Tempi del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea 9788892104419

"Negli otto quadri (capitoli) cronologicamente disposti, dall'alto medioevo al Novecento, i giovani lettori no

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Indice
Premessa
I LE RADICI PROFONDE D’EUROPA di Elio Tavilla
II IL MEDIOEVO DEI DIRITTI di Nicoletta Sarti
III DALLA CRITICA UMANISTA AL PARADIGMA DELLA MODERNITÀ di Marco Cavina, Riccardo Ferrante, Elio Tavilla
IV IL DIRITTO NELLE CULTURE DI ANTICO REGIME di Marco Cavina
V GIUSNATURALISMO, ILLUMINISMI, CODIFICAZIONI di Riccardo Ferrante
VI GLI ORDINAMENTI COSTITUZIONALI di Paolo Alvazzi del Frate
VII UN SECOLO GIURIDICO (1814-1916). LEGISLAZIONE, CULTURA E SCIENZA DEL DIRITTO IN ITALIA E IN EUROPA di Stefano Solimano
VIII VERSO UN NUOVO ORDINE di Giuseppe Speciale
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Tempi del diritto. Età medievale, moderna, contemporanea
 9788892104419

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TEMPI DEL DIRITTO Età medievale, moderna, contemporanea

Paolo Alvazzi del Frate Marco Cavina Riccardo Ferrante Nicoletta Sarti Stefano Solimano Giuseppe Speciale Elio Tavilla

TEMPI DEL DIRITTO Età medievale, moderna, contemporanea

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2016 – G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0441-9

Composizione: Voxel informatica s.a.s. - Chieri (To) Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

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INDICE

pag. Premessa

XI

I LE RADICI PROFONDE D’EUROPA di Elio Tavilla 1. 2. 3. 4. 5.

La fine del mondo antico La compilazione giustinianea I diritti germanici Consuetudini e mondo signorile Chiesa e impero: a) la Chiesa come istituzione giuridica b) la rinascita dell’Impero c) egemonia signorile e riforma della Chiesa 6. La cultura giuridica altomedievale: a) la sopravvivenza dei testi giustinianei b) le arti liberali c) giudici e notai 7. Verso un diritto universale 8. Il feudo Bibliografia essenziale

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II IL MEDIOEVO DEI DIRITTI di Nicoletta Sarti 1. 2. 3. 4. 5.

Un diritto antico per il nuovo millennio: la stagione preirneriana La rivoluzione di Irnerio La forza dell’interpretazione letterale La Scuola dei Glossatori Dalle scuole allo Studium: a) la Glossa Ordinaria b) la nascita dell’istituzione universitaria

53 55 60 62 67 69

VI

Tempi del diritto

pag. 6.

Un nuovo ordine per il diritto della Chiesa: a) il Decretum di Graziano b) le altre compilazioni e la decretalistica c) il Corpus Iuris Canonici 7. Le storie diverse dell’Italia e dell’Europa: a) il Comune cittadino b) il ruolo dei notai c) il diritto dei Comuni d) il Regno di Sicilia, dai Normanni all’imperatore Federico II e) l’Impero e il Regno di Germania f) il Regno di Francia 8. La dialettica delle fonti nell’esperienza del diritto comune: convivenza e covigenza 9. Il trionfo del diritto giurisprudenziale e le radici profonde di un metodo nuovo: a) Accursio e Odofredo: due metodi a confronto b) il legame con le istituzioni, l’attenzione agli iura propria c) le esigenze della pratica d) la scuola di Orléans 10. L’età del commento e dei commentatori: a) premesse b) le origini c) il Trecento e il Quattrocento: i secoli d’oro dei commentatori 11. Il diritto dei mercanti e del mercato Bibliografia essenziale

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III DALLA CRITICA UMANISTA AL PARADIGMA DELLA MODERNITÀ di Marco Cavina, Riccardo Ferrante, Elio Tavilla 1.

2. 3.

L’Umanesimo giuridico: a) diritto comune e cultura rinascimentale b) caratteri sincronici dell’Umanesimo giuridico europeo (secc. XVXVI) c) Umanesimo e diritto nel Quattrocento: versante propositivo e versante critico d) il Cinquecento e la formazione dell’Umanesimo giuridico: Andrea Alciato e l’Italia e) l’Umanesimo giuridico in Europa, con particolare riguardo alla Francia Declinazioni umanistiche: la giurisprudenza elegante olandese e l’Usus modernus Pandectarum La fine dell’universalismo medievale e il Nuovo Mondo: a) paradigmi della modernità b) la Scuola di Salamanca

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VII

I. | Indice

pag. c) Ugo Grozio 4. La legge, o di un termine cui corrisponda qualcosa di esistente Bibliografia essenziale

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IV IL DIRITTO NELLE CULTURE DI ANTICO REGIME di Marco Cavina 1.

Il diritto come scienza giuridica normativa (universale/cetuale) e l’ideologia antigiurisprudenziale 2. Il giurista/giudice: i consilia sapientis pro veritate fra cattedra e tribunale a) Sottigliezza (subtilitates) [il giurista che inventa] b) Quantità (maior copia) [il giurista che accumula e riordina] c) Brevità (brevitas) [il giurista che si attiene rigorosamente alla ratio legis] 3. Il giudice/giurista: grandi tribunali e decisiones 4. Grandi e piccoli tribunali nell’intrico di giurisdizioni di una città di antico regime: il caso di Bologna 5. La dimensione della complessità composita: enciclopedismo, volgarizzazione e cetualismo in Giambattista De Luca 6. La dimensione neo-umanistica: il diritto ‘arcadico’ di Gian Vincenzo Gravina 7. La dimensione riformista: i ‘difetti della giurisprudenza’ secondo Ludovico Antonio Muratori 8. La dimensione disciplinante: fra soluzione sociale dei conflitti, repressione d’apparato e scientificizzazione del problema criminale 9. La dimensione cetuale: una scienza normativa nobiliare 10. Patriarcato e matrimonio dei figli di famiglia fra diritto comune e codici (ovvero non omne quod licet honestum est) Bibliografia essenziale

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V GIUSNATURALISMO, ILLUMINISMI, CODIFICAZIONI di Riccardo Ferrante 1. 2. 3.

I presupposti della codificazione nel pensiero giuridico e politico dell’età moderna I presupposti legislativi della codificazione Luigi XIV e le sue ordonnances

201 206 209

VIII

Tempi del diritto

pag. 4.

Il pensiero giuridico europeo tra area germanica e Francia (XVIIXVIII sec.) 5. Le compilazioni legislative nell’Italia del primo Settecento 6. L’Illuminismo giuridico 7. Le compilazioni legislative del dispotismo illuminato europeo 8. Agli inizi della codificazione penale moderna 9. L’officina del codice civile francese. Il «diritto intermedio» 10. Il Code civil des Français 11. Codificazione e interpretazione 12. Gli altri codici del periodo napoleonico 13. Il Codice civile generale austriaco del 1811 (ABGB) 14. La lunga storia di illuminismo penale e codici (senza un lieto fine) Bibliografia essenziale

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VI GLI ORDINAMENTI COSTITUZIONALI di Paolo Alvazzi del Frate 1. 2.

L’assolutismo e la costituzione d’Ancien Régime La ‘costituzione’ e il costituzionalismo moderno: princìpi e questioni definitorie (assolutismo, Stato di diritto, Stato costituzionale) 3. L’ordinamento inglese: dalla Magna Carta alla costituzione consuetudinaria 4. Il costituzionalismo americano (1776-1791) 5. Rivoluzione e costituzioni in Francia (1789-1799) 6. La Restaurazione e le costituzioni europee (1814-1848) 7. Lo Statuto albertino e gli inizi del parlamentarismo in Italia 8. Il potere costituente Bibliografia essenziale

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VII

1. 2. 3.

UN SECOLO GIURIDICO (1814-1916). LEGISLAZIONE, CULTURA E SCIENZA DEL DIRITTO IN ITALIA E IN EUROPA di Stefano Solimano Premessa La recezione del Code civil nel mondo: ratione imperii o imperio rationis? Savigny versus Thibaut. Una polemica sul codice destinata a fare il giro del mondo

319 321 322

IX

I. | Indice

pag. 4.

“Riannodare la catena dei tempi”. L’esperienza giuridica in Italia durante la Restaurazione: a) premessa b) i codici civili della Restaurazione c) il diritto privato nel Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana e nello Stato Pontificio d) la presenza di Savigny nel dibattito sulla codificazione in Toscana e in Piemonte 5. Un nuovo mos gallicus iura docendi? Il metodo esegetico in Francia 6. Da Savigny a Windscheid. Scuola storica e Pandettistica in Germania 7. Mixtum compositum: cultura e scienza giuridica della Restaurazione in Italia 8. Il tempo del codice civile nell’Italia Unita: a) premessa b) armonizzazione o assimilazione (1859-1861)? c) l’elaborazione del codice civile (1861-1865) d) la costituzione dell’Italia liberale: uno sguardo al contenuto del codice civile del 1865 9. La scienza del diritto privato italiano nell’età postunitaria: a) i tradizionalisti, ovvero dei commentatori del codice civile del 1865 b) ortodossia scientifica nazionale. L’avvento dei romanisti-civilisti c) diversi sed non adversi: gli altri civilisti 10. Juristendominanz. Il codice civile tedesco tra politica e diritto 11. Tra fine e inizio secolo: tendenze del diritto privato europeo 12. Beati possidentes. L’individualismo proprietario del XIX secolo Bibliografia essenziale

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VIII VERSO UN NUOVO ORDINE di Giuseppe Speciale 1. 2.

3.

4.

La lunga transizione dall’Unità al secondo dopoguerra L’Italia unita nel nuovo regno: a) la monarchia costituzionale b) i codici c) le leggi speciali, la decretazione d’urgenza, il giurista e l’ordinamento policentrico La rappresentanza politica e la giustizia amministrativa: a) il Consiglio di Stato b) i sistemi elettorali c) la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione L’impatto del positivismo sulla scienza giuridica: a) la questione del metodo b) le critiche ai codici c) i progetti per la modernizzazione del Paese

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X

Tempi del diritto

pag. 5.

Il fascismo, sub specie historiae iuris. Fare i conti con un ventennio ingombrante 6. La transizione, la Costituzione e il ritorno alla democrazia 7. Il contratto di lavoro Bibliografia essenziale  

 

423 438 449 456

PREMESSA

Questo volume è in primo luogo il frutto della lunga frequentazione dei sette autori segnalati in epigrafe. Autori che da anni, oltre che dall’amicizia e dalla stima reciproche, sono legati da progetti scientifici comuni e che, come docenti, condividono le gioie e i dolori di una disciplina a giorni alterni esaltata come indispensabile nella formazione del giurista o denigrata come zavorra in un percorso di studi che si vorrebbe più ‘dinamico’ e professionalizzante. La storia del diritto ha sempre sofferto di una cronica carenza di manuali: non perché ne siano mancati, soprattutto in questi ultimi decenni, alcuni anche di elevatissima qualità, ma perché in effetti ogni tentativo di racchiudere in un unico volume un arco cronologico troppo ampio (dalla caduta dell’Impero romano al secondo dopoguerra) sembrava essere destinato al velleitarismo e all’insuccesso, oppure perché la vastità delle aree tematiche e delle prospettive interpretative poneva problemi, se non proprio insuperabili, certamente di difficile approccio. Per gli autori qui riuniti la didattica è considerata un momento essenziale del proprio lavoro, non soltanto per l’impegno che essa richiede, ma anche e forse soprattutto perché risulta il luogo d’elezione in cui i risultati della ricerca propria e di quella altrui attinta dalle letture devono misurarsi con le esigenze oggettive della trasmissione del sapere, con quelle soggettive delle capacità personali, con quelle complesse e sofferte dell’interazione con i più giovani, specialmente quando incontrati al primo anno dei loro studi universitari. L’insoddisfazione per la manualistica oggi disponibile non è affatto legata a un giudizio di inadeguatezza dei Maestri e dei Colleghi che l’hanno prodotta, bensì piuttosto agli interrogativi e ai dubbi che il corpo a corpo con gli studenti, anno dopo anno, impone ad ognuno di noi. La possibilità di scrivere insieme, in forma ‘collettiva’, uno strumento didattico rivolto ai nostri studenti si è definita nel tempo come una sfida, un divertimento, una scommessa. L’amicizia e la stima che gli autori nutrivano l’uno nei confronti dell’altro sono nel frattempo maturate, hanno assunto i tratti marcati della consapevolezza reciproca dei propri orientamenti e propensioni, o più semplicemente dei propri gusti, non sempre riconducibili ad una coerente visione d’insieme alla quale, dobbiamo confessarlo, abbiamo subito rinunciato. Non si tratta, a nostro avviso, di una carenza o di una contraddizione; abbiamo invece la presunzione di ritenerla una ricchezza, un’opportunità, in primo luogo per noi, certamente, ma soprattutto per gli studenti.

XII

Tempi del diritto

Negli otto quadri (capitoli) cronologicamente disposti, dall’alto medioevo al Novecento, i giovani lettori non soltanto acquisiranno quelle conoscenze che si ritengono basilari per la comprensione del disegno della storia giuridica europea e di quella italiana in particolare, ma dovranno anche misurarsi con idee, interpretazioni, prospettive assai differenti l’una dall’altra, ognuna delle quali corrispondenti alla personalità scientifica e anche agli orientamenti culturali di ciascuno degli autori: a significare principalmente che la storia non è un affresco sempre omogeneo; un affresco che, oltre ad essere frastagliato per via delle vicende umane, risente fatalmente dello sguardo di chi ne propone la sintesi, nel sottolineare certi aspetti e nel relegarne altri sullo sfondo, o persino nell’ometterli – nel coniugare, insomma, i necessari elementi conoscitivi da trasmettere con la propria personale creatività saggistica che ogni autore, in fin dei conti, finisce sempre col proporre. Di questo gli studenti dovranno essere consapevoli. Ed è in quest’ottica, in particolare, che assume senso l’ultimo paragrafo (evidenziato in neretto) di ciascuno dei capitoli: una sorta di piccolo saggio ‘monografico’, che ha consentito ad ognuno degli autori di proporre una sua lettura, sintetica ma libera da vincoli cronologici, di un istituto o di un fenomeno giuridico tipico dell’epoca considerata. Il libro, insomma, sembra proporsi con la cadenza propria di un manuale, ma non è un manuale. È piuttosto il banco di prova di quello che a nostro avviso deve essere una didattica ritagliata sui tempi che viviamo: molteplicità degli sguardi; primi piani o panoramiche nelle scene decisive; zoom e sfocati nei momenti di svolta; monologhi o passaggi corali quando la trama lo richieda. La disomogeneità, più che il segno di un’insufficienza, è invece uno degli obiettivi programmati e, persino, fortemente voluti. Otto capitoli per sette autori: si tratta stavolta di uno degli esiti non programmati, e neppure voluto. È fin troppo facile ipotizzare che in origine gli autori dovessero essere otto: otto capitoli per otto autori. Ma così non è stato; e anche questo, alla fine, ha contribuito a interrogarci più a fondo su quello che stavamo facendo, sul suo significato oggettivo, sulle nostre soggettive manchevolezze. Francamente, e forse persino con una punta di ingenuità, crediamo che l’impresa, in realtà neppure tanto titanica, sia valsa la pena. Almeno per chi l’ha portata a termine. Resta ora la prova dei fatti, la verifica degli studenti e con gli studenti. Che è quello che conta davvero. giugno 2016 gli Autori

I LE RADICI PROFONDE D’EUROPA di Elio Tavilla Sommario: 1. La fine del mondo antico. – 2. La compilazione giustinianea. – 3. I diritti germanici. – 4. Consuetudini e mondo signorile. – 5. Chiesa e Impero: a) la Chiesa come istituzione giuridica; b) la rinascita dell’Impero; c) egemonia signorile e riforma della Chiesa. – 6. La cultura giuridica altomedievale: a) la sopravvivenza dei testi giustinianei; b) le arti liberali; c) giudici e notai. – 7. Verso un diritto universale. – 8. Il feudo.

1. La fine del mondo antico La tradizionale partizione scolastica vorrebbe che la fine dell’età antica e, quindi, l’inizio dell’età medievale coincida con il 476 dopo Cristo, anno in cui l’imperatore Flavio Romolo Augusto, detto l’Augustolo, fu deposto dal generale ‘barbaro’ (cioè di origini germaniche) Odoacre. Con questa data si ebbe il definitivo tramonto del glorioso Impero romano, almeno nella parte occidentale dell’Europa, perché in quella orientale l’Impero fu destinato a durare per quasi altri mille anni. In realtà, questo evento deve essere ridimensionato nella sua portata almeno per due ordini di motivi. Il primo è che da più di un secolo il centro operativo (militare, politico, economico) dell’Impero si era andato spostando decisamente verso est: fu la svolta voluta da Costantino, il primo imperatore cristiano, che nella prima metà del sec. IV non soltanto aveva provveduto ad articolare il comando dell’Impero in due grandi aree, quella occidentale e quella orientale, ma aveva avviato anche la costruzione di una nuova capitale nel sito che era stato della città di Bisanzio, sul Bosforo, e che sarà ribattezzata con il nome di Costantinopoli, una città che nel giro di qualche decennio diverrà un centro nevralgico di primaria importanza. Il secondo motivo è che la deposizione di un imperatore da parte di generali germanici non era un fatto inedito e quindi i contemporanei non lo percepirono come un evento di reale e definitiva rottura; del resto, fu lo stesso Odoacre a inviare le insegne imperiali a Costantinopoli in segno di formale deferenza, gesto al quale l’imperatore d’Oriente Zenone rispo-

2

Tempi del diritto

se conferendo a Odoacre il titolo nobiliare di patritius. Non una frattura, quindi, ma piuttosto un’emergenza come altre succedutesi in quegli anni, a cui però non seguirà più, come fino ad allora, l’ascesa di un nuovo imperatore a Roma, bensì una fase in cui i territori occidentali verranno governati dall’amministrazione della capitale ‘romana’ d’Oriente: Costantinopoli, appunto. Il lungo periodo di instabilità che si aprì in Occidente dopo la deposizione dell’ultimo imperatore romano fece da contraltare all’inarrestabile ascesa politica ed economica di Costantinopoli. Fu soprattutto con l’imperatore Giustiniano che la capitale d’Oriente assurse a una primazia fino ad allora mai raggiunta. Lo stesso Giustiniano, che a breve ricorderemo per la sua attività legislativa 1, fu il protagonista di una imponente strategia finalizzata alla ricomposizione dell’unità dell’Impero romano, culminata con la guerra gotica (535-553), che oppose l’Impero bizantino agli ostrogoti, i quali si erano da tempo stabilizzati in Italia, creandovi un regno autonomo. La vittoria delle truppe del generale Belisario riunì per qualche tempo le due aree dell’Impero, e in particolare l’Italia, che Giustiniano governò con particolare cura. Il territorio peninsulare venne diviso in aree amministrative facenti tutte capo alla capitale Ravenna, situata al centro di un’area geo-politica denominata Esarcato. A Ravenna, direttamente collegata con Costantinopoli, su cui si esemplava l’organizzazione degli uffici e dei centri di comando, risiedeva il rappresentante diretto dell’imperatore, denominata esarca, capo militare e politico dotato di una sua propria burocrazia, nonché titolare dell’ultima istanza della giustizia civile e penale. Il dominio bizantino italiano era suddiviso in varie circoscrizioni, a capo dei quali i duchi, nominati dall’esarca, ne replicavano in sede locale i poteri, con specifici compiti relativi all’Exercitus Italiae (l’esercito bizantino in Italia). Su un altro versante, ma sempre alle dipendenze dell’esarca, operava il prefetto d’Italia, con alti compiti fiscali e finanziari, a capo di due ampie circoscrizioni rette da due vicarii a Roma e a Genova. Si trattava quindi di un’organizzazione complessa e ben articolata, la cui efficienza, benché basata su una fitta schiera di funzionari ben formati, doveva comunque fare i conti con la complessità e la specificità dell’area italiana. Vi era Roma, l’antica capitale del glorioso impero, ormai preda di aristocrazie locali costituite dalla classe senatoria e latifondista; ma Roma era anche la sede di un vescovo dotato di grande prestigio, anche se ancora non dotato di autorità incontrastata (altri vescovi, come quello di Ravenna, godevano di piena autonomia rispetto a Roma), benché cominciasse ad assumere il ruolo di coordinatore di un vasto patrimonio fondiario nel centro e nel meridione della penisola. Vi era la Sicilia, postazione mediterranea di importanza suprema, che, in quanto organizzata nella forma specifica del “thema”, era guidata da uno “stratega”, dotato di ampi poteri politici e militari, tali da configurare una rapporto diretto con Co-

1

Infra, § 2.

I. | Le radici profonde d’Europa

3

stantinopoli e svincolato da ogni subordinazione da Ravenna. Vi era Venezia e il suo ducato, sorti come risposta e difesa alle occupazioni germaniche; vi era la vasta area del Capitanato d’Italia (Puglia, Lucania e Calabria), in seguito, dopo lo stanziamento dei Longobardi, organizzato anch’esso nella forma di “thema”; vi era, ancora, la cosiddetta Pentapoli (Romagna meridionale e Marche), area adriatica di importanza strategica e dotata anch’essa di una certa autonomia. Insomma un territorio organizzato sì, ma nelle forme mutevoli che le condizioni politiche e militari del tempo consentivano. Si aggiunga la necessità che le autorità bizantine avevano di legare rapporti stabili e vantaggiosi con i vari potentati familiari locali, i cui esponenti più in vista (boni homines) si trovavano spesso ad assumere ruoli di guida a metà strada tra l’ufficio pubblico e la supremazia privata di tipo clientelare. E si ricordi infine la fitta trama di enti ecclesiastici che esercitavano forme di autorevolezza religiosa variamente coniugata con la titolarità di porzioni ampie di territorio messo a coltura. Insomma, l’Italia bizantina, anche dopo la vittoria di Giustiniano sugli ostrogoti, se pur poteva vantare una robusta struttura istituzionale sostenuta dall’Impero d’Oriente, restava comunque una realtà fragile e tutt’altro che uniforme; tanto più dopo il 568, quando la travolgente penetrazione dei longobardi nel territorio peninsulare aprì una lunga fase di instabilità e di violenta mutazione. Il medioevo era davvero iniziato.

2. La compilazione giustinianea Non con le sole armi fu sostenuto l’Impero di Giustiniano: un vasto e ambizioso progetto legislativo diede vita, tra il 529 e i 534, ad una delle raccolte normative più importanti ed influenti nella storia dell’umanità. Al tempo di cui parliamo le fonti giuridiche prodotte dalla civiltà romana si erano ormai trasformate radicalmente. Al tradizionale patrimonio delle consuetudini (mores), della dottrina dei giuristi più autorevoli (responsa) nonché delle deliberazioni del senato (senatusconsulta), in seguito ad un’evoluzione politica che aveva registrato la progressiva concentrazione del potere legislativo e giudiziario nelle mani del princeps e dei suoi uffici, si erano affiancati e poi sostituiti i rescripta, pronunce elaborate dai funzionari centrali in risposta a singole questioni o controversie che finivano però poi per avere valore anche per casi consimili, e le constitutiones, leggi generali autonomamente scaturite dalla insindacabile volontà imperiale. Tale processo portò all’iniziativa di raccogliere il frutto di tale attività legislativa ancor prima del grande progetto giustinianeo. Il più importante fu senz’altro il Codice teodosiano, promulgato da Teodosio II nel 438, il quale, nel raccogliere le costituzioni emanate dall’epoca di Costantino in poi, si poneva sulla scia di analoghe raccolte non ufficiali precedenti, quali il Codice gregoriano e il Codice ermogeniano, risalenti alla fine del III secolo.

4

Tempi del diritto

La codificazione teodosiana venne superata dalla più ampia opera legislativa di Giustiniano, messa in cantiere quando la parte occidentale dell’Impero era fuori controllo. I lavori vennero guidati dal giurista Triboniano, a cui fu dato il compito di selezionare in un corpo unitario la grande massa di materiale normativo e giurisprudenziale allora in vigore, con esiti di incertezza facilmente immaginabili. Il fulcro dell’intera operazione si concentrò su due obiettivi principali di sistemazione, uno riguardante le costituzioni imperiali (le cosiddette leges) e l’altro la preziosa elaborazione dottrinale dei giuristi romani dell’età classica (i cosiddetti iura). Ed ecco quindi nel 529 una prima versione del Codex, a cui seguì una seconda edizione, quella definitiva, promulgata nel 534, che in 12 libri raccoglie, con integrazioni e adattamenti, più di 1500 costituzioni dall’età di Adriano (sec. II) agli anni dello stesso Giustiniano, disciplinanti un’ampia varietà di materie: diritto ecclesiastico (lib. I), privato (libb. II-VIII), penale (lib. IX), pubblico, amministrativo e fiscale (libb. X-XI). Nel 533 è la volta dei 50 libri dei Digesta (o Pandectae), in cui si selezionano quasi 10.000 frammenti di giuristi romani, tra i quali spiccano i nomi di Papiniano, Gaio, Ulpiano, Modestino e Paolo, fioriti tra il II e il III secolo. In questa monumentale opera manca il diritto pubblico e si registra una massiccia preponderanza del diritto privato (proprietà e diritti reali; obbligazioni e contratti; famiglia; successioni), ma con uno spazio non irrilevante dedicato anche al diritto criminale, in particolare ai libb. 47 e 48, che proprio per trattare delle terribili pene inflitte ai delitti vennero conosciuti con il nome di libri terribiles. Quella del Digestum è certamente la raccolta più importante: è grazie a Giustiniano e a Triboniano che la sapienza giuridica romana si è potuta tramandare, pur se con tagli ed evidenti manipolazioni, sino a noi; è soprattutto grazie al ricchissimo materiale lì depositato che la cultura giuridica europea continentale ha potuto costruire una sua riconoscibile, pur se tutt’altro che monocorde, identità. Coerente con le finalità del progetto complessivo, nel 533 vennero pubblicate le Institutiones, una sintesi dello scibile giuridico articolata in soli 4 libri sull’esempio di un’analoga opera didattica composta dal giurista Gaio. L’obiettivo era quello di fornire uno strumento agile e completo per la formazione dei giovani giuristi nelle scuole dell’Impero sulla scorta di un chiaro schema tripartito: res, personae, actiones. Ma Giustiniano non interruppe la sua intensa attività legislativa nel 534 dopo le Institutiones e la seconda edizione del Codex, e anzi ben presto si accumularono ulteriori constitutiones che, promulgate in epoca successiva alle raccolte ufficiali, saranno poi riunite alla sua morte, avvenuta nel 565, in una collezione di Novellae constitutiones (Nuove costituzioni), che completeranno l’imponente produzione normativa dell’imperatore bizantino, complessivamente passata alla storia con la denominazione di Corpus iuris civilis. Va messo in evidenza che se per un verso, come abbiamo detto, l’opera di Giustiniano e Triboniano ha dato nuova vitalità alla grande giurisprudenza ro-

I. | Le radici profonde d’Europa

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mana dell’età classica e anzi ne ha determinato l’imperitura memoria, per l’altro i vari imperatori dell’età post-classica, soprattutto di quelli che, da Costantino a Giustiniano, hanno fatto del cristianesimo la religione ufficiale dello Stato, hanno prodotto una legislazione destinata ad incidere e anzi ad alterare profondamente alcuni valori dominanti della cultura romana classica e, di conseguenza, alcune non secondarie discipline giuridiche: si pensi alle inedite sfumature introdotte nella patria potestà, destinata a perdere progressivamente i tratti del rigorismo dell’antico pater familias per stemperarsi in una pietas dai connotati, se non affettivi, quanto meno protettivi; si pensi alla considerazione della dignità della donna, sia nel ruolo di coniuge (il matrimonio è anche legame sacramentale) che di quello di figlia (equiparata al fratello maschio nella successione legittima); si pensi ancora alle molteplici norme che, pur ribadendo l’istituto irrinunciabile della schiavitù, ne attutivano il rigore, facilitando ad esempio la manumissione. Il divieto di ricorrere ad altre fonti normative e l’obbligo di attenersi ad un’interpretazione meramente letterale contribuivano ad esaltare il carattere maiestatico e vincolante dell’intera opera, che in un primo momento ebbe il solo Impero d’oriente come territorio di applicazione. Ma ben presto, proprio per consolidare l’estensione territoriale seguìta all’esito positivo della guerra goticobizantina, Giustiniano predispose l’estensione dell’ambito di vigenza del Corpus anche alla parte occidentale dell’Impero 2, che – giova ricordarlo – si limitava al territorio che i bizantini avevano strappato agli Ostrogoti, in altre parole la penisola italiana. Il provvedimento con cui si dispose questa estensione fu la celebre pragmatica sanctio del 14 agosto 554, che l’imperatore bizantino dichiara di avere promulgato pro petitione Vigilii, «su richiesta di Vigilio», il vescovo di Roma del tempo, che, in tal modo, legittimava la legislazione giustinianea, la quale a sua volta finiva per legittimare quella che diverrà la massima autorità religiosa nell’Impero occidentale. La prammatica non soltanto dava vigenza al Corpus, ma provvedeva anche a cassare la legislazione gotica pregressa, a reintegrare i proprietari dei possedimenti usurpati, a riordinare e a unificare tributi, giustizia e amministrazione. Non per questo la presenza significativa di comunità germaniche smetteva di costituire una minaccia per i bizantini e per la Chiesa. Anzi, nel giro di qualche anno, una consistente penetrazione di un popolo in armi darà avvio a una nuova, irreversibile fase: nella primavera del 568 i Longobardi, passando dal Friuli, prendevano progressivamente possesso della tormentata Italia.

2 Nessun’altra legislazione bizantina ebbe la medesima importanza nella parte occidentale dell’Impero. Solo la raccolta in 60 libri degli imperatori Basilio I e Leone VI, detta i Basilici (880-888), avrà qualche influenza nel Meridione d’Italia.

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3. I diritti germanici I Longobardi erano solo uno dei tanti popoli germanici che nel VI secolo si stanziavano stabilmente in ampie aree di quello che un tempo, in Europa, era stato l’Impero romano. Ancora oggi, molte regioni o Stati europei conservano la denominazione originata da quelle etnie cosiddette ‘barbare’ che vi si insediarono: la Sassonia dai Sassoni, la Baviera dai Bavari, la Borgogna dai Burgundi, l’Andalusia dai Vandali, la Francia dai Franchi, gli Angli in Inghilterra, la Lombardia dai Longobardi, solo per fare qualche esempio. Pur nelle loro identità distintive, questi popoli manifestavano tutti alcuni tratti comuni, i più rilevanti dei quali erano il nomadismo, la propensione militare e alla conquista, l’assenza di una cultura scritta. Queste peculiarità indicavano una radicale distanza dalla civiltà romana, soprattutto per quanto riguarda la dimensione giuridica: al contrario di quella che era stata l’attitudine dei latini e ora dei bizantini, i popoli germanici si reggevano su un patrimonio di consuetudini orali che era considerato, al pari di altri specifici connotati tradizionali (lingua, credenze, riti), un fattore di identità etnica essenziale. Questo spiega perché tali popoli considerassero innaturale individuare l’ambito di vigenza delle regole sulla base del territorio di stanziamento (principio di territorialità del diritto), quando invece era l’appartenenza al gruppo a definire l’adesione alle proprie usanze, comprese quelle di valenza giuridica (principio di personalità del diritto). Tale aspetto era pienamente coerente con la natura originariamente nomadica di quei popoli che, per così dire, portavano con loro, nei loro spostamenti, il loro bagaglio di credenze e di usi identitari da trasmettere, oralmente, di generazione in generazione. Ogni etnia aveva le sue consuetudini e la convivenza (pacifica o meno che fosse) tra popoli diversi non era capace di modificare questo assunto di fondo, tranne che per lo spontaneo fenomeno della reciproca contaminazione. Quanto ai contenuti delle consuetudini di tali popoli, anche in questo caso possiamo dire che, le singole specificità non impediscono di individuare, se non proprio istituti giuridici comuni, almeno dei valori di fondo condivisi, tali da caratterizzare in una certa omogenea direzione le regole tradizionali. Colpiscono con maggiore evidenza quei valori e quelle regole che appaiono in palese contrasto con la sensibilità giuridica romana. In primo luogo va sottolineata la rilevanza giuridica del gruppo piuttosto che del singolo; il gruppo è definito non soltanto dal nucleo familiare allargato, discendente da un antenato comune, ma anche da tutta una serie di relazioni di affinità, tutele e ‘amicizie’ tali da costituire un coeso clan 3. Il singolo, quando

3 Il termine, oggi usato per indicare una cerchia esclusiva di persone dipendenti da un capo influente, è originario della cultura gaelica (clann) e indica appunto la famiglia allargata secondo una linea unitaria di discendenza.

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emerge con identità giuridica definita, è l’uomo libero e atto al combattimento; quindi non il bambino, non l’anziano, né tanto meno la donna o lo schiavo. Non esiste una dimensione pubblicistica dello Stato, quanto piuttosto una gestione collettiva, attraverso l’assemblea degli uomini in armi, delle decisioni più importanti. Da notare poi l’assenza di istituti vòlti a legittimare la titolarità esclusiva di un bene, specialmente se tale bene è la terra: la titolarità si manifesta piuttosto nell’uso e nel godimento del gruppo. Di conseguenza, al singolo non è data la possibilità di disporre in via esclusiva del bene, neppure al momento della morte attraverso un atto affine a quello che per i romani era il testamento, quanto piuttosto era ammessa la sola successione legittima, considerata come meccanismo naturale di passaggio dei beni all’interno del nucleo familiare. Coerentemente all’assenza di una dimensione giuridica pubblicistica, anche la sfera penale mostrava segni di profonda discontinuità col mondo romano e bizantino. Le offese legittimavano la reazione dell’offeso, attraverso lo strumento arcaico della vendetta, la quale poteva assumere – e in effetti spesso assumeva – valenza collettiva, coinvolgendo la famiglia o il gruppo di appartenenza della vittima in una ritorsione contro la famiglia o il gruppo dell’offensore: era la faida (fehida in tedesco antico), termine ancor oggi conservato per indicare la guerra tra bande criminali. Le forme rituali della vendetta erano quelle della ordalia, il “giudizio di Dio”, nella convinzione che la divinità avrebbe consentito l’individuazione certa del colpevole e dell’innocente; essa poteva consistere in prove di dolore o di resistenza, ma più spesso assumeva la modalità tipica del combattimento a due, il duello, che così tanta fortuna ebbe nella cultura e nell’antropologia europea ben oltre il medioevo. Gli inconvenienti di tali pratiche – implicanti notevole spargimento di sangue e durature inimicizie – suggerirono l’adozione di strumenti di risoluzione delle controversie differenti, tra i quali il più comunemente diffuso ed efficace fu quello della composizione pecuniaria, il pagamento di un certo valore in denaro o beni a carico dell’offensore a favore della vittima o della sua famiglia. Ora, tutti quei popoli di matrice germanica che risultino attestati stabilmente in un territorio in modo tale da rendere inadeguati i tradizionali meccanismi di convivenza autosufficiente e di conquista nomadica, giungono a dotarsi di un testo giuridico scritto nel quale raccogliere il contenuto delle proprie consuetudini. Questo passaggio è decisivo perché: a) consente di superare la fluidità orale del proprio patrimonio consuetudinario, a cui fornire, mediante la forma scritta, le qualità della (relativa) certezza e della (relativa) organicità; b) produce o accelera l’integrazione con le altre culture presenti nel territorio di stanziamento o di conquista, in particolare di quella di matrice latina, che, attraverso la mediazione ecclesiastica, è la sola capace di veicolare contenuti dotati di una certa complessità; c) consolida un processo di gerarchizzazione del potere e di esaltazione della regalità, la quale, pur non perdendo completamente il carattere della mera guida militare, assume progressivamente il ruolo di garante dell’osservanza delle regole e dei suoi meccanismi di applicazione.

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In questa sede ci limiteremo a citare tre esempi di legislazione scritta adottata da sovrani germanici tra il VI e il VII secolo. Il primo è notevole perché, nella sua singolarità, costituisce un’eccezione al generalizzato fenomeno della trasposizione in forma scritta delle consuetudini tradizionali. Si tratta della Lex Romana Wisogothorum, conosciuta anche come Breviarium Alaricianum, promulgato nel 506 dal re Alarico II. Essa segue di qualche decennio una raccolta di norme visigotiche adottata dal padre Eurico nella seconda metà del V secolo. Ma, al contrario di quest’ultima, il nuovo testo promulgato da Alarico – il quale era ormai al comando di un vasto regno tra la Francia sud-occidentale e la penisola iberica – non aveva come obiettivo la semplice trasposizione delle usanze del popolo, bensì quella di dotare la nuova entità territoriale di norme più vicine alla sensibilità latina con cui si era entrati definitivamente in contatto, fornendo altresì la sovranità di contenuti più robusti: la Lex romana era composta per la maggior parte di leges tratte dal Codice Teodosiano e di iura estratti dalle opere dei giuristi romani Paolo e Gaio, con un risultato di grande raffinatezza giuridica a cui collaborò senz’altro la gerarchia ecclesiastica ma che non riuscì a superare del tutto l’attaccamento dei Visigoti al proprio patrimonio di usanze. Il secondo esempio, anch’esso di grande rilievo, è il Pactus Legis Salicae, che vide la luce negli ultimi anni del re Clodoveo (primo decennio del sec. VI), il grande sovrano dei Franchi Salii che si convertì al cattolicesimo e che dotò il suo popolo di un ampio territorio, a cavallo tra Paesi Bassi, Francia settentrionale e Germania centro-orientale. Mentre il termine «legge» va interpretato nel modo consueto per i germani, nel senso cioè di norma di matrice consuetudinaria e non certo di autoritativa e autonoma manifestazione di volontà sovrana, il termine «patto» evoca l’accordo dell’assemblea popolare circa la corretta trasfusione nella lingua latina degli originari contenuti della legge salica, correttezza di cui il re Clodoveo si fa garante. In quel testo normativo troviamo i principali contenuti tra quelli già ricordati parlando in generale delle consuetudini germaniche: la successione legittima appare come la sola conosciuta, secondo una linea di trasmissione che sembra privilegiare la linea materna, circostanza che però non impedisce l’esclusione della donna dai diritti ereditari sulla terra; ampio ricorso alle composizioni pecuniarie per evitare le faide per quelli che vengono considerati i delitti più gravi (omicidio, lesioni, stupro, furto di bestiame, mentre non sono contemplate turbative del possesso immobiliare); consegna del reo all’offeso o ai suoi familiari nel caso di mancato pagamento della composizione prevista. Infine il terzo esempio, quello che coinvolge direttamente e in prima battuta la penisola italiana, la quale, a partire dal 568, era stata interessata dall’invasione del popolo longobardo, capeggiato dal re Alboino († 572). Dopo una prima penetrazione da nord-est, dal Friuli in particolare, nel giro di qualche anno i longobardi attuano una violenta opera di conquista e di spoliazione dei possedimenti latini e di quelli ecclesiastici. Fu il successore di Alboino, Clefi († 574), a

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spingersi sino al sud della penisola, sino a controllare, contendendolo a bizantini, un territorio di ampiezza senza precedenti. Ma i contrasti tra gli stessi capi militari longobardi, oltre a costare la vita allo stesso Clefi, diedero vita ad una fase di grave incertezza politica, caratterizzata dalla formazione di una trentina di ducati indipendenti tra loro. Il pericolo di una disgregazione durante gli anni dell’interregno venne sventato dalla decisione di riconoscere nuovamente un’autorità unitaria: obiettivo raggiunto nel 584 con l’incoronazione di Autari († 590), figlio di Clefi. Da questo momento è possibile individuare con maggiore chiarezza le coordinate del regno longobardo. Pur restando fermo il carattere militare della guida regia (il re era considerato un primus inter pares, figura eminente ma non di dignità differente da quella dei capi militari alla cui guida si sottoponevano), essa si veniva configurando come stabilmente ereditaria e, quel che più conta, dotata di un amplissimo patrimonio fondiario consistente nella metà delle sostanze stesse di cui i duchi si erano appropriati con le conquiste, patrimonio di cui però sarebbe eccessivo riconoscere una natura demaniale capace di superare il mero valore di sostanza privata del re. Allo stesso modo, è impossibile intravedere nell’organizzazione del potere longobardo i tratti statual-pubblicistici tipici dell’impero romano: il regno resta strutturato secondo modalità di coordinamento militare e di sfruttamento dei possedimenti controllati, anche se la presenza stabile di un palatium e di una curtis regia a Pavia consentono di individuare un processo di maturazione tale da mettere in secondo piano i tradizionali centri decisionali, quali l’assemblea (gairethinx) degli uomini liberi (arimanni) e i nuclei familiari allargati (farae) e di esaltare invece il ruolo dei fedeli del re (gasindi) e degli amministratori dei possedimenti regi (actores, gastaldi, iudices). Una svolta viene registrata con il regno di Rotari († 652), il quale non soltanto provvede a una migliore articolazione dell’amministrazione regia nonché a una migliore efficacia del raccordo tra palatium e centri periferici, ma mette in opera la messa per iscritto delle tradizionali consuetudini popolari. Il suo Edictum, promulgato nel 643 e composto di 388 capitoli, è probabilmente il frutto di una richiesta proveniente dall’aristocrazia longobarda che, implicata in un irrversibile processo di integrazione con la popolazione latina soggetta, intenderebbe in tal modo preservare le proprie leggi secondo quel principio di ‘personalità’ che le vorrebbe applicabili solo al popolo di appartenenza. Rotari, accogliendo tale richiesta, cioè quella di «ricercare e ricordare le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte», si pone l’obiettivo di «rinnovare», «correggere» ed «emendare» le consuetudini longobarde (cawarfidae o cawarfredae), eventualmente «aggiungendo» quanto potesse mancare o «sottraendo» quanto di superfluo dovesse risultare. Ma insieme a questo obiettivo, Rotari ne persegue e ne raggiunge anche un altro: il valore della regalità, la centralità del rex e del suo apparato di funzionari vengono rafforzati dal ruolo di garanzia che al sovrano viene riconosciuto in vista della corretta trascrizione e dell’applicazione delle cawarfidae, ma sono altre-

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sì sottolineate prerogative che amplificano il ruolo di guida militare e di eccellenza patrimoniale del re, soprattutto in vista del mantenimento della ‘pace pubblica’ e della repressione dei reati più pericolosi. Nell’Editto, redatto in un latino capace di dare traslitterazione fonetica a termini giuridici trasmessi in una lingua orale, appaiono gli istituti consuetudinari tipici della tradizione longobarda, tra i quali vale la pena segnalare: a) il mundium, potestà maschile sulla donna, esercitata dal padre prima e dal marito dopo il matrimonio; b) l’uso di scambi patrimoniali in occasione delle nozze: il faderfio dal padre alla figlia, il morgengabe dal marito alla sposa; c) il launegild, corrispettivo simbolico offerto dal beneficiario in occasione di una donazione (dovuto in quanto i longobardi non conoscono le concessioni a titolo gratuito, per le quali è comunque necessaria una qualche forma di controprestazione); d) la wadia (o guadia), garanzia in forma di pegno offerta dal debitore sui propri beni; e) il gairethinx (o più semplicemente thinx), che da originaria assemblea con valenza militare e politica, assume la funzione di atto formale pubblico certificativo di importanti effetti giuridici, quali manumissioni di servi, adozioni, donazioni universali mortis causa, ecc.; f) processi giudiziari definiti per via di duello o di giuramento; g) meccanismi di successione per esclusiva via legittima, senza alcuna forma di disposizione testamentaria; h) pur prevedendosi la faida (fhede), era data preferenza alla soluzione della composizione pecuniaria, detta guidrigildo (wergeld), di cui una quota spettava al re in quanto garante del corretto funzionamento del meccanismo; i) alcuni gravi delitti (attentato al re, congiura, tradimento, sedizione, diserzione, uxoricidio, ecc.) capaci di incrinare la ‘pace’ tutelata dal re venivano definiti crimini di lesa maestà (crimina leasae maiestatis) ed erano quindi puniti con la morte, senza alcuna possibilità di composizione privata. Dopo qualche modesto intervento integrativo del re Grimoaldo nel 668, il più significativo intervento legislativo dopo quello di Rotari è rappresentato dalle 153 norme promulgate da re Liutprando durante il suo lungo regno (712744). La decisa svolta politico-religiosa di questo sovrano portò ad abbandonare i residui dell’originario orientamento religioso del suo popolo – l’arianesimo 4 – e ad abbracciare con decisione la fede cattolica e quindi ergersi a difensore della Chiesa e del vescovo di Roma. Nel prologo alle sue prime leggi del 713, si definisce principe cattolico

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Dottrina teologica elaborata tra il III e il IV secolo dal monaco Ario, che, in quanto negatrice della sostanza divina di Cristo, venne dichiarata eretica dal Concilio di Nicea del 325.

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(«christianus ac catholicus princeps»), impegnato sì a tutelare il patrimonio giuridico tradizionale e l’editto di Rotari in particolare, ma soprattutto, sollecitato da un’ispirazione divina («divinitus ut credimus inspirati»), ad operare seguendo la lex Dei («ea que iuxta Dei legem nobis congrua paruerunt»), cassando o modificando le antiche norme o, anche, creandone di nuove («subtrahere et addere providemus»). Tra le novità che risentono maggiormente della ‘conversione’ al cattolicesimo possiamo ricordare: la manumissione del servo davanti all’altare (peraltro già prevista dall’imperatore Costantino); il riconoscimento dell’asilo ecclesiastico 5; certi impedimenti matrimoniali di evidente derivazione canonica; un migliore trattamento della condizione successoria delle figlie; la valorizzazione del consenso della donna con l’accettazione dell’anello (subharratio cum anulo) in occasione della cerimonia matrimoniale; la donatio pro anima, una sorta di lascito pio a favore di enti ecclesiastici che introduce nella cultura giuridica longobarda una prima, approssimativa forma di successione testamentaria. A documentare un’avanzata fase di integrazione delle tradizioni giuridiche insistenti nel medesimo territorio, la latina e la longobarda, possono poi essere ricordati il valore finalmente dato alle prove testimoniali e il riferimento a una indistinta consuetudo loci, capace di superare i particolarismi. In tal senso, va dato il giusto risalto ad una disposizione liutprandea dedicata ai notai (cap. 91, de scribis), la quale, nel prevedere la redazione della cartula secondo le forme negoziali latine o secondo quelle longobarde, consentiva anche ad una delle due parti di rinunciare alla propria ‘legge’ («de lege sua subdiscendere»): una norma che dava plastica evidenza alla profondità di contatti giuridici tra le due civilità. Solo in un caso l’approdo a nuovi valori condivisi nel segno della cattolicità e degli usi latini sembrava impossibile: la risoluzione delle controversie secondo le antiche usanze germaniche dell’ordalia. In particolare, il duello emergeva come forma di giustizia irrinunciabile per gli ambienti dell’élite militare longobarda. Liutprando, pur esprimendo dubbio e perplessità («quia incerti sumus de iudicio Dei, et multos audivimus per pugnam sine iustitia causam suam perdere» 6), deve prendere atto dell’impossibilità di vietare un istituto profondamente radicato nelle consuetudini del suo popolo («propter consuitutinem gentis nostrae Langobardorum legem ipsam vetare non possumus» 7): agli strumenti processuali dell’accusa e della difesa era ancora preferita la valentia delle armi a cospetto della divinità.

5 Diritto a cercare rifugio in luoghi protetti dall’immunità (cioè sottratti alla giurisdizione ordinaria), normalmente edifici di culto. 6 Cap. 118: «perché non abbiamo fiducia sul giudizio di Dio e in molti casi abbiamo avuto notizia di sconfitte avvenute in combattimento ma senza alcuna giustizia». 7 Ibidem: «a causa della consuetudine della nostra gente longobarda, ci è impossibile vietare quella legge [che permette il duello]».

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4. Consuetudini e mondo signorile La civiltà altomedievale è fortemente segnata dalla consuetudine. I rapporti intersoggettivi, quando non sfociano in violenza, soggiacciono a regole che si sono formate e cristallizzate nel tempo e che la tradizione consolida e trasmette di generazione in generazione, secondo una linea di tendenziale, anche se non uniforme, conservazione. Anche quando viene fissata nello scritto, la consuetudine non perde per questo la sua capacità plastica di esprimere il dato costante dei comportamenti sociali, delle credenze, dei rapporti di forza definiti dai fatti umani e dalla realtà naturale. E persino quando la sopraffazione sembra mettere in crisi l’equilibrio dei ruoli e delle gerarchie, o la brutalità irrompe per la conquista delle risorse disponibili, non per questo la consuetudine perde la sua essenza inerziale e anzi si adatta metabolizzando i cambiamenti traumatici e ridisegnando le strutture sociali. Sempre uguale a se stessa e sempre in via di adattamento: in ciò consiste la sua vitalità. Questo rilievo è confermato da quanto abbiamo detto sulle consuetudini etniche dei popoli germanici. Prima legate ai singoli popoli nei loro movimenti nomadici e di conquista, a volte subalterne a quelle dei vincitori, altre volte dominanti; in seguito sottoposte ad un processo di verifica e di trascrizione scritta, con l’assemblea e il re nella veste di garanti; infine tra loro contaminate, in un graduale ma irreversibile processo di integrazione legato alla convivenza dei popoli nei medesimi territori. Questo fenomeno, complesso e affascinante, è arricchito da ulteriori incroci, che pongono in relazione, e non raramente in conflitto, regole tradizionali legate a comunità etniche o ad appartenenze cetuali (consuetudini personali) con altre legate al singolo territorio e ai rapporti socioeconomici definitisi localmente (consuetudini territoriali): il risultato è spesso un’ulteriore miscelazione realizzatasi progressivamente per prassi, anche attraverso l’ausilio di notai e di giudici, chiamati a dar forma al mutevole gioco degli interessi e dei conflitti 8. Tra i tanti nuclei consuetudinari che si affermano nei secoli altomedievali ve ne è uno che emerge con singolare e duratura evidenza: parliamo del feudo e delle norme consuetudinarie che lo regolano. Il rapporto feudale si afferma all’interno delle comunità di combattenti franchi, al fine di disciplinare e ‘codificare’ le forme di supremazia e di obbedienza necessarie all’ordinato ed efficace sforzo bellico. In sostanza, davanti al capo di un gruppo di uomini in armi, primo tra tutti il re, viene formalizzato un atto di fedeltà implicante la piena collaborazione militare e l’assistenza nelle attività di comando e di giustizia. Tale fedeltà, giurata attraverso l’atto dell’omaggio (homagium), implica per il signore che l’ha ricevuta il dovere di provvedere a sua volta al ‘mantenimento’ di chi si è posto al suo servizio, una sorta di ricompensa (beneficium) che poteva consistere

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Si veda infra, § 6c.

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– e in effetti assai spesso consisteva – nella spartizione del bottino di guerra. Il bene più ambito fu la terra, che il signore concedeva al fedele (vassallo) per consentirgli di trarre dalle relative rendite quanto necessario per il suo armamento e per un decoroso tenore di vita. Quello feudale è un istituto complesso e multiforme, che avrà un successo e una diffusione enormi, tanto da essere recepito da ambienti e in vista di finalità assai differenti da quelli di origine. Inoltre avrà una vita secolare, pur nell’inevitabile adattamento – e travisamento – che il tempo impone ai fenomeni di lunga durata. Al suo approfondimento dedicheremo l’ultimo paragrafo di questo capitolo, al quale occorre pertanto rinviare 9. Ma, intanto, occorre qui far cenno ad un altro ambiente fortemente produttivo di usi, destinato a recepire molti degli schemi giuridici affermatisi nel mondo feudale. Intendiamo parlare della signoria fondiaria. Con questa espressione intendiamo quel fascio di poteri che si radica su un soggetto a partire dalle esigenze e dalla strutturazione di un determinato sistema produttivo, affermatosi nei secoli dell’alto medioevo, quella dell’azienda curtense. La curtis, da considerarsi quale evoluzione dell’antica villa romana, era l’unità abitativa principale del titolare della stessa (signore o dominus), a cui erano direttamente collegate, in una relazione di stretta contiguità fisico-spaziale, un territorio coltivabile, di variabile estensione. La curtis, intesa quindi come unità abitativa centrale ed area agraria connessa, era definita pars dominica («parte signorile»), in quanto direttamente posta sotto il controllo del signore che vi risiedeva, ed era resa produttiva principalmente attraverso l’opera di servi, soggetti privi di piena personalità giuridica. A questa porzione di territorio va aggiunto il massaricium, definito anche pars massaricia (o pars tributaria, perché soggetta a ‘tributi’), che prendeva la denominazione dalla circostanza di essere divisa in varie unità rurali (mansi), non necessariamente confinanti tra loro e con la curtis da cui dipendono; tali unità, anch’esse di pertinenza del signore, erano affidate alla cura di coltivatori, liberi o semi-liberi, che si appropriavano solo di una parte del prodotto, mentre il resto andava consegnata al dominus. Restava invece ‘libero’ l’uso dei pascoli e dei boschi insiti nella riserva domenicale. I coltivatori del massaricium, oltre a una quota importante del prodotto del mansus, erano inoltre tenuti a una significativa quantità di lavoro da impiegare presso la curtis e la pars massaricia, come sostegno al lavoro dei servi; in questo caso però l’intero prodotto era di spettanza del signore. In tale micro-contesto economico e produttivo emerge spontaneo il ruolo del dominus quale definitore di conflitti: il signore assume quindi il compito di difendere la pace interna al territorio curtense attraverso l’applicazione delle regole vigenti in loco e quelle tipiche dei gruppi appartenenti a certe etnie. A tali regole se ne aggiungono altre, quelle derivanti dai rapporti specifici intercorrenti

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Infra, § 8.

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tra il dominus e i residenti impegnati in prestazioni economiche a suo favore (si parla in questo caso di iustitia dominica, giustizia esercitata dal signore). Gli eventuali agenti che operano in quei medesimi luoghi per assistere il signore nell’amministrazione delle terre, oltre alla mera gestione economica e organizzativa, sono destinati ad essere coinvolti nella risoluzione delle controversie, cioè nell’amministrazione della giustizia per conto del signore: non per nulla in certa documentazione emerge una sostanziale identificazione tra il termine actor (colui che amministra per conto del signore) e quello di iudex (cioè colui che amministrando per conto del signore si trova a dover risolvere le contese e quindi ad applicare le regole vigenti a livello territoriale e personale). A queste forme di amministrazione della giustizia (iurisdictio) sorte in via spontanea dalle medesime condizioni di vita economica, senza alcuna forma di riconoscimento o di incarico proveniente da autorità pubbliche, si aggiunge la potestà dei domini di esprimere atti di ‘comando’ (districtio) rivolti ai residenti: ingiunzioni di prestazioni straordinarie, definizione di tributi connessi all’uso di specifiche attrezzature o aree di pertinenza signorile (mulini, fiumi, ecc.), chiamata alle armi in vista di conflitti. Tale fascio di prerogative in capo al dominus emerge in quanto idoneo nel suo complesso ad assicurare quella ‘protezione’ e quella ‘pace’ che per i residenti è condizione primaria per un’adeguata sussistenza. La durezza delle condizioni di vita, legata alla difficoltà di procacciarsi i mezzi di sostentamento, esaltano con sempre maggiore forza i poteri direttivi del signore e, specularmente, i fattori di soggezione dei residenti: anche dei residenti nel massaricium, che pure sono nati ‘liberi’, al contrario dei servi operanti nella curtis signorile, ma che a questi ultimi via via finiscono per essere assimilati a causa di analoghe limitazioni definitesi de facto. Si parla quindi di uomini ‘dipendenti’, i quali, pur potendo vantare lo status di libero, sono sottoposti ad una fortissima restrizione di movimento e di autonoma capacità di scelta, tale da parificarli sostanzialmente ai servi. Si tratta evidentemente di una dinamica di ‘schiacciamento’ delle qualificazioni personali che esalta il rapporto ‘verticale’ tra il titolare della terra e dei connessi poteri e coloro che in quella terra vi abitano in stato di soggezione. La società rurale altomedievale, insomma, viene sottoposta a un processo graduale, ma deciso, di stratificazione giuridica, con il risultato di ridurre il numero dei soggetti effettivamente ‘liberi’ e di incrementare quello dei subordinati. Le gerarchie si strutturano in una rete complessa di rapporti giuridici in cui appare decisivo il ruolo assunto in vista della capacità di assicurare ‘pace’ (contro la violenza altrui) e ‘protezione’ (per soddisfare i bisogni primari della vita). In quest’ottica, è comprensibile che la gerarchizzazione delle relazioni giuridiche si articoli verticalmente non solo all’interno delle singole unità produttive (signore e suoi dipendenti, liberi o servi che siano), ma anche nel rapporto che tra queste unità si costituisce: in altre parole, i titolari di territori resi produttivi dai residenti/dipendenti tendono a replicare nelle loro relazioni reciproche lo schema

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del superiore capace di assicurare tutela (perché dotato di un più ampio patrimonio fondiario e di una più numerosa massa di dipendenti) e dell’inferiore (perché dotato di un più ristretto patrimonio fondiario e di una meno nutrita massa di residenti). Emerge, insomma, una gerarchia tra signori fondiari, tra alcuni più ‘ricchi’ e più ‘potenti’ che possono assicurare tutela e protezione ad altri meno ‘ricchi’ e meno ‘potenti’. Tra i signori più ricchi e potenti se ne staglia qualcuno che capace di esercitare forme concrete di supremazia, legata alla vastità del patrimonio e alla numerosità dei residenti al suo servizio, tali da estendere il suo predominio su un’area assai ampia di territorio: si parla in questo caso di signoria territoriale. Il signore territoriale è colui che è titolare di vasti possedimenti fondiari, su cui esercita direttamente iurisdictio e districtio, ma che è riconosciuto anche come colui che è capace di assicurare pace e protezione ai signori fondiari più piccoli bisognevoli di qualche forma di assistenza in caso di conflitto con altri concorrenti. Signori territoriali furono, ad esempio, i da Canossa, una famiglia dotata di un ricco patrimonio fondiario in Toscana e in Emilia, a cui era riconosciuto il potere di giudicare o di emettere direttive su tutti quei signori fondiari di minor entità e potenza che insistevano sulla medesima area. Ma signori territoriali furono uomini di chiesa o enti ecclesiastici: si pensi all’Abbazia di Nonantola, che poteva vantare vasti possedimenti in area padana sui quali esercitava poteri signorili nelle forme e nelle modalità che abbiamo accennato e che, nella sua qualità di ricco e potente signore fondiario, era riconosciuto anche come signore territoriale da altri signori fondiari della medesima area. Quindi il signore territoriale è signore fondiario sono in una parte dell’area regionale di influenza; sul resto del territorio non partecipa al processo produttivo, ma esercita e coordina attività connesse alla difesa, alla protezione e alla giustizia, garantendo la pace con gli altri signori laici ed ecclesiastici e con le comunità libere. Tutta questa fitta rete di relazioni era regolata da consuetudini, le quali nascevano e si consolidavano sulla base delle modalità produttive assestatatesi nel tempo in certi determinati luoghi e tra determinate categorie di persone (ad es., le quote di prodotto dovute dai residenti al signore, il tipo e la quantità di servizi prestati dai primi al secondo, ecc.). Non meraviglia che tali consuetudini si integrarono ben presto con quelle di matrice feudale. Queste ultime, sorte, come detto, in ambienti e con finalità essenzialmente militari, si prestarono molto bene a dare configurazione giuridica a rapporti fattuali nati dal mondo produttivo delle signorie fondiarie, dove, come si è visto, gli status si andavano polarizzando tra la figura del dominus e quella dei subordinati semiliberi o servi. Non ci sorprende pertanto trovare nelle fonti documentarie (contratti, concessioni, messa per iscritto di consuetudini locali, ecc.) il termine vassalli usato per indicare una subordinazione dei residenti/contadini coloratasi delle tinte della ‘fedeltà’ feudale, a volte emergenti con chiarezza dalla prestazione di atti giurati di soggezione personale. Questo processo, anch’esso caratterizzato dalla spontaneità, è stato infine incoraggiato dalla circostanza che alcuni dei signori fondiari

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di maggior peso, tali da qualificarsi come territoriali, avevano ottenuto e avrebbero ottenuto in seguito la qualifica feudale di conte (soprattutto con i Franchi) o di duca. Ed ecco quindi che la primazia del signore, già di fatto esercitante certi poteri sui suoi residenti, trovava piena copertura giuridica nel complesso delle consuetudini feudali che nel frattempo si andavano assestando, anche grazie ad alcuni qualificati interventi sovrani. Uno sviluppo assai complesso e tutt’altro che omogeneo, che finì comunque per coinvolgere la quasi totalità dei territori dell’Europa continentale, almeno fino a quando nuove modalità produttive e differenti regole di convivenza si posero in controtendenza e persino in conflitto con le gerarchie prodotte dal mondo militare e rurale.

5. Chiesa e impero: a) la Chiesa come istituzione giuridica Dopo una lunga fase di persecuzioni e di vita clandestina, il cristianesimo ottiene dalle autorità imperiali romane un primo riconoscimento a metà del sec. III sino a giungere, nel giro di poco più di un secolo, a divenire la religione ufficiale dell’Impero. Anticipato da alcuni provvedimenti di Gallieno del 260, Costantino emanava nel 313 il famoso editto di Milano con cui si concedeva ai cristiani libertà di culto. Ma sarebbe stato Teodosio I, prima con l’editto di Tessalonica, promulgato nel 380 insieme agli altri due augusti Graziano e Valentiniano II, e poi con una serie di decreti emessi tra il 390 e il 391 per vietare i riti pagani, ad elevare il cristianesimo a religione ufficiale dell’Impero. Era l’avvio di una stagione di alleanza e persino di compenetrazione tra potere politico e religione destinata a caratterizzare in modo originale l’Europa. Tale riconoscimento rafforzava ed anzi esaltava le potenzialità organizzative che le prime comunità cristiane avevano espresso come elemento di coesione e di disciplina. Gli Atti degli Apostoli documentano con chiarezza l’importanza dell’assemblea in vista della definizione dei ruoli di guida e di raccordo sul territorio (elezione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi), ma anche come strumento per la gestione dei beni in comune e per l’esercizio dei doveri di solidarietà. Precocemente e con altrettanta chiarezza, queste prime strutture organizzative assunsero caratteri gerarchici, tali da prefigurare la manifestazione di vere e proprie istituzioni. Furono soprattutto i vescovi ad emergere come autorità locali dotate di una sorta di rappresentanza sui fedeli-residenti dei territori di competenza, capaci persino di fungere da interlocutori credibili e rispettabili quando alcune zone dell’Impero dovranno affrontare, sempre più spesso, la pressione conquistatrice delle popolazioni germaniche. La religiosità cristiana, benché riconosciuta ufficialmente dall’Impero, rappresentò un elemento potenzialmente conflittuale con la cultura giuridica romana e più in generale europea. Certi contenuti strettamente connessi con i valori evangelici – come l’indissolubilità del matrimonio, la gratuità del prestito, il

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rifiuto della vendetta e soprattutto l’esaltazione della dignità umana al di là delle connotazioni sessuali, personali, cetuali ed etniche – si ponevano in rotta di collisione con convinzioni millenarie consolidate in consuetudini popolari e norme sovrane. Malgrado ciò, la legislazione imperiale, da Teodosio II a Giustiniano, finì col recepire progressivamente una parte rilevante di quei valori, declinandoli opportunamente all’interno di una differenziata scala di principi e di gerarchie che non scardinassero gli assi portanti dell’autorità imperiale. A quei pochi esempi già fatti di assorbimento della sensibilità cristiana nella legislazione giustinianea 10, qui basti aggiungere un esempio di come, al contrario, tale assorbimento subì una battuta d’arresto: ci riferiamo al divorzio, istituto palesemente contrastante con l’essenza sacramentale del matrimonio cristiano, ma che Giustiniano volle conservare nelle sue leggi, pur riducendone drasticamente i requisiti e legittimanti. Vi è poi da sottolineare che sia il Codice teodosiano sia, in maniera assai massiccia, il Codex giustinianeo avevano codificato una normativa specifica per gli uomini e le istituzioni della Chiesa considerati entrambi tasselli dell’apparato di ‘governo’ imperiale e, come tali, meritevoli di godere di specifici privilegi. In particolare, veniva concesso il privilegium fori per gli ecclesiastici, i quali, in deroga al giudizio ordinario, potevano essere giudicati direttamente dai loro vescovi. Altro istituto di particolare rilievo è l’episcopalis audientia, una sorta di conciliazione in forma privata che il vescovo poteva esperire per specifiche questioni o a tutela di soggetti meritevoli di protezione (vedove, minori, poveri). Tale prerogativa, che nell’Impero d’Oriente aveva un significato chiaro di supplenza, nelle disastrate città dell’Europa occidentale, spesso sfornite di collegamento con le istituzioni centrali, assumeva la fisionomia di un potere giurisdizionale effettivo, riconosciuto e persino sollecitato dalla popolazione locale. Il ruolo degli uomini di Chiesa, dei vescovi in particolare, giunge ad assumere nell’Europa occidentale un altissimo profilo. Chiamati a fungere da guide spirituali ma anche da autorità di riferimento per la città e per le aree rurali collegate, appare naturale che essi, quando investiti nei fatti di poteri civili, risultino appartenenti alle famiglie di maggior rilievo, quelle che possono vantare possedimenti fondiari e alleanze con i potentati locali. Ne consegue che quelle prerogative sanzionate dalle norme di Teodosio e di Giustiniano assumano il valore di una legittimazione implicita di più ampie ed estese funzioni. È un profilo, questo, dai contorni molto complessi e che andrebbe circostanziato zona per zona. Basti qui ricordare la tradizione italiana (e non solo italiana) di identificare come santo protettore della città proprio un vescovo (Sant’Abbondio a Como, San Siro a Pavia, San Geminiano a Modena, San Petronio a Bologna, ecc.), che tra tarda antichità e prima età medievale si è assunto

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Si veda supra, § 2.

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il ruolo di difensore e di rappresentante dei residenti, magari con l’aiuto di qualche miracolo… Il prestigio e il ruolo assunto dai vescovi nell’Europa occidentale non ha impedito e anzi ha persino favorito l’invadenza del potere laico su aspetti ed esponenti del mondo religioso. L’intervento imperiale nella vita della Chiesa d’Oriente, e dove possibile anche in quella d’Occidente, era perfettamente compatibile, ed anzi richiesto dal ruolo riconosciuto all’imperatore bizantino di capo dell’organizzazione ecclesiastica e di guida religiosa (si tratta del cosiddetto “cesaropapismo”). Culmine drammatico di tale invadenza fu la campagna iconoclasta con cui l’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, nell’VIII secolo, avversò accanitamente l’uso delle immagini religiose: un contrasto tra Chiesa orientale e Chiesa occidentale che porterà nel 1054 al c.d. “grande scisma” tra cattolici ortodossi e cattolici romani mai più, nonostante alcuni vani tentativi di riavvicinamento, ricomposto. L’ingerenza del potere politico laico muterà natura, senza per questo perdere di pervasività, con l’avvento del regno e poi dell’impero franco, che, rivendicando per sé la veste di defensor Ecclesiae, si riterrà legittimato a ricorrere a un ampio spettro di poteri relativi alla nomina di vescovi e prelati, al funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche, all’amministrazione dei relativi beni. Di tale fenomeno e dei relativi risvolti avremo modo di dire qualcosa più avanti 11. Per ora basti dire che il vescovo di Roma, la carica religiosa più prestigiosa in Occidente, fu precocemente impegnato a tentare di fissare confini sufficientemente chiari tra potere laico e potere religioso. Una risalente tradizione mai smentita, infatti, vuole che sia stato già Gelasio I, pontefice romano dell’ultimo decennio del V secolo, a indirizzare all’imperatore d’Oriente Anastasio I un testo in cui l’auctoritas della Chiesa veniva affiancata a quella dell’Impero, definendone gli ambiti di rispettiva autonomia – in contrasto col “cesaropapismo” bizantino – e anzi riconoscendo alla prima un primato poggiato sul diretto rapporto con la Divinità: «Due sono, Augusto Imperatore, quelle che reggono principalmente questo mondo: la sacra autorità dei vescovi e la potestà regale. Delle quali tanto più grave è la responsabilità dei sacerdoti in quanto devono rendere conto a Dio di tutti gli uomini, re compresi» 12.

Si tratta della prima, ufficiale affermazione di separatezza tra religione e potere politico che caratterizzerà la civiltà europea. Su tale separatezza verrà costruito un imponente edificio che, grazie a una sorta di vocazione giuridica, farà della Chiesa una plurisecolare istituzione produttiva di diritto. 11

Infra, § 5c. «Duo sunt quippe, inperator auguste, quibus principaliter hic mundus regitur: auctoritas sacra Pontificum, et regalis potestas. / In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipso regibus hominum in divino sunt reddituri examine rationem». 12

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Un primo, essenziale presupposto di tale vocazione appare comune con le altre religioni monoteiste, la ebraica e la musulmana, segnate anch’esse dal Libro (Bibbia, Corano) come strumento della rivelazione divina. Da esso, attraverso un’opportuna opera di interpretazione, si traggono i principî teologici della fede e le norme comportamentali a cui i fedeli debbono attenersi. Il Libro, indiscutibile e definitivo in quanto mezzo di comunicazione tra Dio e il suo popolo, va letto e ‘usato’ mediante una coerente e cauta tecnica di lettura che risolva dubbi e sani le contraddizioni, che, così come gli eventuali errori, non possono essere che apparenti. Per la tradizione cristiana in particolare, risulta di importanza fondamentale il contributo dato dai padri della Chiesa (San Girolamo, Sant’Agostino, Sant’Ambrogio primi tra tutti), i quali hanno trasmesso alle generazioni future una prima e autorevole interpretazione della Parola di Dio. Quindi, riassumendo: attitudine all’attività interpretativa in rapporto a un testo assunto come irrevocabile e privo di contraddizioni; attitudine di quel testo in tal modo interpretato ad assumere valore normativo in rapporto al comportamento dei fedeli e dei medesimi ecclesiastici. Altro fattore di estremo rilievo è quello relativo ai concili ecumenici, le assemblee plenarie di tutti i vescovi della cristianità (ad es., Nicea 325, Costantinopoli 381, Efeso 431, Calcedonia 451), o ai sinodi locali, le assemblee di aree regionali, che con le loro delibere (canoni) erano chiamati ad risolvere problemi di natura teologica e organizzativa: i canones assursero subito a fonte primaria della Chiesa e le relative violazioni implicarono la messa al bando dei disobbedienti attraverso lo strumento delle scomuniche (excommunicationes). Ancora: il fenomeno monastico – molto diverso in Occidente rispetto a quello orientale, che pure ne era stato il precursore – promosse la produzione e la codificazione di regulae di convivenza dal marcato valore normativo all’interno della comunità. Si pensi al caso capitale della regula con cui nel 534 il monaco Benedetto da Norcia normò il funzionamento dell’abbazia di Cassino, da lui fondata nel 529. La “regola benedettina” divenne ben presto il corpo di norme a cui si ispirarono altre abbazie sorte un po’ dappertutto in Europa e contribuì a caratterizzare tali comunità monastiche, al di là dei pregnanti aspetti di condotta religiosa (esaltante la virtù della “obbedienza”), un profilo organizzativo gerarchico finalizzato al raggiungimento delle finalità di sussistenza dei medesimi monaci e di assistenza dei bisognosi. Proprio in ambiente monastico benedettino prese corpo un’ulteriore fonte degna di essere menzionata in un corso di storia della cultura giuridica. Si parla dei “libri penitenziali” (libri poenitentiales), quei testi che si preoccuparono di associare ai peccati le relative penitenze da irrogare come espiazione, con una logica ‘tariffaria’ che legava l’onerosità del castigo non soltanto alla ‘oggettiva’ gravità della trasgressione, ma anche alla ‘soggettiva’ intenzionalità di colui che se ne era reso responsabile. Particolarmente degno di nota è il penitenziale di San Colombano, il monaco irlandese che nel secondo decennio del VII secolo fondò l’abbazia di Bobbio (nell’appennino piacentino), destinata a diventare,

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insieme a quelle di Nonantola (nel modenese) e di Santa Giulia (a Brescia) una delle più potenti nell’area padana. Alle interpretazioni della Bibbia ad opera dei Padri della Chiesa, ai canoni conciliari e sinodali, alle regole monastiche e ai libri penitenziali, last but non least, vanno aggiunte le epistulae (missive, lettere) dei pontefici. Da sempre il vescovo di Roma comunica con la periferia utilizzando una solerte schiera di ecclesiastici-funzionari, i quali, dotati di competenze teologiche e giuridiche, sono capaci di confezionari autorevoli risposte ai più svariati quesiti provenienti dagli ecclesiastici di ogni latitudine. Il lavoro della cancelleria apostolica fa un salto di qualità allorché Gregorio I, il monaco benedettino divenuto papa tra il 590 al 604 (durante i difficili anni della penetrazione longobarda in Italia), provvide a formalizzare in un registrum le più di 800 epistulae che costituirono un primo corpus di testi pontifici dotati di implicito valore normativo: le missive gregoriane, infatti, dettavano la condotta richiesta dal postulante sulla base di uno o più passi delle Sacre Scritture estrapolati e trattati come norme vincolanti; né mancavano alcuni riferimenti al diritto romano. Dopo Gregorio, la produzione normativa dei pontefici si estese e, oltre la forma epistolare (epistulae decretales), assunsero altre forme più o meno codificate (constitutiones, edicta, decreta, ecc.). Pertanto, insieme alle fonti di “diritto divino” che costituivano il materiale più proprio della Chiesa come comunità religiosa (la Rivelazione, la tradizione ecclesiale, il diritto naturale inteso come ordine della Creazione), si vennero a moltiplicare per quantità e qualità le fonti di “diritto umano” della Chiesa come istituzione: è il primo, grande deposito di un diritto canonico destinato ad una illustre, ininterrotta storia.

b) la rinascita dell’Impero Uno degli eventi più mitizzati e ancor oggi indicati come uno dei fondamenti costitutivi della civiltà europea è senz’altro l’incoronazione di Carlo Magno quale imperatore del Sacro Romano Impero, avvenuta a Roma la notte di Natale dell’Ottocento sotto gli auspici – e la regia – del pontefice Leone III. Per poter valutare meglio la portata storica di questo evento e i suoi effetti sul diritto e sulle istituzioni del tempo, occorre fare un passo indietro. Il sovrano di cui parliamo, Carlo (742-814), è il discendente di un altro Carlo, detto “Martello”, colui che aveva posto fine alla dinastia dei Merovingi – a cui apparteneva Clodoveo, il primo re cattolico dei Franchi Salii 13 – per inaugurarne una nuova, quella dei Carolingi. Questa nuova dinastia si caratterizzò non soltanto per una potente espansione territoriale a danno di altri regni barbarici (nella Francia meridionale, in Germania, in Italia), ma anche per avere interpretato il tradizionale ruolo di comando tipico dei popoli germanici a forte voca-

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Cfr. supra, § 3.

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zione militare secondo nuove modalità, alcune delle quali direttamente derivate dalla struttura feudale del regno carolingio ed altre mutuate dal modello romano. Quest’ultimo aspetto, pur importante, è stato in passato oltremodo valorizzato dalla storiografia, sino a delineare una sorta di autentica rinascita dell’Impero d’Occidente, qualificato dalla risalente fede cattolica che i Franchi avevano abbracciato sin dal sec. VI e da un impianto organizzativo e politico-amministrativo che utilizzava i legami vassallatici per fare dei capi militari (conti, comites) i titolari di poteri delegati dal sovrano in sede decentrata. Questa visione è stata negli ultimi anni oggetto di una radicale revisione. La Renovatio Imperii, la rinascita dell’Impero, pur coincidente con un evento storico realmente accaduto – l’incoronazione dell’Ottocento –, è più che altro il frutto di una forzata interpretazione compiuta dalla Chiesa, la quale, attraverso i suoi tipici strumenti alternativi alla forza militare – la cultura, la scrittura, l’autorevolezza religiosa –, era interessata ad assumere il ruolo di continuatrice dell’Impero romano in Occidente e di suprema rappresentante della volontà di Dio in terra. Il re dei Franchi Carlo, detto “Magno”, era stato incoraggiato ad intraprendere l’invasione dell’Italia e a sconfiggere i malfidati Longobardi proprio dalla Chiesa, che nei Carolingi, come in passato nei Merovingi, vedevano i defensores capaci, con l’autorevolezza delle armi, di porsi al servizio dell’autorevolezza del Pontefice nell’Europa occidentale. La Renovatio Imperii fu, in questo senso, una vera e propria invenzione ‘mediatica’ della Chiesa, da annunziare ai contemporanei e tramandare ai posteri. In realtà il regno di Carlo Magno, a cui pure vanno riconosciute le qualità di grandissimo sovrano, non si disfece mai interamente dei tratti tipici dei regni militari di tradizione germanica. I comites, che sui territori ricevuti in feudo esercitavano poteri ampi di comando e di giustizia, manifestano costantemente un’autonomia difficilmente compatibile con un’idea gerarchica del potere statuale e informavano piuttosto i loro rapporti col sovrano sulla base delle convenienze e dei concreti rapporti di forza. Ciò è dimostrato non soltanto dall’autonomia di cui si è detto, che in certi casi poteva sfociare in forme larvate o aperte di ribellione, ma anche dall’uso costante che il sovrano faceva dei missi dominici (letteralmente “messi del signore”, emissari regi), incaricati di specifiche mansioni e inviati nei territori decentrati per attuare le direttive del re, non sempre recepite dai conti locali e per questo da confermare, o imporre, attraverso l’opera dei missi. È pur vero però che il regno franco di Carlo Magno, giunto alla sua massima espansione territoriale proprio negli anni dell’incoronazione imperiale (comprendeva i territori di Francia, i Paesi Bassi, buona parte della Germania e l’Italia del Centro-Nord), mostrava elementi di adattamento alla nuova realtà territoriale e alle vaste mire politico-militari soprattutto sul piano della legislazione. Benché la consuetudine di matrice etnica rimanga centrale nella cultura giuridica del tempo, i re carolingi si fecero promotori di una imponente produzione legislativa, organizzata e raccolta sulla base dell’ambito di applicazione o

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dell’oggetto regolato. Le norme regie, benché già produttive di effetti sulla semplice base dell’oralità (il valore preminente del verbum regis, la parola del re), venivano raccolte per iscritto in “capitolari” (capitularia), detti così per essere suddivisi in “capitoli” (capitula). Tali capitolari vennero distinti sulla base del territorio di incidenza (capitulare italicum fu l’insieme di capitula da applicare alla penisola italiana) oppure sulla base delle materie trattate (si distinsero i capitularia ecclesiastica, aventi per oggetto materie riguardanti gli ecclesiastici, la vita della Chiesa e le sue istituzioni, dai capitularia mundana, aventi per oggetto materie o soggetti laici). Tale normativa, benché imponente, non toglieva comunque validità alle consuetudini e alle altre norme vigenti, in ragione dei gruppi etnici di appartenenza, dei territori, dei soggetti inquadrati in singole categorie: in altre parole, la legislazione franca non incideva, ma anzi si inseriva, confermandolo, in un quadro pluralistico di fonti normative, la maggior parte di matrice consuetudinaria. L’unica novità di relativo rilievo è sul piano dell’applicazione di tali norme: ai tempi del re-imperatore Carlo venne introdotta la figura dello scabino, un giudice semi-professionale incaricato, per conto del sovrano, di affiancare il signore o il notabile locale nell’amministrazione della giustizia. Chiariti sommariamente questi aspetti, va ribadito il valore ‘occasionale’ che la Renovatio Imperii ebbe per i Franchi. I quali, malgrado il valore fondativo predicato dalla Chiesa, non vollero mai assumere toni perentori nei confronti gli imperatori bizantini, comprensibilmente irritati da quello che consideravano l’usurpazione di un titolo. La pace di Aquisgrana stipulata tra Franchi e Bizantini nel 812 riconobbe al monarca di Costantinopoli l’esclusività del titolo di imperatore dei Romani: Carlo poté da quel momento dichiararsi imperatore dei Franchi e non più dei Romani. Ad ogni modo, l’impero franco non durò molto a lungo. Nell’843, il trattato di Verdun pose fine ad una lotta intestina tra i figli di Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno, e procedette alla divisione dei territori: a Carlo il Calvo il regno franco, a Ludovico II il regno di Germania e a Lotario I la parte di mezzo dell’Impero, che dai Paesi Bassi andava giù verso la Borgogna e la Provenza, sino al Regno d’Italia. Il Sacro Romano Impero, cioè quella istituzione politica che la Chiesa aveva promosso attraverso l’idea della translatio Imperii (il passaggio dall’Impero romano a quello carolingio), in meno di cinquant’anni aveva concluso il suo ciclo. Ma non per sempre. Nella seconda metà del sec. X l’idea imperiale troverà nuova linfa grazie all’iniziativa di una dinastia tedesca che ancora una volta alla tradizione romana, vivificata dalla sacralità della renovatio, attingerà a piene mani. Il duca di Sassonia Ottone, dopo avere concentrato nelle sue mani anche il titolo di re di Germania (936), e dopo un’aspra lotta di successione per la supremazia in Italia che lo vide prevalere su Berengario d’Ivrea, fu incoronato Imperatore nel 962 a Roma dal papa Giovanni XII. La data segna l’inizio della lunga permanenza in

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Germania dello scettro imperiale, che fu impugnato, come si vedrà nei capitoli che seguono 14, da protagonisti importanti della storia politica europea e italiana, come gli svevi Federico I Barbarossa, Enrico VI e Federico II Hohenstaufen. Anche la dialettica con Chiesa risentì fortemente del radicamento imperiale in Germania e del tentativo, con esiti altalenanti, di sottoporre a stabile soggezione la penisola italiana. Ma qui si allude a secoli che esulano dai limiti di questo capitolo, a cui spetta invece affrontare ex professo il primo grande scontro tra potere politico e potere religioso registratosi nell’Europa occidentale.

c) egemonia signorile e riforma della Chiesa Pur nella differenziazione dei ruoli, fortemente rivendicata dalla Chiesa, si confermarono anche con i Carolingi gli ambigui aspetti di contiguità, per non dire di vera e propria commistione, tra potere politico laico e potere religioso. Il regno carolingio vantava, come detto, il ruolo di defensor Ecclesiae, una tutela che i re francesi, e soprattutto Carlo Magno, eserciteranno con la forza delle armi, ma anche con la pervasività della legislazione. I capitularia ecclesiastica, in particolare, rappresentarono un fattore di ingerenza del potere laico nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, le quali infatti, in molte aree d’Europa sottoposte ai Franchi, vennero progressivamente attratte entro la sfera di controllo sovrano. I vescovi, ad esempio, vennero sempre più spesso scelti tra gli esponenti delle famiglie più legate al potere regio/imperiale, tanto da assumere in certi casi il ruolo di rappresentanti del medesimo sovrano: si parla in questo caso di vescovi-conti, uomini di Chiesa sì, ma i cui compiti politici si fondevano, sino a sopravanzarli, con quelli pastorali. Tale fenomeno non riguardò solo i vertici dei rispettivi poteri. Più in generale furono i rapporti feudali, ormai non più riservati al mondo militare franco, a segnare profondamente la Chiesa e le sue istituzioni, nei loro legami col mondo signorile ma anche con la grande platea dei fedeli. Insomma, gli ecclesiastici capaci di rivestire ruoli di rilievo (vescovo cittadino, abate a capo di un monastero, ecc.) risultano direttamente o indirettamente selezionati dalle famiglie aristocratiche, quando non siano essi stessi – e ciò accadeva assai di frequente – esponenti di quelle famiglie. La carriera ecclesiastica si pone cioè come una carriera appetibile, persino obbligata per i rampolli di quelle stirpi signorili che non abbiano la fortuna di essere i primogeniti. Non si trattava di solo prestigio legato all’autorevolezza del ruolo religioso e pastorale svolto. Quello a cui si ambiva erano le ricchezze e i poteri conseguenti ai terreni dati in dotazione alla singola istituzione ecclesiastica (vescovato, abbazia, diaconia, parrocchia, cappella, ecc.), tutti produttivi non soltanto di profitti, ma a volte anche di prerogative di comando e di giustizia sui residenti. In questo

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Infra, cap. II.

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quadro non meraviglierà assistere al prevalere degli aspetti mondani connessi con la dignità ecclesiastica su quelli autenticamente religiosi e pastorali. Allo stesso modo non stupiranno i frequenti fenomeni di simonìa (l’acquisto di cariche religiose mediante esborso di denaro) e degenerazione dei costumi (il concubinaggio praticato dagli uomini di Chiesa). A questa sfida la Chiesa reagì con le armi che aveva a disposizione, che, come abbiamo più volte sottolineato, erano costituite soprattutto dalla tradizione culturale e dalla dimensione religiosa intimamente connessa con le finalità perseguite. Sul primo versante, la Chiesa si attrezzò con decisione sin dai primi anni della supremazia carolingia, soprattutto nei primi anni della campagna italiana di Carlo Magno, quando il successore di Pietro sentì con più urgenza bisogno di accreditare l’istituzione universale da lui guidata sulla base di un patrimonio normativo di solida e risalente tradizione. Può essere a questo proposito ricordata la Collectio Dyonisiana, una delle più antiche raccolte di diritto canonico, il cui più antico nucleo era attribuito ad un misterioso monaco bizantico (Dionigi o Dionisio); una nuova ed aggiornata versione di tale raccolta fu fatta predisporre dal papa Adriano I nel 774 e quindi donata a Carlo (ancora solo re dei Franchi), quale testimonianza – con valore di monito – del prestigio e della inattaccabilità della Chiesa e delle sue prerogative. In Italia ebbero inoltre genesi e circolazione altre raccolte di rilievo: la Collectio canonum Anselmi dicata, opera anonima composta negli ultimi decenni del sec. IX e dedicata al vescovo di Milano Anselmo, nella quale il materiale di base, consistente soprattutto in canoni conciliari, fu opportunamente legato a testi normativi romani di derivazione imperiale, adattati ai bisogni della Chiesa e alle sue preminenti funzioni; l’esigenza di ribadire la tutela offerta dal diritto romano è alla base anche della Lex romana canonice compta, una selezione mirata di poco più di trecento frammenti di argomento o comunque di interesse ecclesiastico (tratte dalle Institutiones, dal Codex e dalle Novellae giustinianee), risalente alla metà del sec. IX; una menzione va fatta anche la misteriosa Collatio legum mosaicarum et romanarum (conosciuta anche col titolo Lex Dei quam praecepit Dominus ad Moysem, “La legge di Dio che il signore prescrisse a Mosé”, o più semplicemente Lex Dei, “Legge di Dio”), di autore e datazione incerti, che presenta la singolarità di confrontare norme romane con testi biblici, al fine di dimostrarne la piena compatibilità. Un posto a parte meritano le decretali cosiddette Pseudoisidorianae, una raccolta di canoni conciliari e di lettere pontificie per la maggior parte apocrife, la cui compilazione è attribuita a un ipotetico Isidoro Mercator. Il testo risale anch’esso al medesimo secolo in cui si affollano i manoscritti di questo tipo di raccolte, il IX, l’epoca cioè della Renovatio Imperii. Quel che si può ipotizzare è che negli ambienti ecclesiastici più disparati, oltre alla produzione di raccolte normative di varia natura, ma comunque accreditate dalla tradizione risalente e dal supporto del diritto romano, in qualche caso si provvide alla confezione di raccolte di testi manipolati, spesso totalmente falsi, accostati con altri autentici. In questo caso l’obiettivo appare chiaro: le decretali Pseudoisidoriane, quasi cer-

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tamente composte in Francia, accreditano il primato pontificio al vertice della gerarchia – in altre parole: la centralità di Roma sulle cariche ecclesiastiche minori diffuse sul territorio europeo. Si tenga infine conto che proprio in tale raccolta era contenuta ed ebbe indiscussa diffusione la celebre “donazione di Costantino”, il falso (perché mai avvenuto) trasferimento dell’autorità imperiale al vescovo di Roma avente efficacia sul territorio italiano e sul resto dell’Europa occidentale. Proprio su tale inesistente base fu possibile legittimare l’incoronazione imperiale a vantaggio dei sovrani franchi e perpetuare nei secoli l’idea di una preminenza politica, oltre che religiosa, della Chiesa di Roma – almeno prima che l’umanista Lorenzo Valla, nel sec. XV, non dimostrasse inequivocabilmente la natura apocrifa del documento. Comunque si voglia intepretare il fiorire di queste raccolte, sta di fatto che esse costituirono il serbatoio da cui attingere materiale essenziale per la confezione di altre, più sofisticate selezioni di testi canonici: ci riferiamo alle opere di Burcardo, vescovo di Worms, autore nei primissimi anni dell’XI secolo di un celebre Decretum, in 20 libri, e di Ivo di Chartres, autore tra la seconda metà dell’XI e i primi anni del XII secolo di tre raccolte fondamentali, il Decretum, la Panormia (in latino e in greco) e la Tripartita – tutte tappe fondamentali per la formazione di una prossima scienza giuridica canonistica. È certo però che la Chiesa non avrebbe potuto affrontare adeguatamente l’offensiva costituita dalla pervasività del mondo signorile se non fosse stata sostenuta, oltre che dalla massiccia raccolta e diffusione di testi canonici, anche da un consistente patrimonio fondiario, che aveva la sua massima concentrazione nell’area centrale della penisola italiana (principalmente in Lazio, Toscana meridionale, Umbria, Marche, Romagna): si tratta del cosiddetto Patrimonio di San Pietro (Patrimonium Sancti Petri), frutto delle concessioni dei sovrani longobardi prima e franchi poi, ma anche del radicamento di realtà produttive ecclesiastiche operanti anche in una dimensione signorile (cioè con poteri di giustizia e di comando sui residenti). La creazione e la manipolazione di testi normativi capaci di suffragare la legittimità di tali possedimenti (esempio tipico fu la già ricordata donazione di Costantino) sostennero le pretese territoriali della Chiesa, ma non poterono arginare le difficoltà che ben presto vennero emergendo con evidenza, soprattutto nei tumultuosi anni delle lotte dinastiche (sec. X), sino a divenire aperta crisi al momento del sorgere dell’impero tedesco di Ottone I (962-973) e di Ottone II (973-983) di Baviera. È davvero un momento drammatico: gli ecclesiastici, esponenti delle famiglie feudali con poca o nulla vocazione religiosa, gestiscono le loro diocesi allo stesso modo con cui i signori laici gestiscono i loro fondi; i discutibili comportamenti dei singoli contribuiscono al discredito della missione pastorale; l’affidamento delle cariche più importanti vengono decise dalle autorità laiche; la sede apostolica romana non è in grado di esercitare nessuna azione di governo o di coordinamento sulle altre sedi e, anzi, lo stesso vescovo di Roma è selezionato tra gli esponenti del mondo aristocratico più sensibili agli interessi dell’impero tedesco.

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In questo panorama di profondo travaglio, nel cuore della Francia, a Cluny, si affermava il prestigio di un’abbazia benedettina e di un folto stuolo di monaci e intellettuali profondamente convinti della necessità di un percorso di rifondazione della Chiesa, capace di opporsi all’asservimento al potere laico e alla secolarizzazione della missione pastorale. Da tale ambiente si irradiò un potente processo di consapevolezza, religiosa e politica, capace in breve tempo a porre le premesse per un rapporto paritario col mondo signorile e con l’autorità imperiale. Profondamente influenzato dalla riforma cluniacense fu il vescovo di Firenze Niccolò II, di probabile origine francese, il quale, assurto al soglio pontificio nel 1058, si adoperò non soltanto a reprimere i diffusi fenomeni di simonia e concubinato, ma anche a modificare radicalmente le modalità di elezione del papa, ora affidata ad un collegio di vescovi-cardinali, al fine di limitare la preponderante influenza dell’aristocrazia romana e dell’imperatore tedesco. Ma la vera svolta fu attuata dal monaco Ildebrando da Sovana, divenuto papa nel 1073 con il nome di Gregorio VII. Formatosi in Germania e a Cluny, nel 1075 Gregorio emanò un testo normativo di fondamentale importanza per la storia della Chiesa: il Dictatus Papae. Si tratta di 27 proposizioni, con valore di princìpi fondamentali, con cui venivano affermati i punti strategici della riforma “gregoriana”, tutti accomunati dal palese obiettivo di affermare il primato della Chiesa, in particolare del pontefice romano. Quest’ultimo, definito senza giri di parole “universale”, assumeva i tratti di un vero e proprio monarca, i cui attributi poggiavano sulla rappresentanza di Dio sulla terra. Veniva pertanto affermato il potere esclusivo di nominare, di trasferire e di deporre i vescovi, nonché di creare e di riunire istituzioni ecclesiastiche (abbazie, canoniche, congregazioni, ecc.); era ribadita la sua indiscussa autorità nei concili, anche quando mediata da un legato, vale a dire da un suo rappresentante ad hoc; al pontefice era riconosciuto un potere legislativo illimitato; il pontefice, così come rappresentava l’apice dell’ordinamento giudiziario della Chiesa, in modo tale che le cause maggiori dovessero essere portate alla sua cognizione e che le sentenze da lui emesse non potessero essere riformate in nessun modo, alla stessa maniera egli non poteva essere sottoposto a giudizio da alcuno (il riferimento all’imperatore è ovvio); al pontefice veniva esteso, implicitamente, il carattere di infallibilità che era coessenziale alla Chiesa medesima; al pontefice era poi attribuita la potestà di escludere dalla comunità ecclesiale mediante scomunica (excommunicatio) colui o coloro che si fossero resi responsabili di disobbedienza; infine, terribilmente, il pontefice poteva giungere a deporre il medesimo imperatore, nonché sciogliere dal vincolo di fedeltà e soggezione i suoi sudditi. Quest’ultimo potere, del tutto inaudito, fu in effetti utilizzato da Gregorio VII, che nel 1076 scomunicò e depose l’imperatore Enrico IV di Franconia, il quale, con atto di pubblica umiliazione di alto significato politico, si recò per ottenerne revoca e perdono a Canossa, nel cui castello il pontefice risiedeva come ospite di Matilde, dell’omonima casata. La rinconciliazione, parziale, tra i

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due non durò a lungo: essa si ruppe definitivamente nel 1080, in seguito ad un ulteriore atto di decadenza pronunciato da Gregorio, a cui fecero seguito la nomina di un ‘antipapa’ da parte di Enrico e, nel 1084, la presa militare di Roma, circostanza quest’ultima che costrinse Gregorio alla fuga a Salerno, dove morì, spodestato, l’anno dopo. Si trattava di uno dei versanti più drammaticamente noti della cosiddetta “lotta per le investiture”, che oppose Impero e Papato per il controllo delle nomine e delle dotazioni (“benefici”) ecclesiastici. È noto che tale scontro trovò uno sbocco – non propriamente definitivo – con il concordato di Worms, concluso nel 1122 tra l’imperatore Enrico V e il papa Callisto II. In esso, tra l’altro, era stabilito il principio della “doppia” investitura, rilevante quando si trattasse di dotare di benefici feudali un vescovo: l’investitura ecclesiastica dei poteri pastorali sarebbe spettato esclusivamente alla Chiesa, mentre le prerogative feudali connesse potevano continuare ad essere concesse dall’imperatore, il quale, pertanto, non avrebbe più potuto utilizzare, come abusivamente in passato, l’anello e il pastorale, simboli strettamente riservati al pontefice. Comunque si vogliano valutare le vicende e gli esiti della lotta per le investiture, è certo che esse rappresentano una tappa decisiva per il prestigio e la credibilità politica della Chiesa, la quale, grazie al processo messo in moto dalla riforma gregoriana, da questo momento in poi sarà comunemente considerata autorità posta su un livello corrispondente e speculare – benché inevitabilmente conflittuale – a quello dell’Impero. Anzi, è proprio sulla base della riforma gregoriana che iniziano ad affermarsi elaborazioni teorico di tipo religioso e giuridico che propugnano, in ragione della diretta rappresentanza divina, una decisa preminenza della Chiesa rispetto all’Impero anche sul piano politico e secolare. Si afferma insomma negli ambienti ecclesiastici quella linea politica conosciuta come “ierocrazia” (dal greco ieròs, “sacro”, e kratìa, “potere”), cioè che afferma il prevalere del potere religioso su quello laico-imperiale. Una linea che andava ben oltre la distinzione gelasiana e che avrà sviluppi importanti con la nascita delle scuole giuridiche di diritto canonico.

6. La cultura giuridica altomedievale: a) la sopravvivenza dei testi giustinianei Abbiamo a suo tempo detto che la compilazione giustinianea, prodotta a Bisanzio e vigente nell’Impero d’oriente, fu estesa all’Italia e più in generale all’Impero d’Occidente con la pragmatica sanctio del 554 15. In realtà solo l’Italia bizantina poté beneficiare dell’applicazione delle norme promulgate da Giustiniano e, appena nel giro di qualche decennio, la dominazione longobarda ne re15

Cfr. supra, § 2.

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strinse notevolmente l’ambito di utilizzazione, sino a renderla ininfluente, inapplicata e, infine, dimenticata. In Italia così come nell’Europa occidentale, furono le consuetudini ad avere la meglio, nella loro forma orale o, qualche volta, in quella scritta. I riferimenti al diritto romano restavano rari, frammentari, indiretti. Quel che restava vitale era piuttosto una tradizione giuridica latina, anch’essa operante nelle consuetudini dei popoli latini e nelle forme spontanee dell’oralità, della prassi negoziale e giudiziaria. Discorso ben diverso invece per i testi del diritto giustinianeo, di cui solo raramente la documentazione del tempo restituisce qualche traccia. Quando i documenti dell’alto medioevo fanno riferimento esplicito alla lex romana, non bisogna intendere tale espressione come un rinvio alla compilazione giustinianea. La lex in questi secoli, come abbiamo già evidenziato 16, è una modalità corrente per indicare la consuetudine, la tradizione giuridica di un popolo; in questo caso, il popolo latino, il quale, benché sottoposto alla dominazione di longobardi prima e di franchi poi, manteneva una sua tradizione giuridica che si distingueva nettamente, per radici culturali e contenuti specifici, da quella dei dominatori. Tale tradizione emerge negli atti notarili e negli atti processuali superstiti, come avremo modo di dire a breve 17. Più rare, invece, le citazioni di passi integralmente tratti dalle norme giustinianee, sporadicamente contenute in testi di provenienza ecclesiastica. Non c’è bisogno di insistere molto sulle ragioni: la Chiesa rimane nei secoli dell’alto medioevo la depositaria predominante della scrittura e dei prodotti culturali; a ciò si aggiunga l’interesse che la Chiesa ha sempre avuto di tener memoria delle prerogative e dei privilegi riconosciuti da Giustiniano nelle sue norme; soprattutto a partire dalla renovatio imperii la Chiesa ha coltivato e diffuso una tradizione culturale, religiosa e politica a un tempo, in cui essa si accreditava come autentica depositaria dei valori universali dell’Impero romano. Detto questo, va comunque confermato il quadro che si diceva poc’anzi: delle norme promulgate da Giustiniano a Bisanzio ed estese in Occidente nel 554 sono rintracciabili pochissimi passi testualmente integri. Le risultanze cambiano a seconda della parte della compilazione giustinianea presa in considerazione. Se guardiamo ai Digesta, i cinquanta libri contenenti un’imponente selezione della grande scienza giuridica dell’età classica (soprattutto del II e III secolo d.C.) 18, possiamo senz’altro affermare che ben poca consistenza hanno i brani superstiti, per di più non sempre correttamente riportati o pienamente compresi. Un fenomeno del resto assolutamente comprensibile: un’età come quella altomedievale, caratterizzata dall’uso della forza, dal prevale-

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Supra, § 3. Infra, § 6c. 18 Cfr. supra, § 2. 17

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re delle consuetudini e da un’economia non particolarmente sviluppata, non aveva di certo bisogno di testi giuridici di così grande raffinatezza, pensati per una società evoluta e bisognevoli di uno sviluppo culturale (necessario anche per la connessa attività interpretativa) impensabile nell’Europa occidentale di quei secoli. Le due raccolte di constitutiones imperiali – il Codex e le Novellae – ebbero invece una qualche diffusione, ma non nella loro forma integrale, bensì in più stringate versioni compendiate. Si conoscono infatti diverse epitomi (dal greco epitomé, vale a dire compendio, sintesi) sia dell’una che dell’altra raccolta: così come l’Epitome Codicis (risalente al sec. VIII), composta per riassumere il contenuto dei primi nove libri del Codex giustinianeo; o la Summa Perusina, anche questa una sintesi, nella forma di “sommario”, di una certa parte delle costituzioni del Codex; o, ancora, l’Epitome Iuliani, in questo caso un compendio delle Novellae (naturalmente nella loro versione latina), attribuite al giurista bizantino Giuliano (sec. VI). In qualcuno dei manoscritti che riportano tali sintesi è possibile rilevare i segni di una elementare attività interpretativa, attraverso l’apposizione di glossae (piccole note esplicative alle singole parole del testo). Ai quattro libri delle Institutiones spettò invece una migliore sorte, in quanto, trattandosi già di per sé di un testo abbastanza elementare – ricordiamo che era stato concepito come un manuale di formazione per coloro che si avviavano allo studio del diritto –, non ebbe bisogno di essere a sua volta compendiato e trovò quindi modo di essere conservato nella sua versione originale, in qualche caso fornita di un corredo di glosse esplicative. È ora il caso ora di interrogarsi se e in che modo la sopravvivenza dei testi giustinianei abbia alimentato centri di formazione giuridica.

b) le arti liberali Per indicare la condizione della cultura giuridica nell’alto medioevo, si è parlato di «un’età senza giuristi» (Manlio Bellomo) 19. Con tale espressione si è voluto significare la pressoché totale assenza di centri di formazione di insegnamento e di apprendimento specializzato del diritto. Se del resto pensiamo al disfacimento dell’Impero d’Occidente, all’egemonia dei regni germanici e all’affermazione della consuetudine, non possiamo stupirci se nell’Europa dei secoli VII-X, al contrario che nell’Impero d’Oriente, non si sentisse il bisogno di competenze specifiche e sofisticate per la conoscenza e l’applicazione delle regole vigenti. Questo non vuol dire che non vi fossero soggetti che noi oggi potremmo chiamare ‘operatori del diritto’, come giudici o notai 20. Ma il loro percorso for-

19 M. Bellomo, L’Europa del diritto comune, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 19915, p. 45. 20 Dei quali parleremo infra, § 6c.

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mativo avveniva secondo modalità molto diversificate, legate al luogo di residenza o al centro di potere con cui entravano in contatto o al servizio del quale erano chiamati ad operare. Quasi impossibile invece individuare maestri unicamente impegnati a fornire una preparazione esclusivamente giuridica. Del resto, la parziale e approssimativa tradizione delle norme giustinianee nonché l’assenza di istituzioni che ne esigessero l’applicazione, non incoraggiavano la nascita di scuole destinate allo studio e all’interpretazione di quelle norme. Alla luce di queste prime precisazioni, occorre ora provare a rispondere ad alcuni quesiti. Che tipo di formazione culturale veniva impartita nell’alto medioevo? In quali luoghi e per iniziativa di quali istituzioni? Esisteva uno spazio autonomo per l’apprendimento del diritto? La conoscenza nell’alto medioevo era tipo ‘enciclopedico’, nel senso che non avveniva secondo modelli di specializzazione disciplinare tipici dell’età moderna e contemporanea, bensì piuttosto aderiva ad una visione integrale della realtà visibile e invisibile, concepita quale ordine della Creazione divina e, come, tale da avvicinare e da apprendere nei suoi singoli aspetti come tasselli di un unico disegno. Questa concezione del sapere è espressa nel programma delle artes liberales (le arti liberali), così denominate perché, al contrario delle artes mechanicae (le arti meccaniche), esse non comportavano lavori manuali, di natura servile, ma soltanto attività di conoscenza, tipicamente adatta e quindi riservata all’uomo ‘libero’. Le arti liberali hanno origine antica, ma trovano nei primi secoli dell’alto medioevo una sistemazione con Isidoro da Siviglia e le sue Etymologiae (primi decenni del sec. VII), i cui 20 libri affrontavano, partendo dal significato di singole parole chiave, tutta la conoscenza disponibile al tempo, secondo quell’ottica enciclopedica a cui si è fatto cenno. Sulla base delle nozioni diffuse dall’opera fondamentale di Isidoro, l’insegnamento nei secoli a venire fu impartito entro le griglie disciplinari delle arti liberali, dove trovava spazio tutto il sapere dell’epoca. Le arti liberali erano dunque sette, tre dette sermocinales (da sermo, discorso, per indicare le discipline che riguardavano l’organizzazione e l’esposizione del pensiero), e quattro dette reales (da res, cose, per indicare le discipline che indagavano la realtà delle cose, della natura del Creato). Le tre arti sermocinali erano la grammatica, la retorica e la dialettica; le quattro reali erano l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica. Ai fini del nostro studio, interessano più da vicino le arti sermocinali. La grammatica può essere sinteticamente definita come l’arte di disporre in modo corretto e comprensibile il discorso; la retorica come l’arte di esporre efficacemente e convincentemente il discorso; la dialettica, forse la più importante delle tre, come l’arte di ragionare, di organizzare il pensiero, di fissarne i passaggi secondo modalità argomentative valide e coerenti. Ecco, l’insegnamento strutturato secondo le griglie contenitrici delle arti liberali sermocinali forniva occasione per trasmettere alcuni generici elementi di

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cultura giuridica. Le Etymologiae di Isidoro, il testo fondamentale nelle scuole di arti liberali, dedicavano 27 paragrafi del libro V al diritto, ma i contenuti sviscerati mediante la tecnica dell’indagine etimologica (spesso fantasiosa) non potevano certo costituire un bagaglio particolarmente solido, anche se considerato sufficiente per gli allievi di quelle scuole. Basti dire che il diritto era concepito come un sapere profondamente radicato nella morale religiosa (con riferimenti biblici), che la consuetudine era posta sul medesimo piano della legge e che la terminologia romanistica, pur presente, appariva sempre generica e mai circostanziata. Da questo limitato materiale, pertanto, erano tratte le poche nozioni giuridiche trasmesse con la grammatica, con la retorica e con la dialettica. Neppure le scuole, così come gli insegnamenti, erano caratterizzate dalla specializzazione. Non esistevano quindi scuole particolarmente dedicate al diritto. La cultura e la sua trasmissione erano normalmente appannaggio della Chiesa. Luoghi di apprendimento erano presenti presso le cattedrali, in città, e presso i monasteri, nelle aree rurali: nel primo caso si parla di scuole cattedrali, nel secondo di scuole monastiche. In entrambi i casi, comunque, il sapere veniva incanalato nel prisma delle sette arti liberali, le quali, fatta eccezione per l’indottrinamento più propriamente religioso, restavano la base per la formazione di qualsiasi uomo di cultura, laico o ecclesiastico che fosse. La Chiesa era e restava la depositaria per eccellenza della cultura e dei centri di formazione, anche se si deve registrare, saltuariamente, l’attività di scuole operanti all’interno di corti sovrane o di corporazioni professionali. Ma di questo si farà cenno a tempo debito.

c) giudici e notai La circostanza che nell’alto medioevo non si potesse parlare di giuristi in senso proprio non può essere interpretata, ovviamente, come una totale assenza di operatori del diritto. Ci riferiamo in particolare a coloro che oggi, senza le ambiguità dei secoli di cui stiamo trattando, possiamo definire con la qualifica di giudice e con quella di notaio. Anche nell’alto medioevo, infatti, le controversie, se non con la forza, andavano risolte attraverso l’applicazione delle regole vigenti; anche nell’alto medioevo, inoltre, si poneva il problema di certificare gli atti con cui il singolo o le parti intendevano porre in essere determinate volontà. Ora, per capire con una certa approssimazione il ruolo e il tipo di attività svolta da tali soggetti, bisogna non soltanto tener conto di quanto abbiamo già rilevato circa l’assenza di centri specializzati di formazione giuridica 21, ma anche di un’altra caratterizzazione, anch’essa rilevata, del diritto di quell’epoca: vale a dire la preminenza assoluta della consuetudine nel panorama delle fonti giuridiche altomedievali.

21

Supra, § 6b.

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Le consuetudini, come visto soprattutto per i popoli germanici 22, potevano assumere qualche volta la forma scritta grazie alla sanzione dei sovrani, approvata dall’assemblea popolare degli uomini liberi, ma per una grande massa di regole vigenti nei territori e tra comunità il tratto dell’oralità era nettamente predominante. In questo caso, il problema dell’accertamento del contenuto specifico della singola consuetudine, della sua vigenza in quel determinato territorio o per quel determinato gruppo etnico, assumeva contorni di non facile soluzione. Si poteva ricorrere alla memoria dei più anziani del luogo, gli antiquiores loci, oppure si poteva avviare una indagine attraverso il ricorso di testimoni affidabili, la inquisitio per testes. Il giudice pertanto, più che essere portatore di una specifica cultura giuridica, doveva essere adeguatamente informato delle consuetudini vigenti e delle modalità tradizionali per il loro accertamento. Questo, naturalmente, non poteva bastare. Chi giudicava doveva essere titolare di iurisdictio, di “giurisdizione”, del potere di amministrare la giustizia, di risolvere le controversie applicando le regole vigenti: questo potere, in misura ed estensioni differenti, era riconosciuto all’imperatore, al papa, ai re, ai vescovi, ai conti, ai signori fondiari, territoriali e feudali. Ma non sempre essi lo esercitavano direttamente e in prima persona; molto spesso, anzi, si avvalevano della perizia di soggetti esperti e fidati, ai quali si chiedeva consulenza quando si giudicava attraverso un organo collegiale presieduto dal titolare della iurisdictio (in tal caso i consulenti che materialmente redigevano la sentenza prendevano il nome di adsessores) oppure, in modo più pratico e diffuso, si delegava il potere di emettere sentenza a soggetti abilitati (e in questo caso si poteva parlare di “scabini” oppure, più familiarmente, di iudices, senza che però questo termine stesse a significare necessariamente una specifica competenza tecnica). La pronuncia giudiziaria, quel che noi oggi chiamiamo comunemente sentenza, non aveva il valore dell’applicazione di una norma imperativa capace di costituire, modificare o interrompere effetti giuridici, ma piuttosto si limitava a dichiarare operativa una certa regola consuetudinaria vigente, dalla quale discendevano certe conseguenze tra le parti in causa: una sentenza ‘dichiarativa’, per così dire, piuttosto che costitutiva. Ma non si parlava di sentenza: l’atto che documentava le fasi del processo, individuava la regola vigente e dichiarava valide le prove era chiamato placitum (oppure anche notitia iudicati). Sentenze dichiarative, giudici non propriamente giuristi: questi elementi mettono in evidenza la circostanza che, soprattutto in ambiente germanico, la giustizia non era concepita, così come la legislazione, come un’attività ‘autoritativa’, bensì come l’affermazione di un ordine di regole e di situazioni soggettive naturalmente inscritte nella tradizionale convivenza e che, se disattese o violate, dovevano essere ripristinate attraverso un riconoscimento giudiziale prodotto dal titolare della iurisdictio.

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Supra, § 3.

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Può essere aggiunto che, in ambiente italiano, processo e pronunciamento tendevano a valorizzare elementi probatori quali la testimonianza, il giuramento, la confessione e il documento negoziale, normalmente poco o affatto utilizzati negli ambienti germanici, i quali preferivano affidarsi ai tradizionali strumenti della loro cultura, quali l’ordalia e, in ispecie, il duello. Più tardi, certe pratiche giudiziali provenienti dalla cultura giuridica romana favorirono il raggiungimento di una maggiore chiarezza circa l’individuazione delle regole da applicare e il contenuto degli obblighi giuridici da definire. Altra figura di operatore giuridico di enorme importanza fu il notaio. Nei secoli dell’alto medioevo esso era normalmente un ecclesiastico oppure un componente di corti giudicanti o, ancora, un appartenente ad uno specifico collegio professionale (come avveniva in Campania). La loro capacità di dar vita ad atti espressivi della volontà dei privati era generalmente dovuto al riconosciuto valore della loro perizia nel redigere documenti, perizia su cui era fondato il prestigio professionale di tali operatori. Discorso diverso invece per quell’élite che, in quanto al servizio di autorità signorili o ecclesiastiche, erano capaci di fornire al documento una sanzione ufficiale promanante dal potere che rappresentavano. Insomma, la publica fides, vale a dire l’affidabilità che si richiedeva al documento, non era un elemento scontato, e solo in rari casi poteva fondarsi su un’autorità di cui il notaio incarnava la sanzione ufficiale. In tutti gli altri casi, il notaio, sulla scorta della sua personale professionalità o del prestigio della corporazione di appartenenza, doveva essere capace di confezionare un atto dotato di firmitas, cioè di quella stabilità nel tempo che si traduceva concretamente: a) nella sua irrevocabilità (le parti non possono rinnegare quanto concordato nell’atto), b) nella sua inattaccabilità (l’atto può essere efficacemente prodotto in giudizio in caso di controversia). Ora, la firmitas, più che dall’autorità incarnata dal notaio, era poggiata sulla sottoscrizione dei contraenti e dei testimoni, che conferivano forza all’accordo documentato nell’atto. Tale forza, comunque, non era insuperabile: il contenuto dell’instrumentum (documento), se contestato, poteva essere messo in discussione dal giuramento e dalle testimonianze, che quindi in sede processuale potevano avere la medesima forza della carta notarile. Si spiegano in tal modo le modalità di corroboramento dell’atto che la prassi aveva nel tempo messo a punto. La prima era quella di ricorrere all’autorità del signore territoriale o a quella regia o, addirittura, a quella imperiale o pontificia, per ottenere la sanzione ufficiale dell’instrumentum. L’alternativa era costituita dal ricorso alla pronuncia giudiziale: in sostanza, si ricorreva al giudice per trasformare il contenuto negoziale in una sentenza, in modo da esaltare il valore vincolante del contratto. Il giudice, insomma, interveniva per rendere più salda quella firmitas che il notaio, da solo, non era sicuro di poter assicurare, specialmente in caso di contestazione.

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Va sottolineato come il valore dell’instrumentum notarile risultasse più esile negli ambienti di cultura germanica, che preferivano affidarsi ad altri strumenti tradizionali per corroborare gli accordi e che comunque, anche quando ne recepiva l’uso, lo inseriva nel contesto di quel formalismo simbolico che regnava incontrastato nel mondo delle relazioni giuridiche germaniche. Si pensi al dispositivo della traditio chartae (“la consegna della carta”), mediante il quale l’atto in sede processuale non costituiva altro che una mera prova a disposizione delle parti da utilizzare in concorrenza con le altre tradizionalmente ammesse (ordalia, duello, giuramento, ecc.). Ciò vuol dire che, in un processo svolto in ambiente di cultura giuridica germanica, una controversia sull’esistenza o il tenore di un obbligo contrattuale poteva essere decisa mediante duello, piuttosto che sulla base di quanto riportato nella carta notarile regolarmente sottoscritta! Diversa invece l’evoluzione nelle aree di cultura latina, dove l’instrumentum, anche quando non corroborato da una insuperabile publica fides, poteva vantare in sede processuale una firmitas difficilmente scalfibile da altri strumenti di prova. Anche su questo versante, insomma, si afferma una tendenza analoga a quanto registrato nei processi: negli ambienti latini la scrittura, sia per documentare lo svolgimento del processo e il contenuto della pronuncia finale, sia per fissare la volontà dei contraenti, assume sempre più decisamente un valore incontrastato. Certo, non bastava la scrittura e la perizia del notaio, come per i giudici non bastava perizia e conoscenza delle regole vigenti: occorreva anche la legittimazione dell’autorità. Così anche per i notai si assiste al fenomeno della sempre maggiore attenzione che l’autorità politica esercitava sul ruolo di tale operatore. Il cap. 243 dell’editto del re Rotari, ad esempio, puniva con il taglio della mano colui che si fosse reso responsabile di aver redatto una cartola falsa, una carta notarile falsa. I Franchi attribuirono grande importanza al ruolo del notaio, tanto da nominarne uno ‘ufficiale’ in ogni località in cui operasse un missus dominicus, circostanza che escludeva la possibilità di utilizzare ecclesiastici per la confezione degli atti pubblici. Infine, con l’affermazione dell’autorità imperiale si consolidò l’esigenza di predisporre un corpo di notai pubblici ufficiali delegati dall’autorità a fornire publica fides, questa volta insuperabile, agli atti rogati. Notai con tali qualità si segnalano ad esempio nel Palatium (il palazzo regio) di Pavia, almeno sino alla sua distruzione, avvenuta nel 1024, epoca a partire dalla quale la prerogativa di nominare notai pubblici passò in mano ad una nobilissima e potente famiglia feudale, i conti palatini di Lomello. I notai attivi in Italia, sia che fossero o meno investiti di pubblica autorità, si segnalano per essere stati capaci di elaborare in autonomia forme organizzate di trasmissione del loro sapere specifico. Allorché, a partire dal sec. X, emersero nuovi contesti di relazioni giuridiche ed economiche – e ciò avvenne nelle città –, i notai locali seppero produrre testi di supporto alla loro professione, tipicamente il formularium, una raccolta di ‘moduli’ finalizzati al raggiungimento degli effetti giuridici desiderati dal disponente o dai contraenti (donazione, compravendita,

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testamento, affrancazione, affitto, ecc.), sui quali poi intervenire con i dati specifici del singolo atto da rogare. Su tali formulari si formarono generazioni di notai, i quali avvertirono con spiccata sensibilità non soltanto il bisogno di elaborare formule notarili in grado di aderire ai bisogni, vecchi e nuovi, dei disponenti, ma anche di dotare i propri “strumenti” (instrumenta) di firmitas. Ebbene, proprio dal sec. X una fonte di stabilità e autorevolezza venne individuata nella tipicità negoziale ereditata dalla grande tradizione giuridica del diritto romano. È quindi in ambiente notarile che si registrano testimonianze di singole formule negoziali e di relative raccolte (formulari), in cui gli schemi negoziali romani venivano riportati alla luce ed adattati alla confezione degli atti. E non basta. Il notaio seppe più di altri intellettuali porsi al servizio della vita economica dei territori. Una ricca storiografia ha messo in evidenza l’importanza della prassi nelle città mercantili. A Genova, ad esempio e significativamente, vengono elaborati atti notarili contenenti promesse di pagamento o confessioni di debito capaci di essere riconosciuti come immediatamente eseguibili, senza neppur bisogno della sentenza del giudice: si parla in questo caso di instrumenta guarentigiata (“strumenti”, atti dotati di garanzia), veri e propri titoli di credito esecutivi. Di particolare rilievo, inoltre, la prassi delle imbreviaturae, quel metodo cioè con cui i notai, insieme all’atto richiesto, compilavano una sintesi (breve) dell’atto medesimo, da raccogliere in apposito registro in funzione di pubblica certificazione. Il notaio, insomma, fu operatore sensibile ai cambiamenti, alla vita sociale ed economica, ma anche dotato di una cultura autonoma e parallela a quella, prevalente, del mondo ecclesiastico. A tale figura si deve inoltre riconoscere un tangibile contributo in vista del recupero di quelle fonti giustinianee che, pur se sopravvissute, nell’alto medioevo erano state neglette e, al più, circolate in forma frammentaria 23.

7. Verso un diritto universale La suggestione di quello che fu l’Impero romano, la sua dimensione mitica così come le sue radici culturali e giuridiche, non si sono mai del tutto spente nell’alto medioevo. Ne abbiamo visto traccia esemplare nel progetto di rinascita imperiale perseguito dalla Chiesa e di cui fu investito il regno franco di Carlo Magno. Ma le vestigia della romanità sono presentissime in tutte le fonti ecclesiastiche, così come nelle consuetudini di matrice latina, nella cultura dei notai, nella sopravvivenza carsica, benché lacunosa, di testi giustinianei. Tale suggestione sembra assumere, attorno al sec. XI, contorni più definiti. Si fa avvertire, soprattutto, una certa coscienza della limitatezza dei tradizionali

23

Cfr. supra, § 6a.

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meccanismi di accertamento, applicazione e convivenza delle consuetudini. Quella consuetudinaria è fonte normativa apprezzatissima, ma di cui non si riesce più a nascondere l’insufficienza, soprattutto in una società che mostra segni di maggiore complessità. I poteri territoriali forti hanno bisogno di un diritto meno frammentato e contraddittorio, con più spiccate doti di certezza, capace soprattutto di superare la molteplicità irriducibile dei patrimoni consuetudinari di matrice personale e locale. Si avverte insomma, pur confusamente, l’esigenza di un diritto che sappia qualificarsi, per sua intrinseca natura, come ‘superiore’, ‘unitario’, che possa essere riconosciuto come antidoto alla pluralità delle tradizioni etniche e territoriali. Tale esigenza appare più avvertita presso i centri di potere di ampio respiro, presso le istituzioni ecclesiastiche, all’interno di molti ambienti notarili, nelle aree urbane di rinnovata ascesa. Eppure nessuna delle autorità politiche del tempo appare in condizioni di affermare, autoritativamente, un diritto ‘superiore’ e ‘unitario’. Ma forse non vi è bisogno di affermarne uno nuovo, in quanto, come detto, non si è mai spenta la suggestione di quello che fu l’Impero romano e, con esso, del suo insuperato diritto, che Giustiano, cinque secoli prima, aveva contribuito a fissare e consegnare alla posterità. Quel che si vuol dire, pur con la cautela dovuta nel rievocare i grandi momenti di svolta delle civiltà, è che la decisiva operazione irneriana di ‘riscoperta’ dei testi romani giustinianei e la conseguente nascita di una scuola giuridica a Bologna 24 non possono essere interpretati come un fenomeno a sé, prodottosi dall’avulsa genialità di un intellettuale isolato, ma sono certamente il frutto di un processo più articolato e complesso, messosi in moto nell’ultimo scorcio dell’alto medioevo, e nel quale Irnerio e la sua schola non rappresenta che l’esito finale. La storiografia recente ha da tempo superato l’interpretazione per così dire ‘miracolistica’ della riscoperta irneriana, mettendo in relazione tra loro alcuni momenti della storia giuridica del sec. XI che in effetti sembrano preludere alla svolta bolognese. Tali momenti hanno in comune il dato della precoce, anche se ancora incerta, valorizzazione del diritto romano. Proviamo a ricordarne qualcuno. In primo luogo va senz’altro segnalata la presenza nella Pavia dell’XI secolo di una scuola giuridica, anche se dai tratti ben diversi da quelli che assumerà a Bologna. Si ricorderà che Pavia era stata, pur con alterne vicende, la capitale del Regno Italico prima con i Longobardi, con i Franchi poi e infine anche negli anni burrascosi seguiti alla divisione dell’Impero (epoca detta della “anarchia feudale”). In questa fase, il Regno si reggeva su una pluralità di fonti consuetudinarie, per una migliore conoscenza delle quali si era provveduto a redigere apposite raccolte di testi. Sono due le più importanti: il Liber Papiensis (il libro di Pavia) e la Lombarda. Il primo era una raccolta di tutti gli editti longobardi

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Di cui si parlerà nel cap. II, in particolare al § 2.

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(da Rotari ad Astolfo, dal 643 al 755) nonché dei capitoli franchi e delle costituzioni imperiali contenuti nel Capitolare Italicum (da Carlo Magno a Enrico II, dal 779 al 1014); tutto il materiale era organizzato secondo un semplice ordine cronologico. Lo stesso tipo di norme erano riportate nella Lombarda, la quale presentava però una struttura sistematica che la rendeva più aderente ai bisogni della pratica e dello studio e che ne decretò il successo, finendo per rimpiazzare il Liber Papiensis. Per quanto quindi la Lombarda rappresenti un’opera più elaborata della prima, pure è sul Liber Papiensis che dobbiamo soffermare la nostra attenzione, perché ad esso si associa un testo di natura chiaramente esegetica, la Expositio ad Librum papiensem (L’esposizione, la spiegazione del Libro di Pavia). Si tratta di un serie di annotazioni al testo normativo contenuto nel Liber che vengono fatte risalire ad una scuola di giuristi attivi a Pavia attorno al 1070. Tali annotazioni sono attribuite a diversi giuristi, per lo più sconosciuti e in gran parte anonimi, ma tutti operanti non soltanto per una migliore comprensione delle norme, ma anche per risolvere i non pochi problemi di coordinamento e coerenza tra esse. Le diverse opinioni riportate vengono filtrate distribuendo i maestri che le hanno espresse in scuole di differente orientamento: si parla pertanto di maestri antiqui e moderni, intendendo con tali qualifiche non tanto una distanza generazionale, ma le diverse sensibilità dottrinali. Se la Expositio è ricordata nei manuali di storia giuridica non è soltanto perché costituisce la viva testimonianza di una scuola giuridica di diritto ‘germanico’ in Italia negli anni immediatamente precedenti la riscoperta irneriana, ma anche – e soprattutto – perché i maestri citati nell’opera di commento mostrano di avere un’ottima conoscenza delle norme romane delle Istituzioni, del Codice, delle Novelle e in maniera meno evidente del Digesto, attraverso le quali operano rinvii e coordinamenti. Quel che più ha colpito la storiografia è però il ricorso alle norme romane per colmare le lacune normative o per sciogliere le antinomie, sulla base di una convinzione che viene esplicitamente e chiaramente espressa: «quia lex romana est lex generalis omnium» («perché la legge romana è legge generale di tutti»). Questa sorta di funzione sussidiaria della legge romana in funzione della comprensione e dell’integrazione del diritto longobardo, franco e imperiale rappresenta la prima, precoce intuizione di quella che sarà la missione storica del diritto romano e della scuola che su quel diritto fonderà una scienza di respiro europeo: quella di ius commune, di “diritto comune” a tutte le genti cristiane e che, al di là delle singole realtà territoriali, rappresenta un patrimonio giuridico condiviso e di indiscussa autorità. Una seconda testimonianza del sempre più deciso ricorso a fonti giustinianee viene da alcune contese giudiziarie registrate nella seconda metà del secolo XI, la più celebre delle quali è senz’altro il placito di Marturi (Poggibonsi), risalente al 1076 (lo stesso giro di anni della Expositio ad Librum Papiensem). Proviamo ricostruire la vicenda che sta alla base della vertenza. Davanti al missus della marchesa Beatrice di Canossa, della potente famiglia

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signorile che controlla un territorio ampio tra la Toscana e la pianura padana, si svolge un processo che oppone il monastero di San Michele in Castello al fiorentino Sigizone. Oggetto della contesa alcuni beni e la chiesa di Sant’Andrea presso il castello di Papaiano, beni che un’ottantina di anni prima era stati concessi al monastero dal marchese Ugo di Toscana ma che appena qualche anno dopo erano stati illegittimamente usurpati dal marchese Bonifacio, già responsabile di diversi episodi di spoliazione di chiese e monasteri, per farne dotazione a vantaggio dei suoi vassalli. Il sopruso era stato più volte denunciato dal monastero davanti ai giudici operanti al servizio dei signori da Canossa, senza che però che costoro operassero, come di dovere, gli accertamenti del caso. Tali ricorsi, per quanto infruttuosi, potevano ora essere efficacemente allegati per contrastare la difesa di Sigizone, il quale, entrato in possesso dei beni dopo una serie di alienazioni, riteneva di essere protetto dall’usucapione. L’avvocato Giovanni, che assiste il monastero nella contesa e ricostruisce la vicenda, sa invece di poter contare sull’interruzione della prescrizione quarantennale grazie a prove testimoniali e documentali, rafforzati da giuramento, che attestano gli avvenuti ricorsi e che dovrebbero pertanto prevalere sul possesso in buona fede di Sigizone. Ora, nel tradizionale processo di matrice germanica, il giudice decide in base alle prove ammesse e dedotte in giudizio e ne ‘dichiara’ la validità ai fini della prevalenza delle ragioni dell’una o dell’altra parte 25. Ma a Marturi assistiamo a una sorpresa. Nordilo, il giudice canossiano della contesa tra il monastero di San Michele e Sigizone, passa oltre le prove addotte dall’avvocato Giovanni e cita invece un frammento del giurista Ulpiano tratto dal Digesto 26, nel quale si dà conto della restitutio in integrum concessa dal pretore anche dopo i termini consentiti (il raggiungimento della maggiore età del ricorrente) nel caso in cui il ritardo fosse dovuto all’assenza di giudici o alla loro inazione. Insomma, il giudice-messo Nordilo, più che sulle prove addotte da Giovanni, preferisce fondare la sua sentenza a favore del monastero sulla restitutio in integrum, un istituto romanistico che nel passo del Digesto appare ben ritagliato sul caso in oggetto: «His peractis, supradictus Nordillus, predicte domine Beatricis missus, lege Digestorum libris inserta considerata, per quam copiam magistratus non habentibus restitutionem in integrum pretor pollicetur [cfr. Digesto, libro IV, titolo 6, legge 26, § 4], restituit in integrum ecclesiam et monasterium sancti Michaelis de aczione omnique iure, quod amiserat de terris et rebus illis […], quas […] Ugo marchio in ecclesiam sancti Michaelis contulit» 27.

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Si veda supra, § 6c. D.4.6.26.4 (l. Sed et si § Ait pretor, tit. Ex quibus causis maiores vigintiquinque annis in integrum restituantur). 27 «Esposte le prove, il citato Nordilo, missus della predetta signora Beatrice, considerata la norma contenuta nei libri dei Digesta, per la quale il pretore sanciva la restitutio in inte26

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Si tratta di un esito clamoroso, tanto più sorprendente in quanto in altre consimili occasioni i giudici dei signori da Canossa avevano preferito confermare le forme più tradizionali della giustizia germanica: ci riferiamo al placito di Garfagnolo (1098), che affidò gli esiti di una rivendicazione patrimoniale tra il monastero di San Prospero e una comunità della valle del Secchia, malgrado le allegazioni documentali addotte e persino le citazioni di passi del Codice e delle Istituzioni giustinianee, al classico duello (peraltro sfociato poi in una vera e propria rissa generale). A Marturi invece matura qualcosa di diverso. La norma del Digesto, cioè di quella parte della compilazione giustinianea che nell’alto medioevo aveva maggiormente risentito dell’oblio, viene scelta dal giudice-messo Nordilo con ponderata perizia per affermare una regola generale, quella secondo la quale non è possibile essere privato dei propri diritti in caso di denegata giustizia: il rimedio della restitutio in integrum, del ripristino della situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, prevale sopra ogni altra considerazione, e si afferma come principio di più ampia portata rispetto alle pur fondate prove messe sul tappetto dal reclamante. Non sappiamo se si sia trattato di una ‘eccentricità’ del giudice-missus Nordilo, magari imboccato dal legale del monastero (abbiamo già visto quanto le istituzioni ecclesiastiche abbiano contribuito alla conservazione dei testi romani), ma è certo che si tratti di una scelta prodotta da un clima più generale di valorizzazione della normativa giustinianea, non soltanto a fini interpretativi (come per l’Expositio di Pavia), ma anche per una più efficiente amministrazione della giustizia. Ma nel placito di Marturi emergono anche altri elementi che stimolano la curiosità dello storico. Uno dei più suggestivi è la presenza in giudizio, testimoniata nel documento, di un Pepo legis doctor. Come si vedrà nel prossimo capitolo 28, un misterioso Pepo è attestato in questi stessi anni a Bologna come colui che, prima di Irnerio, sarebbe stato in possesso dell’intera compilazione giustinianea. Il giurista Pepo presente a Marturi è il medesimo segnalato a Bologna? Se così fosse, si potrebbe parlare di una schiera di maestri emiliani – come il nonantolano Nordilo e il bolognese Pepo – già pratici nel maneggiare le fonti normative romane. Se poi aggiungiamo il celebre passo di una cronaca medievale che avvalorerebbe l’ipotesi di un esplicito incarico per un recupero integrale della compilazione giustinianea rivolto a Irnerio da Matilde di Canossa 29, figlia di quella Beagrum a favore di coloro che non avessero avuto a disposizione un giudice [D.4.6.26.4], dispose la restitutio in integrum a favore della chiesa e del monastero di San Michele dell’azione e di ogni diritto che aveva perduto sulle terre e sui quei beni […] che […] il marchese Ugo aveva conferito alla chiesa di San Michele». 28 In particolare al § 1. 29 Si veda infra, cap. II, § 2.

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trice sotto la cui giurisdizione si svolse il processo di Marturi, si potrebbe addirittura congetturare un legame tra le istanze di aggiornamento maturate negli ambienti culturali emiliani e le esigenze di più efficienti strumenti di amministrazione della giustizia avvertite dalle istituzioni territoriali e politiche dell’area dell’Italia centro settentrionale, istanze ed esigenze sfociate nel comune obiettivo di dare corpo testuale certo e definitivo alla normativa promulgata da Giustiniano cinque secoli prima. Ma qui si sono ormai superati gli angusti confini dell’alto medioevo: una cultura giuridica di amplissimo respiro sta per prendere forma e consistenza.

8. Il feudo Abbiamo avuto modo, in questo capitolo, di fare cenno al feudo 30. Si tratta di un istituto di lunghissima durata, profondamente radicatosi nelle strutture sociali, economiche e persino antropologiche degli uomini europei per circa un millennio. La circostanza che esso sia stato spazzato via dalla Rivoluzione francese non ne giustifica la sottovalutazione o, peggio, l’oblio a cui normalmente sono condannati gli istituti giuridici non più vigenti. È quindi il caso di tratteggiarne brevemente le origini, i contenuti e gli sviluppi. Non è il caso in questa sede addentrarci sulle complesse ipotesi relative alle scaturigini del feudo, che ancora oggi presentano alcuni aspetti non del tutto chiariti. Anche se da qualcuno si è voluta intravedere una qualche relazione con istituti e legami personali provenienti dal mondo tardo-romano (come la clientela e il patronato) e pur apparendo sensato il richiamo a forme di assoggettamento personale (accomendationes) con cui, per difendersi dai soprusi e dalle violenze, ci si poneva sotto la protezione di un potente, non c’è dubbio che il feudo si sia originato negli ambienti militari germanici. Molti dei popoli che nei secoli del primo medioevo erano usi alle razzie in vaste aree d’Europa sperimentarono originali forme di legame tra condottieri, per vincolare il rispetto delle gerarchie che la guerra richiedeva come forma primaria di organizzazione nelle campagne di conquista e di solidarietà nelle azioni belliche. La storiografia ha individuato e sottolineato l’importanza della compagnia di uomini armati a cavallo (comitatus in latino, Gefolgschaft in tedesco), sottoposti al comando del sovrano e a lui vincolati da legami di virile fedeltà. Tutto ciò premesso, il feudo propriamente detto è una creazione dei Franchi, che il regno e poi l’impero carolingio hanno contribuito a diffondere in gran parte d’Europa. La sua duttilità, inoltre, ha permesso a tale istituto non soltanto di recepire e incorporare altre forme di legame militare in uso pressi altri popoli e in aree molto diverse, ma anche di dare veste formale a una vasta gamma di

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Supra, § 4.

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rapporti di soggezione personale di differente natura. Come tutti gli istituti giuridici altomedievali, anche il feudo è di matrice consuetudinaria: emerso spontaneamente dalle pratiche di vita militare attorno all’VIII secolo, solo in un successivo momento alcuni aspetti del suo funzionamento verranno regolati per atto normativo. Una più compiuta e coerente definizione giuridica verrà avviata, come vedremo, in concomitanza con la nascita delle scuole di diritto romano. Questo comporterà certamente una migliore comprensione dei meccanismi di fondo dell’istituto, ma – è bene rammentarlo – anche una sorta di ingabbiamento entro schemi e terminologie romanistiche a cui lo storico deve necessariamente ricorrere, con il rischio di manipolare il significato di fondo della relazione giuridico-militare che ne è all’origine. Con questo avvertimento, proviamo ora a descrivere gli elementi costitutivi del feudo. Esso si configura come una relazione giuridica tra due soggetti, uno dei quali si assume essere di uno status superiore e l’altro di uno status inferiore: una relazione, insomma, che si instaura tipicamente tra due soggetti di condizione giuridica differente (già differente prima della creazione del vincolo o differente solo in seguito e in virtù della creazione del vincolo). Il soggetto assunto come superior prende il nome di dominus (signore), l’inferior quello di vassus o vassallus (vassallo, il cui significato originario è quello di ‘servitore’). Il legame vassallatico, cioè il rapporto feudale, si costituisce in base ad homagium (omaggio, farsi uomo altrui), l’atto con cui il vassallo giura fidelitas (fedeltà) al suo signore. L’atto di giuramento dell’omaggio poteva consistere, almeno negli ambienti dell’aristocrazia militare, in cerimonie particolarmente curate, in cui l’elemento simbolico della dedizione al dominus era rimarcato con gesti carichi di valenza drammatica (il vassallo, in ginocchio e a mani giunte, poneva il capo sotto la spada del signore, a significare piena dipendenza). L’oggetto del giuramento in cui consisteva l’homagium era la fidelitas, un concetto dalle valenze semantiche e culturali assai ampie e che in buona sostanza, negli ambienti militari che lo avevano introiettato, era espressione del valore supremo dell’onore: non un mero sentimento morale, ma qualcosa di più profondo e coinvolgente, che forniva dignità all’uomo armato, il quale doveva nutrirsene come sostanza vitale. L’uomo libero e combattente è tale se uomo d’onore; senza onore, egli perde la sua stessa essenza umana. Questa sottolineatura dei rapporti tra fidelitas e onore serve per comprendere che il giuramento dell’omaggio costituisce non costituisce soltanto un rapporto giuridico, ma investe la stessa la credibilità e la dignità dell’uomo che lo presta; le sue conseguenze sono totalizzanti e il legame che ne nasce è persino più pregnante di quelli biologici della parentela. Dopo tale chiarimento, vediamo ora i contorni più propriamente giuridici della fidelitas. La dottrina medievale dei secoli successivi, utilizzando un linguaggio tecnico, ha descritto la fedeltà come un impegno dal quale scaturiscono

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a carico del vassallo obblighi positivi di facere (fare) e obblighi negativi di non facere (non fare). Gli obblighi di facere possono essere raccolti entro due ampie categorie: auxilium (aiuto, soccorso) e consilium (parere, consiglio). Per auxilium si intende, tipicamente, l’obbligo del servizio militare a caval31 lo : il vassallo deve essere sempre pronto ad assistere il signore nelle sue spedizioni belliche e ad obbedire alla sua guida, ma anche ad impegnarsi alla sua liberazione in caso di prigionia, oppure contribuire economicamente in caso di riscatto (ma anche in caso di armamento del figlio del dominus). La prestazione dell’assistenza militare poteva anche, in certi casi, essere sostituita da un contributo economico (detto scutagium). Con il termine consilium ci si riferisce invece ad un ampio spettro di attività di assistenza non militare: si va dai pareri espressi dai vassalli nelle corti giudiziarie nobili presiedute dal dominus, sino ai consigli forniti in occasione di provvedimenti normativi (in questi casi, ovviamente, si intende che il dominus rivesta un ruolo apicale: il re oppure un grande signore territoriale). Gli obblighi di non facere sono altrettanto connessi alle pratiche di condotta militare e pertanto implicano il divieto di allearsi con il nemico o di operare in qualsiasi modo a danno del proprio signore. Più in generale, e comprensivamente, emerge l’ipotesi temibile – non rarissima – del tradimento, che integra la fattispecie tipica nell’ordinamento feudale della fellonia. Essa implica non soltanto la rottura irrimediabile del legame di fedeltà e, quindi, del rapporto giuridico feudale, ma anche, coerentemente a quanto detto a proposito dell’onore, un discredito incondizionato nei confronti di colui che si è reso ‘fellone’ (traditore). A tal proposito va detto che, proprio per prevenire ambiguità nei rapporti tra signori e vassalli, si affermò la prassi del feudo cosiddetto “ligio”, cioè del rapporto di fedeltà esclusivo nei confronti di un solo signore, proprio per evitare che il giuramento prestato a più domini potesse sfociare, in caso di discordia tra i medesimi, in inevitabili episodi di tradimento a danno dell’uno o dell’altro. Il rapporto feudale è perfettamente costituito nel momento di prestazione del giuramento, visto che la cerimonia dell’omaggio comporta naturalmente l’accettazione da parte del signore della fedeltà del vassallo. Se l’homagium assume quindi, da solo, valore costitutivo del rapporto, ciò non vuol dire che in capo al dominus, in seguito al giuramento ricevuto, non si vengano a costituire alcuni obblighi a lui specifici. Pur senza voler necessariamente intravedere una sorta di controprestazione, certo è che il dominus è tenuto a fornire al suo vassallo protezione e mantenimento. Il signore, in quanto superior, riceve sì i servizi dal suo vassallo, ma deve proprio per questo porlo sotto la protezione dei suoi

31 Il servizio a cavallo del ‘cavaliere’ era la modalità ‘nobile’ di partecipare alle missioni di guerra. Il resto della truppa era costituita invece da pedites, cioè da coloro che combattevano a piedi (per lo più contadini coscritti).

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poteri, che sono poteri connessi alla forza militare, alla ricchezza fondiaria e al prestigio sociale. Un aspetto specifico di questo generale obbligo di protezione sta nel mantenimento: il signore deve provvedere alle necessità dei suoi vassalli, in particolare alla sua dotazione militare, il cavallo in primo luogo, ma anche armi e accessori di protezione. Inoltre, il vassallo deve essere messo in condizione di procurarsi una sua truppa e di esibire un certo decoro esteriore per sé e per i suoi familiari. A queste necessità si provvede normalmente con la spartizione del bottino di guerra o con l’attribuzione di cariche di prestigio. In ciò consiste il beneficium, ciò che il signore conferisce al suo vassallo a titolo di ‘ricompensa’ per la fedeltà ricevuta in giuramento. Ma in breve tempo il beneficium più ambìto, perché considerato la forma di ricchezza più completa e quindi anche la fonte di mezzi di sostentamento e di prestigio, diviene la terra. Quando perciò il signore nella cerimonia complementare a quella dell’homagium, l’investitura, conferisce al suo vassallo il beneficium feudale, quest’ultimo finisce per consistere quasi sempre – e infine senza eccezione – in un appezzamento di terra più o meno ampio, più o meno abitato e ubertoso. Sul beneficio-terra si concentrano molti aspetti problematici per lo storico del diritto che voglia ragionare al riparo delle categorie giuridiche esemplate su quelle del diritto romano. Il conferimento della terra al vassallo da parte signore a titolo di beneficio feudale non può essere configurata come una donazione (non vi è animus donandi, bensì piuttosto l’obbligo di provvedere al mantenimento del proprio protetto), né tanto meno una compravendita (manca il prezzo, né la fedeltà può essere qualificata come mercede); e inoltre, quel che più conta, non vi è nessun passaggio di proprietà, in quanto il dominus non perde del tutto la titolarità del bene conferito. Si potrebbe allora immaginare che il vassallo acquisisca una sorta di diritto reale su cosa altrui, una specie di usufrutto, ed in effetti questa analogia è stata spesso sfruttata per spiegare forme di titolarità concorrenti sullo stesso bene tra signore e vassallo. Ma il beneficio feudale è refrattario alla collocazione all’interno delle griglie offerte dai diritti reali. Vi è infatti, nella cultura giuridica romana ereditata da quella moderna, una summa divisio tra dominium e imperium vale a dire tra proprietà privata e potere pubblico. Il mondo feudale sembra negare questa netta distinzione: per meglio dire, non la riconosce perché non idonea alle forme di convivenza sociale e ai rapporti economici prodotti nell’alto medioevo. Spieghiamo meglio. Il vassallo sulla terra ricevuta a titolo di beneficio non soltanto potrà compiere tutti quegli atti di godimento, di utilità e di sfruttamento economico tipicamente ammessi nell’ambito dei diritti reali su cosa altrui. Il vassallo sulla terra-beneficio si troverà legittimato ad esercitare anche poteri che il diritto romano ma anche la sensibilità giuridica moderna fanno rientrare nella sfera riservata agli organi pubblici. Questo fascio di poteri si caratterizza per il fatto di avere come destinatari non le cose insistenti sulla terra, ma i residenti nella terra medesima. Ricorriamo anche qui ai due termini che abbiamo usato

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per descrivere i poteri del signore fondiario: iurisdictio e districtio 32. Con il primo si indica il potere che il vassallo ha di dirimere le controversie sorte tra i residenti (con eccezione delle cause penali per i reati maggiori, riservati all’autorità superiore, tipicamente il sovrano), utilizzando l’assistenza di quei giudici, conoscitori delle consuetudini locali, di cui si è parlato a suo tempo 33. Con il termine latino districtio (o con il germanico bannum) si contempla il potere coercitivo sui residenti, quale quello di imporre tributi, prestazioni lavorative e servizio militare. La storiografia ha molto discusso sulla fonte legittimante di tali poteri per così dire pubblicistici (ma è qualifica che, come abbiamo già detto, risulta inappropriata nell’universo feudale, refrattario alla distinzione pubblico/privato). Da una visione tradizionale, che vedeva nell’investitura del beneficio-terra in capo al vassallo per opera del signore il titolo legittimante e costitutivo di iurisdictio e districtio – vale a dire una sorta di delega di poteri dal superior all’inferior –, oggi l’interpretazione prevalente insiste invece sulla forza spontanea della titolarità signorile, che, come già visto per i signori fondiari 34, fa sì che colui che ha la disponibilità della terra sia anche titolare ‘naturale’, per la forza consuetudinaria accumulatasi in virtù delle forme stratificate di convivenza sociale, di poteri di giustizia e di comando sui residenti. Il vassallo, che è tale in rapporto al signore al quale ha giurato fedeltà, è a sua volta signore nei confronti dei residenti, sui quali comanda e sulle cui contese giudica 35. Insomma, il vassallo, in quanto signore feudale sui propri residenti, assume i medesimi poteri di un signore fondiario in virtù della titolarità della terra e non di astratte e non documentate deleghe di poteri dall’alto verso il basso. Questa più aggiornata interpretazione storiografica ha peraltro fatto piazza pulita anche di un’altra (superata anche se ancora assai radicata) interpretazione, che vorrebbe il sistema feudale funzionare come una sorta di piramide di poteri delegati dal centro apicale (il re) via via, attraverso una serie fitta e articolata di relazioni di fedeltà e di assegnazioni di terre, verso la periferia, sino a configurare uno ‘stato feudale’, cioè una compagine pubblicistica che, non avendo ancora elaborato le moderne strutture burocratiche di tipo gerarchico, abbia utilizzato l’istituto feudale come strumento di trasmissione di poteri dall’alto verso il basso. Una visione, questa, incompatibile con le ragioni di fondo del feudo, che fu prima di tutto relazione giuridica tra uomini, e poi di uomini tra loro e dei rispettivi patrimoni fondiari. Mai invece fu una forma di ‘stato’, né al contrario – come pure è stato detto – una forma di ‘antistato’; si tratta in entrambi casi di una deformata visione ‘stato-centrica’, che tenta di leggere gli 32

Cfr. supra, § 4. Cfr. supra, § 6c. 34 Cfr. supra, § 4. 35 Con significativi, anche se impliciti, obblighi di protezione. 33

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ordinamenti del passato applicando ad essi gli istituti e la cultura giuridica del presente. Al contrario, se strutturazione di potere vuol essere individuata, essa si costruisce sull’appropriazione della terra (per legittimo trasferimento giuridico o per conquista militare), sull’esercizio dei poteri di utilità sui beni e di dominio sui residenti che quell’appropriazione comporta, sulla capacità di accumulare forza economica e militare sulla base dell’accumulazione compiuta. Anche i re, che sono al vertice del comando, fondano il loro potere non sulle astratte formule giuridiche o su assetti istituzionali predefiniti, bensì sull’ampiezza dei possedimenti fondiari, sulla numerosità delle truppe di cui si dispone, sull’abilità strategica esercitata nell’arte militare, sulla fortuna dei concreti esiti bellici. Il feudo nasce in tale contesto e struttura i legami di potere e di ricchezza secondo tali coordinate – non dall’alto verso il basso, né viceversa, ma piuttosto secondo uno schema reticolare unisce soggetti e territori in vincoli reciproci riconosciuti dalla consuetudine (la consuetudine feudale, appunto). Chiarito pertanto che la iurisdictio e la districtio dei vassalli sulle terre ricevute in beneficio non possono essere interpretate come poteri delegati dal signoresovrano, quello che invece quest’ultimo deve effettivamente concedere al vassallo è l’immunitas (immunità), deve cioè astenersi dall’esercitare i propri, di poteri. In altre parole, quando il dominus concede il beneficio-terra ‘congela’, per così dire, la iurisdicitio e la districtio che prima vi esercitava, e ciò al fine di consentire al suo vassallo di esercitare liberamente i suoi poteri, per evitare sovrapposizioni o interferenze. Gli elementi costitutivi del rapporto feudale lo caratterizzano in termini di forte personalità: esso è personale, anzi ‘personalissimo’, in quanto la fiducia e la protezione vengono prestate dall’uno verso l’altro in funzione della specifica identità dei soggetti e della specialissima qualità del legame che intendono instaurare tra loro. Come rapporto giuridico personale, quindi, il feudo non è trasmissibile (ereditariamente) né trasferibile (per vendita o altro atto di cessione). Esso è permanente, impegna signore e vassallo per tutta la durata della loro esistenza in vita; viene meno solo al momento della morte di uno dei due soggetti. Se pensiamo al fortissimo senso dell’onore che alimenta le relazioni feudali questo dato non ci può stupire; così come non ci stupisce, ed anzi appare perfettamente coerente con quanto rilevato, che il tradimento sia l’unico fattore estintivo, al di fuori della morte, del rapporto feudale. Se la morte appare il fattore estintivo fisiologico, quello connesso con la fellonia è invece patologico e traumatico, perché recide alla radice il vincolo, rendendolo nullo, e pone il signore che, patendo il tradimento, ha ricevuto l’affronto, in uno stato di inestinguibile inimicizia con il suo ex-vassallo, che a quel punto diventa nemico e va colpito con la vendetta. Quindi, in seguito a morte o a tradimento, il vincolo feudale si estingue. Che ne è a quel punto del beneficio? Se il vassallo muore, il beneficio ritorna nella disponibilità del dominus (si parla in questo caso di “devoluzione”), il quale potrà riprendere ad esercitare iurisdictio e districtio, fino ad allora sospesi in virtù

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dell’immunitas. Se è il signore a morire, il suo legittimo erede potrà decidere se rinnovare l’investitura ricevendo un nuovo giuramento dal medesimo vassallo; altrimenti il beneficium dovrà tornare nella disponibilità dell’erede del signore concedente defunto. È facilmente comprensibile che l’elemento della patrimonialità insito nel beneficio-terra, la sua idoneità a costituire fonte di reddito e prestigio, abbiano indotto molti vassalli a richiedere al re singoli privilegi che superassero il divieto della trasmissibilità, al fine di poter dotare la propria discendenza di una ricchezza che, in tal modo, sarebbe divenuta la ricchezza non del singolo vassallo, ma dell’intero suo casato. Queste singole richieste e le relative singole concessioni portarono a un provvedimento normativo generale nell’877, anno in cui il sovrano franco Carlo il Calvo, nel capitolare di Quierzy-sur-Oise, dispose la trasmissibilità ereditaria a vantaggio dei vassalli maggiori, nel caso in cui essi fossero morti in battaglia. Questa prima breccia, limitata ma significativa, venne travolta dall’Edictum de beneficiis, con cui l’imperatore Corrado II, detto il Salico, nel 1037, in occasione dell’assedio di Milano, decise di accordare una generale e illimitata trasmissibilità per tutti i suoi feudatari. Da questo momento in poi, si può dire che, malgrado non sia venuta meno la sua natura personale, si fa spazio con sempre maggiore forza il carattere patrimoniale del feudo, il cui elemento “reale” – il bene ‘terra’ – diviene ora oggetto di particolare attenzione e produrrà una progressiva, ma decisa torsione dei contenuti originari delle consuetudini feudali, prima attente soprattutto al dato della fidelitas, ora impegnate a fornire adeguata tutela al beneficium e a definire le regole della trasmissione ereditaria. In particolare, si affermerà la modalità di trasmissione ereditaria more Francorum (secondo l’uso dei Franchi), con cui il feudo era trasmesso integralmente al solo figlio maschio primogenito. Tale prassi – prevalente su quella more Langobardorum (secondo l’uso dei Longobardi, che invece prevedeva la divisione del feudo in parti uguali tra tutti i figli maschi) – portò nei secoli successivi all’elaborazione di specifici istituti successori modellati sulle esigenze delle grandi casate nobili che sul patrimonio feudale-fondiario poggiavano non soltanto prestigio e ricchezza, ma anche autonomo potere politico. Da questo punto di vista assunse particolare rilevanza l’istituto successorio del fedecommesso, in origine concepito come una specifica disposizione di ultima volontà che obbligava l’erede a conservare il bene ricevuto a titolo ereditario e a consegnarlo, a tempo debito, ad altra persona. Adattando questo istituto di diritto romano alle regole di trasmissione ereditaria more Francorum, il fedecommesso diventò lo strumento successorio più usato dalla nobiltà per vincolare il patrimonio feudale al primogenito che lo prendeva in consegna con l’obbligo di conservarlo integro e quindi, alla sua morte, a devolverlo al suo erede, secondo una linea di “primogenitura” permanente. In tal modo, il primo disponente evitava al suo casato il fatale impoverimento che sarebbe certamente conseguito se l’erede avesse provveduto alle sue necessità economiche ricorrendo all’alienazione del bene feudale, che grazie al fedecom-

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messo risultava invece vincolato in modo permanente (salvo richiesta di deroga e relativa dispensa concessa dal sovrano per casi specifici e documentati). Tali meccanismi, ovviamente, penalizzavano i fratelli minori e le sorelle in generale: ai primi si poteva provvedere con delle piccole rendite (si parla in questo caso di “appannaggio”), oppure favorendo la carriera militare o ecclesiastica; alle donne veniva invece accantonata una parte del patrimonio a titolo di dote in vista delle future nozze. Torniamo ora a un dato che abbiamo appena accennato: quello della matrice consuetudinaria dell’istituto feudale. Sino alla nascita delle scuole di diritto romano, il feudo era e restava regolato da una ricca e articolata consuetudine, variabile per aree geografiche, per appartenenza etnica e culturale, per epoca; gli interventi normativi ufficiali, come quelli che abbiamo visto di Carlo il Calvo e dell’imperatore Corrado, restavano rapsodici, a volte reperibili in raccolte più ampie (come il Liber Papiensis o la Lombarda 36), in ogni caso inscritti in un’ampia casistica che non ne rendevano univoca l’applicazione. La scuola dei giuristi glossatori 37 pose ben presto il problema di una ‘presa in carico’ della consuetudine feudale e della necessità di un’interpretazione scientifica che ne rendesse omogeneo l’ordinamento complessivo. Tale percorso fu avviato sì precocemente, ma a partire dalla consapevolezza di una lacuna. Il diritto giustinianeo non prevedeva, né evidentemente poteva prevedere l’istituto feudale, che anzi, lo si è messo in evidenza, presentava elementi inconciliabili con gli istituti romanistici. La storia di come questa lacuna venne colmata ha il tipico sapore aneddotico di molte ricostruzioni medievali (autentiche e non) e ha come protagonisti un padre e un figlio (entrambi personaggi storici e documentati): il primo è Oberto dall’Orto, giudice milanese, che attorno alla metà del sec. XII decide di inviare il figlio, Anselmo, destinato alla medesima carriera del padre, a Bologna per seguire i corsi di diritto romano tenuti dai primi allievi del glossatore Irnerio. Anselmo riferisce al padre dell’andamento degli studi, che, naturalmente, sono esclusivamente concentrati sulla normativa giustinianea, senza alcun accenno a quel diritto feudale che, pur quasi interamente consuetudinario, costituisce per ogni giudice che si rispetti, a Milano come altrove nell’Italia settentrionale (e non solo), un bagaglio di conoscenza indispensabile per esercitare la giustizia. Questa l’occasione da cui scaturiscono le due lettere di Oberto indirizzate al figlio, lettere che costituiscono una sorta di raccolta di norme feudali, di cui si offre una prima sistemazione: nella prima lettera vengono affrontate le modalità di costituzione del feudo, della forme e degli effetti dell’investitura, della capacità del concedente e del concessionario, dei diritti e dei doveri di signore e vassallo, della trasmissibilità ereditaria; nella seconda si tematizza la perdita e la devoluzione (o riversione).

36 37

Su cui si veda supra, § 7. Sulla quale si rinvia infra, cap. II, § 4.

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La tradizione si è appropriata di queste due lettere qualificandole come “redazione obertina” del diritto feudale. Sulla base di questa redazione è stato possibile, per i glossatori, far affiorare qualche spunto di riflessione su problemi emergenti dal mondo signorile e che richiedevano adeguata copertura giuridica. Il punto restava assai delicato. Assumere il diritto feudale come oggetto di studio nelle nascenti “università” rischiava di minare il fondamento legittimante del diritto romano, l’unico testo giuridico degno di essere oggetto specialistico di studio in quanto norma proveniente dall’imperatore. Poteva capitare, ad esempio, che un celebre glossatore ricorresse agli strumenti del diritto romano per risolvere problemi di tutela giudiziaria scaturenti dalla dialettica feudale: è il caso del giurista Bulgaro, il quale, nel descrivere l’ipotesi di una violenta usurpazione di un castrum (fortezza, castello), di una successiva infeudazione (rafforzata da giuramento) del medesimo castrum usurpato, di un susseguente tradimento, di una mancata devoluzione (a causa dell’infeudazione rafforzata del giuramento), e infine di episodio di aggressione del vassallo al suo signore (con previsione di vendetta e rappresaglia), si astiene dal ricorrere alle consuetudini feudali, ma preferisce sondare alcuni passi del Digesto e del Codice di Giustiniano, per poi individuare nell’interdictum de vi lo strumento di tutela processuale di matrice pretorile più idoneo in caso di violenta spoliazione di un possesso. Non tutti i glossatori avrebbero condiviso l’atteggiamento di Bulgaro, che, come tutti i giuristi attivi a Bologna, restavano rigidamente legati all’impegno dell’esclusivo ricorso al diritto giustinianeo, anche a costo di evidenti forzature. In altre scuole, i maestri glossatori che vi insegnavano si sentirono più liberi di ricorrere ad altre fonti, anche perché in quelle sedi, considerate ‘minori’, la richiesta di un insegnamento direttamente utilizzabile per la pratica era esplicita e pressante. Così nella scuola giuridica di Modena, il suo primo maestro, Pillio da Medicina, ha lasciato molteplici tracce di questa sua apertura. A lui si debbono, ad esempio, un complesso di glosse alle consuetudini feudali, che ormai, dopo la prima redazione obertina, circolavano regolarmente negli ambienti di studio. Altri complessi di glosse e nonché rielaborazioni della redazione obertina vennero apportate da successivi giuristi: si ricordano in particolare Iacopo d’Ardizzone e Iacopo Colombi (prima metà del sec. XIII). Infine, il glossatore bologne Ugolini dei Presbiteri (anch’egli della prima metà del secolo) avrebbe definito un’ulteriore versione con l’obiettivo, decisamente eclatante, di inserirlo all’interno della compilazione giustinianea. Nascono così i Libri feudorum (o Usus Feudorum), la raccolta definitiva di norme feudali vigenti che fu posta all’interno dell’ultimo dei cinque Libri legales (Libri legali), cioè nel Volume parvum (Piccolo volume), in particolare in chiusura dell’Authenticum, come decima – e ultima – collatio 38. La circostanza che alcuni imperatori medievali, saltuariamente, avessero

38

Collatio sta per “raccolta”. Sulla divisione irneriana dei Libri legali, si veda infra, cap. II, § 3.

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legiferato in materia feudale, rendeva il diritto feudale degno di essere accolto all’interno del diritto imperiale per eccellenza, quello romano promulgato da Giustiniano. Una delle tante forzature, così ricche di significato e problematicità, di cui i giuristi medievali si resero meritoriamente responsabili. Grazie a questo importante lavoro di collocazione normativa e di inquadramento dottrinale – mediante il quale le conoscenze e le tecniche interpretative del diritto romano erano usate, adattandole, in vista di una più coerente comprensione degli istituti feudistici – i giuristi poterono anche permettersi vere e proprie ‘invenzioni’; la più nota delle quali è senz’altro quella attribuita a Pillio, consistente in un dispositivo teorico che, al fine di offrire adeguata tutela al beneficium feudale e ai diritti concorrenti di signore e vassallo, è passato alla storia come teoria del “dominio diviso”. Di che si tratta? Uno dei punti più controversi e delicati è quello relativo alla qualificazione dei diritti che il vassallo vantava sulla terra ricevuta a titolo di concessione feudale, diritti che comunque non escludevano del tutto la titolarità del dominus sulla medesima terra. Poiché era il vassallo a godere della terra e ad esercitarvi i poteri connessi, era di grande importanza offrirgli uno strumento di tutela adeguato in caso di spoliazione o di altra lesione. Ma il rapporto tra il vassallo e il beneficium – lo abbiamo già visto – non era assimilabile al dominium del diritto romano né all’usufrutto o ad altro diritto reale su cosa altrui. Ma vi era un appiglio, e su tale appiglio Pillio mette in piedi la sua costruzione. Oberto dall’Orto, nel suo testo di diritto feudale, aveva sostenuto che il beneficium fosse parificabile al dominium romanistico ai fini della tutela giudiziale, cosa che giustificava l’estensione anche ad esso di un’actio utilis, quel tipo di azione, com’è noto, che il pretore creava ex novo ad imitazione di quelle già tipicizzate dal tradizionale ius civile. Grazie ad essa, il vassallo poteva agire in giudizio a tutela del suo beneficium «tamquam dominus» («come se fosse il dominus, il proprietario»). Ora, se il beneficio feudale poteva essere tutelato dall’azione utile per la sua parificabilità al dominium, era possibile immaginare il beneficio stesso come un dominium utile, un tipo di ‘proprietà feudale’ assimilabile a quella romana. Se quindi il rapporto tra il vassallo e la terra avuta in concessione si qualificava come dominium utile (dominio utile), bisognava ammettere che presso il signore fosse presente un altro tipo di dominium, che Pillio qualificò come dominium directum (dominio diretto), una sorta di nuda proprietà che comunque lo teneva ancora legato alla terra che aveva dato in concessione feudale e della quale poteva tornare a disporre pienamente in caso di devoluzione (ad es., per l’interruzione della linea successoria maschile del vassallo). Lo sviluppo dell’istituto feudale nei termini di una progressiva valorizzazione del dato patrimoniale portò, ovviamente, anche al tramonto di quei valori autenticamente militari, per cui, dell’antico onore, restavano più che altro le fastose vestigia degli appariscenti stili di vita. Per quanto in età moderna il feudo perdesse quasi interamente le caratteristiche originarie, esso si perpetuò in una mol-

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teplicità di forme e anzi diede vita ad un’élite cetuale – l’aristocrazia feudale – che divenne classe dirigente con l’affermarsi delle monarchie ‘nazionali’ (soprattutto in Francia e in Spagna). Ogni area nazionale sviluppò un suo diritto feudale, non tanto nel senso di proporre deroghe alle norme consuetudinarie assestatesi in epoca medievale, quanto sotto l’aspetto più propriamente politico. Ciascun sovrano sviluppò con i suoi vassalli una qualità di rapporto politico che si rifletteva direttamente nella sfera dei poteri che essi potevano esercitare nei loro territori: caso tipico quella della giustizia penale, sottratta in misura significativa ai signori e concentrata presso i tribunali principeschi. Per quanto la varietà dei rapporti feudali fosse davvero enorme, restò giuridicamente centrale la divisione elaborata da Pillio tra dominio utile e dominio diretto. E anzi, man mano che i feudi d’età moderna assunsero uno spiccato valore di rendita economica – erano frequenti gli acquisti di beni a titolo feudale, con la finalità di sfruttare prodotti e lavoro, per poi versare al concedente una somma periodica (censo) –, la distinzione pilliana restava basilare per la concreta definizione dei diritti di concedente e concessionario. I grandi feudatari, eredi delle grandi casate di origine medievale, vicini alle case regnanti, convivevano, anche se su piani diversi, con diverse figure di nobili ‘minori’, o addirittura ‘minimi’, che avevano con la terra un rapporto di mera fonte di rendita. Fu proprio l’aspetto economico che portò il feudo moderno ad essere oggetto nel sec. XVIII delle critiche degli intellettuali e di alcuni giuristi. La rendita feudale scoraggiava l’investimento produttivo, nel senso che i capitali venivano usati per acquistare rendite feudali e che le terre soggette a vincolo non potevano essere migliorate perché i profitti delle migliorìe avrebbero alimentato la rendita dei ‘dòmini diretti’. Né le terre feudali potevano essere liberamente messe in commercio, perché, come detto, erano vincolate con fedecommesso e dovevano essere preservate per le successive trasmissioni ereditarie. Quindi ad essere oggetto di critica furono il fedecommesso per un verso – istituto che impediva il libero commercio – e, per l’altro, cominciò ad essere individuato nel doppio dominio uno degli ostacoli principali allo sviluppo di un ceto imprenditoriale, dotato di strumenti giuridici idonei per l’incremento della ricchezza, propria e dell’intera comunità sociale. Un’opera considerata centrale per il superamento della distinzione tra dominio utile e diretto è il Traité du droit de domaine de propriété (Trattato del diritto del dominio di proprietà, 1772) di Robert-Joseph Pothier, nel quale la qualifica di proprietà e ogni tutela ad essa relativa erano concentrate esclusivamente nel dominio utile. In realtà Pothier riprendeva osservazioni già avanzate in pieno Cinquecento da Charles Dumulin, il quale aveva definito il “signore utile” come autentico “proprietario” del bene, mentre il “signore diretto” era titolare solo del suo diritto di signoria. Insomma, in Francia da tempo vi è un processo teorico che tende a svalutare la posizione del signore diretto e a considerare vero proprietario solo il signore utile, perché è colui che usa il bene e lo migliora e pertanto è meritevole di vedersi tutelato dall’ordinamento giuridico con tutti gli strumenti dispo-

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nibili per il dominium romano, o meglio, come ormai Pothier la chiama, la propriété 39. Questa opzione giuridica è anche e soprattutto una scelta di campo socioeconomico: chi detiene il dominio utile è il proprietario-imprenditore, che assume i tratti inconfondibili del borghese. È la borghesia a dover quindi essere privilegiata dall’ordinamento e non più l’aristocrazia parassitaria, mera percettrice di rendita improduttiva. La dialettica che le riflessioni Pothier avevano posto sotto una nuova luce venne traumaticamente interrotta dalla Rivoluzione francese, che proprio tra i suoi primi provvedimenti adottò quello abolitivo dei diritti feudali, assunto dalla stessa Assemblea Costituente il 4 agosto del 1789. Ma fu solo con il codice civile promulgato da Napoleone Bonaparte nel 1804 che la proprietà troverà la sua incoronazione definitiva: l’art. 544 la definiva come «il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta» 40. È una formula che venne recepita da gran parte dei codici europei, ma che – è singolare notarlo – mantiene al suo interno i ‘fossili’ di quel doppio dominio della tradizione giuridica di matrice feudale: il ‘godere’ del dominio utile e il ‘disporre’ del dominio diretto erano ora finalmente riuniti in un diritto reale pieno ed esclusivo. L’avvento della grande stagione europea delle codificazioni non significò automaticamente la scomparsa del feudo. Il codice civile austriaco del 1806 – considerato il modello ‘alternativo’ al codice civile francese –, che pure contemplava il diritto di proprietà in termini sostanzialmente analoghi a quelli dell’art. 544 poc’anzi ricordato, continuava a prevedere il dominio diviso: «Il diritto sulla sostanza della cosa congiunto in una sola persona col diritto sugli utili è proprietà piena e indivisa. Se ad uno compete soltanto un diritto sulla sostanza della cosa, e ad un altro con un diritto sulla sostanza il diritto esclusivo sugli utili di essa, il diritto della proprietà si ritiene diviso e non pieno sì per l’uno che per l’altro. Il primo si chiama proprietario diretto, il secondo proprietario utile» (§ 357). «La separazione del diritto sulla sostanza da quello sugli utili nasce o dalla disposizione del proprietario, o dalla determinazione della legge. A seconda dei diversi rapporti esistenti fra il proprietario diretto e l’utile, i beni, la cui proprietà è divisa, chiamansi beni feudali, locazioni ereditarie ed enfiteusi...» (§ 359).

L’impero austriaco, che non aveva vissuto l’esperienza rivoluzionaria, continuava a tutelare non soltanto i beni feudali propriamente detti, ma anche tutti quegli istituti giuridici, come le locazioni ereditarie e l’enfiteusi, che prevedevano l’esistenza di una doppia titolarità sul bene. Comunque sia, i beni feudali previsti ancora dal codice austriaco del 1806 sono solo le pallide vestigia di un istituto che ha segnato profondamente la civil39 40

Si veda infra, cap. V, § 4. Si veda infra, cap. V, § 10.

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tà giuridica europea: nato e diffusosi con l’Impero carolingio, esso legò uomini d’arme e creò casate aristocratiche, alcune delle quali protagoniste della storia occidentale. Fedeltà, onore e continuità patrimoniale i suoi principali attributi, l’ultimo dei quali ebbe vita duratura e sottopose l’istituto feudale a una torsione che ne segnò l’irreversibile modificazione. La dottrina dei giuristi ottocenteschi contribuì a cancellare ogni traccia della civiltà giuridica feudale, che venne demonizzata dall’ideologia dello Stato nazionale e della borghesia imprenditrice e proprietaria. Venne così diffusa un’idea, ancor oggi circolante nei corsi universitari di giurisprudenza, secondo la quale il dominium romano e la proprietà della codificazione si identificano in una linea unitaria di civiltà giuridica, inopportunamente interrotta dalla parentesi ‘barbara’ del feudo (una parentesi che durò mille anni!). Eppure, in una contemporaneità che sul feudo ha ormai espresso un giudizio irrevocabilmente negativo, qualche traccia o anche solo qualche termine sopravvive: è il caso di “sovrano” (popolo sovrano, parlamento sovrano…), che discende direttamente dalla qualifica di superiorità (souverain, che sta in una condizione superiore) diffusasi proprio nell’ambiente feudale del medioevo. Non solo: è possibile a buon diritto affermare che in aree geopolitiche del nostro pianeta considerate marginali, perché ad esempio economicamente meno sviluppate, siano rinvenibili pratiche sociali e istituti giuridici che presentano affinità sensibili con quelli feudali dell’Europa medievale. Un motivo in più per guardare con rispetto e vigile curiosità la storia giuridica del passato.

Bibliografia essenziale M. Ascheri, Medioevo del potere. Le istituzioni laiche ed ecclesiastiche, il Mulino, Bologna 2009. M. Bellomo, Società e istituzioni dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 2005. F. Calasso, Medioevo del diritto, Giuffrè, Milano 1954. M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, il Mulino, Bologna 1994. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 2005. G. Diurni, Ricerche sull’Expositio ad Librum Papiensem e la scienza giuridica preirneriana, Centro di studi della storia del diritto italiano dell’Università di Torino, Roma 1976. G. Duby, Lo specchio del feudalesimo, Laterza, Roma-Bari 1984. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 2006. L. Loschiavo, L’età del passaggio. All’alba del diritto comune europeo (secoli III-VII), Giappichelli, Torino 2016. G. Nicolaj, Cultura e prassi notai preirneriani: alle origini del rinascimento giuridico, Giuffrè, Milano 1991. A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007.

II IL MEDIOEVO DEI DIRITTI di Nicoletta Sarti SOMMARIO: 1. Un diritto antico per il nuovo millennio: la stagione preirneriana. – 2. La rivoluzione di Irnerio. – 3. La forza dell’interpretazione letterale. – 4. La Scuola dei Glossatori. – 5. Dalle scuole allo Studium: a) la Glossa Ordinaria; b) la nascita dell’istituzione universitaria. – 6. Un nuovo ordine per il diritto della Chiesa: a) il Decretum di Graziano; b) le altre compilazioni e la decretalistica; c) il Corpus Iuris Canonici. – 7. Le strade diverse dell’Italia e dell’Europa: a) il Comune cittadino; b) il ruolo dei notai; c) il diritto dei Comuni; d) il Regno di Sicilia, dai Normanni all’imperatore Federico II; e) l’Impero e il Regno di Germania; f) il Regno di Francia. – 8. La dialettica delle fonti nell’esperienza del diritto comune: convivenza e covigenza. – 9. Il trionfo del diritto giurisprudenziale e le radici profonde di un metodo nuovo: a) Accursio e Odofredo: due metodi a confronto; b) il legame con le istituzioni, l’attenzione agli iura propria; c) le esigenze della pratica; d) la scuola di Orléans. – 10. L’età del commento e dei commentatori: a) premesse; b) le origini; il Trecento e il Quattrocento: i secoli d’oro dei commentatori. – 11. Il diritto dei mercanti e del mercato.

1. Un diritto antico per il nuovo millennio: la stagione preirneriana Con il XII secolo Italia ed Europa si schiudono a quello che la storiografia ha definito il «rinascimento giuridico medievale» 1. Un rinascimento, vale a dire una rinascita che segue la pacificazione politica e militare – una nuova dinastia, quella di Franconia, reggeva più saldamente la corona dell’Impero e del Regno d’Italia – la correlata ripresa economica, entrambe germogliate nel secolo precedente. Sul versante dell’esperienza giuridica le acquisizioni della cosiddetta Scuola di Pavia e l’uso abile e spregiudicato nel circuito giudiziario della dinastia feudale dei da Canossa di norme giustinianee da secoli cadute nell’oblio, costituiscono ben più di un segnale della avvertita necessità di affiancare al diritto longobardo-franco, ordinato e razionalizzato nel Libro Pavese e nella Lombarda, un complesso normativo

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E. Cortese, Il Rinascimento giuridico medievale, Bulzoni, Roma 1992.

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meglio confacente a una società che si avviava a divenire più strutturata e articolata. Una società che, a livello europeo, vedeva affiancarsi all’economia agricola di base curtense (legata cioè alla realtà sostanzialmente autarchica della curtis feudale), una dimensione mercantile e artigiana che necessitava di strumenti giuridici adatti a certificare e tutelare una gamma ampliata di figure negoziali. Già nella seconda metà del secolo XI tale necessità si era convertita nella consapevolezza che la lex generalis omnium, in grado di integrare e supplire alle approssimazioni e ai silenzi del diritto vigente di marca germanica (privo di una efficace disciplina della materia obbligatoria e contrattuale) fosse la lex romana: ne erano consci gli operatori del diritto del tribunale pavese (sia gli antiqui che i moderni, come attestano le opinioni registrate nella Expositio ad Librum Papiensem 2) quanto i giudici, i causidici (avvocati), i notai che in area tosco-emiliana nei medesimi decenni operavano nell’ambito della giustizia feudale canossiana. Un ambito al quale appartiene anche il notaio aretino Petrus, che ricerche ancora recenti di Giovanna Nicolaj 3 hanno individuato come estensore e firmatario di una quindicina di rogiti nei quali ricorrono formule di stile e trasparenti richiami al testo del Codice e delle Istituzioni di Giustiniano. Dal tenore del placito tenuto a Marturi nel 1076 − di cui già si è letto nel precedente capitolo 4 − arriva una ulteriore, implicita informazione che è giunto il momento di approfondire. Entro i larghi confini della giurisdizione dei da Canossa, dall’Appennino alla Padania continentale, alcuni ‘addetti ai lavori’ uniscono l’uso del Digesto al manipolo di fonti giustinianee che l’Alto Medioevo aveva cautamente maneggiato in forma riassunta e scarnita: i primi nove libri del Codice, le Istituzioni, le Novelle nella redazione della Epitome di Giuliano 5. Un uso del Digesto, che presumeva una conoscenza, limitata peraltro ai primi quattro dei cinquanta libri che compongono la monumentale raccolta di iura, come ancora la Nicolaj ha dimostrato. Fra questi ‘addetti ai lavori’, il Pepo legis doctor che proprio a Marturi siede accanto al giudice Nordilo fra i consulenti del tribunale feudale esce dall’ombra per divenire il simbolo della stagione preirneriana. Che un quidam dominus Pepo avesse per primo in Bologna cominciato a legere in legibus, cioè a tenere lezioni sulle leggi giustinianee, lo dice Odofredo Denari († 1265) − il giurista duecentesco che costituisce a buon diritto la memoria storica del primo secolo di vita dello Studio felsineo −, aggiungendo peraltro una sua personale chiosa sullo scarso valore di quell’antico maestro che non aveva lasciato

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Su cui si veda supra, cap. I, § 7. G. Nicolaj, Cultura e prassi di notai preirneriani. Alle origini del Rinascimento giuridico, Giuffrè, Milano 1991. 4 Supra, cap. I, § 7. 5 Si veda supra, cap. I, § 6a. 3

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alcuna eredità del suo sapere 6. Un maestro nel quale la storiografia del XIX secolo volle vedere il legis doctor presente nel placito marturense, ma sull’identità del quale ulteriori studi e nuove testimonianze hanno indotto a grande cautela. Contro la scarsa statura scientifica del giurista depone una summa (sintesi, riassunto) del Codex nota come Iustiniani est in hoc opere, dalle prime parole del testo: un’operetta di origine provenzale attribuita alla seconda metà del 1100. In essa, a un giurista Pepo viene ascritta la spiegazione del contenuto del contratto di mutuo: ciò che da ‘mio’ diviene ‘tuo’. Al di là della banalità della parafrasi, il fatto che a più di un secolo di distanza e in terra di Francia si serbasse il ricordo dell’antico giurista contraddice la sua scarsa fama, con la quale collide anche un passo del Moralia Regum del teologo normanno Rodolfo il Nero, a sua volta attivo nella seconda metà del secolo XII. Qui un magister Pepo invoca davanti all’Imperatore Enrico IV († 1106) l’irrogazione della pena di morte per l’uccisore di un servo, imponendo così il primato della legge romana, di cui si fa paladino, di contro a quella longobardo-franca, che prevede, nel caso di specie, la semplice composizione pecuniaria. Un Pepo che Rodolfo il Nero definisce «Codicis et Institutionum baiulus», difensore del Codice e delle Istituzioni di Giustiniano e, implicitamente, buon conoscitore di entrambi. Un Pepo cui si riconosce una spiccata attitudine per le argomentazioni morali e teologiche, tanto da immaginarlo vestito di abiti talari. Il che non contrasterebbe con una ulteriore testimonianza valorizzata da Pietro Fiorelli, che narra di un Petrus «clarum bononiensium lumen» («chiara luce tra i bolognesi») assiso tra vescovi e dotti in un’importante disputa teologica. Che la fonte – peraltro assai tarda – sia da riferire a un Petrus vescovo ‘scismatico’ (cioè filoimperiale) di Bologna fra il 1085 e il 1096 è ipotesi suggestiva e ancor più suggestivo è apparso adombrare che il vescovo Petrus e il magister Pepo siano una sola persona 7. Ma oltre non è possibile andare: la figura di questo o di questi precursori – poiché non è da escludere che si tratti di personaggi distinti che si muovevano peraltro in una medesima temperie politica e culturale nonché nel medesimo lasso cronologico – continuerà a mancare, se non interverranno nuove acquisizioni della ricerca, di una precisa connotazione e di coordinate biografiche.

2. La rivoluzione di Irnerio Alla percezione da parte di Pepo e dei suoi seguaci dell’adeguatezza della compilazione di Giustiniano – antica di sei secoli – a rispondere alle istanze del 6

Nelle sue Prelezioni a D.1.1.6, Odofredo contrappone il modus operandi di Pepo, fruitore ma non studioso del Corpus Iuris Civilis, a quello del sommo Irnerio, che dei libri legali intraprese la ricostruzione filologica oltre che la riflessione scientifica. 7 L’ipotesi è stata avanzata da P. Fiorelli, Clarum Bononiensium lumen, in Per Francesco Calasso. Studi degli allievi, Bulzoni, Roma 1978, pp. 413-459.

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presente, si accompagnava e fungeva da forza motrice un fenomeno di capitale importanza: la progressiva riemersione dei manoscritti riproducenti il testo integrale se non integro delle leggi imperiali. Una riemersione che nel caso del Digesto interrompe un silenzio plurisecolare, racchiuso fra un dies a quo – una epistola del Pontefice Gregorio Magno del 604 – e un dies ad quem – il testo del placito marturense del 1076 –; allo stato attuale degli studi fra questi due estremi temporali non sono note citazioni dirette tratte da quel serbatoio di sapienza dei giureconsulti della romanità classica. Quali siano stati gli itinerari della graduale ricomparsa delle singole parti della compilazione non siamo in grado di dire con certezza, pur se è ipotesi assai plausibile che un ruolo chiave vi abbia giocato, fra la seconda metà dell’XI e la prima metà del XII secolo, il moto politico della Riforma Gregoriana 8. Com’è ormai noto, lo scontro fra le due supreme autorità dell’Occidente cristiano, l’Impero e la Chiesa, celava, oltre al conflitto contingente relativo all’investitura feudale dei vescovi, il nodo intricato della convivenza delle due istituzioni universali. La giurisdizione (iurisdictio) di entrambe operava nei confronti dei medesimi soggetti: i sudditi dell’Impero erano a un tempo anche i fedeli in Cristo, ne conseguiva inevitabilmente la covigenza sul medesimo territorio dell’Impero di due complessi normativi, distinti ratione materiae, ma coincidenti nei destinatari. Un nodo insolubile, che fra tentativi di composizione – si ricordi intorno alla fine del V secolo l’auspicio di Papa Gelasio I di omologare la auctoritas sacrata Pontificum (sacra autorità dei pontefici) alla imperialis potestas (potestà imperiale), insieme vocate a reggere le sorti del mondo – e più frequenti tensioni avrebbe attraversato tutto il medioevo sino alle soglie dell’età moderna. La Riforma coinvolse i migliori intelletti e i vertici dell’Occidente − i pontefici Niccolò II († 1061) e Gregorio VII († 1085), gli imperatori Enrico IV inoppugnabili († 1106) ed Enrico V di Franconia († 1125) − nel tentativo di supportare con argomenti teologici e giuridici il primato del pontefice e delle gerarchie della Chiesa (ierocrazia) su imperatori e Impero o viceversa. Un modus operandi che si basava sull’assunto, condiviso in ogni campo del sapere medievale, che l’autorità/autorevolezza dell’argomentazione utilizzata nonché la sua antichità legittimassero la tesi da dimostrare. Per la causa dei riformisti – così come per quella di quanti si schierarono con le ragioni dell’Impero – vennero rivoltati gli scaffali dei giacimenti di cultura libraria dell’epoca, fra tutti le grandi biblioteche dei monasteri benedettini di Montecassino, di Bobbio, di Nonantola, di Santa Giulia 9. Le prime citazioni

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Supra, cap. I, § 5c. Le origini del monachesimo benedettino risalgono alla fondazione del cenobio di Montecassino ad opera di San Benedetto da Norcia (si veda supra, cap. I, § 5a). La celebre ‘Regola’ di preghiera e di lavoro proposta da San Benedetto godette del sostegno del pontefice Gregorio Magno († 604), che ne favorì la diffusione nell’Occidente cristiano anche di segno barbarico. 9

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non in forma riassunta di Codice e di Istituzioni compaiono nella Collectio canonum (Raccolta di canoni) del vescovo Anselmo di Lucca († 1086) e nel Decretum del vescovo Burcardo di Worms († 1025); le Novelle di Giustiniano sono citate dalla redazione dell’Authenticum e non dalla Epitome di Giuliano, usatissima nell’Alto Medioevo. Entrambe raccolte di canoni conciliari al servizio della Riforma, esse appartengono alla seconda metà del secolo XI, al quale appartiene anche l’anonima Collectio Britannica (1090 ca.), che in anni vicini a quelli del Placito di Marturi mostra una conoscenza più che buona del fino ad allora evanescente Digesto, inanellando ben 98 citazioni tratte da esso. Difficile non ipotizzare che proprio dalle grandi biblioteche monastiche, in questo generale fermento di tesi da dimostrare e di robuste argomentazioni da reperire, siano riemersi − magari gradualmente – i manoscritti delle singole parti della compilazione giustinianea: manoscritti disertati nei secoli precedenti che si avviavano a divenire preziosi. In estrema sintesi, il fenomeno del «rinascimento giuridico medievale» prende l’avvio proprio dal fortunato incontro fra i libri legales, i libri della risalente legge di Giustiniano, e uomini ‘istruiti’ e lungimiranti in grado di coglierne il potenziale per le istanze di disciplinamento del loro tempo. L’incontro era già avvenuto nella seconda metà del secolo XI: le testimonianze dell’ambiente giudiziario pavese, il Placito di Marturi, il lumen del misterioso Pepo, i rogiti dei notai aretini, le collezioni riformiste di canoni ecclesiastici ce lo dichiarano, ma un solco profondo separa questa stagione prodromica e, in una parola, preirneriana, da quella destinata a prendere quota in Bologna dal secondo decennio del 1100 intorno alla attività di Irnerio. Il solco, la differenza riposa nella attitudine con la quale la lucerna iuris (“luce del diritto”, come venne soprannominato Irnerio) si accostò ai libri della legge. Una attitudine ‘scientifica’ e sistematica a fronte della spontanea, strumentale utilizzazione che i suoi immediati predecessori (simbolicamente rappresentati dal fantasma di Pepo) fecero delle medesime fonti. Impossibile appare scindere la biografia di Irnerio († post 1118) dal suo ruolo di esegeta, di divulgatore e di didatta dello ius civile giustinianeo, il ruolo che ne determinò a tutti gli effetti l’importanza storica. Il mito del «primus illuminator scientiae nostrae» (di colui che per primo rischiarò la scienza del diritto) è già ben radicato nella tradizione universitaria bolognese del secolo successivo alla sua esistenza terrena. Suggestive informazioni − ancorché non di rado fantasiose − ci giungono per il tramite delle praelectiones (lezioni scolastiche) di Odofredo. «In primo studium cepit studium esse in civitate ista in artibus, et cum studium esset destructum Rome, libri legales fuerunt deportati ad civitatem Ravenne, et de Ravenna ad civitatem istam [...] Sed dominus Yr. dum doceret in artibus in civitate

Le abbazie divennero, fra le altre cose, importanti centri per la conservazione e il restauro del patrimonio manoscritto delle opere dei Padri della Chiesa e della classicità latina e greca.

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ista, cum fuerunt deportati libri legales cepit per se studere in libris nostris et, studendo, cepit legere in legibus (D.1.1.6)» 10.

Il noto passo odofrediano contiene due notizie: 1) il transito da Bologna dei libri legales, giuntivi dopo il collasso delle fantomatiche sedi scolastiche altomedievali di Roma e di Ravenna, la cui esistenza è ormai largamente destituita di credibilità; 2) l’incontro del dominus Irnerio con i libri dell’antica sapienza giuridica romana, ai quali si accostò con l’armamentario culturale di un maestro di arti liberali e – avendone compreso l’intrinseco valore – li studiò e cominciò a farne oggetto di insegnamento, regalando a Bologna per almeno un secolo il primato di culla degli studi giuridici. Il nome con cui lui stesso si sottoscrive è Wernerius, mentre la variante Yrnerius è attestata dai manoscritti solo nei decenni successivi alla morte. Le uniche date della sua vita da ritenere sicure sono legate a 14 documenti che lo vedono partecipare a rilevanti vicende giudiziarie e diplomatiche della seconda decade del 1100: due placiti fra il 1112 e il 1113 in veste di causidicus (procuratore legale); ben 11 fra il 1116 e il 1118 in qualità di iudex Bononiensis (giudice bolognese); la notizia della sua presenza a Roma all’elezione dell’antipapa Gregorio VIII nel marzo 1118; la scomunica fulminata contro di lui nel 1119 dal Concilio di Reims per avere insieme ad altri giuristi argomentato la legittimità dell’elezione dell’antipapa. Un placito del 1125 che lo vedeva avvocato del Monastero di San Benedetto di Polirone è stato di recente sospettato di dubbia autenticità. Stando a queste date, la nascita di Irnerio può essere presunta nell’ultimo quarto del secolo XI e la scomparsa intorno alla fine degli anni dieci del 1100. Di recente è riemersa – ed è stata rivalutata con qualche favore − una tradizione documentale deponente per l’origine teutonica di Irnerio: tradizione che contrasta con la ricorrente qualifica di bononiensis e de Bononia che si accompagna al suo nome nei placiti, ma che spiegherebbe la fiducia riposta in lui dall’Imperatore Enrico V. Se un’ascendenza germanica non è da escludere, la cittadinanza e il fortissimo radicamento di Irnerio nel capoluogo emiliano sono tuttavia indiscutibili. I placiti e le altre testimonianze documentarie acclarano un forte legame del giurista con i territori appartenuti o governati dalla contessa Matilde di Canossa († 1115), più celebre figlia della Beatrice († 1076) che presiedette il Placito di Marturi; inoltre Irnerio accompagna l’Imperatore Enrico V nella sua discesa in Italia fra il 1116 e il 1118. In quell’occasione Enrico mirava a riprendere possesso dell’eredità matildica come superiore feudale e parente più prossimo in man10

Odofredus, Lectura super Digesto Veteri, Lione 1550 e 1552 (rist. anast. Bologna 19671968), D.1.1.6.

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canza di eredi diretti. Una vicinanza politica, questa di Irnerio con l’imperatore nel decennio caldo della Riforma Gregoriana che precedette il Concordato di Worms (1122) − ove peraltro prevalsero le posizioni dogmatiche dei pontefici −, confermata anche da una delle più celebri glosse irneriane. Nella breve nota a margine di una parola contenuta in una costituzione del Codice di Giustiniano (tale è il significato del termine ‘glossa’ con il quale dovremo familiarizzare), si dicono passati dal popolo al sovrano tramite la cosiddetta lex regia de maiestate i poteri di governo. Proprio le molte glosse recanti la sigla di Irnerio, spesso rielaborate e discusse dalle generazioni successive dei giuristi che dal metodo presero il nome di glossatori, costituiscono l’unico frutto certo della sapienza del maestro, attraverso il quale coglierne la grandezza. Destituita di fondamento è invece la paternità irneriana di una serie di opere a lui attribuite ma certamente appartenenti al mezzo secolo successivo e a una diversa temperie geografica e culturale: la Summa Codicis, le Quaestiones de iuris subtilitatibus, il Formularium tabellionum. Su alcune avremo occasione di soffermarci. Il profilo intellettuale di Irnerio è quello di un uomo di buona cultura del suo tempo, formatosi nelle arti liberali probabilmente nelle scuole annesse all’episcopio bolognese: una formazione che includeva anche una introduzione ai processi argomentativi (dialettica) ed espositivi (retorica) del ragionamento giuridico. Con questo essenziale strumentario la lucerna iuris accostò i manoscritti della compilazione giustinianea, che a Bologna erano giunti e circolavano separatim (separatamente), in un disordine materiale e di contenuti. Imprescindibile su questo punto nodale un notissimo passo dello storico/cronista Burcardo di Biberach († post 1231), secondo il quale Irnerio “rinnovò”, su richiesta della contessa Matilde di Canossa, i libri delle leggi, che fino ad allora erano stati negletti. Li ripartì inoltre sistematicamente, secondo le indicazioni del loro compilatore, l’imperatore Giustiniano di “divina memoria”, solo aggiungendovi a tratti qualche parola laddove necessario: «libros legum, qui dudum neglecti fuerant nec quisquam in eis studuerat, ad petitionem Mathilde comitisse renovavit et secundum quos a dive recordationis imperatore Iustiniano compilati fuerant, paucis forte verbi alicubi interpositis, eos distinxit» 11.

Emergono dalla cronaca le innovative finalità dell’attenzione e dell’applicazione dedicate da Irnerio ai libri giuridici, rispetto a quelle dei suoi predecessori: 1) ricostruzione del testo delle antiche norme; 2) riordino sistematico delle singole parti della compilazione.

11 Burcardo Uspergense, Chronicon, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXIII, p. 32. Nel medesimo passo il cronachista affianca e, in sostanza, assimila i processi ricostruttivi ed esegetici varati da Irnerio sulla normativa civilistica a quelli di poco successivi del monaco Graziano per la canonistica. V. infra, questo stesso capitolo, § 6.

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In altre parole, una specie di edizione critica del complesso giustinianeo cui Irnerio si accinse su esortazione della contessa Matilde, in conformità e sfruttando la sua formazione in artibus e la sua vocazione filologica. Formazione e vocazione che vennero messe al servizio della iuris civilis sapientia, nei secoli altomedievali ancella di dialettica e di retorica e da ora grazie a Irnerio branca autonoma del sapere, divulgata nelle scuole che spontaneamente e ‘privatamente’ sorsero in Bologna.

3. La forza dell’interpretazione letterale La rivoluzione irneriana – che ci fu – e il primato di Bologna fra le sedi universitarie dell’Occidente – che ugualmente ci fu – escono dalla leggenda ed entrano da protagonisti nella storia degli uomini e delle idee in quanto segnano l’autonomizzazione dello studio e dell’insegnamento in legibus (sulle leggi, giuridico) rispetto alle arti sermocinali del trivio. Arti nelle quali, ormai lo sappiamo, Irnerio era un magister e dalle quali trasse, come già Pepo e altri con lui, le competenze per legere in legibus, con ciò mettendo – come solo i grandi intelletti sanno fare – la tradizione al servizio del rinnovamento. Di rinnovamento e non di novità conviene parlare poiché nella formula didattica varata da Irnerio di originale c’era di fatto poco: la radice comune dei termini legere, lectura, lectio − frequentissimi nelle fonti coeve − evoca l’oralità di un magistero che si dipanava attraverso la ‘lettura’ del testo oggetto della ‘lezione’, come già avveniva nelle scuole di artes altomedievali e, ben da prima, nell’esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento nei centri didattici monastici e vescovili vocati alla formazione del clero. Altrettanto risalente e collaudato era il metodo di spiegazione/interpretazione – l’esegesi testuale in senso proprio −, che si avvaleva di glossae, note esplicative raccordate a singole parole (litterae) del testo oggetto della lezione. Vi possono essere assimilate, ad esempio, le expositiones al libro pavese 12, contenitori di elementari chiarimenti alle leggi longobardo-franche scaturiti probabilmente in sede scolastica dalla necessità di formare gli operatori del tribunale regio. Il rinnovamento varato da Irnerio nei primi due decenni del 1100, che faceva del diritto una autonoma branca del sapere – come poc’anzi precisato – riposava essenzialmente: 1) nell’oggetto, vale a dire il complesso della normativa giustinianea contestualmente sottoposta a un processo di revisione filologica e a un riordino strutturale; 2) nell’obiettivo, quello di ammodernare e rivitalizzare, attraverso un potente sforzo esegetico che trovava principalmente nella glossa il proprio veicolo, l’antico ma nuovamente valido corpo di leggi romane. 12

Si veda supra, cap. I, § 7.

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Un obiettivo, va bene precisato, cui erano totalmente estranee pulsioni erudite, ma che mirava a uniformare le marcate specificità originarie di Codice, Digesto, Istituzioni, Novelle, nell’identità di genere di uno ius commune dotato di universale vigenza per legittimazione imperiale (ratione Imperii). Ugualmente dotato di universale e coincidente giurisdizione per legittimazione pontificia sarà − pur nella diversità di una origine tutta medievale – il parallelo corpo del diritto canonico, di cui ci occuperemo a breve. Percependo la compilazione giustinianea – che tale non si presentava in origine − come unitaria, furono proprio i legum doctores della prima stagione bolognese a rinominarla Corpus Iuris Civilis e a imporvi una nuova architettura, destinata a perpetuarsi per tutto il medioevo e l’età moderna. Il complesso del diritto civile si articolò materialmente in cinque volumi (sino a tutto il XV secolo manoscritti, in seguito a stampa): i primi tre occupati dalla partizione dei cinquanta libri del Digesto in 1) Digestum vetus (libri 1-24); 2) Infortiatum (libri 25-38); 3) Digestum novum (libri 39-50). Seguivano al quarto posto il Codex Iustinianus, comprendente peraltro solo i primi nove libri e, al quinto, il Volumen, miscellanea nel quale vennero fatti confluire i libri dal 9 al 12 del Codex, i quattro libri delle Institutiones, le Novellae di Giustiniano nella redazione dell’Authenticum, secondo la tradizione individuata dallo stesso Irnerio come la versione integrale e più attendibile – in una parola ‘autentica’ – della legislazione novellare dell’imperatore bizantino. Tale redistribuzione, che una notizia risalente al ‘solito’ Odofredo vorrebbe originata dalla disordinata e casuale riemersione dei manoscritti delle singole parti della compilazione, risponde più probabilmente a concrete esigenze della attività didattica su di essi avviata nella stagione irneriana, una didattica che aveva individuato nel Digesto Vecchio e nel Codice – ove erano disciplinati il diritto delle persone e le successioni – i primi strumenti per la formazione degli aspiranti giuristi. Complessivamente essi costituirono i libri legales – i manuali del diritto −, ai quali dalla fine del 1100 sempre i dottori bolognesi aggiunsero anche il testo delle consuetudini feudali raccolte nei Libri Feudorum, in quanto settoriale espressione legislativa dell’Impero medievale. Il Corpus Iuris Civilis, immutabile nella littera, vale a dire nella definizione testuale, nacque a nuova vita e fu rigenerato dalla scienza giuridica. Una scienza che sino a tutto il 1200 si identificò con il metodo della glossa, che attraverso l’interpretazione letterale manteneva i contenuti precettivi del complesso normativo giustinianeo in stretta aderenza con le istanze dei tempi nuovi. Con le glossae si gettarono le fondamenta di un diritto che poté dirsi ‘comune’ perché di universale vigenza entro i confini del Sacro Romano Impero – in larga parte coincidenti con il continente europeo. Nell’Europa del diritto comune – per ricorrere alla fortunata formula coniata da Manlio Bellomo 13 − esso era peraltro

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M. Bellomo, L’Europa del diritto comune, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1988.

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destinato a convivere con gli ordinamenti giuridici particolari facenti capo a singole realtà territoriali (iura propria) – fino ad ora abbiamo conosciuto il complesso normativo longobardo-franco del Regno d’Italia – e con i diritti di status personali (iura specialia) – fra i quali le consuetudini feudali ci sono già note, mentre a quelle mercantili e commerciali è dedicato l’approfondimento monografico di questo capitolo 14. Le modalità di una tale convivenza, protrattasi fino a tutto il XVIII secolo, furono rappresentate da Francesco Calasso 15 – il più autorevole storico del diritto italiano del Novecento − in forma di sistema: «il sistema del diritto comune».

4. La Scuola dei Glossatori Scendendo dal piano del metodo a quello degli uomini che lo vararono e delle opere che lo diffusero in tutta Europa, è della Scuola dei Glossatori che dobbiamo ora occuparci. O meglio delle ‘scuole’ dei glossatori che con Irnerio e da Irnerio fiorirono in Bologna – da allora città di scuole – grazie a generazioni di giuristi/insegnanti che le fonti indicano con gli appellativi di legum doctores e di domini legum. Si trattò di un fenomeno spontaneo, la cui fortuna fu governata dalla montante richiesta, a livello europeo, da parte di giovani ambiziosi e abbienti di acquisire una formazione giuridica da spendere nelle professioni legali e nell’impegno con le istituzioni locali e universali. Che il diritto fosse scientia lucrativa, in grado di favorire carriere di successo economico e di prestigio sociale e politico, costituiva ormai opinione radicata e confortata dai fatti. Il complesso normativo veicolare, universalmente vigente e come tale universalmente percepito, si identificava con il Corpus Iuris Civilis insegnato almeno fino alla metà del 1100 nella sola Bologna (cui seguirono, con l’aprirsi del secolo successivo e con alterne sorti, Modena, Padova, Arezzo, Vercelli). Alle scuole dei glossatori mancò in origine il crisma di un riconoscimento ufficiale da parte di Impero e di Chiesa: è ormai destituita di attendibilità la tesi di un patrocinio di Matilde di Canossa. La petitio, com’è noto, che la contessa avrebbe rivolto a Irnerio nell’esercizio delle sue funzioni di Vicaria per l’Italia dell’Imperatore Enrico V, deve probabilmente considerarsi una semplice seppur autorevole esortazione a procedere nel cammino già avviato della renovatio – del rinnovamento/riordino dei libri della legge. Il successo dell’operazione fu tributato dal grande richiamo e dalla rapida fama che accompagnarono l’insegnamento di Irnerio e dei suoi primi allievi e seguaci, Ugo, Martino, Iacopo, Bulgaro – secondo la tradizione, i ‘Quattro Dottori’ –, attivi intorno alla metà del XII secolo.

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1938.

Infra, § 10. F. Calasso, Storia e sistema delle fonti del diritto comune, I, Le origini, Giuffrè, Milano

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In questa stagione fondativa dell’istituzione universitaria bolognese, poi divenuta lo Studio, le scuole dei glossatori non ebbero una sede stabile – le lezioni venivano impartite nella casa del dominus o in locali allo scopo affittati – e la trasmissione del raffinato sapere giuridico in esse somministrato ai giovani discenti fu affidata allo strumento fluido dell’oralità. La lezione scolastica dei glossatori era una lettura ex cathedra (dalla cattedra) incentrata su singoli passi del Corpus Iuris. Il contenuto delle glossae che il legum doctor sviluppava sollecitato da litterae (singole parole) del testo bisognevoli di una spiegazione/interpretazione filologica o giuridica fino alla metà del secolo successivo − il XIII – veniva raccolto e filtrato dall’attenzione e dalla penna degli allievi, che riproducevano l’argomentare del maestro sui margini e fra le righe dei manoscritti del Corpus Iuris Civilis, che costituivano i loro libri di testo. Questi ‘appunti’ dettero corpo e contenuti alla scienza dei glossatori, una scienza in questa sua prima stagione reportata (trasmessa dagli ascoltatori), che circolò spontanea affastellandosi e contornando le pagine del testo normativo giustinianeo, divenendo indispensabile mediatrice per la sua comprensione nelle scuole e per la sua conversione in pratica giudiziaria. La diffusione manoscritta medievale del Corpus Iuris Civilis glossato fu copiosissima, da Bologna prendendo le strade dell’Europa insieme agli studenti che, maturata la formazione, rientravano nelle terre d’origine portando con sé i libri legali corredati del prezioso patrimonio esegetico raccolto nel corso degli studi. Nei manoscritti le glosse si chiudono frequentemente con la sigla del legum doctor cui la spiegazione ‘letterale’ del testo normativo – l’esegesi – era da ricondurre: questa modalità ha consentito agli studiosi di ricostruire, con buona approssimazione, il pensiero dei più antichi maestri e di portarne a emersione le varianti non di rado sconfinanti in vere e proprie posizioni esegetiche confliggenti. Esemplari, sotto questo profilo, si rivelano le differenze fra il magistero di Bulgaro († 1166) e quello di Martino Gosia († ante 1166), entrambi fra gli allievi diretti di Irnerio: il primo attestato su posizioni rigoristiche che esaltavano l’autonomia della scientia iuris rispetto al sapere altomedievale delle arti sermocinali (in specie della dialettica e della retorica), incline il secondo a continuare ad avvalersi nella sua lettura del testo giustinianeo di quell’antico patrimonio culturale, integrato con l’evocazione di principi teologici e il richiamo – spesso implicito – di fonti canonistiche (del diritto della Chiesa). Una attitudine, questa di Martino, che si sostanziò in un’interpretazione definita equitativa e in concreto più mite dei precetti delle leggi romano-giustinianee, destinata a contrapporsi a quella strettamente tecnico-giuridica – stricti iuris, di stretto diritto – patrocinata da Bulgaro. Un confronto/scontro di linee esegetiche che vide prevalere le posizioni bulgariane e che, fuori dalla aneddotica, simboleggia il passaggio dal vecchio al nuovo modo di essere giuristi e docenti. Il criterio argomentativo che i glossatori applicarono al testo dei monumenti giustinianei per comprenderlo e interpretarlo, in una parola per leggerlo in costante e stretta aderenza con le mutate istanze dei tempi, utilizzava i processi

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della logica aristotelica tramandata dalle scuole di arti liberali. Il ragionamento procedeva attraverso la dialettica dei pro e dei contra, scomponendo il concetto giuridico in coordinazioni e subordinazioni fra genere e specie. Le declinazioni della interpretazione letterale coinvolsero, inevitabilmente, oltre ai contenuti anche le forme, destinate dalla seconda metà del 1100 ad assumere struttura più articolata. Fra le molte specificazioni del genus (genere) basico della glossa vanno ricordate: 1) la continuatio titulorum, esplicitante il nesso contenutistico fra i titoli in sequenza nelle singole parti della compilazione giustinianea (con l’obiettivo di una conoscenza compiuta e sistematica della architettura dei libri legali); 2) la summa, che riassume con intento di sintesi il contenuto di una singola lex per allargarsi ad abbracciare interi titoli e intere parti (in prevalenza Codice e Istituzioni) del Corpus; 3) la distinctio, mirante a scomporre, attraverso un breve procedimento analitico spesso rappresentato in forma di elenco, un concetto generale in concetti specifici, subordinati; 4) il brocardum e il notabile, incisive e sintetiche formulazioni di un principio generale e delle sue subordinate contenuti in una legge; 5) la solutio contrariorum, composizione delle apparenti antitesi fra le enunciazioni legislative con l’obiettivo di acclarare l’armonia e la compattezza del complesso giustinianeo; 6) il casus, consistente nella individuazione della fattispecie regolata dalle antiche leggi, con il fine di tracciare la giurisdizione fattuale di ogni singola norma e le sue possibili pratiche applicazioni estensive, pur rimanendo all’interno dei confini rigidi della littera del testo normativo; 7) la quaestio, in stretto rapporto dialettico con il testo normativo, che si presenta fino alla metà e oltre del XII secolo nella forma di quaestio legitima, discussa cioè muovendo dagli interrogativi sollevati dalle fonti stesse. La scientia iuris si consolidò e circolò nella stagione della glossa attraverso l’esegesi sviluppata spontaneamente in scuole legate alla vita e alla fama raggiunte da almeno quattro generazioni di legum doctores che si avvicendarono fino agli anni Venti/Trenta del 1200, prevalentemente in Bologna. Si trattò di un fenomeno corale e di genere, nel quale a fatica si precisano dati biografici, paternità e filiazioni scientifiche. Ricerche ancora recenti di Ennio Cortese per l’Italia 16 e di Andrè Gouron per la Francia meridionale 17 hanno evidenziato come per tutta la seconda metà del 1100 alcune scuole di glossatori mantennero 16

E. Cortese, Scienza di giudici e scienza di professori tra XII e XIII secolo, in Legge, giudici, giuristi, Atti del Convegno (Cagliari, 18-21 maggio 1981), Giuffrè, Milano 1982, pp. 93-148. 17 A. Gouron, La science du droit dans le Midi de la France au Moyen Age, Variorum Reprints, London 1963.

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vivaci legami con la cultura e l’insegnamento delle arti liberali del trivio. Un’attitudine dell’interpretazione letterale simboleggiata dal magistero di Martino Gosia, ma che allievi e allievi di allievi continuarono a coltivare in Italia e oltre. È il caso di Rogerio († post 1162), formatosi certamente a Bologna, quindi docente di diritto in centri che perpetuavano le modalità altomedievali di una generica formazione in artibus comprensiva anche del versante giuridico. Le testimonianze indicano Piacenza e Mantova per l’Italia, Arles, Aix en Provence, Saint Gilles, Avignone e, principalmente, Montpellier per la Provenza. Realtà che la storiografia ha accomunate con la definizione di ‘minori’ rispetto al contemporaneo paradigma bolognese, probabilmente collegate alle locali sedi vescovili e quindi deputate alla formazione del clero. A Rogerio è attribuita una operina di stile retorico-grammaticale dal titolo elegante di Enodationes quaestionum super Codice, che sviluppa una selezione di quaestiones legitimae incentrate su passi del Codice di Giustiniano – diversa nella prosa ma non nei contenuti da analoghi prodotti bolognesi – e l’embrione di una Summa al Codice (ai primi nove libri del Codice) che, forse proprio a Montpellier, il Piacentino († 1181-82 ca.) avrebbe inglobato nel corpo della sua più celebre silloge sempre del Codex. Con qualche generalizzazione, possiamo affermare che l’ampio ricorso al genere letterario della summa rappresenti uno dei tratti caratterizzanti di questa didattica extra-bolognese. Una didattica finalizzata a impartire una formazione giuridica non specialistica, cui meglio si addiceva l’esposizione sistematica e sintetica di un intero libro del diritto – preferiti per le dimensioni e l’esaustività dei contenuti, il Codice e le Istituzioni. Un genere al quale, oltre alle summae di Rogerio e di Piacentino, appartengono la anonima Summa Codicis Trecensis (cosiddetta dalla biblioteca di Troyes ove è conservata), attribuita dal suo editore ottocentesco al grande Irnerio 18 e ora emigrata verso la Provenza e posticipata di un buon quarantennio rispetto agli estremi biografici della lucerna iuris, nonché il Liber Pauperum del misterioso dominus lombardo Vacario († 1181), anch’egli probabilmente di studi bolognesi. Si tratta, in questo caso, di un’agile sintesi di principi romanistici tratti dal Codice e dal Digesto che il proemio dichiara composta per sovvenire gli scolari meno abbienti, impossibilitati a sostenere il costo elevato dell’intero Corpus: anche quest’opera è riconducibile agli anni Sessanta del 1100, ma geograficamente collocata nelle scuole canonistiche anglo-normanne – la celebre Oxford o, più probabilmente la vicina Lincoln – studiate da Stephan Kuttner 19. Alla vivace realtà della Francia meridionale si è ora inclini a ricondurre anche le Quaestiones de iuris subtilitatibus: una breve raccolta di dotte questioni legitimae scaturite dall’interpretazione del18

H. Fitting, Summa Codicis des Irnerius mit einer Einleitung, Guttentag, Berlin 1894 (rist. Minerva, Frankfurt am Main 1971). 19 S. Kuttner e E. Rathbone, Anglo-Norman Canonists of the twelfth Century. Introductory Study, in Traditio, 7 (1949-1951), pp. 279-358, ora in S. Kuttner, Gratian and the Schools of Law 1140-1234, Variorum Reprints, London 1983.

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le leggi romane, già attribuita a Irnerio e più di recente a Piacentino. Allo stile fiorito di quest’ultimo, che in un suo breve testo, il Sermo de legibus, mescola versi e prosa, ben si addice il ricorso all’allegoria del templum iustitiae che introduce la discussione delle quaestiones, un vezzo letterario che il medesimo giurista utilizza anche in un altro breve trattato sull’iter processuale composto Cum essem Mantue, negli anni cioè del suo insegnamento mantovano. Questo dell’attenzione per la formazione del giurista pratico appare il secondo, e forse più incisivo tratto delle scuole cosiddette minori. Scuole che per l’Italia centro-settentrionale trovano la migliore esemplificazione in Modena, dove tra il 1175 e il 1182 si trasferì il giovane Pillio da Medicina († 1213 ca.), fino ad allora docente di leggi in Bologna. Le motivazioni del trasferimento furono contingenti e legate ai rapporti, in quel momento difficili, fra i legum doctores e il comune felsineo. Ne conseguì la necessità di promuovere nella nuova sede quella che oggi chiameremmo ‘un’offerta didattica diversificata’ rispetto a quella praticata nella vicina Alma Mater. Un’offerta professionalizzante che trovò la sua espressione più originale nel Libellus disputatorius, una monumentale raccolta di brocardi mnemonici tratti dal Codice e dal Digesto di Giustiniano che Pillio propose dalla cattedra modenese in alternativa alla lettura e allo studio dell’intero Corpus Iuris Civilis, con l’obiettivo di accelerare il percorso di quanti intendevano indirizzarsi verso le professioni legali. Un percorso formativo al quale appartengono fisiologicamente anche le altre opere pilliane: una summa processualistica dal titolo Cum essem Mutine e una ai Tres Libri del Codice, di argomento pubblicistico e disertati nelle aule bolognesi come i Libri Feudorum, che Pillio, cogliendone l’importanza per la preparazione di un giudice o di un avvocato in terra di giurisdizioni feudali, fece oggetto di insegnamento, corredandoli di un apparato di glosse destinato a grande fortuna. Nel contempo dalle cattedre bolognesi si propagava il messaggio di una cultura nuova, esclusivamente incentrata sull’esegesi rigoristica – stricti iuris (di stretto diritto) − delle norme romane, nella quale almeno fino all’inizio del 1200 non trovavano spazio le consuetudini feudali e il complesso longobardo-franco del Libro Pavese e della Lombarda. Da Bulgaro a Giovanni Bassiano († 1193), da Ugolino Presbiteri († post 1233) ad Azzone († ante 1233), la lettura magistrale del corpus giustinianeo, incentrata, com’è noto, sull’interpretazione letterale, tocca punte di estrema raffinatezza ed esplode in una miriade di glossae, sempre più di frequente organizzate in ‘apparati’ di un singolo giurista a un’intera parte della compilazione (Codice, Digesto, ecc.). Apparati che nella spontaneità della trasmissione orale si sedimentano e si stratificano sui margini dei manoscritti giuridici, molto spesso fondendosi gli uni con gli altri in un processo costante di aggiornamento permanente. È il trionfo dei legistae (legisti).

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5. Dalle scuole allo Studium: a) la Glossa Ordinaria All’aprirsi del Duecento Bologna appare ancora il tempio dell’esegesi letterale del corpus giustinianeo e della glossa: un’attitudine rigorosa e un monopolio nella didattica che cominciavano peraltro a essere insidiati da diverse e fortunate esperienze. La più sbrigliata formazione di taglio pratico somministrata nelle scuole minori ci è già nota nella sua duplice manifestazione. Essa aveva costituito una risposta alla domanda forte di un percorso di studio mirato alle professioni legali, una domanda alla quale peraltro le stesse cattedre bolognesi non erano rimaste sorde. Già dalla metà del secolo precedente alla primaria modalità di insegnamento incentrata sul legere, sulla lettura del testo al quale il legum doctor ancorava le sue glosse, si affiancò la discussione di quaestiones legitimae, volte a dipanare i percorsi argomentativi che dall’interno della compilazione giustinianea conducevano al disciplinamento di un casus legis, dalla legge cioè contemplato. Ne scaturì una messe di dotti materiali didattici tendenti a condurre i discenti verso una capillare conoscenza dell’architettura e dei percorsi dei libri legales, una conoscenza che riposava sulla certezza che la risposta all’interrogativo teorico proposto dal dominus alla riflessione della sua classe fosse solo e solamente quella indicata dalle antiche leggi di Giustiniano. Ricca testimonianza di questa specificazione della scienza e della didattica dei glossatori sono le catene di dissensiones dominorum, dispute scolastiche fra i più illustri maestri (Alberico di Porta Ravegnana, Ugolino Presbiteri, Guglielmo di Cabriano) in merito alla soluzione di casus disciplinati in prevalenza da costituzioni del Codex Iustinianus. Analoghi obiettivi di una compiuta esegesi testuale dell’antica normativa perseguirono i celebri casus sintetizzati nella seconda metà del Duecento da Francesco di Accursio († 1293) e da Viviano Tosco al fine di illustrare il ‘fatto’ sul quale il legislatore romano aveva espresso un giudizio e formulato una risposta normativa: essi divennero una parte integrante della Glossa Ordinaria di Accursio († 1263) al Corpus Iuris Civilis di cui a breve ci occuperemo. Ma i fatti della vita si presentavano anche per altro tramite all’attenzione del glossatore, poiché sempre maggiori situazioni giuridicamente rilevanti esulavano dalla previsione e quindi dalla normativa contenuta nella compilazione di Giustiniano: si pensi alle nuove questioni dell’ambiente cittadino politicamente organizzato in ‘comune’ (quaestiones statutorum) e a quelle scaturenti dai rapporti feudali (quaestiones feudorum). Spettava al giurista/interprete compiere l’operazione di raccordo fra le norme antiche e i fatti nuovi avvalendosi di tutte le possibilità argomentative esplicitamente o implicitamente contenute nella littera del Corpus Iuris Civilis, plasmandoli con l’armamentario della dialettica e della retorica scolastiche e riconducendoli a sistema. Il casus non previsto dalla legge di Giustiniano generava allora la quaestio e si trattava di quaestio de facto o ex facto emergens (scaturente cioè da una concreta situazione del presente e bisognosa di disciplinamento). La differenziazione del casus legis – sfera della cer-

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tezza, in quanto contenuto nella littera del legislatore romano − dalla quaestio – sfera della probabilità, in quanto risolta dallo sforzo esegetico del giurista medievale – recava con sé anche una diversa collocazione delle due species scientifiche nell’ambito dell’attività didattica dei legum doctores della Scuola dei Glossatori. Il casus era attratto all’interno della lezione accademica e sviluppato nell’ambito della lectura del testo giustinianeo come parte integrante di esso, mentre le quaestiones già dall’ultimo scorcio del XII secolo si mostrarono strumento più duttile. Discusse in appositi spazi della didattica destinati alla disputa pubblica e solenne, esse fornivano agli studenti un esercizio di logica argomentativa che, nel ritmo del pro, del contra, della solutio, riproduceva l’andamento dialettico del processo e metteva in osmotico rapporto la rigida precettistica dei monumenti giustinianei con le varianti fattuali del divenire storico. Sui margini dei manoscritti dei libri legales, fra le glosse magistrali reportatae dalla penna di anonimi studenti trova spazio – in esplicita connessione con il testo legislativo – anche una moltitudine di quaestiones disputate nelle scuole e generate da fatti emergentes. Ulteriore segnale di una mutata attitudine dei dottori di legge si coglie nel recupero del genere letterario delle summae, nei decenni precedenti il Duecento tipicamente transalpino. Le due più compiute sintesi al Codice e alle Istituzioni di Giustiniano provengono all’aprirsi del secolo dalla fucina bolognese e dal genio di Azzone. Non è un caso che proprio Azzone, nella Summa al Codex, esprima insofferenza nei confronti dello stratificarsi intorno ai libri legali dei materiali esegetici prodotti dalle generazioni di maestri avvicendatisi a Irnerio (glossae, notabilia, dissensiones, casus, quaestiones, ecc.). Analogo scontento palesa Pillio da Medicina tentando − come è noto − di lanciare dalla vicina Modena con il suo Libellus disputatorius un nuovo modello didattico affidato a formule mnemoniche (brocardi) e destinato a coinvolgere nella trama della formazione giuridica accademica anche il versante del diritto feudale. In questo contesto, che adombra una crisi della scienza dei glossatori, matura la lucida percezione del fiorentino Accursio, di vita e studi bolognesi, allievo prediletto di Azzone e a sua volta acclamato maestro di diritto, dell’esigenza di omogeneità e di univocità che proveniva dalle aule scolastiche come da quelle giudiziarie. Il patrimonio interpretativo espresso in oltre un secolo dalle cattedre felsinee aveva provveduto ad aggiornare e vivificare l’antico diritto imperiale mantenendolo ‘in presa diretta’ e ancorato ai tempi nuovi, ma proprio la sua ricchezza, testimoniata da opinioni magistrali divergenti quando non conflittuali, rischiava di comprometterne l’efficacia sia sul piano della didattica sia su quello concreto della pratica giudiziaria, entrambe bisognose almeno di univocità se non di certezze. Accursio fece della revisione degli apparati di glosse di predecessori e di colleghi l’impegno di una vita, con ciò rivelando statura scientifica e lungimiranza non comuni. L’impegno fu immane: le glosse rifluite nei suoi apparati al Corpus Iuris Civilis sono all’incirca 97.000 mentre è impossibile determinare l’entità dei materiali scartati dal maestro. Ad agevolargli il compito provvide la fruizione

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dell’autorevole e robusta tradizione interpretativa di cui era erede, che congiungeva la dottrina di Bulgaro a quella di Azzone. Studi ancora recenti hanno dimostrato come gli apparati di quest’ultimo possano ben dirsi una prima redazione di quelli accursiani: fra il 1228 e il 1230 ne sortì un corredo interpretativo delle leggi di Giustiniano selezionato e ragionato. Accursio, padroneggiandolo e coordinandolo con personali contributi esegetici, immise nei circuiti della scuola e del foro una serie di apparati tanto chiari nel dettato quanto esaustivi nei contenuti: essi ebbero una fortuna rapida e immensa, battezzati come apparati ‘ordinari’ e come Magna Glossa al Corpus di Giustiniano, laddove l’aggettivo ‘ordinario’ sta a rappresentare il carattere di ufficiosa autorevolezza da essi conseguito. La Magna Glossa si impose sulla fluida tradizione esegetica delle scuole dei glossatori, condannando all’oblio le tesi che Accursio non aveva condiviso e inserito nella sua selezione. Trascritta sulla cornice esterna delle pagine manoscritte dei testi giustinianei, quindi stampata a muovere dalla prima edizione incunabola del 1468, essa si impose per oltre sei secoli come l’interpretazione corrente del complesso normativo civilistico, la sola capace di certificarne i contenuti al fine della divulgazione scolastica e dell’applicazione in sede giudiziaria, strumento di quel ius commune – diritto comune – nato nelle scuole di Bologna e diffuso attraverso il metodo dei suoi dottori di leggi. Il Corpus Iuris Civilis corredato dagli apparati accursiani segue la scansione in 5 volumi inaugurata nella stagione di Irnerio: il Codex (primi 9 libri), il Digestum vetus (dal libro 1 al 24), l’Infortiatum (dal 25 al 38), il Digestum novum (dal 39 al 50). Nel Volumen confluirono infine gli ultimi 3 libri del Codex, i 4 delle Institutiones, le Novelle di Giustiniano nella redazione dell’Authenticum e i Libri Feudorum, che dall’inizio del Duecento erano entrati a far parte dello strumentario didattico utilizzato nello Studio. Per il corredo di glosse (apparato) che li contorna, Accursio riprodusse fedelmente la dottrina specialistica di Pillio da Medicina.

b) la nascita dell’istituzione universitaria Lo stabilizzarsi della fortuna delle scuole dei glossatori produsse inevitabilmente nell’arco della prima metà del Duecento anche un mutamento degli originari assetti spontaneistici che avevano improntato i rapporti fra studenti e docenti, rapporti modellati sul tipo contrattuale romanistico della societas. Gli scolari e i dottori erano legati da obbligo di reciproche prestazioni, che impegnava gli uni a corrispondere una collecta, gli altri a somministrare il loro sapere in regime di libera concorrenza fra scuole. La prima testimonianza di una embrionale organizzazione di doctores discipulique (dottori e discepoli) risale al 1155, allorquando una numerosa rappresentanza di studenti accompagnata da dottori di legge e maestri di arti liberali colse l’occasione del passaggio nelle vicinanze di Bologna dell’Imperatore Federico I Barbarossa († 1190) per ottenere un privilegio recante la proibizione delle rappresaglie e comminante sanzioni a chi mole-

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stasse studenti e docenti, li offendesse o derubasse sia durante il viaggio sia durante il soggiorno in città. Tale privilegio fu trasformato tre anni dopo nella Dieta di Roncaglia (1158) in una costituzione imperiale − Authentica «Habita» − che ne ampliava il contenuto con la previsione di un foro speciale per gli studenti forestieri convenuti in città nella persona del loro maestro o del vescovo per gli ecclesiastici, in entrambi i casi più tolleranti della giustizia ordinaria. Le scuole, i loro promotori e i loro frequentanti divennero interlocutori preziosi per le magistrature del comune, spinte dalla necessità di mantenere all’interno delle mura cittadine quel lucroso ‘mercato’ della cultura. La dialettica non sempre facile fra le societates degli scolari e le istituzioni felsinee comportò un inevitabile irrigidimento delle prime, che assunsero la forma delle nationes (raggruppamenti studenteschi su base regionale), quindi quella più strutturata nelle due universitates degli studenti italiani citramontani e stranieri ultramontani. Costituite sulla falsariga delle corporazioni di arti e mestieri, che nei medesimi decenni qualificarono la piccola e media borghesia cittadina 20, e con analogo scopo di difesa e di rappresentanza degli interessi dei partecipanti, le università segnarono la separazione delle politiche degli studenti da quelle dei docenti. Questi ultimi entrarono in diretto rapporto con il comune, che progressivamente garantì loro lucrosi stipendia in cambio del diritto all’esclusiva della didattica e di uno stabile radicamento delle scuole in città. Di pari passo con la progressiva strutturazione degli apparati organizzativi procedeva la determinazione dell’ordo studiorum (piano degli studi). Un percorso di formazione la cui durata si stabilizzò fra i 5 e i 7 anni e che appare già delineato nei primi statuti della Università dei giuristi del 1252. Pochi decenni prima, nel 1219, il pontefice Onorio III († 1227) aveva disposto che il coronamento degli studi venisse celebrato con una solenne discussione di laurea nella cattedrale di San Pietro alla presenza dell’Arcidiacono, nel caso di specie il canonista Tancredi († 1236). La laurea fu fattualmente per Bologna una licentia ubique docendi, di insegnare cioè nell’ambito della giurisdizione universale della Chiesa e dell’Impero. Mentre il fluido patrimonio dottrinale dei glossatori si consolidava nella Magna Glossa di paternità accursiana, la prima metà del Duecento vide anche le libere scuole dei dottori di leggi bolognesi radicalizzarsi nello Studium, al quale le articolazioni delle università degli studenti e dei collegia dei docenti attribuirono i caratteri prodromici di una complessa struttura didattica, scientifica e amministrativa destinata a vivere sino a oggi.

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La vicenda medievale dell’associazionismo corporativo di arti e mestieri è sviluppato infra, in questo stesso capitolo, § 10.

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6. Un nuovo ordine per il diritto della Chiesa: a) il Decretum di Graziano Il riformismo gregoriano e la lotta per le investiture connotarono la storia politica e giuridica della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni lungo l’arco breve di un cinquantennio che toccò il suo apice nel Concordato di Worms siglato dall’Imperatore Enrico V e da Papa Callisto II († 1124). Questa ‘rivoluzione papale’ segnò in Occidente l’autonomia della giurisdizione spirituale dalla secolare e gettò le fondamenta della dimensione ordinamentale della res publica cristiana. Un ordinamento politico e giuridico ‘riformato’, le cui gerarchie – sciolte da ogni legame, quando non soggezione, nei confronti dell’Impero e dei corpi feudali – sollecitarono la produzione di un potente complesso normativo che andò crescendo fino agli inizi del XIV secolo, accompagnato, al pari del versante delle leges giustinianee, da una originale elaborazione scientifica in sede scolastica. Un diritto – il canonico – e una scienza – la canonistica – che si modellarono sui monumenti di Giustiniano da poco riscoperti, mentre dai glossatori civilisti mutuarono il criterio dell’interpretazione letterale. Ai dottori di leggi i canonisti erano uniti dalla salda convinzione che al giurista/interprete competesse di conciliare, ‘concordare’ le fonti normative con le mutevoli istanze del presente, in un processo di costante adeguamento del vecchio al nuovo. Espressione diretta del riformismo gregoriano fu la Concordantia discordantium canonum di Graziano († post 1143), che sin dal titolo dichiara la volontà di conciliazione fra le due supreme giurisdizioni da poco espressa a livello politico dal Concordato. Questa compilazione di dottrina e di normativa, cui venne attribuito il titolo solenne di Decretum, rappresentò per la storia della istituzione ecclesiale una drastica svolta: per suo tramite la teologia e l’ecclesiologia occidentali assunsero una definita connotazione giuridica. L’opera grazianea è stata descritta come «il primo sistema giuridico moderno» 21, vale a dire la prima trattazione sistematica del complesso normativo canonistico, diretta a disciplinare l’organizzazione della Chiesa, a ribadire la sua autonomia sul versante spirituale, a definire le sue relazioni con il potere secolare, a circostanziare lo stato e la condotta del clero. Le note biografiche di Graziano sono scarne e incerte: nato probabilmente fra Orvieto e Chiusi intorno alla fine dell’XI secolo, monaco camaldolese, negli anni 1130-1140 fu attivo in Bologna nel Monastero dei Santi Naborre e Felice, nel capoluogo felsineo acquisì la formazione e il titolo di magister di arti liberali, compose la sua opera e tenne scuola. A un documento notarile del 1143 dobbiamo l’unica testimonianza diretta della sua vita: nella cattedrale di San Marco in Venezia, Graziano è chiamato dal Legato Apostolico di Papa Innocenzo II

21 D. Quaglioni, Il nuovo ordinamento della Chiesa: decretisti e decretalisti, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, VIII Appendice, Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma 2012.

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(† 1145) a rendere, insieme ad altri dotti fra i quali il legum doctor bolognese Gualfredo, un parere in materia di tassazioni ecclesiastiche. Una testimonianza che, al di là del suo contenuto, rivela il prestigio goduto da Graziano presso la Curia Pontificia nonché la sua vicinanza al milieu di legisti che in Bologna avevano raccolto la recentissima eredità di Irnerio. Non è un caso che il cronachista Burcardo affianchi lo sforzo compilatorio di Graziano a quello di Irnerio, evidenziando in un noto passo le analogie del modus operandi dei due maestri: «Huius temporis Magister Gratianus canones et decretales, quae variis libris erant dispersa, in unum opus compilavit adiungensque eis interdum auctoritates sanctorum patrum secundum convenientes sententias opus suum satis rationabiliter distinxit» 22.

Mutatis mutandis, i materiali raccolti e ordinati dal sommo canonista afferiscono sia alla tradizione del Vecchio e del Nuovo Testamento (legge divina), sia alla normativa espressa a partire dall’Età Tardo Antica dalle assemblee conciliari dei vescovi (canones in senso stretto) e dai romani pontefici (decretales). All’individuazione delle fonti contribuirono – agevolando lo sforzo grazianeo – le molte collezioni maturate nella stagione della Riforma, fra tutte quelle di Anselmo da Lucca († 1086) e di Ivo di Chartres († 1115). Il Decretum non ebbe carattere ufficiale e, benché destinato a divenire il primo pilastro normativo dell’ordinamento ecclesiale, non venne mai promulgato o riconosciuto come ‘legge’ dai pontefici, rimanendo opera privata e acquisendo autorevolezza e autorità dal suo pronto radicamento nel circuito scolastico per la formazione del clero e nelle sedi della giustizia ecclesiastica. La complessa architettura dell’opera in tre grandi sezioni disciplinanti le gerarchie della Chiesa, il processo canonico e le modalità di somministrazione dei sacramenti rimase aperta per almeno un ventennio (1150-1160), consentendo l’inserimento di alcuni titoli (come il De poenitentia) e di un discreto numero di citazioni del Digesto e del Codice di Giustiniano, in origine assenti. Alla stagione grazianea, se non allo stesso Graziano sono invece da ricondurre i dicta, brevi annotazioni di raccordo fra i canoni, ossia i singoli precetti contenuti nella silloge. Attraverso i dicta si concretizza l’ambizioso intento di conciliazione e di razionalizzazione, in una parola di concordia, fra dogmi, principi e normative di tanto varia cronologia e provenienza. Un intento di armonizzazione perseguito da Graziano attraverso la metodica applicazione di quattro generali regole di concordanza fra le norme giuridiche: la prevalenza della legge nuova sulla vecchia (ratio temporis), della locale sulla universale (ratio loci), della speciale sulla generale in quan22 «In quest’epoca il maestro Graziano riunì in un’unica raccolta canoni e decretali che si trovavano dispersi in vari libri e, aggiungendovi qui e lì le autorità dei Padri della Chiesa sulla base dei loro pareri più confacenti, organizzò la sua opera in modo ben ragionevole».

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to eccezione (ratio dispensationis) e in quanto delimitazione di contenuto (ratio significationis). Il Decreto di Graziano gettò, come si è detto, le fondamenta di un ordine nuovo per il diritto della Chiesa e aprì le porte a un denso cinquantennio caratterizzato, fino all’ultimo scorcio del secolo XII, da un’esuberante produzione di collezioni di canoni, di glosse e di apparati di glosse, di summae, casus, notabilia, ecc. Una produzione che ricalcava nelle forme i generi dell’interpretazione letterale elaborati nelle scuole civilistiche e che, coinvolgendo dottori e pratici del ‘nuovo’ diritto canonico intorno al testo grazianeo, venne definita decretistica. La scienza giuridica decretistica, mutuando il metodo e le manifestazioni espressive già messe a punto dalla civilistica raggiunse rapidamente una dimensione e una diffusione europee, come europea – o meglio universale – era la giurisdizione della Chiesa di Roma. I risultati, censiti da Stephan Kuttner († 1996) nel secolo scorso 23, furono di alto livello, da singoli apparati di glosse alla Glossa destinata a divenire ‘Ordinaria’, ossia l’interpretazione letterale più accreditata e ufficiosa del testo grazianeo al pari di quella di Accursio per il versante delle leges. Essa venne approntata in Bologna dopo il IV Concilio Lateranense del 1215 da Giovanni Teutonico († 1245), allievo della scuola di Azzone, e completata da Bartolomeo da Brescia († 1258) fra il 1241 e il 1245. Gli apparati di glosse rimasero peraltro un’espressione minore della scienza dei canoni, che brillò soprattutto per le mirabili summae al Decreto, circolanti già dalla metà del 1100. A tal proposito va tenuto presente che le fonti canonistiche, nel caso di specie quelle ‘cucite’ da Graziano nella trama del suo Decretum, parlavano la lingua della contemporaneità e necessitavano in misura inferiore rispetto agli antichi monumenti giustinianei di un’interpretazione letterale del testo. Assai più funzionali alle esigenze della didattica, come a quelle della pratica applicazione del complesso normativo ecclesiale, apparivano invece le opere di sintesi e di sistema. Di ambito bolognese è la più risalente e prossima al testo di Graziano che si deve a Paucapalea, mentre data alla fine degli anni Cinquanta del secolo la summa di Rufino († 1192), il vero modello di questo genere che fondeva obiettivi riassuntivi, sistematici ed esegetici e che ebbe grande influenza sulle successive esposizioni di Stefano Tornacense († 1203), di Giovanni da Faenza († 1190), di Uguccione da Pisa († 1210). La Summa di quest’ultimo, compiuta prima del 1188, costituisce il punto più alto di questa prima stagione della canonistica bolognese, che comprende anche le opere analoghe di Simone da Bisignano († post 1177), di Sicardo da Cremona († 1215), databili intorno alla fine degli anni Settanta, nonché le numerose summae di scuola francese, dalle biblioteche che ne conservano i manoscritti meglio note come summa coloniense, summa parisiense, summa monacense, summa lipsiense, summa bambergense. 23 S. Kuttner, Repertorium der Kanonistik (1140-1234), Prodromus corporis glossatorum, Città del Vaticano 1937 (Studi e Testi, 71) (rist. Roma 1972) e S. Kuttner e E. Rathbone, Anglo-Norman Canonists, cit.

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b) le altre compilazioni e la decretalistica Questa intensa attività esegetica aprì la strada a iniziative di raccolta, di sistematizzazione e di studio delle decretali dei pontefici promulgate successivamente al Decreto, una stagione della legislazione e della scienza canonistica di conseguenza definita decretalistica. Fra il 1188 e il 1234 entrarono nel circuito della didattica e della pratica canonistiche cinque raccolte di decretali che, in cronologica sequenza aggiornavano il versante della legislazione dei pontefici: esse sono complessivamente note come Quinque Compilationes Antiquae, le cinque antiche compilazioni. Tra il 1188 e il 1192 si colloca la prima, a opera di Bernardo da Pavia († 1213). La raccolta è divisa in cinque libri, ognuno dei quali abbraccia una materia basilare dell’ordinamento spirituale dei fedeli in Cristo: fonti e norme generali, procedura, ordine ecclesiastico, matrimonio, diritto penale (Iudex, Iudicium, Clerus, Connubia, Crimen). Quest’ordine, anche nella sua articolazione interna in titoli e in canoni, ricalca la sistematica del corpus civilistico e venne riprodotto dalle collezioni successive. Dall’intensa attività legislativa dei papi maturò l’esigenza di provvedere le scuole e il foro di raccolte decretalistiche costantemente aggiornate. Si trattò di un processo accelerato che agli inizi del secolo XIII trovò un interprete istituzionale nel Pontefice Innocenzo III († 1216), che affidò un’ulteriore opera di ricompilazione al notaio apostolico Pietro Collevaccino. Ne sortì la prima raccolta ufficiale di decretali nella storia della Chiesa: essa fu trasmessa dal Pontefice alla Scuola di Bologna, una scelta politica e tattica che ne garantì la conoscenza e la diffusione nel mondo cristiano cattolico − in una parola la pubblicò − e che divenne una prassi. Privata fu ancora la successiva compilazione del dottore bolognese Giovanni di Galles, redatta fra il 1210 e il 1212 e carattere non ufficiale ebbe anche la Compilatio Quarta, che raccolse la decretalistica prodotta nell’ambito del Quarto Concilio Lateranense indetto dallo stesso Innocenzo III nel 1215. Il suo redattore fu Giovanni Teutonico, a noi già noto come autore della Glossa Ordinaria al Decreto di Graziano. La sequenza si chiuse con la Compilatio Quinta, promossa da Onorio III e affidata a un altro grande maestro bolognese, l’Arcidiacono della cattedrale Tancredi: ugualmente pubblicata mediante l’invio allo Studio, essa stabilizzò la tendenza alla ufficialità di tali e analoghe iniziative. La storiografia ha parlato a questo proposito di «cammino verso la codificazione» 24 del diritto della Chiesa: il passo successivo fu compiuto dal pontefice Gregorio IX († 1241) che nel 1234 con la bolla Rex Pacificus promulgò in senso proprio il Liber Decretalium Extravagantium o Liber Extra, comprensivo anche delle norme contenute nelle precedenti cinque compilazioni, da allora definite per l’appunto antiche e implicitamente abrogate. Dal 1234 al 1296 l’attività legislativa dei pontefici, fra i quali si distinse Innocenzo IV – al secolo Sinibaldo dei Fieschi († 1254), grande canonista – e dei due Concili di Lione del 1245 e del 24

D. Quaglioni, Il nuovo ordinamento della Chiesa, cit.

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1274 suscitarono l’iniziativa di nuove compilazioni al fine di aggiornare quella di Gregorio IX. Al Liber Sextus di Bonifacio VIII († 1303), pubblicato nel 1298 seguì nel 1317 la raccolta delle decretali di Clemente V († 1314) ad opera del suo successore Giovanni XXII († 1334) e detta Clementina dal nome del papa promotore. Carattere non ufficiale ebbero infine le raccolte di extravagantes di Giovanni XXII e quelle dette communes di varia paternità. Di pari passo con lo sviluppo della legislazione pontificia progredì anche la scienza canonistica. La decretalistica duecentesca toccò le sue vette più alte con i grandi commentari al Liber Extra di Gregorio IX dovuti a una triade di giuristi e alti prelati: Goffredo da Trani († 1245), Sinibaldo dei Fieschi (poi Papa Innocenzo IV), Enrico da Susa († 1271). La dimensione politica di questa potente stagione della scienza canonistica fu di decisa affermazione ierocratica, celebrando il primato della Chiesa e delle sue gerarchie sull’Impero. Un primato disegnato dai decretalisti attraverso un sistema di rapporti razionali e ben equilibrati tra giurisdizioni eguali ma concorrenti. L’utrumque ius, presupponendo il coordinamento dei due diritti alla luce di criteri di ragione e di equità, garantì la prevalenza al regime canonico solo nelle fattispecie ‘tipiche’ dal contenuto spirituale dominante (matrimonio, usura, ecc.) su quello secolare. Al di là degli esiti politici e della loro durata, tali operazioni e processi speculativi sortirono a breve termine l’omologazione del metodo scientifico dei due iura: principi, concetti e rationes furono stabilmente percepiti in quanto comuni e declinabili in entrambi o a favore di entrambi gli ordinamenti. L’interazione delle norme produsse quella delle due culture.

c) il Corpus Iuris Canonici Nel 1500 l’erudito editore Jean Chappuis diede alle stampe l’insieme delle collezioni pontificie ufficiose e ufficiali fin qui ricordate: ne nacque il Corpus Iuris Canonici, così denominato a imitazione del Corpus Iuris Civilis (che aveva cominciato a sfoggiare questo titolo sin dalla stagione accursiana). Esso risultò formato dal Decreto di Graziano, dal Liber Extra di Gregorio IX, dal Sextus di Bonifacio VIII, dalle Clementinae di Clemente V, dalle Extravagantes di Giovanni XXII. Così completato il Corpus rimase immutato nei secoli a venire e costituì il diritto vigente per la Chiesa cattolica, le sue gerarchie, i suoi fedeli fino all’entrata in vigore nel 1917 del primo Codex Iuris Canonici.

7. Le storie diverse dell’Italia e dell’Europa: a) il Comune cittadino Come è ormai noto, dal secolo XII si avviarono in Europa i processi costruttivi dei due diritti universali dell’Impero e della Chiesa, consolidati nei grandi corpi Iuris Civilis e Iuris Canonici, accompagnati dalla indispensabile mediazio-

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ne della sapienza giuridica dei glossatori, designati unitariamente dall’endiadi utrumque ius. Endiadi che ne sanciva l’insolubile unione sul piano della formazione scolastica dei professionisti del diritto come su quello della prassi giudiziaria. Nella medesima stagione sempre l’Europa si apriva a varie ed eterogenee dimensioni locali inevitabilmente coinvolgenti la fenomenologia giuridica. All’unità dell’utrumque ius (o ius commune) si accompagnava, infatti, e con essa conviveva una molteplicità di esperienze normative espresse dalle istituzioni territoriali antiche e nuove (iura propria) tutte inevitabilmente soggette a itinerari evolutivi. Occorre fare un passo indietro e ritornare a quel secolo XI che costituì terreno fertile per la rinascita del continente europeo dalla critica temperie altomedievale. Negli stessi decenni in cui la Chiesa imboccava la strada della Riforma e si palesavano suggestive testimonianze di utilizzazione pratica – vale a dire di conoscenza, se non ancora di riflessione scientifica – delle leggi di Giustiniano da gran tempo disertate o al massimo volgarizzate, l’intera società occidentale entrò in una fase di profondi mutamenti che coinvolsero i suoi assetti economici, politico-istituzionali e giuridici. Alla crescita demografica si accompagnò un generale incremento della produzione agraria (a entrambi i fenomeni contribuì l’estinguersi delle incursioni e conseguenti razzie da parte di popolazioni ‘barbariche’). L’aumento dei prodotti di scambio che ne derivò favorì lo sviluppo di intensi commerci anche di lunga distanza all’interno e fra le regioni d’Europa e con l’Oriente mediterraneo: entrambi i fattori contribuirono al recupero della dimensione di vita cittadina. Quasi contemporaneamente, fra la fine dell’XI secolo e la prima metà del XII, prendevano forma alcune precoci strutture regnicole: il Regno di Sicilia (che unì le sorti dell’Italia meridionale a quelle dell’isola), il Regno di Francia, il Regno d’Inghilterra (su cui non ci soffermeremo), il Regno di Germania. Affrontiamo in primis il manifestarsi della rinascita dei contesti urbani, che come fenomeno sociale coinvolse l’intera nostra penisola dove le città di fondazione romana, benché ridotte nella superficie abitata e prive di un ruolo politico, non erano mai completamente scomparse nei secoli dell’Alto Medioevo. Ancora una volta le modalità delle ‘rinascite’ come delle ‘nascite’ furono varie e riconducibili ora a circostanze storicamente radicate (città sedi vescovili, spesso isolate in un territorio controllato da poteri feudali), ora ai nuovi percorsi dei commerci di terra e di mare (Venezia, Amalfi, poi Genova e Pisa), ora allo stabilizzarsi di centri di mercato nazionale e internazionale. Nell’Italia settentrionale – il Regnum Italiae di titolarità germanica che costituiva la gemma più preziosa del Sacro Romano Impero – lo sviluppo delle istituzioni cittadine fu precoce: tra la fine dell’XI secolo e i primi decenni del successivo molti centri raggiunsero la piena capacità di governo attraverso la nomina di consoli, responsabili dell’ordine interno, dell’amministrazione della giustizia, della difesa militare. Ogni città giunse attraverso vicende diverse all’istituzione del ‘comune’ che possiamo definire come una modalità di organizzazione

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politica della città. Modalità incardinata nel patto giurato – iuramentum Communis – stretto fra le classi di potere politico ed economico aspiranti a reggere le sorti delle singole realtà urbane. A Genova, ad esempio, dopo un periodo di contrasti tra la cittadinanza e il vescovo (di fatto signore della città dalla metà dell’XI secolo) si giunse nel 1099 a stipulare un’associazione volontaria giurata di tutti gli abitanti (Compagna Communis) con l’elezione di consoli e la rinuncia da parte del vescovo all’esercizio della giurisdizione temporale. A Milano il comune dei consoli – individuati dai tre ceti dei capitanei (feudatari maggiori), dei valvassori (feudatari minori) e dei cives (artigiani e mercanti) – cominciò a operare regolarmente dal 1130, ma era nato circa trent’anni prima. A Bologna l’atto di nascita del Comune, di segno aristocratico, si fa risalire alla concessione alla città nel 1116 di alcune funzioni giurisdizionali da parte dell’Imperatore Enrico V (placito di Governolo). A Venezia i poteri del dux altomedievale furono progressivamente limitati nel corso del 1100 ponendogli accanto alcuni giudici, istituendo un Consiglio dei Savi e numerose altre magistrature, tutti retti da meticolose procedure di nomina, competenza, funzionamento. A Firenze il comune nacque intorno agli anni 1125-1138 con l’istituzione dei consoli, di un consiglio di boni homines e di una magistratura di provisores che esaminava i reclami della cittadinanza. Dall’Italia il modello del ‘consolato’ si trasmise alle città francesi della Provenza e della Linguadoca, che erano in più stretti rapporti commerciali con il nostro Settentrione, fino a essere nel corso del Duecento adottato da un numero crescente di realtà della Germania e delle Fiandre, imponendosi come prevalente in Europa. Agli evidenziati denominatori della fioritura comunale nel Regnum Italiae – e cioè: 1) il patto giurato fra le componenti sociali di potere politico (vescovo, grande e piccola feudalità ‘inurbata’) ed economico (mercanti e artigiani, a loro volta strutturati in società giurate dette corporazioni) al fine di conseguire la titolarità delle funzioni di governo sulla città mediante; 2) la delega a un collegio di consoli dell’esercizio delle suddette funzioni – si accompagnò per circa un trentennio il confronto/scontro con l’Impero. L’indipendenza e l’autonomia di cui le città centro-settentrionali godevano largamente già intorno alla metà del 1100 si sostanziavano nella gestione della giustizia civile e criminale, nell’espressione di attività assimilabili a quella legislativa, nella leva militare, nella riscossione dei tributi. Prerogative complessivamente rientranti nella giurisdizione dell’imperatore e caratterizzanti il suo imperium, che i nostri Comuni avevano di fatto usurpato approfittando della latitanza dell’autorità imperiale nel Regno. Quando Federico I Barbarossa, imperatore e re d’Italia dal 1152, cercò di ricondurre le città italiane entro la sua orbita giuridica, alla quale esse appartenevano in linea di diritto, incontrò resistenze fortissime. La costituzione De regalibus («Sulle regalie»), emanata nel 1158 da Federico durante il lungo soggiorno italiano nella piana di Roncaglia (prossima a

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Reggio Emilia), conteneva un dettagliato censimento dei diritti imperiali sulle persone, le città, il territorio: alla sua redazione offrirono con buona probabilità un prezioso apporto di tecnica competenza giuridica i ‘Quattro Dottori’ (Iacopo, Ugo, Martino, Bulgaro), allievi di Irnerio. La tradizione aneddotica dello Studio di Bologna narra che essi vennero gratificati dall’imperatore mediante la concessione, nel medesimo contesto di Roncaglia, della costituzione Habita, che, com’è noto, garantiva agli studenti delle scuole felsinee e ai loro dottori stabilità e prosperità.

b) il ruolo dei notai I giuristi di formazione scolastica, detentori esclusivi di una sapientia iuris di universale valenza e latitudine, furono del resto fra i protagonisti della stagione fondativa dell’istituzione comunale e delle sue evoluzioni. Sotto questo profilo non può essere taciuto il contributo del notariato alla legittimazione delle nascenti nuove aggregazioni. Formati in apposite scuole ‘professionali’ che continuarono fino alla metà del Trecento a gravitare nell’orbita delle arti liberali, i notai si tramandavano di padre in figlio per generazioni la facoltà di rendere ‘pubblici’ – vale a dire efficaci e opponibili a terzi – i documenti da essi rogati (instrumenta). Tale facoltà discendeva dalla concessione di un privilegio da parte dell’imperatore o di un grande feudatario e si materializzava nel possesso del sigillo recante il ‘logo’ dell’autorità concedente. La giustapposizione del sigillo alla firma del notaio aveva la forza di ‘pubblicare’ l’accordo – di natura privata come pubblica – stretto fra le parti e confortato da testimoni: attraverso questa stessa procedura e avvalendosi pertanto di uno ius regale appartenente all’imperatore, vennero stese, siglate e pubblicate le dichiarazioni giurate costitutive degli organismi comunali, sorti in contrapposizione all’Impero ma che da esso necessitavano di essere legittimati.

c) il diritto dei Comuni La resistenza, massime dei comuni lombardi, alla dismissione delle facoltà di autogoverno e di autonomia da tempo fattualmente esercitate provocò l’esemplare assedio e la distruzione di Milano nel 1162 da parte del Barbarossa, cui seguì nel 1167 – con un inarrestabile effetto domino – la costituzione anch’essa giurata della Lega Lombarda, alla quale aderirono fra gli altri i Comuni di Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Bologna, Mantova, Cremona. Mentre l’imperatore garantiva alcune città a lui fedeli con privilegi che ne riconoscevano l’autonomia giurisdizionale – così fu per Pisa e per Genova −, maturava la sconfitta imperiale nella battaglia di Legnano del 1176. Il trattato della Pace di Costanza del 1183 riconobbe ai comuni italiani il legittimo esercizio di gran parte delle facoltà giurisdizionali da essi esercitate sin

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dall’inizio dello stesso secolo XII, oltre alla validità delle normative espresse: in seguito a tale concessione essi entrarono con pieno diritto nell’organigramma dell’Impero al pari delle realtà feudali 25. I comuni stabilirono precocemente che la carica consolare dovesse essere di temporanea nonché breve durata, di regola un anno. Il numero dei componenti il collegio consolare fu vario da città a città e diversificata la loro estrazione sociale: accanto a esponenti della nobiltà cittadina, figurano agiati proprietari fondiari non nobili, mercanti, artigiani, giudici, notai. Essi erano gli organi di governo espressi dal giuramento politico all’origine del comune dall’assemblea dei cives (concio, parlamento, arengo) – da cui erano esclusi i soggetti privi di reddito. A quest’assemblea quasi ovunque venne sovrapposto un collegio ristretto (consiglio di credenza, minore, dei savi) che direttamente consigliava e affiancava i consoli. Se lo ‘statuto’ politico dei comuni italiani attuò un principio di rappresentatività tendenzialmente oligarchico, esso costituì peraltro un’originale creazione del Medioevo, democratica nella misura in cui allargò la partecipazione al patto politico a classi sociali di recente emergenza fino ad allora escluse dalla gestione del potere. In analoga accezione deve essere intesa la mitologia della libertà comunale, che, lungi dal renderli liberi, fece peraltro dei cives i soggetti di un diritto ‘cittadino’ vigente senza distinzione di status. Il diritto di quanti vivono all’interno delle mura della civitas costituisce la forma più nota e diffusa dei diritti territoriali/particolari del Medioevo (iura propria): in esso convivono il filone consuetudinario – già consolidato nella sua tradizione orale dall’inizio del XII secolo − e il filone legislativo. È quest’ultimo a rappresentare l’espressione tipica dell’autonomia comunale celebrata fra le altre dalla Pace di Costanza. Il complesso delle regole vigenti all’interno delle singole realtà urbane (presto allargate sino a comprendere il circostante contado sottratto al controllo feudale), nasce dalla giustapposizione di fenomeni normativi eterogenei, che, generalizzando, sono individuabili: 1) nel testo dei patti giurati (brevia) stretti fra le magistrature di governo e i cittadini; 2) nelle consuetudini locali stabilizzate dal tempo e dall’uso; 3) dalle singole deliberazioni dei consigli cittadini, gli statuta in senso stretto. Gli statuti cittadini, redatti dalla fine del XII secolo da apposite commissioni di statutarii – in larga parte dottori di leggi −, fondono in un ‘libro’ i filoni diversi delle norme vigenti in città, strutturandole ratione materiae a imitazione di quelle giustinianee. Gli ambiti di intervento privilegiano il diritto criminale e la corrispondente procedura, imbrigliando la vita dei cives in un reticolo di precetti e di sanzioni tendenti a garantire la quiete pubblica e la pacificazione sociale. Obiettivi entrambi ancorati alle ragioni e al divenire della politica, mutevoli, 25 Il trattato di Pace di Costanza, corredato delle glosse di Odofredo entrò nel corso del Duecento, nel corpo dei libri legali, a segnare il suo ruolo di fondamentale ‘carta dei diritti’ nei rapporti fra Impero e comunità.

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dunque, come mutevoli furono gli statuti cittadini nel corso dei secoli XIII e XIV che videro la loro massima espansione.

d) il Regno di Sicilia, dai Normanni all’imperatore Federico II La cesura fra la parte centro-settentrionale della nostra penisola e il suo meridione seguì, come è noto, alle vicende dell’insediamento dal 568 della popolazione longobarda, che dalle Alpi fino al confine con l’Esarcato si costituì nel Regnum Langobardorum gravitante intorno a Pavia. Al sud i Longobardi guadagnarono sulla dorsale dell’Appennino campano i soli avamposti dei Ducati di Salerno e di Benevento, lasciando le coste tirreniche e ioniche sotto il blando ma ancora incontestabile presidio dei Bizantini, mentre la Sicilia soggiaceva dal X secolo al dominio islamico degli arabi. Uno iato profondo che destinò il Mezzogiorno a una precoce esperienza di monarchia ‘europea’, segnandone una storia diversa − con quanta fatica ricomposta – rispetto al resto del Paese. Nell’arco della prima metà dell’XI secolo, un gruppo di guerrieri normanni provenienti dal settentrione della Francia e guidati dal nobile clan degli Altavilla ebbe ragione delle deboli resistenze dei presidi bizantini e di quelle più tenaci dei due Ducati longobardi, insediandosi saldamente nelle regioni peninsulari del meridione e progressivamente cacciando gli Arabi dalla Sicilia. Già nel 1059 il condottiero Roberto il Guiscardo ottenne da Papa Niccolò II il titolo di duca della Puglia e della Calabria, mentre nel 1130 Ruggero II veniva incoronato a Palermo re di Sicilia da un legato papale, con un solenne cerimoniale che nella simbolica coreografia rieditava l’incoronazione di Carlo Magno e si riallacciava alle liturgie imperiali di età giustinianea. La legittimazione del pontefice fu indispensabile a Ruggero e ai suoi successori per fregiarsi di un titolo giuridicamente incontestabile da parte degli altri signori del dominio normanno. La dipendenza feudale dalla Chiesa di Roma rimase un tratto caratterizzante del Regnum anche nei successivi secoli bassomedievali e di età moderna: i re di Sicilia finirono per ottenere una stabile ‘legazia apostolica’ cui si accompagnavano ampie facoltà di ingerenza sulla scelta del clero regnicolo e sull’organizzazione del culto. Il Regno di Sicilia si segnala sin dalla stagione normanna per la precocità e la coerenza delle sue strutture amministrative e giudiziarie che trovarono pronto disciplinamento. Nel 1140 Ruggero II rivendicò l’esercizio del potere legislativo emanando davanti a un’assemblea di grandi feudatari laici ed ecclesiastici e ai rappresentanti delle comunità cittadine tenutasi ad Ariano di Puglia una serie di norme generali destinate all’intero territorio del Regno, generalmente note come Assise. Al breve ‘codice’ – poco più di un centinaio di capitoli che fondevano strumentalmente e sistematicamente consuetudini del popolo normanno con principi estrapolati dal diritto romano-giustinianeo – si sovrappose un secolo più tardi, nel 1231, il Liber Constitutionum o Liber Augustalis promulgato a Melfi per volontà di Federico II († 1250). Lo Svevo, erede per parte di madre (Costanza di Altavilla,

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figlia di Ruggero II) della corona di Re di Sicilia e per parte di padre (Enrico VI) di quella imperiale, portò a compimento l’impresa dei suoi ascendenti facendo del Regnum Siciliae l’antesignano delle monarchie territoriali europee. Punti di forza di entrambe queste normative regie furono l’organizzazione degli apparati governativi e burocratici, l’accurata gestione dell’imposizione fiscale, la stabilizzazione dell’amministrazione della giustizia e, per quanto qui più interessa, il disciplinamento dei rapporti con le comunità cittadine suddite. Il Regno ospitava, infatti, città di antica storia e fortune economiche assai superiori a quelle delle realtà settentrionali. Basti ricordare sulle coste adriatiche Bari, Trani, Otranto; su quelle tirreniche Napoli, Amalfi, Salerno; in Sicilia Palermo, Messina, Catania, Siracusa. Tutte, peraltro, ebbero tarpata la loro evoluzione verso formule di autogoverno e di autonomia che avrebbero potuto essere assimilabili al coevo fenomeno comunale nel Regnum Italiae, dall’insediamento dei Normanni e dal costituirsi di un contesto monarchico fortemente accentrato, articolato e presente nel territorio. Una larga maggioranza delle città rivendicò nei confronti dei regnanti il diritto di reggersi secondo le proprie antiche consuetudini, ma gli esiti di tali istanze vissero fasi alterne e subirono battute di arresto. Il modello più diffuso fu quello dell’esplicitazione di patti giurati fra una o più comunità e la monarchia. Patti formalizzati per mano notarile in ‘carte di resa’ che dettagliavano i limiti delle concessioni e delle deleghe ottenute: fu questa la dinamica dei rapporti di molte, floride città della Puglia e della Sicilia con Ruggero II. Una tendenza che subì, peraltro, una forte contrazione quando dal 1220 Federico II cominciò a esercitare i suoi poteri nella direzione di un forte contenimento delle autonomie locali: la costituzione Puritatem presente nel Liber Augustalis stabilì che i giudici nell’esercizio delle loro funzioni potessero fare ricorso alle consuetudini cittadine a condizione che esse fossero ritenute giuste e ammissibili (bonae et approbatae) in quanto sottostanti e compatibili con la normativa regia espressa dal medesimo Liber. Alla politica centripeta dello Svevo nel Regnum Siciliae si accompagnò l’ambizioso, ma velleitario tentativo di rivedere gli accordi siglati nel 1183 da Federico I Barbarossa con le città del Regnum Italiae nel trattato della Pace di Costanza. Il timore di vedere intaccato l’ampio margine di autonomia consolidato da circa un settantennio indusse un folto gruppo di comuni del centro-settentrione della penisola a riorganizzarsi militarmente in una seconda Lega Lombarda (1226), che godette dell’appoggio esplicito dei Pontefici Onorio III e Gregorio IX. Appartengono a questa stagione di rinfocolato scontro fra comuni e Impero: a) l’evoluzione delle strutture di vertice dei comuni cittadini dalla magistratura collegiale dei consoli a quella podestarile, monocratica. Il podestà, individuato dalle rappresentanze politiche al potere, era un funzionario straniero (vale a dire non cittadino), spesso di nobile progenie, con assodate competenze militari e amministrative. I nuovi magistrati costituivano certamente una alternativa

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di maggiore efficacia decisionale e operativa rispetto al regime dei consules, mentre gli eventuali rischi di derive tiranniche erano attenuati dalla breve durata del loro mandato – non più di un anno, non prorogabile – e dai severi controlli che il comune esercitava ex post sulla gestione della cosa pubblica (il cosiddetto sindacato); b) la fondazione nel 1224 a opera dello stesso Federico II dello Studio di Napoli, la prima Universitas Studiorum pubblica. L’iniziativa si colloca nell’ambito della conflittuale dialettica creatasi fra l’imperatore e il comune di Bologna, uno dei promotori della seconda Lega Lombarda. La città felsinea venne colpita attraverso il suo Studium, che fra il 1224 e il 1226 incorse in un duplice bando fulminato dall’imperatore, che contestualmente proibì agli studenti regnicoli di frequentarne i corsi. Lo Studio di Napoli, nato per contendere a Bologna il primato della formazione in legibus ne riprodusse peraltro i modelli didattici e scientifici, adottando il canone esegetico dei glossatori e un percorso di studio improntato sullo ius commune. Alla mediazione nei confronti delle autonomie locali, pur se con varie aperture che videro il proliferare di raccolte scritte di consuetudini cittadine munite di regio placet, si attennero per i secoli successivi anche le dinastie regnanti degli Angioini e degli Aragonesi e – soprattutto e più in generale – vi si attennero le altre due corone dell’Impero, quella di Germania e quella di Francia.

e) l’Impero e il Regno di Germania Sin dall’incoronazione di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero aveva riunito sotto l’egida del Regno di Germania una pluralità di frazionati territori che andavano dall’Austria al Tirolo e alla Baviera, dalla Sassonia alla Boemia e alla Moravia, alla Polonia, alla Prussia orientale fino alla Danimarca. Venuto meno il principio carolingio della successione ereditaria al trono, diversamente dal resto d’Europa in Germania si affermò il principio elettivo. Un gruppo ristretto di elettori – titolari di grandi dinastie feudali e territoriali − sceglieva il successore al trono, dapprima sulla base della designazione compiuta dal re medesimo fra i propri discendenti (più tardi – dal 1438 – all’interno della sola stirpe regia degli Asburgo). Gli ‘elettori’ vennero stabilmente individuati dal secolo XIII in tre principi ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, di Treviri, di Colonia) e quattro laici (il conte palatino del Reno, il duca di Sassonia, il margravio di Brandeburgo, il re di Boemia). L’elezione al trono di Germania comportava anche il diritto alla corona di re d’Italia. Era infine al re di Germania che spettava la corona imperiale, con le conseguenze di diritto pubblico che al supremo titolo si collegavano. Anche nel Regno di Germania erano presenti città di florida fortuna economica e di sviluppata organizzazione civile: esse vivevano secondo le loro antiche consuetudini e dall’inizio del XII secolo furono gestite da organismi municipali.

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Gran peso vi ebbero le associazioni delle categorie di arti e di mestieri, simili nella struttura giurata alle corporazioni dell’Italia centro-settentrionale ma assai più influenti e caratterizzanti in senso ‘borghese’ la dimensione cittadina nord-europea. Come nel Regnum Siciliae, peraltro, le normative consuetudinarie locali necessitarono di un riconoscimento di validità da parte del re ed imperatore o del signore feudale o territoriale alla cui giurisdizione appartenevano e da cui mutuavano la legittimità delle funzioni esercitate. In tal modo, Federico I Barbarossa mentre contestava la autonomia dei comuni italici, concedeva nel 1156 un ‘privilegio di riconoscimento’ ad Augusta, nel 1186 a Brema, nel 1188 a Lubecca. Se la pratica dell’elezione regia e dell’incoronazione imperiale, formalizzate nelle procedure dalla celebre Bolla d’Oro del 1356, faceva del Regno di Germania una monarchia fortemente controllata dalle signorie feudali e territoriali laiche ed ecclesiastiche, nonché debitrice sul piano economico del sostegno della borghesia cittadina mercantile e artigiana, ancora diverso fu il percorso intrapreso dalla terza corona dell’Impero, quella di Francia.

f) il Regno di Francia La dinastia carolingia, sfaldatasi fra i discendenti di Carlo Magno, aveva lasciato in eredità ai successori capetingi – nel 987 Ugo Capeto venne elevato al trono per volontà dei grandi del Regno – un’area di controllo giurisdizionale assai contratta, che sul piano territoriale era limitata alle regioni settentrionali di Parigi, Senlis, Orlèans. La superiore dignità regia era nei fatti compressa da forti poteri territoriali di retaggio feudale – ducali e comitali – politicamente organizzati, giuridicamente caratterizzati da proprie consuetudini, competitivi per dimensioni con la monarchia: tali erano la Normandia, l’Aquitania, la Borgogna, le Fiandre e altri. Il processo attraverso il quale il potere regio riuscì a irrobustirsi e ad accrescersi sino a eguagliare in estensione, alla fine del medioevo, le dimensioni della odierna nazione, seguì gli itinerari della diplomazia, delle alleanze matrimoniali, delle guerre. Fra gli strumenti di cui la monarchia si avvalse per perseguire il proprio obiettivo, particolarmente efficace fu il rigido disciplinamento del diritto di successione al trono sulla base del principio ereditario della primogenitura maschile, tipico ab origine della feudalità franca. Per più di tre secoli, fino alla prima metà del Trecento, non mancarono mai discendenti in linea diretta che alla morte del padre salirono sul trono senza ostacoli, sviluppando nel contempo una faticosa politica di contenimento delle aspirazioni centrifughe costantemente riproposte dalle grandi signorie territoriali presenti nel Regno. La sovranità dei re di Francia aspirò con successo ad affermarsi non solo verso le sottostanti gerarchie feudali, ma anche verso i due sommi poteri universali dell’Impero e della Chiesa. Di chiara ispirazione anti-imperiale fu la richiesta rivolta dal re di Francia al pontefice di vietare l’insegnamento del diritto romanogiustinianeo presso lo Studio teologico e filosofico di Parigi. Tale divieto, forma-

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lizzato nella decretale Super Specula emanata nel 1219 dal pontefice Onorio III, se concretamente mirava a salvaguardare i giovani chierici dalle suggestioni di una formazione in civilibus che avrebbe potuto allontanarli dalla vocazione spingendoli verso lucrose carriere nelle professioni secolari, idealmente contrastava e contestava la vigenza nel Regno di Francia del complesso normativo di un Impero che si professava erede di Giustiniano. Del resto, già il Papa Innocenzo III nel 1202 aveva espresso, come fatto noto e accettato, il principio dell’assolutezza del re di Francia, il quale «negli affari temporali non riconosce alcun superiore»; un principio ribadito e argomentato nel 1255 dal giurista di formazione bolognese Jean de Blanot attraverso la formula «Rex Franciae in temporalibus superiorem non recognoscit». La monarchia francese, con forti aspirazioni assolutistiche che si reggevano sul coinvolgimento nell’esercizio del potere della grande aristocrazia feudale, sviluppò a sua volta rapporti con le istituzioni civili del territorio e con le loro espressioni normative. Il Regno, sul piano delle giurisdizioni locali, era diviso nelle due macro-aree dei paesi di diritto consuetudinario (pays de droit coutumier) e dei paesi di diritto scritto (pays de droit ecrit), rispettivamente a settentrione e a meridione rispetto a Parigi. Nei primi, di prevalente modello giuridico innervato sulle consuetudini germaniche, il complesso del diritto romano-giustinianeo non era legge ‘vigente’ come diritto positivo, ma bensì come ratio scripta, insieme di ragionevoli princìpi ai quali i giudici potevano – ma non dovevano – conformare le proprie decisioni. Nelle regioni meridionali ‘di diritto scritto’, influenzate invece dall’esperienza del vicino Regnum Italiae, il medesimo complesso normativo era legge scritta, che in quanto diritto positivo rientrava obbligatoriamente nella rosa delle fonti da applicare in sede giudiziaria. Nelle due parti della Francia si svilupparono pertanto esperienze non omogenee: la consuetudine giocò un ruolo fondamentale nei pays de droit coutumier e uno ben più ridotto in quelli di droit ecrit. Nelle regioni settentrionali il diritto cittadino ebbe espressioni diverse, con prevalenza della redazione scritta delle consuetudini (coutumes) e di privilegi e di norme patteggiati con l’autorità superiore di riferimento (chartes de franchises), il re nelle regioni appartenenti alla corona (demanio). Nei vastissimi territori sottomessi a signorie – feudali e non – l’iniziativa di singoli provvedimenti contingenti alle esigenze di disciplinamento degli abitanti partirono dal vertice: è il caso del duca di Borgogna, di quello di Bretagna e di grandi signori ecclesiastici come gli abati di Sainte-Geneviève o il vescovo di Metz (le cui regole erano chiamate atours). Le coutumes, le chartes de franchises, i privilegi, gli atours furono spesso inglobati o fusi entro le grandi coutumes regionali o pluriregionali, attraverso un processo di ‘regionalizzazione’ che estendeva a intere aree geografiche consuetudini nate da uno specifico contesto. Nel meridione del Regno l’attività normativa delle città fu molto intensa e i relativi risultati assai simili agli statuti dei comuni dell’Italia settentrionale, con i quali esse condividevano – come si è detto – anche l’esperienza della magistratura consolare. Spiccano Montpellier, Avignone con gli Statuta proborum viro-

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rum del 1243, Tolosa con le sue Consuetudini confermate nel 1283 da Filippo III e Lione con le Libertates del 1320.

8. La dialettica delle fonti nell’esperienza del diritto comune: convivenza e covigenza Nel corso dei secoli XI-XIII l’intera Europa appare percorsa da una fitta trama di diritti particolari, di una città o di un territorio signorile, di un regno, di un’intera popolazione come di singole fasce di essa (diritti soggettivi, di status, di casta). Questo apparente ‘disordine’ normativo, prodotto fisiologico della debolezza politica e di conseguenza ‘legislativa’ della suprema potestà imperiale e dell’auctoritas sacrata Pontificum per le materie che rientravano nella giurisdizione spirituale e secolare della Chiesa, venne peraltro razionalizzato in virtù e attraverso una dinamica combinazione con i due corpi universali Iuris Civilis e Iuris Canonici. Muoviamo da un dato di fatto: nel Medioevo europeo nessuna terra – di regime feudale, comunale, signorile, regnicolo – era acephala, vale a dire priva di un legame diretto (feudi, comuni, città) o indiretto (è il caso del Regno di Francia) con i due poteri universali dell’Impero e della Chiesa. Da essi le istituzioni territoriali sottostanti derivavano la legittimazione di ogni funzione giurisdizionale, fosse stata tale giurisdizione ottenuta attraverso concessioni, mediazioni, accordi o strappata con cruente contrapposizioni. Ne conseguiva la vigenza all’interno di ogni singola istituzione territoriale dei due iura communia: il civile, che si sostanziava nel complesso giustinianeo rivitalizzato e costantemente aggiornato mediante l’interpretazione ‘letterale’ espressa dalla scienza giuridica dei glossatori, e il canonico, sistematizzato e anch’esso divulgato dalla decretistica e dalla decretalistica a partire dal Decretum di Graziano. Le elastiche modalità della contemporanea vigenza degli ordinamenti giuridici particolari – iura propria – e di quelli universali – iura communia – sono state magistralmente analizzate nel secolo scorso da Francesco Calasso ed emblematizzate nella fortunata formula «sistema del diritto comune», un sistema applicabile e replicabile per tutti gli ordinamenti giuridici particolari viventi nella sfera diretta o indiretta degli ordinamenti universali. La più recente storiografia ha giustamente distinto due diversi piani di operatività del «sistema»: 1) La prima e più immediata percezione del rapporto particolare/universale riconduce ai ruoli rispettivamente giocati da iura propria e da ius commune in un ideale abbinamento delle fonti vigenti all’interno di ogni singolo ordinamento giuridico. Evitando le suggestioni deterministiche che hanno indotto a rappresentare tale rapporto nei termini rigidi di ‘gerarchia’ o anche solo di ‘graduazione’ delle fonti del diritto – entrambi appartenenti solo all’odierna esperienza della codificazione –, l’analisi dei testi normativi scaturiti dalla complessa tem-

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perie politica del XIII secolo dimostra l’esistenza di diversi modelli di eterointegrazione fra i due ordini di fonti, che smentiscono ogni meccanicità. Prevalente nelle redazioni statutarie dell’Italia comunale, ad esempio, è la previsione che, nella decisione del caso di specie, il giudice ricerchi la norma corrispondente nel medesimo statuto e qualora essa manchi, nelle consuetudini della città, per approdare infine al ricchissimo serbatoio di sapienza giuridica sistematizzato nel diritto comune civile o, ratione materiae, canonico. Non mancano peraltro varianti legate a scelte contingenti o modellate dalla politica e dalle specifiche caratteristiche di singole realtà. Da un trattato dedicato alla formazione tecnica e deontologica degli avvocati, composto intorno al 1240 da Uberto da Bobbio († 1245) 26, acclamato dottore di leggi sulle cattedre di Bologna, Vercelli, Modena e Parma, emerge un concretissimo spaccato: sulla disciplina delle condictiones – azioni finalizzate al recupero di crediti di certa pecunia o di certa res − insistono norme diverse. La scansione ubertina non può che rispecchiare un criterio ordinatorio: precede la lex imperialis et civilis, segue la lex municipalis (statuto), quindi i mores non scripta (consuetudini), infine il ius canonicum et divinum. Diverse declinazioni della medesima esigenza ordinatoria si ravvisano nella giurisdizione della Repubblica di Venezia, che nel corso del XIII secolo formalizzò nei suoi statuti l’esclusione del diritto comune dalle normative vigenti entro i suoi confini, affidando all’equità e al ‘buon arbitrio’ del giudice il ruolo di fonte sussidiaria e residuale rispetto a quelle territoriali. Una scelta dettata dalla volontà politica di garantire la Serenissima da ogni formale ingerenza di un diritto che discendeva dall’Impero, rispetto al quale si pretendeva una completa absolutio (mancanza di soggezione politica e giuridica). Una dimensione, questa veneziana, assai vicina alla realtà dei francesi pays de droit coutumier, nei quali – come poc’anzi precisato – il complesso romano-giustinianeo valeva (ma non ‘vigeva’) imperio rationis, come imprescindibile serbatoio di modelli giuridici. Nel Regnum Siciliae per volontà di Federico II i camerarii e i baiuli, vale a dire i giudici, erano tenuti ad applicare, nell’ordine, la legge regia (dopo le Assisae normanne consolidata nel Liber Constitutionum dello stesso Federico), le consuetudini cittadine approbatae, infine il ius commune. Ordinamento sussidiario che, nel caso di specie e secondo la più accreditata storiografia, al diritto giustinianeo affiancava il longobardo per secoli vigente e in seguito profondamente radicato nei ducati di Salerno e di Benevento 27. Nella replicabilità e nella varietà di siffatte ‘alchimie’ è peraltro possibile individuare una linea di tendenza evolutiva. Nel Duecento, definito dalla storiografia il secolo del «diritto comune classico», la giurisdizione degli iura propria, 26

N. Sarti e S. Bordini, L’avvocato medievale tra mestiere e scienza giuridica. Il Liber cautele et doctrine di Uberto da Bobbio (...1211-1245), il Mulino, Bologna 2011 (Storia dell’Avvocatura in Italia). 27 V. supra, § 7d.

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in altre parole la loro capacità di intervento e di incidenza, era di massima circoscritta alla materia ‘pubblicistica’, comprendente sia l’organizzazione e le modalità elettive delle magistrature locali sia il versante del diritto criminale, attraverso il quale ogni regime si assicurava il rispetto dei propri obiettivi di pacificazione sociale e di governo. Un ambito, dunque, di intervento assai ristretto, dal quale esulavano il diritto delle persone, la materia successoria, le situazioni proprietarie e gli altri diritti reali, le obbligazioni e i contratti. In una parola, lo sterminato e vischiosissimo terreno del diritto civile, nel quale gli ordinamenti particolari non si addentravano se non per garantire alcune ‘varianti’ locali rispetto all’ineguagliabile disciplina che tutta la materia trovava nel Corpus Iuris Civilis, ovunque vigente o almeno influente. Siffatto originario sbilanciamento fra la giurisdizione – limitata – dei diritti particolari e quella – assai ampia − del diritto comune fu destinato a progressive modificazioni, mano a mano che nel trascorrere dei secoli gli interventi ‘legislativi’ delle istituzione politiche del territorio allargarono il loro raggio d’azione ai rapporti di diritto privato, riducendo progressivamente lo spazio di intervento in via sussidiaria e suppletiva degli iura communia. Come ha scritto Paolo Grossi, «Non vi sono giuridicità di grado inferiore e superiore, non vi è un ordinamento più valido: il diritto universale, celebrato nei secoli, il diritto scientifico, può cedere di fronte alla piccola emersione locale. Non è una gerarchia delle fonti, è invece un gioco di rapporti fra ordinamenti che, convivendo e covigendo, si comprimono nella relatività della vita giuridica» 28. Statuti comunali, consuetudini locali, diritto longobardo, diritto feudale si affermano dentro «il grande respiro del diritto comune» (Grossi) ognuno con una sua specifica giurisdizione, che presuppone il rispetto delle altre ed esclude pretese di espansionismi. A garanzia della effettività di questo ordine giuridico – sempre diverso nella molteplicità delle combinazioni fra i mutevoli iura propria e l’immutabile ius commune, ma sempre uguale nelle sue dinamiche – l’interpretazione della giurisprudenza dei glossatori contribuisce fornendo un indispensabile tessuto connettivo tra i fatti e il diritto, o meglio i diritti. 2) È al di fuori della covigenza, della dialettica ‘graduazione’ o combinazione delle fonti che il diritto comune giocò tuttavia la sua partita decisiva, quella destinata a segnare in profondità la fisionomia, il DNA del tessuto giuridico europeo. Muoviamo dal presupposto che gli iura propria e il ius commune non possono e non devono essere intesi solo come due complessi di diritti positivi. Vi è molto di più e di più importante. Il redattore che fissa sulla carta una fluida consuetudine locale, lo statutario (spesso un dottore di leggi) che dà espressione scritta alla volontà di un’assemblea cittadina, il ‘ministro’/giurista di corte che sovrintende alla stesure di norme regie o principesche, ricorrono tutti alla ‘uni-

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P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 233.

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versale’ lingua latina e, sub specie iuris, ricorrono allo sterminato ed esaustivo vocabolario dei giuristi romani. Il legum doctor duecentesco è in possesso di una profonda conoscenza del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano e di quello Iuris Canonici per la materia di competenza, che testimoniano e trasmettono i termini tecnici della lingua giuridica. Una conoscenza che ha acquisito presso lo Studium felsineo o i suoi – per ora – pochi emuli (Modena, Padova, Arezzo, Vercelli). Se il professionista del diritto – di cattedra come di foro – parla, scrive, dispone in sede giudiziaria in merito a una tutela, a una donazione, a un mutuo, presuppone che le figure giuridiche evocate dai termini utilizzati abbiano il significato e i contenuti fissati dalle leggi di Giustiniano e sviluppati dalla interpretazione dei glossatori: sia che vi aderisca sia che voglia discostarsene. Analogamente, il notaio che certifichi la volontà dei privati stendendo un testamento o le condizioni di una vendita e le ‘pubblichi’ – cioè le renda opponibili a terzi –, usa di necessità il vocabolario del diritto comune e scrive di testamentum o di emptio-venditio, sussumendo tutti i derivati giuridici che tali istituti contengono. Operazione non diversa compie il pratico del diritto, il giudice o l’avvocato chiamato a dare voce alla legge. Se la giurisdizione locale prevede che la norma da applicare al caso di specie debba appartenere al ius proprium – statutario, consuetudinario, longobardo, feudale, signorile, regio −, il giudice o l’avvocato non può prescindere dai significati ‘comuni’ e accettati dei termini tecnici necessariamente contenuti nella norma individuata. Il diritto comune, non ovunque e sempre presente come diritto positivo nella combinazione delle fonti (è il caso della Repubblica di Venezia), costituisce ovunque canone interpretativo universale che circostanzia e disciplina le variae causarum figurae (le figure giuridiche). Se si assume quest’angolo visuale, emergono chiarissimi i molteplici ruoli del giurista nella dinamica e duplice dimensione del diritto comune: come estensore/redattore dei diritti particolari per delega delle istituzioni, come arbitro della giustizia pubblica, come certificatore degli accordi tra privati, come esclusivo interprete delle figure giuridiche appartenenti al patrimonio condiviso degli iura communia. Un giurista uscito dalle sedi universitarie, in primis da Bologna che fece dei libri legales l’oggetto della formazione dei professionisti del diritto, e dalle sue gemmazioni. A Bologna i giovani accorrevano da ogni parte del continente per provvedersi di una professionalità giuridica che non soffriva di alcun confine territoriale perché parlava la lingua idealmente universale del diritto comune.

9. Il trionfo del diritto giurisprudenziale e le radici profonde di un metodo nuovo: a) Accursio e Odofredo: due metodi a confronto L’esegesi dei glossatori, sollecitata in sede scolastica dalla lettura del testo normativo giustinianeo, la ‘lezione’ orale che dalla cattedra schiude agli studenti

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l’intrinseco significato dei verba legis, individua con modalità autoptica all’interno della compilazione argomenti, passi paralleli, risposte che tessono la fitta trama dell’interpretazione. Essa costituisce la prima, imprescindibile chiave di lettura del corpus del diritto civile − e parimenti del canonico, come si è detto – e rimane, ben oltre il trionfo della Glossa Ordinaria di Accursio, interpretazione ‘letterale’. Nel testo rigido e immutabile delle antiche leges i giuristi sussumono – fanno rientrare – le fattispecie, vecchie e nuove, che esso è in grado di contenere sulla base di un processo di specificazione. Un processo che non forza mai la littera, ma ne allarga le maglie «interpretando – come è stato detto e scritto da Manlio Bellomo – il testo con il testo» 29. La prima metà del Duecento vede gli ultimi grandi maestri della scienza della glossa convivere, confrontarsi, a volte scontrarsi sul palcoscenico per tradizione ospitale dello Studio di Bologna. Sono giuristi in massima parte formati nelle scuole felsinee e hanno in comune il culto di un testo legislativo pensato come sacro, intangibile e razionale. Da Pillio da Medicina a Ugolino Presbiteri, da Azzone a Iacopo Balduini († 1235), da Accursio a Odofredo e a Roffredo beneventano († 1243 ca.) – solo per citare i più celebri –, l’identità di genere di un’esegesi che trova principalmente negli apparati di glosse al Corpus Iuris Civilis i veicoli della propria capillare diffusione europea, si colora tuttavia di specificazioni scientifiche, didattiche, professionali. Grazie alle acquisizioni di tali percorsi paralleli e non in contraddizione con il consolidarsi degli Apparati Ordinari di Accursio, la scienza giuridica si prepara ad affrontare, nella seconda metà del secolo, il necessario cambiamento di passo che sposterà gli obiettivi dei suoi indispensabili interventi interpretativi dalla littera alla ratio legis. Il pensiero giuridico del pieno Duecento e le forme in cui esso si è espresso sono stati ricostruiti solo per immagini rapsodiche dalla storiografia giuridica, resa spesso miope dalla fortuna e dalla autorità acquisite dalla Magna Glossa accursiana, sia nei confronti della dottrina di Azzone – di cui pure Accursio era devoto allievo – che rapidamente esce dalla scena, sia nei confronti degli apparati di glosse ancora circolanti nel corso degli anni Trenta del secolo di Ugolino Presbiteri e di Iacopo Balduini, acclamato coetaneo di Accursio dagli originali percorsi di scienza e di vita. Il successo della selezione operata dal legum doctor fiorentino sull’eredità scientifica dei dottori che lo avevano preceduto da almeno quattro generazioni, esce dalla leggenda ed entra a pieno titolo nella storia del pensiero giuridico solo cogliendone la natura di proposta di ‘lettura’ rigorosamente tecnica e stricti iuris del corpus normativo; non l’unica proposta, dunque, ma quella destinata rapidamente a rivelarsi vincente. La dimensione aneddotica restituisce, sotto questo profilo, suggestioni pregne di significato. Una tradizione antica tessuta di realtà e di fantasia narra che

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Il testo per interpretare il testo, in M. Bellomo, Medioevo edito ed inedito, II, Scienza del diritto e società medievale, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1997, p. 35 ss.

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Accursio e Odofredo fossero divisi da una irriducibile rivalità. Entrambi avrebbero progettato di scrivere un’opera di corredo al Corpus Iuris Civilis per acclararne, in modo esaustivo e ultimativo, i contenuti ‘letterali’. Una maggiore celerità nell’esito del cimento premiò tuttavia il fiorentino, cui è imputata peraltro una buona dose di scorrettezza nei confronti del collega avendo fatto circolare la voce di una grave infermità che lo avrebbe rallentato nel lavoro. Al di là della leggenda, le marcate differenze fra la Glossa Ordinaria di Accursio e le Praelectiones (raccolta di lezioni scolastiche) di Odofredo ai monumenti giustinianei indicano una divaricazione di approccio esegetico all’interno delle scuole bolognesi dei glossatori. L’opera del glossatore ordinario è caratterizzata dalla cornice di glosse che ‘inquadrano’ il testo dei libri legali manoscritti a formare una pagina nitida, che guida il fruitore al costante confronto fra il testo e la sua esegesi ‘letterale’. Quella odofrediana si dipana senza soluzione di continuità in una lectura integrata da quaestiones, glossae e aneddoti, presumendo e prescindendo dalla fonte legislativa, di cui riproduce i soli incipit 30. Per contestualizzare il significato scientifico delle lunghe pagine dell’esegesi di Odofredo − a tratti verbosa ma ricca di vivaci e concretissimi squarci sulla vita dello Studio, del foro, della città – occorre ricollegarsi alla fervida tradizione della stagione preazzoniana, quando, con la discussione delle quaestiones ex facto emergentes, si era avviato l’inarrestabile processo di assimilazione dei casi pratici espressi dal quotidiano dibattito giudiziario nel corpo immutabile delle antiche norme. Dal laboratorio di due legum doctores che fuori di Bologna raggiunsero l’apice della carriera escono le più fortunate antologie di questioni di fatto. Le Quaestiones Aureae di Pillio da Medicina nascono a Modena sulla fine degli anni Novanta del XII secolo, le Quaestiones Sabbatinae di Roffredo beneventano ad Arezzo negli anni Settanta del Duecento: entrambe le raccolte offrono per più di un secolo a generazioni di studenti attratti dalle professioni legali una ricca casistica sulla quale saggiare la propria preparazione ed esperienza del diritto. Due dottori, Pillio e Roffredo, che con Ugolino Presbiteri, Iacopo Balduini, Odofredo, Guido da Suzzara († 1293) alternano al tecnicismo e all’essenziale astrattezza del ragionamento giuridico che negli stessi decenni trionfa nelle scuole di Azzone e di Accursio, una spiccata attenzione per la realtà e le sue variabili. Con loro il mondo dei fatti entra nelle scuole e, di conseguenza, nella formazione del giurista. E i fatti appartengono a universi normativi o da ‘normare’ esterni al Corpus Iuris Civilis, ma riconducibili a sistema tramite il canone dell’interpretazione letterale e delle glosse. Essi sono il diritto statutario, il processo civile e criminale, l’ars notaria, il diritto longobardo, sul versante del quale

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L’incipit è costituito dalla prima o dalle prime parole della fonte normativa giustinianea, sufficienti a identificarla.

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Carlo di Tocco († prima metà XIII sec.) elabora un apparato ordinario alla Lombarda di fattura e di metodo squisitamente bolognesi. Un filone dottrinale, una linea che in decenni non ancora lontani Manlio Bellomo ha definito «alternativa» a quella espressa dal modello accursiano destinato a imporsi 31: una alternativa che deve essere interpretata non già in termini di contrapposizione, bensì di diversità e varietà di obiettivi scientifici. Una varietà che aveva caratterizzato le scuole di molti dottori di leggi, precedendo la cosiddetta ‘serrata’ uniformante della Magna Glossa e a essa destinata a sopravvivere nei percorsi pratici e professionalizzanti che caratterizzarono il cinquantennio postaccursiano.

b) il legame con le istituzioni, l’attenzione agli iura propria L’attenzione che le istituzioni politiche e giudiziarie prestarono al mondo scolastico bolognese e, in specie, ai suoi legum doctores aveva radici lontane: sono noti i rapporti di Irnerio con l’Imperatore Enrico V e quelli dei Quattro Dottori con Federico I Barbarossa; nel 1201 Ugolino Gosia, figlio del più celebre Martino allievo diretto di Irnerio, scende definitivamente dalla cattedra perché chiamato come podestà in Ancona, Iacopo Balduini sospende l’insegnamento fra il 1229 e il 1230 per un analogo incarico nella prestigiosa piazza di Genova. Nella sede didattica, peraltro, i giuristi di scuola non partecipano a magistrature o ricoprono ruoli stabili negli apparati di governo: le funzioni pubbliche che essi fattualmente esercitano si estrinsecano in una mirata attività di consulenza. Il professore civilista diviene per i comuni il sapiens – sul modello dei prudentes romani −, cui rivolgersi allorquando siano coinvolti aspetti politici o giuridici della amministrazione locale. Così a Bologna, almeno dal 1183 con il giuramento di Lotario da Cremona, il docente di leges è chiamato a giurare al podestà di prestargli auxilium e adiutorium; dal Duecento per disposizione statutaria i giuristi sono tenuti a presenziare ai consigli cittadini in quanto rappresentanti del collegio dei dottori di diritto civile, per la sua dottrina specialistica onorato e onerato con questo delicato compito e destinato ad affiancare e a superare, nel corso del XIII secolo, le università degli studenti nell’interlocuzione con le magistrature cittadine. Un’analoga partecipazione di prudenza e di cultura giuridica a pubbliche funzioni si esprime attraverso il consilium sapientis iudiciale, modalità consultiva invalsa già nella seconda metà del secolo precedente nei comuni consolari del Regnum Italiae e continuata con il regime podestarile. Entrambe queste forme di governo erano, lo si è detto, espressione di accordi e alleanze fra le rappresentanze di poteri aristocratici, ecclesiastici, economici ai vertici delle città, le magistrature che le caratterizzarono – i consoli come il podestà – scaturivano pertan-

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M. Bellomo, La scienza del diritto al tempo di Federico II, in Rivista internazionale di diritto comune, 3 (1992), p. 173 ss.

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to da scelte politiche e, di norma, i loro titolari non erano necessariamente in possesso della specifica competenza giuridica necessaria, massime nell’amministrazione della giustizia civile e criminale. Nato come consuetudine virtuosa, il consilium richiesto dal giudice al dottore di leggi al fine di circostanziare il dispositivo della sentenza in punto di diritto, venne disciplinato dalle normative statutarie che ne fissarono le modalità – l’invio all’esperto delle carte istruttorie, la restituzione delle medesime corredata del consilium recepito in forma di motivazione della sentenza e reso cogente in ragione della funzione pubblica e dell’autorità del magistrato – e in alcuni casi anche il quantum, la parcella da corrispondere al sapiens. Attraverso questa forma prodromica di ‘giurisdizione delegata’, il prestigio del giurista teorico, quasi titolare di un nuovo ius respondendi, finiva per vincolare almeno di fatto la sostanza delle decisioni giudiziarie, imprimendo a esse il vocabolario e le figurae del diritto comune romano-giustinianeo. Esiti analoghi furono prodotti dall’intervento dei giuristi alle ambascerie e alle missioni diplomatiche. Anche il coinvolgimento in contesti che potremmo definire internazionali fu agevolato dal carattere universale – comune a tutte le istituzioni politiche dell’Europa medievale – della scientia iuris di cui i legum doctores erano esperti e divulgatori e che gradatamente si impose come criterio ordinatore sovranazionale dei rapporti fra diversi ordinamenti giuridici. La filosofia del diritto civile celebrata dai glossatori e divulgata dalla teorica e astratta esegesi letterale filtrata e uniformata negli Apparati Ordinari di Accursio, si propone e si impone dalla metà del Duecento come canone ordinatorio di tutti i rapporti sociali giuridicamente rilevanti. Ciò presuppone una attenzione nuova – parallela ai percorsi dottrinali e teorici – per gli aspetti della vita pratica e quindi per i diritti ‘nuovi’ che colorano la prassi con la loro potente vitalità. Le scuole bolognesi – o almeno alcune di esse – accorciano la distanza che divide la didattica in esse impartita dai fenomeni normativi particolari per soggetto o per oggetto del diritto feudale e del diritto commerciale 32, delle procedure civile e criminale, del diritto statutario, dell’arte notarile. Il veicolo di questo coinvolgimento – a un tempo teorico e pratico – furono le quaestiones scaturenti dai fatti e discusse in schola con i medesimi strumenti ermeneutici (interpretativi) utilizzati nella ‘lezione’ sul corpus romano-giustinianeo. La didattica ‘questionante’ divenne parte integrante della formazione degli aspiranti giuristi e già i primi statuti della Università dei giuristi (1252) ne formalizzarono tempistica e modalità all’interno dell’iter studiorum (percorso degli studi). Le porte della scientia iuris per eccellenza si aprirono ai complessi normativi particolari (iura propria) nel momento in cui essi cominciarono a essere letti e interpretati secondo il canone della glossa, entrando da coprotagonisti nelle di-

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Entrambi questi percorsi normativi costituiscono diritti speciali soggettivi e sono trattati il primo supra, cap. I, § 8, e il secondo, in questo medesimo capitolo, § 10.

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namiche di convivenza e covigenza caratterizzanti gli ordinamenti giuridici nella lunghissima stagione del diritto comune. Dinamiche complesse e in costante evoluzione, ma agevolate dal possesso di una lingua comune: almeno per tutto il secolo XIII quella parlata dal Corpus Iuris Civilis e tradotta per le esigenze dell’attualità dalla Magna Glossa accursiana.

c) le esigenze della pratica Dello sposalizio, indissolubile ma conflittuale, fra il diritto civile e il diritto canonico vocati ab antiquo a reggere ognuno per la sua giurisdizione le sorti del mundus, fu la Chiesa a farsi artefice. A valle della potente consolidazione di Graziano, nell’ultimo scorcio del secolo XII, due fenomeni esercitano un ruolo uniformante fra gli iura universali. In primis la esuberante produzione di decretali emanate da pontefici spesso formati nelle aule bolognesi e nutriti della medesima scientia che ivi si impartiva ai civilisti: sistematizzata nelle Quinque compilationes antiquae – precedenti e riassorbite nel Liber Extra di Gregorio IX (1234) – questa produzione normativa godette di largo successo nell’uso forense come nelle scuole dei decretalisti, che ne improntarono l’insegnamento secondo il metodo della glossa. Conseguenze decisive ebbe poi il massiccio ingresso del diritto romano nella dottrina e nella didattica dei canones: un’apertura che la storiografia ha a lungo legato al nome del canonista Uguccione da Pisa († 1210) e alla sua Summa Decreti, ma che certamente fu un fenomeno diffuso. Entrambi i fattori sospinsero i canonisti nella direzione di una fusione della loro scienza con quella raffinata e tecnica dei legisti. Una fusione facilitata dalla tradizione, che sin dall’Alto Medioevo aveva visto le raccolte canoniche servirsi dell’Epitome di Giuliano, del Codice, delle Istituzioni e anche – a partire come sappiamo dalla Collectio Britannica negli anni Novanta del Mille – di catene di frammenti del Digesto. Non deve essere interpretata come contraddittoria, in questo contesto, la censura espressa da alcuni pontefici nei confronti dello studio delle leges da parte dei membri del clero. Una politica della Santa Sede, questa, emblematizzata dalla decretale Super Specula (1219) di Onorio III, che vietava l’insegnamento del diritto romano nello Studium teologico di Parigi, ma che mirava esclusivamente a contrastare una eccessiva mondanizzazione dei ministri del culto, nonché l’infiltrazione – sempre temuta – di tesi ereticali. A partire dal primo Duecento non è raro incontrare canonisti che tengono anche insegnamenti di leggi – Lanfranco, Tancredi, Goffredo da Trani, fino a Enrico da Susa. La duplice formazione del giurista ‘completo’ si istituzionalizza sul piano formativo nel diploma di laurea in utroque iure: il passepartout di nuove generazioni che puntano ai successi professionali non meno che a quelli accademici. Se nella decretalistica duecentesca l’integrazione del diritto canonico e del civile in un’unica scientia iuris si rivela un fatto compiuto, se sul versante cano-

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nistico si cominciano a rilevare le concordantiae che uniscono i due ordinamenti piuttosto che le differentiae che li separano, la realistica acquisizione degli esiti di tale percorso stenta invece ad affermarsi nella dottrina dei civilisti. Una leva potente fu azionata dalla specificazione, in atto sin dalla prima metà del secolo, di una nutrita dottrina processualistica mirante a soddisfare le richieste di conoscenza e di univocità dei professionisti del foro. Benché le giurisdizioni secolare ed ecclesiastica fossero ab origine separate ratione materiae, il rito celebrato nei rispettivi tribunali si era nutrito delle leges giustinianee arricchite e potenziate nella stagione altomedievale da una mirata produzione di canoni e di decretali. Generalmente noto per la sua bipolarità come processo romano-canonico, esso partecipava di entrambi i diritti e faceva dei teorici e dei pratici dell’ordo iudiciorum i migliori veicolatori dell’utrumque ius. La vocazione processualistica appare rappresentata, già agli inizi del Duecento, da una ricca e autorevole produzione scientifica, riconducibile alla mano di giuristi di scuola. I titoli, solo per citarne alcuni, sono eloquenti: la Summa arboris actionum di Ponzio da Ylerda, la Summa de libellis et conceptione libellorum di Bernardo Dorna, i Libelli iuris civilis di Roffredo beneventano – tutti composti entro gli anni Dieci del secolo – indicano l’intento di tradurre l’intricato sistema delle azioni romanistiche e del processo extra ordinem giustinianeo all’interno del contenitore medievale del ‘libello’ scritto, che segnava l’apertura del giudizio. Una scienza, questa dell’ordo procedurale, che giovò anche ad avvicinare le scuole alla pratica professionale del diritto, esigenza avvertita su entrambi i fronti se è vero – e non mero artificio retorico – che proprio gli studenti, desiderosi di una didattica dai più concreti risvolti, sollecitarono Roffredo alla composizione dei Libelli. Si è detto e ripetuto che la discussione scolastica delle quaestiones de facto contribuì in modo incisivo alla recezione di diritti pratici nel dibattito scientifico: particolare attenzione esse dedicarono al fenomeno della legislazione statutaria, che nel Duecento raggiunse l’apice del suo rigoglio e alla quale i dottori di leggi nel loro ruolo di consiliatores delle magistrature comunali applicavano i canoni della scientia iuris. L’operazione ermeneutica di assunzione della normativa statutaria nel ragionamento giuridico sviluppato nel Corpus Iuris Civilis – che per ovvia cronologia la ignorava – si attuò mediante un’ardita applicazione del processo logico della ‘specificazione’. I maestri della glossa legittimarono l’appartenenza degli statuti all’universo del diritto comune assimilandoli alla consuetudine in un rapporto da genere a specie. Quella consuetudine cui Giustiniano riconosceva una forza cogente pari, se non superiore a quella delle leges, in quanto espressa non da un atto di imperium ma – come gli statuti – dal consensus populi. Una casistica variamente riconducibile alla litigiosità cittadina e all’applicazione/interpretazione del corrispondente ius proprium è già presente nelle Quaestiones aureae di Pillio da Medicina sul finire del XII secolo e ancora più rappresentata appare nella più tarda raccolta di questioni discusse da Roffredo

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beneventano nell’ambito della sua didattica aretina: giuristi entrambi dagli originali percorsi accademici che li portarono, fuori di Bologna (a Modena Pillio, ad Arezzo, Roma, Napoli Roffredo), a sperimentare percorsi formativi più duttili di quelli offerti dalla dotta Alma Mater. Percorsi formativi lungo i quali cominciamo a incontrare anche figure di giuristi di carriera non accademica, come Alberto da Gandino († 1310 ca.), giudice a Perugia, Siena, Lucca, Bologna, quindi podestà a Fermo. Un magistrato di eccellente cultura giuridica che con un abile sforzo sistematico e ordinatorio accorciò le distanze fra la scienza dei professori e quella dei pratici sui fronti paralleli del diritto statutario e di quello criminale. Si segnalano nel primo ambito le Quaestiones statutorum, selezione in qualche misura tralatizia di «quaestiones quas vidi de facto et alie que possent evenire» 33. Un’opera alla quale il da Gandino – oltre a svecchiare la casistica rispetto alle precedenti raccolte di Pillio e di Roffredo – impose una omogeneità espositiva che mitiga di molto la diversa provenienza e i diversi autori delle pratiche questioni organizzate all’interno di essa. È possibile scorgervi un passaggio nodale nel processo di evoluzione delle semplici raccolte di quaestiones monotematiche ma per origine disomogenee, verso le summae e i tractatus quaestionum – dal tratto maggiormente unitario – e il finale approdo a una trattatistica di autore e di contenuto originale, che prenderà quota solo nel corso del secolo XIV. L’elasticità propria delle summae e dei tractatus quaestionum, consentendo un rapido aggiornamento dei materiali grazie all’aggiunta o alla sostituzione di singole unità, spiega l’elevato numero di redazioni successive tra il 1287 e il 1289 del De maleficiis, la più nota silloge del da Gandino cresciuta intorno a un nucleo più antico di questioni criminali riconducibili con buona probabilità a Guido da Suzzara, e all’anonima ma assai diffusa catena di questioni De tormentis – relativa alla pratica, legittima, della tortura a fini probatori. Non casualmente il diritto e la procedura penale costituirono fra il tardo Duecento e il primo Trecento un ponte gettato tra il diritto statutario e la dotta scientia iuris scolastica. Il tramonto del partito filoimperiale ghibellino, con la sconfitta definitiva e la morte di Federico II di Svevia nel 1250, il frantumarsi dei guelfi vincitori in fazioni contrapposte, l’emersione di un populus che chiedeva – pretendeva – di avere una rappresentanza al vertice dei comuni, le violente lotte intestine che seguirono, accentuarono nelle città il ricorso a misure repressive che si rispecchiarono nelle normative locali e segnarono la nascita di nuovi istituti, come il bando e la confisca dei beni per gli avversari politici. I trattati e le practicae criminali offrivano, pertanto, risposte a urgenti problematiche della vita cittadina. Risposte introvabili nel Corpus Iuris, che al diritto criminale dedicava solo tre (46, 47, 48) dei cinquanta libri del Digesto (i cosiddetti libri terribiles), come introvabili erano le vestigia del rito criminale accusatorio, di origine germanica,

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«questioni che ho visto (emergere) dai fatti (quotidiani) e altre che (da fatti) che potrebbero capitare».

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legato a una concezione risarcitoria e quasi privatistica della giustizia penale. Un rito attivato dall’impulso della vittima del reato, mentre il rito inquisitorio − che proprio nel corso della seconda metà del XIII secolo si affiancava all’altro − presupponeva invece l’interesse ‘pubblico’ alla repressione penale. Il giudice informato di un delitto da una denuncia diretta o da una notitia criminis era investito del diritto/dovere di compiere le indagini necessarie − inquisitio – ad accertare le responsabilità dell’imputato. Un rito in massima parte scritto, che solo nella fase del dibattimento decisionale conosceva la diretta contestazione all’inquisito delle prove a suo carico e che rese necessaria, o quasi, la presenza di professionisti del diritto nei ruoli di procuratore e avvocato. Del ruolo dei notai nella fase della legittimazione dell’organizzazione politica delle città dell’Italia centro-settentrionale in comuni si è detto. La Pace di Costanza del 1183 stimolò inoltre il perfezionamento della burocrazia cittadina, ormai affrancata anche de iure, che imperniandosi su uffici e cancellerie rette da notai ne rilanciò potentemente il ceto. A Bologna, ad esempio, si istituì una matricola dell’arte che fu l’atto di nascita della corporazione, la societas notariorum, numerosa e destinata a divenire rapidamente potente. Essa impresse un tale sviluppo alle scuole specializzate da farne un altro vanto cittadino e da propiziare lungo tutto il Duecento una produzione di dottrina e di formularistica notarile che nessun’altra città poté vantare. Una cultura, quella notarile che – va detto – rimase peraltro a lungo ars notaria, vale a dire insegnata nelle scuole di arti liberali per la sua connotazione concretamente legata al sapere grammaticale, che si esplicitava nella corretta stesura di rogiti e di documentazione collegata alla operatività dei pubblici uffici. Solo dalla metà del Trecento essa entrò a far parte dello Studio dei giuristi, divenendo a tutti gli effetti una professione legale tipica. A cavallo della metà del Duecento, il notaio e magister di notariato Salatiele († 1274/75) tentò attraverso una sintesi complessa e dotta di ars notaria, di ancorarne i percorsi scientifici e formativi a quelli della iuris civilis sapientia insegnata nelle aule giudiziarie affermando che la notaria ne costituiva una particula. Un tentativo manifestamente in controtendenza rispetto alle diffidenze dei dottori di legge, che fu tarpato pochi anni dopo da un altro notaio e maestro di notariato, Rolandino de’ Passeggeri († 1300), che scelse di far leva sulle connotazioni tecniche e il peculiare impianto formularistico dell’arte notarile, più adatto alle esigenze della quotidiana pratica professionale. La sua Summa totius artis notariae, che pur si avvaleva di una impianto espositivo e sistematico di chiara derivazione scolastica, divenne il manuale e il formulario che segnò la formazione e l’esercizio della professione per generazioni di notai tra basso medioevo ed età moderna 34.

34 Rolandino e l’ars notaria da Bologna all’Europa. Atti del Convegno Internazionale di studi storici sulla figura e l’opera di Rolandino (Bologna 9-10 ottobre 2000), a cura di G. Tamba, Giuffrè, Milano 2002 (Per una storia del notariato nella civiltà europea, 5).

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d) la scuola di Orléans La ricchezza e la varietà dei fenomeni politici, economici, sociali in inarrestabile divenire e tutti bisognosi di un disciplinamento giuridico non poteva che mettere a dura prova la capacità della esegesi dei glossatori di ricondurre alla ‘lettera’ del testo normativo giustinianeo attraverso l’argomentazione dialettica (o dialogica) l’universo dei fatti nuovi. Le fondamenta del nuovo canone del commento che avrebbe puntato con i suoi percorsi non più al testo ma alla ratio delle antiche leggi, sono profonde e partono da lontano 35. Nel 1235 il pontefice Gregorio IX autorizzò presso le scuole vescovili di Orléans quell’insegnamento del diritto romano che il suo predecessore Onorio III aveva vietato a Parigi. Intorno agli anni Quaranta si incontrano in quella sede non pochi docenti di leges, francesi e italiani, quasi tutti di formazione bolognese. Tra essi un Guido de Cumis narra in una sua opera esegetica alle Istituzioni di Giustiniano di essere stato allievo in Bologna di Iacopo Balduini, il quale era stato dominus stimatissimo anche di Odofredo. Proprio Balduini avrebbe tratto d’impaccio Guido, incappato nel corso dell’esame finale di laurea nelle ire di Accursio, di cui avrebbe osato criticare una glossa 36. Un altro episodio – forse un aneddoto – al quale è possibile attribuire anche un valore simbolico, poiché l’insegnamento impartito da Iacopo Balduini come dal suo allievo Odofredo – lo si è detto – erano in certo qual modo ‘alternativi’ al magistero accursiano ed ebbero sulle modalità didattiche orleanesi un peso maggiore di quello identificato dalla Glossa Ordinaria, di cui i legisti italiani erano pedissequi. Se si rifletta poi sulla collocazione geografica della città di Orléans, a settentrione di Parigi, nel cuore dei pays de droit coutumier in cui il diritto romanogiustinianeo integrava le consuetudini, le coutumes del territorio imperio rationis, per la superiorità dogmatica e non in quanto conseguenza dell’appartenenza all’Impero; se si rifletta anche sulla natura ecclesiastica delle scuole orleanesi, vocate alla formazione in spiritualibus del clero, per il quale la conoscenza delle leges – ancorché utile – costituiva un quid pluris; se si rifletta su quanto appena detto, apparirà facilmente comprensibile come l’ambiente e i dibattiti sviluppatisi fra i domini delle scuole orleanesi abbiano – piuttosto che quelli bolognesi – costituito l’incubatrice per la gestazione di una nuova stagione della scienza giuridica europea.  

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V. infra, cap. III, § 1. G. Gualandi, Un gustoso episodio della vita di Accursio e la data della composizione della «Glossa magna» al «Digestum Vetus», in Atti del Convegno internazionale di Studî accursiani (Bologna, 21-26 ottobre 1963), a cura di G. Rossi, II. Accursio e la sua opera, Giuffrè, Milano 1968, pp. 459-492. 36

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10. L’età del commento e dei commentatori: a) premesse Il magistero giuridico dei dottori della prima generazione orleanese costituì un fertile laboratorio e un efficace volano per una nuova modalità di interpretazione sapienziale (dotta, scolastica) dei monumenti dei due diritti universali, il civile e il canonico 37. Acquisiti gli apparati ordinari a entrambi i corpora come indispensabile tramite fra il testo normativo – specchio di una storia lontana nei secoli e fisiologicamente rigido – e la casistica in divenire inarrestabile, i giuristi ‘neoterici’ si apprestarono, con strumenti solo in parte nuovi, a cambiare il passo della lezione scolastica per cogliere un ulteriore obiettivo: acclarare la ratio o causa legis (vale a dire la ragion d’essere della legge). La graduale alternanza fra la scienza dei glossatori e quella dei commentatori, maturata lungo la seconda metà del XIII secolo, riposa in estrema sintesi proprio nella diversità del traguardo da cogliere, non più il significato della ‘lettera’ delle leges – definitivamente esplicitato e attualizzato attraverso la glossa –, bensì la loro astratta ‘ragion d’essere’, alla enucleazione della quale necessitava l’elaborazione di un nuovo mos, di un nuovo metodo. La gestazione partiva da lontano e si era giovata dell’acquisizione dell’eredità della filosofia aristotelica: con l’aprirsi del medesimo secolo tredicesimo la stagione delle crociate e la Reconquista della penisola iberica avevano favorito il materiale ingresso in Occidente dell’opera completa del sommo filosofo greco, in primis dell’intero testo della Logica (o Logica nova, come venne definita), prontamente tradotto in latino 38. La conoscenza in tutte le sue articolazioni del pensiero di Aristotele comportò la familiarizzazione con il canone ermeneutico (criterio interpretativo) del sillogismo che si affiancò – per poi sostituirlo – a quello dialogico/dicotomico. Se il primo, ampiamente utilizzato nelle scuole dei glossatori, poggiava sul distinguere, ossia su di un processo di frazionamento del ragionamento giuridico in distinctiones e subdistinctiones, il secondo si snodava invece attraverso il quaerere. La discussione di quaestiones tendeva all’individuazione non già di differenze bensì di analogie fra postulati, nel nostro caso giuridici. Ulteriormente semplificando, potremmo dire che l’efficacia della scientia e dell’esperienza della glossa in quanto criterio interpretativo celebrava le potenzialità del rapporto di specificazione, riconducendo al rigido contenitore letterale del testo normativo – genus – quante più species era in grado di contenere senza snaturarsi e mutare il suo significato. Ad ampliare la giurisdizione di una normativa altrimenti imbrigliata dalla perentorietà immutabile della sua veste letterale provvide, mediante la giustapposizione di quaestiones, l’enucleazione della causa ultima delle leggi. In quanto elemento ‘primigenio’, astratto da qualsiasi contingenza, non 37

V. supra, cap. II, § 9d. La seconda serie delle opere di Aristotele, che conteneva al suo interno la teoria del sillogismo, penetrò nell’Europa occidentale in prima battuta dalla Spagna moresca e si diffuse attraverso graduali traduzioni dall’arabo e dal greco. 38

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caduco e per ciò stesso esportabile al di fuori dei confini delle fattispecie ‘normate’ da Giustiniano, la causa o ratio legis risultava applicabile a tutte le inedite situazioni del presente che potessero essere assimilate alle antiche soggiacendo a un idem ius, a un medesimo diritto. Azzardiamo un esempio e immaginiamo che la veste letterale – la littera – di una situazione giuridicamente rilevante contemplata e disciplinata dalla compilazione giustinianea (casus legis) si presenti sotto forma di scatola. Il Glossatore, applicando le modalità del ragionamento dialettico/dicotomico e scomponendo il caso in sottospecie derivate, è in grado di collocare all’interno della scatola quanto essa può contenere sino al limite della sua capienza, ma gli è materialmente impossibile andare oltre se non rischiando la rottura del contenitore medesimo. Il Commentatore, sollecitato dalla necessità di ricondurre a sistema una serie di situazioni non previste e non prevedibili (casus facti), applicando il ragionamento sillogistico mira invece al cuore della legge antica, alla sua intima ratio: un diverso e capientissimo contenitore cui ricondurre una infinita casistica in base alla regola «ubi eadem ratio, ibi idem ius» 39. Moltiplicando all’infinito le scatole, il Commentatore giunge ad amplificare la giurisdizione dei due diritti universali e a prolungarne la vigenza come iura communia di latitudine europea ben oltre la cronologia del Medioevo.

b) le origini Il successo delle scuole giuridiche orleanesi fu immediato. La bolla del pontefice Gregorio IX che nel 1235 aveva autorizzato in quella sede vescovile l’insegnamento del diritto romano andava incontro all’esigenza di impartire ai futuri ministri della Chiesa anche una formazione in legibus, da spendere nell’amministrazione della giustizia come nella collaborazione con le gerarchie di vertice di entrambi i poteri. A favorire l’approccio interpretativo più duttile e creativo dei legum doctores d’Oltralpe rispetto al tecnicismo del coevo modello bolognese contribuì indubbiamente il contesto: la dimensione di un magistero rivolto a ecclesiastici che si dipanava fisiologicamente attraverso gli itinerari formativi della teologia e delle arti liberali, nonché l’appartenenza di Orléans ai cosiddetti paesi di diritto consuetudinario – quelle regioni centro-settentrionali della Francia che alle norme di Giustiniano riconoscevano unicamente il tributo dovuto a un insuperabile serbatoio di figurae e di regulae giuridiche. Si è già detto che sulle prime cattedre orleanesi sedettero giuristi addottorati presso lo Studio felsineo: fra i più noti Guido de Cumis (di Como), ch’era stato allievo di Iacopo Balduini, e Pietro Peregrossi, formatosi con Odofredo. La 39 Il brocardo «ubi eadem ratio ibi idem legis dispositio» («dove vi è la medesima ratio, vi è anche la medesima disposizione di legge»), estrapolato dalla scienza giuridica da alcuni consentanei frammenti del Digesto di Giustiniano, ha costituito nei secoli uno dei canoni interpretativi portanti della scuola del commento.

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gemmazione transalpina dei moduli scientifici e didattici della scuola dei glossatori assunse sin dalla sua origine tratti peculiari, ma solo in parte nuovi, amplificando gli elementi ‘alternativi’ all’irrigidimento del metodo che a Bologna si specchiava e trionfava nella Glossa Ordinaria di Accursio. Tratti che almeno in parte rinverdivano generi letterari praticati nella lunga e variegata stagione preaccursiana: i modus arguendi in iure, i loci loicales, i notabilia, i brocarda. Tutte specificazioni del genus ‘glossa’ aventi la finalità di spremere dalle norme astratti principi e criteri di collegamento, dotati di evidente valenza sistematica e di indubbia utilità ai fini della loro comprensione e del loro apprendimento. Un esempio ne fu la già ricordata raccolta di brocardi proposta da Pillio da Medicina sul limitare del XII secolo ai suoi studenti modenesi. Un esperimento in concreto fallimentare, poiché la monumentalità e la farraginosità dell’opera smentivano l’obiettivo dell’autore di fornire uno strumento didattico più agile rispetto agli apparati di glosse alle singole parti del Corpus Iuris Civilis, ma altrettanto concretamente esemplificativo di esigenze avvertite e dalle radici profonde. Caratteri, questi or ora tratteggiati, che possono essere estesi alle prolisse Praelectiones di Odofredo, che – negli stessi anni Trenta del Duecento nei quali Accursio completava i suoi apparati ordinari – avevano tentato di sintetizzare le chiose interpretative al corpo delle leggi di Giustiniano con una nuova formula espositiva nella quale gli apporti dell’autore – in specie glosse e quaestiones – si succedevano nella pagina manoscritta senza soluzione di continuità. A compiere il passo definitivo nel fissare le coordinate del percorso ermeneutico finalizzato alla enucleazione delle rationes legum fu la terza generazione dei dottori orleanesi. Un percorso racchiuso entro i confini letterari del ‘commento’ e che trovò i suoi primi campioni in Jacques de Revigny († 1296) e in Pierre de Belleperche († 1308). Il primo di poco più grande del secondo, frequentarono probabilmente a distanza di un decennio le medesime scuole e seguirono un medesimo cursus honorum, che portò entrambi dall’esercizio del magistero didattico nella nativa Orléans ai vertici delle gerarchie ecclesiastiche, a prestigiose collaborazioni con i re di Francia. La loro produzione scientifica fu simile nei tratti caratterizzanti il nuovo genere esegetico: Revigny e Belleperche scrissero maestose lecturae all’intero corpus iuris civilis, raggiungendo peraltro le vette più alte con le Istituzioni e con il Codice. Scompare definitivamente nella pagina di questi maestri destinati a far scuola anche al di qua delle Alpi il testo delle leges di Giustiniano. Secondo una ‘veste redazionale’ varata da Odofredo a Bologna mezzo secolo prima, l’aggancio alla compilazione era espresso attraverso il lemma, vale a dire la prima o le prime parole del frammento normativo, cui seguiva l’esegesi ormai interamente opera d’autore. Il percorso interpretativo di questi antesignani maestri del commento utilizzava i criteri del ragionamento sillogistico da poco attualizzati dai filosofi scolastici e in specie da San Tommaso 40, ma nelle loro dense pagine si succede40

Il pensiero di San Tommaso d’Aquino († 1274), il Doctor Angelicus, è condensato nella

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vano anche quaestiones, distinctiones, repetitiones. Generi, lo si è già detto, in auge sin dalla stagione preaccursiana che assumono, peraltro, nella declinazione orleanese una valenza fortemente teorica e sistematizzante, funzionale ad astrarre dalle leggi romane astratte rationes fungibili al di fuori dei loro confini. Efficace esempio di questa attitudine speculativa e dei suoi obiettivi è offerto dal frammento di un Dictionarium Iuris attribuito a Jacques de Revigny, che rinverdiva il genere enciclopedico caro ai maestri di arti liberali di età preirneriana (si ricordino le Etymologiae di S. Isidoro di Siviglia) 41 nella specie originale di un lessico di astratte figure giuridiche. Altrettanto esemplificativo appare il largo ricorso allo strumento didattico della repetitio: vero trait d’union fra ‘glossa’ e ‘commento’, essa aveva ad oggetto non una singola littera ma un’intera legge (passo) della compilazione e ne analizzava i contenuti al modo di una lezione monografica. In auge nella Bologna della seconda metà del Duecento dove furono ad esse riservati appositi spazi nell’ambito delle lezioni extra-ordinarie 42, le repetitiones, in quanto capienti e duttili contenitori di interpretazione, furoreggiarono a Orléans. Il declino della scienza dei glossatori e il fortunato progredire del nuovo metodo interpretativo trovano, non a caso, uno specchio in due ‘ripetizioni’ rimaste celebri: la prima vede un giovane Jacques de Revigny, non ancora laureato, mettere a dura prova le ‘invecchiate’ argomentazioni di Francesco, il più celebre dei figli di Accursio († 1293), chiamato a tenere una repetitio magistrale nelle scuole orleanesi. Nella seconda è Pierre de Belleperche, già acclamato dottore di leggi, a infiammare gli studenti bolognesi convenuti in Piazza Santo Stefano per ascoltarne la lezione in occasione di una sua visita in Italia. Fra quegli studenti era anche Cino Sighibuldi da Pistoia († 1336/37): fu per Cino l’unica occasione di materiale incontro con colui che di lì a poco avrebbe definito il suo dominus, a un tempo maestro e referente scientifico. Destituita di credibilità l’ipotesi di un soggiorno di Cino a Orléans negli anni della formazione, la sua particolare recettività al nuovo metodo interpretativo del commento – del quale è stato a lungo considerato il tramite nella nostra penisola – deve essere valutata in un contesto più largo. Nel corso del tardo Duecento alcuni maestri italiani di buona originalità come Martino Sillimani († 1306) e Dino del Mugello († post 1298), pur aderendo agli apparati ordinari di Accursio e leggendoli in scuola vi affiancavano additiones, vale a dire approfondimenti che muovevano dalla Glossa per ampliarne la capacità espansiva ricon-

monumentale Summa Theologiae e rappresenta la più efficace rilettura in chiave cattolica della filosofia aristotelica, che da lui prese il nome di scolastico-tomistica. 41 V. supra, cap. I, § 6b. 42 Il piano di studio degli studenti di legge era in quella stagione ormai scandito in lezioni ‘ordinarie’, cui solitamente era riservato l’orario mattutino e che comprendevano i corsi di base sul Codice e sul Digesto Vecchio, e in lezioni ‘extra-ordinarie’. Queste seconde, pomeridiane, prevedevano percorsi didattici di approfondimento (sul Digesto Inforziato e Nuovo, sulle Istituzioni...) e di pratiche esercitazioni.

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ducendovi casistica e figure di diritto nuove. Le lecturae per viam additionum agli apparati al Corpus Iuris Civilis rappresentarono un genere letterario di manifesta transizione fra la glossa e il commento e in esse si cimentò con buon esito lo stesso Cino. Per venire a contatto con l’originale modalità di ‘leggere’ il diritto messa a punto a Orléans non vi era alcuna necessità di varcare le Alpi: i rapporti fra i due milieu della cultura giuridica accademica erano intensi e si diramavano dalla Curia Romana, dalla corte dei sovrani angioini che sedevano sul trono di Napoli e, in linea generale, dalla condivisa percezione della necessità di superare i limiti – ormai troppo angusti – dell’interpretazione letterale. Se la formazione di Cino da Pistoia si perfezionò a Bologna, l’impegno nell’ambito di magistrature comunali, prima, l’esercizio di un apprezzato magistero, poi, lo condussero lontano dallo Studium. Insegnò a Siena e a Napoli, finì la carriera a Perugia dove gli fu allievo Bartolo da Sassoferrato († 1357), con il quale il commento toccò le vette più alte. A Cino rimane comunque il merito di avere varato la nuova ‘formula’ dell’esegesi dei libri legali: il suo elegante e dotto commentario al Codice di Giustiniano e alla prima parte del Digesto dipana la matassa del testo normativo attraverso cinque scanditi momenti. La ‘lezione’ segue un ordine: la legge viene per prima cosa divisa nelle parti che la compongono, in secondo luogo si procede a individuarne il casus ossia la concreta fattispecie sottesa, quindi a sottolineare nel testo i punti nodali (notabilia), infine a formulare opposizioni e interrogativi volti a saggiare la solidità dell’itinerario interpretativo (commento), con l’obiettivo di cogliere l’intima e astratta ratio della legge in oggetto 43.

c) il Trecento e il Quattrocento: i secoli d’oro dei commentatori Gli studia di Padova e di Perugia furono il palcoscenico del nuovo modo di fare scuola. L’uno di radicati natali, sorto spontaneamente nel 1222 per una secessione di studenti da Arezzo, l’altro giovanissimo, fondato all’inizio del Trecento da una bolla del Pontefice Clemente V, entrambe le sedi universitarie erano segnate da marcata competitività nei confronti dell’Alma Mater e trovarono nella innovativa e prolifica dimensione della scuola dei commentatori l’occasione per un ‘lancio’ di portata europea. Si è detto della formazione perugina di Bartolo da Sassoferrato – che peraltro aveva concluso l’iter studiorum a Bologna, laureandosi nel 1333/34 con Iacopo Bottrigari e Ranieri Arsendi in un contesto di solida osservanza ai dettami della scienza dei glossatori. Entrato giovanissimo  Scrive Cino: «Circa cuius lecturam tenebo hunc ordinem: quia primo dividam, secondo ponam casum, tertio colligo notabilia, quarto opponam, quinto quaeram» (C. 1. 14[17)].5). Vale a dire: «In relazione a questa lectura mi atterrò a quest’ordine: per prima cosa dividerò il testo da leggere, poi proporrò il casus (la fattispecie), in terzo luogo raccoglierò una serie di notabilia (cose notevoli meritevoli di segnalazione), in quarto luogo farò delle obiezioni, e in fine, al quinto punto, proporrò delle quaestiones». 43

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nel circuito delle amministrazioni tardo-comunali a Todi e a Macerata, chiamato come assessore a Pisa, nello studio toscano fu incaricato dal 1339 di un insegnamento di diritto civile accanto a quel Ranieri Arsendi con cui a Bologna aveva discusso la tesi di laurea. Rientrato nella città delle sue origini intellettuali vi rimase fino alla morte – che lo colse a soli 43 anni – illustrando le cattedre perugine e contribuendo, grazie al magistero suo e degli allievi, a quotare in Italia e fuori la locale facoltà giuridica. La produzione scientifica di Bartolo da Sassoferrato si è espressa nei tre generi dei commentaria, dei consilia, dei tractatus di approfondimento monotematico: nelle edizioni a stampa succedutesi copiose dal Cinquecento essa è lievitata in 9 volumi che – pur contenendo (o forse proprio per questo) non poche false attribuzioni – testimoniano della fama e dell’autorevolezza raggiunte dal maestro. Il pensiero bartoliano, rodato in sede scolastica, trova la sua espressione più classica nell’opera di commento all’intero corpus del diritto civile. Nelle sue pagine hanno raggiunto definitiva sistematizzazione alcune acquisizioni dell’argomentazione sillogistica presto entrate nel condiviso patrimonio della cultura giuridica europea. Basti per tutte accennare alla ‘figura’ della persona ficta o rapresentata – l’odierna persona giuridica –, già teorizzata dal canonista duecentesco Sinibaldo dei Fieschi († 1254) 44 assimilata in via analogica alla persona fisica e, con modalità conseguente, riconosciuta titolare dei medesimi diritti patrimoniali e non solo, nonché alla originale distinzione fra lo ‘statuto personale’ dello straniero, che si voleva sottoposto alla giurisdizione della terra d’origine e lo ‘statuto reale’, che imponeva nelle controversie relative ai suoi beni mobili e immobili il primato della ratio loci. Al Bartolo ‘sistematico’ ed esegeta si affianca il Bartolo cultore del diritto pubblico, che si esprime in una vasta trattatistica di approfondimento dei temi caldi di quel secolo XIV segnato, nell’Italia centro-settentrionale, da profondi mutamenti istituzionali. Lo sforzo di circostanziare in termini giuridici lo scontro fra guelfi e ghibellini, i fenomeni contingenti delle rappresaglie 45 e dei bandi nei confronti degli stranieri e degli avversari politici così come l’inclinazione verso forme ‘tiranniche’ di governo delle città, mette a fuoco le patologie delle realtà tardo-comunali. La diffusa e pressoché generalizzata metamorfosi dei regimi podestarili in esperienze monocratiche di tiranni de facto o ratione exercitii, ma privi di consacrazione formale (defectus tituli), necessitava di un inquadramento nelle figurae del diritto pubblico romano-giustinianeo. Un inquadramento che solo la metodologia del commento poteva provvedere. Il ruolo di supremi iudices delle rispettive giurisdizioni riconosciuto dal giurista di Sassoferrato a 44 L’approfondimento da parte della dottrina canonistica nasceva dalla necessità di configurare giuridicamente in quanto soggetti di diritto non solo il Corpus Ecclesiae ma anche le singole istituzioni ecclesiastiche del territorio. 45 Come si è già avuto modo di dire l’istituto medievale della rappresaglia colpiva come responsabili in solido e correi in caso di delitti i familiari del soggetto giudicato debitore o colpevole.

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imperatore e pontefice attualizzava le logiche del bilanciamento ‘gelasiano’ dei due poteri universali 46. Autorità supreme la cui ragion d’essere andava sempre più riducendosi al ruolo di fonti di legittimazione di vecchie e nuove autonomie territoriali e signorili. Nell’opera di Bartolo le dinamiche del cosiddetto sistema del diritto comune si stabilizzano e irrobustiscono in un assetto destinato nell’Europa continentale a durare fino a tutto il XVIII secolo. Un assetto nel quale la funzione sussidiaria degli iura communia – civile e canonico – rispetto agli iura propria del territorio, pur permanendo appare nettamente secondaria per rilievo alla valenza di serbatoio dogmatico e di vocabolario giuridico che ai medesimi due iura fu riconosciuta oltre ogni confine. Non è un caso che Baldo degli Ubaldi († 1400), brillante allievo ed erede del magistero bartoliano a Perugia, sia stato celebrato dalla storiografia per la sua inclinazione – sino ad allora rara in un civilista – a praticare anche itinerari scientifici canonistici, componendo ottimi e fortunati commentaria al Liber Extra di Gregorio IX, al Sextus di Bonifacio VIII e alle Clementinae. La competenza binaria in utroque iure (nell’uno e nell’altro diritto), divenne – consacrata nel titolo di laurea – l’espressione del giurista completo e, nell’accezione dei tempi, ‘internazionale’. Un modo nuovo di essere giurista di cui proprio Baldo degli Ubaldi, di notabile famiglia perugina 47, fu l’indiscusso campione, unendo all’esperienza didattica e scientifica su entrambi i corpora del diritto civile e del canonico e all’attenzione per il diritto feudale espressa in una densa lectura sui Libri Feudorum, anche la spiccata capacità di declinare il sapere teorico in concretissimi consilia pro veritate nei quali il ponte gettato dalla scuola verso la prassi era costruito coi robusti ma elastici materiali del ‘commento’. Il Trecento e, soprattutto, il Quattrocento furono i secoli dei ‘bartolisti’ – continuatori della formula esegetica celebrata da Bartolo – e dei consiliatori; di dottori di leggi acclamati e contesi da sedi universitarie ormai calate in un circuito della formazione superiore governato dalle leggi della libera concorrenza come di giuristi che sull’impegno nelle istituzioni politiche e nella pratica giudiziaria costruirono le loro fortune anche economiche. Fra i dottori di leggi furono molte le figure di prestigio scientifico, a muovere da Paolo di Castro († 1441), gloria di Padova, che insegnò anche a Perugia e a Bologna, dove fu in cattedra insieme a Bartolomeo († 1411) e a Riccardo da Saliceto († 1379), con i quali condivise il profuso impegno nella consulenza foren46 Com’è già noto, l’ideale rappresentazione delle giurisdizioni imperiale e pontificia quali supremi e bilanciati poteri, ai quali era affidato, ratione materiae, il governo dell’occidente cristiano, ha attraversato l’intero Medioevo. La formula, contenuta in una epistola di papa Gelasio I (490 ca.) e nota anche come ‘teoria delle due spade’ (v. supra, cap. I, § 5a), è successivamente rifluita nel Decretum di Graziano. 47 La famiglia degli Ubaldi (o Baldeschi) annoverava accanto a Baldo i fratelli Pietro, canonista, e Angelo, commentatore e consiliatore di buon calibro.

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se. Carriera bolognese ebbe Giovanni Nicoletti da Imola († 1436), acclamato doctor in utroque, che con Ranieri Arsendi aretino († 1488), Alessandro Tartagni († 1477) e il milanese Filippo Decio († 1535/36) spese l’autorevolezza raggiunta nel magistero in una proficua attività di consiliatore nel versante del pubblico e del privato. Fra i secondi basti ricordare Alberico da Rosciate († 1360), magnus practicus di formazione padovana, che pur non salendo mai la cattedra, lasciò orme profonde con le opere esegetiche, le questioni de statutis e, in specie, con il monumentale Vocabolario di diritto tam civile quam canonicum, che per essere un contenitore di ‘lemmi’ (termini) e rationes giuridiche convenzionalmente e universalmente riconosciute, rimase per secoli nell’uso della scuola e del foro. Della crisi di originalità speculativa che appannò il metodo del commento e lo caratterizzò negli ultimi secoli dell’età moderna si parlerà più avanti 48. I più tardi e stanchi epigoni di Bartolo da Sassoferrato impressero all’aggettivo ‘bartolista’ una accezione negativa – a volte peraltro immeritata – che marcava la ripetitività dei loro percorsi esegetici e l’appiattimento sull’opinio Bartoli. Un’opinione che, come era stato nel Duecento per gli apparati ordinari di Accursio, se per un verso impresse il marchio di una ragionevole certezza all’interpretazione giurisprudenziale, dall’altro ne tarpò le ali, imponendo i propri percorsi argomentativi.

11. Il diritto dei mercanti e del mercato Nel caleidoscopio giuridico del medioevo europeo, accanto agli iura propria espressi dalle istituzioni territoriali particolari convivono alcuni iura specialia. Per essi la divaricazione rispetto ai percorsi normativi del ius commune è segnata dallo status personae, ovvero dal ruolo sociale o professionale dei soggetti di diritto. Tali caratteri possiedono il complesso consuetudinario e legislativo consolidato nei Libri Feudorum – che segna i tratti della speciale condizione giuridica dell’aristocrazia feudale – e la legislazione in temporalibus della Chiesa, alla quale l’Impero sin dall’età tardo-antica aveva riconosciuto giurisdizione esclusiva sugli appartenenti al clero secolare e regolare. Con il rinascimento che scuote l’Europa a muovere dall’XI secolo un nuovo attore – il mercante – e un nuovo filo conduttore – la logica del mercato –, si propongono come aspiranti protagonisti sui palcoscenici della società, della politica, dell’economia, del diritto. La crescita demografica, la nuova vitalità e popolosità degli aggregati cittadini, la maggiore sicurezza e lo sviluppo delle vie di comunicazione di terra e di mare in Occidente e verso l’Oriente mediterraneo determinano il tramonto dell’economia fondiaria curtense, basata sulle dinami-

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Si veda infra, cap. IV.

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che elementari dell’autarchia, della sussistenza, del consumo diretto. In parallelo si afferma il ruolo del mercante: inizialmente semplice ‘intermediatore’ fra i luoghi di produzione – le grandi corti agricole, feudali e non – e quelli, vecchi e nuovi, di scambio e di mercato; successivamente imprenditore di sé stesso acquistando, rivendendo, lucrando dalla sproporzione fra i costi della produzione e il ricavo al consumo; finalmente anche committente di manufatti artigianali, determinando le leggi non scritte della domanda e dell’offerta. Per la difesa dei propri interessi economici e cetuali, mercanti e artigiani – questi ultimi in una posizione di subalternità che già si prefigura irreversibile – si organizzano in seno ai comuni cittadini in associazioni giurate, le corporazioni di arti e di mestieri, che dell’istituzione comunale riproducono il modello organizzativo e le aspirazioni autonomiche. Le corporazioni, infatti, sono titolari di un potere di autoregolamentazione, che esercitano attraverso l’emanazione di specifici statuti; gestiscono la funzione disciplinare sugli iscritti alle singole ‘matricole’ al fine di garantire il rispetto delle norme interne consuetudinarie e statutarie; amministrano una giustizia speciale risolvendo le controversie fra i soggetti corporati mediante un giudizio ‘sommario’ celebrato da consoli (giudici non togati) organici alle corporazioni medesime. La rapida ascesa economica degli operatori del mercato forza, nel corso del XIII secolo, la rigida stratificazione sociale e l’architettura politica dei comuni cittadini, pretendendo e ottenendo dalla seconda metà del secolo di partecipare al governo della res publica accanto all’aristocrazia feudale e terriera. I moti ‘popolari’ che caratterizzano questa turbolenta stagione – al di là di antistoriche celebrazioni delle democrazie comunali – conducono in alcune città del Regnum Italiae alla condivisione delle funzioni amministrative e giurisdizionali fra il Comune del Podestà e il neo costituito Comune del Popolo, retto da un Capitano e controllato dalle società delle arti. Mentre gli statuti cittadini cominciano a recepire i desiderata della nuova classe emergente, garantendo embrionali forme di monopolio e di esercizio in esclusiva di attività mercantili e artigiane legate al territorio, si sviluppa ad opera dei suoi stessi protagonisti uno ius mercatorum, commisurato alle esigenze della mercatura. Ab origine sono fonti di questo diritto professionale dei mercanti e degli artigiani: – le consuetudini e le pratiche contrattuali consolidate; – gli statuti corporativi, disciplinanti l’organizzazione interna e l’esercizio della giurisdizione; – la giurisprudenza espressa dalle magistrature mercantili consolari, organiche alle singole corporazioni di arti e di mestieri. Dal XIII secolo il diritto mercantile in quanto diritto particolare elaborato e imposto da una classe all’intera società medievale in ragione delle logiche dominanti del potere economico entra nelle dinamiche del pluralismo normativo, ca-

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ratterizzante nell’Europa continentale il cosiddetto sistema del diritto comune. Alla sua divaricazione dai percorsi sostanziali e procedurali del ius civile contribuiva del resto la vaghezza nel merito dei monumenti giustinianei, specchio di una società che riconosceva come soggetti di status e di diritti i soli proprietari terrieri, negando ai negotiatores rilievo giuridico e un ruolo politico. La ricca gamma delle figure contrattuali tipiche ignorava, pertanto, quelle commerciali ricondotte, quando possibile, al genus latissimo della locatio operis e operarum. Il presupposto della ‘specialità’ dello ius mercatorum e, pertanto, della sua prevalenza sugli iura propria del territorio e sul diritto comune riposa nel possesso dello status professionale di mercante di almeno una delle parti. Questa estensione di un diritto sostanziale e di una giustizia corporativi a soggetti terzi, indica – al di là di una fictio iuris, vale a dire la presunzione assoluta che anch’essi appartengano al medesimo ambito professionale – l’avvio di un plurisecolare itinerario normativo e giurisdizionale segnato dalle rotte del favor mercaturae. Un processo storico di ‘esternalizzazione’ del diritto commerciale formalizzato nel Code de commerce napoleonico del 1807, che iniziò a spostare il focus dal ‘diritto dei commercianti’ al ‘diritto degli atti di commercio’. Il ius mercatorum nella sua stagione genetica bassomedievale si presenta dotato – dei requisiti caratterizzanti della ‘universalità’, riconducibile all’esistenza di un mercato allargato che, superando con le rotte commerciali di terra e di mare i confini spesso angusti delle istituzioni politiche, necessita di consuetudini e regole extraterritoriali, – e della ‘specialità’, presupposta dallo status professionale di commercianti e di artigiani a un tempo artefici e soggetti alla propria autonomia corporativa. Una specialità normativa destinata a estrinsecarsi nei due versanti: del diritto sostanziale, regolando obbligazioni e contratti di commercio di nuovo conio e non sussumibili nelle scarne fattispecie normate dal corpus giustinianeo; delle procedure giudiziali, mettendo a punto un rito abbreviato, divaricato rispetto al processo ordinario cosiddetto romano-canonico per la contrazione o l’eliminazione di taluni termini e formalità. Fra i più interessanti contratti tipici ‘creati’ dalla pratica commerciale nell’arco del Basso Medioevo vanno almeno ricordati: – Il contratto di cambio, attraverso il quale si trasferiscono virtualmente somme di denaro da una piazza all’altra. Le somme sono versate a un cambiavalute e da questi, o da un suo incaricato, riversate in altra piazza nella valuta locale corrente a colui che le aveva anticipate o a un suo emissario. Il contratto di cambio è documentato per iscritto tramite una ricevuta rilasciata dal cambiavalute, attestante un debito e una promessa di pagamento. A questo instrumentum pubblico, redatto da un notaio, si sostituisce nel tempo una scrittura privata – la lettera di cambio −, attraverso la quale il debitore dà ordine a un suo emissario

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di liquidare la somma ricevuta e certificata sulla piazza di restituzione. Tale pratica determina la nascita di una nuova professionalità legata ai commerci, quella dei campsores (cambiatori), antesignana dei banchieri. – La rogadìa, consistente in un ‘contratto di favore’ stretto fra due mercanti: l’uno si impegna a trasportare e, in ipotesi, a commerciare i beni dell’altro in una determinata sede di mercato. Il rapporto, che prescinde da qualsiasi vincolo societario ma trova la sua genesi nei doveri di collaborazione e reciproco supporto che legano – o dovrebbero legare – gli appartenenti a una medesima categoria professionale – non prevede alcun compenso, al fine di evitare le sanzioni religiose nei confronti delle pratiche usurarie. – Il prestito a cambio marittimo consiste in un negozio giuridico in base al quale la somma di denaro data a prestito – o le merci grazie ad essa acquistate – devono essere trasportate via mare a rischio del mutuante. Esso prevede l’obbligo in capo al debitore di corrispondere, oltre la restituzione del quantum ricevuto in mutuo, anche interessi elevati. – Dal prestito a cambio marittimo si specificano i contratti di ‘colleganza’ e di ‘commenda’, l’uno tipico delle regioni adriatiche, l’altro di quelle tirreniche. Entrambi forme negoziali che si basano sulla concorrenza di apporti di capitale e di lavoro, nonché strettamente legati alle rotte di esportazione e di importazione via mare, essi prevedono un soggetto che fornisce in tutto o in parte il capitale commerciale rimanendo a terra e un professionista (collegatario) che si accolla i rischi della navigazione e si impegna a restituire il capitale che gli è stato affidato e una parte percentuale del lucro ricavato. – L’assicurazione è il contratto in base al quale una persona assume il rischio di un’altra, impegnandosi a pagare una somma di denaro determinata o determinabile nel caso in cui si verifichi un sinistro. L’assicurato, per parte sua, si vincola a versare un quantum corrispondente al rischio assunto da altri (premio). Il contratto di assicurazione si profila istituto nuovo, rispondente al bisogno di sicurezza e di garanzie degli operatori del commercio, particolarmente avvertito nell’ambito dei commerci via mare. – La ‘compagnia’, prodromica alla moderna forma della ‘società in nome collettivo’, prevede la responsabilità solidale e illimitata di ogni socio per l’obbligazione assunta da uno di essi, anche a insaputa degli altri. I presupposti oggettivi di una tale ‘solidarietà’ risiedono nel fatto che l’obbligazione sia stata assunta in nome della compagnia e che il suo oggetto rientri fra le attività per cui l’accordo societario è stato stretto. Già da queste poche figure del diritto sostanziale dei mercanti e del mercato bassomedievali emergono alcune linee guida: in primis la necessità di individuare forme di credito ‘cartolare’ che consentano di superare le distanze sempre più grandi fra i luoghi di commercio, eliminando la materiale mobilitazione delle somme necessarie. In secondo luogo il disciplinamento di nuove professionalità, come quelle dei cambiatori e dei mediatori di commercio, cui si aggiunge la concorrenza degli apporti di capitale e di lavoro ad opera di soggetti diversi

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coinvolti in una medesima impresa commerciale, con conseguente, varia calibratura degli utili. Da ultimo, si prefigura l’emersione di forme societarie caratterizzate dalla responsabilità solidale dei mercanti consociati verso i terzi contraenti. Una garanzia, quest’ultima, che appellandosi alla affidabilità e alla robustezza economica del ceto mercantile, costituiva un potente volano per l’espansione dei commerci. L’opzione esercitata dall’organo giudicante nella direzione di un summatim cognoscere («giudicare in via sommaria») appare contemplata da pochi, ma chiari passi del Digesto. L’ambito è quello di una tipologia di cause privilegiate per soggetto o per oggetto. Il contenuto della ‘sommarietà’ non riceve una definizione dalla compilazione giustinianea, che si limita a contrapporla a una generica ‘ordinarietà’ del rito nell’ambito di alcune controversie che la Glossa Ordinaria di Accursio, negli anni Trenta del Duecento, definisce specialia. Una reticenza, quella di Giustiniano, che sul piano degli iura propria ha consentito alle normative statutarie dell’Italia centro-settentrionale di individuare nel segno della ‘sommarietà’ una gamma di interventi mirati a contenere la dilatazione dei tempi processuali. In estrema sintesi, gli statuti duecenteschi indicano con la formula «sine libello et citatione et strepitu aliquo vel ordine vel solempnitate iudiciorum» 49 e consimili, un’alternativa rituale vincente per un ampio spettro di controversie coinvolgenti soggetti meritevoli per status di una più rapida tutela in giudizio: forestieri, poveri, vedove, orfani, carcerati, ecclesiastici, studenti. Uno status che nel caso degli operatori del commercio medievale dettava le logiche di uno ius speciale anche sul piano della amministrazione della giustizia. Una giustizia – quella dei mercanti − che nasce corporativa, dotata di ampi margini di discrezionalità, improntata a criteri equitativi: attraverso la celerità delle liti celebrate nei suoi tribunali corporativi e intercorporativi (‘mercanzie’) essa garantiva a un tempo la affidabilità della categoria, il buon esito dei mercati, gli interessi dei soggetti terzi. A precisare sul piano legislativo le deroghe del rito sommario rispetto a quello ordinario interviene fra il 1312 e il 1314 la decretale Saepe promulgata dal Pontefice Clemente V, consolidata nelle Clementinae all’interno del Corpus Iuris Canonici. Alla formula «simpliciter et de plano, ac sine strepitu iudicii et figura» (Clem. 5, 11, 2) il pontefice avignonese riconduce la possibilità per il giudice di fare a meno del libello scritto introduttivo della lite, firmato dall’attore e contenente l’indicazione dell’oggetto del contendere (petitio), nonché di una altrettanto formale litiscontestatio; di procedere anche nei giorni riservati alle peraltro copiosissime festività civili; di ridurre le dilazioni, rigettare le eccezioni e gli appelli frustratorî, abbreviando il processo; di ridurre al minimo necessario il numero dei testimoni; di concedere un solo termine per la produzione di articuli e

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«senza libello, senza citazione, senza confusione, senza alcuna ritualità o formalità processuale».

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positiones. Erano, queste ultime, atti di parte diretti a fissare le proposizioni su cui attore e convenuto erano chiamati a rispondere. Sempre al giudice competeva la scelta di interrogare personalmente le parti, di omettere la conclusio e la lettura coram partibus («davanti alle parti») della sentenza. Riprendendo le diverse espressioni utilizzate dalla decretale clementina Saepe per definire il rito sommario, esso si svolge dunque: – simpliciter, nella misura in cui consente al giudice di intaccare gli elementi essenziali del giudizio e di accettare una semiplena probatio, ritenendo sufficiente un grado di convincimento inferiore all’ordinario; – de plano, vale a dire all’insegna della celerità; – sine strepitu, in quanto comprime le solennità del giudizio, riduce il numero dei testimoni, non prevede la presenza di procuratori; – sine figura iudicii, poiché consente l’omissione delle molte formalità procedurali introdotte dal processo di diritto comune. Nei secoli di età moderna (XVI-XVIII), caratterizzati per l’Italia dall’appannarsi delle istituzioni comunali e dal loro progressivo assorbimento all’interno di più ampi aggregati politici signorili, e per l’Europa dal consolidarsi di giurisdizioni monarchiche fortemente identitarie e autoritarie, il ceto borghese mercantile e artigiano si avvia a perdere l’influenza politica che aveva maturato, cessando di essere l’unico artefice del proprio ius. Uno ius coinvolto in una duplice, progressiva trasformazione: da diritto di classe divenendo ‘diritto statuale’, da diritto universale divenendo ‘diritto nazionale’. Le direttrici di questa graduale trasformazione appartengono alla storia politica ed economica dell’intero continente europeo. Le scoperte geografiche avviano il processo di colonizzazione di nuove regioni e continenti. Le monarchie di Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Olanda solcano le rotte del commercio transoceanico divenendone egemoni; entra nel contempo in una crisi irreversibile il mercato mediterraneo che aveva visto nel medioevo protagoniste le città italiane e i loro mercanti. A irrobustire lo spostamento dell’asse dei commerci europei da Oriente a Occidente contribuisce anche, fra XV e XVI secolo, la Riforma Protestante, che, allentando i vincoli e i divieti imposti dalla normativa canonistica all’esercizio delle attività commerciali (si pensi al divieto dei prestiti ad usura), favorisce quelle potenze – come l’Olanda – che avevano aderito alle nuove confessioni ‘riformate’. Per tutta l’età moderna la politica economica europea si identifica con il ‘mercantilismo’, che affida alle monarchie, attraverso atti di imperio come ‘patenti’ e ‘privative’ la gestione in monopolio o il controllo su attività manifatturiere di rilievo nazionale e sulle grandi rotte del commercio marittimo. Alla perdita di un ruolo politico da parte della borghesia mercantile non corrisponde, tuttavia, la diminuzione della sua forza economica costantemente incrementata dalle sollecitazioni dei nuovi mercati. Il successo delle politiche mercantilistiche delle monarchie di Antico Regime riverbera quindi nelle crescenti fortune economi-

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che delle classi mercantili e artigiane. Un processo, questo, precoce e chiaramente leggibile nelle scelte operate dalla monarchia francese a partire dal XVI secolo, che, con gli editti di Francesco II (1560) e di Carlo IX (1563), trasferisce la sede della giustizia mercantile dalle corporazioni ad appositi tribunali speciali di commercio, i cui magistrati − sempre mercanti − sono peraltro di nomina regia. Nell’ambito della giurisdizione, sempre allargata alle controversie in cui anche solo una delle parti fosse appartenente alla categoria professionale, si specifica la facoltà per nobili, ecclesiastici e proprietari terrieri di adire il loro foro privilegiato. Mentre minava il carattere della esclusività della giustizia mercantesca, la legislazione regia ne estendeva peraltro l’efficacia anche nei confronti degli autori di atti di commercio isolati, avviandosi a individuare nell’elemento oggettivo – l’atto di commercio – il criterio discretivo fra la giurisdizione commerciale e quella ordinaria. Sulla base di queste e consimili determinazioni il diritto commerciale si avvia a divenire un diritto ‘pubblico’ nella misura in cui è espressione delle scelte, in materia di economia e di commerci, dell’assolutismo monarchico. Momenti topici di questo percorso appaiono l’Ordinanza sul commercio (1673) e l’Ordinanza della marina (1681) emanate da Luigi XIV, entrambe ispirate dall’idea portante che per conquistare i mercati occorra guadagnarne e meritarne la fiducia. In buona sintesi, l’Ordonnance du commerce concepisce l’esercizio della mercatura come un privilegio concesso dal sovrano e, in quanto tale, dal sovrano medesimo disciplinato in dettaglio nell’interesse dei mercanti, dei terzi e, soprattutto, delle prospere sorti del Regno. L’Ordonnance de la marine, la cui lunga gestazione vide protagonista il ministro Colbert, affronta il delicato e urgente compito di disciplinare su base nazionale le pratiche dei commerci via mare, affidate da secoli a consuetudini e usi condivisi dai paesi con affaccio sul Mediterraneo. Il suo articolato, di elevata tecnicità, venne pressoché integralmente rifuso nel secondo libro del Code de commerce napoleonico del 1807. In età moderna la penisola italiana, tagliata fuori dalle rotte mercantili con il Nuovo Mondo, subisce un processo di involuzione dei traffici commerciali e dei conseguenti esiti economici. Involuzione cui non furono estranee l’eccessiva frammentazione politica del territorio e la scarsa lungimiranza delle dinastie regnanti. È proprio in questa stagione, tuttavia, che in Italia e dall’Italia i caratteri dell’universalità e della specialità che erano stati distintivi del ius mercatorum vengono rinverditi e condivisi grazie a una elaborazione dottrinale di respiro internazionale: la scienza mercantile. Una ‘scienza’ oltremodo opportuna e funzionale nel momento in cui le politiche mercantilistiche delle monarchie e la statualizzazione delle regole del commercio affievolivano il carattere di universalità che ab origine era stato e continuava a essere connaturato alle logiche e all’efficacia del ius mercatorum. La dottrina commercialistica nasce in Italia nel XVI secolo e trova il suo centro motore nell’impegno di Benvenuto Stracca († 1578), giurista anconetano autore nel 1553 del Tractatus de mercatura seu mercatore, la prima opera nella quale il diritto commerciale viene esposto in maniera sistematica nei suoi profili soggettivi, contrattuali, processuali. Sviluppando in maniera unitaria le linee di

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specialità della materia e utilizzando l’elaborazione dottrinale già presente nelle opere esegetiche di maestri della scuola del commento – soprattutto del perugino Baldo degli Ubaldi († 1400) −, Stracca riesce a ricondurre gli istituti e i riti della prassi mercantile alle figure del diritto giustinianeo grazie a un potente sforzo interpretativo che si muove all’interno delle logiche del sistema di diritto comune, innovando nella continuità. Il De mercatura godette per tutta l’età moderna di una enorme fortuna editoriale: nato secondo la testimonianza del suo autore per richiesta degli stessi mercanti, esso divenne la ‘bisaccia’ cui attingevano il pratico del diritto e il professionista del mercato. I percorsi contemporanei del diritto commerciale volgono dal ius mercatorum alla lex mercatoria. Dalla gestazione pratica e dottrinale di un complesso normativo prevalentemente consuetudinario, elaborato e controllato da un ceto a difesa dei propri interessi, alla formazione di una legislazione ‘tecnica’ in materia di commercio, espressa dalla giurisdizione statuale. Ma questa è storia di altri.

Bibliografia essenziale M. Ascheri, I diritti del medioevo italiano. Secoli XI-XV, Carocci, Roma 2000. M. Bellomo, Saggio sull’università nell’età del diritto comune, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 1996. M. Bellomo, Medioevo edito e inedito, I-III, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 1997-1998. M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, il Mulino, Bologna 1994. M. Cavina (cur.), Il processo breve. L’aspirazione alla brevità del processo penale tra storia e attualità, Pàtron, Bologna 2012. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I-II, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 1997. E. Cortese, Scritti, a cura di U. Petronio e I. Birocchi, Fondazione Cisam, Spoleto 1999. F. Galgano, Lex Mercatoria. Storia del diritto commerciale, il Mulino, Bologna 2001. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 2006. A. Padoa Schioppa, Il diritto nella storia d’Europa. Il medioevo, parte prima, Cedam, Padova 1998. A. Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, LED Edizioni Universitarie, Milano 1992. U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, III ed., Giappichelli, Torino 1998. E. Spagnesi, “Libros legum renovavit”. Irnerio lucerna e propagatore del diritto, Il Campano, Pisa 2013.

III DALLA CRITICA UMANISTA AL PARADIGMA DELLA MODERNITÀ di Marco Cavina, Riccardo Ferrante, Elio Tavilla* SOMMARIO: 1. L’Umanesimo giuridico: a) diritto comune e cultura rinascimentale; b) caratteri sincronici dell’Umanesimo giuridico europeo (secc. XV-XVI); c) Umanesimo e diritto nel Quattrocento: versante propositivo e versante critico; d) il Cinquecento e la formazione dell’Umanesimo giuridico: Andrea Alciato e l’Italia; e) l’Umanesimo giuridico in Europa, con particolare riguardo alla Francia. – 2. Declinazioni umanistiche: la giurisprudenza elegante olandese e l’Usus modernus Pandectarum. – 3. La fine dell’universalismo medievale e il Nuovo Mondo: a) paradigmi della modernità; b) la Scuola di Salamanca; c) Ugo Grozio. – 4. La legge, o di un termine cui corrisponda qualcosa di esistente.

1. L’Umanesimo giuridico: a) diritto comune e cultura rinascimentale Strana sorte quella dell’umanesimo giuridico nei manuali di storia del diritto medievale e moderno, schiacciato – e talvolta vilipeso – fra medievalisti e modernisti. A medievalisti anche di grande finezza l’umanesimo giuridico è parso un fenomeno tutto sommato minore: in fondo – si finisce talvolta per dire – umanista e filologo lo era stato anche Irnerio, e ‘rinascimento giuridico’ viene correntemente definita l’alba della scientificizzazione del diritto nella scuola della glossa. Dal canto loro, agli studiosi del diritto moderno e dei processi che condussero all’età dei codici e delle costituzioni gli umanisti tendono ad apparire come i confusi pionieri di un gigantesco fenomeno che troverà le sue eccellenze in altri posteriori movimenti, il giusnaturalismo o l’illuminismo giuridico in particolare. In prima approssimazione, l’umanesimo giuridico si presenta come una irruzione dell’umanesimo tout court e della cultura rinascimentale nel mondo del diritto. E qui occorre una prima precisazione. Umanista è termine generico.

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Il § 1 è stato scritto da Marco Cavina; i §§ 2 e 3 da Elio Tavilla; il § 4 da Riccardo Ferrante.

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Umanista è l’uomo di lettere, che produce e analizza letteratura e linguaggio. Sotto questo profilo dall’antichità ad oggi umanisti ve ne sono sempre stati, così come giuristi particolarmente sensibili alle lettere. Quando parliamo invece in storiografia dell’umanesimo che si sviluppa particolarmente in Italia fra tardo XIV e XVI secolo facciamo riferimento ad una specifica ‘filosofia’, cioè ad una scuola di pensiero – dalle molte sfaccettature – che nacque, si sviluppò e si estinse, influenzando in modo importante lo sviluppo delle lettere e della lingua, ma anche – per quello che qui ci interessa – del diritto. Come meglio vedremo sotto la cupola della ‘filologia umanistica’ si raggrumano molteplici fenomeni assai rilevanti anche per una scienza sociale come il diritto. Del resto, sin dal celebre e discusso libro di Hans Baron 1, la valenza ‘civile’ dell’umanesimo è stata ampiamente sottolineata. L’umanesimo, anche quello giuridico, fu una cultura riformatrice, e quindi profondamente radicata nei propri tempi. Certo gli umanisti si sentivano ‘diversi’. Il loro giudizio sui secoli precedenti, medievali, è spesso stroncante e impietoso. Tuttavia nell’umanista si intravvede – insieme a più d’un profilo del futuro giusnaturalismo – quella cultura riformatrice d’antico regime che fra Seicento e Settecento percorse un suo proprio itinerario razionalista, ma non radicale come sarà invece quello che – consapevolmente o inconsapevolmente – condusse alla Rivoluzione. Lo si vedrà più avanti quando tratteremo dei tempi del De Luca, del Gravina e del Muratori 2. In un discorso necessariamente di sintesi affronteremo qui la tematica dell’umanesimo giuridico anzitutto schematicamente e sincronicamente, presentandone i principali tratti caratterizzanti. L’umanesimo giuridico, infatti, annoverò correnti diverse con interessi diversi nel tempo e nello spazio. In un secondo momento scenderemo sul piano diacronico e vedremo di individuare alcuni autori particolarmente esemplificativi.

b) caratteri sincronici dell’Umanesimo giuridico europeo (secc. XV-XVI) I. La filologia. Le lezioni, le note e i saggi di Poliziano – dotto umanista ed elegante poeta latino (1454-1494) – segnano negli ultimi decenni del secolo XV il momento di massima concentrazione della tecnica e della Weltanschauung filologiche. A dirla con le parole di Guillaume Budé (1467-1540) – ma non era il solo – quella filologica è per gli umanisti una doctrina orbicularis (dottrina universale): l’umanista non è un medico, non è un astronomo, non è un giurista, ma insegna al 1

The Crisis of the Early Italian Renaissance. Civic Humanism and Republican Liberty in an Age of Classicism and Tyranny, Princeton University Press, Princeton N.J. 1966 [trad it.: La crisi del primo rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, Sansoni, Firenze 1970]. 2 V. infra, cap. IV, §§ 5, 6 e 7.

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medico ‘come’ leggere i testi di Ippocrate, all’astronomo ‘come’ leggere i testi di Tolomeo, al giurista ‘come’ leggere i testi di Giustiniano. La filologia, scienza del linguaggio, attraeva nella sua orbita tutte le discipline e le unificava all’insegna di un rinnovamento profondo e sostanziale del sapere letterario e filosofico. La conoscenza del greco antico determina il superamento della figura medievale del mero grammaticus, – modesto – conoscitore e maestro di lingua latina. Il letterato umanista è in primo luogo filologo. Gli umanisti detengono il sapere che appartiene alla scienza della lingua. La filologia è la scienza che non ha una specifica missione se non quella di comprendere le parole e i testi. Interpretare i testi giustinianei richiede, secondo gli umanisti, un bagaglio imponente di saperi, e in primis una conoscenza sofisticata non solo del latino, ma anche del greco. L’umanesimo giuridico – nel titolo di un saggio di Hans Erich Troje – è stato addirittura sintetizzato come l’età in cui graeca leguntur (i testi greci sono compresi) a dimostrare la lontananza da quell’età dei glossatori che davanti ai termini greci dichiaravano con semplicità la propria ignoranza (graecum est legi non potest: è greco e non può essere compreso). II. La secolarizzazione. L’afflato filosofico della filologia rinascimentale si coglie appieno nella secolarizzazione e nella storicizzazione che ne derivano. Per gli umanisti cogliere il senso profondo di un testo impone un’analisi ‘scientifica’ dei testi antichi nell’esatto significato lessicale e nel contesto storico-culturale di provenienza. L’atteggiamento secolarizzante proprio degli intellettuali umanisti pone il diritto romano in un punto prospettico storicamente distanziato dallo sguardo dell’osservatore. Esso coglie il mondo del diritto come un mondo in divenire, contrariamente alla concezione giuridica medievale che percepisce il diritto dotto del proprio tempo come il continuum di quello romano antico. L’aura di sacralità che i giuristi medievali attribuivano ai testi romani tende a venir meno e diventano ricorrenti tra i giuristi atteggiamenti di critica – talora violenta – nei confronti di Triboniano e di Giustiniano, a cui si imputavano la scomparsa e l’oblio della biblioteca giuridica dell’antica Roma, oltre che una disinvolta faciloneria nella selezione e nella collocazione dei testi nelle nuove raccolte. Si tratta, però, di una manifestazione di ‘anti-tribonianismo’ e di ‘anti-giustinianismo’, ma non di ‘anti-romanismo’: il diritto romano continua ad essere considerato il principale e più ricco oggetto di analisi. III. Il crollo delle auctoritates. Come è noto, nel tardo bartolismo quattrocentesco e posteriore, l’argumentum per eccellenza era diventato quello ab auctoritate: il giurista, cioè, giustificava le proprie asserzioni anzitutto facendo riferimento ad analoghe dottrine di altri giuristi più o meno importanti. Con l’umanesimo giuridico si assiste all’abdicazione del principio dell’auctoritas proprio della scolastica medievale.

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Al contrario, secondo l’approccio umanistico l’argomentazione deve convincere per la sua razionalità. Amicus Plato, amicus Aristoteles, magis amica veritas (sono amico di Platone, sono amico di Aristotele, ma sono più amico della verità): recitava un diffuso motto umanista. IV. La riforma del mos docendi: la methodus. Gli umanisti avvertono la necessità di una riforma del mos iuris docendi (modo di insegnare il diritto) e della trasmissione del sapere giuridico attraverso una nuova methodus. Il problema della metodologia da seguire nell’insegnamento del diritto non era stato oggetto di vasta riflessione da parte dei glossatori né da parte dei commentatori. Al contrario, i giuristi umanisti – come gli umanisti tout court – riconoscono l’importanza scientifica dello studio del metodo nell’insegnamento e ricercano una didattica fondata su di un metodo sistematico, categorizzando e classificando l’intera materia giuridica del Corpus iuris diversamente dai maestri di ius commune. Nel XVI secolo si presenta così una polemica contrapposizione tra mos italicus iuris docendi e mos gallicus iura docendi: il primo consiste nella conservazione della tradizione dei commentatori italiani – appena ritoccata –; il secondo è proprio degli umanisti, soprattutto francesi, caratterizzandosi in quanto metodo giuridico-sistematico. V. L’esigenza di sistema (ius in artem redigere). La riforma della methodus nella didattica si connette sul piano scientifico al primo baluginare della ricerca di un sistema razionale del diritto dotto, il cui viatico era il citatissimo ius in artem redigere di Cicerone, che era stato anche l’autore di un’opera in tal senso a noi non pervenuta. Nel Corpus iuris la sistematica più soddisfacente era colta nelle Istituzioni, il che non deve stupire, dal momento che le Istituzioni erano sì un testo con valore normativo, ma diretto principalmente alla didattica, e pertanto provvisto di un minimo di strutturazione sistematica sostanziale. Per tale ragione, lo schema tripartito delle Istituzioni (personae / res / actiones: persone / cose / azioni) – divenne una sorta di archetipo di partenza nella ricerca di un nuovo ordine del diritto dotto. VI. Nascita di nuovi generi letterari: compendii e tractatus. In questo generale disegno riformatore su tutti i piani del diritto, anche le tipologie della letteratura giuridica erano destinate a mutare radicalmente, con finalità e morfologie assai diverse, come vedremo negli esempi che verremo presentando. Uno di questi è il compendium, che consiste in una sorta di sguardo generale su tutto il diritto o, quantomeno, su alcune sue grandi ripartizioni. Si tratta di un genere letterario che si sviluppò soprattutto tra Francia e Germania. Radici umanistiche – ma non solo – si ritrovano anche alla comparsa fra XV e XVI secolo di un modello letterario destinato ad una plurisecolare fortuna: il trattato. Nel Medioevo il tractatus si presentava solitamente – in diritto e in teo-

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logia – come una raccolta di quaestiones incentrate sul medesimo argomento di cui si ponevano e risolvevano i principali problemi con metodo dialettico. Nella prima età moderna nasceva la trattatistica giuridica specialistica, così come ancora oggi la consideriamo, nei più diversi campi del diritto, e con maggior dovizia in materia penale, processuale e commerciale. Su di essa agirono sicuramente anche modelli medievali, ma nuovo è l’approccio sistematizzante di evidente matrice umanista. VII. Il mito della brevitas e del ritorno alle fonti. Il metodo teoretico proprio del giurista umanista, teleologicamente orientato al recupero della purezza della fonte giuridica, impone il ridimensionamento del metodo argomentativo dialettico – con tutte le sue scansioni di origine aristotelica che necessariamente comportava –, proprio delle scuole dei glossatori e dei commentatori. La parola d’ordine è brevitas et simplicitas. Alciato esortava gli operatori del diritto a puntare direttamente ad iugulum causae (alla ‘gola’ della causa) e mal sopportava metodo dialettico e accumulo di citazioni sia nelle opere dottrinali che nei consilia, come vedremo più avanti. VIII. La centralità del testo e il nuovo ruolo dell’interprete. Dietro alle incitazioni per il ritorno alle fonti e per la brevitas, dietro la richiesta di un nuovo e prioritario rapporto diretto col testo normativo si intravede un modo nuovo di concepire il ruolo dell’interprete, giudice o giurista. Tale rapporto con la legge assunse connotati diversi secondo la personalità del singolo giurista umanista e secondo le strutture istituzionali in cui andava a calarsi. Poteva limitarsi ad una ripresa in chiave filologica e razionalista nello studio del diritto romano dotto, ovvero poteva rivolgersi alla rivalutazione del diritto patrio e alla proposta di produrre un nuovo Corpus iuris civilis, in linea con i tempi nuovi. Evidente era il richiamo alla subordinazione dell’interprete al testo normativo sia pure fatto oggetto di riflessioni razionalistiche. Evidente era il rifiuto del bartolismo e del giurista quale funambolico creatore di diritto, che considerava il testo quale mero ‘pretesto’, al mero fine di convalidare dottrine che di fatto erano liberamente escogitate dal giurista per risolvere a modo suo i problemi del proprio tempo. Iniziano i tempi della cosiddetta ideologia antigiurisprudenziale che non mette in discussione il diritto comune dotto, ma imputa agli interpreti le evidenti criticità del sistema a fine medioevo, soprattutto sul piano della certezza del diritto.

c) Umanesimo e diritto nel Quattrocento: versante propositivo e versante critico Nel XV secolo non si può ancora parlare di una nuova scuola giuridica qualificabile come umanistica. Di massima assistiamo a una mera contrapposizione fra umanisti e giuristi bartolisti, due culture che poco hanno in comune e che

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poco comprendono dei reciproci fini e dei reciproci ruoli, e tantomeno di eventuali sinergie, il che determinò polemiche se non invettive. Giuristi e umanisti comunicano ma non si miscelano. Lo snodo cruciale riguarda l’interpretazione dei testi di diritto romano. Secondo gli umanisti, glossatori e commentatori non erano muniti di strumenti culturali e linguistici sufficienti per interpretare a fondo il corpus giustinianeo nella sua inestimabile ma assai complessa profondità e stratificata storicità. La fase embrionale del rapporto fra umanesimo e diritto si consumò fatalmente nel segno dello scontro, a dispetto dei precoci contatti tra giuristi e umanisti. Nel Quattrocento possiamo individuare due versanti di tali problematica. Non mancò un versante propositivo, che indusse nel campo del diritto alcune significative novità. Pensiamo, per esempio, all’interesse per il diritto pubblico romano, che nelle scuole medievali era stato percepito come marginale per il suo scarso significato pratico, ma che ora viene invece studiato con rinnovato interesse, impostando anche una prima scienza comparativa del confronto. Pensiamo anche alle dispute sui saperi, in cui si impose come oggetto di una ricca letteratura il confronto fra scienza medica e scienza giuridica: fu un luogo culturalmente importante in cui umanisti e giuristi ebbero modo di riflettere – come mai si era fatto prima – sul ruolo e sul senso delle leggi e del diritto. Ancora nel ‘versante propositivo’ quattrocentesco si segnalano le ricerche documentali di nuovi codici che portarono al ritrovamento di materiali significativi anche in campo giuridico. Ma ricordiamo soprattutto l’aspirazione a edizioni critiche, ed in particolare la lunga gestazione della edizione critica umanistica del Digesto, fondata soprattutto sul ricorso alla littera florentina. Iniziata da Angelo Poliziano (1454-1494) che poté valersi del favore di Lorenzo il Magnifico per la consultazione e lo studio del documento, l’impresa si protrasse a lungo con alterne vicende, in cui, fra i molti, emergono i nomi del giurista bolognese Lodovico Bolognini (1446-1508) e del giurista umanista spagnolo Antonio Agustín (1516-1586), culminando nell’edizione del 1553 ad opera di Lelio Torelli (1498-1576). Ma la tensione per l’analisi critico-filologica emerge in ogni opera dell’umanesimo giuridico. Peraltro, largamente prevalente fu nel Quattrocento – come abbiamo già osservato – il versante critico del rapporto fra umanesimo e diritto. Momento emblematico non può non ritrovarsi nelle polemiche di Lorenzo Valla (1407-1457), fra i più importanti umanisti in senso assoluto, dovendosi a lui la grammatica latina – Elegantiae linguae latinae (1435-1444) – che determinò in pochi decenni la scomparsa delle confuse e limitate grammatiche medievali, innovando radicalmente lo studio e l’insegnamento della lingua latina. Il Valla usava la polemica abitualmente come strumento di conoscenza. Le sue invettive contro i giuristi non furono, dunque, un caso bizzarro determinato da una particolare antipatia. La filologia è da lui usata magistralmente come strumento secolarizzante che non riconosce alcun ostacolo autoritativo o sacrale al proprio esercizio. Contro il diritto comune medievale ebbe modo di scagliarsi in una celebre

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‘lettera’-trattatello. Durante il suo soggiorno pavese narrava il Valla di aver conversato con un giurista che sosteneva la superiorità di Bartolo su Cicerone. Incuriosito e dubbioso il Valla si lesse un’operetta bartoliana – De insigniis et armis – e approfondì la sua conoscenza dei lavori dei giuristi – glossatori e commentatori –, esperienza che lo lasciò scandalizzato ed esterrefatto per l’ignoranza, il pressapochismo e la rozza superficialità con cui essi scrivevano e interpretavano le sofisticate opere dell’Antichità. Nel In Bartoli de insigniis et armis libellum ad Candidum Decembrium (1433) il linguaggio del Valla contro i giuristi svaria fra perfida ironia e insulti volgari. L’ideologia antigiurisprudenziale vi trovava un suo primo esplicito manifesto. Ma nemmeno la religione rappresentava un freno all’esercizio della filologia, che il Valla ebbe l’improntitudine di esercitare persino sui Vangeli (Annotationes in novum testamentum [1449]). Ed a Napoli nel 1444 era intervenuto sulle prediche del frate Antonio da Bitonto, richiedendogli sfacciatamente le fonti attestanti l’autenticità di una preghiera, il ‘Simbolo degli Apostoli’, che secondo la leggenda sarebbe stata costruita su dodici versetti redatti dai dodici apostoli: ne seguì un processo da cui il Valla uscì a fatica. Cogliendo l’occasione di aiutare il suo protettore Alfonso d’Aragona in lotta con Roma per l’investitura del regno di Napoli, il Valla scrisse il De falso credita et ementita Constantini donatione (“Della falsamente creduta e finta donazione di Costantino”, 1440], dove dimostrò su basi filologiche e riferimenti storici e linguistici la falsità del documento della donazione di Costantino a papa Silvestro, secondo cui Costantino, sanato dalla peste da papa Silvestro, avrebbe donato alla Chiesa l’Impero d’Occidente. Si trattava infatti di un falso – pare – della fine dell’VIII secolo, che possedeva un notevole valore giuridico ed era abitualmente allegato dalla Chiesa nelle sue dispute temporali. Non a caso era recepito anche nel Decretum di Graziano tra i fondamenti del potere temporale della Chiesa. Oltretutto sulla donazione di Costantino si fondava pure quella bizzarra teoria omni-insulare, secondo cui il Papa avrebbe avuto nella propria disponibilità tutte le isole e quindi persino il Nuovo Mondo, che inizialmente isola era considerato. I problemi giudiziari non spaventarono mai il Valla.

d) il Cinquecento e la formazione dell’umanesimo giuridico: Andrea Alciato e l’Italia È il Cinquecento il secolo dell’umanesimo giuridico, allorché si crea questa nuova figura di giurista, definibile come giurista umanista, un giurista vocato a risolvere ovviamente anche i problemi della pratica, ma permeato di molti di quei valori e di quei caratteri che abbiamo schematizzato nel primo paragrafo. Ma perché proprio in quei tempi? A nostro avviso fu decisiva, nel secondo Quattrocento, la definitiva egemonia sugli studi pre-universitari da parte degli umanisti. Le loro ricche grammatiche, le loro sfavillanti opere letterarie – tramite precettori imbevuti della loro cultura – sono ormai alla base della biografia di

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molti giuristi del primo Cinquecento. Fra di loro, una volta avviati agli studi giuridici, alcuni non dimenticheranno quella lezione di base e saranno attratti ad attuare un modo ‘umanistico’ di fare diritto, soprattutto in quelle aree geografiche in cui le strutture pubbliche venivano rafforzandosi e miravano a circoscrivere il ruolo degli interpreti – giudici e giuristi –, allargando invece quello della norma pubblica. Il caso della Francia è emblematico. Ma non bisogna cadere nel rischio di facili equazioni. Anzitutto l’assolutismo non fu l’unico fattore in campo e va tenuta nel debito conto la politica locale, che può essere assolutista in una piccola entità statale e non in una grande nazione. Questo spiega il successo del movimento nella Germania politicamente frantumata, e il suo relativo insuccesso in Spagna, perché l’umanesimo giuridico fu a tutti gli effetti un fenomeno europeo. E non a caso alle sue radici è stato indicato un ‘triumvirato’ composto da un tedesco (Ulrich Zäsy, 1461-1535), un francese (Guillaume Budé) e un italiano (Andrea Alciato). Andrea Alciato nacque nel fatale 1492, che emblematicamente è stato spesso considerato l’inizio dell’età moderna. Cristoforo Colombo sbarca nel Nuovo Mondo; cade Granada e termina la Reconquista in Spagna; muore Lorenzo il Magnifico. Con Alciato, piuttosto che con Zasio e Budé, l’umanesimo giuridico ritrova nel suo equilibrio e nella sua limpida intelligenza la propria icona. Di nobile famiglia milanese – nacque a Milano o ad Alzate – si munì di una vastissima cultura umanistica greco-latina sotto la guida di Giano Lascaris, Demetrio Calcondila e, soprattutto, Aulo Giano Parrasio. Ancora ragazzo si dedicò alla ricerca di epigrafi milanesi ed abbozzò una storia di Milano. Dal 1507 iniziò gli studi giuridici all’Università di Pavia sotto la guida di Paolo Pico, Filippo Decio e Giason del Maino, a cui andavano le sue preferenze. Nel 1511 completò gli studi a Bologna, avendo come maestro Carlo Ruini. Si addottorò a Ferrara, per ragioni esclusivamente economiche – le spese di dottorato erano molto più basse che a Bologna – nel 1516. Esercitò per qualche tempo l’avvocatura che, per sua esplicita ammissione nell’epistolario, avvertì sempre come un onere, talvolta necessario soltanto per conseguire una vita più agiata, ma passò presto alla cattedra. La sua carriera docente si svolse fra le Università di Avignone (che, ricordiamolo, era parte dello Stato Pontificio), Bourges, Bologna e Pavia. In campo religioso lo si può ascrivere ad un cauto pirronismo, vicino comunque ad Erasmo, con cui fu in rapporto epistolare. Certo è che una sua operetta Contra vitam monasticham fu messa all’indice dalla Chiesa. Alciato è noto anche in campo puramente letterario, fra gli iniziatori e i massimi esponenti di una sorta di ‘poesia visiva’: gli emblemata, dove i versi latini erano associati ad una immagine allegorica e ad un motto sapienziale o morale. La sua produzione fu, comunque, vasta, brillante e multiforme. Scrisse una commedia, saggi storici e, per quel che qui ci interessa soprattutto, saggi giuridici. Scrisse qualche commentario, ma si avverte la sua insofferenza per il genere, di cui disconosce la centralità quale struttura cardine della letteratura giuridica. Le sue opere sono una esplosione di spumeggiante erudizione sin dal titolo. Ricordiamo ad esempio alcune opere dal

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contenuto vario, in cui dà mostra del suo sapere filologico: Paradoxa; Praetermissa (omissioni); Dispunctiones (ricerche); Parerga Iuris (accessori del diritto). Fra gli altri saggi ricordiamo il De singulari certamine – nel clima della corte di Francesco I di Francia – in materia di duello e scienza dell’onore, tema di eccezionale rilevanza nella società d’età moderna. Il pensiero e l’opera di Alciato sono oggetto di varie interpretazioni, alcune assolutamente fantasiose, segnate da una sostanziale insensibilità per il momento tecnico-giuridico in senso stretto, fondamentale nella visione alciatea. Alciato non ha nulla da polemizzare contro glossatori e commentatori. Li usa per quel che gli serve e li giustifica, affermando che anch’essi e le loro deficienze culturali devono essere adeguatamente compresi e storicizzati nel contesto dei loro tempi. Al centro del pensiero alciateo è la ricerca della chiarezza se non di una qualche della certezza del diritto, negando valore assoluto alle auctoritates, e ridimensionando – se non espungendo – la dialettica bartolista. Non a caso nella prefazione dei Parerga l’Alciato sostiene che il problema della incertezza del diritto è determinato essenzialmente dal mare magnum di una trattatistica giuridica sterminata, che era di pubblico interesse ‘recidere’ piuttosto che continuare a onerare i lettori con ponderosi commentarii. Senza che il timone del sistema fosse nelle mani dei giuristi di maggiore affidabilità, all’Alciato la situazione appariva sconsolante. Si era creato un enorme, indominabile, contraddittorio e magmatico ius novum incerto e irrazionale, prodotto da interpreti di modestissima qualità. Sotto questo profilo si possono individuare due momenti topici del pensiero alciateo: anzitutto il ridimensionamento del ruolo del giurista, quale emerge nei Parerga e su cui torneremo nel prossimo paragrafo; in secondo luogo la ricerca di una nuova ermeneutica e di un nuovo apparato interpretativo da riportare sui testi romani. Le novità dell’ermeneutica alciatea attende ancora di essere studiata adeguatamente, ma nel De verborum significatione viene proposto un programma molto chiaro. Il titolo del digesto De verborum significatione non poteva non esercitare un fascino magnetico su di un giurista umanista. Alciato fra il 1520 e il 1530 ne fece attentissimo oggetto di studio. Redasse dapprima un commentario secondo i modi tradizionali, ma non tardò a convincersi che era necessario un trattato specifico che sviluppasse i problemi dell’ermeneutica con particolare riguardo alle esigenze della scienza giuridica. Anzi quel trattato avrebbe dovuto fare da apripista per tutta una serie di opere che in qualche modo ricostruissero il diritto romano giustinianeo e lo rileggessero secondo le moderne categorie filologico-umanistiche. Nessuno prima di lui – scrive l’Alciato nell’introduzione – si era cimentato sul de verborum significatione, se non un oscuro Bartolomeo da Verona (in realtà Bartolomeo Cipolla, giurista tutt’altro che mediocre), la cui opera non era nemmeno riuscito a trovare, ma che doveva essere assai probabilmente di poco conto. Era necessario semplificare, chiarire, razionalizzare, e questo soltanto un giurista umanista – secondo l’Alciato – poteva farlo con qualche speranza di successo.

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La necessità di resecare tanta librorum multitudo (tagliare una così enorme moltitudine di opere) era sostenuta anche da un altro giurista umanista italiano, il piemontese Giovanni Nevizzano (1485 ca.-1540), che proponeva l’integrazione del Corpus iuris con un testo che risolvesse le questioni più intricate e controverse. La sua opera più affascinante fu però la Sylva nuptialis (1524), dove sono adunate insieme le nozioni concernenti il matrimonio provenienti dai saperi più disparati, integrando e organizzando entro schemi dialettici le culture dotte con quelle popolari. Vari altri giuristi italiani legati all’umanesimo giuridico potrebbero essere menzionati. Fra di loro possiamo ancora ricordare, ad esempio, il reggiano Guido Panciroli (1523-1599), che si segnalò per i suoi forti interessi storiografici. E pure l’approccio giuridico-umanista non divenne la cifra della scienza giuridica italiana. Il paese che aveva in buona misura creato la cultura rinascimentale, mantenne nella scienza giuridica una forte continuità con la propria – peraltro imponente – tradizione medievale di diritto comune. Le ragioni addotte a tale fenomeno insistono sulle istituzioni politiche particolaristiche italiane e sulla difficoltà di emersione di Stati almeno tendenzialmente assoluti. In realtà, le spiegazioni non sono semplici ed è facile osservare come i giuristi italiani nell’avanzare del Cinquecento e poi del primo Seicento dimostrino assai spesso un metodo ‘meticcio’. Le istanze dell’umanesimo giuridico, infatti, entrarono nel bagaglio di molti giuristi italiani che, pur facendo professione di fede bartolista, cureranno maggiormente il proprio latino, si porranno problemi filologici, si porranno problemi di inquadramento storico, si professeranno – almeno a parole – fautori della brevitas e della chiarezza, e nemici delle sottigliezze e dei funambolismi dialettici fini a se stessi.

e) l’umanesimo giuridico in Europa, con particolare riguardo alla Francia L’umanesimo giuridico fu un fenomeno europeo, che annoverò cultori in tutta l’Europa occidentale del diritto comune. Se la Spagna si mantenne abbastanza appartata – abbiamo citato il nome di Antonio Agustín –, la Germania – e più tardi i Paesi Bassi – si segnalò per l’entusiastica adesione di molti giuristi. Peraltro i giuristi culti tedeschi si caratterizzarono – e lo Zasio per primo – per il loro conservatorismo, che salvaguardava molti aspetti del bartolismo formalmente in uso in area tedesca. E ciò tanto più dopo la recezione formale del diritto comune da parte del Reichskammergericht, il tribunale camerale dell’Impero, che dopo la riforma del 1495 giudicava nach des Reichs gemeinen Rechten (secondo il diritto comune dell’Impero). Bonifacio Amerbach (1495-1562), un grande amico dell’Alciato, pur giurista umanista difendeva in una sua opera (Defensio interpretum iuris civilis) i giuristi bartolisti, sottolineando – come del resto l’Alciato stesso – che anche le loro lacune culturali dovevano essere oggetto di adeguata storicizzazione. Altri giuristi tedeschi si applicarono a produrre compendi e sintesi del diritto comune. Ricordiamo fra loro Sebastian Derrer

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(...1512-1541), Johannes Apel (1486-1536) e Konrad Lager (1500 ca.-1543). In particolare nello sforzo filosofico-sistematico di quest’ultimo si avverte, ad un tempo, l’influenza religiosa protestante e una impostazione pre-giusnaturalista. Frequenti furono pure gli appelli al sovrano – ad esempio, di Viglius van Aytta van Zwichem (1507-1577) e di Sebastian Derrer –, affinché tramite una commissione di esperti, risolvendo ufficialmente le controversie più complesse, si circoscrivesse l’incertezza del diritto procurata dal magma delle auctoritates. È comunque in Francia che troviamo la pienezza dell’umanesimo giuridico nei suoi aspetti caratterizzanti. Anche nel Quattrocento, prima del già citato pioniere Guillaume Budé – più umanista che giurista, fondatore del Collège de France nel 1530 –, la Francia aveva conosciuto sussulti umanistico-giuridici. Pensiamo, ad esempio, alla singolarissima opera di Martial d’Auvergne (1430 ca.-1508) Les arrêts d’amour, in cui si disegna una complessa – in gran parte fantasiosa, in parte no – giurisdizione per casi d’amore, in cui confluiscono e si miscelano una raffinata cultura letteraria con quella giuridica dotta. Schematizzando una tematica assai complessa, in quanto l’umanesimo giuridico francese – anche su impulso dell’insegnamento francese dell’Alciato – espresse veramente le istanze della scuola nell’intero ventaglio delle sue potenzialità, si possono enucleare di massima tre indirizzi principali: 1. indirizzo filologico. Massimo esponente ne fu Jacques Cujas (1522-1590), che eccelse nell’esegesi analitica e critica del testo, con una profondissima cultura umanistica, dalle Observationes et emendationes ai Commentarii alle Pandette e al Codice. E tuttavia è stato anche di recente dimostrato che il ‘filologismo’ non impedì al Cujas di operare incisivamente sul piano rigorosamente tecnico-giuridico. 2. indirizzo sistematico. Ne furono esponenti di spicco François Connan (1508-1551), col suo interesse per il diritto delle genti e il diritto positivo, e Hugues Doneau (1527-1591), che concentrò le sue riflessioni sulle geometrie del diritto privato secondo una logica fondata sull’ordine naturale. Accanto agli autori più celebri per i quali ci siamo limitati a due rapidi esempi, non mancarono giuristi – talora dalla storiografia a torto considerati non umanisti – che si proposero opere di sistemazione enciclopedica, rileggendo con occhio di giurista materiali prettamente letterari ed eruditi, ma non per questo privi di pratica rilevanza. Ad esempio, il Catalogus gloriae mundi di Barthélemy de Chasseneuz (1480-1541) fu un tipico prodotto dell’enciclopedismo rinascimentale, opera umanistica e giuridica, che si incentrava – non a caso – sull’onore, problema per definizione interdisciplinare e di vastissimo successo nella pubblicistica cinquecentesca. Ma nel saggio del Chasseneuz l’onore divenne addirittura la griglia di una vera e propria enciclopedia di tutto il creato. In dodici libri ed in 630 fittissime pagine in folio l’intera esperienza secolare e celeste si condensava compatta, ritrovando intorno all’onore –

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concetto giuridico, filosofico e letterario – il proprio archetipico motivo d’ordine. 3. La relativizzazione del diritto, la richiesta di un nuovo Corpus e l’antitribonianismo. La storicizzazione e la relativizzazione dei prodotti giuridici – culturali e normativi – condusse più di un autore ad auspicare un nuovo diritto per il presente, magari sulla falsariga di Giustiniano. Se questi aveva redatto un Corpus iuris civilis, meravigliosamente idoneo ai propri tempi e alle esigenze dell’Impero romano, il re di Francia avrebbe ben potuto fare altrettanto. Charles du Moulin (1500-1566) – allievo di Alciato – propose dunque la redazione e promulgazione di un nuovo Corpus iuris per la Francia, fondato anche sul droit commun coutumier. Ma il processo di relativizzazione e contestualizzazione del diritto condusse ad esiti ancora più radicali nell’opera di François Hotman (1524-1590), autore di una delle opere più celebri dell’umanesimo giuridico, di cui andò a rappresentare una vera e propria summa: l’Antitribonian ou discours sur l’estude des loix (1567), in cui criticava ferocemente il Corpus iuris civilis sotto tutti i profili: contenutistico, formale e sistematico. Di fatto, quindi, la Francia divenne la terra dell’umanesimo giuridico per eccellenza, terra del mos gallicus iuris docendi nel suo stato più puro, pieno e complesso, a differenza degli approdi ‘meticci’ che abbiamo visto più tipici dell’esperienza italiana (ma non solo). Le guerre di religione segnarono la fine del primato francese, soprattutto perché il protestantesimo attirava irresistibilmente gli inquieti umanisti del Rinascimento, e quindi anche i giuristi umanisti. Dell’umanesimo giuridico sarà erede la ‘scuola elegante’ olandese, che proseguirà lungo tutto il Seicento e oltre 3.

2. Declinazioni umanistiche: la giurisprudenza elegante olandese e l’Usus modernus Pandectarum Il metodo umanista trovò terreno fertile anche nei Paesi Bassi e in Germania. Quasi in contemporanea con l’indipendenza delle Province Unite protestanti, la costituzione dell’università olandese di Leida (1575) pose le basi per la recezione del metodo storico e filologico che la scuola culta francese aveva perfezionato ed elevato a modello da imitare: è significativo, da questo punto di vista, che proprio a Leida, tra l’altro, insegnò Ugo Donello, uno dei giuristi umanisti più celebri della seconda metà del sec. XVI, fuggito dalla Francia cattolica perché ugonotto, a cercare riparo nei Paesi di fede protestante. Nei giuristi olandesi del Seicento emerge con forza un approccio incline alla 3

V. infra, § 2.

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verifica dell’autenticità dei testi e una costante attenzione per le fonti antiche. È naturale che tale tendenza sia da ascrivere alla metodologia culta francese; ma vi è qualcosa in più. In un’area geo-politica da poco staccatasi dall’Impero cattolico egemonizzato dalla Spagna e impegnata in un’espansione commerciale e marittima senza precedenti, la futura Olanda avvertiva urgente il bisogno di ancorare la giurisprudenza a finalità pratiche e di individuare norme e pratiche ancorate al territorio per un verso e per l’altro che fossero in grado di rispondere ai bisogni del tempo. Si trattava quindi di una sensibilità storica e filologica tutt’altro che limitata al mero versante erudito, ma anzi che tentava di rispondere in qualche modo alle domande del nuovo tempo. È in questo contesto che emerge l’uso di termini come ius hodiernum o ius modernum, alludenti a quella parte del diritto romano che può essere trattata come fonte giuridica applicabile ai nuovi tempi, oppure come ius patrium, evocante la matrice ‘nazionale’ di fonti giuridiche autoctone, diverse, se non proprio alternative, a quelle ereditate dalla grande tradizione romanistica. In questo ambito, va ricordata in primo luogo l’opera di Arnold Vinnen (latinizzato in Vinnius, 1588-1657), e in particolare il suo Commentarius ai quattro libri delle Institutiones giustinianee (1642), che ebbe uno straordinario successo anche al di fuori dei confini olandesi, per la sua idoneità a coniugare non soltanto contestualizzazione storica e prospettiva sistematica (le Istituzioni di Giustiniano ricalcano quelle di Gaio, con la tripartizione res, personae, actiones), ma anche per il costante riferimento ai diritti locali e alle consuetudini territoriali, in quella prospettiva di aggiornamento della metodologia culta che sembra essere il tratto saliente della dottrina giuridica olandese del sec. XVII. Un cenno lo meritano anche Gerard Noodt (1647-1725), celebre per le sue prese di posizione in tema di separazione tra potere civile e potere religioso (De iure summi imperii et lege regia, 1699; De religione ab imperio iure gentium libera, 1706), e Antonius Schulting (1659-1734), noto per i suoi studi sulle fonti giuridiche pregiustinianee (Iurisprudentia anteiustiniana, 1717). Su una lunghezza d’onda analoga a quella di Vinnen si muove anche Johann Voet (1647-1713), autore di un commentario alle Pandette (Commentarius ad Pandectas, in quo, praeter Romani juris principia ac controversias illustriores, jus etiam hodiernum et praecipuae fori quaestiones excutiuntur, 1698) in cui, insieme ai principia romanistici, enucleati per la risoluzione delle controversiae, vengono trattati anche i più salienti aspetti dello ius hodiernum ad uso del mondo forense. Con Voet si definisce meglio una delle caratteristiche vincenti della produzione giuridica olandese di fine Seicento, quella mediante la quale, per usare le efficaci parole di Antonio Padoa Schioppa, «l’analisi testuale di ascendenza culta, l’intento sistematico e l’attenzione per la giurisprudenza locale si intrecciano» 4. Si

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A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007, p. 280.

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tratta di una tendenza che verrà accolta e rielaborata in forme originali in Germania, dove il diritto romano era stato fatto oggetto non soltanto di un recezione ‘indiretta’ attraverso la massiccia presenza di studenti tedeschi nelle università medievali italiane, ma anche di una recezione ‘diretta’ in occasione della creazione, nel 1495, del Reichskammergericht (il Tribunale Camerale Imperiale), l’organo giudicante dell’Impero, il quale era tenuto, in mancanza di specifiche e documentate richieste, a giudicare applicando le norme del Corpus Iuris Civilis. Ora, proprio in Germania, negli anni del Tribunale imperale e del recepimento delle tendenze culte provenienti dalla Francia, si alimenta uno specifico indirizzo che prese l’appellativo di Usus modernus Pandectarum, per indicare il trattamento attualizzante delle fonti romane in funzione della valorizzazione del diritto autoctono. L’espressione è tratta dal titolo di un celebre libro del giurista tedesco Samuel Stryk (1640-1710), apparso nel 1690, in cui emergeva con chiarezza l’obiettivo di enucleare dalle fonti romane norme e princìpi chiari e tra loro coerenti al fine di dare risposta ai bisogni della pratica. Ma l’Usus modernus tedesco assume anche un’ulteriore valenza, destinata in futuro ad avere sviluppi decisivi per la cultura giuridica di quell’area. Il riferimento è alla sviluppata propensione, anch’essa di matrice culta, a indagare sul versante delle fonti giuridiche del passato, non necessariamente di matrice romanistica. In Germania tale propensione origina una serie di opere finalizzate alla ricerca, allo studio, alla storicizzazione e finanche ad una prima sistematizzazione dell’antico diritto germanico, inteso nelle sue differenti accezioni, con uno sguardo privilegiato a quello di matrice consuetudinaria, alternativo al diritto romano ma con esso messo a confronto, nonché alle strutture pubblicistiche ereditate dal modello imperiale. Va ricordato a tal proposito Hermann Conring (1606-1681), che con i suoi lavori (De origine iuris germanici, 1643; De finibus Imperii germanici, 1654; Exercitationes de republica germanica, 1675) forniva una prima base di quella che diverrà l’illustre scuola giuspubblicistica tedesca, fortemente impregnata di storicismo. Su questa scia si pone anche Georg Adam Struve (1619-1692), peraltro attento a coniugare diritto tedesco e pratiche giudiziarie nella prospettiva di giudici e avvocati (Jurisprudentia romano-germanica forensis, 1670).

3. La fine dell’universalismo medievale e il Nuovo Mondo: a) paradigmi della modernità Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, si assiste al tramonto di alcune certezze che avevano animato l’uomo medievale – la sua concezione del mondo e, con essa, il significato delle regole a cui si riteneva vincolato – e all’emersione di nuovi paradigmi, di conoscenza e di destino, individuale e collettivo. Proviamo a riassumere.

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In primo luogo va segnalata l’affermazione di realtà monarchiche di grande entità, alcune di antica formazione (la Francia, l’Inghilterra), altre di più recente configurazione (la Spagna come unione dei regni di Castiglia e di Aragona), che sviluppano, insieme a una prassi di governo dal tratto accentratore, una prima burocrazia articolata sul territorio con funzioni relativamente definite. In questo contesto, assumono significativo rilievo i contributi di autori destinati ad allargare i confini della dottrina politica tradizionale: in particolare Niccolò Machiavelli (1469-1527), che ne Il Principe pone le premesse per l’autonomia della dimensione squisitamente politica (non più religiosa, etica, giuridica, ecc.) dell’agire umano, e Jean Bodin, che nei Sei libri della Repubblica comincia a definire i tratti di un potere sovrano ‘assoluto’ 5. Poi va posto in debito rilievo la rivoluzione culturale rappresentata dall’Umanesimo 6, che, al di là dei suoi risvolti in ambito storico-letterario e in quello più specificamente giuridico, pone la coscienza critica individuale su un piano prioritario rispetto all’autorevolezza e all’autorità della tradizione: è l’atto di nascita dell’uomo moderno, che mediante gli strumenti di verifica – così del testo come della realtà, passata e presente – affina la sua consapevolezza cognitiva e definisce il suo orientamento d’azione. Del resto, anche la fine dell’unità cristiana nel continente europeo – la Res Publica Christiana – può essere collegata alla coscienza critica scaturita dall’Umanesimo. Insieme alle 95 tesi affisse alla porta del castello di Wittenberg con cui dava vita alla Riforma Protestante (1517), Martin Lutero promosse la conoscenza diretta e individuale della Bibbia traducendone il testo latino in tedesco, con ciò violando quel principio autoritativo di cui la Chiesa Cattolica Romana intendeva essere unica ed indiscussa detentrice. Quest’ultima poi reagì alla diaspora protestante con il Concilio di Trento (1545-1563), con il quale vennero disegnati gli ambiti di un disciplinamento, non soltanto squisitamente religioso, che ebbe i suoi più immediati e marcati effetti nella penisola italiana. Né può essere disconosciuto, non soltanto sul piano religioso, ma anche su quello geo-politico e dell’immaginario diffuso, l’effetto dirompente che aveva avuto la caduta di Costantinopoli ad opera dei Turchi (1453) e la conseguente, definitiva fine della lunga parabola dell’Impero romano, da mille anni ormai localizzato nella parte orientale del continente. Il processo di uscita dalla cornice culturale e mentale del medioevo fu promosso e anzi accelerato anche da un’acquisizione tecnologica destinata a cambiare per sempre l’umanità: stiamo parlando della stampa a caratteri mobili, inventata dal tedesco Johannes Gutenberg nel 1455. Grazie a questa ‘invenzione’ le opere dell’ingegno, benché destinate pur sempre a quel numero ristretto di uomini e di donne che sapevano leggere e scrivere, poterono godere di una dif-

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V. infra, cap. V, § 1. V. supra, § 1.

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fusione inedita, favorendo non soltanto l’incremento numerico dei libri, ma anche la varietà dei generi: una circostanza che avrà i suoi effetti anche sul piano della produzione più strettamente giuridica. Alla fine di questo sommario elenco di fattori e segnali di modernità, poniamo la novità più grande, tanto grande da avere imposto la data-limite di passaggio dal medioevo all’età moderna (1492): la cosiddetta scoperta del cosiddetto Nuovo Mondo. Avviatasi, dopo l’avventura colombiana, l’epopea delle grandi scoperte geografiche, si giunse in poco tempo alla conquista manu militari, allo sfruttamento intensivo delle risorse e degli uomini, alla concorrenza tra potenze dominanti per il controllo dei commerci e dei mari. Si apre l’età della colonizzazione, che anticipa in termini determinanti e duraturi quel grande fenomeno della globalizzazione di cui a tutt’oggi non vediamo esaurirsi gli effetti. Dopo la Spagna e il Portogallo nell’America centro-meridionale, anche la Francia e l’Inghilterra si accaparrano la loro parte di Oltreoceano nell’area del NordAmerica. Si calpestano terre sconosciute, nessuna delle quali ha subìto gli effetti dei grandi eventi che hanno contrassegnato il Vecchio Mondo e l’Europa in particolare; si incontrano genti sconosciute, ignare delle religioni che si affrontano nel bacino mediterraneo e dei sovrani che fanno grande l’Europa, genti da assimilare culturalmente, da convertire, da sottomettere o da spazzare via senza riguardi. Il diritto fino ad allora studiato non poteva reggere a lungo le torsioni imposte dall’avvento della modernità: occorreva quanto meno procedere sulla via della ridefinizione dei suoi fondamenti legittimanti.

b) La Scuola di Salamanca La Spagna è il regno nel quale prima che altrove si pongono gli interrogativi emergenti dall’inaudito allargamento di orizzonte terrestre. Il regno di Spagna, come abbiamo già accennato, si è costituito, come unione dei due regni di Castiglia e di Aragona grazie al matrimonio tra Isabella e Ferdinando, nello stesso anno in cui si conclude vittoriosamente la cacciata degli Arabi nella penisola iberica e prende avvio la susseguente cristianizzazione forzata: quel 1492 che vede lo sbarco di Cristoforo Colombo nelle isole dei Caraibi. Per i re cristianissimi di Spagna e per i loro sudditi si apre un XVI secolo di grande potenza e splendore, il Siglo de Oro, che culminerà con il nipote dei sovrani, quel Carlo d’Asburgo che nel 1530 cumulerà la corona regia con quella ferrea di Imperatore del Sacro Romano Impero. In questo clima, nell’antica università di Salamanca emerge la figura del domenicano Francisco de Vitoria (1492-1546), il teologo che, con la sua riflessione sui fondamenti del ius gentium presi in prestito da San Tommaso d’Aquino, diede vita alla cosiddetta “Seconda Scolastica”. Si tratta di un filone di riflessione teologico-filosofica capace di incidere profondamente sui presupposti legittimanti dell’ordine giuridico, un ordine chiamato a dare statuto giuridico a po-

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poli finora sconosciuti e a fenomeni socio-economici di amplissimo respiro. Il diritto romano, che pure costituiva la base epistemologica di Vitoria, non appariva in grado di fornire tutte le risposte e tutti gli inquadramenti normativi che le scoperte geografiche ponevano alla ribalta: a chi appartenevano le nuove terre? e i beni lì situati? che status avevano gli indios? come andavano regolati i conflitti per terra e per mare legati alla concorrenza tra popoli e tra Stati? Poiché la scienza giuridica non sembra in grado di dare copertura sufficiente all’enormità dei cambiamenti, Vitoria rivendica il ruolo primario del teologo, anzi del teologo-giurista, vale a dire di colui che, essendo in grado di fornire la corretta interpretazione dei segni impressi dalla volontà di Dio nella realtà del mondo, è capace di assistere il legislatore nell’adeguamento a quei segni e a quella volontà. Il diritto umano, pertanto, dovrà consistere in primo luogo nell’introiezione del volere divino che ha impresso i suoi segni non soltanto nella natura fisica, ma anche nelle istituzioni politiche e sociali. «È quindi evidente che la fonte e l’origine delle città e degli Stati non sono state inventate o immaginate dagli uomini, né si tratta di creazioni umane [artificiata], ma piuttosto derivano dalla natura, la quale ha accordato ai mortali tale criterio [hanc rationem] in vista della loro protezione e conservazione» 7.

Il criterio più evidente messo in campo dalla Natura è quello della disuguaglianza tra gli uomini, segno palese di una precisa volontà di Dio. Appare pertanto necessario che l’ordinamento giuridico predisposto dagli uomini assuma questo dato e ne dia configurazione, mediante la definizione di status personali differenti, non solo sul piano strettamente giuridico, ma anche sul piano sociale e politico: è naturale, e quindi è giusto, perché consentaneo al disegno provvidenziale voluto da Dio, che vi siano uomini ricchi e altri poveri, che ve ne siano liberi e altri schiavi, e che solo alcuni siano destinati al comando e che tutti gli altri, per ‘natura’ inferiori, siano destinati all’obbedienza. «Se infatti tutti gli uomini fossero uguali e non soggetti ad una potestà e ognuno tendesse ad uno scopo diverso in base al proprio convincimento e al proprio arbitrio, fatalmente si disgregherebbe la respublica e si dissolverebbe la civitas... Infatti ogni regno che risulti diviso al suo interno è destinato a rovinare. E dove manca un gubernator (come dice Salomone), il popolo si disperderebbe» 8.

7 F. Vitoria, Relectio de potestate civili (1527), 5, Civitatum potestatumque fons et origo, ed. a cura di J. Cordero Pando, Madrid 2008, p. 20: «Patet ergo quod fons et origo civitatum rerumque publicarum non est inventum commentumve humanum, neque inter artificiata numerandum, sed tanquam a natura profectum, quae ad mortalium tutelam et conservationem hanc rationem mortalibus suggessit». È nostra la traduzione in italiano di questo come degli altri passi di Vitoria. 8 Ivi, p. 22: «Si enim omnes aequales essent et nullius potestati subiecti, unoquoque ex

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Insomma, il giurista di diritto comune appare inadeguato alle nuove problematiche emergenti dalle conquiste: la sua formazione restava eurocentrica e fondata sull’idea universalistica di un Impero e di una Chiesa in relazione dialettica con la molteplicità degli iura propria. È piuttosto il teologo, in quanto attrezzato interprete della volontà divina e dei suoi segni all’interno del percorso umano, a potere e anzi a dovere assumere anche il ruolo di giurista: è il teologogiurista a esser capace di leggere la Natura (questa sì necessariamente universale) e di proporre schemi di comprensione per un mondo in espansione, rivolto all’assoggettamento di nuovi popoli e all’impossessamento di nuove ricchezze. La scuola che a Salamanca fiorì sulla base delle prime intuizioni di Vitoria produsse una nutrita messe di opere di natura filosofica, politica e giuridica aventi per oggetto, tra l’altro, il tema ricorrente della “guerra giusta”, cioè dei fondamenti legittimanti della violenza di uno Stato e di un popolo contro un altro Stato o un altro popolo, opere dalle quali avrebbe preso corpo il diritto internazionale a venire. Possono essere ricordati i nomi di Diego de Covarrubias (1512-1577), Luis de Molina (1535-1600) e Francisco Suarez (1548-1617). Un posto a parte meritano invece Juan Ginés de Sepùlveda (1490-1573) e Bartolomeo de Las Casas (1474-1566), i protagonisti di una celebre disputa che li vide affrontarsi nel 1550 sul tema della legittimità della Conquista e sulla condizione giuridica degli indios e dei loro beni. Sepùlveda non nutriva dubbi sulla manifesta inferiorità degli indigeni, più simili alle bestie che agli uomini, circostanza che legittimava i conquistadores agli atti di sottomissione violenta di cui si erano resi responsabili. «Confronta ora le doti di prudenza, ingegno, magnanimità, temperanza, umanità, religione di questi uomini [gli spagnoli] con quelle di quegli omuncoli (homunculi), nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità, e che non solo sono totalmente privi di cultura, ma non conoscono l’uso delle lettere, non conservano alcun documento della loro storia …, non hanno alcuna legge scritta, ma soltanto istituzioni e costumi barbari. (…) che cosa potresti aspettarti da uomini abbandonati ad ogni genere di intemperanza e nefanda libidine, molti dei quali si nutrivano di carne umana? (…) che abbiano case e alcuni modi razionali di vita in comune e i commerci ai quali induce la necessità naturale, che cosa altro prova, se non che costoro non sono orsi o scimmie del tutto prive di ragione?» 9.

A Sepùlveda si opponeva Bartolomeo de Las Casas, che nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie (1522) forniva un resoconto impressionansua voluntate et arbitrio in diversa tendente, necessario distraheretur respublica disolvereturque civitas… Omne, enim, regnum in seipsum divisum desolabitur. Et ubi non est gubernator (ut ait Salomon) dissipabitur populus». 9 J.G. de Sepùlveda, Democrates alter, sive de justis belli causis apud indos, in G. Gliozzi (cur.), La scoperta dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo a Diderot, Principato, Milano 1971, pp. 259-260.

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te della devastazione prodotta dagli Spagnoli e della crudeltà con cui gli indios erano stati ridotti allo stato di schiavi: «Della gran terra ferma siamo certi che i nostri Spagnuoli, con le loro crudeltà e nefande operationi, hanno spopolati e desolati et che al presente sono desertati, benché fossero già pieni di gente, più di dieci Regni maggiori di tutta la Spagna… Daremo per conto certo e reale che ne i detti quaranta anni, per le tirannie et operationi infernali delli Christiani, sono morti ingiusta e tirannicamente più di dodici milioni di persone, huomini e donne e fanciulli; et io credo in verità, né penso d’ingannarmi, che siano più di quindeci. Due modi generali et principali hanno tenuto quelli che sono andati là, i quali si chiamano Christiani, nell’estirpare e levar dalla faccia della terra quelle miserabili nationi. L’uno con ingiuste, crudeli e tiranniche guerre. L’altro, dopo haver ammazzato tutti quelli che potrebbero aspirare o sospirare o pensare alla libertà o ad uscir de i tormenti che patiscono… perché communemente non lasciano vivi nelle guerre se non li giovanetti e le donne, opprimendo questi con la più dura, horribile et aspera servitù nella quale possano mai esser posti huomini o bestie. (…) La causa per la quale li Christiani hanno ucciso e distrutto tante e tali e così infinito numero d’anime, è stato solamente per haversi proposto per loro ultimo fine l’oro et il colmarsi di ricchezze in brevissimi giorni, et sormontar a gradi molto alti e sproportionati alle persone loro; cioè per l’insatiabile avaritia et ambitione, c’hanno havuto, ch’è stata la maggiore che potesse esser nel mondo, per esser quelle terre tanto felici e tanto ricche e le genti tanto humili, tanto patienti et così facili ad essere soggiogate, alle quali non hanno havuto più rispetto, né fatto di loro più stima, né più conto (io parlo con verità, per quello che so et ho veduto tutto il tempo predetto), non dico che di bestie, perché piacesse a Dio che come bestie l’havessero stimate e trattate, ma come, anzi meno che lo sterco delle piazze»» 10.

In un testo che passerà alla storia e che ancor oggi impressiona il lettore, Las Casas apriva uno scenario inedito e interrogava la coscienza dei contemporanei ponendo loro quesiti destinati a lunga vita: con quali ragioni, con quale diritto gli uomini europei realizzavano la violenta sottomissione di interi popoli, in virtù di quali titoli giuridici era possibile impadronirsi di enormi risorse in lontane latitudini, quale legittimazione per una devastante guerra contro popoli inermi?

c) Ugo Grozio Dopo quello medievale (Dio, Impero, Chiesa), si impone in modo irreversibile nella prima metà del sec. XVII il paradigma della modernità – inteso come l’affermazione di un nuovo e universale fondamento legittimante dell’ordinamento giuridico – grazie all’opera dell’olandese Huig de Groot (italianizzato in Ugo Grozio, 1583-1645). Vissuto nei primi anni della repubblica delle Sette

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Bartolomeo de Las Casas, Istoria o sia brevissima relatione della distruttione dell’Indie Occidentali, trad. di Francesco Bersabita, Marco Ginammi, Venezia 1626, nn. 13-16, pp. 10-12.

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Province Unite (Paesi Bassi, indipendenti dal 1581) e durante la prorompente espansione coloniale di molti Paesi europei (tra cui anche la nuova, piccola repubblica olandese), Grozio pone le basi per il dibattito politico-giuridico degli anni a venire. Per prima cosa contribuì a definire i lineamenti ‘moderni’ del diritto internazionale marittimo in un’opera, Mare liberum («Mare libero», 1609), prima parte di un progetto più ampio (De iure praedae, «Il diritto di preda»), che compose nella sua qualità di avvocato della Compagnia Olandese per le Indie Orientali. Le riflessioni sulla libertà di commercio e di navigazione pose al centro dell’attenzione del giurista di Delft il tema delle norme universali, quelle cioè che sarebbe stato possibile condividere non sulla base del riconoscimento di un’autorità politica universale (Impero) o nazionale (Regno), né della dipendenza di valori etico-religiosi, tutti ugualmente insufficienti – date la frammentarietà politica e religiosa dell’Europa moderna e la grande estensione dei domìni coloniali – a fornire elementi di regolazione generali e condivisi. Nel De iure belli ac pacis («Il diritto di guerra e di pace», 1625) il tema centrale della guerra “giusta”, già agitato dai teologi e dai giuristi della Scuola di Salamanca, viene declinato in una prospettiva ‘internazionalistica’, con la sottolineatura della comune dipendenza di tutti gli Stati ai princìpi del “diritto naturale”. La categoria del diritto naturale ha origini antiche e, filtrato dal diritto romano, aveva subìto una prima significativa mutazione con il cristianesimo, che lo aveva interpretato come patrimonio di regole volute da Dio per il governo degli uomini: quello ius naturale che era stato alimentato dall’aequitas medievale e che la Seconda Scolastica aveva ripreso in funzione di un predominio teologico sulla dottrina squisitamente giuridica. Il diritto naturale delineato di Grozio si pone sulla scia di questa tradizione, ma se ne distacca decisamente e – dicevamo – irreversibilmente per averne precisato l’autentica radice. Il giurista olandese, infatti, parla di regole ‘autoevidenti’, connesse con un patrimonio di valori condivisi che stanno alla base della razionalità umana: si tratterebbe, pertanto, di regole ‘naturali’ e ‘universali’. La sottolineatura della razionalità mette le regole individuate da Grozio al riparo dalle interferenze teologiche o da una loro possibile collocazione in un contesto metafisico: la norma di diritto naturale non è rivelata, non ha bisogno di intermediazione teologica, ma può essere conosciuta attraverso una semplice attività razionale, alla portata di tutti. Il diritto naturale è in tal modo definitivamente secolarizzato. Non è certo un’affermazione di ateismo, come pure qualcuno ha voluto inferire da un inciso reperibile nel De iure belli ac pacis – «etsi Deus non daretur», traducibile come: «anche se Dio non esistesse» –, espressione con la quale Grozio non voleva negare l’esistenza di Dio, bensì affermare che la razionalità umana, benché di matrice divina, ha una sua autonomia, una sua coerenza logica intrinseca, valida anche nell’ipotesi assurda in cui essa si fosse originata da sé. Diritto naturale come dictamen rectae rationis («precetto di retta ragione»), quindi, che può ritenersi concentrato in alcune regole-chiave come le se-

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guenti: non appropriarsi dei beni altrui; tener fede ai patti; risarcire i danni. Poche norme chiare e semplici, da tutti condivise, e dalle quali, attraverso una serie di operazioni logiche e razionali, per lo più di natura deduttiva (dal generale al particolare), è possibile dar luogo all’individuazione di regole sempre più dettagliate, plasticamente modellate sulle evidenze della vita associata. Non soltanto il diritto, nella sua veste naturale universale, viene declinato e centrato nel “secolo”, nel mondo terreno, nel mondo degli uomini, ma anche l’organismo politico, lo Stato deve conseguentemente perdere le sue derivazioni metafisiche e teologiche (gratia Dei, «per grazia di Dio», recitano tutti i sovrani europei prima di assumere le redini del comando), per assumere invece i contorni del prodotto di un accordo, di un patto tra consociati. Secondo un modello retorico-politico ereditato dalla filosofia greca, più volte ripreso e declinato nel corso della storia europea, un “contratto sociale” segnerebbe l’uscita da uno “stato di natura” ad uno “stato civile”: una base contrattuale, dunque, definisce i caratteri, i poteri e i limiti del potere politico, legittimato dagli uomini stessi che vi si sottopongono volontariamente, e non da una imperscrutabile divinità. Insomma, una giustificazione laica e razionale anche dello Stato, in coerenza con quel “paradigma della modernità”, come l’abbiamo chiamato, che è la cifra che emerge con più forza in questo giro di anni e che ancora segna con forza la nostra contemporaneità.

4. La legge, o di un termine cui corrisponda qualcosa di esistente Diritto, legge, legalità, legittimità, giurisprudenza, codice… sono termini che scontano una notevole ambiguità di significato e visioni interpretative anche assai differenti. Lo studio della storia giuridica non semplifica il quadro, ma aiuta a comprendere le ragioni di questa complessità, ragioni che sono appunto “storiche”. Innanzi tutto, cos’è la legge? Proviamo a prendiamo in considerazione la fase storica medievale, tralasciando dunque “programmaticamente” le direttrici secondo cui questo tema si articola in età antica e nel diritto romano in particolare. Diamo solo come unico presupposto che nell’ultimo tratto della storia istituzionale e giuridica romana la lex è il provvedimento normativo imperiale in forma di “costituzione” (constitutio); tipicamente un atto normativo scritto. Detto in modo sommario, in quella fase la lex (norma prodotta dagli organi statuali) era considerata fonte dello ius, o meglio una delle sue fonti. Nella formazione dello ius civile era però determinante il ruolo della giurisprudenza: per il giurista Pomponio il diritto civile aveva la sua essenza nella interpretazione dei giuristi, e dunque non in un atto normativo scritto 11. Si può dire che la lex aveva

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D.1.2.2.12: «Est proprium ius civile quod sine scripto in sola prudentium interpretatio-

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un’importanza secondaria (ed era anche quantitativamente ridotta) rispetto al ruolo della iuris interpretatio (che derivava dai giuristi) e della iuris dictio (che derivava dalle magistrature giusdicenti). Si esaltava il ruolo del giurista, come colui che era in grado di assecondare il naturale evolversi della società 12; un dato, questo, che ritroviamo anche in età contemporanea, quando appunto legge e giurista vengono contrapposti, fino a dire che il codice – lo strumento legislativo per eccellenza – avrebbe coartato, umiliato nella sua fondamentale funzione evolutiva del diritto, il giurista. Durante la fase del dominato l’imperatore, Diocleziano prima e soprattutto Costantino poi, si propone come creatore unico di nuovo diritto. La normativa imperiale – denominata di volta in volta anche lex generalis – aumenta dimensionalmente (sono appunto le leges) e si affianca al complesso normativo giurisprudenziale tradizionale (iura). Fu la necessità di facilitare il reperimento di questo sempre più abbondante materiale legislativo a spingere verso la realizzazione di compilazioni private come il Codex Hermogenianus e il Codex Gregorianus (contengono rescritti da Adriano fino all’anno 294), e poi – iniziativa ufficiale – il Codex Theodosianus, promulgato dall’imperatore Teodosio II nel 438 13. Sarà poi il Codex giustinianeo a confermare definitivamente lo specifico significato giuridico del termine generico codex (fogli singoli legati tra loro e non un rotolo di pergamena) nel campo del diritto: raccolta di materiale normativo legislativo. La codificazione ottocentesca – nello spirito del senso originario – cementerà definitivamente il significato di “codice”, in realtà fino ad allora assai instabile, come sempre più instabile tornerà ad essere, dopo l’età dei codici ottonovecenteschi, nei decenni più vicini a noi. La rovina dell’edifico imperiale romano viene certificato nel 476 (appunto convenzionale anno da cui prende avvio il Medioevo) con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, anche se il crollo si era in realtà già consumato da tempo. Su quel vuoto politico e istituzionale si inizia a ricostruire una nuova esperienza giuridica, appunto al di fuori di un “diritto ufficiale”, e dove assumono rilievo entità opposte a quella generale dello stato (le comunità, le singole stirpi) e producono diritto accanto alla norma del principe, là dove ve ne sia uno in grado di imporre coattivamente l’osservanza di una qualche regola. Nel Medioevo troviamo comunque “leggi”, salvo intendersi (o tentare di intendersi) su che cosa questo termine effettivamente significhi. Due, tra le altre, ci appaiono come interessanti spiegazioni del termine lex/legge; sono due spiegazioni che rinviano a fasi storiche lontane tra loro e ciò aiuta anche a comprenne consistit» («Il diritto civile in senso proprio consiste nella sola interpretazione dei giuristi, senza alcun bisogno di scrittura»). 12 Ancora Pomponio, D.1.2.2.13: «constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cotidie in melius perduci» («il diritto non può sopravvivere, se non vi è qualche giurista attraverso cui, giorno dopo giorno, possa evolvere verso il meglio»). 13 Cfr. supra, cap. I, § 2.

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dere il profondo cambiamento avvenuto nel frattempo. Due spiegazioni su base linguistica. La prima – esplicita – ci viene da una compilazione normativa altomedievale (Lex Baiuwariorum, corpus normativo dei Bavari, VI-VIII secolo) dove, in contrapposizione alla consuetudine, si indica che lex viene dal verbo legere, dunque è norma che può essere letta, dunque è norma scritta. Certo, non bisogna dimenticare la non coincidenza tra il nostro significato di “legge” e quello usato dalle stirpi germaniche in questa fase; normalmente qui con lex si intende un insieme di consuetudini, una loro raccolta e dunque «la consuetudo è una lex in potenza, e la lex è una consuetudine certificata e sistemata» 14. La Lex Visigothorum del 654 ne rappresenta l’esempio più compiuto. L’altra è – diversamente – un’interpretazione che si è data di un fondamentale testo trecentesco di politica medievale, che non è un libro ma un affresco, ancor oggi perfettamente “consultabile”, collocato sulle pareti interne del Palazzo pubblico di Siena. Si tratta della rappresentazione del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti (1290-1348). L’immagine complessiva è ricca di richiami alla teoria politica, al diritto, alla storia senese; nella parte inferiore del dipinto troviamo una serie di uomini – rappresentano il complesso dei cittadini senesi – in fila, e ognuno di essi tiene al polso una lunga corda, che appunto sembra legarli; è una corda doppia, che origina dalla rappresentazione della Concordia e che scende dalla cintura dei due angeli della Giustizia. La corda doppia è dunque il legarsi reciprocamente dei cittadini nel nome della concordia. Si è detto, che quel ligare abbia a che fare appunto con lex (avrebbero la stessa radice linguistica, condividendo poi il senso di “obbligo”), una regola che vincola tutti i membri della comunità e li tiene uniti. Certo, la grande tradizione giuridica senese – legislativa, cioè statutaria – era stata elemento determinante nel successo di uno straordinario modello socio-economico e politico; tant’è, nello speculare Mal governo – rappresentato anch’esso, su una parete opposta – Lorenzetti non ripropone alcuna fune che intrecci e “leghi” la vita dei consociati. Tra queste due fonti corrono molti secoli, in sostanza il lungo tratto tra alto e basso Medioevo, e dunque il percorso compiuto dalla legge, che ha svolto un ruolo determinante nella costruzione progressiva di un nuovo modello giuridico e istituzionale, dopo che quello antico aveva collassato. Un tratto che si interrompe con l’inizio dell’età moderna (convenzionalmente nel 1492, scoperta dell’America), e oltre il quale in questo paragrafo non andremo, per riprendere invece quel percorso nei capitoli successivi di questo libro. Molto spesso ci si è chiesti come durante l’alto medioevo venisse concepita la legge, e come si svolgesse effettivamente l’attività di “produzione legislativa”. Nell’Editto di Rotari (promulgato nel 643 per il regno dei Longobardi 15) appa-

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P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 90. V. supra, cap. I, § 3.

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rentemente l’esercito è richiamato come soggetto attivo che si esprime attraverso il gairethinx, assemblea durante la quale percuotendo gli scudi appunto si dà il consenso alla promulgazione delle nuove regole. D’altronde in questa fase si parla nelle fonti di pactum legis; ma se il pactum è effettivamente un accordo, probabilmente in questo contesto è semplicemente il risultato di una pax, il raggiungimento di una pace dopo una controversia. Allora piuttosto risalta l’autorità normativa di cui Rotari – effettivamente sovrano – realmente dispone. In età altomedievale i Franchi occupano innanzi tutto un’importante porzione della Francia settentrionale, per poi estendere il loro territorio e poi – sconfiggendo i Longobardi – ampliare il loro dominio anche nella penisola italiana. Il sovrano franco, anche alla luce dell’avanzato grado di istituzionalizzazione di questo popolo di origine germanica, esprime una precisa volontà normativa attraverso uno strumento legislativo specifico, il capitulare (per altro indicato talvolta anche come edictum, decretum, consitutio, o altro). Un ulteriore impulso a questa prassi legislativa giunge dopo la renovatio Imperii avvenuta nella notte di Natale dell’anno 800: Carlo Magno, adesso sacro romano imperatore oltre che re dei Franchi, dà ulteriore impulso alla redazione scritta delle norme (originariamente consuetudinarie) seguite nelle varie zone dell’Impero 16. Ad esempio in Italia – nel Regnum italicum, formalmente autonomo – entrarono in vigore vari capitolari dell’imperatore e successivamente (forse a partire dal X secolo) si andò costituendo il capitulare italicum, in cui si riunivano vari interventi normativi destinati appunto ad essere complessivamente applicati in questo specifico territorio. Per capitulare si intende una successione di capitula legati assieme, e in particolare il tipo specifico dei capitularia legibus addenda, che dunque modificavano una lex, cioè uno degli antichi insieme normativi di quel dato popolo germanico. Infatti, in questo fase la norma giuridica si genera dalla lunga applicazione di un determinato comportamento, dunque dalla consuetudine. Un provvedimento legislativo viola patentemente una siffatta logica legittimante. Per questo motivo le innovazioni normative dovevano forse essere “approvate” dall’assemblea del popolo: i precetti nuovi, riportati cioè al rango di una norma costantemente e unanimemente applicata, avevano con ciò forza di consuetudine. È stato dunque ipotizzato che lex fosse probabilmente ciò che promanando dal sovrano era però assistito dalla approbatio populi, mentre capitulare ciò che semplicemente era il frutto del potere impositivo del sovrano. Ovviamente, nella misura in cui queste popolazioni dell’alto medioevo da tribù, organizzazioni di clan, aggregati famigliari, diventavano società minimamente strutturate e di dimensione ampia, il riferimento all’approvazione popolare – qualora sia mai stata effettiva – si riferiva a un’assemblea di rappresentanti e via via diventava clausola di stile.

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V. supra, cap. I, § 5b.

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Possiamo parlare per i sovrani “barbarici” altomedievali di sovrani legislatori? Le risposte nella storiografia sono state nel tempo assai articolate, e con conclusioni molto differenti. Una cosa sembra certa: prima del 1000 il diritto è solo parzialmente “legge” (qualunque cosa con ciò si intenda), mentre è in larga parte consuetudine, magari raccolta e riorganizzata in leges di un dato popolo anziché di un altro (Lex Visighotorum, Lex Burgundionum, Lex Baiuwariorum…). Gli imperatori romani, attraverso le loro costituzioni, erano stati grandi legislatori. I sovrani germanici si pongono come legislatori in un modo radicalmente diverso, come radicalmente diversa è la loro realtà istituzionale. Vi è una diversa visione della sovranità e del diritto, e l’idea che legiferare sia sostanzialmente recuperare e sistematizzare il diritto antico, “eterno”, della loro stirpe. Tutto ciò con qualche almeno parziale eccezione. Forse fu proprio subito dopo l’anno mille che un gruppo di Normanni, di ritorno dalla Terrasanta (o forse scappati dai loro originari territori nord-europei), diedero vita a un nuovo insediamento nel meridione italiano, avviando un fortunatissimo ordinamento principesco. Qui, già nel 1140, Ruggero II emana 44 assise: il termine indica assemblee con competenze giudiziarie, ma poi produttive di norme, e alla fine un insieme di precetti. In questo contesto istituzionale viene prodotto il più grande complesso normativo laico del Medioevo, il Liber Constitutionum Regni, o Liber Augustalis, pubblicato nel 1231 da Federico II di Svevia, nipote di Ruggero II e Sacro romano Imperatore dal 1220, ma che qui legifera appunto come sovrano del Regno di Sicilia 17. Centrale è al suo interno la const. Puritatem, che pone una graduazione delle fonti normative su cui la storiografia giuridica si è molto concentrata e contrapposta. Essa prevede che in prima battuta vada applicato il diritto regio, in caso di lacuna le consuetudini del luogo, e infine il diritto comune, indicando come tale il diritto romano e quello longobardo, cosa apparentemente assai anomala. Lasciando da parte questioni interpretative spinose, interessa qui soltanto sottolineare il deciso intervento legislativo di un sovrano medievale – detto Stupor mundi, come era celebrato Federico II – ma davvero non un sovrano moderno. Eppure – appunto – si poneva come legislatore. Ha colpito poi il riferimento alla necessità che le consuetudines fossero “approvate” (di approvazioni si è già fatto cenno poco sopra); questo attributo è parso un dato ambiguo, e si è posto il dubbio che l’approbatio non fosse una confirmatio del sovrano, ma bensì spettasse alle autorità locali. Considerando che il tema delle approbationes – diversamente configurate – attraversa medioevo e prima età moderna in diverse realtà istituzionali, ne ricaviamo l’impressione di una fabbrica della normazione che non è pura tradizione recepita (e casomai solo revisionata), ma anche procedimento normativo vero e proprio in realtà ordinamentali strutturate, anche in base al dato “legislativo”.

17

V. supra, cap. II, § 7d.

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Con Federico II di Svevia siamo ormai nel basso Medioevo. È l’epoca di un importantissimo papa come Gregorio IX, che apre il suo pontificato proprio scomunicando l’Imperatore svevo, e la sua lotta all’Impero passerà anche attraverso una decisa politica legislativa di tipo “codificatorio”. Si fece infatti promotore di una fondamentale opera di raccolta di decretali pontefice – tipici provvedimenti legislativi del Papa – che doveva essere applicata in via esclusiva, il Liber Extravagantium, o Liber Extra (o anche Decretales Gregorii IX) 18. Insomma quello fra le due autorità universali fu anche scontro tra legislatori. In realtà, e nonostante il tentativo federiciano, l’affermazione di un principe legislatore è un processo ancora ben lontano dal compiersi. Ancora nei primi secoli del basso medioevo, quantomeno fino al XIII secolo e nonostante siano già presenti importanti realtà principesche in Francia, Spagna, Portogallo (e così via), l’attività legislativa dei sovrani europei è timida, ambigua, sporadica. Contemporaneamente, nella seconda metà del Duecento, Tommaso d’Aquino nel suo trattato de legibus, all’interno di quel monumento assoluto della cultura filosofica medievale che è la sua Summa Theologica, riporta la legge alla razionalità e, in quanto ragionevole, la indica come strumento fondamentale per la realizzazione del bene comune. È certo espressione di un ordine razionale preesistente, che va colto, ma resta anche atto di un’autorità terrena, cioè di colui che deve avere cura della comunità 19. Nel frattempo il Medioevo, e quello italiano in particolare, si caratterizza ora per la nascita di una civiltà urbana, che rapidamente si istituzionalizza nel commune civitatis. Qui, tipicamente nel basso medioevo, si sviluppano gli statuti cittadini, una fonte magari di origine consuetudinaria, ma legislativa, che si presenta cioè come diritto scritto dello Stato, cioè di quella specifica civitas; naturalmente intendendo Stato nel senso debole del termine, e sapendo bene che lo Stato per come lo intendiamo oggi arriverà molto tempo dopo (sul quando si profili effettivamente lo Stato le visioni storiografiche non sono unanimi…). Non si può dunque parlare di legge e legalità nel senso moderno del termine, né tantomeno di democrazia nel senso contemporaneo, come pure in passato è stato fatto. E forse la stessa visione dell’età del diritto comune – ordine giuridico che si genera con il basso Medioevo – quale «epoca della legalità» 20 (Calasso, p. 481) può apparire dissonante.

18

V. supra, cap. II, § 6b. La lex è infatti «quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata», cioè «una certa disposizione di ragione orientata verso il bene comune, promulgata da cui ha la cura del bene comune» (Summa Theologica, Prima secundae, q. 90, art. 4). 20 F. Calasso, Medioevo del diritto, Giuffrè, Milano 1954, p. 481. 19

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Altrettanto radicale appare la visione, per il Medioevo, di un «diritto senza legge» 21, posto invece che uno spazio per la legge – e anche per la “legge” nel senso più stretto del termine – non venne mai meno. In sintesi vale la formula di “legalità medievale”, storicizzando il termine e il concetto, come è sempre giusto che il giurista in formazione si abitui quanto prima a fare. Dunque va ben inteso il ruolo fondamentale che col rinascimento giuridico medievale assume la norma scritta, quella del Corpus Iuris Civilis, ché altrimenti ogni giurista potrebbe costruirsi una propria idea di giustizia, magari in base alle proprie utilità professionali; una legalità che serve a contrastare l’aequitas bursalis, come viene ironicamente indicata, cioè una verità giuridica ogni volta diversa, da poter togliere utilmente dalla tasca al momento giusto. Ma, come si è detto, la legalità medievale si determina anche per l’irrompere di una nuova e ulteriore fonte giuridica scritta, gli statuti. La creazione degli statuti municipali è un fenomeno che si sviluppa in modo particolarmente eclatante nell’Italia centro-settentrionale. La lex municipalis è insomma espressione della libertà cittadina, del risveglio culturale e politico dopo gli anni dell’alto medioevo. In definitiva essa nasce dal medesimo fermento da cui si era andato sviluppando il risveglio della scienza giuridica, quello che Calasso ha chiamato il «rinascimento giuridico medievale» 22. Ora vi è un estremo bisogno di norme che siano in grado di regolare una realtà mutata profondamente, che diano assetto normativo adeguato e coerente a nuovi rapporti interpersonali e a nuovi atti che compiono i singoli. Nel 1183 Federico Barbarossa, sconfitto a Legnano dai Comuni della Lega lombarda, è stato infine costretto a firmare un trattato di Pace a Costanza 23. Tra il resto vi si stabilisce che nei giudizi di appello i delegati dell’imperatore giudicano «secundum leges et mores», dunque secondo “leggi”, oltre che in base alle consuetudini, intendendo però qui le antiche leggi romane. Era d’altra parte la coppia presente nella fondamentale legge Omnes populi (un frammento del giurista Gaio presente nel primo libro dei Digesta), secondo cui tutti i popoli costituiti in società organizzata si reggevano in parte attraverso “leggi” comuni a tutti (ius commune) e in parte in base a un loro specifico diritto particolare (ius proprium) 24. Lex come provvedimento normativo sovrano (preferibilmente associato al consenso esplicito del popolo), o come norma eterna e valevole per tutti, di risa21

M. Caravale, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Giappichelli, Torino 2013. F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento giuridico medievale, Giuffrè, Milano 1965. 23 V. supra, cap. II, § 7c. 24 D.1.1.9: «Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur» («Tutti i popoli, che si reggono mediante leggi e consuetudini, si servono in parte di diritto proprio e in parte del diritto comune a tutti gli uomini»). 22

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lente origine romanistica (debitamente interpretata); in entrambi i casi si tratta di contrapposti dialettici dei mores, cioè delle consuetudini proprie di un dato popolo. E sul consenso del popolo, o per converso sulla necessaria confirmatio di un superior, sul potere di promulgare statuti, sulla iurisdictio come complesso articolarsi della sovranità (e dunque del potere normativo), si esprimeranno i migliori giuristi della fase conclusiva del Medioevo, da Bartolo da Sassoferrato, a Ranieri Arsendi, a Baldo degli Ubaldi. Nel contempo l’evoluzione in senso signorile di molte realtà di origine comunale in Italia e il prepotente svilupparsi di monarchie nazionali fuori Italia hanno ormai portato a un’evoluzione significativa della configurazione della sovranità. Il princeps, che originariamente si risolveva nella figura del rex-iudex, con il compito di risolvere le controversie in base a un ordine giuridico precostituito e, dunque, di governare giudicando, diventa progressivamente – e seppure con la lentezza di cui si è già detto – legislatore, e fare leggi diventa elemento costitutivo del suo potere. Contraltare di ciò è il progressivo svilupparsi dell’idea che gli spetti la absolutio legis, che sia “assoluto”, cioè sciolto da qualsiasi vincolo alla legge (quasi completamente libero, dovendo comunque rispettare il vincolo di – seppur pochissime – “leggi fondamentali”, come spiegherà Jean Bodin, e specificheranno membri del Parlament di Parigi alla fine del ’500) 25. Il tema in realtà aveva risalenti radici nella elaborazione della dottrina giuridica della Glossa, volta ad inquadrare le prerogative del princeps alla luce di contrastanti fonti all’interno del Corpus Iuris Civilis, che da un parte già affermava il principio del princeps legibus solutus, dall’altra – in base a una costituzione di Teodosio, che nel Codex diventa la legge Digna vox C.1.14.4 – affermava invece che il princeps fosse vincolato (alligatus) alle leges. Nella prima età moderna il tema della legge subirà elaborazioni progressive differenti, a seconda delle diverse realtà statuali, e delle locali storie giuridicoistituzionali. Si è già detto delle esperienze di stampo principesco, che già originano nel medioevo. Ma un percorso diverso sarà quello delle repubbliche aristocratiche, tipicamente Venezia, condizionata da una struttura di governo molto articolata e complessa e da una realtà normativa specifica quale il diritto comune veneto. Sul tema “legge” forse è più pregnante l’elaborazione della Repubblica di Genova, dove si ha tra Tre e Cinquecento una particolare evoluzione del diritto pubblico, attraverso testi “costituzionali”; compilazioni di Regulae si hanno nel 1363 e nel 1413, per poi avere nel 1528 la pubblicazione delle Reformationes novae con cui si istituisce appunto la repubblica, e infine (e definitivamente) delle Leges novae nel 1576, che fissano definitivamente un sistema di rapporti politici e di magistrature di governo, e lo fissa legislativamente. Va poi

25

V. infra, cap. V, § 1.

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evidenziato come il rapporto del vertice istituzionale repubblicano con la legge sia radicalmente diverso da quello del principe; il doge è tutt’altro che legibus solutus, ed anzi viene sottoposto a verifiche formali della adeguatezza del suo comportamento alla norma giuridica. Sul fronte della cultura giuridica – italiana in particolare – la scienza del tardo diritto comune, e al di là delle diverse declinazioni dell’Umanesimo giuridico, perpetua la sua complessiva prevalenza. Non mancano consapevolezze nuove, indirizzate verso una qualche chiarificazione di un sistema normativo già percepito come troppo confuso, troppo oscuro, sicuramente sovrabbondante, ma una presa di posizione a favore della lex, una riconsiderazione del suo ruolo nel sistema delle fonti, non ha luogo. Chi probabilmente ci si avvicina di più è Giovanni Nevizzano (1490 ca. – 1540). autore tra il resto di un agile opuscolo, l’Inventarium librorum in utroque iure (Lione 1522), in cui raccogliendo la letteratura giuridica per generi e per materia trattata ne dà un quadro effettivamente sintetico ed efficace. Alla fine del repertorio aggiunge tra il resto una trattazione in cui, ai fini di una semplificazione ritenuta ormai ineludibile, auspica che il principe (il vertice politico nelle diverse realtà ordinamentali) si preoccupi di condere leges (promulgare leggi), cioè si concentri sulla fonte legislativa vista come unica possibilità di salvezza politica. Ma del problema della fonte legislativa, e degli strumenti legislativi, in età moderna via via più avanzata si tratterà in seguito nelle pagine di questo libro, e sarà necessario guardare al maggiore filosofo politico di questa fase, Thomas Hobbes e poi in particolare alla politica del diritto dell’assolutismo francese e dei suoi teorici, come François Hotman e soprattutto il già ricordato Bodin. Fase cruciale, poi, il ’600, in cui proprio in Francia si realizzeranno delle specie di “pre-codici”, le ordonnances – tipico strumento legislativo del re di Francia 26 – che di fatto saranno materiale preparatorio per la codificazione che si avvierà nei primissimi anni dell’800. Resta da dire, tirando le somme, che con riferimento al periodo medievale e alla prima età moderna non possiamo parlare di legge, legalità, e tanto più di Stato (per noi titolare della funzione di produzione legislativa), nel modo in cui li intendiamo oggi. Lo stesso “sistema” dello ius commune, come struttura ordinante sulla base del diritto romano giustinianeo interpretato creativamente dai giuristi, non fu un sistema legislativo, non produsse una legalità modernamente intesa. Ciò era dovuto anche alla chiara struttura pluri-ordinamentale della società, fatta da un sistema articolato di realtà corporative, associazioni di arti, comunità cittadine (ma anche di valli e di aree montane), o comunità religiose, e così via, tutte con un insieme di regole proprie e per lo più con proprie istituzioni – e procedure – per la risoluzione delle controversie tra i partecipi a quel

26

V. infra, cap. V, § 2.

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dato gruppo. Gruppi molto gelosi della loro identità, va detto, e fortemente refrattari a subire cooptazioni al loro interno, come ancora oggi ci rappresentano plasticamente i residui di questo medioevo socio-giuridico (tipicamente le strutture che amministrano usi civici e proprietà collettive, appunto di risalentissima ascendenza medievale). Si tratta di quella struttura pluri-ordinamentale che le realtà statuali moderne, con fatica e lentamente, riporteranno via via al monismo statuale contemporaneo; un percorso che la storia giuridica scandisce come compiuto all’avvento dello strumento legislativo “codice”, legge dello Stato, senza nessun equivoco possibile, nel momento in cui – sconfiniamo per un attimo nella storia politica – si afferma il principio, fino ad allora escluso a priori, della égalite, dell’uguaglianza. Dunque possiamo dire che la storia della legge è anche la storia di una ambiguità terminologica, ovviamente specchio di un’ambiguità concettuale non risolta fino all’alba dell’età contemporanea. E se ne abbiamo parlato per il termine lex, discorso non meno difficile è quello che potrebbe essere fatto per il termine law, che ancora oggi ha significato equivoco, indicando sia un intero sistema di norme giuridiche (anticamente: the law, cioè ius/diritto), sia lo specifico atto normativo del legislatore (anticamente: a law). E infatti un concetto così centrale per la cultura giuridica occidentale come the rule of law, viene tradotto – usiamo l’espressione francese per capire meglio – come le règne du droit, ma anche come le règne de la loi. Governo del diritto o governo della legge? Traducendo si cerca di fare entrare nel concetto anglosassone la terminologia giuridica continentale, con ciò confermando solo l’ambiguità del significato originario. Allora, concludendo, ci affidiamo a una citazione letteraria dal Cavaliere inesistente di Italo Calvino, che altri (Petit-Vallejo) hanno sapientemente indicato per far comprendere una condizione tipica del Medioevo, e di quello giuridico in particolare: «Ancora confuso era lo stato delle cose del mondo, nell’Evo in cui questa storia si svolge. Non era raro imbattersi in nomi e pensieri e forme e istituzioni cui non corrispondeva nulla d’esistente. E d’altra parte il mondo pullulava di oggetti e facoltà e persone che non avevano nome né distinzione dal resto» 27.

Studiare il Medioevo giuridico, ma anche l’età moderna, significa confrontarsi con concetti, ma soprattutto con termini, che furono piegati a significati e circostanze assi diverse; per converso vi erano situazioni giuridiche che non avevano un testo normativo scritto che le definisse e attribuisse loro un preciso termi27 I. Calvino, Il cavaliere inesistente, 1959, cap. IV (ed. Milano, Mondadori 2016, p. 28). Il testo è ripreso da C. Petit-J. Vallejo, La categoria giuridica nella cultura europea del Medioevo, in Storia d’Europa, 3, Il Medioevo. Secoli V-XV, a cura di G. Ortalli, Utet, Torino 1970, p. 721.

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ne identificativo. Talvolta un termine non si riferiva appunto a nulla di precisamente esistente, ma assumeva un senso per il testo che quel termine utilizzava ed interpretava, riferendosi magari a una pluralità di realtà diverse. Tipicamente questo avvenne con il termine lex (come appunto Petit-Vallejo evidenziano); sarà l’affermarsi definitivo di una visione monista della forma di governo (tutta incentrata su Stato e sovrano, chiunque esso fosse) e il trionfo dello strumento legislativo dell’Illuminismo giuridico realizzato – il codice – a dare a “legge” un significato reale, certo e univoco. Sia chiaro, un significato che non è per sempre.

Bibliografia essenziale H. Baron, La crisi del primo rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà repubblicana in un’età di classicismo e di tirannide, Sansoni, Firenze 1970. M. Bellomo, Società e istituzioni dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 2005. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Giappichelli, Torino 2002. F. Calasso, Medioevo del diritto, Giuffrè, Milano 1954. F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento giuridico medievale, Giuffrè, Milano 1965. M. Caravale, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Giappichelli, Torino 2013. A.A. Cassi, Ius commune tra vecchio e nuovo mondo. Mari, terre, oro nel diritto della Conquista (1492-1680), Giuffrè, Milano 2004. A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, I, Giuffrè, Milano, 1979. E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, I-II, Il Cigno Galileo Galilei Edizioni, Roma 1997. P. Grossi (cur.), La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Atti dell’incontro di studio (16-19 ottobre 1972), Giuffrè, Milano 1973. D. Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Giuffrè, Milano 1972. A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007. V. Piano Mortari, Gli inizi del diritto moderno in Europa, Liguori, Napoli 1980. G. Rossi (cur.), Il Rinascimento giuridico in Francia, Viella, Roma 2008. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976.  

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IV IL DIRITTO NELLE CULTURE DI ANTICO REGIME di Marco Cavina SOMMARIO: 1. Il diritto come scienza giuridica normativa (universale/cetuale) e l’ideologia antigiurisprudenziale. – 2. Il giurista/giudice: i consilia sapientis pro veritate fra cattedra e tribunale. – 3. Il giudice/giurista: grandi tribunali e decisiones. – 4. Grandi e piccoli tribunali nell’intrico di giurisdizioni in una città di antico regime: il caso di Bologna. – 5. La dimensione della complessità composita: enciclopedismo, volgarizzazione e cetualismo in Giambattista De Luca. – 6. La dimensione neo-umanistica: il diritto ‘arcadico’ di Gian Vincenzo Gravina. – 7. La dimensione riformista: i ‘difetti della giurisprudenza’ secondo Ludovico Antonio Muratori. – 8. La dimensione disciplinante: fra soluzione sociale dei conflitti, repressione d’apparato e scientificizzazione del problema criminale. – 9. La dimensione cetuale: una scienza normativa nobiliare. – 10. Patriarcato e matrimonio dei figli di famiglia fra diritto comune e codici (ovvero non omne quod licet honestum est).

1. Il diritto come scienza giuridica normativa (universale/cetuale) e l’ideologia antigiurisprudenziale L’esperienza giuridica italiana ed europea da Irnerio in poi fu caratterizzata dall’ingombrante presenza di una cogente ‘scienza giuridica normativa universale’ legata al ius commune, connessa fin dalla scuola dei glossatori all’immaginario, se non alla realtà, dell’Impero e della Chiesa. Ma la società bassomedievale e moderna era una società cetuale e la scienza del diritto comune si ibridizzò variamente con i saperi e le culture tradizionali di ceto. Dell’incontro fra diritto comune e ceto dei mercanti si è già parlato 1. Dell’esemplare formazione di una scienza giuridica normativa cetuale tratteremo in uno dei prossimi paragrafi, riservato a quella ‘scienza dell’onore’, che fu per eccellenza scienza normativa della nobiltà 2. Ovviamente, in un sistema caratterizzato dalla centralità della dottrina, la cri-

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V. supra, cap. II, § 10. Vedi infra, § 9.

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tica del diritto comune e la percezione della sua crisi si appuntarono anzitutto intorno al ruolo e all’opera dei giuristi, che furono scalzati dal piedistallo medievale di sacerdotes iuris e iniziarono ad essere colti sempre più come venali azzeccagarbugli in un itinerario che, come vedremo 3, culminerà nel XVIII secolo in Dei difetti della giurisprudenza di Ludovico Antonio Muratori. E insieme ai giuristi erano oggetto di satira i Principi, che con l’avanzare dell’età moderna intensificarono legislazione e giuridicizzazione d’apparato in un magma inestricabile di diritto comune, leggi generali, leggi locali e dottrine dei giuristi. Ma già fra Cinquecento e Seicento siffatta ‘ideologia antigiurisprudenziale’ era emersa con notevole chiarezza. Basti pensare alle pagine sarcastiche contro giudici ed avvocati nel Gargantua et Pantagruel di François Rabelais (14941553), ma fu forse nelle pagine degli scrittori utopisti che le tensioni del tempo si manifestarono con maggior forza. Possiamo limitarci a due esempi assai perspicui: Traiano Boccalini e Tommaso Campanella. Traiano Boccalini (15561613) – uno dei più celebri letterati del suo tempo e, soprattutto, fortunato autore di un’opera di enorme successo europeo come i Ragguagli del Parnaso – ebbe una solida formazione giuridica presso lo Studio di Perugia e ricoprì vari incarichi pubblici nello Stato Pontificio. La sua concezione del foro e dei suoi cultori era devastante, come attestano varie pagine dei Ragguagli su quel Parnaso, che rappresentava un mondo utopistico retto da Apollo con saggezza ed equilibrio. Quanto al sistema giuridico, il Boccalini immaginò che vari ‘popoli’ delegassero dei propri deputati presso i rispettivi Principi al fine di ridurre il numero eccessivo delle leggi, e i deputati «domandarono che fosse arsa quella moltitudine di leggi che a’ popoli arrecavano confusione, e che ai governatori delle province fosse proibito il poter per l’avvenire farne delle nuove» 4. Davanti a questo problema, l’assemblea dei Principi si divise in due gruppi, l’uno favorevole a ridurre, razionalizzare e compendiare la legislazione vigente; l’altro, invece, propenso a conservare quanto tramandato dalla tradizione col sigillo dell’esperienza. Ne derivò una sintesi del confronto capitale fra legittimazione tradizionalista e legittimazione ‘razionale’ delle fonti del diritto, con la fatale prevalenza della prima in stretto ossequio alla cultura di antico regime: «Alla maggior parte de’ prencipi molto giusta parve la domanda de’ deputati, e per ben consultarla insieme si congregarono nella casa di Clio; dove alcuni, zelanti dell’utilità pubblica de’ loro sudditi, furono di parere che, con quella maggior brevità che fosse stata possibile, si epilogassero tutte le prammatiche antiche, e che con l’espressa annullazione delle vecchie si pubblicassero poi leggi nuove, le quali tra’ popoli avrebbono partorito quiete non confusione.

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Vedi infra, § 8. T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Barboni, Venezia 1669, ragg. LXXII p. 206.

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Ma la parte contraria a questo parere e di numero e di qualità de’ prencipi fu molto maggiore; i quali liberamente dissero che quelle cose, che dagli antichi erano state tollerate, più tosto avevano gagliarda presunzione di prudenza che d’ignoranza; mercé che sempre era da credere che gli antichi con diligente accuratezza avessero esaminate e ben digerite le materie del governo de’ popoli, molto più che gli uomini moderni, i quali allora si vedevano incorrere in disordini grandi, che con le novità volevano togliere quegli usi antichi, che la lunghezza del tempo aveva provati per buoni: e che aperta presunzione era stimare che il mondo, senza giammai accorgersi ed emendarsi de’ suoi errori, lungo tempo fosse vissuto in quei costumi, che come dannosi altri voleva correggere» 5.

La vicenda si concluse con una solenne bastonatura dei deputati da parte dei Principi, giustificati in ciò persino da Apollo. Tutt’al contrario la vera responsabilità per le mende del sistema giuridico era da attribuire non tanto alle norme, quanto agli interpreti. Un esempio era riportato dal Boccalini in relazione all’esportazione del diritto comune nelle Americhe. In contrasto con ogni relativismo egli esclamava che «quella può dirsi patria felice, che non con le proprie, ma che vive con le leggi scelte da tutte le più civili nazioni» 6. Un conto erano, però, le leggi, un altro gli interpreti. Apollo fu entusiasta della monarchia spagnola per aver proibito che «all’Indie non possino passar avvocati e procuratori», un ‘editto santissimo’ – a parer suo –, in quanto vi si dimostrava la «carità di voler preservarlo [il Nuovo Mondo] da quel morbo che di tante lacrimevoli controversie ha riempito il Vecchio» 7. Non mancò la reazione dei giurisperiti che andarono a lamentarsi, osservando la loro progressiva emarginazione in diversi tribunali minori del tempo. Ma Apollo «… con sdegno grande rispose a’ quei dottori che fortemente si maravigliava che alla sua presenza havessero ardito dire ch’essi sudavano e spendevano per apprendere l’arti liberali, quasi che al mondo tutto non fosse noto l’editto delfico, nel quale lo studio delle leggi non arte liberale, ma si dichiarava esser mestiere e arte veramente meccanica, nel mondo introdotta per affliggere il genere umano, studiata senza dilettazione di animo, senza speculatione d’intelletto e senza il tanto necessario in tutte l’ottime scienze aiuto delle serenissime muse, e solo esercitata per mera avarizia di guadagno, per ingrassar di scudi un porcone, il quale, se ben totalmente era privo di quella vivacità d’ingegno che tanto amano le buone lettere, per giunger nondimeno ad esser un grande avvocato solo gli bastava aver un cervellaccio di bue, una complessionaccia da facchino, che francamente resistesse alla fatica di tirar la carretta» 8.

5

Ibidem. Ivi, ragg. LXXXIII, p. 253. 7 Ivi, pp. 253-254. 8 Ivi, p. 254. 6

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Insomma il principe del foro svolgeva – secondo Boccalini – una volgarissima ‘arte meccanica’, aveva un ‘cervellaccio di bue’ e la corporatura di un facchino. Sulla stessa linea di sordido malaffare erano i giudici, circa i quali il Boccalini faceva l’esempio – nella Bilancia politica – dei magistrati romani, i quali «sono poi tanti macellari; menano giù col coltellaccio a rovescio, se una borsa di scudi non gli sospende il colpo. Si informano prima del genio delli padroni e de’ protettori, e poi secondo quello fiat ius» 9. Dal canto suo, Tommaso Campanella (1568-1639), nella descrizione dell’utopistico ordinamento giuridico de La città del sole (1623), negava una qualsiasi autonomia alla scienza giuridica nei confronti dell’etica, della religione e del mero buon senso: «Non si scrive processo, ma in presenza del giudice e del Potestà si dice il pro e il contra; e subito si condanna dal giudice; e poi dal Potestà, se s’appella, il sequente dì si condanna; e poi dal Sole il terzo dì si condanna, o s’aggrazia dopo molti dì con consenso del popolo. [...] Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le quiddità delle cose in breve: che cosa è Dio, che cosa è angelo, che cosa è mondo, stella, uomo, ecc., con gran sale, e d’ogni virtù la diffinizione. E li giudici d’ogni virtù hanno la sedia in quel loco, quando giudicano, e dicono: «Ecco, tu peccasti contra questa diffinizione: leggi»; e così poi lo condanna o d’ingratitudine o di pigrizia o d’ignoranza; e le condanne son certe vere medicine, più che pene, e di soavità grande» 10.

Troppo lunghi i processi, troppe leggi, troppi avvocati e operatori forensi: erano questi i mali del sistema identificati e risolti – in modo decisamente utopistico – nella città del sole. Ma le pagine degli utopisti rivelavano criticità e sofferenze che furono reiteratamente affrontate, anche se mai compiutamente risolte, lungo tutta l’età moderna.

2. Il giurista/giudice: i consilia sapientis pro veritate fra cattedra e tribunale L’età moderna, però, fu soprattutto l’età della giurisprudenzializzazione e non a caso la letteratura giuridica di diritto comune si caratterizzò per la progressiva affermazione di modelli di tipo sentenziale: consilia (responsi) e decisiones (sentenze), i primi redatti da giuristi in un’ottica arieggiante quella del giudice, le seconde redatte da giudici in un’ottica arieggiante quella del giurista. Di

9 Comentarii di Traiano Boccalini romano sopra Cornelio Tacito, Cosmopoli [Portoferraio] 1677, p. 126. 10 T. Campanella, La città del Sole, a cura di L. Firpo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 42-43.

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fatto si trattava di prodotti molto simili che accompagnarono il fenomeno della pragmatizzazione del tardo diritto comune. Certo è che consiliaristica e decisionistica furono i depositi di soluzioni e di auctoritates a cui maggiormente attinsero i giuristi di diritto comune nell’Europa di età moderna. Consilia e decisiones rappresentavano al massimo grado la pragmatizzazione sul piano delle fonti del diritto, e prestavano quindi più fatalmente il fianco alle critiche antigiurisprudenziali, in quanto manifestazione per eccellenza del diritto come ‘scienza lucrativa’. Il giurista/giudice dei consilia soltanto sul piano formale interviene nel processo con i suoi pareri in quanto ‘testimone’ della corretta ricostruzione giuridica della fattispecie. Si presenta astrattamente come un imparziale ‘testimone del diritto’ – testis iuris – accanto ai comuni ‘testimoni del fatto’, portando in tribunale la testimonianza della dottrina e della propria autorità scientifica, entrambe degne di fede. Il successo storico dei consilia sapientis pro veritate, dunque, fu ovviamente maggiore nelle aree geografiche dense di Università. Tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna fu il caso anzitutto dell’Italia, dove le raccolte di consilia sapientis pro veritate divennero uno dei motori essenziali dello sviluppo del ius commune. Il responso giuridico conobbe due forme. Il consilium sapientis iudiciale, indirizzato al giudice, fu nel diritto medievale una delle pietre angolari per la costruzione del ‘sistema’ fra iura propria – diritto consuetudinario, diritto regio, diritto statutario, ecc. – e ius commune 11. Fu particolarmente diffuso nel medioevo e declinò con l’avvento del giudice/giurista, cioè tecnicamente preparato, nell’età moderna. La fine del medioevo e l’intera età moderna furono invece segnate dall’affermazione dei consilia sapientis pro veritate, i responsi preparati dal giurista su richiesta di una parte in processo o anche soltanto nella previsione di un processo. L’attività consiliare divenne preminente nella concreta opera del giurista, al punto che alcuni storici hanno preferito distinguere un’età dei ‘commentatori’ da un’età dei ‘consiliatori’ a decorrere dal XV secolo. Siffatta distinzione non appare peraltro convincente, in quanto di fatto le categorie dialettiche utilizzate nei consilia non differiscono in misura apprezzabile da quelle proprie delle quaestiones, dei commentari e dei trattati nella tradizione del mos italicus: l’unità stilistica e argomentativa appare innegabile. Il consilium era, dunque, ufficialmente redatto come visualizzazione scientifica della fattispecie secundum ius commune. In quanto pro veritate, esso si distingueva – quantomeno sul piano formale e concettuale – dalle allegationes degli avvocati, che erano invece formalmente pro parte, cioè partigiane. Di fatto, però, il consilium, cosiddetto pro veritate, era lautamente pagato dal committente, il che non poteva procurare più di un dubbio sulla presunta imparzialità del consiliatore. In un sistema giuridico fondato sulle dottrine dei giuristi, quale era il

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Si veda supra, cap. II, § 9b.

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diritto comune, l’edizione a stampa dei consilia pro veritate non poteva che accentuare fortemente il problema del caos delle opinioni, aggravando incertezze e contraddizioni. Non si trattava di un genere letterario nuovo; nuova era soltanto la sua diffusione quantitativa. I consilia erano apparsi sporadicamente sin dalle origini della Scuola di Bologna nel XII secolo, ma la loro importanza si consolidò soltanto all’epoca di Baldo degli Ubaldi nella seconda metà del XIV secolo e divenne egemonica fra Quattrocento e Cinquecento, con la generazione di maestri come Bartolomeo Socini (1426-1507) e Carlo Ruini (1456-1530). Alla luce di queste coordinate deve essere letta una celebre polemica cinquecentesca: Andrea Alciato 12 era contrario a considerare i consilia come prodotto di scienza a causa del loro carattere occasionale e mercantesco, Tiberio Deciani (1509-1582) era favorevole. L’Alciato non era contrario al fatto che i giuristi fossero richiesti e pagati per la redazione di pareri giuridici – attività a cui lui stesso si dedicava –, ma era ostile alla posteriore pubblicazione in raccolte, che poi finivano per avere forza normativa a dispetto della loro natura occasionale. Come abbiamo detto, dal punto di vista della struttura e della dinamica argomentativa il consilium – simile ad una sentenza motivata – non era molto lontano dallo stile con cui erano redatti i commentari tradizionali ‘al modo di Bartolo’, ma a differenza di questi il consilium – tutto proiettato sul caso di specie – si proponeva secondo forme tipicamente ‘sentenziali’. Il giurista assumeva in qualche modo le vesti del giudice e produceva la sua soluzione della vertenza nel consilium/sentenza. Tre erano le principali argomentazioni utilizzate sulle quali il responso era motivato: sulla base della legge (ex lege), sulla base della ratio (ex rationibus), sulla base della autorità dottrinale di un giurista o della comune opinione dei giuristi (ex auctoritate). Ma non dobbiamo dimenticare che nella dottrina di ius commune della fine del medioevo e della prima età moderna divenne centrale il ruolo dell’argumentum ab auctoritate – diretto a individuare una verità che nella scienza giuridica non poteva essere che soltanto ‘probabile’. In un diritto non incentrato su leggi e codici, ma sulle opinioni degli interpreti era fatale che un tal genere di argomentazione si affermasse largamente a tutti i livelli, ma in particolar modo nella applicazione pratica del diritto. Ce lo dicono anche alcune prassi molto frequenti in materia consiliare. Ad esempio, è molto frequente che il responso fosse integrato dalle ‘sottoscrizioni’ di altri giuristi, che convalidavano l’opinione in esso sostenuta con la propria firma o con qualche riga ulteriore. Secondo l’Alciato, una delle chiavi per la classificazione e la differenziazione della metodologia dei consilia era proprio nel modo di porsi davanti all’argumentum ab auctoritate e alla communis opinio. Brevità/quantità/sottigliezza (bre-

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Su cui si veda supra, cap. III, § 1d.

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vitas / maior copia /subtilitas) erano i poli che secondo l’Alciato diversificavano lo stile dei consiliatores del XV-XVI secolo: «Vi sono alcuni che [nel redigere consilia] ricercano una concisione simile a quella dei responsi degli antichi giuristi romani: è il caso di Dino, Oldrado, Pietro Ranieri. Vi sono altri che ricercano una gran massa di allegazioni d’autorità senza alcuna perspicacia. Altri ricercano le sottigliezze, e preferiscono immaginarsi in compagnia di Accolti, Socini, Ruini, ovvero – in altre parole – preferiscono precipitarsi nei cieli e affannarsi intorno al sole» 13.

Erano dunque tre i modelli stilistici dei consilia pro veritate secondo l’Alciato, identificati in base alla posizione dell’autore di fronte all’arsenale tipologico delle argomentazioni giuridiche allegabili:

a) Sottigliezza (subtilitates) [il giurista che inventa] Il giurista, anche consiliatore, è colui che ‘inventa’, secondo l’approccio tradizionale della scuola dei commentatori, per il quale si può ricordare la celebre massima, spesso usata da Paolo di Castro – ma non solo da lui –: «[a dimostrare il vero] è sufficiente la mia autorità [sufficit auctoritas mea]». Era il metodo con cui si era costruito il diritto comune nel Trecento, caratterizzato dalla volontà creatrice e dalla sensibilità sociale del giurista, che utilizzava il testo romanocanonico come ‘pretesto’ legittimante per la costruzione di un diritto nuovo. In questa prospettiva lo spazio maggiore era riservato all’argumentum a simili e all’analogia in tutte le sue forme, strumenti più plastici nella giuridicizzazione della società.

b) Quantità (maior copia) [il giurista che accumula e riordina] Il giurista, anche consiliatore, è colui che ‘accumula e riordina’ le opinioni proprie e altrui. Si tratta dell’approccio, secondo l’Alciato, dei giuristi dei tempi nuovi, ossessionati dall’argumentum ab auctoritate. Era ad un tempo lo stile più ‘facile’ e, oltretutto, di maggior successo in tribunale, in quanto fondato sul setaccio delle auctoritates e sulla enucleazione della communis opinio. Con ciò rispondeva anche ad una pratica esigenza dei giudici, che erano naturalmente indotti a seguire la communis opinio, poiché, adottandola, si ponevano al riparo da ogni eventuale responsabilità civile o penale in relazione alla propria sentenza. Il modello fondato sulla quantità fu di gran lunga il più frequente nella gran massa di raccolte a stampa di consilia d’età moderna, costituendone in qualche modo la routine. La stessa produzione editoriale assecondava tali atteggiamenti, munendo i volumi di responsi o commentari con meticolosissimi indici nei quali 13

A. Alciato, Oratio Ticini habita, in Opera, VI, Lione 1560, fol. 325 r.

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erano raccolti – come in una sorta di ‘massimario’ – tutti i principi giuridici sostenuti o anche contestati dall’autore. Il consiliatore, quindi, si limitava a ricercare quanto gli serviva per la fattispecie indagando soltanto negl’indici delle opere a sua disposizione o, in modo ancor più mediato, nelle sempre più frequenti raccolte a stampa di communes opiniones. Non a caso un tipografo del Cinquecento scrisse in una nota introduttiva che un libro di diritto senza indice è paragonabile ad un corpo privo di voce: non serve quasi a nulla.

c) Brevità (brevitas) [il giurista che si attiene rigorosamente alla ratio legis] Il giurista, anche consiliatore, è colui che si attiene rigorosamente allo spirito della lex. Si tratta di un approccio caratterizzato dal primato argomentativo della ratio legis e dei principia iuris, e conseguentemente da un forte ridimensionamento dell’argumentum ab auctoritate e della struttura dialettica del consilium. In esso si ritrovava più di un eco dell’antico stile dei giuristi romani. Schematizzando con qualche approssimazione, possiamo notare che le prime due categorie di consilia si segnalavano per un diverso dosaggio dei ‘tipi’ di argomentazioni, ma conservavano una medesima costruzione logica. La loro struttura dialettica rivelava, come abbiamo detto, una evidente affinità morfologica con la struttura della quaestio e degli stessi commentaria bassomedievali, oltre che una proiezione ‘sentenziale’. Essi testimoniano, con ciò, una cospicua unità stilistica e argomentativa fra l’insegnamento universitario, la ricerca scientifica e la pratica giudiziaria. Servendosi di un meccanismo che gli stessi avvocati adotteranno ampiamente nelle loro allegazioni fino all’età contemporanea, il giurista cercava anzitutto di mettersi nei panni dell’altra parte immaginandone tutte le possibili argomentazioni. Ognuna di queste veniva poi attentamente contestata nella seconda sezione del responso. Certo è che le raccolte consiliari ebbero un effetto moltiplicatore delle opinioni sostenute dai singoli giuristi e determinarono ulteriore confusione in un sistema già di per sé macchinoso. Fra XVI e XVII secolo furono prodotti perfino delle opere in cui si enumeravano, a fini pratici, le contraddizioni interne alle raccolte a stampa di consilia. Pensiamo in particolare ai trattati di Girolamo Zanchi (1516-1590) e, soprattutto, di Paolo Perremuto (sec. XVII). In essi erano diligentemente individuati tutti quei casi – e non erano affatto pochi – in cui un giurista si era contraddetto fra un consilium e l’altro, oppure aveva sostenuto nei consilia opinioni contraddittorie con quelle presentate nei suoi commentaria. Il fenomeno non era certo strano ed era una quasi ovvia conseguenza di valutare prodotto di pura scienza opere, i consilia, che erano oggettivamente determinate dagli interessi del cliente e che potevano facilmente indurre il giurista a sostenere posizioni diverse da quelle insegnate come professore o anche diverse da quelle sostenute in altri tempi per un altro cliente con differenti esigenze difensive. Ma si può perfino dimostrare che talvolta lo stesso giurista durante uno

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stesso processo – magari in gradi e momenti diversi – arrivava a redigere consilia per le due parti contrapposte. I giuristi più sensibili al mos gallicus avanzarono proposte di drastiche riforme, che non conobbero grande successo pratico. Prendiamo il caso dell’Alciato, il cui pensiero era impregnato di legalis philosophia, ma che si segnalava anche per una forte sensibilità verso i problemi pratici del diritto. Tale impostazione si ripresenta con chiarezza nella sua posizione nei confronti della communis opinio. Se a livello ‘alto’ egli è contrario al principio di autorità sulla base di un paradigma essenzialmente razionalistico, fattualmente la comune opinione gli sembra un espediente giustificabile e accettabile per risolvere i problemi forensi. Scriveva, infatti, che «nei pubblici consigli e in tutte le altre azioni umane, poiché gli uomini per natura hanno opinioni diverse, e tante sono le teste altrettanti sono i pareri, si è stabilito che si osservasse ciò che la maggioranza avesse stabilito: e benché talvolta, come scrive Tito Livio, la maggioranza schiacci la parte migliore, tuttavia non si poté fare altro, né individuare un altro rimedio ai dissensi e alle discordie» 14.

La posizione dell’Alciato non fu mai nel senso di un attacco frontale alla ovvia dimensione pratica del diritto – scienza sociale per eccellenza –, bensì nella prospettiva di una rigorosa distinzione di piani fra ricerca scientifica disinteressata e attività forense mercenaria. Nella sua celebre polemica sul fenomeno dei consilia l’Alciato, come abbiamo visto, non condannò il diritto dei giuristi di redigere responsi su commissione – lui stesso fu consiliatore apprezzatissimo –, ma il fatto che questi consilia venissero poi pubblicati in raccolte e posti sullo stesso piano autoritativo dei commentari e dei trattati, ai quali invece si sarebbe dovuto riconoscere, a suo avviso, ben altra imparzialità e scientificità. A prescindere però da queste generali obiezioni, l’Alciato propose un consilium breve che si potrebbe definire ‘umanista’. Esso doveva accantonare due elementi tradizionali: la struttura dialettica contra/pro ed il culto irragionevole del principio d’autorità, fissando la prevalenza argomentativa della ratio legis e dei principi generali del diritto comune. Lo stesso Alciato sottolineava spesso nei responsi la propria brevitas come caratteristica specifica del suo stile. Queste dichiarazioni potrebbero sembrare retoriche, ed effettivamente – a quell’epoca – ricorrono anche in opere e responsi di consiliatori che concisi non lo furono affatto. Tuttavia nel caso dell’Alciato una solida fondatezza queste dichiarazioni la possiedono. Molti suoi consilia si caratterizzano per una evidente concisione, in particolare con un forte contenimento degli argumenta ab auctoritate, come dimostra anche qualche sondaggio comparativo in casi per i quali ciò è stato possibile. La ‘brevità’ alciatea può riassumersi nell’obiettivo di puntare direttamen-

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A. Alciato, Parerga, in Opera, VI, Lione 1560, XII, 2.

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te ‘alla gola del problema’ (ad iugulum causae), con una valutazione diretta della fonte giuridica idonea a risolvere il caso. Alcuni modelli di questi responsi ‘umanisti’ si trovano pubblicati in una sezione del quinto libro della raccolta postuma dei consilia dell’Alciato. Nella prefazione del quinto libro l’editore della raccolta, Francesco Alciato (1522-1580) – giurista, ecclesiastico e parente di Andrea – raccontò la genesi e il progressivo fallimento di questa proposta di rivoluzionare radicalmente la struttura dei consilia sapientis pro veritate, riportandoli ad un più virtuoso archetipo romano. Questo itinerario, scientifico ed esistenziale ad un tempo, si svolse in tre tappe ed è un bell’esempio del confronto fra modelli diversi di pensiero giuridico nella prima età moderna. L’Alciato – giurista umanista con forte passione civile, che cercava nel passato le soluzioni ai problemi del presente – si era inizialmente proposto di riprendere lo stile di redigere consilia proprio degli antichi giuristi romani e dei glossatori del XII-XIII secolo, che erano consultati per lettera e per lettera concisamente ‘rispondevano’, esprimendo la propria opinione sulla sola base dei principi del diritto. Tuttavia si rese conto ben presto che giudici e avvocati non amavano affatto questo stile, considerandolo, per la sua pur elegante concisione, troppo oscuro. L’Alciato era uomo ragionevole e pragmatico. Decise, dunque, di venir meno a uno dei suoi due obiettivi e di riprendere la struttura dialettica dei responsi tradizionali, proponendone però due riforme: l’uso di una lingua latina più dotta e articolata; la limitazione delle auctoritates e comunque la loro formale espulsione al di fuori del testo, nelle note a margine. Il fine era quello di dimostrare con piena evidenza che quello che veramente importava era la razionalità e la fondatezza del discorso giuridico, e non la mera allegazione delle citazioni di autorità dottrinali. Pare che anche questa più modesta riforma fosse ferocemente criticata dagli ambienti forensi del tempo. L’Alciato, allora, al fine di non perdere tutte le cause per una sua pretesa oscurità, decise di rinunciare ai suoi propositi riformisti e di adattarsi per intero allo stile dei responsi del suo tempo. Soltanto su di un punto fu intransigente. Fino alla morte si rifiutò sempre di consentire alla pubblicazione dei suoi consilia in una raccolta, considerando tale operazione – come abbiamo già visto – contraria al pubblico interesse. Tuttavia post mortem i responsi alciatei furono pubblicati. E di fatto la struttura dei consilia sapientis pro veritate conservò più o meno la struttura tradizionale sino alla fine dell’età del diritto comune, pur venendo progressivamente soppiantati – quanto ad autorevolezza pratica – dalle decisiones dei ‘grandi tribunali’. Il fenomeno è già evidente nel tardo Cinquecento.  

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3. Il giudice/giurista: grandi tribunali e decisiones A partire dal XVI secolo il processo di riorganizzazione delle funzioni dello Stato passò anche attraverso l’istituzione, la riforma e la valorizzazione di supremi organi centrali del potere giudiziario, giurisdizioni di ultima istanza sottoposte alle dipendenze e al controllo del principe nel cui nome giudicavano. La progressiva volontà di controllo e di accentramento da parte del sovrano assoluto (legibus solutus, “sciolto dalle leggi”) condusse alla graduale emersione di un nuovo ceto di giudici giuristi, determinando il tramonto della cosiddetta res publica iurisconsultorum che, in una logica più marcatamente ‘corporativa’ e ‘cetuale’, aveva caratterizzato il secolo precedente alla guida del sistema del diritto comune. La potente casta di giureconsulti di Stato, dotati di elevata preparazione tecnica (res publica togatorum), infatti, oscurò la figura del giurista consulente, ormai lontano dall’essere il sacerdote del diritto e sempre di più colto – come abbiamo visto – quale un avido azzeccagarbugli in malafede, solito a usare le leggi a suo piacimento. I grandi tribunali collegiali in Italia rientravano sostanzialmente in due tipologie: i Senati/Consigli regi e le Rote, diversi per funzioni e modalità di reclutamento. Ai consigli regi erano attribuite competenze di vario tipo: svolgevano primariamente funzioni giurisdizionali, ma esercitavano altresì funzioni politicoamministrative e legislative, partecipando all’iter di approvazione delle leggi del sovrano. In via generale giudicavano in appello (ordinario o straordinario) sulle decisioni adottate dalle magistrature inferiori, ma, limitatamente a determinate materie in ispecie demaniali o regie, possedevano talvolta una giurisdizione esclusiva in unico grado. I loro membri, espressione del patriziato locale, rimanevano in carica a vita e venivano reclutati per cooptazione. La carica vitalizia ricoperta fa da subito emergere la notevole autorevolezza di ‘ceto’, anche per via di casata. Il loro potere e il loro prestigio erano elevatissimi anche sul piano del governo, in quanto costituivano una casta privilegiata e influente, in grado di condizionare e limitare la stessa autorità sovrana. La cifra di questa influenza ben si coglie nel potere di interinazione, cioè in quel potere di registrare gli atti governativi, che consentiva di esercitare un controllo di legittimità formale sull’attività normativa del governo, ma talora l’atto principesco poteva essere temporaneamente bloccato dal Consiglio anche nel caso di subornazione, quando la voluntas principis apparisse viziata da errore o da inganno. Il fatto che le Corti sovrane fossero composte da uomini scelti dal princeps per amministrare a suo nome la giustizia condusse inevitabilmente non solo alla prevalenza della giurisprudenza giudicante su quella consultiva, ma anche al mantenimento dell’esenzione dall’obbligo di motivazione delle sentenze da parte di questi giudici che erano, pertanto, legittimati a usare un’ampia sfera di potere discrezionale. Il loro era un potere talmente ampio che sfociava nell’arbitrium iudicis, un vero e proprio diritto di giudicare tamquam Deus sotto lo schermo dell’equità coincidente di fatto con quell’arbitrio, che nel corso dell’età

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moderna assunse connotazioni sempre più negative nel suo impatto socioculturale. Nel panorama italiano oltre ai Senati si incontra un’altra rilevantissima tipologia di tribunali centrali collegiali, cioè le Rote, che in molte città andarono ad occupare il posto dei tribunali comunali podestarili. Esse avevano funzioni esclusivamente giudiziarie, ma diversificate secondo i luoghi – solitamente, ma non solo, in ultima istanza –, talora in materia civile e criminale e talora soltanto in materia civile. Loro archetipo fu la Rota romana – istituita nel 1331 da Papa Giovanni XXII con la Decretale Ratio Iuris – e il loro spazio istituzionale fu un’area che si estendeva dal Po al Tevere. Sul modello romano funzionava anche la Rota di Macerata istituita nel 1589, mentre quelle di Perugia, Firenze, Bologna e Ferrara avevano maggiormente caratteristiche loro proprie. Ad esse occorre aggiungere anche, intorno al 1530, le Rote di Lucca e di Genova. I giudici rotali erano solitamente nominati a maggioranza dai consigli dei patriziati cittadini sulla base di precisi requisiti professionali. Essi erano, infatti, – a differenza dei giudici di età medievale – veri e propri tecnici laureati in diritto e ricoprivano una carica temporanea, che durava da tre a cinque anni, al termine della quale il giudice era sottoposto a sindacato sul suo operato da parte delle autorità cittadine. Un esempio per tutti lo possiamo trovare in una costituzione del 1683 che, con riguardo ai requisiti richiesti i cinque uditori della Rota di Bologna, sanciva anzitutto che doveva trattarsi di stranieri che non avessero risieduto a Bologna da almeno un anno. Si richiedeva, inoltre, che i essi fossero laureati da dieci anni in diritto civile oppure in utroque e che potessero vantare un’esperienza di cinque anni come lettori in una pubblica università o come magistrati in luoghi di prestigio. A ciò si aggiungeva l’espresso divieto di confermare o richiamare un auditore prima che fosse trascorso un intervallo di cinque anni dalla fine del mandato precedente: 1. Sia forestiero di patria distante almeno trenta miglia, e dottore insigne, dottorato in legge dieci anni prima in alcun Collegio di Dottori; 2. Habbia letto in Studio publico, overo esercitato carica di giudice in luogo insigne; l’uno, o l’altro per lo spaccio d’anni cinque; 3. Non habbía havuto domicilio con sua famiglia da un anno in qua in Bologna; 4. Niuno che sia stato Auditore in questa Ruota possa essere eletto di nuovo, se non doppo cinque anni dal dì dell’ufficio finito; 5. Non possano essere eletti due della medesima patria. La ratio è del tutto evidente: si intendeva assicurare una sorta di indipendenza di giudizio rispetto alle pressioni politiche cittadine. Diversamente dai senatori, i giudici rotali avevano l’obbligo di motivare le loro sentenze, e la motivazione fu proprio l’istituto di maggiore novità, poiché si trattava di un elemento quasi ignoto al diritto comune medievale. In realtà, nel meccanismo rotale di produzione della sentenza la cosiddetta motivazione consisteva nella relazione predisposta da quello che fra i cinque giudici era stato in-

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caricato di analizzare la vertenza. Essa, però, permetteva anche di divulgare il ragionamento da lui elaborato, i punti di diritto e le opiniones su cui si articolava la sua decisione finale. La geografia delle Rote determinò la formazione di veri e propri ‘consorzi forensi’ di giudici rotali, il che agevolava la circolazione della relativa giurisprudenza, su cui i giudici si confrontavano e sulla quale, di conseguenza, si veniva a formare un sapere giuridico omogeneo. Pur mancando un riconoscimento ufficiale delle decisiones come fonte di diritto, la giurisprudenza delle corti sovrane assunse di fatto forza vincolante, una vis legis all’interno dello Stato, per le corti stesse che – nonostante il divieto di diritto romano dello stare decisis – spesso finirono fatalmente per attribuire valore quasi vincolante ai propri ‘precedenti’ e allo stylus curiae. L’azione di queste corti favorì, in questa chiave, l’unificazione interna del diritto, anche in una generica prospettiva di certezza del diritto. L’eventuale consuetudine del rispetto dei precedenti e dello stylus curiae contribuiva, poi, alla ‘nazionalizzazione’ del diritto comune nei vari spazi giuridici statali. E tuttavia l’autorevolezza di queste sentenze fu tale che si imposero non solo all’interno ma anche all’esterno degli Stati di riferimento, conducendo alla formazione di usi forensi europei. Europeizzazione e nazionalizzazione rappresentarono due aspetti soltanto apparentemente contraddittorii dell’azione dei grandi tribunali. Tuttavia, per l’impatto delle decisiones – soprattutto, ma non solo, rotali – alla testa dell’evoluzione del sistema del diritto comune, era necessaria premessa la loro edizione a stampa. In tutta l’età moderna se ne diffusero le raccolte a stampa, che andarono a sostituire – in autorevolezza – quelle dei consilia e costituirono per lungo tempo una delle primarie fonti di cognizione del diritto comune europeo. Fra i ‘decisionisti’ possiamo ricordare, fra i tanti, Matteo d’Afflitto (1447 ca.-1523) per il Sacro Regio Consiglio di Napoli; Ottaviano Cacherano d’Osasco († 1589) e Antonino Tesauro (1526-93) per il Senato di Torino; Antoine Favre (1557-1624) per il Senato di Savoia. Accanto a loro, innumerevoli furono le raccolte di giurisprudenza rotale. Escludendo le stampe volanti, private delle parti, le raccolte potevano essere di varie tipologie: 1. raccolte integrali – poco frequenti –, il cui curatore era solito assemblare tutto ciò che ruotava intorno alla sentenza, come la relazione istruttoria, le motivazioni e i consilia; 2. controversiae forenses, che si presentavano come reports, riassunti della vertenza elaborati da uno dei magistrati investiti della causa; 3. massimari e repertori, estremamente semplificati, in cui il redattore estrapolava la massima di diritto della decisio; 4. colluctationes legales e observationes, cioè trattati fondati sulla giurisprudenza, che riportavano le principali decisiones – talora per esteso – attorno ad un determinato tema; 5. miscellanee enciclopediche, che con un ordine alfabetico in relazione ai singoli istituti giuridici condensavano la più autorevole giurisprudenza.

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Ovviamente, nella misura in cui la raccolta sintetizzava le vertenze o addirittura si limitava ad estrapolarne i principi giuridici applicati, tanto maggiormente il prodotto finale era influenzato dalla formazione e dall’arbitrio del ‘curatore’ della raccolta. Ma non era ignoto nemmeno il fenomeno di raccolte a stampa di decisiones di uno stesso giudice e da lui stesso curate come opera dottrinale, ad ulteriore dimostrazione della circolarità logica fra raccolte di consilia e raccolte di decisiones. Il significato di questa giurisprudenzializzazione del diritto comune tra il XVI e il XVIII secolo fu, però, tutt’altro che unitario, una volta che se ne prendano in considerazione le numerose varianti locali. Se è vero che la produzione di alcuni tribunali era pienamente funzionale alle esigenze politiche centripete del sovrano assoluto, altre Corti favorirono, invece, le spinte centrifughe, consolidando il particolarismo rispetto alla maiestas principis.

4. Grandi e piccoli tribunali nell’intrico di giurisdizioni di una città di antico regime: il caso di Bologna Nel particolarismo giuridico d’antico regime anche la stessa giustizia d’apparato era caratterizzata da un magma di giurisdizioni che si ritrovava variamente declinato nelle varie città italiane ed europee. Al di là dei documenti normativi, l’idea di giudice naturale – cioè il principio sancito in Italia dall’art. 25 della costituzione italiana per cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge» – era se non formalmente, certo sostanzialmente assente. Nel caos di giurisdizioni antiche e recenti dai dubbi confini, la ‘scelta’ del giudice o l’arbitraria avocazione di una causa da un tribunale ad un altro erano prassi corrente. Possiamo esemplificare sul caso bolognese la complessa geografia dei luoghi della giustizia civile in una città di antico regime. A Bologna la Rota esercitava la suprema giustizia in materia civile. Al di là di certe genericità normative, la sua profonda natura era quella di tribunale d’appello, una giurisdizione superiore che, anche sotto questo profilo, doveva comprovare l’autonomia cittadina: un dotto collegio giudiziario sull’esempio vincente della prassi romana. La Rota tese sempre più ad apparire come luogo della giustizia ‘privilegiato’, non formalmente ma sostanzialmente, per le più importanti controversie interne alla élite patrimoniale e nobiliare, che richiedevano per la loro delicatezza un giudizio dotto, imparziale e, al tempo stesso, di nomina ‘cittadina’. Erano occorse laboriosissime trattative fra il papato ed il senato – le prime menzioni risalgono al 1507, ai tempi di Giulio II –, perché fosse istituita da Paolo III col breve dell’11 luglio 1535 una specifica Rota, sia pur limitata alla materia civile e priva di quelle competenze in campo criminale che la città aveva for-

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temente auspicato: seguì la pubblicazione delle costituzioni nel 1535, 1537 e 1549. La giustizia criminale fu riservata al Tribunale del Torrone, retto da un giudice di stretta nomina pontificia. Bologna fu dotata, così, di un tribunale collegiale composto da cinque membri, non bolognesi e che non avessero risieduto in città da almeno un anno, oltre che dotati di precisi requisiti (dottorato in diritto conseguito da più di un decennio, insegnamento universitario quinquennale ovvero esercizio della magistratura) 15. Gli auditori erano selezionati ed eletti per cinque anni dal Senato, che nel Seicento-Settecento delegò ad hoc l’assunteria di Studio e Rota. Coadiuvati da ventiquattro notai attuari, erano stipendiati dalle autorità bolognesi con soldo non esiguo, assai limitatamente integrato per via di sportule. Al momento dell’ingresso in carica gli auditori prestavano formale giuramento d’applicare gli statuti cittadini e, a integrazione, il diritto comune civile e canonico. Ferma l’incompatibilità con l’esercizio dell’avvocatura o la prestazione di consulenze legali in città, al termine del mandato gli auditori erano assoggettati, circa il loro operato, ad un giudizio di sindacato da parte di undici cittadini di ogni ordine. Uno di loro svolgeva annualmente le funzioni di podestà/rettore/pretore, con funzioni direttive e rappresentative, ma pure con una specifica giurisdizione relativa a carcerati, vedove e tutele. A lui spettava anche la nomina del notaio dell’ornato – “del fango e delle strade” – e del giudice “al disco dell’Orso”: entrambi dottori in legge stranieri, oltre che soggetti a sindacato al termine dell’incarico. Il secondo, in particolare, aveva una modesta competenza in materia tributaria e penale, con sentenze appellabili presso uno degli auditori di Rota estratto a sorte. Le vere e proprie cause rotali erano quelle aventi un valore superiore alle 100 lire ed è a queste che occorre pensare quando si valuti la cifra di quel tribunale. Deve considerarsi meramente accessoria la competenza per le cause di valore inferiore che, se presentate, erano decise da un auditore soltanto, e addirittura con procedura sommaria al di sotto delle 50 lire. Nelle cause rotali, invece, la dotta specificità procedurale aveva modo di esprimersi appieno. Un auditore ‘ponente’, estratto a sorte, esaminava e ‘risolveva’ la vertenza, comunicando gli estremi delle sue conclusioni – i dubia – alle parti richiedenti, che potevano elaborare ulteriori eccezioni. Finalmente il collegio si riuniva e ‘votava’ – senza il ‘ponente’, salvo parità di voti – la sentenza finale. Se appellabile, il nuovo processo era preparato e presentato da un diverso ‘ponente’. Le sentenze erano deliberate ed emanate dall’intero collegio, che le accompagnava con una decisione comprensiva delle allegazioni legali e dottrinali, poi depositata presso la cancelleria del senato. Ben presto alla conservazione manoscritta si accompagnò la stampa di sillogi e selezioni, che al pratico valore di precedente nei giudicati associavano l’obiettivo della rinomanza e dell’autorevolezza della Rota bolognese e dei suoi auditori. Con tutto ciò la valenza poli-

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Vedi § precedente.

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tico-ideologica del tribunale di Rota restò nettissima. Ne è evidente riprova l’estrema fermezza con cui le istituzioni bolognesi si contrapposero sempre ai tentativi di eliminazione o di ridimensionamento del tribunale rotale da parte dell’amministrazione romana. Ma accanto al tribunale di Rota operava un altro rilevantissimo tribunale civile. Senza contare la sua competenza in appello rispetto al cospicuo contenzioso del foro arcivescovile, il Legato svolgeva abitualmente la propria giurisdizione civile per via di delegati: l’auditore generale e gli auditori di camera. Disciplinato da numerose costituzioni, il tribunale legatizio si affiancava a quello di Rota, espressivi l’uno del potere pontificio, l’altro dell’autonomia cittadina. Di fatto fra le due istituzioni non mancarono polemiche sovrapposizioni e difficoltà operative, benché sul piano giuridico la distinzione di ruolo fosse relativamente precisa. Contro gli «inutili strepiti e clamori dei procuratori e dei litiganti» la procedura presso il tribunale legatizio si proponeva d’affrontare anzitutto il problema della durata, semplificando le forme e riducendo drasticamente – nodo cruciale – le eccezioni allegabili e la possibilità di concessione di termini. Si escludevano parimenti tutte quelle capziose e dilatorie connessioni con il rito criminale, che pare fossero sovente praticate, onde «dalle liti nascono nuove liti, e le cause civili si rendono immortali a gravissimo detrimento dei litiganti». Insomma dei due grandi obiettivi della giustizia civile d’ogni tempo, la rapidità e la ponderazione delle cause, la procedura legatizia privilegiava il primo, la procedura rotale il secondo. Quello del Legato era, dunque, un tribunale che tecnicamente avrebbe dovuto presentarsi non come un duplicato, bensì come un’utile integrazione della Rota: meno dotto nell’impostazione, ma più snello ed incisivo, idoneo a cause civili di minor valore e comunque di prima istanza, idoneo a far fronte alla gran massa del minore e minimo contenzioso civile, che era impensabile poter sperare di smaltire con i meccanismi sontuosi ed aulici della Rota. Frequentemente usato era, tuttavia, il potere d’avocazione delle cause – anche in corso d’espletamento processuale – da parte del Legato, normalmente dietro richiesta delle parti, e con la successiva assegnazione al proprio foro ovvero alla Rota, al foro dei mercanti o a quello arcivescovile: ovviamente ricorrenti, con un tal sistema, i conflitti di giurisdizione, a dispetto di taluni argini normativi assai poco rispettati nella prassi. Numerosissimi erano i conflitti di giurisdizione tra foro legatizio e Rota, magari anche con la connivenza degli auditori rotali, a cui talvolta il Legato assegnava le cause individualmente, con il loro vantaggio di percepirne i benefici economici, oltretutto senza quella mole d’incombenze che contrassegnava le procedure della Rota. Tale fenomeno, che pare assumesse connotati imponenti nel corso dell’antico regime, era dettato, più che altro, da tutta una serie di motivazioni tecniche, onde nella maggioranza dei casi – mai nella totalità – il processo davanti agli auditori del Legato poteva apparire più semplice, rapido ed economico alle parti in causa. Accanto al ‘grande tribunale’ della Rota e a quello del legato, persisteva il caos dei ‘piccoli’ tribunali. Il contorto viluppo della giustizia nella società d’an-

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tico regime si ritrova ampiamente declinato anche dall’esperienza bolognese in un variegato magma di giurisdizioni. Vi erano le scarne, ma vivaci competenze delle assunterie d’emanazione senatoria, quali gli Assunti del governo del contado, gli Assunti dell’imposta, gli Assunti dell’Ornato e gli Assunti del Pavaglione, ma lo stesso poteva dirsi per le minori cariche annuali – ad estrazione – dei tre Difensori “dell’havere” e dei quattro Ufficiali delle acque, dei ponti e delle strade. Ben più ampie ed elastiche competenze, oltre che la giurisdizione sui chierici, erano quelle proprie del tribunale arcivescovile, di cui era caratteristica, sotto il profilo tecnico, l’osmosi delle forme procedurali tipicamente canonistiche con quelle della prassi del foro legatizio. Le costituzioni del 1567 si segnalavano, non a caso, per la compressione di termini e formalità, nel contesto di un largo ricorso alle categorie del processo sommario. Profondamente infissa nella storia cittadina era, invece, la magistratura degli Anziani. «Officio da honore», e quindi non retribuito, l’anzianato mantenne a lungo un certo grado di appetibilità in quanto strumento d’innalzamento di stato, di anoblissement. Ambigue e fumose erano le sue competenze giurisdizionali, «potendo in prima instanza udire, conoscere et decidere ogni causa civile di differenza tra qualsivoglia persona che sia citata davanti al lor tribunale et possono dellegarle anchora, procedendo secondo che vogliono gli Statuti sopranominati. Conoscono parimente alcune cause miste et vi decide il lor Dottore, come di falsità di pesi, di misure et d’altre cose simili. Possono stabilire le paci private. Danno licenza alle donne di alienare gli ultimi beni del marito, alle loro doti obligati, et a’ pupilli di fare il simile de’ beni de’ padri loro. Commandano a’ parenti et gli astringono a fare compromessi nelle liti loro. Proveggono che da’ parenti non siano oppressi i minori. Hanno anche auttorità sopra la grascia, onde vigilano che i viveri non manchino nella città, né che siano portati fuori d’essa. Condannano gl’inobedienti agli ordini loro et li fanno carcerare, facendo anche essigere le condannationi loro» 16.

Di antica fama era anche la Magistratura dei Collegi che, pur nel suo progressivo ed inesorabile logoramento, fu la magistratura locale per eccellenza, diretta espressione dei ceti municipali al tempo dell’autogoverno bassomedievale e, poi, sotto la dominazione pontificia. Provvedeva alla sua elezione l’assunteria di Magistrati. Componevano la Magistratura dei Collegi i residui – aulici nelle denominazioni, poveri nella sostanza – delle vetuste aspirazioni comunali: 4 tribuni della plebe per i quattro quartieri, insieme a 27 massari, uno per ciascuna delle arti – “correttore” era detto quello della società dei notai –. Essa vigilava, fra l’altro, sull’osservanza degli eventuali prezzi calmierati e perseguiva le frodi alimentari, anche con l’ausilio di propri agenti. La sua giurisdizione per materia verteva principalmente intorno a commercio, annona e vettovaglie. 16

C. Spontone, Il governo et i magistrati della città di Bologna del cavaliere Ciro Spontone, ed. S. Verardi Ventura, in L’Archiginnasio, 76 (1981), pp. 318-319.

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L’istituzione dei tribuni della plebe, o gonfalonieri, era sorta nel tardo Trecento. Un emblema delle velleità autonomistiche felsinee? Forse soltanto sul piano della retorica e della logora ideologia di certi gruppi di potere. Certo è che in età moderna il tribunato fu ben modesto usbergo di contro all’invadenza papale, quantomeno sul piano delle competenze giudiziarie, che vennero fatalmente declinando sotto la concorrenza dei magistrati ‘pontifici’, del Torrone e del Legato. Esemplare fu il tentativo – caparbiamente reiterato lungo tutto l’antico regime – d’introdurre un tribunale legatizio della “grascia”, che esautorava fattualmente la magistratura dei collegi dalle competenze sull’annona: non conobbe successo duraturo, ma soltanto intermittente. È stato ben documentato, sul piano sociale, lo scarso entusiasmo di tanti cittadini che nel tardo antico regime si trovarono sorteggiati al tribunato. Come l’anzianato, era un tipico “officio da honore”, cioè una carica esercitata senza compenso – a differenza degli “offici da utile” –, che fu vissuta e percepita sempre più spesso come un’angheria in mero ricambio per i privilegi della cittadinanza. Dignitas tribunorum plebis est onus – la dignità di tribuno della plebe è un onere – scriveva lapidariamente il Gargiaria, giudice e giurista. L’onore si era ormai convertito in un angustiante onere. Nel tardo antico regime l’attribuzione della carica – quadrimestrale – avveniva mediante sorteggio da parte della senatoria assunteria di Magistrati. Tutta la cittadinanza vi era cetualmente rappresentata. Al collegio partecipavano un dottore legista del collegio dei giudici, un dottore artista o notaio collegiato – alternativamente –, 2 senatori, 4 nobili, 4 ‘cittadini scelti’, 4 mercanti, ripartendosi per i 4 quartieri con 4 chiese di riferimento. La presenza del dottore legista, in particolare, aveva la funzione di fornire un minimo spessore tecnico e culturale alle deliberazioni giudiziali: «dovrà esaminare il processo offensivo, ed anche il defensivo, in caso che il reo non abbia spontaneamente rinonciato alle difese, affine di riferire al magistrato ciò che risulterà da detto processo ed in qual pena sii incorso il querelato secondo li bandi, provvisioni etc., ovvero riferire sopra la di lui innocenza, acciocché il detto magistrato possa prendere giuste determinazioni» 17.

L’altra componente del Magistrato dei Collegi era espressa dalle corporazioni di mestiere. I massari delle arti erano estratti a sorte dal gonfaloniere di giustizia e restavano in carica per un trimestre. Anche in loro, come nei tribuni, si può riscontrare, quantomeno sul piano politico, la funzione di rappresentare le antiche vocazioni autonomistiche felsinee, esplicitate sin dai toni municipalisti del giuramento d’investitura dei massari. Competeva loro una giurisdizione civile e mista, più che altro in materia di diritto del lavoro e di diritto mercatorio, 17

Instruzione per li sig. confalonieri del popolo o tribuni della plebe, ed onorandi massari dell’arti, che compongono il magistrato de’ sig. collegi di Bologna, Bologna 1740, p. 22.

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residuale rispetto alle vaste e generiche prerogative del tribunale legatizio e della Rota – oltre che del foro dei mercanti –, ma più consistente per le liti intracorporative attribuite ai relativi massari. La competenza si concentrava peculiarmente sul contenzioso in tema di mercedi d’operai e crediti mercantili, ma anche su quanto atteneva al rispetto di ordinanze, provvigioni, bandi, editti in campo commerciale. La Magistratura dei Collegi non era, però, l’unica istituzione a rappresentare antiche istanze della società civile bolognese. Dal tardo Trecento alla Rivoluzione francese fu attivo con alterne vicende il foro del ceto dei mercanti. Sempre strenuamente difeso dalle autorità cittadine, rivendicava alla propria competenza qualsiasi vertenza in cui anche soltanto una delle parti fosse soggettivamente identificata come mercante, membro, cioè, di una delle corporazioni delle arti. Tale competenza, peraltro, fu sistematicamente contestata, nel corso dell’antico regime, dal foro del Legato e dalla Rota cittadina, innestandosi nelle endemiche querelles fra città e governo pontificio. Analogamente a quello della Magistratura dei Collegi, il processo era condotto da compagni di ceto secondo meccanismi tecnicamente assai semplificati rispetto alla procedura ordinaria, che si volevano tali da stabilizzare i rapporti giuridici in tempi ristretti e con costi contenuti, summarie, sine strepitu et figura iudicii. La soluzione si fondava anzitutto sulle consuetudini e sull’equità del ceto mercantile: ovvio che potessero esserne interpreti unicamente i membri delle arti. La corte era composta da un collegio di dodici consoli, presieduto da un giudice doctor legis, che offriva il contraltare delle categorie del diritto dotto: straniero nell’esperienza originaria, da metà Quattrocento fu stabilmente bolognese e membro del collegio di diritto civile dello Studio di Bologna.

5. La dimensione della complessità composita: enciclopedismo, volgarizzazione e cetualismo in Giambattista De Luca La rinnovata autorevolezza della giurisprudenza e soprattutto delle decisiones dei grandi tribunali influenzò profondamente la letteratura giuridica del tardo diritto comune. Fu il caso anche di colui che fu forse il massimo giurista del XVII secolo. Ai grandi tribunali, infatti, fece ampio riferimento Giovanni Battista De Luca (Venosa 1614-Roma 1683). Dopo aver studiato giurisprudenza a Salerno e a Napoli, dove si addottorò nel 1635 ed esercitò l’avvocatura, il De Luca si trasferì a Roma nel 1644 e prese l’abito ecclesiastico. Divenne dapprima uditore e poi segretario dei memoriali di Innocenzo XI, che nel 1681 lo creò cardinale. Apprezzato giureconsulto crebbe nella pratica del foro, perché – scriveva – «le leggi si mangiano e s’inghiottiscono nelle scuole, ma poi si digeriscono ne’ tribunali» 18, ma coltivò, accanto alla professione, vasti interessi di studio. 18

G. De Luca, Il dottor volgare, ovvero Il compendio di tutta la legge civile, canonica, feu-

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Lasciò, infatti, anche un’ampia produzione giuridica, tra cui il Theatrum veritatis et iustitiae (1669-73), annoverato fra le più celebri opere della scienza giuridica italiana del tardo diritto comune. Anche questa fu opera che, seppur di dottrina, si radica nella pratica. Il Theatrum raccoglie e ordina in 21 volumi in folio alcune migliaia di allegazioni e circa 2500 pareri forensi in materia di diritto civile, canonico, feudale e municipale – assente il diritto penale –, maturati nell’esercizio della prassi giudiziaria. Forensizzazione ed enciclopedismo sono i primi tratti distintivi della principale opera di De Luca. Il Theatrum, infatti, si presenta come una trattazione ‘enciclopedica’ di quasi tutto il diritto civile e canonico, ma fondata principalmente sulla prassi della Rota romana. Fu uno dei testi essenziali della letteratura giuridica di antico regime, di straordinario successo editoriale. Il De Luca curò, inoltre, nel 1673 la redazione de Il dottor volgare, un compendio «di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale nelle cose più ricevute in pratica» in lingua volgare, comprensivo della parte penalistica, assente nell’opus maius. Redatta nello stesso ordine del Theatrum, di cui rappresenta una rapida sintesi, la straordinaria novità dell’opera fu proprio quella linguistica, una vera riforma visto che di diritto comune si scriveva pressoché unicamente in latino. L’adozione della lingua italiana, intesa come fondamentale strumento di divulgazione del diritto, è una circostanza che merita rilievo, poiché comportava il fine evidente di far conoscere il diritto comune anche al di fuori dell’ambiente forense. E all’opportunità dell’uso dell’italiano nei giudizi e negli atti dispositivi privati (contratti, testamenti, ecc.) il cardinale De Luca dedicò la Difesa della lingua italiana, pubblicata a Roma nel 1675. Lo stesso De Luca enunciava il suo intento divulgativo nell’opzione linguistica, indirizzando Il dottor volgare agli ‘infarinati’, coloro cioè che, pur non professando il diritto, nel quotidiano lo dovevano comunque maneggiare, abbisognando, quindi, di una mera e generica ‘infarinatura’. Ne Il dottor volgare il De Luca, interrogandosi sulla figura del giudice e sul ruolo dell’interpretazione nel coacervo pluralismo giuridico medievale, propose una scala gerarchica delle fonti di diritto comune. Così, secondo, l’autore, nella soluzione delle questioni giuridiche, in presenza di una legislazione tanto disordinata quanto disorganizzata, le decisioni dei grandi tribunali dovevano avere un ruolo prevalente. Tali decisioni dovevano essere sovraordinate per autorevolezza anche ai consilia dei giuristi: «Nel regolare poi o attendere le dottrine, bisogna parimente distinguere le classi, o specie d’esse, che sono molte. E tra queste, il primo luogo, a mio giudizio, deve darsi alle decisioni, con due circostanze però. L’una (...) che si dice decisione solamente quella parte, che concerne il punto, o articolo, principalmente disputato e de-

dale e municipale nelle cose più ricevute in pratica, Proemio, cap. III, n. 1 (ed. Batelli e c., Firenze 1859, vol. I, p. 27).

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ciso. E secondariamente, che siano decisioni de’ tribunali collegiali e grandi, primarj di quel regno o principato, non già quei consulti, o voti, e giudicature d’un privato dottore, il quale impropriamente si sia assunto di dar loro titolo di decisione; perché questi vanno sotto la seguente classe de’ voti, o de’ consigli fatti col solo motivo di verità, ma non di decisioni, tanto autoritative, quanto sono le risoluzioni de’ tribunali grandi collegiali. La ragione di dare a queste il primo luogo si crede manifesta, perché il giudizio di più persone disappassionate, congregate assieme, si stima migliore e più maturo del giudizio d’un solo, e maggiormente perché precede la disputa formale. Sicché può dirsi oro affinato nel fuoco, e determinazione fatta con cognizione di causa, il che non si verifica in nessun’altra sorte di dottrine. (…) Per le medesime ragioni, con la dovuta proporzione però, il secondo luogo pare che sia dovuto all’altr’ordine di quelle decisioni, le quali in effetto contengono voti, o responsi decisivi de’ dottori ben versati, fatti per la sola verità, mentre dalli defensori dell’una e dell’altra parte, o da essi medesimi s’esaminano tutte l’autorità e ragioni per l’una e l’altra opinione, ed anche li testi e glosse. Il terzo luogo va dovuto a quelle dottrine, alle quali il volgo dà il primo, cioè degl’antichi repetenti classici, l’autorità de’ quali, come dei primi maestri, è maggiore de’ moderni. Ed anco perch’è dottrina disappassionata, come ordinata alla cattedra per la sola verità. Il quarto luogo si deve a gl’autori de’ trattati e questioni, o controversie in astratto, non già di casi particolari, per la medesima ragione dell’esser dottrina disappassionata ed ordinata alla sola verità. Il quinto ai moderni repetenti poco praticanti il foro, come praticavano Bartolo, Baldo, Alessandro, Romano, Decio, ed altri antichi, i quali nel medesimo tempo attendevano alla cattedra ed al foro ed a dar consulti per le cause particolari, conforme i loro consigli dimostrano. Attesoché i moderni, tutti dediti alla sola scolastica ed all’erudizione grammaticale della lingua latina e della vera significazione delle parole e vocaboli delle leggi, per lo più trattano questioni sottili e ideali; sicché questi sono dottori veramente insigni e degni di grandissima stima e venerazione, e lo studio d’essi non solamente si stima utile, ma necessario a’ giovani, per ben apprendere la teorica con i suoi veri e propri termini ed anco per illuminare l’intelletto, per saper ben distinguere ed applicare; ma sono molto di raro profittevoli per il foro nelle decisioni delle cause. (...) L’ultima ed a tutte inferiore sorte di dottori è quella de’ consulenti non già in consigli decisivi e per verità, a’ quali (come sopra) pare dovuto il secondo luogo, ma in quei consigli ch’in sostanza contengono informazioni fatte dagl’avvocati ad istanza ed opportunità del cliente che gli ha richiesti, essendo questa dottrina appassionata e venale, che bene spesso si dice anco contro il proprio sentimento. (...) Oltre le suddette sorti, ve n’è un’altra tra giuristi, di semplici collettori, o repertorianti, li quali, non discorrendo delle conclusioni, né dando proprio giudizio, hanno procurato di riferire quel che altri dicano. La fatica di questi è degna di lode per il ben publico e per la notizia che ne acquistano i giudici e gli avvocati, ma non già per autorità che loro facciano, mentre possono dirsi testimoni d’udito. (...)

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Oltre li Dottori civilisti e canonisti, li quali comunemente sono esplicati col vocabolo generale de’ legisti, vi è un’altra classe di scrittori, professori di teologia morale, i quali (particolarmente in questo secolo) con qualche tintura di leggi o de’ canoni si sono dilatati molto nelle cose forensi. Questa sorte di scrittori è veramente degna di grandissima venerazione e di stima in quella parte ch’è loro propria del foro interno, per il governo del quale ad essi si deve deferire; ma non pare che in concorso de’ legisti o de’ canonisti versati nel foro si debba lor deferir molto, sì perché, non avendo pratica nelle cose forensi, con facilità pigliano degli equivoci, sì ancora per le diverse massime e principj con quali si cammina; poiché nel foro interno (come di sopra si è accennato) essendo giudice Iddio, il quale distingue le operazioni anco istantanee dell’intelletto e vede il cuore, possono ben verificarsi le loro distinzioni di atti primi e d’atti secondi, e cose simili, che nel foro esterno pajono idee o chimere non verificabili» 19.

Ma Giambattista De Luca ebbe anche ben presente la ‘costituzione materiale’ dell’antico regime e la sua complessità composita, non inquadrabile in paradigmi universalistici né localistici, ma desumibile al più per via induttiva. Il testo che offre la chiave di lettura di gran parte del mondo culturale del De Luca è stato a torto sottovalutato dalla storiografia. Si tratta de Il cavaliere e la dama, overo discorsi familiari nell’ozio tusculano autunnale dell’anno 1674, pubblicato a Roma nel 1675. Dedicato alla regina Cristina Alessandra di Svezia – unione singolare di dama e cavaliere nella stessa persona, a detta del De Luca –, il volume si apre con quello che in un certo senso ne sarà il filo rosso: una riflessione sulla centralità dei giuristi nel governo della società. Il primo confronto è fra i giuristi e i politici, guidati dal «solo lume di natura affinato dalla pratica» 20 al contrario dei doctores iuris con tutte le loro ‘sottigliezze e formalità’, spesso dirette all’unico fine di ‘eternare le cause’. Secondo il De Luca tanto il giurista deve coltivare competenze politiche, quanto il politico competenze giuridiche, con la differenza che mentre le seconde si studiano essenzialmente su libri e carte processuali, il sapere politico si assume leggendo e vivendo, «per quattro mezzi, cioè con la lettura dell’istorie, con la pratica con uomini dotti e sperimentati, con la pellegrinazione vedendo e praticando diverse parti del mondo» 21. Ma chi è il politico? De Luca lo spiega subito: è anzitutto «un soldato, overo un cavaliere di cappa corta, professore della politica acquistata per i suddetti mezi» 22. E parla di due tipi di leggi: leggi in senso stretto di diritto comune e ‘leggi della convenienza’. La complessità delle ‘scienze normative’ di antico regime 23 e dei loro codici semantici inizia a comparire e serpeggerà per tutto il li-

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Ivi, Proemio, cap. VIII, nn. 5-15 (ed. cit., pp. 50-54). G. De Luca, Il cavaliere e la dama…, Dragondelli, Roma 1675, cap. 1, n. 4, p. 4. 21 Ivi, cap. XVII, n. 17, p. 277. 22 Ivi, cap. I, n. 9, p. 6. 23 V. supra, § 1, e infra, § 8. 20

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bro, nel quale il De Luca dimostra un’eccellente conoscenza della ricchissima letteratura di ‘scienza dell’onore’ 24 su cui si fondava in primis la scienza normativa cetuale dei nobili, politici per nascita in quanto membri del ceto chiamato a guidare la società con l’esempio e con l’azione. Sotto questo profilo Il cavaliere e la dama andava a rappresentare il necessario complemento del Theatrum, che sarebbe altrimenti rimasto monco e cieco dinanzi alla costituzione materiale di antico regime. In poco più di seicento pagine il De Luca esponeva quindi le linee essenziali della giuridicità cetuale specifica della nobiltà, convinto della sua necessità e, ad un tempo, perplesso per certi suoi contenuti nella loro dialettica con il diritto comune. I nobili seguono infatti anzitutto una loro legge che non si impara se non parzialmente sui libri, ma vivendo da nobile e interiorizzandone valori e princìpi dalla nascita e nel diuturno esercizio di pratiche guidate da esperti maestri di ceto. Tutto ciò conduce ad una percezione del diritto fondata su di una equità, che era da considerarsi ad un tempo innata e studiata senza alcuna necessità di conoscere il latino: «Tra gli errori ne’ quali vive il mondo, overo per dir meglio vivono i tinti e quelli i quali si fermano alla corteccia delle cose, o pure quelli i quali vivono con la sola consuetudine senz’altro discorso o riflessione, si scorge particolarmente questo, che la buona notizia della lingua latina sia creduta una scienza overo facoltà molto stimabile, siché quello il quale abbia una buona lingua latina e che parli con eleganza sia creduto un gran scientifico e un letterato degno di grande stima. E pure ciò contiene un errore manifesto, mentre in fatti ciò altro non importa che il saper parlare in una lingua antica naturale e idiomatica dell’Italia oggi morta e andata in disuso» 25.

Si tratta di temi anche altrove affrontati – come abbiamo visto – dal De Luca, ma che qui vengono trattati con una vis polemica più forte, sapendo di avere qui come interlocutori coloro soltanto per i quali aveva composto il suo celebre compendio in volgare – «conforme più pienamente si discorre nell’accennata opera del Dottor volgare a questo fine principalmente, anzi unicamente composta per i Principi, signori e cavalieri, non già per i togati e professori, a’ quali si è dichiarata incongrua, anzi se n’è proibita la lettura» 26. Il De Luca è consapevole di quanto le culture cetuali sfuggano al dettato della religione più agevolmente della scienza del diritto comune universale: «Posciache non sono facilmente riducibili alla pratica alcune sante e buone teoriche, così puramente come si diano, e il persuadere a’ cavalieri, professori dell’arme e dell’onore, il vivere da monaci e da religiosi claustrali e di dover esattamente osservare i divini precetti o consigli nell’amare gl’inimici e nel perdonare l’ingiurie e l’offese, onde a quello il quale li percuota in una mascella si offerisca l’altra perché la percuo24

V. infra, § 8. Ivi, cap. XV, n. 10, p. 230. 26 Ivi, cap. XV, n. 23, p. 244. 25

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ta; come anche non se gli può facilmente persuadere che per l’ingiurie si debba con le querele e con l’istanze giuridiche ricorrere a’ giudici e a’ superiori per il gastigo col mezzo della giustizia, mentre per i costumi correnti del mondo tra cavalieri e tra persone nobile ciò viene stimato una cosa vergognosa e di grave pregiudizio all’onor proprio, al che la legge di Cristo non obliga per precetto, ma ben sì lo persuade per consiglio, e farebbe atto di perfezzione il farlo» 27.

Tanti eruditissimi autori, tante ‘penne sublimi’ prima di lui – ricordava il De Luca – avevano tentato di fissare i princìpi a cui avrebbero dovuto attenersi ‘cavalieri cristiani’ col «descrivere le spade d’onore compatibili con la cristiana religione, e con l’osservanza de precetti, e delle leggi della Chiesa, e de Principi», ma – concludeva – «tuttavia in pratica non se ne vede gran profitto» 28: se in tanti avevano fallito non sarebbe certo riuscito lui a trovare una auspicabile «via di mezo» e pertanto gli sembrava più corretto astenersene del tutto, limitandosi a prendere atto dello stato delle cose e a proporre qualche piccola riforma per risolvere le vertenze cetuali della nobiltà secondo la loro propria scienza normativa in maggiore sintonia con la religione ufficiale e il diritto comune.

6. La dimensione neo-umanistica: il diritto ‘arcadico’ di Gian Vincenzo Gravina Nell’avanzare dell’età moderna, i due movimenti del mos italicus e del mos gallicus vennero superando la rigida contrapposizione polemica, coniugandosi variamente in forme ibride, che su di una sostanza definibile come ‘bartolista’ non disdegnavano di svolgere concetti e problemi di ordine umanistico. Ma l’umanesimo quattro-cinquecentesco non era stato un movimento di grammatici ed eruditi, bensì di intellettuali dalla forte vocazione civile, alle radici di un razionalismo giuridico e secolarizzante che si sarebbe poi sviluppato più ampiamente nel giusnaturalismo e nell’illuminismo giuridico. In una nuova ottica fra XVII e XVIII secolo comparve un movimento culturale definibile come neo-umanista, che ritrovò il suo personaggio di maggior spicco in Gian Vincenzo Gravina (Roggiano 1664 – Roma 1718). Il Gravina recuperò i canoni metodologici umanistici, in particolare quelli dell’indirizzo storico-filologico del Cuiacio, a cui sembrava ispirarsi per la ricchezza dei rigorosi riferimenti storici ed antiquari di cui abbondavano le sue opere giuridiche. Promotore di un classicismo di stampo razionalista, antigesuita, antiassolutista, anticurialista e antiscolastico, il Gravina fu fortemente condizionato dallo studio 27

Ivi, cap. XX, n. 11, p. 360. Ivi, cap. XX, n. 2, p. 329. Le «spade d’onore» sono un richiamo esplicito a una celebre opera di scienza dell’onore del tempo, cioè La spada di honore di Berlingiero Gessi. 28

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delle opere di Platone – già tanto caro agli umanisti rinascimentali nel loro antiaristotelismo –, dal pensiero cartesiano e dal giusnaturalismo di stampo groziano. Vicino ai novatori napoletani di fine Seicento, ne condivise il modello di una libertas philosophandi come ideale di libera ricerca volta a formare una nuova cultura laica di respiro europeo. Il Gravina giunse nel 1680 a Napoli, per studiare diritto con Serafino Biscardi, in un ambiente forense ancora fortemente segnato dall’influenza di Francesco d’Andrea e dove la più viva cultura giuridica si sviluppava oramai nelle scuole private al di fuori degli ambienti accademici universitari. La filosofia razionalista cartesiana appresa dal cugino Giorgio Caloprese durante i suoi studi giovanili a Scalea, la cultura classica approfondita con il grecista Gregorio Messere e la scienza giuridica dell’anticurialista Serafino Biscardi, questi ultimi affrontati negli anni trascorsi a Napoli, fecero di Gian Vincenzo Gravina uno studioso ed un giurista di caratura europea: ed è, infatti, in tutta Europa che le sue opere ebbero grande successo e circolazione. Trasferitosi a Roma nel 1689, si trovò nel cuore della contrapposizione tra gesuiti e giansenisti, assumendo posizioni fortemente anticurialiste e critiche nei confronti dei primi, e pubblicando con lo pseudonimo di Censorinus Photisticus l’opera Hydra mistica sive de corrupta morali doctrina dialogus (1691), che risentiva fortemente dell’insegnamento di Caloprese e di Biscardi. Nell’Università romana il Gravina ricoprì la cattedra di Istituzioni di ius civile dal 1699 al 1704, anno a partire dal quale gli fu assegnata la Lectura Decreti (il Decreto di Graziano), disciplina che insegnò fino alla morte. Nell’inaugurare il suo primo corso di diritto civile, con l’orazione De iurisprudentia egli sottolineava la necessità degli strumenti storici e filologici nell’interpretazione delle norme. La sua solida cultura classica di stampo umanistico e i suoi riferimenti filosofici lo avvicinarono al circolo di intellettuali che frequentavano la regina Maria Cristina di Svezia. Alla morte di lei il Gravina contribuì alla fondazione della celebre Accademia dell’Arcadia, di cui fu chiamato a redigere nel 1696 lo statuto, Pro legibus Arcadum, redatto in un latino arcaico sul modello delle XII tavole. L’Accademia dell’Arcadia si proponeva un recupero della purezza della poesia italiana in nome del gusto e dell’equilibrio classici, nella ricerca di una ‘misura’ intesa come reazione agli eccessi barocchi del Seicento. In un clima già fortemente ispirato dal razionalismo, che trionferà nel corso del Settecento, i suoi adepti adottarono come ideale poetico la semplicità stilistica e la purezza formale e tecnica riconosciuti come propri dei canoni dell’antichità classica. Gli ideali poetici ed estetici dell’Arcadia si coniugavano nel Gravina con la sua concezione di un diritto semplice e puro, liberato dalle pesantezze della casistica e dell’interpretazione di stampo scolastico, senza più sofismi e abusi dialettici. Il suo programma didattico, espresso nelle Orationes (1712), si proponeva un insegnamento del diritto depurato dal metodo scolastico che in circa quattro secoli aveva trasfigurato – a suo avviso – il senso dei testi normativi originali. Il Corpus Iuris restava per il Gravina l’imprescindibile fulcro della formazione giuridica,

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ma non solo in quanto espressione delle più consolidate norme romane, bensì in quanto espressione di principi di ragione. La cura storica e filologica ed anche una vera e propria sapienza antiquaria, care alle concezioni dell’Arcadia, erano ben presenti nel programma giuridico del Gravina, più sensibile all’orientamento storicistico che non alle esigenze di una costruzione sistematica. Tale impostazione gli appariva indispensabile strumento pratico e non erudito, finalizzato alla ricerca della ratio logica e giuridica delle fonti, e, quindi, al raggiungimento della corretta interpretazione della norma. L’Arcadia, d’altronde, fu accademia italiana e nazionale in senso pieno, diffondendosi in ogni città e costituendo un primo, essenzialissimo, nucleo di unità culturale. Se essa si limitò spesso all’imitazione di facili modi letterari promossi già dai suoi fondatori e al ricorso di pseudonimi pastorali come elemento identificativo comune a tutte le numerose colonie di arcadi, pure nell’Italia in transizione tra XVII e XVIII secolo ebbe una notevole portata storica. Anche sotto questo profilo, il contributo di Gravina alla scienza giuridica si mosse in piena coerenza con quel programma estetico e culturale, sostenendo contro ogni provincialismo un giusnaturalismo moderato di impronta groziana, in cui emerge con forza l’idea che i principi fondanti di un ordinamento giuridico siano i medesimi presso tutti i popoli. Molti furono gli intellettuali attratti dall’impostazione giuridica del Gravina nel segno della ‘misura’ classica. Fra i suoi interessi comparve – e fu tra i primi in Europa – la storia del diritto romano nel medioevo e la ricostruzione della formazione storica delle scuole giuridiche, dai glossatori fino all’umanesimo giuridico, pur subendo poi la critica di Donato Antonio d’Asti (1673-1742) ne Dell’uso e dell’autorità della ragion civile nelle provincie dell’Imperio occidentale dal dì che furono inondate dai barbari sino a Lotario II (1720-22). Nelle Orationes, il Gravina individuò due scuole principali: quella sorta dalla ‘rinascita’ del XII secolo e riferibile all’impostazione di Accursio; quella emersa successivamente ed esemplificata in Alciato e Cuiacio, entrambe essenziali nella storia della scienza del diritto. Il diritto romano vi risplende come il diritto per eccellenza fondato sull’impero della ragione. Se nella Oratio pro romanis legibus ad magnum Moschorum regem il Gravina esortava lo Zar Pietro il Grande ad accogliere il diritto romano in quanto espressivo di una civiltà del diritto aderente come non mai alle esigenze dell’uomo e della società, nel Receptioris iuris specimen sive institutionum imperialium ex usu nostrorum temporum mirava a individuare quanto del diritto giustinianeo poteva ormai dirsi superato dalla normativa canonistica e dagli interpreti dei suoi tempi. La principale delle sue opere giuridiche fu, forse, il saggio Origines iuris civilis, la cui prima parte fu pubblicata a Napoli nel 1701, e poi ultimata nel 1703, vedendo definitivamente la luce nella sua versione definitiva in tre libri soltanto nel 1708 a Lipsia. In essa il Gravina ripercorreva la storia del diritto non in due, ma in quattro tappe principali, partendo dalla storia delle istituzioni e del diritto romano fino al corpus iuris giustinianeo, procedendo con la rinascita degli studi

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giuridici della scuola di Irnerio e della scuola del commento, e infine concludendo con Grozio e con il giusnaturalismo moderno. Proprio al diritto naturale il Gravina dedicava anche un’ampia trattazione, probabilmente la prima in Italia di impronta giuridica e non solo filosofica. La plurisecolare attività interpretativa e scientifica intorno al corpus iuris culminava in una esaltazione della metodologia dei giuristi umanisti, quale miglior modello per la preparazione del giurista del suo tempo, che doveva formarsi sulle opere dell’umanesimo giuridico per comprendere le norme romane nel loro esatto significato, e che doveva poi servirsi delle opere tradizionali – commentari, trattati, sentenze e responsi – soltanto in via accessoria come repertori a sostegno della memoria. Si chiariva, al contempo, l’ideale politico-giuridico di Gravina che fondava l’esercizio del potere su di una base contrattuale, da conformare ai criteri della ragione. E finiva per auspicare uno Stato caratterizzato da un equilibrio di poteri che potessero superare i due estremi della democrazia e dell’aristocrazia, per fondarsi invece sul ceto medio e su di una élite di intellettuali, mentre il sovrano, a cui spettava il potere legislativo, doveva essere rispettoso anzitutto delle leggi emanate, e privo di poteri di ingerenza sulle funzioni giurisdizionali. Sotto quest’ultimo profilo, la storiografia ha discusso intorno ad un possibile approdo concettuale graviniano allo Stato di diritto ovvero ad una mera concezione politico-giuridica antiassolutista. Trattando delle forme di governo, il Gravina – senza dimenticare la tradizione aristotelica antica e moderna – distingueva tre generi di civitas: semplice, mista e perturbata. La civitas mista, per la quale egli propende, assumeva tre forme a seconda che la sovranità risiedesse in una sola persona (regnum); ovvero in un piccolo gruppo di persone (status optimatum); ovvero nell’intera comunità (respublica). Tutte queste forme erano però destinate fatalmente a degenerare rispettivamente nella tirannide, nella oligarchia e nella democrazia. Il Gravina, invece, era convintamente monarchico. Sebbene esprimesse un giudizio favorevole nei confronti della respublica, pure sosteneva essere la monarchia la forma di civitas mixta più adatta alla realtà politica dei suoi tempi. Nelle Origines, poi, sottolineava l’intima antigiuridicità del fenomeno tirannico, che comportava la liceità della resistenza ai suoi comandi, salvo il rischio di precipitare nell’anarchia. La tirannide, infatti, nasceva dalla mancanza di consenso, vincolo fondamentale dei sudditi con lo Stato. Se però egli considera la libertà un valore quasi sacro, nondimeno ritiene che i governanti abbiano il diritto di servirsi dell’autorità e dell’uso delle armi per impedire che l’esercizio della libertà divenga licenza. Secondo il Gravina, infatti, gli uomini sospinti dalla ragione si erano spontaneamente sottomessi alle leggi per la propria sicurezza, ed era su questo che si fondava, quasi hobbesianamente, l’utilità del vivere nel diritto. Le Origines si inserirono immediatamente in un circuito europeo, e conobbero un notevole successo, con parecchie edizioni ancora fino alla metà del XIX secolo. Il Montesquieu vi si ispirò in modo evidente, mentre in Spagna e in Germania venne spesso adottato come libro di testo per i corsi universitari. Lo

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storicismo attualizzante e la moderazione cattolica del pensiero del Gravina contribuirono non poco a questo successo. Nel 1711 il Gravina ruppe i suoi rapporti con l’Accademia dell’Arcadia. L’anno seguente scrisse cinque tragedie, tutte accomunate da una forte condanna della tirannide e da un diffuso pessimismo. I suoi seguaci confluirono circa tre anni dopo in una nuova Accademia detta dei Quirini, che ebbe breve vita: dopo la morte dello stesso Gravina le due correnti si ricongiunsero. Suo ultimo atto fu l’accettazione della chiamata di Vittorio Amedeo II di Savoia per la cattedra di diritto canonico nell’Università di Torino, ma morì il 6 gennaio del 1718 prima di poterla ricoprire.

7. La dimensione riformista: i ‘difetti della giurisprudenza’ secondo Ludovico Antonio Muratori La cultura italiana d’antico regime soggiacente alle istanze di riforma del sistema giuridico la possiamo riassumere nella figura emblematica di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), nativo di Vignola, sacerdote, laureato in diritto, ma celebre soprattutto come storico. Archivista e bibliotecario a Milano e soprattutto a Modena, non fu soltanto un raffinato erudito e lettore di antichi manoscritti, ma un intellettuale aggiornato e in contatto costante con dotti e principi, italiani e stranieri. Nel campo del diritto si ricorda anzitutto la sua partecipazione, in difesa dei diritti estensi, alla disputa sul possesso di Comacchio – e soprattutto delle sue saline – fra il Ducato di Modena e lo Stato pontificio. Nel 1726 fu pure autore di una ‘lettera’ all’Imperatore Carlo VI – rimasta inedita sino al XX secolo –, in cui proponeva la nomina di una commissione imperiale di giuristi col compito di risolvere i casi controversi nel foro: le decisioni pubblicate annualmente avrebbero avuto forza di ‘interpretazione autentica’ in tutta l’Europa del diritto comune. Tuttavia, l’opera per la quale Ludovico Antonio Muratori ricopre una posizione di primo piano nell’evoluzione del diritto moderno è I difetti della giurisprudenza del 1742. Si tratta di un saggio assai più importante di quello che possono indicare a prima vista certi suoi contenuti, e ciò in quanto esprime con molta chiarezza quel dinamismo interno alla cultura di antico regime che abbiamo già avuto modo di sottolineare. Il Muratori rappresentò in qualche modo un possibile itinerario di riforma e modernizzazione fondato sulla disponibilità delle strutture tradizionali ad un mutamento graduale e progressivo, in un processo evolutivo più prossimo all’esperienza austriaca. Fu alfiere di una cultura che veniva proponendo un piano di riforme razionali, ma al contempo fortemente alternativo a quello che di lì a pochi anni avrebbe significato l’illuminismo giuridico. E di conseguenza non può che essere assai impropria l’etichetta di ‘preilluminismo’ al pensiero del Muratori, così come di diversi altri autori della sua temperie.

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La pubblicazione Dei difetti della giurisprudenza fu rallentata dal Muratori nel timore di censure pontificie per le pur caute proposte riformiste dell’ordine giuridico vigente: un agile volumetto in lingua italiana, diretto non alla torre d’avorio del dibattito accademico, ma alla pubblica opinione, che nella prima metà del Settecento veniva conquistando un ruolo sempre maggiore. La svolta ebbe luogo nel 1740 con l’ascesa al soglio pontificio del bolognese Prospero Lorenzo Lambertini, che col nome di Benedetto XIV inaugurò una stagione di moderazione e di riforme. A lui Dei difetti della giurisprudenza era espressamente dedicato. In estrema sintesi il Muratori vi sostiene che la crisi del diritto e soprattutto della certezza del diritto dei suoi tempi dipende in buona misura dalla elefantiasi e dalle modalità delle opinioni degli interpreti, giudici e giuristi, il cui operato è riassunto nel termine ‘giurisprudenza’. Il tema è però quello della giurisprudenza civile («mi restrignerò alla giurisprudenza civile. Poiché quanto alla criminale, meritevole anch’essa di molte osservazioni, non intendo io di toccarla, riserbando un tale assunto a chi con sincerità eguale alla mia, e più sperienza, prendesse a trattarne per pubblico bene») 29. Nella prima parte dell’opera il Muratori, prendendo atto della generale insoddisfazione per il funzionamento del sistema giuridico, si sofferma su quelli che sono i suoi difetti. Fra questi ve ne sono anzitutto alcuni intrinseci alla materia, e quindi inevitabili: l’oscurità di molte leggi per i non giuristi a causa del tecnicismo del loro oggetto; l’impossibilità delle leggi a provvedere per tutti i casi che si presentino; la difficoltà d’individuare la genuina volontà del legislatore; la diversità d’intelletto, di idee e di cultura dei giudici. Al contrario sui difetti ‘estrinseci’ un’azione di riforma è auspicabile e possibile, in quanto – a differenza della medicina in cui pure vi erano pareri diversi e confusi – nella giurisprudenza poteva intervenire l’autorità sovrana, con risultati validi almeno per un certo lasso di tempo. Tali difetti estrinseci nel sistema del diritto comune erano riassumibili nella proliferazione smisurata delle interpretazioni sottili di giudici e giuristi. Il vero problema era dunque quello della varietà delle opinioni. Se però, secondo il Muratori, nella scienza medica non ci ‘si può’ liberare dalla opinabilità rispetto al caso concreto, e se nella scienza teologica non lo ‘si deve’, nel diritto è non soltanto possibile, ma anche fortemente auspicabile in vista del bene comune. Quale poteva essere il rimedio? Le pubbliche autorità – l’Imperatore in particolare – avrebbero dovuto formare una commissione di giuristi di altissimo livello col compito di risolvere periodicamente tutti i casi che risultassero controversi nei tribunali: le loro decisioni avrebbero dovuto avere forza di legge. Lo stesso Muratori ne operava un’ampia esemplificazione nella seconda parte del suo saggio, incentrata sulla materia successoria, una delle parti più rilevanti e capziose del diritto comune del tempo.

29

L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, Pasquali, Venezia 1742, cap. I, p. 4.

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Per essere adeguatamente compreso, il saggio del Muratori deve essere collocato su tre scenari diversi e confluenti: nel contesto delle dinamiche del pensiero giuridico moderno; nel contesto della soggiacente cultura d’antico regime della prima metà del Settecento; nel contesto della restante opera del Muratori. Nel contesto delle dinamiche del pensiero giuridico in età moderna, si ritrovano indubbiamente diversi profili del pensiero muratoriano: 1. Sfocia nel Muratori e trova in lui il suo emblema quella ideologia antigiurisprudenziale che abbiamo già ricordato e che tendeva a individuare i mali del sistema giuridico nell’opera degli interpreti. 2. Ad autori dell’umanesimo giuridico cinquecentesco risalgono le prime definizioni della proposta muratoriana di una commissione di giuristi di nomina imperiale che provveda a risolvere con forza di interpretazione autentica i principali problemi dibattuti a livello forense. Più in generale l’approccio del Muratori al diritto giustinianeo – da ridurre a un breve compendio di quanto fosse ancora vigente, epurato dalle ‘leggi abrogate’ – conosceva come principale, ma non unico, precedente la Scuola Elegante giuridico-umanistica olandese seicentesca 30, ma si ritrova diffusamente in numerosissimi autori d’età moderna. 3. Il riferimento dottrinale di gran lunga preminente nel pensiero del Muratori è senz’altro Giambattista De Luca, da lui ripetutamente citato con grande riverenza. Nel De Luca si ritrova anzitutto il problema della certezza del diritto da risolvere con una valorizzazione dei testi di legge e con una correzione delle mistificazioni degli interpreti, ma anche quell’attenzione all’uso della lingua volgare e alla divulgazione dei problemi del diritto, che sono alla base del saggio muratoriano. In secondo luogo il saggio del Muratori si mostra in piena sintonia col progetto giuridico e, più in generale, con la cultura d’antico regime della prima metà del Settecento: 1. L’idea muratoriana di riforma del sistema giuridico è quella di un ‘riformismo fondato sull’esperienza’, un riformismo a piccoli passi, attento a razionalizzare i meccanismi tecnici, senza mettere in discussione il quadro d’insieme e i suoi valori. Altro non è che l’idea di fondo soggiacente ai codici settecenteschi 31, quali, in Italia, le Leggi e Costituzioni di Vittorio Amedeo II di Savoia (1723) – già vigenti ai tempi di Dei difetti della giurisprudenza – e il Codice Estense di Francesco III (1771), chiaramente influenzato dal pensiero muratoriano. Come questi codici, il Muratori avverte l’esigenza della certezza del diritto, ma la persegue convinto della bontà del sistema del diritto comune, da riformare e non da sopprimere. Gli è estranea l’idea di ‘unificazione del diritto

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V. supra, cap. III, § 8a. V. infra, cap. V, § 3.

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nazionale’ che sarà invece alla base del Code Napoléon e dei codici moderni 32. 2. Il riformismo muratoriano è parimenti in piena sintonia con la cultura riformista d’Antico Regime. Ricordiamo il veronese Scipione Maffei che pubblica nel 1710 un’opera fondamentale e di grande eco europea: Della scienza chiamata cavalleresca, in cui – ferma la struttura cetuale della società – cerca di proporre una contro-educazione dell’uomo nobile, fondata sul concetto di onestà e non di onore sociale, in contrasto con quella ‘scienza dell’onore’ che, come vedremo, rappresentava la ‘diversità’ anche giuridica del ceto nobiliare. Accanto a lui possiamo menzionare il roveretano Girolamo Tartarotti, che nel suo Congresso notturno delle Lammie (1749) sviluppò – e non era il primo – una riflessione critica intorno alla problematica della stregoneria. Sotto quest’ultimo profilo è importante notare che il pensiero muratoriano fu veramente e profondamente calato in questa cultura riformista di antico regime. Illuminante è il fortissimo interesse che il Muratori manifestò sempre per la cultura cetuale della nobiltà nelle sue valenze giuridiche. Lo attestano anzitutto due sue opere: la Introduzione alle paci private (1708) e Del duello (1740). In esse il Muratori affronta il problema dell’idea di giustizia propria della nobiltà. Si tratta di opere spesso a torto dimenticate dalla storiografia, come pure è stato spesso dimenticato l’intenso rapporto che il Muratori ebbe con alcuni dei principali esperti italiani di scienza dell’onore nobiliare, e in particolare la sua forte amicizia e collaborazione con il marchese Giovanni Giuseppe Orsi, che non a caso lasciò in legato proprio al Muratori l’ingente raccolta dei suoi manoscritti in materia.

8. La dimensione disciplinante: fra soluzione sociale dei conflitti, repressione d’apparato e scientificizzazione del problema criminale Un ambito che richiedeva interventi urgenti del legislatore e attenzione particolare dalla dottrina era indubbiamente, nella prima età moderna, il problema criminale. La progressiva affermazione di forme statuali sempre più organizzate e aggressive nei confronti dei poteri particolaristici tradizionali comportò un graduale allargamento della giustizia criminale di apparato. Di fatto sino a tutto il Settecento essa continuò a convivere con pratiche sociali di soluzione dei conflitti, che si integravano variamente con gli strumenti della giustizia pubblica, configurando in tal chiave la complessità e la specificità del modello d’antico regime, dove l’identificazione dell’atto criminale oscillava fra giuridico e metagiuridico, fra reato e peccato, fra scienza del diritto e percezioni consuetudinarie e cetuali della giustizia.

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V. infra, cap. V, § 5a.

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Paiono indispensabili almeno due considerazioni. In primo luogo l’esercizio della giustizia criminale nell’età moderna fu contrassegnato da un pluralismo culturale e sociale di paradigmi che non si risolvevano nella sola attività dei tribunali, cioè della cosiddetta giustizia d’apparato. La soluzione giudiziaria, incentrata sulla pubblica erogazione di una pena, coesisteva con una ricca varietà di pratiche sociali: talvolta pacifiche, come accordi e paci private; talvolta violente, come faide, duelli e vendette; talvolta para-giudiziarie o infra-giudiziarie, come grazie e arbitrati; talvolta intra-familiari, come la correzione patriarcale del padre di famiglia nei confronti di moglie, figli e servi. Tali pratiche potevano, dunque, risolversi in patteggiamenti – con l’intervento o senza l’intervento dello Stato – ovvero potevano legittimarsi su poteri ‘consuetudinari’ di famiglia o di ceto. L’età moderna è l’età della giustizia penale ‘sociale’ e del suo lento e mai definitivo superamento ad opera di una giustizia ‘pubblica’ d’apparato. Sul piano concettuale imporre a queste forme di soluzione dei conflitti l’etichetta di ‘pubblico’ o ‘privato’ appare fuorviante, in quanto tale confine non era percepito nel contesto di una ‘costituzione materiale’ – quella di Antico Regime –, che circoscriveva e conciliava in un unico mosaico le strategie centripete dei nuovi organismi statuali con le prassi centrifughe consuetudinarie e cetuali. In secondo luogo, occorre rimarcare la singolare impotenza della giustizia criminale bassomedievale e d’antico regime, per la carenza di un apparato repressivo poliziesco sufficientemente diffuso e organizzato, e per la carenza di idonei strumenti tecnici a supporto delle indagini (difficilissimo era persino identificare una persona al di fuori dello stretto circolo della sua comunità d’appartenenza). Davanti a questa impotenza si impose un uso politico della pena ad deterrendum, nello scenario della cosiddetta età dei supplizi. Dalle indagini della più recente storiografia europea su aree-campione fra basso medioevo e prima età moderna, si è rilevato che la percentuale delle condanne in contumacia si aggirava normalmente intorno al 70-80% dei casi. Ciò significa che al presunto colpevole era assai agevole sfuggire alla giustizia, soprattutto se non aveva agito in modo estemporaneo e calore iracundiae, e se aveva pianificato il reato e poteva contare su parenti, amici e un patrimonio. I contumaci, però, non sfuggivano soltanto il carcere cautelare e l’eventuale tortura, ma si ponevano in una condizione di forza per negoziare una pace privata o una grazia, il che non era particolarmente difficoltoso soprattutto per i ceti abbienti, ma non soltanto per loro. Il vero timore del criminale, più che non l’inefficiente erogazione di pene truculente, era rappresentato dalle vendette dei parenti della vittima (magari anche trasversali) ovvero dalle confische dell’intero patrimonio personale e di famiglia da parte delle autorità. Si dice che Federico di Prussia, scorrendo le Ordenações, avesse domandato se in Portogallo sopravvivesse ancora qualcuno, dal momento che la pena capitale vi era prevista pressoché per ogni azione delittuosa. La realtà, però, era ben diversa da quel che ci si poteva aspettare dal testo delle norme, sepolto e dimenticato per la massiccia impunità che defluiva ampiamente fra benevoli grazie e

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sostanziale inefficienza. Antonio Manuel Hespanha ha definito il terribile e famigerato diritto penale portoghese come una sorta di ‘diritto virtuale’, sospeso fra l’estrema durezza dei dettati normativi e l’estrema scarsità delle effettive condanne 33. Ma quel che avveniva in Portogallo si può estendere a gran parte dell’Europa occidentale del tempo. Il fatto è che la funzione della giustizia criminale fra medioevo e antico regime può essere intesa soltanto tenendo presente il suo dosaggio politico e la sua concreta modulazione nella prassi. Su questo scenario la più importante novità dell’età moderna fu l’emersione di una scienza del diritto criminale, sempre più autonoma dalle categorie del diritto civile, così come in campo processuale il rito inquisitorio fondava con chiarezza la specificità del processo penale rispetto ai retaggi civilistici della tradizione accusatoria. La materia penalistica aveva conosciuto soltanto occasionalmente l’interesse dei giuristi medievali. A parte il pionieristico Tractatus criminum di autore ignoto della seconda metà del XII secolo, si è soliti indicare la prima trattazione autonoma di diritto e procedura penale nell’opera di Alberto da Gandino, giudice dotto e uomo di governo (assessore ad maleficia e podestà) – dunque un pratico del diritto, non un maestro – che visse nei decenni turbolenti della seconda metà del Duecento, e che non a caso si occupò della materia criminale 34. Il suo Tractatus de maleficiis, del quale conosciamo tre redazioni successive tra il 1286-87 e il 1301, è una raccolta di quaestiones di autori diversi, proposte secondo un ordine sistematico. Risale verosimilmente agli stessi anni – ma in questo contesto non merita più che una menzione – il Tractatus super maleficiis di Bonifacio Antelmi. A costoro si può aggiungere Angelo Gambiglioni (fine XIV sec.-1461), un docente universitario ma anche un pratico del diritto, a sua volta autore di un Tractatus de maleficiis (1438), opera di diritto e procedura penale destinata ai doctores come ai pratici. Celeberrima e più volte ristampata, conobbe una tradizione manoscritta assai mossa e ben tre diversi explicit, che ci mostrano una continua opera di revisione da parte dell’autore. È il Cinquecento il secolo del penale, nel corso del quale alla criminalistica si dedicano cattedre universitarie e al contempo la disciplina acquisisce una riconoscibile autonomia scientifica. Fu lo sbocco di un lento processo di evoluzione dottrinale, che permise la maturazione di una specificità lessicale insieme ad una marcata elevazione del tono della trattazione dalla casistica al discorso sistematico, generale e astratto sugli istituti e sui princìpi, un approccio ‘sintetico’ che superava quello ‘analitico’, sotto lo stimolo culturale dell’umanesimo giuridico francese. Un nuovo interesse per il penale, infatti, tracimò sull’insegnamento universitario. Nel 1509 l’Università di Bologna inaugurò, per la prima volta nella storia

33 Cit. in L.M. Duarte, Um luxo para um pais pobre? A pena de morte no Portugal medievo, in Clio & Crimen, 4 (2007), p. 82. 34 V. supra, cap. 2, § 9c.

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del diritto, una lectura de maleficiis e la assegnò a Ippolito Marsili (1450-1529) di famiglia patrizia. In ambito criminalistico ricordiamo le sue raccolte di Consilia e di Singularia, il trattato de bannitis, alcune repetitiones, ma soprattutto la Averolda. Practica causarum criminalium (1526): il titolo si spiega con la dedica al vescovo Altobello Averoldo, governatore della Romagna. Qui troviamo una vivace sintesi del suo pensiero penalistico e della sua esperienza nel foro, improntate a una singolare moderazione. A partire da una visione del mondo che sembra rimandare al cristianesimo come all’umanesimo, criticò aspramente molti giudici dei suoi tempi, che ricorrevano troppo facilmente e sregolatamente alla tortura, e che pronunciavano sentenze capitali secondo il loro arbitrio e capriccio, quasi crogiolandosi nell’ebbrezza del loro potere. A suo avviso, l’eccessiva severità dei giudici avrebbe dovuto portare alla loro drastica rimozione dall’incarico. Sino al 1509 la tradizionale didattica del diritto comune aveva proposto una fortissima unità del sapere giuridico di ius commune, la cui summa divisio era l’unica, consueta e accettabile per l’atmosfera bassomedievale, quella cioè fra ius civile e ius canonicum, fra diritto dell’uomo in quanto corpo e diritto dell’uomo in quanto anima: libri legales e corpus iuris canonici. Nel contesto dell’insegnamento era frammischiato anche quanto atteneva a maleficia e inquisitiones. Non siamo in possesso di documenti espliciti che ci spieghino le cause dell’introduzione di un insegnamento criminale, riforma che forse non ebbe tutto l’impatto che le si potrebbe attribuire a prima vista, ma che certo simboleggia con forza e suggestione l’irrompere di un’età nuova non solo negli atenei, ma anche nella società. Il nuovo corso di studi andava a trattare complessivamente della giustizia criminale, ricomprendendo – senza distinzione – diritto sostanziale e procedura, come era in uso anche nella legislazione del tempo, se si pensi ad esempio alla Constitutio Carolina, emanata da Carlo V nel 1532. La nuova cattedra recepiva e formalizzava un fenomeno già in atto negli ultimi secoli del medioevo e promuoveva la definizione di un preciso statuto disciplinare della criminalistica: ermeneutica, lessico e istituti specifici. La sporadica presenza medievale di giuristi che potevano definirsi particolarmente interessati al penale cedeva il passo ad una nuova antropologia di criminalisti che affinavano il loro sapere nelle aule universitarie. Dopo Bologna una specifica lectura criminalium, spesso extraordinaria o saltuaria, spesso gratuita o quasi, spesso ristretta ai giorni festivi, si venne affermando in diversi atenei italiani. Nel 1540 a Padova, nel 1544 a Pisa, nel 1554 a Ferrara, nel 1565 a Pavia, nel 1568 a Torino, nel 1572 a Roma, nel 1600 a Perugia. Ma che cosa si insegnava nella lectura criminalium? A Bologna, se ci si fonda sul freddo dettato formale dei rotuli, la didattica si proponeva come un neutrale approfondimento di alcuni titoli del Codex: dalla lex Cornelia de sicariis alla lex Iulia Maiestatis. Se, però, andiamo a scorrere i contenuti delle lezioni del Marsili, troviamo un quadro assai più sfumato e vario, in cui la pratica giudiziaria cinquecentesca dominava lo scenario, fra consuetudini e normative di ius proprium.

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Ippolito Marsili scriveva che experientia facit artem – la scienza giuridica penale si radica nell’esperienza – e sottolineava il rilievo pratico della criminalistica: il suo grande interesse per gli studenti in proiezione forense. Nei Singularia lo stesso Marsili aveva rievocato commosso la sua lunga e proficua attività di giusdicente e sottolineava con orgoglio di aver mandato ad esecuzione un’infinità di sentenze, ritenendo di avvalorare con ciò la sua credibilità di criminalista. Il Marsili fu giudice per dodici anni: a Milano, Albenga, Lugano e Cittadella; a Bologna lo fu soltanto nel Foro dei Mercanti intorno al 1509, proprio quando l’Alma Mater ritenne di valorizzare la sua esperienza pratica in materia penale, pur congiunta ad una solida dottrina e ad una pluriennale docenza universitaria di ius commune. Anche l’assegnazione dell’insegnamento di diritto criminale nell’Università di Padova a Tiberio Deciani fu giustificata nello stesso ordine di idee dalla lettera ducale del 23 aprile 1549: la scelta era stata largamente determinata dalla rinomanza della sua esperienza forense. Accanto a tale ineludibile rilievo pratico, nel clima della prima età moderna si raggrumavano intorno ai nuovi corsi criminali complesse dinamiche culturali. Pensiamo soprattutto alle istanze dell’umanesimo giuridico e alle sue pretese di riforma del mos docendi alla luce di un metodo razionale, per la conclamata necessità di studiare il diritto in un nuovo ordine, e nella prospettiva di un nuovo sistema. Rilievo sociale del problema criminale, evoluzione istituzionale della giustizia d’apparato e razionalismo umanistico sembrano le più dirette concause dell’emersione didattica del problema criminale. Fra di esse la storiografia ha conferito forse un’importanza eccessiva ad un generico fattore politico: il nuovo interesse dei pubblici poteri per una riflessione sulla giustizia, sulle sue regole e sulla sua funzione di conservazione dell’ordine, in stretta connessione con quel lucido perseguimento di una politica penale proprio degli Stati d’antico regime. In taluni casi il ruolo del politico pare evidente. A Ferrara, ad esempio, è stato dimostrato che i lettori ruotanti intorno al corso criminalistico erano compattamente avvinti al Principe e alla politica della corte. E tuttavia occorre guardarsi da facili equazioni in un’età complessa come quella della ‘prima modernità’, calcando troppo sul nesso ideologico – che pure vi fu – fra potere politico e valorizzazione didattica della cultura penalistica agli inizi dell’età moderna. D’altronde, sembra emblematico che la prima cattedra abbia visto la luce proprio a Bologna, città – intorno al 1509 – in preda a guerre e tumulti, in piena crisi istituzionale fra Bentivoglio, Stato pontificio e guerre d’Italia, ma pur sempre antica e vigile capitale degli studi giuridici. Dal Cinquecento al primo Seicento vi furono sperimentati, con breve o durevole fortuna, nuovi corsi che si impiantarono in seno alla didattica tradizionale: una lettura sul diritto feudale, una lettura sulle opere di Bartolo, una lettura umanistica sulle Pandette, una lettura de verborum significatione/de regulis iuris – gli ultimi due titoli del Digesto, particolarmente cari agli umanisti –. Intorno alla lettura criminale bolognese non traspare, dalle fonti che conosciamo, alcun preciso interesse politico. E nemmeno a Padova, trent’anni dopo, si avvertirà un clima del genere in quella

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Repubblica di Venezia, sempre così ostile verso tutto quello che odorasse di ius commune. Senza dimenticare che diversi atenei continuarono a proporre la materia criminale unicamente nel contesto dei libri legales e del diritto canonico. Nell’ateneo di Modena occorre attendere il 1758 col conferimento di un corso di diritto criminale a Giorgio Gaetano Barbieri. Insomma, per l’affermazione delle cattedre criminalistiche ben più decisivo dell’interesse politico dovette essere il processo culturale interno alla cultura umanistica e giuridica quattrocinquecentesca. Se questo è il quadro generale, la fondazione di una vera e propria scienza del diritto penale viene solitamente attribuita a un triumvirato che attraversa tutto il maturo Cinquecento: Giulio Claro, Tiberio Deciani, Prospero Farinacci, accanto ai quali si potrebbero annoverare numerosi altri ‘criminalisti’, dallo stesso Ippolito Marsili all’alessandrino Egidio Bossi, autore dei Tractatus varii (1562), una silloge di oltre cento brevi trattati ampiamente focalizzata sul diritto e soprattutto sulla procedura penale. Di Alessandria fu anche Giulio Claro (1525-1575), che si laureò in utroque iure a Pavia nel 1550, dove fu allievo di Andrea Alciato. Di famiglia nobile, fu uomo dai molteplici interessi giuridici e umanistici, amministratore e politico. Membro del Senato di Milano, pretore a Cremona, il suo cursus honorum si concluse a Madrid, alla corte di Filippo II, dove fu reggente nel Consiglio d’Italia. Un trattato di diritto e procedura penale è il V libro delle Receptae sententiae (1568), l’unico pubblicato per intero. A parte l’editio princeps, se ne fecero altre edizioni, nelle quali lo si arricchì con le annotazioni di diversi giuristi. L’opera è suddivisa in ventidue paragrafi, preceduti da un capitolo introduttivo, nel quale si espongono principi e nozioni fondamentali, in un certo senso una ‘parte generale’, dove si trattano i principi generali dei delitti pubblici e dei delitti privati, dei delitti secolari, ecclesiastici e comuni o misti, ma anche levia, atrocia, atrocissima, in committendo e in omittendo. Nei venti paragrafi successivi si affrontano, poi, i singoli reati, in un ordine che è alfabetico (da adulterium a usura) e perciò asistematico. Nell’ultimo paragrafo, suddiviso in cento quaestiones, si offre un quadro ampio del diritto processuale penale. Il Claro può vantare una straordinaria conoscenza delle fonti dottrinali di mos gallicus e mos italicus, attingendo da trattatisti, consiliatori, arrêtistes e autori di ‘pratiche criminali’, un genere letterario che si affermò prepotentemente in risposta alle esigenze forensi delle diverse realtà territoriali. Non a caso nel suo pensiero dominano il quadro delle fonti del diritto criminale la consuetudine (consuetudo) e la prassi (practica). La sua era, infatti, un’opera particolarmente fruibile per i pratici. Il testo è esauriente ma maneggevole e limpido nell’esposizione, le definizioni sono giudicate inutili: quello che, in fondo, ci si può aspettare da un giurista, che non fu mai professore universitario. Certo è che le edizioni dei saggi del Claro conobbero notevole fortuna e circolazione europea, anche perché erano aggiornate, attente alla prassi e in grado di cogliere e di illustrare le geometrie della giustizia criminale d’apparato, ma nel contesto di un

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più complesso quadro di pratiche sociali e locali di soluzione dei conflitti. Di tale sensibilità è perspicua testimonianza l’inedito Trattato di duello, un capolavoro della materia, terminato proprio al tempo in cui il Concilio di Trento sancì, con la Detestabilis duellorum usus (1563), la scomparsa del duello giudiziario d’onore. Davvero non era più tempo di dare alle stampe un’opera, che sopravvisse solamente nel manoscritto autografo. A differenza del Claro, il nobile udinese Tiberio Deciani (1509-1582) fu un celebre professore universitario. Si laureò in utroque iure a Padova nel 1529, e fu anche avvocato e consiliatore, oltre che impegnato nell’attività diplomatica e politica a Udine e in altre città della Repubblica di Venezia. A partire dal 1549 e fino alla morte insegnò nello Studio patavino diritto criminale e quindi, dal 1552, diritto civile. Riuniva in sé una solida conoscenza del diritto comune e una pregevole cultura umanistica. La sua opera maggiore è il Tractatus criminalis (1590), edito postumo e parzialmente incompleto: lo si è talvolta giudicato un’opera che nasce dalla didattica, ma tale interpretazione è stata giustamente riveduta sia per ragioni formali – il Tractatus non ha la struttura della lectura –, sia perché vi si presuppone un lavoro di lungo periodo, e l’insegnamento di Deciani sul diritto criminale fu invece breve e limitato ai primi anni della sua carriera accademica. Il testo, ponderoso – due volumi in folio –, è ripartito in nove libri: generalia delictorum (I-II), processo penale (III-IV), classificazione dei reati e delle fattispecie criminose (V-IX). A parte il precedente del Claro, inferiore per ampiezza e profondità, troviamo qui per la prima volta un trattato di diritto penale nel quale occupa largo spazio una ‘parte generale’, sia pure con i limiti che una definizione siffatta può assumere in riferimento a un prodotto del tardo secolo XVI, avendo assunto un suo peculiare significato solamente con i codici moderni. I generalia omnia delictorum (libri I-II) risultano nondimeno la parte più innovativa dell’opera. Vi trovano definizione regole, principi e caratteri del reato, qualcosa che si cercherebbe invano nella criminalistica precedente e che avrà fortuna in seguito, in particolare tra i penalisti di area tedesca. La novità metodologica del Deciani si spiega sulla base delle sue competenze sistematiche connesse all’umanesimo giuridico d’oltralpe e padovano, oltre che in riferimento alla sua attività a sostegno della politica criminale della Serenissima. Con lui il diritto criminale ha oramai conseguito un proprio definito statuto scientifico. A partire dalla definizione di delitto – da intendersi come il fatto, il detto o lo scritto dell’uomo compiuto con dolo o colpa, proibito dalla legge in vigore sotto minaccia della pena, e che nessuna giusta causa possa scusare 35 – due elementi meritano di essere sottolineati: il ruolo sostanziale dell’elemento soggettivo, animus delinquendi, e la dipendenza del reato dalla legge penale. Il 35 T. Deciani, Tractatus criminalis, vol. 1, cap. 3, n. 2, Zenaro, Venezia 1590, p. 19b: «Delictum est factum hominis, vel dictum aut scriptum dolo vel culpa a lege vigente sub poena prohibitum, quod nulla iusta causa excusari potest».

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dettato della lex poenalis è ciò che separa il lecito dall’illecito, il delitto dal peccato. Un atto è un delitto solamente se è punito da una legge. Non siamo certo ancora all’affermazione del principio di legalità (nullum crimen nulla poena sine lege), ma semmai – in un’ottica politica – vi si segnala l’affermazione della centralità e della supremazia della volontà del sovrano, che trova manifestazione, appunto, nella legge. D’altra parte, in contrasto con la posizione coeva degli autori della Seconda Scolastica, Deciani ribadisce la disomogeneità tra reato e peccato, la netta separazione tra legge penale e legge morale. Per quello che concerne, poi, la parte procedurale, la simpatia per il modello accusatorio romano dimostra una volta di più la formazione umanistica dell’autore, di cui sono espressione anche il lessico utilizzato e l’ampia riflessione sulle fonti normative romane. Meno innovativa appare, invece, la trattazione dei singoli crimini, che pure conoscono nell’opera di Deciani un’esposizione sistematica razionale in riferimento alla natura del bene leso. Nell’ordine, vi si affrontano i delitti contro Dio, quelli contro il principe o lo Stato, quelli contro il prossimo – e innanzitutto contro i parenti –, quelli contro se stessi. Nell’esposizione dei reati è compresa anche la parte procedurale. Il terzo fondatore cinquecentesco della scienza del diritto penale fu il romano Prospero Farinacci (1544-1618), avvocato e procuratore del fisco a Roma, ma pure intimo di potenti, corrotto e dedito al malaffare, sino a conoscere il carcere. Le edizioni delle sue opere furono numerosissime, senza pari tra i criminalisti di antico regime. Autore anche di tre volumi di Consilia criminalia (1606-1616) – nei quali raccolse la sua attività professionale – e dei Fragmenta criminalia, in due parti (1617-1619), viene tuttavia ricordato in particolare per la ponderosa Praxis et theorica criminalis (1589-1614), opera in otto volumi e diciotto titoli (nel progetto originario erano venti), suddivisi a loro volta in quaestiones. Quest’opera si presenta, per volontà dell’autore, come un thesaurus totius criminalis materiae (un tesoro di tutta la materia criminale), una sorta di enciclopedia di diritto e procedura penale, rivolta in particolare agli operatori forensi. L’impostazione appare eccessivamente casistica e farraginosa, sovrabbondante nelle citazioni di auctoritates, in stretta connessione con l’impostazione del mos italicus piuttosto che con quella della trattatistica umanistica. Anche il suo metodo argomentativo riprende quello dei tardi commentatori: la quaestio si sviluppa dalla regula per via di ampliationes, limitationes, sublimitationes, eccezioni e controeccezioni. Le soluzioni proposte ai problemi giuridici appaiono solitamente in linea con la communis opinio, ma compare anche in più di un caso la personale posizione dell’autore in senso rigorista, con un ampio ricorso all’arbitrium iudicis e nell’ottica di una funzione della pena in chiave di prevenzione generale. Manca, però, un’analisi dottrinale sistematica, e in definitiva l’opera appare come un enorme un deposito di ipotesi, di argomentazioni e di soluzioni – in molti casi non originali – estremamente utili soprattutto per la pratica. L’opera del Farinacci conobbe uno straordinario successo europeo e fu essenziale punto di riferimento per la prassi della giustizia criminale sino

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all’epoca dei codici, divulgando sul continente il pensiero dei grandi criminalisti italiani che lo avevano preceduto. Il Cinquecento fu, dunque, il grand siècle della fondazione della scienza criminale, una fondazione che fu soprattutto italiana, se si annoveri – fra le poche eccezioni – quantomeno la Praxis rerum criminalium del belga Joost de Damhouder (1507-1581). Le opere di questi autori resteranno fondamentali su scala continentale sino all’età della codificazione. Ad esse si aggiungeranno nel Seicento soprattutto due opere germaniche: la Practica nova imperialis saxonica rerum criminalium di Benedikt Carpzov (1595-1666) e il De criminibus di Anton Matthes (1601-1654).

9. La dimensione cetuale: una scienza normativa nobiliare Dicevamo nel primo paragrafo che la configurazione dell’esperienza giuridica in chiave di ‘scienza normativa’ si incarnava anche nelle culture cetuali. L’esempio più perspicuo di una scienza normativa di ceto fu offerto dalla nobiltà, la cui cultura e il cui diritto si coagularono e forgiarono intorno alla scienza dell’onore. La scienza dell’onore ha ‘costruito’ la nobiltà in età moderna, e in essa il ceto dirigente vi si è riflesso e ha preso coscienza piena di sé. La scienza dell’onore fu una scienza ‘normativa’ in quanto prodotto e produttrice di ‘norme’ di ceto, affondando non soltanto le sue radici ma anche gran parte della sua anima nella dimensione giuridica: scienza del diritto e della giustizia specificamente nobiliari. Nel diritto d’antico regime appare premessa metodologica inevitabile la valutazione della sua cetualità, che comportava profonde ricadute sulla dimensione giuridica. Nelle concezioni cetuali del diritto e della giustizia si ritrova spesso un sapere composito e vivace che ruota sul perno fondante di un diritto senza giuristi, fondato sull’equità di ceto e su di una ‘prudenza’ che è tutt’uno con l’esperienza. Vi si amalgamava un intreccio di sogni e di immaginari, talvolta fatalmente utopici ed eclettici: il mito delle poche leggi; il mito di un processo equo e pure brevissimo; l’esplicita contrapposizione alla morfologia del diritto ‘dotto’. Nell’idea nobiliare del diritto e della giustizia emergono spesso atteggiamenti antigiurisprudenziali, iconoclasti nei confronti del diritto comune e del ceto dei giuristi dotti 36. Era un atteggiamento che si spiega in buona misura con l’insoddisfazione per la giuridicizzazione secundum ius commune di molte consuetudini nobiliari, dal duello alle paci d’onore, dal matrimonio alle successioni ereditarie. In tale atteggiamento antigiurisprudenziale si scorge anche una precisa volontà di emancipazione: il rifiuto dell’ordinarietà, l’enfasi sulla propria ‘stra’-ordinarietà, l’allusione ad una presunta autonomia ed endogiustizia astatuali.

36

Sull’ideologia antigiurisprudenziale, v. supra, § 1.

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La diversità nobiliare ebbe modo di esprimersi secondo categorie in larga misura estranee al diritto comune europeo. Si formarono, così, istituti giuridici talvolta secundum legem e talvolta contra legem, ma sempre avvertiti come vincolanti dal ceto nobiliare. Si trattava di istituti sorti in via consuetudinaria, che talvolta – non sempre – emergevano a livello tecnico e culturale, formalizzandosi direttamente nella trattatistica nobiliare ovvero mediatamente attraverso il filtro del pensiero giuridico dotto. La scienza dell’onore ne costituì indubbiamente l’aspetto più paradigmatico, ma anche materie civilistiche come la proprietà, la famiglia e le successioni si declinarono anche sotto l’influsso e la pratica della nobiltà d’antico regime. Sotto questo profilo l’esperienza cetuale nobiliare ritrovava logiche, anche se forse inattese, consonanze con l’esperienza giuridica del tanto disprezzato ceto mercantile. Sorte entrambe nelle consuetudini di ceto, entrambe in marcata dialettica con le forme del diritto comune sul piano sostanziale e processuale, finirono comunque per approdare entrambe a una loro ‘scienza’, in cui l’esperienza dei periti dell’arte si miscelava variamente con la dottrina dei giuristi di ius commune. La scienza normativa dell’onore fu pratica di autoriconoscimento di un ceto, quello nobiliare, che ambiva – in analogia con quello dei mercanti – ad un proprio diritto, ad un proprio tribunale duellare, fondato sull’equità e sulle consuetudini cavalleresche, morfologicamente – non certo contenutisticamente – analoghe all’equità ed alle consuetudini mercantili. Lo rilevava espressamente Antonio Massa – a metà Cinquecento – in una sua pagina sulla ‘consuetudine del duello’, sviluppando il nesso fra diritto dei mercanti e diritto dei nobili, sia pure sotto la lente critica del diritto dotto, che invece proponeva, almeno formalmente, categorie giuridiche universali e convalidate. Scienza normativa universale di diritto comune e scienze normative cetuali appaiono scolpite con molta chiarezza: «Ma la cagione, perché la consuetudine del duello è ita sempre variando sotto regole incerte, et sempre varierà, fin che si usi (il che si sarà più chiaro disotto) è al mio giudicio, perché non ha in sé ragione; anzi è una consuetudine introdotta contra la dritta ragione, et nata da certi presuppositi, et conclusioni false: et sì come il vero si confà, et s’accorda col vero, così il falso non accorda mai, né corrisponde a cosa alcuna. (...) A questo s’aggiugne che tutte le ragioni si pigliano da la consuetudine non scritta, che non vuol dir altro, se non che ciascuno consigli secondo il proprio gusto, et arbitrio. (...) et così tutto il giudicio si offusca per il presente o disiderio d’utile, o piacer de l’amico, o dispiacere di chi tu hai in odio: la qual confusione o simile suole avenire in una cosa più manifesta, cioè ne le differentie, et giudicii de i mercanti, ne i quali piace ad alcuni che s’habbia a procedere, et a giudicare secondo una certa equità naturale, et commune honestà più tosto che secondo la legge scritta; imperoché quantunque siano in sé certi et fermi i principii de l’equità naturale, nondimeno nasce tanta confusione da la diversità de le opinioni, che a pena nasce differentia alcuna, ne la quale non si possino, ricercandosi, produr da l’una parte, et da l’altra molte ce-

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dole scritte, et approvate da diversi mercanti, che conterranno contrarii pareri, le quali si dimandano stili, come molte ne sono venute a le mie mani» 37.

La formazione e la percezione cetuale del diritto si ripercuotevano anche sulla concreta prassi della giustizia pubblica e con essa interferivano. Da alcune indagini in corso si possono iniziare a ricavare alcuni atteggiamenti di fondo della nobiltà nel suo controverso rapporto con i tribunali ordinari. Il cronico magma dei conflitti di giurisdizione d’antico regime, l’ambigua ripartizione delle competenze fra una magistratura e l’altra fattualmente lo consentivano. Anzitutto, appaiono assolutamente eccezionali i casi in cui esponenti della nobiltà si rivolgessero al tribunale penale ordinario, mentre a livello intercetuale emergevano con arrogante turbolenza le antiche resistenze della nobiltà alla statualizzazione della giustizia. Nella prassi è ampiamente attestata la giudiziarietà patologica di quelli che le fonti chiamano ‘tribunali domestici nobiliari’, espressivi di una tracotanza cetuale che veniva tracimando sul piano del controllo della giustizia. I tribunali nobiliari esprimono prassi e modalità comportamentali, che sembrerebbero radicarsi in un’antica e ormai frustrata vocazione di governo della nobiltà. Tali pratiche trasudano violenti atteggiamenti di insofferenza nobiliare in due diverse e confluenti direzioni: contro il potere ‘statale’; contro il disconoscimento della propria leadership da parte degli altri ceti. Accanto all’ancora oscura, e da approfondire, fenomenologia dei tribunali privati nobiliari, il duello e la pace d’onore furono gli istituti cui maggiormente si legò l’ethos nobiliare e la sua autocoscienza cetuale. Si tratta ovviamente di due diverse esperienze. Schematizzando potremmo dire che nei tribunali nobiliari privati si sublimavano e si estenuavano antiche aspirazioni nobiliari al governo cittadino; nel duello e nella pace d’onore si risolvevano invece i problemi di assestamento interni al ceto. Su questo humus sociale si formò la scienza dell’onore, essenziale per la comprensione dell’antico regime europeo e del suo disciplinamento. Il linguaggio dell’onore nobiliare nacque nelle consuetudini e fu elaborato dalla trattatistica europea al di fuori e contro le strategie degli incipienti Stati assoluti, esprimendo etica ed aspirazioni del ceto. Scienza cetuale per antonomasia, diretta esclusivamente alla nobiltà, la scienza dell’onore fu in Europa – ma soprattutto in Italia – momento essenziale dell’educazione del giovane nobile per tutta l’età moderna dal XVI al XVIII secolo: momento essenziale nell’autocoscienza di appartenenza cetuale. L’affermazione di un’autonoma area disciplinare e l’enucleazione di una trattatistica giuridica specifica emersero pienamente nel tardo Quattrocento con l’opera del giurista campano Paride del Pozzo sul duello e sulla pace d’onore (che sarà definito nel Settecento ‘padre de’ duellisti), preceduta da una pubblicistica occitana di valore decisamente minore. Dopo di lui vennero molti altri 37

A. Massa, Contra l’uso del duello, Tremezzino, Venezia 1555, pp. 21v-22v.

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giuristi di diritto comune, numerosissimi tra fine Quattrocento e prima metà del Cinquecento, fra cui si annoverarono nomi di grande prestigio, come Andrea Alciato e Giulio Claro. I doctores iuris proposero una giuridicizzazione secundum ius commune del duello giudiziario d’onore, l’unica forma lecita di duello. Dopo Paride del Pozzo, dunque, si spalancò l’età d’oro di una specifica trattatistica giuridica: la ‘duellistica’. Da questa si sviluppò nel giro di qualche decennio una compiuta scienza dell’onore, a cui si applicarono non soltanto giuristi, ma anche altri autori di diversissima estrazione – cortigiani, umanisti, uomini d’arme, prìncipi, filosofici aristotelici –, in un vero e proprio crocevia di saperi. Ne emersero una specifica trattatistica e specifici scienziati – ‘professori d’onore’ –, le cui opere contarono migliaia di edizioni lungo tutta l’età moderna: un’enorme letteratura, un’enorme trattatistica che tramonteranno con la rivoluzione francese insieme al cetualismo di cui erano proiezione. E – si badi bene – si tratta di giuristi ben consapevoli delle forti specificità dell’argomento che andavano trattando. Proprio in considerazione delle necessità dei potenziali lettori – nobili e uomini d’arme – Paride del Pozzo, dopo aver pubblicato nel 1472 il suo vastissimo saggio in latino col titolo un po’ ingannevole di De re militari – in realtà vi si tratta unicamente delle procedure e dei problemi del nuovo duello giudiziario d’onore –, fra il 1475 e il 1478 si preoccupò di curarne personalmente una versione in lingua italiana – scelta ‘nuova’ per un giurista del diritto comune –, poi comunemente intitolata Duello. Il duello giudiziario d’onore ebbe fondamenta e procedura ben diverse dal duello giudiziario ordalico di tradizione germanica, pur non mancando profili di continuità: il suo disegno fu comunque concepito nel contesto della cultura del diritto comune. Giudice ne era il signore – munito di giurisdizione – che aveva concesso il campo franco per lettera patente e che era stato individuato/patteggiato dalle parti, attraverso formali procedure. Era un giudice, di cui la dottrina discusse animatamente i connotati, ma era comunque un giudice nel senso più pregnante del termine, davanti al quale si svolgeva un vero e proprio processo, con un attore ed un convenuto, con eccezioni, repliche, termini, responsi pro parte, questioni incidentali, sentenze interlocutorie e definitive. E come un qualsiasi processo poteva essere molto costoso e molto lungo (si ricordano vertenze proseguite per 8-10 anni). Ai giuristi, però, si venne presto affiancando una composita categoria, detta comunemente dei ‘professori d’onore’: diversa l’estrazione culturale (letterati, cortigiani, uomini d’arme, filosofi morali), comune la loro ferma contrapposizione alla formalizzazione delle consuetudini nobiliari secundum ius commune. Il contesto di questi fondatori di una giuridicizzazione largamente esterna alle categorie del diritto comune fu offerto dalla civiltà cortese delle piccole corti signorili padane fra Emilia e Lombardia, rette da prìncipi che spesso intraprendevano e ostentavano la carriera delle armi, atteggiandosi, essi stessi per primi, a professori d’onore, oltre che elargitori di campi franchi. Gli Estensi di Ferrara erano richiestissimi non solo per la patente di campo, ma anche come autorevo-

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lissimi redattori di responsi ‘giuridici’: Giambattista Pigna, rinomato duellista, sottolineò l’azione pacificatrice di Alfonso II, che con i propri pareri aveva condotto alla pace molte controversie d’onore. E così altri Duchi guerrieri, quali i Gonzaga di Mantova o i della Rovere d’Urbino. Degli esponenti soprattutto di queste tre dinastie ci resta per tutto il Cinquecento una ricca messe di pareri cavallereschi manoscritti ed a stampa, in cui costoro misero a frutto la loro esperienza di giudici, di militari e, talora, di letterati, ma, soprattutto, di sensibili interpreti dell’ethos nobiliare. Luigi Gonzaga, ad esempio, fu notoriamente ‘inventore’ di formule per cartelli, ma anche Francesco Maria della Rovere era considerato una sorta di oracolo d’onore – e ce lo attestano autorevoli giuristi quali Mariano Socini e Andrea Alciato, oltre che innumerevoli casi pratici. Nella costruzione del duello giudiziario d’onore i giuristi di diritto comune ponevano al centro una tecnica e ‘neutrale’ giudiziarietà. Affrontando il duello, intendevano costruire anzitutto un’organica procedura giudiziaria, fortemente caratterizzata dall’oggetto, ma pur sempre fondata su di un insieme coerente di principi giuridici, ricavati per via analogica dal diritto comune. Illuminanti sono le definizioni del duello correnti fra i giuristi. Prendiamo ad esempio quella di Dario Attendoli da Bagnacavallo, tutta incentrata sull’accertamento giudiziario di un fatto dubbio: «Duello è un abbattimento fra due, che per causa d’honore, con l’arme del pari, dinanzi a giudice eletto, provare e difendere intendano per vero quello che non si può altramente provare» 38. Al contrario i non giuristi costruivano il duello intorno al concetto di onore sociale del ceto nobiliare. Non è la procedura duellare con i suoi problemi interni di tempi e garanzie il fulcro del loro discorso. Il cuore dei loro trattati è tutto incentrato sulla struttura e sulla morfologia dell’onore. Il duello gli fa corona per logica connessione, in quanto il miglior farmaco per l’onore malato o ferito. L’enorme distanza dall’approccio iure communi si può agevolmente misurare da una delle più fortunate definizioni di duello secondo i professori d’onore, quella di Giambattista Possevino: «il duello è un abbattimento volontario tra due huomini, per lo quale l’un di loro intende di provare all’altro co l’armi per virtù propria, sicuramente, senza essere impediti, nello spatio d’un giorno, che egli è huomo honorato, et non degno d’essere sprezzato, né ingiuriato, et l’altro intende di provare il contrario» 39.

Non è più in gioco l’accertamento di una verità giudiziale discussa o incerta, ma unicamente la dimostrazione di non essere uomo disprezzabile, la dimostrazione di poter essere ancora annoverato nei ranghi della nobiltà. Lo spregio manifestato dall’ingiuriante disonora l’ingiuriato e lo rende disuguale, cioè inferio38 D. Attendoli, Il duello con le auttorità delle leggi, e de’ dottori, poste nel margine, Giolito de Ferrari, Venezia 1564, p. 6. 39 G.B. Possevini, Dialogo dell’honore, Giolito de Ferrari, Venezia 1553, p. 243.

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re, in quanto lo esclude – salva adeguata reazione – dalla civile conversazione dei gentiluomini onorati. Secondo il giurista milanese Francesco Birago, il senso dell’ingiuria si sostanzia nella sua natura di formale veicolo di un dispregio che, se tollerato senza reazione, conduce all’esclusione dalla nobiltà e dall’esercito, con la perdita di tutti i connessi privilegi. Scrive il Birago: «il dispregio fra tutte le ingiurie è la maggiore, poiché fa la persona dipregiata meno che huomo… (...) Il dispregio (per mio avviso) è un tenere altri di niuno affare. Tre sono le spetie di esso. Il non stimare, o non far conto di alcuno. L’opporsi ad altri, per non lasciargli conseguire la cosa desiderata, non per ottenerla noi; ma solamente accioché colui non l’habbia. Il terzo ingiuriare altri di parole, o di fatti per suo piacere, e vergogna dell’ingiuriato» 40.

Insomma nel cuore dell’argomentazione dei professori d’onore troviamo l’intuizione di una sostanza (l’onore) e non l’applicazione di una regola. La formalizzazione del processo armato era avvinta alle consuetudini cetuali e illuminata dall’equità cavalleresca. Ma la contrapposizione era anche metodologica. Ai professori d’onore era consona e familiare l’argomentazione per via d’equità, precedenti e consuetudini. La soluzione era fortemente legata ad un vissuto esistenziale, imperniato sui valori nobiliari. Una volta metabolizzato nel proprio spirito il sotteso codice etico – in virtù di un sangue illustre, accompagnato da un’idonea formazione e da adeguate frequentazioni –, ogni singolo problema pratico poteva e doveva essere risolto sulla base dell’equità e dell’esperienza cetuali, con un massiccio e preponderante ricorso ai precedenti. Il giurista Giulio Ferretti criticò proprio questo profilo della mentalità dei professori d’onore, avvezzi a riconoscere valore agli esempi piuttosto che alle rationes ed alle leges. Sui precedenti, sull’esperienza, sulle consuetudini, aveva poi modo di esercitarsi l’equità cavalleresca, una prudentia intessuta d’esperienze personali e collettive. Su di essa e non sui sillogismi dei legisti e dei filosofi doveva costruirsi la giuridicità del duello giudiziario. A monte era un complesso concetto di onore, saldamente connesso al ceto nobiliare. L’appartenenza alla nobiltà si esprimeva nella condivisione e nella scrupolosa osservanza di un codice comportamentale, che, per l’appunto, si riassumeva nel concetto di onore, innato privilegio dei soli nobili. Gli appartenenti agli altri ceti potevano nascere ‘buoni’, possedevano un loro onore in senso atecnico, ma non poteva mai essere uomini “honorati di honore innato”. Lo scrisse con chiarezza il già ricordato Birago:

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F. Birago, Decisioni cavalleresche, in Id., Opere cavalleresche, vol. IV, Longhi, Bologna 1686, dec. VI, p. 36.

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«Un fachino, un contadino, ed altre simili persone vili e di basso affare (…) potranno ben quei dirsi buoni (…), ma non honorati di honore innato, con tuttoché dalla bontà ogni vero honor deriva, essendo ella necessaria al bene operare; sarà però la bontà in quelli un principio, o seme di honore ancor non nato ed in fieri, per così dire. Honorato di honore innato si presume sempre il cavaliere fin che non commette cosa per la quale macchia l’honore, o del tutto lo perde» 41.

Acquistato con una nascita fortunata, l’onore doveva però essere scrupolosamente mantenuto con una condotta acconcia e ‘riconoscibile’. Quel che contava era appunto la ‘riconoscibilità sociale’ dell’onore, inteso come onore estrinseco. Quel che contava era essere eventualmente capaci di dimostrare non tanto la falsità dei motivi del disprezzo, quanto la propria capacità di reagire al disprezzo secondo i modi formalizzati dalla scienza dell’onore. Il disprezzo metteva in discussione l’appartenenza al ceto cavalleresco. Su queste basi si forgiò fra XVI e XVIII secolo una scienza normativa nobiliare, che si impose nell’educazione e nella formazione dell’uomo nobile. Tema centrale ne era l’educazione all’ingiuria, all’ars iniuriandi, alla capacità di comprendere con esattezza i segni dell’offesa e del disprezzo, quali strumenti privilegiati di comunicazione e contestazione cetuale, secondo i codici ermeneutici indotti dalle consuetudini e formalizzati nei ponderosi volumi dei professori d’onore. Un’arte necessaria al soggetto passivo (ingiuriato) al fine d’interpretare le offese subite, ma necessaria anche al soggetto attivo (ingiuriante) al fine d’offendere in misura esattamente calibrata e commisurata alle proprie strategie. Nel corso delle polemiche dei professori d’onore contro i giuristi e il diritto comune riemerse l’atteggiamento antigiurisprudenziale proprio di una certa cultura nobiliare. Testo precoce in questo senso fu il De singulari certamine di Pietro Monti – teologo e poi uomo d’arme –, pubblicato a Milano nel 1509. Più di un dubbio circonda l’autore, di cui non è nemmeno chiaro se fosse italiano o spagnolo (Pietro Monti o Pedro Montes). Il Monti criticava il duello giudiziario d’onore iure communi, troppo ridondante di formalismi e di atti scritti – per convocationes et responsiones –, mentre a parer suo il duello si sarebbe dovuto svolgere sulla base della sola fides, fuori di qualsivoglia procedura cartacea. La formalizzazione del duello doveva avvenire alla luce di princìpi ricavati dall’arte propria dei suoi utenti, quella nobiliar-militare. I giuristi erano colpevoli d’aver imposto categorie estranee alla tradizione. Solo un nobile poteva comprendere che nel duello non era necessario null’altro se non ‘essere un nobile’, educato negli autentici valori della nobiltà, cioè nei valori militari dei bellatores. Su tali basi tutti problemi della procedura duellare si sarebbero facilmente risolti in un clima di virile franchezza e sulla base del tradizionale diritto consuetudinario. I giuristi, invece, dimostravano le diffidenze, le paure e le viltà dei ceti inferiori: erano i creatori per eccellenza dei sotterfugi e delle cautele per permettere ai vi41

Ivi, dec. I, p. 3.

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gliacchi di sfuggire il duello illudendosi di conservare, al contempo, il proprio onore. I giuristi erano uomini di basso rango, abituati per natura a diffidare, in quanto nati e cresciuti in ambienti sociali disonorati per definizione. Ma non basta. L’antigiurisprudenzialismo conduceva il Monti a sostenere che l’anima dei giuristi era profondamente malvagia, dello stesso genere di quella dei demoni: corrotti dalla brama di denaro elaboravano le loro arguzie per convalidare ogni sorta di perversione. Il Monti, però, fu soltanto uno dei pionieri di una duellistica arroccata in un’arcigna difesa della specificità delle consuetudini nobiliari. L’aragonese Belisario Acquaviva, nobile uomo d’armi – in Italia per la guerra, arrivò a conseguire il ducato di Nardò – stampò a Napoli nel 1519 un De venatione et de aucupio: de re militari et singulari certamine, dove registrava l’ormai insanabile frattura in tema di duello fra ‘giuristi civili’ e ‘giuristi militari’, inter civiles ac militares iurisconsultos. Accanto a quella dei giuristi di diritto comune, una seconda, eterodossa, categoria di giuristi duellisti era, così, definitivamente formalizzata. La contrapposizione fra giuristi e professori d’onore sul tema della soluzione dei conflitti diverrà una sorta di topos. Secondo Fausto da Longiano – professore d’onore intorno alla metà del Cinquecento –, il duello non era un comune istituto giuridico fra i tanti, bensì l’istituzione per eccellenza, un’essenziale declinazione della dimensione più nobile della condizione umana, un prodotto della natura, che gli uomini e la storia si sono applicati di regolare. Poco importava che il diritto comune plebeo lo condannasse: a favore del duello militava il «consenso universale di tutto ‘l mondo» o quantomeno dell’unico mondo che contava, quello della nobiltà. Anzi il duello appariva quasi una religione alternativa: la «religione d’honore … istituita da persone heroiche, et illustri, e fondata ne la vertù, come sopra ferma, e salda pietra». Per la «rigorosa legge d’honore» il cavaliere che non anteponesse la morte ad una vita disonorata «pò andare a sepellirsi vivo» 42. In quegli stessi anni anche un celebre criminalista come Giulio Claro proclamava che chi seguiva pedissequamente la legge di Cristo e arrivava a condividerne i più risibili corollari, come quello di porgere l’altra guancia, avrebbe fatto meglio a chiudere subito il suo trattato sul duello. Secondo questi autori, il diritto comune era intrinsecamente ‘storico’ e contingente, coltivato da interpreti corrotti, mentre il diritto dei nobili era cristallina proiezione della natura eterna dell’uomo, coltivato da autentici scienziati d’onore, mossi soltanto dall’ansia della verità. Nel diritto comune – seguito solo in una minuscola parte del mondo – tutto e il contrario di tutto poteva essere sostenuto, le leggi d’onore – approvate nell’intero pianeta – erano da considerarsi immutabili ed eterne perché fondate sulla ragione: erano in qualche modo un ‘principio costituzionale della società’, un diritto naturale del ceto nobiliare. 42 Fausto da Longiano, Duello regolato a le leggi de l’honore con tutti li cartelli missivi, e risponsivi in querela volontaria, necessaria, e mista, e discorsi sopra del tempo de’ cavallieri erranti, de’ bravi, e de l’età nostra, Valgrisi, Venezia 1551, pp. 13-14.

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Ad esempio, i professori d’onore nutrivano una forte diffidenza nei confronti delle numerose previsioni di termini legali, che scandivano le varie fasi del duello pubblico. La disciplina dei termini era stata derivata dal diritto comune e dall’imitazione del processo ordinario, dove rispondevano alla necessità d’escludere il protrarsi di situazioni giuridiche d’incerta definizione. Al contrario, nell’universo delle consuetudini d’onore la pretesa della parte per una loro rigorosa osservanza era colta come indizio di una disonorevole volontà di fuga dalle armi. D’altro canto, la giuridicizzazione del duello secundum ius commune determinò anche l’ingresso di un magma di possibili eccezioni procedurali e sostanziali, spesso ignote alle consuetudini nobiliari e colte ancora una volta come disonorevoli vie di fuga dal duello, in contrasto quindi con quell’onore da sanare che era l’obiettivo dell’intera procedura (ad esempio la ‘eccezione di luogo non sicuro’). Altre eccezioni erano invece specifiche delle consuetudini nobiliari. Era il caso dell’exceptio minoris dignitatis: l’eccezione che poteva essere sollevata da chi fosse chiamato a duello da un inferiore come grado di nobiltà: il duello infatti doveva aver luogo ineluttabilmente fra soggetti di pari onore, anche se le graduazioni della nobiltà erano assai contorte, oltre che spesso dipendenti da consuetudini locali. Quello di ‘cavaliere’ era il requisito-base per l’ammissione a duello, configurandosi – scriveva Girolamo Muzio, professore d’onore cinquecentesco – come una sorta di stato intermedio «fra gli oscuri, et gli illustri». Ne erano sempre esclusi i mercanti. In costoro – affermava Paride del Pozzo – non regna animosità né virilità né costanza, sono deboli e inabili alle armi, cadono in infermità per ogni minimo disagio, sono inaffidabili e codardi, impegnati soltanto a far denaro. Ultimo esempio problematico da cui emerge la diversa concettualizzazione della scienza normativa universale di ius commune rispetto a quella della scienza normativa cetuale dei nobili fu il significato da attribuire al duello privato (detto anche “alla macchia” o “clandestino”). Di esso balzava evidente la prossimità all’ethos nobiliar-militare; balzava evidente la sua totale estraneità al diritto comune ed alla giudiziarietà ordinaria. Basti pensare che vi mancava un giudice. Già Baldo ricordava esplicitamente il divieto di duello per accordo fra privati, pacto privatorum, privo della necessaria licentia superioris. E Paride del Pozzo lo diceva ‘cosa turpissima’, costume proprio di vili macellai, ‘ruffiani’ e plebei. Evidenti erano anche gli svantaggi: all’illiceità e quindi all’eventuale responsabilità criminale si accompagnava l’annientamento delle garanzie per le parti, che vi risultavano esposte a imboscate e soprusi. Il duello clandestino era una consuetudine cogente per nobili e militari, ma era un reato per la giustizia pubblica, che pure graziava sistematicamente i duellanti. Nell’Europa cattolica, e progressivamente nell’intero continente, rimase tuttavia l’unica forma di duello praticata dopo che il duello giudiziario d’onore fu bandito dal diritto canonico nell’ultima sessione del concilio di Trento il 4 dicembre 1563, scomunicando non solo i duellanti e chiunque altro partecipasse o assistesse ad un duello a qualunque titolo, ma anche i signori che concedevano

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il campo franco. Fino a tutto il XVIII secolo rimase però largamente studiata, insegnata e praticata la scienza dell’onore, che fra XIX e XX secolo fu la base nei tanti ‘codici del duello’ – redatti da privati, ma percepiti come cogenti dai ‘gentiluomini’ –, che si diffusero in tutta l’Europa Occidentale e Orientale, oltre che nell’intero continente americano.

10. Patriarcato e matrimonio dei figli di famiglia fra diritto comune e codici (ovvero non omne quod licet honestum est) L’importanza del tema della libertà matrimoniale dei figli di famiglia nella società medievale e moderna è d’immediata evidenza, se solo si consideri la centralità del familismo e dell’omogamia cetuale per una società che sulle distinzioni di ceto si fondava. Il matrimonio era anzitutto strumento patrimoniale, strumento di visibilità cetuale, strumento di alleanze e di transazioni patrimoniali. Nella naturale catena delle autorità i padri erano chiamati ad assicurare l’ordine nel microcosmo domestico, esercitando ‘ragionevolmente’ la propria potestà sulle scelte matrimoniali dei figli. L’autorità pubblica interveniva, poi, a supporto dei padri od in eventuale contrasto con loro, variamente sanzionando le mésalliances, i matrimoni di disparaggio fra nobili e ignobili. Nella dialettica con il volere dei padri e con gli equilibri sociali, l’incontrollato arbitrio nuziale dei figli era percepito dal diritto secolare come inammissibile violazione dell’ordine naturale, come sovversiva espressione di un larvato credo individualista, inconciliabile con il familismo d’antico regime. A Napoli come a Firenze, a Modena come a Lucca, a Milano come a Torino si operarono scelte normative relativamente omogenee, che si sostanziavano in sanzioni civili e penali ai matrimoni di disparaggio ovvero privi del consenso paterno. Se ci si porta di un piano di comparazione continentale, le diversificazioni nazionali certo non mancarono. Basti pensare alle singolari fortune del consenso paterno nei paesi protestanti e alla celebre teorica del rapt de seduction nella Francia cattolica. Il matrimonio contro la volontà dei genitori avrebbe implicato la presunzione iuris et de iure dell’impedimento dirimente del rapt de seduction. All’assenza del consenso paterno avrebbe dovuto seguire la nullità per presunta seduzione, assimilata al ratto violento, che escludeva la libertà di consenso. Gli obiettivi erano, però, relativamente comuni nell’intera Europa. Insomma, dissuadere i figli dalle nozze fuori dalle logiche del casato e, più in generale, dissuadere i sudditi da matrimoni fuori dal proprio ceto rimase un costante obiettivo del legislatore secolare dal basso medioevo sino a tutto il Settecento. Vi era però un fortissimo ostacolo, ad un tempo giuridico e religioso. Nella cultura canonistica la tutela della libertas matrimonii ed una concezione sempre più consequenzialmente consensualistica del matrimonio confliggevano non poco con gli indirizzi del diritto laico. Contro l’ordine secolare il crimine più insidioso era

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nella distorsione del matrimonio da strumento familista-cetuale a mero strumento contrattualistico-individualistico, oltretutto in attrito con la patria potestà tradizionale. Contro l’ordine religioso e contro il diritto canonico esisteva un peccato ancor più grave, quello d’impedire o di ostacolare il matrimonio-sacramento, un atto considerato eversivo nei confronti della Chiesa. Non a caso la concezione protestante si svolgeva proprio dal disconoscimento della natura sacramentale del matrimonio, con ciò ponendo le premesse della sua secolarizzazione normativa. Al contrario la Chiesa tridentina rivendicava con pienezza il sacramento, insieme ad una libertas matrimonii che di fatto andava a sfumare nel favor matrimonii. E quindi la solidarietà religiosa alle strategie familiste si spezzava nel momento in cui, in nome di quelle strategie, si tollerasse l’imposizione del celibato, ovvero si auspicasse lo scandalo della dissoluzione di matrimoni conclusi e consumati. L’esigenza concettuale di ricomporre l’antica distinzione fra atti precettivi ed atti onesti andò a costituire lo scenario per ritrovare un qualche equilibrio fra istanze ed interessi confliggenti. Il cristianesimo era stato diviso sin dai primi secoli sul problema della libertà matrimoniale dei figli. Tertulliano e Basilio reclamavano il consenso paterno, altri – da Ambrogio sino a Niccolò I ed Ivo di Chartres – esortavano a rimettersi al parere dei genitori, senza però ritenerne la necessità: erano le radici di quella che sarebbe stata, con qualche aggiustamento, la soluzione finale. Nella prima metà del XII secolo, Graziano pare inclinasse piuttosto verso un rafforzamento della patria potestà. Secondo il suo Decretum il padre poteva promettere il matrimonio del figlio non ancora adulto, e questi una volta cresciuto era tenuto all’adempimento: la glossa specificava trattarsi di un dovere morale di onestà, non di necessità. Nel Liber Extra il consenso del padre non era necessario per la validità del matrimonio, e tale era l’opinione di Pietro Lombardo e dei principali teologi. La premessa era nel matrimonio come ‘cosa spirituale’, e quanto alle cose spirituali il figlio fin dalla sua pubertà doveva considerarsi per diritto canonico libero dall’autorità paterna. Una cosa era, infatti, la patria potestà del diritto comune mondano, altra cosa era quella del diritto comune canonico. Al Concilio di Trento la discussione in materia fu assai animata, forte l’opposizione alla proposta di sancire l’esclusione di qualsiasi rilievo al consenso paterno. L’11 novembre 1563 fu finalmente approvato il canone Tametsi sacrosancta Dei, che formalizzava la liceità del matrimonio senza consensi parentali, fermo il dovere morale di richiederli: «per il diritto devono essere condannati coloro (...) i quali affermano falsamente che sono invalidi i matrimoni contratti dai figli di famiglia senza il consenso dei genitori, e che i genitori possono renderli validi o invalidi: nondimeno la Santa Chiesa di Dio per cause giustissime ha sempre detestato e proibito quei matrimoni».

Al concilio di Trento, dunque, il matrimonium sine consensu patris fu condannato, fu considerato atto disonesto, ma fu riconosciuto pienamente valido

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nell’ipotesi in cui, di fatto, venisse comunque celebrato. Su questa base, i canonisti interpretarono le più antiche normative che richiedevano il consenso paterno, andando a considerarle prive di cogenza precettiva e meramente promozionali di un comportamento onesto ed auspicabile, mentre tutte le analoghe leggi laiche, colpite da anatema, si stimarono abrogate ratione peccati dal nuovo canone. In questa prospettiva i teologi ed i canonisti del Cinquecento-Seicento rifletterono soprattutto intorno a due distinte ipotesi, le più ricorrenti nella prassi: la conclusione di un matrimonio sine consensu patris ed il rifiuto di un matrimonio imposto o già promesso dal padre. Circa la conclusione di un matrimonio senza il consenso del padre, teologi e canonisti svilupparono la teorica ‘mediatoria’ dell’atto rispettoso, del matrimonio sine consensu sed cum scientia patris. Il figlio era meramente tenuto a richiedere l’autorizzazione paterna, e poi avrebbe potuto convolare a nozze anche in caso di disaccordo. Si trattava di garantire un minimo ossequio filiale che permettesse di conciliare il quarto comandamento e le ragioni del familismo con l’accresciuta perentorietà del principio della libertas matrimonii. Gli accenti ne riecheggiarono anche nel diritto successorio: la communis opinio reputava invalida la clausola testamentaria per cui un determinato soggetto dovesse sposarsi con il consenso del padre ma, al contrario, riteneva efficace quella per cui dovesse sposarsi solo una volta interpellato il padre. Nonostante le riserve dei canonisti, l’onere informativo non era solo un atto di rispetto per l’autorità paterna, ma era concretamente un efficace strumento per un’eventuale ed incisiva azione della patria potestà civile. Di fatto, nelle more delle trattative con i figli, i padri potevano usare ed abusare delle proprie facoltà, non solo sulle aspettative patrimoniali, ma anche sulle persone stesse dei figli di famiglia disobbedienti. Ben diverso era il problema se i figli fossero tenuti a contrarre il matrimonio promesso dai genitori, durante la loro minore età matrimoniale. Circa la vincolatività le opinioni divergevano. Vi era chi assecondava la consuetudine corrente, sostenendo che il figlio pervenuto all’età legale avrebbe dovuto senz’altro adempiere alla promessa paterna, a patto che non si trattasse di matrimonio di disparaggio, cioè fra soggetti di differente ceto. Vi era chi si atteneva alla stretta ortodossìa cattolica della libertas matrimonii, e proclamava che l’obbligo dovesse intendersi meramente sul piano morale e non su quello giuridico. Il pater peccava mortalmente se imponeva al figlio un certo matrimonio, che poi sarebbe risultato giuridicamente nullo: era ammissibile soltanto una ‘modesta coazione’. Nel Seicento il teologo e canonista milanese Giovanni Angelo Bossi, autore di un celeberrimo trattato sul matrimonio, ricordava seccamente la comune opinione per cui nessuna potestà – civile, ecclesiastica o paterna che fosse – poteva coartare chicchessia sulla scelta matrimoniale, né disciplinare la libertas matrimonii diversamente dalle previsioni canonistiche, escludendo la materia matrimoniale dal campo della patria potestà. Per i legisti il quadro era diverso. Se talvolta arrivavano ad ammettere per

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motivazioni spirituali la validità del matrimonio sine consensu patris, enuclearono a favore del paterfamilias quantomeno la possibilità di ricorrere al diniego della dote ovvero al fulmen patriae potestatis, cioè alla diseredazione. La ratio rinviava al fatto per cui, se pure la scelta dello status matrimoniale doveva rientrare nella pienezza della volontà individuale, le conseguenze patrimoniali si proiettavano, però, nella società civile ed influenzavano i delicati meccanismi d’azione familiare. Altri soggetti – oltre ai due coniugi – avrebbero subito gli effetti anche onerosi dell’arbitrio nuziale, e per primo il paterfamilias, che dunque ben doveva esser provvisto degli opportuni deterrenti. A dire il vero i legisti del XVI e XVII secolo non accolsero mai senza riserve la prevalenza della concezione canonistica limitativa della patria potestà. In materia matrimoniale il problema a priori per i giuristi del diritto comune – sin dai tempi dei glossatori – era proprio quello di determinare le reciproche sfere del diritto laico e di quello canonico. Intorno alla questione se fosse da considerarsi valida la norma statale che vietasse ai figli di contrarre matrimonio senza il consenso del padre vi erano due opposte tesi, sorte già nel pieno Trecento. La soluzione positiva era stata sostenuta con fermezza da Bartolo. Grande diffusione aveva però la soluzione negativa, elaborata soprattutto dai canonisti e compiutamente da Giovanni d’Andrea, secondo il quale le leggi matrimoniali laiche dovevano considerarsi nulle per l’ovvia prevalenza del diritto canonico in materia matrimoniale, o quantomeno dovevano intendersi valide ‘non quanto a necessità e validità, ma quanto ad onestà’. In altre parole, il consenso paterno sarebbe stato semplicemente opportuno: quelle norme si sarebbero, quindi, collocate in una dimensione etica più che non giuridica in senso proprio. Le norme laiche non potevano ambire a far regola circa la ‘sostanza’ del matrimonio, cioè circa i requisiti di validità, completamente rimessi al diritto canonico, ma ben lo potevano super dependentibus matrimonii, ad esempio prevedendo la possibilità di privare della dote la figlia che si sposasse contro il volere del padre, ovvero riconoscendo ulteriori paterne sanzioni. Nella ‘famiglia individualista’ inaugurata in particolare dall’illuminismo e dai codici francesi il quadro mutò profondamente. La critica alla patria potestà, e più in particolare ai limiti paterni alla libertà matrimoniale dei figli, divenne un topos della saggistica illuminista, che ovviamente influì sulla codificazione. Nella società del matrimonio civile la libertà matrimoniale dei figli maggiorenni fu pienamente garantita. A protezione dei padri e dell’effettività delle loro strategie, il code Napoléon 43 prevedeva tre strumenti: la sanzione civile della nullità del matrimonio del minore, la sanzione penale dell’ammenda a carico del negligente ufficiale di stato civile, l’azione preventiva del diritto d’opposizione e della procedura degli ‘atti rispettosi’. Di particolare rilievo era la struttura del regime delle opposizioni, il quale,

43

Sul codice civile di Napoleone, v. infra, cap. V, § 5a.

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benché di portata generale, nel caso degli ascendenti possedeva caratteristiche sue proprie che lo collegavano strettamente all’esercizio della patria potestà. Già nella seconda metà del Settecento se ne auspicava la limitazione sul piano oggettivo e soggettivo. Un decreto del parlamento di Parigi del 28 aprile 1778 stabiliva che l’opposizione dovesse fondarsi su impedimenti dirimenti e non di opportunità, salvo che gli oppositori fossero padri, tutori, curatori, fratelli o zii. Nel codice civile napoleonico il padre o in sua mancanza la madre o, in mancanza d’entrambi i genitori, gli avi e le ave avevano il potere d’opposizione alla conclusione del matrimonio anche del maggiore di venticinque anni, senza doverne allegare alcun motivo e senza incorrere in alcuna responsabilità nel caso di rigetto dell’opposizione. La prassi dimostrò la persistenza delle antiche concezioni. Ad esempio, nel 1813 un pregiudicato fu assunto come domestico nella casa di un ‘onesto proprietario, padre di una numerosa famiglia’, di cui sedusse e ingravidò la figlia venticinquenne. Fuggirono insieme e di lì a poco gli atti rispettosi per il matrimonio pervennero al padre, che per tutta risposta presentò opposizione, accolta in primo grado e confermata in secondo. Nel frattempo la giovane partorì un figlio, che fu riconosciuto dal convivente. L’opposizione al matrimonio fu utilizzata non per evidenziare un ostacolo normativo – come era nello spirito del codice –, ma nel modo antico di strumento della patria potestà. Il procuratore generale presso la corte imperiale di Bourges declamava: «[la causa del padre proprietario] è quella di tutti i padri di famiglia, quella dei costumi domestici, quella della pubblica onestà, quella stessa delle istituzioni rigenerate alle quali l’Impero deve il suo splendore e la sua prosperità […] D’altro lato, impedire il matrimonio ad un individuo condannato all’infamia, dopo che ha scontato la sua pena, significa dichiararlo incapace di sposarsi; e poiché la legge non ha previsto questa causa d’incapacità e d’impedimento, ci sembra evidente che i giudici non possono crearla» 44.

La sentenza fu quindi capovolta. Fatti salvi alcuni generici omaggi alla patria potestà ed un globale apprezzamento per i motivi morali che avevano mosso le corti inferiori, l’opposizione fu rinserrata nei confini di meccanismo ausiliario dell’ordinamento per l’individuazione d’impedimenti legali del matrimonio. Alla radice di vertenze di questo tipo vi erano contesti sociali e culturali nostalgici d’una patria potestà perpetua, quantomeno in taluni suoi profili tenuti per nodali, quelli matrimoniali fra tutti. Il Portalis in persona aveva rappresentato l’istituto dell’opposizione proprio quale strumento paterno per contrastare i matrimoni ‘vergognosi e sconsiderati’ dei figli anche maggiorenni. Ed il Gillet aveva discettato intorno alla ‘saggia lentezza’, agli ‘utili intervalli’ frapposti dai tri-

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Journal des audiences de la Cour de Cassation ou recueil des arrêts de cette Cour en matière civile et criminelle, 1813, pp. 81-85.

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bunali alla conclusione di matrimoni indesiderati dalle famiglie. Ma una siffatta concezione delle opposizioni come permanente arma paterna era fatalmente destinata a soccombere nell’impianto liberale del codice napoleonico. Un altro istituto del codice napoleonico strettamente connesso all’esperienza francese fu quello degli ‘atti rispettosi’ – actes respectueux, sommations respectueuses –, disciplinati in dieci articoli – 151-160 cod. civ. e assai noti al diritto matrimoniale francese d’antico regime. Normativizzato a varie riprese – da un editto di Enrico II (1556), e dalle ordonnances di Enrico III (1579), Luigi XIII (1639) e Luigi XIV (1697) –, era un istituto tecnicamente germinato sulla morfologia del droit coutumier, che – a differenza del ius commune – ammetteva l’emancipazione legale per maggiore età: vi svolgeva, appunto, la funzione di garantire un qualche controllo familista sui matrimoni dei figli maggiorenni. Varcata una specifica soglia d’età – 25 anni le femmine, 30 anni i maschi –, i figli di famiglia erano legalmente emancipati quanto alla libertà matrimoniale, con un solo onere, quello appunto d’informare i genitori sui propri progetti nuziali tramite uno o più atti ufficiali, formalizzati secondo modalità che variarono fra XVI e XIX secolo. Dell’istituto si parlò a lungo, sia pur con scarsi risultati, anche nella Restaurazione italiana, perfettamente confacendosi agli obiettivi di promozione dell’autorità paterna perseguiti da gran parte della cultura giuridica del tempo. Fu discusso dalla dottrina, fu preso in considerazione da tutte le commissioni codificatorie preunitarie, ed ancora se ne dibatté in sede di lavori preparatorii del codice civile italiano del 1865. Di fatto, però, l’istituto fu recepito soltanto dal codice civile napoletano del 1819 e da quello modenese del 1851. In materia di assenso al matrimonio, dal modello napoleonico era parzialmente dissonante l’archetipo austriaco 45 dove, riprendendo il filo della legislazione giuseppina, la necessità dell’assenso parentale al matrimonio fu ristretta alla minore età – 24 anni –, salva l’azione contro il rifiuto, ma soltanto nel caso in cui questo non si fondasse sui motivi previsti per legge: § 53. La mancanza de’ mezzi necessari di sussistenza, i cattivi costumi provati o notori, le malattie contagiose o i difetti che impediscono lo scopo del matrimonio nella persona con cui si vuole contrarlo sono giusti motivi per denegare il consenso al matrimonio.

In Italia la maggior parte delle politiche legislative della Restaurazione andò a radicarsi nel clima politico dell’antico regime. Il rinvigorimento della patria potestà e la predisposizione di deterrenti contro i matrimoni ‘diseguali’ restarono istanze fondanti. Abrogato il matrimonio civile, i sovrani legittimisti ammisero – come da diritto canonico – la validità del matrimonio del minorenne senza consenso parentale e si occuparono esclusivamente degli effetti civili. La normativa del code Napoléon fluì estesamente nel solo codice napoletano, 45

Sul codice civile austriaco del 1811, v. infra, cap. V, § 6.

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sia pur con alcuni adattamenti non secondari in chiave patriarcale. Oltretutto nel corso degli anni successivi la dinamica delle riforme fu in direzione di un ulteriore inasprimento. Un regio decreto del 1828 comminò sanzioni disciplinari ai matrimoni clandestini e prevedeva, oltre all’eventuale diseredazione, il potere paterno di internare i figli per un massimo di sei mesi in prigioni correzionali, le figlie in un conservatorio od in un ritiro, nel caso in cui ci fosse timore di un matrimonio indesiderato. Su tutti vegliava il sovrano, cui spettava la facoltà di supplire al dissenso paterno in quanto ‘padre comune dei suoi sudditi’. L’istituto degli atti rispettosi, a prescindere dal codice estense, fu percepito come troppo remoto dalle tradizioni nazionali. Quanto alle opposizioni matrimoniali si affermò la prassi di utilizzarle quale strumento dilatorio per controllare i figli d’ogni età, in quanto «ritardare un matrimonio, soprattutto quand’esso vuol farsi tra persone d’ineguali condizioni, è bene spesso farlo mancare». Superata la giurisprudenza d’antico regime che convalidava le opposizioni per ‘ambizione, dispetto o cupidigia’, quella di ritardare il matrimonio indesiderato rimase una valenza pratica ampiamente riconosciuta in riferimento all’opposizione degli ascendenti. Fu, però, nell’esperienza sabauda che il regime dell’assenso agnatizio conseguì la massima pregnanza fra diseredazione e sanzioni patrimoniali paterne, anche qui in forte continuità con le esperienze d’antico regime, ancora nel codice albertino del 1837, il cui rigorismo andava ad inserirsi nel solco delle Leggi e Costituzioni del 1723-29, integrate dalle patenti del 16 luglio 1782. A proposito delle tre figure di matrimonio ‘sanzionato’ – senza consenso paterno, disonorante, capriccioso – lo spirito della normativa si indirizzò decisamente nel senso della conservazione dell’autorità patriarcale. Momento nodale nella preparazione delle nuove norme fu l’adunanza del 9 febbraio 1836, allorché il Consiglio di Stato – con la schiacciante maggioranza di 12 contro 5 – impose l’obbligo permanente del consenso dell’avente potestà agli sponsali. Occorrerà attendere il liberalismo risorgimentale di metà secolo, per trovare i primi propositi di riforma. Ulteriori elementi qualificanti del consenso preunitario sono enucleabili dalla prassi. Ne rimangono documentati anche i prosastici abusi dei padri di famiglia, ad esempio i casi di richiesta di denaro per la concessione dell’assenso, benché la causa illecita rendesse nulli siffatti indebiti adempimenti. Un delicato ambito problematico si delineò soprattutto sul terreno della ragionevolezza dell’assenso. Con l’avanzare del secolo in diverse realtà preunitarie la magistratura venne svolgendo un’azione moderatrice, escludendo le rivendicazioni del foro ecclesiastico e delineando un concetto piuttosto restrittivo di ‘ragionevolezza’. Così nei domini sabaudi non erano riconosciuti come motivi sufficienti il cattivo carattere, la minore età, il supposto disonore, la differenza di stato sociale e lo scarso reddito. Il Senato di Genova escludeva la possibilità di dissentire al padre che non avesse provveduto a trovare un conveniente matrimonio alla figlia e che non si fosse preoccupato d’impedire che essa arrivasse a concepire una ‘forte passione’. Diverso era il caso in cui il matrimonio fosse stato concluso a seguito di pre-

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sunte coazioni paterne. A detta di una sentenza genovese non comportavano ingiusto timore né grave danno «le minacce ad una figlia di essere posta in ritiro, ove essa non contragga il matrimonio desiderato dal padre», giacché quella di un ritiro conventuale era «pena non grave, meritata forse dalla figlia pel fatto della fuga, pena infine che hanno subito e subiscono tuttodì molte tra le figlie che si pongono nelle stesse circostanze» 46. Si trattava, però, degli ultimi sussulti della tradizione patriarcale. Fra XIX e XX secolo il problema della libertà matrimoniale dei figli sui iuris fu di massima superato dalla dimensione giuridica in tutta Europa e permase soltanto entro i confini delle superstiti – anche se spesso assai vitali – pratiche sociali consuetudinarie locali.

Bibliografia essenziale M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni: dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 1995. M. Ascheri, Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo: lezioni e documenti, Giappichelli, Torino 2007. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine: fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Giappichelli, Torino 2002. M. Cavina (cur.), Tiberio Deciani (1509-1582). Alle origini del pensiero giuridico moderno, Forum, Udine 2004. M. Cavina, Il sangue dell’onore. Storia del duello, Laterza, Roma-Bari 2005. M. Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’Antichità a oggi, Laterza, RomaBari 2007. M. Cavina, I luoghi della giustizia, in Storia di Bologna nell’età moderna, a cura di A. Prosperi, I, Bononia University Press, Bologna 2008, p. 367 ss. M. Cavina, Una scienza normativa per la nobiltà. Indagini e fonti inedite sul primo Settecento bolognese, Pàtron, Bologna 2011. M. Cavina, ‘Consilia’: il modello di Andrea Alciato. Tipologie formali e argomentative fra ‘mos italicus’e ‘mos gallicus’, in Clio@Themis. Revue électronique d’histoire du droit, 8 (2015), in www.cliothemis.com. A. Dani, Un’immagine secentesca del diritto comune: la teoria delle fonti del diritto nel pensiero di Giovanni Battista De Luca, Monduzzi, Bologna 2008. C. Ghisalberti, Gian Vincenzo Gravina: giurista e storico, Giuffrè, Milano 1962. M. Pifferi, ‘Generalia delictorum’: il ‘Tractatus criminalis’ di Tiberio Deciani e la parte generale di diritto penale, Giuffrè, Milano 2006. G. Rossi (cur.) La tradizione politica aristotelica nel Rinascimento europeo: tra familia e civitas, Giappichelli, Torino 2004. M. Sbriccoli e A. Bettoni (curr.), Grandi tribunali e rote nell’Italia di antico regime, Giuffrè, Milano, 1993.

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Gazzetta dei tribunali, VIII.12, 1858, pp. 47-48.

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V GIUSNATURALISMO, ILLUMINISMI, CODIFICAZIONI di Riccardo Ferrante SOMMARIO: 1. I presupposti della codificazione nel pensiero giuridico e politico dell’Età moderna. – 2. I presupposti legislativi della codificazione. – 3. Luigi XIV e le sue ordonnances. – 4. Il pensiero giuridico europeo tra area germanica e Francia (XVII-XVIII sec.). – 5. Le compilazioni legislative nell’Italia del primo Settecento. – 6. L’Illuminismo giuridico. – 7. Le compilazioni legislative del dispotismo illuminato europeo. – 8. Agli inizi della codificazione penale moderna. – 9. L’officina del codice civile francese. Il «diritto intermedio». – 10. Il Code civil des Français. – 11. Codificazione e interpretazione. – 12. Gli altri codici del periodo napoleonico. – 13. Il Codice civile generale austriaco del 1811 (ABGB). – 14. La lunga storia di illuminismo penale e codici (senza un lieto fine).

1. I presupposti della codificazione nel pensiero giuridico e politico dell’età moderna La codificazione del diritto, che si realizza in Europa continentale tra la fine del Settecento e il primo decennio dell’Ottocento, va considerata come il frutto di un lungo lavoro di elaborazione culturale che si sviluppa lungo tutto il XVIII secolo, ma ha le sue radici almeno negli ultimi decenni del secolo ancora precedente. Vi sono poi origini riconoscibili anche nell’evoluzione del pensiero politico dell’età moderna (dunque dal Cinquecento), e poi nella prassi, nei vari tentativi compiuti di mettere ordine nella dimensione del giuridico. O meglio nel tentativo di uscire da quel disordine giuridico dell’Antico regime che aveva una sua cifra caratterizzante nel fatto di essere comunque un diritto per una società cetuale, corporativa e di stampo feudale. La codificazione del diritto ha senza dubbio a che fare col suo superamento, e con l’affermarsi del principio cardine dell’uguaglianza. Ma appunto è nel pieno dell’Antico regime che troviamo già le prime fondamenta del lungo percorso verso la creazione di questo nuovo strumento legislativo. Nell’ambito del pensiero politico-giuridico, spicca innanzi tutto la figura di Jean Bodin (Angers 1530-Laon 1596), autore di uno dei monumenti della rifles-

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sione politica europea, Les six livres de la République (Paris, 1576, ma con varie edizioni successive ad opera dello stesso autore), dove il termine république, a scanso di travisamenti, non va tradotto con repubblica, intesa come forma di governo, bensì – alla latina – con Stato. Bodin va considerato come uno dei massimi teorici della sovranità tenendo conto che il suo riferimento è quello del sovrano assoluto, secondo il modello monarchico della Francia del suo tempo: «Per sovranità si intende quel potere assoluto e perpetuo ch’è proprio dello Stato» 1. Non va per altro dimenticato l’ampio uso che egli fa delle fonti giustinianee e della successiva dottrina di diritto comune, proprio là dove la sua trattazione affronta temi di più stretta portata giuridica. Per illustrare il suo pensiero prende le mosse, secondo una modalità tipica degli scrittori politici, dallo “stato di natura” (su cui ovviamente Bodin non aveva nessuna notizia certa ed è dunque individuato come a priori teorico), una fase mitica anteriore alla costituzione di relazioni sociali (insomma, poco dopo Adamo ed Eva...). Lo Stato sarebbe nato dopo una situazione di scontro generalizzato, lo stato di natura, appunto; per tutelare gli individui e la proprietà ci si sottopone a un capo, il più forte (e magari anche il più violento). Ciò basta a legittimare, in capo al sovrano, il «potere assoluto e perpetuo». Questa costruzione, puramente teorica, ha la funzione di giustificare qualcosa di molto concreto, il potere del sovrano francese nella sua evoluzione storica. Infatti su questa base il Re può innanzi tutto fare leggi senza il consenso di nessuno e senza essere nemmeno vincolato dalle leggi promulgate dai suoi predecessori. Ciò significava respingere le logiche feudali tipiche del Medioevo, costruite su progressive deleghe di poteri fortemente legittimati e autonomi; significava svincolare il sovrano – dandogli una precisa giustificazione storica (seppur mitica) – da qualsiasi obbligo nei confronti dei vari gruppi intermedi, che fossero corporazioni, ceti, ecc. Gettando un breve sguardo al testo, per Bodin, «le leggi sono cosa pubblica e comune, e dipendono dal sovrano» 2. «Perciò alla fine degli editti e delle ordinanze vediamo le parole ‘poiché tale è il nostro piacere’, perché sia chiaro che le leggi del principe sovrano, siano pure fondate su motivi validi e concreti, non dipendono che dalla sua pura e libera volontà» 3. 1 Republique, I, cap. VII; molto importante, anche per l’apparato introduttivo e di note (cui qui si fa rinvio in genere), l’edizione in italiano curata da M. Isnardi Parente e D. Quaglioni, I sei libri dello Stato, Utet, Torino 1964-1997 (la si usa per le citazioni). 2 «Les loix sont publiques et communes, et dependent seulement du souverain» (Republique, I, cap. II). 3 «Aussi voyons nous à la fin des edicts et ordonnances ces mots, ‘car tel est nostre plaisir’, pour faire entendre que les loix du Prince souverain, ores qu’elles fussent fondeés en bonnes et vives raisons, neantmoins qu’elles ne dependent que de sa pure et franche volonté» (Republique, I, cap.VIII).

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Per Bodin – dunque – la legge è semplicemente comando del sovrano. Il re ha il monopolio del potere legislativo: fa e abroga le leggi. Non vi sono altri soggetti che debbano prestare il loro consenso. Una legge pattuita è un atto bilaterale, e non può essere abrogata unilateralmente da una sola delle parti; il sovrano invece deve essere legibus solutus, deve potere derogare liberamente alle leggi. Peraltro, anche nella visione di Bodin il sovrano è sottoposto a limiti, seppure limiti estremi: i comandi posti da Dio, in sostanza i dieci comandamenti, e le leggi “fondamentali”. Questo secondo è un elemento di estremo interesse perché si pone il principio che esistano delle regole di livello sovraordinato, quelle riguardanti «la struttura del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite», cioè quelle che sanciscono l’intangibilità del territorio e regolano la successione al trono 4. Non sono però leggi fondamentali che derivano da un contratto, come sarebbe naturale in ambito “costituzionale”, perché nella costruzione bodiniana nessun contratto sociale è prefigurato all’origine dello Stato. E infatti – pur in presenza di “leggi fondamentali” – non è previsto alcun “diritto di resistenza” (principio cardine, in particolare, nella tradizione costituzionale anglosassone, spiccatamente contrattualistica 5); in capo ai sudditi non è prevista la possibilità di ribellarsi al sovrano qualora violi il patto politico originario, semplicemente perché – questa la spiegazione teorica del potere assoluto e insindacabile del sovrano francese – nessun patto politico vi è stato, ma solamente sottomissione. Anche Thomas Hobbes (Westport, Malmesbury 1588 – Hardwick Hall, Derbyshire 1679) è considerato un teorico dell’assolutismo, anzi “il” teorico dell’assolutismo, nonché l’autore, in chiave più propriamente giuridica, della prima espressione compiuta di “positivismo giuridico”: per lui diritto è solo la legge del sovrano. La sua è una teoria ampia e compiuta, anche se non priva di contraddizioni, progressivamente elaborata in una serie di opere di grande successo e con cui riuscì anche a rappresentare icasticamente i concetti politici: Elements of law (1640), De cive (1642), Leviathan (1651). Evidente è il collegamento con l’esperienza storico-politica inglese. È insomma fatale che il sovrano di Bodin sia diverso dal sovrano di Hobbes, come lo sono il sovrano francese da quello inglese (anche se in Bodin i rinvii al sistema inglese non mancano). Il problema teorico è come giustificare questa diversità, che tra l’altro ha importanti conseguenze sul rapporto sovrano-diritto (e dunque Stato-diritto). Ecco che ritorna il mito della natura, o meglio dello “stato di natura”, quello pre-politico. Per Hobbes nello stato di natura i diritti di ognuno sono determinati dalla possibilità di usare la forza individuale; il diritto di natura (ius naturale) compor-

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Republique, I, cap. VIII. Cfr. infra, cap. VI, § 4.

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ta innanzitutto la libertà di usare il proprio potere nel modo più ampio: «ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro» 6. Lo stato di natura è dunque uno stato di guerra che rende impossibile la sicurezza di ciascuno; ma l’uomo per legge naturale («lex naturalis», precetto scoperto dalla ragione, che implica un limite, genera obbligazione) tende a preservarsi e dunque mira alla pace, per quanto sia possibile. Si passa dunque attraverso un contratto a uno “stato civile” dove si sopprime l’uso individuale della forza. Lo Stato è istituito e l’uomo o l’assemblea di uomini che sarà stato indicato dalla maggioranza avrà il diritto di incarnare («the right to present») l’intera comunità, anche coloro che gli erano contrari; le azioni del sovrano saranno azioni della comunità, ed è questo che garantirà la pace e la protezione contro le altre comunità di uomini. Tutto ciò genera una serie di “diritti” in capo a chi esercita la sovranità, in particolare prescrivere le regole circa l’esercizio della proprietà che appunto è posta in atto dal potere sovrano («is the act of that power») in vista della pace pubblica 7. In particolare, tra il resto, al sovrano compete il diritto di giudicare, cioè di «esaminare e di decidere tutte le controversie, che configurino questioni di diritto, sia naturale che civile («concerning law, either civill, or naturall»), o questioni di fatto». Ma in genere «si obbedisce alle leggi non per il loro contenuto, ma per la volontà di chi le ha emanate (…). La legge è l’ordine di quella persona (individuo o assemblea) il cui precetto contiene in sé la ragione dell’obbedienza»; dunque legge è quella dello Stato, cui i cittadini non possono opporre resistenza, salvo la necessità che sia promulgata nelle forme corrette a renderla effettivamente conoscibile 8. Hobbes prescinde da qualsiasi considerazione di ordine morale e religioso. La società umana è prodotto artificiale, che trae origine dallo scatenarsi dei peggiori istinti, dalla guerra tra gli uomini. Se l’origine dello Stato è quella, obbligatoriamente il risultato, lo Stato appunto, non può che avere caratteristiche mostruose. Con grande abilità rappresentativa Hobbes va a scegliere nella tradizione mitologica e recupera una sorta di mostro marino, il Leviatano. Su questa rappresentazione cerca di costruire un modello teorico coerente. All’interno del pensiero di Hobbes, in forza anche di alcune aperture alle libertà del singolo (di tutelare il proprio corpo e di vivere bene, senza subire inutili vessazioni), il pensiero successivo ha evidenziate le componenti liberali. In 6

Leviathan, cap. XIV; Elements of law, p. I, capp. XIV e XV. «Queste regole della proprietà (ossia del meum e del tuum) e di bene e male, legittimità e illegittimità nelle azioni dei sudditi, sono le leggi civili, vale a dire le leggi proprie di ciascuno Stato in particolare – anche se il nome di legge civile viene oggi riservato alle antiche leggi della città di Roma, le cui leggi, al tempo in cui era la capitale di una gran parte del mondo, erano la legge civile delle nostre regioni» (Leviathan, cap. XVIII; la traduzione è a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari-Roma 1989). 8 De cive, XIV.1 e 13 (la traduzione è a cura di N. Bobbio, Utet, Torino 1948). 7

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particolare il suo già ricordato “positivismo giuridico”: è diritto ciò che ordina il sovrano, e va reso certo. Fortemente anticipatrice delle spinte liberali settecentesche è la sua insistenza sul principio di legalità con particolare riferimento alla sfera del penale («nullum crimen, nulla poena, sine lege praevia»). Reato è un comportamento identificato come tale dalla legge del sovrano, la cui volontà formalmente espressa con un comando (imperativismo) è dunque unico metro della liceità del fatto. Per altro quella espressione di volontà deve essere precedente al fatto (dunque conoscibile anteriormente), senza considerazioni di ordine morale (laicizzazione; un precetto morale, che vale in assoluto, non sottostà al principio di non retroattività, che invece è essenziale in un reato). Il fatto è che il sovrano di Hobbes ha un vincolo ed è il rispetto delle clausole presenti nel contratto sociale; sono quell’insieme di limiti al potere del Re e garanzie a favore dei sudditi che si sono via via sedimentate nella “costituzione degli inglesi”. Se questi poteri sono oltrepassati e le garanzie negate, il suddito ha diritto di resistere al potere sovrano. Dopo la Glorious revolution l’esperienza istituzionale inglese sarà costantemente rappresentata come governo “moderato” o “misto” (secondo la terminologia del pensiero politico della prima età moderna) dove convivono l’impronta monarchica (rappresentata dal Re, che esercita il potere esecutivo), con quella repubblicana (rappresentata dal Parlament, che limita i poteri del Re). Un modello politico che ha goduto enorme fortuna fino ai giorni nostri, se il contemporaneo Stato di diritto, pare appunto originare dalla rule of law anglosassone 9; se lo stesso costituzionalismo contemporaneo sembra derivare da quella “costituzione degli inglesi”, contenuta non in unico testo scritto, ma nel succedersi di tradizioni e di testi di valore costituzionale, che risalgono fino al Medioevo 10. Va piuttosto sottolineato come la spinta degli autori dell’età moderna verso un diritto legislativo del sovrano sia il tentativo di reagire a uno status quo che non si riesce a scardinare e che vede i giudici (nell’amministrazione della giustizia civile, il penale è discorso a parte) in una posizione di grande autonomia, se non proprio arbitrio. E difatti, quando nel Settecento ci si porrà il problema di intervenire per attuare una effettiva riforma della giustizia, chiaro obbiettivo sa-

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Cfr. infra, cap. VI, § 2. Si utilizza il condizionale perché questa visione, assolutamente prevalente nella stessa scienza costituzionalistica italiana, non appare totalmente soddisfacente. Essa infatti trascura completamente le esperienze “costituzionali” della prima età moderna, in particolare quelle italiane dove l’uscita dal modello comunale medievale ha per esito riforme istituzionali di tipo repubblicano. Essa trascura anche una stagione significativa del pensiero politico moderno, il “repubblicanesimo”, conosciuto quasi solamente dagli storici delle dottrine politiche, non dai giuristi, se non dai filosofi e dagli storici del diritto. Trascura anche i netti tratti feudali e classisti che caratterizzano la “costituzione degli inglesi” per un lungo tratto del suo sviluppo storico. 10

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rà quello di colpire i giudici, il loro tradizionale modo di gestire le fonti giuridiche e di essere essi stessi fonti del diritto applicato. Vanno infine tenuti presenti i diversi fattori che determinano l’evoluzione dell’ordine giuridico in età moderna, ed aprono alla contemporaneità della codificazione: la fine dell’universalismo giuridico-politico-religioso medievale (oltre ai fenomeni di crisi interna alle singole compagini statuali); l’emergere degli stati nazionali secondo profili di modernità istituzionale; la Riforma protestante; gli sviluppi di lunga durata dell’Umanesimo giuridico. Va per altro registrata una lunga persistenza della scienza del diritto comune, che continua a perpetuare se stessa sulla base della interpretatio dei due corpus normativi universali medievali, e che continua a essere in Europa fattore prevalente. Lo sarà fino alla fine del Settecento.

2. I presupposti legislativi della codificazione Rimane ancora di far cenno ai tentativi di mettere ordine nel materiale più propriamente giurisprudenziale e legislativo. Una serie di tentativi che iniziano nel Cinquecento e si perpetuano via via fino al Settecento inoltrato. Non è possibile individuare una effettiva linea evolutiva, posto che una linea chiara verso la realizzazione di codici “moderni” si avrà solo negli ultimi decenni del secolo XVIII, e si definirà nella sua compiutezza col Code civil francese del 1804. In alcune aree il principe tende progressivamente e costantemente a unificare la normativa e a porsi come unico produttore di norme giuridiche. Agiscono per contro resistenze insormontabili da parte delle forze economiche, sociali, professionali. Ecco che dunque i tentativi di modifica del sistema giuridico, con la sola ambizione di rendere il diritto meno incerto, hanno il semplice scopo di conservazione e documentazione del patrimonio normativo, magari solo per facilitare la pratica forense nel reperimento di un materiale spesso disperso o di difficile reperimento. Il Codex fabrianus di Antoine Favre (1557-1624), primo presidente del Senato di Chambery, è una raccolta della giurisprudenza del Senato di Savoia organizzata in nove libri seguendo lo schema del Codex giustinianeo e annotata; lavori analoghi sulle sentenze del Senato di Piemonte sono curate da Gaspare Antonio Tesauro tra Cinquecento e Seicento e da Maurizio Richeri nel Settecento 11. Imponente infine l’opera di collezione dei provvedimenti legislativi di Casa Savoia fatta da Felice Amato Duboin alla conclusione del Settecento (in precedenza una raccolta di editti era stata compiuta da Giovanni Battista Borelli) e l’analoga iniziativa sulle leggi toscane di Lorenzo Cantini; a Napoli era stata composta a partire dai primi

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Cfr. supra, cap. IV, § 3.

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anni del Seicento una raccolta di prammatiche, capitoli e costituzioni del regno, realizzata seguendo l’ordine del Codex da parte di Carlo Tapia; a Venezia abbiamo nel 1751 una raccolta di Leggi criminali del serenissimo Dominio veneto e un Codice feudale della serenissima repubblica di Venezia nel 1780: sono raccolte cronologiche private, se pure con riconoscimento ufficiale, di materiale normativo preesistente. Più moderno sarà piuttosto nel 1786 il Codice per la veneta mercantile marina: un “codice” sul commercio marittimo fatto con vecchi materiali, ma che ha anche la portata di rielaborazione organica. Abbiamo poi Gridarii nell’area lombarda, cioè collezioni di grida che erano il modo di decretare dei governatori spagnoli a Milano (note a tutti quelle “manzoniane”). Ugualmente sono presenti i Bollari nello Stato pontificio, raccolte ampie e confuse che vanno collegate a quei tentativi, successivi alla promulgazione del Corpus iuris canonici e destinati sostanzialmente al fallimento, per una nuova consolidazione del diritto della Chiesa. Va considerato inoltre come in età moderna i sovrani assolutistici europei si mossero sempre più nel tentativo di controllare la repressione penale per tutelare la loro persona e la loro struttura istituzionale, l’incolumità e l’ordine pubblico, il decoro e la morale (in un’ottica di “disciplinamento” della società), le attività produttive e commerciali. Un caso importante è la Constitutio criminalis carolina (detta più semplicemente Carolina, 1532), emanata per i territori tedeschi dall’Imperatore Carlo V. Nasce da un lungo processo iniziato con l’istituzione del Tribunale camerale dell’Impero nel 1495 e subisce una notevole influenza della dottrina del diritto comune, e delle sue figure teoriche; le sanzioni sono rese, per quanto possibile in questa fase, meno aspre. Il sistema processuale è di stampo inquisitorio 12, rigido nella procedura per evitare arbitrii, prevalentemente scritto, con ampia previsione delle prove legali. I limiti della Carolina sono quelli ovvi in una situazione di accentuato particolarismo giuridico: concorrenza con la normativa penale locale consuetudinaria (Landrecht) – rispetto alla quale è sussidiaria (e qui vi era in più la situazione di conflitto coi principi tedeschi) – e previsione del diritto comune come fonte integrativa ulteriore. In Francia si ha nello stesso periodo l’Ordonnance générale sur le fait de la justice, police et finances (anche Ordonnance de Villers Cotterêts, 1539), composta da 192 articoli (di cui 30 dedicati alla giustizia penale), promulgata da Francesco I, anche se in realtà frutto del lavoro del cancelliere Guillaume Poyet, e dunque detta la Guglielmina; sarà in vigore fino al 1670. Questa grande ordonnance, come sono indicati i provvedimenti sovrani di ampia portata normativa, toccò tutti gli ambiti giudiziari e amministrativi. In seguito sarebbero state promulgate altre ordonnances volte a reprimere reati specifici, e in particolare quello di eresia (1547).

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Ricorda il rito dell’Inquisizione romana, che verrà istituita poco dopo, nel 1542.

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Richiede però a questo punto un approfondimento la storia delle fonti legislative in Francia, per il ruolo di antefatto determinante che avrà nel processo di codificazione. Tra medioevo ed età moderna quel territorio si caratterizza, dal punto di vista giuridico, in una distinzione tra pays de droit coutumier (cioè province di diritto consuetudinario, nelle zone settentrionale e occidentale, dove prevalgono gli usi di matrice germanica, messi per iscritto lungo il Cinquecento) e pays de droit écrit (province di diritto scritto, a meridione, dove scuole e prassi avevano fatto radicare il diritto romano – scritto, appunto – come diritto territoriale). Nel 1312, con una ordonnance, Filippo il Bello aveva specificato che il regno era retto dalla consuetudine, e anche là dove vigeva il diritto romano (“imperiale” per antonomasia, e pertanto da osteggiare) questo avveniva perché vi era una consolidata consuetudine conforme e vi era stata una concessione del sovrano. Dunque si riaffermavano il ruolo preponderante del diritto non scritto e la forza legittimante e autonoma del sovrano. A metà Quattrocento, alla fine della guerra dei cent’anni, Carlo VII progetta la redazione scritta, e aggiornata, delle consuetudini. Si avverte soprattutto la necessità di risolvere gli eterni problemi del processo (la sua lunghezza indeterminata, innanzi tutto) e dunque di certezza del diritto; si pensa quindi a una modernizzazione tecnica delle consuetudini. Il problema delle fonti del diritto, della loro messa in ordine, è un tema che domina la migliore cultura giuridica del Cinquecento. Charles Dumoulin (15001566) tenta con le sue opere di ridurre le consuetudini in un unico corpo armonico, in base a una supposta consonantia che va individuata. François Hotman (1524-1590) nel 1567 scrive l’Antitribonian, dove da una parte si riconosce l’importanza dei testi contenuti nel Corpus iuris civilis, ma dall’altra anche i difetti della raccolta di Giustiniano, realizzata appunto da Triboniano disarticolando la tradizione del diritto romano e della giurisprudenza medievale 13. In realtà vi sono una chiara componente antiromanistica e la rivendicazione dell’autonomia del diritto nazionale francese (constatando che il diritto giustinianeo aveva una minima applicazione pratica). Funzione centrale – ritiene Hotman – deve essere quella del legislatore: vi è una sorta di invito alla codificazione, magari realizzata ad opera del cancelliere Michel de l’Hospital (ca. 15051573), probabile autore di un acuto Traité de la réformation de la justice. Proprio Hospital aveva chiamato Hotman ad insegnare a Bourges e gli aveva dato l’avis (il consiglio, l’invito) a comporre l’Antitribonian. Una commissione – ritiene Hotman – partendo dal diritto giustinianeo, ma tenendo conto del diritto effettivamente applicato in Francia, dovrebbe redigere una compilazione di diritto nazionale, scritta in francese. Non va infine dimenticato come proprio in 13 Antitribonian ou discours d’un gran et renommé jurisconsulte de notre temps sur l’estude des lois, fait par l’advis de Monsieur de l’Hospital chancellier de France en l’an 1567, Paris 1606.

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questo contesto politico e culturale Bodin stia lavorando a Les six livres de la République, che pubblicherà una decina d’anni dopo l’Antitribonian. In Francia abbiamo quindi, tra Cinquecento e Seicento, una serie di così detti codes, che però poco hanno a che fare con il codice nel senso moderno del termine. Nel 1587 esce il Code Henry III, collezione di ordonnances commissionata dal sovrano sin dal 1579 al presidente del Parlement di Parigi Bernabé Brisson (1531-1591) per raccogliere le norme regie ritenute effettivamente utili e, riformandole, le costituzioni particolari di ciascuna provincia. Il Code di Enrico III fu approvato dal re ma mai formalmente promulgato; ciò nonostante, i sovrani che gli succedettero lo fecero aggiornare per renderlo via via applicabile. Nel 1601 esce una nuova edizione aggiornata del Code Henry curata, su incarico di Enrico IV, da un altro magistrato, Louis Chardonas Le Caron (anche Code Henry IV). Del 1629 è il Code Michau (storpiatura di Maurillac, nome del guardasigilli proponente), emanato da Luigi XIII: ordonnance ufficiale piuttosto vasta (461 articoli), è una delle periodiche ordonnances de réformation con cui si tentava una risistemazione generale, però in base al vecchio materiale giuridico. Era – come da tradizione – la risposta alle doléances sollevate dagli Stati generali. La situazione in Francia sta comunque evolvendo, e proprio nel 1614 gli Stati generali sono convocati per l’ultima volta. La prossima sarà nel 1789! In mezzo si colloca il regno di un sovrano che ha profondamente segnato di sé la storia della Francia e la storia giuridica europea.

3. Luigi XIV e le sue ordonnances Luigi XIV (re dal 1643 al 1715) – Re sole – è nella storia europea la personificazione più tipica dell’assolutismo monarchico europeo. Nel 1648 si pone fine alla guerra dei trent’anni con i trattati della Pace di Vestfalia, che traccia gli equilibri politico-diplomatici europei per il periodo a venire fino alla fine dell’Antico regime. L’Impero ne esce ridimensionato, la Francia rafforzata, l’idea dell’unità del mondo cristiano sotto l’unica fede cattolica ormai tramontata ed anzi ci si avvia verso un processo di secolarizzazione che se inizialmente significa il passaggio di beni di proprietà ecclesiastica a laici, col tempo indicherà la progressiva indipendenza delle strutture istituzionali statali da quelle ecclesiastiche, e in generale il tentativo di ridurre il ruolo della Chiesa cattolica alla sola sfera religiosa. Un processo che si intensificherà nel Settecento illuminista e avrà un esito eclatante nel così detto “giuseppinismo” (da Giuseppe II d’Asburgo, di cui si tratterà in seguito 14). Dal punto di vista storico-giuridico, nel processo di accentramento legislativo si ha in sostanza con Lugi XIV il compimento di un percorso tracciato dalle

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Infra, §§ 7 e 8.

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teorie dei Dumoulin, Hotman, Bodin, Hospital, e ora attuato dal ministro delle finanze Jean Baptiste Colbert (1619-1683), personalità non meno determinante di quelle fino a qui richiamate. L’obbiettivo che ci si pone chiaramente è quello di una riformulazione complessiva del diritto, con l’aspirazione di tentare finalmente un’unificazione giuridica nazionale. Diciamo subito che l’obbiettivo sarà raggiunto solo in parte, o – visto diversamente – che in concreto si avrà un fallimento vero e proprio. Eppure si può anche dire che ci si trova già nell’officina del codice, posta l’utilizzazione massiccia che il codificatore napoleonico farà, almeno in alcuni settori, del materiale normativo delle ordonnances “colbertine”. La prima della serie è nel 1667 la Ordonnance civile pour la réformation de la justice. L’obbiettivo era vincolare il più possibile i giudici alla legge, arginare la forza dell’interpretatio. Ne risulta un corpus normativo organico, breve e molto chiaro, che aveva lo scopo di stabilire una procedura uniforme per tutte le corti del regno; in caso di dubbio interpretativo ci si doveva rivolgere al sovrano, impedendo con ciò (o quantomeno tentando di impedire) che i giudici applicassero, appunto, le loro arti interpretative. Il testo di questa ordonnance sarà ampiamente utilizzato per la normativa processual-civilistica napoleonica 15, e in definitiva già compendiava tendenze antigiurisprudenziali tipiche dell’accentramento assolutista, prima, e dell’Illuminismo giuridico, poi, fino alla fase rivoluzionaria. Si interveniva poi sui grandi tribunali francesi, i parlements, e sulla fondamentale loro prerogativa di registrare i provvedimenti sovrani con il relativo potere di sollevare rimostranze; adesso l’obbligo era di registrare immediatamente, rimandando casomai a dopo i rilievi senza sospensione dell’efficacia della norma regia. Una regola di chiusura prevedeva che le norme preesistenti in materia fossero da considerarsi abrogate, ma – e qui era il limite della previsione legislativa – solo nel caso fossero contrarie all’ordonnance; diversamente – e in base a una valutazione del giudice sulla non contraddittorietà della norma esterna, o sulla lacuna dell’ordonnance – alle fonti esterne si poteva tranquillamente ricorrere. Si tratta di un punto cruciale, che difatti sarà ben diversamente affrontato con la celebre legge di promulgazione del Codice civile nel 1804 16. Nell 1670 è la volta dell’Ordonnance criminelle, dedicata sostanzialmente alla procedura penale e volta a limitare quanto più possibile le competenze delle giurisdizioni feudali. Certo le regole del processo sono semplificate, ma sotto il segno di un grande rigore intimidatorio: il modello processuale è quello inquisitorio, la segretezza prevale, l’assistenza tecnica all’imputato è assente nella fase istruttoria (quella cruciale, in cui si applica ordinariamente anche la tortura), la formazione della decisione è incatenata dal sistema delle prove legali. Nel suo

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Infra, § 12. Cfr. infra, §§ 10 e 11.

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complesso sarebbe stata materia di polemica fortissima da parte degli illuministi. Ottimi saranno, invece, i frutti legislativi in campo giuscommercialistico. Nel 1673 viene infatti pubblicata l’Ordonnance du commerce, ritenuta il simbolo del passaggio, in campo giuscommercialistico, all’età moderna. Essa, in definitiva nel solco della tradizione medievale del diritto mercantile, doveva dare un «regolamento capace di assicurare presso i mercanti la buona fede contro la frode e di prevenire gli ostacoli che li sviano dal loro ufficio». Si presenta come un testo breve, di circa 120 articoli, molto ben scritto, dedicato alla regolamentazione generale del commercio, cui aveva dato un contributo significativo Jacques Savary (un importante mercante francese), tanto che questa ordonnance venne anche identificata come Code Savary. Il presupposto ideologico è fondamentale: si tenta di uscire da una dimensione di tipo corporativo, e dunque di autoregolamentazione da parte dei mercanti, a favore di una netta volontà del sovrano di intervenire direttamente in questo settore con una normativa statale (salvo recuperare il patrimonio consuetudinario di matrice medievale comunque accettato dalla categoria professionale dei mercanti). Questo rientra nel complessivo disegno dirigista in campo economico di Colbert, volto a incentivare il commercio come occasione di ricchezza per tutta la nazione e delle casse regie in particolare (attraverso la tassazione dei profitti). Dunque si vuole che l’esercizio stesso del commercio non sia la conseguenza di una cooptazione in una compagine corporativa, ma piuttosto un privilegio concesso dal sovrano (salva sempre l’iscrizione alla rispettiva corporazione). Si interviene sui grandi temi dei contratti commerciali, delle scritture contabili, della bancarotta (colpita, come nel Medioevo, con grande durezza), della giurisdizione mercantile (strumento tipico di autonomia dei mercanti, e dunque qui ristretta). Manca la “clausola di codificazione”, che rappresenterebbe una rottura troppo forte con la tradizione consuetudinaria tipica di questo settore a cui bisogna dunque lasciare spazio indeterminato. Ne va poi considerata la collocazione sistematica. Siamo in una fase – quella colbertina appunto – in cui lo Stato è determinato a intervenire pesantemente nella vita economica; si parla, con ciò, di mercantilismo, che comporta in termini di politica del diritto il proliferare di interventi legislativi diversi, dalle tariffe ai calmieri, ai salari, ai monopoli di fabbricazione, ai dazi e così via. L’obbiettivo è accrescere la forza finanziaria dello Stato; dunque del diritto commerciale sono visti innanzi tutto i profili pubblicistici, quando invece per noi il diritto commerciale è parte del diritto privato. In genere, poi, nel contesto dell’accentramento assolutistico delle grandi monarchie europee, il diritto commerciale da diritto di classe (quella mercantile) diviene diritto dello Stato, non più universale ma nazionale, in questo anticipando chiaramente – in un settore dalla tradizione così marcatamente transnazionale e dunque non statale – le linee della codificazione civile (appunto nazionale, statale, non corporativa, egualitaria). Nel 1681 è promulgata l’Ordonnance de la marine, anch’essa integrata nel di-

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segno mercantilistico colbertino; era stato necessario un lungo e complesso lavoro di coordinamento di un vasto materiale consuetudinario. La Francia affacciava infatti su due bacini tra loro diversi per norme marittimistiche applicate, il Mediterraneo – con la tradizione del Consolato del mare in particolare – e quello del Mare del Nord, con diverse tradizioni e compilazioni di regole. Strutturata in cinque libri, ha l’obbiettivo di disciplinare i contratti marittimi, cioè quei contratti utilizzati dagli operatori mercantili che usavano il mare per trasportare le loro merci. Per la massa di beni scambiati e per il loro valore (determinato anche dalla distanza percorsa per procurarseli), era di gran lunga il commercio di maggior rilievo; in questo settore le figure giuridiche erano molte e particolarmente complesse. Eppure qui, più che altrove, l’aspirazione era individuare una normativa efficace, perché uniforme a livello internazionale. Il risultato di questa operazione di sintesi legislativa sarà coronato da speciale successo. Nel 1807 sarà quasi letteralmente riprodotta come II libro del Code de commerce 17. Ma estenderà la sua influenza anche ben fuori dai confini francesi: condizionerà non poco l’Editto politico di navigazione mercantile austriaca emanato da Maria Teresa nel 1774 e, nel litorale austriaco alto adriatico, seppure per via consuetudinaria, sarà direttamente applicata fino ai primi decenni del Novecento; avrà un certo rilievo addirittura nella stesura del codice della navigazione italiano del 1942. Infine, e alla luce della loro importanza nella storia del diritto europeo, le ordonnances del periodo colbertino sono “codici”? Diciamo subito che la risposta è no. Rappresentano un passaggio fondamentale nel tentativo di mettere ordine nel panorama delle fonti normative vigenti, ma non si pongono inequivocabilmente come fonte unica per la materia trattata. Ammettono la presenza di fonti concorrenti, lasciando aperto uno spazio di manovra interpretativo ai giuristi, che avranno facile gioco a ridisegnare di volta in volta il quadro normativo in base alle loro convinzioni scientifiche o alle loro opportunità processuali. La prova è che in Francia, nel Settecento, saranno profondamente criticate, dovendosi constatare la permanenza di un regime di particolarismo giuridico accentuato, totalmente ingestibile, cui evidentemente le grandes ordonnances di Luigi XIV non avevano posto alcun rimedio. Così nei cahiers de doléances presentati agli Stati generali nel 1789 non si mancherà di lamentare l’assenza di unità giuridica del Regno, anche nei campi su cui esse erano intervenute. Emblematica, infine, la vicenda di una importante ordonnance del 1679. Si era partiti dalla necessità di disciplinare meglio l’esercizio della professione legale, ma prendendo subito atto della decadenza degli studi universitari in Francia. Da dove partire, dunque? Dalla formazione, appunto, imponendo tra l’altro che in ogni università si insegnasse il «diritto francese in generale». Il diritto delle

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Cfr. infra, § 12.

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grandi compilazioni regie, dunque, e poi la ricca tradizione consuetudinaria francese, per la costruzione di un nuovo diritto nazionale, l’obbiettivo vero e definitivo dei monarchi francesi già dal secolo precedente. La situazione poteva sembrare favorevole, alla luce dell’impegno in questo settore di Luigi XIV e Colbert; eppure, nulla di tutto questo si verificò. Le cattedre vennero istituite, ma in poco tempo quei corsi cessarono quasi di essere frequentati, e per lo più gli insegnamenti furono soppressi. La dialettica plurisecolare diritto particolare/diritto comune dimostrava una resistenza davvero straordinaria.

4. Il pensiero giuridico europeo tra area germanica e Francia (XVIIXVIII sec.) Guardando al continente europeo del Settecento, ed essendo necessario semplificare il quadro complessivo, possiamo identificare due aree di cultura giuridica, una francese e una germanica. In entrambe lo sfondo scientifico è quello di un panorama in forte cambiamento rispetto al passato, e i giuristi ne risentono profondamente. Tanto più avanzati saranno nel loro lavoro di riflessione giuridica, quanto maggiormente interpreteranno il loro ruolo come intellettuali “completi”, aperti a tutte le novità scientifiche del loro tempo. Soprattutto per la cultura francese l’antefatto culturale è ovviamente Cartesio (René Descartes), che vive fino al 1650, e che propone una visione razionalistica secondo cui la matematica può essere riferimento fondamentale per ogni disciplina scientifica. L’altra figura determinante è poi Blaise Pascal (1623-1662) matematico e filosofo, per altro critico con Cartesio, e amico di un grande giurista come Jean Domat (nato, come Pascal, a Clermont en Auvergne, a distanza di due anni; se ne parlerà tra poco). Il razionalismo permea di sé tutto il Settecento generando un atteggiamento scientifico che avrà conseguenze notevolissime sulla complessiva rappresentazione della realtà, e dunque anche della realtà giuridica. Basti pensare allo straordinario Systema naturae che Linneo (Carl von Linné, 1707-1778) porterà a compimento tra gli anni Trenta e Sessanta, una tassonomia che tutt’ora informa zoologia e botanica. Dunque è condivisa la volontà di trovare un efficace sistema ordinante per rappresentare in modo completo e moderno ogni ambito della realtà. Un sistema che prende atto in modo razionale ed empirico della realtà e a sua volta ne costituisce regola. Andando a coloro che, da giuristi, sono stati identificati come «le origini dottrinali del codice civile francese» 18, è opportuno qui partire da Jean Domat 18

A.-J. Arnaud, Le origini dottrinali del codice civile francese, trad. it., ESI, Napoli 1969.

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(Clermont 1625-Parigi 1696), che a propria volta utilizza un sistema classificatorio e prova a tracciare un’impalcatura completa e solida; con lui si cerca un ordine giuridico razionale attraverso cui sia effettivamente possibile costruire un sistema omnicomprensivo. Avvocato e magistrato, Domat pubblicò Les loix civiles dans leur ordre naturel (1689-1694), opera cui lavorò godendo di una pensione ricevuta a tal scopo dal sovrano Luigi XIV. In seguito (1697) sarebbe uscito – ormai postumo, e incompleto – Le droit public, suite des Loix civiles dans leur ordre naturel. L’intento è mettere in ordine il diritto vigente, utilizzando – per il diritto privato – il diritto giustinianeo elaborato per via giurisprudenziale nel suo “uso moderno”; per il diritto penale, il complesso insieme normativo utilizzato in Francia e risultante dal compendio di diritto romano, diritto canonico, ordinanze regie, prassi dei tribunali, diritto penale locale; il diritto in campo economico – attenzione: considerato parte integrante del diritto pubblico, e non di quello privato, secondo una visione di stampo mercantilistico – era determinato da ordinanze regie e prassi corporative; vi era infine il diritto divino e il naturale, riscontrabili nel diritto romano, nel diritto pubblico, nel diritto della Chiesa. È un insieme normativo molto ampio e disomogeneo. Domat, non senza qualche forzatura, compone le discordanze dell’intero sistema giuridico utilizzando il canone interpretativo della mens o ratio legis, che diventa esprit des loix (espressione a sua volta non poco ambigua, poi ripresa da Montesquieu), e che ricorda quella consonantia che già in età moderna era stata invocata per mettere ordine tra le consuetudini francesi. La collocazione della singola norma all’interno della complessiva impalcatura è determinato dal suo esprit; la legge deve a propria volta collegarsi efficacemente con le altre fonti giuridiche e partecipa del loro complessivo esprit. Domat distingue in particolare tra loix immuables (naturali e dunque giuste in ogni epoca, e non modificabili o abrogabili da alcuna autorità) e loix arbitraires (disposte da chi detiene la sovranità per esigenze contingenti e in base alla sua mera volontà; dunque modificabili e abrogabili). Distingue poi tra droit privé e droit public. Le due leggi naturali fondamentali sono l’amor di Dio e l’amor del prossimo; le altre leggi naturali ne discendono come «conseguenza necessaria» e danno ordine alla società; queste ultime sono identificate nella parte privatistica del diritto romano, e non nel diritto pubblico (quello relativo al buon ordine del governo). Il diritto naturale può essere conosciuto in base alla ragione scientifica e utilizzando tecniche tipiche delle scienze naturali e matematiche (principi primi, dimostrazioni, teoremi). Se il diritto più vicino a quello naturale è il diritto privato, codificare il diritto naturale vuol dire innanzi tutto codificare il diritto privato. Va infine sottolineato, e chiarito, il ruolo che Domat attribuisce al diritto romano. Esso è inteso in effetti come il più grande deposito storico di scienza e di ragione, ma la compilazione giustinianea non rispecchia l’ordine naturale; dunque è necessario pensare a un impianto nuovo, a un sistema che ne rispecchi

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l’esprit unitario. Esso da una parte influenzerà i giuristi francesi nel loro approccio alla grande tradizione romanistica (anche dopo la codificazione), dall’altro spiega l’uso che in effetti ne sarà fatto per la codificazione. Nel complesso le Loix civiles, il loro modello di esposizione sistematica, saranno utilizzate dal legislatore napoleonico, quando poi all’ordre naturel si sostituirà l’ordre établi par le Code civil, e il codice sarà consacrato come diritto naturale fatto legge positiva dallo Stato. Il passaggio dottrinale successivo è normalmente identificato nella figura di Robert Joseph Pothier (Orléans 1699-1772), magistrato, molto influenzato dal suo predecessore Domat. Il suo itinerario intellettuale si avvia con La coutume d’Orléans avec des observations nouvelles (1740), nel solco delle opere francesi dedicate al variegatissimo patrimonio consuetudinario francese. Il percorso prende poi la strada della ricerca sul patrimonio romanistico, non senza una eco degli studi umanistico-giuridici a suo tempo così ricchi in Francia – Pandectae justinianae in novum ordinem digestae cum legibus codicis et novellis (1748-1752) –, volendo però identificare un nuovo ordine razionale. Infine compone le opere effettivamente creative sugli istituti giuridici, tracciando le basi scientifiche della codificazione civilistica francese attraverso una serie di trattati animati dall’idea che la Francia debba avere un unico diritto nazionale e che lo schema generalmente ordinante possa restare quello di matrice romanistico-gaiana, lo schema delle Institutiones, modulato in persone/cose/azioni. Con i suoi Traités, Pothier di fatto predispose al legislatore napoleonico una vastissima normativa di dettaglio, costruita sulla base di un’accurata analisi delle fonti consuetudinarie, della storia degli istituti in Francia, dell’uso plurisecolare che nella stessa area si era fatto del diritto romano (anche modificandolo profondamente). Cambiamo adesso zona geografica. Infatti determinanti – anche per la codificazione francese, oltre che per quella austriaca e poi quella tedesca – furono gli interventi di alcuni fondamentali autori di area germanica, già a partire dalla seconda metà del Seicento. Samuel Pufendorf (Chemnitz, Sassonia 1632-Berlino 1694), docente nell’importantissima università di Heidelberg, fu in particolare autore di Elementa jurisprudentiae universalis (1660), De jure naturae et gentium (1672), De officio hominis et civis (1673). Tipicamente, per il contesto culturale in cui opera, se anche per lui – come sarà per i francesi – il diritto fa innanzi tutto perno sulla legge sovrana, essa deve essere determinata col ricorso al diritto naturale, che proviene da Dio. Entrerà dunque in gioco il lavoro degli scienziati del diritto, per identificare e legittimare la fonte giusnaturalistica, ma poi sarà lo Stato a garantirne il rispetto col suo apparato coercitivo. Da una parte sta il diritto – anche il diritto naturale – e dall’altra la morale, tenuti ben distinti, pur avendo entrambi la loro fonte in Dio; con ciò si circoscrive la possibilità dello Stato di intervenire con le proprie leggi. Ciò ha tra

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l’altro per conseguenza una visione del penale molto vicina a quella di Hobbes, una visione fortemente secolarizzata. La legge per Pufendorf è un comando con cui un superiore obbliga un soggetto a regolare le proprie azioni secondo il suo precetto; l’obbligo giuridico è determinato dalla sanzione che l’autorità può imporre per la violazione del precetto; là dove non vi sono precetto e sanzione, residua la libertà naturale. L’insistere su questo spazio naturale libero da precetti, l’area dei diritti soggettivi, e il profilare nettamente princìpi di laicità, renderanno Pufendorf particolarmente popolare presso gli illuministi. Legato alle idee di Pufendorf è Christian Thomasius (Leipzig 1655-1728), autore in particolare dei Fundamenta iuris naturae et gentium in quibus secernuntur principia honesti, iusti ac decoris (1705). Prosegue con lui il tentativo di tracciare linee di demarcazione nette entro cui comprendere la possibilità dello Stato di porre norme giuridiche cogenti, con ciò presentandosi quale uno dei primissimi esponenti del liberalismo tedesco. L’honestum è la dimensione della pace interna, zona totalmente franca dal diritto (non dalla morale, che però è appunto affermata come tutt’altra cosa). Il decorum è la dimensione delle regole che consentono di vivere bene insieme agli altri; sono regole sociali di buon comportamento, per altro di fondamentale importanza nell’età moderna, detta appunto “età delle buone maniere”, perché rispetto al Medioevo emerge chiaramente la dimensione del disciplinamento (che per altro può tradursi anche in norme giuridiche). In entrambi questi ambiti vi sono regole ma non sono regole coercibili. La dimensione giuridica vera e propria è quella dello iustum (oggetto della giurisprudenza), secondo il quale innanzi tutto non si deve fare ad altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé. Sono norme che preservano la pace esterna, l’ordinata convivenza. Dunque, procedendo per esclusione, le norme giuridiche, effettivamente coercibili, possono essere relativamente poche. La sua propensione liberale si sarebbe affermata anche con una serie di opere dedicate al penale. In generale Thomasius auspicava che la pena – in quanto medicina – non fosse vendicativa, ma dovesse appunto curare la società, e poi segnalò la necessità di abolire una serie di reati (eresia, magia, ecc.), perché riguardavano una dimensione puramente interiore o perché erano semplicemente immaginari. Se colleghiamo questi suoi contributi al saggio De tortura del 1705, in cui si dimostra la necessità di abrogare questo metodo per ottenere prove, Thomasius si profila anche come un precursore dei maggiori temi dell’illuminismo giuridico penale europeo, che matureranno di lì a qualche decennio. Di grande importanza per la filosofia in generale è Gottfried Wilhelm Leibniz (Leipzig 1646-Hannover 1716), che rappresenta ancor più di altri l’idea di intellettuale totale (filosofo, giurista, ma anche matematico) e che può a buon diritto porsi come anticipatore di quella fiducia assoluta in scienza e ragione tipica dell’Illuminismo, e dell’idea che le scienze umanistiche e sociali, e il diritto in particolare, debbano mutuare i loro metodi da quelle naturali.

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Il diritto è a suo dire un sistema di proposizioni che connettono soggetti e predicati, e lo si affronta applicando tecniche di tipo logico. Dalle proposizioni fondamentali, per via interpretativa, si possono ricavare altre proposizioni di dettaglio. Anche per lui il diritto romano è un riferimento fondamentale, ma va riportato ai suoi princìpi, visto il disordine del Corpus iuris civilis. Quanto all’origine del diritto, esso si fonda su principi immutabili, e non è indipendente dalla morale (da questo punto di vista vi è una evidente carica conservatrice). Si sta prefigurando un’idea di codificazione fatta di princìpi generali, dunque breve e molto rigorosa dal punto di vista sistematico, e in questo contesto il ruolo del sapiente, cioè del giurista, appare fondamentale: sta infatti a lui ricavare dalle fonti ciò che conduce alla miglior regolamentazione possibile della società. Legato al pensiero di Leibniz è quello di Christian Wolff (Breslau 1670-Halle 1754). Lo Stato, nella sua visione, è lo sviluppo della società che si è formata col contratto sociale, e ha come scopo quello di promuovere il bene comune e di garantire ai consociati sicurezza. La felicità individuale può essere raggiunta solo all’interno di questa dimensione e dunque è necessario rendersi e rimanere sudditi. Il diritto positivo dello Stato è sviluppo del diritto naturale e ha l’obbiettivo di perseguire quei medesimi scopi (benessere e sicurezza), in una condizione di sostanziale uguaglianza dei consociati. Sotto questo ultimo profilo, Wolff ha avuto anzi un ruolo fondamentale nella formazione dell’idea del soggetto unico di diritto, a sua volta passaggio determinante per la realizzazione dei codici.

5. Le compilazioni legislative nell’Italia del primo Settecento La cultura giuridica italiana del Settecento solo in alcune zone avrà veri e propri profili illuministici: ciò avverrà innanzi tutto in Lombardia e in Toscana – e soprattutto con riferimento al problema penale, oltre che alla critica del diritto romano – e a Napoli, ma in genere con una certa difficoltà a prospettare soluzioni complessive. La stagione riformatrice italiana si apre piuttosto con una raccolta normativa ufficiale, quella piemontese del 1723. Vittorio Amedeo II di Savoia, dopo una serie di guerre conclusesi favorevolmente, voleva procedere a sostanziali trasformazioni istituzionali sotto il segno dell’accentramento: ammodernamento dell’amministrazione pubblica, riduzione delle magistrature sotto il controllo del sovrano, diminuzione del peso politico della nobiltà. Nel 1723 si ha la promulgazione delle Costituzioni di Sua Maestà il Re di Sardegna, che hanno una seconda redazione nel 1729 19. Il materiale normativo è

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Sotto Vittorio Amedeo II ai domini dei Savoia, che oltre al Ducato di Savoia comprendevano i territori del Piemonte e parti della Lombardia, si era aggiunta appunto la Sardegna,

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assai vasto e organizzato in sei libri: dal diritto penale a quello civile, al diritto pubblico (diritti del re, norme in materia di feudi, norme in materia di culto e sulla capacità giuridica degli ebrei), alla procedura. Formalmente è legge speciale, e quindi non muta il rapporto tra diritto particolare e diritto comune; il sistema delle fonti, basato sulla contrapposizione e la compenetrazione tra le due sfere giuridiche tradizionali, rimane dunque intatto. Si tratta ad ogni modo di un intervento di portata molto ampia, e fatalmente il diritto comune è eroso dal diritto proprio, in particolare attraverso le disposizioni processuali. Facendo divieto agli avvocati di citare le autorità dottrinali e ai giudici di motivare in base ad esse, si impone all’operatore del diritto di rinunciare a uno strumento tradizionale anche a livello giurisprudenziale. In particolare viene introdotta la trattazione orale; la disputa chiude il procedimento e serve a chiarire i punti trattati dalle parti per iscritto. Importante, per la sua emblematicità, è inquadrare con precisione questa operazione di politica del diritto e degli strumenti legislativi: non si tratta più di una mera raccolta della normativa precedente, come per lo più lo erano i vari “codici” europei tra Cinquecento e Seicento, e prefigura piuttosto i tentativi di compilazioni normative che caratterizzeranno la metà del Settecento. Era un passo avanti importante per il superamento del particolarismo e dell’unificazione del diritto dello Stato sulla base della fonte di produzione (il sovrano). Come identificarla, anche nominalmente? La storiografia giuridica 20 da tempo ha elaborato la categoria della consolidazione, che può ben rappresentare – anche se con molti limiti – questa fase della elaborazione degli strumenti legislativi e che anzi viene anche utilizzata dai giuristi positivi per provare a prefigurare gli scenari prossimi futuri nel campo del diritto privato. Si parla di consolidazione come «precipitato storico della legislazione», cioè il frutto di un lavoro di selezione e sintesi di qualcosa che c’era già. Gli elementi che in effetti contraddistinguono questo genere di compilazione sono almeno l’utilizzo per lo più di materiale normativo precedente (anche i “codici” di solito ne contengono, ma in un contesto precettivo totalmente nuovo) e la non esaustività per la materia trattata (e infatti, lo si è già detto, si tratta ancora di diritto particolare, che dunque presuppone comunque la vigenza del diritto comune come diritto applicabile in via suppletiva generale). I codici, per converso, si proporranno sia per la sistematica che per i contenuti come nettamente innovativi e totalmente esaustivi per la materia trattata. Ciò che poi chiaramente manca alle Costituzioni sardo-piemontesi settecentesche è infine l’unificazione del soggetto di diritto, l’idea che vi sia stato – almeno dal punto di vista dei rapporti che aveva il rango istituzionale di Regno e lo trasferì così all’intero Stato sabaudo (detto appunto sardo-piemontese). 20 M. Viora, Consolidazioni e codificazioni: contributo alla storia della codificazione, Giappichelli, Torino 1967.

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giuridici – l’affermarsi di una visione egualitaria, insomma la presa d’atto di un cambiamento storico-giuridico netto. Le Costituzioni del Regno di Sardegna saranno riformulate nel 1770 sotto Carlo Emanuele III, ma ormai in un contesto largamente mutato in base a un dibattito dell’Illuminismo giuridico che sta ormai conducendo verso altre traiettorie. Esse però rimarranno ben salde nella cultura giuridica come un tentativo di riforma efficace, ipotesi di razionalizzazione e semplificazione del diritto da tenere sempre a mente come esempio da utilizzare (e da superare). Anche nella Francia di inizio Ottocento, mentre si sta lavorando al Code civil, si ha precisamente in mente questa compilazione sabauda, e i giuristi la studiano con ammirazione. Sarebbe rimasta in vigore giusto fino al periodo napoleonico, travolta dal Code civil, per poi essere applicata di nuovo dopo la Restaurazione, a quel punto oggetto di una mera riesumazione. Un altro caso interessante riguarda nello stesso periodo la Toscana, che rimarrà un laboratorio di riforme anche in altre fasi del Settecento e anche per le particolari vicende dinastiche che la proietteranno nella vasta sfera di influenza austriaca. Ne era infatti sovrano (dal 1737) Francesco Stefano di Lorena, appunto granduca di Toscana (sarà sacro romano imperatore dal 1745) e marito di Maria Teresa d’Austria, una Asburgo, regina di Boemia e d’Ungheria (che di fatto lo sostituirà al trono imperiale). Francesco e Maria Teresa ebbero ben sedici figli, tra cui i futuri imperatori Giuseppe II e Leopoldo II (cioè Pietro Leopoldo, di cui si dirà ampiamente in seguito), Maria Carolina regina di Napoli, e infine la regina di Francia Maria Antonietta, sposa a Luigi XVI e suo malgrado – e tragicamente – emblema di un mondo che stava crollando sotto le spinte delle idee nuove, di cui proprio i suoi due fratelli imperatori erano stati fra i maggiori fautori. Ma torniamo alla Toscana. Subito dopo l’incoronazione di Francesco di Lorena fu posto il problema dello stato delle fonti normative. Nel 1745 il sovrano diede disposizione perché si procedesse a una «rifusione generale» del diritto toscano attraverso un «codice simile a quello dei Savoia», con l’intento dunque di rafforzare il locale diritto particolare nei confronti del diritto comune e della sua dottrina. L’incarico fu dato a una straordinaria figura di giurista e uomo di stato quale Pompeo Neri (1706-1766) che con realismo si propose subito di non erodere il diritto romano, ma solo di ritoccare le norme che lo avevano via via intaccato, predisponendo dunque una compilazione di diritto patrio (fatto di consuetudini, statuti, legislazione granducale, ecc.) nel rispetto del sistema tradizionale delle fonti giuridiche. Il diritto patrio era il diritto degli operatori giuridici, del loro lavoro quotidiano nelle aule di giustizia, e andava semplicemente reso certo. Ma tant’è, lo sforzo riformatore di Neri in Toscana non avrà esito, e dunque egli si sposterà a Milano dove realizzerà un’impresa fondamentale, il catasto.

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6. L’Illuminismo giuridico L’Illuminismo è uno dei passaggi della storia del pensiero e della cultura europea fra i più centrali. Ciò non toglie che sia un fenomeno assai variegato ed è sostanzialmente impossibile riunirlo in una definizione unica. Ha persino – da zona a zona – denominazioni differenti, con significati, espliciti ed impliciti, non sovrapponibili. In Francia – dove sarà un movimento di opposizione all’organizzazione della società e delle istituzioni – si palerà di Lumières, i lumi, fatto di molte personalità con linee di pensiero anche molto distanti; in area germanica si parla di Aufklärung, illuminazione, dove sono i sovrani e i loro apparati burocratici a sviluppare nel loro grembo le idee nuove e a darne – certo in una versione relativamente moderata – concreta applicazione; in Inghilterra si parla di Enlightenment e infine in Italia, utilizzando un termine di conio nuovo, appunto Illuminismo. Dunque, se non è possibile darne una definizione precisa – perché si tratta piuttosto di «una mentalità, una tendenza», che non di «un movimento filosofico unitario» 21 – è possibile almeno dire che si tratta di un movimento di pensiero che, nel Settecento, coinvolse la parte più rappresentativa degli intellettuali europei in concreti progetti di riforma politica e sociale. L’Illuminismo giuridico è in particolare l’applicazione al campo giuridico del razionalismo settecentesco e dei valori che la cultura illuministica propugna. Ne ha gran parte un’istanza giusnaturalistica, nel tentativo di ricostruire i lineamenti di un diritto naturale che l’Antico regime avrebbe conculcato e a cui invece è necessario ritornare. In area germanica il diritto naturale si è imposto come disciplina accademica e scientifica nelle università (la cattedra di diritto naturale è la più importante) e in quel contesto la cultura giusnaturalistica si sviluppa e prospera: una cultura di funzionari dello Stato, come lo sono i professori delle università e i burocrati che di quegli indirizzi culturali e politici – propugnati anche dai sovrani – si fanno esecutori. Questo avveniva nella convinzione che il sovrano avesse il compito – col suo “paterno cuore” – di provvedere al benessere dei sudditi. I progetti di riforma mantennero quindi tratti paternalistici, non senza una certa forza invasiva nella vita degli individui, anche se in un’ottica di secolarizzazione ed effettiva innovazione culturale e sociale; e non era raro che i sovrani illuminati si trovassero ad operare a dispetto della parte preponderante della popolazione. Naturalmente erano riforme che non implicavano uno stravolgimento del quadro socioeconomico tradizionale, e in particolare presupponevano una organizzazione della società per ceti. In Francia – in un quadro istituzionale che era erede della grande opera di accentramento assolutistico di Luigi XIV – il diritto naturale non era mai entra-

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M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Comunità, Milano 1966, p. 9.

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to nelle università, dove semmai l’impronta era pratica e, almeno dall’editto di Luigi XIV del 1679, vi si era insegnato casomai il “diritto francese”. I philosophes non erano solitamente funzionari dello stato, ma intellettuali, animati da ideali filantropici, o borghesi benestanti, che avversavano lo status quo sociale e culturale, anche se non la monarchia in sé. In Francia, dove per altro si era sviluppata più che altrove una classe borghese ampia e cosciente di sé, la situazione arrivò alla seconda metà del Settecento a un punto critico: non soltanto la selva delle consuetudini si intrecciava con il particolare adattamento francese del diritto romano, ma anche le capacità giuridiche e i regimi dei beni immobili si diversificavano molto in base alle tradizionali stratificazioni della società, o meglio di una «società di società», come avrebbe sottolineato efficacemente qualche decennio dopo il giurista Portalis 22. Già alla metà del secolo troviamo un giurista la cui opera avrà una straordinaria fortuna, anche al di là del campo giuridico: Montesquieu (o meglio Charles De Secondat, baron de Montesquieu, 1689-1755). Suo tratto caratterizzante è un atteggiamento sostanzialmente moderato, determinato anche dal fatto di essere – e da questo punto di vista era un’eccezione – un funzionario del monarca: egli era infatti magistrato. È autore di un’opera complessa e articolata secondo linee direttrici diverse, ricca di informazioni e con la proposta di schemi descrittivi di grande suggestione, efficaci anche a molta distanza dalla sua pubblicazione, persino in contesti extra-francesi: De l’Esprit de loix (Lo spirito delle leggi, 1748). Essendo scopo di questo capitolo illustrare il percorso verso la codificazione (e non lo sviluppo della storia costituzionale 23), va solo ricordato che qui viene prospettata la distinzione fondamentale tra regime dispotico, monarchico e repubblicano, su cui si articola con distinzioni successive la sua trattazione. Sarà lui a dare i primi cardini su cui costruire identificazione, separazione e indipendenza tra poteri. L’esito definitivo sarà la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, con cui si affermerà solennemente che senza separazione dei poteri non si ha costituzione 24. Nel suo pensiero lo spirito delle leggi determina il sistema di rapporti che lega il diritto alla forma di governo, là dove hanno una loro influenza determinante fattori locali apparentemente estranei, come il clima, la religione, la realtà economica, ecc.: un atteggiamento, per così dire, “relativista”. Pur già enunciata da altri, con Montesquieu si impone definitivamente la dottrina secondo cui i poteri sono tre, sempre ed ovunque, e non devono concentrarsi nelle stesse mani: sarà una rivendicazione comune del costituzionalismo del Settecento e Otto-

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Cfr. infra, § 10. Su cui si veda infra, cap. VI. 24 Infra, cap. VI, § 5. 23

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cento e dell’intero liberalismo ottocentesco. Si tratta però anche di un passaggio determinante verso l’affermarsi di una visione legicentrica, e anche per questo motivo sarà autore così presente nei commenti ai codici, e non solo a quello francese. Infatti – sostiene Montesquieu – le leggi derivano dalla natura delle cose (come le leggi del mondo naturale), ma allo stesso tempo si richiedono leggi diverse per le diverse nazioni in base alle specificità che le caratterizzano. Il diritto è prodotto dal legislativo, e solo da lui, ed è volontà generale dello Stato. Nella storia giuridica europea un ruolo fondamentale nella produzione del diritto lo avevano avuto gli organi giurisdizionali, e ancora prima gli interpreti. Adesso il diritto è essenzialmente legislazione. Ora la funzione giurisdizionale viene incapsulata nel suo ruolo specifico: il giudiziario, in particolare, è potere politicamente nullo; i giudici sono «bocca che pronuncia le parole della legge (…), esseri inanimati che non ne possono moderare né la forza né la rigidezza» 25. Questa concezione avrebbe avuto in particolare importanti conseguenze per il pensiero illuministico nel campo del diritto penale. È ora il caso di fare riferimento alla figura di uno degli autori giuridici più letti (se non il più letto) di tutti i tempi, su scala globale: Cesare Beccaria (Milano 1738-1794). Con Dei delitti e delle pene (1764) dà un fondamentale contributo a fissare i principi cardine dell’illuminismo giuridico penale: razionalizzazione del sistema penale, depenalizzazione, proporzionalismo, mitigazione delle pene (ma «certezza del castigo»), abolizione della pena di morte. Ciò che qui interessa – e ricollegandoci a quanto detto su Montesquieu – è la sua visione della legge, e in particolare della legge penale. Già dal contratto sociale deriva il fatto che lo Stato possa stabilire reati e irrogare pene, cioè che lo Stato abbia il diritto di punire e che, in tal senso, esso deve essere sottoposto a limiti che sono profilati dalla legge penale, che a sua volta deve corrispondere a valori universali; in particolare la legge deve rispondere all’utilità sociale e deve provenire da un legislatore che rappresenta tutta la società. «Le sole leggi possono decretare le pene su i delitti e quest’autorità non può risiedere che presso il legislatore» 26; devono essere poi poche e chiare (anche per scongiurare la necessità dell’interpretazione), facilmente applicabili, scritte nella lingua del luogo (cioè conoscibili effettivamente), infine raccolte in un codice. Anche in Beccaria è riscontrabile l’atteggiamento, tipico in questa fase, di grande sospetto nei confronti dei giudici, i cui poteri devono essere quanto più limitati e che nel penale in particolare devono attenersi al giudizio di fatto. Per il resto la loro dovrebbe essere un’attività meccanica, in quanto rispondente a una sorta di automatismo: «in ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la [premessa] maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione

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Montesquieu, Lo spirito delle leggi, lib. XI, capo VI, “Della costituzione d’Inghilterra”. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. III, “Conseguenze”.

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conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena» 27. Si può dire, concludendo, che a partire dall’opera di Montesquieu si forma la netta (e illusoria) convinzione che il giudice non debba interpretare la legge, ma solo applicarla. L’idea era quella di arginare l’attività creatrice del diritto operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza (il modo tipico di produrre diritto in tutto l’Antico regime) e dunque si invocava il ruolo preponderante del legislatore. Diciamo infine che è possibile identificare una serie di princìpi generali illuministici che presiedono alle codificazioni del XVIII secolo in Europa. Vediamoli, seppure genericamente. Esiste un diritto naturale che può essere colto con gli strumenti della ragione e quindi un insieme di diritti naturali e imprescrittibili propri di ogni uomo; sta innanzi tutto allo strumento legislativo sancirli, con norme che abbiano le necessarie caratteristiche di semplicità, conoscibilità, certezza; in alcuni autori si incomincia a profilare altresì l’idea che questa legge debba corrispondere alla volontà generale, e non semplicemente a quella del sovrano. Quanto alla componente giusnaturalistica, essa va collegata a una generale tendenza culturale dell’epoca, che da una parte studia e approfondisce a livello scientifico i fenomeni naturali e si impegna a descriverli e categorizzarli razionalmente, dall’altra spinge prepotentemente per un superamento netto di tutte le strutture sociali (economiche, politiche, giuridiche) tipiche del lungo Medioevo europeo, sposando una tendenza fortemente liberale che si afferma in particolare alla fine del Settecento e che condizionerà profondamente il secolo successivo. Qui si colloca l’età della codificazione.

7. Le compilazioni legislative del dispotismo illuminato europeo Già si è detto della compilazione sabauda di inizio secolo, carica di prospettive riformistiche, ma allo stesso tempo con caratteristiche tali da farla considerare ancora una mera compilazione legislativa, una consolidazione e non un codice in senso proprio. Per molti versi un prototipo molto emblematico di questa fase della storia del diritto. Per completare l’analisi del Settecento, e dunque delle varie compilazioni legislative di questo periodo, è ora necessario procedere a un esame delle singole aree geo-politiche, ma tenendo anche conto della nuova temperie di idee che agitava la cultura europea: l’affacciarsi del pensiero illuminista e lo svilupparsi di un particolare filone giuridico (di cui si è detto nel precedente paragrafo). In area germanica la Prussia si presentava come un insieme di realtà territoriali principesche molto variegato, e con autonomie anche particolarmente forti.

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Ivi, cap. IV, “Interpretazione delle leggi”.

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La società era poi divisa in ceti, o stati (Stände) – nobili, cittadini, contadini – con proprie prerogative e organi rappresentativi. Nel corso del Settecento i sovrani regnanti Federico Guglielmo I (1713-40) e Federico II (1740-86) portarono avanti una politica di accentramento, che significava la sistematica compressione di queste autonomie e la riduzione delle conseguenze di ordine giuridico (in particolare il regime delle capacità giuridiche) dovute all’appartenenza a uno o all’altro ceto. Nel 1731 fu nominato cancelliere un importante giurista, di formazione pufendorfiana, Samuel Cocceius (1679-1755) e gli venne affidata la riorganizzazione giudiziaria e la ricompilazione generale delle leggi vigenti. Fu proprio Federico II, modello di dispotismo illuminato, a prospettare nel 1746 che «principalmente deve essere ripudiato il diritto romano latino, ed essere approntato, su base prussiana, un diritto territoriale tedesco che deve fondarsi sulla ragione naturale e sulle costituzioni del paese» 28. E in una delle sue molte opere (Dissertation sur les raisons d’étabilr ou d’abroger les lois, 1750) ancora aveva ripreso i grandi motivi del riformismo legislativo (la necessità di leggi chiare, il venir meno delle pratiche interpretative, la necessità di un corpo unitario di leggi, proporzionalismo e mitezza delle pene).Vi era anche un certa ostilità per il diritto romano, anch’essa tipica dell’Illuminismo, ma che Cocceius non poteva certo condividere (nel 1740 aveva pubblicato gli Elementa justitiae naturalis et romane, in cui il diritto naturale era identificato con quello romano). In Prussia l’opera di riforma riguardò innanzi tutto la procedura (si ricorderà come già la parte qualificante in termini riformistici delle costituzioni sabaude fosse stata proprio quella riguardante il processo); nel 1747 fu promulgato un regolamento giudiziario per la Pomerania, che in seguito sarebbe divenuto il Regolamento giudiziario generale (1781). Si rivelò un successo del riformismo in campo processuale, rispetto alla tradizione del processo romano-canonico; si interveniva su temi dibattuti da secoli, imponendo la trattazione orale e pubblica (almeno in alcune fasi importanti del procedimento) e la motivazione della sentenza. Molto meno lineare fu il percorso compiuto sul terreno del diritto sostanziale. Gli sforzi di Cocceius in questo settore ebbero per frutto il Project Corporis Iuris Fredericiani – la cui prima parte fu pubblicata nel 1749 e la seconda nel 1751, mentre la terza non lo sarà mai. Un fallimento probabilmente legato al fatto che si tratta di un’opera scritta in modo poco chiaro e discorsivo, di netto impianto romanistico, non “tedesca”, e in quanto tale rinnegata dal sovrano prussiano. Eppure il lavoro di Cocceius era in piena sintonia con le più aggiornate riflessioni dell’Illuminismo giuridico. Il Project ha una forte impronta giusnaturalista ed è innanzi tutto in sintonia con la cultura giuridica europea nel suo com-

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Cit. in G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. I. Assolutismo e codificazione del diritto, il Mulino, Bologna, 1976, p. 236.

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plesso. Vi si critica la tradizione universitaria europea basata sulle opinioni dei dottori (Introduzione, § 4), con toni e termini identici a quelli usati da Denis Diderot e da Voltaire quando parlano dell’istruzione giuridica in Francia. Tale coincidenza ritorna fortissima quando si denunciano la quantità enorme di statuti ed editti sovrani e delle norme di diritto tedesco. La eco europea è poi molto nitida nel sottotitolo dell’opera: il testo normativo è un diritto territoriale prussiano, le sue fondamenta sono immerse sia nella «ragione» che nelle «costituzioni del Paese». Insomma Cocceius cerca di realizzare in Germania ciò che Jean Domat ha teorizzato nella Francia del Seicento: rimettere in ordine il diritto della compilazione giustinianea, quando invece la compilazione giustinianea – un insieme di estratti dall’enorme patrimonio giuridico classico – non era stata realizzata con questo medesimo obbiettivo sistematico. Va insomma reimpostata una ragionevole sequenza di princìpi e regole; vanno tralasciate le sottigliezze insite nel diritto romano, dannose e poco pertinenti rispetto alla situazione tedesca; va espunto tutto ciò che è riconducibile al lavoro plurisecolare dei commentatori. Il diritto romano si fonda sulla «equità naturale» e su una «sana ragione», e per questo motivo la maggior parte delle nazioni cristiane lo ha adottato per diritto comune. Eppure, qual era effettivamente, a metà del secolo XVIII, la percezione del Codice Federico (questa la denominazione attribuita al progetto Cocceius dalla cultura del tempo) e più in generale della strada illuministica verso la legislazione? Un angolo di visuale può essere quello rappresentato dalla lunga voce Code Fréderic presente nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alambert, opera che costituisce il monumento dell’Illuminismo. Va innanzi tutto riconosciuto il clima complessivo di esaltazione di quest’opera legislativa prussiana, a partire da Voltaire («Ho letto l’opera… Ho benedetto il secolo che l’ha vista nascere, il Re che l’ha ordinata e il Cancelliere che l’ha fatta» 29) per arrivare a Verri, Beccaria e Filangieri. La voce dell’Encyclopédie sottolinea il nuovo sistema delle fonti che si è venuto a creare, l’organizzazione complessiva del testo, la tecnica di redazione delle singole disposizioni, il contenuto. Si conclude: il sistema di questo nuovo codice è la conferma di come si possa giudicare una forma di governo e i costumi di un paese in rapporto all’amministrazione della giustizia; è desiderabile che la stessa cosa avvenga negli altri stati in cui le leggi non sono riunite in un solo corpo di diritto. Si discuteva della Prussia, ma in realtà intendendo fornire un modello utile per la Francia. Il codice Federico era il modello codicistico proposto dal movimento dell’Enciclopedia, dal nucleo fondante dell’Illuminismo giuridico. Certo era presentato come storicamente realizzato, cioè come promulgato, mentre in

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Cit. in G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 315, nt. 177.

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effetti non lo era mai stato e anzi Federico lo aveva disconosciuto. L’impronta romanistica era chiarissima, dall’eco giustinianea dell’intitolazione Corps de droit, alla sottolineatura dans lequel le Roi a disposé le Droit Romain dans un Ordre naturel, che ovviamente rinviava anche a Domat 30. Va d’altra parte riconsiderata l’opinione comune che insiste sul preconcetto antiromanistico degli enciclopedisti, che in realtà al diritto romano dedicano un profluvio di voci, anche molto analitiche. Senza ombra di dubbio il giurista che opera negli anni della codificazione in Europa ha avuto necessariamente una formazione tradizionale e, al di là del più o meno ampio spazio che ha avuto nella sua formazione e soprattutto ha nella sua attività pratica il locale diritto particolare, caposaldo di quella sua formazione rimane il diritto romano. Il fallimento del progetto Cocceius rappresentò comunque il viatico per la compilazione del 1794, l’Allgemeines Landrecht für die Königlisch-Preussischen Staaten, un’opera decisamente prussiana, di cui si parlerà a breve 31. Passando all’Austria, dal punto di vista politico istituzionale il progetto degli Asburgo era simile a quello portato avanti in Prussia. Certo, il contesto statuale ed etnico-politico era diverso e molto meno omogeneo. Era auspicato un processo di accentramento, ma in un quadro amministrativo molto complesso, ricco di specificità locali e in costante mutazione, e allo stesso tempo fucina di straordinarie figure di intellettuali. Con la metà del Settecento, su impulso dell’imperatrice Maria Teresa si era iniziato a lavorare alla realizzazione di un corpo normativo di diritto privato per le “province ereditarie” (cioè il nucleo storico fondante della monarchia Asburgo, che comprendeva anche Gorizia e Trieste). L’esito si ebbe nel 1766 col Codex theresianus, che si rivelerà dopo poco un fallimento, come il codice Federico in Prussia. La sistematica è infatti ancora una volta quella romanistica, con la divisione in tre libri: diritto delle persone, diritto delle cose e diritti reali, obbligazioni. Non si procede per princìpi generali (come ci si sarebbe potuti aspettare in base alle linee teoriche affermatesi in area germanica), ma per disposizioni particolari; lo stile è ancora una volta discorsivo, piuttosto che prescrittivo. Questa compilazione per altro non è priva di pregi; è infatti disciplina esclusiva della materia regolata; la materia regolata è solamente il diritto privato e in quel campo abroga le regolamentazioni territoriali; il soggetto di diritto è unico; le norme sono redatte in tedesco. 30 Cito dal frontespizio dell’edizione francese: Projet du Corps de droit Frédéric, ou Corps de droit pour les États de sa Majesté le Roi de Prusse, fondé sur la Raison et sur les Constitutions du Pays, dans le quel le Roi a disposé le Droit Romain dans un Ordre naturel, retranché le Loix étrangères, aboli le subtilités du Droit Romain et pleinement éclairci les doutes et les difficultés que le même Droit et ses Commentateurs avoient introduit dans la Procédure, établissant de cette manière un Droit certain et universel, 1751-1755. 31 Infra, in questo stesso paragrafo.

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Eppure non venne adottata. Vi si era opposta una figura di grande influenza come il cancelliere Wenzel Anton von Kaunitz (Vienna 1711-1794); giurista formatosi secondo gli stilemi più classici dell’altissima burocrazia viennese, diplomatico a inizio carriera, nella sua lunga vita fu cancelliere di Stato e ministro degli esteri per Maria Teresa, Giuseppe II, Leopoldo II e Francesco II, determinando gran parte della politica austriaca e della riforma della legislazione nei decenni del dispotismo illuminato. Era ovvio che la sua relazione negativa al progetto – per un non risolto rapporto tra le diverse fonti previgenti, e per un eccesso di diritto romano – si fosse trasformata in una pietra tombale su tutta l’operazione. Le cose andarono diversamente nel campo penalistico. Nel 1768 viene infatti promulgata la Constitutio theresiana criminalis, con cui è realizzata una rifusione del materiale normativo preesistente. Non si presenta certo come un monumento dell’Illuminismo penale. Rimangono le distinzioni di status, che però hanno rilievo solo per le modalità di applicazione delle pene, e quindi si può identificare una certa tendenza verso il diritto penale a soggetto unico. Rimangono il rigore sanzionatorio e la crudeltà delle pene, che anche nei decenni successivi caratterizzeranno il diritto punitivo in Austria e da cui ci si distaccherà con molta lentezza. Eppure, scavalcata la metà secolo, proprio in campo penale è possibile individuare i primi passaggi veri e propri verso una codificazione pienamente illuministica, una tendenza che si manterrà ancora nel periodo rivoluzionario in Francia, per ripiegare nuovamente verso un penale più rigido con l’inizio dell’Ottocento. Nel frattempo le grandi opere di codificazione avverranno nel settore del diritto civile. Con gli ultimi decenni del secolo si ha ancora un’ultima significativa realizzazione in Italia col così detto “codice estense” del 1771, o meglio Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, del 1771, con cui Francesco III duca di Modena innova soprattutto nel settore processuale e dell’interpretazione giuridica. Ma seguendo lo sviluppo cronologico, è necessario spostarsi nuovamente in Prussia, dove – similmente a ciò che avviene in Austria – ci si occupa fattivamente di procedura, con la promulgazione nel 1781 di un Regolamento giudiziario generale, considerato il primo codice processuale illuministico. Anch’esso ha il duplice obbiettivo – in nome dell’accentramento burocratico e dell’accrescimento del potere del sovrano – del superamento del processo di diritto comune romano e della lotta contro le giurisdizioni che i diritti particolari riservavano ai ceti. Il giudice assume rispetto al passato maggiori poteri nei confronti delle parti e a propria volta subisce un forte vincolo alla legge. Anche qui la segretezza diminuisce sensibilmente e si introduce la motivazione della sentenza. Nel 1794 si promulga il già anticipato Allgemeines Landrecht für die Königlisch-Preussischen Staaten (abbreviato: ALR), cioè un diritto territoriale comune per gli Stati che, in una struttura federale, costituiscono il regno di Prussia.

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È costituito da un’introduzione e da due parti: la prima di diritto civile, la seconda ancora di diritto civile, ma relativamente a materie che prima della codificazione ottocentesca erano considerate comunque collegate alla organizzazione politica dello Stato (diritto di famiglia, successioni); nella seconda parte trovano poi collocazione materie di diritto pubblico come gli status personali, le regole sulle corporazioni, i rapporti feudali e parte del diritto penale. In questo caso il sistema delle fonti, basato sulla contrapposizione e coordinamento tra diritto comune e diritti particolari, rimane invariato, ma la straordinaria novità è che come diritto comune il diritto romano interpretato è sostituito da un “diritto territoriale generale”, un Allgemeines Landrecht, un diritto che accomuna i popoli di questa area d’Europa. I Länderrechten (diritti territoriali particolari) vengono mantenuti e anzi saranno applicati in prima battuta, posto che il diritto comune – secondo tradizione – ha un ruolo suppletivo, cioè entra in vigore solo se non vi sia diritto particolare applicabile al caso specifico. Se il senso complessivo è quello di rispettare lo spirito del popolo tedesco e la sua tradizione giuridica nazionale (e la componente nazionale sarà tipica dei codici di inizio Ottocento), questa compilazione normativa da un lato si presentava come un’evidente ricognizione di un patrimonio giuridico precedente, dall’altra deve mantenere una caratteristica peculiare locale, cioè le distinzioni soggettive. Lo stesso Landrecht afferma che la società è composta di società minori; lo Stand è l’insieme delle persone che godono di uguali diritti per motivo di nascita. Vi sono contadini (che hanno gravi limitazioni nella libertà di professione, nell’esercizio del diritto di proprietà, nella libertà di spostamento; peggio ancora i contadini-servi), cittadini (che rispondono al diritto della città, e a titolo di diritto comune al I libro del Landrecht) e nobili (con un particolare regime giuridico del matrimonio, successioni, proprietà, limitazioni in alcune libertà, come quella di esercitare professioni). Tutto ciò rende ovviamente questa normativa particolarmente complessa. Il giudice non può interpretare la legge (ma può utilizzare l’analogia legis e l’analogia iuris) e, in caso di dubbio, deve obbligatoriamente ricorrere alla Commissione legislativa per ottenere un’interpretazione autentica, nell’ottica di una rigida separazione dei poteri.

8. Agli inizi della codificazione penale moderna Per la storia del diritto penale in genere, e in particolare per la storia del diritto penale codificato, gli anni Ottanta del secolo XVIII rappresentano uno straordinario salto in avanti, e non casualmente ne sono protagonisti due appartenenti alla casata Asburgo, i due figli di Maria Teresa e Francesco Stefano di Lorena: Giuseppe II e Pietro Leopoldo. In questo periodo tra le varie regioni italiane la Toscana è quella più importante dal punto di vista della codificazione.

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Pietro Leopoldo vi diventa Granduca nel 1765 e lo resterà fino al 1790, anno in cui ascenderà al trono imperiale, dopo la morte del fratello Giuseppe II, col nome di Leopoldo II. La Toscana, per le particolari tradizioni culturali e per la dimensione del territorio, già si era profilata come un possibile laboratorio del riformismo durante il regno del padre (e per la presenza di Pompeo Neri). Pietro Leopoldo, come il fratello, è interno al movimento illuminista e porta avanti una politica economica e finanziaria moderna. Certo, il fallimento di Neri aveva fatto tramontare le ambizioni di un intervento organico in campo civilistico, e dunque in quel settore spodestare il regime del diritto comune sembrava al momento impraticabile; va detto che, anche dopo il periodo napoleonico, nel campo del diritto civile questa regione sarebbe tornata al “diritto comune patrio”, isolata tra regioni a diritto civile codificato. Completamente diversa la situazione nel campo del diritto penale. Qui la spinta iniziale venne probabilmente dallo stesso Granduca ed ebbe come esito la promulgazione nel 1786 della Riforma della legislazione criminale toscana, o “codice leopoldino”, meglio conosciuta come la Leopoldina. È un documento legislativo abbastanza breve, costituito da un proemio e 119 articoli. Contiene alcuni chiarissimi elementi di arretratezza, e questo soprattutto nell’impostazione tecnica: non è un testo sistematico, non distingue diritto sostanziale da procedura, è eterointegrabile, abroga solo le norme incompatibili, non ha un tono prescrittivo, ma sembra piuttosto un trattato di diritto penale. Ecco, qui sta il punto, cioè la straordinaria spregiudicatezza del Granduca nell’accogliere, e trasformare in legge, i più avanzati portati della scienza penale illuministica. Lo si comprende molto bene nel Proemio, che vale la pena di leggere direttamente: «Con la più grande soddisfazione del nostro paterno cuore abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri delinquenti, invece di accrescere il numero dei delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della legislazione criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla società nella punizione dei rei, eliminato affatto l’uso della tortura, la confiscazione dei beni dei delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di lesa maestà con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi, e fissando le pene proporzionate ai delitti, ma inevitabili nei respettivi casi, ci siamo determinati a ordinare con la pienezza della nostra suprema autorità quanto appresso».

Oltre a tutto quanto esposto, anche altre sono le straordinarie novità: il libero convincimento del giudice, l’abolizione delle prove privilegiate (confessione presunta in caso di contumacia dell’accusato, latitanza del ricercato, e assenza

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dallo stato di ricercato e accusato), nuova sentenza in caso di pene afflittive irrogate in contumacia, esclusione dell’obbligo del giuramento per accusatore e accusato, non previsione del mandato di cattura in caso di sole pene pecuniarie, libertà provvisoria per l’imputato, divieto di incarcerazione per il testimone salvo che ne sia provata la reticenza, proporzione tra pene inflitte e reato commesso. Infine, particolarmente emblematica, e importantissimo scarto di civiltà giuridica, era l’abolizione della pena di morte, vista con «orrore» come abbandono definitivo del reo, «della di cui emenda» invece «non può mai disperarsi» (§ LIX). Immediatamente dopo Pietro Leopoldo, anche il fratello imperatore in carica Giuseppe II avrebbe proceduto a Vienna a una medesima impresa legislativa. In realtà egli stava intervenendo, con determinazione, anche nella riforma degli altri rami del diritto, ma senza riuscire in una vera e propria opera di codificazione. Qui interessa esaminare ora la scelta di Giuseppe II di voler promulgare anche per l’Austria un codice penale; si tratta dell’Allgemeines Gesetz über Verbrechen und derselben Bestrafung (1787) o “codice penale giuseppino”. Non avendo i limiti tecnici della Leopoldina, questo testo è considerato – nel senso pieno del termine – il primo codice penale moderno, il prototipo di codice penale borghese-liberale che si confronterà lungo l’Ottocento col modello francese (rappresentato dal Code pénal del 1810). Quali i punti di forza di questo testo? La disciplina penalistica sostanziale è identificata con chiarezza, resa autonoma e presentata come completa, dunque non eterointegrabile. Fa proprio il principio di legalità – principio cardine dell’ordinamento penale moderno – e la sua conseguenza in campo interpretativo, vale a dire il divieto di analogia (ripreso nelle codificazioni di diritto penale successive). È accolto un generale oggettivismo penale, nel senso che perdono rilievo le distinzioni tra individui e dunque in sostanza si raggiunge l’unità del soggetto di diritto. Si aboliscono la tortura e quasi totalmente la confisca generale (abrogata poi definitivamente col successivo codice penale austriaco del 1803). È ancora presente una notevole diversificazione delle pene, cosa che ostacola fortemente una funzionale costruzione della scala penale, generando in tal modo grandi difficoltà nell’applicazione effettiva del principio di proporzione penareato. Diversamente da quanto avvenuto nella Toscana del fratello Pietro Leopoldo, qui la pena di morte è mantenuta, seppur grandemente ridotta. E qui si apre un’altra questione relativa alla sua effettiva applicazione, in concreto piuttosto scarsa; i giudici, infatti, preferivano piuttosto convertirla nei lavori forzati a vita, una sanzione che in genere avviava il condannato a una pena di morte procrastinata e semmai incrudelita, viste le condizioni di vita terribili cui i forzati erano costretti. Questo avrebbe suscitato nella burocrazia austriaca, imbevuta di illuminismo, un certo dibattito. Il fatto è che si sarebbero dovute realizzare, per i reati più gravi, case di pena e di lavoro che, in effetti, non furono in realtà mai portate a termine, col risultato che ai condannati era irrogata per lo più la pena

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del “trascinio dei battelli” in Ungheria, sanzione di fatto durissima (e con conseguente morte quasi certa). Molto importanti sono le scelte di carattere strutturale. Innanzi tutto la previsione di una parte generale, per noi oggi presupposto fondamentale rispetto alla parte speciale di un codice penale, ma prima di allora non chiaramente individuata, nemmeno all’interno del dibattito illuministico. Si trattò realmente di «una rivoluzione copernicana nel diritto penale inteso sia come ordinamento che come scienza (…). Prende vita così una normativa di principii, che sono nuclei disciplinari aggreganti, costituenti ad un tempo i fondamenti e le regole essenziali del diritto penale» 32. Si attua poi la scelta, che diventerà tipica delle codificazioni penali di area germanica e che condizionerà la stessa scelta della nostra codificazione nazionale nel 1889, di distinguere i reati e le relative pene in due gruppi distinti: – Da una parte i delitti criminali: sono quei comportamenti considerati sempre e comunque reati, e dunque sempre e ovunque sanzionati dall’autorità (delitti di diritto naturale). Vi rientrano i reati contro lo Stato che stavano in precedenza nell’indefinito insieme della lesa maestà, nonché quelli contro l’incolumità personale, la vita e la proprietà. Si tratta di figure descritte con lessico preciso e di portata generale; sono relativamente poche e con ciò sembra venga tentata una sostanziale depenalizzazione di molti comportamenti non necessariamente atti a ledere la pace esterna, cioè quella dello Stato e della comunità dei sudditi (bestemmia, eresia, adulterio, sodomia). – Dall’altra i delitti politici, cioè quei comportamenti che minacciano la Polizei, il sereno vivere della comunità dei sudditi e che arbitrariamente il sovrano decide, in un dato momento e non necessariamente per sempre, di sanzionare; vi troviamo le regole di polizia sull’esercizio delle professioni pericolose, sul decoro morale, sull’ordine pubblico, nonché le consuetudini sociali. In questo caso le figure di reato sono moltissime, con descrizioni dettagliate. Ben esprimono la tendenza degli Asburgo verso un dispotismo pedagogico e paternalistico, in realtà piuttosto occhiuto nel vigilare sulla comunità. Certo, è un penale a bassa tensione, le cui procedure di repressione non devono impegnare troppo l’attività giurisdizionale: si riscontra cioè una forma di amministrativizzazione del diritto penale e un conseguente abbassamento delle soglie di garanzia dell’imputato. La fase istruttoria, infatti, verrà attribuita al locale capo della polizia, normalmente un alto burocrate con competenze molto vaste e che solo parzialmente possiamo identificare con quelle di un odierno questore. Era un compito nuovo piuttosto gravoso, perché era nell’istruttoria che si giocava gran parte dell’esito processuale, innanzi tutto con la formazione delle prove (per giunta in un sistema piuttosto rigido come lo era quello austriaco). E difatti i capi della 32 S. Vinciguerra, Un penalista del XXI secolo legge il codice penale giuseppino, in Codice generale austriaco dei delitti e delle pene (1787), ristampa anastatica, Cedam, Padova 2005, p. XXVII.

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polizia suscitarono un dibattito anche acceso all’interno dell’amministrazione pubblica austriaca, per nulla contenti di doversi assumere compiti ulteriori che ritenevano assai distanti dalle loro tradizionali competenze. Parte integrante della disciplina criminalistica, come ben si è compreso, era la disciplina processuale, e infatti la Kriminalgerichtsordnung – il codice di procedura penale – verrà promulgato nel 1788, solo un anno dopo il codice di diritto sostanziale.

9. L’officina del codice civile francese. Il «diritto intermedio» Dopo il 1789 (anno della Rivoluzione), in Francia le assemblee legislative non riuscirono ad avviare effettivamente un lavoro di codificazione, pur auspicandolo ripetutamente. Vi erano infatti delle necessità immediate, istituti su cui intervenire con tempestività con leggi specifiche, senza poter aspettare un codice comprensivo di tutto il settore normativo interessato. La storiografia giuridica da tempo indica questa fase, dal 1789 al 1804, col termine droit intermédiaire, diritto intermedio, cioè quello che sta tra Rivoluzione e promulgazione del Codice civile. In realtà è un periodo fatto di fasi storiche – e tanto più storicogiuridiche – assai difformi tra loro. La costituzione del 1791 (dopo la Rivoluzione, ma prima della scelta repubblicana), nelle sue disposizioni preliminari, aveva subito annunciato la promulgazione di un «Codice di leggi civili comuni a tutto il Regno», come sarebbe stato sostanzialmente confermato dalla successiva costituzione del 1793. In realtà il percorso avrebbe richiesto ancora parecchio tempo. Per altro già l’Assemblea nazionale costituente (in attività dal giugno 1789) ritenne urgente intervenire in alcuni settori, e in particolare in quello successorio. Dal primo ottobre 1791 iniziò ad operare l’Assemblea legislativa, ma fu solo nel 1792 che l’attività normativa prese lena, e in particolare nel diritto delle successioni e del diritto di famiglia. Sul modo in cui venne affrontato il settore del diritto di famiglia ebbero in generale peso la netta spinta laicizzante e influì poi, nell’identificazione di nuovi modelli giuridici, il mito dell’antichità: guardando a essa si progettava la disciplina dei tribunali di famiglia, del divorzio, dell’adozione, dell’educazione repubblicana. Nel complesso il diritto di famiglia è un’area emblematica della elaborazione del droit intermédiaire, un settore in cui emergono netti i princìpi della rivoluzione, a partire da quello dell’eguaglianza, in base al quale si intervenne sullo status delle persone e della famiglia. Nel 1792 la tenuta degli atti dello stato civile fu tolta alle autorità religiose e affidata alle municipalità (oltre al resto, nel 1791 si era posto il problema di un gran numero di bambini battezzati da preti refrattari e quindi privi della registrazione presso le parrocchie). Si riordinarono le materie della tutela e della cu-

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ratela e in particolare venne reintrodotta l’adozione, che fu ammessa in modo molto ampio, essendo percepita anche come uno strumento per frazionare i grandi patrimoni familiari. Si intervenne sulla patria potestà, avendo per specifico obbiettivo la radicale trasformazione del regime vigente nei pays de droit écrit, e dunque riducendo la possibilità di diseredare i figli; la madre fu associata al padre nell’esercizio della potestà, mentre le decisioni più rilevanti in materia correttiva dovevano essere prese dal tribunale di famiglia, formato da parenti e presieduto dal padre. Si eliminarono le differenze tra figli legittimi e figli naturali; anche il problema endemico dei “bastardi” era stato al centro del dibattito illuminista e poi del periodo rivoluzionario, tanto che era ricompreso all’interno di molti cahiers de doléances. Figli maschi e figlie femmine furono equiparati e si eliminò il delitto di adulterio. Vi fu una netta laicizzazione del matrimonio, in precedenza tipico settore di diretta ed esclusiva competenza normativa canonica, ora divenuto contratto di diritto civile – come già aveva dichiarato solennemente la costituzione del 1791 –, anzi un contratto di durata, di cui era ovviamente possibile chiedere la risoluzione. Si ammise allora il divorzio, già propugnato da un vasto settore dell’Illuminismo. Anche in questo settore si guardava all’antichità romana (ma anche all’antico testamento e alla Chiesa delle origini) che lo aveva previsto, mentre era scomparso nella Francia medievale governata da un re cattolico. Con la legge del 1792 venne accettata la formula più ampia, quella su cui anche in seguito proseguirà il dibattito politico e giuridico. Lo scioglimento era infatti previsto anche per domanda di una sola delle parti, invocante l’incompatibilità di carattere (incompatibilité d’humeur et de caractère), o dietro consenso di entrambe le parti. Vi era poi il divorzio per giusta causa, identificato da sette motivi determinati. Si intervenne anche in materia successoria, con l’obiettivo di raggiungere una maggiore redistribuzione delle ricchezze e, quindi, una maggiore equità sociale. Nella successione i figli naturali erano equiparati a quelli legittimi (1793) e si favoriva in ogni modo la successione legittima, arrivando in una certa fase a proibire addirittura il testamento (Décrets de principe, 7-11 marzo e 4 giugno 1793). Ma faceva ostacolo il caposaldo dell’ideologia borghese liberale: l’autonomia assoluta dell’individuo, la possibilità per il privato di poter disporre dei propri beni anche oltre la propria morte. Infine la legge del 17 nevoso anno II (6 gennaio 1794) – poi moderata da quella del 4 germinale anno VIII (25 marzo 1800) – ridusse al minimo la possibilità di disporre per testamento e, quanto alla successione legittima, riprese il regime giuridico delle coutumes occidentali, secondo un sistema che sarà in sostanza anche quello del Code civil. Il tema si collega ovviamente a quello della proprietà: una volta compiuta la Rivoluzione, il cambiamento del suo regime giuridico era una delle grandi attese della borghesia francese. Già la Dichiarazione dei diritti del 1789 aveva inserito il diritto di proprietà tra i diritti naturali, dichiarandola anche inviolabile e sacra, e la sua inviolabilità era stata ribadita anche dalla costituzione del

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1791. Era una visione specifica, perché durante l’Illuminismo, e anche nei dibattiti successivi, non era mancato chi al contrario aveva ritenuto che la proprietà non fosse «naturale» per l’uomo, ma si generasse casomai con lo stato di società (o stato civile). Comunque sia, a partire dagli interventi dell’Assemblea nazionale costituente, che abolì gli istituti feudali in questo settore, si ebbe la nazionalizzazione e successiva vendita dei beni ecclesiastici e si intervenne poi a ridimensionare fortemente le forme collettive di proprietà. Nel campo dei rapporti obbligatori si sancì un’ampia libertà per le parti nella conclusione dei contratti. Si era imposto fin dalla prima fase rivoluzionaria un liberalismo economico che aveva portato con sé l’abolizione di tutte le associazioni professionali e di tutte le corporazioni, perché appunto ostacolavano il libero esercizio di professioni e arti. Nella stessa logica, in quanto parte integrante della cultura corporativa, erano state chiuse anche le facoltà di diritto, un diritto che si riteneva potesse tranquillamente essere appreso con la pratica e presso un avvocato. Ma fu proprio durante la fase della Convenzione (che operò dal 21 settembre 1792) che si cominciò a lavorare a un corpo normativo completo nel settore del diritto civile. Il Comitato di legislazione era presieduto da un personaggio di fondamentale rilievo, Jean-Jacques Régis de Cambacérès, su cui è opportuno soffermarsi. Nasce (1753) e studia a Montpellier, nel sud della Francia. Nel 1789 è membro degli Stati generali (l’organismo di Antico regime dove sedevano i rappresentanti dei tre ordini; lui appartiene alla piccola nobiltà). Dopo la Rivoluzione, nel 1792 è già componente della Convenzione, tra i moderati della cosiddetta “pianura” (la parte inferiore dell’assemblea); dopo una serie di cambi di campo, alla fine si schiera tra coloro che votano la condanna a morte del re. Passati gli anni del “terrore”, si schiera coi vincitori finali di quel sanguinoso scontro politico, i “termidoriani”. Nel 1799 è ministro della giustizia, e dopo il colpo di Stato di brumaio è uno dei tre consoli, accanto a Bonaparte, cui resterà vicino negli anni a venire: arcicancelliere dell’Impero nel 1804, duca di Parma nel 1808, vota in Senato per la deposizione dell’imperatore nel 1814, ma quando poi Napoleone rientra dall’Elba è nuovamente al suo fianco nei “cento giorni”, fino a Waterloo. Morirà a Parigi nel 1824. La sintesi è che, al di là della disinvoltura politica, si rivelerà un giurista particolarmente competente e pronto a modificare efficacemente l’impostazione del suo lavoro di legislatore. Il suo primo progetto di codice civile, durante la Convenzione e in base al lavoro del Comitato di legislazione, è presentato il 9 agosto 1793, corredato da un suo rapport. Gli articoli sono 719, la sistematica romanistica, ma i contenuti decisamente radicali: dall’abolizione della patria potestà al divorzio per semplice domanda di una delle parti, successione praticamente solo legittima, ed equiparazione dei figli naturali riconosciuti (e non adulterini) a quelli legittimi.

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Il clima politico si fa incandescente, inizia il “terrore”, e si propone di revisionare il progetto per purgarlo dalle influenze degli uomini di legge, secondo un pregiudizio antigiurisprudenziale abbastanza tipico di questa fase. Il lavoro di revisione prosegue all’interno del Comitato presieduto da Cambacérès, e vi partecipa anche Philippe Antoine Merlin, nato a Douai nel 1754, protagonista di una carriera politica altrettanto disinvolta; se ne riparlerà per il suo contributo legislativo più importante, il Code de délits et des peines del 1795 33. Il nuovo progetto è presentato a settembre del 1794, poche settimane dopo la caduta di Robespierre, e nel pieno della reazione termidoriana, ma inopinatamente risente della fase radicale appena conclusa. Esplicitamente giusnaturalista, pensato come reazione sia al diritto romano che al diritto consuetudinario, è un «code de la nature» essenziale, privo o quasi di tecnicismi giuridici, fatto di pochi principi di netta ispirazione illuminista e giacobina. Ma Robespierre e Saint Just sono appena stati ghigliottinati, la linea politica dominante è mutata in senso nettamente moderato, e la Convenzione respinge questo testo ritenendolo troppo sommario e lacunoso. Il primo era stato giudicato troppo prolisso, questo troppo breve. Mutato l’assetto istituzionale, dopo la costituzione del 1795, Cambacérès è eletto nel Consiglio dei Cinquecento, e la Sezione civile del Comitato di classificazione delle leggi lavora al nuovo testo: il nostro ne è membro, ancora sulla breccia. Il nuovo testo è presentato ai Cinquecento nel 1796, ancora una volta con un preambolo costituito dal Discours préliminaire in cui – questa volta – diritto romano e consuetudini francesi sono invocate come fonti di riferimento fondamentali. Gli articoli sono ora addirittura 1.104, sempre divisi in tre libri. Vi è un netto arretramento sui temi più sensibili di matrimonio, filiazione e successione, ma il divorzio è mantenuto; centrale – come prima, d’altronde – rimane la proprietà assoluta di stampo borghese. Il materiale era corposo eppure ben scritto, tanto che i redattori del codice del 1804 ne attingeranno a piene mani –, ma al momento pare ancora legato a una visione troppo innovativa della società, quando ad esempio sta prevalendo l’idea di un ritorno ai valori tradizionali della famiglia (e della patria potestà). Il destino di questo terzo progetto Cambacérès, rinviato alla Commissione di classificazione delle leggi, è l’insabbiamento. I Cinquecento provvedono quindi alla formazione di una nuova commissione presieduta da Jean-Ignace-Jacques Jacqueminot, che sostanzialmente riesce a gettare le basi per il nuovo lavoro di progettazione a partire dal 1798. Ma il Direttorio entra in crisi e l’esito sarà il colpo di stato di Bonaparte nel 1799. Un ulteriore progetto di codice civile, probabilmente un’iniziativa privata dell’autore, tocca a Guy Jean Baptiste Target, nato nel 1733, impegnato in politica prima e dopo la Rivoluzione, ha partecipato alla stesura della Dichiarazione

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Infra, in questo stesso paragrafo.

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del 1789 e della Costituzione del 1791 e ha vissuto con estrema difficoltà il periodo del terrore. Il suo progetto è un testo breve, di 272 articoli, in cui si attua una efficace sintesi legislativa. Nel diritto di famiglia la visione è tradizionale, di stampo coutumier, e lo stesso divorzio è ostacolato non poco. Nello stesso 1799 è presentato al Consiglio degli Anziani un progetto di codice delle successioni (244 articoli) di cui è autore l’avvocato digionese Jean Guillemot. Entrambi i tentativi di codificazione non hanno esito formale. Il 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799) la storia europea compie un nuovo scarto che avrà ampie conseguenze sul piano continentale: è il giorno del colpo di stato con cui Napoleone Bonaparte sale sul proscenio politico francese e diventa, sulle spoglie del regime direttoriale e nel giro di poche settimane, primo console. Rimane ancora da dire, per la storia della codificazione di questa fase di passaggio, che proprio nel 1799 presenta infine un ultimo progetto di codice civile il già ricordato Jaqueminot, posto a capo della nuova Commissione legislativa dei Cinquecento insediata in fretta e furia da Bonaparte per lavorare – ancora una volta – al codice civile, avendo a fianco il nuovo ministro della giustizia… Cambacérès. Appare come un progetto incompleto, anche perché la commissione è provvisoria e deve sciogliersi entro il 25 dicembre 1799; si tratta nel complesso di 900 articoli con un preambolo di alcune Idées préliminaires. Appare chiaramente, ancora una volta, una netta scelta di riposizionamento moderato nel campo del diritto di famiglia e rappresenterà in molte parti una fonte diretta per i codificatori del 1800-1804, mettendo Jacqueminot tra i veri e propri artefici del futuro Code civil. Durante la fase del droit intermédiaire, a fronte di un sostanziale nulla di fatto sulla strada della codificazione del diritto civile, si intervenne in profondità sull’ordinamento giudiziario e sul diritto penale. Nel penale in specie, si trattava poi di dare effettiva esecuzione ai precetti di indipendenza del giudiziario dall’esecutivo, che derivavano dalla negativa esperienza dell’Antico regime, durante il quale i detentori della sovranità consideravano la giustizia criminale parte integrante delle proprie prerogative istituzionali, e dal quadro fondamentale tracciato da Montesquieu. Nell’agosto del 1790 fu promulgato un Décret sur l’organisation judiciaire. Quanto in particolare al campo penale, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789 ben undici articoli su diciassette facevano riferimento direttamente o indirettamente al diritto e alla procedura penale, invocando il principio di stretta legalità, l’irretroattività della norma penale, e l’unicità del soggetto di diritto. Tra reato e pena vi doveva essere una effettiva proporzione e in questo ambito generale rientravano poi la richiesta dell’abolizione della pena di morte e della tortura come mezzo di prova, temi al centro del dibattito culturale anche in Francia per la grossa diffusione dell’opera di Beccaria, oltre che di altri riformatori. Avvenne così che durante il droit intermédiaire non furono promul-

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gati che due codici, ma tutti nella stessa disciplina, e cioè i Code pénal del 1791 e del 1795. Il Code pénal (adottato solo per un paio di settimane: dal 25 settembre al 6 ottobre 1791) fu predisposto da Michel Lepeletier de Sain Fargeu (dal che l’intitolazione Code Lepeletier): un testo breve, di 225 articoli diviso in due parti, Delle condanne e Dei crimini e della loro punizione, che viene considerato la prima effettiva concretizzazione dell’Illuminismo giuridico penale in Francia. Le pene erano nel complesso mitigate e grandemente ridotte di numero, e anzi la grande novità era l’uso massiccio della privazione della libertà. Si affermava chiaramente la personalità della pena, e la sua fissità, senza discrezionalità del giudice, il quale, una volta pronunciatosi il giurì, doveva semplicemente dichiarare la sanzione inflitta in base a prescrizioni assolutamente rigide. La pena di morte, nonostante un ampio dibattito, era mantenuta. Quanto alla parte speciale, la divisione è tra Crimini e attentati contro la cosa pubblica e Crimini contro i privati. L’obbiettivo principale era tutelare il nuovo quadro istituzionale, ma anche i cittadini da eventuali abusi; poi comparivano le violazioni ai diritti individuali all’integrità fisica, all’onore, ai beni materiali, le falsificazioni; scomparivano i “delitti immaginari”, quali eresia, sortilegio, lesa maestà, tutti avvertiti come retaggi del Medioevo; si era previsto di punire solo comportamenti che effettivamente danneggiassero la società. Vi erano poi le contravvenzioni, che furono tipizzate, insieme alla relativa procedura di repressione, con una legge a parte. Alla giustizia correzionale spettava invece reprimere, a mezzo tra crimini e contravvenzioni, i delitti (comportamenti contro i costumi, omicidi colposi, oltraggi, insulti e violenze alla persona, attentati alla proprietà, furti semplici, truffe, ecc.). Ognuna delle tre categorie di reato aveva specifiche modalità e luoghi di esecuzione della pena; si generava quel modello tripartito – diverso da quello bipartito, che si è già visto realizzato nel codice penale austriaco del 1787 – che caratterizzerà la via francese alla codificazione penalistica dell’Ottocento. Nella fase della dittatura rivoluzionaria, del “terrore” tra il 1793 e il 1794, la giustizia venne in realtà ridotta sotto il controllo del potere politico (meglio: dei due comitati formati in assemblea, quello “di sicurezza generale” prima e soprattutto quello “di salute pubblica” poi, cui fu attribuito in seguito il potere esecutivo), con una netta soppressione delle garanzie individuali e un notevole aumento di detenuti politici accusati di essere controrivoluzionari e, se del caso, passati sotto la lama della ghigliottina. La “giustizia rivoluzionaria” si sviluppò attraverso una lunga serie di misure di eccezione, anche in campo processuale, fino alla costituzione del Tribunale rivoluzionario di Parigi, con membri nominati dalla Convenzione. Dopo la nuova costituzione dell’anno III (1795) – chiuso il “terrore” – si ritornò ai princìpi originari della Rivoluzione e nel 1795 venne promulgato un Code des délits et des peines, che interveniva prevalentemente sulla materia procedurale e di cui fu autore l’avvocato Philippe-Antoine Merlin (dal che l’inti-

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tolazione Code Merlin). Merlin (nato a Douai nel 1754), membro della Convenzione, si era schierato coi termidoriani, che infine avevano prevalso; in seguito sarà prima ministro della giustizia, poi componente del Direttorio e nel 1804 – nominato da Napoleone – Procuratore generale imperiale 34. Nel testo vengono riaffermati i principi originari del diritto penale della Rivoluzione del 1789, quali irretroattività e legalità, anche se ormai ci si sta allontanando dalla prospettiva illuministica della legislazione del 1791. Auspicando il ritorno al «regno della legge», Merlin insiste sulla necessità di reprimere l’anarchia e di «garantire in modo veramente efficace la sicurezza delle persone e della proprietà, (…) e di dare alla polizia e alla giustizia tutta l’energia, tutta la forza possibile» 35. Nel frattempo, anche sull’onda emotiva provocata dalle sistematiche esecuzioni comminate dal Tribunale rivoluzionario, si era tornato a dibattere di pena di morte, ma le critiche alla «mitezza delle pene», che animava il codice del 1791, si infittirono: nel 1796 il crimine tentato è equiparato a quello consumato e sono estese le figure di reato cui comminare la pena capitale. Le condizioni dei detenuti sono pesantissime e in genere i principi della Dichiarazione dei diritti del 1789 (e del Code Lepeletier) sono in gran parte disattesi per i gravi problemi di ordine pubblico e in genere per quelli politici del regime direttoriale prima e consolare poi. Si prefigura, e si prepara, l’involuzione decisa che verrà a determinarsi nella fase imperiale col codice penale del 1810. Lo si vedrà in seguito, mentre ora conviene tornare al diritto civile, perché anche per quell’ambito del diritto è il momento del codice.

10. Il Code civil des Français Il regime direttoriale si era rivelato molto instabile, costretto anche a successivi colpi di mano per arginare l’opposizione parlamentare. Il 9 novembre 1799 (18 brumaio VIII) si attua il colpo di Stato bonapartista e con la Costituzione dell’anno VIII (13 dicembre 1799) l’esecutivo è affidato ai tre consoli, primo dei quali è Bonaparte (sua l’iniziativa delle leggi e la loro promulgazione), secondo Cambacérès (se ne è già ampiamente detto e se ne dirà ancora), terzo CharlesFrançois Lebrun (in seguito arcitesoriere dell’Impero). Con la Costituzione dell’anno X (4 agosto 1802) Bonaparte diventa console a vita e con la Costitu34 Ebbe un ruolo molto importante, e innovativo, nel campo dell’editoria giuridica comprando i diritti e aggiornando l’enciclopedico e ricchissimo Répertoire universel et raisonné de Jurisprudence (in 17 volumi), nonché predisponendo il più agile Recueil alphabétique des questions de droit (in 6 volumi), opere che – nella loro diversità – costituiranno almeno per tutto l’Ottocento un riferimento bibliografico fondamentale per gli operatori del diritto europei. 35 Così Merlin, citato in S. Solimano, Verso il Code Napoléon. Il progetto di codice civile di Guy Jean-Baptiste Target (1798-1799), Giuffrè, Milano 1998, p. 39.

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zione dell’anno XII (18 maggio 1804) si stabilisce al primo articolo che «il governo della Repubblica è affidato a un Imperatore, che prende il titolo di Imperatore dei Francesi. La giustizia è resa a nome dell’Imperatore, dai pubblici ufficiali che egli istituisce»; al secondo si specifica che «Napoleone Bonaparte, attuale primo Console della Repubblica, è Imperatore dei francesi». Questo, per via telegrafica, è il contesto che consentirà nel giro di sette anni di fornire la Francia di codici in ogni ambito giuridico (diritto civile nel 1804, procedura civile nel 1806, diritto commerciale nel 1807, procedura penale nel 1808, penale sostanziale nel 1810). Nel 1800, in una situazione politica ormai in via di stabilizzazione verso un governo fortemente accentrato, Bonaparte nomina una commissione per la redazione del codice civile, intuendo subito il prestigio e la gloria che ne deriverebbero, rafforzando ulteriormente la sua posizione politica. Negli anni successivi la congiuntura si rivelerà ulteriormente favorevole (col Concordato del 1801, la stabilizzazione economico-finanziaria, l’acquietarsi delle dispute politiche in seno alle assemblee), anche per un generale riallineamento intorno al primo console del ceto borghese e dunque del complesso dei giuristi (tutti pratici, in buona sostanza), che proprio a favore della borghesia svolgono la funzione di operatori del diritto. I membri della commissione nominata da Bonaparte sono giuristi già attivi e affermati durante l’Antico regime, che avevano partecipato alla fase rivoluzionaria in prevalenza su posizioni filomonarchiche, ed erano caduti in disgrazia durante il “terrore”. Avevano tutti esperienza politica in virtù della partecipazione alle varie assemblee politiche, conoscevano il diritto previgente, sia quello consuetudinario francese che quello romano, erano dei moderati, poco inclini a trasformazioni radicali dell’ordinamento giuridico. Tra essi spicca nettamente Jean-Étienne Portalis, provenzale (nasce a Le Beausset nel 1746), dunque anch’egli come Cambacérès proveniente dal sud della Francia, dove ha fatto l’avvocato. Arrestato per il suo moderatismo durante il “terrore”, incomincia come membro degli Anziani la sua carriera politica in seguito alla caduta di Robespierre. Dopo il colpo di Stato del 18 fruttidoro V, accusato di collegamenti con gli “emigrati”, tra il 1797 e il 1799 era stato esule in Svizzera e in Germania; aveva studiato Kant e aveva composto il celeberrimo De l’usage e de l’abus de l’esprit philosophique au XVIIIe siècle, dove aveva criticato sia l’Antico regime che gli eccessi del giacobinismo, avendo per prospettiva un liberalismo moderato molto in sintonia con la linea politica che perseguirà Bonaparte. E difatti rientrò in Francia proprio dopo il colpo di Stato di Bonaparte del 18 brumaio e gli fu subito affidata la stipula del Concordato tra Stato e Santa sede, che si perfezionò nel 1801. Gli altri componenti della commissione per la codificazione erano François-Denis Tronchet (1726-1806), Felix-JulienJean Bigot de Préameneu (1747-1825), Jacques Maleville (1741-1824, segretario della commissione e autore tra il resto di un’utile Analyse raisonée de la discussion du Code civil au Conseil d’Etat, 1804-1805).

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Il presupposto del lavoro della commissione è chiaramente espresso nel Discours préliminaire, firmato dalla commissione ma in realtà stilato da Portalis, anteposto al progetto che sarà infine completato e dato alle stampe all’inizio del 1801. La codificazione, vi si dice, non si poteva realizzare in Antico regime, quando «la Francia non era che una società di società», né durante la Rivoluzione, quando le leggi erano «ostili, parziali, eversive». Solo oggi, si conclude, «la Francia respira». Il procedimento legislativo adottato presenta scansioni ben identificabili, che lo rendono trasparente, facilmente leggibile nelle dinamiche che portano alla stesura definitiva del testo codificato. Il progetto della commissione governativa è licenziato nel 1801, stampato e trasmesso alla Corte di Cassazione e ai vari tribunali per le opportune osservazioni. Esse vanno a costituire un corpus molto ampio e denso, tanto da essere messe a stampa in dieci volumi. Progetto e osservazioni passano alla sezione di legislazione del Consiglio di Stato, fondamentale organo di consulenza ed elaborazione normativa, diviso in sezioni che rispecchiano le varie branche dell’amministrazione pubblica, e composto dai migliori esperti nelle singole materie, scelti da Bonaparte anche secondo criteri di rappresentanza territoriale. La sezione elabora ed emenda il progetto, per poi rinviarlo al capo del governo, che a sua volta lo restituisce al Consiglio di Stato convocato a sezioni riunite e presieduto dal capo del governo; il Consiglio, dopo aver sentito un membro di sezione che legge il progetto e lo illustra, ne discute i vari articoli. Successivamente alla fase di iniziativa legislativa del governo, e via via che il lavoro procede, il progetto di legge passa dal Consiglio di Stato al Tribunato, che lo discute e può emettere un visto di approvazione o di rigetto. Il Tribunato sarebbe stato abolito nel 1807 e le sue competenze sarebbero passate a delle commissioni formate all’interno del Corpo legislativo. Il testo passa dunque all’esame dell’altra assemblea, appunto il Corpo legislativo, dove si svolge un contraddittorio tra oratori del Governo (cioè un rappresentante del Consiglio di Stato) e oratori del Tribunato, dopodiché, senza ulteriore discussione, il Corpo legislativo vota. Vi fu un dibattito molto vasto, che il primo console cercò di controllare in ogni suo momento (forte anche la presenza di Cambacérès), intervenendo in prima persona quando la discussione toccava punti particolarmente qualificanti (ad esempio il divorzio). Il Consiglio di Stato intervenne profondamente sul progetto, mentre il Tribunato – che rivendicava la possibilità di criticare il progetto in approvazione – a un certo punto venne ridotto a più miti consigli. Le singole parti, una volta approvate, venivano promulgate in leggi distinte, le quali vennero infine fuse assieme con la legge del 21 marzo 1804 (che riuniva le trentasei anteriori emanate tra il 1803 e il 1804). Con la stessa legge si stabiliva l’abrogazione di tutto l’ancien droit nelle materie trattate dal code: coutumes, ordonnances e diritto romano cessavano di avere qualsiasi vigenza, anche solo suppletiva (come invece a suo tempo era stato previsto nelle grandes ordonnan-

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ces di Luigi XIV). L’ art. 7 dichiarava infatti, senza esitazioni, che «a datare dal giorno in cui il Codice Napoleone sarà posto in attività, le leggi romane, le ordinanze, consuetudini generali o locali, gli statuti o regolamenti cesseranno di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che formano oggetto delle disposizioni contenute nel Codice civile».

Questo passaggio merita una sottolineatura davvero speciale. Esso costituisce infatti una frattura profondissima nella storia giuridica europea, l’interruzione di un percorso millenario nella costruzione del sistema delle fonti normative. Il sistema del diritto comune cessava di esistere, in Francia, certo, ma la prospettiva sarà quella di una trasformazione radicale dell’ordinamento giuridico in tutta l’Europa continentale. Si crea con ciò un modello che caratterizzerà non soltanto l’Europa, ma anche, in seguito, vastissime aree extraeuropee, dominando pressoché incontrastato i due secoli che ci precedono. Nasce il modello di codice otto-novecentesco. Al momento era il primo codice europeo a fare tabula rasa delle tradizionali fonti del diritto a favore della legge dello Stato e a imporre in modo inequivoco e completo l’unificazione del soggetto di diritto. Era il Code civil des Français, che dopo l’incoronazione imperiale sarebbe stato identificato ufficialmente come Code Napoléon. Vediamone sinteticamente struttura e contenuto. Si trattava di leggi separate, riunite in un unico corpo, ma in realtà l’insieme – secondo una numerazione continua di articoli successivi – era coordinato e compatto, in base a una sistematica che rimarrà anche nelle esperienze codicistiche di diritto civile successive. Il codice è diviso in tre libri, preceduti da un titolo preliminare Della pubblicazione, degli effetti e dell’applicazione delle leggi in generale di soli sei, ma fondamentali, articoli. In realtà anche la codificazione napoleonica ci appare – e lo era esplicitamente – comunque legata alla tradizione romanistica: lo schema delle istituzioni gaiane era articolato in personae, res, actiones e i tre libri del Code sono rispettivamente intitolati Le persone; I beni e le differenti modificazioni della proprietà; I differenti modi con cui si acquista la proprietà. Nel primo libro si collocano le norme sullo stato civile e sul relativo registro, che diventa ora cura diretta dello Stato. Ma vi trova soprattutto posto il diritto di famiglia, la cui disciplina è per altro presente, nei suoi profili patrimoniali, anche nel libro III. La famiglia, «la più naturale delle società», è la pietra angolare dell’intera nazione francese (anche secondo una visione familistica che Bonaparte porta con sé da quell’Europa meridionale che gli ha dato i natali). Ciò posto, è naturale che in questo settore, pur tradizionalmente appannaggio della Chiesa cattolica e del diritto canonico, lo Stato rivendichi una propria competenza esclusiva ad intervenire normativamente e a presidiare con la propria struttura amministrativa.

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È in particolare fissata dunque la disciplina del matrimonio, secondo una linea di netta laicizzazione che si era già delineata dopo il 1789 e su cui non si defletteva nemmeno ora, pur in una fase di generale ripiegamento moderato (per giunta in presenza di un concordato col Papa). Dunque il matrimonio del codice è confermato nella sua qualità di contratto di diritto civile; ma allo stesso tempo è configurato come contratto solenne, richiedente particolari requisiti di forma. Il matrimonio religioso, se eventualmente celebrato, può solo seguire quello civile. L’età per poter prestare il proprio consenso a questo contratto è innalzata a 15 (femmine) e 18 anni (maschi), e se pure la maggiore età si raggiunge a 21 anni, il consenso parentale è necessario fino a 21 e 25 anni (essendo comunque prevalente quello del padre, in caso di contrasto tra genitori). Ancora fino a 25 e 30 anni per atti di particolare importanza è necessario chiedere il parere dei genitori. Registriamo in sostanza un prepotente ritorno della patria potestà. Tutto ciò è indice della visione gerarchica della società impressa da Bonaparte e connotante in particolare i rapporti famigliari. Si ristabilisce emblematicamente la funzione preminente del marito; la società coniugale non può infatti reggersi, si ritiene, se uno dei due coniugi non sia gerarchicamente sottoposto all’altro e così l’art 213 detta che «il marito deve protezione alla moglie ed essa obbedienza al marito». La donna sposata deve avere per domicilio quello del marito e ha bisogno del suo consenso per stare in giudizio, per acquistare o alienare beni (in caso di diniego, può intervenire il giudice); deve adempiere ai doveri coniugali e, in caso contrario, il marito ha modo di ricorrere alla forza pubblica. I redattori del Code accentuarono anzi l’incapacità della donna nella gestione del patrimonio famigliare, affidata esclusivamente al marito. Fatto un consuntivo, tutta una serie di incapacità della moglie erano conosciute in precedenza solo nei paesi del Midi, e dunque la condizione giuridica delle mogli del centronord andarono a peggiorare. D’altra parte va valutato come dal Midi provenisse Portalis, ma anche il potente Cambacérès, e come infine Bonaparte fosse, non “francese”, bensì corso… Ma al di là del suo tradizionalismo mediterraneo in campo famigliare, è noto l’interesse personale del primo console per la legislazione sullo scioglimento del vincolo matrimoniale; era prevalso il desiderio di divorziare da Giuseppina per potersi costruire una discendenza dinastica con un’altra donna (che, guarda caso, sarà una Asburgo). Il divorzio, pur confermato e anzi ritenuto un punto qualificante del nuovo diritto civile francese, fu però ammesso in modo meno ampio rispetto al diritto intermedio e rispetto ai progetti precedenti di codice civile. Anche in seguito lo stesso imperatore lo avrebbe rivendicato come elemento qualificante di tutta la sua opera codificatrice, al di là degli interessi personali, proprio come affermazione di laicità dello Stato. Secondo il dettato del codice per il divorzio non è più sufficiente l’incompatibilità di carattere, né la pazzia; è ancora ammesso per consenso comune e con la prova (anche con riscontro testimoniale) che la vita in comune si sia rivelata insopportabile. Le cause specifi-

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che sono gli eccessi, le sevizie e le ingiurie; lo è anche l’adulterio della donna, mentre quello del marito è causa di divorzio solo se comporta pubblico scandalo, in particolare quando la concubina è portata presso la dimora coniugale. Per quanto riguarda la filiazione, maschi e femmine vengono equiparati, e diritti vengono concessi anche ai figli naturali. Questi ultimi, se pure hanno diritti alimentari e patrimoniali, non possono partecipare alla vita famigliare, ridotti dunque – come ebbe ad esprimersi Bigot – al rango di «odiosi creditori», un rischio permanente per l’unità della famiglia. Possono ottenere il riconoscimento volontario della filiazione (salvo che in caso di adulterio e incesto), ma la ricerca della paternità è espressamente vietata, mentre è ammessa quella della maternità. L’obbiettivo era quello di proteggere i giovani maschi delle famiglie più agiate da eventuali paternità antecedenti al matrimonio. In genere si registra una riduzione, anche se non eliminazione totale, della disparità uomo-donna (e fatte salve le ineguaglianze in ambito matrimoniale). Quanto all’adozione, rispetto alla fase rivoluzionaria la prospettiva cambia nettamente. È un’adozione tra maggiorenni e non comporta tutti gli effetti della filiazione: non comporta in particolare patria potestà. Della puissance paternelle (la patria potestà), scomparsa dalla legislazione della fase rivoluzionaria e ricomparsa nel codice, modellata sulla patria potestas di diritto romano, si è in sostanza già detto; essa si delinea in particolare come un potere di correzione del padre, anche tramite la messa in arresto. Sulla regolamentazione della vita famigliare rileva anche il III libro, che raccoglie pure la normativa in materia successoria. Il legislatore qui tipicamente tenta un compromesso tra il diritto romano del Midi e il droit coutumier, mantenendo fede all’impostazione egualitaria del diritto intermedio e dunque equiparando maschi e femmine, rifiutando un istituto tipico dell’Antico regime quale il fedecommesso ed escludendo la possibilità di diseredare completamente. Rispetto alla normativa antecedente vi è però una maggiore libertà di disporre per testamento. Altro tema cruciale, per la complessità delle tradizioni locali, è il regime patrimoniale del matrimonio, che qui trova collocazione in quanto appunto contratto di diritto civile; è il titolo V Dei contratti di matrimonio e dei rispettivi diritti dei coniugi, composto da ben 194 articoli. Anche dopo la Rivoluzione in questo campo erano rimaste in vigore le singole coutumes locali, salvo diverso contratto tra le parti. Adesso si propone un regime legale, la comunione, che implica la coesistenza di tre patrimoni, quello del marito, quello della moglie e quello comune, derivante – quest’ultimo – dai redditi degli sposi (come i salari), dal godimento dei loro beni personali, dagli acquisti compiuti durante il matrimonio, dai beni mobili di cui gli sposi erano proprietari anche prima del matrimonio e da quelli acquistati dopo; appartengono dunque ai patrimoni individuali gli immobili e i beni ricevuti in successione. Sono poi ammesse delle comunioni convenzionali – otto –, che riportano per lo più alle diverse coutumes; l’amministrazione della comunione è attribuita al marito.

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Era ancora possibile scegliere il regime dotale, secondo una disciplina che si rifaceva al diritto romano. La dote era stata inserita nel Code, seppure come regime convenzionale, proprio per la spinta in questo senso di Portalis e di Cambacérès, ma anche degli organi giudicanti del sud. Come da tradizione, i beni dotali erano sottoposti all’amministrazione del solo marito, mentre quelli parafernali, con il correttivo dell’autorizzazione maritale per la vendita e la comparizione in giudizio, erano sottoposti all’amministrazione e oggetto di godimento da parte della moglie. La sua adozione nella Francia meridionale andrà via via attenuandosi, mentre rimarrà forte in Italia, anche dopo l’Unità. Era poi possibile scegliere un regime di separazione: la donna aveva diritto di amministrare i propri beni, ma di norma ne dava la gestione al marito. Rimaneva comunque il divieto di riferirsi convenzionalmente in maniera generica a «leggi, statuti e consuetudini» precedenti, mantenendo dunque un argine netto contro il ritorno alle antiche tradizioni giuridiche e, in sostanza, all’eterointegrazione della normativa codificata. Proprio il diritto di famiglia sarebbe stato uno dei temi più controversi nella fase di applicazione del codice civile francese in Italia, soprattutto a causa della forte influenza sociale, culturale e politica della Chiesa cattolica. Non solo il divorzio, ma lo stesso matrimonio civile era fortemente avversato, nonché la comunione dei beni e l’equiparazione dei figli in sede successoria. D’altra parte le vicende dell’introduzione del divorzio nel Regno di Napoli e Sicilia sono emblematiche – vi era stata l’inutile opposizione sia di Giuseppe Bonaparte che di Gioacchino Murat –, ma ci restituiscono anche l’immagine di un Napoleone deciso ad imporre ad ogni costo tale istituto nella penisola italiana 36. Il secondo libro del Code civil riguarda la proprietà e i beni. Si sottolinea normalmente come il Code sia il codice della proprietà borghese, e la sua disciplina – una conquista che viene dalla Rivoluzione – prevede in effetti per chiunque la possibilità di acquisire in pratica la proprietà di qualsiasi bene. Si delinea un diritto di proprietà pieno e assoluto, a fronte di una lunga tradizione giuridica dove l’idea di proprietà non era unitaria, e si parlava di dominio diviso, nel senso che su un medesimo bene vantavano diritti più soggetti che ne potevano godere ognuno via via in modi diversi. L’art. 544 recita che «la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti». Il diritto di godere corrispondeva all’ususfructus della tradizione romanistica e medievale; il diritto di disporre era l’esercizio di quella libertà prevista dall’art. 537, secondo il quale «i privati hanno la libera disponibilità dei beni che gli ap36 «Preferirei – scrive Napoleone a Murat, che aveva esteso l’applicazione del Code al Regno, sospendendone però la parte dedicata al divorzio – che Napoli ritornasse all’antico Re di Sicilia piuttosto che lasciar mutilare in tal modo il Code Napoléon».

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partengono, con le modificazioni stabilite dalla legge». Inizialmente si era parlato semplicemente di «proprietà piena», ma alla fine era prevalsa in Consiglio di Stato l’idea di sottolineare il modo in cui la proprietà era esercitata 37. Alla fine, quella dell’art. 544 è una definizione minimale, che non dà conto dell’ampio dibattito che vi era stato sulla natura intrinseca della proprietà, ma forse anche per questo sarà il modello delle codificazioni successive. Ancora oggi l’art. 832 del Codice civile italiano vigente recita che «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico», e dunque applichiamo alla proprietà una definizione che costituisce in concreto la traduzione quasi letterale della norma francese, a distanza di quasi due secoli. Casomai è stata la nostra Costituzione repubblicana a precisare lo statuto della proprietà, richiamando all’art. 42 la necessità che la legge provveda «ad assicurarne la funzione sociale» e a «renderla accessibile a tutti». Il contenuto del diritto però rimane sostanzialmente identico a quello del Code Napoléon. Il terzo libro del Code civil ha una composizione più eterogenea del precedente e raccoglie la disciplina circa «le diverse maniere tramite le quali si acquista la proprietà», cioè la materia successoria (di cui si è già detto), quella obbligatoria e quella contrattuale. Quanto alle obbligazioni, viene affermato che «le convenzioni legalmente formate hanno forza di legge fra le parti» (art. 1134), con pieno riconoscimento della volontà contrattuale che fra loro si è creata. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un tipico portato della rivoluzione francese, dell’individualismo borghese: l’affermazione della piena autonomia privata in campo contrattuale. Molti contratti vengono disciplinati e quindi tipizzati, ma si prevede allo stesso modo la possibilità che le parti costituiscano contratti atipici, o aggiungano clausole non previste a schemi contrattuali già identificati dal Code. Non solo, si sancisce anche il principio dell’efficacia reale del contratto, statuendo che «l’obbligazione di consegnare la cosa è perfetta col solo consenso delle parti». La proprietà si trasferisce – va sottolineato – col solo consenso espresso dalle parti e non è più necessaria la traditio di matrice romanistica. All’art. 1108 si era per altro già specificato quali fossero i requisiti essenziali del contratto: il consenso di chi si obbliga, la capacità contrattuale, l’oggetto determinato, una causa lecita. Visto nel complesso, si tratta dunque di un codice di molti articoli (ben 2281), per altro assai dettagliati, non certo di una legislazione per principii. Eppure si rivelò duttile, capace di adattarsi a fasi successive e dunque di diventare quel monumento, a perenne gloria, che il suo artefice aveva previsto.

37

Cfr. infra, cap. VII, § 12.

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11. Codificazione e interpretazione L’interprete del Code civil, di un testo cioè così ampio e dettagliato, doveva necessariamente avere un mero compito ricognitivo della norma codificata? Avendo particolare riguardo ai problemi dell’interpretazione del Code, va tenuto conto di due fonti importanti. Innanzi tutto il Discorso preliminare, con cui la commissione del 1800-1801 – Portalis in particolare, che ne è l’estensore – aveva presentato il proprio progetto, un testo di chiara impronta giusnaturalistica. Seconda fonte è il Libro preliminare del progetto stesso, un articolato di “preleggi” poi non adottato nella versione definitiva del codice, perché ritenuto un testo di taglio dottrinale, non coerente con l’impronta strettamente imperativa che quel testo avrebbe dovuto avere. Il Libro preliminare – va ripetuto: non adottato nella versione definitiva del codice civile francese – è composto di ben 39 articoli divisi in 6 titoli. Nel titolo V, Della applicazione e interpretazione delle leggi, l’art. 11 recita espressamente che «Nelle materie civili il giudice, in mancanza di una legge precisa, è ministro di equità. L’equità è il ritorno alla legge naturale o agli usi presi in considerazione in assenza di legge positiva».

Era una straordinaria possibilità dell’interprete, che manteneva tra i suoi strumenti di lavoro il diritto naturale, grande riferimento della scienza giuridica riformistica del Settecento. Del progettato libro preliminare del codice civile francese sarebbe però rimasto solo il ben più modesto Titolo preliminare in 6 articoli dedicati alla «pubblicazione, effetti e applicazione della legge in generale». Sarebbe in particolare sopravvissuta la norma poi destinata a diventare il capitale art. 4: «Se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di negata giustizia».

Certo senza il presupposto fondamentale dell’art. 11, che alla fine era stato completamente espunto, il significato di questo articolo mutava. Nella mente dei codificatori francesi – quelli della commissione Portalis – il rilievo alla «legge naturale» era stato, dunque, inizialmente molto netto e, se mantenuto, avrebbe profondamente condizionato l’intero impianto codicistico. L’idea iniziale di Portalis, secondo cui al giudice andava attribuito un ampio margine d’azione (attraverso l’uso dell’equità), era stata successivamente assai ridimensionata, innanzi tutto non adottando proprio il Libro preliminare al codice. Il problema centrale era appunto quello della corretta collocazione ed interpretazione dell’art. 4. Alla fine si erano voluti evitare gli effetti perniciosi dell’interpretazione autentica, costringendo il giudice a decidere, privato della possibilità di dichiarare presente una lacuna, ma allo stesso modo nella impossi-

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bilità – alla luce del più essenziale Titolo preliminare – di utilizzare equità e diritto naturale. A sua volta il già ricordato art. 7 della legge del 30 ventoso XII (21 marzo 1804), che riuniva le trentasei leggi promulgate tra il 14 ventoso XI e il 24 ventoso XII e abrogava in blocco il diritto comune e gli altri diritti preesistenti, aveva assunto questa forma dopo un dibattito acceso e dagli esiti incerti fino alla sua conclusione. È stato detto che l’interpretazione poi divenuta comune dell’art. 4 – e che impose il «dogma della completezza dell’ordinamento giuridico», vincolando il giudice all’obbligo di risolvere qualsiasi caso in base al diritto positivo 38 – fu opera dei primi commentatori e in genere della scuola dell’esegesi, della quale costituì anzi principio ispiratore primissimo. Il presupposto di Portalis – nelle pagine del già ricordato Discorso preliminare, anteposto come prefazione illustrativa al testo del codice civile del 1801 – era al contrario l’impossibilità dichiarata di prevedere tutti i casi secondo un atteggiamento sostanzialmente giustificazionista della tradizionale propensione dei giuristi ad indulgere al lavoro interpretativo: «ciò comporta compilazioni, raccolte, trattati e molti volumi di ricerche e dissertazioni», ed era in sostanza obbligatorio prendere atto che «il legislatore è limitato, la natura infinita» come aveva scritto il giurista provenzale. Non va ritenuto arbitrario, in questa sede, il richiamo al “fantasma” del Livre préliminaire, il quale, anche senza essere stato adottato legislativamente, in qualche misura condizionò la cultura giuridica (di area) francese come una sorta di “sottointeso normativo”. Già nella fase immediatamente successiva alla promulgazione del Code civil, un grande giurista come Charles B.M. Toullier (1752-1835) riconosce che le regole in tema di interpretazione, rispetto al poco che offre il codice, vadano ricercate negli autori che si sono occupati di diritto naturale come Pufendorf, Thomasius, Heineccius, ma anche in quelli che hanno commentato il titolo de legibus del Digesto. Andrebbe poi volto lo sguardo soprattutto alle norme ricavate dal Libro preliminare, che Portalis aveva posto all’inizio del progetto del 1801 «e che malgrado la sua utilità e la riconosciuta giustezza delle sue massime, fu soppresso»; Toullier riporta dunque il testo degli articoli 4-10 del titolo quinto del libro preliminare 39. Ma al di là di tutto questo, dopo la codificazione si sarebbe imposta comunque una linea interpretativa radicalmente legicentrica, e certo non propensa a tenere conto, ad esempio, del diritto naturale (d’altra parte escluso dai piani di studio delle facoltà giuridiche francesi, mentre altrove invece fioriva). È così av-

38

M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, cit., p. 145. C.-B.-M. Toullier, Le droit civil français suivant l’ordre du Code, nouv. ed., Soc. typ. Belg, Bruxelles 1837, tome I, p. 34 (titre préliminaire, section X). 39

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venuto che a partire dagli inizi del Novecento la storiografia abbia individuato una “scuola dell’esegesi” 40. Sì è inteso “esegesi” in senso deteriore, intendendo insomma un metodo di pura (e sostanzialmente ottusa) interpretazione letterale, senza alcuno sforzo di originalità o senza un minimo ripensamento sistematico della materia normativa; il diritto del codice preso per quello che precisamente è, semplicemente parafrasato o poco più. Verificare meglio questa visione è un problema di storiografia giuridica importante, che aiuta a comprendere non solo la storia della dottrina giuridica europea ottocentesca, ma in definitiva anche i profili contemporanei della scienza del diritto. Infatti in gran parte il metodo di lavoro del giurista di oggi è determinato da linee metodologiche che si elaborarono lungo il XIX secolo. I presupposti sono stati già ampiamente illustrati: la codificazione (legge esclusiva per la materia trattata) e una legislazione universitaria che di fatto incanalava la scienza giuridica verso l’ordine del codice, ordine didattico (oltre che ovviamente legislativo e dunque scientifico). Allora, per avere un quadro sintetico, ma efficace, per l’inizio Ottocento basti dire che scuola dell’esegesi designa semplicemente quell’insieme di civilisti, prevalentemente francesi e belgi, che insegnarono il Codice Napoleone con la tecnica del commento articolo per articolo. L’opera di questi giuristi – frutto diretto dell’attività didattica, e dunque condizionato dalle norme previste per gli insegnamenti universitari giuridici – consisteva essenzialmente nella spiegazione e interpretazione del Codice Napoleone, seguendo l’ordine delle materie in esso esposte (come prescriveva la norma del 22 ventoso anno XII per lo svolgimento dell’insegnamento civilistico universitario: «secondo l’ordine stabilito dal codice»). Normalmente si seguiva la successione stessa degli articoli, e in questo caso si aveva più propriamente il “commentario”. Quando si seguiva l’ordine dei titoli del Code, ma non quello degli articoli, si considerava che l’opera fosse vicina al genere “trattato”, il genere più proprio della scuola dogmatica. Si realizzavano poi opere dove più esplicito era il fine didattico: erano i “principi” o gli “elementi”, opera più sintetica, mancando annotazioni storiche o comparative. In casi di dubbio o di contraddizione si ricorreva, con prudenza, a una spiegazione che faceva riferimento alle intenzioni del legislatore storico (e non invece alla “volontà astratta della legge” né allo “spirito delle leggi”): dunque si utilizzavano i lavori preparatori e si praticava la tecnica del così detto “combinato disposto”. Insomma, si cercava di allontanarsi meno possibile dal testo di legge o quantomeno di non allontanarsi dal legislatore. A differenza delle correnti dogmatiche, si utilizza molto la casistica tratta dalla giurisprudenza; era peraltro negato valore di precedente vincolante ad una

40

L’etichetta è stata diffusa da J. Bonnecase, L’École de l’Exégèse en droit civil, De Boccard, Paris, 1919 e 1924.

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data tendenza giurisprudenziale. La sentenza serviva a livello descrittivo, come applicazione piena del dettato di legge; poi, però, gli esponenti della “scuola dell’esegesi” diedero sempre maggior rilievo agli indirizzi consolidati dalla Cassazione. Va considerato infatti che molti esponenti di questa scuola, o comunque personaggi formatisi in università dominate dal metodo esegetico, entrarono via via a far parte della corte di Cassazione stessa. La scuola dell’esegesi – per comodità si continua ad utilizzare questa etichetta, senza dubbio riduttiva – nasce in seguito alla codificazione francese di diritto civile. I codificatori avevano risolto conflitti di opinioni e di interessi in accordo con la classe borghese e avevano finalmente dato un diritto unico a tutta la nazione francese. Il ceto giuridico che insegnava il diritto civile nelle università era pienamente in linea con queste scelte di politica legislativa; si era riunito, in sintonia col ceto borghese – che in definitiva rappresentava –, intorno all’Imperatore dei francesi. Poi agiva la forza di norma di chiusura dell’art. 4 cod. civ., che appariva, oltre al resto, come la chiara adesione all’indiscutibile schema ordinamentale elaborato da Montesquieu: il giudice doveva semplicemente essere “bocca della legge”, adeguarsi cioè alla volontà del legislatore. Si attuò quello che Paolo Grossi – evidenziandone limiti e contraddizioni – ha indicato come “assolutismo giuridico”. La conseguenza era che il diritto non fosse visto come un processo evolutivo, esattamente il contrario di quanto avrebbero sostenuto i seguaci della scuola storica 41. Il giusnaturalismo settecentesco e illuministico si era risolto nel codice, il diritto naturale era stato positivizzato nel complesso delle sue disposizioni ed era divenuto un diritto positivo completo. Per secoli il giurista aveva avuto il compito di interpretare il patrimonio giuridico di derivazione romanistica contenuto in un serbatoio sapienziale abbastanza malleabile come il Corpus iuris civilis; il suo ruolo era stato via via eroso lungo il XVIII secolo, e in particolare negli ultimi decenni del Settecento. Ma fu la codificazione napoleonica ad avere conseguenze di una portata assolutamente rivoluzionaria. La codificazione di inizio Ottocento segnò la fine di un percorso scientifico plurisecolare.

12. Gli altri codici del periodo napoleonico Dopo la promulgazione dell’Ordonnance du commerce, tra il 1778 e il 1782 operò in campo commercialistico una commissione di riforma coordinata dal ministro di Luigi XV Miromesnil, che elaborò un progetto con novità significative su cambiale, fallimento, bancarotta e giurisdizioni commerciali. Il progetto fu inviato al Parlement di Parigi, dove però si insabbiò. Nei Cahiers de doléances

41

Si veda infra, cap. VII, § 5.

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del 1789 si fa riferimento alla libertà di commercio e alla repressione della bancarotta e si accenna ad un Code de commerce come mezzo di riforma di questo ramo del diritto. Durante il Consolato, il lavoro sul diritto commerciale è riavviato ad opera del ministro dell’interno Chaptal; quindi, nel 1801, viene nominata una commissione presieduta da Joseph Gorneau e incaricata di redigere un progetto di Code de commerce. Pubblicato dopo poco, questo primo progetto si basava sull’Ordonnance del 1673, sull’Ordonnance de la Marine del 1681 e su altre leggi successive. Il progetto elaborato nel 1801 dalla Commissione non era comunque privo di linee normative elaborate in proprio. I quattro libri sono dedicati al commercio in generale, al commercio marittimo, al fallimento e ai tribunali di commercio. Per la prima volta era disciplinata la società per azioni; nuove erano le norme in tema di fallimento e la competenza al riguardo era affidata sì ai tribunali mercantili, ma risultava fondata sulla natura degli atti e non sulla qualità soggettiva dell’operatore. Era nel complesso un crinale di portata storica: si passava cioè da una visione soggettiva, che aveva ispirato per secoli in particolare lo ius mercatorum europeo mediterraneo, a una visione oggettiva. Il diritto commerciale si applicava ora agli atti di commercio da chiunque compiuti, e anche se compiuti occasionalmente. Si trattava cioè di dare conseguenza, nel campo del diritto commerciale, al generale rifiuto di una società organizzata in senso corporativo. Significava anche consacrare la libertà di iniziativa economica e l’individualismo borghese; d’altronde i commercianti, coloro cioè che abitualmente esercitavano atti di commercio, mantenevano una posizione centrale, anche nella composizione dei tribunali di commercio. Copie del progetto vennero poste in circolazione per ottenere delle osservazioni utili alla sua revisione e ne seguì un nuovo progetto. Il secondo progetto fu trasmesso subito al Consiglio di Stato. Il testo subì comunque una pesante battuta d’arresto e nel 1805 lo stesso imperatore sollecitò una ripresa dell’iter di approvazione. Solo nel novembre 1806 il processo si riavviò. Il conflitto iniziò ad emergere quando si pose in discussione l’articolo che definiva gli atti di commercio (4 novembre 1806); la questione era se la giurisdizione dei relativi tribunali fosse vincolata alla qualità delle parti o alla natura degli atti. Avrebbe prevalso la seconda, dunque la visione oggettiva, come si è già anticipato. Nel contempo si era aperta una controversia all’interno del medesimo Consiglio di Stato circa l’opportunità o meno di inserire nel codice di commercio la disciplina di diritto marittimo: favorevole, in linea con i progetti della commissione, era la Sezione dell’Interno, contraria – invece – la Sezione di Legislazione, che pensava piuttosto ad un ulteriore Code de la Marine. Si trattava di visioni diverse del complesso sistema del diritto mercantile. La prima rispondeva

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all’esigenza di avere un corpo normativo unico per tutte le convenzioni commerciali, cioè per tutto il diritto privato del commercio, interno-terrestre e internazionale-marittimo che fosse, tenendo invece a parte – magari con un ulteriore codice – il diritto pubblico (un code administratif de marine). Era però possibile anche seguire lo schema delle due ordinanze colbertine, identificando nella prima (1673) la disciplina del commercio interno e nella seconda (1681) quella del commercio internazionale (marittimo). Napoleone stesso si fece infine carico della decisione in senso favorevole alla prima soluzione e fu dunque rapidamente approvato anche il secondo libro del Code de commerce (luglio 1807), che conteneva la disciplina dei contratti marittimi, ricalcando, salvo lievi aggiornamenti, l’ordonnance del 1681. Sia per le fonti originarie (la prassi, e dunque in particolare la tradizione giurisprudenziale commercialistica) sia per i destinatari principali (i tribunali di commercio), quella del Code de commerce si presentava come una «législation judiciaire». Il 15 settembre 1807, dopo che le varie parti del testo erano passate all’esame del Corpo legislativo e del Tribunato, si giunse alla promulgazione della legge che prevedeva l’entrata in vigore del nuovo codice col primo gennaio 1808. Il testo della legge di promulgazione avrebbe ricalcato quella omologa del Code civil, prescrivendo che, sulle materie disciplinate, tutte le altre fonti andavano considerate abrogate. O meglio: tutte le precedenti leggi, quando invece la norma prevista per il Code civil espressamente citava anche tutte le altre fonti disponibili fino ad allora 42. La medesima funzione (e intonazione) delle due norme fa risaltare una differenza testuale sicuramente non casuale. Nel 1811 Locré iniziò a pubblicare la prima edizione del suo Esprit du code de commerce e, dal suo punto di vista privilegiatissimo di segretario generale del Consiglio di Stato, in quelle pagine è molto chiaro al riguardo, sostenendo che «il codice civile basta a sé stesso, e diviene così legge unica e principale. Al contrario il Codice di commercio non è che una legge d’eccezione destinata a regolare affari particolari e non può essere sufficiente a sé stessa». Durante il Consolato iniziò anche quel lungo processo che porterà alla codificazione del diritto penale nel 1810. La commissione venne istituita nel 1801 ed elaborò ben presto un Codice criminale, correzionale e di polizia. Trasmesso al Consiglio di Stato, fu stampato tra il 1801 e il 1802, e trasmesso solo nel 1804 dal ministro della giustizia alla Corte di Cassazione, ai tribunali criminali e alle corti d’appello. In particolare le osservazioni della Corte di Cassazione e del ministro furono orientate a un inasprimento delle sanzioni e al completo abbandono dei princìpi del 1791. Nel progetto viene previsto l’abbandono delle pene fisse, dando margine al

42

Art. 2: «A dater dudit jour, 1er janvier 1808, toutes les anciennes lois touchant les matières commerciales sur lesquelles il est statué par ledit code, sont abrogées».

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giudice di graduare la sanzione in base all’effettiva gravità del fatto. La pena di morte è mantenuta, se pure nei casi gravi (ma vi rientra anche la complicità ai furti violenti); si chiede la sorveglianza di polizia per chi abbia scontato la pena e d’altra parte si invoca particolare severità per recidivi e colpevoli di più reati. Sul fronte delle sanzioni si reintroduce la gogna e si amplia l’applicazione del marchio a fuoco: si tratta dei tipici segni di infamia perenne che indicano la totale sfiducia nell’emenda, prevalendo invece l’interesse sociale alla deterrenza e alla prevenzione. In più sono previste esemplarità accessorie in caso di pena capitale (ad esempio, l’esposizione del cadavere per i grandi criminali). L’unico fine è la difesa della società, e l’efficacia delle pene va commisurata solo al timore che provocano, in un contesto complessivo di disciplina, ordine e principio di autorità. Da una parte il penale non ha più quella centralità ideologica che aveva avuto per l’Illuminismo giuridico, dall’altra l’Imperatore dei Francesi denuncia una sempre maggiore insofferenza per le prospettive filosofiche e preferisce affidarsi a dei pratici particolarmente abili (ad esempio a un giurista assai controverso come Scipion Bexon), che se magari attestati in precedenza su posizioni molto progressiste, adesso si dichiarano a favore di una penalità vicina a quella di Antico regime. Nel 1804 inizia finalmente il dibattito in Consiglio di Stato, ma la procedura e il diritto sostanziale vengono effettivamente separati solo nel 1808; Napoleone interviene raramente, non senza dimostrare comunque la capacità di comprendere i temi e di orientarli, appunto, in una visione repressiva. Il Consiglio è invece presieduto quasi sempre dall’arcicancelliere dell’Impero Cambacérès, che spesso conclude e decide dopo che la discussione si è sviluppata sui singoli punti. Emblematico esempio il dibattito che si svolge in tema di tentativo, su cui anzi interverrà anche l’Imperatore, favorevole a una equiparazione la più ampia possibile tra reato tentato e consumato. In quel contesto interviene il genovese Luigi Corvetto, al contrario favorevole a modulare le sanzioni in base ai livelli di esecuzione del reato; è un esperto di diritto commerciale (attivo durante l’elaborazione del Code de Commerce e politicamente un moderato), eppure la particolare sensibilità della cultura giuridica italiana ai temi penalistici gli consente comunque di provare a porre un argine agli irrigidimenti che stanno emergendo. Il Tribunato è stato ormai soppresso e quindi il progetto passa direttamente alla commissione di legislazione civile e criminale del Corpo legislativo, che in teoria può elaborare eventualmente altre osservazioni su cui deciderà il Consiglio di Stato. In realtà gli interventi della commissione sono per lo più puramente laudativi del testo, con frequenti omaggi all’Imperatore. Siamo ormai molto distanti dal dibattito che vi era stato in occasione della elaborazione del Code civil. In conclusione un membro del Consiglio di Stato, come oratore del governo, espone il progetto e un membro della Commissione legislativa lo presenta for-

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malmente al Corpo legislativo, che senza ulteriore trattazione pubblica vota. La discussione del codice di procedura penale si conclude nel dicembre 1808; quella del codice penale nel gennaio 1810. Entrambi entreranno in vigore dopo la pubblicazione della legge sull’ordinamento giudiziario (20 aprile 1810). Il testo definitivo del Code pénal si apre con le Disposizioni preliminari, dove compare la distinzione tripartita dei comportamenti sanzionati penalmente: contravvenzioni, delitti e crimini (ripresa dalle leggi del 1791) e fondata sui tipi di pena. È una distinzione che influenzerà pesantemente i codici penali successivi, anche se criticata perché considerata puramente estrinseca. Al crimine consumato si equipara il crimine tentato quando si sia «manifestato con atti esteriori e seguito da un inizio di esecuzione, se questa non è stata sospesa o non ha mancato il suo effetto che per circostanze fortuite o indipendenti dalla volontà dell’autore»; i tentativi di delitto sono equiparati a delitti consumati solo in alcuni specifici casi. I princìpi di legalità e di irretroattività – portati dell’Illuminismo e consacrati nel periodo rivoluzionario – sono confermati, nonostante alcune resistenze di Napoleone (che di lì a poco con un decreto in materia di giustizia militare [1812] farà approvare una norma che consente al giudice di decidere autonomamente se un dato comportamento costituisca delitto e quale pena applicargli…). Infine, forte è l’influenza dell’utilitarismo del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham (1748-1832); si guarda cioè innanzi tutto al pericolo che gli atti puniti comportano per la società, indipendentemente da valutazioni di ordine morale. Lo stesso problema della proporzionalità è considerato secondario rispetto al valore esemplare delle pene, con alcuni casi di sproporzione netta tra sanzione e reale gravità del reato. Dal punto di vista tecnico è un testo chiaro, semplice, razionale nella sua sistematica, coerente con tutta la codificazione napoleonica e ciò ne spiega la fortuna anche in seguito. Già nell’Ottocento sarà però criticato pesantemente per la sua severità, o addirittura crudeltà, e per essere poco ‘scientifico’ (a differenza dei codici di area germanica, che subiranno esattamente la critica opposta) a causa delle sommarie soluzioni adottate per rispondere a questioni penalistiche anche di grande rilievo. Pellegrino Rossi (1787-1848), importantissimo giurista della fase immediatamente successiva, avrà a dire che mentre il codice civile era in effetti il «codice civile dei francesi», questo altro non era che il «codice penale di Napoleone».

13. Il Codice civile generale austriaco del 1811 (ABGB) Il Codice civile generale austriaco – Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch, per brevità ABGB – è l’altra metà del cielo della codificazione europea di inizio Ottocento. Entra in vigore il 1° gennaio 1812 ed è il frutto di un lungo processo di

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elaborazione avviato alla metà del Settecento con il tentativo di unificare i vari diritti regionali (i Landrechte) dell’Impero d’Austria. Dopo il tentativo fallito del Codex Theresianus (1766) 43, la stagione legislativa successiva fu caratterizzata dalla forte impronta illuministica data da Giuseppe II e dalla serie di editti che egli promulgò negli anni Ottanta del Settecento (in particolare gli editti di tolleranza, matrimoniale, successorio, sulla libertà commerciale, sui riscatti fondiari). Fu una legislazione rivoluzionaria, che colpiva interessi costituiti, ma anche una cultura tradizionale assai radicata e per lo più impermeabile, a livello popolare, alle idee dell’Illuminismo. Nel 1782 entra in vigore il Regolamento giudiziario civile, che dà alle province dell’Austria una procedura civile uniforme: è, insieme al Regolamento giudiziario di Federico II del 1781 44, il modello processuale del dispotismo illuminato. Le provincie dell’Austria avranno da quel momento una procedura civile uniforme. Nel 1787, proseguiti i lavori in campo civilistico, si ha un Codice giuseppino promulgato nei territori ereditari e in Galizia: in pratica solo un primo libro (diritto delle persone, cittadinanza, matrimonio, patria potestà e filiazione, tutela, curatela e capacità d’agire) di un più ampio progetto di codice civile. Ma il passaggio più significativo è l’incarico dato a un grande giurista come Carl Anton Martini (1726-1800), cui Leopoldo II (cioè Pietro Leopoldo di Toscana, che era succeduto al fratello Giuseppe sul trono imperiale) aveva dato l’incarico di una riforma del diritto civile nel 1790. Il “progetto Martini” è un corpo normativo di solo diritto privato (ma con esclusione del diritto commerciale), che ha il pregio di unificare quasi completamente il soggetto di diritto. Ancora una volta il testo ha un andamento scarsamente imperativo, ma piuttosto didattico-filosofico, e ammette l’eterointegrazione: un altro insuccesso. Si passa così a una nuova fase di revisione, che coincide col periodo in cui in Francia si sta lavorando febbrilmente al codice civile, una Francia la cui espansione proprio gli Asburgo sono impegnati a contenere. La commissione inizia i lavori nel 1801 e li termina nel 1806; il progetto è ripetutamente respinto dal governo e subisce successive revisioni fino a che Francesco I – imperatore ora in carica – ne dispone la promulgazione il 1° giugno 1811; il testo entra in vigore il 1° gennaio 1812. Come è avvenuto con la legge 30 ventoso XII per il Codice civile francese del 1804, anche qui con la patente di promulgazione vengono abrogate tutte le precedenti fonti concorrenti, a partire dal diritto comune. Il testo è diviso in tre parti. Risalta la serie di disposizioni sulla legge in generale, perché molto più ampia rispetto allo striminzito Titolo preliminare del testo francese e per la sua forte intonazione giusnaturalistica. Per i tre libri, lo schema

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Si veda supra, § 7. Si veda supra, § 7.

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è quello tradizionale: Diritto delle persone, Diritto sulle cose (comprensivo anche di successioni, obbligazioni, e risarcimento del danno), Disposizioni comuni ai diritti delle persone e ai diritti sulle cose (costituzione, modificazione e estinzione dei rapporti giuridici). In generale, e se confrontato al Code Napoléon, è evidente il minor carattere di dettaglio e, per converso, la propensione verso le categorie generali e astratte, marcando ancora una volta le differenze della via germanica alla codificazione. È, di conseguenza, relativamente breve, perché starà al giudice (e al giurista) trarre dalle norme di principio le disposizioni di dettaglio. Dunque, rispetto al giurista della codificazione francese, qui si aprono nuovi spazi per il lavoro interpretativo (in particolare attraverso analogia e princìpi del diritto naturale). Quanto al suo contenuto, l’ABGB riorganizza e fonde una serie vasta di fonti: diritto romano, diritto canonico, diritti territoriali e provinciali. Il giusnaturalismo settecentesco si coniuga col tipico paternalismo asburgico e in definitiva prevalgono i princìpi di equità e uguaglianza, senza che per altro, diversamente che in Francia, vi sia stata alcuna rivoluzione, né tantomeno siano mutate le forme di partecipazione politica. Il diritto di famiglia, che si è visto essere emblematico dei passaggi di storia giuridica, non ha l’impronta gerarchica tipica della famiglia del Code civil; in particolare la moglie non è sottoposta all’autorizzazione maritale e può disporre liberamente dei beni parafernali. Certo non è riscontrabile quel senso di innovazione profonda nel sistema della proprietà che è presente in Francia; l’individualismo borghese, l’ideologia liberale, non hanno il ruolo fondamentale che si è visto in precedenza. D’altronde l’operazione normativa – in particolare nel diritto di famiglia, ma anche nel settore dei diritti reali – era complicata dalla particolare realtà sociale del grande Stato austriaco, uno stato tipicamente multinazionale, multilingue, multireligioso. Una complessità, una straordinaria molteplicità di minoranze, che spingeva fatalmente verso la tolleranza, verso un approccio morbido ai problemi delle relazioni intersoggettive e dello Stato coi sudditi. Gli Asburgo erano profondamente cattolici, ma era necessario riconoscere le tradizioni delle varie comunità. Ecco allora l’irrilevanza per il diritto privato delle diverse religioni dei sudditi (ma anche per il reclutamento del personale amministrativo); ecco allora l’attribuzione del settore matrimoniale al controllo dello Stato (anzi, pensando al “giuseppinismo”, una generale limitazione dell’ingerenza della Chiesa), ma recependo il diritto canonico; ecco allora l’esclusione del divorzio per i cattolici, ma anche la previsione di casi tassativi di sua ammissione nei matrimoni tra non cattolici. Queste particolari caratteristiche di moderazione e duttilità (duttilità che per altro dimostrerà pure il Code Napoléon) rendono l’ABGB applicabile anche al di fuori dei domini ereditari di lingua tedesca, domini in cui rimase vigente fino alla fine della prima guerra mondiale. Suoi lacerti rimasero in vigore in queste zone (ad esempio in Jugoslavia) anche nel Novecento e d’altronde anche nella

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stessa Repubblica Austriaca, dove è vigente fino al giorno d’oggi (se pure modificato e aggiornato). Per l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale. Dopo il 1816 venne applicato a tutti i territori del Lombardo-Veneto, dove rimase in vigore fino all’età risorgimentale: in Lombardia fino alla seconda guerra d’indipendenza (1859); in Veneto e Friuli fino alla terza (1866). Rimase a lungo vigente nell’area trentina, a Trieste e a Gorizia, le “nuove province” (denominate per l’occasione Venezia tridentina e Venezia Giulia) annesse all’Italia dopo il 1918, ma rimanendo in realtà in vigore – salvo le immediate modifiche – fino al 1928! Nonostante i giudizi positivi e la vigenza in alcuni importanti territori italiani, l’ABGB non fu un modello della normativa civilistica italiana pre- e postunitaria. Si preferì guardare al Code Napoléon, per le particolari affinità culturali con la Francia e per il fatto che era stato in vigore nella gran parte della penisola. Il Code francese era stato il frutto maturo della rivoluzione, mentre l’ABGB era il diritto dell’Austria, contro cui sostanzialmente l’intera cultura politica nazionale si sarebbe schierata con entusiasmo negli anni cruciali del consolidamento dello stato italiano, nel Risorgimento (a metà dell’Ottocento), e poi nel “secondo Risorgimento”, quello dell’irredentismo e dell’intervento nel conflitto del 1914-18. E poi l’ABGB non aveva avuto la fortuna del maestoso apparato di commento e analisi di cui aveva goduto il suo concorrente francese, la famigerata “scuola dell’esegesi” e i suoi sviluppi successivi, una dottrina francese – ed europea – che casomai avrebbe poi preso la via della Germania, e del BGB, il codice civile tedesco. Rimane anche qui ancora da dire sul tema dell’interpretazione giuridica. Nell’ABGB l’Introduzione, organizzata in 14 paragrafi, è dedicata alla «legge in generale». Quanto al problema particolare dell’interpretazione, o meglio “applicazione”, della legge e delle sue fonti – oltre a non dimenticare la patente di promulgazione con cui Francesco I dichiarava abolito il diritto comune – tra i paragrafi di speciale rilievo vi è innanzi tutto il 6: nell’applicarla, alla legge va attribuito il senso che si manifesta dal «proprio significato dalle parole» e «dalla chiara intenzione del legislatore». Come dire, un’opzione “esegetica” che nemmeno il Code Napoléon esprime in modo così esplicito. Realmente nodale è però il § 7: «Qualora una causa non si possa decidere né dalle parole, né dal senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili precisamente dalle leggi decisi ed ai fondamenti di altre leggi analoghe. Rimanendo nondimeno il caso dubbioso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto naturale, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso maturamente ponderate».

Ancora, il successivo § 8 recita: «interpretare la legge» (non “applicare”, questa volta, visto che ovviamente quel compito spetta ai giudici in via esclusiva) spetta «solo al legislatore» e «in modo per tutti obbligatorio». Insomma, al di là

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del pronunciamento tardo-giusnaturalista del § 7, siamo pienamente immersi nel giuspositivismo della codificazione moderna: il legislatore – e con lui le sue leggi, i suoi codici – rimane saldamente al centro della scena dopo averlo conquistato a seguito di una battaglia durata un secolo. Detto tutto ciò, non può essere infine dimenticato il contesto generale, il fatto cioè che, al di là di quanto affermato nel § 7 dell’ABGB, codificazione e positivismo giuridico su scala continentale segnano la progressiva eclissi del giusnaturalismo. O meglio il giusnaturalismo moderno culmina e si esaurisce nella codificazione (intesa come diritto naturale positivizzato). Il Code Napoléon ebbe ovviamente in questo un ruolo decisivo, ma non pare davvero che l’ABGB abbia fornito al diritto naturale una reale chance di sopravvivenza. Un elemento di cui tenere conto è la spiccata tendenza dei primi commentatori dell’ABGB alla comparazione, se non addirittura un’utilizzazione della normativa straniera (quella francese in particolare) come fonte, certo non primaria ma comunque in alcuni passaggi ineludibile, per il lavoro interpretativo. Già questo probabilmente contribuisce a giustificare il fatto che il problema dell’interpretazione sia visto attraverso due angoli di visuale apparentemente distanti, quello del Code Napoléon e quello dell’ABGB. Con riferimento al codice civile francese, si è visto il ruolo fondamentale di Portalis e si è detto della sua formazione. Influenzato dal pensiero kantiano era Franz von Zeiller (1751-1828), allievo di Carl Anton Martini e artefice dell’ABGB, nonché suo primissimo commentatore. Nel campo dell’interpretazione la sua opinione appare da subito come il punto di partenza dei commentatori dell’ABGB. Nelle Cognizioni preliminari del suo Commentario sul codice civile universale austriaco, Zeiller esprime chiaramente, e precisa in seguito, i presupposti culturali e ideologici che hanno presieduto alla sua opera di codificatore e che ancora risentono del dibattito settecentesco 45: giusrazionalismo e giusnaturalismo, «diritto romano attinto dalla ragione» come «base dei codici moderni» (§ XXI), anche per la sistematica scelta (§ XXXIII), e quindi in base a ciò la disposizione delle «materie di diritto» in «un ordine naturale» (in commento al § 6 del codice). Compaiono ancora il problema del superamento del particolarismo giuridico e la necessaria brevità e completezza del codice raggiunta attraverso «princìpi generali da cui nascano per diretta conseguenza dei princìpi particolari ad ogni materia», affidandosi al «savio discernimento del giudice», senza però consentirgli di «esercitare il proprio arbitrio» (§ XIX). Va notato che espressamente “codice” e “commentario” sono indicati come strumenti che insieme consentono di valutare il lavoro del legislatore (§ XXII); Zeiller, per altro, confermerà nel prosieguo che, pur avendo a disposizione im-

45

F. de Zeiller, Commentario sul Codice civile universale per tutti gli stati ereditari tedeschi della monarchia austriaca, a cura di G. Carozzi, A.F. Stella-F. Baret, Milano 1815, p. 1 ss.

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portanti filoni di pensiero giuridico settecentesco di area germanica, un richiamo fondamentale è Montesquieu. «La vera origine del diritto – sottolinea Zeiller – sono le leggi, cioè le prescrizioni generalmente obbligatorie del capo supremo dello stato» 46. E il primo rinvio alle fonti legislative di cui tenere conto indica il così detto “codice giuseppino” del 1787 (il cui primo titolo era appunto dedicato ai princìpi generali del diritto), i Digesta, il Landrecht prussiano del 1794, e infine – inaspettatamente – il Titolo preliminare del Code Napoléon. Non solo; già al commento del § 3 (in tema di efficacia della legge) ritorna il riferimento al codice francese, di cui è dato il testo e l’ulteriore rinvio all’Esprit du Code Napoléon di Locrè, come avverrà anche in seguito (ma si citerà per lo più anche Maleville). Sul significato del termine “diritto naturale”, Zeiller si sofferma nel commento al successivo § 7, dove, come si è visto, fonte interpretativa sono «i principi del diritto naturale» («die natürlichen Rechtsgrundsätze»), cioè, come indica Zeiller, «la filosofia del diritto». Nonostante tutte le premesse giusnaturalistiche, Zeiller richiama però alla moderazione: «il codice della ragione non è che sussidiario, e se ne deve far uso sol quando il codice civile assolutamente non basta»; e ancora, «sarebbe una temerarietà ancor maggiore quella di chi volesse costituirsi giudice delle leggi e disprezzarle sotto pretesto ch’esse non s’accordano colle leggi naturali» 47. Ma è proprio passando a uno dei commentatori italiani dell’ABGB, Jacopo Mattei, che i collegamenti si stringono ancora di più 48. Già dal titolo della sua opera l’avvocato veneziano è molto esplicito nell’indicare un ampio bacino interpretativo, dove si individuano esponenti del tardo diritto comune e le maggiori figure della scienza giuridica di commento al codice francese. Senza condizionamenti legati alle origini nazionali Toullier (in particolare Toullier…) o Merlin sono tranquillamente posti sullo stesso livello di un Winiwarter (diffuso commentatore austriaco dell’ABGB). Fonte di riferimento rimane il codice civile francese, come vero e proprio strumento interpretativo. Non solo: ritorniamo qui a un nodo della codificazione francese cui abbiamo già fatto cenno. Illustrando il § 6, Mattei riporta direttamente nel testo la serie di norme del Libro preliminare di Portalis (quello non adottato) in tema di interpretazione. Infine Mattei, illustrando il § 7 dell’ABGB, nota come «il codice sardo ha identica disposizione al presente paragrafo» 49. 46

Ivi, p. 35. Ivi, pp. 71-73. 48 J. Mattei, I paragrafi del Codice civile austriaco avvicinati dalle leggi romane, francesi e sarde schiariti e suppliti dalle opinioni dei più celebri scrittori di diritto, specialmente del Voet, Domat, Pothier, Fabro, Richeri, Merlin, Toullier, Duranton, Troplong, Delvincourt, ec.; dalle decisioni dei tribunali francesi ed austriaci e dalle patenti, sovrane risoluzioni, notificazioni, circolari, ec., P. Naratovich, Venezia 1852. 49 Ivi, p. 44. 47

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Con ciò Mattei parlava del codice civile del Regno di Sardegna del 1837, per altro modellato sul codice civile francese, e a propria volta viatico verso la codificazione unitaria del 1865. Per un codice largamente modellato su quello napoleonico, il codice civile sardo del 1837, si era scelto di redigere un titolo preliminare dove gli articoli sull’interpretazione (artt. 14, 15 e 16) erano stati in ampia parte una riproduzione letterale dei paragrafi 6, 7 e 8 del codice austriaco (salvo che l’art. 15 non fa riferimento ai «princìpi del diritto naturale» – come il corrispondente § 7 dell’ABGB – bensì ai «princìpi generali del diritto»). Un panorama quindi complesso, innanzi tutto a livello legislativo, e una rete di rinvii interni alla codificazione in genere intesa (le diverse articolazioni della codificazione europea moderna). Nonostante i vari itinerari prescritti dalle preleggi delle diverse codificazioni, proprio sul fronte dell’interpretazione giuridica è verificabile, quanto meno fino alla metà del secolo XIX, una sostanziale unità metodologica, pur con tutti i possibili distinguo. D’altronde è stata autorevolmente indicata un’unica matrice per i codici a cavallo di XVIII e XIX secolo, dall’ALR prussiano all’ABGB austriaco, indicandoli nel loro complesso come i “codici giusnaturalistici” 50. Considerato poi un rinvio costante anche da parte dei giuristi del LombardoVeneto alle fonti legislative e dottrinali francesi, è facile individuare infine una sostanziale unità della scienza giuridica di questa fase e un riferimento normativo-autoritativo costante ai codici contemporanei intesi nel loro insieme. Si tratta di un’ulteriore dimostrazione del passaggio non istantaneo al nuovo sistema legislativo, al codice dello Stato come unica fonte di riferimento normativo (e interpretativo), all’“assolutismo giuridico”. Col passare del tempo, da una parte i codici assumeranno sempre più chiaramente una funzione di tutela della libera iniziativa privata, e quindi radicalizzeranno la loro portata innovatrice, dall’altra la dottrina giuridica ripiegherà – nel suo versante “esegetico” – verso il contesto codicistico nazionale, ma allo stesso tempo – sul suo versante scientificamente più ambizioso – sarà sempre più influenzata dalle dottrine (a ispirazione “anticodicistica”) di matrice germanica, che a quel punto avranno definitivamente assunto piena dimensione europea con una nuova condivisione di fonti e metodologie 51. Il risultato del percorso verso la codificazione, che si è qui tracciato fin dalle sue origini, vede nel compendio di Code Napoléon e ABGB il formarsi di un modello otto-novecentesco di codificazione del diritto civile, un modello che con ogni probabilità alla fine del XX secolo ha concluso la sua parabola. Al momento, le ipotesi sugli strumenti legislativi del XXI secolo sono ancora aperte.

50 F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, con particolare riguardo alla Germania, I, Giuffrè, Milano 1980, p. 493 ss. 51 Cfr. il cap. successivo.

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14. La lunga storia di illuminismo penale e codici (senza un lieto fine) Una storia senza lieto fine, si dice nel titolo di questo paragrafo, e contravvenendo alla più elementare regola sulla narrazione a suspense, partiamo proprio dalla fine, dallo svelamento dell’assassino, in questo caso un giurista di gran vaglia, in particolare nel settore del diritto commerciale, ma che nel 1930 – con la carica di ministro della giustizia – si trova a presentare al Re d’Italia il testo di un nuovo codice penale (codice ancora oggi vigente, e dunque ecco perché parliamo di “fine”, anche se con qualche aggiustamento…). Bene, cosa spiega in poche efficacissime parole il guardasigilli Alfredo Rocco? «Così, la filosofia giuridica penale, che inspira a nuova opera legislativa, non è che una derivazione della filosofia generale del fascismo, filosofia, in verità, ben diversa da quella che fu propria degli enciclopedisti francesi a cui si ispirarono la rivoluzione del 1789, la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, i codici penali del 1791 e del 3 brumaio, anno IV e la stessa codificazione legislativa penale del primo Napoleone, che fu il modello a cui si attennero, per più di un secolo, tutte le altre successive legislazioni che dominarono all’estero e in Italia, non escludendo il codice penale del 1889» 52.

Con pochi sapienti tratti, Rocco traccia la storia della codificazione del diritto penale tra Francia e Italia. La «nuova concezione sociale, politica, etica dello Stato che è propria del nuovo regime politico» comporta necessariamente un netto cambiamento della legislazione penale. È il de profundis dell’Illuminismo penale, che aveva elaborato progressivamente il proprio progetto fin ben dentro il XIX secolo; proprio il Codice penale italiano del 1889 ne era stato, auspice la sinistra storica al governo ma anche il liberalismo moderato ottocentesco, il frutto più maturo e denso, con cui – oltre al resto – si era proceduto all’abolizione della pena di morte. Ma dove era iniziata questa storia? Lo si è visto nelle pagine precedenti 53: in Toscana e in Austria, attraverso l’opera illuminata dei due fratelli Pietro Leopoldo e Giuseppe II. L’imperatore Giuseppe II, in particolare, aveva ancor

52 Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura penale, vol. VII, Testo del nuovo Codice penale con la Relazione a Sua Maestà il Re del Guardasigilli (Rocco), Tipografia delle Mantellate, Roma 1930, pp. 11-12 (Relazione del 19 ottobre 1930). E prosegue: «I caratteri che distinguono l’una dall’altra filosofia sono principalmente in ciò che l’una è esclusivamente individualista, l’altra essenzialmente sociale o collettiva o statuale, in quanto che, pur evitando gli eccessi della statolatria, pur tutelando nei confronti dello Stato l’interesse della libertà individuale, tuttavia subordina tale interesse all’interesse supremo dell’esistenza e della conservazione dello Stato e impedisce che la libertà degli individui trascenda in licenza ed arbitrio». Lo sviluppo del diritto durante il fascismo sarà affrontato infra, cap. VIII. 53 Supra, § 7.

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prima del codice penale (1787) promulgato – lo si è già ricordato – l’Editto di tolleranza (1781). Vale la pena ricostruirne il contesto complessivo, partendo dal celebre Trattato sulla tolleranza che Voltaire aveva pubblicato nel 1762 e dal tragico fatto di cronaca che lo aveva originato. È il 13 ottobre 1761: a Tolosa è trovato impiccato in casa Marc-Antoine Calas. Tra la folla si scatena una voce: la sua famiglia è ugonotta (protestante) e, saputo che Marc-Antoine voleva convertirsi al cattolicesimo, padre e fratello lo hanno ucciso. Marc-Antoine è seppellito in pompa magna come martire della fede cattolica. I Calas si protestano innocenti, ma processati assai sommariamente vengono condannati: Jean Calas – il padre – è trascinato per le strade di Tolosa fino al patibolo, viene messo alla ruota, gli vengono spezzate gambe e braccia, e dopo due ore di agonia è strangolato e il suo corpo bruciato. La vicenda rappresentava tragicamente quel buio delle coscienze che gli illuministi sentivano di dover rischiarare a tutti i costi. Il tema della tolleranza religiosa si confermava centrale. In una lettera del 1777 alla Madre Maria Teresa Giuseppe II aveva scritto: «Per me la parola tolleranza vuole significare soltanto che in tutti gli affari meramente temporali io, senza riguardo alcuno alla religione, impiegherei chiunque e gli concederei di possedere terre, di esercitare mestieri, di diventare cittadino dello Stato, purché sia a ciò idoneo, e ciò giovi allo Stato e alla sua industria» 54. La prospettiva è burocratica, legata di necessità al ruolo istituzionale di chi scrive, ma la presa di posizione assunta, proprio alla luce della carica ricoperta, ha uno straordinario valore emblematico. Dieci anni dopo il suo codice penale sarà il primo codice penale moderno. Ma erano sempre possibili battute d’arresto o, persino, ritorni al passato. In particolare fu un ritorno al passato il codice penale francese del 1810, che anche per la sua carica repressiva si rivelò ben adatto a una società europea che – esauritisi il ciclone rivoluzionario e poi la parabola napoleonica – ricercava ordine. Su questo versante, l’Italia rappresenta un angolo di visuale significativo. Qui, dopo la Restaurazione, si avrà nel 1839 il Codice penale per gli stati di S. M. il Re di Sardegna. Strutturato in Disposizioni preliminari e tre libri (Delle pene e delle regole generali per la loro applicazione ed esecuzione; Dei crimini, dei delitti e delle loro pene; Delle contravvenzioni e delle loro pene), appare subito molto forte il legame col modello napoleonico del 1810, in particolare per la scelta della tripartizione dei reati, quando in Austria si era scelta la bipartizione. Il testo sabaudo aveva però importanti innovazioni sui grandi temi del penale generale (imputabilità, tentativo, recidiva, discrezionalità ampia nella fissazione delle pene), tanto da far dire che questo codice era superiore al proprio model-

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Cit. in G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 508.

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lo; fu quanto sostenne, ad esempio, un giurista tedesco particolarmente attento alla realtà italiana come Karl Mittermaier (1787-1867). Sempre modellato sull’esempio francese sarebbe stato il Codice di procedura criminale per gli stati di S. M. il Re di Sardegna (1847; il modello era il Code d’instruction criminelle del 1808). Nel 1859 sarebbe stato poi promulgato un nuovo Codice di procedura penale per gli stati di S. M. il Re di Sardegna, una rivisitazione del codice del 1847, ma con l’introduzione della giuria e della Corte d’assise. Infine, nella fase di unificazione legislativa nazionale avrebbe visto la luce, molto simile al precedente, il Codice di procedura penale del Regno d’Italia (1865). Ma la grande novità nel campo del diritto penale si era nel frattempo verificata nel preunitario Granducato di Toscana, e sempre su quella linea illuministica che aveva dominato in precedenza. In realtà, dopo la Restaurazione, in quell’angolo d’Italia – come altrove – erano stati ripristinati diritto romano, diritto canonico e leggi granducali, salvo la permanenza in vigore del codice di commercio napoleonico. Leopoldo II (Granduca di Toscana da non confondere col precedente Pietro Leopoldo, divenuto Leopoldo II, ma da Imperatore) aveva dato inizio a un’opera di riforma, anche nel campo del diritto civile sostanziale, ma l’unico risultato sarebbe appunto stato la pubblicazione di un Codice penale nel 1853. È però un codice davvero innovativo rispetto a quello francese del 1810 e agli altri italiani della Restaurazione per lo più modellati sullo stesso esempio francese. Nel Lombardo-Veneto – per altro – era in vigore il Codice penale austriaco del 1852, che aveva sostituito quello del 1803, a sua volta intervenuto per meglio distinguere – rispetto al codice giuseppino del 1787 – delitti e gravi trasgressioni di polizia, per introdurre la prescrizione di reato e pena, per mitigare alcune sanzioni, salvo ampliare i casi di pena di morte. Ma appunto il Codice penale toscano si distaccava da tutto il panorama italiano di quegli anni. Se l’elaborata individuazione del reato risentiva dei generali progressi della scienza e della legislazione penalistica europea, una sorta di lungo Illuminismo aveva rilanciato temi in gran parte dimenticati dai legislatori europei: le pene erano più miti e il fine era l’emenda. La pena di morte era ristretta ai reati più gravi (attentato al Granduca, sollevazione, ipotesi di “aiuto al nemico”, reati contro la religione di Stato, omicidi premeditati o facilmente prevedibili), ma non fu mai applicata e venne addirittura abrogata nel 1859 dal Governo provvisorio, nella fase di unificazione nazionale, alla caduta del governo granducale. Il modello in questo caso – differentemente da quello che era avvenuto in tutto il resto della penisola – non era dunque francese (o casomai austriaco), ma piuttosto tedesco, e in particolare la legislazione di una piccola realtà statuale, il Codice penale del Granducato del Baden (1845). La scelta innovativa è molto evidente nella struttura del testo e nell’articolazione dei reati. Innanzi tutto per l’abbandono della tripartizione in crimini,

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delitti e contravvenzioni, a favore di una bipartizione tra delitti (traducendo Verbrechen) e trasgressioni (piuttosto che contravvenzioni, che traduceva anche il francese contraventions, cosa poco gradita), per altro disciplinate dal contemporaneo Regolamento di polizia punitiva pel Gran Ducato di Toscana. Per la sua alterità rispetto al contesto italiano e per il pregio intrinseco del testo, rimarrà in vigore, per la sola Toscana (cioè per i reati commessi in Toscana, anche se giudicati in altra regione dello Stato unitario), anche dopo l’Unità, determinando un vulnus fortissimo all’unificazione giuridica nazionale in un settore fondamentale del diritto pubblico come lo è il diritto penale (quello che regola il diritto dello Stato a esercitare legittimamente la forza e a punire). In particolare la bipartizione – secondo il modello austriaco e tedesco – da eccezione diverrà poi regola, confermata dal Codice penale italiano del 1889, il “codice Zanardelli” (e finanche nel “codice Rocco” nel 1930), creando problemi di corrispondenza processuale. Ma su questo si tornerà. Tornando all’Italia preunitaria, a soli sei anni dalla promulgazione del testo toscano, il regno di Sardegna si dà un nuovo Codice penale (1859), una delle imprese legislative realizzate da Urbano Rattazzi (ministro dell’Interno e ad interim anche di Grazia e giustizia), rese possibili in base ai pieni poteri legislativi ed esecutivi concessi al sovrano in occasione della guerra contro l’Austria e indirizzate in primo luogo ai territori lombardi da poco annessi. Qui il modello (francese) rimane invariato, ma nuove sono le esigenze legate alla promulgazione dello Statuto albertino (1848) e quelle legate al processo di unificazione politica in atto. Non manca qualche mitigazione delle sanzioni e una riduzione dei casi di applicazione della pena capitale. In particolare, più mite è la disciplina per i reati politici e per quelli contro la religione. In ambito procedurale (nello stesso anno si promulga anche il Codice di procedura penale) si ha un grande cambiamento con l’estensione della giuria popolare a tutti i reati comuni di maggiore gravità. Questo codice penale diventa il codice penale nazionale all’indomani dell’unificazione politica, venendosi però a creare una situazione assai complessa. Infatti il quadro penalistico toscano era apparso – ed era – incompatibile con quello sardopiemontese. Alcuni (tra gli altri un giurista fondamentale in questa fase e in quella successiva come Pasquale Stanislao Mancini) avevano proposto l’estensione del codice del 1859 anche alla Toscana, ma con contestuale abrogazione della pena di morte, peraltro già eliminata dal codice toscano del 1853; altri – in particolare il Senato del Regno – spingevano per una estensione sic et simpliciter del codice piemontese, senza riguardo alcuno per la specificità toscana. L’accordo diveniva impossibile e si determinò così il destino del diritto penale in Italia per i successivi trent’anni: in presenza di uno Stato unitario e accentrato, si determinava una sorta di «federalismo penale e giudiziario» 55. 55

S. Vinciguerra, La tutela penale dei precetti regionali cinquant’anni dopo, in Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, ESI, Napoli 2006, p. 126.

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La situazione era la seguente. Per il Regno d’Italia in genere vigeva il Codice penale del 1859 (esteso via via, con resistenze, alle regioni annesse del centronord, dove l’autorevole antecedente era il sistema penale sostanziale e processuale austriaco). Nel Mezzogiorno e in Sicilia – i territori del ex Regno delle Due Sicilie – vigeva il medesimo Codice penale del 1859 esteso all’Italia, ma qui modificato (decreto 17 febbraio 1861) per recuperare parti della precedente legislazione penale borbonica del 1819, una tradizione ritenuta dai giuristi meridionali su più punti scientificamente superiore a quella sardo-piemontese; gli interventi riguardano ben 38 articoli del codice. Ma l’eccezione più significativa riguardava l’ex territorio granducale toscano, dove rimaneva in vigore il codice del 1853, con in più l’abolizione della pena di morte intervenuta nel 1859. La resistenza del codice toscano era dovuta innanzi tutto a due ordini di motivi: la tradizione abolizionista, appunto, e poi la bipartizione dei reati (in luogo della tripartizione di origine francese, confermata negli altri Stati italiani in base al perpetuarsi del modello napoleonico). Trent’anni di “federalismo penale”, si diceva, che si chiuderanno solo nel 1890, quando entrerà in vigore il Codice penale del Regno d’Italia (“codice Zanardelli”, promulgato nel 1889). Ma come ci si arriva? Le vicende della storia politica italiana negli anni Ottanta e Novanta sono particolarmente complesse, sotto il segno del passaggio di mano del governo tra destra e sinistra intorno al 1876 (con trasformismi, lacerazioni interne alle due aree politiche, governi anche di brevissima durata…), ma in una sostanziale continuità di politica del diritto. Una politica a caratterizzazione liberale, destinata naturalmente ad avere vaste ripercussioni sulle imprese di codificazione di quei decenni, per materie disciplinate necessariamente molto sensibili a una impostazione riformista di questo genere: il codice della marina mercantile (1877), il codice di commercio (1882), e – appunto – il codice penale (1889). Essi, nel loro insieme, sono indicati dalla storiografia giuridica come “codici della sinistra”, ma sempre sottolineandosi la continuità con le realizzazioni del 1865 e con la politica legislativa della destra. Si realizzarono sotto l’egida di uno dei maggiori esponenti della sinistra storica come Giuseppe Zanardelli, d’altra parte profondamente imbevuto, appunto, dagli ideali di matrice liberale. A lui vanno infatti attribuite importanti iniziative legislative che ne denotavano la volontà di imprimere alla legislazione italiana una significativa svolta in senso riformista. Emblematico fu il suo tentativo, se pure infruttuoso, di introdurre il divorzio. Quanto al codice di commercio, la sua promulgazione fu accompagnata da una relazione di Zanardelli in cui si ricordava la generale linea liberale, consistente, oltre che in singoli istituti giuscommercialistici, nel difficile sforzo – là dove necessario – di coordinarli in modo armonico con la legislazione penale. Il lavoro di progettazione del nuovo codice penale aveva coinvolto ben quattordici guardasigilli, anche se va tenuto conto che in quegli anni era “fisiologico” un frequente avvicendamento dei governi. Era chiaro quanto questo passaggio fosse cruciale: col codice penale si sarebbe infatti definitivamente chiuso

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il cerchio codificatorio, saldando l’ultima frattura nel sistema legislativo italiano. Il dibattito, che ne accompagnò l’elaborazione (schierate le migliori menti del pensiero giuridico italiano di tutti i tempi: Pisanelli, Carrara, Pessina, Mancini, Ferri, e infine in particolare Luigi Lucchini…), via via concretizzatosi in una serie di progetti, si era per lo più indirizzato proprio su temi sensibili secondo una visione liberale: i reati a mezzo stampa, il tentativo, la valutazione della recidiva, il cumulo di reati, le contravvenzioni in genere, l’ammissibilità o meno della “legislazione speciale”, il proporzionalismo, l’umanizzazione e la mitigazione del sistema delle pene, la liberazione condizionata, l’emenda del condannato, l’abrogazione della pena di morte. Per altro sarebbe stato codice “liberale” anche nella notevole severità punitiva per i reati contro la persona, la proprietà e la fede pubblica (da collegare al tema della effettiva libertà contrattuale). A bilancio di questo complessivo processo legislativo è possibile effettivamente verificare la «rispondenza delle normative codificate tra il 1865 e il 1889 ai più veri postulati del liberalismo moderno» 56. L’ultimo progetto Zanardelli fu concluso nel 1887 e alla fine il Codice penale per il Regno d’Italia, il primo veramente “italiano”, promulgato dal Re Umberto I il 30 giugno 1889, entrò in vigore il 1° gennaio 1890. È sintetico, con 498 articoli, contro i 692 del codice del 1859 e gli addirittura 734 del successivo “codice Rocco” del 1930. L’organizzazione del testo prevede tre libri, un primo di parte generale, Dei reati e delle pene in generale; e i successivi due rispettivamente Dei delitti e poi Delle contravvenzioni. Già questa struttura indica chiaramente la rottura compiuta rispetto ai codici sardo-piemontesi e ai codici italiani della Restaurazione, assumendo il modello di origine germanica della bipartizione tra categorie di reato. La dottrina aveva criticato la tripartizione, basata apparentemente solo sulle diverse sanzioni. Adottando la bipartizione lo schema ora si semplifica e si chiarisce: ai delitti corrispondono comportamenti lesivi di diritti; alle contravvenzioni comportamenti lesivi dell’opportunità sociale (per altro rimasti in precedenza fuori dal codice toscano del 1853 e inseriti nel Regolamento di polizia punitiva). Era un criterio distintivo di tipo “ontologico”, rispetto a quello “nominalistico” presente nel codice del 1859 (e in futuro nel codice del 1930). Il sistema carcerario, poi, non poteva sostenere un sistema troppo articolato e diversificato di regimi della pena. Le sanzioni sono dunque semplificate e umanizzate con una rinnovata attenzione verso l’emenda (ad esempio attraverso la liberazione condizionale) e con l’abrogazione della pena di morte, che rappresenta il tratto più macroscopico del chiaro indirizzo liberale di questo testo legislativo. Vi è rispetto al passato un

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C. Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 184.

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migliore equilibrio nelle pene (comunque meno severe di quelle previste in precedenza per i reati contro la proprietà, a differenza di quanto avveniva nel codice francese). La parte generale è particolarmente avanzata. Vi è una più articolata trattazione dell’imputabilità (dovuta a Lucchini): la volontà vi appare come presupposto fondamentale. Reato tentato e reato mancato sono tenuti ben distinti dal reato ‘perfetto’ e distinti chiaramente anche tra loro con sanzioni differenziate. Nuova anche la disciplina in materia di recidiva e di concorso nel reato. Nettissimo il cambio di prospettiva nel settore dei reati legati a economia e lavoro. La scelta del legislatore penale italiano del 1889 è chiaramente volta – in chiave liberale – a limitare l’insieme dei comportamenti economici penalmente rilevanti. È riservato loro non un titolo, come nel codice penale del 1859, ma solo un capo, il quinto (Delle frodi nei commerci, nelle industrie e negli incanti), all’interno del titolo dei Reati contro la fede pubblica, e con un numero ridotto di articoli (artt. 293-299). Va infine ricordata la normativa relativa ai Delitti contro la libertà del lavoro (artt. 165-167): il codice sanziona serrate e scioperi solo se imposti con la violenza e la minaccia, ponendo in una posizione di uguaglianza “padroni” e “operai” (diversamente da quanto previsto dal codice sardo) e di fatto depenalizzando entrambe le condotte quando non intervengano questi due fattori. Normativa fin dagli esordi segnalata per la sua componente liberale, era debitrice della legislazione toscana in materia (artt. 201-204 del codice del 1853). Anzi, sotto alcuni profili il codice toscano prevedeva, perché scattasse la sanzione, elementi in più (almeno tre operai, ed effettiva violenza, non la sola minaccia), potendo dunque apparire più liberale del codice italiano successivo. Comunque sia, il codice italiano del 1859 puniva qualsiasi “concerto”, sia di datori di lavoro che di prestatori d’opera; ma i tempi erano davvero cambiati, in forza di un movimento su scala continentale, che era partito dall’Inghilterra almeno col Trade Union Act del 1871 e che avrebbe avuto un’importante sanzione con l’enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII nel 1891. Inequivoco era stato Zanardelli presentando il progetto del 1887, con cui aveva gettato le basi della normativa definitiva del 1889, affermando chiaramente che «il Progetto riconosce la libertà di coalizione e di sciopero». Alfredo Rocco, ancora una volta nella relazione al Re del 1930, in questa materia avrebbe per contro ricordato che lo sciopero, come la serrata, non avevano più cittadinanza in un sistema di legislazione sindacale che prevedeva l’istituzione della giurisdizione del lavoro, unica sede legittima per sollevare e risolvere controversie. Si trattava, appunto, di affermare senza equivoci «un energico disconoscimento del principio democratico» 57. Nel suo complesso il codice del 1889 era stato davvero un codice frutto della

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Lavori preparatori del Codice penale e del Codice di procedura penale, cit., p. 289.

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grande tradizione dogmatica italiana, ma sensibile anche alla nuova scuola positiva (soprattutto nelle sanzioni) che si era affermata proprio negli anni Ottanta 58. Era nato dal confronto con le legislazioni straniere e coniugava prevenzione ed emenda. Certo, aveva il suo elemento distintivo nell’abolizione della pena di morte e i motivi ben li aveva espressi Zanardelli nella sua relazione: «E non solo la pena di morte non è esemplare, ma al contrario è depravatrice, come odioso spettacolo di sangue, che è proprio a rendere gli animi iniqui, duri e spietati ed anche a diffondere ebbrezze criminose (…) Imita nella sua essenza uno dei delitti più atroci di cui l’uomo possa macchiarsi, quello di spegnere la vita del suo simile. E la spegne con freddo calcolo, con studiata preparazione, con meditate formalità, infliggendo quelle lunghe e crudeli agonie morali che sono proprie dell’ufficiale spargimento di sangue (…) L’irreparabilità della pena capitale, irreparabilità che non dovrebbe mai accompagnarsi ai pronunciati di una giustizia fallibile, è tale e sì enorme vizio che dinanzi ad esso dovrebbe piegare ogni resistenza ed ogni opposizione» 59.

L’intonazione di questo ispiratissimo Zanardelli ricorda quella usata da Pietro Leopoldo in premessa al testo della Riforma della legislazione criminale toscana 60 (è riportata nelle pagine precedenti, al § 8). Identica è la volontà di imporre una prospettiva di reale progresso. E allora davvero, tornando al discorso di Rocco posto in premessa a questo paragrafo, e al di là di un continuismo non corretto dal punto di vista storicogiuridico (rilevantissime le differenze di impostazione tra il codice francese del 1791 e quello napoleonico del 1810), appare storicamente coerente l’idea che il codice del 1889 sia stato in definitiva il frutto ultimo in Italia di un lungo processo di maturazione della cultura penalistica, che originava dall’Illuminismo giuridico (dagli “enciclopedisti”) e si era perpetuato fino all’approdo zanardelliano 61. Dopo il tentativo liberale, riuscito, di ridurre la mole della normativa sanzionatrice, Rocco cambia esplicitamente direzione a favore di quello che sarà identificato come il “gigantismo penale” del suo codice. Un’evidente stretta sanzionatrice, pena di morte compresa. Il testo originario del Codice penale del 1930 è stato profondamente modificato, per adeguarlo innanzi tutto alla Costituzione repubblicana: in genere il ruolo della giurisprudenza dal dopoguerra in poi è stato sotto questo profilo

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Cfr. infra, cap. VIII, § 4. Progetto di Codice penale per il Regno d’Italia, I, Relazione ministeriale (Libro I), Atti parlamentari, Camera dei deputati, 22 novembre 1887, Roma 1887, p. 39. 60 Si veda supra, § 8. 61 M.E. Cattaneo, Il codice Rocco e l’eredità illuministico-liberale, in Storia d’Italia, Annali 12, La criminalità, cit., p. 99 ss. 59

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particolarmente importante. I tentativi volti a realizzare un nuovo codice penale sono stati parecchi, sempre senza successo (ma attenzione: di alcuni lavori almeno resta un importantissimo materiale normativo già predisposto), arrivando infine alla considerazione di come in definitiva il codice Rocco “modificato” tenga bene il tempo; la parte generale è buona, quella speciale è stata via via riformata in base alle circostanze. Qualcosa però sta mutando. Va innanzi tutto chiarito il tema dello strumento legislativo. Da questo punto di vista l’approccio al diritto penale è necessariamente diverso da quello al diritto civile, dove la crisi del codice, o meglio l’accertata impossibilità di redigere un nuovo codice civile (secondo il modello otto-novecentesco), appare ormai definitiva. Nel penale, al contrario, il codice resta fondamentale e ha un rilievo unico rispetto agli altri ambiti giuridici. Luigi Ferrajoli, uno dei nostri maggiori filosofi del diritto e in particolare del diritto penale, ricorda che il criterio generale della conoscenza della legge come obbligo del cittadino, di per sé principio astratto, ha un valore specifico nel campo del penale. La legge penale – per quanto possibile e per le conseguenze che comporta il suo dettato – deve essere resa effettivamente conoscibile. Il penale, dunque, per queste superiori esigenze di conoscibilità e chiarezza, non è assistito solo da una semplice riserva di legge, ma da una riserva di codice. Deve essere garantita la disponibilità dello strumento legislativo più organico ed efficiente possibile, e deve esserlo in sé, cioè per i suoi contenuti e per il modo in cui essi sono esposti. Insomma, il problema di un nuovo codice penale non è probabilmente eludibile. I punti toccati dalle iniziative di riforma degli ultimi anni riguardano aspetti processuali o di esecuzione della pena, che necessariamente si riverberano in realtà sull’intero sistema penale, allargando i loro possibili condizionamenti fin dentro la parte speciale del diritto penale. È infatti chiaro che laddove si decida di intervenire sulle fattispecie di reato, o anche semplicemente sul loro versante sanzionatorio, il legislatore dovrà tener conto, e dunque avere chiara, la normativa (sperabilmente stabilizzata) in tema di prescrizione e così dovrà ugualmente tenere conto della necessaria discrepanza tra pena in astratto e pena in concreto in base alle norme sulle misure alternative (oggetto anch’esse di dibattito). Con difficoltà, e non senza vivaci contrasti, si sta forse delineando una nuova visione della pena detentiva e dunque del carcere solo come extrema ratio, carcere d’altra parte usato come sanzione penale solo lungo un segmento recente e relativamente breve della storia del diritto penale europeo. Ci si sta forse avvicinando a una fase in cui le connessioni incerte tra vari ambiti della normativa penale saranno tali e tante da mettere in crisi l’intero assetto del sistema penale. È dunque indefettibile un fortissimo sforzo di coerenza interna, che appunto forse solo un codice nuovo è in grado di fornire. Interventi di così ampio spettro richiedono coerenza, razionalità, rispetto

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scrupoloso dei princìpi generali e della funzione degli strumenti normativi, nonché una grande conoscenza di ciò che è stata l’esperienza giuridica. Un insegnamento elementare, che ad esempio ci viene dalla grande stagione dell’Illuminismo giuridico penale e dalle sue realizzazioni legislative, è che aumentare semplicemente i limiti di pena è inutile. E allora, per finire, ben sapendo che «la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri delinquenti, invece di accrescere il numero dei delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci» – come dichiarava Pietro Leopoldo alla fine del Settecento nella sua Riforma criminale –, i dibattiti odierni sul penale minimo, sulla non punibilità per tenuità del fatto e finanche quello più estremo sull’abolizione del carcere, potrebbero essere affrontati con una consapevolezza vera, foriera di efficaci risultati.

Bibliografia essenziale Codici. Una riflessione di fine millennio, Atti del convegno di Firenze 26-28 ottobre 2000, a cura di P. Cappellini e B. Sordi, Giuffrè, Milano 2002. L’ABGB e la codificazione asburgica in Italia e in Europa, a cura di P. Caroni e E. Dezza, Cedam, Padova 2006. La codificazione del diritto tra il Danubio e l’Adriatico. Per i duecento anni dall’entrata in vigore dell’ABGB (1812-2012), a cura di P. Caroni e R. Ferrante, Giappichelli, Torino 2015. M. Barberis, Filosofia del diritto. Un’introduzione storica, il Mulino, Bologna 1993. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine: fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Giappichelli, Torino 2002. P. Caroni, Saggi sulla storia della codificazione, Giuffrè, Milano 1998. M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Comunità, Milano 1966. A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, I, Giuffrè, Milano, 1979; II, Giuffrè, Milano 2005. P. Comanducci, L’Illuminismo giuridico, Antologia di scritti giuridici, il Mulino, Bologna 1978. M. Da Passano, Emendare o intimidire? La codificazione del diritto penale in Francia e in Italia durante la Rivoluzione e l’Impero, Giappichelli, Torino 2000. E. Dezza, Lezioni di Storia della codificazione civile. Il Code civil (1804) e l’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB, 1812), Giappichelli, Torino 20002. R. Ferrante, Dans l’ordre établi par le Code civil. La scienza del diritto al tramonto dell’Illuminismo giuridico, Giuffrè, Milano 2002. R. Ferrante, Codificazione e cultura giuridica, Giappichelli, Torino 20112. R. Ferrante, Un secolo sì legislativo. La genesi del modello otto-novecentesco di codificazione e la cultura giuridica, Giappichelli, Torino 2015. C. Ghisalberti, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Laterza, Roma-Bari 1979. C. Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia. 1865-1942, Laterza, Roma-Bari 1985.

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P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 20052. A. Padoa Schioppa, Saggi di storia del diritto commerciale, LED Edizioni Universitarie, Milano 1992. A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal Medioevo all’Età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007. G.S. Pene Vidari, Aspetti di storia giuridica del sec. XIX, Giappichelli, Torino 1997. U. Petronio, La lotta per la codificazione, Giappichelli, Torino 2002. G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. I. Assolutismo e codificazione del diritto, il Mulino, Bologna 1976. F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, con particolare riguardo alla Germania, 2 voll., Giuffrè, Milano 1980 (ed. or., Göttingen 1967).

 

VI GLI ORDINAMENTI COSTITUZIONALI di Paolo Alvazzi del Frate SOMMARIO: 1. L’assolutismo e la ‘costituzione’ d’Ancien Régime. – 2. La ‘costituzione’ e il costituzionalismo moderno: princìpi e questioni definitorie (assolutismo, Stato di diritto, Stato costituzionale). – 3. L’ordinamento inglese: dalla Magna Carta alla costituzione consuetudinaria. – 4. Il costituzionalismo americano (1776-1791). – 5. Rivoluzione e costituzioni in Francia (1789-1799). – 6. La Restaurazione e le costituzioni europee (1814-1848). – 7. Lo Statuto albertino e gli inizi del parlamentarismo in Italia. – 8. Il potere costituente.

1. L’assolutismo e la costituzione d’Ancien Régime Gli ordinamenti delle principali monarchie dell’età moderna (secoli XVIXVIII) sono abitualmente definiti “Stati assoluti”, in quanto i sovrani si considerarono legibus soluti – ossia non vincolati dalla legge – e detentori di un’ampia concentrazione di poteri. Lo “Stato assoluto” – tradizionalmente considerato dalla storiografia sinonimo di “Stato moderno” – intese ridurre l’autorità degli organi rappresentativi di ceti e comunità e delle corti di giustizia che collaboravano a vario titolo con il sovrano nell’esercizio delle funzioni pubbliche per ampliare considerevolmente le prerogative regie. In particolare al sovrano spettava la titolarità del potere di iurisdictio, ossia l’amministrazione della giustizia in senso lato, che si estrinsecava non solo nella giurisdizione, ma anche nell’emanazione di atti normativi per una migliore tutela degli ordinamenti. Il monarca esercitava inoltre il gubernaculum, ovvero il potere discrezionale di “governo”, specificamente in materia di politica estera, funzione che oggi potremmo definire esecutiva. È necessario precisare che l’accentramento dei poteri nelle mani del sovrano fu un fenomeno “tendenziale”, nel senso che le politiche poste in essere dagli Stati assoluti mirarono ad accentuare progressivamente le prerogative regie a discapito degli organi rappresentativi e giudiziari della tradizione medievale, ma tale processo non poté mai definirsi compiuto. Inoltre, le esperienze dei vari Stati monarchici furono assai diverse tra loro, per cui si deve più opportunamente parlare di “assolutismi” al plurale. Se infatti il prototipo dello Stato

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assoluto fu senza dubbio la monarchia francese del XVII e del XVIII secolo, l’assolutismo inglese o quello spagnolo – ad esempio – ebbero caratteri radicalmente diversi. Si è soliti distinguere una prima fase di assolutismo empirico, corrispondente ai secoli XVI e XVII, da una seconda di assolutismo illuminato (anche denominato Stato di polizia), sviluppatasi nella seconda metà del XVIII secolo. In quest’ultima fase, l’assolutismo avviò un’ampia politica di riforme in parte ispirate alle dottrine illuministiche 1. È opportuno precisare che il fenomeno dell’assolutismo illuminato ebbe una diffusione limitata (Austria e Prussia soprattutto), mentre proprio la Francia, ove l’Illuminismo aveva conosciuto il suo maggior sviluppo, ne fu sostanzialmente esclusa. Il “costituzionalismo moderno” è il movimento per l’affermazione di una «tecnica della libertà» 2, ossia quella «tecnica giuridica attraverso la quale ai cittadini viene assicurato l’esercizio dei loro diritti individuali e, nel contempo, lo Stato è posto nella condizione di non poterli violare» 3. Si trattò di un ampio movimento giuridico, politico e filosofico che individuò nell’emanazione di testi costituzionali lo strumento più congeniale per il superamento dell’assolutismo e per la garanzia delle libertà, secondo le dottrine del liberalismo. La costituzione, considerata come limitazione giuridica dell’autorità del sovrano, divenne dunque la rivendicazione principale del liberalismo europeo e nord americano. È ora necessario chiarire che cosa la cultura giuridica intendesse per “costituzione”.

2. La ‘costituzione’ e il costituzionalismo moderno: princìpi e questioni definitorie (assolutismo, Stato di diritto, Stato costituzionale) Nella società contemporanea appare scontato che l’ordinamento giuridico dello Stato sia regolato da una “costituzione”, ossia da un documento scritto, solenne, in grado d’imporsi su tutte le altre fonti del diritto: la costituzione, considerata quale “legge fondamentale”, fa ormai parte stabilmente del patrimonio culturale del mondo occidentale. Ciò rappresenta però un’acquisizione recente, in quanto fu solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo che gli ordinamenti statali si cominciarono a dotare di costituzioni scritte. 1 Tali riforme intesero pervenire a una razionalizzazione degli ordinamenti e istituti giuridici, tra i quali possiamo ricordare le fonti del diritto, il regime della proprietà terriera, la giustizia, il sistema tributario, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, l’istruzione scolastica e universitaria. La categoria dell’assolutismo illuminato è stata elaborata dalla storiografia soprattutto sulla base delle vicende del riformismo di Maria Teresa (1717-1780) e Giuseppe II d’Austria (1741-1790), di Federico II di Prussia (1712-1786), di Caterina II di Russia (17291796) e di Pietro Leopoldo di Toscana (1747-1792). 2 G. Sartori, Costituzione, in Id., Elementi di teoria politica, il Mulino, Bologna 1987, p. 29. 3 N. Matteucci, Costituzionalismo, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, II ed., Utet, Torino 1983, p. 271.

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Il significato del termine “costituzione” non è univoco, in quanto a esso sono stati attribuiti, e si attribuiscono, significati molto diversi. Il termine è «tra i più oscuri, ambigui e polisensi» 4 del linguaggio giuridico per cui è molto difficile – se non impossibile – darne una definizione senza entrare in delicate disquisizioni teoriche. Il termine deriva dal latino constitutio (dal verbo constituere = istituire, fondare) che nel diritto romano designava i provvedimenti legislativi dell’Imperatore. Tale significato fu assunto anche dalla terminologia giuridica canonistica. Nel medioevo e nell’età moderna il termine latino constitutio, e i corrispettivi termini in traduzione italiana costituzione, francese constitution, inglese constitution, spagnola constitución, divennero semplicemente sinonimo di “legge” 5. Così nell’età del “diritto comune” 6, ossia nei secoli XII-XVIII, le “costituzioni” non furono altro che provvedimenti legislativi emanati dai sovrani o dai pontefici. Possiamo, ad esempio, ricordare le Costituzioni di S.M. il Re di Sardegna, emanate da Vittorio Amedeo II nel 1723, le Costituzioni modenesi del 1771 o le innumerevoli Costituzioni apostoliche dell’ordinamento canonico. Accanto a tale significato di “costituzione”, ne emerse un altro nel corso dei secoli XVII e XVIII, corrispondente al concetto di legge fondamentale, ossia quel complesso di norme sulle quali è fondato un ordinamento giuridico. Nella pubblicistica giuridica inglese si affermò l’uso di definire Constitution l’insieme delle norme consuetudinarie e legislative che regolavano l’ordinamento monarchico britannico. Al riguardo, la definizione di “costituzione” data nel 1733 da Henry John Bolingbroke (1678-1751) risulta molto interessante: «per costituzione intendiamo quel complesso di leggi, istituzioni e consuetudini, derivato da alcuni principi fissi razionali, diretto a determinati fini di pubblico bene, e che costituisce il sistema generale secondo cui la comunità ha accettato di essere governata» 7.

Anche in Francia, nello stesso periodo si cominciò a parlare di Constitution du Royaume, intendendo con ciò le “leggi fondamentali” (lois fondamentales), ossia una serie di norme consuetudinarie ritenute superiori perché sovraordinate rispetto alle leggi del Re, che stabilivano norme sulla successione al trono, l’indisponibilità del demanio regio, disciplinavano il funzionamento dei princi-

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F. Modugno, Costituzione, in Enciclopedia giuridica, I, Roma 1988, p. 1. Il termine tedesco di uso abituale è Verfassung, che ha un’altra etimologia; esiste tuttavia anche il termine, più antico, Konstitution. 6 Si definisce così il periodo nel quale fu in vigore nell’Europa continentale il “diritto comune” (ius commune), l’ordinamento di carattere universale costituito dal diritto romano giustinianeo e da quello canonico, il primo competente in materia temporale, il secondo in quella spirituale. 7 H.J. Bolingbroke, A Dissertation upon Parties (1733-34), IX ed., H. Haines, London 1771, Letter X, p. 141. 5

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pali organi dello Stato – Parlamenti e Stati generali – e fornivano una serie di garanzie giudiziarie. Si può dunque concludere che anche negli Stati assoluti esistevano norme – prevalentemente di carattere consuetudinario – ritenute inviolabili da parte della legislazione regia: l’insieme di tali norme costituiva appunto una sorta di “ordinamento costituzionale”. A partire dalle Rivoluzioni americana e francese del XVIII secolo il termine “costituzione” divenne sempre più sinonimo di “costituzione liberale”. Al riguardo è emblematico l’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino francese del 26 agosto 1789, per il quale «ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione». Si diffuse così rapidamente una concezione che potremmo definire valutativa (o assiologica) della costituzione, per la quale solo un testo costituzionale in grado di garantire la separazione dei poteri dello Stato e la tutela dei diritti civili dei cittadini può essere definito “costituzione”. Un testo che non prevedesse un simile assetto istituzionale e una efficace tutela dei diritti dei cittadini non sarebbe pertanto una “costituzione”. Non si potrebbe parlare di “costituzione” negli Stati assoluti, in quelli dittatoriali o, ad esempio per il XX secolo, nei sistemi del “socialismo reale”. Dunque – secondo tale concezione – la “costituzione”, o è liberale, o non è una “costituzione”. Esiste anche una concezione avalutativa (o descrittiva) per la quale la “costituzione” rappresenta invece semplicemente la struttura dell’ordinamento giuridico nel suo insieme. Secondo tale concezione, che si astiene dal prendere in considerazione i valori dei quali l’ordinamento è portatore, ogni società ha una sua “costituzione”, per cui avremo costituzioni, non solo nei sistemi liberali e democratici, ma anche negli Stati assoluti, dittatoriali, teocratici, ecc. Si potrà in tal modo parlare di “costituzione liberale”, “assolutista”, “socialista”, e così via. S’è detto come al termine “costituzione” possano essere attribuite una infinità di significati. Senza entrare in complessi problemi definitori e consapevoli del rischio di una eccessiva semplificazione, suggeriamo una distinzione generale tra le innumerevoli concezioni di “costituzione”, ossia tra le concezioni: – avalutativa (o descrittiva), per la quale la costituzione rappresenta l’ordinamento giuridico nel suo insieme, la cornice istituzionale, quale essa sia, per cui ogni ordinamento statuale ha una sua “costituzione”; – valutativa (o assiologica), per la quale la costituzione deve necessariamente rispondere a determinati requisiti liberali e democratici, ossia, in particolare alla separazione dei poteri e alla garanzia dei diritti civili dei cittadini, per cui solo gli ordinamenti liberali e democratici “hanno una costituzione”, non importa se scritta o consuetudinaria. È importante ricordare che le due concezioni, ancor oggi oggetto di dibattito in dottrina, convissero a lungo nel corso dei secoli: la “concezione valutativa” si

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affermò, con tutta evidenza, tra XVIII e XIX secolo, al punto che “costituzione” divenne sinonimo di “costituzione liberale” o “liberal-democratica” 8. Possiamo certamente concludere che “costituzione” e “costituzionalismo” non devono essere identificati: con il termine “costituzione” si definirono nei secoli dell’età moderna le “norme fondamentali” dell’ordinamento statuale, mentre il “costituzionalismo” fu il movimento «volto alla conquista di documenti costituzionali improntati a principi liberali o liberaldemocratici» 9. L’utilizzazione della locuzione “Stato di diritto” per definire l’ordinamento inglese stabilitosi all’indomani della Rivoluzione del 1688-89 e quelli sorti alla fine del XVIII secolo con le c.d. “rivoluzioni atlantiche” – americana e francese – è frequente nella dottrina giuspubblicistica e nella storiografia. Per descrivere la stessa realtà si ricorre a volte alla espressione “Stato costituzionale”, perché ritenuta da alcuni autori quale sinonimo di “Stato di diritto”. Tuttavia – come vedremo –, la locuzione “Stato costituzionale” ha oggi assunto un preciso significato tecnico-giuridico, riferendosi specificamente a ordinamenti costituzionali del Novecento. Le due locuzioni si riferiscono a categorie vaste e inevitabilmente controverse che generano complessi problemi definitori. Se utilizzate in modo generico le due espressioni sono dense di significati ideologici e simbolici, legate come sono a valori fondamentali, quali la tutela della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia. Cercheremo ora di chiarire il significato tecnico prevalente nella giuspubblicistica contemporanea. “Stato di diritto” è una formula molto diffusa che deriva da Rechtsstaat, termine coniato dai giuristi tedeschi del XIX secolo per distinguere uno “Stato fondato sul diritto” (appunto il Rechtsstaat, “Stato di diritto”) dagli ordinamenti assolutistici, quali il Machtsstat (“Stato fondato sulla forza”, ossia l’assolutismo monarchico del XVI e XVII secolo) e il Polizeistaat (“Stato di polizia”, cioè l’assolutismo illuminato del XVIII secolo) 10. Da notare che la locuzione Rechtsstaat s’ispira a sua volta all’inglese Rule of Law, formula dal significato ancora più ampio. In questo quadro così complesso le definizioni fornite in dottrina

8 I due aggettivi “liberale” e “democratico” definiscono certamente culture e ordinamenti assai diversi e, a volte, persino in contrasto tra loro. Anche i valori fondamentali sono diversi: la “libertà” per il liberalismo, la “uguaglianza” per il pensiero democratico. Si è tuttavia affermato l’uso dell’aggettivo “liberal-democratico” per indicare i sistemi costituzionali che si sono proposti di conciliare il più possibile i princìpi della libertà e dell’uguaglianza grazie a un più pregnante interventismo statale in materia economica e sociale. 9 A. Barbera, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 3. 10 Tra i primi teorici tedeschi del Rechtsstaat ricordiamo Robert von Mohl (1799-1875) e Friedriech Julius Stahl (1802-1861); mentre l’affermazione di tale dottrina, alla fine del XIX secolo, si deve soprattutto a Carl Friedrich von Gerber (1823-1891), Rudolf von Ihering (1818-1892), Paul Laband (1838-1918) e Georg Jellinek (1851-1911). La dottrina dello Stato di diritto si sviluppò in seguito in Francia, in particolare con Raymond Carré de Malberg (1861-1935).

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non possono risultare univoche. Accomuna certamente tutti i possibili significati attribuiti alla locuzione “Stato di diritto”, e ne costituisce il tratto essenziale, l’idea dell’abolizione dell’arbitrio nell’azione dei poteri pubblici, attraverso la supremazia della legge che l’ordinamento stesso si è dato. Si tratta evidentemente di un obbiettivo ideale, ossia dell’aspirazione al superamento della tradizionale “Ragion di Stato”. Dunque lo Stato di diritto non può che rappresentare un fenomeno tendenziale 11. Lo Stato di diritto trae storicamente origine dal costituzionalismo inglese del XVII secolo e da quello americano e francese del secolo successivo. Fu però il XIX secolo il periodo della sua affermazione. Secondo l’efficace definizione di Paolo Barile, lo Stato di diritto è: «lo Stato che assoggetta se stesso alle regole di diritto che esso stesso pone. Può cambiarle, ma fino a che i suoi organi competenti a modificarle – e solo essi, in base al principio della separazione dei poteri – non le modificano, lo Stato non può ignorarle, pena la sua condanna da parte dei suoi stessi tribunali, aditi dall’individuo leso dal comportamento statale illegittimo» 12.

È opportuno precisare che la dottrina dello Stato di diritto si è presentata sotto forme diverse, le più rilevanti delle quali appaiono il Rechtsstaat tedesco, il Rule of Law inglese e l’État légal. Il Rechtsstaat concepisce la subordinazione dello Stato al diritto come un fenomeno di “auto-limitazione” e tende a rifiutare il riferimento a norme superiori allo Stato. Esso ha un carattere marcatamente positivista e formalista. Dal Rechtsstaat deriva – come osserva Giuliano Amato – «un ‘liberalismo di Stato’ assai meno parlamentare di quello inglese e, assai più di questo, autoritario e chiuso al dissenso» 13. La dottrina dell’inglese Rule of Law – teorizzata soprattutto da Albert Venn Dicey (1835-1922) – individua invece limiti legali non solo nei confronti dei poteri esecutivo e giudiziario, ma anche di quello legislativo. Ciò sulla base di «limiti impliciti che la legge stessa incontra nel contesto stratificato di privilegi, di diritti e di garanzie processuali, che fanno da muro da secoli contro il potere statale» 14. Il Rule of Law evidenzia inoltre aspetti sostanzialistici sconosciuti al sistema tedesco. Nel complesso, «quello inglese è il più liberale dei liberalismi» 15. Quanto all’État légal francese, ulteriore versione dello Stato di diritto, si può 11 È tuttavia molto difficile eliminare del tutto quelle “zone grigie”, dove il potere pubblico tende a ricavarsi una maggiore libertà d’azione allentando i vincoli della legalità che esso stesso si è dato. Obiettivo dello Stato di diritto è proprio l’eliminazione di tali fenomeni. 12 P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, il Mulino, Bologna 1984, p. 12. 13 G. Amato, Forme di Stato e forme di governo, il Mulino, Bologna 2006, p. 64. 14 Ibidem. 15 Ibidem.

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ritenere che esso individui come punto di partenza la “etero-limitazione” dello Stato sulla base della concezione giusnaturalistica, ma che non preveda un sistema efficace per la sua tutela, se non nel principio della gerarchia delle fonti. Come osserva Jacques Chevallier, lo Stato di diritto, che presenta oggi «la forza ma anche i limiti di un vero e proprio mito», ha subìto un processo di banalizzazione e di ritualizzazione, nel senso che la perdita di tecnicità della sua nozione e la sua applicazione a contesti assai differenti ne hanno spesso vanificato la specificità semantica 16. L’evoluzione e il superamento dello Stato di diritto è stato individuato dalla dottrina nell’ordinamento dello “Stato costituzionale” novecentesco, caratterizzato dal controllo di costituzionalità delle leggi 17. È necessario precisare subito che la locuzione “Stato costituzionale” sarà qui utilizzata in senso tecnico e non, come a volte avviene, semplicemente per definire un ordinamento retto da una costituzione liberaldemocratica, scritta o consuetudinaria. Per Stato costituzionale si intende la forma giuridica della democrazia pluralista. Si tratta dell’ordinamento statuale, nel quale la rigidità della costituzione e la vigenza di un sistema di controllo della legittimità costituzionale – e dunque di limitazione dell’azione del legislatore ordinario – assicurano con efficacia la tutela dei diritti fondamentali di libertà 18.

16 J. Chevallier, L’État de droit, Monchrestien, Parigi 2010, p. 150. Lo Stato di diritto – prosegue Jacques Chevallier –, «onnipresente nel discorso politico, è divenuto uno di quei termini passe-partout, omnibus, cui si attribuiscono significati disparati; utile ... per i progetti più contraddittori, il suo uso tende a banalizzarsi e a ritualizzarsi» (ibidem, p. 8). 17 La novità dello Stato costituzionale, secondo Gustavo Zagrebelsky, riguarda la posizione della legge: «questa, per la prima volta in epoca moderna, viene messa in rapporto di conformità e quindi subordinata a uno strato più alto di diritto, stabilito dalla Costituzione». Così, «si potrebbe dire, viene a realizzarsi nella sua forma più piena possibile il principio del governo delle leggi, in luogo del governo degli uomini, principio frequentemente considerato una delle basi ideologiche fondative dello stesso Stato di diritto». Tuttavia – prosegue l’Autore – se «si passa alla considerazione comparativa dei caratteri concreti dello Stato di diritto dell’Ottocento e dei caratteri dello Stato costituzionale attuale, ci si accorge che ... si tratta di una profonda trasformazione che coinvolge necessariamente perfino la concezione del diritto» (G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, p. 39). 18 Enzo Cheli evidenzia quattro aspetti fondamentali dello Stato costituzionale: a) la costituzione «esprime una dimensione qualitativamente diversa dalla legge ordinaria»; b) si stabilisce una ‘doppia legalità’, in quanto alla legalità ordinaria propria dello Stato di diritto, si «sovrappone il livello della legalità costituzionale, che anche il Parlamento e la legge sono tenuti a rispettare»; suo corollario è la previsione di un controllo della costituzionalità delle leggi; c) si verifica «il superamento della nozione storica di sovranità, conseguente al declino dello Stato nazionale», ciò a causa del pluralismo democratico; d) i diritti fondamentali trovano «la loro base non tanto nella legge, quanto nella costituzione» e «sono in grado di condizionare la legge ai fini del rispetto della costituzione» e si riconosce e afferma «il primato della persona rispetto allo Stato e alle sue leggi» (E. Cheli, I fondamenti dello Stato costituzionale, in Lo Stato costituzionale. I fondamenti e la tutela, a cura di L. Lanfranchi, Treccani, Roma 2006, pp. 44-45).

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In sostanza, con la categoria “Stato costituzionale” si definiscono alcuni ordinamenti, soprattutto europei, del secondo dopoguerra, quali ad esempio l’Italia, la Germania, la Francia e la Spagna 19. Lo “Stato costituzionale” costituisce dunque una evoluzione dello “Stato di diritto”, una sorta di suo stadio ulteriore. La centralità acquisita dalla costituzione nell’ordinamento, come fonte suprema tutelata dalla giurisdizione costituzionale, conferisce allo Stato costituzionale il carattere di Stato di diritto “perfezionato” 20. Al riguardo, la locuzione Stato costituzionale di diritto, a volte utilizzata dalla giuspubblicistica e dalla storiografia, non appare impropria, in quanto, attraverso la fusione dei due termini, si intende evidenziare il carattere evolutivo dello Stato costituzionale rispetto allo Stato di diritto. Si può affermare che, mentre lo Stato di diritto non sottolinea la dimensione sostanziale dei diritti di libertà – e pertanto può essere definito Stato di diritto formale –, lo Stato costituzionale è fondato sulla effettività di tali diritti e pertanto può assumere la denominazione di Stato di diritto materiale. La dottrina più recente tende a evidenziale il carattere fortemente innovativo dello Stato costituzionale rispetto allo Stato di diritto. È il caso, ad esempio, di Gustavo Zagrebelsky il quale ritiene che lo Stato costituzionale corrisponda «a un modello a sé, a una categoria che, dal punto di vista dei suoi elementi costituzionali, può essere posta accanto allo Stato di diritto, allo Stato amministrativo, allo Stato legislativo. Dal punto di vista politico, può addirittura essere posto accanto allo Stato liberale e allo Stato socialista» 21.

Anche Maurizio Fioravanti considera lo Stato costituzionale «qualcosa di più di uno Stato che ha aggiunto rispetto alla forma precedente un livello di legalità in più, quello costituzionale, e una costituzione con compiti più ampi e ambiziosi, ovvero la costituzione democratica, al posto della precedente costituzione liberale» 22.

19 Sebbene gli Stati Uniti d’America conoscano sin dai primi del XIX secolo un sistema di sindacato di legittimità costituzionale, difficilmente potrebbero definirsi uno “Stato costituzionale”. La locuzione “Stato costituzionale”, nasce infatti nella dottrina europea e si riferisce alle sole esperienze europee. Come osserva Cesare Pinelli, solo nel continente europeo l’approvazione delle costituzioni novecentesche ha acquisito «il significato di un capovolgimento del precedente rapporto tra Stato e Costituzione» (C. Pinelli, Forme di Stato e forme di governo. Corso di diritto costituzionale comparato, Jovene, Napoli 2006, pp. 121-122). 20 Lo Stato costituzionale rappresenterebbe così una sorta di «Stato di iperdiritto» (G. Zagrebelsky, La tutela dello Stato costituzionale: il ruolo della cultura, in Lo Stato costituzionale, cit., p. 67). 21 G. Zagrebelsky, La tutela dello Stato costituzionale, cit., p. 68. 22 M. Fioravanti, Stato e costituzione, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 31.

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Comunque lo si interpreti – nel senso della continuità o in quello della novità – e comunque lo si voglia denominare 23, lo Stato costituzionale rappresenta certamente un ordinamento fondamentale del XIX secolo che non può essere identificato con lo “Stato di diritto” ottocentesco 24. È opportuno ricordare che ogni forma di classificazione, attraverso l’individuazione di categorie storico-giuridiche, risponde a esigenze scientifiche o didattiche. L’utilità di tali categorie è dunque esclusivamente conoscitiva e, come tale, sempre suscettibile di critica e di confutazione. Ciò consente una loro revisione continua sulla base dell’evoluzione delle conoscenze e delle sensibilità. Per questo ogni categoria non va interpretata rigidamente ma, trattandosi di fenomeni culturali e sociali, sulla base in particolare degli aspetti tendenziali. Le trasformazioni degli ordinamenti e della cultura giuridica sono infatti molto lente e raramente se ne può indicare con assoluta precisione la collocazione temporale. Non si deve trascurare la continuità e il peso della tradizione che, specificamente nel diritto, hanno sempre giocato un ruolo molto significativo. Per riassumere ricordiamo schematicamente le tre forme di Stato che abbiamo individuato: a) lo Stato assoluto, dei secoli XVI-XVIII, nelle sue versioni dell’assolutismo empirico (sec. XVI-XVII) e dell’assolutismo illuminato (sec. XVIII); b) lo Stato di diritto (o Stato di diritto formale), prevalentemente del secolo XIX, espresso dalle dottrine del Rechtsstaat tedesco, del Rule of Law anglosassone e dell’État légal francese; c) lo Stato costituzionale (o Stato di diritto materiale, o ancora Stato costituzionale di diritto) del secolo XX, caratterizzato dalla effettività dei diritti fondamentali, grazie al sistema di controllo della costituzionalità delle leggi.

3. L’ordinamento inglese: dalla Magna Carta alla costituzione consuetudinaria L’esperienza storica costituzionale inglese costituì la fonte d’ispirazione fondamentale per la cultura giuridica e politica del liberalismo. Al riguardo è sufficiente ricordare che il celebre cap. VI del libro XI dello Spirito delle Leggi (1748) di Montesquieu, ove è teorizzato il principio della separazione dei poteri quale strumento essenziale di garanzia della libertà, è intitolato La costituzione 23 La dottrina francese, ad esempio, non utilizza la locuzione “Stato costituzionale”, ma parla di “nuova concezione dello Stato di diritto”. 24 Bisogna ricordare che molto frequente è l’utilizzazione in senso generico – quindi non tecnico-costituzionalistico – dell’espressione “Stato di diritto” per definire un ordinamento fondato sul diritto e il cui rispetto è imposto a tutti, governanti e governati. Ovviamente, in tale prospettiva, lo Stato costituzionale non può non essere anche uno Stato di diritto.

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d’Inghilterra. L’ordinamento costituzionale inglese era dunque apparso al Montesquieu (1689-1755) – uno dei principali teorici del liberalismo, insieme con John Locke (1632-1704) – come un esempio di “governo moderato” in grado di contrastare l’assolutismo e impedire che il potere degenerasse in dispotismo. È opportuno precisare subito che la storia del costituzionalismo inglese costituisce una vicenda a sé, che non può in alcun modo essere assimilata agli ordinamenti dell’Europa continentale per una serie di caratteristiche e per ragioni storiche e giuridiche del tutto particolari. Si tratta di un ordinamento molto complesso che ha conosciuto uno sviluppo storico dal Medioevo all’età contemporanea caratterizzato da una lenta evoluzione e da una evidente continuità di principi e istituti. Le riforme attuate – con l’eccezione del convulso periodo delle due rivoluzioni del XVII secolo – hanno consentito una graduale trasformazione del sistema senza cesure nette con il passato. Il sostanziale conservatorismo della cultura giuridica e politica non ha però impedito una continua reinterpretazione dei principi fondanti dell’ordinamento costituzionale, e dunque un suo continuo aggiornamento alle mutate esigenze della società. Peculiarità dell’ordinamento inglese è senza dubbio la mancanza di una costituzione scritta. La “costituzione inglese” è in realtà un complesso di fonti normative scritte e consuetudinarie, accumulatesi nel corso dei secoli. Non vi è, contrariamente agli Stati Uniti d’America o alla Francia, un testo costituzionale sistematico e coerente, prodotto da un’assemblea costituente. Si può anzi individuare proprio nell’assenza di un “momento costituente”, ossia di una fase di progettazione teorica di un insieme di regole sulle quali fondare l’ordinamento statuale, una delle caratteristiche principali del sistema costituzionale inglese. Come osserva Alessandro Torre, «in Gran Bretagna non si è mai verificato ‘il’ magico momento storico in cui la costituzione è stata scientemente elaborata da un singolo legislatore o da un nucleo di padri fondatori consapevoli di esercitare hic et nunc un ruolo di costituenti» 25. È quindi grazie alla lenta sedimentazione nel tempo di consuetudini e di testi legislativi che, dal Medioevo in poi, si è venuta creando la “costituzione inglese”. Tra i c.d. constitutional documents ricordiamo innanzitutto la Magna Carta Libertatum del 1215 che diede avvio a una serie di atti legislativi volti alla riaffermazione e alla re-interpretazione di norme a tutela delle libertà, basate sul binomio liberty and property, ossia sul nesso inscindibile tra difesa della proprietà e garanzia della libertà. Tali norme si concentrarono sui due aspetti fondamentali del costituzionalismo inglese, ben espressi dalle celebri formule: 1) no taxation without representation, che evidenzia il legame necessario tra imposizione tributaria e diritto di rappresentanza per il contribuente (cui faceva riferimento il cap. 12 della Magna Carta: «Nullum scutagium vel auxilium ponatur in regno nostro, nisi per commune consilium regni nostri»); 25

A. Torre, Regno Unito, il Mulino, Bologna 2005, p. 25.

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2) due process of law, che impone lo svolgimento di un “giusto processo” e una serie di norme di tutela nei confronti di provvedimenti restrittivi della libertà personale (cui faceva riferimento il cap. 39 della Magna Carta «Nullus liber homo capiatur, vel imprisonetur ... nisi per legale iudicium parium suorum vel per legem terrae»). I documenti costituzionali emanati nei secoli successivi non fecero altro che confermare tali principi nella prospettiva della liberty and property, enfatizzando proprio i due aspetti della rappresentanza politica e del garantismo giudiziario che abbiamo indicato. Così – solo per ricordare i testi più importanti – lo Statutum de tallagio non concedendo (1297) di Edoardo I, la Petition of Right (1628) di Carlo I Stuart, l’Habeas Corpus Act (1679) di Carlo II Stuart, il Bill of Rights emanato da Guglielmo d’Orange (Guglielmo III) e da Maria Stuart nel 1689, l’Act of Settlement (1701) di Guglielmo III, nel ribadire la vigenza di princìpi e istituti che traevano origine dalla tradizione giuridica inglese medievale e, in particolare, dalla Magna Carta Libertatum, contribuirono a loro volta a formare e a rinnovare nella continuità il complesso del diritto costituzionale inglese. È proprio la capacità di rinnovamento graduale, nel sostanziale rispetto della tradizione, a rendere unica l’esperienza costituzionale inglese. Quanto alla forma di governo, ricordiamo che dopo la Glorious Revolution (1688-1689), si realizzò nell’ordinamento inglese quell’assetto istituzionale abitualmente definito monarchia costituzionale pura. Si formarono tre organi complessi che contemplavano la presenza del Re: a) King in Parliament, cui spettava la funzione legislativa ed era considerato titolare della sovranità; b) King in his Council, che esercitava la funzione esecutiva; c) King in his Courts, titolare della funzione giudiziaria. Si deve osservare che, mentre negli organi complessi cui spettavano le funzioni legislativa (King in Parliament) e giudiziaria (King in his Courts) il ruolo del sovrano divenne puramente formale, attraverso il King in his Council, il Re mantenne il Re mantenne l’effettivo esercizio della funzione esecutiva. Ciò in quanto i membri del Consiglio – fiduciari del Re e da lui liberamente nominati e revocati – non erano responsabili politicamente di fronte al Parlamento. Mancava quindi l’istituto della fiducia parlamentare, l’istituto tipico del parlamentarismo che stabilisce un legame permanente tra governo e Parlamento. Inoltre, il Consiglio non costitutiva un organo collegiale e svolgeva esclusivamente funzioni consultive per il sovrano, cui spettava l’esclusiva titolarità del potere politico. Il sistema si fondava sulla irresponsabilità regia e, parallelamente, sulla irresponsabilità parlamentare, grazie all’affermazione del principio della insindacabilità degli interna corporis, ossia delle attività svolte all’interno del Parlamento. Al sovrano, che disponeva di ampia discrezionalità nell’esercizio del potere

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di scioglimento della Camera dei Comuni, spettavano dunque prerogative ancora assai rilevanti. Nel corso del XVIII secolo l’Inghilterra conobbe una trasformazione dell’assetto dei pubblici poteri attraverso una progressiva “parlamentarizzazione” dell’ordinamento. Dal sistema della monarchia costituzionale pura, nella quale il sovrano conservava la piena titolarità del potere esecutivo, si affermò gradualmente – a partire dall’avvento al trono degli Hannover con Giorgio I nel 1714 – la monarchia parlamentare. Ciò grazie alla formazione di un organo intermedio tra Re e Parlamento, il Cabinet, che esercitava nei fatti la funzione esecutiva, mentre il sovrano assunse sempre più un ruolo esclusivamente formale. Il governo, politicamente omogeneo e guidato dal Premier, ossia dal Leader del partito che si era affermato nelle elezioni della Camera dei Comuni, divenne “espressione della maggioranza” attraverso l’istituto della fiducia parlamentare. La definitiva acquisizione dell’istituto della fiducia parlamentare si verificò con le dimissioni del Premier Lord Frederick North (1732-1792), accolte da Giorgio III nel 1782 e provocate da un voto di sfiducia (motion of no-confidence) della Camera dei Comuni a proposito della guerra in America. Tale istituto rappresentò la novità peculiare del sistema. Alla “responsabilità giuridica” del governo, derivante dalla procedura di impeachment e relativa alla liceità degli atti governativi, si affiancò così la “responsabilità politica” dell’esecutivo nei confronti del Parlamento, relativa all’opportunità degli atti. Di conseguenza si consolidò il principio – già in vigore da tempo – dell’irresponsabilità del sovrano (the King can do no wrong). Al Parlamento, che aveva assunto la sua struttura tipica con la composizione bipartitica – partiti denominati, secondo la tradizione, Tory (conservatore) e Whig (liberale) – fu ribadita la supremazia e riconosciuta la prerogativa di determinare l’indirizzo politico 26. Si può dunque affermare che nel XVIII secolo l’ordinamento costituzionale inglese, grazie al consolidamento del bipartitismo e alla definitiva affermazione del parlamentarismo, assunse i tratti fondamentali che ancor oggi lo caratterizzano. Esso – s’è detto – costituì l’ordinamento di riferimento per la cultura liberale e fu oggetto di una vera e propria “mitizzazione” che favorì una percezione a volte distorta della realtà inglese. Certamente nell’interpretazione del sistema inglese e dell’opera del Montesquieu, la pubblicistica settecentesca e ottocentesca esagerò la portata del principio della separazione dei poteri e ne fornì un quadro schematico, trascurando alcuni degli aspetti peculiari di tale ordinamento. Ci riferiamo, ad esempio, al ruolo normativo della giurisprudenza, tipico del sistema di common law, e alla conseguente sporadicità degli interventi legislativi del Parlamento attraverso lo strumento dello Statute Law: tali caratteristiche 26 Sulla “onnipotenza” del Parlamento inglese si possono ricordare le celebri parole di Jean-Louis De Lolme (1740-1806): «il Parlamento può tutto, tranne trasformare una donna in uomo, e viceversa» (J.-L. De Lolme, Constitution d’Angleterre, IV ed., Barde et Manget, Genève 1790, I, cap. IV, p. 126).

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rendono molto difficile la comparazione del sistema con gli ordinamenti di Civil Law, ove la legge è considerata unica fonte normativa e al giudice è formalmente inibita ogni attività creativa di diritto. In una simile prospettiva, i rapporti tra i poteri legislativo e giudiziario risultano necessariamente assai diversi nei due sistemi, in quanto la normazione negli ordinamenti di common law non è svolta dal solo legislatore, ma anzi deriva principalmente dalle decisioni giudiziarie, in base al principio del precedente vincolante (stare decisis). Possiamo quindi concludere che: a) l’ordinamento costituzionale inglese, per la sua peculiarità e per la modalità della sua formazione ed evoluzione, sfugge alla possibilità di costituire un “modello”. Le sue caratteristiche storiche e culturali rendono difficile, se non impossibile, un suo adattamento ad altri contesti; b) all’ordinamento inglese si ispirarono le dottrine costituzionali liberali che si fondarono sulla idealizzazione del governo moderato e bilanciato della “monarchia limitata”, in grado di tutelare efficacemente le libertà. Ciò comportò inevitabilmente un’interpretazione troppo schematica e, a volte, distorta di principi e istituti dell’esperienza inglese; c) delle peculiarità del costituzionalismo inglese, possiamo ricordare, in sintesi: 1) il carattere consuetudinario della costituzione, 2) la sua formazione per sedimentazione storica e la conseguente mancanza di un momento costituente, 3) la sua lenta evoluzione nella continuità attraverso la re-interpretazione dei medesimi principi, 4) la centralità della difesa della proprietà quale strumento di garanzia delle libertà (liberty and property), 5) l’importanza di una serie di istituti posti a tutela della rappresentanza politica ai fini della legittimità dell’imposizione tributaria, 6) la rilevanza degli istituti di garantismo giudiziario; d) quanto alla forma di governo, la “monarchia costituzionale pura” si parlamentarizzò progressivamente nel corso del XVIII secolo, grazie all’affermazione del legame indispensabile tra governo (Cabinet) e Parlamento, rappresentato dall’istituto della fiducia.

4. Il costituzionalismo americano (1776-1791) Il movimento costituzionale che si sviluppò nelle colonie inglesi del Nord America coniugò in modo del tutto originale la fedeltà alla cultura giuridica della tradizione inglese con le teorie dell’Illuminismo europeo. Ci riferiamo da un lato alla continuità del sistema del common law e della concezione della liberty and property, dall’altro all’adesione alle dottrine contrattualistiche, giusnaturalistiche ed egualitarie di derivazione illuministica. Gli autori che esercitarono la maggiore influenza sul primo costituzionalismo americano furono senza dubbio John Locke, il Montesquieu e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). È importante ricordare che il clima culturale delle colonie americane era par-

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ticolarmente favorevole allo sviluppo di dottrine egualitarie e democratiche, ciò a causa della eterogeneità delle provenienze sociali o religiose degli stessi coloni, molti dei quali erano stati costretti a lasciare l’Europa. Diffusa era dunque l’idea di una sorta di palingenesi nel “Nuovo mondo”. Le tredici colonie inglesi (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New Hampshire, New Jersey, New York, Delaware, Pennsylvania, Virginia, Maryland, North Carolina, South Carolina, Georgia) erano prevalentemente amministrate da governatori nominati dal governo inglese. Le colonie pagavano i tributi richiesti, senza avere però la possibilità di inviare rappresentanti al Parlamento di Londra. Il malcontento, già presente a causa di questa situazione, si accrebbe considerevolmente con l’approvazione dello Stamp Act nel 1765 con il quale il Parlamento di Londra aveva introdotto le “marche da bollo”. Si trattava dell’imposizione di un tributo senza l’approvazione dei contribuenti, ossia di una violazione del principio no taxation without representation, in quanto il provvedimento era stato emanato dal Parlamento inglese ove non erano presenti rappresentanti delle colonie americane. Il movimento di protesta portò alla convocazione a New York di un’assemblea, detta Stamp Act Congress, che proclamò formalmente l’illegittimità dei tributi non approvati dagli abitanti delle colonie. Com’è stato osservato, «a ben guardare, l’atto di protesta del 1765 era dunque anche un atto di fedeltà» 27. Nonostante l’abrogazione dello Stamp Act nel 1766, la tensione rimase alta a causa di una serie di nuovi provvedimenti delle autorità inglesi che imponevano dazi doganali e altri tributi. Il conflitto si accentuò ulteriormente con i tumulti di Boston nel 1770 (il c.d. Boston Massacre) e nel 1773 (Boston Tea Party). Nel tentativo di mantenere il controllo della situazione Giorgio III emanò nel 1774 alcuni provvedimenti fortemente restrittivi delle libertà delle colonie (c.d. Intolerable Acts). In risposta, le colonie americane convocarono a Filadelfia il primo Congresso continentale (settembre 1774) che dichiarò illegittime – in quanto incostituzionali – le “leggi intollerabili”. L’anno successivo ebbe inizio la guerra tra l’Inghilterra e le colonie americane. L’evoluzione degli avvenimenti favorì l’affermazione della tesi indipendentista: il secondo Congresso continentale, insediatosi a Filadelfia nel maggio del 1775, invitò formalmente le tredici colonie a dotarsi di propri testi costituzionali. Tra le carte costituzionali emanate dai vari Stati in quel periodo è di particolare rilievo la Dichiarazione dei Diritti della Virginia del 12 giugno 1776. Il testo fu il primo dei Bill of Rights degli Stati americani e fu approvato addirittura prima della Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio. La Dichiarazione, composta da sedici articoli, fu redatta dal giurista George Mason (1725-1792), sulla base della riproposizione dei diritti di libertà della tradizione britannica. In par-

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M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali, III ed., Giappichelli, Torino 2014, p. 83.

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ticolare appare evidente l’influenza del Bill of Rights del 1689, reinterpretato in chiave giusnaturalistica e democratica, con una specifica enfatizzazione del binomio liberty and property. Giusnaturalismo, contrattualismo, diritto di resistenza e liberalismo rappresentano le coordinate di questo testo, destinato a ispirare le successive Dichiarazioni dei diritti americane e francesi e la stessa Dichiarazione di Indipendenza americana. È sufficiente citare i primi due articoli della Dichiarazione per comprenderne l’importanza: 1. Tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati di cui, entrando nella società civile, non possono, mediante convenzione, privare o spogliare la loro discendenza, cioè il godimento della vita, della libertà, mediante l’acquisto e il possesso della proprietà, e il perseguire e ottenere felicità e sicurezza. 2. Tutto il potere risiede nel popolo, e di conseguenza inda lui derivato; coloro i quali esercitano funzioni pubbliche [magistrates] sono i suoi fiduciari e servitori e in ogni tempo responsabili verso di esso.

Si può ritenere che la Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia, per la precisione ed essenzialità della sua formulazione e per la sua aspirazione all’universalità, rappresenti uno dei documenti più interessanti dell’intero costituzionalismo americano. Con la Dichiarazione di Indipendenza emanata dal Congresso di Filadelfia il 4 luglio del 1776 i territori americani si auto-proclamarono solennemente Stati indipendenti e sovrani. Opera soprattutto di Thomas Jefferson (1743-1826) – la Dichiarazione è un testo di notevole rilievo nella storia costituzionale. Evidente è l’ispirazione al giusnaturalismo e al contrattualismo, dottrine dalle quali deriva l’affermazione del “diritto di resistenza”, ossia del diritto a resistere agli ordini ingiusti perché lesivi dei diritti naturali e del “patto” stipulato tra cittadini e governanti. Secondo la Dichiarazione del 1776 esistono verità di per sé evidenti (self-evident truths), ovvero principi e diritti naturali e razionali che non richiedono alcun credo religioso per essere compresi: si trattava di uguaglianza, libertà, sicurezza e ricerca della felicità. È sufficiente riportare poche righe del testo per comprenderne l’efficacia e la chiarezza: Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità.

L’ordinamento giuridico trae la sua legittimità dalla tutela di tali diritti naturali e i cittadini conservano il diritto a rovesciare ogni governo che diventi tirannico: allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare tali fini, è diritto del popolo modificarla o abo-

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lirla e creare un nuovo governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quel modo che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità.

Gli atti compiuti dal governo inglese apparivano agli americani come «una lunga serie di abusi e di usurpazioni» volti ad «assoggettarli a un duro dispotismo», per cui «è loro diritto, è loro dovere di abbattere un tale governo e di procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura». La lunga elencazione di atti ritenuti illegittimi compiuti dal governo di Giorgio III, presente nel testo della Dichiarazione, intendeva giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la decisione di proclamare l’indipendenza delle colonie dall’Inghilterra. Il conflitto aveva assunto carattere rivoluzionario. Gli Stati americani, dopo aver posto le basi per un reciproco e stabile coordinamento politico con i c.d. Articoli di Confederazione, approvati dal Congresso nel 1777 ma ratificati solo nel 1781, ritennero opportuno realizzare un più solido organismo federale. Allo scopo di superare la debolezza della Confederazione, rivelatasi poco più di una alleanza tra Stati sovrani, fu convocata a Filadelfia una Convention nel maggio del 1787 che approvò il 17 settembre dello stesso anno il testo della Costituzione degli Stati Uniti d’America. I delegati, i quali intendevano salvaguardare il più possibile le prerogative degli Stati che rappresentavano, trovarono un’intesa grazie a un compromesso tra la previsione di un governo unitario, sufficientemente dotato di autorità e poteri, e una serie di garanzie per gli Stati membri. Ciò grazie alla struttura federale, alla netta separazione dei poteri, alla previsione del Senato e della Corte suprema. Il nuovo testo costituzionale è ancora oggi in vigore dopo aver subito un numero limitato di emendamenti (ventisette) in oltre due secoli. La costituzione può essere definita: – rigida, ossia può essere modificata esclusivamente attraverso una procedura aggravata, prevista dall’art. V della Costituzione stessa; – breve, è composta di soli sette articoli, che si limitano a disciplinare competenze e funzionamento dei principali organi dello Stato, senza addentrarsi nei rapporti sociali o economici dei cittadini. Essa è inoltre una costituzione-garanzia, in quanto – come osserva il Fioravanti 28 – il testo intende soprattutto garantire i diritti fondamentali, le c.d. libertà negative, mentre mancano norme programmatiche, tali da impegnare il legislatore al raggiungimento di obiettivi predeterminati (come avverrà, invece, per le costituzioni-indirizzo, come quelle francesi del periodo rivoluzionario). L’assetto istituzionale prevede: a) un organo legislativo bicamerale, il Congresso, composto dalla Camera dei rappresentanti, eletta ogni due anni dai cittadini degli Stati americani in propor-

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M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, cit., p. 99.

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zione alla loro popolazione, e dal Senato, che rappresenta in modo paritario gli Stati membri con due senatori per Stato – a prescindere dalla popolazione di essi – con un mandato di sei anni. Il Senato è rinnovato per 1/3 ogni due anni. Il contestuale rinnovo dell’intera Camera dei rappresentanti e di 1/3 del Senato ogni due anni comporta una frequente rinnovamento dell’organo legislativo 29; b) un Presidente degli Stati Uniti, eletto dal popolo per quattro anni con un sistema di elezione indiretta tramite “grandi elettori”, che insieme con il VicePresidente esercita la funzione esecutiva. Da rilevare è il potere di “veto sospensivo” nei confronti delle leggi approvate dal Congresso del quale dispone il Presidente. Tale veto può essere superato solo da una successiva approvazione delle Camere con una maggioranza dei 2/3. I ministri, in quanto “fiduciari” del Presidente, non sono responsabili di fronte al Parlamento. Per il rigido principio di separazione dei poteri, vi è incompatibilità tra l’appartenenza al Congresso e l’esercizio di funzioni esecutive. L’unica forma di responsabilità prevista per l’esecutivo è quella penale derivante dalla procedura di impeachment, che il costituente americano ricavò dall’ordinamento inglese, basato sulle due fasi della messa in stato di accusa, deliberata dalla Camera dei rappresentanti, e del giudizio, emesso dal Senato; c) una Corte suprema, composta da nove giudici nominati a vita dal Presidente degli Stati Uniti con il consenso del Senato, che costituisce il vertice della giurisdizione civile, penale e amministrativa. La Corte dirime i conflitti di attribuzione e, a partire dal 1803, con la celebre causa Marbury vs. Madison, è divenuta giudice della costituzionalità delle leggi 30. A differenza del testo della Virginia e di altri Stati americani – e delle costituzioni rivoluzionarie francesi – nella costituzione federale del 1787 non era prevista una Dichiarazione dei Diritti. Nel 1791, per colmare tale lacuna, furono approvati i primi dieci emendamenti che costituirono appunto una sorta di Bill of Rights (Dichiarazione dei diritti). Evidente risulta l’ispirazione ai testi inglesi che, dalla Magna Carta al Bill of Rights del 1689, avevano proclamato una serie di diritti e libertà, che divennero tipici del diritto pubblico anglo-americano. Ci riferiamo alla libertà personale, di manifestazione del pensiero, di riunione, al diritto a un giusto processo (due process of law), all’Habeas corpus, ecc. Di parti29 Le elezioni che si svolgono a metà del mandato quadriennale del Presidente degli Stati Uniti – definite Midterm Elections – provocano frequentemente una significativa diversità di orientamento politico tra il Congresso e il Presidente stesso. Si deve ricordare che la legislazione elettorale è di competenza statale e non federale. Caratteristica comune dei vari sistemi elettorali è la prassi dello svolgimento di elezioni primarie che consentono agli elettori – o, in alcuni Stati, ai soli militanti dei partiti – la scelta dei candidati, prima delle elezioni vere e proprie. 30 Si tratta, com’è noto, di un sistema di controllo diffuso e non accentrato – come ad es. in Italia o in Francia –, in quanto nell’ordinamento americano ogni giudice ha la facoltà di disapplicare la legge ritenuta incostituzionale.

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colare rilievo è il primo emendamento che – a differenza dell’ordinamento inglese – stabilisce la libertà religiosa e l’assoluta laicità dello Stato: «il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto». Tale disposizione, che rappresenta una considerevole novità rispetto agli ordinamenti della tradizione, deriva senza dubbio dalla varietà delle religioni professate dai coloni americani. La laicità dello Stato costituì il terreno neutro sul quale fu possibile costruire una società pluralista in materia religiosa. Nel complesso, l’ordinamento costituzionale si basa sulla separazione e sul sostanziale equilibrio tra i tre poteri, grazie a una serie di checks and balances. Sia il legislativo (Congresso) che l’esecutivo (Presidente) sono eletti dal popolo e godono pertanto della medesima legittimazione 31. L’incompatibilità tra le funzioni legislative ed esecutive e l’assenza degli istituti tipici del parlamentarismo – quali la fiducia parlamentare al governo e il potere di scioglimento delle Camere da parte del Presidente – assicurano il bilanciamento dei poteri. Rilevante è inoltre il ruolo della Corte suprema che, grazie alla inamovibilità e al mandato vitalizio dei giudici, gode di grande autorità e prestigio e di una effettiva indipendenza nei confronti degli altri poteri. Ciò al punto che si giunse addirittura a parlare, da parte di giuristi europei critici nei confronti dell’evoluzione del sistema, di “governo dei giudici”, per evidenziare l’importanza crescente del ruolo della giurisprudenza nell’ordinamento americano. Si può concludere che l’esperienza del costituzionalismo americano del XVIII secolo sia caratterizzata: a) dalla continuità con la tradizione giuridica inglese, come nel caso, ad esempio, dell’ordinamento di common law, della concezione delle libertà, del sistema di checks and balances, degli istituti del garantismo giudiziario; b) da indubbi elementi di novità, quali la scrittura della costituzione, il controllo giudiziale della costituzionalità delle leggi, il federalismo, l’abolizione dei privilegi e una generale democratizzazione istituzionale. Ciò che differenzia maggiormente il costituzionalismo americano dalle esperienze europee è l’atteggiamento anti-statualistico, ossia la critica del principio dell’onnipotenza del legislatore – tipico, ad esempio, del costituzionalismo francese – e una sorta di “diffidenza” nei confronti dello Stato, che indussero il costituente a stabilire una serie di istituti per garantire l’equilibrio tra i poteri e per tutelare con efficacia l’autonomia dei privati. Come rileva opportunamente Maurizio Fioravanti, il costituzionalismo americano si caratterizza per una concezione antistatualistica, storicistica e individualistica in materia di diritti di libertà. Fu proprio negli Stati Uniti che si formò «la dottrina, e la pratica, della costituzione rigida, e il connesso sindacato di costituzionalità»; perché «solo nella esperienza statunitense i modelli storicistici, e quelli individualistici e contrat31

Ricordiamo che i membri del Senato furono designati fino al 1913 dai legislativi dei singoli Stati.

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tualistici, recuperano la loro originaria comune ispirazione garantistica, contro le filosofie statalistiche e legicentriche dell’Europa continentale» 32.

5. Rivoluzione e costituzioni in Francia (1789-1799) Il costituzionalismo francese ebbe caratteri radicalmente diversi, sul piano giuridico e culturale, rispetto a quello inglese e a quello americano. Esso derivò da quel complesso e fondamentale fatto storico che fu la Rivoluzione del 1789 e proseguì, attraverso il convulso susseguirsi di regimi politici e di testi costituzionali, nel periodo napoleonico (1799-1814) e nella Restaurazione. Anche l’ordinamento francese dell’Ancien Régime, considerato il prototipo dell’assolutismo, aveva una “costituzione”. Come gli altri Stati assoluti, la Francia d’Ancien Régime conosceva alcune norme di carattere costituzionale, sovraordinate rispetto alle leggi regie, che costituivano una forma di limitazione all’esercizio della potestà legislativa del sovrano. Si trattava delle Lois fondamentales du Royaume, norme consuetudinarie che si trovavano in una posizione gerarchicamente superiore rispetto alle leggi regie. Già nel 1576 troviamo una interessante affermazione, relativa al carattere sovraordinato delle Lois fondamentales, in uno scritto attribuito al giurista protestante Innocent Gentillet (1535-1588): «in un regno alcune (ossia molte) leggi si possono cambiare, correggere e abolire, secondo le circostanze del tempo e delle persone, e delle caratteristiche delle controversie, ma le leggi fondamentali di un regno non si possono mai abolire, senza che il regno cada quanto prima» 33.

A una definizione precisa e inequivocabile di tali leggi fondamentali – occorre sottolinearlo – non si giunse mai. Anzi, sulle Lois fondamentales il dibattito fu sempre acceso e le interpretazioni molto contrastanti. Certamente tali norme riguardavano lo status regni e disciplinavano essenzialmente le potestà del sovrano, la successione al trono e, seppur indirettamente, la tutela dei diritti degli individui 34. Vi era un vasto consenso relativamente a due delle leggi fondamentali, la “legge salica” e quella sulla “inalienabilità del demanio regio”: con la prima si attribuiva la successione monarchica al primogenito maschio, con l’esclusione di ogni discendente di sesso femminile; con la seconda si impediva al sovrano la 32 M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni, cit., p. 98. La costituzione americana – prosegue l’Autore – quale costituzione-garanzia, «è più teatro di competizione tra gli individui e le forze sociali e politiche, che non progetto comune per il futuro» (ivi, p. 99). 33 I. Gentillet, Brieve remontrance à la noblesse de France sur le fait de la Déclaration de Monseigneur le duc d’Alençon, s.l. 1575, pp. 13-14 [traduzione e corsivi miei]. 34 M. Caravale, I diritti fondamentali nell’età moderna, in Lo Stato costituzionale, cit., p. 34.

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possibilità di disporre liberamente del patrimonio dello Stato e di sottrarre, in tal modo, risorse alle finanze pubbliche. Rispetto, invece, alle altre norme costituzionali, non vi era accordo e, a seconda degli orientamenti dei giuristi, il numero e il contenuto di tali leggi fondamentali poteva diversificarsi notevolmente. In particolare, secondo i fautori della c.d. thèse parlementaire – ovvero i giuristi più vicini agli ambienti della magistratura – si dovevano considerare quali leggi fondamentali anche una serie di norme relative alle funzioni dei Parlamenti e degli Stati generali di Francia, nella prospettiva della tutela dei diritti e dei privilegi degli individui. A tal riguardo, possiamo ricordare la deliberazione del Parlamento di Parigi del 3 maggio 1788, ove appariva evidente l’influenza dell’ordinamento inglese e la presenza di istituti, quali l’Habeas corpus, recepiti da quella tradizione costituzionale. Secondo tale atto, dovevano essere considerate quali Lois fondamentales del Regno di Francia: – il diritto della Casa regnante al Trono, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura, con l’esclusione delle donne e dei loro discendenti; – il diritto della Nazione di accordare liberamente i sussidi attraverso gli Stati generali regolarmente convocati e composti; – le consuetudini e i capitolari delle province; – l’inamovibilità dei magistrati; – il diritto delle corti di verificare in ciascuna provincia le volontà del Re e di non ordinarne la registrazione se esse non siano conformi alle leggi costitutive della provincia così come alle leggi fondamentali dello Stato; – il diritto di ogni cittadino di non essere portato, in qualsiasi materia, davanti ad altri giudici che i suoi giudici naturali, che sono quelli che la legge designa; – e il diritto, senza il quale tutti gli altri sono inutili, di non essere arrestato, in base a un qualsiasi ordine, se non per essere condotto immediatamente davanti ai giudici competenti 35.

L’ordinamento giuridico della monarchia francese d’Ancien Régime aveva, e conservò fino alla Rivoluzione del 1789, un carattere prevalentemente consuetudinario. La fonte normativa principale era costituita dal complesso delle coutumes locali che, sulla base della Ordinanza di Montils-lès-Tours del 1454 di Carlo VII, furono oggetto di un processo di redazione scritta in raccolte denominate Coutumiers. Seppur incompleta, la redazione delle consuetudini contribuì ad assicurare un maggior grado di certezza al diritto consuetudinario. Nei territori del regno si distinguevano: – i pays de droit coutumier (paesi di diritto consuetudinario), le regioni centro-settentrionali del paese, ove il diritto aveva carattere essenzialmente consuetudinario e il diritto romano, considerato ratio scripta – ossia un insieme di prin-

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J. Flammermont, Remontrances du Parlement de Paris au XVIIIe siècle, III (1768-1788), Imprimerie Nationale, Paris 1898, p. 746.

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cipi giuridici coerenti e razionali – non era annoverato tra le fonti normative in vigore 36; – i pays de droit écrit (paesi di diritto scritto), la parte meridionale della Francia, dove la romanizzazione era stata più rilevante e il diritto romano vigeva quale “consuetudine fondamentale”. Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, la produzione legislativa del sovrano fu nell’insieme piuttosto limitata. Gli interventi legislativi si accentuarono nel corso del XVII e XVIII secolo ma non modificarono il ruolo normativo fondamentale della consuetudine. Con tali interventi la monarchia intese disciplinare soprattutto il diritto pubblico e processuale – come nel caso dell’Ordonnance civile (1667) e dell’Ordonnance criminelle (1670) di Luigi XIV –, mentre evitò di legiferare nel diritto civile sostanziale, se non sporadicamente 37. Sarà solo la Rivoluzione ad abolire la vigenza delle fonti non-legislative (consuetudine, giurisprudenza, dottrina) per stabilire il monopolio normativo dello Stato. In modo schematico – e con l’avvertenza che nell’Ancien Régime non era in vigore una “gerarchia delle fonti” simile a quella degli ordinamenti contemporanei – possiamo indicare quale sistema delle fonti: – le “leggi fondamentali”, di carattere consuetudinario che costituivano la c.d. Costituzione del Regno; – le “leggi regie”, denominate a seconda delle materie trattate e del carattere del provvedimento Ordonannces, Édits, Déclarations, Lettres patentes o ancora Arrêts du Conseil du Roi 38; – la giurisprudenza delle Corti sovrane, in particolare gli Arrêts de Règlement; – le consuetudini locali (coutumes). L’organizzazione dell’ordinamento monarchico francese era estremamente complessa. Essa comprendeva una pluralità di organi consultivi e giurisdizionali che partecipavano a vario titolo al governo del Regno. L’importanza e l’effettività delle funzioni di tali organi erano soggette a continue variazioni nei secoli, 36

L’applicazione del Corpus Iuris giustinianeo dipendeva «solo dal riconoscimento da parte dei giudici della conformità delle sue regole ai princìpi del droit coutumier oppure della sua rispondenza ai criteri di giustizia e di razionalità giuridica» (V. Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese. Lineamenti generali, Liguori, Napoli 1990, p. 70). Abitualmente si ricorda che il ruolo del diritto romano in Francia era fondato imperio rationis e non ratione imperii. 37 I provvedimenti più significativi in materia furono le Ordonnances del Cancelliere Henri François d’Aguesseau sulle donazioni (1731) e sui testamenti (1735) durante il regno di Luigi XV. 38 Gli Arrêts du Conseil du Roi avevano la stessa efficacia degli altri provvedimenti legislativi regi, ma presentavano il considerevole vantaggio per il Re di non essere sottoposti a registrazione da parte del Parlamento.

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per cui risulta difficile, se non impossibile, definirne con precisione competenze e rapporti reciproci. In questa sede ci limiteremo a fornire qualche informazione sulle istituzioni che esercitarono il ruolo più significativo nelle vicende dell’età moderna: i Parlamenti e gli Stati generali. L’ordinamento della monarchia francese ebbe sin dalle origini, e conservò sempre, il suo carattere essenzialmente giurisdizionale. Al sovrano era riconosciuta la pienezza dell’autorità di esercizio della giurisdizione, che costituiva la prerogativa regia fondamentale. Il Re era infatti definito Grand-justicier perché considerato “fonte della giustizia” (fons justitiae): come recitava una celebre massima, toute justice émane du Roi 39. La tradizionale immagine di Luigi IX – San Luigi – che amministrava personalmente la giustizia sotto una quercia nel bosco di Vincennes intendeva evidenziare appunto come la iurisdictio costituisse l’essenza dell’autorità monarchica. Come ha osservato il Royer, «la quercia di Vincennes simbolizza i legami essenziali che non hanno mai separato potere e giustizia ... iurisdictio e imperium, [il Re] è un principe perfetto in quanto principe giustiziere, che possiede e conserverà sempre la prerogativa di amministrare personalmente la giustizia» 40. Le due potestà regie – sottolinea il Caravale – «quella di amministrare la giustizia e l’altra di legiferare erano dunque viste dalla dottrina come intimamente connesse, la seconda essendo diretta conseguenza della prima e da questa sola legittimata. La legislazione era una forma di giustizia» 41. Le Corti sovrane (Cours souveraines) – Parlements, Chambres des comptes, Cours des aides, Cours des monnaies – amministravano la giustizia in nome del Re, svolgevano funzioni di grande rilevanza e godevano di una considerevole indipendenza. I Parlamenti costituivano la giurisdizione suprema, civile, penale e amministrativa, ed erano dotati di competenza generale d’appello nei confronti delle sentenze emanate dai tribunali regi inferiori o dai giudici signorili 42. Il Parlamento di Parigi, sorto nella seconda metà del XIII secolo dalla Curia regis, godeva di privilegi particolari e di un’autorità tale da porlo in una posizione di superiorità rispetto alle altre Corti.

39 Come aveva affermato Luigi XIV, «tra Dio, me e la giustizia, non esiste alcuna legge», (cit. in Ph. Sueur, Histoire du droit public français. XVe-XVIIIe siècle, Presses universitaires de France, Paris 1989, II, p. 246). 40 J.P. Royer, Histoire de la justice en France de la monarchie absolue à la République, Presses universitaires de France, Paris 1995, p. 23. 41 M. Caravale, Ordinamenti giuridici, cit., p. 527. Ciò – osserva Pietro Costa – può stupire chi pensa «illuministicamente al legiferare e al giudicare come a due attività distinte» (Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Giuffrè, Milano 1969, p. 148). 42 Il Parlamento era inoltre giudice di primo grado per una serie di materie, considerate di grande importanza per il Regno, e si trasformava in Corte dei Pari, in occasione di un processo a un Pari di Francia.

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Oltre al Parlamento di Parigi esistevano dodici “Parlamenti provinciali”, progressivamente istituiti dal XIV secolo nelle varie province del Regno, cui fu riconosciuto il ruolo di “Corti sovrane” e affidata l’amministrazione della giustizia regia 43. Alle decisioni del Parlamento di Parigi – e, seppur in misura minore, anche a quelle dei Parlamenti provinciali – era attribuita efficacia normativa, in particolare quando assumevano la forma di Arrêt de règlement, il cui valore erga omnes era formalmente riconosciuto 44. Ai Parlamenti spettava inoltre la registrazione (enregistrement) verifica e conservazione dei provvedimenti legislativi regi. Se le Corti ritenevano che l’atto legislativo violasse in qualche modo le Lois fondamentales – ossia la ‘costituzione del Regno’ – rifiutavano la registrazione (refus d’enregistrement) e rinviavano al Re il testo considerato viziato, accompagnato da una “rimostranza” (remontrance). Si trattava della motivazione giuridica del rifiuto di registrazione. Erano atti segreti e formalmente molto rispettosi nell’indirizzarsi al sovrano: erano definite infatti, «très humbles et très respectueuses remontrances». Il Re poteva cercare di imporre la registrazione con l’emanazione di ordini di registrazione, denominati Lettres de jussion, ma al Parlamento era consentito un ulteriore rifiuto accompagnato da itératives remontrances. Se il sovrano riteneva indispensabile l’entrata in vigore del provvedimento all’origine del contrasto con il Parlamento, poteva convocare il Parlamento in Lit de justice e recarsi di persona a Parigi per ordinarne la registrazione 45. In tal modo i parlamentari tornavano a svolgere il ruolo di “Consiglieri del Re” ed erano costretti a inchinarsi di fronte all’autorità del sovrano. Tutto ciò formava un insieme di prerogative che esulavano dalla funzione giurisdizionale in senso stretto e conferivano al parlamento di Parigi un ruolo anche normativo e, in una certa misura, di giudice della costituzionalità delle leggi. I Parlamenti difesero sempre con forza le loro prerogative e costituirono il più efficace strumento di opposizione alla politica assolutistica dei sovrani francesi. Sarà la Rivoluzione – in questo concorde con la politica dei sovrani

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I Parlamenti furono creati a Toulouse (1443), Grenoble (1453), Dijon (1477), Bordeaux (1462), Aix (1501), Rouen (1515), Rennes (1554), Pau (1620), Metz (1633), Besançon (1676), Douai (1713), Nancy (1775). Furono inoltre stabiliti i Conseils souverains di Arras (1640), Perpignan (1660), Colmar (1667), Bastia (1768). 44 Gli Arrêts de règlement – “sentenze regolamentari” – erano provvedimenti giurisdizionali che avevano efficacia generale e carattere sussidiario e gerarchicamente subordinato rispetto alla legislazione regia. Erano emanati dal Parlamento in presenza di una lacuna legislativa o per la necessità di fornire una disciplina più dettagliata rispetto a quella prevista dal legislatore. Tali provvedimenti contribuivano ad armonizzare la legislazione ed erano prevalentemente ben accolti dal sovrano. 45 La locuzione si riferiva al trono riservato al Re, giudice supremo, appunto denominato Lit de justice, situato nella Grande Chambre del Parlamento di Parigi.

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d’Ancien Régime – a sciogliere i Parlamenti e a riformare integralmente l’ordinamento giudiziario. L’Assemblea degli Stati generali (Assemblée des États généraux) costituiva l’organo rappresentativo dei tre ordini del Regno di Francia: Clero, Nobiltà, Terzo stato. L’Assemblea ebbe origine dalla Curia solemnis o Consilium generale del Re medievale e assunse denominazione e organizzazione stabili soltanto nel XVI secolo. Gli Stati generali erano convocati dal sovrano, sulla base dei tradizionali obblighi feudali del consilium e dell’auxilium, senza alcuna periodicità e costituivano un organo esclusivamente consultivo. La convocazione degli Stati derivava dalla necessità del sovrano di ascoltare i rappresentanti della nazione e di verificarne il consenso a fronte di un’imposizione di tributi straordinari o di altre misure di particolare rilievo. I deputati dei tre ordini, eletti dalle varie comunità di Francia, erano portatori di Cahiers de doléances, che raccoglievano una serie di lagnanze indirizzate al Re allo scopo di porre rimedio a eventuali abusi o per far fronte a rilevanti questioni locali o nazionali 46. Al termine dei lavori i tre Stati redigevano i Cahiers généraux che venivano sottoposti al sovrano. In genere, parte delle rivendicazioni degli Stati era accolta con la successiva emanazione di un’Ordonnance del Re. Gli Stati generali furono convocati frequentemente nel XVI secolo, negli anni delle guerre di religione. Dopo l’Assemblea che si riunì a Parigi nel 1614, durante la minorità di Luigi XIII, gli Stati generali non furono più convocati prima della Rivoluzione. La mancata convocazione degli Stati generali dal 1614 al 1789 indusse i Parlamenti, e in particolare il Parlamento di Parigi, ad auto-proclamarsi rappresentanti della nazione. Ciò fu interpretato da parte del sovrano come un abuso e alimentò la contrapposizione politica e giuridica tra gli esponenti del “partito parlamentare” e di quello monarchico 47. Di fronte ai tentativi di limitare l’autorità e l’indipendenza delle Corti si generarono innumerevoli e aspri conflitti tra Re e Parlamenti che costellarono in particolare i regni di Luigi XV e di Luigi XVI. Gli ultimi decenni dell’Ancien Régime furono dunque caratterizzati da una sostanziale incomprensione della portata delle trasformazioni culturali e sociali in atto, da parte degli ambienti monarchici. Di fronte alla duplice opposizione, conservatrice degli ambienti “parlamentari” e riformatrice dei “liberali”, la monarchia ripropose la formula assolutistica nella sua piena accezione. Emblematiche al riguardo sono le durissime parole di Luigi XV pronunciate di fronte al Par46

Da notare che i Cahiers de doléances si basavano sul principio del “mandato imperativo”, ossia obbligavano il deputato agli Stati generali a mantenersi rigidamente nell’ambito delle questioni e delle soluzioni indicate nel Cahier del quale era portatore. 47 Negli ambienti parlamentari si elaborò una Théorie des classes che legittimava l’opposizione alla politica assolutista del Re sulla base dell’appartenenza dei magistrati a un’unica classe e a un unico Grand Parlement de France, rappresentante della nazione in assenza degli Stati generali. Sviluppatasi nel XVII secolo negli anni della Fronda, la teoria fu ripresa nel corso del XVIII in occasione dei conflitti tra Luigi XV e i Parlamenti.

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lamento di Parigi il 3 marzo 1766 per porre fine alla ribellione dei magistrati. Si tratta del discorso della c.d. “seduta della Flagellazione” (Séance de la Flagellation), considerato come una sorta di “Testamento” dell’assolutismo monarchico: «[Non si può dimenticare] che è nella mia sola persona che risiede il potere sovrano ... che è da me solo che le corti derivano la loro esistenza e la loro autorità; che la pienezza di questa autorità, che esse non esercitano che in mio nome, dimora sempre in me, e che il suo uso non può mai rivolgersi contro di me; che è a me solo che appartiene il potere legislativo senza dipendenza e senza condivisione alcuna; che è per la mia sola autorità che i magistrati delle mie corti procedono, non alla formazione, ma alla registrazione, alla pubblicazione, alla esecuzione delle leggi ...; che l’ordine pubblico è affidato interamente a me e che i diritti e gli interessi della Nazione ... sono necessariamente uniti con i miei e non sono tutelati che dalle mie mani» 48.

L’arroccamento della monarchia su posizioni assolutistiche – qui esemplificato dalle parole di Luigi XV – e la scarsa percezione della rilevanza delle nuove dottrine politiche e giuridiche possono senz’altro annoverarsi tra le molte cause della Rivoluzione francese. Sul terreno politico-costituzionale, la Rivoluzione intese abbattere l’ordinamento dell’assolutismo, che fu denominato Ancien Régime proprio per enfatizzare il carattere profondamente innovativo delle istituzioni rivoluzionarie. La critica alla monarchia assoluta, fondata sulle dottrine dell’Illuminismo, aveva individuato quali obiettivi primari delle riforme l’istituzione di uno “Stato di diritto”, un’ampia riforma dell’ordinamento giudiziario e la creazione di un nuovo sistema di fonti, grazie alla progressiva codificazione di tutte le branche del diritto e all’abrogazione delle fonti tradizionali (consuetudini, giurisprudenza e dottrina). La convocazione nel maggio del 1789 dell’Assemblea degli Stati generali – l’organo di origine medievale rappresentativo dei ceti (États) del Regno di Francia (Clero, Aristocrazia, Terzo Stato) che non era più convocato dal 1614 – consentì di avviare quel processo riformatore teorizzato dalla dottrina illuminista. La riunione dell’Assemblea fu preceduta dalla redazione dei Cahiers de doléances, ossia la raccolta delle principali rivendicazioni delle varie comunità e dei ceti indirizzate al Re in occasione degli Stati generali. L’esplicita richiesta di una “costituzione” (Constitution) è presente in innumerevoli Cahiers, particolarmente in quelli del Terzo Stato. Le rivendicazioni dei Cahiers facevano prevalentemente riferimento a un testo costituzionale “scritto” mentre – come abbiamo rilevato – la “Costituzione del Regno” (Constitution du Royaume) dell’Ancien Régime era un insieme di norme consuetudinarie (le Lois fondamentales) considerate gerarchicamente sovraordinate rispetto alle leggi regie. La richiesta di 48 Il testo, spesso citato, si trova in J. Flammermont, Remontrances du Parlement de Paris, cit., II, pp. 557 ss., e anche in J.-M. Carbasse e G. Leyte, L’État royal XIIe-XVIIIe siècles. Une anthologie, Presses universitaires de France, Paris 2004, pp. 180-182 [traduzione e corsivi miei].

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una costituzione scritta rispondeva all’esigenza di stabilire una cesura netta con l’assolutismo – le cui “norme costituzionali” avevano carattere consuetudinario – e di fissare in un patto le norme sulle quali fondare il nuovo ordinamento. Una volta riuniti gli Stati generali, l’Assemblea dei rappresentanti del Terzo Stato avviò rapidamente un processo rivoluzionario che la condusse ad autoproclamarsi “Assemblea nazionale” il 17 giugno 1789. Il Terzo Stato – secondo le note considerazioni di Emmanuel-Joseph Sieyès (1784-1836) già espresse nel pamphlet del 1789, Qu’est-ce que le Tiers état? 49 – rappresentava la grande maggioranza dei francesi, per cui i suoi deputati, anche in assenza di quelli del clero e della nobiltà, avrebbero potuto legittimamente interpretare la “volontà generale” della Nazione. Si trattò del primo e fondamentale atto rivoluzionario che condusse alla trasformazione degli Stati generali in una vera e propria assemblea costituente 50. Con la legge del 4 agosto 1789 la Costituente abolì tutti i privilegi, stabilendo così l’uguaglianza giuridica dei cittadini. Nell’Ancien Régime esisteva infatti una molteplicità di status giuridici: l’istituzione del soggetto unico di diritto (il “cittadino”), attuata dal legislatore rivoluzionario, rappresentò una premessa fondamentale per la costruzione del nuovo ordinamento. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, emanata dalla Costituente il 26 agosto 1789, fu senza dubbio uno degli atti più rilevanti di tutto il costituzionalismo europeo. Ispirata ai principi del giusnaturalismo e del contrattualismo, la Dichiarazione costituì una sorta di manifesto programmatico per il legislatore rivoluzionario. Nei diciassette articoli che la compongono si trovano enunciati i diritti fondamentali del costituzionalismo liberale. Difficile è riassumere in poche parole l’ampiezza e la profondità delle innovazioni introdotte. Ci riferiamo, ad esempio, alla previsione della libertà e della uguaglianza dei cittadini, del diritto di resistenza all’oppressione 51, della sovranità popolare 52, della libertà personale 53, della libertà di manifestazione del pensiero 54, della libertà 49 E.J. Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers état?, s.l. 1789 (trad. it. Che cosa è il Terzo stato?, a cura di U. Cerroni, Editori riuniti, Roma 1972). 50 La denominazione di Assemblea Nazionale Costituente fu assunta dall’Assemblea il 9 luglio 1789. 51 Art. 1 – Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. Art. 2 – Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Vi è anche una definizione della “libertà”: art. 4 – Questi limiti non possono essere determinati che dalla legge. 52 Art. 3. – Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non ne derivi espressamente. 53 Art. 7. – Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte [...]. 54 Art. 11. – La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più

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religiosa 55, della tutela della proprietà privata, definita “sacra e inviolabile” 56. Sono inoltre contemplati alcuni degli istituti essenziali del garantismo giudiziario, quali la presunzione d’innocenza, il divieto degli arresti arbitrari e dei maltrattamenti dei cittadini sottoposti a giudizio penale 57, la legalità e l’irretroattività delle norme penali 58. È opportuno evidenziare il risalto dato dalla Dichiarazione dei diritti del 1789 alla legge, definita con terminologia rousseauiana «espressione della volontà generale» (art. 6), alla cui formazione «tutti i cittadini hanno diritto di concorrere personalmente o mediante i loro rappresentanti» e quindi considerata fonte del diritto per eccellenza. La dottrina parla, a tal riguardo, di “legicentrismo” proprio per sottolineare la rilevanza attribuita alla “legge” dall’ordinamento rivoluzionario, al punto da prefigurare un suo monopolio normativo, ossia l’esclusione di tutte le fonti giuridiche non-legislative, quali la consuetudine, la giurisprudenza e la dottrina. In tale prospettiva, la legge era considerata l’unico strumento capace di modificare profondamente non solo l’ordinamento giuridico, ma anche la società stessa: così a un sistema consuetudinario, basato sulla tradizione – quale l’Ancien Régime – ne subentrò uno legislativo e volontaristico. Il nuovo ordinamento, ritenuto il “regno della legge”, avrebbe dunque consentito quella rigenerazione sociale auspicata dai rivoluzionari francesi. Occorre osservare come, grazie al testo del 1789, il principio della riserva di legge pervenga a una sua compiuta definizione. Si tratta, com’è noto, del principio per il quale determinate materie devono necessariamente essere disciplinate dalla “legge” dello Stato, con l’esclusione delle altre fonti normative. È il caso, ad esempio, degli artt. 4, 7, 10 e 11 della Dichiarazione dei diritti, che stabilivano una tassativa riserva di legge a ogni forma di limitazione delle libertà dei cittadini 59. Di particolare importanza è inoltre la riserva di legge prevista in mate-

preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge. 55 Art. 10. – Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge. 56 Art. 17. – La proprietà ... [è un] diritto inviolabile e sacro [...]. 57 Art. 9. – Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla legge. 58 Art. 8. – La legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata. 59 L’art. 4 prevedeva, in generale, che le limitazioni alla libertà dei cittadini «non possono essere determinati che dalla legge». Più specificamente, l’art. 7 si riferiva alla libertà personale (della quale i cittadini non potevano essere privati «se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte»), gli artt. 10 e 11 alla libertà religiosa, di manifestazione del pensiero e alla libertà di stampa.

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ria penale dall’art. 8, per il quale «nessuno può essere punito se non in virtù di una legge». Con l’art. 16 della Dichiarazione del 1789 – del quale abbiamo già parlato – il legislatore rivoluzionario forniva una significativa definizione valutativa del termine “costituzione”, tendente a identificare “costituzione” con “costituzione liberale”. Si stabiliva infatti che solo l’effettiva garanzia dei diritti civili e la separazione dei poteri potessero qualificare l’ordinamento in senso costituzionale: «ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione» 60. L’Assemblea costituente francese proseguì i suoi lavori per altri due anni e giunse all’approvazione del primo testo costituzionale il 3 settembre 1791. La costituzione era preceduta dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, che ne faceva parte integrante, e da un Preambolo. Si trattava di una costituzione “rigida”: per la sua revisione era infatti prevista una complessa procedura. Era inoltre una costituzione “lunga”: composta di 209 articoli, in 7 titoli, essa contemplava anche norme programmatiche e disposizioni di carattere sociale. Il testo del 1791 stabilì una “monarchia costituzionale pura”, in quanto il Re – non più “Re di Francia”, ma “Re dei Francesi” – conservava la titolarità esclusiva del potere esecutivo, nominava e revocava i ministri e non era prevista una forma di responsabilità politica del governo nei confronti dell’organo legislativo. La funzione legislativa era esercitata da un’Assemblea monocamerale, l’Assemblée législative, eletta a suffragio censitario a doppio grado con un mandato di due anni 61. Al Re, “irresponsabile” giuridicamente grazie all’istituto della controfirma ministeriale, era attribuito il potere di “veto sospensivo”, ossia la possibilità di rifiutare la sanzione di una legge approvata dall’Assemblea: il veto poteva essere superato soltanto con un’approvazione, dello stesso testo, nelle due legislature successive. Al sovrano, in ossequio al principio della separazione dei poteri, non spettava l’iniziativa legislativa, attribuita esclusivamente all’Assemblea stessa. La costituzione stabilì l’indipendenza e l’elettività della magistratura in tutti i suoi gradi e funzioni, dai Giudici di pace sino ai giudici di Cassazione e ai Pubblici ministeri. In materia penale vennero istituite Giurie popolari, d’accusa e di giudizio. Il principio ispiratore del testo del 1791 fu senz’altro quello di una rigida se-

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L’enunciato identifica – come un “teorema geometrico” (L. Duguit, La séparation des pouvoirs et l’Assemblée nationale de 1789, in Revue d’économie politique, VII [1893], p. 613) – costituzione e separazione dei poteri. La dottrina giuspubblicistica classica sosteneva che «l’articolo 16 non può essere preso alla lettera, e che esso esprime soltanto l’idea che una società nella quale la separazione dei poteri non sia determinata non ha una costituzione degna di questo nome» (M. Troper, La séparation des pouvoirs et l’histoire constitutionnelle française, LGDJ/Montchrestien, Paris 1980, p. 158). 61 Godevano del diritto di voto solo i “cittadini attivi”, ossia i cittadini che pagavano imposte dirette pari al valore di almeno tre giornate di lavoro.

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parazione dei poteri. Si pensi, ad esempio, all’incompatibilità delle funzioni di ministro con quelle di deputato, all’assenza dell’istituto della fiducia parlamentare e al divieto per il Re di sciogliere l’Assemblea. A tal proposito è da ricordare l’istituto del référé législatif con il quale si impediva alla Cassazione di pronunciarsi sull’interpretazione delle norme controverse – in caso di conflitto con il giudice di merito – con l’obbligo di rivolgersi al legislatore: in questo modo il legislativo, attraverso l’emanazione di una legge interpretativa, avrebbe fornito l’interpretazione autentica, vincolante erga omnes. Per garantire la separazione dei poteri, si intendeva dunque proteggere il legislativo dal rischio di una possibile ingerenza della giurisprudenza che, attraverso l’interpretazione, avrebbe inevitabilmente svolto un ruolo creativo. È importante sottolineare che la costituzione del 1791 non prevedeva un assetto istituzionale tale da porre i tre poteri sullo stesso piano: al legislativo, espressione della volontà generale, fu assicurata la superiorità rispetto all’esecutivo e, soprattutto, nei confronti del potere giudiziario. Ciò per assicurare al legislativo la possibilità di legiferare con efficacia e rapidità. Il ricordo delle funzioni normative svolte dai Parlamenti dell’Ancien Régime – in particolare attraverso gli Arrêts de règlement – era, infatti, ancora molto vivo e costituiva il pericolo che si intendeva scongiurare. Malgrado i continui riferimenti a Montesquieu e alle dottrine della separazione dei poteri, appare evidente come la Costituente abbia re-interpretato tali dottrine alla luce delle teorie democratiche rousseauiane, rifiutando così l’equilibrio dei poteri per garantire la supremazia del legislatore. Non si può, inoltre, negare il contrasto esistente tra il principio della separazione dei poteri – cui all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti – e l’enunciato dell’art. 1, tit. III, Cost. 1791, ove si afferma che «la sovranità è una, indivisibile, inalienabile e imprescrittibile». Si può concludere che, in nome della indivisibilità della sovranità popolare, il principio della separazione dei poteri fu attuato in modo diverso rispetto, ad esempio, al costituzionalismo americano (ove i poteri si trovano in equilibrio), assegnando al legislatore un ruolo di netta preminenza sull’esecutivo e relegando la giurisdizione a una funzione burocratica di mera applicazione sillogistica della legge alla fattispecie concreta. Come ha opportunamente osservato Stéphane Rials, nell’esperienza costituzionale francese sono presenti, sin dalle origini, alcuni principi essenziali, quali: – il principio della sovranità popolare, considerata esclusiva e inalienabile; – la fiducia nel costituzionalismo razionalistico; – l’affermazione del primato della legge quale strumento per la garanzia della libertà; – l’accettazione, con alcune riserve, del sistema rappresentativo; – la preferenza per un legislativo monocamerale, ritenuto più fedele alla volontà popolare rispetto al bicameralismo; – la diffidenza nei confronti dell’esecutivo 62.

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S. Rials, Une doctrine constitutionnelle française?, in Pouvoirs, L (1989), p. 87.

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Tali principi costituiscono una vera e propria “dottrina costituzionale francese” che, nonostante la complessa e certamente non lineare evoluzione degli ordinamenti, ha caratterizzato la storia costituzionale per tutto il XIX e XX secolo. La costituzione del 1791 ebbe una vita brevissima: l’accentuarsi dei contrasti tra l’Assemblea e il Re e la scoperta dell’esistenza di relazioni segrete tra il sovrano e le potenze straniere in guerra con la Francia, condussero al colpo di Stato del 10 agosto 1792. Luigi XVI fu deposto e in settembre tutti i cittadini di sesso maschile, senza alcuna distinzione di censo, furono chiamati a eleggere una nuova assemblea, la “Convenzione nazionale” 63. Il 22 settembre 1792 la Convenzione proclamò la Repubblica. La riforma della costituzione del 1791 apparve subito impossibile a causa della macchinosità del sistema di revisione previsto. Inoltre, il mutato clima politico contribuì a suggerire l’adozione di una nuova costituzione, in grado di esprimere l’orientamento ormai prevalente, democratico e radicale. La Convenzione fu così impegnata da un lato a governare provvisoriamente la Francia, grazie all’assunzione dei pieni poteri, e dall’altro a redigere il nuovo testo costituzionale. Quanto alla composizione della Convenzione, esistevano due gruppi politici ben definiti: i “Montagnardi” – la maggioranza dei quali costituiva il partito dei “Giacobini” –, che rappresentavano l’ala più radicale dell’assemblea, e i “Girondini”, esponenti dell’area più moderata. Tra i due gruppi si collocavano i deputati, definiti della “Pianura” (o della “Palude”) privi di un orientamento politico preciso. La Convenzione preparò un primo progetto costituzionale, frutto della iniziale prevalenza dei girondini nell’assemblea. Il testo – noto come “costituzione girondina” o “progetto Condorcet” 64 – si caratterizzava per la sua lunghezza (403 articoli) e per l’orientamento democratico. Sia il legislativo – monocamerale –, che l’esecutivo sarebbero stati eletti a suffragio universale diretto; alcuni istituti di democrazia diretta – quali la c.d. “censura popolare” sulle leggi – avrebbero garantito l’espressione della volontà popolare. Il colpo di Stato montagnardo e la conseguente epurazione dei girondini – molti dei quali furono condannati a morte dai tribunali rivoluzionari – provocarono nel maggio del 1793 l’abbandono del progetto girondino. Un nuovo testo, questa volta espressione dei Montagnardi, fu approvato dalla Convenzione il 24 giugno 1793 e successivamente dal popolo attraverso un referendum. La nuova costituzione – composta di 124 articoli e preceduta da una Dichiarazione dei diritti di 35 articoli – riprendeva in parte il progetto girondino, semplificandolo e attenuando considerevolmente la separazione dei poteri, attraverso la subordinazione dell’esecutivo, non più elettivo, al corpo legislativo 65. L’ordinamento è caratterizzato da una concezione de63 Ricordiamo che nell’autunno del 1792 il Re fu processato dalla Convenzione e condannato a morte. Luigi XVI fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. 64 Dal nome del relatore alla Convenzione, il filosofo e scienziato Marie-Jean– AntoineNicolas de Caritat de Condorcet (1743-1794), esponente girondino. 65 I critici del progetto girondino, evidenziando l’eccessiva autorità dell’esecutivo, avevano parlato – come Saint-Just – di «royauté des ministres».

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mocratica radicale d’ispirazione rousseauiana, e dalla previsione di una serie di nuovi diritti, in campo sociale ed economico, tali da prefigurare, in una certa misura, l’ordinamento dello “Stato sociale” novecentesco. Ci riferiamo, ad esempio, al diritto al lavoro, all’assistenza sociale e all’istruzione. Sono riconosciuti il diritto di resistenza all’oppressione («La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo» 66) e il diritto-dovere all’insurrezione («quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo ... il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri» 67). È possibile rilevare come dal testo costituzionale emerga una concezione “autoritaria” della democrazia: si pensi all’art. 27 della Dichiarazione dei diritti, che sanzionava con la morte la “usurpazione” della sovranità: «ogni individuo che usurpa la sovranità, sia all’istante messo a morte dagli uomini liberi». Oltre all’evidente difficoltà di qualificazione dei comportamenti idonei a configurare una “usurpazione della sovranità”, si deve evidenziare nell’enunciato dell’art. 27 della Dichiarazione dei diritti, l’assenza dei più elementari principi di garantismo. Tali principi hanno costituito invece una delle fondamentali acquisizioni della cultura giuridica francese nel periodo rivoluzionario. L’enunciato appare soprattutto destinato a colpire l’immaginario collettivo e a segnalare il mutamento del clima politico, mentre il suo contenuto propriamente giuridico è assai limitato. Come osserva il Mortati, si tratta di «un’ipotesi che per sua stessa natura si sottrae al dominio del diritto. [...] Il valore che si può riconoscere alla disposizione stessa è pertanto solo pedagogica, di morale politica, essendo essa rivolta ad incitare i cittadini alla ribellione contro l’oppressione» 68. Il principio della separazione dei poteri che, s’è detto, caratterizzava il testo del 1791 e fu costituzionalizzato all’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, scomparve dal testo del 1793 per essere sostituito da un assai più vago riferimento ai «limiti delle funzioni pubbliche» 69. Ciò corrispondeva realmente a una ispirazione culturale diversa che, in nome della rousseauiana indivisibilità della “volontà generale”, tendeva a rifiutare la separazione dei poteri e a stabilire una supremazia del legislativo tale da configurare una sorta di “dittatura dell’Assemblea”. L’assetto istituzionale conferma tale impostazione generale. Il legislativo, monocamerale, era eletto a suffragio universale maschile con un mandato di un anno e svolgeva un ruolo centrale nell’ordinamento costituzionale 70. Attraverso un sistema di silenzio-assenso e grazie all’istituto del “veto popolare”, il popolo esercitava un controllo sulla funzione legislativa. Il potere esecutivo risultava considerevolmente ridotto: il “Consiglio esecutivo”, compo66

Art. 33, Dichiarazione dei diritti. Art. 35, Dichiarazione dei diritti. 68 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Cedam, Padova 1975, II, p. 1246. 69 Art. 24, Dichiarazione dei diritti. 70 Da notare che alle elezioni i cittadini avrebbero votato segretamente o ad alta voce, a loro scelta. 67

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sto da ventiquattro membri nominati dal legislativo per due anni, era stabilito presso l’assemblea legislativa, a sottolinearne la dipendenza. Le sue funzioni erano molto limitate. La magistratura manteneva il suo carattere elettivo in tutte le sue articolazioni. La costituzione del 1793 (o dell’anno I, secondo il calendario rivoluzionario) non entrò mai in vigore. La situazione d’emergenza, provocata dalla guerra contro le potenze della prima coalizione, indusse la Convenzione a decretare il 10 ottobre 1793 (19 vendemmiaio anno II) che «il governo sarà rivoluzionario fino alla pace», rinviando l’applicazione del nuovo testo. La Francia per tutto il 1793 e fino al colpo di Stato del 27 luglio 1794 (9 termidoro anno II) fu governata dalla Convenzione attraverso il Comitato di salute pubblica, un organo straordinario dominato dalla figura di Robespierre. Con il “governo rivoluzionario” la Francia conobbe il c.d. periodo del Terrore: la lotta politica degenerò al punto da giungere alla eliminazione fisica degli avversari, grazie ai processi politici celebrati dal Tribunale rivoluzionario, strumento dei gruppi politici dominanti. Furono migliaia le condanne a morte: la repressione politica colpì dapprima i moderati, come i Girondini, successivamente gli estremisti, come Hébert e i suoi seguaci, poi gli stessi Montagnardi come Hérault de Séchelles – il quale era stato addirittura il relatore alla Convenzione della costituzione del 1793 – o Danton 71. Nonostante i molti dubbi sulla sua concreta possibilità di applicazione e le perplessità suscitate da alcune disposizioni, la costituzione del 1793 ha esercitato un’importante influenza politica e culturale, al punto da essere considerata da alcuni autori come il testo costituzionale più democratico della storia francese. Con il colpo di Stato del 9 Termidoro anno II (27 luglio 1794) Robespierre e i suoi seguaci più fedeli furono arrestati e condannati a morte. La nuova fase della storia costituzionale francese si caratterizzò per il clima politico più moderato e un ritorno alle concezioni liberali. La costituzione del 1793 fu abbandonata, perché ritenuta troppo legata alla cultura democratico-radicale dei Giacobini. La Convenzione, epurata dai deputati più compromessi con il passato regime e reintegrata con i Girondini sopravvissuti al Terrore, approvò il 5 fruttidoro anno III (22 agosto 1795) un nuovo testo costituzionale. Si trattò di una costituzione rigida, particolarmente lunga (377 artt.) preceduta da una Dichiarazione dei diritti e dei doveri, composta da 31 articoli. Se l’intento principale del costituente del 1793 fu la realizzazione di un ordinamento democratico che consentisse una effettiva partecipazione popolare, nel 1795 a prevalere fu invece l’intento opposto. Evidente è infatti la diffidenza nei confronti degli istituti democratici e la preoccupazione della garanzia dell’ordine sociale. Particolarmente significativa al riguardo è la reintroduzione del

71 Tra le innumerevoli vittime celebri del Terrore, ci limitiamo a ricordare Brissot, Hébert, Danton, Barnave, Hérault de Séchelles. Mentre Condorcet, fuggito da Parigi, fu arrestato e morì (probabilmente suicida) in carcere.

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suffragio censitario, allo scopo proprio di consentire l’esercizio dei diritti politici alla sola borghesia, ossia al ceto che forniva il consenso al nuovo regime. Messa da parte la Dichiarazione dei diritti del 1793, nel nuovo testo è ripresa l’impostazione generale di quella del 1789, eliminando però i riferimenti al diritto naturale e al diritto di resistenza. Al riguardo è emblematico il caso dell’art. 1 della Dichiarazione del 1789, «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Nel testo del 1795 si afferma semplicemente, all’art. 1, «i diritti dell’uomo in società sono la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza, la proprietà«, evitando così di enfatizzare l’idea della naturalità e della perpetuità di tali diritti. Quanto alla Dichiarazione dei doveri, ci troviamo in presenza di una sorta di “catechismo” laico, ove con la fusione della sfera privata con quella pubblica, il moralismo e il paternalismo prevalgono sul diritto. Ci basta citare l’art. 4, per il quale «nessuno è buon cittadino, se non è buon figlio, buon padre, buon fratello, buon amico, buon marito», o l’art. 5, che stabilisce che «nessuno è uomo perbene se non è francamente e religiosamente osservatore delle leggi». È evidente che definizioni quali “buon cittadino” o “uomo perbene”, che vi compaiono, non appartengono certamente alla cultura giuridica liberale, per la quale i comportamenti sono considerati “leciti” o “illeciti” e non può avere alcun rilievo giuridico ciò che, nell’ambito della liceità, riguarda la sfera privata del cittadino. La separazione dei poteri – rifiutata nel periodo giacobino – tornò a essere il principio ispiratore di tutto l’ordinamento costituzionale e fu interpretata in modo molto rigido stabilendo drastiche incompatibilità e limitazioni. L’organo legislativo divenne, per la prima volta, bicamerale, in considerazione dell’esigenza di garantire una maggiore ponderazione nell’attività legislativa e di impedire che un’azione troppo rapida potesse riportare la Francia in una situazione come quella vissuta in precedenza. Un Consiglio dei Cinquecento, composto da deputati più giovani, avrebbe rappresentato la “immaginazione”, mentre il Consiglio degli Anziani, la “ragione”. Entrambi i Consigli erano eletti a suffragio censitario, con un mandato di tre anni. Le funzioni dei due rami del legislativo erano diverse – perciò il sistema è definito “bicameralismo imperfetto” – in quanto la redazione dei progetti di legge era prerogativa dei Cinquecento, mentre agli Anziani spettava l’approvazione o il rigetto dei progetti, senza la possibilità di introdurre emendamenti. L’esecutivo era affidato a un Direttorio, composto da cinque membri, eletti dal Consiglio degli Anziani nell’ambito di una lista formulata dal Consiglio dei Cinquecento, con un mandato di cinque anni. La magistratura, di cui fu confermata l’elettività, non fu oggetto di particolari riforme, e vide confermato il ruolo subordinato affidatole dal legislatore rivoluzionario, rispetto agli altri due poteri. La costituzione del 1795, che restò in vigore fino al colpo di Stato napoleonico del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799), ebbe il più lungo periodo di vigenza dei testi costituzionali rivoluzionari. Negli anni della sua applicazione si verificarono numerose azioni di forza – da alcuni definiti “colpi di Stato” – che

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turbarono lo svolgimento della normale dialettica istituzionale. Ci riferiamo all’annullamento delle elezioni, più volte operato dal Direttorio, e allo scioglimento del Direttorio, imposto dai Consigli. È difficile stabilire se la causa della instabilità di quegli anni fosse da imputare all’ordinamento costituzionale o, invece, al clima politico e sociale. Certamente l’assetto costituzionale dei poteri legislativo ed esecutivo, entrambi detentori di considerevoli prerogative, favorì l’insorgere di tensioni e conflitti, soprattutto in presenza di una classe politica ancora lacerata dalle violente contrapposizioni vissute. È opportuno ricordare che la costituzione dell’anno III fu il primo testo costituzionale – modernamente inteso – a essere adottato in Italia. In seguito all’occupazione militare francese iniziata nel 1796, sorsero alcune Repubbliche formalmente indipendenti, definite “Repubbliche sorelle”: le Repubbliche Cisalpina, Cispadana, Romana, Napoletana. Esse predisposero testi costituzionali che riprendevano, con alcuni adattamenti, la costituzione francese dell’anno III. Come abbiamo visto, il costituzionalismo francese è caratterizzato dalla netta affermazione della supremazia del legislativo sugli altri poteri. L’enfatizzazione del ruolo del legislatore si accompagna, a livello di teoria del diritto, al monopolio normativo della legge e all’esclusione delle fonti non legislative dal novero delle fonti di produzione normativa (legicentrismo). La legge, espressione della volontà generale, è opera di un legislatore eletto dal popolo e rappresentativo della sovranità popolare. Per questo motivo il costituzionalismo rivoluzionario si basa sul principio della onnipotenza del legislatore e della sua infallibilità: si tratta dunque di un legislatore “virtuoso”. Come osserva il Fioravanti, «il legislatore non può ledere i diritti individuali perché è necessariamente giusto; ed è tale perché incarna in sé la volontà generale del popolo» 72. Mentre la costituzione americana diffida del legislatore e appartiene alla categoria delle “costituzioni garanzia”, i testi della Francia rivoluzionaria esaltano la funzione della legge e possono definirsi “costituzioni indirizzo”, ossia testi costituzionali che individuano obiettivi comuni da raggiungere e stabiliscono norme programmatiche cui si dovrà attenere il legislatore 73. Si possono individuare due grandi tradizioni nell’esperienza del costituzionalismo moderno: quella liberal-democratica (anglosassone) e quella democraticoradicale (francese). Più specificamente: a) il costituzionalismo liberal-democratico deriva dalla storia e dalla cultura giuspubblicistica inglese e americana. Sottolinea soprattutto il valore della liber-

72 M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni, cit., p. 73. L’Autore definisce l’approccio del costituzionalismo rivoluzionario al problema delle libertà come antistoricistico (perché intende stabilire una cesura netta con il passato che definisce appunto Ancien Régime); statualistico (perché afferma il monopolio normativo dello Stato) e individualistico (perché privilegia i diritti dell’individuo nei confronti di quelli della comunità). 73 Ivi, p. 101.

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tà, fondata sul binomio liberty and property. Tutela specificamente le libertà negative, le c.d. “libertà dallo Stato”, nei confronti dell’ingerenza dei poteri pubblici. A livello di organizzazione istituzionale, esso si caratterizza per la ricerca di un equilibrio dei poteri, attraverso un sistema di checks and balances. Il potere giudiziario, in tale esperienza, esercita un ruolo molto rilevante e non ha una funzione di mera applicazione della legge alla fattispecie concreta ma – in base all’ordinamento di common law – anche un ruolo normativo. Delle due tradizioni cui facciamo riferimento, quella americana si differenzia da quella inglese in particolare per la presenza di un testo costituzionale scritto e per la rigida separazione dei poteri; b) il costituzionalismo democratico-radicale ha origine dalla Rivoluzione francese del 1789. Enfatizza soprattutto il valore dell’uguaglianza, anche a costo di attenuare le libertà negative, in favore di quelle positive (quali i diritti politici). Si basa sul monopolio normativo della legge, espressione della volontà generale, e rifiuta le fonti del diritto non legislative (legicentrismo). L’ordinamento prevede la supremazia del legislativo sugli altri poteri. La funzione giurisdizionale è concepita come applicazione sillogistica della legge, per cui al giudice, considerato bouche de la loi, è inibita ogni attività riconducibile alla normazione. Con il colpo di Stato del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799) Napoleone Bonaparte prese il potere, in qualità di Primo Console. La Rivoluzione era effettivamente terminata e si apriva una nuova fase della storia costituzionale francese. Fu quindi emanata, il 22 frimaio anno VIII (13 dicembre 1799), una nuova costituzione. L’ordinamento costituzionale si caratterizzò per la netta prevalenza dell’esecutivo sul legislativo e per l’abolizione di parte degli istituti posti a garanzia della separazione dei poteri. È necessario chiarire subito che il costituzionalismo napoleonico non può essere ricondotto al costituzionalismo liberale. Si trattò di un ordinamento autoritario, che intendeva garantire una sorta di onnipotenza dell’esecutivo: per questo motivo non vi dedicheremo che pochissimi cenni. La costituzione era – secondo le indicazioni dello stesso Napoleone – “corta e oscura”, concepita in modo tale da “non disturbare l’azione del governo”. Il testo si componeva di 95 articoli e, per la prima volta in Francia, era priva di una “Dichiarazione dei diritti”. La funzione legislativa fu affidata a una pluralità di organi: il Consiglio di Stato formulava i progetti di legge, il Tribunato li discuteva ed emendava, il Corpo legislativo li approvava o respingeva senza poter introdurre emendamenti (da qui la definizione di Corps des muets). L’iniziativa legislativa spettava al solo esecutivo. Il Senato svolgeva il ruolo di controllo preventivo della costituzionalità delle leggi. Per gli organi costituzionali erano previsti sistemi di nomina molto complessi, basati sulla nomina governativa, sulla cooptazione o con procedure miste elettive e di nomina governativa. L’esecutivo era composto da un triumvirato di tre Consoli: la costituzione stessa (art. 39) nominava Napoleone Bonaparte, Primo Console, e Jean-Jacques

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Cambacérès e Charles-François Lebrun, Consoli. L’evoluzione autoritaria dell’ordinamento napoleonico condusse a una serie di riforme costituzionali: nel 1802 Napoleone divenne Primo Console a vita e, nel 1804, “Imperatore dei Francesi”. La magistratura fu oggetto di numerosi interventi di riforma, volti ad attenuarne progressivamente l’indipendenza, attraverso l’abolizione dell’elettività in favore della nomina governativa. Le frequenti epurazioni assicurarono un effettivo controllo dell’esecutivo sulla composizione delle corti di giustizia e sulla funzione giurisdizionale stessa. L’ordinamento napoleonico non appartiene, con tutta evidenzia, al costituzionalismo liberal-democratico. Esso inaugurò una tradizione di “cesarismo democratico”, ossia un autoritarismo plebiscitario fondato sul consenso popolare – sollecitato con il c.d. appel au peuple –, che si diffonderà ulteriormente, e non solo in Francia, nel XIX e XX secolo.

6. La Restaurazione e le costituzioni europee (1814-1848) In seguito alla sconfitta di Napoleone, il Senato imperiale emanò il 6 aprile 1814 un progetto di costituzione, definito “Progetto senatoriale”, con il quale era restaurata la monarchia in Francia e chiamato al trono, in qualità di “Re dei Francesi”, Louis-Stanislas Xavier, fratello minore di Luigi XVI. Il progetto costituzionale fu respinto dal nuovo Re – che aveva assunto il nome di Luigi XVIII – il 2 maggio 1814 con il Proclama di Saint-Ouen. Contestualmente il Re incaricò una specifica commissione di preparare un nuovo testo costituzionale che fu emanato il 4 giugno 1814. Per questa sua caratteristica di testo “concesso” unilateralmente da un sovrano assoluto fu definita Charte octroyée, (“costituzione ottriata”), in quanto, contrariamente alle costituzioni rivoluzionarie, non era frutto, in alcun modo, di un’assemblea costituente rappresentativa della sovranità popolare. Anche la scelta della denominazione di Charte – legata alla terminologia della tradizione giuridica medievale e dell’Ancien Régime – intese segnare una netta cesura con il costituzionalismo liberale e, in particolare, con le costituzioni della Rivoluzione. L’ampio preambolo che precede il testo costituzionale mirava a inserire, senza cesure, la Charte nell’ambito dei provvedimenti legislativi della tradizione monarchica francese, evitando qualsiasi riferimento al periodo rivoluzionario e napoleonico. Non vi era una “Dichiarazione dei diritti” ma, nel titolo primo, Diritto pubblico dei Francesi (artt. 1-12), erano recepiti i diritti fondamentali considerati patrimonio del liberalismo. La libertà religiosa era garantita, tuttavia la religione apostolica romana era considerata religione di Stato (art. 6). L’assetto istituzionale previsto era quello della “monarchia costituzionale pura”, con il Re esclusivo titolare della funzione esecutiva, cui spettava la nomina e la revoca dei ministri (art. 13). La funzione legislativa era esercitata collettivamente

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dal Re e da un parlamento bicamerale composto da una Camera dei deputati, eletta a suffragio censitario, e da una Camera dei Pari, di nomina regia vitalizia, alcuni membri della quale – a discrezione del Re – godevano anche della ereditarietà della carica. Il sovrano deteneva il monopolio dell’iniziativa legislativa (art. 16) e sanzionava e promulgava le leggi approvate dal parlamento (art. 22). L’ampiezza delle prerogative regie è testimoniata dal potere di scioglimento della Camera dei deputati (art. 50), e dalla previsione di potestà normative attraverso l’emanazione di decreti legge “per la sicurezza dello Stato” (art. 14). Ai giudici, nominati dal re, era garantita l’inamovibilità; era tuttavia mantenuta la formula tipica dell’Ancien Régime per la quale “ogni giustizia emana dal re” (art. 57). In mancanza di una esplicita previsione di un sistema di revisione costituzionale, la Charte fu ritenuta una “costituzione flessibile”, ossia un testo modificabile o integrabile con legge ordinaria. Nella prassi, il sistema consentì un timido avvio verso il parlamentarismo. La brevità del testo e la vaghezza di alcune norme ne consentirono una interpretazione liberale nel regno di Luigi XVIII. La vigenza della costituzione aveva posto il problema dei rapporti tra esecutivo e legislativo ed evidenziato la necessità che il governo fosse, in qualche misura, espressione della maggioranza parlamentare. L’avvento al trono nel 1824 di Carlo X (1757-1836) segnò un’inversione di tendenza, attraverso un esercizio più marcato delle prerogative regie previste dalla Charte. Particolarmente delicata fu l’interpretazione dell’art. 14 che concedeva al Re il potere di decretazione d’urgenza, senza alcun controllo da parte del legislativo. La mancanza di limiti al potere di decretazione avrebbe consentito al Re la sospensione delle libertà costituzionali. Tale circostanza si verificò effettivamente con la promulgazione di una serie di decreti nel luglio del 1830 che provocarono la c.d. “Rivoluzione di luglio”. La caduta di Carlo X e l’avvento al trono di Luigi Filippo d’Orléans (1773-1850) condussero alla emanazione di una nuova costituzione, dal carattere più liberale, il 14 agosto 1830. Come abbiamo visto, la Charte del 1814, a causa della vaghezza di alcune disposizioni e dell’ampiezza delle prerogative regie, poté essere interpretata nel regno di Carlo X in senso apertamente autoritario. In particolare la ripetuta utilizzazione del potere di scioglimento della Camera dei deputati, della decretazione d’urgenza (ex art. 14 della Charte) e l’interpretazione letterale delle norme sulle prerogative regie consentirono la formazione di governi che non godevano della fiducia delle Camere: fu il caso, ad esempio, del governo presieduto da Jules de Polignac (1780-1847) imposto dal sovrano nel 1829 e 1830 alle Camere. La sollevazione rivoluzionaria del 27-29 luglio 1830, provocata dalla emanazione di decreti regi che sospendevano alcune delle libertà costituzionali, indusse il sovrano ad abdicare il 31 dello stesso mese. Luigi Filippo d’Orléans, cugino di Carlo X, fu allora proclamato “luogotenente generale del Regno”. In pochi giorni le Camere modificarono in senso liberale il testo della Charte del 1814 e, il 9 agosto, Luigi Filippo giurò fedeltà alla nuova costituzione – presentata come Déclaration de la Chambre des Députés – di fronte alle Camere in qualità di “Re

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dei francesi”. Il testo fu promulgato il 14 agosto 1830. La nuova Charte perse dunque il carattere di costituzione “ottriata” – ossia elargita unilateralmente del sovrano – che aveva quella del 1814, in quanto fu redatta dalle Camere che assunsero, in tal modo, una funzione costituente. Il nuovo testo costituzionale intese rafforzare il carattere liberale del sistema attraverso una più precisa definizione delle prerogative regie e la garanzia dei diritti dei cittadini. Le modifiche introdotte alla carta del 1814 non furono molte, ma incisive e di notevole carattere simbolico. Il preambolo, ritenuto superfluo e dal tono assolutistico, fu abolito; il sovrano assunse la denominazione di “re dei Francesi”; la religione cattolica non fu più considerata religione di Stato ma, semplicemente, la “religione professata della maggioranza dei Francesi” (art. 6), fu ristabilita la bandiera tricolore (art. 67). L’art. 14 del testo del 1814, che aveva consentito a Carlo X l’emanazione di decreti che limitarono fortemente l’esercizio delle libertà costituzionali, fu riformulato e divenne l’art. 13 della nuova carta con una importante limitazione del potere normativo dell’esecutivo: i regolamenti (règlements) e i decreti (ordonnances) regi avrebbero potuto dare esecuzione alle leggi «senza poter mai né sospendere le leggi stesse, né dispensare dalla loro esecuzione”(art. 13). Il Re perse il monopolio dell’iniziativa legislativa (art. 15) e la nomina del presidente della Camera (art. 37). La Camera dei Pari fu oggetto di una profonda riforma con l’annullamento delle nomine effettuate nel regno di Carlo X e l’annuncio (art. 68) dell’imminente modifica dell’art. 23 relativo alla composizione della stessa: la legge 29 dicembre 1831 abolì infatti l’ereditarietà della parìa 74 e limitò il potere di nomina da parte del sovrano. L’art. 69 impose alcuni successivi interventi legislativi, tra i quali disposizioni relative ai procedimenti penali sui reati politici e d’opinione, sulla responsabilità dei ministri, sulla pubblica istruzione, sul sistema elettorale e l’abolizione del c.d. “doppio voto”, previsto nell’ordinamento del 1814 per i cittadini più agiati.

7. Lo Statuto albertino e gli inizi del parlamentarismo in Italia Dopo il brevissimo periodo di vigenza delle costituzioni delle Repubbliche del Triennio rivoluzionario 1796-1799, modellate sul testo francese del 1795, e gli anni della dominazione napoleonica, il costituzionalismo in Italia si sviluppò attraverso i numerosi tentativi insurrezionali della Restaurazione. Tali tentativi furono appunto definiti “moti costituzionali”. Ricordiamo, ad esempio, le vicende del 1820 e 1821 quando, a Napoli e a Torino, gli insorti ottennero l’emanazione di una costituzione: si trattò del testo spagnolo del 1812, la c.d. “costituzione di Cadice”, tradotta in italiano. 74 Con il termine parìa si intende un complesso di onori e diritti connesso con l’appartenenza a un gruppo sociale privilegiato (la nobiltà) e riconosciuto da certi ordinamenti monarchici europei (ad es. Francia, Inghilterra, Sicilia).

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Nel 1848 si verificarono in tutta Europa una serie di sollevazioni di orientamento liberale che assunsero in molti casi carattere rivoluzionario. In Francia i moti provocarono l’abdicazione di Luigi Filippo d’Orléans e la proclamazione della II Repubblica il 24 febbraio 1848. Anche in Italia si ebbero moti insurrezionali, sostenuti dalla borghesia liberale, che intendevano ottenere la concessione di carte costituzionali. La “costituzione” era ormai considerata come l’unico strumento in grado di garantire la tutela dei diritti di libertà. Si ebbero insurrezioni nel Regno di Napoli, in Sicilia, nel Regno di Sardegna, negli Stati pontifici, nel Ducato di Modena e in quello di Parma, nel Granducato di Toscana. I moti verificatisi nel Regno di Sardegna – Regno del quale facevano parte, oltre che l’isola, i territori del Piemonte, della Liguria e della Savoia – indussero il Re Carlo Alberto di Savoia a promettere con il Proclama di Moncalieri (8 febbraio 1848) l’emanazione di una carta costituzionale d’ispirazione liberale. Il 4 marzo 1848 lo Statuto del Regno di Sardegna fu effettivamente concesso da Carlo Alberto. Mentre tutte le altre costituzioni italiane del 1848 furono abrogate non appena i moti insurrezionali terminarono, lo Statuto albertino rimase in vigore e, con l’unificazione del 1861, divenne lo Statuto del Regno d’Italia. Lo Statuto restò formalmente in vigore – seppur completamente stravolto nella sostanza – anche nel periodo fascista. Nel 1947 l’Assemblea Costituente emanò la Costituzione repubblicana che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Una prima osservazione riguarda il termine “statuto”, scelto per denominare la carta costituzionale concessa da Carlo Alberto. L’utilizzazione del termine “costituzione” apparve inopportuna perché riconducibile all’esperienza giuridica della Rivoluzione francese, mentre il termine “statuto” si ricollegava alle fonti della tradizione monarchica sabauda medievale – come ad esempio i Decreta seu Statuta di Amedeo VIII – senza apparente soluzione di continuità. Il testo ha il carattere di costituzione ottriata, in quanto la sua redazione non proviene dall’attività di un’assemblea costituente, ma da un atto unilaterale del sovrano. Si tratta di un’auto-limitazione di un sovrano assoluto che, in tal modo, stabilisce di rinunciare a parte della sua autonomia. Il Preambolo dello Statuto si conclude con una solenne affermazione del Re che ribadisce l’unilateralità dell’atto: «di Nostra certa scienza, Regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue». Riguardo al carattere “rigido” o “flessibile” dello Statuto, si deve osservare innanzitutto la mancanza di una disciplina della procedura di revisione costituzionale. La definizione dello Statuto quale «legge fondamentale perpetua ed irrevocabile» contenuta nel Preambolo avrebbe potuto far considerare il testo come “assolutamente rigido”, ossia non modificabile in alcun modo. A prevalere fu invece una diversa interpretazione, che considerò non modificabile solo l’atto unilaterale del sovrano della concessione dello Statuto. In tal modo si ritenne che la carta fosse “flessibile” e che pertanto le disposizioni della carta avrebbero potuto essere modificate con legge ordinaria.

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Il legislatore si era ispirato largamente alle Chartes francesi del 1814 e del 1830 e, in misura minore, alla costituzione belga del 1831. Numerosi articoli non sono altro che la traduzione letterale in italiano della formulazione francese delle Chartes. Come i modelli costituzionali di riferimento, lo Statuto configura una monarchia costituzionale “pura”. Lo Statuto può senza dubbio essere inserito nella categoria delle costituzioni “brevi” in quanto si limita a enunciare i diritti fondamentali e a definire l’assetto istituzionale, mentre non individua obbiettivi comuni, né prevede norme di tipo programmatico. Composto da 84 articoli, non contiene una dichiarazione dei diritti. Ampia è la disciplina dell’istituto monarchico, cui agli artt. 1-23, a sottolineare la voluta rilevanza delle prerogative del sovrano. I diritti e i doveri sono enunciati negli artt. 24-32: si tratta della uguaglianza, della libertà personale, della libertà di stampa, della inviolabilità del domicilio e della proprietà, della libertà di riunione, dell’obbligo contributivo. Altre norme di garanzia sono presenti negli articoli dedicati all’ordine giudiziario e si riferiscono ai principi della inamovibilità dei giudici (art. 68), del giudice naturale (art. 71), della pubblicità delle procedure (art. 72). Il Parlamento era bicamerale, composto dal Senato, di nomina regia e vitalizia 75, e dalla Camera dei deputati, elettiva. Da notare che lo Statuto non disciplinava in alcun modo il sistema elettorale. Nella vigenza fu utilizzato un sistema di suffragio censitario. Il diritto di voto fu progressivamente esteso fino alla concessione del suffragio universale maschile nel 1912 (applicato nel 1913) 76. Del potere esecutivo, secondo l’art. 5, era titolare esclusivamente il Re: «al Re solo appartiene il potere esecutivo». I Ministri per l’art. 65 («il Re nomina e revoca i suoi Ministri») erano liberamente nominati e revocati dal Re, senza alcun intervento del Parlamento. Mancava quindi, con tutta evidenza, l’istituto della fiducia parlamentare. La previsione dell’art. 67 – «i Ministri sono responsabili» – non specificava l’autorità nei confronti della quale si sarebbe esercitata tale responsabilità. Si doveva necessariamente ritenere che, sulla base del combinato disposto degli artt. 5, 65 e 67, i Ministri sarebbero stati responsabili di fronte al Re. Si deve rilevare la totale mancanza di una disciplina del “governo”: lo Statuto, infatti, utilizza specificamente il termine “governo” solo all’art. 59 («Le Camere non possono ricevere alcuna deputazione, né sentire altri, fuori dei propri membri, dei Ministri, e dei Commissarii del governo») e all’art. 67, 2° comma («Le Leggi e gli Atti del governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un Ministro») senza definirne composizione, caratteristiche, né funzioni. Come abbiamo visto, lo Statuto aveva stabilito una monarchia costituzionale 75

Da notare che, secondo l’art. 33 dello Statuto, il Re avrebbe nominato i Senatori nell’ambito di ventuno categorie, tra le quali ricordiamo Arcivescovi e Vescovi, deputati dopo tre legislature, Ministri ed ex Ministri, Ambasciatori, Magistrati di cassazione e d’appello, Consiglieri di Stato e, in generale, i cittadini maggiori contribuenti. 76 Si veda anche infra, cap. VIII, § 2.

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“pura”, attribuendo al Re l’esercizio esclusivo del potere esecutivo. In assenza di una disciplina del governo e per la vaghezza di alcune disposizioni, si stabilì, sin dai primi tempi della sua vigenza, una prassi tendente a una progressiva parlamentarizzazione del sistema. Si affermò così l’esigenza di un legame stabile tra il governo e il Parlamento che evidenziava la “fiducia” della quale godeva l’esecutivo da parte del legislativo e forniva al governo una chiara legittimazione 77. Il venir meno di tale fiducia avrebbe provocato le dimissioni del governo 78. In tale contesto, il Re fu indotto a subordinare la nomina del governo – ossia dei Ministri – alla disponibilità del Parlamento ad accordargli la fiducia. Nell’ambito del governo, sebbene lo Statuto non ne contemplasse esplicitamente l’esistenza, emerse la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri, cui furono affidati la responsabilità e il coordinamento del governo. Fu soprattutto grazie all’operato di Cavour che si avviò nella prassi quell’evoluzione che condusse alla parlamentarizzazione del sistema. Si deve ricordare che la formalizzazione del ruolo del Presidente del Consiglio dei Ministri si realizzò soltanto con il decreto del 14 novembre 1901 del governo Zanardelli che definì composizione e prerogative del governo. L’evoluzione della forma di governo in Italia fu indubbiamente influenzata dai differenti sistemi elettorali succedutisi. Lo Statuto – come si è detto – non prevedeva alcuna disciplina del sistema elettorale. La prima legge elettorale, del 17 marzo 1848, stabilì un suffragio censitario, basato su collegi uninominali a doppio turno, con ballottaggio dei due candidati più votati qualora nessuno avesse raggiunto un risultato di almeno un terzo dei cittadini aventi diritto al voto e la maggioranza dei voti espressi. Tale sistema fu esteso allo Stato unitario. Nel 1882, dopo l’avvento della Sinistra al potere 79, fu realizzata una riforma elettorale che comportò un primo allargamento del suffragio, e l’istituzione di collegi plurinominali con scrutinio di lista. Con la legge del 5 maggio 1891 si tornò al collegio uninominale a doppio turno. Altre riforme si ebbero con le leggi elettorali del 1912 e del 1913 che attuarono un ulteriore e considerevole allargamento del suffragio 80 con l’ammissione al voto di tutti i cittadini di sesso maschile con più di trent’anni e con limitazioni per gli analfabeti di età inferiore ai trent’anni. Infine, con la legge del 15 agosto 1919, fu concesso il voto a tutti i cittadini di sesso ma77

Fu in particolare la Camera dei deputati, perché elettiva e quindi rappresentativa del governo dell’orientamento politico prevalente, a esercitare un ruolo molto significativo al riguardo. 78 Le crisi di governo non ebbero solo carattere “parlamentare” (ossia originate dall’approvazione di una “mozione di sfiducia” o di un atto sostanzialmente analogo) ma anche “extra-parlamentare” (quando la loro causa non si poteva ricondurre a uno specifico atto parlamentare). 79 Ricordiamo che, con le elezioni del 1876, alla maggioranza della Destra storica subentrò la Sinistra di Agostino De Pretis. 80 Il sistema è spesso definito dalla storiografia “quasi universale”.

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schile maggiorenni e introdotto il sistema elettorale proporzionale. Le elezioni del 1919, svoltesi con la nuova legge elettorale, videro l’affermazione dei socialisti e dei cattolici, forze politiche fortemente critiche nei confronti dello Stato liberale, che – a causa del suffragio censitario – non avevano avuto sino ad allora una effettiva rappresentanza parlamentare. Per quanto riguarda i cattolici, bisogna ricordare che il lungo contrasto con il Regno unitario – originato dalla “Questione romana” e, più in generale, dall’adesione al liberalismo dello Stato sabaudo – aveva indotto il Papa Pio IX a proibire ai fedeli la partecipazione alla vita politica con la Bolla Non expedit del 1874. Tale divieto venne progressivamente meno nel corso dei primi anni del Novecento consentendo una maggiore partecipazione dei cattolici alla politica italiana e l’organizzazione di un partito d’ispirazione cattolica, il Partito Popolare, fondato nel 1919 da Luigi Sturzo. Le ripetute crisi di governo e la paralisi del Parlamento imposero nel 1921 lo scioglimento della Camera dei deputati. Le elezioni del 1921 videro l’affermazione dei partiti socialista e popolare e l’ingresso alla Camera di un primo gruppo di deputati del Partito fascista. La composizione politica parlamentare era estremamente frammentata e caratterizzata dalla prevalenza delle forze di opposizione al sistema liberale. Nel frattempo il conflitto sociale – con frequenti manifestazioni, occupazione di fabbriche e scioperi – e lo scontro politico si erano rapidamente inaspriti nel paese a causa dello sviluppo dello squadrismo fascista. L’impossibilità di accordarsi tra le forze politiche rappresentate in Parlamento provocò, tra il 1921 e il 1922, la crisi dei governi presieduti da Ivanoe Bonomi e Luigi Facta. Il clima politico e sociale era divenuto quanto mai propizio per il colpo di Stato di Mussolini, il quale desiderava presentarsi di fronte all’opinione pubblica come l’artefice del ristabilimento dell’ordine e della pace sociale. Di fronte alla minaccia dei gruppi armati fascisti, che si erano assembrati nei pressi della capitale, il governo propose al Re di emanare un decreto di stato d’assedio che avrebbe consentito l’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine. Il 28 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto e i gruppi armati fascisti poterono sfilare impunemente per le vie della capitale nella c.d. “Marcia su Roma”. Il governo Facta diede le dimissioni e il 30 ottobre Mussolini fu incaricato dal Re di formare il nuovo esecutivo. Si concludeva così, con l’instaurazione del regime fascista, la vicenda dell’Italia liberale. L’ordinamento fascista fu palesemente estraneo ai sistemi liberal-democratici. Anzi, il Fascismo si pose in aperta opposizione ad essi. Difficile risulta rintracciare continuità con il periodo liberale, se non sul piano strettamente fattuale. Nonostante le turbolente vicende del XIX secolo, il costituzionalismo occidentale aveva compiuto un percorso tutto sommato lineare dallo Stato liberale a ordinamenti più connotati in senso democratico. Nel Novecento si verificò invece una brusca battuta d’arresto con le tragiche esperienze dei regimi autoritari e totalitari, i quali segnarono profondamente la storia del secolo e palesarono la

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debolezza della liberal-democrazia, minacciandone addirittura la sopravvivenza. Tra le innumerevoli cause cui si possono far derivare i nuovi regimi dittatoriali, ci limitiamo a ricordare la crisi economica e sociale del primo dopoguerra, l’avvento della società di massa – una società più facilmente disponibile a forme di mobilitazione – e lo sviluppo di strumenti di propaganda più efficaci. La lenta evoluzione che, attraverso il costituzionalismo inglese del Seicento e le rivoluzioni americana e francese, aveva consentito il superamento dell’assolutismo e la progressiva – seppur difficile – affermazione del costituzionalismo liberal-democratico, sembrava essersi arrestata di fronte a nuove forme di dispotismo. Fu la critica convergente, delle dottrine marxiste e di quelle della destra autoritaria a provocare la crisi generalizzata. Di fronte a questo insieme di rivendicazione anti-liberali e anti-capitalistiche, conservatrici o rivoluzionarie, solo gli ordinamenti liberali più antichi e radicati nella cultura politica e nella società – come il Regno Unito e gli Stati Uniti, ordinamenti nei quali la crisi del liberalismo non comportò radicali sconvolgimenti – seppero resistere. Dopo la Rivoluzione del 1917 e l’instaurazione del regime sovietico in Russia, fu soprattutto la diffusione dell’autoritarismo reazionario e dell’irrazionalismo a colpire la democrazia liberale negli anni Venti e Trenta. Al costituzionalismo liberal-democratico si contrappose la dottrina dello Stato etico, ispirato alle filosofie della Destra hegeliana e fondato sulla esaltazione del ruolo dello Stato quale incarnazione di valori morali universali. Attraverso il totale assorbimento del cittadino nello Stato, l’idea centrale del liberalismo moderno, ossia la tutela delle libertà negative come libertà dallo Stato, perdeva ogni significato.

8. Il potere costituente L’affermazione del potere costituente fu possibile grazie alla diffusione di una concezione volontaristica della costituzione e rappresentò una delle più rilevanti novità della storia giuridica dell’età moderna. L’ordinamento costituzionale iniziò a essere considerato sempre più come il prodotto di un atto di potere capace di rompere con il sistema legale previgente e modificarlo. Di pari passo, si sviluppò la «consapevolezza del fatto che l’organizzazione della società politica [potesse] essere artificialmente trasformata attraverso l’esercizio del terribile e precedentemente sconosciuto potere costituente» 81. La costituzione – osservava nel 1789 Joseph-Emmanuel Sieyès, cui si deve la prima compiuta riflessione sul potere costituente – «non è opera del potere costituito ma del potere costituente» 82. Un potere, quello costituente, così definito da Carl Schmitt (1888-1985): 81 82

M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, il Mulino, Bologna 1994, p. 223. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?, cit., p. 95.

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«il potere costituente è una volontà politica il cui potere o autorità è in grado di prendere la decisione concreta fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza dell’unità politica. Dalle decisioni di questa volontà si fa discendere la volontà di ogni ulteriore disciplina legislativa costituzionale» 83.

Con la locuzione “potere costituente” intendiamo quindi riferirci a «un potere di fatto, teso all’instaurazione di un nuovo ordine costituzionale» 84. Si tratta dunque del potere di stabilire un nuovo ordinamento attraverso un atto, consapevole e solenne, derivante in genere da un evento traumatico – quale una rivoluzione o un colpo di stato – più o meno organizzato e non necessariamente violento. Fondamentali nel concetto di potere costituente sono il carattere extralegale dello stesso e la novità dell’ordinamento generato dal processo costituente. Il potere costituente si definisce per opposizione al potere costituito perché l’esercizio di quest’ultimo si esplica attraverso un processo avente carattere legale il cui esito è quello di apportare all’ordinamento modifiche che rappresentano una revisione costituzionale. Come osserva Riccardo Guastini, «il mutamento legale della costituzione è esercizio di un potere costituito, il suo mutamento illegale è esercizio di potere costituente» 85. Una prima causa dell’affermazione di tale fenomeno in età moderna si può indubbiamente rinvenire nella diffusione della riforma protestante, che pose fine all’universalismo della Chiesa cattolica e favorì lo sviluppo di un orientamento critico nei confronti della tradizione e una secolarizzazione della cultura e della società. Una seconda causa fu il rilevante progresso delle scienze naturali e, più in generale, del metodo scientifico tra XVII e XVIII secolo cui si ispirarono le dottrine giuridiche razionalistiche e, in particolar modo, l’Illuminismo. A una sostanziale legittimazione del potere fondata sulla tradizione e sulla continuità secolare di assetti e di comportamenti, il razionalismo contrappose la forza di una ragione astratta, in grado di trasformare dalle fondamenta le regole della convivenza sociale. I riferimenti classici della cultura giuridica europea, innanzitutto il diritto romano e il canonico, subirono così un progressivo ridimensionamento, perdendo quella valenza universale e autoritativa che aveva caratterizzato la lunga vigenza dello ius commune. Nel quadro della generale critica della tradizione e in ossequio alle dottrine contrattualistiche e giusnaturalistiche, si fece strada progressivamente l’idea di poter modificare il “patto fondamentale”,

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C. Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1928, trad. it., Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano 1984, pp. 109-110. 84 A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Cedam, Padova 2002, p. VIII. Riccardo Guastini lo definisce «il potere di instaurare una prima costituzione» (Le fonti del diritto: fondamenti teorici, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, Giuffrè, Milano 2010, p. 189). 85 R. Guastini, Le fonti del diritto: fondamenti teorici, cit., p. 193.

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ossia l’accordo costitutivo di un ordinamento giuridico, per ristabilire il rispetto di principi e diritti considerati naturali e imprescindibili. Qualora il potere avesse violato tali valori, sarebbe stato ritenuto illegittimo e ai sudditi sarebbe stata riconosciuta la possibilità di opporsi ad esso attraverso l’esercizio di un vero e proprio diritto di resistenza. Contrattualismo, giusnaturalismo e diritto di resistenza rappresentano dunque il fondamento teorico del potere costituente. È evidente che mutamenti di regime, violenti o pacifici, si siano sempre verificati nella storia. Che si trattasse di congiure di palazzo o di insurrezioni popolari, i mutamenti di potere fanno parte della normalità delle vicende politiche umane. Si trattava però di lotte per la conquista del potere fondate sulla forza, che non necessitavano in alcun modo di una legittimazione formale 86. La novità del potere costituente affermatosi nel XVIII secolo consiste appunto nella consapevole e solenne motivazione politica che si riteneva dovesse accompagnare l’instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale. Secondo l’orientamento che andava affermandosi, l’edificazione di un nuovo ordinamento necessita di una giustificazione nei confronti della opinione pubblica e non può più fondarsi esclusivamente sulla forza. Se appare impossibile individuare storicamente e con certezza le prime manifestazioni di un potere costituente, si può ragionevolmente considerare che un suo compiuto e consapevole esercizio fu quello svolto dai rivoluzionari americani e francesi negli ultimi decenni del XVIII secolo. Nel costituzionalismo americano si trovano infatti tutti i caratteri tipici del potere costituente: contrattualismo, giusnaturalismo e diritto di resistenza. È sufficiente ricordare le parole della Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 secondo le quali «ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare» i diritti naturali, «è diritto del popolo modificarla o abolirla, e creare un nuovo governo, che si fondi su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quel modo che gli sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità» 87. Gli stessi principi ispirarono i rivoluzionari francesi che – oltre alla libertà, la proprietà e la sicurezza – considerarono la resistenza all’oppressione compresa tra i «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» (art. 3 della Dichiarazione dei diritti del 1789). L’enunciazione più esplicita del potere costituente fu quella 86

Si deve ricordare che la cultura giuridica ha da sempre riflettuto sulla questione del potere legittimo e sulla sua contrapposizione alla tirannide. Altrettanto ricco è il dibattito sulla liceità del diritto di resistenza. 87 Anche la Dichiarazione dei Diritti dello Stato della Virginia del 12 giugno 1776 enunciava lo stesso principio nella sez. 3: quando un governo appare inadeguato o contrario al diritto naturale, «la maggioranza della comunità ha un sicuro, inalienabile e imprescrittibile diritto a riformarlo, mutarlo o abolirlo, in quella maniera che sarà giudicata meglio diretta al bene pubblico».

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prevista dall’art. 28 della Dichiarazione dei diritti del 1793, secondo il quale «un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future». Il costituente del 1793 non si limitò a prevedere il diritto di resistenza (art. 33) ma persino, con l’art. 35, il diritto all’insurrezione: «quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri». Da notare che il mutato clima politico suggerì al costituente del 1795 di non contemplare il diritto di resistenza e il potere costituente nel testo costituzionale 88. Fu così che assemblee legislative variamente denominate (Continental Congress nel 1776, Constitutional Convention nel 1787, Assemblée Nationale Constituante nel 1789, Convention Nationale nel 1793 e nel 1795), iniziarono a redigere nuovi testi costituzionali. Anche i criteri di individuazione dei componenti delle assemblee furono assai eterogenei: in alcuni casi furono scelti tramite sistemi elettivi, in altri attraverso la nomina da parte di altri organi (governi o assemblee legislative). Da allora, innumerevoli assemblee costituenti si assunsero il compito di definire nuove leggi fondamentali, ispirate ai più diversi principi e dagli esiti disparati. Solo a scopo esemplificativo possiamo ricordare tra le assemblee costituenti elettive quelle francesi del 1848 (II Repubblica), del 1871 (III Repubblica), del 1946 (IV Repubblica), quelle tedesche di Francoforte del 1848 e di Weimar del 1919. In Italia, oltre alla Costituente repubblicana del 1946, ricordiamo quella della Repubblica romana del 1849. È ora indispensabile precisare la distinzione tra revisione costituzionale e potere costituente. Nel primo caso, con una revisione costituzionale si verifica l’esercizio di un potere costituito in quanto sono le stesse norme in vigore a prevedere un meccanismo di riforma costituzionale. Per quanto rilevanti siano, le riforme così introdotte si mantengono nell’ambito della legalità costituzionale. Diverso è invece il caso del potere costituente, ove si realizza una rottura della legalità precedente. L’attività del costituente è quindi del tutto libera, perché extra ordinem, esente da qualunque vincolo formale. È evidente che si tratti di una situazione di fatto, legittimata soltanto da considerazioni politiche perché priva di un fondamento giuridico. La dottrina, dopo la prima teorizzazione del pouvoir constituant operata da Joseph-Emmanuel Sieyès nel 1789, ha lungamente dibattuto sul tema. Grandi giuristi e filosofi della politica si sono interrogati sulla natura del potere costituente con riflessioni che si possono riassumere in due indirizzi fondamentali: 88

Né i testi costituzionali napoleonici, né tantomeno quelli successivi contemplarono più il diritto di resistenza o il potere costituente. Nel panorama costituzionale odierno, la Costituzione della Repubblica federale tedesca enuncia il diritto di resistenza all’art. 20, 4° comma: «Tutti i Tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia altro rimedio possibile».

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a) il primo, che potremmo definire formalistico, considera il potere costituente come un fenomeno esclusivamente politico, perché generato dalla rottura della legalità; b) il secondo, d’ispirazione sostanzialistica, ritiene invece che al potere costituente si debba riconoscere carattere politico-giuridico, trattandosi di fatto normativo. Al primo orientamento, che resta senz’altro maggioritario, si opposero tuttavia alcuni importanti giuristi quali, tra gli altri, Carl Schmitt e Costantino Mortati 89. Certamente, come si è detto, il potere costituente rappresenta una «questione limite» 90 del diritto costituzionale, che può essere compresa soltanto «all’interno di un rapporto aperto e fluido tra ‘diritto’ e ‘politica’», con un «approccio di tipo compromissorio, che punta alla mediazione più che alla scelta in senso unilaterale» 91. Dunque, considerazioni strettamente giuridiche difficilmente consentono la valutazione di un fenomeno così complesso 92.

Bibliografia essenziale A. Barbera, Le basi filosofiche del costituzionalismo moderno, Laterza, Roma-Bari 1997. N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino 1976. M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, il Mulino, Bologna 1994. M. Caravale, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2012. P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (11001433), Giuffrè, Milano 1969. M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, il Mulino, Bologna 1994. M. Fioravanti, Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1993.

89

Nel noto saggio La costituente. La teoria, la storia, il problema italiano (1945), ora in Id., Raccolta di scritti, I, Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, Giuffrè, Milano 1972. Costantino Mortati, polemizzando con Georg Jellinek e Santi Romano, affermava di non credere «nell’opinione della possibilità del verificarsi di una fase formativa dello Stato che non sia giuridica, o di uno Stato che esista o non esista. (…) Lo Stato e il suo diritto nascono in un medesimo momento» (p. 14). 90 E.W. Böckenförde, Die verfassungsgebende Gewalt des Volkes. Ein Grenzbegriff des Verfassungsrechts, Frankfurt am Main 1986 (trad. it. Il potere costituente del popolo: un concetto limite per il costituzionalismo, in Id., Stato, costituzione, democrazia: studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 2006, p. 232). 91 M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, in Id., Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino 1993, p. 218. 92 È perciò da condividere, a nostro avviso, l’orientamento tendente a escludere l’attribuzione di valore giuridico al potere costituente.

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M. Fioravanti, Costituzione, il Mulino, Bologna 1999. M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne: le libertà fondamentali, III ed., Giappichelli, Torino 2014. N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà: storia del costituzionalismo moderno, Utet, Torino 1976. C.H. McIlwain, Constitutionalism: Ancient and Modern, Cornell University Press, New York 1947 (trad. it. Costituzionalismo antico e moderno, a cura di N. Matteucci, il Mulino, Bologna 1990). A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Cedam, Padova 2002. A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007. G. Sartori, Elementi di teoria politica, il Mulino, Bologna 1987.

VII UN SECOLO GIURIDICO (1814-1916). LEGISLAZIONE, CULTURA E SCIENZA DEL DIRITTO IN ITALIA E IN EUROPA di Stefano Solimano SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La recezione del Code civil: ratione imperii o imperio rationis? – 3. Savigny versus Thibaut. Una polemica sul codice destinata a fare il giro del mondo. – 4. “Riannodare la catena dei tempi”. L’esperienza giuridica in Italia durante la Restaurazione: a) premessa; b) i codici civili della Restaurazione; c) Il diritto privato nel Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana e nello Stato Pontificio; d) la presenza di Savigny nel dibattito sulla codificazione in Toscana e in Piemonte. – 5. Un nuovo mos gallicus iura docendi? Il metodo esegetico in Francia. – 6. Da Savigny a Windscheid. Scuola storica e Pandettistica in Germania. – 7. Mixtum compositum: cultura e scienza giuridica della Restaurazione in Italia. – 8. Il tempo del codice civile nell’Italia Unita: a) premessa; b) armonizzazione o assimilazione? (1859-1861); c) l’elaborazione del codice civile (1861-1865); d) la costituzione della società liberale: uno sguardo al contenuto del codice civile del 1865. – 9. La scienza del diritto privato italiano nell’età postunitaria: a) i tradizionalisti, ovvero dei commentatori del codice civile del 1865; b) ortodossia scientifica nazionale. L’avvento dei romanisti-civilisti; c) diversi sed non adversi: gli altri civilisti. – 10. Juristendominanz. Il codice civile tedesco tra politica e diritto. – 11. Tra fine e inizio secolo: tendenze del diritto privato europeo di fine secolo. – 12. Beati possidentes. L’individualismo proprietario del XIX secolo.

1. Premessa I giuristi tedeschi sono soliti presentare l’Ottocento come ‘il secolo giuridico’ per antonomasia, volendo con ciò segnalare l’importante sviluppo della scienza del diritto in Germania, ad opera della Scuola storica, della Pandettistica, della germanistica e del movimento del diritto libero. Per le popolazioni latine (europee e sudamericane), invece, il XIX secolo evoca senza dubbio il tempo del codice civile. Potrà sembrare singolare per noi contemporanei, eppure fu il codice civile ad assumere il ruolo di vera e propria costituzione della società. Esso apparve

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come la magna charta della borghesia, lo strumento di esaltazione dei valori liberali e individualistici e insieme il mezzo idoneo a strutturare e consolidare in via definitiva l’assetto sociale. Per converso, agli occhi dei socialisti esso rappresentò la Bibbia dell’egoismo privato, un codice di norme uguali per soggetti disuguali. Nel XIX secolo il codice civile assunse ulteriori valenze politiche. In primo luogo esso rappresentò il simbolo del compiuto processo di secolarizzazione dell’ordinamento, un disegno ben individuabile in quei paesi del mondo, come l’Italia, che vollero ispirarsi al modello francese. Secolarizzare il diritto privato significava non solo compiere una separazione tra Chiesa e Stato, ma soprattutto concepire la famiglia quale «vivaio dello Stato», per adoperare le parole del codificatore napoleonico Portalis 1, che sarebbero risuonate nelle assemblee politiche dell’Italia, della Spagna, del Cile, dell’Argentina e della maggior parte dei paesi dell’America latina. Il codice civile, inoltre, diventò il luogo della Nazione per eccellenza, il manifesto dell’esistenza politica dello Stato. Per limitarci a qualche esempio, all’indomani della caduta di Napoleone, il civilista Thibaut individuò nel codice civile lo strumento per preparare l’unificazione politica dei tedeschi 2; in Italia il Ministro della Giustizia Cassinis 3, rassegnando nel 1860 il suo piano di codificazione, affermò perentoriamente che «quando una nazione si ricompone a Stato […] primo suo bisogno si è confortare l’unità dello Stato coll’unità delle leggi» 4. Non infrequentemente, infine, il codice civile fu considerato un indizio della modernità di un Paese (o, se si preferisce, sinonimo di progresso). Codice come luogo di civilizzazione di un ordinamento: una retorica che ebbe molta diffusione in quei nuovi Stati del Sudamerica nei quali rivestì un ruolo non secondario la propaganda di Jeremy Bentham, vale a dire di colui che si era fatto apostolo, fino all’ossessione, dell’idea della codificazione. Agli occhi del giusfilosofo inglese lo strumento codice avrebbe procurato la maggior felicità al maggior numero dei cittadini. Era un progetto che postulava una ridefinizione del rapporto tra Stato e società: il dittatore Simon de Bolìvar, che ebbe continui contatti epistolari con Bentham, fu affascinato da questa impostazione, come pure il codificatore cileno Andrès Bello. In Italia questa retorica, l’incivilimento come prodotto dei codici, era già stata utilizzata e diffusa da Gian Domenico Romagnosi (17611835). Anche i Francesi, cela va de soi, vi avrebbero fatto ricorso. Lo storico per eccellenza della società liberale, il Thiers, andava affermando che il Code civil

1

V. retro, cap. VI, § 10. V. infra, § 3. 3 V. infra, § 8b. 4 Relazione alla Camera dei deputati e al Senato sul progetto di revisione del codice civile albertino [19 e 21 giugno 1860], cit. in A. Aquarone, L’unificazione legislativa e i codici del 1865, Giuffrè, Milano 1960, doc. 19, p. 98. 2

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rappresentava il codice «del mondo civile moderno» 5. E del ruolo del modello transalpino parleremo proprio adesso.

2. La recezione del Code civil nel mondo: ratione imperii o imperio rationis? Durante il XIX secolo i civilisti francesi evidenziarono con orgoglio che il testo del 1804 era stato imitato in più di trenta paesi. Per questi giuristi l’opera di comparazione si sostanziava unicamente nel cogliere le differenze, i miglioramenti o i travisamenti rispetto al modello archetipico. La Concordance entre les codes civils étrangers et le Code Napoléon (1840-1856) di Antoine Saint-Joseph (1778-1859), un’analisi sinottica di tutti i codici modellati sul francese, diventò il vero e proprio vademecum del legislatore, soprattutto extraeuropeo. I giuristi d’Oltralpe non furono in grado di comprendere che in realtà molteplici e diversi tra loro furono i motivi che avrebbero condotto le élites dirigenti e i giuristi in Italia, in Spagna, nei Paesi dell’America Latina o in Giappone a riferirsi ad esso. In Europa vi furono Paesi che successivamente alla caduta di Napoleone utilizzarono il Code civil perché presentava il vantaggio di essere già stato applicato (rectius, imposto), sicché apparve sufficiente renderlo conforme ai desiderata dei sovrani e alle condizioni socio-economiche. Talora fu reputato congeniale a quella realtà perché esso appariva il deposito della razionalità scientifica millenaria del diritto romano e della tradizione dello ius commune: questo tipo di retorica imponeva ovviamente di offuscare il legame del Code civil con la Révolution. Si badi: non fu la strategia di qualche legislatore eccentrico o stravagante. Lo stesso problema lo dovette affrontare Luigi XVIII 6, il quale aveva tutto l’interesse a mettere la sordina al Code civil quale prodotto dell’Ottantanove e di Napoleone. Fu ritenuto sufficiente abolire il divorzio nel 1816 e immettere nei ranghi dell’amministrazione giudiziaria, soprattutto nella Corte di Cassazione, quei giuristi come André Dupin (1783-1865) e Pierre-Paul-Nicolas Henrion de Pansey (1742-1829), che non a caso valorizzavano la continuità del codice con la plurisecolare tradizione francese. In Sudamerica il codice cileno (1855), pur tributario del testo francese, fu accolto innanzitutto perché proveniva dal Cile, che veniva reputato lo ‘Stato modello’ dell’America latina, stabilizzato e efficiente. Del resto era ben difficile optare per il codice asburgico del 1811 7, in quanto esso veniva considerato, specialmente nella parte in cui veniva disciplinato il re-

5 M.A. Thiers, Histoire du Consulat et de l’Empire, faisant suite à l’Histoire de la Révolution Française, XX, Furne, Jouvet, Paris 1862, p. 726: «… personne ne peut nier que ce code ne soit celui du monde civilisé moderne». 6 Il Borbone restaurato sul trono di Francia dopo la caduta di Napoleone. 7 Si veda retro, cap. V, § 13.

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gime della proprietà, piuttosto antiquato. E anche perché esso, è un dato sul quale insiste oggi la storiografia austriaca, manteneva, in realtà, la dimensione cetuale d’antico regime. Per non parlare poi del codice prussiano del 1794: era un testo troppo legato alla specifica politica del diritto e alla società di quello Stato per poter essere tenuto in considerazione 8. Il codice francese, invece, oltre ad accogliere il postulato dell’uguaglianza civile e ad aver tagliato la gomena dal feudalesimo, presentava l’incontestabile qualità di testo legislativo redatto attraverso formule generali assai flessibili, come aveva notato un fine civilista italiano, il triestino Giacomo Venezian (18611915), in occasione del primo centenario del Code civil: «È avvenuto, che, lungi dal favorire un cristallizzamento del diritto, il codice francese in tanta parte si prestasse ad un progressivo adattamento della disciplina giuridica a mutate condizioni sociali, anche senza bisogno dell’intervento legislativo» 9.

Per quanto banale possa sembrare, va altresì aggiunto che il legislatore europeo (italiano, belga, olandese o portoghese) ed extraeuropeo (argentino e cileno), non avrebbe importato il nudo testo del Code civil, ma anche la letteratura scientifica e la giurisprudenza, che in non pochi punti aggiornavano e superavano il codice stesso adattate al contesto di riferimento. E spesso questi legislatori avrebbero tenuto conto anche della Pandettistica tedesca 10. Le relazioni politiche e commerciali della Francia – considerata sino alla disfatta di Sédan del 1870 la superpotenza per antonomasia – favorirono l’importazione del modello giuridico d’Oltralpe. Fu il caso del Giappone, un impero che si era votato alla causa dell’occidentalizzazione dalla metà del secolo. Qui fu invitato il docente parigino Gustave Boissonade (1825-1910), il quale approntò un codice civile. Esso non fu tuttavia mai promulgato perché negli anni Novanta il ministro della Giustizia, che aveva inviato non pochi studenti a formarsi in Germania, decise di guardare anche a Berlino. L’acculturazione forzata non poteva, nell’ora storica, prescindere dalle innovative speculazioni giuridiche che giungevano dalla nuova potenza economica, militare e culturale in ascesa.

3. Savigny versus Thibaut. Una polemica sul codice destinata a fare il giro del mondo Non credo esista una controversia più conosciuta di quella divampata nel 1814 tra Friedrich Karl von Savigny (1779-1861) e Anthon Justus Thibaut 8

Sui caratteri di questo codice, si veda retro, cap. VI, § 7. G. Venezian, Il centenario del codice civile francese, in Opere giuridiche, III, Athaeneum, Roma 1925, p. 227. 10 Si veda infra, § 6. 9

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(1772-1840), una disputa che riemerge nel corso della storia come un fiume carsico. Proprio in questo torno d’anni, allorché si è discusso sull’opportunità di dotare l’Europa di un unico codice civile, sono stati recuperati gli argomenti avanzati da Savigny 11. Tentiamo, adesso, sia pur per cenni sintetici, di ricostruire siffatta polemica. La tesi sostenuta da Thibaut nel pamphlet Sulla necessità di un diritto civile generale per la Germania, pubblicato agli inizi dell’estate del 1814, proveniva da un giurista autorevolissimo, apprezzato docente di diritto civile all’Università di Heidelberg, che si era segnalato per la vasta produzione scientifica. Nella perorazione a favore di un codice civile tedesco, Thibaut fece ampiamente ricorso alla retorica nazionalistica, scagliandosi contro l’oppressore d’Oltralpe e denunciando quegli elementi stranieri che avevano alterato la società. «La Germania, facendo sgombrare dal proprio paese l’invasione francese, ha certo vendicato il proprio onore», esclamò nella prima pagina 12. «Il nostro dritto patrio è tanto incompiuto e difettoso, che di cento quistioni almeno novanta debbono essere decise coll’ajuto del diritto straniero», proseguì 13. Sulla base di queste premesse l’unico strumento in grado di preservare e consolidare l’ethos nazionale era individuato in un codice civile autoctono. La formula codice civile si imponeva dunque per agevolare l’unità territoriale (scopo politico), per formare un genuino sentimento tedesco (motivo etico-politico) e per favorire l’unificazione del diritto privato e l’emersione di un diritto germanico (obiettivo di politica del diritto). L’unificazione del diritto sub specie codicis avrebbe, inoltre, generato certezza nei rapporti giuridici e assicurato di conseguenza la felicità della nazione: «Creata per i Tedeschi l’inestimabile felicità di potere sotto il patrocinio di leggi semplici ed energiche sicuramente vivere come padre di famiglia, come proprietario ed uomo di affari, allora si desterà un sentimento veramente germanico…» 14. Thibaut si peritò di precisare che il processo di unificazione del diritto privato non avrebbe fatto venir meno le specificità dei singoli territori: «Certo non può evitarsi che nei singoli paesi non vi siano delle specialità...Tali cose possonsi facilmente distinguere quando si opera lealmente ed energicamente» 15. Puntua11 In questo rinnovato dibattito taluni studiosi europei hanno tuttavia mostrato di prescindere dal peculiare contesto che aveva innescato tale polemica. La tesi anticodificatoria di Savigny è stata combattuta, ad esempio, enfatizzando le incongruenze e le contraddizioni contenute nel libello (che indubbiamente ci sono), senza valutare che quest’ultimo costituisce non un’opera compiuta, bensì il punto di partenza della strategia e dell’itinerario scientifico che Savigny avrebbe sviluppato successivamente e progressivamente. 12 A.F.J. Thibaut, Della necessità d’un diritto civile commune tedesco, in Id., La dottrina del codice civile francese conferita coi principii della legislazione romana, seguita dai trattati di diritto civile, trad. it. di A. Turchiarulo, Giovanni Pedone Lauriel, Napoli 1853 p. 276. 13 Ivi, p. 277. 14 Ivi, p. 285. 15 Ivi, p. 285.

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lizzazione sagace. Per quale motivo? Ecco la risposta: da un lato accoglieva le aspirazioni di coloro che nel 1814 erano animati dal desiderio di spazzare ogni ricordo dei Francesi e veniva incontro alle esigenze manifestate da giuristi espressione del ceto liberale del calibro del penalista Paul Johann Anselm Feuerbach (1775-1833); dall’altro, rassicurava oculatamente coloro che temevano un progetto di uniformazione senza eccezioni. In questo modo stemperava il celebre e arcinoto assunto illuministico ostentato all’inizio del pamphlet, e cioè che «le leggi civili modellate, sul cuore umano, sulla intelligenza e sulle ragioni raramente si lasciano modificare a seconda delle circostanze esterne…» 16. Quid iuris rispetto al diritto romano che professava e che era diritto vigente dal 1495, e cioè dall’istituzione del Tribunale Camerale germanico? Esso non doveva più essere applicato perché alluvionale, caotico e straniero. Improba e inutile l’operazione di sceverare il genuino diritto romano, poiché una «legislazione nazionale e semplice formata con forze proprie e concepita secondo lo spirito tedesco diverrebbe in tutte le sue parti accessibile anche alle intelligenze mediocri ed i nostri funzionarii e giudici sarebbero infine al caso di applicare il dritto in ogni occasione come qualche cosa di vivo» 17. Con riguardo ai tempi di realizzazione del codice tedesco, Thibaut si mostrò alquanto ottimista, ipotizzandone il compimento al massimo entro quattro anni. I materiali contenuti nella legislazione prussiana (l’ALR del 1794), austriaca (l’ABGB del 1811), sassone e bavarese e nel codice francese (!) erano materiali tanto ricchi quanto perfetti. Che nel novero di queste fonti Thibaut contemplasse anche il Code civil non deve sorprendere. Thibaut si mostrava per un verso illuminista, per un altro nazionalista, combinando astrattismo legislativo e storicismo. Abbiamo voluto sostare e dare frequentemente la parola a Thibaut per far comprendere che non era agevole per Savigny ribattere alla sua proposta. Certo, Savigny non era un carneade. Il suo trattato sul possesso del 1803 (Das Recht des Besitzes) era stato accolto molto positivamente (fu recensito entusiasticamente dallo stesso Thibaut). Dopo aver professato a Landshut, era stato cooptato dal Ministro von Humboldt nella neonata Università di Berlino con il compito di approfondire la “coscienza giuridica”. Per un biennio era stato Rettore di questo ateneo, e, aspetto non irrilevante, nel 1814 era stato nominato precettore del futuro imperatore. Il libello La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza rispecchia l’orizzonte culturale di Savigny, permeato del romanticismo tedesco e caratterizzato da una nuova concezione della storia. Si trattava di una sensibilità che Savigny aveva acquisito giusta l’influenza di Gustav Hugo (1764-1844) – un docente che nei suoi corsi aveva raccomandato di non identificare la legge come l’unica fonte del diritto – e grazie alle frequentazioni con il linguista Friedrich

16 17

Ibidem. Ivi, p. 281.

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Creuzer. Savigny stava elaborando la propria raffinata gnoseologia, quando Thibaut pubblicò il suo opuscolo. Comprese immediatamente che la proposta avanzata dal contendente avrebbe vanificato il suo progetto. Non è da escludere, seguendo Pio Caroni, che Savigny avesse lavorato «con la foga di chi si sente l’acqua alla gola» 18. Per Savigny il diritto era parte del tessuto di una società: «La sua essenza è la vita stessa degli uomini» 19, scrisse icasticamente (un concetto che successivamente avrebbe reso con la celebre espressione Volksgeist, spirito del popolo). Il diritto «è creato prima dai costumi e dalle credenze popolari, e poi dalla giurisprudenza, che è sempre opera dunque di forze interiori che agiscono silenziosamente e non dell’arbitrio del legislatore» 20. Ecco enunciata la tesi principale, vero e proprio manifesto della Scuola storica del diritto. Come si vede, si tratta di una concezione agli antipodi di quella di Thibaut, poiché agli occhi di Savigny lo strumento codice avrebbe arrestato l’evoluzione del diritto, che, al pari della lingua, non conosce «un momento di stasi assoluta» 21. Il codice, inoltre, si sarebbe venuto a porre quale «unica fonte del diritto sostituendosi a tutto il resto che vigeva finora» 22, operando un inaccettabile riduzionismo. Anche le fonti previgenti accolte nel codice avrebbero acquisito un significato inedito, perché nuova era la concezione, o se si preferisce, la psicologia del legislatore. Savigny coglieva al meglio la valenza politica e ideologica dello strumento codice. Nella prospettiva savignyana solo i giuristi erano in grado di sceverare all’interno dell’ordinamento ciò che è ancora vivo (vitale per la società) da ciò che è morto (vale a dire caduto in desuetudine). E se è vero che in una società in continua evoluzione l’adeguamento del diritto non doveva «realizzarsi solo tra gli studiosi, gli insegnanti e gli autori, bensì anche tra i giuristi pratici» 23, Savigny ammoniva che ciò poteva conseguito unicamente se i giuristi fossero provveduti di senso storico e di metodo sistematico. Era una condizione che nell’esperienza umana si era presentata all’epoca della giurisprudenza classica, la quale era stata in grado di enucleare i princìpi del diritto dalle tradizioni «pur senza lasciarsene vincolare quando non fossero più rispondenti a una nuova opinione dominante nel popolo» 24. Bisognava dunque recuperare metodo e perizia, sulla scia di questi giuristi: «… vogliamo comunanza della nazione e con18 P. Caroni, La cifra codificatoria nell’opera di Savigny, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 9 (1980), p. 70. 19 A.F.J. Thibaut e F.C. Savigny, La polemica sulla codificazione, a cura di G. Marini, ESI, Napoli 1989, p. 111. 20 Ivi, p. 101. 21 Ivi, p. 99. 22 Ivi, p. 103. 23 Ivi, p. 174. 24 Ivi, p. 112.

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centrazione delle sue attività scientifiche… Per raggiungere tale obiettivo» Thibaut chiede «un codice… Io vedo il mezzo giusto in una scienza giuridica in progresso organico, che possa essere comune a tutta la nazione». Thibaut vede «la radice del male nelle fonti del diritto» e crede «di rimediare con un codice: io la vedo piuttosto in noi stessi, e credo che proprio per questo noi non abbiamo vocazione alla compilazione di un codice» 25. E per mostrare che nell’ora presente il livello scientifico dei giuristi era del tutto inadeguato (all’insegna dell’inconsapevolezza storica), Savigny, lavori preparatori alla mano, passò in rassegna il Code civil, l’ALR e l’ABGB. In questa analisi, che occupa poco meno della metà del pamphlet, Savigny non fu equanime. Qualche calcolo strategico e l’orgoglio nazionalistico lo condussero a segnalare impietosamente l’incultura giuridica dei redattori francesi, a stigmatizzare le incongruenze dei codificatori austriaci e a giustificare, almeno in parte, quelle dei prussiani: «… nessun osservatore imparziale vorrà paragonare il codice francese a quello prussiano: questa differenza si spiega non solo con la coscienziosità e la dedizione alla causa che sono connaturate nei Tedeschi migliori», ma anche con la circostanza che esso fu elaborato «senza la pressione di una necessità esterna» 26.

Il giudizio tuttavia non fu favorevole. Per quale motivo? Perché era un’opera realizzata dagli allievi di Wolff e dunque pervasa di quel giusrazionalismo che lui detestava, in quanto astrattizzante. Savigny non escluse il ricorso allo strumento legislativo allorché si intendeva disciplinare settori specifici dell’ordinamento, come il diritto di famiglia, oppure il processo. E proprio riguardo alla giustizia civile la legge appariva funzionale a contenere l’«anarchia degli avvocati» 27 ed evitare le lungaggini processuali, (in relazione all’abuso dei termini e del loro prolungamento e alla moltiplicazione delle memorie e delle istanze di parte). Non era neanche contrario a che il legislatore accogliesse in un testo le consuetudini. Dove stava, allora, la differenza con il codice? Nell’essenza della cosa, rispose Savigny: «… in questo diritto consuetudinario viene accolto solo ciò che è deciso dalla pratica reale (…): invece il codice è obbligato a pronunciarsi su tutto, anche se non vi è al momento nessuna esigenza in tal senso e nessuna concezione speciale che metta in grado di farlo, soltanto nell’attesa di eventuali casi futuri» 28.

Approfondiremo successivamente l’evoluzione del pensiero di Savigny. Nelle pagine che seguono accerteremo in quale misura il Beruf savignyano e il pam25

Ivi, pp. 196-197. Ivi, pp. 145-146. 27 Ivi, p. 177. 28 Ivi, pp. 178-179. 26

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phlet di Thibaut fossero presenti nel dibattito italiano della Restaurazione e del Risorgimento nazionale.

4. “Riannodare la catena dei tempi”. L’esperienza giuridica in Italia durante la Restaurazione: a) premessa Eccezion fatta per la Sicilia e per la Sardegna, in tutta la Penisola era stato progressivamente applicato (dal 1796 in poi) l’ordinamento transalpino. Nelle cinque Italie napoleoniche, vale a dire: 1) nei Dipartimenti annessi all’Impero, (corrispondenti alle odierne regioni del Piemonte, della Liguria, della Toscana, del Lazio, dell’Umbria e alle province di Parma e Piacenza), 2) nel Regno d’Italia (corrispondenti alle odierne regioni della Lombardia, del Veneto, del Friuli [senza la Venezia-Giulia], del Trentino Alto Adige e delle Marche nonché parte dell’Emilia Romagna e del Piemonte), 3) in quello di Napoli, 4) nelle Province Illiriche (attuale Venezia-Giulia, l’Istria, la Dalmazia) 29, 5) a Lucca il Code civil era stato introdotto con minime variazioni. A Milano e a Napoli i rispettivi ministri della Giustizia avevano invero tentato di modificarlo per renderlo conforme ai desiderata e alle caratteristiche sociali ed economiche dei diversi territori. In particolare, unanime era stata nelle due capitali la richiesta di espungere il divorzio, perché contrario ai princìpi della religione cattolica. Napoleone, che inizialmente si era mostrato disponibile in tal senso, si era opposto perché stava prendendo forma una vera e propria strategia imperialistica sul versante giuridico. A partire dal 1807 il Code civil si sarebbe dovuto affermare quale «droit commun de l’Europe» (diritto comune dell’Europa). Naturalmente i Francesi avrebbero passato sopra la circostanza che si trattava di recezione imposta e si sarebbero guardati bene dal far conoscere che Napoleone era in preda ad un’ossessione codicistica, dai tratti benthamiani. «Se rimaneggiate il Codice Napoleone, non sarà più il Codice Napoleone» 30, andava esclamando l’Imperatore ai sovrani degli stati satelliti europei. Prese corpo così una retorica che faceva leva sui caratteri scientifici del codice e sul suo ‘cuore antico’, per riprendere una felice immagine del Petronio 31. Di qui

29

Con riferimento alla Dalmazia, entrarono in vigore solo alcuni titoli del codice civile. Correspondance de Napoléon. Six cents lettres de travail (1806-1810), ed. M. Vox, Paris 1943 (Note 32), p. 360: «Si vous faites retoucher le Code Napoléon, ce ne sera plus le Code Napoléon». 31 U. Petronio, Il futuro ha un cuore antico. Considerazioni sul Codice di procedura civile 30

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l’idea di compierne la traduzione in latino e di affiancare l’analisi del testo con i princìpi del diritto romano. L’obiettivo dichiarato da uno degli artefici del Code, il Bigot de Préameneu, era quello di evidenziare che Napoleone, pur attingendo dal diritto romano, era riuscito a fare meglio sia di Giustiniano, sia degli stessi giuristi latini. Un diritto romano depurato e ipostatizzato perché norma senza tempo, quello accolto nel testo del 1804. In Italia questa retorica della tradizione (e dunque della continuità) funzionò benissimo, vuoi perché ampiamente diffusa dai governanti (in particolare dal ministro della Giustizia del Regno d’Italia, Giuseppe Luosi [1755-1830]), vuoi perché i giuristi vi si identificavano perfettamente. La macchina del consenso napoleonico aveva funzionato a regola d’arte.

b) i codici civili della Restaurazione All’indomani del crollo dell’Impero non fu agevole tornare all’antico ordine. Gli emissari di Metternich in Italia registrarono, come ha mostrato il Meriggi, un sentimento diffuso di «ammirazione per il modello istituzionale franco-napoleonico che andava ben al di là dell’ambito di coloro che ne erano stati negli anni precedenti i diretti interpreti» 32. A Napoli operava il ministro Donato Tommasi (1761-1831), il quale, sin dal 1813, aveva fatto comprendere al sovrano, confinato in Sicilia, e per ciò stesso non troppo incline a giudicare favorevolmente i prodotti d’importazione francese, che il Code civil era uno strumento imprescindibile per il consolidamento del potere monarchico. Un sentimento che in Piemonte anche Carlo Alberto avrebbe condiviso e che vale la pena riprodurre: «Noi realizziamo questa legislazione non per assecondare lo spirito del momento o i numerosi scritti dei belli spiriti e dei filosofi moderni, ma al contrario per elevare una diga contro l’invasione delle idee sovversive e per elevare sulle macerie dei troni che crollano da tutte le parti a causa della debolezza e l’imperizia dei governi, un codice puramente religioso e monarchico» 33.

del 1806, in I codici napoleonici, 1, Codice di procedura civile, Giuffrè, Milano 2000, pp. XLIII ss. 32 M. Meriggi, Gli Stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, il Mulino, Bologna 2002, p. 122. 33 A. Monti, Lettere inedite di Carlo Alberto al maresciallo Vittorio Sallier de la Tour sulla riforma dei codici e la polemica sui princìpi liberali, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, classe di Lettere e Scienze morali e storiche, 74 (1941-1942), pp. 75-76: «Cette législation nous faisons, non pour flatter l’esprit du moment, pour seconder les nombreux écrits de beaux esprits et philosophes modernes, mais au contraire, pour élever une digue contre l’envahissement des idées subversives; et pour élever sur les débris des Trônes qui croulent de toutes parts par la faiblesse et l’imperitie des Gouvernements, un Code purement Religieux et Monarchique».

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Ebbene, tanto nel Regno delle Due Sicilie, quanto nello Stato sabaudo furono approntati nel 1819 e nel 1837 due codici civili esemplati su quello francese. Anche in altri due territori minori, i Ducati di Parma, Piacenza e Guastalla e quello di Modena i sovrani seguirono la stessa politica legislativa, rispettivamente nel 1820 e nel 1851. Fu proprio un giurista dei Ducati, il modenese Lodovico Bosellini (1811-1871), volendo irridere la dipendenza di questi codici dal calco transalpino, a individuare per ognuno di essi un aggettivo: «il codice napolitano, il codice francese limato, il parmigiano lo stesso codice rifuso, il piemontese il medesimo interpolato, e il modenese quello stesso rimpastato» 34. Al di là della facezia, Bosellini coglieva un elemento che li accomunava, e cioè che ciascuno di essi era stato ‘nazionalizzato’, ossia adattato alla realtà politica, sociale ed economica dei territori cui erano destinati. Come si vede, si trattava della stessa politica del diritto che si era manifestata nella Milano e nella Napoli napoleonica. Anche nello Stato delle italofone Isole ionie si adottò siffatta politica (1841): e pure in questo caso il disegno di adattare il Code civil alla realtà dell’Eptaneso era maturato, senza successo, durante l’occupazione imperiale. L’origine dei codici della Restaurazione va dunque retrodatata agli inizi della dominazione napoleonica. E laddove si parla di nazionalizzazione essa va intesa come quell’atteggiamento derivante dalla cultura storicistica di Vico di voler riannodare il codice alla catena del tempo, per adoperare la significativa espressione impiegata nel Preambolo alla Charte del 1814 35. Per motivi anche tattici, determinati dalle contingenze politiche, i giuristi impegnati nell’opera di codificazione evitarono di riferirsi in maniera diretta al Code. Non infrequentemente essi adoperarono la retorica della continuità, dichiarando di essersi ispirati al diritto romano e alla tradizione di diritto comune. Essi non mancarono di rilevare, dunque, che questi elementi della tradizione si trovavano già sigillati e scanditi in agili disposizioni assiomatiche nel testo d’Oltralpe. A Napoli i giuristi ebbero buon gioco nell’evidenziare che il codice non solo conservava le “buone leggi antiche” ma che si radicava nel riformismo di Carlo III. In altri termini, era già scritto nella storia del Reame. Non sempre l’opzione di lavorare entro il cono d’ombra del Code Napoléon, sia pur nella prospettiva indicata, risultò unanimemente condivisa. Gli avversari del testo del 1804 ebbero buon gioco nel presentarlo come l’eversivo “codice della Repubblica”, non avvedendosi che in molti punti esso rappresentava un vigoroso indietreggiamento rispetto alla Rivoluzione, o che era stato originariamente concepito da Napoleone come mezzo di glorificazione del proprio trionfo e quale formidabile instrumentum regni, piuttosto che quale veicolo di esaltazione della libertà della società civile.

34 L. Bosellini, Intorno al progetto di codice civile, Lettera quattordicesima, in Monitore dei Tribunali, Milano 18 settembre 1861, n. 100, p. 798. 35 Si veda supra, § 6.

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Ed è un fatto che l’azione di disturbo degli antinapoleonici rallentò il processo di codificazione. Basti pensare a quanto accadde a Parma, ove alla Commissione di Revisione venne imposto l’altolà (essa fu accusata di lavorare in maniera troppo aderente al Code civil), o a Torino in cui il lavoro dei commissari rischiò di essere condotto su un binario morto tra il 1832 e il 1833. Abbiamo parlato di nazionalizzazione del Code civil. In che cosa si sostanziò tale operazione? Innanzitutto in un recupero della struttura familiare d’ancien régime. Sotto questo profilo, se è vero che il testo del 1804 rompeva con la famiglia di radice aristotelica, è vero anche che quella napoleonica veniva concepita come presidio dello Stato. Non era certo considerata una comunità di uguali: il padre era visualizzato come un “monarca in miniatura”, in grado di tenere soggiogati i figli con l’arma del testamento, del necessario consenso alle nozze, del carcere per i figli ribelli. Un monarca che Napoleone, a partire dal 1806, tornò tra l’altro a munire del potere di istituire maggioraschi. Anche la moglie era inchiodata ad una paralizzante incapacità di agire. E i figli naturali, pur se riconosciuti, erano collocati ai margini della società domestica. Ebbene, in queste materie ad alta densità politica, i codificatori della Restaurazione potenziarono gli aspetti conservatori già presenti nel modello d’Oltralpe. Quanto al governo della famiglia, il primato del rigore spettò al Codice albertino, ove la patria potestas era tendenzialmente perpetua. A onor del vero anche gli altri codici non sfigurarono affatto. È emblematico l’esempio napoletano: un decreto del 1838 che integrava il codice concesse al padre «anche dopo la maggiorità della figlia … per giusti motivi» di «chiedere che la medesima [passasse] a dimorare in alcun conservatorio» 36. Ci troviamo di fronte a una tipica soluzione d’ancien régime posta a baluardo delle barriere sociali. Una riproposizione, in stile partenopeo, della Bastiglia. In più, a corredo del governo del pater familias, furono ovunque introdotti la diseredazione e il maggiorasco 37. Anche la condizione del figlio naturale peggiorò in maniera drastica nei codici dei Ducati e in quello albertino (al nato fuori del matrimonio fu riconosciuto, in concorso con discendenti legittimi, il solo diritto agli alimenti). Adattare il Code civil alla realtà italiana significò, dunque, allontanarsi da quegli istituti rispetto ai quali il testo del 1804 mostrava di non essersi allontanato dal diritto rivoluzionario, vale a dire dal divorzio (giova ricordare che tale istituto era stato abrogato, nel 1816, anche in Francia), dal matrimonio civile e dal principio di parificazione successoria dei sessi. I legislatori preunitari riaffidarono la disciplina del vincolo coniugale alla Chiesa e, quanto alle successioni, a Modena e a Torino ricomparvero strumenti volti a favorire la linea maschile. Nazionalizzare il Code civil significò, inoltre, forgiare un codice che risultasse

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M. Cavina, Il potere del padre, I, Giuffrè, Milano 1995, p. 224. Diritto di primogenitura in base al quale il patrimonio familiare veniva ereditato solo dal figlio maschio maggiore d’età. 37

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il più possibile aderente alla realtà economica del territorio in cui esso venne applicato. Pressoché ovunque fu posta particolare attenzione a tutti gli strumenti idonei a ordinare una società che si basava su di un’economia essenzialmente agricola. L’enfiteusi, bandita dal Code civil, riapparve (con l’eccezione del testo sardo); la mezzadria e gli istituti collegati ad un’economia rurale (come ad esempio le norme che regolavano le successioni dei contadini) furono disciplinati con cura dal legislatore parmense e da quello modenese. Sempre in questa direzione si posero le notevolissime disposizioni in materia di acque introdotte nel codice albertino, frutto dell’opera del novarese Giacomo Giovanetti (17871849), che avrebbero riscosso il plauso dei giuristi europei. L’aver parlato dei caratteri dei codici preunitari, della loro ‘nazionalizzazione’, cela un interrogativo implicito nelle considerazioni svolte fin qui. Il lavoro degli artefici della codificazione della Restaurazione si era limitato ad un semplice adattamento del testo francese alla Penisola? In altri termini, rinveniamo soluzioni che non dipendono né dal Code civil né dalla tradizione italica? La risposta è affermativa, anche se si contano sulle dita di una mano; nondimeno, esse contribuiscono a connotare di originalità la disciplina privatistica italiana. Tre di queste sono racchiuse nel codice piemontese e riguardano la condizione successoria del coniuge superstite, i canoni di interpretazione della legge, il riconoscimento della proprietà intellettuale. Se riguardo a quest’ultimo istituto la derivazione è comunque francese (pur se non napoleonica), le altre due giungono dal codice civile austriaco e costituiscono prestiti importantissimi, perché sono tendenzialmente destinate a risollevare, rispettivamente, il ruolo dell’interprete (che ha a disposizione un importante organo respiratorio in caso di lacuna e cioè può ricorrere ai princìpi generali del diritto) e la condizione del coniuge superstite. Ho detto che si tratta di un fenomeno tendenziale perché il ricorso ai princìpi generali del diritto può essere concepito «quale strumento fondamentale di prolungamento della razionalità del legislatore nell’attività dell’interprete» 38 e, quanto alle norme successorie, esse operavano pienamente solo nel caso di successione ab intestato. L’ultima di queste soluzioni ‘eclettiche’ si ritrova, infine, nel codice estense del 1851. Esso accoglie l’istituto della trascrizione, secondo una disciplina che discende dalla Francia rivoluzionaria, e precisamente dalle leggi dell’anno VII (più note come Code hypothécaire), che i giuristi napoleonici non avevano voluto accogliere perché avrebbero rischiato di svelare transazioni che dovevano rimanere di esclusivo dominio delle famiglie.

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A. Sciumè, I princìpi generali del diritto nell’ordine giuridico contemporaneo (18371942), Giappichelli, Torino 2002, p. 12.

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c) il diritto privato nel Lombardo-Veneto, nel Granducato di Toscana e nello Stato Pontificio Quanto agli altri Stati dell’età della Restaurazione, a partire dal 1816 nel Lombardo-Veneto entrò in vigore il codice civile austriaco, un testo più progressivo degli altri codici preunitari dal punto di vista della disciplina del diritto di famiglia. Le mogli lombarde e venete erano pienamente capaci di agire, a differenza di quelle piemontesi, parmensi, modenesi o napoletane, che dovevano richiedere l’autorizzazione del marito per stare in giudizio o per compiere qualunque atto di donazione, alienazione, ipoteca e acquisto. Anche la disciplina asburgica della patria potestà si scostava completamente dal calco francese, così come dalla tradizione romanistica: in capo ai genitori gli obblighi imposti controbilanciavano i diritti. Il figlio che avesse raggiunto la pubertà poteva addirittura ricorrere all’autorità giudiziaria nell’ipotesi in cui il padre non avesse assecondato le sue aspirazioni professionali. Si trattava di una disciplina che si ispirava ad una concezione della famiglia di stampo kantiano. E pure per ciò che concerne il trasferimento della proprietà, il codice austriaco non seguiva il principio del consenso traslativo accolto dal Code civil e materiato in tutti i codici a impronta napoleonica, preferendo rimanere nel solco di una tradizione romanistica ‘aggiornata’, in cui all’esigenza ancor ribadita della traditio si affiancava, per i beni immobili, il meccanismo dell’intavolazione 39. Come si vede, un impianto normativo decisamente diverso, ma ciò che più rileva qui è che esso reggeva la vita di sei milioni di Italiani, il venticinque per cento della popolazione peninsulare (come è noto, esso era anche applicato in Trentino e nella VeneziaGiulia, e, cela va de soi, nella provincia di Bolzano). Per ciò che concerne le altre due grandi realtà della Penisola il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio, i sovrani decisero di tornare parzialmente all’antico pluralismo normativo. La tradizione dello ius commune rientrava dalla porta principale, poiché i rapporti inter privatos sarebbero stati gestiti all’interno di un ordinamento giurisprudenziale. Nell’uno e l’altro territorio la disciplina delle successioni legittime, delle ipoteche, della patria potestà furono regolate dalla legge nel segno di quel vigoroso conservatorismo che si era appalesato negli altri Stati. Basti solo accennare alla circostanza che a Firenze la maggiore età veniva conseguita dagli uomini a trent’anni, dalle donne a quaranta (fino al 1838 quando furono equiparate ai maschi). Nei due Stati, ai figli naturali venivano riconosciuti i soli alimenti; le donne erano tendenzialmente escluse dalla successione.

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Sistema di pubblicità immobiliare con efficacia costitutiva, consistente nell’iscrizione (o nella cancellazione) della proprietà o del diritto reale in apposito registro (libro fondiario).

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d) la presenza di Savigny nel dibattito sulla codificazione in Toscana e in Piemonte Nel Granducato di Toscana la persuasione che la gestione del diritto andasse affidata ad un sistema giurisprudenziale era parte integrante dell’habitus mentale dei giureconsulti e veniva rafforzata da parte di quei docenti che avevano assimilato il pensiero savignyano, ad esempio Pietro Conticini (1805-1871), ex studente di Savigny a Berlino, docente di Pandette a Siena e a Pisa, oppure Pietro Capei (1796-1868) (per tacere del ruolo svolto dalle accademie, come il Gabinetto Vieusseux). A partire dagli anni Quaranta divampò una vera e propria polemica, poiché il sovrano aveva incaricato una commissione di preparare un codice civile. Qui non posso certo sostare a illustrare i contenuti di siffatta polemica. Bastino in guisa d’esempio le parole di un reputato magistrato, Gaetano Bandi, in quanto, come ha mostrato Giovanni Cazzetta, altamente rappresentative del pensiero della maggioranza dei giuristi del Granducato: «La parte immutabile del diritto, appunto perché tale, si immedesima e si risolve nel linguaggio della scienza; è inutile perciò che venga riportata nel codice (…) se vuolsi che i princìpi razionali del diritto informino di sé il comune senso degli uomini, a questo non fa mestieri del Codice, il quale non potrebbe mai bastare a tanto, e già il Gius comune (…) emanazione delle consuetudini, della Religione, della Storia, ha improntato la nostra civiltà, costituisce parte del nostro vocabolario mentale» 40.

Come si vede, in Bandi riviveva l’impostazione savignyana che andava a innestarsi su quella, più risalente, di Domat: solo la scienza giuridica era in grado di garantire l’adeguamento del diritto alla società. La parte mutabile del diritto, variabile a seconda del contesto e delle necessità contingenti, poteva essere gestita attraverso le leggi (quelle che Domat qualificava appunto come arbitrarie), secondo quanto avveniva in Toscana dal 1814. Il progetto di codice civile toscano sarebbe finito negli archivi, preda dei topi. Anche a Torino Savigny venne evocato nella lotta per il codice civile. Federico Sclopis (1798-1870), primo storico del diritto italiano, «giurista illuminato e cattolico, liberale e conservatore» 41, decise di sostenere la causa della codificazione tenendo quattro discorsi all’Accademia delle Scienze a partire dal 1833. Nell’ultimo, intitolato significativamente Della vocazione del nostro secolo alla legislazione ed alla giurisprudenza, entrò in polemica diretta contro Savigny, di cui fu peraltro grande ammiratore e divulgatore dell’opera in Piemonte e in Italia. Il tempo presente richiedeva la forma codice quale «strumento di ordine, di

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Cit. in G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale. Percorsi e appunti per una storia delle codificazioni moderne, Giappichelli, Torino 2011, pp. 25 e 104-105. 41 P. Ungari, L’età del codice civile. Lotta per la codificazione e scuole di giurisprudenza nel Risorgimento, ESI, Napoli 1967, p. 47.

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progresso, di garanzie per la chiarezza del diritto contro l’aleatorietà, l’arbitrio, l’incertezza» 42. Sclopis faceva ricorso al consueto canone della continuità, al fine di mostrare che il legislatore d’Oltralpe era riuscito a valorizzare la tradizione romanistica. Nello stesso tempo a lui premeva evidenziare che i francesi erano stati in grado di guardare al futuro attraverso «provvedimenti, che la ragione dei tempi chiedeva e che l’esperienza ha approvato» 43. Il codice del 1804 aveva dato prova di reggere a distanza di sei lustri, andando oltre Napoleone. Ciò che stava più a cuore a Sclopis era invero contestare l’assunto savignyano che il codice avrebbe impedito l’adeguamento del diritto alla società: «a noi che crediamo che i codici producano ottimi frutti, quando contengono le regole generali, mercé di cui si applicano i più sani principii di diritto alle varie materie, che cadono sotto l’impero di quello, a noi che non rigettiamo 1’autorità di una giurisprudenza aiutatrice, ma non governatrice della legge scritta, non pare da temersi la sugosa brevità di un codice…» 44.

Sclopis concepiva innanzitutto il codice come uno strumento a maglie larghe (un codice di princìpi), e in secondo luogo permetteva al giudice/interprete di colmare le lacune attraverso il ricorso al diritto naturale. I suoi maestri erano il francese Portalis 45 e l’austriaco Zeiller 46, appunto perché erano stati in grado di individuare nel diritto naturale l’organo respiratorio del codice. Certo il giurista subalpino non si nascondeva di fronte al problema sollevato da Savigny (e già segnalato da Zeiller stesso nel suo commentario) e cioè che il diritto naturale poteva degenerare nell’arbitrio del giudice (aequitas cerebrina). Si trattava di un rischio da correre non solo perché le nozioni del giusto e dell’onesto non erano cosi indefinite da trascendere nell’iniquo, ma anche «di poi perché lo spirito della legge scritta dee reggere anche le interpretazioni dei casi omessi» 47. In altri termini, un arbitrio regolato comunque dalla legge. La perorazione di Sclopis fece superare ogni ritrosia, sì da far riprendere il percorso della codificazione. Un ultimo dato a completare la questione delle lacune nel codice civile piemontese. Un artefice del testo subalpino, Augusto Nomis di Cossilla (1815-81), riuscì a sua volta a superare le perplessità dei colleghi (che erano state manifestate anche dai corpi giudiziari incaricati di vagliare il progetto) circa il richiamo ai princìpi di diritto naturale. Questi propose di sostituirlo con la formula 42 G.S. Pene Vidari, L’attesa dei codici nello Stato sabaudo della Restaurazione, in Rivista di storia del diritto italiano, 68 (1995), p. 140. 43 F. Sclopis, Della legislazione civile. Discorsi, Stamperia reale, Torino 18352, p. 161. 44 Ivi, p. 172. 45 Cfr. supra, cap. VI, § 10. 46 Cfr. supra, cap. VI, § 13. 47 F. Sclopis, Della legislazione civile, cit. p. 173.

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«princìpi generali di diritto», una formula che sarebbe stata poi trasfusa nel primo codice civile dell’Italia unita (1865) e avrebbe subìto una torsione statualistica nel testo del 1942 («princìpi generali dell’ordinamento dello Stato»).

5. Un nuovo mos gallicus iura docendi? Il metodo esegetico in Francia Continua a far discutere tanto in Francia quanto in Italia la questione della cosiddetta ‘scuola dell’esegesi’, espressione utilizzata dal civilista Julien Bonnecase (1878-1950) per indicare quei giuristi che lungo l’Ottocento nei loro commentari avevano interpretato fideisticamente il Code civil 48. L’obiettivo di Bonnecase era stato quello di contrapporre la civilistica contrassegnata dal messaggio affrancatorio di Saleilles e François Gény, che rivendicavano per il giurista un ruolo creativo 49, a quella precedente, colpevole ai suoi occhi di aver commentato in ginocchio il Code Napoléon. Metodo scientifico versus canone esegetico, laddove l’aggettivo esegetico mirava a denunciare un’analisi passiva e legalistica e tendenzialmente improduttiva. Se è vero che dopo Saleilles e Gény la scienza giuridica d’Oltralpe avrebbe preso coscienza della propria funzione adeguatrice, è vero anche che la rappresentazione della civilistica ante Gény compiuta da Bonnecase era volutamente e decisamente sbrigativa. Sarebbe divenuta quasi caricaturale, se si considera che non pochi comparatisti si sarebbero sentiti appagati di descrivere il fenomeno partendo dalla celebre quanto infelice boutade del professor Jean-Joseph Bugnet (1794-1866), passato alla storia per aver esclamato di non conoscere il diritto civile ma di insegnare il Code Napoléon («Je ne connais pas le droit civil, j’enseigne le Code Napoléon»). Sia chiaro: il canone espositivo che si sostanziava nel commentare in sequenza le disposizioni del codice, era senza dubbio un metodo che non stimolava l’interprete alle connessioni tra le diverse parti del testo normativo e impediva uno svolgimento dottrinale continuo e compiuto. Sia chiaro, tuttavia, un altro aspetto: si trattava di un metodo che in Francia era stato imposto da Napoleone ai suoi professori universitari, docenti che non solo dovevano dettare i propri appunti ai discenti, ma che erano anche puntualmente controllati dagli ispettori del ministero. Sicché sarebbe stato sanzionato quel civilista che non avesse proceduto nell’ordine stabilito dal codice. Il canone didattico era certamente pesante e non invogliava allo studio del diritto. Saleilles avrebbe parlato di sécheresse (aridità), lo scrittore Gustave Flaubert avrebbe ironizzato nel 1844 in tal modo: «Quando hai gli incubi, Duranton ti pesa sul petto?» 50.

48

Si veda supra, cap. V, § 11. Cfr. infra, § 11. 50 Alexandre Duranton (1785-1866), uno dei più noti commentatori del codice civile napoleonico. 49

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Ancora una considerazione, infine. Non ebbe torto Bonnecase allorché tacciò la dottrina giuridica francese di legalismo; al di là di questo, egli non volle evidenziare che solo a partire dagli anni Quaranta la maggior parte dei civilisti avrebbe professato un culto radicalmente positivistico, quando si stava progressivamente diffondendo e imponendo il pensiero di Comte 51. Fino a quel momento la dottrina francese aveva sì interpretato le norme sotto la dominanza della legge, ma nel contempo aveva individuato un temperamento suggerendo di utilizzare in caso di lacuna il diritto naturale, inteso principalmente come diritto romano, sia pure filtrato attraverso Domat 52. In sostanza, i civilisti mostravano di muoversi sulla scia di Portalis, che nel Livre préliminaire aveva tentato di mediare tra ancien régime e rivoluzione (tra discrezionalità e rigida subordinazione del giudice alla legge, se mi si passa la semplificazione) 53. Ebbene, limitandoci a qualche esempio, Charles B.M. Toullier (1752-1835), procedeva seguendo proprio la traccia del Livre préliminaire: in presenza di una lacuna egli suggeriva di fare riferimento all’equità e alla consuetudine, identificata con il diritto romano, all’interno del quale erano contenuti «i princìpi primi e le conseguenze ultime del diritto naturale» 54. Per Antoine-Marie Demante (1789-1859), professore a Parigi dal 1822 al 1856, nell’ipotesi in cui la volontà del legislatore non fosse stata evidente, il magistrato poteva far ricorso alla consuetudine e alla legislazione previgente (significativamente qualificata come législation ancienne). Nel caso di silenzio assoluto o di totale oscurità della legge il giudice era legittimato a utilizzare sia i princìpi generali del diritto (fra i quali rientrava a pieno titolo il diritto romano), sia l’equità naturale. Anche la Cassazione francese, per lo meno grosso modo fino agli anni Quaranta dell’Ottocento, aveva seguito la medesima impostazione utilizzando il diritto romano o il diritto previgente. Il dato non deve stupire, perché esso riflette il contesto politico e culturale francese della Restaurazione. Come ho già rilevato, Luigi XVIII e poi Carlo X avevano tutto l’interesse a scollegare il Code civil dalla Révolution e soprattutto da Napoleone. Erano gli anni degli Henrion de Pansey, dei Dupin 55, di coloro cioè che si erano formati presso l’Académie de législation e che sarebbero diventati grandi e ascoltatissimi magistrati, che non a caso valorizzavano la continuità del codice con la plurisecolare tradizione francese. Negli anni Quaranta il pendolo della scienza giuridica si sarebbe spostato progressivamente verso una concezione radicalmente positivistica. Con il Cours 51

Auguste Comte (1798-1857), filosofo e sociologo francese, padre del positivismo euro-

peo. 52

Cfr. supra, cap. V, § 4. Cfr. supra, cap. V, § 11. 54 Cfr. supra, cap. V, § 11. 55 Cfr. supra, § 2. 53

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elementaire du code civil del cattolico liberale Victor-Napoléon Marcadé (18101854), la concezione dualistica dell’ordinamento volgeva al tramonto. L’avvocato parigino, che aveva enumerato con precisione le fonti extralegali alle quali l’interprete avrebbe potuto attingere in caso di lacuna od oscurità della legge («il ricorso alla giurisprudenza de’ tribunali, alla dottrina degli autori, alle decisioni de’ romani giureconsulti … i principi della ragione e della equità» 56), sarebbe stato attaccato con vigore dal ‘Principe dell’Esegesi’, Jean-Charles-Florent Demolombe (1804-1887). Si trattava ancora di un momento di passaggio, ben visualizzato nelle pagine del civilista, Frédéric Mourlon (1811-1866), che Bonnecase presentò come l’esegeta normotipo. Se da una parte Mourlon affermava che «per il giudice esiste un solo diritto, il diritto positivo» 57, dall’altra evidenziava che in civilibus era ammessa una eccezione importante. «L’equità o il diritto naturale possono in effetti servire come base per le sentenze nei casi in cui la legge lo permette espressamente», scriveva 58. E si badi che l’art. 4 del Code civil era uno di questi: «Quando in materia civile la legge è assolutamente muta o quando è impossibile stabilire per via di interpretazione l’autentica intenzione della legge, i giudici allora possono, ma solo allora, motivare il loro giudizio sulla base di considerazioni esclusivamente dedotti dall’equità naturale» 59.

Certo, Mourlon si peritava di compiere una precisazione rilevante, poiché dichiarava di essere indubitabile che i giudici non vi avrebbero mai fatto ricorso. Perché? Perché il codice era completo e autocompletabile. Il positivismo scientifico comtiano, «cultura di regole positivamente date nella realtà sociale» 60, stava prendendo il sopravvento. Questa nuova cultura è ben ravvisabile, ad esempio, in François Laurent (1810-1887), civilista belga peraltro molto attento alla ricostruzione storica del processo di codificazione. Paradossalmente anche Laurent recuperava le disposizioni del Livre préliminaire, ma era, a ben vedere, un uso inconsueto. Egli gigantizzò infatti le disposizioni del libro preliminare nelle quali Portalis aveva posto l’accento sul rispetto della legge da parte dell’interprete/giudice e omise di citare quelle giusnaturalistiche. Un 56

V.N. Marcadé, Spiegazione teorico-pratica del Codice Napoleone…, trad. it., I, PedoneLauriel, Palermo 1855, p. 49. 57 F. Mourlon, Répétitions écrites sur le premier examen du Code Napoléon…, I, Garnier, Paris 1858, p. 6: «pour le juge un seul droit existe, le droit positif». 58 Ibidem. 59 Ivi, p. 61: «Lorsqu’en matière civile la loi est absolument muette, ou lorsqu’il est impossible de découvrir par l’interpretation la véritable pensée de la loi, les juges peuvent alors, mais alors seulement, motiver leur jugement sur des considérations esclusivement tirées de l’équité naturelle». 60 U. Petronio, Attività giuridica moderna e contemporanea, Giappichelli, Torino 2012, p. 112.

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uso legalistico del Livre préliminaire, potremmo dire. Agli occhi di Laurent l’interprete doveva essere «lo schiavo della legge» 61. Interpretare voleva dire unicamente ricostruire il pensiero del legislatore. L’aspetto sorprendente della vicenda è che Laurent dichiarava di essersi ispirato in questo a Savigny. Si trattava di una colossale mistificazione? Lo scopriremo subito.

6. Da Savigny a Windscheid. Scuola storica e Pandettistica in Germania Nella polemica con Thibaut, Savigny identificò nel diritto romano il diritto del popolo tedesco, quell’ordinamento, lo si ricorderà, che si era imposto in Germania come diritto generale per effetto dell’istituzione del Reichskammergericht (Tribunale Camerale dell’Impero) alla fine del XV secolo 62. Fu dunque naturale per lui da un lato indagarne lo sviluppo storico durante il Medioevo, dall’altro procedere ad un’analisi scientifica del diritto giustinianeo. Tra il 1815 e il 1831 Savigny pubblicò la celebre Storia del diritto romano nel Medioevo e, tra il 1840 e il 1851, il Sistema del diritto romano attuale, opera che rappresenta il punto d’arrivo del suo itinerario scientifico. Va precisato che Savigny non si oppose mai ad uno studio delle fonti giuridiche germaniche. Anzi: lo incoraggiò. Fu in seno alla Scuola storica che nacque la costola della Scuola germanistica del diritto con Karl Friedrich Eichhorn (17811854) e Jakob Grimm (1785-1863), destinata successivamente a entrare in conflitto violento con i pandettisti, come accenneremo più avanti, allorché si affronterà il problema della codificazione civile in Germania. Allo scopo di ordinare teoreticamente il diritto privato romano era indispensabile per Savigny sceverare il diritto vivente da quello oramai desueto, nonché selezionare, tra quelli ricavabili dal diritto romano nel suo complesso, i princìpi accolti in Germania. Al fine di enucleare i princìpi di diritto romano attuale Savigny si affidò al sistema (System des heutigen römischen Rechts). Rispetto all’ideale sistematico dei giusrazionalisti, quello savignyano era agli antipodi, poiché era pensato come sistema di un ordinamento storico, vale a dire un sistema già esistente che l’interprete avrebbe portato alla luce. Esso veniva concepito su due livelli, il rapporto giuridico e l’istituto giuridico. Il primo aveva natura organica, «legava cioè in una reciproca dipendenza i singoli diritti che solo per astrazione potevano essere considerati separatamente» 63. L’elemento propriamente razionale dell’attività dei giuristi consisteva perciò «nella viva ricostruzione del rapporto giuridico in ogni singolo caso» 64. Analogamente, an61

F. Laurent, Principi di diritto civile, I, trad. it., Società editrice libraria, Milano 1910, p. 260. Cfr. supra, cap. III, § 3. 63 A. Mazzacane, Pandettistica, in Enciclopedia del diritto, XXXI, Milano 1981, p. 602. 64 Ibidem. 62

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che la regola di diritto, la norma, aveva “il suo più profondo fondamento nell’intuizione dell’istituto giuridico» 65. «Io pongo l’essenza del metodo sistematico nel riconoscimento e nell’esposizione dell’intimo legame o dell’affinità, per cui i singoli concetti giuridici e le singole regole sono connesse in una grande unità» 66, spiegò Savigny. E ancora: «… tutti gli istituti giuridici sono collegati in un sistema e … solo nella grande armonia di questo sistema, nel quale si ritrova la medesima organica natura, possono essere completamente intesi» 67. In questo tentativo di costruzione del sistema dall’interno, vale a dire a partire dalla storia, Savigny fece prevalere, in realtà, il sistema sulla storia, come ha notato il Marini 68. Si trattava di un’involuzione tutta di Savigny oppure era riconducibile all’influenza di Georg Friedrich Puchta (1798-1846), suo successore a Berlino? La storiografia non è concorde. Al di là di questo, è certo che la torsione in senso concettualistico dogmatico, che condurrà all’ascesa della Pandettistica, si invera completamente in Puchta, un giurista che pur si era distinto su un tema schiettamente savignyano come quello della consuetudine quale fatto normativo. Se è vero che egli dichiarò che «la scienza del diritto à due lati, il sistematico e lo storico, nel concepimento dei quali consiste la vera scienza del diritto» 69, non mancò di enfatizzare che «il diritto è qualcosa di razionale: contiene al suo interno il seme del proprio completamento, attraverso i princìpi sui quali poggia, e attraverso la sua natura razionale, che permette di inferire da una proposizione ad un’altra, derivata dalla prima per interna necessità» 70. Paradossalmente, il giusrazionalismo di Wolff e il costruttivismo di Puchta erano destinati a incontrarsi, poiché Puchta metteva in luce che il compito della scienza era quello «di riconoscere le regole giuridiche nel loro legame sistematico, come reciprocamente condizionate e derivanti l’una dall’altra» al fine di «ripercorrere la genealogia delle singole regole su su fino al loro principio, e del pari discendere dai princìpi fino alle loro più esterne ramificazioni» 71. È la celebre e celebrata immagine della piramide dei concetti. Anche riguardo al concetto di rapporto giuridico, Puchta avrebbe compiuto un tradimento. Seguendo Riccardo Orestano,

65 F.C. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. di V. Scialoja, I, Utet, Torino 1886, p. 38 ss. 66 F.C. Savigny, Sistema del diritto romano attuale, cit., p. 21. 67 Ivi, I, p. 39. 68 G. Marini, Friedrich Carl von Savigny, Guida editori, Napoli 1978, p. 141. 69 G.F. Puchta, Corso delle Istituzioni, trad. it. di A. Turchiarulo, Tipografia all’insegna del Diogene, Napoli 1854, I, p. 2. 70 G.F. Puchta, Corso delle Istituzioni, nella traduzione di A. Mazzacane, Pandettistica, cit., p. 604. 71 Ivi.

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«porre al centro del sistema il rapporto giuridico voleva dire [per Savigny] riportare tutto il problema del diritto e degli stessi diritti soggettivi su un piano di oggettività sociale e quindi storica. L’idea di ordine, non quella di libertà, appare nel pensiero più tipico della Scuola storica come elemento costitutivo del diritto, onde il diritto obiettivo, formazione collettiva della coscienza popolare, diviene il presupposto logico e temporale del diritto soggettivo» 72.

Con Puchta, invece, si assiste ad una soggettivizzazione del sistema giuridico sulla scia di Leibniz e di Wolff 73. Il sistema giuridico è lo «spiegamento del principio della personalità nei diversi ambiti della vita» scrive Puchta, laddove la personalità si esplica attraverso la volontà 74. Si tratta del dogma della volontà che avrebbe caratterizzato la Pandettistica. Ancora una volta pesavano gli schemi giusrazionalistici. La Pandettistica avrebbe annoverato tra i suoi cantori figure come Karl Ludwig Arndts (1803-1878), Karl Adolf Vangerow (1808-1870), Aloys Brinz (1820-1887), Bernard Windscheid (1817-1892) – colui che avrebbe raccolto il frutto del lavoro di una generazione di pandettisti nel suo Lehrbuch des Pandektenrechts (Manuale di diritto delle Pandette), tanto da essere comunemente accostato alla figura di Accursio, e che sarebbe stato cooptato all’interno della prima commissione incaricata di redigere il codice civile tedesco –, Heinrich Dernburg (1829-1907), Ferdinand Regelsberger (1831-1911) e Ernst Immanuel von Bekker (1827-1916). La scienza giuridica pandettistica fu bollata dal Rudolf von Jhering (18181892) con l’epiteto di Begriffsjurisprudenz (giurisprudenza dei concetti), volendo con questo stigmatizzare un’analisi del fenomeno giuridico essenzialmente formalistica e logicistica, avulsa dal contesto storico, politico e sociale. La celebre e forse compiaciuta affermazione di Windscheid («considerazioni morali, politiche o economiche non sono affare del giurista in quanto tale» 75) fu ritenuta una massima inaccettabile da coloro che avrebbero dato vita alla Interessenjurisprudenz (giurisprudenza degli interessi, sviluppata da Philipp Heck [1858-1943]). In realtà, il sapere scientifico pandettistico non era affatto neutrale. Come è stato rilevato felicemente dal Mengoni, la metodologia pandettistica, «che si legittimava dall’interno in virtù della propria razionalità formale, era l’espressione e insieme la garanzia di una società omogenea, identificata da un blocco di valori assunti quali elementi incontestati e incontestabili dell’ordine sociale, e rispondeva a un’idea del progresso come sviluppo organico di strutture semplici e re-

72

R. Orestano, Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche. Scienza del diritto e storia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 140-141. 73 Su Leibniz e Wolff, cfr. supra, cap. V, § 4. 74 Cit. ivi, p. 143. 75 B. Windscheid, Die Aufgaben der Rechtswissenschaft (1884), in Gesammelte Reden und Abhandlungen, Duncker & Humblot, Leipzig 1904, p. 101.

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lativamente stabili dentro un orizzonte definito da una volontà normativa costante, che assicurava le condizioni di ricostituzione spontanea degli equilibri sociali» 76.

Al di là dell’atteggiamento formalistico e positivistico (positivismo scientifico), è innegabile che la Pandettistica seppe offrire uno strumentario e un lessico giuridico nuovo. Solo per fare qualche esempio, il negozio giuridico, il patrimonio, l’invalidità, la persona giuridica, la presupposizione, l’astrattezza, l’imperatività, la bilateralità sono figure, categorie e concetti entrati a far parte del patrimonio scientifico dei giuristi civilisti. Dobbiamo affrontare la questione del rapporto giudice-legge nel pensiero del Savigny, alla quale aveva fatto riferimento il civilista belga François Laurent. Savigny aveva affermato che l’interprete si sarebbe dovuto porre «col pensiero nello stesso punto di partenza del legislatore» o avrebbe dovuto «ripetere in sé artificialmente l’operazione di lui, per modo che la legge rinascesse di nuovo nella sua mente», concludendo assertivamente: «tale è il compito della interpretazione, che noi possiamo quindi definire come la ricostruzione del pensiero racchiuso nella legge» 77. Se in un ordinamento caratterizzato dalla dominanza dei codici l’affermazione savignyana non dava àdito a dubbi (e dunque era quasi scontato che Laurent l’avesse interpretata positivisticamente), all’interno del Sistema savignyano nel suo complesso e nel contesto dell’ordinamento tedesco acodificato essa poteva assumere un significato diverso. Karl Larenz (1903-1993) rilevò che Savigny, «esigendo che l’interprete ripetesse nel proprio spirito l’attività del legislatore, chiedesse molto di più che il semplice accertamento di fatti determinati, vale a dire una propria attività spirituale che lo dovesse condurre al di là di ciò che il legislatore storicamente esistito potesse avere pensato in fatto nel formulare le sue parole» 78.

Avendo affermato che la legge andava conosciuta nella sua verità e cioè che l’interprete e lo stesso legislatore dovessero farsi guidare dall’idea dell’istituto giuridico, Savigny intendeva sostenere che «l’interprete dovesse scoprire dietro i pensieri del legislatore, i pensieri giuridici oggettivi realizzati nell’istituto giuridico» 79. Si tratta di un aspetto controverso della concezione savignyana. V’è chi ha ritenuto di cogliere una contraddizione, chi un’ambiguità e chi, infine, ha contrapposto un Savigny storicista del Beruf, al Savigny legalista del Sistema. Quel che è certo è che la Pandettistica, avendo sviluppato una concezione positivistica e autopoietica dell’ordinamento, avrebbe compiuto una de76

L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, Milano 1996, p. 38. F.C. Di Savigny, Sistema del diritto romano attuale, traduzione dall’originale tedesco di V. Scialoja, UTE, Torino 1886, I, p. 220 e p. 221. 78 K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, trad. it., Giuffrè, Milano 1966, p. 13. 79 Ibidem. 77

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cisa virata legalistica. Sarebbero stati Josef Kohler (1849-1919) e Karl Binding (1841-1920) «ad allentare il nesso fra legge e legislatore. La legge sarà riferita non tanto al suo momento genetico, alla puntuale volontà del suo autore, quanto a quella ‘coscienza popolare,’ storicamente variabile, di cui tanto la legge quanto gli interpreti sono, e devono essere, ‘organi’. E allora: la fissità della formula legislativa, la sua costitutiva refrattarietà a disciplinare efficacemente un mutamento sociale incompatibile con le sue originarie previsioni, viene scavalcata da un’interpretazione che sottomette il testo legale alla stessa ‘legge di evoluzione’ che dominava la società» 80.

7. Mixtum compositum: cultura e scienza giuridica della Restaurazione in Italia Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, in Italia durante la Restaurazione esistevano molteplici luoghi di elaborazione del sapere giuridico. Quello tradizionale, l’Università, si trovava oggettivamente in crisi, vuoi perché essa era considerata l’epicentro della sedizione politica, sicché si badava a cooptare uomini d’ordine più che di scienza, vuoi perché una carriera a tempo pieno era impensabile a causa del basso salario. Quanto alla didattica, nella maggior parte dei casi i docenti si limitavano a dettare le lezioni, oppure si affidavano a strumenti inadeguati. Per un verso non ebbe torto Savigny quando, al ritorno dai suoi viaggi in Italia, tracciò un quadro a tratti desolante dell’insegnamento giuridico nella Penisola; per un altro cadde vittima di un pregiudizio. Poiché Savigny aveva abbracciato il modello humboldtiano 81 (e il suo era un resoconto finalizzato anche a criticare quegli atenei tedeschi che non vi si erano uniformati), non era ammissibile per lui che l’educazione giuridica si svolgesse al di fuori del circuito universitario. Che possa piacere o no, l’altro, ma non per questo secondario, luogo di formazione del giurista della Restaurazione italiana era rappresentato dalle scuole private, presenti un po’ in tutta la Penisola (a Torino, come a Milano o come in Sardegna), ma certamente fiorenti e affollatissime a Napoli. Quelle napoletane si posero in diretta concorrenza con l’Università e non poche di esse si distinsero e contribuirono allo sviluppo della cultura giuridica, poiché maestri come Capitelli, De Augustinis, Liberatore, Poerio, Savarese, Mancini e Pisanelli misero «a 80 P. Costa, L’interpretazione della legge: François Gény e la cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 20 (1991), p. 376. 81 Wilhelm von Humboldt (1767-1835), studioso (linguista) e diplomatico prussiano, che tra il 1809 e il 1810, in qualità di ministro dell’educazione, riformò profondamente il sistema dell’istruzione e fondò l’Università di Berlino, ben presto famosa per la sua eccellenza e per il suo sistema poggiato sui due pilastri interdipendenti della ricerca e della didattica.

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frutto saperi compositi: il binomio costitutivo storia/filosofia; il linguaggio economico; il diritto pubblico; la legislazione comparata» 82. Prese forma, all’interno di queste scuole, il modello napoletano più tipico: «la figura dell’avvocatoprofessore-statista, capace di trascorrere agevolmente dall’uno all’altro dei ruoli, contigui fra loro e spesso cumulati dalla stessa persona, particolarmente sensibile ai meccanismi istituzionali e alla loro incidenza nella società civile» 83. In quest’ora storica un ruolo importante di acculturazione giuridica fu svolto dalle Accademie e dai circoli. A Torino Federico Sclopis, artefice della codificazione albertina, attento conoscitore della produzione scientifica tedesca 84, operava all’interno non dell’esangue facoltà della capitale sabauda bensì all’Accademia delle Scienze, mentre altri svolgevano attività di ricerca sulle fonti giuridiche presso la Deputazione di storia patria. Lo stesso discorso vale per la Toscana. Un pugnace manipolo di giuristi gravitava attorno al Gabinetto scientifico di Vieusseux oppure all’Accademia dei Georgofili. Pure le riviste giuridiche concorsero nella divulgazione e nella circolazione del sapere giuridico. Divennero anche il luogo di vivaci scambi: sulle colonne della Temi di Firenze (il periodico più sprovincializzato della Penisola), ad esempio, dal 1847 in poi fu affrontato il problema della codificazione civile unitaria, pensato all’interno di una federazione. Ebbene, per quasi dieci anni presero parte alla discussione giuristi da tutta Italia. Va detto che tale questione non poteva emergere se non in quegli anni. Le parole di Vincenzo Gioberti, che nel Primato morale e civile degli Italiani (1843) inneggiava all’orgoglio italiano, quelle di Antonio Rosmini, il quale richiedeva per l’Italia «quel che dimandava Thibaut per la Germania, un codice comune a tutte le contrade italiane» da lui concepito come «uno de’ mezzi più possenti e pacifici, un mezzo morale degno della sapienza de’ governi a raccogliere e quasi collegare le squarciate membra del bel paese» 85, e ancora, quelle sussurrate da Mazzini sulla necessità di affratellare gli Italiani attraverso un’unica legislazione, fungevano da catalizzatore. Le riflessioni dei tre giusfilosofi, che si radicavano in un ambiente già permeato del pensiero di Giovan Battista Vico e di Gian Domenico Romagnosi, avrebbero indotto, giova evidenziare il dato qui, a contestare il canone giuridico francese in favore di uno identitario-nazionale. Tanto a Torino quanto a Napoli i giuristi deplorarono «la vile imitazione straniera in cui era caduta la scienza del diritto italiana» 86.

82 L. Lacché, Il canone eclettico. Alla ricerca di una strato profondo della cultura giuridica italiana, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 39 (2010), p. 171. 83 A. Mazzacane, Pratica e insegnamento: l’istruzione giuridica a Napoli nel primo Ottocento, in Università e professioni giuridiche in Europa nell’età liberale, Jovene, Napoli 1994, p. 112. 84 Cfr. supra, § 4d. 85 A. Rosmini, Filosofia del diritto, I, Boniardi-Pogliani, Milano 1841, p. 13. 86 D. Pinelli, recensione a Del primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti,

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Quanto alla cultura giuridica della Restaurazione il discorso è altrettanto complesso e mal si presta ad una schematizzazione (pur necessaria). Esso si articola su più livelli, che inevitabilmente si intersecano; si differenzia, inoltre, in relazione ai molteplici contesti della Penisola. Senza dubbio, fino agli anni Cinquanta, le energie dei giuristi furono assorbite in prevalenza dall’attività di traduzione delle opere straniere. Avvocati e magistrati si cimentarono nel volgere in italiano tanto i ponderosi e prolissi commentari civilistici francesi, quanto, nel Regno Lombardo-Veneto, quelli austriaci. Se è vero che «spesso le prefazioni (e ancor più le annotazioni) misero in evidenza il contributo critico del traduttore, il suo lavorio storico-comparativo ed eclettico, le sue manovre più o meno disinvolte per confrontare, combinare e adattare tradizione giurisprudenziale locale» 87, è vero pure che quest’opera di mediazione fu vistosa a Napoli. Le versioni realizzate ora a Torino, ora a Milano, si limitarono invero a semplici rimandi, a connessioni con la legislazione degli altri Stati preunitari (o con la codificazione francese), senza quel peculiare coinvolgimento del traduttore che è appunto il segno distintivo di non poche traduzioni compiute nel Regno delle Due Sicilie. Alcuni giuristi, come il napoletano Loreto Apruzzese (1765-1833) e il pavese Agostino Reale (1790-1855), riuscirono a elaborare un commentario autonomo. Non si tratta di una coincidenza, poiché il primo si era ispirato a Vico, il secondo a Romagnosi. Dalla fine degli anni Trenta comparvero le prime traduzioni delle opere della Scuola storica e della Pandettistica. Dapprima in Toscana, poi a Napoli ed infine a Milano, Venezia e Torino 88. A Napoli lo storicismo savignyano si giustappose a quello vichiano e risultò funzionale ad una retorica diretta a fondere e conciliare disinvoltamente legalismo/statualismo (Bentham, Hegel) e tradizione (Savigny e Vico), una retorica che, successivamente, sarebbe stata condivisa dai giuristi un po’ in tutta la Penisola. Secondo questa prospettiva il legislatore non avrebbe fatto altro che riconoscere ex post un diritto fissato nella tradizione e scoperto/elaborato dai giuristi. V’è di più: a Napoli l’impostazione vichiana avrebbe contribuito a nazionalizzare il canone francese e quello tedesco. Appain Annali di Giurisprudenza. Raccolta mensile pubblicata da una società di avvocati, VI.12, 1843, p. 274. 87 A. Cavanna, Influenze francesi e continuità di aperture europee nella cultura giuridica dell’Italia dell’Ottocento, ora in A. Cavanna, Scritti (1968-2002), II, Jovene, Napoli 2007, p. 1204. 88 Nel 1839 fu pubblicata a Firenze la traduzione del trattato savignyano sul possesso ad opera di Pietro Conticini; nel 1847 a Napoli fu tradotto il System savignyano da Ciro Moschitti, che si era basato sull’infedele versione francese di Charles Guénoux e a Venezia da Paride Zajotti nel 1856. Nello stesso anno fu pubblicato il Beruf da Luigi Lo Gatto (e dieci anni dopo a Verona da Giuseppe Tedeschi). Tra il 1852 e il 1856 Antonio Turchiarulo (1825-98) avrebbe vòlto in italiano i Ragionamenti storici di Savigny (Vermischte Schriften), il Corso delle Istituzioni di Puchta (e pure, elemento non irrilevante, la Filosofia del diritto di Hegel nel 1848 e gli Studi di diritto romano di Eduard Gans [Napoli]). A Torino fu pubblicata nel 1854 la Storia del diritto romano nel Medio Evo, tradotta da Emanuele Bollati (1825-1903).

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riva opportuno trovare un giusto mezzo tra «il cieco impeto de’ francesi, e l’accontentamento de’ tedeschi», per riprendere le parole di Pasquale Stanislao Mancini, in occasione dell’apertura della sua scuola privata a Napoli nel 1842 89. Un orientamento che, giusta l’influenza di Pellegrino Rossi (1787-1848), sarebbe stata seguito non solo nel Reame. Sulle pagine della Temi, nel 1848, avrebbero ritenuto utilissimo «lo studio dei francesi e tedeschi giureconsulti insieme contemperato, per modo che … vadan congiunte le applicazioni dei primi colle speculazioni dei secondi» 90. Ebbene, questo eclettismo non va giudicato con sufficienza, ma compreso storicamente in quanto rappresenta il canone per antonomasia della cultura giuridica della Restaurazione: uno “strato profondo”, una mentalità che si coglie, sia pur con sfumature diverse, in tutta la Penisola, come hanno evidenziato il Lacché e la Napoli. Nel Lombardo-Veneto le traduzioni delle opere tedesche furono realizzate in un momento successivo. In questo contesto, tuttavia, il pensiero giuridico germanico fu recepito senza quel fenomeno di mediazione che abbiamo descritto riguardo all’area partenopea; taluni giuristi come Carlo Francesco Gabba (18351920) o Luigi Bellavite (1821-1885), divulgatori (e anche traduttore il secondo) di Puchta e di Jhering, prestarono particolare attenzione alle implicazioni metodologiche della concezione sistematico-dogmatica all’interno dell’ordinamento privatistico austriaco e italiano. Nel 1859 Gabba, riferendosi alla teorica di Puchta, avrebbe affermato che «nessun giurista avrebbe potuto dispensarsi dal formarsene la più completa ed esatta cognizione, siccome di una apparizione scientifica, famosa in pari tempo, e importantissima così nella astratta teoria, come nelle pratiche applicazioni» 91. Con riguardo alla produzione scientifica è ancora più arduo semplificare la questione. L’obiettivo dei docenti delle scuole private era coniugare i saperi giuridici seguendo il metodo dogmatico/storico/filosofico, sicché non deve stupire che la loro produzione si caratterizzi per un’indubbia eterogeneità. Domenico Capitelli (1794-1854) scrisse di filosofia del diritto, di diritto costituzionale e di diritto privato; Pasquale Liberatore (1763-1842) di economia politica, di diritto e procedura penale, nonché di diritto civile. Taluni giuristi, che si erano formati in questo ambiente e che avevano fondato delle scuole private, si distinsero per un profilo scientifico autonomo. Giuseppe Pisanelli (1812-1879) avrebbe coltivato il diritto processuale civile, Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) il diritto internazionale privato, assurgendo al ruolo di indiscusso maestro europeo. Anche 89

Cit. in S. Solimano, ‘Il letto di Procuste’, cit., p. 215. G.B. Tabarrini, Frammenti di storia della giurisprudenza in Italia. tendenza allo studio degli scrittori tedeschi e francesi, in La Temi. Giornale di legislazione e di giurisprudenza, fasc. 6 (1848), p. 347. 91 C.F. Gabba, Delle dottrine filosofiche di G. F. Puchta e della scuola storica in generale, in Gazzetta dei Tribunali, 69-70 (4 giugno 1859), p. 274. 90

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nel resto della Penisola non mancarono teste forti, prima fra tutte quel Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), che è stato evocato più volte e che avrebbe raggiunto livelli di eccellenza nel diritto amministrativo, nel diritto e nella giustizia penale, nella filosofia del diritto e nel diritto privato, con particolare attenzione alla disciplina delle acque. Vanno almeno menzionate altre figure: quella del romagnosiano Giacomo Giovanetti 92 e dei toscani Federigo del Rosso (1780-1859) e Francesco Forti (1806-1838).

8. Il tempo del codice civile nell’Italia Unita: a) premessa I giuristi non si fecero cogliere impreparati allorché nel 1859 si prospettò la possibilità di procedere all’unificazione del diritto privato. Essi avevano affrontato sin dal 1848, lo si è detto, la questione del codice civile unitario. Giusta l’impostazione eclettica, la maggior parte dei giuristi non aveva contestato la forma codice (ché veniva inserita nel flusso della storia), né aveva guardato al Code civil come fonte privilegiata. Esso appariva tutt’al più come un primus inter pares. Poiché il codice doveva costituire il riflesso della coscienza italiana, la via maestra era quella rappresentata dall’edificazione di un codice nazionale. In occasione della promulgazione del codice di procedura civile sabaudo del 1854, Giuseppe Pisanelli – esule a Torino assieme a Pasquale Stanislao Mancini e Antonio Scialoja (1817-1877) successivamente alla repressione borbonica postquarantottesca – ebbe parole piuttosto dure per il codificatore piemontese, proprio perché non era stato in grado di «rompere i lacci della procedura francese» 93. Animato dal desiderio di far emergere il canone giuridico nazionale, «render comune in Italia la conoscenza della legislazione e la giurisprudenza de’ vari suoi Stati, ed apparecchiare quella uniformità di diritto ch’è il più saldo vincolo de’ nazionali consorzii» 94 decise di dare alle stampe un corposo commentario al codice di procedura civile sardo-piemontese. Correva l’anno 1855. Pur nella comune consapevolezza che il codice servisse per «accomunare gli spiriti», per unire «il primo Alpigiano fino all’ultimo abitatore del capo Passaro» 95, i civilisti manifestarono orientamenti eterogenei: vi fu chi identificò nel 92

Cfr. supra, § 4b. Lettera indirizzata a Carl Mittermaier in data 4 aprile 1853, cit. da C. Vano, Codificare, camparare, costruire la nazione. Una nota introduttiva, in Giuseppe Pisanelli. Scienza del progresso, cultura delle leggi e avvocatura tra periferia e Nazione, a cura di C. Vano, Jovene, Napoli 2005, p. XXVI. 94 G. Pisanelli, Trattato sulla competenza, in Commentario di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri Codici Italiani e delle principali Legislazioni straniere, vol. I, parte I, Utet, Torino 1855, p. 6. 95 G.B. Niccolosi, Un avviso tipografico, in Id., Opuscoli…, Parma 1859, I, p. 55. Il testo era apparso originariamente nel 1848, ripubblicato pour cause nel 1859. 93

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solo diritto comune e nel diritto romano il genuino diritto italiano, nella collaudata retorica della continuità; chi, come i discepoli lombardi di Romagnosi, si richiamò ai progetti autoctoni realizzati durante la dominazione napoleonica; altri indicarono nelle opere della Pandettistica i tesori ai quali riferirsi proponendo di redigere una parte generale del codice; altri ancora proposero, viceversa, di far tesoro della scientia iuris europea nel suo complesso. La maggior parte di essi, alla fine, indipendentemente dalle peculiarità delle soluzioni proposte e dalla preferenza per l’una o l’altra delle fonti prese a modello, concordò sull’opportunità di mirare ad un obiettivo degno della migliore tradizione scientifica italiana e conforme alle esigenze dell’erigenda nazione. Il codice deve «portare veramente l’impronta dell’epoca e della nazione da cui emana», scrisse nel 1859, il docente bolognese Oreste Regnòli, nel significativo libro intitolato Sulla formazione di un codice civile italiano 96, un pamphlet destinato a circolare in tutta la Penisola e ad incontrare molti consensi. Appariva necessario elaborare un testo rispondente alle esigenze di una società certamente in evoluzione rispetto a quella rispecchiata nella legislazione preunitaria italiana. Quello del bisogno di effettività, inteso come criterio guida del legislatore, rappresentò, infatti, un motivo costantemente tambureggiato negli interventi dei giuristi: dalla Sicilia al Piemonte. E, come aveva affermato Pisanelli, appariva indefettibile ragionare entro una prospettiva di armonizzazione del diritto.

b) armonizzazione o assimilazione (1859-1861)? Cerchiamo anzitutto di comprendere, sia pur per cenni sintetici, quali siano state le vicende che hanno determinato le scelte del legislatore agli esordi dell’Unità. Occorre dire subito che si tratta di opzioni che sarebbero risultate decisive negli anni successivi, allorché si sarebbe ritenuto opportuno rimanere nel solco tracciato nel 1859. Per essere più chiari, il codice civile del 1865 germina nella temperie politica del biennio successivo all’armistizio di Villafranca. Fino all’inaspettato colpo di mano dell’alleato francese, il Governo subalpino aveva impostato la questione dell’unificazione legislativa nel migliore dei modi, e cioè in una prospettiva di armonizzazione degli ordinamenti, fugando così i timori di una piemontizzazione dell’Italia. All’indomani delle dimissioni di Cavour 97, il governo subalpino, concentrato di fatto nelle mani di Rattazzi, decise invece di imboccare la via dell’assimilazione legislativa. Avvalendosi dei poteri 96 O. Regnoli, Sulla formazione di un codice civile italiano e sulla convenienza di alcune leggi transitorie. Osservazioni…, Tipi della Gazzetta dei Tribunali, Genova 1859, p. 7. 97 Il 12 luglio 1859 Cavour e il governo da lui presieduto si dimisero in segno di protesta in seguito all’armistizio di Villafranca, siglato il giorno prima da Vittorio Emanuele II e l’alleato Napoleone III con l’Austria, con cui quest’ultima cedeva la Lombardia ma tratteneva il resto dei territori (Veneto e Friuli), che verranno annessi sul futuro Regno d’Italia soltanto nel 1866.

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eccezionali di guerra, il Governo puntò a riformare i codici piemontesi vigenti (il codice di procedura civile e il diritto penale sostanziale e processuale, per tacere di altri importantissimi ambiti, primo fra tutti quello dell’ordinamento giudiziario). Per ciò che concerne la codificazione civile, il legislatore si orientò a sottoporre semplicemente a revisione il testo piemontese del 1837. Fu così istituita da Rattazzi alla fine del 1859 una commissione nella quale i membri delle nuove province erano stati posti in un irridente rapporto di inferiorità numerica rispetto ai giuristi del regno sardo. L’atteggiamento non mutò allorché il dicastero della Giustizia fu affidato a Giovan Battista Cassinis, legato a Cavour, il quale – è noto – aveva ripreso saldamente in mano le redini della politica. Nel frattempo, il Conte aveva tuttavia mutato prospettiva, passando alla politica dell’assimilazione legislativa. Come si spiega il revirement del grande statista piemontese? Lo si comprende se si tiene conto che in questo torno di tempo la formula codice civile si caricò di un significato altamente simbolico: essa rappresentava il sigillo dell’unità politica, lo strumento essenziale per consolidare il ‘peso’ dell’erigenda nazione di fronte alle potenze europee. Poiché il codice fu assunto come strategico per l’attività di State building esso andava realizzato a ogni costo e il più rapidamente possibile. E la questione dell’armonizzazione degli ordinamenti preunitari, la necessità di consegnare all’Italia un testo moderno? Ecco la risposta di Cassinis: «Meglio avere un pessimo codice che non avere un codice uniforme» 98. Le ragioni della politica risultavano preminenti rispetto a quelle del diritto. Contrariamente alle previsioni di Cavour e del suo Ministro Cassinis, il percorso si sarebbe rivelato accidentato e incerto. In primo luogo, ci si trovò a dover risolvere il problema dell’Emilia. Va precisato che, successivamente all’insurrezione delle popolazioni del Ducato di Modena, di Parma e Piacenza e quelle delle Legazioni (Romagne e Bologna), il destino politico di questi territori non era davvero scontato. Il dittatore Farini, al quale era stato affidato il Governo delle Province, aveva ritenuto opportuno accelerare la fusione con il Regno sardo attraverso la recezione della legislazione piemontese. La via dell’assimilazione legislativa era reputata lo strumento più efficace per mettere la diplomazia europea di fronte al fatto compiuto; sicché Farini aveva nominato una commissione di giuristi al fine di agevolare il passaggio dalla multiforme legislazione delle Province dell’Emilia (vale a dire il codice di Parma, quello estense, la legislazione pontificia e il diritto comune) a quella piemontese. La commissione, viceversa, non si era limitata a questo compito, ma aveva preferito ragionare in una prospettiva nazionale. Agli occhi di questi giuristi prendere a modello il codice albertino significava dotare la Penisola di un vestito corto e stretto. L’atteggiamento da seguire era l’opposto: appariva con-

98

Missiva di Cassinis indirizzata a Giacomo Dina in data 4 settembre 1860, cit. in S. Solimano, ‘Il letto di Procuste’, cit., p. 191.

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veniente mantenere per quanto possibile le singole specificità regionali, accogliere i più validi contributi normativi offerti anche a livello internazionale; ma – anche e soprattutto – approntare un codice per un paese, una società ed un’economia in rapida ed inarrestabile evoluzione. In altre parole bisognava guardare al futuro, oltre che al presente e al passato. In due mesi di lavoro la commissione aveva prodotto un ‘piccolo codice’ (327 articoli): il testo di partenza, quello sardo-piemontese, era stato svuotato in gran parte ed era stato riempito di nuovi materiali tratti dal codice parmense, da quello napoleonico, dalle leggi civili delle Due Sicilie, dal codice austriaco, dalla legislazione toscana e persino da quella belga e portoghese. Ora, la presenza del codice ‘sardo-emiliano’, nel momento in cui era certo che le Province sarebbero entrate a far parte del Regno sabaudo, non potè che allarmare il ministro Cassinis. «Voi potete immaginare se io me ne spaventai giacché veggo tali divergenze tra essi e noi che debbo assolutamente procurare di spegnere nel loro principio», scrisse concitato a Pasquale Stanislao Mancini 99. La questione emiliana non rappresentò l’unico problema che il ministro della Giustizia dovette affrontare. Nello stesso torno di tempo scoppiò infatti il caso toscano. I maggiorenti della regione, alludiamo a Poggi, a Salvagnoli e pure allo stesso Ricasoli – che avrebbero dovuto favorire gli interessi del Piemonte –, in risposta all’atteggiamento intransigente manifestato nel 1859 da Rattazzi, si orientarono a frenare il processo di unificazione legislativa. Da mesi andavano dichiarando di essere desiderosi di partecipare al processo di codificazione in maniera graduale e purché venisse tenuta in debita considerazione la tradizione giuridica non solo della Toscana ma anche del resto della Penisola. Pasquale Stanislao Mancini fu il vero Deus ex machina della situazione in quanto riuscì a tranquillizzare Emiliani e Toscani promettendo di istituire una commissione mista a Torino incaricata di redigere un codice civile unitario. E in effetti, nel mese di febbraio del 1860 questa commissione si insediò a Palazzo Carignano. Il consesso, tuttavia, si caratterizzò per la superiorità numerica dei giuristi piemontesi rispetto a quelli delle nuove province. V’è di più. La commissione fu costretta a lavorare in limiti di tempo ristrettissimi e soprattutto le venne preclusa a chiare lettere dal ministro la possibilità di programmare un lavoro di ampio respiro. Essa fu chiamata ad attenersi alla revisione del codice civile albertino, per di più limitata a quelle riforme che Cassinis riteneva personalmente più importanti. Proseguiamo. Nelle more della conclusione di quello che si sarebbe dovuto sostanziare in un rattoppo del codice albertino – tra poco comprenderemo l’uso del condizionale – il Ministro Cassinis ottenne senza troppi problemi che la Camera e il Senato nominassero in via ufficiosa due commissioni allo scopo di esaminare il contenuto del progetto in maniera da accelerare l’iter legislativo. L’anno successivo il vento soffiò decisamente in senso contrario. Il 15 marzo

99

In data 29 gennaio 1860, cit. ivi, p. 123.

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1861, di fronte alla reiterazione della richiesta, la Camera dei Deputati intimò l’altolà! Lo stop ai lavori avvenne quale ritorsione al modus procedendi cassiniano che avrebbe condotto alla piemontizzazione dell’Italia. Come risulta dai pamphlets circolati successivamente alla pubblicazione del progetto e dai commenti della stampa, è certo che già la stessa l’intitolazione Progetto di revisione del codice albertino avesse contribuito al fallimento. Eppure – e ciò rappresenta senza dubbio l’aspetto più interessante e se vogliamo anche paradossale della vicenda – la Commissione, nonostante le pressioni del ministro e lo scarso tempo a disposizione, fu in grado di confezionare un progetto originale. In sostanza mostrò di condividere il metodo seguito dalla Commissione dell’Emilia: tentò cioè di guardare al futuro, oltre che al presente e al passato. Certo, fu costretta a lavorare nel cono d’ombra del codice albertino. Nondimeno si consideri che il progetto del 1860 contiene tutte quelle innovazioni che la dottrina e la storiografia successive avrebbero giudicato gli aspetti tipizzanti del Codice del 1865. Visualizziamoli: riconoscimento delle persone giuridiche; attribuzione allo straniero del godimento dei diritti civili senza condizione di reciprocità; introduzione del matrimonio civile; abolizione del favor agnationis; accoglimento del testamento olografo; miglioramento della condizione successoria dei discendenti, del coniuge superstite e del figlio naturale; temperamento della patria potestas; distinzione tra beni demaniali e patrimoniali; perfezionamento della servitù di acquedotto coattivo e introduzione del consorzio fra utenti e disciplina delle acque di scolo; dislocazione del possesso all’interno del libro sulla proprietà, introduzione di un autonomo titolo sulla comunione; libera stipulabilità degli interessi convenzionali; riduzione del termine per l’esperimento dell’azione di annullamento e di rescissione del contratto; introduzione dell’istituto della trascrizione. Il progetto di revisione del codice civile albertino del 1860 è già il codice del 1865. E va detto che non poche di queste innovazioni provengono dal codice ‘sardo-emiliano’. Sicché se il codice Cassinis è già il codice del 1865, quello ‘sardo-emiliano’ ne è l’incunabolo.

c) l’elaborazione del codice civile (1861-1865) Riavutosi dallo smacco, Cassinis lavorò in silenzio per presentare un nuovo progetto. Accantonò il testo originario e prese come modello il Code Napoléon nella traduzione del 1808 compiuta a Napoli, più rigorosa nel dettato legislativo di quella milanese del 1806. Il motivo che lo spinse a guardare Oltralpe è di facile intuizione. Il ministro intese parare le accuse di voler piemontizzare il Paese e di certo mirò anche allo scopo di ottenere il consenso di quei giuristi che vedevano nel codice transalpino il compendio dell’esperienza romanistica. Nonostante gli sforzi, non fu in grado di illustrarlo perché, in seguito alla morte di Cavour, non venne riconfermato a guidare il dicastero della Giustizia. Gli subentrò il ministro Miglietti, che agli inizi del 1862 presentò in Senato un nuovo progetto che sotto certi aspetti poté considerarsi innovativo rispetto al primo

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piano di codificazione di Cassinis. Qui basti ricordare che alla moglie fu riconosciuta l’autonomia patrimoniale e che non fu accolto l’arresto per debiti, mentre in senso peggiorativo si recuperò l’istituto della morte civile. Il progetto venne inoltrato anche alle corti giudiziarie del Mezzogiorno. Succedutisi al dicastero della Giustizia prima il Conforti e poi il Pisanelli, il Progetto Miglietti fu sottoposto all’esame di cinque commissioni di giuristi individuati a Torino, Milano, Firenze, Napoli e Palermo. Sulla base di queste osservazioni (non molte invero, poiché la maggior parte degli organismi coinvolti assolse il compito solo parzialmente) e del materiale precedente, il Ministro Pisanelli presentò un suo progetto al Senato nel 1863. Sostiamo un momento sulle relazioni di Pisanelli, perché da un lato ci consentono di anticipare il discorso sul contenuto del codice, d’altro lato mostrano bene anche le personali convinzioni di questo robusto personaggio. Il primo aspetto che ci sembra interessante mettere in luce riguarda l’atteggiamento tenuto da Pisanelli in relazione al problema dell’unificazione del diritto privato. Rispetto alle molteplici strade che in astratto il legislatore avrebbe potuto imboccare, egli mostrò un franco pragmatismo. Fece intendere che era stato un passo falso essersi riferiti ad un unico codice preunitario, così come ritenne improponibile, nella contingenza storica, ipotizzare l’edificazione di un codice del tutto nuovo; viceversa, a coloro che avrebbero voluto applicare d’emblée il codice napoleonico del 1804 rispose in questi termini: «il codice francese è certamente uno dei più splendidi monumenti di questo secolo; ma crederemmo noi che, se la Francia avesse oggi a pubblicare un Codice, non vi apporterebbe grandi e sostanziali cambiamenti?» 100. Ma, allora, qual era la soluzione migliore? Sembrerà paradossale, ma egli si dichiarò soddisfatto del percorso che era stato compiuto finora. Con questo non volle certo avallare il comportamento tenuto da Cassinis. Piuttosto preferì rimarcare un altro aspetto e cioè che il progetto Miglietti era stato distribuito ai corpi giudiziari di tutta Italia, era stato vagliato da cinque commissioni della Penisola e che il nuovo progetto era stato elaborato tenendo d’occhio le osservazioni avanzate. In altri termini, Pisanelli voleva dare rilievo alla circostanza che i giuristi di tutta la Penisola erano stati messi in grado di conoscere il progetto Miglietti e conseguentemente erano stati posti nella condizione di concorrere al perfezionamento del testo. Il ragionamento pisanelliano non si limitò, invero, all’aspetto della pubblicizzazione del progetto. Ciò che più contava ai suoi occhi era che esso sarebbe stato discusso in Parlamento. Solo attraverso il concorso dei deputati si sarebbe potuto realizzare un ottimo codice veramente nazionale. È questo il cuore del discorso: «io credo non solo che non sia impossibile a un Parlamento votare un Codice, ma ritengo che senza il concorso del Parlamento non sarebbe possibile oggi in Italia un Codice accetto a tutti e veramente autorevole» 101. 100 Raccolta dei lavori preparatori del Codice civile del Regno d’Italia, I, Palermo-Napoli 1866, p. 4. 101 Ivi, p. 5. (corsivi nostri).

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Gli eventi non sarebbero andati nella direzione auspicata da Pisanelli. Ancora una volta, il Governo e buona parte della classe politica diedero segni di insofferenza, poiché temevano che il traguardo dell’unificazione legislativa si stesse allontanando. Il 19 novembre 1864 – allorché si discusse del trasferimento della capitale a Firenze – venne approvato l’ordine del giorno Boggio che invitò il governo «a presentare un progetto di legge che provvederà alla più pronta unificazione legislativa ed amministrativa del Regno, in quanto è urgentemente richiesto dal trasporto della capitale» 102. Il Governo ruppe gli indugi e per tramite del nuovo ministro della Giustizia Vacca presentò un disegno di legge vòlto a impedire la discussione parlamentare, poiché chiese l’autorizzazione a pubblicare per decreto i codici. Si trattò di una decisione politicamente e costituzionalmente discutibile, ma la Realpolitik esigeva anche quelli che un giornalista dell’epoca qualificò come «giochetti di destrezza» 103. La classe dirigente era persuasa che fosse necessario mostrare all’Europa intera che l’Italia esisteva. Lo abbiamo rilevato più volte: in quest’ora storica la formula codice civile si presentò come l’emblema dell’unità politica. E ancora. Il codice andava realizzato in tempi brevissimi in quanto assumeva agli occhi dei politici un altro fondamentale significato. Esso apparve loro come un imprescindibile strumento di stabilizzazione sociale e politica, intimamente connesso con la costituzione. «Libertà per le persone, libertà nelle cose, abolizione di ogni vincolo personale o reale non giustificato da prevalenti interessi, uguaglianza assoluta dei cittadini dinanzi alla legge, costante rispetto alle costituzionali franchigie» 104, ecco cosa esprimeva il sintagma ‘codice civile’ per la Commissione del Senato. E d’altra parte gli stessi politici erano davvero persuasi che le disposizioni dell’erigendo codice nazionale potessero colmare i vuoti relazionali, agevolare gli inesistenti traffici economici interni. Il codice civile come strumento per ridurre le complessità, come simbolo dell’italianità, quale cemento dell’ethos italico. Dopo essere stato vagliato da una commissione di coordinamento, il codice civile fu promulgato il 25 giugno 1865 ed entrò in vigore il primo gennaio dell’anno successivo. Un codice elaborato troppo rapidamente e con una procedura poco ortodossa, che aveva messo il bavaglio ai parlamentari? Come negarlo… Le parole di Federico Sclopis, senatore del Regno, ci restituiscono tuttavia gli scrupoli etici e i timori della classe dirigente in questo delicato tornante: «Dio voglia che la posterità, che ci giudicherà, ci assolva, in vista delle circostanze attenuanti, dalla grave responsabilità di tante precipitazioni» 105. Lo stesso

102

Cit. in A. Aquarone, L’unificazione legislativa e i codici del 1865, Giuffrè, Milano 1960,

p. 13. 103

Cit. ivi, p. 14. Raccolta dei lavori preparatori del Codice civile del Regno d’Italia, I, Pedone Lauriel, Palermo-Napoli 1866, p. 172. 105 Missiva indirizzata a Enrico Poggi in data 6 luglio 1861, cit. in S. Solimano, ‘Il letto di Procuste’, pp. 239-240. 104

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Cassinis nel 1865 avrebbe scritto a Massari che «in politica altro è ciò che è bene in sé ed altro ciò che si può fare» 106, facendo intendere, in altri termini, che per il bene dell’Italia, nel contesto in cui si era trovato ad agire, aveva optato per il male minore.

d) la costituzione dell’Italia liberale: uno sguardo al contenuto del codice civile del 1865 Prima di segnalare le disposizioni più significative – che certo non mancano – riflettiamo sulla fisionomia di questo codice, destinato ad accompagnare gli Italiani per quasi ottant’anni. È indubbio che il legislatore del 1865 debba non poco all’archetipo francese. Il codice civile del 1804 è da giudicarsi dunque, «per paradossale o urticante che possa sembrare, come uno dei fondamentali fattori genetici dell’identità nazionale italiana» 107, così come è innegabile che siano state recuperate le disposizioni più innovative provenienti dagli ordinamenti preunitari. Per certi aspetti è vero che il codice costituisce una sintesi dell’esperienza giuridica dell’età della Restaurazione. Bisogna riconoscere, tuttavia, che tale sintesi è l’effetto di una serie consecutiva di passaggi attorno al codice piemontese. Si è trattato di un fenomeno di accumulazione progressiva, se ci si passa l’espressione. Nel 1859 la Commissione dell’Emilia, nonostante fosse riuscita ad affrancarsi dalle spire di Farini, era comunque stata obbligata a coordinare il codice di Parma, quello estense e l’ordinamento pontificio con il codice albertino; la commissione Cassinis era stata costretta a lavorare seguendo la traccia del testo subalpino. Successivamente, il progetto Miglietti, grandemente debitore di quello Cassinis, grazie all’iniziativa di Pisanelli era passato anche al vaglio dei giuristi del Mezzogiorno. Insomma, la sintesi è un prodotto degli eventi storici, e non tanto il frutto di una scelta pianificata ab origine. Quale sarebbe la fisionomia del codice del 1865 se i giuristi della commissione Cassinis (tra i quali tre componenti provenivano da quella dell’Emilia) non avessero ragionato entro una prospettiva nazionale o se Pisanelli non avesse inviato il progetto nel Mezzogiorno d’Italia? Ciò detto, vale la pena spendere ancora qualche parola sulla presenza, all’interno del codice, del modello napoleonico e di quello austriaco. Un tempo (un tempo che fu!) la storiografia tendeva a negare che il codice del 1865 contenesse disposizioni tratte dal codice civile austriaco. Con tutta probabilità erano state prese sul serio le parole pronunciate da Pisanelli contro la legislazione austriaca in occasione dell’esposizione universale di Parigi

106

Cassinis a Massari, 5 giugno 1865 cit. in S. Solimano, Giovan Battista Cassinis, in S. Borsacchi e G.S. Pene Vidari (a cura di), Avvocati che fecero l’Italia, il Mulino, Bologna 2011, p. 108. 107 A. Cavanna, Mito e destini del Code Napoléon in Italia, in Europa e diritto privato, 1 (2001), p. 100.

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nel 1867 108. Si badi: quella del codice austriaco è una presenza discreta e nascosta (e in parte già nel testo carloalbertino). Non poche disposizioni concernenti la tutela sono di diretta importazione asburgica, così come la scelta di collocare la disciplina del possesso all’interno della proprietà e anche la previsione di un titolo autonomo per la regolamentazione della comunione, solo per limitarci a qualche esempi. Partiamo dal recupero più gravido di conseguenze storiche, vale a dire dal matrimonio civile. È quasi superfluo ricordare che siffatto istituto rappresentava uno dei punti chiave dell’azione politica della classe dirigente risorgimentale nell’attività di State building: secolarizzare il matrimonio significava tradurre in termini giuridici l’ideale del separatismo cavourriano. Per questo motivo, agli occhi dei politici, il code civil assunse un imprescindibile valore simbolico: fu l’’icona laica’ per eccellenza. D’altra parte l’esperienza napoleonica, vale a dire la circostanza che il matrimonio civile era stato applicato in Italia per quasi due lustri, era funzionale a persuadere gli oppositori e gli incerti. È noto, infatti, che l’introduzione del matrimonio civile innescò un lungo e lacerante dibattito a ogni livello (politico, dell’opinione pubblica ed anche dottrinale). A ben vedere, il legislatore non seguì fino in fondo la disciplina del code civil, in quanto non impose la precedenza del rito civile rispetto a quello religioso, prevedendo sanzioni nei confronti degli sposi o del ministro del culto che omettevano siffatta precedenza. Va aggiunto che veniva accolto il principio dell’indissolubilità del vincolo, forse per non esacerbare i rapporti con la Chiesa e non turbare le coscienze dei sudditi cattolici, o più probabilmente perché si concepiva il diritto di famiglia entro una prospettiva pubblicistica. Nel discorso pronunciato al Senato il 15 luglio 1863 Pisanelli non fece mistero, infatti, di nutrire più di qualche perplessità sulla collocazione del diritto di famiglia all’interno del codice civile. Rimanendo sempre all’interno del diritto di famiglia, possiamo notare come la disciplina della patria potestà risulti più mite rispetto non solo alla legislazione preunitaria, ma anche al code civil. Si respinge l’istituto della diseredazione presente nella maggior parte degli Stati preunitari, e non si ammettono gli atti rispettosi richiesti dal legislatore francese. Anche lo ius corrigendi muta di segno: si abbandona la facoltà prevista nel testo del 1804 di far incarcerare i figli ribelli per un maggiore o minore numero di mesi a seconda dell’età: il padre delineato nel primo codice italiano può richiedere al presidente del tribunale di collocare il figlio traviato «in quella casa o in quell’istituto di educazione o correzione che reputi conveniente a correggerlo e migliorarlo» (art. 222). Quanto alla condizione della donna, in particolare della donna coniugata, già sappiamo che i tentativi di Pisanelli perché non venga accolto l’istituto dell’autorizzazione maritale non sono andati a buon fine. Certo, qualche nuova deroga la si rinviene, ad

108

G. Pisanelli, Dei progressi del diritto civile in Italia nel secolo XIX, Edizioni del Grifo, Milano 1872, p. 17 e pp. 44-45.

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esempio nei confronti della moglie separata per colpa del marito, ma è, francamente, poca cosa: è noto, del resto, che solo nel 1919 l’autorizzazione maritale verrà soppressa. Sotto il profilo successorio, la posizione del coniuge superstite, è, invece, destinata a migliorare (sempre nella prospettiva di un confronto con l’epoca preunitaria, beninteso). Il legislatore del 1865, nell’ambito della successione legittima, riconosce al coniuge superstite ora il diritto d’usufrutto sulla quota ereditaria, ora una quota in proprietà, a seconda che concorra con figli legittimi o con altri successibili (artt. 753-757). Occupiamoci adesso delle altre disposizioni, sia pur in rapidissima, sequenza. Senza dubbio è l’art. 3 (libro I, tit. I, Della cittadinanza e del godimento dei diritti civili) la punta di diamante del codice, la disposizione che secondo Pisanelli «farà il giro del mondo». Si tratta di una norma di altissima civiltà giuridica, che dobbiamo all’acume di Pasquale Stanislao Mancini. Essa innova rispetto al passato, e non ha eguali al mondo, poiché riconosce allo straniero il godimento dei diritti civili senza condizione di reciprocità. Non è da escludere che essa sia anche pensata per coloro che italiani ancora non sono, e cioè veneti, friulani, trentini o giuliani, ed è pure vero che, come ha scritto il Padoa Schioppa, non reggerà alla prova del tempo. Sono anche altre le norme che meritano di essere qui citate. Dal codice napoletano il legislatore recupera la disciplina delle persone giuridiche, che non ritroviamo nel code civil perché Napoleone non avrebbe mai tollerato l’esistenza di un corpo intermedio tra il sovrano e il suddito. Quanto, invece, alla ‘parte preliminare’ ricordiamo l’art. 3 delle disposizioni preliminari (Disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale), di derivazione piemontese, come abbiamo visto: in caso di lacuna il giudice può riferirsi ai princìpi generali del diritto 109. Per ciò che concerne la disciplina dei diritti sulle cose, è notevole la distinzione dei beni dello Stato in beni demaniali e beni patrimoniali e altrettanto rilevante il riconoscimento della proprietà intellettuale, già presente nel testo piemontese. La materia delle acque, ambito nel quale il codice civile albertino già si poneva ad un livello di raffinata eccellenza tecnica rispetto ai codici civili europei, viene ulteriormente migliorata: alludiamo, exempli gratia, alla regolamentazione dell’acquedotto coattivo e al consorzio tra gli utenti. In materia successoria viene finalmente cancellata l’anacronistica disuguaglianza successoria tra maschi e femmine e, quanto alla forma dei testamenti, fa il suo ingresso il testamento olografo, superando così le diffidenze manifestate da non pochi legislatori preunitari. Quanto alle obbligazioni e ai contratti, qui si coglie la maggiore aderenza all’archetipo francese, che viene corretto recuperando anche le scelte sistematiche dell’ancora amatissimo giurista settecentesco Pothier 110. Al di là di tutto,

109 110

Cfr. supra, § 4c. Si veda supra, cap. V, § 4.

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qualche innovazione sostanziale non secondaria la rinveniamo: il termine per l’esperimento delle azioni di nullità e di rescissione del contratto è ridotto a cinque anni; relativamente al contratto di mutuo, si introduce il principio della libera stipulabilità degli interessi convenzionali, una riforma che risulterà fondamentale per accentuare, nel bene e nel male l’orientamento liberistico. Da evidenziare, infine, l’introduzione della trascrizione, sostanzialmente concepita sulla falsariga della legislazione francese del 1855. Accanto ai pregi, i difetti. Sopravvive l’istituto dell’incarcerazione per i debiti civili. A questo il legislatore mostrerà di riparare nel 1877, anche sulla scorta degli exempla abolizionistici europei. La moglie, lo abbiamo detto, deve ricorrere all’autorizzazione maritale per stare in giudizio e per compiere gli atti di straordinaria amministrazione. La disciplina del rapporto di lavoro risulta organata sulla trama della locatio romanistica, che significava porre su un piano di parità datore di lavoro e lavoratore (!). E forse saremmo ingenerosi se condannassimo il testo per questo aspetto. Nel 1900 neppure il legislatore tedesco farà, in fin dei conti, molto di più.

9. La scienza del diritto privato italiano nell’età postunitaria: a) i tradizionalisti, ovvero dei commentatori del codice civile del 1865 Il piemontese Enrico Precerutti (1821-1870) – artefice del progetto di codice civile unitario e membro della commissione di coordinamento all’interno della quale si era distinto per lo spirito critico e progressivo, tentando fino all’ultimo di variare il contenuto del codice – ritenne che il legislatore non avesse realizzato un codice «veramente italiano». Il comportamento del legislatore venne stigmatizzato in questi termini: «desidero riforme efficaci e durature, epperciò lungamente meditate, riprovando le leggi che incalzano come le onde del mare procelloso o le nubi furiosamente agitate dagli aquiloni. E il preparare tali riforme, renderle accette alla pubblica opinione, è uffizio della scienza» 111.

Ebbene, altri giuristi, che condividevano la necessità di nazionalizzare il codice, utilizzarono una strategia differente. Intendiamo alludere ai commentatori del testo del 1865, agli ascolani Emidio Pacifici-Mazzoni (1834-1880) e Francesco Ricci (1843-1891), al ferrarese Luigi Borsari (1804-1887) e al piacentino Francesco Saverio Bianchi (1827-1908), i quali si adoperarono per legittimare

111 E. Precerutti, La codificazione e la legislazione civile cit. in S. Solimano, Da Cassinis a Cassinis, in S. Borsacchi e G.S. Pene Vidari (a cura), Avvocati protagonisti e rinnovatori del primo diritto unitario, il Mulino, Bologna 2014, p. 64.

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innanzitutto il codice civile come prodotto autenticamente patrio. Come è stato finemente notato, «l’elogio del codice non [nacque] da una netta scelta di stampo positivistico, non [fu] esaltazione della nuda volontà del legislatore […]. Quello che più rileva nei commentari post-unitari del Codice non è ‘il culto della legge’ ma l’esistenza di un diritto nazionale dichiarato dalla legge. È la tanto variegata quanto convinta adesione alla mitizzata immagine del Codice nazionale, e non il cieco ossequio all’onnipotenza della legge, a sostenere le letture esegetiche: l’unificazione delle fonti del diritto si presenta come fenomeno di razionalizzazione e statalizzazione del diritto ma anche come semplice riconoscimento di un’unità preesistente, come mera dichiarazione di un diritto espressivo dell’Italia come comunità di lingua e di cultura, come riconoscimento di garanzie fissate in “princìpii immutabili”» 112.

A detta di questi primi interpreti il legislatore dunque non avrebbe fatto altro che riconoscere ex post un diritto fissato dalla tradizione, secondo quella retorica diretta a fondere e conciliare legalismo/statualismo e storicismo d’ascendenza savignyana e vichiana sviluppata durante la Restaurazione. La prima strategia discorsiva fu senza dubbio quella della retorica della continuità. Nel desiderio di saldare il codice al diritto previgente senza traumi, i civilisti evidenziarono l’identità tra il codice e il diritto romano oppure ne segnalarono le contiguità con lo ius commune. Tale retorica non risultò problematica finché fu orientata a legittimare il codice. Quando invece taluni giuristi tentarono di individuare nel già menzionato art. 3 delle ‘preleggi’ lo strumento attraverso il quale trasfondere nella prassi gli elementi della tradizione, in quanto siffatta norma consentiva all’interprete di colmare le lacune attraverso il ricorso ai princìpi generali di diritto, la situazione si complicò. I civilisti espressero sostanzialmente due orientamenti. Da un lato coloro che ammisero il ricorso al diritto romano (Vincenzo Cattaneo, Carlo Borda) e, ove esso non soccorresse, all’equità (Luigi Borsari), oppure ai princìpi di diritto comune (Giuseppe Saredo), ai precetti di diritto naturale (Francesco Saverio Bianchi). Sul versante opposto, si collocò Pacifici Mazzoni, il quale individuò i princìpi generali del diritto esclusivamente all’interno dell’ordinamento positivo vigente. Agli occhi di Pacifici Mazzoni chi, come Bianchi, si riferiva al diritto naturale non si rendeva conto di aprire le porte all’arbitrio giudiziale; chi, come Borsari, ancorava la disposizione alla tradizione romanistica svolgeva un’operazione espressamente esclusa dalle disposizioni di attuazione del codice stesso. Per Pacifici-Mazzoni i princìpi generali «si sostanziavano nelle teorie del diritto formate coll’operazione dell’astrazione eseguita, sia sui singoli istituti sia sull’intera legislazione e che perciò servirono certamente di guida al legislatore nel comporre gli uni e l’altra» 113. Ta-

112 113

G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale, cit., p. 37. Istituzioni di diritto civile italiano, Barbera, Firenze 18803, p. 50.

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le impostazione positivistica sarebbe stata sviluppata, come si vedrà più avanti, dal romanista-civilista Vittorio Scialoja (1856-1933) e si sarebbe imposta anche a livello legislativo. Non che Pacifici-Mazzoni non esaltasse la tradizione che riviveva nel codice civile. Essa tuttavia poteva svolgere la funzione di mera ratio scripta: «il diritto romano è, e non può non essere, che uno dei mezzi d’interpretazione del Codice civile italiano, il più autorevole, il più ricco, il primo, se vuolsi; ma pur sempre mezzo d’interpretazione e nulla più» 114. Con ciò egli intese non solo criticare Bianchi o Borsari, ma anche riprovare – è questo l’aspetto davvero interessante – coloro «che spingevano l’adorazione verso il diritto romano sino al fanatismo» 115 attualizzandone ad ogni costo i contenuti. Il pericolo «è che altrimenti facendo si corre, o di romanizzare il diritto italiano, o d’italianizzare il diritto romano e di gettare il discredito sopra l’uno o l’altro, secondo che si predilige questo o quello» 116. Un’altra strategia discorsiva impiegata al fine di nazionalizzare il codice fu quella seguita da Francesco Ricci. «Mi si domanderà perché la giurisprudenza e la dottrina dei nostri vicini d’oltre Alpe io non abbia preso a guida di questo Commentario (…). È stato mio intendimento che il pensiero italiano signoreggiasse in quest’opera, poiché reputo che, trattandosi di cose che ci riguardano, dobbiamo studiare noi stessi anziché gli altri: e reputo altresì che l’Italia moderna non giungerà ad avere una legislazione veramente italiana, se non quando si comincerà a pensare e a scrivere italianamente» 117,

scrisse più volte nei suoi commentari e trattati. La peculiarità di Ricci consisteva nell’assegnare alla giurisprudenza della Penisola il ruolo principale, mentre alla civilistica competeva quello, tutt’altro che secondario, di ordinarne teoreticamente le decisioni. Il primato della giurisprudenza era, in realtà, apparente. Ricci la condusse con frequenza al suo laccio. Valga un solo esempio, alquanto significativo. Nell’affrontare la questione dei princìpi generali di diritto, Ricci selezionò esclusivamente quelle sentenze che impedivano il ricorso al diritto romano come fonte suppletiva, poiché egli risolveva il problema, analogamente a Pacifici Mazzoni, entro una prospettiva rigidamente positivistica. Passando alla questione del metodo, è noto che la maggior parte dei giuristi fin qui menzionati perpetuò il canone espositivo appreso dai propri maestri, che si sostanziava nel commentare in sequenza le disposizioni del codice, così come avveniva in Francia. Due civilisti tentarono una via alternativa. Furono il piacentino Bianchi e il salernitano Francesco De Filippis (1829-1913). Il primo avvertì 114

Ivi, p. XLVI. Ivi, p. XLIX. 116 Ivi, p. XLVIII. 117 Commento al codice di procedura civile italiano, I, Cammelli, Firenze, 1876, pp. VIIVIII. 115

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l’esigenza di strutturare il suo commentario in maniera lineare, organica, al di là dei muri che separavano ogni singola norma, capo, sezione o titolo del codice ispirandosi all’opera di Karl Salomo Zachariae (1769-1843), che aveva intitolato il suo commentario al codice civile napoleonico Diritto teorico francese. Certo, va detto che Zachariae e i suoi traduttori francesi Charles Aubry e CharlesFrédéric Rau non erano certo degli sconosciuti nella Penisola. Non v’era civilista che non li citasse. Bianchi riuscì almeno ad accogliere l’essenza del metodo zachariano (più che il suo contenuto), mostrando di essere capace di costruire un commentario che rispecchiasse il suo pensiero senza complessi di inferiorità rispetto a quella dottrina francofona che certo costituiva il suo primo referente. E, con tutta probabilità, anche lo stile discorsivo del belga François Laurent ebbe il suo peso 118. De Filippis, dal canto suo, tentò di costruire il suo commentario entro una struttura sistematica: muovendo da una concezione organicistica del diritto e visibilmente suggestionato dall’enciclopedismo giuridico tedesco e dalla filosofia vichiana, nei primi due volumi del suo commentario realizzò una trattazione generale del diritto privato. Con alcuni esponenti della Rechtskultur germanica egli era in contatto e sembrava godere anche di una certa considerazione, se si pensa che fu consultato dalla prima Commissione incaricata di redigere il futuro codice civile tedesco. L’obiettivo dichiarato di De Filippis era quello di superare il metodo didattico francese: «L’antica usanza di leggere l’articolo e farvi l’aggiunzione di annotazioni semplici e di casistiche spiegazioni (…) trova seguaci nei soli impotenti ed incapaci ad elevarsi al concepimento di un sistema. (…) È compito della scienza lo spogliare gli articoli della forma precettiva che hanno per elevarli all’altezza di veri e connetterli, secondo le loro logiche attinenze, in un solo organismo» 119.

Certo è che De Filippis non centrò il suo obiettivo, in quanto complessivamente l’opera appare un po’ fumosa e barocca. Sarebbero stati altri a raggiungere la meta. Quanto al contenuto dei commentari al codice Pisanelli, esso si caratterizzò per una certa uniformità. Senza dubbio il primo referente di questi giuristi furono le dottrine francese e belga, e, veicolate da queste, il pensiero dei giusrazionalisti francesi Domat e Pothier 120. Le proporzioni della presenza transalpina mutarono da giurista a giurista, così come varia fu la capacità critica nei confronti di essa. Non privo di spunti problematici apparve il confronto con l’opera di Laurent, il giurista francofono meno banale di quest’ora storica. Spesso venne citato il Savigny del Diritto romano attuale, conosciuto attraverso la mediazione 118

Cfr. supra, § 5. Corso completo di diritto civile comparato, II, Parte speciale. Codice civile, Vallardi, Napoli-Milano, 1869, pp. IX-X. 120 Si veda supra, cap. V, § 4. 119

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della traduzione francese di Charles Guenoux. La presenza di Savigny fu ambivalente: ora venne citato in funzione storicistica, al fine di procedere alla valorizzazione della tradizione scientifica, come in Borsari, ora per rafforzare la percezione dell’ordinamento nel segno della legalità, come nel Bianchi della maturità. I commentatori italiani sono stati pertinentemente definiti uomini di frontiera, personaggi fra due culture, fra l’età dello ius commune e quella della codificazione. L’educazione giuridica di non pochi di questi, così come l’attività professionale, avvenne nell’ambito di un ordinamento giurisprudenziale (si pensi ai ‘pontifici’ Borsari, Pacifici-Mazzoni, Ricci e Regnòli), sicché è naturale che la tradizione riaffiori carsicamente nelle loro opere. Questa generazione di civilisti è stata tacciata di essere indifferente alle questioni che agitarono la società italiana di fine Ottocento. Se ciò è vero, è pure vera un’altra circostanza e cioè che essi difesero l’idea di società che emergeva nel codice del 1865, costituzione civile italiana, idonea a forgiare eticamente il cittadino della neonata nazione. In questo senso va còlto, ad esempio, il loro sostegno incondizionato all’istituto del matrimonio civile, che fu considerato il vivaio e il presidio dello Stato stesso. Per quanto banale o ovvio, non dobbiamo dimenticare che siamo di fronte a giuristi legati a doppio filo con la politica: essi ci appaiono come uomini delle (e nelle) istituzioni unitarie. Bianchi fu sindaco, senatore e infine Presidente del Consiglio di Stato; Ricci deputato nella XIV legislatura, consigliere provinciale ad Ascoli e poi presidente della Provincia; De Filippis deputato di Salerno nella XV legislatura. Pacifici-Mazzoni e Borsari ascesero ai vertici della magistratura. I loro commentari rispecchiano la società italiana degli anni Sessanta e Settanta osservata da un punto di vista privilegiato. Il problema è semmai un altro, e cioè che negli anni Ottanta essi erano già invecchiati anche se li si continuò testardamente a pubblicare per la maggior parte sino alla fine degli anni Venti del Novecento, con revisioni e aggiornamenti più o meno felici. E, del resto, in questo torno di tempo terminarono la loro giornata terrena Pacifici-Mazzoni (1880), Borsari (1887) e Ricci (1891).

b) ortodossia scientifica nazionale. L’avvento dei romanisti-civilisti L’Italia postunitaria era caratterizzata da profondi mutamenti. Si trattava di una Nazione che aveva avviato il processo di industrializzazione e che vedeva nascere il fenomeno dell’emigrazione e della formazione di un nucleo sempre più consistente di lavoratori operai. Era anche il momento di un cambio di passo politico interno e internazionale. La crisi di Tunisi aveva determinato una progressiva disaffezione nei confronti della Francia, ma già prima le vittorie tedesche del 1866 e del 1870, Sadowa e Sédan, avevano orientato gli animi verso la Prussia. Era stata la Prussia e non l’Italia a far sì che il Veneto venisse inglobato nel Regno. Le sconfitte di Custoza e di Lissa erano brucianti. I successi militari erano apparsi essenzialmente come la vittoria di un impareggiabile sistemaStato. L’avvento della Sinistra (1876) avrebbe portato alla firma della Triplice

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Alleanza (1882). E la Germania si mostrò, allora, lo ha spiegato Otto Weiss, come il modello per antonomasia: «Proprio quella sinistra adesso al potere fu posseduta da una fede, quasi religiosa, nella scienza tedesca» 121. Si consideri inoltre che in questo periodo non pochi affermati studiosi germanici insegnavano nelle Università della Penisola, che rinomati editori tedeschi operavano a Napoli, oppure che a Firenze era stato fondato l’Istituto tedesco di storia dell’arte e a Roma l’Istituto storico prussiano (che si pose accanto all’Istituto archeologico fondato nel 1829), i quali contribuivano a diffondere il mito della Kulturnation. Per i giuristi, o almeno per una parte di essi, guardare a Berlino non era un fatto del tutto nuovo, se ricordiamo quei romanisti che avevano cominciato a perfezionarsi in Germania: gli è, comunque, che il fenomeno assunse proporzioni davvero notevoli. Fra coloro che si formarono nelle università tedesche ritroviamo innanzitutto una folta schiera di romanisti-civilisti accomunati da un medesimo programma. In primo luogo apparve strategico rinnovare lo studio del diritto romano agganciandolo alla tradizione e al risorgimento nazionale. Il romanista Filippo Serafini (1831-1897), che si sarebbe cimentato nella traduzione delle Pandette di Karl Ludwig Arndts tra il 1877 e il 1879, concluse una celebre e celebrata prolusione del 1871 in questi termini: «Come abbiamo rivendicato dallo straniero la nostra terra, rivendichiamo il culto d’una scienza che qui ebbe la culla e raggiunse l’apogèo di sua grandezza» 122. Ma è la parte centrale del discorso che contiene il cuore della strategia: per Serafini il diritto romano era in grado di fornire «luce novella sui nuovi codici» al fine di «apprezzare con esattezza ed a primo tratto i casi non contemplati» 123. Occorreva prodigarsi, avrebbe osservato un altro giurista di primo piano, Carlo Fadda (1853-1931), affinché lo studio del diritto romano, seguendo Jhering (il ‘primo’ Jhering), fosse «non solo ricettivo ma produttivo», allo scopo di «costituire una scuola giuridica» nazionale 124. Prese forma quel progetto di attualizzazione del diritto romano che sia Serafini, sia Fadda avevano già sperimentato. Il primo aveva pubblicato nel 1862 un saggio dedicato al Bosellini, intitolato Il telegrafo in relazione alla giurisprudenza civile e commerciale (1862), nel quale si definiva il problema della revoca della proposta contrattuale e della sua eventuale accettazione; Fadda, invece, nella parte finale del suo corposo volume sulla novazione (1880) aveva tentato di risolvere taluni nodi problematici concernenti la disciplina della 121 La “scienza tedesca” e l’Italia nell’Ottocento, in Annali dell’Istituto Storico Italo-tedesco, 9 (1984), p. 11. 122 Del metodo degli studi giuridici in generale e del diritto romano in generale e del diritto romano in particolare, (1872), in Opere minori, I, Scritti vari, Direzione dell’Archivio Giuridico, Modena 1901, p. 219. 123 Ibidem. 124 L’equità e il metodo nel concetto de’ giureconsulti romani: prolusione…, Bianchini, Macerata 1881, p. 24 e p. 22.

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cambiale e del conto corrente sulla base dello studio storico compiuto. Sono ricerche che avrebbero ingenerato in non pochi romanisti la convinzione che il diritto romano potesse davvero colmare ogni lacuna. Così l’allora giovane romanista Biagio Brugi (1855-1934): «Nello stringere amorosamente l’economia al diritto si tenga a mente che quel vecchio corpus iuris è pronto a darci norme attissime a regolare tutti i rapporti giuridici» 125. Al di là della boutade, un dato è però inoppugnabile. Il progetto di attualizzazione del diritto romano era finalizzato alla gestione della complessità, un governo del mutamento sociale realizzato attraverso il recupero del sapere scientifico-sistematico tedesco. Vittorio Scialoja e l’appena ricordato Fadda furono i giuristi che tradussero il primo, a partire dal 1886, in maniera mirabile il Sistema del diritto romano attuale di Savigny, il secondo, assieme a Paolo Emilio Bensa (1858-1928), il Diritto delle Pandette di Windscheid, pubblicato a fascicoli dal 1887 in poi, e soprattutto corredato da corpose e dense note. Scialoja, che avrebbe svolto un ruolo centrale all’interno dell’Università italiana imponendo il paradigma pandettistico e che avrebbe ricoperto importanti ruoli pubblici (ministro della Giustizia nel 1909-10 e ministro degli Esteri dal 1919 al 1920) occupando una posizione di alto prestigio nell’establishment dello Stato liberale, illustrò il suo programma scientifico in una prolusione tenuta alla fine del 1879 a Camerino (Del diritto positivo e dell’equità) che analizziamo brevemente per creare un collegamento con il tema già affrontato dai commentatori postunitari e al fine di illustrare l’orizzonte mentale di una parte della civilistica successiva. La risposta di Scialoja al problema delle lacune fu legalistica, non così diversa da Pacifici-Mazzoni, che nella prolusione fu indicato come suo maestro, in quanto i princìpi generali di diritto venivano identificati nel diritto positivo vigente: il quid novi et pluris era rappresentato dal pieno recupero dell’impostazione dogmatica e autopoietica tipica della Pandettistica tedesca (Scialoja fece riferimento al «puro diritto positivo» e agli istituti come «quasi enti oggettivi», nonché alla piramide dei concetti), che si radicava in un ordinamento codificato e che finiva con l’esasperare una concezione formalistica conchiusa entro il binomio codice e sistema. Una vera e propria costante dei romanisti-civilisti e di quei civilisti che si sarebbero incamminati lungo questa via. «Pel nostro diritto nulla vi è di giuridico al di là del sistema positivo» scrissero Fadda e Bensa nelle note a Windscheid (1887-1902) 126. Ed ecco l’esaltazione del sistema come strumento dagli sviluppi indefiniti: «Il sistema ha sempre in sé la base per la decisione delle questioni tutte, che nella vita possono sorgere (…). Il giudice e lo scienziato di fronte al silenzio della legge ricorrono a’ princìpi del sistema, sia pure elaborandoli opportunamente. Ma appunto perché lavorano in base a’ principi esistenti, e li applicano non creano norme nuove (…). I trasporti ferro-

125 126

I fasti aurei del diritto romano, Vannucchi, Pisa 1879, p. 285. Note a B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it., Utet, Torino 19264, I, p. 31.

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viari, quelli sulle navi a vapore, il telegrafo, il telefono hanno sollevato una grande quantità di questioni (…). Si son forse, per risolverle, creati principi nuovi? Mainò! Si modificarono combinandoli e adattandoli, principi esistenti, regolatori di rapporti e di istituti analoghi» 127. Certo, va riconosciuto ai due traduttori di Windscheid il merito di aver compiuto nelle note un’importante opera di mediazione tra il sistema pandettistico e quello italiano, ma è altrettanto vero che la maggior parte dei romanisti, sorretta da una «profonda fiducia nella continuità», continuò a legittimare la dogmatica del ‘diritto romano attuale’. La cultura pandettistica italiana, veicolata da figure del calibro di Scialoja, Fadda, Bonfante, Ascoli, De Ruggiero, Segré, Pacchioni e Longo avrebbe contributo a elaborare concetti e categorie che si sarebbero venute ad innestare sul vecchio tronco del codice francesizzante, tentando di innalzare su di esso un sistema dogmatico, una tendenza che sarebbe culminata nell’opera di Francesco Santoro Passarelli (1902-1995), il quale avrebbe eretto un edificio sistematico completamente astrattizzante muovendo dal codice civile di fresco conio (Dottrine generali del diritto civile, 1944). Il metodo pandettistico si sarebbe imposto come vera e propria ortodossia scientifica del civilista italiano. Se tale metodo si impose come paradigma culturalmente vincente (ed egemonico, è il caso di osservare), ciò avvenne perché si accompagnò ad un ripensamento dell’insegnamento del diritto romano, di cui fu promotore, con grandi difficoltà, Vittorio Scialoja. A ben vedere, fu un progetto molto più ampio, diretto «alla costruzione della specifica identità di una scienza giuridica autonoma articolata in una pluralità di discipline dotata di ambiti teorici specialistici» 128. Il metodo dogmatico sarebbe diventato il verbo di civilisti del rango di De Ruggiero, di Filippo Vassalli, di processualisti come Giuseppe Chiovenda o di pubblicisti quali Vittorio Emanuele Orlando o Oreste Ranelletti. Il canone pandettistico si impose anche perché attribuiva all’Università un ruolo esclusivo nella formazione del giurista e restituiva al diritto la sua dimensione teorica. Ogni praticismo andava bandito, poiché, spiegava Scialoja, «relativamente al diritto, agli studi di giurisprudenza e alle professioni giudiziarie, l’operazione intellettuale nella pratica della propria professione ha sempre carattere scientifico» 129. Come non cogliere in questo un momento di discontinuità? Il giurista della Nazione veniva identificato oramai nella figura del docente universitario. Non deve stupire se in occasione del primo cinquantesimo dall’Unità d’Italia, volendo compiere un bilancio sulla scienza giuridica, il cultore del diritto

127

Note a B. Windscheid, Diritto delle Pandette, trad. it., Utet, Torino 19264, I, p. 31 e p. 25. G. Cianferotti, L’Università di Siena e la «vertenza Scialoja»: concettualismo giuridico, giurisprudenza pratica e insegnamento del diritto in Italia alla fine dell’Ottocento, in Studi Senesi, 100 (1988), II, p. 725. 129 V. Scialoja, Ordinamento degli studi di giurisprudenza in relazione alle professioni, in Scritti e discorsi politici, II, Anonima romana editoriale, Roma 1936, p. 208. 128

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commerciale Alfredo Rocco (1875-1935), condannando à jamais la produzione scientifica antecedente, avrebbe tributato tutti gli onori al diritto romano: «Il fascino naturale che esercita sugli italiani lo studio del più meraviglioso prodotto della civiltà latina, e soprattutto l’esser fioriti in questo tempo romanisti, che non furono solo scienziati valorosi, ma maestri appassionati e pazienti, tutto questo complesso di cause spiega il perché della fortunata preminenza del diritto romano» 130.

Filippo Serafini aveva centrato il bersaglio.

c) diversi sed non adversi: gli altri civilisti Il metodo sistematico, proprio perché vòlto a elaborare concetti e teoriche generali – è elementare, ma va pur detto – si presta meglio di altri strumenti euristici al compito di organizzare la realtà sociale e per sua natura tende ad esaltare la creatività del giurista: esso è un canone sostanzialmente «affrancatorio». Ebbene, sul metodo sistematico puntarono particolarmente alcuni giuristi che non potevano essere annoverati tra i romanisti-civilisti. Nel 1873 l’abruzzese Francesco Filomusi-Guelfi, civilista e filosofo del diritto (1842-1922), muovendo da una concezione vichiana e organicistica dell’ordinamento, esortò la scienza italiana ad accogliere il metodo sistematico, individuando in De Filippis un precursore. Dopo di lui, agli inizi degli anni Ottanta, una pluralità di civilisti apparve sulla scena, per lo più attraverso il genere delle prolusioni accademiche. Erano figure eterogenee, accomunate dal disegno di dar vita ad una scienza autenticamente nazionale, dai tratti originali e vocata a risolvere le nuove complessità della società italiana. Nel 1881 il lucano Emanuele Gianturco (1857-1907), espressione dell’ambiente còlto delle scuole private napoletane, esordì in una celebre e celebrata prolusione, Gli studii di diritto civile e la quistione del metodo in Italia rivendicando un ruolo costruttore per la scienza giuridica. Si trattava di edificare un sistema sul codice civile del 1865, così come aveva compiuto a Vienna Josef Unger (1828-1913), un civilista che ai suoi occhi aveva incontrato (e risolto) le medesime difficoltà che si presentavano in Italia: Unger si era trovato a concepire un sistema teorico partendo da un codice già esistente, si era scontrato con una prassi per sua natura adusa a seguire i sentieri già tracciati e percorsi da dieci lustri ed inoltre aveva realizzato uno strumento didattico di taglio sistematico, il System des Oesterreichischen Allgemeinen Privatrechts (18561864) accogliendo una parte generale. La questione del metodo era ritenuta urgente in quegli stessi anni da Gian Pietro Chironi (1855-1918), da Giuseppe Brini (1856-1941) e da Enrico Cimbali (1855-1887), che nella prolusione roma130

A. Rocco, La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant’anni, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 9.1 (1911), p. 294.

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na del 1881, muovendo le corde dell’orgoglio nazionale aveva spronato ad abbandonare «l’infausto vezzo di redigere empiricamente vasti commentari sul modello dei francesi o di riprodurre leggermente sistemi nebulosi elaborati e confezionati in Germania» 131. Mentre Brini e Chironi, pur manifestando aperture e postulando «un nuovo rapporto tra scienza giuridica e testo della legge» 132, rimasero nell’alveo della tradizione del diritto romano, fu Enrico Cimbali a tentare una via nuova. Agli occhi di questo giovane docente siciliano la civilistica doveva prendere atto della necessità di individuare soluzioni innovative per una società che era profondamente diversa da quella visualizzata nel codice civile. Lasciamogli la parola, perché nulla meglio di questo brano ci restituisce il suo programma di politica del diritto e la sua passione civile: «in mezzo a tanta vertigine di rivolgimenti e di trasformazioni, quasi nave incantata che solca tranquilla le onde burrascose dell’oceano seminate di moribondi e di cadaveri, il Diritto civile sembra non risenta per nulla l’influenza rivoluzionaria dei nuovi tempi» 133.

La scienza e successivamente il legislatore (in quanto depositario della coscienza nazionale) avrebbero dovuto compiere «l’opera civilizzatrice» di socializzare il diritto privato; l’una attraverso l’accoglimento del metodo sistematico, poiché il sistema gli appariva l’unico strumento euristico che consentiva di ordinare e valorizzare la complessità dell’organismo giuridico, l’altro, sia pure in tempi più lunghi, materiando i contenuti del Codice di diritto privato sociale (individuati peraltro dalla scienza) che avrebbe progressivamente sostituito il codice civile vigente. Nel frattempo il legislatore avrebbe fatto ricorso alla legislazione speciale, perché essa serviva «da un canto ad allargare di molto la sfera del diritto privato, e costitui[va] dall’altro, per l’affermarsi dell’elemento sociale, altrettante deroghe od eccezioni ai canoni rigorosamente individualistici delle legislazioni vigenti di diritto privato» 134. Leggi speciali come anticipazione di un ordine nuovo: un atteggiamento comune a non pochi di quei giuristi innovatori che Paolo Grossi ha definito ‘neoterici’ 135. In ogni caso va precisato che per questi giuristi si trattava di leggi il cui contenuto era anticipato dalla scienza giuridica. Enrico Cimbali stesso avrebbe elencato alcune riforme indifferibili, de-

131

E. Cimbali, Lo studio del diritto civile negli Stati moderni, Bocca, Roma 1881, p. 27. N. Irti, Scuole e figure del diritto civile, Giuffrè, Milano 2002, p. 46. 133 E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, Utet, Torino 1885, (ed. 1895), p. 5. 134 Ivi, p. 57. 135 La scienza del diritto privato. Una rivista-progetto nella Firenze di fino secolo. 18931896, Giuffrè, Milano 1988, p. 15 ss. 132

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stinate a confluire nel codice privato sociale. Limitandoci a qualche esempio, egli si batté a favore della riforma del diritto di famiglia (exempli gratia, per l’innalzamento della condizione dei figli adulterini e incestuosi, per l’ammissione della ricerca della paternità, e per un migliore trattamento successorio del coniuge superstite), e per l’abolizione del dualismo tra diritto commerciale e diritto privato (seguendo in questo Enrico Precerutti). Avanzò un cauto ripensamento dell’istituto proprietario all’insegna della socialità, auspicò che il legislatore si occupasse della proprietà mobiliare, intesa come «la necessità di una vita interamente nuova» 136 oppure che affrontasse il problema della socializzazione del contratto e delle obbligazioni, che si sostanziava nel contemperamento (rectius: «coesistenza armonica»), tra l’individuo e lo Stato, correggendo in questo modo «l’esagerato individualismo del codice del 1865»: «Sarà chiamata, quindi, la legge a intervenire per governare il contratto tra il capitalista e l’operaio, il contadino e il proprietario, il produttore e il consumatore; per tracciare de’ limiti alle funzioni della proprietà e del capitale...» 137.

Va osservato che Cimbali riconosceva allo Stato il ruolo di compositore, seguendo in ciò l’impostazione dell’economista Lampertico 138: «L’intervento si porge necessario per proteggere l’oppresso dall’oppressore e l’oppressore dagli oppressi» 139. Di qui il suo plauso alla legge sui probiviri in gestazione (approvata solo dieci anni dopo, nel 1893). Ci siamo soffermati sulla figura di Enrico Cimbali, perché essa rappresenta il giurista eterodosso per eccellenza: nel suo pensiero si ritrovano non poche di quelle costanti che caratterizzarono l’azione di figure, pur molto diverse fra loro, come Giuseppe D’Aguanno (1862-1908), Carlo Francesco Gabba (1838-1920), Giuseppe Vadalà Papale (1854-1921) e sotto certi aspetti anche il già citato Emanuele Gianturco. Innanzitutto avviarono una polemica contro il diritto romano, che essi consideravano un ostacolo all’adeguamento del diritto all’incandescente realtà sociale e parimenti l’emblema di un diritto monoclasse, inapplicabile ad una società soggettivamente composita come quella di fine Ottocento. In secondo luogo questi giuristi mostrarono di condividere una concezione organicistica del diritto mutuata dal mondo delle scienze fisiche. Complesso appariva il mondo fisico alla luce delle scoperte scientifiche anche evoluzionistiche; complesso quello giuridico, sicché il sistema, ancora una volta, costituiva lo strumento in grado di ordinare e valorizzare la complessità dell’organismo giu-

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E. Cimbali, La nuova fase, cit., p. 180. E. Cimbali, Della capacità di contrattare secondo il codice civile e di commercio, Utet, Torino 1887, p. 46. 138 Economista vicentino (1833-1906), molto attivo in Parlamento. 139 E. Cimbali, La nuova fase, cit., p. 56. 137

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ridico, come insegnava a questi giuristi Albert Schäffle (1831-1903) 140, tradotto in italiano nel 1881 (che a sua volta si era ispirato a Comte, Spencer e Darwin): alla luce di questo approccio vanno lette non poche pagine (che peraltro oggi ci appaiono francamente ridondanti) di questi giuristi. Un altro elemento comune era rappresentato dalla battaglia per la socializzazione del diritto privato. Si trattò del fenomeno del solidarismo giuridico (più che di socialismo giuridico). Secondo Gabba occorreva allargare l’orbita del diritto civile, per Giuseppe Vadalà-Papale (1854-1921) appariva opportuno incamminarsi lungo la via tracciata da Cimbali, precocemente scomparso nel 1887. Benché fossero in minoranza, bollati «come i cantori di un avvenire troppo lontano per mutare gli istituti giuridici del presente, o come ‘politici’ le cui analisi andavano lette e interpretate fuori dalle austere riflessioni della scienza» 141, essi suscitarono un ampio dibattito intorno alla questione della socializzazione del diritto privato. Il civilista Vittorio Polacco (1859-1926) a più riprese (nel 1885, nel 1889 ed infine nel 1908), pur stigmatizzando il ricorso indiscriminato allo strumento della legislazione speciale, riconobbe la necessità di venire incontro alle mutate condizioni sociali. L’adeguamento sarebbe stato garantito dalla scienza giuridica attraverso il codice, visualizzato come il frutto dell’esperienza giuridica millenaria e non come prodotto arbitrario o della volontà dispotica di un legislatore; il legislatore, per parte sua, si sarebbe dovuto limitare a interventi circoscritti. «Resti il Codice nella sua essenza qual è, e i pochi provvedimenti di legislazione industriale sociale, per avventura necessari, vi si accolgano intorno, sotto forma di leggi singole, quasi pianeti attorno al sole» 142, raccomandava nel 1885. Nel 1908 egli avrebbe ulteriormente svolto la sua strategia alla luce di quegli strumenti euristici che la scienza germanica aveva forgiato, come l’impiego delle clausole generali. Suggestionato dalle pagine dell’austriaco Karl Georg Wurzel (1875-1931), Polacco aveva individuato nell’elasticità dei princìpi la possibile tenuta dell’ordinamento: «sono nel corpo delle patrie leggi degli organi che vorrei dire respiratori perché gli consentono di alimentare di sempre nuovo ossigeno, sì che si adatti con sufficiente elasticità e rapidità di ricambio al vagliare dell’atmosfera che lo circonda» 143. Era necessario discernere il transeunte dall’immutabile (affidato alla scienza giuridica) per due motivi. Da una parte si diffidava del legislatore, in quanto legato al contingente e dunque sostanzialmente incapace di una visione d’insieme; dall’altra si trattava di fron-

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Economista e sociologo tedesco, tentò di coniugare le scienze sociali e quelle naturali. G. Cazzetta, Scienza giuridica e trasformazioni sociali. Diritto e lavoro in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano 2007, p. 90. 142 V. Polacco, La funzione sociale dell’odierna legislazione civile: prelezione…, Savini, Camerino 1885, p. 24. 143 V. Polacco, Le cabale del mondo legale: discorso…, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 47.1 (1907-08), p. 172. 141

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teggiare una possibile deriva arbitraria della giurisprudenza. La massima di Oskar von Bülow (1837-1907), uno dei primi esponenti della pur variegata Freirechtschule (lett. “scuola del diritto libero”), – «non la legge, ma legge e magistrato creano al popolo il suo diritto» – appariva a Polacco «il verbo di una scuola che [andava] guadagnando di giorno in giorno terreno» 144. E all’orizzonte si stava profilando un altro pericolo più temibile per Polacco, vale a dire una giurisprudenza barricadiera che aveva le fattezze del bon juge Paul Magnaud (1848-1926), un magistrato che per via giudiziale intendeva democratizzare l’ordinamento borghese d’Oltralpe 145. Veniva considerato un pericolo concreto il Magnaud, nella misura in cui un «giudice assai colto» (le parole sono di Polacco stesso) come Raffaele Majetti aveva tradotto le sentenze in italiano 146 e le aveva fatte precedere da un auspicio che aveva fatto trasalire il civilista patavino. Di qui il suo manifesto, «innovare senza distruggere» 147; un obiettivo e una metodologia condivisa da altri giuristi quali Chironi, Filomusi-Guelfi, Brugi e Lodovico Barassi (1873-1961), che l’avrebbe applicata al nascente diritto del lavoro.

10. Juristendominanz. Il codice civile tedesco tra politica e diritto I rapporti tra pandettisti e germanisti si guastarono irrimediabilmente allorché Georg Beseler (1809-1885), facendosi interprete dell’insoddisfazione dei giuristi liberali nei confronti della Pandettistica, colpevole di aver «isolato i giuristi dalla rinascita nazionale», attaccò Puchta nel 1843. Già nel 1837, in occasione dell’espulsione di sette docenti dell’università di Gottinga che avevano protestato per il ritiro della Costituzione concessa dal precedente sovrano di Hannover, il sodalizio si era incrinato. Fra i cattedratici dissidenti figuravano allievi di Savigny come Jakob Grimm, che erano rimasti sconcertati dal silenzio del Maestro. In quell’occasione fu Beseler a esporsi in prima persona. Due anni dopo, la fondazione della rivista scientifica dei germanisti minò ulteriormente la tenuta della scuola. Puntare verso il diritto germanico significava affermare che il tempo del diritto romano in Germania era concluso. La dominanza autocratica del diritto romano e dei romanisti, di qui la polemica di Beseler nei confronti della recezione del diritto comune presentata come una sciagura nazionale, ave-

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Ivi, p. 170. Presidente del Tribunale di Château-Thierry, nel 1898 assolse una donna dal reato di furto perché commesso in stato di necessità. Gli valse l’appellativo di bon juge da parte del Presidente Clemenceau. 146 P. Magnaud, Le sentenze del Presidente Magnaud, trad. it. di R. Majetti, Francesco Cavotta Tip. Edit., S. Maria Capua Vetere 1901. 147 V. Polacco, Le cabale del mondo legale, cit., p. 162. 145

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va impedito il sorgere di un sentimento politico/giuridico unitario. Si doveva prendere atto della separazione tra giuristi e popolo, appariva necessario uscire dall’Isolierung e spendersi per una fattiva costruzione dell’ordinamento, legato al mondo dei fatti (nella loro prospettiva, a favore di un diritto popolare, il Volksrecht). Cultura popolare versus cultura di un’élite, i giuristi romanisti. Guardare al diritto germanico stava ad indicare, in altri termini, «una scelta di natura politica, a favore dei principii e degli istituti di carattere nazionale» 148. La questione dell’unificazione legislativa era stata posta sul tappeto dai germanisti ma era inscindibilmente legata al problema della Costituzione. Fu così che nel 1848, l’Assemblea costituente, all’interno della quale sedevano i germanisti più rinomati, propose la redazione di un codice civile, penale, commerciale e processuale al fine di «fondare l’unità giuridica nazionale» (art. 64 della Costituzione mai entrata in vigore). Quello dei germanisti era un codice civile un po’ diverso da quello prefigurato da Thibaut, poiché attraverso di esso sarebbero state recuperate tutte le istituzioni ancora esistenti del diritto popolare, come ad esempio il diritto delle corporazioni tedesche (Recht der Genossenschaften). Successivamente al 1848, anche i pandettisti si mostrarono disposti ad accettare la formula ‘codice civile’. In occasione del congresso dei giuristi tedeschi del 1860, essi concordarono circa la necessità di redigere almeno un codice unico delle obbligazioni. Si resero conto che un ulteriore indugio avrebbe finito per favorire i germanisti. In questo periodo, inoltre, alcuni Stati tedeschi avevano istituito delle commissioni con il compito di approntare dei codici territoriali (ma l’unico ad essere varato fu quello della Sassonia). Di fronte a questa tendenza codificatrice di segno particolaristico il pandettista Karl Georg Wächter (1797-1880) appoggiò la causa dell’unificazione legislativa, in quanto la proliferazione di codici territoriali avrebbe vulnerato l’unità del pensiero giuridico tedesco. In sostanza, il codice civile serviva per salvare la scienza romanistica. La circostanza, infine, che un allievo di Savigny, Johann Caspar Bluntschli (180881) – salito sulla cattedra berlinese alla morte di Puchta –, avesse realizzato un codice (il pregevolissimo codice civile per il Cantone di Zurigo) o il fatto che il giurista liberale austriaco Josef Unger avesse redatto un commentario pandettistico sul codice civile del 1811 149 aveva reso meno temibile il progetto di un codice civile unico. L’esperienza zurighese stava mostrando che era possibile far convivere scienza giuridica e codice. In ogni caso, quest’ultimo, sulla scorta di ciò che era accaduto con il codice di commercio del 1861 (ADHGB), non sarebbe stato imposto. A due anni dalla proclamazione dell’Impero, fu solo grazie all’ostinazione di due deputati (Lasker e Miquel) se la questione dell’unificazione del diritto civile venne fatta rientrare nelle competenze del Reich. Si rese

148 M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Giuffrè, Milano 1979, pp. 102-103. 149 Vedi supra, § 9c.

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necessaria, appunto, una modifica della Costituzione. I deputati liberali videro nel codice unico lo strumento per secolarizzare il diritto di famiglia, per livellare la società e per favorire un’economia di segno liberistico. Il percorso non fu rapido, visto che si sarebbe concluso nel 1896. Seguiamone brevemente le tappe. Una pre-commissione (Vorkommission), incaricata di tracciare un programma e di individuare il metodo di lavoro, raccomandò di non largheggiare nelle innovazioni e suggerì di favorire soprattutto l’armonizzazione giuridica dei diversi Stati (giova ricordare che più del quindici per cento della popolazione osservava il Code civil). La prima commissione, nella quale sedeva Windscheid, (che, tuttavia, non avrebbe mai fatto mistero di non approvare il testo definitivo), terminò il progetto nel 1887. Fu un piano di codificazione che suscitò critiche violentissime. I germanisti, e in primo luogo Otto von Gierke (1841-1921), giudicarono l’opera non-tedesca, iper-romanistica e dottrinale, bollandola come una epitome dell’opera di Windscheid. Gierke, che lamentava l’assenza della tradizione germanica, manifestò la propria indignazione rilevando che a nulla era servita la polemica contro i pandettisti. Il progetto gli appariva come il prodotto dell’egoismo borghese, strumento di sopraffazione dei più forti sui deboli. Il diritto privato doveva farsi carico di proteggere i meno abbienti dallo sfruttamento della classe dominante, avrebbe scritto nel suo saggio più noto al di fuori della Germania, Il compito sociale del diritto privato (Die soziale Aufgabe des Privatsrecht del 1889). Un altro giurista altrettanto in luce, l’austriaco Anton Menger (1841-1906), denunciò questo aspetto nel suo studio Il diritto civile e il proletariato (Das Bürgerliche Recht und die besitzlosen Volksklassen, 1890) osservando che il diritto borghese visualizzato dal progetto favoriva la competizione e l’egoismo: in una società industrializzata come quella tedesca, il diritto civile non si mostrava affatto neutrale, poiché «comportava la dipendenza economica degli individui aventi un minor numero di chances» 150. Sia Gierke che Menger criticarono il progetto anche per l’eccessivo tecnicismo e per l’oscurità del linguaggio, un rilievo che, paradossalmente, venne avanzato pure da un principe della Pandettistica come Bekker. Nel 1890 fu costituita una seconda commissione, che lavorò a un nuovo progetto, legato anch’esso alla tradizione pandettistica. Modificato marginalmente, fu sottoposto al Reichstag come terzo progetto nel 1896. Il 18 agosto dello stesso anno venne promulgato. Il BGB entrò in vigore il primo gennaio del 1900: Ernst Zitelmann (18521923) lo presentò come opera comune «del mondo dei giuristi tedeschi» (ein Werk der ganzen deutschen Juristenwelt), «carne della loro carne e sangue del loro sangue» («so erscheint es uns als Fleisch von unserem Fleisch, als Blut von unserem Blut») 151. La Juristische Gesellschaft di Lipsia ritenne opportuno fe150

F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, trad. it., II, Giuffrè, Milano 1980, p. 160. Cit. in G. Liberati, Introduzione a F. Wieacker, Diritto privato e società industriale, ESI, Napoli 1983, pp. XLV-XLVI. 151

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steggiare il nuovo codice pronunciando discorsi d’addio per il diritto comune, per il Code civil, per l’Allgemeines Landrecht e per il codice civile sassone. I deputati socialdemocratici dichiararono in Parlamento che avrebbero atteso invece «il codice del futuro, (…) il codice della compiuta giustizia sociale» 152. Momenti antipodi di una stessa giornata. Che il BGB costituisca il prodotto della scienza pandettistica è fuor di dubbio. Le osservazioni dei germanisti non avevano alterato più di tanto la fisionomia del progetto del 1887. Nonostante talune «gocce di olio sociale» 153, esso restituisce con nettezza l’immagine di una società i cui valori sono quelli tipicamente liberali e liberistici. La proprietà e il contratto sono costruiti sul soggetto, la famiglia è presidio per il forte Stato. Quanto alla struttura, essa è concepita entro un ordine quasi architettonico, in cui troneggiano due parti generali. La prima fa da peristilio al codice ed è articolata entro una tassonomia che non manca di sorprendere il lettore. I 240 paragrafi della parte generale sono distribuiti secondo questo ordine: delle persone (fisiche e giuridiche), delle cose, dei negozi giuridici, dei termini, della prescrizione, dell’esercizio dei diritti, della prestazione di garanzie. La successiva parte generale è accolta nel secondo libro sulle obbligazioni (§§ 241-432). Il terzo libro disciplina i beni, il quarto la famiglia, il quinto le successioni, per complessivi 2385 paragrafi. Per qualificare un rapporto è necessario riferirsi a molteplici disposizioni collocate nel testo in sedi diverse, seguendo una progressione ascendente e discendente. Andamento a scala, quello del BGB, è stato detto. Il linguaggio utilizzato è rigorosamente tecnico e si caratterizza per una decisa astrattezza: «uno Stendhal tedesco sarebbe difficilmente tentato di prenderlo a modello della propria prosa», ha osservato con arguzia il Wieacker 154. In tutta evidenza, ci troviamo di fronte ad un testo concepito per professionisti del diritto. Il BGB era figlio del positivismo: non deve trarre in inganno la circostanza che nel testo definitivo non fosse stata mantenuta la disposizione che regolava l’analogia legis et iuris contenuta nella bozza del 1887. Il magistrato era infatti comunque vincolato dal diritto positivo. Il legislatore ebbe, tuttavia, la felice intuizione di far ricorso alle clausole generali (buona fede, buoni costumi, usi del commercio e giusta causa) che avrebbero consentito ai giudici l’adeguamento dell’ordinamento privatistico a contesti diversi e difficili, specialmente all’indomani della prima guerra mondiale, allorché l’inflazione raggiunse livelli altissimi (in quell’occasione fu ritenuto dirimente il § 242, il quale disponeva che «il debitore è tenuto a compiere la prestazione secondo quanto esige la buona fede, avuto riguardo all’uso dei comuni rapporti»). Il paragrafo più utilizzato dai giudici, osservò nel 1925 il giurista austriaco Ernst Rabel (1874-1955).

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Ivi, pp. XXII-XXIII. G. Cazzetta, Scienza giuridica, cit., p. 52. 154 F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, cit., p. 192. 153

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Quanto al diritto di famiglia, non si può fare a meno di notare una certa consonanza con la disciplina degli altri ordinamenti ottocenteschi dell’Europa continentale: solo ottenendo il consenso del padre, il figlio poteva unirsi in matrimonio prima della maggiore età (fissata a ventuno anni). L’adozione era ammessa a favore di chi non aveva figli e purché avesse compiuto cinquant’anni e più di diciotto anni dell’adottando. Quanto alla condizione della donna coniugata, il legislatore tenne testa a quel movimento femminista che al Reichstag aveva richiesto la perfetta equiparazione tra moglie e marito. Fu realizzato un compromesso individuando nel marito il capofamiglia e concedendo nel contempo alla moglie di adire l’autorità giudiziaria in alcuni limitati e specifici casi di dissenso. Sulla scia di quanto era stato disposto dalla legge del 1875, prodotto della politica bismarckiana del Kulturkampf poi parzialmente abbandonata, venne accolto il matrimonio civile e fu ammesso il divorzio per molteplici cause legali quali l’adulterio, l’attentato alla vita dell’altro coniuge, l’abbandono e i maltrattamenti; la grave violazione dei doveri inerenti al matrimonio, una condotta disonorevole o immorale, l’infermità di mente del coniuge protratta da tre anni, infine un così profondo disfacimento della vita matrimoniale da non potere l’altro coniuge essere obbligato alla continuazione del matrimonio (§§ 1565-1569). Era stato escluso lo scioglimento per mutuo consenso, esattamente come era avvenuto in Francia (il divorzio vi era stato reintrodotto nel 1884). Quanto al diritto di proprietà, esso era visualizzato come dominium esclusivo del soggetto (§ 903). Per ciò che concerneva la trasmissione della proprietà, analogamente a quanto aveva stabilito il codice austriaco in conformità con la tradizione romanistica, essa si realizzava per effetto della consegna della cosa e per i beni immobili giusta l’iscrizione nei libri fondiari. Un’ultima, rapida, annotazione. C’è spazio nel codice per l’elemento sociale? Non molto, è la risposta. Vi fu, tuttavia, un giurista italiano, il filosofo del diritto Gioele Solari (1872-1952), che ravvisò nel paragrafo 226 «l’attuazione del concetto della solidarietà sociale», una disposizione che diventava addirittura «il principio dominante di tutta la legislazione civile» 155. Questa norma stabiliva che «l’esercizio di un diritto soggettivo non era permesso se non avesse avuto altro scopo che di recar danno ad altri». Secondo Solari, la cosiddetta figura dell’abuso del diritto implicava «una profonda modificazione nel principio della libertà nell’esercizio dei diritti: essa inaugurava la concezione veramente sociale del diritto soggettivo» 156. Altre disposizioni venivano segnalate da questo giurista, in particolare quelle che tutelavano i deboli, come, ad esempio, il paragrafo 138 («Nullo è un negozio giuridico col quale taluno, abusando del bisogno, della leggerezza o dell’inesperienza di altri, fa promettere o dare a sé o ad un terzo

155 G. Solari, Socialismo e diritto privato. Influenza delle odierne dottrine socialiste sul diritto privato (1906), Giuffrè, Milano 1980, p. 243. 156 Ibidem.

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per una prestazione vantaggi patrimoniali che superano talmente il valore della prestazione che i vantaggi si trovano in evidente sproporzione colla prestazione»). Relativamente al diritto del lavoro non gli sfuggivano le manchevolezze, eppure salutava quelle norme che tutelavano il lavoratore (§§ 616-618: riguardo al contratto di servizi si stabiliva che il lavoratore non perdeva il diritto al salario se per motivi da lui indipendenti non poteva compiere la prestazione pattuita, o quello successivo che poneva a carico del padrone le spese di malattia del domestico a suo servizio e l’ultimo che disponeva che il prestatore di servizi dovesse svolgere la sua attività all’interno di locali idonei e sicuri predisposti dal datore di lavoro) come una conquista. Si trattava di disposizioni che per i socialisti altro non erano se non quelle gocce di olio sociale alle quali si è fatto cenno in precedenza. Norme che secondo Solari rappresentavano le sole concessioni che i redattori avevano fatto a Menger e agli altri esponenti del socialismo della cattedra. E, si dovrebbe aggiungere, pure al partito di Centro, che aveva dichiarato di essersi ispirato all’Enciclica Rerum Novarum. Per converso, il paragrafo 616 suscitò l’ira degli industriali e delle camere di Commercio, ché ai loro occhi esso avrebbe frenato la crescita della produzione economica. In Italia il codice civile tedesco fu accolto con ammirazione da due giuristi che già conosciamo, vale a dire il romanista-civilista Segrè e il civilista Polacco. Quest’ultimo si rallegrò nel 1889 che il legislatore tedesco avesse attinto a piene mani alla scienza romanistica («dalla codificazione io traggo anzi argomento a bene sperare per un avvenire anche più florido di tali studi in Germania» 157); il primo, invece, nel 1900, prese il destro per invocare una revisione del codice civile del 1865, «opera affrettata e in grandissima parte d’imitazione forestiera». La scienza giuridica italiana avrebbe dovuto «far tesoro anche dei risultati dei propri studi sul nuovo diritto privato germanico» 158 senza cadere, tuttavia, «in una nuova tirannide scientifica» 159. Si tratta di un’affermazione importante, che Vittorio Scialoja avrebbe preso sul serio nel 1916. Lo accerteremo nelle prossime pagine.

11. Tra fine e inizio secolo: tendenze del diritto privato europeo Il secolo volgeva al termine. E si trattava di un momento ricco di fermenti nuovi, con particolare evidenza in Francia. In questo torno di tempo era comparso sulla scena della scienza civilistica un giurista dalle antenne sensibili, il

157 V. Polacco, Il diritto romano nel recente progetto di codice civile germanico, in Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova, 290 (188-89), p. 284. 158 G. Segrè, Sulla parte generale del codice civile germanico, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XXX, (1900), p. 4 dell’estratto. 159 Ibidem.

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borgognone Raymond Saleilles (1855-1912). Insofferente per il canone didattico professato nell’Université, e per il deciso francocentrismo della cultura giuridica del suo paese, egli si era aperto alla Rechtwissenschaft 160 con un certo coraggio, se solo rammentiamo quale era stato l’impatto anche emotivo e psicologico della disfatta di Sédan. Tout a croulé comme en une vision d’Apocalypse, scrisse Rénan nel 1871. «La sconfitta – lo ha descritto con finezza il Sabbioneti – [fu] presto interpretata come un segno della superiorità culturale tedesca […]; la comparazione divent[ò] la componente essenziale di una strategia di salvataggio della cultura giuridica realizzata attraverso innesti di origine tedesca nel contesto di quel duplice sentimento di attrazione-repulsione, tipico di vasti settori del mondo intellettuale francese nei confronti di tutto ciò che proven[iva] dalla Germania» 161. La scoperta della dimensione storica del diritto (lo studio di Jhering gli permise di entusiasmarsi per la figura del pretore romano, còlto nella sua attività di adeguamento dello ius civile), il cattolicesimo di segno modernista, l’attenzione al problema della socializzazione del diritto privato (di qui la sua lettura dei solidaristi italiani che abbiamo passato in rassegna), la dimestichezza con il pensiero costruttivistico pandettista (egli analizzò il sistema delle obbligazioni del progetto tedesco del 1887 e prese parte alla corale traduzione e commento del BGB in francese), contribuirono insieme a forgiare il suo modo di essere civilista. Una siffatta mentalità composita condusse inevitabilmente Saleilles a concepire il codice come uno strumento flessibile. Avec les textes, au dessus des textes et par delà les textes («con i testi, al di sopra dei testi e al di là dei testi»), ecco la sua felice e fortunata espressione. Era l’unica operazione che avrebbe garantito l’adeguamento del diritto alla cangiante società. Non sorprende, allora, assistere ad un recupero del Livre préliminaire di Portalis (ancora una volta!), compiuto da Saleilles in occasione delle celebrazioni del primo centenario del Code civil. Ma non sorprende neppure che egli si fosse rallegrato perché il Livre préliminaire non era stato accolto nel codice. Egli comprese che esso avrebbe finito per far invecchiare anzitempo il testo del 1804. Bisognava romperlo, invece, il «moule sacrosaint du code civil» 162. E la grandezza degli artefici del Code risiedeva nell’essere riusciti a forgiare disposizioni a maglie larghe che la giurisprudenza aveva saputo adattare ai diversi contesti, (come aveva segnalato anche il nostro Venezian). La socializzazione del diritto privato passava attraverso la souplesse (flessibilità) dei testi operata dalla giurisprudenza. Certo, nella stessa misura del nostro Polacco, Saleilles (che pur era molto più progressivo del civilista padovano) si pose il problema della certezza del diritto e dell’arbitrio giudiziale.

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«Scienza giuridica», in tedesco. M. Sabbioneti, Democrazia sociale e diritto privato. La Terza Repubblica di Raymond Saleilles (1855-1912), Giuffrè, Milano 2011, p. 286. 162 R. Saleilles, Monsieur C. Bufnoir professeur à la Faculté de Droit de l’Université de Paris, in Archivio Giuridico, 60 (1898), p. 543. 161

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Anch’egli si trovò a dover prendere le distanze dal raffazzonato solidarismo del bon juge Magnaud 163. Di qui il suo tentativo di raggiungere quel delicato equilibrio tra ragioni del diritto e ragioni della legge, che già Portalis aveva tentato di individuare. Il risultato, lo ha notato il Grossi, fu aporetico, poiché limitava l’adattamento del testo (assouplissement) entro la cornice normativa (encadrement). Resta in ogni caso il fatto che un reale compito costruttivo, (secondo una mentalità presente, lo abbiamo detto, nel pensiero giuridico italiano degli anni Cinquanta), Saleilles lo assegnava alla dottrina concepita quale avant-garde (avanguardia) dell’ordinamento. Una dottrina puissante, longue et abondante sur la base de l’histoire (vale a dire autorevole, che avesse meditato a lungo e che avesse prodotto cospicui prodotti scientifici adottando il metodo storico) doveva anticipare il legislatore e guidare la giurisprudenza. Saleilles, grazie alla sua convinta vocazione comparatistica (un metodo diretto a far emergere il droit commun du monde civilisé ma che simultaneamente era funzionale alla costruzione del diritto interno), si rivolse con molta frequenza al codice civile tedesco. Nella stessa misura di Solari, rimase affascinato dalla figura dell’abuso del diritto (che in Francia aveva preso forma a livello giurisprudenziale all’interno della disciplina della responsabilità extracontrattuale art. 1382), scolpita nel § 226, così come dal § 826, il quale dispone che «chi in modo contrario al buon costume cagiona dolosamente un danno ad altri, è obbligato nei suoi confronti al risarcimento del danno». Aveva ben compreso che essi rappresentavano strumenti imprescindibile per socializzare il diritto privato. Ebbene, egli individuò un punto medio tra il § 226 del BGB, giudicato «troppo restrittivo», il Code civil, (in particolare l’art. 6) e il Codice civile svizzero in gestazione, considerato sul punto «troppo vago». Di qui la sua soluzione: «un atto il cui effetto non può che essere quello di nuocere ad altri, senza interesse apprezzabile e legittimo per colui che lo pone in essere, non può mai costituire un esercizio lecito di un diritto» 164. Una massima che sarebbe stata accolta dalla Cassazione nel 1915, e che definisce assai bene la tecnica dell’assouplissement dei testi e il ruolo della comparazione, come ha mostrato il Sabbioneti. In questo periodo un altro civilista dibatteva in ordine alla necessità di riconoscere all’interprete un ruolo costruttivo, e cioè François Gény (1861-1959), che, proprio a ridosso del nuovo secolo (correva il 1899), dava alle stampe il suo trattato Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif. Era legato a Saleilles da una profonda amicizia. Saleilles aveva redatto la prefazione della sua Méthode, lo aveva coinvolto nell’opera di traduzione del BGB e nel Congresso internazionale di diritto comparato di Parigi del 1900 e ancora nella fondazione della Revue trimestrielle de droit civil. Se è vero che l’influsso di Saleilles fu importante, è anche vero che Gény percorse una strada diversa. Ai suoi occhi ri-

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V. supra, § 9c. Cit. in M. Sabbioneti, Democrazia sociale, cit., p. 630.

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correre come suggeriva Saleilles all’interpretazione evolutiva, equivaleva a utilizzare un sotterfugio. Bisognava invece proclamare a gran voce la naturale incompletezza dell’ordinamento, un principio che Gény riteneva già consacrato nell’ordinamento francese all’articolo 4 del Code civil. Proprio così. In caso di silenzio o di insufficienza della legge – da lui intesa come luogo di stabilità e di certezza perché espressione di una volontà (la portata della quale andava però circoscritta «alla chiara volontà del legislatore storico») – il giurista era legittimato a andare al di là del codice civile. Suggestionato dal pensiero giuridico tedesco, da Jhering e dal filosofo del diritto Rudolf Stammler (1856-1938), egli suggeriva di utilizzare la consuetudine, la giurisprudenza e infine quella che lui definiva la libre recherche scientifique (libera ricerca scientifica). Si trattava del metodo del giurista per antonomasia, un canone vincolato da procedimenti euristici oggettivi, che postulava, ad esempio, il rispetto della «natura delle cose» (un principio che dichiarava di aver attinto dal pensiero germanico) e la necessità di operare un bilanciamento degli interessi implicati. Non è facile restituire la ricchezza del pensiero e la mentalità composita di Gény. Ci limitiamo a segnalare qualche dato che si collega a quanto è già stato illustrato nelle precedenti pagine. Egli detestava cordialmente il bon juge Magnaud perché con la sua giurisprudenza “impressionistica” (l’aggettivo è suo) trasmetteva un’immagine distorta del giurista. La giurisprudenza era scienza dei rapporti umani, avrebbe ripetuto durante la sua lunghissima giornata terrena. Gény lodava l’impegno di Cimbali, di D’Aguanno o di Menger, volto a socializzare il diritto privato; non era tuttavia pienamente soddisfatto dei loro scritti. Li reputava imprecisi, sforniti delle imprescindibili competenze tecniche ricostruttive che ogni buon giurista doveva padroneggiare. Nello stesso tempo, pur riconoscendo l’importanza della Rechtwissenschaft, era pronto a denunciare senza esitazione i limiti concettualistici della Pandettistica. Per comprendere in che cosa si sostanziasse il metodo di Gény, possiamo far riferimento alla figura dell’abuso del diritto. Egli partiva dall’assunto mutuato dai germanisti, in particolare da Gierke, che «ogni diritto implicava un dovere e conteneva in se stesso un limite morale» 165. Rinvenire il fondamento dell’abuso del diritto negli atti di emulazione o nella massima in malitiis non est indulgendum significava non cogliere la questione in termini più ampi: «Questo problema fondamentale dell’abuso di diritto – scriveva – sul quale la nostra legislazione scritta serba un silenzio quasi completo, per essere correttamente risolto esige che l’interprete tenga in considerazione le valutazioni morali politiche, sociali o economiche che soggiacciono agli interessi che si trovano coinvolti» 166. Significava indicare al civilista di spiccare il volo. Saleilles accusava Gény di essere troppo ardito, mentre Gény tacciava di fin-

165 F. Gény, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif, II, Librairie Générale de droit et de jurisprudence, ed. Paris 1919, n. 173, pp. 171-173 ss., traduzione nostra. 166 Ivi, p. 173, traduzione mia.

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zione la teoria dell’assouplissement. Su un aspetto i due erano concordi, e cioè che il legislatore svizzero, impegnato nell’opera di redazione del codice civile, si stesse ponendo nella giusta direzione. L’articolo primo del codice civile federale approvato nel 1907 (il ZGB, Zivilgesetzbuch) disponeva quanto segue: «La legge si applica a tutte le questioni giuridiche alle quali può riferirsi la lettera od il senso di una sua disposizione. Nei casi non previsti dalla legge il giudice decide secondo la consuetudine, e, in difetto di questa, secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore. Egli si attiene alla dottrina ed alla giurisprudenza più autorevoli». Saleilles scrisse all’artefice del codice, il germanista svizzero Eugen Huber (1849-1923), in termini entusiastici: «l’articolo risponde talmente alle mie idee che vorrei vederlo tradotto e affisso in ogni nostro tribunale» 167; Gény lodò la sincerità con la quale il legislatore aveva dichiarato l’incompletezza dell’ordinamento e aveva affidato al giudice il compito e di colmare le lacune e di adattare il codice alle situazioni concrete. Ritenne addirittura di aver ispirato, per il tramite delle citazioni che aveva compiuto (l’Etica Nicomachea e la voce Equità di Merlin) la soluzione huberiana. Nel 1919 si sarebbe spinto ad affermare che la norma compendiava in formule assiomatiche il suo pensiero (salvo poi manifestare qualche perplessità in ordine alla figura del giudice svizzero non professionista), sicché nell’ambiente francese si diffuse la convinzione che Gény fosse realmente il padre di questa celebre disposizione. Essa divenne il modello per antonomasia degli adepti della Scuola del diritto libero; in Italia fu oggetto di discussione, suscitando significative aperture nella concezione del pandettista romanista a noi già noto, Biagio Brugi. V’è di più. Il codice svizzero, che pur rispecchiava il pensiero giuridico pandettistico, giusta la mediazione del codice civile per il Cantone di Zurigo, rappresentò un punto di riferimento per i tedeschi delusi dal loro codice. Un anti-BGB, nel senso di modello alternativo, quello elvetico. Non vi era stata accolta una parte generale, lo stile era piano poiché il destinatario era il cittadino comune, il legislatore aveva cercato di contemperare l’interesse della collettività e quello dei singoli, le norme erano caratterizzate da una certa vaghezza per permettere al giudice il migliore adattamento possibile («lo ZGB trattava in soli 1600 articoli le stesse materie che il BGB disciplinava in 2385 paragrafi, peraltro anche più estesi», hanno notato due noti comparatisti tedeschi 168). Fu Anton Menger a insistere sul carattere democratico del testo (rectius: dell’Avamprogetto), finendo tuttavia per distorcere le reali proporzioni della democratizzazione dello ZGB, ossessionato com’era dal desiderio di socializzare il BGB. E anche lui credette che Huber avesse attinto dalla sua produzione scientifica. Certo, elementi solidaristici non mancano: basti pensare alla norma sull’abuso di diritto, o a tutte quelle disposizioni in tema di con-

167

Cit. in P. Caroni, Quando Saleilles dialogava con Eugen Huber (1895-1911), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 40 (2011), Giudici e giuristi. Il problema del diritto giurisprudenziale fra Otto e novecento, I, p. 283. 168 K. Zweigert e H. Kötz, Introduzione al Diritto Comparato, I, Giuffrè, Milano 1998, p. 212.

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tratto nelle quali si concede al giudice di intervenire a modificare la prestazione. Gierke, per parte sua, ritenne che questi principi Huber li avesse ricavati dalla sua opera e dal germanesimo. Il codice del 1907 diventò una vera e propria icona, venerata per ragioni eterogenee da civilisti che ritenevano di potervisi rispecchiare (un fenomeno di narcisismo giuridico, verrebbe da dire). In realtà, quello elvetico era il frutto di un compromesso, un codice che si poneva comunque nel solco della tradizione giuridica liberale e dell’esperienza giuridica dei cantoni. Huber (che si era dedicato alla storia del diritto privato svizzero) fu attento a preservare quest’ultimo elemento proprio attraverso l’articolo primo, che consentiva al giudice in caso di lacuna di recuperare il contesto di riferimento. L’immagine di un giudice legislatore si riconnetteva, inoltre, alla tradizione di quei cantoni, per lo più germanofoni, nei quali il giudice non professionista si muoveva all’interno di un ordinamento costituito da consuetudini. Quanto alla realtà italofona più consistente, quella della Repubblica del Canton Ticino, il giudice, pur avendo a disposizione un codice civile di fattura simil napoleonica, aveva anch’esso un’ampia latitudine, perché poteva riferirsi all’enorme polmone della tradizione dello ius commune. Non c’entravano molto Saleilles e Gény, con l’articolo 1 del testo svizzero. Gény, che nel frattempo aveva studiato la storia giuridica svizzera e dunque aveva preso contezza che la disposizione aveva delle robuste radici, dichiarò pubblicamente di non aver avuto alcun merito nella vicenda della genesi e nella redazione della norma. V’è un ulteriore aspetto che va evidenziato: Huber fu chiamato a tener conto anche della tradizione dei cantoni romandi, abituati al non flessibile modello francese e dei timori espressi da alcuni socialdemocratici che guardavano con apprensione al Richter als Gesetzgeber («giudice come legislatore»). Di qui la formulazione dell’art. 4: «Il giudice è tenuto a decidere secondo il diritto e l’equità quando la legge si rimette al suo prudente criterio o fa dipendere la decisione dall’apprezzamento delle circostanze, o da gravi motivi». Una disposizione che delimitava l’arbitrium iudicis dei giudici germanofoni e allargava quello dei juges francofoni: un’opera di mediazione, come ha spiegato magistralmente Pio Caroni 169. Guardiamo adesso all’esperienza giuridica asburgica. Che cosa merita di essere ricordato qui, in ordine all’applicazione del codice civile del 1811, della cultura e della scienza giuridica austriaca nella fin de siècle? Che innanzitutto l’ABGB venne letto e interpretato (rectius, deformato) alla luce della dogmatica pandettistica. Fu Unger, abbiamo evidenziato più volte il dato, per mezzo del suo commentario, a pandettizzare il codice a partire dalla metà degli anni Cinquanta, un’operazione che, oltre ad attualizzare il codice, condusse ad una concezione positivistica dell’ordinamento privatistico dell’Impero asburgico. Il celebre § 7 fu commentato così:

169

P. Caroni, Quando Saleilles dialogava con Eugen Huber, cit., p. 291.

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«dappoiché l’analogia di diritto basta pienamente per risolvere nello spirito del vigente diritto qualunque questione, e nel passo del § 7 relativo al diritto naturale altro non dee scorgersi che il soddisfacimento di un irresistibile impulso essenzialmente teoretico dei compilatori del codice civile» 170.

Ebbene, questo liberale docente viennese, che si prestò prima alla politica e successivamente alla carriera giudiziaria, insediandosi sullo scranno più alto del tribunale imperiale per oltre trent’anni, si preoccupò della questione dell’adeguamento del codice ad una realtà sociale e politica profondamente mutata. L’Unger di inizio secolo, allorché pubblicò un saggio sulla necessità di riformare l’ABGB, apparve toccato dalla questione della socializzazione del diritto privato e individuò questa volta nel § 7 (!) lo strumento per garantirne l’attuazione 171. Nello stesso tempo egli non nascose che delegare il mutamento al solo giudice vulnerava il principio di certezza del diritto. Di qui la sua propensione per affidare alla legge il còmpito di colmare lo scarto tra il diritto e la società. Si doveva sostanziare unicamente in una riforma solo parziale, una revisione a mosaico (mosaikartige Einzelkorrekturen) l’intervento del legislatore. Il governo austriaco insediò una commissione che approntò un testo di poco meno di 200 paragrafi, un progetto contestatissimo perché tacciato di essere troppo dipendente dal BGB e scarsamente attento alla dimensione sociale. Solo tra il 1914 e il 1916 le tre Novelle videro la luce, dirette a riformare incisivamente soprattutto il diritto di famiglia e il diritto successorio. Anche a Parigi, sulla scorta degli orientamenti emersi in occasione del convegno del 1904, il Governo ritenne opportuno compiere una riforma del Code civil, ma la commissione nominata (all’interno della quale figurava lo stesso Saleilles che aveva fortemente voluto la celebrazione parigina), non approdò ad alcun risultato concreto. A Roma, il Ministro della Giustizia Nicolò Gallo, un politico guadagnato alla causa solidaristica, nel 1906 affidò l’incarico di riformare il codice civile del 1865 a ben trenta giuristi, fra i quali Emilio Bensa, Gian Pietro Chironi, Carlo Francesco Gabba, Francesco Filomusi Guelfi, Vittorio Polacco e Vittorio Scialoja. Aveva le idee chiare il Guardasigilli. Vale davvero la pena estrapolare qualche passaggio dalla sua Relazione. «La critica giuridica ha scosso alcuni cardini che parevano incrollabili, mettendo a nudo una certa sperequazione tra il codice e la realtà del mondo contemporaneo» 172,

esordiva. E proseguiva: 170 G. Unger, Sistema del diritto privato generale austriaco (1856), I, edizione italiana, G. Woditza, Zara 1877, p. 63. 171 G. Unger, Sulla revisione del codice civile universale, trad. it. a cura di F. Forlani, Vallardi, Milano 1904, p. 17. 172 Cit. in E. Cimbali, Opere complete, I, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali con proposte di riforma della legislazione, Utet, Torino 1907, p. XXIV.

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«L’istituto della proprietà, quasi astrattamente considerato, senza o con minimo riguardo alla sua funzione sociale era un errore della vecchia concezione giuridica, come era un errore della vita. […] Una massa di regole nuove scaturisce logicamente da questa tendenza oggi riconosciuta legittima, di flettere un po’ di più il diritto civile ai bisogni generali della comunanza sociale» 173.

E pure in relazione al diritto del lavoro, Gallo esprimeva idee innovative: «Il codice civile, perché civile e coraggiosamente ispirato alle vere esigenze sociali, deve contenere le massime generali che riguardano tutti i contratti e tutte le obbligazioni nelle loro forme diverse, una delle quali è quella del lavoro, salve le norme speciali che possono separatamente dettarsi» 174.

Orbene, il Ministro con queste sue parole sembrava voler accogliere il messaggio di un nuovo giurista riformatore degli anni Novanta dell’Ottocento, Luigi Tartùfari (1864-1931), che aveva sollevato con coraggio la questione del diritto del lavoro, invocando l’intervento del legislatore. Che Gallo avesse deciso di cooptare il celebre giuscommercialista Cesare Vivante (1855-1944) non deve meravigliare, se rammentiamo le due prolusioni vivantiane del 1899 e del 1902 (la prima intitolala I difetti sociali del Codice di commercio, la seconda La penetrazione del socialismo nel diritto privato, particolarmente vibrante in quanto esortò il legislatore a «limitare più sensibilmente la libertà dei contratti, per impedire gli abusi che il contraente più forte esercita spesso sul contraente più debole» 175). Nella commissione figuravano, inoltre, altri giuristi che condividevano la stessa politica del diritto, come il magistrato Oronzo Quarta o lo storico del diritto Giuseppe Salvioli (1857-1928) – per tacere di altri blasonati personaggi come Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) o Lodovico Mortara (18551937). La morte del Ministro arrestò i lavori e i Guardasigilli che gli succedettero preferirono soprassedere. Non sapremo mai se questi giuristi sarebbero riusciti a dare all’Italia un codice rinnovato. Siamo indotti a crederlo, se teniamo presente che i novatori erano in assoluta maggioranza. Dieci anni dopo, un nuovo progetto vide la luce. Partì dai giuristi e non dal legislatore questa iniziativa, e precisamente da Vittorio Scialoja nel 1916, nel bel mezzo dell’immane conflagrazione bellica. Era un testo transnazionale quello che si voleva realizzare, un progetto comune relativo alla disciplina delle obbligazioni e dei contratti italo-francese. Furono cooptati per l’Italia, ad esempio, Scialoja, Polacco, Bensa, Segré, Vivante, Simoncelli e Sraffa; per la Francia Larnaude, Capitant, Gény, Josserand e Ripert. Appariva opportuno realizzare un’opera nazionale ma non nazionalistica che diventasse il modello della civiltà

173

Ibidem. Ivi, p. XXVIII. 175 C. Vivante, Le nuove influenze sociali nel diritto privato, Pallotta, Roma 1902, p. 9. 174

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latina. Era prioritario superare il BGB giudicato «nebuloso e soverchiamente casistico», per impiegare le parole del civilista Ascoli 176. BGB, ABGB, Codice svizzero delle obbligazioni, legislazione brasiliana, americana, ungherese, sovietica furono i modelli dai quali attinsero. Non possiamo qui dilungarci a tratteggiare il contenuto di questo pur interessante progetto (esso contemplava l’azione di ingiustificato arricchimento e una disposizione in ordine all’abuso del diritto, a onor del vero ambigua, in quanto la commissione non riuscì a compiere una scelta tra il BGB, il ZGB e l’impostazione giurisprudenziale francese). Nell’economia del nostro discorso, ciò che più rileva qui è la critica avanzata contro il progetto da Emilio Betti (1890-1968). Ai suoi occhi questo tentativo di codificazione non guardava «alla realtà odierna e alle necessità nazionali». Occorreva rivolgersi al diritto civile con uno nuovo spirito, riconoscendo in particolare «un ruolo netto all’interesse sociale» 177. Certo, correva il 1930, il Progetto era stato terminato solo tre anni prima; ma non è questo il punto. Betti aveva formulato una critica che aveva preso forma già al termine del conflitto bellico. Nel 1918 il civilista Filippo Vassalli (1885-1955) aveva compreso che le provvidenze a favore degli impiegati, la determinazione di prezzi massimi, la disciplina imperativa di locazioni ed affitti non erano affatto deviazioni contingenti dai princìpi di diritto comune: «La guerra attua silenziosamente una grande rivoluzione. I civilisti avvertono pure che nulla può tornare come prima, che le leggi speciali introducono nuovi e fecondi princìpi di disciplina» 178.

Ecco: in questo contesto il progetto del codice delle obbligazioni e dei contratti italo-francese rappresentava il canto del cigno del diritto privato ottocentesco. Nulla poteva tornare come prima. Aveva detto bene Vassalli. Era iniziato adesso un nuovo secolo giuridico, il Novecento, che postulava la ridefinizione del rapporto tra diritto e società. Non possiamo svelare se l’impostazione bettiana si sarebbe imposta o se piuttosto Vassalli sarebbe riuscito a fare sintesi tra la prima e quella dogmatica di Scialoja. È qui che ha necessariamente fine il nostro percorso, chiamati come siamo a rimanere all’interno delle colonne d’Ercole del discorso giuridico ottocentesco.

176

Cit. in G. Chiodi, «Innovare senza distruggere»: il progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti, in G. Alpa e G. Chiodi (a cura), Il progetto italo francese delle obbligazioni(1927). Un modello di armonizzazione nell’epoca della ricodificazione, Giuffrè, Milano 2007, p. 58. 177 Cit. in G. Chiodi, ivi, pp. 91-97. 178 F. Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, (1918), ora in Studi giuridici, Giuffrè, Milano 1960, II, p. 339.

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12. Beati possidentes. L’individualismo proprietario del XIX secolo «Ogni titolo del codice civile costituisce lo sviluppo delle regole concernenti l’esercizio del diritto di proprietà; circostanza che dimostra che la proprietà costituisce la base di ogni legislazione, la sorgente di ogni affetto morale» 179.

Ancora: «L’origine e lo scopo della società possono compendiarsi in queste parole: avere e conservare. Gli altri diritti sono sacri, senza dubbio; ma lo sono soprattutto perché essi costituiscono la salvaguardia della proprietà» 180.

Infine: «Anche quando ci si occupa delle persone è sempre nella prospettiva di una proprietà che appartiene loro o che potrà appartenere loro. Una lettura, anche superficiale, del codice civile mostra questa verità» 181.

Abbiamo voluto dare direttamente la parola a siffatti uomini (sono coloro che illustrano il contenuto della proprietà napoleonica), perché nulla meglio di queste espressioni è in grado di restituire la mentalità di un’epoca come quella del XIX secolo. Il diritto privato ottocentesco è concepito per l’homo oeconomicus, il cittadino/suddito borghese. Come ha osservato il Rodotà, «il legislatore guarda [alla proprietà] per la definizione di ogni ulteriore rapporto» 182. Con la rivoluzione francese si compie il passaggio epocale, che si può compendiare nella formula coniata da Paolo Grossi “dalle proprietà medievali alla proprietà moderna”. Da una situazione dominativa costruita sull’oggetto ad una proprietà costruita sul soggetto. I giuristi medievali, giova ricordarlo, erano riusciti a forgiare una disciplina aderente al loro tempo, in cui era la res e non il soggetto il punto dal quale partire. Una proprietà composita, costituita dal titolare del dominio diretto (ad esempio il signore feudale) e insieme da tutti coloro che a diverso titolo avevano un rapporto con la terra 183. Erano coloro che facevano capo al dominio utile, ad esempio il feudatario o il concessionario. Si trat179

Discussion devant le Corps législatif, Discours prononcé par le Tribun Grenier, in P.A. Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code Civil, Videcoq, Paris 1827, XI, p. 158, traduzione nostra. 180 Discussion devant le Corps législatif, Discours prononcé par le Tribun Leroy, P.A. Fenet, op. cit., X, p. 669, traduzione nostra. 181 Considérations sur quelques unes des influences du Code civil, par le Tribun Sedillez, Tribunat 10 floréal an XI, p. 3, traduzione nostra. 182 S. Rodotà, La definizione della proprietà nella codificazione napoleonica, in Il terribile diritto, Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna 1990, pp. 102-103. 183 Si veda supra, cap. I, § 8.

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tava della teoria del dominio diviso che, perfezionata e modulata da Bartolo, sarebbe giunta sino all’epigono della stagione del diritto comune, Robert Joseph Pothier autore del celebre Traité du domaine de propriété 184. Taluni giusfilosofi tra Sei e Settecento, invece, primo fra tutti John Locke, fecero acquisire al termine proprietà un significato inconsueto, legato al proprium dell’individuo. «Property è, per il soggetto, la condizione dell’autoconservazione e l’oggetto dell’azione autoconservativa e coincide in sostanza con la sfera della soggettività», ha spiegato il Costa 185. Di qui la proprietà quale dominium sui, che si atteggiava quale diritto prestatuale, una concezione che in Francia sarebbe stata divulgata anche dai fisiocratici. Per converso, l’illuminista Jean-Jacques Rousseau 186 avrebbe rappresentato la proprietà come un diritto di creazione sociale, sicché, in astratto, il sovrano avrebbe potuto decretarne l’abolizione. Le due concezioni avrebbero animato il dibattito dei rivoluzionari, ma sarebbe stata l’impostazione roussoviana quella che avrebbe prevalso dal 1791 al 1804. Pure il celebre art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, la disposizione che sacralizza il diritto di proprietà, celava una doppia anima. Fu durante il dibattito all’Assemblea Costituente del 1791 che l’idea del diritto di proprietà quale istituzione sociale si impose. «La proprietà è una vera creazione sociale, poiché in generale ogni diritto deve emanare dall’autorità pubblica», avrebbe confermato sette anni dopo il giurista Cambacérès 187. Queste ultime considerazioni come si conciliano allora con quelle che abbiamo riprodotto all’inizio del paragrafo, concernenti la disciplina del diritto di proprietà nel codice napoleonico, le quali sembrerebbero trasmettere una concezione lockiana, più che roussoviana? Ebbene, l’art. 544, riprodotto integralmente nei testi preunitari e nel codice civile del 1865, si presenta meno piano di quanto si potrebbe ipotizzare ad una prima lettura. Esso dispone che «il diritto di proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso proibito dalle leggi o dai regolamenti» 188. Perché mai il legislatore napoleonico fece ricorso all’espressione nella maniera più assoluta se poi stabilì non solo che la legge, quanto piuttosto il regolamento di un Prefetto potesse incidere sul contenuto del diritto di proprietà? È qui che si realizzò il compromesso politico tra l’Imperatore e la so-

184

Si veda supra, cap. 5, § 4. P. Costa, Storia della cittadinanza in Europa, I, Dalla civiltà comunale al Settecento, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 287. 186 Si veda supra, cap. 6, §§ 4 e 5. 187 Mémoires de l’Institut national des sciences et arts. Sciences morales et politiques. Discours sur la science sociale Par le citoyen Cambacérès Lu le 7 ventôse an 6, III, Paris an VII, p. 2, traduzione nostra. Si veda supra, cap. 5, § 9. 188 Cfr. supra, cap. 5, § 10. 185

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cietà civile. Come oramai ritiene pacificamente la storiografia giuridica, con la famosa iperbole Napoleone intese rassicurare gli acquirenti dei beni nazionali, coloro cioè che a partire dal 1790 avevano acquistato i beni confiscati ai nobili, alla chiesa e agli emigrati. Sacra e inviolabile (e, beninteso, defeudalizzata) la proprietà, ma con la riserva che il suo esercizio fosse comunque sorvegliato, una tendenza che sarebbe stata rafforzata con la dirigistica legislazione sulle miniere e sull’espropriazione del 1810. Da un lato Napoleone aveva bisogno del consenso dei piccoli e medi proprietari per consolidare il suo potere, dall’altro non mostrava esitazioni affermando che il contenuto del diritto di proprietà andava circoscritto. Di qui alterni segnali, solo in apparenza contraddittori. Ora Portalis presentava pubblicamente il diritto di proprietà come un’emanazione della natura (lo stesso Portalis che nel corso e nel chiuso delle riunioni in Consiglio di Stato affermava che unicamente l’ordine sociale fondava la proprietà), ora Napoleone, parlando in terza persona, dichiarava che esistevano regole «stabilite nell’interesse della società, e che nessun proprietario poteva infrangere col pretesto che egli avesse di usare e di abusare della cosa. Per esempio, Napoleone non avrebbe tollerato che un privato lasciasse sterili venti leghe di terra destinandole a parco in una zona coltivabile a frumento» 189. Nello stesso tempo proclamava che neppure Napoleone con le sue armate sarebbe potuto entrare nel fondo di un proprietario. E invitava i suoi prefetti a «non giocare troppo con la proprietà» 190. Non deve sorprendere questo atteggiamento. Si tratta della politica del consumato condottiero: blandire e insieme reprimere. Con l’avvento della Monarchia di Luglio (1830-1848) 191, l’art. 544 sarebbe diventato il manifesto del liberalesimo (il riferimento ai limiti posti dalla legge sarebbe stato, per quanto paradossale possa sembrare, in qualche modo obumbrato). Per i socialisti tale disposizione divenne l’emblema dell’egoismo. La scienza giuridica, invece, avrebbe collocato la disposizione all’interno dell’esperienza giuridica d’antico regime, ritornando cioè a Pothier. Come ha scritto felicemente il Grossi, «al di sotto dello schermo superficiale della proprietà monolitica prosperò la convinzione erosiva che la proprietà fosse soltanto una riunione di diritti perfettamente divisibile; (…) che cosa e proprietà sulla cosa fossero per il diritto realtà separabili, rispettivamente, in dimensioni e situazioni autonome» 192. Indubbiamente un’interpretazione contra codicem. E questo fu un atteggiamento che caratterizzò la civilistica francese lungo tutto il secolo. Anche i 189 Discussions du Conseil d’Etat. Séance du 3 février 1810, tenue aux Tuileries, sous la présidence de Napoléon, in J.-G. Locré, Législation civile, commerciale et criminelle ou Commentaire et complément des Codes Français, Tarlier, (ed. Bruxelles) 1836, IV, p. 370. 190 Loi du 8 mars 1810, Sur les expropriations pour cause d’utilité publique, qui contient les développements de l’art. 545, nel cit. J.-G. Locré, IV, p. 485. 191 Si veda supra, cap. 6, § 6. 192 P. Grossi, Tradizioni e modelli nella sistemazione post-unitaria della proprietà, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 5-6 (1976-77), p. 228.

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giuristi tradizionalisti italiani, chiamati a commentare il codice civile del 1865, da Pacifici Mazzoni a Bianchi, si posero lungo la loro scia. Paradossalmente, nei territori sottoposti al dominio austriaco si registrò lo stesso fenomeno. Con una macroscopica differenza, tuttavia. Era stato il legislatore l’artefice del pastiche giuridico, se mi si passa l’espressione. Pastiche, e cioè giustapposizione, poiché mentre il § 354 stabilendo che «la proprietà considerata come diritto è la facoltà di disporre a piacimento e ad esclusione di ogni altro della sostanza e degli utili di una cosa» non sembrava così distante dall’art. 544 napoleonico, il § 357 disponeva che «il diritto sulla sostanza della cosa congiunto in una sola persona col diritto sugli utili è proprietà piena e indivisa. Se ad uno compete soltanto il diritto sulla sostanza della cosa, e ad un altro con un diritto sulla sostanza il diritto esclusivo sugli utili di essa, il diritto della proprietà si ritiene diviso e non pieno sì per l’uno che per l’altro. Il primo si chiama proprietario diretto, il secondo proprietario utile». Una scissione, accolta del resto anche nel Codice di Parma, Piacenza e Guastalla del 1820, che sarebbe stata utilizzata da Rosmini, per distinguere tra la proprietà e il diritto di proprietà, fra la dimensione individuale e quella sociale. Furono i giuristi pandettisti tedeschi, a partire da Puchta, a ricondurre la proprietà al modello sociopolitico individualistico (pur enunciato nel Code civil): essa sarebbe stata visualizzata come totalità di poteri del soggetto sulla cosa, quale «entità logicamente incomunicabile con gli altri diritti reali» 193 (di qui il concetto di elasticità del dominio). Giusta l’influenza della Rechtwissenschaft, in Italia venne abbandonata la teoria dello smembramento, che aveva condotto a rappresentare il sistema dei diritti reali come «una graduazione di istituti diversi sì per latitudine e per intensità, ma senza salti logici fra un grado e l’altro, ma anzi in una sorta di legame osmotico fra essi» 194. Ascoltiamo un Chironi compiaciuto: «Il concetto di proprietà non risulta dalla somma o dalla interezza di quanti diritti speciali (poteri) si possano esercitare sulla cosa: non è un prodotto nella cui composizione questi diritti si possano scernere come elementi distinti, ed è solo il potere assoluto ed esclusivo, che abbraccia, investe tutta la cosa. Certo, si possono su questa consentire ad altre persone poteri in forza dei quali il diritto del proprietario perde di estensione: ma essi non esistono come se staccati dalla proprietà riabbiano vita indipendente, e costituiscono degli oneri gravanti la proprietà, il cui concetto, la cui esistenza ne è necessariamente supposta e che col cessare di essi ridiventa libera, riottiene la estensione primitiva» 195.

Ed infine la valutazione di Biagio Brugi, in guisa di epigrafe tombale:

193

Ivi, p. 322. Ivi, p. 230. 195 G.P. Chironi, Istituzioni di diritto civile italiano, I, Fratelli Bocca, Torino 1888, pp. 205-206. 194

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«A mio avviso la distinzione di proprietà perfetta e imperfetta, oltre che contraria alla legge, è scientificamente errata e inutile, se non dannosa in pratica» 196.

Ritorniamo al discorso dei limiti al diritto di proprietà ai quali si era fatto riferimento illustrando la norma napoleonica. Nella letteratura giuridica francese e italiana fino agli anni Ottanta, la questione principale fu individuata nell’espropriazione per causa di pubblica utilità, che venne affrontata entro la stessa angolatura, ossia quella di una sottomissione dell’interesse privato in favore di quello pubblico. Nelle sole ricostruzioni di Bianchi e di De Filippis emerse una prospettiva diversa. «Il principio giuridico giustificante l’espropriazione consiste […] – scrisse Bianchi – nel diritto appartenente alla società civile di compiere quanto sia richiesto dall’interesse generale, non ostante la resistenza che i privati oppongano invocando gli attributi del loro diritto di proprietà» 197.

Ispirandosi a Laurent, Bianchi postulò l’identificazione di una «posizione giuridica di diritto in capo alla società civile» sicché «lo Stato-soggetto, personificazione della società civile, avrebbe potuto esercitare tale diritto nei confronti del privato» 198. Si trattò di una tendenza che assunse gradualmente maggiore consapevolezza e robustezza ben addentro l’Ottocento. E con ciò non intendiamo tanto riferirci a Cimbali, che, pur avendo compreso la necessità di individuare dei limiti alla proprietà 199, non si spinse oltre. Fu il germanista Gierke nel 1889 a trattarne diffusamente 200. Ai suoi occhi la concezione romana della proprietà «come di un diritto assoluto e illimitato» avrebbe dovuto lasciar spazio a quella germanistica, «che ritiene la proprietà come un diritto relativo che contiene in se stesso, e non solo riceve dall’interno, la propria limitazione». «La proprietà non ha più da servire unicamente all’interesse egoistico dell’individuo; ma sì bene deve essere ordinata nell’interesse di tutti», concluse 201. Anche Saleilles, in occasione del convegno del 1904 202, invitò a rileggere l’art. 544 del Code civil in relazione al mutato contesto politico e sociale, negli stessi termini in cui il legislatore svizzero si era espresso nell’Avamprogetto: «Il proprietario di una cosa ha il diritto di disporne liberamente nei limiti della legge». 196

B. Brugi, Della proprietà, I, Marghieri, Napoli-Torino2 1918, p. 61. F.S. Bianchi, Corso di codice civile italiano, IX.1, Utet, Torino 1895, p. 1078. 198 E. Fusar Poli, “La causa della conservazione del bello”. Modelli teorici e statuti giuridici per il patrimonio storico-artistico italiano nel secondo Ottocento, Giuffrè, Milano 2006, p. 120. 199 Cfr. supra, § 9c. 200 Cfr. supra, § 10. 201 O. von Gierke, Die soziale Aufgabe des Privatsrechts, Springer Berlin Heidelberg, Berlin 1889, traduzione nostra. 202 Cfr. supra, § 11. 197

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L’immane evento bellico avrebbe certo reso ancora più evidente questo aspetto (attraverso le norme sui consorzi obbligatori, solo per limitarci ad un esempio) ma fu il legislatore tedesco della Repubblica di Weimar a scolpire nella Costituzione del 1919 che «la proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune» (art. 153).

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VIII VERSO UN NUOVO ORDINE di Giuseppe Speciale SOMMARIO: 1. La lunga transizione dall’Unità al secondo dopoguerra. – 2. L’Italia unita nel nuovo regno: a) la monarchia costituzionale; b) i codici; c) le leggi speciali, la decretazione d’urgenza, il giurista e l’ordinamento policentrico. – 3. La rappresentanza politica e la giustizia amministrativa: a) il Consiglio di Stato; b) i sistemi elettorali; c) la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione. – 4. L’impatto del positivismo sulla scienza giuridica: a) la questione del metodo; b) le critiche ai codici; c) i progetti per la modernizzazione del Paese. – 5. Il fascismo, sub specie historiae iuris. Fare i conti con un ventennio ingombrante. – 6. La transizione, la Costituzione e il ritorno alla democrazia. – 7. Il contratto di lavoro.

1. La lunga transizione dall’Unità al secondo dopoguerra Il nostro itinerario inizia con la nascita dello Stato unitario nel 1861 e si conclude, dopo oltre un secolo, con la progressiva affermazione, irta di ostacoli, di un nuovo soggetto sovranazionale: l’Unione Europea. Ciascun segmento che compone la linea della storia d’Italia che qui si prova a tratteggiare segna un passaggio, una transizione: dagli Stati preunitari allo Stato unitario, sino allo Stato aderente all’Unione Europea; dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare, dallo Stato monarco-fascista alla Repubblica; dai governi delle élites ai governi dei partiti di massa; dal Paese ad economia prevalentemente agricola (sino al 1951) al paese industriale (dal 1951 al 1971) e poi postindustriale (dal 1972). La popolazione cresce dai 22 milioni del 1861, ai 33 milioni del 1901, ai 47,5 milioni del 1951, ai 57 milioni del 2001. L’analfabetismo che nel 1861 affligge più dell’80% della popolazione femminile e quasi il 70% di quella maschile, si riduce progressivamente (poco più del 50% e del 40% nel 1901, del 15% e del 10% nel 1951) fino a scomparire quasi del tutto alla fine del secolo XX. La lira perde il potere di acquisto con impressionanti punte di inflazione negli anni della prima e della seconda guerra mondiale. Intorno alla fine degli anni Ottanta del Novecento il Paese comincia ad abbandonare il sistema di economia mista che aveva sperimentato sin dagli anni Trenta e aveva adottato negli anni

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della ricostruzione postbellica e che aveva costituito il modello economico intorno al quale si era realizzato il più alto grado di sviluppo della storia d’Italia, pur con le scandalose distorsioni che alla fine condussero a Tangentopoli e con gli irrisolti squilibri sociali tra nord e sud. Dalla metà dell’Ottocento, la società diventa fruitrice, e anche obiettivo, dei mezzi di comunicazione di massa, importanti per la formazione e il controllo dell’opinione pubblica; assiste alla progressiva affermazione della donna in campi della vita sociale che prima le erano preclusi; conosce fenomeni di emigrazione verso l’estero e verso le regioni interne più avanzate, imposti dalla necessità di trovare condizioni di vita migliori rispetto a quelle offerte da un Meridione bloccato dalla presenza del latifondo e su cui gravano anche i costi sostenuti dal Paese per la modernizzazione e per le guerre. Ciascun segmento è caratterizzato da una sua propria dimensione giuridica, che riflette gli interessi, le mentalità, le credenze, i rapporti di forza che agitano la società del tempo. A ciascun passaggio, al superamento di un regime, all’approdo a un nuovo assetto istituzionale, si accompagna un intervento legislativo che si fonda, talvolta, anche su un giudizio storico sul regime passato: si pensi, solo a titolo esemplificativo, alla fascistizzazione dello Stato operata negli anni del regime mussoliniano e alla defascistizzazione dello Stato attuata nell’Italia postbellica; alla persecuzione dei dissidenti antifascisti e alle leggi razziali del regime fascista e alla epurazione dei responsabili dei crimini fascisti e alla legislazione risarcitoria in favore dei perseguitati politici e razziali del secondo dopoguerra; alla esclusione delle donne da alcuni ambiti lavorativi e alla successiva ammissione e alla eventuale previsione di quote rosa, ecc. Spesso gli strumenti tecnico-giuridici utilizzati mal si adattano a conseguire gli effetti voluti. Per sancire e sostenere i nuovi assetti, frutto di rivolgimenti quando non di rivoluzioni vere e proprie, si devono fare i conti con strutture e mentalità consolidate, restìe al cambiamento per ragioni ideologiche o opportunistiche o per convinta fedeltà alla bontà della tradizione. In un intricato groviglio tra continuità e discontinuità, le transizioni impegnano legislatori, interpreti, giudici a formulare istituti, regole, principi e schemi retorici nuovi. Regole radicalmente nuove o anche eccezionali, adottate e sperimentate nelle transizioni, finiscono non di rado per affermarsi poi come ordinarie e interi corpi normativi, i cui tratti essenziali riflettono il contesto ordinamentale in cui sono stati fondati, continuano a essere vigenti anche quando quel contesto è completamente mutato. Si pensi a figure e princìpi del codice di commercio del 1882, destinati ai soli mercanti, riproposti nel codice civile del 1942 per tutti i soggetti dell’ordinamento; oppure ai codici del periodo fascista (codice penale e di procedura penale del 1930; codice civile e di procedura civile entrati in vigore il 21 aprile 1942), tuttora in vigore (ad eccezione del codice di procedura penale sostituito dal nuovo nel 1988), grazie anche alla funzione svolta dalla Corte Costituzionale a partire dal 1956. Sul piano interno, alla monarchia costituzionale, fondata sullo Statuto alber-

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tino del 1848 1, ottriato e precedente alla nascita dello Stato unitario, succede lo Stato fascista con le sue radicali riforme che rivoluzionano l’originaria architettura dello Stato. Dopo la caduta del fascismo e la tragedia della seconda guerra mondiale, alla monarchia – agonizzante, ma ancora viva –, con il plebiscito del 1946, il popolo italiano, per la prima volta con il suffragio universale esteso anche alle donne, sceglie di sostituire la Repubblica. La Costituzione, che entra in vigore il 1° gennaio 1948, rovescia i capisaldi dello Stato fascista e si fonda dichiaratamente su una concezione “afascista” (Dossetti 2), ancor prima che “antifascista”, che pone al centro dell’ordinamento la persona, le formazioni sociali e i diritti. Lo sgretolamento del blocco sovietico sul finire degli anni Ottanta del secolo XX si riflette sugli equilibri geopolitici fissati a conclusione della seconda guerra mondiale e si ripercuote anche sul sistema politico italiano segnando la fine della cosiddetta conventio ad excludendum: per circa un cinquantennio, infatti, il Partito Comunista Italiano, pure forte nella società e nel parlamento nazionale, e nonostante il fondamentale e imprescindibile contributo dato nella fase costituente, era stato formalmente escluso, per ragioni imposte dagli equilibri geopolitici postbellici, dalle compagini del governo nazionale, sebbene governasse direttamente importanti regioni del Paese e negoziasse le decisioni di maggior rilievo soprattutto negli anni tormentati dall’imperversare del terrorismo che, alimentato, probabilmente, anche da forze esterne al Paese, impose importanti scelte sul piano politico e legislativo. Sul piano internazionale, ed europeo in particolare, il crollo del sistema sovietico accelera e rafforza il difficile cammino verso un’unione politica dell’Europa intrapreso già all’indomani della guerra: alle istituzioni comunitarie che dopo il secondo conflitto mondiale hanno realizzato importanti spazi di scambi commerciali e di cooperazione, ma che erano legittimate solo dai governi dei Paesi aderenti, si sostituiscono organi e istituzioni che, sia pure con una sovranità assai limitata, almeno all’inizio, sono ora legittimati dall’elezione popolare. L’elezione del Parlamento europeo, per la prima volta scelto dagli elettori dei paesi membri nel 1975, ha creato un legame diretto tra gli elettori e l’organo europeo, ma l’Unione continua a svolgere solo le funzioni che le sono delegate dagli Stati che la compongono. In questo contesto, le Corti costituzionali dei singoli Stati possono svolgere un significativo ruolo nel processo di integrazione, accelerandolo o ostacolandolo, assegnando ora la prevalenza al diritto nazionale su quello europeo, ora la prevalenza del diritto europeo su quello nazionale. Alcune Corti assumono atteggiamenti e seguono orientamenti più filoeuropei, altre sono più chiuse in una dimensione nazionale e trascurano che il contenuto 1

Si veda supra, cap. VI, § 7. Giuseppe Dossetti (1913-1996), giurista, importante esponente della Democrazia Cristiana, tra i protagonisti dei lavori all’Assemblea Costituente. Nel 1958 abbandonò la politica e l’università e nel ’59 fu ordinato sacerdote. A quegli anni risale anche la costituzione della comunità monastica di Monte Sole (Monteveglio). 2

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dei trattati e la legittimazione popolare di cui gode il parlamento conferiscono all’Unione un potere che è autonomo e non può ridursi e considerarsi solo come delegato e derivato dagli Stati. L’unione monetaria e la cessione del controllo della politica monetaria da parte degli stati membri all’organismo comunitario segnano un passaggio importante verso l’unione politica, ma nello stesso tempo evidenziano il deficit di legittimazione democratica di alcune istituzioni dell’Unione. Le norme dell’Unione molto più che in passato agiscono ora direttamente sulla vita dei cittadini europei e spesso sono il segno di un nuovo diritto, punto d’incontro e di commistione delle tradizioni di Civil Law e di Common Law. La globalizzazione del mercato dei beni e dei capitali, la rapidità e la forza con cui il gigante cinese si impone sul mercato mondiale, l’emergenza ambientale esasperata da uno sviluppo privo di regole, la distribuzione mondiale della ricchezza che spinge masse di diseredati verso il vecchio continente e la necessità di assicurarsi fonti di energia imporrebbero un’accelerazione verso un’unione politica, almeno della difesa e della politica estera e del bilancio, che tarda a raggiungersi per l’egoismo e la concorrenza che dividono gli Stati. Nonostante l’Unione, pur incompiuta, abbia conseguito risultati importanti, dando luogo ad uno spazio europeo comune che ha garantito, tra l’altro, la pace nel continente per un lungo periodo, il proseguimento e il compimento del processo di unificazione sono ostacolati da diversi fattori: la politica economica dell’Unione, preoccupata della stabilità dei bilanci dei singoli stati, impone vincoli e limiti che sono avvertiti dai cittadini come inaccettabili e come segno della sordità e della lontananza delle istituzioni europee ai loro bisogni. Questo malcontento alimenta forze politiche che nei singoli paesi si ispirano a forme neonazionaliste che si battono, talvolta con successo, per l’uscita dei singoli stati dall’Unione (nel 2016 con un referendum il Regno unito ha scelto di “lasciare” l’Unione). Nonostante queste difficoltà, però, un nuovo sentimento di appartenenza all’Europa, soprattutto tra le nuove generazioni, sembra ormai essersi diffuso e consolidato: la visione e il progetto di Adenauer, De Gasperi, Monnet, Schuman, Spinelli – solo per citare alcuni degli statisti che hanno lavorato per costruire l’Unione – sono diventati un patrimonio comune dei giovani europei. Ma è necessaria e improcrastinabile una correzione di rotta degli indirizzi di politica economica se si vuole arginare il rischio di disgregazione. Nello stesso tempo, e non solo in Europa, emergono e conquistano la fiducia dei cittadini organizzazioni non governative strutturate e attive in diversi Paesi, nate dall’iniziativa di privati per fronteggiare le emergenze umanitarie. Se l’azione di tali enti è benemerita e lodevole, la loro stessa esistenza, il successo riscosso e la crescente credibilità mostrano la parziale inadeguatezza, o comunque il non pieno successo, degli organismi e degli strumenti che gli Stati hanno predisposto per il perseguimento degli stessi scopi. Gli anni a cui queste pagine sono dedicate sono interessanti anche per chi guardi al rapporto tra la scienza giuridica e le altre scienze. Si consideri l’im-

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patto che il positivismo ottocentesco, la teoria della relatività del primo Novecento, gli esperimenti di manipolazione genetica iniziati già negli anni Venti, le nuove scienze informatiche hanno avuto nell’ampliamento delle conoscenze del genere umano, con le ricadute economiche, sociali, culturali. La scienza giuridica è chiamata a fare i conti con queste scoperte, non solo per disciplinarne le applicazioni pratiche che hanno inciso sull’assetto complessivo della società, ma anche, come vedremo più avanti, per le importanti ricadute sullo statuto metodologico della stessa scienza giuridica.

2. L’Italia unita nel nuovo regno: a) la monarchia costituzionale Come si è detto, il nostro itinerario muove dalla nascita dello Stato unitario. Nel 1860 i ducati di Parma e Modena, il Granducato di Toscana, il Regno delle due Sicilie e le Legazioni pontificie di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì scelsero con i plebisciti di unirsi alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II; seguirono i decreti di annessione al Regno d’Italia. Il 18 febbraio del 1861 si tenne la prima seduta della VII legislatura della Camera dei deputati del Regno di Sardegna: i 443 deputati che rappresentavano le aree del Paese che avevano votato per l’unificazione (in cui vivevano circa 22 milioni di abitanti) furono eletti da meno di 250.000 elettori sui 420.000 aventi diritto, perché molti non esercitarono il diritto di voto, a causa soprattutto del pressante invito all’astensione rivolto in modo capillare dalla gerarchia cattolica. Requisito per l’elettorato attivo, comunque spettante solo ai cittadini ultraventicinquenni di sesso maschile, era il possesso di un reddito superiore alle 20 o alla 40 lire annue, a seconda delle regioni, o di un reddito superiore alla metà di detto limite, ove si trattasse di laureati, notai, ufficiali in congedo. Il 17 marzo 1861, nella Gazzetta Ufficiale, da quel giorno intitolata Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, venne pubblicata la legge, formalmente ancora del Regno di Sardegna, n. 4671: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di re d’Italia». Il territorio del Regno si allarga nel 1866 anche alle regioni del Lombardo Veneto, fino a quel momento facenti parte dell’Impero austro-ungarico; alla fine della prima guerra mondiale al Trentino, all’Alto Adige, all’Istria, alla Venezia Giulia, a Zara; nel 1924 a Fiume. Più complessa, e confusa, è l’estensione territoriale del Regno ai territori d’oltremare. Le mire coloniali iniziano già nei decenni immediatamente successivi all’Unità: Eritrea, Libia, Somalia, isole dell’Egeo, Etiopia, Albania, la piccola concessione di Tien Tsin in Cina e una assai limitata area dell’Anatolia costituiscono i possedimenti verso cui l’Italia mirò per realizzare un impero coloniale tra il 1880 e la seconda guerra mondiale, con una politica che ne rivela la debolezza nel confronto con le altre potenze europee (Francia e Gran Bretagna in primo luogo). Nel Regno d’Italia, secondo lo Statuto Albertino, il potere legislativo è «collettivamente esercitato dal re e da due Camere: il Senato, e quella dei Deputati»

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(art. 3 Statuto). La Camera dei deputati è eletta a suffragio censitario maschile fino all’introduzione del suffragio quasi universale maschile nelle elezioni del 1913 (gli elettori aumentano da 2.500.000 a 8.500.000, sono esclusi gli analfabeti, i disoccupati e i nullatenenti) 3. Il Senato è composto da membri nominati «in numero non limitato» dal re, ma nei fatti proposti dal governo: i senatori devono aver compiuto i 40 anni di età e devono essere scelti tra le 21 categorie elencate nell’art. 33 dello Statuto (tra gli altri: arcivescovi e vescovi; deputati; ministri; ambasciatori; alti magistrati e alti ufficiali; membri della Regia Accademia delle Scienze; coloro che con servizi o meriti eminenti illustrano la Patria; persone, che da tre anni pagano tremila lire d’imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria). La proposizione delle leggi spetta al re ed a ciascuna delle due Camere. Però ogni legge d’imposizione di tributi, o di approvazione dei bilanci e dei conti dello Stato, deve essere presentata prima alla Camera dei Deputati» (art. 10 Statuto). Al re, e a ciascuno dei due rami del Parlamento, si riconosce un diritto di veto: perciò se un progetto di legge è stato rigettato da uno dei tre poteri legislativi, non potrà essere più riprodotto nella stessa sessione (art. 56 Statuto). Per lo Statuto Albertino al re solo – la cui persona «è sacra ed inviolabile» (art. 4 Statuto) – appartiene il potere esecutivo. Il re è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere quando l’interesse e la sicurezza dello Stato lo consentano. I trattati che comportino un onere alle finanze, o una variazione del territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo aver ottenuto l’assenso delle Camere (art. 5 Statuto). Anche il potere giurisdizionale è del re a cui spetta anche istituire i giudici (art. 68 Statuto). L’ordine giudiziario è regolato dalla legge; nessuno può essere distolto dal giudice naturale che è garantito dalla inamovibilità e non si possono istituire tribunali o commissioni speciali (artt. 69-71 Statuto). Il Regno d’Italia può considerarsi, almeno ai suoi esordi, una monarchia costituzionale, in cui il re governa attraverso un suo fiduciario, il Presidente del Consiglio, e in cui l’eventuale sfiducia del Parlamento nei confronti del Presidente del Consiglio è irrilevante. Gradualmente nella prassi costituzionale si impongono procedure che sono più proprie della monarchia parlamentare: in più di un caso, infatti, ben prima dell’avvento del fascismo, la sfiducia della Camera dei deputati conduce alle dimissioni del Capo del Governo. I governi, per assicurarsi l’appoggio politico del Senato, tendenzialmente più conservatore della Camera dei deputati legittimata dalle elezioni, promuovono nuove nomine di senatori (“infornate”), secondo una tendenza affermatasi già nel Regno di Sardegna negli anni immediatamente precedenti la costituzione del Regno d’Italia. Tra il 1852 e il 1861 Cavour – da Presidente del Consiglio del Regno di Sarde-

3

Cfr. supra, cap. VI, § 7.

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gna prima, e del Regno d’Italia dopo – promuove la nomina di più di 100 senatori. La monarchia costituzionale, così, si comincia a disegnare nella prassi come una monarchia parlamentare in cui la forza del governo risiede non più solo nella nomina regia, ma anche nella fiducia dei due rami del parlamento. Il nuovo stato, come vedremo più avanti 4, deve misurarsi con la mole di problemi che già affliggevano gli Stati preunitari e con quelli nuovi che dall’unificazione nascono. Occorrono soluzioni per guarire la piaga del diffuso analfabetismo, per ridurre e limitare il latifondo, combattere il brigantaggio, organizzare la pubblica assistenza, modernizzare lo stato.

b) i codici La prima stagione codificatoria cade nel primo decennio di vita del neonato regno. Nel 1865 entrano in vigore il codice civile, il codice di procedura civile, il codice della marina mercantile, il codice di commercio, il codice penale e il codice di procedura penale. I primi tre sono di nuova formazione; gli ultimi tre, nella sostanza già vigenti nel Regno di Sardegna, vengono ora estesi a tutto il territorio dello Stato (con la significativa eccezione del territorio coincidente con quello del Granducato di Toscana, in cui continua a vigere il codice penale del 1853, dal quale era stata espunta la pena di morte). Per accompagnare il processo di unificazione normativa e assicurare un’efficace funzione nomofilattica, si istituiscono 5 sedi per la Corte di Cassazione – istituita nel Regno di Sardegna nel 1848 sul modello francese –, a ciascuna delle quali la legge assegna la giurisdizione per i territori già appartenuti agli stati preunitari: Torino (Regno di Sardegna e Lombardo Veneto), Firenze (Granducato di Toscana e i vari ducati), Roma (Stato pontificio), Napoli e Palermo (Regno delle due Sicilie). Nel 1888 si sopprimono le sezioni penali delle cinque sedi e si attribuisce la relativa competenza alla sola sezione romana. Solo nel 1923 la Corte si unifica nella Corte Suprema di Cassazione, con unica sede a Roma e giurisdizione per l’intero territorio del Regno. Segue una seconda stagione codificatoria con il nuovo Codice di commercio (R.D. 31 ottobre 1882, n. 1062) e il nuovo Codice penale (R.D. 30 giugno 1889, n. 6133) entrati in vigore, rispettivamente, nel 1883 e nel 1890. Su questi due codici merita di fermare l’attenzione: sul codice di commercio perché la conoscenza delle vicende che ne accompagnarono la formazione e delle critiche che furono sollevate può fornire utili strumenti per la comprensione di alcuni aspetti del diritto dell’età della globalizzazione. Sul codice penale, almeno per porre in evidenza alcune cesure rispetto al passato: l’abolizione della pena di morte e il tentativo di tipizzazione del concorso di persone nel reato. Ma qui è opportuno sottolineare la crescente importanza, su cui torneremo più

4

Infra, § 4.

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avanti 5, che accanto ai codici, proprio a partire dai decenni immediatamente successivi all’Unità, cominciano ad assumere le leggi speciali, cioè quelle leggi che integrano l’ordinamento al di fuori dei codici. Il Codice di commercio sostituiva quello in vigore dal 1865, esemplato su quello piemontese del 1859 e ispirato, al pari di quest’ultimo, al Code de Commerce francese del 1807. In Francia, all’inizio del secolo, e in Germania, ancora prima dell’unificazione politica tedesca, si era discusso intorno alla necessità e all’opportunità di un codice di commercio distinto dal civile, in ragione dei soggetti a cui si riferiva, cioè commercianti e imprenditori, o in ragione della natura degli atti – relativi all’esercizio del commercio o dell’impresa – che disciplinava. Proprio illustrando al corpo legislativo il primo libro del Code de commerce del 1807, il consigliere di stato Regnaud de Saint Jean d’Angely (1761-1819) ne aveva posto in risalto la rilevanza universale affermando che al Code de Commerce si assegna un destino più vasto che non al Code civil e sottolineando che il codice di commercio dell’Impero francese è redatto secondo princìpi che gli danno un’influenza e una rilevanza universale, princìpi adatti a tutte le nazioni, in armonia con le grandi consuetudini commerciali. Regnaud così esprime lucidamente il carattere della universalità del diritto commerciale, cioè la sua asserita attitudine ad espandersi, come diritto uniforme, oltre ogni confine nazionale. Il codice di commercio tedesco del 1861, valido anche per i territori austriaci, rivela ancora più chiaramente anche un’altra importante e imprescindibile funzione del codice di commercio: quella di strumento dell’espansione economica (in questo caso della Germania su tutta l’area). Del resto, tutta l’esperienza storica dell’età medievale e, sia pure in misura minore, dell’età moderna, aveva dimostrato il carattere tendenzialmente universale e transnazionale delle regole che i mercanti si erano dati per la gestione dei traffici commerciali: la tendenziale universalità del complesso di regole preposte al governo del mercato corrispondeva al carattere tendenzialmente universale del mercato, restìo a farsi arginare entro i ristretti confini territoriali degli ordinamenti particolari. E a proposito dell’universalità, deve sottolinearsi come il diritto commerciale si presenti come la più separata fra le partizioni del diritto, staccato dalle realtà politiche nazionali e aggregato a una entità puramente economica, quale è il mercato. È una separazione che va oltre quella del diritto privato: non v’è solo una separatezza della società civile rispetto alla società politica (alla base delle tradizionali concezioni dell’intero diritto privato). C’è ancor più la visione di una autonoma società economica separata dalla stessa società civile. Significativa sotto quest’ultimo profilo, e prova del carattere tendenzialmente universale del diritto commerciale, è anche la vicenda inglese: nell’ambito del diritto commerciale nell’Inghilterra bassomedievale non si riscontrano differenze sostanziali, o comunque paragonabili a quelle esistenti nell’ambito del diritto civile, tra le re-

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Cfr. infra, § 2c.

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gole della lex mercatoria vigenti nella Gran Bretagna del Common Law e quelle vigenti nell’Europa continentale di Civil Law. Semplificando, si può affermare che il diritto commerciale europeo, di origine italiana, è recepito in Inghilterra, terra di Common Law, e che solo nei secoli XVII e XVIII viene fuso e inquadrato nella Common Law (a una prima sistemazione inglese del diritto commerciale provvede Gerard de Malynes nel 1622). Tullio Ascarelli (1903-1959) sintetizza la vicenda storica del diritto commerciale richiamando il fenomeno che frequentemente si realizza nell’esperienza giuridica: agli istituti del diritto tradizionale si affiancano istituti che concorrono con quelli fino a costituire eventualmente un diritto speciale, nella sua organicità, nei confronti del diritto comune. «Quando si parla, in relazione a tale diritto, di equità, l’espressione non vale giustizia del caso concreto o regola di un diritto sociale in contrapposizione allo statale, ma emersione, dapprima limitata e, poi, storicamente sempre più ampia, di nuove valutazioni e nuovi principi, invocati dapprima supplendi vel corrigendi gratia il diritto tradizionale e poi in modo sempre più ampio, finché nello sviluppo storico, regole dapprima dette eccezionali, poi sistematizzate come diritto speciale, non arrivano esse a costituire il diritto generale e comune nei cui confronti le contrastanti regole del vecchio diritto tradizionale finiscono per assumere a volte quasi il carattere di relitti storici, di fronte a un sistema ormai generalmente ispirato a quelli che all’inizio dello sviluppo erano temperamenti equitatitivi» 6.

Ius civile e ius honorarium nel diritto romano; common law ed equity nella common law: la dicotomia assolve a una precisa funzione, conciliare la rigidità, che è anche certezza, del diritto comune, con la necessità di duttilità e adeguamento. La distinzione tra gli istituti del sistema tradizionale e gli istituti che concorrono con quelli permette di «conciliare l’adozione di nuovi principi con un cammino lento e sperimentale, che dà modo di saggiare il ius novum, introducendolo dapprima in alcuni settori e poi in altri, ammettendo sì, in via astratta, una sua generale applicabilità e forza di espansione, ma applicandolo inizialmente solo là dove ne è più vivo il bisogno. È così il tempo che permetterà la lenta espansione di principi che possiamo storicamente dire speciali (appunto perché la loro applicazione è limitata a un ambito determinato, pur essendo, in linea di principio possibile in un ambito generale, …)» 7.

Tali principi poi si stabilizzano ed estendono la loro portata fino a fondersi nel sistema generale. Per rimanere nel nostro ambito valga l’esempio dell’art. 1341 cod. civ. 1942: nei fatti, solo il grande imprenditore dispone di condizioni

6 T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Introduzione e teoria dell’impresa, Giuffrè, Milano 19623, pp. 1-2. 7 Ivi, pp. 2-3.

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generali di contratto, ma la norma è rivolta a tutti e l’efficacia delle condizioni generali è subordinata alla mera conoscibilità delle stesse. Se si guarda all’esperienza storica da un altro punto di vista, ci si accorge che il diritto commerciale, pur destinato ai soli mercanti, è gravido di ricadute nelle sfere dei diritti di coloro (anche non mercanti) che coi mercanti, direttamente o indirettamente, entrano in contatto. Per la sua specialità il diritto commerciale può essere visto come una sorta di privilegio accordato a una cerchia di soggetti. I due caratteri dell’universalità e della specialità del diritto commerciale devono fare i conti con la pretesa dello Stato nazionale di assorbire ed esaurire in se stesso tutti i canali di produzione delle norme e con i principi dello stato liberale che mal tollerano trattamenti discriminanti: sul punto si fronteggiano due mentalità, quella dei giuristi che vogliono limitare la specialità del diritto commerciale a pochi istituti, sostenendo anche che l’interesse dei commercianti non coincida con l’interesse di tutti i cittadini e quelle dei giuristi che ritengono, al contrario, che l’interesse dei mercanti coincida con l’interesse generale dei cittadini. Tutti, poi, sono pienamente consapevoli che le regole speciali favoriscono una più rapida ed efficace circolazione dei beni. Il diritto commerciale è funzionale allo sviluppo dell’impresa: l’eventuale sacrificio delle posizioni giuridiche individuali (di commercianti e non commercianti) è finalizzato alla tutela del mercato e alla sua efficienza. All’indomani dell’entrata in vigore del codice (1883) continuano a confrontarsi due correnti di pensiero: chi vuole conservare un’autonomia del diritto commerciale, chi vuole unificare il diritto civile e commerciale. Levin Goldschmidt (1829-1897) è convinto che alla natura cosmopolita del commercio, il quale tende a una economia mondiale con divisione internazionale del lavoro, corrisponde la pronta formazione internazionalmente uniforme del diritto commerciale e una conseguente continuità sorprendente dello sviluppo giuridico 8. Uniformità e continuità si fondano sull’indole propria del ceto commerciale che è senza tempo né patria. Il diritto commerciale altro non è se non la sovrastruttura legale dell’economia di scambio, immancabilmente presente in ogni economia basata sullo scambio. Questa visione è fortemente contrastata da Cesare Vivante (1855-1944), che vede nella specialità una lesione dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e auspica l’unità del diritto privato e l’integrazione del diritto commerciale nel diritto civile, all’interno di una società equilibrata in cui gli interessi del ceto commerciale siano coordinati con quelli degli altri ceti. È opportuno guardare più da vicino ad alcune delle obiezioni di Vivante che vuole una unificazione del diritto privato: a) il codice di commercio non tutela i cittadini, anzi li espone ai soprusi dei grandi mercanti a misura dei quali è disegnato il codice stesso; b) il legislatore ha delegato ai commercianti una parte del proprio

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L. Goldschmidt, Universalgeschichte des Handelsrechts, Enke, Stuttgart 1891 (trad. it. Storia universale del diritto commerciale, Utet, Torino 1913).

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potere legislativo attribuendo valore di legge agli usi commerciali nei rapporti tra i commercianti e tra questi e quanti (commercianti e non) contrattino con essi; c) la duplicazione della codificazione nuoce all’esercizio della giustizia, perché, a parte i problemi di competenza, venuti meno con la soppressione dei tribunali commerciali, resta sempre aperto e gravoso il problema di determinare se le controversie riguardino atti di commercio e debbano essere risolte secondo il codice di commercio oppure no. Quando con il codice civile del 1942, nello Stato fascista modellato sulla Carta del Lavoro 9, si giungerà all’unificazione del diritto privato, il legislatore riserverà nel quinto libro del codice civile ampio spazio all’impresa, l’entità che si è prepotentemente affermata già dal finire dell’Ottocento. L’unificazione del diritto privato sarà attuata attraverso una sorta di commercializzazione del diritto privato, cioè attraverso l’estensione, per la più rapida e agevole circolazione dei beni, a tutti i soggetti (anche non commercianti) e a tutti gli atti (anche non di commercio), di alcuni princìpi e istituti riservati, nella vigenza del codice di commercio, ai soli atti di commercio o a quelli in cui interviene un commerciante. Nell’ambito della seconda stagione codificatoria, il nuovo codice penale – presentato da Zanardelli alla Camera dei deputati nel 1887 e articolato in dieci grande categorie di delitti e in quattro di contravvenzioni – accoglie le ormai consolidate soluzioni della scuola classica e alcune innovative istanze della scuola positiva (per esempio l’istituzione dei manicomi criminali, i criteri di imputabilità per gli ubriachi, ecc.), la quale a fatica propone le riforme e i modelli elaborati nei circoli positivisti che con coraggio e anticonformismo denunciano la necessità di una svolta metodologica anche nel campo degli studi giuridici 10. È il primo codice dell’Italia unita a escludere la morte dal catalogo delle pene. È opportuno fermare l’attenzione sulla disciplina del concorso di persone dettata negli artt. 63 e 64 del codice Zanardelli, perché sul punto, come si è detto, il codice segna una cesura rispetto al passato e perché la regolamentazione del concorso, com’è noto, assume una rilevanza che va ben oltre l’ambito proprio e investe tutto il sistema della responsabilità. La soluzione adottata nel codice può essere assunta come un felicissimo esempio da un lato del complesso gioco di fideistiche aspettative che si riponevano nello strumento codice, dall’altro della incomprimibilità del variegatissimo agire umano nei rigidi schemi preordinati nelle fattispecie di reato. Prima dei codici, nella lunga esperienza del ius commune, spettava al giudice il compito di individuare le modalità che integravano il concorso ricorrendo a strumenti logico-giuridici che si erano affinati nel corso dei secoli. Si erano elaborati numerosi princìpi di cui il giudice doveva tener conto, ma non si era giunti a una tipizzazione rigida delle modalità concrete attraverso le quali il contributo di soggetti distinti concorre alla realizzazione di

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Si veda infra, § 5. Sulla scuola classica e sulla scuola positiva, infra, § 4.

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un unico reato, perché l’esperienza aveva insegnato che tali modalità rifuggono dall’essere tipizzate e inserite in categorie che siano tanto rigide quanto definite. In generale la scienza giuridica e la giurisprudenza distinguevano: il consulens, che ispirava la commissione di un delitto rispetto al quale, però, non aveva un interesse; il mandans, che al contrario, commissionava un delitto per interesse proprio, o anche proprio; il complex e il socius, che – in posizione solitamente subordinata il primo, paritaria il secondo – eseguivano il delitto in tutto o in parte. L’avvento della codificazione – dettata anche dalla diffidenza nei confronti dell’arbitrium iudicis e caratterizzata dalla pretesa che nelle fattispecie consacrate nel codice potessero inquadrarsi tutti i comportamenti rilevanti sul piano giuridico – spinse a tipizzare le figure concorsuali prevedendo un trattamento sanzionatorio differenziato per i soggetti che con ruoli diversi concorrevano nel reato. Ma il lodevole e meritorio sforzo classificatorio del legislatore poi doveva fare i conti con la multiforme varietà delle fattispecie concrete che venivano sottoposte al giudizio nei tribunali. E, in concreto, anche nel corso dell’Ottocento i giudici continuarono a ragionare richiamandosi al vichiano buon senso. La necessità di tipizzare il concorso indusse il legislatore a distinguere e tipizzare le varie forme in cui poteva integrarsi la fattispecie del concorso di persone e portò nel codice Zanardelli alla soluzione contenuta nell’art. 63 (in cui si commina la stessa pena agli esecutori, ai cooperatori immediati e a coloro che hanno determinato il reato) e nell’art. 64 (in cui si prevedono sanzioni più leggere per chi abbia partecipato al reato «con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza o aiuto da prestarsi dopo il reato; col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo; col facilitarne l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto»). Il codice esclude la diminuzione della pena in tutti i casi in cui senza l’apporto del concorrente il reato non si sarebbe commesso. Il testo delle disposizioni suscita la critica ben documentata in Raymond Saleilles 11, che accusa il legislatore italiano di aver trascurato l’indagine psicologica e di aver privilegiato il dato esteriore assumendo che il ruolo del concorrente è sempre secondario 12. Il legislatore interruppe una plurisecolare tradizione che assegnava al giudice il compito di individuare caso per caso quali fossero le modalità attraverso le quali si realizzava il concorso e si impegnò per la tipizzazione; la giurisprudenza, però, continuò nella sostanza ad adottare i tradizionali schemi argomentativi, limitandosi soltanto a costringerli nelle figure di nuova introduzione. Nei fatti il nuovo codice non trascinò la giurisprudenza in un radicale cambiamento e la deludente prova indusse il legislatore del 1930 ad ispirarsi dichiaratamente nella Relazione introduttiva a un criterio causale che nella sostanza, però, tornò a riassegnare al giudice il compito di valutare quali fossero le modalità che di volta in volta integravano il concorso.

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Sul Saleilles, si veda anche supra, cap. VII, § 11. R. Saleilles, L’individualisation de la peine, Alcan, Paris 1898.

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Ancora oggi, l’art. 110 del codice penale del 1930, tuttora vigente, stabilisce per il concorso di persone nel reato: «Pena per coloro che concorrono nel reato. Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti». Il codice – sanzionando il concorso e omettendo di tipizzarne gli elementi costitutivi, la cui individuazione rimette ai giudici – svolge una funzione delicatissima che la giurisprudenza più sensibile e avvertita ha rilevato. La Cassazione, smentendo definitivamente l’originaria opzione causale, sancisce la punibilità di ogni «contributo di ordine materiale o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell’azione criminosa posta in essere da altri soggetti» (Cass. pen., sez. VI, 6 novembre 1991) e afferma: «Perché si configuri la fattispecie del concorso di persone nel reato non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione, sul piano causale, dell’evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso – fatta propria dalla relazione al codice penale – contrasta con il dettato dell’art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti, che di per sé ne sarebbero privi, quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla realizzazione collettiva» 13.

La questione è sempre al centro dell’attenzione della giuspenalistica e del legislatore. Le conclusioni della Corte richiamano con buon senso l’irriducibilità e l’incomprimibilità delle molteplici forme di correità in una scatola tipizzata e l’irrinunciabile e ragionevole, prudenziale genericità della configurazione delle condotte concorsuali. La cultura giuridica medievale e della prima età moderna aveva avvertito l’insufficienza del criterio causale che – proiezione delle conoscenze scientifiche dell’età dei lumi e della modernità – costituirà nei sistemi codificati il fulcro centrale della misura della responsabilità dei concorrenti. Quel criterio mostra oggi la sua assoluta inadeguatezza, anche alla luce delle nuove conoscenze scientifiche – si pensi agli studi sulle organizzazioni e sulla complessità – che ne suggeriscono la sostituzione con criteri diversi, multifattoriali, che tengano conto delle molteplici, multiformi e variabili relazioni che caratterizzano la compartecipazione criminosa.

c) le leggi speciali, la decretazione d’urgenza, il giurista e l’ordinamento policentrico Sul piano delle fonti normative, negli stessi anni della stagione codificatoria travagliati da guerre ed emergenze il potere esecutivo cominciò a utilizzare con crescente frequenza un nuovo strumento normativo: l’ordinanza d’urgenza, più 13

Cass. pen., sez. I, 11 marzo 1991.

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tardi chiamato decreto legge. Si tratta di un atto normativo avente forza di legge prodotto dal potere esecutivo per la urgente necessità di far fronte a emergenze. Ordinanze d’urgenza si erano già avute nel Regno di Sardegna e subito si era posta la questione della compatibilità di questo atto, nella sostanza di portata legislativa, con il quadro costituzionale disegnato dallo statuto in cui il potere legislativo era appannaggio esclusivo delle Camere e del re. Il testo dell’art. 6 dello Statuto – esemplato sul corrispondente art. 13 della Charte francese del 1830 – stabiliva che «Il re nomina a tutte le cariche dello Stato; e fa i decreti e regolamenti necessarii per l’esecuzione delle leggi, senza sospenderne l’osservanza, o dispensarne» e negava all’esecutivo il potere di modificare la legge. Nel nuovo regno, in continuità con il passato, il potere esecutivo adotta ordinanze d’urgenza anche in assenza delle condizioni di necessità e anche per disciplinare materie nuove. Senza una specifica previsione normativa di carattere costituzionale il ricorso alla decretazione d’urgenza cresce lentamente ma costantemente fino alla prima guerra mondiale, negli anni della guerra aumenta a dismisura e solo nell’ambito delle “leggi fascistissime” troverà una specifica regolamentazione con la legge 31 gennaio 1926, n. 100 che prescrive che il governo possa adottare provvedimenti aventi forza di legge nei casi in cui lo impongano ragioni di urgente e assoluta necessità e che tali provvedimenti (decreti legge) debbano essere presentati alla Camera entro la terza seduta successiva alla loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale e che in caso di esplicito rifiuto della conversione in legge da parte di una delle due Camere, o comunque decorsi due anni senza che la conversione venga approvata, cessino di avere efficacia ex nunc. Il ricorso sempre più frequente allo strumento del decreto legge, impostosi già durante le guerre d’indipendenza per esigenze di necessità e urgenza di natura bellica e, successivamente, adottato per scopi e esigenze non sempre altrettanto idonei a giustificarne l’uso, incide significativamente sulla divisione dei poteri (in questo caso potere esecutivo e potere legislativo) che ispira l’architettura dello stato di diritto. Sul piano delle fonti, ancora, come si è accennato (supra, § 2a), in modo marcato a partire dalla prima guerra mondiale, ma in qualche caso significativo anche nei decenni precedenti, entra in crisi il tradizionale rapporto tra leggi speciali e codici che assegnava alle prime il ruolo di specificare, attuare e attualizzare princìpi contenuti nel codice e si afferma in modo sempre più netto l’uso da parte del legislatore di utilizzare leggi speciali (nell’accezione lata di esterne al codice) per regolare materie e affermare princìpi sconosciuti al codice. L’intervento del legislatore è reso necessario perché nella previsione codicistica non sono stati disciplinati casi che il grado di sviluppo industriale ora raggiunto dal paese rende di particolare importanza: per esempio, manca una previsione all’interno del codice civile atta a regolare il contratto di lavoro. Si assiste così al progressivo mutamento dell’assetto costitutivo dell’ordinamento giuridico: al sistema che era caratterizzato dalla collocazione centrale del pianeta codice, pianeta in cui l’ordinamento viveva e da cui si irradiava la luce

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che dava vita ai satelliti costituiti dalle leggi speciali, si sostituisce progressivamente un sistema in cui la vita è presente in forma originaria non solo nel pianeta codice ma anche in altri pianeti minori. Il giurista non può più orientarsi solo con la luce del sole codice, ma per ambiti di materie nuove e importanti deve guardare ai nuovi pianeti che vivono una vita autonoma: diventa più difficile individuare i princìpi generali dell’ordinamento, prima ordinati quasi esclusivamente nel solo edificio codicistico, ora sparsi in diversi e numerosi interventi del legislatore.

3. La rappresentanza politica e la giustizia amministrativa: a) il Consiglio di Stato La crisi della Prima Repubblica agli inizi dell’ultimo decennio del secolo XX si manifesta con maggiore evidenza con i processi di Tangentopoli in cui un’intera classe politica viene accusata e condannata per corruzione e malversazione. Da quegli anni il sistema elettorale è uno dei temi caldi del dibattito politico, anche per lo spesso abusato richiamo al consenso popolare che viene malinteso e gabellato come un lasciapassare per ignorare e violare regole che dovrebbero garantire il confronto tra le parti e il rispetto dei princìpi cardine dell’ordinamento democratico. Da molti si propaganda una concezione degenerata della democrazia secondo la quale chi ottiene il consenso elettorale dovrebbe poter governare anche al di sopra e oltre le regole dell’ordinamento, quasi che il consenso elettorale godesse di un primato su queste. Da molti si è ritenuto che la scelta di un sistema elettorale maggioritario possa favorire una più agevole e stabile governabilità, ma sembra che si sia trascurata la stretta connessione tra il sistema elettorale e le modalità previste nel nostro ordinamento per l’approvazione delle riforme costituzionali. La previsione che le riforme costituzionali siano approvate con una maggioranza parlamentare qualificata, per esempio di due terzi, può dirsi nella sostanza, e non solo nella forma, rispettata quando ormai i due terzi del parlamento non riflettono più una maggioranza di grandezza corrispondente nel corpo elettorale (per la sopravvenuta riforma del sistema elettorale in cui ha spazio un consistente premio di maggioranza)? Ma c’è un altro, e forse ancora più importante, motivo per cui le leggi elettorali rivestono un ruolo centrale nell’ordinamento. Le leggi elettorali sono il canale attraverso il quale i partiti, prima delle élites e poi di massa, giungono alla gestione del potere. Nei decenni immediatamente successivi all’unificazione cresce il ruolo dei partiti nei governi parlamentari e la dimensione dell’apparato pubblico. Nel suo intervento del 1880 a Bergamo con grande sensibilità Silvio Spaventa delinea lucidamente i maggiori problemi che ne derivano sul piano della tutela dei cittadini nei confronti dell’azione della pubblica amministrazione e sul piano della

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distinzione della pubblica amministrazione dai partiti. Con capacità profetiche Spaventa avverte che il «problema della giustizia e della legalità nell’amministrazione è il maggiore che s’incontra nella vita dei governi parlamentari» soprattutto negli Stati moderni, in cui i cittadini interagiscono continuamente con la pubblica amministrazione. Il governo parlamentare è espressione dei partiti che si succedono alla direzione dello Stato quando ottengono la fiducia della maggioranza del paese. L’avvicendamento dei partiti al governo comporta il rischio concreto che la pubblica amministrazione divenga strumento dei gruppi di potere che governano e non dell’interesse pubblico, quando non si giunga addirittura a fenomeni di rilievo penale quali corruzione e concussione. «Ora – avverte Spaventa –, data questa nostra egoistica natura umana, le cui leggi sono immutabili, come è possibile che un partito al governo non abusi del potere, che ha nelle mani, in danno e ad offesa degli altri? E pure lo Stato dev’esservi, e vi è, appunto per questo, che l’interesse di un partito, di una classe o di un individuo non predomini ingiustamente sopra l’interesse degli altri. Come risolvere questa, che sembra insuperabile contraddizione? La soluzione sta nel fare un’essenziale distinzione fra governo e amministrazione» 14.

Il governo attuerà i programmi dei partiti che lo sostengono e che hanno ottenuto il maggior consenso elettorale. «Ma questa direzione dello Stato – continua Spaventa –, data al partito preponderante, non deve opprimere lo Stato, cioè la giustizia e l’eguaglianza giuridica, che ne è l’anima informativa, la giustizia per tutti e verso tutti, così per la maggioranza come per la minoranza. La protezione giuridica … dev’essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L’amministrazione dev’essere secondo la legge e non secondo l’arbitrio e l’interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti» 15.

Nella visione di Spaventa un ruolo centrale per realizzare la giustizia nell’amministrazione è assegnato al Consiglio di Stato, organo che in tutta la storia dell’Italia unita darà prova di capacità di cambiamento e adattamento. Nato come organo chiamato a svolgere una funzione consultiva nei confronti prima del sovrano e poi del governo e formato da esponenti dell’aristocrazia impegnata nell’amministrazione, gradualmente si apre al reclutamento per concorso e a forme di cooptazione che ne marcano progressivamente il carattere tecnico e l’indipendenza. Alla prevalente attività consultiva dei primi decenni si affianca l’attività giurisdizionale, prima affermatasi nei fatti – con l’adozione di uno sty-

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S. Spaventa, Giustizia nell’amministrazione, discorso pronunciato nell’Associazione costituzionale di Bergamo il 7 maggio 1880, in S. Spaventa, La politica della Destra. Scritti e discorsi, Laterza, Bari 1909, p. 59. 15 Ibidem.

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lus che assegna ampio spazio nelle pronunce dell’organo al riferimento al fatto cui si riferiscono e alle motivazioni su cui si fondano le pronunce stesse – poi riconosciuta anche in diritto, nel 1907. Con la legislazione negli anni Ottanta dell’Ottocento «lo Stato, da “guardiano notturno” qual era stato concepito nel 1865, diveniva ora raccoglitore e organizzatore di dati, edificatore di opere pubbliche in relazione o talvolta in conflitto con interessi privati, tutore della salute pubblica con poteri cogenti di applicazione delle nuove norme, garante dell’ordine pubblico inteso però come esercizio di una funzione non solo repressiva ma preventiva, protettore dei cittadini. Cresceva la dimensione degli apparati pubblici, e insieme il fitto reticolo delle norme che ne fissavano le prerogative in settori un tempo ignoti all’iniziativa dell’autorità» 16.

Il Consiglio di Stato, nell’arco di tutta la storia italiana che interessa queste pagine, consiglia e assiste il legislatore e il governo, e nello stesso tempo riesce a ritagliarsi una sua autonomia, anche negli anni della prima guerra mondiale e in quelli immediatamente successivi, caratterizzati da un impressionante sviluppo degli apparati amministrativi riconducibili allo Stato (in cui gli operatori aumentano da 300.000 a oltre 500.000), in quegli anni cioè in cui per le pressanti esigenze belliche si ritiene di sostituire l’azione sino a quel momento svolta dal Consiglio di Stato con altri organi più prossimi all’amministrazione (Consiglio superiore dei lavori pubblici, Consiglio superiore delle acque, Consiglio superiore delle miniere). Nei primi anni del fascismo si riafferma la centralità del Consiglio di Stato, gli si assegna la giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, se ne affida la presidenza, nel 1927, a Santi Romano; nello stesso anno, Mussolini allontana dal Consiglio di Stato Meuccio Ruini, il futuro presidente della Commissione dei Settantacinque nell’Assemblea costituente.

b) i sistemi elettorali Il metodo elettorale – mai neutro e sempre determinante per la selezione della rappresentanza politica – è oggetto di frequenti riforme (in centocinquant’anni se ne contano una dozzina) che privilegiano il criterio di “rappresentatività” (sistema proporzionale con espressione della preferenza) o il criterio della “governabilità” (sistema maggioritario con premi alle liste che ottengono una significativa percentuale di consensi). Ma i risultati sono deludenti se una costante caratterizza la storia italiana prima e dopo il fascismo: la breve durata media dei governi (un anno e un mese circa, ad eccezione dei governi Mussolini). Dal-

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G. Melis, Consiglio di Stato, in Treccani, Diritto on line (www.treccani.it/enciclopedia/consiglio-di-stato_(Diritto-on-line)/).

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l’Unità al 1922 se ne contano circa una sessantina e altrettanti nel periodo repubblicano fino ai nostri giorni, 7 negli anni della transizione della luogotenenza e della costituente. Le scelte tra i vari sistemi elettorali si riflettono anche sui meccanismi della responsabilità politica dell’eletto, nei confronti dell’elettore e dell’apparato della formazione politica cui l’eletto stesso appartiene. Il sistema maggioritario uninominale, in vigore fino al 1881, si articola in due turni, al secondo dei quali partecipano come candidati solo i due che nel primo turno hanno riscosso il maggiore consenso. Nel 1882 si adotta il sistema plurinominale di lista: i seggi, in numero variabile da due a cinque per ciascuna circoscrizione, sono assegnati in misura proporzionale ai voti ottenuti dalle liste nella circoscrizione. I deludenti risultati che tale sistema elettorale produce sul piano della stabilità politica inducono nel 1891 a tornare al sistema maggioritario uninominale che viene utilizzato fino al 1918. Nel 1919 si introduce un sistema proporzionale puro con possibilità di voto disgiunto: in ciascuna delle nuove 54 circoscrizioni in cui è diviso il paese si eleggono da 5 a 20 deputati. Le liste possono prevedere un numero di candidati pari al totale degli eleggibili nella circoscrizione (lista completa) o un numero inferiore (lista incompleta). L’elettore può esprimere da una a quattro preferenze (a seconda delle circoscrizioni), oppure (solo in caso di lista incompleta) può aggiungere alla lista incompleta i nomi di candidati di altre liste. Questo meccanismo fa fiorire gli accordi elettorali, anche trasversali ai partiti. Per ciascun candidato si computano i voti di lista, le preferenze e i voti aggiuntivi. Nel 1923, Mussolini promuove una riforma del sistema elettorale in senso maggioritario per garantire al fascismo una solida maggioranza parlamentare: è la legge Acerbo, che prevede l’assegnazione dei due terzi dei seggi alla lista che abbia ottenuto a livello nazionale il 25% dei voti validi e nessun meccanismo maggioritario nel caso in cui nessuna lista abbia superato tale limite. La legge Acerbo consente al fascismo di ottenere nelle elezioni del 1924 una schiacciante maggioranza in Parlamento per stravolgere, senza che fosse necessario violare la legalità formale, i fondamenti dell’assetto costituzionale del regno e per gettare le basi per l’instaurazione in Italia di una dittatura. Le modifiche alla legge Acerbo, introdotte nel febbraio del 1925, non troveranno mai attuazione, perché nel 1928 il regime, ormai avviatosi verso una vera e propria dittatura, rigettata qualunque forma di “elezionalismo”, promuove un sistema plebiscitario: gli elettori sono chiamati ad esprimere il loro consenso o il loro dissenso, attraverso l’apposizione di un segno su un scheda contrassegnata dal fascio littorio, in cui sono elencati 400 candidati indicati dal Gran Consiglio del Fascismo, tra 850 proposti dalle confederazioni corporative nazionali, 200 proposti da associazioni ed enti culturali ed assistenziali ed altri scelti dal Gran Consiglio stesso. Ove la lista non avesse riscosso l’approvazione del corpo elettorale (ipotesi che, grazie alla solerzia delle prefetture e alla capillare presenza degli organismi fascisti, non si verificò in nessuna delle due tornate elettorali del 1929 e del 1934 in cui, rispettivamente votarono a favore oltre 8 milioni e mezzo

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e oltre 10 milioni di italiani, e contro poco più di 135.000 e di 15.000), si sarebbe dovuta ripetere la consultazione ammettendo liste presentate da associazioni e organizzazioni che avessero almeno 5.000 soci elettori e alla lista che avesse ottenuto il maggior numero di consensi sarebbe stata attribuita la totalità della rappresentanza politica. La legge istitutiva della Camera dei fasci e delle corporazioni (legge 19 gennaio 1939, n. 129) cancella la Camera dei deputati. Nel 1948, per le prime elezioni della Camera dei deputati e del Senato a suffragio universale, si adotta per la Camera il sistema elettorale già utilizzato per l’Assemblea costituente nel 1946. Il sistema consente all’elettore di esprimere un numero massimo di quattro preferenze per eleggere i rappresentanti delle 32 circoscrizioni plurinominali (il numero degli eletti per ciascuna circoscrizione è commisurato al numero degli aventi diritto al voto). Il sistema, con qualche variante in senso maggioritario e con una diversa suddivisione del territorio in circoscrizioni, è adottato anche per l’elezione dei senatori. Nel 1993 si introduce con la legge Mattarella (leggi 4 agosto 1993, nn. 276 e 277, c.d. Mattarellum), rimasta in vigore fino al 2005, un sistema ibrido: i tre quarti dei seggi di ciascun ramo del parlamento sono assegnati col sistema maggioritario uninominale. Quanto ai seggi rimanenti, adottando il criterio proporzionale, per il Senato si assegnano ai candidati non eletti più votati; per la Camera, ai candidati inseriti in liste bloccate che abbiano ottenuto almeno il 4% dei voti validi. Nel 2005 (legge Calderoli del 21 dicembre 2005, n. 270, c.d. Porcellum) il sistema viene riformato in senso ulteriormente maggioritario prevedendo soglie di sbarramento per le coalizioni e un premio consistente di maggioranza. Nel 2014 la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità del sistema perché, tra l’altro, non determina la soglia di consenso che deve raggiungersi per godere del premio ed esclude per l’elettore la possibilità di esprimere preferenze. Nel maggio 2015 si giunge all’attuale sistema adottabile solo per la Camera dei deputati (il Senato dovrebbe essere oggetto di modifica costituzionale) dal 1° luglio 2016.

c) la tutela contro gli atti della pubblica amministrazione Proprio negli anni tra il 1865 e il 1889 si mette gradualmente a punto il nuovo sistema di giustizia amministrativa. La legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Allegato E) abolisce i tribunali del contenzioso amministrativo, organi della pubblica amministrazione chiamati fino a quel momento a fornire tutela ai destinatari degli atti amministrativi, e assegna al giudice ordinario la giurisdizione per i casi in cui l’atto della pubblica amministrazione riguardi diritti civili e politici (art. 2: «Sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa»). Il giudice ordinario chiamato a giudicare può disapplicare l’atto amministrativo relativo al caso controverso, ma non può annullarlo (art. 4, 1° e 2° comma:

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«Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso»; art. 5: «In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi»). La legge del 1865 affida alla stessa pubblica amministrazione la risoluzione degli affari non devoluti alla giurisdizione ordinaria (art. 3: «Gli affari non compresi nell’articolo precedente saranno attribuiti alle autorità amministrative, le quali, ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate, provvederanno con decreti motivati, previo parere dei consigli amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti. Contro tali decreti, che saranno scritti in calce del parere egualmente motivato, è ammesso il ricorso in via gerarchica in conformità delle leggi amministrative»). Si afferma così un sistema fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi, da un lato, e tra autorità giurisdizionale e autorità amministrativa dall’altro. Il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione, chiamati a giudicare, rispettivamente prima e dopo il 1877, dei conflitti di attribuzione tra pubblica amministrazione e giurisdizione ordinaria interpretarono con continuità la legge abrogatrice del contenzioso negando la tutela giurisdizionale in presenza di provvedimenti imperativi della Pubblica amministrazione e ammettendola solo in presenza di atti paritetici (tipici dei rapporti di diritto privato): il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione ritenevano infatti che di fronte allo ius imperii della pubblica amministrazione nel caso dei provvedimenti imperativi non potesse sussistere un diritto soggettivo perfetto. Nel 1889, con la legge n. 5992, alla IV sezione del Consiglio di Stato, di nuova istituzione, si affida la tutela delle situazioni soggettive distinte dai diritti soggettivi (art. 3: «Spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d’individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non sieno di competenza dell’autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali»). Il nuovo sistema, secondo le teorie di Spaventa, vuole innanzitutto garantire l’autonomia dell’apparato burocratico amministrativo dello Stato dalle intromissioni e dalle strumentalizzazioni dei centri di potere politico-partitico. La tutela delle situazioni soggettive (interessi legittimi) dei privati diventa lo strumento attraverso il quale si tutela l’autonomia dell’apparato burocratico amministrativo dello Stato, solo in quanto l’interesse legittimo è collegato all’interesse pubblico. Si instaura così un sistema articolato: il giudice ordinario a tutela dei diritti soggettivi può disapplicare il provvedimento amministrativo; la IV sezione del

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Consiglio di Stato, a tutela degli interessi legittimi, può annullare il provvedimento amministrativo. Con la stessa legge si introduce il giudizio di ottemperanza e si attribuisce alla IV sezione il potere di pronunciarsi riguardo ai «ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico» (art. 4, n. 4, legge 31 marzo 1889, n. 5992, integralmente riprodotto nell’art. 27, n. 4, R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 [Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato]). La previsione del giudizio di ottemperanza completa il sistema di tutela affermatosi con l’abolizione del contenzioso amministrativo. In sostanza, attraverso il giudizio di ottemperanza, previsto solo come ipotesi di giurisdizione di merito del giudice amministrativo per l’esecuzione delle sole sentenze del giudice ordinario, il giudice amministrativo (Consiglio di Stato) si “sostituisce” all’amministrazione rimasta inerte in presenza di un giudizio del giudice ordinario in cui è stata dichiarata soccombente. Infatti, prima dell’istituzione del giudizio di ottemperanza, l’amministrazione doveva conformarsi al «giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso», ma nel caso in cui l’amministrazione fosse rimasta inerte al privato non era dato alcuno strumento per ottenere l’adempimento di tale obbligo. La legge però non prevedeva un giudizio di ottemperanza, quindi una forma di tutela giurisdizionale esecutiva, con riguardo ai casi decisi dal giudice amministrativo, cioè dalla neoistituita IV sezione. La giurisdizione della IV sezione si sostanziava nel mero annullamento degli atti amministrativi giudicati illegittimi. Tale annullamento, ripristinando in toto la situazione antecedente al momento dell’adozione dell’atto annullato, travolgeva e rimuoveva gli effetti che eventualmente si fossero prodotti in attuazione del provvedimento annullato. Ma a partire dal 1928, il Consiglio di Stato cominciò ad estendere analogicamente anche alle sentenze del giudice amministrativo le regole del giudizio di ottemperanza che il legislatore aveva previsto per le sentenze del giudice ordinario. In particolare, tale estensione si rendeva necessaria per rendere effettiva la tutela degli interessi del privato nei casi in cui l’interesse legittimo oggetto del giudizio avesse avuto natura «pretensiva», cioè tale che la soddisfazione dell’interesse del privato ad ottenere una posizione di vantaggio non si sarebbe potuto realizzare con il mero annullamento dell’atto illegittimo, ma solo attraverso un’attività della Pubblica amministrazione. Alla V sezione, istituita dalla legge 7 marzo 1907, n. 62 si attribuirono la cosiddetta giurisdizione di merito e la facoltà di «ordinare qualunque altro mezzo istruttorio nei modi che saranno determinati dal regolamento di procedura». L’art. 27 del Regolamento di procedura, emanato con il R.D. 17 agosto 1907, n. 642 stabiliva che la V sezione potesse «assumere testimoni, eseguire ispezioni, ordinare perizie e fare tutte le altre indagini che possano condurre alla scoperta della verità, coi poteri attribuiti al magistrato dal codice di procedura civile e

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con le relative sanzioni»: sull’adozione dell’ambigua formula “scoperta della verità” si fondò la pretesa di pronunciarsi, limitatamente alle materie specifiche anche sul merito, e non solo sulla legittimità, dell’atto impugnato. Una importante sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione del 29 giugno 1915 precisò che il legislatore quando aveva «stabilito che la V sezione decide anche sul merito non aveva voluto affidare a quella giurisdizione speciale soltanto l’esame della utilità ed opportunità del provvedimento, ma anche la tutela dei diritti subbiettivi che a quell’esame sono inscindibilmente connessi». Il testo unico sul Consiglio di Stato, approvato con il R.D. 17 agosto 1907, n. 638 ribadisce il carattere e la natura giurisdizionale delle pronunce della IV e della V sezione; carattere e natura giurisdizionale già riconosciuti dalla legge 7 marzo 1907, n. 62, che aveva posto fine alle dispute tra i sostenitori di contrapposte teorie a proposito della natura, amministrativa o giurisdizionale, delle pronunce della IV sezione. Il sistema resta sostanzialmente invariato sino al 1923, quando si afferma la giurisdizione esclusiva (anche in relazione ai diritti soggettivi) per il giudice amministrativo in materia di pubblico impiego. Una nuova stagione si aprirà con la Costituzione, che attribuisce valore costituzionale agli interessi legittimi (artt. 24, 103 e 113) e fissa il principio assoluto di giustiziabilità degli atti della Pubblica amministrazione (art. 113). Ferdinando Rocco, fratello di Alfredo, nella qualità di presidente della IV sezione del Consiglio di Stato (sarà presidente dell’intero Consiglio dal 1947) il 30 giugno 1946 scrive nella Relazione della Commissione speciale all’Adunanza generale del Consiglio di Stato, presieduta da Meuccio Ruini, una pagina che può considerarsi la logica premessa dell’art. 113 della Costituzione. Rocco afferma che tutti gli atti amministrativi devono essere sottoposti al controllo giurisdizionale; lamenta che spesso ciò non è avvenuto a causa di provvedimenti che il governo ha adottato in forza di poteri legislativi, talvolta anche privi di delega parlamentare; esalta l’equilibrio con cui il Consiglio di Stato ha cercato di limitare i danni e garantire una qualche forma di tutela e di controllo; invoca la costituzionalizzazione del principio secondo il quale contro gli atti amministrativi il cittadino deve sempre poter godere di una forma di tutela giurisdizionale: «Premesso che nessun atto di potere esecutivo in un perfetto sistema di guarentigie giuridiche deve, per ragione alcuna, sfuggire a un permanente controllo giurisdizionale, è facile constatare che, a questo riguardo, la legislazione italiana presenta due oggettive deficienze, non riparabili se non in sede di riforma costituzionale dello Stato. La prima, di carattere più generale, consiste nella possibilità, purtroppo, con frequenza tradotta in atto, che il Governo, in forza di poteri legislativi assunti anche senza delegazione del Parlamento, escluda o limiti tale controllo. A questa pericolosa ed infrenabile tendenza dei Governi le Magistrature, e all’avanguardia il Consiglio di Stato, hanno vigorosamente reagito mediante la restrittiva interpretazione dei provvedimenti legislativi che ne sono stati antigiuridico frutto, ma urgentemente si impone un rimedio radicale: il tassativo divieto, da sancirsi in una norma costituzionale, di

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siffatti attentati al sacro diritto di difesa del cittadino, da parte almeno del potere esecutivo in veste di legislatore» 17.

Alla fine della seconda guerra mondiale, il Consiglio di Stato, divenuto organo costituzionale, continua a presiedere alla complessa e travagliata vicenda della giurisdizione amministrativa, che ha un momento importante nel 1971 con l’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali (organi di giustizia amministrativa di primo grado previsti dall’art. 125 della Costituzione), rispetto ai quali il Consiglio svolge la funzione di giudice d’appello. Dopo il 1956, la Corte Costituzionale attraverso le sue sentenze dà impulso alla costruzione di un sistema di giustizia amministrativa coerente con i fondamenti costituzionali ammettendo l’opposizione di terzo (c.d. semplice) nell’ambito del processo amministrativo, ed arginando le ipotesi di giurisdizione esclusiva. La stessa legge istitutiva dei TAR (legge 6 dicembre 1971, n. 1034) riconosce finalmente sul piano legislativo, anche per le sentenze del giudice amministrativo, l’esperibilità del giudizio di ottemperanza, ammessa in via giurisprudenziale già dal 1928. Nel 1992-1993 inizia la fase di privatizzazione dei rapporti di lavoro di una larga fetta di pubblici dipendenti (con esclusione di determinate categorie di lavoratori), con la conseguente cessazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie di lavoro riguardanti detti dipendenti pubblici. La giurisdizione viene, così, devoluta al giudice ordinario, tranne che per le controversie riguardanti gli atti organizzativi generali e le procedure concorsuali (come risulta dall’art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, contenente le “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”). Nel 2010 viene, finalmente, approvato, con il d.lgs. n. 104, il codice del processo amministrativo, che racchiude in un unico corpus – confermandole, modificandole o integrandole – tutte le disposizioni processuali prima sparse in vari testi normativi. Nel 2012, nel modificare il predetto codice, il d.lgs. n. 160 accorda al privato di ottenere dal giudice amministrativo non solo l’annullamento dell’atto, ma, al ricorrere di determinati presupposti, anche la condanna dell’amministrazione al rilascio di un determinato provvedimento amministrativo.

4. L’impatto del positivismo sulla scienza giuridica: a) la questione del metodo Nei decenni che seguono l’Unità d’Italia il vento del positivismo che ha radicalmente mutato i fondamenti tradizionali delle scienze soffia anche sull’Italia 17 F. Rocco, Il Consiglio di Stato nel nuovo ordinamento costituzionale. Relazione della Commissione speciale all’Adunanza generale del Consiglio di Stato, in Il Foro amministrativo, 22 (1946), parte IV, coll. 18-20.

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anche se, almeno nel campo delle scienze giuridiche, trova forti resistenze. Proprio in questi decenni sono presenti in modo esemplare gli elementi che segnano i momenti critici della lunga vicenda di quel complesso di saperi, prassi, mentalità, discorsi ed espedienti retorici che indichiamo con l’espressione “scienza giuridica”. In particolare in questi anni che segnano il contrastatissimo, almeno in Italia, esordio del positivismo, come in tutti i momenti critici della storia dell’esperienza giuridica, il dibattito scientifico si incentra su tre punti, strettamente connessi tra di loro: le relazioni tra la scienza del diritto e le altre scienze, la definizione dello statuto epistemologico proprio della scienza giuridica, la capacità della scienza giuridica di elaborare soluzioni adatte per ordinare la realtà sociale economica politica. Cosa avviene in Europa e, soprattutto per quanto qui ci interessa più direttamente, in Italia proprio negli ultimi decenni dell’Ottocento? Il neonato Stato unitario deve fronteggiare numerose emergenze: l’unificazione legislativa, l’assunzione, da parte dello Stato, della funzione di assistenza pubblica sino ad allora svolta dalla Chiesa o da enti ad essa collegati, i divari tra nord e sud, il ritardo nella modernizzazione del Paese, l’emigrazione interna, l’ordine pubblico, la presenza del latifondo, i problemi legati alla nuova produzione seriale, primo fra tutti il problema del contratto di lavoro e della responsabilità per gli infortuni, la comparsa di una nuova classe sociale, il proletariato, e le sue prime manifestazioni. Senza voler qui riassumere un’assai complessa vicenda politica, sociale ed economica, basterebbe ricordare alcuni dati evocativi quali, tra i tanti, i fasci siciliani, l’emersione del movimento operaio nelle sue diverse espressioni socialiste e cattoliche, il decollo dell’industrializzazione, le tensioni che culminano nei disordini degli anni Novanta soffocati con lo stato d’assedio in Sicilia e con l’intervento delle forze armate a Milano. Le idee-guida della composita galassia culturale del positivismo (Comte, Darwin, Spencer, Webb, Huxley, Durkheim, Marx, Moleschott) trovano terreno fertile negli intellettuali italiani, impegnati ad allargare gli orizzonti del sapere al di fuori dei confini nazionali, a svecchiare l’insegnamento universitario e a far progredire, talora anche con originali innovazioni, le scienze naturali e mediche, le scienze sociali e storiche. Nell’elaborazione delle nuove risposte alle nuove emergenze, alcuni giuristi avvertono l’esigenza di una rifondazione del metodo e denunciano l’inadeguatezza della scienza giuridica a interpretare e regolare gli assetti sociali ed economici che si stanno modificando nei decenni cruciali della fine dell’Ottocento; sono insofferenti verso quei ministri della scienza giuridica che si arroccano nella difesa dell’ortodossia in una miope, quanto comoda e rassicurante, visione del divenire della società; sono disponibili a contaminazioni metodologiche. Il processo di divulgazione e volgarizzazione del positivismo di matrice comtiana e spenceriana è in Italia avviato da tempo e già comincia a produrre l’abbandono delle “metafisicherie”. Così anche nelle scienze sociali cominciano ad adottarsi metodi e strumenti che le varie correnti del positivismo hanno sperimentato nel campo delle scienze naturali.

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La scienza giuridica italiana si misura con alcuni coraggiosi interventi di giovani studiosi – qui possono ricordarsi i nomi di Enrico Cimbali 18, sul versante civilistico, e di Enrico Ferri (1856-1929), nella penalistica, che propongono con entusiasmo, e in qualche caso con ingenuità, una svolta decisa riguardo agli itinerari, agli strumenti e agli obiettivi per i quali i giuristi devono impegnarsi per liberarsi del pesante fardello che li zavorra e li ha sprofondati nel «pantano di una esegesi grettamente servile» 19. Le loro opere assumono il valore di manifesto della nuova scienza giuridica, che vuole rifondarsi su un metodo largamente tributario nei confronti del positivismo, e inaugurano due “progetti” che, comunque, non potranno essere ignorati dai giuristi che negli anni successivi si occuperanno di diritto civile e di diritto penale. Gli interventi investono tutti i campi del diritto, riguardano la metodologia dello studio del diritto, e qui il frequente ricorrere del termine evoluzione si spiega da solo; il contenuto e la funzione sociale della legislazione civile; l’emergenza nel mondo del lavoro di una nuova concezione della responsabilità e del contratto di locazione d’opera; l’opportunità di un’unica regolamentazione delle obbligazioni contro insopportabili nicchie di privilegi; il ripensamento ab imis fundamentis del diritto pubblico e del diritto penale, soprattutto nei profili che riguardano l’imputabilità e la punibilità. I progetti dei giuristi non troveranno attuazione, ma di lì a qualche decennio i problemi da loro posti (per esempio a proposito del contratto di lavoro, della responsabilità per gli infortuni sul lavoro, del nuovo ruolo sociale della donna e della nuova collocazione sociale della famiglia) torneranno prepotentemente all’attenzione del legislatore e non di rado alcune soluzioni abbozzate, sia pure confusamente, troveranno compiuti sviluppi. Enrico Cimbali è ben consapevole che la scienza giuridica deve darsi nuovi strumenti per inquadrare i nuovi rapporti sociali che si stanno delineando innanzitutto nel mondo della produzione e, conseguentemente, in tutta la società italiana. Egli ritiene che, senza abbandonare la specificità del metodo giuridico, il giurista possa trarre vantaggio, per la valutazione dei problemi posti dal divenire della nuova realtà sociale, dai risultati che gli sono offerti dai nuovi metodi dell’indagine sociale. Si scaglia contro i giuristi che non si rendono conto, perché non vogliono o perché non ne hanno la capacità, che occorrono nuovi strumenti e che non ci si può attardare ancora in un fideistico abbandono all’onnipotenza del codice; li considera marinai e passeggeri della «nave incantata che solca tranquilla le onde burrascose dell’oceano seminate di moribondi e di cadaveri» 20.

18

Si veda supra, cap. 7, § 9c. E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali con proposte di riforma della legislazione civile vigente, Utet, Torino 1885, p. 5. 20 Ibidem. 19

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Nonostante l’impegno e gli indiscutibili meriti, che pure si accompagnavano ad evidenti limiti, il ruolo dei positivisti italiani non fu valutato serenamente per circostanze legate alla storia della cultura italiana dominata da Croce e Gentile. Le critiche che con fuoco incrociato idealisti e irrazionalisti hanno mosso al positivismo hanno fortemente condizionato il giudizio sul positivismo che è stato visto come un momento negativo dello spirito, un momento oscuro dello sviluppo culturale del nostro paese, «una rivolta di schiavi contro il rigore e la severità della scienza» 21; più che una dottrina, sia pure discutibile, il positivismo è stato considerato come «uno stato d’animo misto d’ignoranza e di baldanza» 22. La durezza dello scontro e del giudizio è tutta nelle parole di Benedetto Croce: «Come ogni uomo, ho fatto, o almeno scritto, anch’io parecchie corbellerie, delle quali mi dolgo e arrossisco, e che ho procurato e procuro di correggere. Ma al modo stesso che nell’elenco dei dieci comandamenti del Signore ve ne ha parecchi che credo di non aver mai violato, così tra le corbellerie che nel corso della vita si possono commettere da chi pratica con la filosofia e con gli studi in genere, ce n’è una della quale mi compiaccio di essermi sempre tenuto puro, anche nei primi anni della mia giovinezza. Non sono stato mai positivista» 23.

Ma Croce non è solo. Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) nella prolusione palermitana del 1889 – definita il manifesto dello specialismo e del formalismo scientifico moderno nella giuspubblicistica italiana – scrive: «i cultori del diritto pubblico sono troppo filosofi, troppo politici, troppo storici, troppo sociologisti e troppo poco giureconsulti» 24. Circa dieci anni dopo gli fa eco il civilista Ludovico Barassi: «giudizi usciti da cervelli in cui diritto e sociologia si sono trovati nella più ibrida mescolanza: cosicché non si sa se siano giuristi che si impancano a sociologi o sociologi che si atteggiano a giuristi» 25. Mentalità, stretto rapporto con il socialismo o con il liberalismo, concezione organicistica della società, visione della storia come progresso: gli intellettuali dell’età del positivismo hanno un progetto di rifondazione globale delle scienze e della società. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento nelle Facoltà di Giurisprudenza, in ossequio alla riforma ministeriale del 22 ottobre 1884, si impartiscono corsi liberi sia delle discipline curriculari già previste nei quattro anni del

21 B. Croce, A proposito del positivismo italiano, in La Critica. Rivista di Letteratura Storia Filosofia, 3 (1905), p. 171, ora in Id., Scritti vari. II. Cultura e vita morale, III, Laterza, Bari 1955, p. 44. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 170. 24 V.E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, in Archivio giuridico, 42 (1889), p. 110. 25 L. Barassi, Il contratto di lavoro, Società Editrice Libraria, Milano 1901, I, p. XXII.

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corso degli studi, sia di altre discipline quali Socialismo ed anarchie e legislazioni relative, Sociologia, Psicologia sociale, Sociologia criminale, Diritto civile internazionale, Antropologia criminale, Statistica, Antropologia giuridica. Nell’ambito di queste nuove discipline presero corpo e si definirono concetti e termini che furono poi utilizzati nelle strategie discorsive dei giuristi. scrive Giuseppe Salvioli nel 1885: «Siamo ormai arrivati a un momento in cui si può con piena sicurezza affermare che la vittoria ottenuta dalla ricerca positiva nel campo delle scienze naturali ha già irradiato i suoi benefici effetti su quelli delle scienze morali, sociali e giuridiche. La rivoluzione […] sopra i metodi di studio ha definitivamente sostituito all’idea il fatto, all’induzione la sola deduzione. Gli elementi delle teorie non sono più delle concezioni, ma dei gruppi di fatti, di osservazioni e di esperienze; e le teorie stesse non sono che la formola che le riassume sotto una denominazione o una legge più o meno concisa […] Un nuovo concetto del diritto è stato fecondato […] Perché difatti si potesse riconoscere come il diritto non è una scienza teorica ma un processo organico e naturale il quale cresce e si sviluppa come gli idiomi, le religioni e le letterature, poiché si credesse che il diritto non uscì come Minerva armata dalla fronte di Giove, non è una norma assoluta o un’istituzione generica, ma un organismo prodotto da una serie di fatti e di esperimenti, legato alla società alle abitudini ai costumi e alla costituzione stessa di ogni nazione, all’indole dei luoghi, privo perciò di un’esistenza isolata e indipendente, era necessario che nel dominio delle scienze morali prevalessero altri metodi di ricerca e si abbandonassero i concetti a priori in favore dell’osservazione e dell’analisi» 26.

Le parole di Salvioli riassumono bene la rivoluzione metodologica positivista. Ma questa “rivoluzione” fino a che punto produsse effetti concreti nell’ordinamento?

b) le critiche ai codici Nei laboratori dei positivisti si elaborano progetti che solo raramente approdano a concrete riforme dell’ordinamento e che mostrano, accanto a una certa lucidità nell’esame dei dati, un’ingenuità nella proposizione delle soluzioni. Ve ne sono anche altri dai quali, almeno nei tempi brevi, non scaturirono riforme dell’ordinamento, ma che, a distanza di decenni, furono nella sostanza ripresi, sia pure mai riconoscendo agli entusiasti giuristi positivisti il merito di avere percepito lucidamente il problema e di avere provato a fornire una soluzione. Qui si possono ricordare alcuni momenti del dibattito scientifico in cui più evidente è il contributo del metodo positivista nei discorsi dei giuristi. In parti-

26 G. Salvioli, Il metodo storico nello studio del diritto civile italiano (prolusione al corso di storia del diritto nell’università di Palermo a.a. 1884-85), in Il circolo giuridico, 16 (1885), pp. 83-105.

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colare, si tratta di aperte critiche alle soluzioni contenute nei codici appena promulgati o di proposte che tendono a colmarne alcune lacune. Sono critiche e proposte frutto anche di un mutamento di mentalità e di sensibilità che non avviene senza travaglio. Sono proposte tese alla modernizzazione del Paese. È di questi anni la battaglia di alcuni giuristi, tra cui Enrico Cimbali, condotta per l’abolizione del divieto previsto dall’art. 189 del codice civile italiano, cioè per l’abolizione del divieto di ricercare la paternità per i figli nati fuori dal matrimonio. La disposizione era mutuata da quella analoga contenuta nell’art. 340 del Code Napoléon e voluta da Cambacérès, estensore dei progetti del codice francese, che ne sosteneva le ragioni affermando: «le donne diverranno più riserbate quando sapranno che cedendo, senza prendere precauzioni, per assicurare lo stato dei loro nati, esse solo ne saranno onerate» 27. Ma a parere dei positivisti italiani neppure in Francia il divieto aveva prodotto gli effetti sperati e le ragioni storiche che avevano portato alla sanzione del divieto potevano ritenersi tutte superate e pertanto nessuna obiezione poteva validamente opporsi alla abrogazione: né quella fondata sulla difficoltà della prova della paternità, né quella che considera scandalosa – e quindi deleteria per la serenità familiare – l’azione di ricerca della paternità. A chi obietta la difficoltà della prova si replica che se la prova non si raggiunge il giudice rigetterà la domanda. A chi teme lo scandalo si ricorda che l’Inghilterra, la Svizzera, la Germania, la Russia, l’America settentrionale, la Svezia «hanno la ricerca della paternità e i legislatori non si sono punto lasciati pigliar di paura da mogli che vanno oltre le rampogne d’alcova e da figli che reagiscono dentro e fuori le anticamere. Al vetriolo di quelle, alle rivoltelle di questi, opposero le manette del questurino e il tavolazzo della prigione» 28. La richiesta dell’abolizione del divieto si fonda su dichiarate opzioni etiche di matrice naturalistica e utilitaristica, ma soprattutto su un’analisi sociologica che si avvale dei dati statistici. La generazione di figli illegittimi è causa di grave danno sociale: si pone in evidenza l’alta percentuale, tra i criminali, di figli nati fuori dal matrimonio e si sottolinea, inoltre, che il divieto può indurre anche le madri, accanto ai padri naturali che rinunziano ai doveri di paternità, a diventare «più snaturate di una belva… per sottrarsi alla vergogna di una non giustificata e legale gravidanza… e per esimersi dalle cure difficili della maternità». Così le madri snaturate «facilitano gli aborti […] soffocano l’infante appena nato […] o mercanteggiano il frutto del loro ventre». Il divieto si porrebbe contro lo «stesso istinto animale pel quale il padre cerca il figlio per nutrirlo e crescerlo» e indurrebbe «nei seduttori il convincimento che non val la pena occuparsi della donna sedotta, né del suo parto». È proprio lo studio dei dati statisti27

Le espressioni citate nel testo sono tratte da I. Santangelo Spoto, I nati fuori matrimonio e la proibizione di ricerca della paternità, in Antologia giuridica, n. 3, fasc. 9-12 (agostonovembre 1889), p. 186-211, consultabile anche online sul sito www3.lex.unict.it/antologiagiuridica/default.asp. 28 Ibidem.

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ci, discriminati per anni e per ambienti, che dimostra come siano assolutamente infondate le ragioni di chi ritiene il divieto opportuno per la tutela della morale e della serenità familiare. Su analoghi presupposti si fonda la condanna della prostituzione, da molti – i seguaci di Hegel – considerata un male necessario perché protegge le donne (le mogli altrui) dalla infedeltà e difende la virtù dalle tentazioni e dalle cadute. Proprio con i dati statistici discriminati per le città e per le campagne si dimostra che la pretesa funzione sociale della prostituzione è assolutamente infondata: infatti nelle città, cioè negli ambienti in cui è più diffusa la prostituzione, più alta è la quantità di nati fuori dal matrimonio. Ma il divieto sulla ricerca della paternità resta. Solo quando vi sia stato ratto o stupro violento è possibile la ricerca della paternità. Negli altri casi la donna che ha avuto una relazione al di fuori del matrimonio, e il frutto della relazione, restano privi di protezione. Il divieto non viene espunto dall’ordinamento perché riflette una mentalità che non riconosce l’uguaglianza dei coniugi nel matrimonio e nella famiglia come non riconosce l’uguaglianza di uomini e donne nella società. Nella famiglia la potestà sui figli spetta solo al padre che addirittura può imporre la sua volontà anche dopo la sua morte (art. 235 cod. civ. 1865: «il padre può per testamento o per atto autentico stabilire condizioni alla madre superstite per l’educazione dei figli e per l’amministrazione dei beni»). Ma un parziale mutamento di mentalità comincia a registrarsi nella società e il legislatore anticipa, orienta, favorisce il cambiamento che sta avvenendo nel modo comune di sentire i rapporti sociali, il ruolo della donna, il senso della giustizia, la libertà di manifestazione delle idee. Spiega bene la mentalità e la cultura giuridica del tempo la previsione del reato di adulterio sanzionato con una pena da quattro a trenta mesi. Alcuni giuristi ritengono che l’adulterio non debba essere inserito tra i reati; altri, al contrario, lamentano che la pena sia troppo lieve e che odiosa risulti la differenza tra l’adulterio commesso dalla donna – sempre punibile e sempre adducibile da parte del marito come causa di separazione – e quello commesso dall’uomo – punibile solo quando egli tenga la concubina nella casa o, comunque, la tenga notoriamente (e solo in queste circostanze adducibile da parte della moglie come causa di separazione ex art. 150 cod. civ. 1865): odiosa perché fondata su una differente valutazione della promessa di fedeltà coniugale che invece deve essere reciproca. Il reato di adulterio, presente ancora nel codice Rocco del 1930, sarà cancellato dall’ordinamento a seguito di pronunce di incostituzionalità solo nel 1968. Per la stessa ragione, pericoloso – e contraddittorio – è per alcuni considerare l’incesto (art. 337 del codice penale Zanardelli: «Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, tiene incestuosa relazione con un discendente o ascendente…») come reato solo quando sia compiuto in modo da eccitare pubblico scandalo: non è vero che non vi sia danno sociale se all’incesto non è seguito lo scandalo, perché in una ristrettissima cerchia di persone l’incesto, «sia pure consumato nel massimo possibile mistero, non può rimanere assolutamente occulto; i sospetti degli intimi, le loro rivelazioni per impeto di dolore… il curiosa-

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re dei vicini, la condotta stessa dei colpevoli… tutto ciò fa sì che in un mondo più o meno esteso si avrà dubbio o notizia della mostruosa relazione». E poi non dovrebbe dirsi altrettanto dell’adulterio? Se il criterio è esatto, perché permettere a un marito di aprire il giudizio scandaloso di adulterio se lo scandalo non accompagnò il reato? E anche con riguardo all’incesto si rigetta la tesi di chi ne vuole escludere la punibilità perché ritiene che sia assai difficile il raggiungimento della prova: se la prova del reato non si avrà il magistrato dichiarerà inesistente il reato, ma la fattispecie dovrà qualificarsi comunque come reato 29. Nel corso del secolo XIX lo stupro semplice – il rapporto sessuale tra adulti consenzienti non legati da vincoli coniugali – in molti codici non è più considerato reato, al contrario che in passato. Nel nuovo codice penale Zanardelli del 1889 si punisce solo lo stupro violento (art. 331). La figura di reato, inserita tra i delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, punisce la violazione della libertà sessuale – art. 331 «chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona dell’uno o dell’altro sesso a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni…» –, ma la tutela della libertà sessuale non è il fine ultimo della norma. Per capire la reale considerazione di detta libertà, soprattutto quando riferita alla donna, devono tenersi presenti altre disposizioni contenute nello stesso codice: innanzitutto l’art. 350, che prevede che la pena sia diminuita dalla metà ai due terzi quando soggetto passivo del reato sia una pubblica meretrice; poi l’art. 352, che per il colpevole, che abbia dopo la commissione del delitto, contratto matrimonio con la vittima, prevede l’esenzione della pena o la cessazione dell’esecuzione della stessa quando il matrimonio sia stato celebrato dopo la condanna. E ancora più eloquente è l’atteggiamento della giurisprudenza, impegnata a provare nei processi la vera ed effettiva violenza perpetrata dal reo, o la vera ed effettiva resistenza opposta dalla vittima, fermo restando che tale strategia processuale è di antichissima data. In alcuni processi si mira ad ottenere la diminuzione della pena per i colpevoli che per una serie di indizi potevano aver ragione di ritenere che oggetto della violenza fosse una pubblica meretrice, quasi che si potesse ipotizzare una sorta di «meretricio putativo». Con riferimento al divieto di ricerca della paternità, allo stupro, all’adulterio, all’incesto, il legislatore segue, spesso con tempi lunghi, il processo di mutamento della mentalità diffusa nella società. Vi sono casi in cui, il legislatore, invece, guida tale processo. Per esempio, nel codice penale Zanardelli il duello (artt. 237 ss.), fino ad allora collocato tra i reati contro le persone, è inserito tra i reati contro l’amministrazione della giustizia. Ma nell’ambito dello stesso ordinamento che nella sua legge penale considera reato il duello, nell’esperienza militare si continua a punire, sia pure solo sul piano disciplinare (imbastendo di volta in 29 Le citazioni sono tratte dalla recensione di Pietro Delogu al Progetto del codice penale per il regno d’Italia presentato alla Camera dei deputati il 22 novembre 1887 dal Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Zanardelli), in Antologia giuridica, n. 2, fasc. 10-12 (gennaiomarzo 1888), pp. 878-903.

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volta procedimenti disciplinari per motivi, meglio pretesti, vari e diversi), il militare, in particolare l’ufficiale, che si sia rifiutato di accettare la sfida. A chiarire la mentalità del tempo basti pensare che in uno studio sul duello, un giurista, pur propugnando la necessità politica e giuridica della repressione del duello, così si esprime riguardo al duello per i militari: «Il militare per lo esercizio abituale delle armi ha un carattere specialissimo e distinto dal carattere di chi militare non sia. Il militare è un cittadino bensì, ma nel tempo stesso è una eccezione tra i cittadini. Il cittadino militare oltre che il proprio onore, deve tutelare il decoro della divisa e della spada» 30. E per chiarire la mentalità del tempo è utile guardare alle vicende legate alla morte di Felice Cavallotti (6 marzo 1898), deputato della sinistra, per mano di Ferruccio Macola, deputato della destra, durante un duello diretto dal giurista Guido Fusinato, anch’egli deputato al parlamento e padrino di Macola, alla presenza di altri deputati che nove anni prima avevano votato l’approvazione del codice Zanardelli. Proprio in occasione della morte di Cavallotti che, prima di quello che gli risultò fatale, sostenne 32 duelli, si riaccese un movimento per la più efficace persecuzione di questa figura di reato: i deputati socialisti chiesero l’abrogazione delle norme sul duello e la parificazione delle ferite e della morte da duello ai reati comuni contro le persone; gli studenti dell’università di Padova si impegnarono in una forte opera di sensibilizzazione; cortei furono organizzati a Roma e Milano. Si consideri anche che sovente, come nel caso di Cavallotti-Macola, il duello era preannunciato sui giornali che ne comunicavano in anticipo la data non tacendo sulle generalità dei duellanti e dei rispettivi padrini.

c) i progetti per la modernizzazione del Paese Tra le azioni intraprese dal legislatore, e tra le riflessioni condotte dai giuristi, per modernizzare il paese, oltre alle critiche ai codici a cui si è fatto cenno, qui per ragioni di spazio se ne ricordano alcune a mero titolo di esempio. Riguardano il trattamento penitenziario, la riforma agraria, il ruolo della donna. Il trattamento penitenziario è un problema ancora attuale che stenta a trovare un’adeguata soluzione; la riforma agraria è stata faticosamente solo parzialmente realizzata nonostante i molteplici tentativi attuati dopo l’unità, durante il fascismo e nella Repubblica; la donna ha conquistato il suo spazio in tutti gli ambiti della società. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento il legislatore si dedica alla riforma del sistema penitenziario tenendo conto dei risultati delle ricerche delle due correnti che animano la giuspenalistica, la scuola positiva e la scuola classica: prevedere e, soprattutto, attuare – non accontentandosi solo di costruire qualche carcere-modello – un sistema efficace di espiazione della pena significa evitare che

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G. Crivellari, Il duello nella dottrina e nella giurisprudenza, Utet, Torino 1884, pp. 44-45.

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ogni luogo di pena si trasformi in un covo di delinquenti ed evitare che le carceri restituiscano alla società «esseri maggiormente abbrutiti nel delitto piuttostoché cittadini rigenerati dalla virtù emendatrice della pena». Sia pure con motivazioni diverse, per quanto riguarda le condizioni e il tenore di vita che devono assicurarsi ai carcerati, i giuristi ritengono che debbano ispirarsi ad austerità e non debbano eccedere oltre i limiti fissati dal «più semplice soddisfacimento del necessario alla vita», per il carattere necessariamente afflittivo della pena, e per evitare che i reclusi possano abituarsi a un tenore di vita che non potranno più procurarsi onestamente una volta liberi. Sullo sfondo si fronteggiano due visioni che restano radicalmente opposte della responsabilità penale: responsabilità personale e influenze delle condizioni sociali; libertà e determinazione. Funzione principale della pena è la repressione, tesa alla riaffermazione del diritto mediante la condanna del reo. Naturalmente la pena deve tendere anche all’emendamento giuridico del reo, non all’emendamento morale: «Lo stato… da un canto non ha nessuna competenza per ingerirsi nei fatti di coscienza, non è dall’altro con le pene che può esercitare efficacia per rendere gli uomini morali». Il potere punitivo deve cioè «indirizzare mediante le debite privazioni l’attività del caduto a prestare ossequio e rispetto ai dettami del giure, qualunque si fosse del resto il suo interno sentire, indipendentemente cioè dalla sua palingenesi morale». Se «lo stato non può pretendere che gli uomini divengano a forza morali», tuttavia ha il dovere di apprestare tutti i mezzi necessari perché coloro che lo vogliano possano «di loro libera volontà» o «per mero impulso spontaneo» indirizzarsi verso «l’emendamento morale» 31: da qui la necessità di fornire nelle carceri un’adeguata istruzione (anche mediante letture edificanti), di consentire i contatti tra i ristretti nelle carceri e i membri delle società di patronato (per la cui costituzione si battono fieramente comitati di promozione in tutta Italia), di predisporre un’assistenza religiosa, di impegnare i reclusi non già in un lavoro sterile e afflittivo, bensì produttivo e socialmente utile. Impegnare nel lavoro i reclusi non solo ha in sé un significato educativo e moralizzatore, ma ha anche lo scopo di prepararli al reinserimento nella società. Per questo fine da parte di alcuni giuristi si ritiene che, con le garanzie di un organo di vigilanza, e rimanendo categoricamente escluso il ricorso a pene corporali – sia utile affidare all’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena il potere di individuare il regime penitenziale più adatto al condannato, considerate le sue condizioni fisiche e morali. E se non ci si spinge fino al punto di sostenere l’abolizione dell’ergastolo, si propugna tuttavia un sistema capace di mantenere viva la speranza per il condannato che abbia tenuto una condotta irreprensibile nel carcere e che si sia mostrato ‘emendato’.

31 Le citazioni sono tratte da M. De Mauro, Regime penitenziario – Prolusione al corso di Diritto e Procedura Penale letta nella grand’aula della Regia università di Catania, in Antologia giuridica, n. 2, fasc. 8-9 (novembre-dicembre 1887), pp. 525-559.

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Alla riforma agraria, al credito agrario, alla bonifica si dedicò il legislatore liberale dell’Ottocento e del Novecento, il legislatore fascista e quello repubblicano. Il latifondo meridionale, e quello siciliano in particolare, fu oggetto di ripetuti interventi legislativi e può essere assunto a modello della complicata vicenda nazionale. Quando Carlo Emilio Gadda illustrò la legge 2 gennaio 1940, n. 1 sulla «Colonizzazione del latifondo siciliano» esaltò l’«attenzione chiaroveggente» del duce per la soluzione di un «problema di remota e dolorosa eredità» 32. La legge n. 1 del 1940, infatti era solo l’ultima tra le leggi con cui lo stato italiano aveva cercato di affrontare il problema. Fin dalla sua costituzione il Regno d’Italia aveva dovuto far i conti con la situazione dell’Isola e i risultati erano stati assai scadenti se lo stesso Gadda rileva che nel 1940 il 20% della superficie censita è in mano allo 0,2% dei proprietari censiti. Questi dati sono ancora più eloquenti se si considera che tra il 1835 e il 1852 i proprietari erano 606.601 e al 1° gennaio 1871 erano 549.957: in sintesi le politiche attuate dopo l’Unità avevano condotto a una concentrazione della proprietà piuttosto che a una sua diffusione. Un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini in Sicilia nel 1910 registrava che il 41,69% della superficie catastale era costituita da proprietà superiori a 200 ettari e che circa un terzo dell’isola (718.000 ettari circa) era posseduto da 787 persone. Già l’abrogazione dell’assetto feudale che aveva preceduto l’Unità aveva prodotto piuttosto che l’ampliamento della proprietà una concentrazione della stessa nelle mani dei ceti aristocratici e medio alti e dei gabellotti. Dopo l’Unità la distribuzione tra i contadini delle terre del demanio borbonico e di quelle dell’asse ecclesiastico ebbe un esito contrario a quello sperato. I nuovi proprietari, privi di mezzi e di un concreto sostegno finanziario, furono costretti, nel giro di pochi anni, a vendere ai baroni, ai borghesi, ai gabellotti, a basso prezzo, le terre loro assegnate. Non valsero a risollevare lo stato dell’agricoltura in Sicilia neppure altri interventi che lo Stato unitario aveva promosso e favorendo il credito per l’agricoltura e dando impulso alla bonifica e al miglioramento fondiario. Un progetto di legge presentato da Crispi il 1° luglio 1894, e rimasto lettera morta, prevedeva che i fondi rustici dei comuni del Regno fossero distribuiti in enfiteusi perpetua agli agricoltori; fissava una estensione massima per i latifondi e stabiliva che le porzioni dei latifondi eccedenti tale estensione fossero dati in locazione per un periodo non inferiore ai 15 anni. Ove fosse stato violato tale obbligo le quote eccedenti avrebbero dovuto essere concesse in enfiteusi perpetua. Ovviamente questo progetto, come anche altri che pure erano stati elaborati per risolvere il secolare problema del latifondo, venne ostacolato e poi dimenticato per le opposizioni dei latifondisti e, anche, dei movimenti più avanzati del liberalismo democratico.

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C.E. Gadda, La colonizzazione del latifondo siciliano, in Le Vie d’Italia, 47.3 (marzo 1941), pp. 335-343.

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L’impegno della donna, tradizionalmente limitato al settore agricolo, già alla fine dell’Ottocento si comincia a estendere a quello artigianale e industriale e, più tardi, con le guerre mondiali, diventerà essenziale per sostenere lo sforzo bellico mentre gli uomini validi nella loro maggioranza sono impegnati in guerra. Solo con la legge 17 luglio 1919, n. 1176 si sancirà la fine dell’autorizzazione maritale prevista negli artt. 134 ss. cod. civ. 1865, cioè di quella sorta di integrazione della capacità di agire della donna sposata per il compimento di determinati atti (art. 134: «La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito. Il marito può con atto pubblico dare alla moglie l’autorizzazione in genere per tutti o per alcuni dei detti atti, salvo a lui il diritto di rivocarla»). Con la stessa legge n. 1176 del 1919, all’art. 7, si ammettevano le donne, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a ricoprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato. Ma per la concreta attuazione delle norme si rinviava a regolamenti. L’abolizione dell’autorizzazione maritale, che consente alla donna di amministrare autonomamente il proprio patrimonio, così come la parziale apertura verso le professioni, segna un importante passo in avanti, ma solo nella dimensione privata. Per il diritto di voto si dovrà attendere il 1946; la piena equiparazione sarà sancita solo nella Costituzione, anche se un atteggiamento resistente all’apertura alla parificazione si registra anche nell’Assemblea costituente a proposito dell’ingresso della donna in magistratura. Per tutti valgano gli interventi in Assemblea costituente, nella seduta dell’11 novembre 1947, di Antonio Romano, magistrato, e di Giuseppe Bettiol, maestro del diritto penale. Il primo afferma: «la donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa» 33.

Gli fa eco il secondo: «San Paolo diceva: “Tacciano le donne nelle Chiese”. Se San Paolo fosse vivo direbbe: “Facciano silenzio le donne anche nei tribunali”, cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vi33

La Costituzione della repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, V, Camera dei Deputati Segretariato Generale, Roma 1976, p. 3370.

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ta, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema delle donne nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile» 34.

I toni usati dai due costituenti non sono lontani da quanto alla metà dell’Ottocento aveva scritto Ernest Legouvé: «una donna medico ripugna, una donna notaio fa ridere, una donna avvocato spaventa» 35. Solo nel 1963, con la legge n. 66 del 9 febbraio, che abroga la n. 1176 del 17 luglio 1919, si stabilisce che «la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari». Solo nel 1975 alla patria potestà subentra la potestà dei genitori.

5. Il fascismo, sub specie historiae iuris. Fare i conti con un ventennio ingombrante Nel mese di ottobre del 1922 il re Vittorio Emanuele III, anziché dichiarare lo stato d’assedio per bloccare le bande armate fasciste che violando l’ordine pubblico imperversano sul territorio del regno per dirigersi su Roma, sceglie di dare l’incarico di formare il governo a Benito Mussolini, capo di un partito che alla Camera può contare su 35 dei 105 deputati del Blocco nazionale nelle cui liste sono stati eletti i fascisti, i nazionalisti e, in alcuni collegi, qualche popolare e qualche giolittiano. Raggiunto il potere nel “rispetto” della legalità formale, mentre continuano le violenze perpetrate dalle squadracce fasciste, tanto che già nel dicembre 1922 è necessario un provvedimento di amnistia, Mussolini riesce a far approvare la legge 3 dicembre 1922, n. 1601 con cui si conferisce al governo del re, fino al 31 dicembre 1923, la facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge per riordinare lo Stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese. Altre volte nel passato si era adottato un provvedimento simile, ma sempre in corrispondenza di eventi bellici e, al di fuori di quegli eventi, nel 1894 per esempio, il Parlamento aveva fissato limiti e criteri per l’intervento del governo. Considerato che, per la riforma amministrativa e per altri importanti settori, già si era in regime di delega, assistita però da limiti e 34

Ivi, pp. 3708-3709. E. Legouvé, Histoire morale des femmes, J. Hetzel, Paris 1849, p. 350: «Une femme médecin répugne; une femme notaire fait rire; une femme avocat effraie». 35

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indirizzi, la legge del 1922, con il conferimento in bianco dei pieni poteri, delegava in toto al potere esecutivo la funzione legislativa, eliminando qualunque limite e astenendosi dal fissare criteri per l’azione del governo. Matteotti, deputato socialista, si oppone fieramente al provvedimento che viene tuttavia approvato dalla maggioranza parlamentare. Mussolini inoltre procede a una riforma elettorale (la legge Acerbo, a cui si è già accennato) che gli consentirà nelle elezioni del 1924 di ottenere una solida maggioranza superiore ai 2/3 dei deputati. Nonostante il successo elettorale, il 1924 segna un momento di crisi della leadership del duce del fascismo. Le violenze e i brogli che hanno scandito le elezioni e il successivo rapimento del deputato socialista Giacomo Matteotti – sequestrato e ucciso il 10 giugno da squadristi forse riconducibili al Capo del governo – suscitano la reazione delle opposizioni. La fine di Matteotti, il cui corpo è ritrovato il 16 agosto del 1924, indebolisce il Presidente del Consiglio, su cui pesa l’ombra della responsabilità del delitto, e ne mette in discussione il ruolo, nonostante Mussolini nel suo discorso alla Camera il 13 giugno neghi qualunque sua responsabilità: alcuni fascisti rinunciano alla tessera del partito, nello stesso momento in cui, però, altri, non ancora iscritti, si decidono a chiederla; i partiti di opposizione, con l’eccezione dei comunisti, scelgono – strategia che non sortirà gli effetti voluti – di abbandonare il Parlamento e di ritirarsi sull’Aventino (secondo l’uso dei plebei durante i conflitti con i patrizi nell’antica Roma) fino a quando non saranno state chiarite le responsabilità del Capo del governo. Lo stesso 13 giugno, però, il Presidente della Camera Alfredo Rocco non consente alle opposizioni di replicare a Mussolini e aggiorna la seduta a una data da definire. Nei fatti il parlamento non si riunirà fino al novembre successivo e il 3 gennaio del 1925 Mussolini sfida la Camera affinché sia messo in stato d’accusa in base all’art. 47 e 36 dello Statuto (art. 47: «La Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del re, e di tradurli dinanzi all’Alta Corte di Giustizia»; art. 36: «Il Senato è costituito in Alta Corte di Giustizia con decreto del re per giudicare dei crimini di alto tradimento, e di attentato alla sicurezza dello Stato, e per giudicare i Ministri accusati dalla Camera dei Deputati…»). Nei mesi precedenti agli aventiniani che richiedevano un intervento del re, il sovrano rispondeva che si sarebbe mosso solo se ci fosse stata una richiesta del Parlamento e affermava: «Io sono sordo e cieco: i miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato; mettano in minoranza il governo ed io lo licenzierò!» 36. Il re, insomma, non intende avvalersi delle prerogative proprie del sovrano di una monarchia costituzionale in cui il capo del governo risponde direttamente al re e non alle Camere. Con il discorso del 3 gennaio Mussolini ribalta la propria posizione: di lì a poco inizieranno tutti i provvedimenti liberticidi che segnano la nascita della dittatura vera e propria. 36

Ricordato, tra i tanti, da L. Valiani, L’altra Europa. 1922-1945, Giappichelli, Torino 1967, p. 6 ss.

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Il 24 dicembre del 1925 la legge n. 2263 ribadirà fermamente che il Presidente del Consiglio, ora rinominato Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, è il tramite attraverso il quale il re esercita il potere esecutivo (art. 1). Egli è nominato e revocato dal re ed è responsabile verso il re dell’indirizzo generale politico del Governo. Il decreto di nomina del Capo del Governo Primo Ministro è controfirmato da lui, quello di revoca dal suo successore. I Ministri Segretari di Stato sono nominati e revocati dal re, su proposta del Capo del Governo Primo Ministro. Essi sono responsabili verso il re e verso il Capo del Governo di tutti gli atti e provvedimenti dei loro Ministeri (art. 2). Il governo fascista, così, segna la fine della profonda crisi causata dal delitto Matteotti, liberando il Governo dalla responsabilità nei confronti della Camera e ribadendo la soluzione adottata nella lettera dello Statuto albertino secondo il quale il potere esecutivo spetta esclusivamente al re (art. 5 Statuto). La legge n. 2263, nel ribadire la scelta del modello di monarchia costituzionale, scelta conforme all’originaria soluzione adottata nello Statuto, costituisce una cesura nella consuetudine costituzionale del Regno per la quale in alcuni casi il governo si era dimesso perché non riscuoteva più la fiducia della maggioranza del parlamento. A margine deve annotarsi che l’art. 9 della legge n. 2263 sanzionava con la reclusione non inferiore a 15 anni (e con l’ergastolo ove fosse stato conseguito l’intento) l’attentato contro la vita, l’integrità o la libertà del Capo del governo. Dopo meno di un anno lo stesso reato, di nuova istituzione, sarebbe stato sanzionato con la pena di morte. Il governo fascista, che, una volta superata la crisi causata dal delitto Matteotti, si avvia a diventare un regime totalitario 37, si assicura il controllo dell’opinione pubblica. La legge 31 dicembre 1925, n. 2307 assegna all’Ordine dei giornalisti di nuova istituzione in ciascuna città sede di Corte d’Appello la cura di predisporre gli albi professionali. La tenuta degli albi, istituiti e regolamentati con il R.D. 26 febbraio 1928, n. 384 e la disciplina degli iscritti sono esercitate dall’Associazione sindacale fascista dei giornalisti a mezzo di un Comitato composto di cinque membri appartenenti al sindacato, iscritti nell’albo professionale, nominati dal Ministro per la giustizia, di concerto con quelli per l’interno e le corporazioni, fra coloro che la competente associazione sindacale designerà in numero doppio. Sull’iscrizione agli albi vigila il prefetto, a cui prima di provvedere sulla iscrizione il Comitato domanderà un’attestazione sulla condotta politica del giornalista che chiede di essere iscritto all’albo, per accertarne l’ortodossia politica. Con la legge 31 gennaio 1926, n. 100 cui si è già accennato a proposito della 37

Il termine “totalitario”, intorno al quale nei decenni successivi si costruirà la categoria del “totalitarismo”, è utilizzato per la prima volta, con riferimento alla legge elettorale Acerbo voluta dal fascismo, da Giovanni Amendola, in un articolo intitolato «Maggioranza e minoranza» apparso su «Il mondo» del 12 maggio 1923, ora pubblicato in G. Amendola, La crisi dello Stato liberale. Scritti politici dalla guerra di Libia all’opposizione al fascismo, a cura di E. D’Auria, Newton Compton, Roma 1974, pp. 344-345.

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decretazione d’urgenza 38, un’ampia fetta della funzione legislativa è affidata al potere esecutivo. Al Consiglio dei Ministri la legge assegna la funzione di deliberare, udito il parere del Consiglio di Stato, le norme giuridiche necessarie per disciplinare l’esecuzione delle leggi; l’uso delle facoltà spettanti al potere esecutivo; l’organizzazione ed il funzionamento delle Amministrazioni dello Stato, l’ordinamento del personale ad esse addetto, l’ordinamento degli Enti ed istituti pubblici, eccettuati i Comuni, le Provincie, le istituzioni pubbliche di beneficenza, l’Università e gli istituti di istruzione superiore che hanno personalità giuridica, quand’anche si tratti di materie sino ad allora regolate per legge, restando ferma «la necessità dell’approvazione, con la legge del bilancio, delle spese relative» e restando fermo che debbano in ogni caso «essere stabilite per legge le norme concernenti l’ordinamento giudiziario, la competenza dei giudici, l’ordinamento del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, nonché le guarentigie dei magistrati e degli altri funzionari inamovibili». Gli attentati contro il duce verificatisi nel corso del 1926 sono utilizzati dal regime per inasprire la svolta autoritaria fino a istituire un tribunale speciale per gli oppositori del regime. Il 9 novembre del 1926 – nella stessa seduta in cui si esaminano i «Provvedimenti per la difesa dello Stato» che di lì a poco saranno consacrati nella legge 2008 del 25 novembre 1926, con cui si istituisce il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato – con un singolare provvedimento che strumentalmente si fonda sullo Statuto albertino, si sanzionano i deputati aventiniani decidendone la decadenza, con l’acquiescenza della Corona. La sera prima il deputato e leader comunista Antonio Gramsci, insieme ad altri, è tratto in arresto e condotto a Regina Coeli. Qualche mese dopo, l’11 marzo del 1927, verrà arrestato anche il deputato e leader del partito popolare Alcide De Gasperi. Il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato è il tribunale politico, solo formalmente militare, sottoposto per i primi anni al Ministro della Guerra, poi direttamente al duce: le sentenze sono sottratte a qualunque forma di gravame, fatta eccezione per la revisione. Il Tribunale è costituito da un presidente scelto tra gli ufficiali generali del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, da cinque giudici scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e da un relatore senza voto scelto tra il personale della giustizia militare. La costituzione del Tribunale è ordinata dal Ministro per la Guerra, che ne determina la composizione, la sede e il comando presso cui è stabilito (art. 7). Il duce del fascismo, come documentano gli archivi, si informa e tiene costantemente i contatti con i magistrati del Tribunale Speciale. La legge che lo istituisce prevede una durata di soli cinque anni, ma il Tribunale rimarrà attivo sino alla caduta del regime e oltre, nella Repubblica Sociale Italiana, grazie a provvedimenti di proroga. La legge istitutiva del Tribunale Speciale innova la disposizione dell’art. 117

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Supra, § 2c.

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del codice penale Zanardelli del 1889 sostituendo la sanzione dell’ergastolo con quella della pena di morte – bandita nell’ordinamento italiano da quel codice – per chiunque commetta un fatto diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale del re o del reggente, della regina o del principe ereditario, del capo del governo (art. 1). La pena capitale è sostituita all’ergastolo anche nelle fattispecie di reato di attentato contro l’integrità, l’indipendenza, l’unità dello Stato (104 cod. pen.), di spionaggio (107 e 108 cod. pen.), di insurrezione armata (120 cod. pen.), di eccitamento alla guerra civile (252 cod. pen.). Con la disposizione di cui all’art. 3 si anticipa la soglia della punibilità in caso di concorso di più persone, ancorandola al mero “concerto”: il concorso di due o più persone in questi reati è sanzionato, «pel solo fatto del concerto con la reclusione da cinque a quindici anni». Negli stessi anni il fascismo mette fuori legge tutte le associazioni (sindacati, partiti e non solo) non direttamente controllate dal fascismo e completa la fascistizzazione dello Stato. L’idea fascista di Stato, di Stato corporativo, ha il suo manifesto nella Carta del lavoro del 21 aprile (fondazione di Roma) 1927. A sottolinearne il rilievo “costituzionale” per il fascismo, la Carta è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno, pur non avendo alcun valore formale che possa giustificarne la pubblicazione sul foglio. «La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista» (art. I).

«Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato». Proprio all’interno dello Stato fascista tutte le componenti produttive (lavoratori e datori di lavoro) costituiscono il complesso unitario della produzione i cui fini, unitari, «si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale» (art. II). Nel supremo interesse della produzione il contratto collettivo, ispirandosi a sentimenti di solidarietà, concilia i contrapposti interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro. «L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori, per cui è costituito: di tutelarne, di fronte allo Stato e alle altre associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre loro contributi e di esercitare, rispetto ad essi, funzioni delegate di interesse pubblico» (art. III). «Le associazioni professionali legalmente riconosciute assicurano l’uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori, mantengono la disciplina della produ-

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zione e del lavoro e ne promuovono il perfezionamento. Le corporazioni costituiscono l’organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi. In virtù di questa integrale rappresentanza, essendo gli interessi della produzione interessi nazionali, le corporazioni sono riconosciute come organi di Stato. Quali rappresentanti degli interessi unitari della produzione le corporazioni possono dettare norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e anche sul coordinamento della produzione tutte le volte che ne abbiano avuto i necessari poteri dalle associazioni collegate» (art. VI).

All’art. IX della Carta del lavoro si collega anche il programma fascista di intervento pubblico nell’economia: «L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in gioco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta».

Dopo qualche anno, nel 1933, il regime istituirà l’Istituto per la Ricostruzione Industriale che per circa 60 anni, ben oltre la fine del fascismo, sarà uno dei gangli più importanti dell’economia italiana. L’IRI servirà a salvare imprese decotte, banche in difficoltà, sarà pure un canale di assistenzialismo clientelare, ma sarà anche lo strumento per l’intervento e per gli investimenti pubblici in settori strategici dell’economia. La Carta del Lavoro è la carta costituzionale del regime fascista: seguiranno le norme che danno attuazione alla rappresentanza sindacale e, a distanza di un decennio, nel 1939, l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni. Il sistema corporativo articolato nelle varie forme e ancorato alla rappresentanza sindacale dell’unico sindacato costituisce un canale attraverso il quale il fascismo, allergico agli “elezionalismi”, si collega alla realtà sociale: gli organi del sistema corporativo sono rappresentativi della società italiana e servono a garantire il collegamento del partito-stato alla società. La Carta del lavoro del 1927 e le riforme del Gran Consiglio del Fascismo del 1928-29 concludono il progetto mussoliniano di identificare il fascismo con lo Stato e lo Stato con il fascismo. La fascistizzazione dello Stato e, specularmente, la statizzazione del fascismo, sono gli strumenti attraverso i quali Mussolini riesce a costituire sempre il fulcro intorno al quale si compongono le complesse relazioni dinamiche che innervano lo stato e il Partito nazionale fascista. La fascistizzazione dello Stato e la statizzazione del fascismo erano cominciate già subito dopo la marcia su Roma: con il R.D. 14 gennaio 1923, n. 31 si era istituita una Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) che è «al servizio di Dio e della Patria italiana, ed è agli ordini del Capo del Governo». Il reclutamento avviene su base volontaria tra i membri della milizia fascista che ne facciano istanza e che siano ritenuti idonei per i requisiti di capacità e di moralità dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dalle autorità gerarchiche da lui dele-

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gate. La milizia, in concorso coi corpi armati per la sicurezza e con il Regio esercito, è impiegata a mantenere all’interno l’ordine pubblico; prepara e conserva inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell’Italia nel mondo. Il provvedimento era necessario per imbrigliare le squadracce e tenerne a freno le intemperanze. Singolare, ai limiti del quadro costituzionale, era il fatto che la MVSN fosse alle dipendenze del Presidente del Consiglio e non del re. Ma il R.D. 4 agosto 1924, n. 1292 nel pieno della crisi causata dalla scomparsa di Matteotti, provvide a inquadrare la MVSN tra le forze armate dello Stato e dispose per i suoi componenti il giuramento di fedeltà al re e la soggezione alle stesse disposizioni disciplinari e penali previste per l’esercito. Un altro importante passo verso la dittatura avvenne nel dicembre del 1925 con la legge n. 2263, cui si è già accennato a proposito della responsabilità politica del Capo del governo nei confronti del re e non del Parlamento. Questa legge infliggeva un ulteriore vulnus al potere legislativo assicurando al dittatore il pieno controllo del parlamento: l’art. 6, infatti, prescrive che «nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due camere, senza l’adesione del capo del governo». Un’altra tappa importante per la fascistizzazione dello stato e per la statizzazione del fascismo fu segnata dalle leggi 9 dicembre 1928, n. 2693 e 19 dicembre 192, n. 2099 che intervenivano a regolare il Gran Consiglio del Fascismo già istituito il 15 dicembre 1922 con decreto reale sulla base della legge 3 dicembre 1922, n. 1601 che aveva conferito i pieni poteri al Presidente del Consiglio. Si tratta, come affermano Rocco e Mussolini nella relazione presentata al Senato il 6 novembre del 1928, di un «nuovo decisivo passo innanzi fatto verso l’assorbimento, da parte dello Stato, delle grandi istituzioni sorte dalla rivoluzione del 1922… Nessuno… può oggi più dubitare che dalla rivoluzione dell’ottobre 1922 sia uscito non un Ministero e neppure un Governo, ma un nuovo assetto della Società, un tipo nuovo di Stato, quello che si suol chiamare continuamente un regime… il nuovo ordine politico e sociale si è andato trasformando in un nuovo ordine giuridico. Si è avuta così anzitutto la riorganizzazione del potere esecutivo, nei suoi ordinamenti, nelle sue facoltà, nei suoi rapporti col potere legislativo. È venuta poi la riorganizzazione del Parlamento, specie per ciò che attiene alla rappresentanza politica. Contemporaneamente le nuove forze sociali e politiche create dal fascismo venivano giuridicamente disciplinate ed entravano a far parte dello Stato, accrescendone l’autorità, allargandone i compiti, trasformandolo profondamente… Il Gran Consiglio, costituito subito dopo l’avvento del fascismo al potere, per la necessità, immediatamente sentita, di un organo di coordinamento e di integrazione delle varie forze del regime, diviene oramai, anche dal punto di vista giuridico, un organo dello Stato. Ed anche il Partito nazionale fascista, che dei vecchi partiti, accampati nello Stato e in perpetua lotta fra di loro per dominarlo, non ha più oramai che il nome, si avvia esso pure decisamente a far parte delle forze organizzate dello Stato, in quella posizione preminente che le sue altissime benemerenze passate e il grande compito presente ed avvenire gli hanno già nel fatto assegnata».

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Il Gran Consiglio del Fascismo – il cui presidente, di diritto, è il Presidente del consiglio che può convocarlo quando lo ritiene opportuno, e i cui membri godono di immunità (art. 9) – «è l’organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922. Esso ha funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge e dà, inoltre, parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo» (art. 1). Secondo il principio fascista di rappresentatività non “elezionalistica” il Gran Consiglio riunisce tutti i vertici dello Stato fascista e del partito fascista. Il parere del Gran Consiglio è obbligatorio ma non vincolante su tutte le questioni aventi carattere costituzionale e sono considerate sempre come aventi carattere costituzionale le proposte di legge concernenti: la successione al trono, le attribuzioni e le prerogative della Corona; la composizione e il funzionamento del Gran Consiglio, del Senato del Regno e della Camera dei deputati; le attribuzioni e le prerogative del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato; la facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; l’ordinamento sindacale e corporativo; i rapporti tra lo Stato e la Santa Sede; i trattati internazionali, che importino variazione al territorio dello Stato e delle Colonie, ovvero rinuncia all’acquisto di territori (art. 12). Inoltre, il Gran Consiglio, su proposta del Capo del Governo, forma e tiene aggiornata la lista dei nomi da presentare alla Corona, in caso di vacanza, per la nomina del Capo del Governo medesimo (art. 13). La riforma del 1929 ridurrà la composizione dell’organo e renderà ancora più evidente lo scopo della regolamentazione del Gran Consiglio. In effetti, la composizione, la convocazione e la redazione dell’ordine del giorno, tutti esclusivamente nella disponibilità del duce, rivelano che il Gran Consiglio doveva essere – e fu, nel disegno del dittatore – lo schermo di legalità formale dietro cui celare un’ulteriore forma di accentramento personale. Il timone del Gran Consiglio era solidamente nelle sole mani del duce e il potere che il Gran Consiglio tendeva a ridimensionare era quello del sovrano che per la prima volta nella storia costituzionale subiva interventi legislativi che lambivano territori che solitamente erano rimasti immuni dalle influenze dei legislatori: la designazione del Capo del Governo, la successione al trono, la reggenza. Una volta affermato con legge che il Gran Consiglio è uno strumento della dittatura personale di Mussolini, l’organo perde la sua funzione iniziale di stanza di compensazione rappresentativa delle diverse anime del Partito-Stato. Se sono 107 le sedute dal 1923 al 1929, sono 57 dal 1930 al 1936 e solo 22 dal 1937 al 1939. Una sola dal 1940: la seduta del 24-25 luglio 1943. Un’altra frattura nell’ordine costituzionale è quella costituita dalle leggi razziali che dispongono la compiuta e completa esclusione della comunità di italiani di origini ebraiche dalla nazione che pure quella comunità aveva concorso a costituire. Tra il luglio e il novembre del 1938 l’Italia avvia la legislazione antiebraica che si sviluppa con ripetuti e capillari interventi negli anni successivi per condurre alla compiuta esclusione dei circa 37.000 italiani di origine ebraica dal

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tessuto sociale, economico, culturale dell’Italia. Un’efficace campagna di stampa prepara l’opinione pubblica ad accettare i provvedimenti. Il 17 novembre 1928 il R.D. n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, convertito nella legge 5 gennaio 1939, n. 274, segna la tappa fondamentale della prima fase della legislazione antiebraica che lacera profondamente la trama del tessuto ordinamentale privando il gruppo di soggetti dell’ordinamento, destinatario di tale disposizione, dei mezzi di tutela amministrativa e giurisdizionale ordinariamente disponibili per i consociati. L’art. 26 del r.d. n. 1728 del 1938 escludeva qualunque forma di ricorso, giurisdizionale o amministrativo, contro il provvedimento con cui il duce decideva, caso per caso, le questioni relative all’applicazione della legislazione razziale. Nel mese di dicembre dello stesso 1938 viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno il I libro del codice civile (entrerà in vigore il 21 aprile 1942) che all’art. 1 sancisce: «le limitazioni della capacità civile derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali» e consacra la centralità della scelta razzista del legislatore. Per la prima volta nell’età delle codificazioni si ristabilisce una limitazione della capacità giuridica in dipendenza dell’appartenenza a una razza e si riserva alle leggi speciali il compito di fissare le limitazioni della capacità. Il nitido dettato testuale rivelava un significato che non si prestava, non si sarebbe potuto prestare, a interpretazioni equivoche: in presenza di una norma di tal fatta, collocata, in apertura del codice civile, non si sarebbe potuto sostenere in alcun modo che il concetto di razza era estraneo all’ordinamento italiano. Tuttavia, nell’applicazione delle disposizioni razziali, almeno fino al 1943, molti giudici, non tutti, per un «incontenibile senso della ingiustizia, più forte di ogni ragionamento», si spinsero a cercare «ingegnosi pretesti dialettici per eludere nei loro giudizi la spietata follia di quelle leggi abominevoli: e la motivazione era spesso lo schermo abilmente studiato per compiere questo generoso tradimento» 39. I giudici nelle sentenze ripetutamente affermavano che le leggi antisemite avevano il limitato scopo politico di isolare la comunità ebraica e di impedire pericolose commistioni di razza, ma negavano apoditticamente che il concetto di razza fosse entrato a far parte dell’ordinamento. In tal modo riuscirono in qualche caso ad arginare la potenzialità espansiva del corpus delle norme razziali sull’intero ordinamento. A proposito del progetto del codice civile, frutto di una ‘malsana tendenza’, già emersa in ‘qualche legge straniera’, nel 1939 Piero Calamandrei critica il progressivo affievolimento del diritto soggettivo che spesso è ridotto a un interesse occasionalmente protetto; l’allargamento del diritto amministrativo a scapito del diritto civile; l’aumento dei poteri discrezionali del giudice; l’annebbiamento dei confini non solo tra diritto privato e diritto pubblico, ma anche tra 39 P. Calamandrei, La crisi della motivazione, in Processo e democrazia. Conferenze tenute alla Facoltà di diritto dell’Università nazionale del Messico, Cedam, Padova 1954, pp. 113114. La conferenza è del 24 febbraio 1952.

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diritto sostanziale e diritto processuale; il discredito crescente non solo delle codificazioni, ma della stessa legge intesa come norma generale ed astratta, preesistente al giudizio; l’aspirazione sempre più viva al diritto del caso per caso 40. Il fascismo ha segnato e continua a segnare la storia d’Italia anche dopo la sua fine, non solo per i quattro codici entrati in vigore nel 1930 e nel 1942 e tuttora in vigore (eccetto quello di procedura penale sostituito nel 1988): sull’impianto generale dei codici – che sono anche l’approdo della cultura giuridica italiana e dei diversi progetti che furono presentati nei decenni precedenti, dopo il lungo dibattito che cominciò all’indomani della promulgazione degli ultimi codici ottocenteschi – il regime fascista imprime segni forti. Si pensi, solo a titolo di esempio, alla reintroduzione della pena di morte, all’anticipazione della soglia di punibilità per i delitti di natura politica, all’introduzione dei limiti alla capacità giuridica in ragione dell’appartenenza ad una determinata razza. È fuor di dubbio che nel ventennio, soprattutto dopo la crisi innescata dal delitto Matteotti – cioè dopo che il fascismo riuscì ad affermarsi come una vera e propria dittatura e a imporre un sistema totalitario – l’ordinamento italiano subì profonde, radicali modifiche: le leggi sulla stampa, l’istituzione del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, la Carta del lavoro, la statizzazione del Gran Consiglio e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, le riforme del sistema elettorale e della rappresentanza, l’istituzione dell’OVRA, il concordato con la Chiesa cattolica e l’intesa con le comunità israelitiche, la legge fallimentare, l’istituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), le due stagioni codificatorie – quella penale, con i nuovi reati a tutela della personalità dello stato e la reintroduzione della pena di morte, quella civile, con l’unificazione del diritto privato e il “nuovo” libro sull’impresa –, le leggi razziali, l’abolizione della Camera dei deputati e la sua sostituzione con la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ma anche il testo unico sul pubblico impiego e l’istituzione dell’Opera nazionale maternità e infanzia e dell’Istituto nazionale fascista per gli infortuni sul lavoro. Tutti questi provvedimenti sono dichiaratamente fascisti e innervati dell’ideologia fascista: certamente alcuni non si sarebbero mai realizzati se non all’interno di un regime totalitario (mi riferisco ai provvedimenti relativi al controllo della stampa, al Tribunale Speciale, al Gran Consiglio, alle leggi razziali, per esempio); altri sono simili, almeno in parte, e sia pure con un più o meno evidente segno fascista, ai provvedimenti che nello stesso periodo si diedero altri stati europei non guidati da un dittatore (mi riferisco, per esempio, ai provvedimenti relativi all’assistenza e alla previdenza sociale, ecc.). Il fascismo è stato un regime totalitario ispirato ai principi “tutto nello Stato”, “nulla al di fuori dello Stato”, “nulla contro lo Stato” e all’identificazione dello Stato con il fascismo stesso. Il fuoruscito, nemico del regime fascista è ne-

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P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, in Rivista di diritto processuale civile, 1 (1939), pp. 24-46.

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mico dello Stato e subisce la perdita della cittadinanza, non merita più di essere considerato figlio d’Italia. Il regime si regge anche attraverso un capillare sistema di informazioni creato ad hoc, gestito dall’OVRA (il cui nome, che riecheggia quello della tentacolare piovra, fu indicato da Mussolini e non è, non risulta in nessun documento, l’acronimo di opera volontaria per la repressione dell’antifascismo). Mussolini vuole il controllo diretto sull’OVRA, vuole che sia distinta dal SIM (Servizio di informazioni militare) da sempre gestito dai carabinieri e a questo proposito scrive: «Nell’Esercito vi era un’arma che aveva sopra tutto carattere esclusivamente dinastico: l’arma dei carabinieri. Era questa l’arma del re. Anche qui il Fascismo cercò di organizzare una polizia che desse garanzie dal punto di vista politico e vi aggiunse una organizzazione segreta: l’OVRA» 41.

La delazione è a fondamento del sistema di informazioni dell’OVRA e attraverso ricatti tutti sono costretti alla delazione e al doppio, o triplo, gioco. La pubblica amministrazione, la magistratura, le forze armate e le forze di polizia hanno agito nel ventennio all’interno dell’ordinamento così disegnato. E si sono impegnate nell’applicare e nell’attuare l’ordinamento italiano fascista. Le generazioni che nel ventennio hanno frequentato le scuole (alle elementari dal 1931 si adotta un unico libro di testo) e le università sono state educate secondo il modello fascista. Nelle università si istituiscono cattedre di Storia e dottrina del fascismo, Statistica e demografia comparata delle razze, Dottrina della razza, Economia politica corporativa, ecc. Il regime ha gradualmente sciolto tutte le forme associative non fasciste-statali (anche quelle non partitiche o sindacali come gli scout e l’Azione Cattolica) per assicurarsi il monopolio dell’educazione. I giovani nelle scuole celebrano in uniforme il sabato fascista, studiano in forma catechetica sul libro del fascista perfetto, competono nei Littoriali, sono inquadrati nell’organizzazione giovanile fascista (l’Opera Nazionale Balilla fu istituita con la legge 3 aprile 1926, n. 2247), si formano con docenti che per insegnare dovevano giurare, per le scuole a partire dal 1928, e per le università, dal 1931, secondo la formula sancita nell’art. 18 del R.D. 28 agosto 1931, n. 1227: «Giuro di essere fedele al re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio».

Solo una dozzina di professori, sugli oltre 1200 che insegnavano nelle università italiane, si rifiutò di pronunciare la formula in cui monarchia, Stato, fasci41

B. Mussolini, Storia di un anno: il bastone e la carota, Mondadori, Milano 1944, pp. 172-173.

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smo e patria erano posti tutti sullo stesso piano. Giovanni Gentile, ispiratore del giuramento realizzato dal Ministro Balbino Giuliano, riteneva che con il giuramento si dava l’occasione di riappacificarsi con il regime a chi aveva firmato il manifesto degli scienziati antifascisti voluto da Benedetto Croce. Concetto Marchesi, Luigi Einaudi e altri accettarono di giurare per non abbandonare il delicato ruolo di docenti. Albert Einstein, su sollecitazione, tra gli altri, dell’ecclesiasticista Francesco Ruffini, conosciuto nei suoi anni torinesi, aveva scritto al ministro Rocco per «consigliare al signor Mussolini di risparmiare questa umiliazione al fior fiore dell’intelligenza italiana... per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche... entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo beni superiori… questi si fondano sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che alla ricerca della verità si debba dare la precedenza su qualsiasi altra aspirazione... è nell’interesse supremo di tutti che i leali servitori della verità siano lasciati in pace. Ciò è anche senza dubbio nell’interesse dello stato italiano e del suo prestigio agli occhi del mondo» 42.

Quando lo scienziato, che si era rivolto al Ministro Rocco, appellandolo “Egregio Collega”, lesse la risposta rassicurante e minimizzante che Rocco gli fece avere attraverso Giuseppe Righetti, così commentò: «In Europa andiamo incontro a bei tempi» 43. Deve sottolinearsi che a differenza che per i professori, di scuola e d’università, la formula del giuramento per i magistrati non conteneva riferimenti al fascismo neppure nella riforma dell’ordinamento giudiziario del 1941: «Giuro di essere fedele al re Imperatore, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere coscienziosamente i miei doveri di magistrato». Insomma, il fascismo, almeno da quando si era affermato come governo totalitario e dittatoriale, aveva realizzato la completa fascistizzazione dello Stato: anche nella percezione di una larga parte degli italiani, almeno di quelli che si erano formati nel ventennio, fascista era sinonimo di italiano. Se le leggi razziali, almeno nelle città in cui vi era una comunità di italiani di origine ebraica consistente, cominciano a risvegliare le coscienze dal torpore in cui per tre-quattro lustri di propaganda gradatamente sono scivolate, è solo con la guerra, e con le sorti della guerra, che il consenso intorno al regime si incrina per poi sgretolarsi completamente. Gli italiani, sia quelli che hanno creduto nel fascismo in modo convinto sin dall’inizio, sia quelli che hanno creduto nel fascismo perché non hanno conosciuto altro per via del regime, sia quelli, cinici, che non credono in

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Cit. in S. Linguerri e R. Simili, Einstein parla italiano: itinerari e polemiche, Pendragon, Bologna 2008, pp. 38 e 39. 43 Le lettere possono leggersi in Einstein parla italiano: itinerari e polemiche, a cura di S. Linguerri e R. Simili, Pendragon, Bologna 2008, pp. 172-175.

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nulla, ma che per opportunismo si erano adeguati al regime, si trovano a fare i conti con un paese ferito dai bombardamenti, straziato dagli invasori, prima alleati, e sconvolto dalla guerra civile. La dissoluzione del regime lasciò gli italiani smarriti: in cosa avevano creduto? A quale modello si erano ispirati? Quale ruolo avevano avuto gli intellettuali? E per gli aspetti che qui più rilevano: negli anni del regime era possibile essere giuristi, interpretare e applicare il diritto senza piegarsi al regime? Alessandro Galante Garrone, giovane magistrato torinese negli anni Trenta, spiega che il rapporto tra magistratura e regime fino al 1938 non era stato travagliato da scontri: «… il fascismo, diventato regime senza troppe difficoltà, una volta messi brutalmente a tacere gli oppositori attivi, non si accanì con implacabili vessazioni, costrizioni e persecuzioni contro chi non gli si rivelasse, o comunque non fosse scoperto dalla polizia politica, come un attivo nemico, e si appagò di un consenso spesso più fittizio che reale, avvolto com’era dai fumi della osannante retorica. Quel regime fu – più per faciloneria, approssimazione, amor di quieto vivere, e intrinseca fiacchezza e ignoranza, che per autentico spirito di umana tolleranza – una dittatura annacquata e mollificata da una tradizionale e, verrebbe fatto di dire per ogni tempo, italica disposizione alla inefficienza del potere e al compromesso. Qualcosa di abissalmente diverso dal rigore consequenziario del regime nazista... Su questo sfondo, certo non edificante, era tutt’altro che difficile a un giudice, che avesse un po’ di rispetto di sé, fare quel che doveva, senza incorrere in guai grossi e irreparabili. Qualche vantaggio in meno, qualche seccatura in più, tutto qui: un modico prezzo per la tranquillità della propria coscienza. Viltà e cedimenti, che certamente non mancarono, erano spesso dovuti a servitude volontaire» 44.

Lo stesso ministro della giustizia Alfredo Rocco, il 19 giugno 1925 alla Camera aveva detto: «... La magistratura – io l’ho già detto, ma lo ripeto – non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista...» 45.

E, ancora, il 16 maggio 1929, sempre alla Camera dei deputati, riferendosi alle aperture della Corte di Cassazione nei confronti della Carta del lavoro: «Parlare della magistratura italiana è per me sempre motivo di alta soddisfazione, perché, più vivo accanto ad essa, più mi convinco delle sue altissime virtù di carattere…, della sua dottrina…, della sua disciplina e del suo patriottismo. Anche e specialmente del suo patriottismo, perché lo spirito del Fascismo… è penetrato nella

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A. Galante Garrone, Amalek: il dovere della memoria, Rizzoli, Milano 1989, p. 142. Cit. in G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo, in G. Quazza (cur.), Fascismo e società italiana, Einaudi, Torino 1973, p. 142. 45

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Magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti. Posta di fronte alla nuova legislazione fascista, la magistratura italiana, piena di dottrina, di senso pratico, ne ha penetrato completamente lo spirito, l’interpreta e l’applica con piena fedeltà. E a questo proposito è pur doveroso tributare un alto elogio alla Corte di Cassazione, la quale, proprio in questo campo della comprensione dello spirito del Regime e della sua legislazione, ha dato esempi luminosi…» 46.

Ma la legislazione razziale e il progetto del nuovo codice civile, sempre secondo la testimonianza di Galante Garrone, impongono una riflessione: gli anni compresi tra il 1933 e il 1938 erano caratterizzati «per gli uomini di legge del nostro paese, dall’incontrastato sovrastare del principio della “certezza del diritto” (o, come anche si diceva, della “sicurezza del diritto”) su quello del “diritto libero”, o del diritto “caso per caso”, che già da qualche decennio era stato ventilato da alcune dottrine straniere, specialmente tedesche, e che da noi, all’indomani della prima guerra mondiale, aveva avuto solo qualche timido, non inquietante accenno di realizzazione nelle “giurisdizioni di equità”, e invece un largo accoglimento nella Russia sovietica» 47.

In Italia il giudice continuava ad essere il subditus legum: contro le intromissioni, l’arbitrio, la prepotenza e l’invadenza del potere, o del governo o del partito dominante, la legge, l’osservanza della legge e la sua rigorosa applicazione diventavano per il giudice di coscienza, per il giurista, uno scudo protettivo. «La difesa della “legalità” – continua Galante Garrone –, che in passato era un fatto istintivo, quasi automatico per ogni giudice, si tramutava così a poco a poco, insensibilmente, in un’affermazione polemica, che non richiedeva (per le ragioni già dette) una particolare forza d’animo. Insomma, quella difesa non era ancora una sfida temeraria, una dura battaglia, ma una regola imprescindibile di comportamento, di cui si cominciava ad avvertire il valore, come un’arma che si doveva brandire, e nella quale si intuiva risiedere la giustificazione morale e civile del proprio lavoro. Un comportamento non eroico, che non ci espose mai, come giudici, a preoccupanti conseguenze; ma almeno dignitoso» 48.

Domenico Riccardo Peretti Griva, un giudice torinese attivo nella resistenza, scriverà nel 1955:

46

A. Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Einaudi, Torino, 1978 (I ed. 1965) I, p. 242. 47 A. Galante Garrone, Amalek, cit., pp. 142-143. 48 A. Galante Garrone, Amalek, cit., p. 143. Ricordando il suocero, Peretti Griva, A. Galante Garrone, Una spina dorsale. Il ricordo di Domenico Riccardo Peretti Griva, in Nuova antologia, 582 (1998), pp. 42-54, ribadirà: «Se lo si voleva, si poteva pur sotto il fascismo restare giudici indipendenti, anche se con qualche sacrificio personale. Così fu per lui» (p. 43).

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«per resistere di più al regime non sarebbe affatto occorso dell’eroismo, ma solo una meno preoccupata considerazione degli eventi e delle loro ragionevoli conseguenze, congiunta a un minimo senso di dovere e di dignità. E la resistenza sarebbe stata tanto più agevole e scevra di pericoli, quanto maggiore fosse stato il numero dei resistenti» 49.

Dopo le leggi del 1938 qualcosa cambia. Ricorda Galante Garrone: «Fino a quel momento, la dignità del giudice (o, più largamente, dell’uomo di legge) consisteva nella difesa a oltranza del principio di legalità, nell’applicazione imperterrita della legge – buona o cattiva, consonante o dissonante che fosse dall’intimo sentire del giudice stesso – contro le soluzioni del ‘caso per caso’ rimesse immediatamente, come si diceva, non alla sua coscienza, ma piuttosto alle direttive del potere, all’arbitrio del padrone. La missione umana dei giuristi, diceva Calamandrei, è proprio questa: “Far sì che le leggi, buone o cattive, siano applicate in modo uguale ai casi uguali, senza parzialità, senza dimenticanze, senza favori”. Nell’esercizio di questa professione c’è la “nobiltà di un apostolato”; e nel principio della legalità c’è il “riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini”». Era questa la “gioia e la fede del giurista”» 50.

Naturalmente non tutta la magistratura condivise il pensiero di Peretti Griva e Galante Garrone. Valga un esempio per tutti: un magistrato di Brescia, Sofo Borghese, pubblica nel giugno 1939 sul Monitore dei tribunali un articolo assolutamente entusiasta della legislazione razziale, originale rispetto a quella tedesca, fondamentale per l’ordinamento italiano, coerente con il nuovo codice civile, tesa a «mantenere il prestigio della razza superiore (ariana) di fronte alle altre, ponendo in una situazione di inferiorità sociale e giuridica gli elementi di razze inferiori». Riprendendo la relazione ministeriale al codice civile – che, a proposito proprio dell’art. 1 del codice afferma «la formula usata nel testo contiene peraltro un’affermazione positiva in quanto sancisce il principio che l’appartenenza a determinate razze può influire sulla sfera della capacità giuridica delle persone» – Borghese scrive: «Si tratta, dunque di una solenne affermazione di principio, che fa assurgere la razza alla dignità di uno status, da porre accanto a quelli tradizionali (status familiae, status civitatis) e che, come tale, costituisce un presupposto della capacità stessa» 51. La razza – conclude Borghese – deve considerarsi, al pari della cittadinanza, un presupposto – più che una semplice causa limitatrice – della capacità. 49

D.R. Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Einaudi, Torino 1955, p. 27. A. Galante Garrone, Amalek, cit., p. 145. 51 Sofo Borghese, Razzismo e diritto civile, in Monitore dei tribunali, 80 (1939), s. III, vol. 16, pp. 353-357, in particolare p. 353. Dello stesso Borghese, in quegli anni giudice di tribunale a Brescia, dal 1981 al 1983 Procuratore Generale della Repubblica presso la Suprema Corte di Cassazione, si può leggere, Razzismo e diritto penale, sempre sul Monitore dei tribunali, 81 (1940), s. III, vol. 17, pp. 65-68. 50

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6. La transizione, la Costituzione e il ritorno alla democrazia All’alba del 25 luglio 1943, dopo una riunione fiume iniziata la sera del giorno prima, il Gran Consiglio, massimo organo costituzionale dello Stato, approva la proposta di Dino Grandi, presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, e invita «il Governo a pregare la Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia» 52.

L’atteggiamento assunto nel corso della riunione del Gran Consiglio da Mussolini, reduce da un colloquio con Hitler e consapevole dello stato della guerra, consente l’approvazione a maggioranza dell’ordine del giorno. Nella medesima giornata del 25 luglio, secondo il piano concordato tra Grandi e il re, il duce è arrestato. Dell’arresto non si dà notizia se non dopo qualche giorno, ma gli organi di comunicazione annunciano già il 25 luglio le dimissioni del duce e la nomina del generale Badoglio a capo del governo (invece l’accordo tra Grandi e il re prevedeva che la scelta cadesse sul generale Caviglia). L’approvazione dell’ordine del giorno proposto da Grandi – e concordato con il re Vittorio Emanuele III per ripristinare in capo al sovrano le prerogative previste nell’art. 5 dello Statuto di cui lo stesso sovrano nei fatti era stato privato dalle riforme fasciste – segna l’inizio di una cesura netta nell’ordinamento costituzionale del Regno. Con l’istituzione del grado di Primo maresciallo dell’Impero (legge 2 aprile 1938, n. 240) «conferito a Sua Maestà il re Imperatore e a Benito Mussolini, duce del Fascismo» (art. 2) nei fatti si erano equiparati il sovrano e il capo del governo nella gerarchia e nella responsabilità del comando delle forze armate. Il re in un primo momento aveva rifiutato di firmare la legge, ma poi si era arreso alla richiesta del duce considerata legittima dal parere del Presidente del Consiglio di Stato Santi Romano 53. 52 Ordine del giorno approvato dal Gran Consiglio del Fascismo nella seduta del 25 luglio 1943, con 19 sì, 6 no e un astenuto (Mussolini non votante). 53 Questa la reazione del re: «I professori di diritto costituzionale, specialmente quando sono dei pusillanimi opportunisti, come il professor Santi Romano, trovano sempre argomenti per giustificare le tesi più assurde: è il loro mestiere; ma io continuo ad essere della mia opinione. Del resto non ho nascosto questo mio stato d’animo ai due presidenti delle Camere, perché lo rendessero noto ai promotori di questo smacco alla Corona, che dovrà essere l’ultimo» (B. Mussolini, Storia di un anno: il bastone e la carota, Corriere della Sera, Verona 1944, p. 180, e R. De Felice, Mussolini, il duce. II. Lo stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino 1965, p. 33).

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Nei fatti gli avvenimenti del 24 e del 25 luglio 1943 segnano la violazione dell’ordine costituzionale. Il Gran Consiglio aveva una funzione prevalentemente consultiva e, nonostante il re avesse chiesto una pronuncia della Camera o del Gran Consiglio per il ripristino delle proprie prerogative statutarie, la pronuncia del Gran Consiglio aveva solo un valore politico. La nomina del successore di Mussolini, poi, avveniva al di fuori delle procedure e ignorando le prerogative previste dalla legge sul Gran Consiglio (la scelta del re sarebbe dovuta ricadere su uno dei cinque nomi proposti da un elenco che lo stesso Gran Consiglio avrebbe dovuto tenere sempre aggiornato). Agli avvenimenti di quella notte di luglio, tuttavia, è possibile dare un’altra lettura. Una parte della dottrina, seppur minoritaria, ha evidenziato come il crollo del regime fascista non implicasse una rottura del sistema costituzionale positivo, bensì rappresentasse «l’attuazione di una delle opposte virtualità coesistenti nella forma fascista di governo» 54. Il Gran Consiglio infatti aveva registrato un cambiamento dell’equilibrio delle forze sociali attive nel paese e aveva rimesso la responsabilità della decisione al sovrano che – come ebbe a sottolineare lo stesso Rocco durante un suo discorso al Senato del Regno nel 1925 – aveva «libera scelta, perché la valutazione che egli fa delle forze esistenti nel paese era insindacabile giuridicamente» 55. La scelta della dottrina di enfatizzare gli aspetti di incostituzionalità dell’atto regio erano probabilmente un escamotage finalizzato a sostenere l’esistenza di quei presupposti politico-giuridici idonei a giustificare un’iniziativa “costituente”, poiché una vera azione costituente presuppone necessariamente la rottura con l’ordinamento precedente e la creazione di un “vuoto” giuridico. Nelle settimane che seguono – mentre Mussolini, in stato d’arresto, viene trasferito a Gaeta, Ventotene, Ponza, La Maddalena e, infine, dal 28 agosto, sul Gran Sasso, da dove viene liberato il 12 settembre dai militari tedeschi per essere condotto in Germania, a Monaco di Baviera – il Governo Badoglio ricorre agli strumenti militari per mantenere l’ordine pubblico interno. In una circolare indirizzata ai comandi militari il generale Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, il 26 luglio ordina che contro gli individui che perturbino l’ordine o non si attengano alle prescrizioni dell’autorità militare si proceda in formazione di combattimento e si apra il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche; che si tiri sempre a colpire come in combattimento; che i capi e gli istigatori dei disordini, riconosciuti come tali, siano senz’altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di Guerra sedente in veste di Tribunale straordinario. La presenza dell’alleato occupante tedesco, i timori di una sollevazione della 54

L. Paladin, Fascismo (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, 39, Milano 1988, p. 897. 55 Senato del Regno, Atti parlamentari, Discussioni, XXVII Legislatura, seduta 19 dicembre 1925, p. 4377.

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popolazione stremata dalla guerra, la preoccupazione che la netta pregiudiziale repubblicana di alcune forze antifasciste (comunisti e azionisti in primis) finisse per prevalere, spinsero il re e il governo a fuggire da Roma per raggiungere il più sicuro meridione d’Italia (Brindisi), lasciando le forze armate nel momento più delicato prive di un’efficace catena di comando. L’armistizio, firmato il 3 settembre e reso pubblico l’8 settembre, nello stesso giorno in cui le truppe angloamericane sbarcavano a Salerno, trovava assolutamente impreparato e smarrito, in assenza di precisi comandi, l’apparato militare italiano e ben organizzato e pronto quello tedesco che secondo il piano Asse (Fall Achse), predisposto nel maggio del 1943 per l’eventualità prevista e poi verificatasi del crollo del fascismo e del disimpegno italiano, tempestivamente si impadroniva dei gangli vitali dello stato italiano rilevanti per la guerra. Da Monaco, intanto, Mussolini preannuncia la creazione di uno Stato fascista, formalizzato per la prima volta nell’ambasciata tedesca a Roma, in assenza del duce; alla fine di settembre, questa volta alla presenza di Mussolini, a pochi chilometri da Predappio, paese natìo del duce, a Rocca delle Caminate, si tiene la prima riunione del governo di quella che diventerà la Repubblica Sociale Italiana. Si realizza così in Italia la contemporanea presenza di quattro ordinamenti che rivendicano la sovranità sul territorio del Regno. Il Regno del Sud, con a capo Vittorio Emanuele III, che il 13 ottobre del 1943 dichiarò guerra alla Germania ottenendo il riconoscimento di Paese cobelligerante dagli alleati angloamericani che dal 19 settembre 1943 gli avevano riconosciuto la sovranità sulle provincie di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto; il Governo Militare Alleato dei Territori Occupati (AMGOT) sui territori liberati e occupati fino alla costituzione del nuovo governo nazionale 56; la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Benito Mussolini; la Zona d’Operazioni del Litorale adriatico (comprendente le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana, Pola) e la Zona d’Operazioni delle Prealpi (comprendenti le provincie di Bolzano Trento e Belluno) sottoposte alla diretta amministrazione militare tedesca e sottratta al controllo della Repubblica Sociale Italiana, alla quale ufficialmente appartenevano. Inoltre, nel nord del Paese, l’autorità militare tedesca occupante attraverso i bandi emanati esercitava poteri che intaccavano fortemente la sovranità formale della RSI. La dichiarazione di guerra del Regno di Vittorio Emanuele III alla Germania del 13 ottobre 1943 – quando già l’ex alleato tedesco, ora nemico occupante, aveva provveduto alla deportazione di decine di migliaia di militari italiani sparsi sui fronti di guerra e abbandonati a se stessi, privi di ordini – produsse il mutamento di status dell’Italia nello scacchiere internazionale, almeno nei confronti delle forze alleate: da Paese sconfitto occupato a Paese alleato. All’AMGOT, nei territori liberati dalle truppe alleate si affiancava l’ACC (Allied Control Commission) che interagiva con le rinate istituzioni italiane che facevano capo al gover56

L’AMGOT esercitò il suo potere sul territorio libero di Trieste fino al 26 ottobre del 1954, su tutto il resto del territorio italiano fino al 31 dicembre 1945.

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no italiano ora espressione del Comitato di Liberazione Nazionale. L’AMGOT, la Zona d’Operazioni del Litorale adriatico e la Zona d’Operazioni delle Prealpi erano forme di governo del territorio che trovavano la loro legittimazione nel diritto internazionale e nel diritto bellico. Il Regno del Sud, pur con una sovranità territoriale assai ridotta, era il naturale successore, meglio, costituiva ciò che era rimasto del Regno d’Italia. La Repubblica Sociale Italiana sul piano internazionale ottenne il riconoscimento solo da parte di Germania, Bulgaria, Croazia, Giappone, Manciukuò, Repubblica di Nanchino, Romania, Slovacchia, Thailandia, Ungheria; relazioni informali si ebbero con Argentina, Portogallo, Spagna e Svizzera. Da lungo tempo si riflette se la Repubblica Sociale Italiana sia stato uno stato con un governo fantoccio della Germania nazista oppure un vero ordinamento autonomo in senso pieno. L’espressione governo fantoccio è usata dallo stesso Mussolini in una sua nota dell’8 ottobre 1943: «Le autorità politiche tedesche hanno nominato un Governo fascista per puri motivi di interesse politico interno tedesco. Le autorità militari germaniche, e lo Stato maggiore in particolare, con visione ristretta della situazione, non desiderano dare nessuna possibilità di sviluppo a tale Governo, e ne ostacolano in tutti i modi ogni attività. Tale Governo è pertanto realmente un Governo fantoccio e chi governa in Italia sono le autorità militari tedesche…» 57.

Altri appunti del capo del governo salodiano documentano la piena consapevolezza dell’assoluta subordinazione dell’ordinamento della RSI rispetto alla Germania nazista. D’altra parte, però, adagiarsi su questa convinzione può essere strumentale per autoassolversi sulle responsabilità, tutte e solo italiane, o anche italiane, per le violenze, le stragi, le devastazioni che avvennero. I fascisti hanno presentato la RSI come un «provvidenziale ammortizzatore» posto tra gli italiani e l’occupante tedesco. Nei fatti la Repubblica di Salò non riuscì a garantire un potere effettivo su tutto il territorio sottoposto alla sua sovranità. E d’altro canto il Regno del Sud, affermando di essere l’unico ordinamento legittimo successore del Regno d’Italia, si impegnava nel distinguere la continuità dello Stato dalla discontinuità del regime politico e subito intervenne, sotto la crescente pressione politica dei partiti rappresentati nel Comitato di Liberazione Nazionale, con atti legislativi che privilegiavano il disegno del nuovo ordine democratico su cui si sarebbe retto il Paese una volta cessata la guerra e che non trascuravano anche altri importanti aspetti centrali per la nascita del nuovo ordine: era necessario allontanare dai posti di responsabilità i pubblici funzionari che erano compromessi con il regime fascista ed altrettanto necessario era disciplinare gli effetti nel nuovo ordinamento dei provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari assunti dalla Repubblica Sociale Italiana. Si do-

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Ricordato, tra gli altri, da R. de Felice, Mussolini l’alleato. II. La Guerra civile, Einaudi, Torino 1965, p. 615.

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veva anche reintegrare e risarcire o, almeno, indennizzare, chi aveva subito dal regime fascista provvedimenti persecutori a causa della propria fede politica o delle origini ebraiche. A partire dal gennaio 1944 si provvide all’abrogazione della legislazione antiebraica, ma un decreto fu pubblicato solo nell’ottobre del 1944, anche su forti sollecitazioni degli alleati. Più complessa e lenta, in molti casi inadeguata, fu l’azione tesa a restituire i beni espropriati agli ebrei. Tra le riforme avviate dal Regno – alcune in verità solo simboliche, altre assolutamente e sostanzialmente innovative – per ripristinare l’ordine prefascista, si trova il R.D. 2 agosto 1943, n. 705 che sciolse la Camera dei fasci e delle corporazioni e fissò il termine di quattro mesi dalla fine della guerra per le elezioni per la Camera dei deputati: si dava inizio così al piano per tornare alle istituzioni liberali. Le pressioni dei partiti che guidavano la lotta partigiana e la constatazione che i tempi per la fine della guerra non erano certi confermarono che il nuovo regime non si sarebbe potuto risolvere in una semplice restaurazione dei vecchi istituti prefascisti (nonostante nel luglio del 1944 il Presidente del Consiglio Bonomi nominasse Vittorio Emanuele Orlando e Pietro Tomasi della Torretta alla presidenza, rispettivamente, della Camera e del Senato, due assemblee che non esistevano più): si imponeva invece una revisione dell’intero assetto istituzionale a partire dalla scelta tra monarchia e repubblica. Il 12 aprile 1944 il re Vittorio Emanuele annunciava che, una volta avvenuta la liberazione di Roma, avrebbe nominato Luogotenente del Regno il proprio figlio Umberto e così fece, senza tuttavia abdicare, il 5 giugno del 1944. Il 25 giugno 1944 il decreto legislativo luogotenenziale n. 151 (noto come “prima costituzione provvisoria”) delegava il potere legislativo al Consiglio dei ministri finché non sarebbe entrato in funzione il nuovo Parlamento, abrogava la disposizione concernente la elezione di una nuova Camera dei deputati e la sua convocazione entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, contenuta nel R.D. legge 2 agosto 1943, n. 705, e all’art. 1 stabiliva che «dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato. I modi e le procedure saranno stabiliti con successivo provvedimento».

Con il decreto legislativo luogotenenziale del 5 ottobre 1944, n. 249, il legislatore disciplinò gli effetti nel Regno d’Italia dei provvedimenti amministrativi legislativi e giurisdizionali assunti dalla Repubblica Sociale Italiana. Nella sostanza gli elementi costitutivi materiali (territorio e soggetti) dei due ordinamenti (Regno d’Italia e RSI) coincidevano. Gli organi supremi di governo della RSI invece vennero creati ex novo, ma per quanto concerneva l’attività amministrativa la RSI si servì dell’organizzazione statale preesistente, che nella quasi totalità dei casi continuò a funzionare in base a norme che erano state promulgate du-

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rante il ventennio. Con il decreto n. 249 il legislatore monarchico distinse atti che dovevano considerarsi assolutamente inefficaci da atti (relativamente inefficaci) che in seguito a un apposito decreto motivato del ministro competente potevano essere considerati validi. Insomma, il legislatore, per valutare e classificare il valore giuridico dell’attività svolta dal governo repubblichino, distinse tra validità ed efficacia e, disinteressandosi della validità, si concentrò solo sulla attribuzione o non attribuzione di efficacia agli atti compiuti sotto il governo della RSI. Il decreto distinse gli atti inefficaci dagli atti efficaci. In generale, gli atti caratterizzati da un contenuto politico furono considerati privi di efficacia giuridica. Per far salvi nella sostanza gli atti che, privi di contenuto politico, dovevano garantire la continuità dell’azione dello Stato, si disposero nuovi provvedimenti con contenuto sostanziale identico a quello dei provvedimenti dichiarati inefficaci. I giudici, il cui intervento fu invocato dai cittadini che ritenevano lesi i propri diritti, riuscirono a garantire la tenuta del sistema con coraggiose sentenze ispirate ad equità che spesso forzavano il dato normativo. Il decreto legge luogotenenziale del 5 aprile 1945, n. 146 istituì la Consulta nazionale per fornire al governo, a cui ancora era delegato il potere legislativo, «pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che le vengono sottoposti», e un altro del 31 luglio, il n. 443, istituiva il Ministero per la Consulta nazionale per assicurare il collegamento con il Governo. I consultori sono nominati, su designazione dei maggiori partiti politici, fra gli ex parlamentari antifascisti, fra gli appartenenti a categorie ed organizzazioni sindacali, culturali e di reduci. Il numero dei componenti la Consulta aumentò da 304 a 430 in corrispondenza del progressivo ritiro delle truppe naziste dal territorio del regno e le indicazioni dei 6 partiti del Comitato di Liberazione Nazionale (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Democrazia del Lavoro, Partito d’Azione, Partito Liberale) e delle associazioni sindacali assunsero progressivamente maggiore importanza. I pareri, non vincolanti per il Governo, erano obbligatori solo in materia di bilanci e rendiconti dello Stato, di imposte, salvo i casi di urgenza, e di leggi elettorali. Il Governo, esclusi i pareri obbligatori, in cui la pronuncia spettava all’assemblea, aveva facoltà di chiederli all’assemblea plenaria o a una delle dieci commissioni. L’assemblea solitamente adottava il voto palese e si riuniva nei locali della Camera dei Deputati di cui adottò anche il regolamento vigente prima dell’ottobre del 1922. La Consulta – «tipica creazione di periodi transitori post-bellici, diretta ad ovviare alla carenza degli organi parlamentari, ai quali non si potrà tornare se non dopo la riorganizzazione dello Stato che seguirà la consultazione popolare» 58 – si riunì in assemblea per ben 40 volte e si sciolse il 1° giugno 1946, giorno in cui fu eletta l’Assemblea Costituente. Per preparare la convocazione dell’Assemblea Costituente e predisporre gli

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Relazione della Giunta permanente per il regolamento della Consulta del 22 dicembre 1945.

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elementi per lo studio della nuova costituzione che avrebbe dovuto determinare l’assetto politico dello stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale, il 31 luglio del 1945 il decreto luogotenenziale n. 435 istituì il Ministero per la Costituente. Sotto la responsabilità del Ministro Pietro Nenni e del Capo di gabinetto Massimo Severo Giannini, si costituirono tre commissioni di studio sulle questioni economiche, sui problemi del lavoro e sui problemi attinenti alla riorganizzazione dello Stato. Quest’ultima commissione, presieduta da Ugo Forti – «gran maestro di diritto pubblico» e «gran giurista» (così Piero Calamandrei in Assemblea costituente), allontanato dall’università nel 1938 a causa delle sue origini ebraiche – e composta da 90 membri, molti dei quali avevano già lavorato nella Commissione per la riforma dell’amministrazione nominata dal precedente Governo Bonomi, presentò all’Assemblea costituente una relazione in tre volumi contenente i risultati dei lavori delle 5 sottocommissioni nelle quali aveva deciso di articolarsi. Nonostante il tempo assai breve, la Commissione riuscì a proporre una serie di riforme per la riorganizzazione degli apparati amministrativi centrali e periferici e del sistema dei controlli sull’operato della pubblica amministrazione. Il Ministero per la Costituente fu soppresso con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 2 agosto 1946, n. 54. Gli 85 articoli del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, che disciplinano l’elezione su base proporzionale e attribuzione di preferenze – a suffragio universale con voto diretto, libero e segreto, attribuito a liste di candidati concorrenti – dei 573 deputati all’Assemblea Costituente (poi ne furono eletti 556 perché furono rimodulati i collegi escludendo Bolzano e la Venezia Giulia) rivestono un significato importante nella storia d’Italia. Non disegnano solo le regole per l’elezione dell’Assemblea, sono piuttosto il primo documentomonumento del ritorno alla democrazia: «L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno a un suo preciso dovere verso il Paese in un momento decisivo della vita nazionale» stabilisce l’art. 1. Non può essere candidato e non può votare chi durante il regime fascista ha rivestito ruoli di rilievo nella pubblica amministrazione o nel partito e chi per la stessa ragione ha subito condanne o sia stato ‘epurato’. Sei giorni più tardi, il 16 marzo 1946 un altro decreto legislativo luogotenenziale, il n. 98, noto come “seconda costituzione transitoria”, innova radicalmente quanto stabilito nel decreto n. 151 del 1944 rimettendo direttamente al popolo, e non più all’Assemblea costituente la decisione sulla forma istituzionale: contemporaneamente alle elezioni per l’Assemblea Costituente il popolo sarà chiamato a decidere mediante referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia) (art. 1). Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della Repubblica, l’Assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto, eleggerà il Capo provvisorio dello Stato, che eserciterà le sue funzioni, fino a quando sarà nominato il Capo dello Stato a norma della Costituzione deliberata dall’Assemblea (art. 2). Inoltre, il decreto n. 151 statuisce che durante il periodo della Costituente e fino alla convocazione del Parlamento

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a norma della nuova Costituzione il potere legislativo resti delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, le quali saranno deliberate dall’Assemblea. Il Governo è responsabile verso l’Assemblea Costituente, ma il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblea non porta come conseguenza le dimissioni del Governo. Queste sono obbligatorie soltanto in seguito alla votazione di una apposita mozione di sfiducia, intervenuta non prima di due giorni dalla sua presentazione e adottata a maggioranza assoluta dei Membri dell’Assemblea (art. 3). L’art. 7 libera i dipendenti civili e militari dello Stato dagli impegni (giuramento) da essi precedentemente assunti e ordina loro di «impegnarsi sul loro onore a rispettare e far rispettare nell’adempimento dei doveri del loro stato il risultato del referendum istituzionale e le relative decisioni dell’Assemblea Costituente». La delega del potere legislativo al governo, in presenza dell’unico organo finalmente rappresentativo perché eletto democraticamente a suffragio universale, aveva lo scopo di non distrarre i costituenti dalla loro missione principale. Nonostante questo, non bastarono gli otto mesi (estensibili ad altri quattro) previsti dalla legge per redigere la Costituzione: i lavori si protrassero per ben 19 mesi e furono necessarie due leggi costituzionali per consentire la prosecuzione dei lavori dell’Assemblea eletta il 2 giugno dall’88% degli aventi diritto al voto (pari a 24.888.035 elettori). Il 9 maggio del 1946 il re Vittorio Emanuele III abdicò, a meno di un mese dal plebiscito che avrebbe sancito la scelta repubblicana con 12.718.641 di voti, pari al 54,3% dei voti validi contro 10.718.502 di voti, pari al 45,7%, favorevoli alla monarchia (1.498.136 i voti nulli, in totale aveva votato l’89% degli aventi diritto). Al nord il 66,2% si era pronunciato a favore della repubblica, al sud il 63,8% a favore della monarchia. L’ex re morirà esule ad Alessandria d’Egitto il 28 dicembre 1947, il giorno dopo l’approvazione definitiva della Costituzione della Repubblica italiana. Nel corso della prima seduta, il 25 giugno del 1946, l’Assemblea costituente elesse il presidente, Giuseppe Saragat, che verrà sostituito da Giuseppe Terracini nel gennaio del 1947, quando Saragat si dimetterà. Il Presidente, su designazione dei gruppi parlamentari – i più numerosi erano quelli dei partiti di massa: 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, a fronte di 25 repubblicani, 22 liberali e 20 del fronte liberale democratico dell’uomo qualunque; gli altri gruppi avevano meno di 20 componenti – nomina una Commissione per la Costituzione, detta dei settantacinque dal numero dei componenti. La Commissione, presieduta da Meuccio Ruini, si articola in tre sottocommissioni, per la predisposizione degli articoli relativi ai “Diritti e doveri dei cittadini”, all’“Ordinamento costituzionale della repubblica”, ai “Diritti e doveri economico-sociali”. Il 28 giugno l’Assemblea elegge Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato. I risultati dei lavori istruttori delle tre sottocommissioni furono proposti alla Commissione dei Settantacinque, che si avvalse di un comitato di redazione composto da 18 membri per comporre e armonizzare il progetto di Costituzione che fu presentato all’Assemblea da Ruini il 31 gennaio 1947.

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Nelle 170 sedute dedicate alla discussione del progetto, a partire dal 4 marzo 1947, si sperimentò un metodo di lavoro che è immediatamente percepibile a chi legge i processi verbali delle sedute. I costituenti muovevano da posizioni ideologiche e da visioni della società diverse e lontane, e negoziarono e dibatterono su tutto, anche aspramente. Ma ciascuna fazione riconosceva la pari dignità e la legittimazione dell’altra, conquistata nella lotta antifascista e nelle elezioni. I costituenti si concentrarono prevalentemente su ciò che li univa e non indugiarono su ciò che poteva dividerli, avvertendo la responsabilità che gravava su di loro e le aspettative del Paese: emblematico è l’andamento delle discussioni che riguardano l’opportunità di inserire un preambolo con un richiamo a Dio all’inizio della Costituzione. Nel confronto sviluppatosi già nei primi mesi dei lavori e, soprattutto, ripreso con qualche rischio la mattina del 22 dicembre del 1947, La Pira, Marchesi, Togliatti, Nenni, Calamandrei, fermi ciascuno nei propri convincimenti, non tendono la discussione fino al punto di rottura. I Costituenti sono consapevoli che il paese li guarda e che è necessario per la rinascita e la pacificazione che la discussione si svolga nel rispetto reciproco delle posizioni di ciascuno. Il punto di convergenza, rispetto al quale cessano gli attriti o, almeno, si affievoliscono, è la ferma volontà di costruire una Costituzione radicalmente antifascista, anzi, di più, come dice Dossetti, afascista. Il richiamo dell’art. 2 Cost. – ai diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica, non genericamente lo Stato, nata dalla lotta partigiana e dalla guerra civile conclusasi con la disfatta del fascismo, riconosce e garantisce, prendendo atto che essi preesistono allo Stato, a fronte dell’impegno inderogabile di ciascuno di assolvere i doveri di solidarietà economica politica e sociale – è il rovesciamento del principio cardine dello Stato fascista: tutto dentro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato. Nella stessa logica si legge la solenne affermazione dell’art. 113 Cost. che prevede che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa» e che tale tutela giurisdizionale non possa essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. Quel «sempre», pleonastico nel dettato normativo, serve a segnare la differenza con lo stato fascista che, spesso contro i provvedimenti più odiosi della pubblica amministrazione, come quelli attuativi della legislazione razziale antiebraica del 1938, prevedeva espressamente l’esclusione di qualunque forma di tutela 59. Il 22 dicembre 1947 la Costituzione fu approvata con 453 voti favorevoli e 62 contrari. Il 27 dicembre fu promulgata. Il Comitato dei 18 produsse un testo in cui il 92% delle 9369 parole che lo componevano appartenevano a quello che i linguisti chiamano vocabolario di base. Se anziché tutte le parole si considerano i 1357 lemmi la percentuale scende al 74%: resta comunque un risultato ecce-

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Vedi supra, § 5, a proposito dell’art. 26 del R.D. n. 1728 del 1938.

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zionale per un testo giuridico di norma molto complesso. Considerato che nel censimento del 1951 risulta che il 40% della popolazione è in possesso della licenza elementare, il 92% delle parole della Costituzione erano immediatamente comprensibili al 40% della popolazione. Inoltre la lunghezza media dei 420 periodi che compongono la Costituzione, pari a 19,6 parole, conferisce al testo un alto grado di leggibilità (De Mauro). Insomma, questi dati confermano che il costituente scrisse una costituzione che era rivolta ai tecnici, ai giuristi, al potere politico, ma doveva anche essere compresa dal più ampio numero di italiani. Del resto, più volte negli atti dell’assemblea vi è traccia, da un lato, della consapevolezza nei costituenti dell’attenzione che gli italiani prestano alla loro opera, dall’altro della opportunità che il testo normativo sia leggibile dalla più ampia platea. Entrata in vigore la Costituzione il 1° gennaio 1948, la Costituente chiuse definitivamente i suoi lavori il 31 gennaio 1948. Nel corso dei mesi, oltre che alla redazione della Costituzione, l’Assemblea e le Commissioni attesero all’esame e all’approvazione di oltre 800 provvedimenti presentati dal governo, all’approvazione del trattato di pace, degli statuti regionali e della nuova legge elettorale, nonché al dibattito su importanti questioni politiche. Le vicende della alluvionale legislazione che qui si sono riassunte solo sommariamente e, soprattutto, i risultati concreti che produssero, documentano come gli anni della transizione, il ruolo della Resistenza, il significato stesso della Resistenza costituiscano una realtà complessa e ancora non del tutto metabolizzata nell’identità degli italiani. La Resistenza è stata vista come secondo Risorgimento, quindi come liberazione dal nemico esterno, come guerra civile, che ha visto gli italiani combattersi su due fronti contrapposti, come rivolta delle periferie rispetto al centro, come forma di lotta sociale, come forma di lotta generazionale. Nel dibattito costituente già sono presenti queste distinte letture. La Resistenza, e il mito della Resistenza, è la pietra miliare per la costruzione di una religione civile della nuova Italia. Basti pensare alla proposta, mai ufficialmente presentata da Piero Calamandrei, ma volutamente registrata nei verbali dell’Assemblea costituente, circa il preambolo da premettere al testo della Costituzione: «Io avevo pensato – e ve lo dico unicamente perché desidero che questo rimanga agli atti della nostra Assemblea – proporvi che questa invocazione allo Spirito e all’eternità fosse consacrata in un richiamo sul quale credo che tutti noi ci saremmo trovati concordi; in un richiamo cioè ai nostri Morti, a coloro che si sono sacrificati, affinché la grande idea per la quale hanno dato la vita si potesse praticamente trasfondere in questa nostra Costituzione che assicura la libertà e la Repubblica. Forse, questa nostra Costituzione in pratica, per taluni aspetti, è inferiore alla grandezza della loro idea; ma tuttavia ad essa ha voluto ispirarsi. Questo io avevo in animo di proporre, che la nostra Costituzione incominciasse con queste parole: “Il popolo italiano consacra alla memoria di fratelli caduti per restituire all’Italia libertà e onore la presente Costituzione”. Questo non si può fare, ha detto il Presidente per ragioni di procedura. Ma tuttavia la nostra intenzione e il nostro proposito, e il fatto che nel

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chiudere i nostri lavori noi abbiamo pensato a coloro senza il sacrificio dei quali non saremmo qui, questo io spero che rimarrà scritto negli atti della nostra Assemblea» 60.

Qualche mese prima di Calamandrei, nel luglio del 1947, Benedetto Croce a proposito della firma del Trattato di pace aveva affermato: «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente» 61. Alla luce dell’interpretazione che si è data agli avvenimenti dei decenni successivi si è parlato di Resistenza tradita, di Resistenza incompiuta, di Resistenza fallita, di Resistenza realizzata. La riflessione sulla Resistenza è tornata alla ribalta negli anni Settanta e seguenti, caratterizzati dall’imperversare del terrorismo, perché implica anche una presa di posizione sul tema centrale della soglia di legittimità del ricorso alla violenza. Bobbio già nel 1965 individua nella Resistenza i caratteri della guerra di liberazione nazionale, della guerra sociale, ma anche della guerra che mirava anche alla «instaurazione di uno Stato nuovo, diverso da quello che aveva governato l’Italia prima del fascismo» 62. In questo senso, afferma, la «resistenza fu insieme un movimento patriottico e antifascista, contro il nemico esterno e contro il nemico interno; ebbe il duplice significato di lotta di liberazione nazionale (contro i tedeschi) e politica (contro la dittatura fascista), per la riconquista dell’indipendenza nazionale e delle libertà politica e civile» 63. È una lotta di una minoranza, ma è “guerra popolare”, per capacità di attrarre consenso e di coinvolgimento. La resistenza, dunque come l’unico grande moto popolare nella storia dell’Italia moderna. Il carattere e il successo della resistenza si misura poi nell’azione della classe politica che esprime il nuovo governo del Paese. La resistenza «ha creato una macchina in gran parte nuova; ma il funzionamento di una macchina dipende dall’abilità e dall’audacia dei manovratori» 64. 60

Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 22 dicembre 1947. B. Croce, Intervento all’Assemblea Costituente, seduta pomeridiana del 24 luglio 1947, in Atti dell’Assemblea Costituente, seduta CC, p. 6169. 62 N. Bobbio, Discorso sulla Resistenza, in N. Bobbio e C. Pavone, Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci, a cura di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 8. Il discorso, tenuto nel 1965 a Vercelli, è pubblicato con il titolo Orazione ufficiale pronunciata dal prof. Norberto Bobbio, in Ventennale della Resistenza 1945-1965, Amministrazione provinciale di Vercelli, Biella 1968, pp. 13-26. 63 Ivi, pp. 6-7. 64 Ivi, p. 12. 61

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7. Il contratto di lavoro Il tema del lavoro nella storia dell’Italia unita occupa una posizione centrale dagli anni immediatamente successivi all’Unità fino alla sua collocazione tra i supremi valori costituzionali fondativi, alle travagliate vicende che condussero alla redazione dello Statuto dei lavoratori del 1970, alle riforme che continuano sino ai nostri giorni. Qui si vuole fermare l’attenzione sulla riflessione attraverso la quale i giuristi elaborarono tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento un modello di contratto di lavoro individuale. Su iniziativa tedesca, promossa da un rescritto di Guglielmo II a Bismarck del 4 febbraio 1890, nel 1891 si era tenuta a Berlino una conferenza internazionale, che si era occupata della protezione degli operai: l’iniziativa – a cui aderivano ben 14 paesi europei e che seguiva a distanza di dieci anni una analoga che si era realizzata in Svizzera – suscitava critiche da parte di alcuni giuristi che la giudicavano più mossa dall’intenzione di rispondere ‘demagogicamente’ alle pressioni socialiste che non dalla convinzione di potere realizzare una politica comune del lavoro, considerato che le delegazioni nazionali non avevano alcun potere di impegnare i rispettivi governi a uniformarsi con provvedimenti legislativi alle deliberazioni della conferenza e che oggettive difficoltà impedivano di dettare regole uniformi per Paesi che avevano un differente grado di sviluppo economico, oltre che una variegata situazione sociale, culturale e ambientale. Inoltre la conferenza affrontava solo alcuni problemi del lavoro (in sintesi la durata della giornata lavorativa, il riposo settimanale, il lavoro dei minori e delle donne), ma trascurava altri aspetti altrettanto importanti – quali i complessi meccanismi di protezione dei mercati attuati con dazi e con altri provvedimenti fiscali – che finivano per alterare la libera concorrenza con effetti deleteri anche sui mercati interni e sul potere d’acquisto degli operai. In Italia Emanuele Gianturco nel 1893 aveva promosso da Ministro Guardasigilli una commissione governativa per la riforma dei contratti agrari e del contratto di lavoro che concluse i suoi lavori, senza approdare ad alcun risultato. Nella sua prolusione napoletana del 1891, L’individualismo e il socialismo nel diritto contrattuale, Gianturco aveva sostenuto l’opportunità dell’intervento dello Stato nella regolamentazione del contratto di lavoro per garantire una uguaglianza sostanziale tra le parti; tornerà sul tema in una conferenza tenuta al Circolo giuridico di Napoli nel 1902, Sul contratto di lavoro, per chiarire che sul piano della disciplina del contratto di lavoro debba scegliersi tra una regolamentazione generale da valere in tutte le forme del contratto e regolamentazioni distinte per ciascuna forma contrattuale. Nel 1897 il lavoro, in particolare la costruzione giuridica del contratto di lavoro, costituì uno dei temi del IV Congresso giuridico nazionale, che si tenne a Napoli. «Formidabile problema economico, politico e giuridico è il contratto di lavoro, sul quale tanto si è discusso se lo Stato vi debba, e opportunamente, in-

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tervenire»: così Emanuele Gianturco, prendendo la parola come Ministro Guardasigilli, apriva i lavori del Congresso 65. Negli anni Novanta, i giuristi più sensibili alle istanze del socialismo giuridico lamentano l’assoluta inadeguatezza della disciplina codicistica della locatio operarum per affrontare i complessi problemi e le gravi emergenze del mondo del lavoro industriale caratterizzato da nuovi bisogni e da nuovi rapporti non previsti – perché non prevedibili – dal legislatore del 1865 e invocano una nuova regolamentazione del contratto di lavoro che tenga conto delle nuove condizioni e delle nuove emergenze sociali e discutono circa l’opportunità che una tale regolamentazione sia consacrata nel codice civile. Su diverse posizioni i giuristi che rifiutano contaminazioni tra dati sociali e giuridici: il loro campione, Ludovico Barassi, ritiene che l’avvento dell’organizzazione industriale non abbia intaccato l’essenza giuridica del contratto di lavoro, può aver esasperato la gravità del problema della responsabilità per gli infortuni, può aver aggravato il problema dell’equilibrio tra le parti; può, insomma, avere avuto influenza sul piano sociale, ma non sul piano giuridico. Non manca anche chi, pur riconoscendo la necessità di tutelare i lavoratori, ritiene che gli strumenti e le modalità di tutela debbano rimanere nell’ambito dell’ordine pubblico, fuori dal codice di privata ragione: lo Stato deve intervenire a tutelare «il giusto e l’onesto nel campo dell’attività economica degli individui, in cui la buona fede cozza colla frode e colla violenza e il debole e l’ingenuo rimangono spesso vittima del forte e dell’astuto» 66. Pertanto sono necessarie forme di tutela degli operai per gli infortuni sul lavoro e leggi di protezione per i fanciulli e per le donne. Ma per soddisfare le nuove esigenze imposte dalle nuove tecniche di produzione e dall’affermazione di un nuovo soggetto non è necessario sovvertire i fondamenti dell’ordinamento e non è necessario e neppure opportuno modificare l’architettura del codice civile. È sufficiente imporre agli imprenditori l’obbligo di determinare misure di precauzione, come si è sperimentato per le miniere; è auspicabile che il magistrato valuti con rigore la colpa di chi poteva evitare l’infortunio e adotti criteri larghi nella concessione del risarcimento; tutti gli operai devono essere ammessi al gratuito patrocinio per i giudizi nascenti dagli infortuni e tali giudizi devono concludersi rapidamente. Ma non devono sovvertirsi i princìpi fondamentali dell’ordinamento: nel caso di infortuni l’onere della prova non deve gravare sempre e comunque sul datore di lavoro perché sarebbe contrario ai princìpi generali del procedimento probato65 E. Gianturco, Intervento inaugurale al IV Congresso giuridico nazionale, Napoli 1899, p. 3 dell’estratto. 66 P. Delogu, Il diritto romano nella riforma del codice civile italiano, lezione inaugurale dell’anno accademico 1892-93, in Annuario della R. Università di Catania per l’anno accademico 1892-93, Catania 1893, p. 37 (ora nel cd rom curato da G. Giarrizzo, Lezioni inaugurali 1861-1999 – Università degli Studi di Catania, Catania 2001, pp. 407-421, in particolare pp. 418-419).

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rio e rappresenterebbe un odioso privilegio a danno di una classe di cittadini, che come ogni altra ha diritto a protezione e rispetto. Le leggi che disciplinano la durata della giornata lavorativa e la misura del salario attengono al diritto pubblico e non al diritto civile, la cui purezza non può essere contaminata dalle esigenze e dalle intuizioni della moderna scuola sociologica. Per i sostenitori di questa tesi il calco logico-giuridico in cui può e deve calarsi il contratto di lavoro, qualunque sia, è l’antica locatio dei romani: «Il contratto di lavoro rappresenta il tema più caro degli innovatori, quello più simpatico alle classi operaie, quello che più facilmente si sfrutta a scopo più o meno correttamente politico; ma in pari tempo è il meno scientifico fra quanti ne propone la moderna scuola sociologica. Il contratto di lavoro, qualunque nome si voglia cercare, qualunque innovazione si voglia introdurre, qualunque sistema si voglia adottare, qualunque principio si voglia stabilire, sarà sempre l’antica locazione di opera, intellettuale o meccanica, che nel codice civile può essere disciplinata soltanto in rapporto agli interessi contrattuali ed alle conseguenze del libero consenso» 67.

La disciplina che riguarda il consenso deve rimanere nel codice civile, tutto il resto deve restarne fuori e può trovare posto nel codice sociale: «Se non si vuole creare uno stato di costante e ingiusta violenza della legge contro la manifestazione della libera volontà dei contraenti; se non si vuole distruggere la libertà delle contrattazioni; se non si vogliono imporre vincoli ingiusti, inconscienti, inopportuni alla valutazione dell’umano lavoro; il contratto di lavoro nel codice civile non può subire leggi determinate riguardo al suo valore economico, riguardo alla sua durata, riguardo alla responsabilità dei contraenti. Le peculiari modificazioni del contratto di lavoro saranno diretta conseguenza delle leggi economiche, che nel codice sociale stabiliranno le garanzie d’ordine generale a favore dei lavoratori» 68.

Gli innumerevoli interventi che danno vita al dibattito il più delle volte si fermano alle fondate, giustificatissime e ben argomentate lamentazioni contro l’inadeguatezza dell’ordinamento, ma non si spingono fino alla difficile e complessa costruzione di nuove, e coerenti, soluzioni. Naturalmente non mancano spunti interessanti. Uno per tutti: l’esigenza di tutelare la parte economicamente più debole viene inscritta in un contesto più generale di bene comune, pace sociale, organizzazione economico-produttiva. Pasquale Jannaccone negli anni tra la fine dell’Ottocento e i primi del Nove67 Così Pietro Delogu, nella sua lezione inaugurale dell’anno accademico 1892-93, Il diritto romano nella riforma del codice civile italiano, in Annuario della R. Università di Catania per l’anno accademico 1892-93, cit., pp. 13-55, ora nel cd rom curato da G. Giarrizzo, Lezioni inaugurali 1861-1999 – Università degli studi di Catania, cit., pp. 407-421, in particolare pp. 418-419, che qui si cita per esemplificare il pensiero dei giuristi che ritengono non sia necessaria un’incisiva riforma del codice civile per regolamentare il contratto di lavoro. 68 Ibidem.

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cento ha il merito di aver riconosciuto nell’eterodirezione la peculiarità del rapporto di lavoro industriale. Ma tale elemento – individuato utilizzando strumenti extragiuridici di tipo sociologico ed economico – non viene utilizzato a pieno per giungere a conclusioni coerenti sul piano giuridico. Di lì a qualche anno, invece, Ludovico Barassi, con un procedimento argomentativo che muove da una prospettiva diametralmente opposta, guarderà all’eterodirezione in chiave squisitamente giuridica: sarà anzi questo il crinale che verrà a segnare il limite tra il rapporto di lavoro subordinato e gli altri rapporti di lavoro. L’intuizione barassiana – che sul piano sostanziale è fortemente tributaria nei confronti della letteratura precedente – è all’origine della “colonizzazione” del diritto del lavoro da parte del diritto civile – il contratto di lavoro non si riferirà più solo all’operaio dell’industria, ma anche al “direttore di una banca” – e dimostra ai giuristi novatori che «dall’esegesi e dalla tecnica giuridica emergono l’ossatura e la disciplina di ogni tipo di prestazione lavorativa sia autonoma che subordinata» 69. Ma è innegabile che Barassi, con il suo programmatico distacco dalla realtà sociale si sia avvalso nella sua costruzione teorica di un elemento, l’eterodirezione appunto, che era stato individuato con gli occhiali dei sociologi e degli economisti. Per quanto riguarda poi il problema della responsabilità per gli infortuni sul lavoro – spinosa questione la cui soluzione viene ricercata da alcuni all’interno dei consolidati schemi civilistici, da altri, invece, in originali e innovative costruzioni teoriche –, nel 1898 la legge scioglierà i dubbi della scienza prevedendo l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni sul lavoro, quindi trasferendo la soluzione del problema degli infortuni dal terreno del diritto civile a quello del diritto pubblico. Ma i giuristi hanno preparato il terreno all’intervento del legislatore: pensano che il regime di responsabilità sia strettamente collegato alle dimensioni economiche dell’impresa e alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro e pertanto non possa adottarsi un’unica regola per la piccola e per la grande industria. Per la grande industria, sulla base della valutazione dell’esperienza, affermano la teoria del rischio professionale: gli infortuni sul lavoro, più che alla eventuale colpa dell’allogatore o dell’allogato, devono imputarsi all’organizzazione del lavoro, al sistema produttivo, alle macchine, alle condizioni ambientali. Spesso proprio la pericolosità oggettiva di alcuni lavori delle grandi industrie fa abbassare la soglia della percezione del pericolo nei lavoratori. È opportuno allora che, prescindendo da valutazioni di responsabilità soggettiva, sia posto a carico dell’imprenditore l’obbligo di assicurare contro gli infortuni i suoi dipendenti. Il costo dell’assicurazione, sia pure ingente, è comunque un costo d’impresa, prevedibile ricorrendo a calcoli statistici, che pone al riparo l’imprenditore e che può essere trasferito sul mercato considerandolo parte del costo (e

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Così, a proposito di Barassi, L. Castelvetri, Le origini dottrinali del diritto del lavoro, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 41 (1987), p. 282.

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quindi del prezzo finale) del bene. La grande industria può ben pianificare tali costi e può contare su ampi utili da destinare all’assicurazione. Sul punto è interessante la posizione di Nicola Coviello (1867-1913), che prende le distanze da alcuni riformatori ad ogni costo «i quali, privi d’una seria e profonda cultura giuridica, credono d’aver fatto gran cosa se riescono a trovar modo di dire roba da chiodi del diritto romano e di tutta la tradizione giuridica, e, servendosi di frasi ampollose e vuote rubate al dizionario dei fisiologi, de’ biologi, o de’ chimici, declamando con rettorica da gazzetta, tutt’altro che fine ed elegante, si spacciano i restauratori del diritto, gli scopritori di nuovi orizzonti» 70.

Certamente Coviello disdegna di essere annoverato tra costoro, ma non vuole neppure schierarsi con quanti «s’ostinano a credere che non debba toccarsi in alcun modo il codice civile pel quale professano una specie di feticismo» 71; pertanto non esita a dimostrare che il principio che lega la responsabilità civile alla colpa sia storicamente, non logicamente, fondato. E pertanto sia un principio modificabile. Conseguentemente Coviello non ha remore a sostenere la soluzione al problema degli infortuni sul lavoro che si traduce, adottando la soluzione assicurativa, in una socializzazione dei costi d’impresa. Per la piccola industria e per il lavoro domestico, invece, la saltuarietà dei rapporti di lavoro, le dimensioni dell’impresa, l’esiguità degli utili d’impresa suggeriscono un diverso regime di responsabilità per gli infortuni modellato sulla responsabilità contrattuale: l’allogatore è obbligato per gli infortuni imputabili a sua colpa o a colpa lieve dell’allogato, ma gli infortuni imputabili a colpa grave dell’allogato o a caso fortuito o a forza maggiore restano a carico dell’allogato. Per la piccola industria e la domesticità il fondamento della responsabilità dell’allogatore per gli infortuni occorsi all’allogato è individuato nel contratto di lavoro. Oggetto del contratto è la prestazione del lavoro, «una cosa nel senso giuridico, la quale ha un’esistenza a sé, indipendente dalla persona che l’offre, e che sul mercato, poiché si suole assimilare alle altre merci, ha un valore proprio» 72. L’allogato cede all’allogatore, per un determinato compenso e un determinato tempo, il godimento di questo bene; l’allogatore si obbliga allo spirare del tempo a restituire il bene goduto «nello stesso stato in cui lo ha ricevuto» 73. Considerata l’inseparabile consustanzialità della persona dell’allogato con la prestazione del lavoro, l’obbligo in capo all’allogatore si sostanzia nel «riconsegnare 70

N. Coviello, La responsabilità senza colpa, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 23.1 (aprile 1897), p. 189. 71 Ibidem. 72 I. Modica, Costruzione giuridica del rapporto di lavoro. Tema proposto per il IV Congresso giuridico nazionale, in Il Circolo giuridico, 28 (1897), p. 258. 73 Ivi, p. 259.

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allo stesso allogato la sua persona integra e sana» 74 e nel rispondere delle perdite e dei deterioramenti avvenuti nella persona del lavoratore. Le modalità di organizzazione del lavoro prevedono che il datore di lavoro con la sua autorità diriga e sorvegli l’attività produttiva: nel costruendo contratto di lavoro, allora, la responsabilità per gli infortuni deve fondarsi sul legame contrattuale che unisce le parti, legame fortemente caratterizzato da dipendenza morale e materiale. La misura della responsabilità dell’allogatore si estenderà, allora, fino alla colpa lieve del prestatore d’opera e l’onere della prova incomberà comunque sul datore di lavoro responsabile dell’organizzazione del lavoro. Così si risolve la questione pregiudiziale sull’opportunità e sulla legittimità dell’intervento dello Stato nel campo del lavoro. A fondamento della disciplina del contratto di lavoro – disciplina che si intende collocare, almeno nelle sue linee fondamentali, nel codice civile, cioè nel rango dell’ordinamento giuridico statale più alto, più duraturo, di maggiore prestigio – è la convinzione che l’intervento dello Stato sia non solo opportuno, ma anche necessario e, comunque, legittimo. Fermamente si rigettano le obiezioni liberiste che ritengono l’intervento dello Stato nella regolamentazione del contratto di lavoro una intollerabile ingerenza nel libero gioco delle libertà individuali: se si accogliessero tali obiezioni dovrebbero rimuoversi tutte le norme del codice civile che limitano la libertà individuale. Con pari fermezza si rifiutano le opzioni socialiste che mirano a sostituire alla volontà delle parti del contratto una pianificata e dettagliata regolamentazione di tutti gli aspetti del contratto di lavoro: tali opzioni contraddicono in modo stridente le leggi dell’economia politica della società. Fra le due opposte visioni che si respingono – la liberista e la socialista –, si colloca «come sapiente armonia» una terza tendenza che è – sembra quasi superfluo aggiungere – «il risultato della legge di evoluzione la quale domina anche la società» 75. A questa terza tendenza si ricollega apertamente la concezione romagnosiana che assegna allo stato una funzione di tutela e di educazione. Naturalmente l’intervento dello stato non può sopprimere il conflitto tra capitale e lavoro, può solo «diminuirne l’attrito» 76, costituendo il conflitto e l’attrito elementi costitutivi della evoluzione sociale. Dalla funzione di tutela discendono per lo stato il diritto e il dovere a un tempo di regolare i rapporti fra i padroni e gli operai: lo Stato ha il diritto dovere «di garantire efficacemente i loro (dei lavoratori e dei datori di lavoro) reciproci interessi, dettando le norme sul tempo e sul modo di pagamento dei salari, accordando dei privilegi e l’insequestrabilità fino a una certa misura; di proteggere la salute degli operai, imponendo che nei luoghi di lavoro sia osservata l’igiene, che sia rispettata la durata del lavoro giornaliero, che sia regolato il lavoro delle donne e dei 74

Ibidem. Ivi, p. 210. 76 Ivi, p. 212. 75

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fanciulli; di tutelare l’integrità personale dei lavoratori, obbligando i padroni ad esercitare la più oculata sorveglianza sulle macchine, sui processi di lavoro, sui lavoratori stessi, e a mettere in opera i mezzi più adatti indicati dalla scienza per evitare, nei limiti del possibile, gli infortuni del lavoro; di ispezionare, per mezzo di appositi funzionari, gli opifici e le miniere, e di punire i contravventori; di affidare, infine, a tribunali speciali, composti di padroni e di operai, l’amichevole componimento ed anche la giudiziaria decisione di una gran parte delle inevitabili controversie insorte fra padroni ed operai» 77.

Dalla funzione di educazione e miglioramento discendono per lo Stato il diritto e il dovere di intervenire per promuovere l’educazione e la prosperità: lo stato deve disciplinare gli istituti «i cui germi fecondi promettono rigoglioso sviluppo nella vita industriale moderna, quali sono le diverse specie di partecipazioni agli utili della fabbrica, le società cooperative di produzione e le casse di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, le malattie, la vecchiaia» 78.

È evidente come la funzione negativa di tutela si esplichi attraverso il contratto di lavoro e la funzione positiva di miglioramento attraverso contratti e istituti a questo correlati. Secondo il progetto presentato al IV Congresso giuridico nazionale, il contratto di lavoro dovrebbe ispirarsi ai seguenti principi: 1. Il contratto di lavoro (d’ora in poi: c.d.l.) deve costituirsi come un istituto autonomo, non potendosi configurare su alcun altro dei contratti nominati nel codice civile, nel quale devono essere incluse le norme direttive, lasciandosi al regolamento quelle sussidiarie. 2. Il c.d.l. deve riguardare tanto le opere manuali quanto le intellettuali. 3. Agli effetti del c.d.l. i minori sono capaci di obbligarsi all’età di 18 anni. 4. La donna maritata ha bisogno dell’autorizzazione del marito sempre quando l’opera da prestarsi importi la necessità della residenza in luogo diverso da quello del marito, per modo che non possa ottemperare agli obblighi di cui all’art. 130 cod. civ. 5. Il c.d.l. sarà provato a norma del diritto comune. La prova testimoniale però sarà sempre ammissibile. 6. Nessuno può obbligare l’opera sua oltre la durata di 5 anni o di una determinata impresa. Il contratto conchiuso da un minore può essere sciolto, a richiesta di lui, al raggiungimento di diciotto anni. 7. Fra gli obblighi dell’allogatore devono legiferarsi: a) quello di garentire l’integrità personale dell’operaio contro gl’infortuni del lavoro, e specialmente

77 78

Ivi, p. 211. Ivi, p. 212.

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quando si tratti delle grandi industrie, anche mercé l’assicurazione obbligatoria; b) di curare l’igiene del lavoro, legiferandosi le norme regolatrici del riposo festivo e del lavoro notturno; c) di pagare la mercede in denaro, salvo nei lavori agricoli le prestazioni alimentari necessarie per la giornata; d) di pagare il salario in periodi non più lunghi di quelli che saranno prescritti a seconda la natura del lavoro; e) di non pagare il salario nelle bettole, birrerie, ecc. 8. Nell’esercizio dei pubblici servizi e nei contratti di appalto fra le pubbliche amministrazioni e gli imprenditori sarà determinato il massimo della durata del lavoro e il minimo del salario da assegnarsi agli operai, che saranno adibiti dal concessionario. 9. Il salario è insequestrabile, con principio di proporzionalità da stabilirsi per legge. 10. Il salario deve godere dei privilegi di cui agli artt. 1956 e 1958 cod. civ. 11. Il salario della donna maritata è di esclusiva disponibilità della stessa, salvo il caso di cui all’art. 132 cod. civ. 12. Sono nulle le penali che abbiano per effetto di porre l’operaio in istato di personale soggezione verso l’intraprenditore. Le penali non possono superare di un decimo il danno effettivamente sofferto, e le parti hanno sempre il diritto di fare accertare il danno effettivo. Sono valide le penali che hanno per oggetto il mantenimento della disciplina e l’osservanza delle disposizioni di chi è preposto al lavoro; queste penali però non possono superare l’ammontare di una giornata di mercede. 13. Il c.d.l. si risolve per rottura o per fine propriamente detta. La rottura si verifica anche per il furto, le ingiurie e le vie di fatto verso l’allogatore o la sua famiglia, per il deterioramento delle macchine, per il timore giustificato di compromettere la sicurezza del lavoro, per le ingiurie, i maltrattamenti e le offese verso l’allogato o i membri della sua famiglia. 14. Pur restando valido il c.d.l., sono nulli i patti che sotto qualunque forma concedono a una delle parti lo scioglimento del contratto a suo arbitrio.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna 220

 

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