

329

338

STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

INDICE

Finito di stampare nel mese di gennaio 2023 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

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STORIA DEL DIRITTO IN ETÀ MEDIEVALE E MODERNA

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341

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