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Italian Pages 378 [380] Year 2023
Edoardo De Marchi ha insegnato Storia nella scuola secondaria superiore ed è stato docente di discipline economiche presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è dedicato a studi relativi all’intreccio fra trasformazioni storiche del capitalismo ed evoluzione dei paradigmi economici. Tra le sue pubblicazioni: Verso un nuovo capitalismo (con G. La Grassa, 2007), L’economia politica del capitalismo industriale (2011) e Capitalismi del Novecento (2018).
32,00 euro
EDOARDO DE MARCHI SOCIETÀ, STATI, CONFLITTI LE ORIGINI STORICHE DELLA GEOPOLITICA EUROPEA (SECOLI XVI-XX)
MIMESIS
ISBN 978-88-5759-850-5 Mimesis Edizioni Eterotopie www.mimesisedizioni.it
EDOARDO DE MARCHI SOCIETÀ, STATI, CONFLITTI
Gli avvenimenti recenti legati alla crisi ucraina hanno dato una clamorosa evidenza ai temi geopolitici, portando in primo piano i mutamenti nei rapporti strategici intervenuti gradualmente in Europa dopo il crollo dell’impero sovietico. L’intenzione del saggio non è quella di ripercorrere gli eventi di cronaca, ma di ricostruire il loro retroscena storico, mettendo a fuoco le relazioni tra stati nel vecchio continente e la loro evoluzione, dalle origini dell’età moderna fino alla fine del Novecento, sia sotto il profilo delle modalità tecnico-militari di conduzione della guerra, sia in relazione all’alternanza tra fasi di egemonismo e multipolarismo. Un’attenzione particolare viene dedicata, nella parte conclusiva del libro, alla perdita di centralità dell’Europa. Generata dai conflitti mondiali, la mancanza di iniziativa europea si protrae a causa della scarsa coesione dovuta ai particolarismi, ai limiti della moneta unica, al coinvolgimento europeo nell’espansionismo statunitense seguito al crollo dell’URSS.
MIMESIS / ETEROTOPIE
MIMESIS / ETEROTOPIE N. 871 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna comitato scientifico
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo) Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Micaela Latini (Università degli Studi di Ferrara), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
Edoardo De Marchi
SOCIETÀ, STATI, CONFLITTI Le origini storiche della geopolitica europea (secoli XVI-XX)
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Eterotopie, n. 871 Isbn: 9788857598505 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
Introduzione 1. Economia e stato nell’europa moderna 1.1 Agricoltura, manifattura, sviluppo 1.2 Oceani, commercio, egemonia internazionale 1.3 L’emersione della potenza inglese 1.4 Transizione in Occidente e stato assoluto 1.5 L’assolutismo in Europa occidentale 1.6 L’Inghilterra. Dall’assolutismo imperfetto alla rivoluzione 1.7 Asburgo d’Austria e Hohenzollern. L’assolutismo centro-orientale
9 15 15 23 28 32 36 46 55
2. La fine dei disegni egemonici e l’equilibrio 63 2.1 Stati e apparati militari 63 2.2 L’evoluzione delle tecniche di combattimento 67 2.3 I conflitti cinquecenteschi. Dal Mediterraneo all’Atlantico72 2.4 Versante atlantico, Impero e Baltico 79 2.5 La Guerra dei trent’anni. La stagione dei successi asburgici85 2.6 L’impegno francese e la crisi dell’egemonia spagnola 89 2.7 L’Olanda tra Inghilterra e Francia 92 2.8 La Successione spagnola e l’origine del sistema d’equilibrio96 3. Le origini del capitalismo industriale 3.1 Origini e caratteri della rivoluzione agricola 3.2 La diffusione della rivoluzione agricola
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3.3 Sviluppo autosostenuto ed evoluzione tecnologica 3.4 La maturazione della tecnologia 3.5 La formazione della società industriale sul continente 3.6 Russia. La lenta uscita dall’arretratezza
113 117 121 127
4. L’età dell’equilibrio 4.1 Il quadro generale 4.2 La formazione della potenza russa 4.3 Tra Mediterraneo ed Europa orientale. La Successione polacca 4.4 La Prussia e la Successione austriaca 4.5 La Guerra dei sette anni 4.6 La spartizione della Polonia
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5. I contrastati sviluppi del potere borghese 5.1 Alle origini della rivoluzione borghese in Francia 5.2 La rivoluzione. Svolte e conseguenze 5.3 Alle origini del socialismo 5.4 I divergenti percorsi dei movimenti socialisti. L’Europa occidentale 5.5 I divergenti percorsi dei movimento socialisti. L’Europa centro-orientale 5.6 La risposta delle classi dominanti
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6. Egemonismo napoleonio e ritorno all’equilibrio 6.1 La Francia dalla Rivoluzione all’egemonismo 6.2 L’Europa napoleonica 6.3 Il declino dell’impero 6.4 Verso un nuovo modello di confronto militare 6.5 Il 1830 e la tenuta della Restaurazione 6.6 Dal ’48 al nuovo assetto europeo
185 185 192 197 207 211 214
7. I divergenti percorsi delle società europee 7.1 Verso un nuovo capitalismo 7.2 I travagli delle democrazie europee 7.3 Cedimento liberale e fascismo 7.4 Crisi di Weimar e dominio nazista 7.5 L’URSS dalla rivoluzione al capitalismo di stato
223 223 231 237 243 252
142 145 149 153
173 176 181
8. Conflitti e declino 8.1 Il ritorno dei conflitti 8.2 La guerra industriale 8.3 Dalla guerra industriale alla guerra totale 8.4 I presupposti politici della seconda guerra mondiale 8.5 La guerra totale e i suoi limiti
265 265 271 275 281 287
9. Nuovi capitalismi, nuove egemonie 297 9.1 Gli Stati Uniti e la salvaguardia della supremazia postbellica297 9.2 La nuova economia europea 302 9.3 Il destino delle economie socialiste. L’implosione sovietica 308 9.4 Il destino delle economie socialiste. L’ascesa cinese 319 9.5 Finanza e capitalismo di fine secolo 329 10. L’incerto destino dell’Europa 10.1 Il mondo bipolare 10.2 Prove di multipolarismo 10.3 Velleità egemoniche nell’Europa postbellica 10.4 La Germania alla ribalta 10.5 L’incerta Europa di fine secolo
339 339 348 356 361 365
INTRODUZIONE
Questo lavoro ha preso forma in relazione al mutamento del clima internazionale intervenuto negli ultimi anni. A partire dalla crisi dell’Unione Sovietica, infatti, i rapporti di forza internazionali hanno registrato spostamenti progressivi, a cui ha contribuito non poco anche l’affacciarsi della Cina come potenza in grado di imporsi sul piano economico e strategico a livello mondiale. Evolutesi dapprima con una certa lentezza, le tensioni internazionali hanno subito una brusca accelerazione nel periodo più recente, ponendo esplicitamente il problema di possibili esiti dirompenti anche sul piano militare. Di qui il proposito di mettere a fuoco il tema della conflittualità internazionale in Europa, nelle sue articolazioni economiche, diplomatiche e militari, a partire dagli esordi dell’età moderna fino alla fine del secolo scorso. Mentre questo lavoro era in gestazione (e quando l’ultimo capitolo era già scritto nella sostanza) è intervenuto il conflitto ucraino. È sembrato tuttavia opportuno resistere alla tentazione di aggiornare il volume fino a questi ultimi sviluppi, in parte per la scelta iniziale di occuparsi dei fenomeni storici nella dimensione dei tempi lunghi e in parte per evitare che il libro divenisse un ibrido tra una ricostruzione in prospettiva storica e un instant book. L’indagine compiuta ha cercato di far emergere e seguire nel loro svolgimento vari ordini di dinamiche. In primo luogo si è messo l’accento sugli aspetti di carattere economico-sociale che hanno contribuito a determinare la rispettiva struttura interna degli stati e a portarli alla ribalta storico-politica, condizionando la composizione delle forze militari di cui storicamente essi si sono serviti e gli obiettivi perseguiti sulla scena internazionale. Nel contesto ancora semifeudale rappresentato dell’assolutismo, la proiezione esterna degli stati era guidata prevalentemente – anche se non esclusivamente – da motivi dinastico-patrimoniali ed attuata da eserciti formati soprattutto da elementi marginali della so-
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Società, stati, conflitti
cietà, reclutati in quest’ambito al fine di non turbare il meccanismo fondamentale delle attività economiche. Il vero momento di svolta in questo campo si situa nel Settecento inoltrato. Con la Rivoluzione francese e l’età napoleonica le guerre assunsero i contorni di un confronto fra il potere statuale nato dalla rivoluzione e le vecchie società, in varia misura rette da strutture feudali e dinastiche. Rispetto al passato, a partire da quest’epoca gli eserciti furono formati da una quota sempre crescente da cittadini inseriti in modo organico nella struttura socioeconomica e politica del paese. Le guerre mondiali novecentesche, caratteristiche di formazioni capitalistiche affermate, andarono per definizione oltre i confini europei. Come gli obiettivi dei più potenti gruppi economici erano ormai concepiti su scala mondiale, così lo erano divenuti sempre più quelli politici dei maggiori stati, creando una configurazione in grado di rendere interdipendenti e quindi di amplificare le tensioni emerse su singoli scacchieri anche geograficamente molto lontani fra loro. Il nazionalismo, nato nell’Ottocento, fu chiamato fin dalla fine del secolo a sostenere la mobilitazione di massa voluta dalle classi dirigenti. Esso cambiò sempre più natura e fece sempre più appello a una nuova comunità immaginaria, la “nazione”, assumendo in misura crescente coloriture aggressive e xenofobe e conferendo in tal modo centralità alle strutture militari che rappresentavano l’incarnazione istituzionale di tali istanze. In relazione a queste premesse si è cercato di chiarire l’interazione tra evoluzione della società e modalità tecnico-militari di svolgimento della guerra, che rappresenta l’apice della conflittualità tra stati. Ciò ha significato delineare un percorso che porta dalla guerra preindustriale a quella industriale e infine a quella totale. Quest’ultima, che della guerra industriale rappresenta la massima conseguenza, ha condotto alle soglie della catastrofe atomica, le cui capacità distruttive finora hanno mantenuto le potenze al di qua della sua traduzione pratica, rimanendo nei limiti di impostazioni belliche convenzionali. Esiste tuttavia una possibilità, tutt’altro che remota, che i conflitti iniziati in chiave convenzionale trascendano poi verso la dimensione dello scontro atomico. Ci si è soffermati inoltre sui mutamenti nella configurazione dei conflitti internazionali, che alternano periodi di egemonismo ad altri di policentrismo e tendenza all’equilibrio. Nell’età moderna l’esempio classico è costituito dal passaggio dalle velleità egemoni-
Introduzione11
che della Spagna a quelle della Francia, sfociate poi nell’equilibrio settecentesco. La vicenda si ripropone alla fine del secolo XVIII con l’egemonismo napoleonico, cui segue il ritorno alla filosofia dell’equilibrio fatta propria dal Congresso di Vienna. Nel Novecento si chiude infine l’ultimo grande tentativo egemonico, ossia quello tedesco, che tuttavia, diversamente dagli altri casi, termina con l’esaurimento delle forze dell’Europa nel suo complesso. Un ultimo spunto di riflessione è costituito dal destino dell’Europa. In passato i conflitti che nascevano nell’ambito europeo si mantenevano interni ad esso e non mettevano in questione i rapporti tra l’Europa e le potenze esterne. Dopo le due guerre mondiali, e in particolare dopo la seconda, l’Europa ha perso la sua centralità, ricoprendo un ruolo subordinato nel confronto mondiale tra USA e URSS. Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi sono avvenuti cambiamenti epocali, in particolare il crollo dell’impero sovietico e la nascita dell’Unione Europea, ma non sembra che tali mutamenti abbiano restituito all’Europa un ruolo autonomo nella politica mondiale. Per tale ragione il libro si chiude con l’entrata in questa nuova fase e con l’analisi dei problemi suscitati dalla difficile ricerca di una nuova identità europea. Concludendo, le componenti della conflittualità tra stati su cui si è soffermata la nostra ricerca sono sostanzialmente quattro: la connessione tra la natura sociale degli stati e le forze messe in gioco nei conflitti esterni, le forme di organizzazione tecnico-militare, l’alternanza di fasi tendenzialmente monocentrico-egemoniche e policentriche, la connessione tra le grandi guerre novecentesche e l’attuale incerta collocazione europea. Tale molteplicità di dimensioni avrebbe potuto forse orientare verso una trattazione per singoli temi connessa ai nuclei sopra evidenziati. Si è preferito tuttavia optare per un approccio di taglio storico, che è apparso più immediato e intuitivo in quanto indirizza l’attenzione del lettore sull’evoluzione d’insieme e sugli esiti finali cui le lunghe lotte fra stati europei hanno condotto.
AVVERTENZE E RINGRAZIAMENTI
Questo libro deriva da percorsi di ricerca intrapresi nell’arco di molti anni. Il lettore potrà quindi rinvenire in esso frammenti derivati da alcuni miei scritti precedenti, in particolare Società nella storia (Minerva Italica 2004) e Capitalismi del Novecento (Unicopli 2018). Essi sono stati naturalmente ristrutturati in funzione dell’attuale progetto d’insieme, lasciando tuttavia inalterate argomentazioni e narrazione laddove esse sembrano conservare la loro validità. Si ringraziano tutti coloro che hanno letto del tutto o in parte questo lavoro e in particolare Michele Cangiani, Ivo Mattozzi, Mimmo Porcaro, Fabrizio Reberschegg e Sergio Torcinovich. Un particolare ringraziamento va inoltre a mia moglie e a mio figlio, che mi hanno sostenuto durante la stesura di questo scritto. Va da sè che ogni eventuale manchevolezza rimasta in esso è da attribuirsi esclusivamente all’autore.
1. ECONOMIA E STATO NELL’EUROPA MODERNA
1.1 Agricoltura, manifattura, sviluppo L’Europa moderna, all’inizio del XVI secolo, esordì mostrando un sensibile incremento demografico, che aveva già preso forma dalla seconda metà del secolo precedente. Tale trend di crescita tuttavia non continuò a lungo: per quanto approssimativi e disomogenei dal punto di vista geografico, i dati evidenziano una stasi o un regresso tra l’inizio e la metà del Seicento, per tornare a crescere nella parte finale del secolo e soprattutto in quello successivo1. I fattori determinanti di tale processo, articolato su un arco temporale di oltre duecento anni, si muovono entro la cornice costituita da un trittico variamente intrecciato formato da guerre, variazioni climatiche e carestie, epidemie: un’interazione reciproca di fattori che lasciava margini di crescita nei periodi di aumento demografico, ma che poneva limiti severamente accentuati in quelli di segno contrario. L’invarianza di tale quadro di fondo per un lunghissimo periodo rimanda ad un’agricoltura ancora sostanzialmente statica dal punto di vista tecnico. Naturalmente ciò non significa immobilità assoluta. Nuove colture infatti si diffondevano, provenienti sia dall’interno dell’Europa e del bacino del Mediterraneo, sia dal Nuovo Mondo: fra esse un impatto particolare è quello esercitato dal mais e, con una diffusione più lenta ma altrettanto significativa, dalla patata2.. 1
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K.F. Helleiner, La popolazione in Europa dalla peste nera alla vigilia della rivoluzione demografica, in E.E. Rich, C.H. Wilson, (a cura di) Storia economica Cambridge, Einaudi, Torino 1975, vol. IV, pp. 3-106. R. Mols, La popolazione europea nei secoli XVI e XVII, in C. M. Cipolla (a cura di) Storia economica d’Europa, UTET, Torino 1979, vol. II, pp. 1-51. Una ricapitolazione sintetica dei progressi tecnici nell’agricoltura dell’epoca è in G. Postel Vinay, Le trasformazioni dell’agricoltura in Europa, in V. Castronovo (a cura di) Storia dell’economia mondiale, vol. II, pp. 303-322.
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Società, stati, conflitti
Nonostante ciò, tuttavia, nell’agricoltura europea dominavano ancora nettamente i cereali (frumento, segale, orzo e avena), la cui incidenza in termini di terreni seminati, anche nei paesi più avanzati d’Europa, non scendeva sotto il 50 -70 %3. Le tecniche – se si eccettuano le opere di bonifica e canalizzazione e limitati perfezionamenti degli attrezzi agricoli – rimasero pressoché immutate per lungo tempo. Dominava ancora la rotazione triennale, con largo spazio ai maggesi che sottraevano terra non lasciando posto alle foraggere e conseguentemente all’allevamento e alla concimazione. La rottura di questo circolo vizioso cominciò a delinearsi in alcune zone circoscritte dell’Europa Nord-occidentale solo nel XVII secolo e assunse un peso considerevole unicamente in quello successivo. Nei secoli XVI-XVIII che stiamo ora esaminando, si consolidò gradualmente, dal punto di vista dei rapporti sociali, un dualismo territoriale che giunse a rappresentare una delle caratteristiche storiche fondamentali del continente europeo. Le radici lontane di tale fenomeno vanno ricercate nella diversa risposta che l’Europa occidentale e quella orientale diedero alla crisi dei secoli XIV e XV. Nell’Occidente, più popolato, economicamente attivo e urbanizzato, il tardo Medioevo vide una progressiva disgregazione dei rapporti feudali, mentre l’opposto si verificò in Oriente. In Europa orientale i proprietari terrieri si impadronirono dapprima delle terre abbandonate nel corso della crisi e successivamente, allorché i prezzi dei cereali ricominciarono a crescere per effetto dell’incremento demografico, sfruttarono l’opportunità di rafforzare la riserva signorile allo scopo di vendere i cereali in Occidente. Da un lato, essi approfittarono quindi della debolezza dei principi e delle città strappando concessioni fiscali o giurisdizionali e impedendo alle città di accogliere servi; dall’altro cercarono di impadronirsi della terra dei contadini e di accrescere il controllo su di essi, impedendone la fuga e appesantendo le prestazioni di lavoro sui fondi signorili. In genere la rendita di queste tenute non derivava solo dalla produzione dell’azienda signorile, che basandosi sul lavoro coatto aveva rendimenti piuttosto bassi, ma anche dalla percezione 3
S. Van Bath, L’agricoltura nella rivoluzione demografica, in E.E. Rich, C.H. Wilson, (a cura di), op. cit., Einaudi, Torino 1978, vol. V, p. 105.
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da parte del signore di una serie di tributi feudali. La fine della congiuntura economica favorevole e le guerre seicentesche fecero ulteriormente peggiorare i rapporti di forza fra signori e contadini, cosicché il sistema della riserva signorile continuò e toccò l’apice nel XVIII secolo. Solo la Prussia e l’Austria, verso la fine di questo periodo, presero qualche provvedimento per migliorare le condizioni contadine4. Di natura decisamente differente fu il sistema di rapporti agrari che prevalse ad Occidente dell’Elba. Qui i signori mantennero il controllo – diretto o per interposta persona – di una parte della riserva e cercarono anzi a più riprese di accrescerlo a spese della comunità contadina, ma la tendenza non raggiunse mai le dimensioni caratteristiche dell’Europa orientale. Il rimanente delle terre fu affidato a contadini personalmente liberi con varie forme di locazione, che assunsero nel tempo la configurazione dell’affitto a lungo termine e delle varie forme di colonia parziaria (in particolare la mezzadria). In tale sistema le corvées erano naturalmente più contenute, ma i contadini erano oppressi non solo da censi e altri diritti signorili in moneta o in natura, ma dalla fiscalità ecclesiastica e dalla sempre crescente fiscalità statuale su cui avremo modo di tornare5. Naturalmente questa linea divisoria articolata sull’asse Est-Ovest non esauriva tutta la complessità degli assetti sociali che contraddistinguono l’agricoltura europea. A Sud, nell’area mediterranea (Spagna, Italia), emergeva un panorama variegato e generalmente poco dinamico in cui coesistevano latifondo e varie forme di colonia parziaria. Le regioni più promettenti per il futuro dell’agricoltura europea stavano invece ben più a Nord, sul versante atlantico: Gran Bretagna, Francia centro-settentrionale, Paesi Bassi6. Oltre che per i rapporti sociali prevalenti, l’area Nord-occidentale d’Europa aveva assunto il carattere di una regione agricola avanzata anche per le tecniche che venivano affermandosi in essa. I Paesi Bassi, caratterizzati da vincoli feudali assai attenuati e da contratti a lungo termine, da aziende piccole e molto curate in un ambiente 4 5 6
W. Rösener, I contadini nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1995, pp.157-74. W.H. Kamen, Il secolo di ferro 1550-1660, Laterza, Roma-Bari 1975, pp. 297-313. W. Rösener, op. cit., pp. 174-8. A De Maddalena, L’Europa rurale (15001750), in C. M. Cipolla (a cura di), op. cit., vol. II, pp. 225-6. A. de Maddalena, L’Europa rurale (1500-1750), cit., pp. 228-33 e pp. 240-58.
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fortemente urbanizzato, nonché da una robusta attività marittima che aveva reso disponibili in misura elevata i cereali del Baltico e quindi permesso di specializzare l’agricoltura in varie direzioni, fin dal XVI-XVII secolo avevano svolto un ruolo pionieristico nello sviluppo di colture e nuove rotazioni che avevano consentito di ridurre o eliminare i maggesi. Nel nuovo tipo di agricoltura che qui veniva praticato, al posto del maggese si usava alternare colture industriali e foraggere che non solo non impoverivano il terreno, ma costituivano un rilevante aiuto per l’allevamento e per questa via accrescevano a loro volta la disponibilità di concime naturale e la fertilità della terra7. A partire dal XVII secolo questi nuovi metodi si irradiarono nelle regioni circostanti, nel Settentrione della Francia e più ancora in Gran Bretagna. In Francia la diffusione fu più lenta a causa del condizionamento esercitato dalle strutture sociali dell’Ancien Régime. Sebbene in una minoranza di casi – come ad esempio nella Francia settentrionale (Artois, Picardia, Île de France, Beauce, etc) – la terra fosse affidata a fittavoli provvisti di ingenti capitali, in grado di investire in attrezzature, animali etc. e di fare un uso rilevante di manodopera salariata, i rapporti agrari erano per lo più contraddistinti dalla polverizzazione della proprietà contadina e da patti d’affitto attestati assai spesso sul modello mezzadrile o su altre varianti della colonia parziaria, che tendevano a perpetuare uno stato generale di arretratezza. Una posizione a parte, nell’insieme di questo quadro, era invece occupata dalla Gran Bretagna, nella quale la dissoluzione dei rapporti feudali era avvenuta senza una parallela tenuta della proprietà contadina e in cui, come è stato osservato, il sistema della signoria (manor) […] rimane solo come cosa arcaica, ma contemporaneamente la tenure contadina […] appare infinitamente più minacciata che sul continente.8
Se già nel XVI secolo i trasferimenti di proprietà e il ricambio sociale sulla terra erano stati ingenti, i rivolgimenti politici del se7
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S. Van Bath, Storia agraria dell’Europa occidentale. 500-1850, Einaudi, Torino 1972, pp. 332-428. Con particolare riguardo all’agricoltura britannica nei secoli XVI-XVII si veda E. Kerridge, The agricoltural revolution, Augustus M. Kelley, New York 1968. J. Jacquart, L’offensiva dei dominanti, in P. Léon (a cura di), Storia economica e sociale del mondo, vol. 2.2, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 444.
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colo successivo – logorio economico dovuto ai prolungati scontri politico-militari, confische, redistribuzioni e acquisti etc. – avevano portato avanti la trasformazione sia sul piano dei trasferimenti di proprietà, sia su quello della liberazione dai vincoli alla libera disponibilità della terra da parte dei grandi proprietari. Tali sviluppi furono completati, nel secolo compreso tra gli ultimi decenni del Seicento e gli ultimi del Settecento, con il progressivo indebolimento della figura sociale del contadino. Il processo in questione, che per lungo tempo fu considerato come un’espulsione dalla terra riconducibile alle recinzioni, può esser concepito anche sulla base di differenti sequenze causali. È stata ad esempio avanzata la l’ipotesi che esso derivi dall’incontro tra necessità di vendita da parte dei contadini proprietari e volontà di acquisto da parte dei grandi proprietari vecchi e nuovi: le prime derivate dalla caduta dei redditi agricoli, le fluttuazioni dei prezzi, le pesanti imposizioni nei decenni a cavallo tra i due secoli o – man mano che le opportunità crescevano – dall’attrazione delle attività situate al di fuori dell’agricoltura; la seconda riconducibile a motivi di prestigio o alla volontà di acquisire ampie estensioni di terra da locare a grandi fittavoli in grado di razionalizzare l’attività e accrescere i rendimenti. Sotto l’effetto convergente di queste spinte, la società rurale inglese del XVIII secolo si andò quindi configurando tendenzialmente secondo un modello ternario: proprietari, grandi fittavoli, braccianti agricoli9. Entro le società di cui siamo venuti tratteggiando le linee di fondo, avanzamento e stasi della crescita erano governati in ultima analisi da un sistema di forze fondamentalmente riconducibili a due variabili che interagivano nell’ambito di una realtà economica scarsamente reattiva dal punto di vista delle tecniche e dei rapporti sociali: la terra e la popolazione. L’equilibrio tradizionale tra i due fattori era stato ripristinato alla fine del ciclo storico connesso alle pestilenze dei secoli XIV e XV; esso tuttavia venne nuovamente perturbato allorché intervenne l’incremento demografico cinquecentesco. In tut9
Su questa linea è l’ipotesi di H.J. Habakkuk, La disparition du paysan anglais, in “Annales” n°4, 1965, pp. 649-663. Nella classica ricostruzione di Barrington Moore, la rilevanza o meno della figura del contadino costituisce una differenza essenziale tra Francia e Gran Bretagna (cfr. B. Moore jr, Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi, Torino 1969, pp. 46-51).
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ta Europa si determinò quindi la tendenza ad ampliare la superficie agricola destinata alla coltivazione cerealicola, sia attraverso dissodamenti, disboscamenti e bonifiche, sia attraverso il mutamento di destinazione delle terre precedentemente utilizzate per altre coltivazioni o l’allevamento, ma fondamentalmente le risorse derivate dalla terra non erano in grado di sostenere durevolmente tale pressione. Lo squilibrio fra popolazione e risorse si fece sentire anche alterando la distribuzione della ricchezza. La richiesta di risorse agricole poneva infatti in posizione di vantaggio coloro che controllavano la terra, mentre l’aumento della popolazione rendeva più numerosi i lavoratori, lasciando loro un potere contrattuale sempre minore. Il risultato era un sommarsi di forze che tendeva a spostare la ripartizione del prodotto a favore delle classi che possedevano e gestivano la terra. Queste ultime in linea generale non coincidevano e regolavano i loro rapporti reciproci attraverso patti contrattuali di varia natura, che si prestavano a negoziazioni e trattative in grado di spostare i rapporti di forza reciproci fra proprietari e affittuari. In un periodo di inflazione come il XVI secolo, chi doveva pagare un canone era favorito dall’aumento dei prezzi e dalla lunghezza delle locazioni. Il proprietario, d’altra parte, poteva rivalersi diminuendo la durata dei contratti e cercando di gravare le prestazioni che aveva diritto di ricevere, oppure mutando la destinazione d’uso della terra o cercando di appropriarsi delle terre comuni. Si trattava di un confronto che, dipendendo dalle circostanze e dall’ambiente sociale, non aveva un esito generale scontato, anche se sembra che la rendita possa aver avuto la prevalenza nella maggioranza dei casi10. 10 “In certi periodi, con differenze da regione a regione, è possibile che dalla congiuntura agraria abbiano tratto vantaggio gruppi di affittuari […]. Non pare, tuttavia, che questa tendenza sia stata energica e durevole. Chi della congiuntura riuscì a beneficiare furono soprattutto i grandi proprietari, coloro cioè che si trovavano a disporre del fattore scarso: la terra. […] Il fenomeno dell’incremento della rendita fu di ampie dimensioni e di lunga durata. In Inghilterra la rendita fondiaria aumentò al 1510 al 1650 di più di otto volte, mentre i prezzi del grano aumentavano di meno di sei. Nei Paesi Bassi settentrionali le rendite si accrebbero di quattro volte durante il 1500. Anche in Spagna le rendite aumentarono molto nel Cinquecento. Così accadde anche nell’Italia meridionale. Nell’oriente europeo l’aumento della rendita avvenne non nella forma contrattuale dell’aumento del canone d’affitto, ma in quella dell’aumento delle prestazioni coatte da parte dei servi”. P. Malanima, Eco-
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Il meccanismo di redistribuzione a sfavore dei lavoratori di cui abbiamo parlato aiuta anche a spiegare la ragione per la quale la positiva congiuntura economica cinquecentesca si arrestò all’inizio del secolo successivo. Se certamente giocarono un ruolo i fattori richiamati più sopra (raffreddamento del clima, guerre, epidemie), la messa a fuoco delle crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito contribuisce a far emergere una nuova catena causale di rilievo. L’impoverimento di massa, al quale contribuì l’inflazione cinquecentesca, accentuò infatti la contrazione dei mercati e il calo demografico; d’altro canto anche la possibilità di arricchirsi semplicemente appesantendo i prelievi spingeva verso l’impiego improduttivo della ricchezza, ulteriormente incentivato dalla difficoltà di trovare ampi sbocchi di mercato alle attività produttive in senso stretto11. In generale di capitalismo nei suoi primi secoli di vita, anche quando superava la sfera della circolazione ed entrava in quella della produzione, non incideva in modo rivoluzionario sul retroterra agricolo circostante, sia nel caso della manifattura centralizzata, la cui importanza quantitativa era nel complesso contenuta, sia in quello dell’industria a domicilio, che per definizione tendeva a sfruttare i tempi morti della produzione agricola e quindi ad adattarsi ai ritmi, alle usanze e agli andamenti di essa.12 In alcuni rami entravano sul mercato imprese in cui la tecnica era riuscita a mettere a disposizione strumenti più complessi nomia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo, Bruno Mondadori, Milano 1995, pp. 234-35. 11 P. Malanima, Il mondo rurale nei secc. XVI-XVII, in M.L. Salvadori (a cura di), La Storia. Il cinquecento e la nascita del mondo moderno, De Agostini-UTET, 2004, vol. VII, pp.651-2. Sottolineiamo che non è nostra intenzione entrare nello spinoso dibattito sulla crisi del Seicento, ma unicamente sottolineare alcuni limiti dei meccanismi di espansione dell’Europa preindustriale. Sulla crisi del Seicento si veda comunque T. Aston (a cura di) Crisi in Europa 1560-1600, Giannini, Napoli, 1968; J. Parker (a cura di), La crisi generale del XVII secolo, ECIG, Genova 1988; A.D. Lublinskaya, French absolutism: the crucial phase 1620-1629, Cambridge University Press, Cambridge 1968, pp. 4-81; J. Topolski, La nascita del capitalismo in Europa, Einaudi 1979, pp. 241-304. 12 Si veda p. es. la bella sintesi di J. Kocka, che sottolinea come la protoindustria abbia avuto effetti sull’incremento demografico, sui livelli di reddito e sul mutamento delle abitudini di lavoro, ma che raramente essa abbia assicurato un passaggio lineare all’industrializzazione vera e propria. J. Kocka, Capitalismo. Una breve storia, Carocci editore, Roma 2016, pp. 62-5.
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rispetto al passato. Questo avveniva – a titolo esemplificativo – nelle miniere, dove si rese possibile scavare e drenare pozzi più profondi, nella metallurgia, in cui vennero messi a punto gli altiforni, nelle officine meccaniche che potevano usufruire di potenti ruote idrauliche in grado di mettere in movimento magli ed altri congegni meccanici, nella cantieristica, in alcuni rami tessili che perfezionarono i telai etc. In queste circostanze tendeva a prevalere il modello della manifattura centralizzata, che consentiva una divisione del lavoro più articolata e che fabbricava merci spesso di elevata importanza13. Nel secoli XVI e XVII, tuttavia, in via ordinaria il controllo capitalistico sulla produzione non superò i limiti dell’industria a domicilio. La produzione tendeva ad allontanarsi dai maggiori centri urbani, sia per aggirare i limiti posti dagli ordinamenti corporativi, sia per sfruttare il costo del lavoro più basso che prevaleva nelle campagne14. Si generava in tale modo una dinamica di differenziazione: se in alcune situazioni singoli artigiani giungevano a migliorare la propria posizione e a ricoprire il ruolo di commerciante o imprenditore, nella maggioranza dei casi si andava verso una sottomissione più o meno graduale al mercante che commissionava il lavoro e gestiva le varie fasi di produzione e commercializzazione. Il settore della manifattura, pur occupando uno spazio economico di un certo peso ed avendo ridotto a elemento residuale i persistenti vincoli corporativi imposti dall’ambiente urbano, era lungi dall’essere l’unica o la principale fonte di accumulazione del capitale, giacché commercio – soprattutto internazionale – e finanza rivestivano un ruolo altrettanto importante. I proventi derivati da queste fonti, d’altra parte, erano investiti soltanto limitatamente nei settori dai quali avevano avuto origine. In larga parte essi defluivano verso l’acquisto di terre, cariche pubbliche e prestiti allo stato, ossia impieghi in larga parte improduttivi15.
13 Sui progressi della tecnica si veda ad esempio H. Kellenbenz, La tecnologia nell’era della rivoluzione scientifica (1500-1700), in C.M. Cipolla (a cura di), op. cit., pp. 129-208. 14 H. Kamen, L’Europa dal 1500 al 1700, Laterza, Bari 1996, pp. 80-2. 15 Ivi, pp. 126-154.
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1.2 Oceani, commercio, egemonia internazionale Fin dai secoli del Medioevo il capitalismo commerciale e finanziario aveva svolto in Europa un ruolo di primo piano. I traffici avevano come centro di gravità privilegiato il bacino del Mediterraneo, aperto da un lato verso il Levante (importazione e inoltro verso i mercati continentali delle spezie, il cui tramite era principalmente Venezia16) e dall’altro verso Nord, in direzione dell’Europa occidentale e centrale. A questo sistema di scambi centrato sul Mediterraneo faceva riscontro a Settentrione quello – marittimo e per via di terra – che interessava il Baltico (esportatore di cereali, pelli, lino e canapa, legname) e il Mare del Nord. Dominata fino al XV secolo dall’Ansa germanica, l’area commerciale in questione ne aveva visto nel corso del tempo la decadenza, per effetto delle limitazioni poste dai paesi circostanti (i tre stati scandinavi, la Russia, l’Inghilterra) e della concorrenza olandese. Col Cinquecento le attività del capitale commerciale furono potenziate dall’apertura delle relazioni economiche in direzione degli oceani. Il più precoce dei tentativi di stabilire rapporti di scambio con mondi situati al di là degli spazi tradizionali fu quello effettuato dai navigatori portoghesi, dapprima esplorando la costa sul versante occidentale dell’Africa e poi circumnavigando il continente fino a giungere alle Indie orientali. L’intento dei Portoghesi era di tipo sostanzialmente commerciale e l’impero economico edificato in Asia nell’arco di alcuni decenni sul commercio delle spezie e più tardi anche di altri articoli constava non di estese acquisizioni territoriali, ma soprattutto di basi di traffico, anche se il suo mantenimento richiedeva rilevanti risorse militari per combattere contro i rivali commerciali (Arabi, Egitto etc), contro la pirateria etc17. Tale commercio, organizzato e disciplinato dalla monarchia, vide con l’andar dei decenni anche un aumento delle esportazioni portoghesi, ma non poté mantenersi fiorente oltre l’ultimo quarto del XVI secolo. Esso fu danneggiato dalle ristrettezze finanziarie e dai rischi, che 16 Una panoramica sui mutamenti connessi a questi traffici è in F.C. Lane, Storia di Venezia, Einaudi, Torino 1978, pp. 320-355. 17 L’unica eccezione, il Brasile, non a caso è situata nell’America meridionale. Assegnato al Portogallo col trattato di Tordesillas (1494), il Brasile fu valorizzato dai Portoghesi solo nel XVII secolo, dopo la decadenza delle attività asiatiche.
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portarono ad appaltarlo ai privati, nonché dalla posizione eccentrica di Lisbona rispetto ai nuovi centri del commercio marittimo18; l’annessione del Portogallo alla Spagna, infine, coinvolse la marina portoghese nelle guerre dei re di Spagna ed espose i traffici portoghesi all’attacco dei nemici di quest’ultima. A differenza di quello portoghese, il colonialismo spagnolo fu caratterizzato soprattutto dalla conquista di ampi spazi che, passato l’iniziale miraggio dell’oro, furono destinati soprattutto ad attività agricole e minerarie. La colonizzazione, fortemente disciplinata dalla monarchia e basata su una netta prevalenza dell’elemento castigliano e sivigliano, nel giro di alcuni decenni riprodusse nell’America entro-meridionale una società gerarchizzata secondo il modello spagnolo, fondata sullo sfruttamento del lavoro degli indios19. La società spagnola e quella castigliana in particolare, basata soprattutto sull’allevamento ovino e una quota limitata di industria tessile e artigianato, nel corso del Cinquecento si trovarono a fronteggiare un compito impari alle loro risorse. Da un lato, infatti, la Spagna doveva rifornire le colonie di prodotti agricoli e manufatti di vario genere e fu obbligata perciò ad esportarli, ricorrendo a prodotti nazionali oppure molto spesso occultandone l’origine estera e/o ricorrendo al contrabbando20. D’altro canto era necessario equi18 Così Braudel riepiloga le ragioni della decadenza di Lisbona e la sua sostituzione con Anversa: “Mentre la depauperazione di Venezia è logica, la mancata riuscita di Lisbona di primo acchito stupisce. Si spiega invece, almeno in una certa misura, se si tiene presente che, anche nel momento della vittoria, Lisbona è rimasta prigioniera di una certa economia-mondo nella quale è già inserita e che le ha già assegnato un ruolo; che l’Europa del Nord non ha smesso di fare la sua parte, e che il continente tende ad oscillare verso il suo polo settentrionale non senza motivi e giustificazioni; infine, che la maggior parte dei consumatori di pepe e di spezie è logicamente situata nel Nord, nella proporzione di nove su dieci”. F. Braudel, I tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982, p. 128. 19 In generale si veda J.H. Parry, Le grandi scoperte geografiche 1450-1650, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 297-314 e più recentemente M. Carmagnani, L’altro Occidente, Einaudi, Torino 2003, pp. 3-120. 20 Che l’afflusso di metalli preziosi in Spagna ed eventualmente in altri paesi non sia una variabile esogena ma costituisca il corrispettivo di un flusso di esportazioni è sottolineato, in vista del dibattito sulla rivoluzione dei prezzi, da I. Hammarström: “ The American bullion is sometimes likened to manna falling from heaven on a country that had done nothing (nothing, that is, in the way of economic exertion) to deserve it. […] The import of of American Bullion into Spain was not wholly fortuitous since it consisted
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paggiare e vettovagliare gli eserciti che combattevano fuori dalla Spagna, appesantendo il carico fiscale e sottraendo manodopera all’interno attraverso gli arruolamenti. Esisteva dunque una contraddizione fra l’onere ingente dei pagamenti da effettuare all’estero e la ristrettezza della base produttiva del paese21. Se il commercio con le colonie offrì sicuramente alcuni stimoli alla madrepatria, questo avvenne tuttavia nel contesto delle distorsioni di fondo di cui si è appena detto. In particolare, giocò un ruolo di primaria importanza il flusso di metalli preziosi, dapprima oro e dalla seconda metà del Cinquecento soprattutto argento, che giungevano dalle miniere americane e di cui profittavano i privati e la Corona. La larga disponibilità di argento consentì per lungo tempo di sostenere la posizione deficitaria del paese, determinando una situazione in cui il metallo prezioso si limitava a transitare in Spagna per poi diffondersi nel resto d’Europa. Tra i nuovi nuovi poli europei collocati in una posizione geograficamente strategica per inserirsi nei traffici transoceanici spiccavano i Paesi Bassi del Nord. Le province meridionali e centrali dei Paesi Bassi si basavano su una economia artigianale e manifatturiera (tessuti di vario tipo, articoli di vetro, pelle, metallo etc) e contavano con Anversa il maggiore centro commerciale e finanziario della prima metà del Cinquecento. La vocazione principale del Nord, territorio che pur non mancava di manifatture, era invece essenzialmente marinara. Il commercio trattava ogni tipo di prodotti, tra cui i cereali e la vendita dei prodotti di allevamento delle province prevalentemente agricole, ed era integrato dalla pesca e dalla salatura del pesce. Inizialmente esso gravitava verso il Baltico e il Mare del Nord, ma gradualmente andò estendendosi al Mediterchiefly of payments for commedities “. I. Hammarström, The Price Revolution of the Sixtheenth Century: Some Swedish Evidences, in P. H. Ramsey (ed.) The Price Revolution in Sixteenth Century England, Methuen & Co, London 1971, p. 49 e p. 56. 21 Se possono variare i dettagli dell’analisi, l’inadeguatezza nell’apparato produttivo spagnolo è generalmente riconosciuta. Si veda ad esempio C.M. Cipolla. “Il fallimento della Spagna consistette nel fatto che a causa di strozzature dell’apparato produttivo […] l’aumento della domanda non riuscì a provocare un corrispondente incremento dei fattori produttivi e dell’offerta. Di conseguenza i prezzi rialzarono e larga parte della domanda si riversò sui prodotti e servizi stranieri”. C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Il Mulino, Bologna 1974, p. 289.
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raneo, all’Atlantico e ai mari asiatici. Le differenze tra Sud e Nord dei Paesi Bassi, già evidenti nei primi decenni del Cinquecento, si approfondirono con la decadenza economica di Anversa e la lunga guerra di indipendenza dalla Spagna. L’interesse per questo tipo di traffici si manifestò verso la fine del XVI secolo e fu potenziato dalle rivalità nei confronti di potenze nemiche come la Spagna e il Portogallo, che alla Spagna era annesso in questa fase. Pur senza essere i primi in assoluto a metterlo a punto, gli Olandesi22 diedero una forma classica al sistema delle compagnie privilegiate divenute ben presto oggetto di imitazione, le quali si assicurarono il monopolio dei commerci verso le rispettive aree, con l’attribuzione di diversi poteri statali, come le attività di governo degli insediamenti, la protezione delle basi e della navigazione, la stipulazione di accordi con i potentati locali etc. La Compagnia delle Indie Orientali (nata nel 1602 e successivamente trasformata in società per azioni) fu il principale tramite dell’espansione in Asia: i commerci olandesi con l’Europa vennero ampliati nell’area delle attuali Malesia e Indonesia, furono insediate basi in India e a Ceylon e furono intrecciati rapporti mercantili con Cina e Giappone. Questa rete di scambi, integrata da un sistema di traffici interno al continente asiatico fra le singole realtà economiche di esso, entro la metà del Seicento soppiantò in gran parte il commercio portoghese e contrastò efficacemente le iniziative spagnole e inglesi. Fortuna minore, dopo un brillante inizio, ebbe la Compagnia delle Indie Occidentali (1621), che stabilì attività nelle Antille, contese temporaneamente il Brasile e l’Angola al Portogallo e fondò Nuova Amsterdam, più tardi perduta ad opera degli Inglesi. Presa nel suo insieme, la crescita delle attività transoceaniche fu indubbiamente la componente più dinamica del commercio olandese e certamente aver assunto il controllo di queste grandi correnti di traffico consentì di mantenere una posizione egemonica a livello europeo. Come scrive Braudel, detenere a lungo termine l’economia-mondo europea implicava evidentemente la conquista del suo commercio sulle grandi distanze, e quin22 Qui e più oltre trattiamo i termini Paesi Passi del Nord, Repubblica delle Province Unite e Olanda come sinonimi, con un lieve sacrificio di precisione dovuto a ragioni di comodità espositiva.
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di dell’America e dell’Asia. L’America, attaccata in ritardo, sfuggirà al minuscolo avversario, ma sulla scena dell’Estremo Oriente, nel regno del pepe e delle spezie, delle droghe, delle perle e della seta, gli olandesi fanno un’entrata brillante, in forze, e sanno assicurarsi la parte del leone. È il loro ultimo passo nella conquista dello scettro del mondo.23
Le risorse assicurate da tale posizione di rilievo non oscurarono i settori economici tradizionali, ma operarono in sinergia con essi, contribuendo a fornire all’economia olandese un impulso durevole di cui è testimone l’aumento della popolazione (da circa 900000 abitanti nel 1500, a 1400000-1600000 nel 1600 fino a 1900000 nel 1650), e che coinvolse tutti i rami del commercio, della manifattura e le stesse attività agricole. Al tempo stesso, tuttavia, conclusa la lunghissima guerra con la Spagna, in prospettiva si apriva un conflitto tra l’Olanda e i paesi circostanti miranti a contestare la supremazia che essa aveva acquisito. Nel XVII secolo, la crescente competizione tra Olanda, Gran Bretagna e Francia finalizzata al controllo delle grandi correnti di scambio aveva determinato un progressivo spostamento degli equilibri economici. Le iniziative economiche dell’Olanda erano state contrastate dagli altri paesi difendendo le proprie manifatture con dazi, mentre si moltiplicavano le attività commerciali e si potenziavano le flotte mercantili al fine di limitare i traffici della marina olandese. Svoltasi attraverso l’impiego dell’intero arsenale delle politiche commerciali mercantilistiche, la competizione tra le maggiori potenze si era intrecciata a una lunga serie di conflitti militari che, pur caratterizzati da una rilevante componente dinastica, avevano perseguito anche precisi obiettivi economici e sottoposto a dure prove le strutture finanziarie degli stati coinvolti. Un primo risultato di questi lunghi travagli economici e militari era stato quello di logorare la potenza olandese in confronto ai grandi stati dell’Europa Nord-occidentale. Anche se il declino procedette lentamente, i principali indicatori relativi all’economia dell’Olanda concordano tutti nel dimostrare che l’apice dell’espansione demografica, produttiva e commerciale fu toccato prima 23 F. Braudel, I tempi del mondo, Einaudi, Torino 1982, p. 200. Una visione del capitalismo basata su successive fasi egemoniche, come è noto, è al centro anche dei lavori di Wallerstein e Arrighi. Si veda in particolare l’opera classica di quest’ultimo, G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano 1996.
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dell’ultimo quarto del XVII secolo. In seguito, infatti, le continue guerre accrebbero il debito pubblico e la pressione fiscale, mentre i residui corporativi che permanevano nella produzione e le imposte indirette che gravavano sui beni di prima necessità contribuivano a tener alti i costi delle manifatture, svantaggiandole nella competizione internazionale24. Di fronte alle difficoltà del commercio e della manifattura, gli uomini d’affari olandesi preferirono dedicarsi in maggior misura alle attività finanziarie, concedendo credito ai privati e agli stati. Il capitale che gli Olandesi avevano accumulato fu messo dunque più di prima al servizio delle attività di prestito, che nell’immediato risultavano più redditizie. Sul mercato di Amsterdam trovarono larga disponibilità di credito non solo i commercianti europei, ma anche i grandi stati: nel corso del XVIII secolo esso fu aperto all’Inghilterra, all’Imperatore e ai principi tedeschi, ai sovrani di Francia, dell’Europa del Nord e di Russia. 1.3 L’emersione della potenza inglese A fronte di un’Olanda che andava progressivamente rallentando, segnali crescenti di dinamismo economico erano mostrati dalla Gran Bretagna. Durante l’età della Restaurazione entrarono gradualmente in uso le innovazioni nelle tecniche agricole introdotte in precedenza e fu sempre in questa fase (1673 e più tardi 1689) che fu introdotto il premio all’esportazione del grano, concepito in parte col fine generale di accrescere le esportazioni e in parte con l’intento di compensare i proprietari fondiari per il peso dell’imposta gravante sui terreni. Di fatto, inoltre, esso svolse una funzione importante nell’equilibrare gli interessi agricoli con quelli manifatturieri, a favore dei quali rimaneva in vigore il divieto di esportazione della lana25.
24 A. Van Der Woude, Il Secolo d’Oro della Repubblica Neerlandese, in V. Castronovo (a cura di), op.cit., vol. II, pp. 223-35. Si veda anche C. Wilson, La Repubblica olandese, Alberto Mondadori Editore, Milano 1968, pp. 132-42. 25 C. Wilson, Il cammino verso l’industrializzazione, Il Mulino, Bologna 1979, pp. 219-29.
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Ripercorrendo il secolo XVII nell’ottica della manifattura, assistiamo ad un’espansione e una maggior articolazione dell’intero apparato produttivo inglese. La lavorazione nazionale e tradizionale per eccellenza era quella della lana, esercitata in gran parte a livello domestico ma senza escludere la presenza di grandi opifici. Essa si era sviluppata nel corso del Cinquecento, portando la produzione di panni a mettere in ombra l’attività di esportazione della lana grezza, che era stata fondamentale in precedenza. Partendo dall’età elisabettiana e proseguendo poi nel secolo successivo, la manifattura laniera sperimentò un’evoluzione sia nel tipo di prodotto che nella dislocazione geografica della produzione. I tessuti tipici della manifattura laniera inglese erano inizialmente panni pesanti derivati dalla lavorazione della lana a pelo corto (old draperies) che venivano esportati in parte ancora grezzi, ma ad essi si affiancarono ben presto tessuti pettinati, fabbricati con lana a pelo lungo, prodotti originariamente da esuli fiamminghi stanziati nell’East Anglia (new draperies). Le new draperies a metà Seicento avevano già guadagnato spazio e la diversificazione dei prodotti tessili continuò anche nella seconda metà del secolo; le esportazioni si accrebbero in valore assoluto, sebbene come quota percentuale fossero diminuite a fronte di altri manufatti26. La maturazione dell’economia inglese non riguardò soltanto l’evoluzione del settore tessile. Negli stessi decenni di cui si è discorso finora, un contributo di rilievo venne infatti dalla produzione mineraria ed ebbe ricadute sia nel campo dei beni di consumo che in quello dei beni capitali. Fin dalla seconda metà del Cinquecento e in modo sempre più acuto man mano che ci si avvicinava alla fine del secolo, l’Inghilterra risentì di una carenza di legname dovuta ai crescenti bisogni urbani di riscaldamento domestico (di Londra soprattutto, ma non solo di essa) e a quella delle manifatture la cui attività faceva un uso intensivo del calore. La mancanza di legname portò ad una ricerca sempre più assidua di sostituirlo, ove fosse possibile, col carbone, che lungo i fiumi o via mare veniva portato nelle località di utilizzo. Esso venne usato nella produzione di birra, sapone, in tintorie e saline etc., mentre in altri campi, il più importante dei quali fu la fusione del ferro, il suo impiego restò sempre fonte di problemi che 26 Ivi, pp. 119-36 e pp. 283-90.
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furono risolti solo nella fase di avvio della rivoluzione industriale. Tra la metà del Cinquecento e la fine del secolo successivo la produzione di carbone si moltiplicò di quasi quindici volte. Nel complesso l’uso del carbon fossile ebbe un effetto espansivo in varie direzioni. Centri minerari e città portuali ebbero modo di crescere e i mezzi di trasporto di svilupparsi, mentre la scala della produzione nelle manifatture che facevano uso di carbone poté aumentare27. Il periodo a cavallo tra il secolo XVI e il XVII fu un’epoca decisiva anche per traffici a lunga distanza28, che videro la nascita di nuovi tipi di compagnie commerciali. Mentre gli Adventurers e le compagnie che commerciavano con il Baltico, la Russia e il Levante erano sostanzialmente corporazioni in cui i singoli mercanti operavano in proprio rispettando regole comuni, la Compagnia delle Indie Orientali e altre nascevano fin dall’inizio come società per azioni, con ampie deleghe di poteri nelle aree geografiche ad esse assegnate, seguendo un modello analogo a quello delle coeve compagnie olandesi di cui già si è detto. Nelle Indie Orientali la compagnia inglese si trovò ad interagire con quella olandese, con la quale i rapporti di collaborazione si alternarono a quelli di lotta. Nel complesso, tuttavia, la competizione con gli Olandesi volse a favore di questi ultimi e la compagnia inglese non ottenne successi di rilievo nelle isole delle spezie. Più fruttuosa fu invece l’azione svolta in India, dove gli Inglesi si appoggiarono all’impero Mogol ottenendo il permesso di far svolgere ai mercanti indiani commerci sotto la bandiera della compagnia, coinvolgendo quindi nel giro d’affari di questa una rete di intermediari locali che contribuirono ad assicurarne la presa sugli artigiani 27 Ivi, pp. 137-48. 28 Una tappa essenziale nel potenziamento di questa componente dell’economia inglese fu costituita dagli Atti di navigazione, il primo dei quali fu emanato nel 1651. Essi, che riprendevano d’altra parte vecchie misure dell’età Tudor e anche precedenti, riservavano il commercio dell’Inghilterra a navi inglesi, con capitano inglese ed equipaggio per almeno metà inglese, e per l’Europa da navi inglesi o da navi dei paesi di provenienza delle merci; nel ’60 il provvedimento fu inasprito portando a tra quarti la percentuale richiesta di equipaggio inglese, furono imposti dazi sulle importazioni fatte su navi dei paesi di provenienza delle merci e riservavano gran parte delle esportazioni coloniali alla madrepatria o alle altre colonie. Ulteriori restrizioni furono varate nel periodo successivo.
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indiani che producevano i tessuti, principale oggetto del commercio di esportazione. La compagnia ottenne rilevanti profitti che ne fecero crescere i corsi azionari; lo scontro con una compagnia rivale nata nel 1698 fu superato tramite una fusione avvenuta un decennio più tardi. Di tipo diverso furono le colonie atlantiche, destinate in prospettiva al popolamento Le prime furono Virginia e Massachussets, ma altre seguirono in breve sia sulla costa orientale del Nordamerica che nei Caraibi. Le colonie erano fondamentalmente di tre tipi: quelle date in concessione a compagnie, quelle concesse a proprietari singoli e quelle controllate dalla Corona. La lunga serie di eventi politici verificatisi in Inghilterra nel corso del secolo portò, se non a un controllo centralizzato, ad un aumento del peso della Corona nell’amministrazione coloniale29. Gli insediamenti inglesi dovettero convivere con quelli di Francia e Olanda. La colonia di Nuova Amsterdam, in particolare, posta al centro di quelle inglesi, creava una discontinuità all’interno di esse. Nuova Amsterdam fu conquistata dagli Inglesi nel 1664 divenendo New York e, temporaneamente perduta nel ’73, rientrò nelle loro mani l’anno successivo. La sua definitiva conquista non solo colmò la frattura territoriale, ma facilitò l’accesso alla parte retrostante del continente. Le merci di provenienza coloniale, soprattutto tabacco e zucchero dall’Occidente e tessuti dall’Oriente, non solo si conquistarono un posto stabile nei consumi interni inglesi, ma furono oggetto di una significativa attività di riesportazione. Sebbene la maggior parte dei traffici del paese riguardasse ancora il continente europeo, anche la parte di essi relativa ai prodotti coloniali contribui allo sviluppo della navigazione e del tonnellaggio, dando luogo alla costruzione di naviglio commerciale più numeroso e di maggior capienza. 29 L’organizzazione politica delle colonie inglesi giunse alla fine a convergere verso un modello prevalente, che è stato così riassunto: “Ogni colonia eleggeva la sua assemblea legislativa […]. Nelle colonie, come nelle contee della madrepatria, il diritto di voto era riservato ai cittadini proprietari di un fondo; i coloni emigrati a spese altrui, che avevano firmato un contratto di servitù a lunga scadenza in pagamento del loro debito e i nullatenenti in genere erano esclusi dal voto; naturalmente questo accadeva anche per gli schiavi. La schiavitù era riconosciuta ovunque, sebbene la sua importanza pratica variasse da una colonia all’altra”. J.H. Parry, op. cit., p. 345.
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Alla fine del XVII secolo l’Inghilterra affiancava ad un’economia interna in crescita un solido impero coloniale. Esso non aveva ancora tradotto in atto tutte le potenzialità che sarebbe stato destinato a dispiegare nel secolo successivo, giacché le colonie nordamericane rimanevano ancora inferiori per valore economico a quelle dei Caraibi, mentre anche la presenza in India non aveva ancora dato luogo all’elevato grado di controllo territoriale caratteristico XVIII secolo. Nell’insieme, tuttavia, già dall’epoca di cui stiamo discorrendo l’impero inglese manteneva una presenza solida sia sul versante atlantico che su quello dei mari asiatici, scacchieri sui quali Portogallo ed Olanda stavano perdendo terreno; il volume di commercio che esso era in grado di generare, inoltre, costituiva un fattore rilevante nel modellare in vista dell’espansione marittima le caratteristiche del sistema economico della madrepatria. 1.4 Transizione in Occidente e stato assoluto Nei paragrafi precedenti si è visto come l’economia dell’Europa occidentale nei secoli XVI e XVII possa essere caratterizzata come un sistema di rapporti tardo-feudali nel quale si stavano verificando una espansione delle relazioni di mercato e un primo accrescimento dell’accumulazione capitalistica. Quest’ultimo era stato attuato soprattutto nel settore del commercio internazionale e del credito, cioè in settori che non toccavano il mondo della produzione; anche nelle occasioni in cui vi entravano – come si è osservato – lo fecero senza incidere in modo rivoluzionario sulle retrostanti strutture agrarie30. I rapporti di produzione nell’agricoltura subirono in effetti delle trasformazioni, le quali però nel complesso non oltrepassarono certi limiti. Esse non sconvolsero infatti l’assetto generale della proprietà fondiaria, ma modificarono i diritti che vi facevano capo, andando, in linea generale, nella direzione di scindere l’unità originaria, caratteristica della servitù, di sfruttamento economico e costrizione giuridico-politica. Il raggio d’azione sempre più ampio e profondo della circolazione mercantile rese in misura crescente la terra più simile a una merce, facendo venir meno l’intreccio di obbligazioni 30 Cfr supra, §1.1.
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reciproche centrato su di essa tipico dei rapporti feudali. L’acquisizione da parte dei signori di un maggior margine di libertà nei riguardi dei contadini si accompagnò al tempo stesso ad uno slittamento verso l’alto del diritto di esercitare la coazione giuridico-politica, che passò nelle mani della monarchia; analogamente, venne meno in prospettiva la tradizionale configurazione dei rapporti di vassallaggio che legavano la monarchia e la nobiltà31. Fu all’interno del contesto socioeconomico appena delineato che prese forma lo stato assoluto. I mutamenti di cui si è detto, infatti, ebbero due ordini di conseguenze sui meccanismi di governo. Innanzitutto l’attività decisionale della monarchia circoscrisse progressivamente i poteri delle rappresentanze dei ceti, le assemblee che nel tardo medioevo e nella prima età moderna prendevano parte a vari momenti della vita politica, in particolare alle decisioni finanziarie, e che rappresentavano al principe in maniera istituzionalizzata le esigenze dei territori, indicandogli i termini entro i quali questi ultimi erano disposti a collaborare col potere centrale32. Secondariamente, in un’economia nella quale le nuove attività urbane fornivano ai principi una maggiore disponibilità di risorse economiche rispetto al passato, i funzionari attraverso i quali passavano le attività di governo vennero legati al sovrano non mediante un rapporto feudale, ma da un rapporto d’impiego. Il loro potere personale è quindi oggettivamente legato all’ufficio loro affidato dal sovrano […]. Si forma in tal modo, entro i regni appena sorti, un’infrastruttura centralizzata, capace di conferire durata al potere.33
Naturalmente la burocrazia di cui si valeva allora lo stato per la gestione tendenzialmente centralizzata dei compiti amministrativi, fiscali e militari non era simile a quella caratteristica delle epoche posteriori. Non solo in un primo tempo furono spesso proprio le grandi casate nobiliari ad appropriarsi degli incarichi apicali del nascente apparato burocratico, ma anche in seguito le cariche pubbliche, attraverso la vendita degli uffici, furono trattate come una normale componente patrimoniale privata, generando una commistione incompatibile col concetto posteriore di burocrazia. 31 32 33
Cfr. P. Anderson, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980, pp. 21-2. G. Poggi, La vicenda dello stato moderno, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 75-85. W. Schlangen, Democrazia e società borghese, Il Mulino, Bologna 1979, p. 83.
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In questo modo le frazioni della borghesia commerciale e manifatturiera potevano inserirsi nei gangli del nuovo potere centralizzato, permettendo ai suoi apparati di funzionare e di estendere le proprie attività. Le risorse della borghesia, infatti, venivano investite nell’acquisto delle cariche, in prestiti pubblici, nell’appalto delle imposte e così via. La nuova forma di stato, in sostanza, centralizzando il potere e tendendo a sottrarre alla nobiltà le attività politiche e giurisdizionali, riusciva a compenetrare i privilegi economici nobiliari coi nuovi interessi borghesi34. In parte considerevole le energie dello stato assoluto furono assorbite dalla conduzione della guerra, una funzione il cui peso cresceva man mano che questa forma di potere tendeva a prevalere nei diversi paesi europei. Tale orientamento aveva precise radici nei rapporti sociali che abbiamo visto essere alla base della nuova struttura statuale. In primo luogo, infatti, l’assolutismo non alterò sostanzialmente quella che era la tendenza tipica delle classi di governo feudali ad accrescere rapidamente la propria disponibilità di risorse non primariamente attraverso la crescita economica, ma tramite l’estensione territoriale. La concezione dinastico-patrimoniale dello stato corrispondente a questo impianto di fondo rimase in gran parte inalterata durante l’intero arco dell’assolutismo. Si può aggiungere anzi che la spinta all’ampliamento territoriale espressa dalle classi di origine feudale a un certo punto fu potenziata dalla possibilità di valersi delle ingenti risorse economiche messe a disposizione dal nascente capitalismo. Componente feudale e borghese, quindi, furono entrambe interessate all’orientamento espansionistico35: esso poteva essere rivolto sia verso aree relativamente omogenee sul piano sociale, sia verso regioni a diverso grado di sviluppo, alcune socialmente più arretrate come quelle coloniali o altre tangibilmente più avanzate sul piano produttivo o commerciale (si pensi, ad esempio, agli appetiti spagnoli verso il Portogallo o a quelli francesi verso l’Olanda). Questa caratteristica dello stato assoluto andava di pari passo con le concezioni economiche di tipo mercantilistico allora prevalenti, le quali tendevano a ritenere che gli sforzi produttivi e commerciali compiuti dai singoli paesi non potessero svolgere una funzione di 34 P. Anderson, op. cit., p. 24. 35 Ivi, p. 31 e pp. 36-7.
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stimolo vicendevole, in grado di promuovere un generale incremento delle risorse. Si trattava, in altre parole, di una concezione statica in base a cui la ricchezza di un paese non poteva essere accresciuta se non a spese di quella di altri36. Alcune tendenze tipiche del periodo, del resto, sembravano confermare con evidenza questa visione. Il caso di una potenza imperiale come la Spagna, che si impoveriva costantemente lasciando defluire all’estero i metalli preziosi che costituivano il proprio tesoro, faceva la fortuna di piccoli paesi come l’Olanda, che accrescevano di conseguenza le proprie flotte e il proprio commercio37. Ciò sembrava dimostrare in modo inoppugnabile che la ricchezza di un paese derivava fondamentalmente dagli squilibri altrui. Sulla base di tali premesse, il compito che ne derivava per lo stato era dunque di intervenire organizzando la vita economica38 in modo da intercettare la massima quota possibile di traffico internazionale. La costituzione di compagnie commerciali, la fondazione di colonie, una attiva politica doganale erano ritenuti tutti mezzi idonei a conseguire questo obiettivo e andarono perciò a costituire l’arsenale con cui i singoli stati si attrezzavano in vista della concorrenza internazionale. Il campo di forze che abbiamo delineato in generale, pur operando ovunque in Europa, non diede luogo a una forma univoca e 36 E.F. Heckscher, Il mercantilismo, UTET, Torino 1936, pp. 518-33. 37 Ivi, pp. 594 e p. 708. 38 L’idea che l’organismo economico abbisogni di una regolazione esercitata dalle autorità era caratteristica del mercantilismo: “Il concetto di ’homo oeconomicus’ non fu, come invece spesso si afferma, un’invenzione della scuola classica del secolo decimonono, ma un elemento importante della dottrina mercantilista. Tra gli atteggiamenti, però, delle due scuole negli atteggiamenti dell’’homo oeconomicus’ vi fu […] una importante differenza: gli economisti classici argomentarono che gli uomini, pur perseguendo i loro interessi egoistici, per una provvidenziale armonia degli interessi rendevano, nel contempo, il miglior servizio al bene comune, o quanto meno un servizio migliore di quello che avrebbero potuto rendere se le loro attività fossero state strettamente controllate dal governo; i mercantilisti, invece, deploravano l’egoismo del mercante e sostenevano che il solo modo di impedirgli di rovinare la nazione era di sottomettere la sua attività a un rigoroso controllo”. J. Viner, Commercio internazionale e sviluppo economico, UTET, Torino 1968, p. 99. Sull’avanzare di una nuova concezione, più fiduciosa verso il potere autoregolativo del mercato, si veda J.O. Appleby, Pensiero economico e ideologia nell’Inghilterra del XVII secolo, Il Mulino. Bologna 1983, pp. 175 ss.
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compiuta di assolutismo, traducendosi più spesso in una varietà di casi concreti. In Occidente, la Spagna, malgrado le tendenze centralizzatrici della monarchia, fu condizionata dalla disomogeneità delle istituzioni politiche rappresentative tipiche dei singoli territori, che non le consentì di mobilitare le risorse necessarie a proteggere il suo vasto impero. Lo sforzo unificatore regio riuscì invece ad imporsi pressoché integralmente, dopo faticosi tentativi, nella Francia di Luigi XIV, mentre in Inghilterra l’esito fu del tutto opposto e gli Stuart pagarono con la rivoluzione il tentativo di instaurare un potere assoluto contro la volontà del parlamento. Anche in Europa centro-orientale, il cui carattere sociale di base era assai diverso dall’Occidente, gli esiti furono tutt’altro che omogenei. Nonostante che gli Asburgo nel XVIII secolo fossero riusciti a rafforzare il proprio potere in alcune aree dei domini sottoposti alla famiglia, l’amministrazione centrale riuscì solo tardi ad emanciparsi dalla varietà delle tradizioni e degli organismi locali. All’opposto, in Prussia lo stato riuscì più presto ad affrancarsi radicalmente dal potere dei ceti, raggiungendo un caratteristico compromesso che assicurava alla nobiltà, attraverso l’apparato statale e in particolare militare, quel prestigio che il regredire delle istituzioni cetuali avrebbe potuto compromettere. 1.5 L’assolutismo in Europa occidentale In Spagna sintomi di evoluzione verso un modello assolutistico possono essere rinvenuti fin da quando, all’indomani dell’unione personale delle corone, in Castiglia vennero introdotti elementi di accentramento. Altro elemento in questa direzione fu costituito dal sistema burocratico. Per essere gestita, l’imponente varietà di materie connesse alla direzione dello stato abbisognava innanzitutto di un solido apparato amministrativo a cui si provvide attraverso un articolato sistema di consigli, composti di membri della nobiltà minore o della borghesia cittadina forniti di un adeguato livello di istruzione, i quali erano di due tipi: quelli relativi al funzionamento della monarchia nel suo insieme o di importanti settori dell’amministrazione e quelli relativi alle diverse aree dell’impero. Nel complesso essi assicuravano una copertura adeguata – tanto più se considerata in relazione al livello dell’epoca – delle decisioni richieste
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dalle esigenze di governo, ma a prezzo di una soffocante lentezza e quindi di una mancanza di elasticità nel fronteggiare i problemi emergenti, che si aggravò col tempo39. La debolezza del sistema risiedeva nel fatto che non si era ottenuto un grado sufficiente di omogeneità fiscale, in particolare in Aragona. Il vasto impero necessitava infatti di un gettito fiscale adeguato ad affrontare l’enorme carico di spesa, in particolare militare, che esso richiedeva. Il suo carattere composito, tuttavia, a questo riguardo risultava particolarmente dannoso, in quanto imponeva al potere centrale di rispettare le consuetudini fiscali dei singoli domini. Di fatto, il carico maggiore della tassazione continuò a cadere sui ceti non privilegiati della Castiglia e, come si è detto più sopra, sulla chiesa. Nemmeno questo complesso di entrate, tuttavia, era sufficiente e la corona si trovò a dipendere in misura crescente dalle anticipazioni dei grandi banchieri spagnoli ed esteri (italiani, tedeschi, fiamminghi) e più tardi dal flusso di metallo prezioso proveniente dall’America40. Per un certo periodo l’inseme di questi espedienti si rivelò bastevole, ma le ricorrenti bancarotte (la prima delle quali data nel 1557) rivelarono che a lungo termine la posizione finanziaria spagnola era insostenibile. Le difficoltà si affacciarono col lungo regno di Filippo II, ed in particolare nella sua seconda parte41, che vide intrecciarsi insieme progressive difficoltà militari, su cui torneremo42, e una crisi economico-finanziaria sempre più incalzante. Al rallentamento economico strisciante appena illustrato facevano riscontro livelli di spesa statale in tendenziale aumento. Questa forbice in progressivo allargamento fra le uscite e le entrate che in modo sempre più stentato si traevano da produzione e commerci rappresentò uno dei tratti caratteristici dell’età di Filippo II. In essa si assistette da un lato allo sforzo affannoso di ottenere nuovi gettiti, sotto forma di pressioni sulle cortes e ricorso ad espedienti finanziari di vario genere (vendita di cariche e di terreni demaniali, richieste di donativi e prestiti forzosi etc.), mentre sull’altro versante 39 J.H. Elliot, La Spagna imperiale 1469-1716, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 190-203. 40 Cfr. supra, § 1.2. 41 Sull’ultima parte del regno di Filippo II cfr. G. Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 213-36. 42 Cfr. oltre, § 2.4.
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ogni nuova impresa militare imponeva di accrescere le spese. Ne derivò il ricorso – dopo quella del ’57 – a nuove bancarotte (nel ’75 e nel ’96) che non riuscirono ad arrestare un indebitamento abnorme, sostenuto dall’emissione di una massa ingente di titoli di stato (juros): nel complesso il fenomeno non solo si rifletteva in un pesante aumento del carico di interessi, ma disincentivava l’investimento produttivo e contribuiva a spingere le classi possidenti verso un atteggiamento parassitario. Più organico fu invece il progetto di spingere i diversi regni sottoposti alla corona di Spagna a collaborare, ognuno con una propria quota, al reclutamento di truppe (“unione delle armi”). Esso tuttavia si scontrò ancora una volta con i tradizionali particolarismi – la rivolta catalana in particolare – e contribuì alla caduta dell’Olivares (1643). Dopo di allora si riconobbe esplicitamente l’impossibilità di completare il centralismo verticistico dell’amministrazione con una effettiva coesione unitaria tra i domini del re di Spagna e si aprì al principio del decentramento. A differenza di quanto accadde in Spagna, in Francia l’edificio assolutistico riuscì a giungere a compimento, dando vita, all’epoca di Luigi XIV, alla forma di assolutismo più solidamente compiuta dell’Europa occidentale. Nonostante questo, tuttavia, la sua maturazione fu tutt’altro che lineare e prevedibile. La storia politica francese tra il XVI e l’ultima parte del XVII secolo vide infatti un alternarsi periodico di spinte centrifughe e controspinte accentratrici che solo alla fine giunsero ad imporsi in modo irreversibile, con una sequenza che lasciò una traccia anche nella stessa evoluzione economica del paese. I primi segnali di rafforzamento della monarchia francese giunsero nell’ultima parte del XV secolo, allorché Carlo VII prima e Luigi XI poi riuscirono a mettere un freno alle turbolenze di alcuni settori della nobiltà del regno ai quali davano un appoggio attivo i duchi di Borgogna, sconfitti nel 1477, e a rafforzare internamente la compagine del regno. La successiva reggenza di Anna de Beaujeu riuscì a gestire accortamente gli ultimi sussulti di opposizione aristocratica e giunse a portare, attraverso il matrimonio di Anna di Bretagna con Carlo VIII, anche la Bretagna nell’orbita della corona. Alla conclusione della reggenza, quindi, Carlo VIII si trovava a capo di un reame considerevolmente rafforzato anche dal punto di vista militare. Nel complesso si trattava ancora di una formazione
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politica di tipo feudale43, ma il re fu in grado di indicare alla nobiltà un obiettivo che ne proiettava aspettative ed energie verso l’esterno: la conquista di Napoli e, di conseguenza, il sostanziale dominio dell’Italia. L’impresa di Carlo VIII rappresentò l’inizio di oltre un sessantennio di guerre, delle quali si dirà più oltre44. Fu proprio in questi decenni, tuttavia, che all’interno si diffuse una serie di fattori in grado di generare instabilità. La diffusione del protestantesimo calvinista – o ugonotto, come si disse già allora – si accompagnava da un lato alla delusione per l’esito poco soddisfacente delle guerre antiasburgiche e dall’altro alla morte a distanza ravvicinata di due sovrani (Enrico II e Francesco II) che inaugurò il lungo periodo di reggenza esercitato da Caterina De Medici. In uno stato in cui le strutture di governo erano rimaste sostanzialmente inalterate, si apriva tal modo un nuovo periodo di anarchia feudale, rivestito questa volta di motivazioni religiose45. Per circa tre decenni la monarchia, che nella lotta si era ritagliata un ruolo di formale mediazione, oscillò pericolosamente sotto la pressione delle due costellazioni opposte di casate nobiliari. Sebbene agevolata dal graduale prevalere di forze moderate su entrambi i fronti e dal lavorio di trattative che ne seguì, l’affermazione definitiva di Enrico IV dovette attendere comunque fino al 1594 affinché ne maturassero integralmente le condizioni militari e politiche46. Il consolidamento politico riconducibile alla vittoria di Enrico IV diede vita indubbiamente ad un periodo di rafforzamento della monarchia, ma non senza provocare un sotterraneo scontento in vari ambiti della società. La presa di controllo del territorio da parte del sovrano passava infatti attraverso un’imposizione dell’autorità centrale nei confronti delle assemblee locali, la riduzione dell’autonomia di cui godevano le città e le rispettive amministrazioni, l’interferenza con le attività della chiesa cattolica e di quella ugonotta, il prelievo di imposte con cui finanziare le attività dello stato. Il complesso di queste linee d’azione, cui si aggiunse l’allontanamento 43 Cfr. P. Anderson, op.cit., pp. 83-85. 44 Cfr. oltre, §2.3. 45 Una sintesi articolata in E. Le Roy Ladurie, Lo Stato del re. La Francia 14601600, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 189-302. 46 In particolare la definitiva conversione al cattolicesimo, che rappresentò la sesta [sic] oscillazione in materia di fede della sua vita. Cfr. ivi, p. 280.
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della grande nobiltà da molte cariche di governo, provocava scontento a vari livelli: complotti nobiliari da un lato e rivolte popolari (i croquants, ma anche altre) su un diverso versante47. Si trattava di movimenti per il momento agevolmente controllabili, ma destinati ad esplodere nel caso in cui si fosse andati incontro a uno scenario generale di minore stabilità. Del resto non mancavano compromessi e condizionamenti, in particolare la presenza ugonotta sul territorio francese, che era sostenuta da numerose garanzie stabilite dall’Editto di Nantes (1598). Il rischio di una nuova fase di anarchia generalizzata si verificò nel periodo successivo all’assassinio di Enrico IV, con la reggenza di Maria De Medici, durante la quale si riaprirono in parallelo le turbolenze della grande nobiltà e le tensioni religiose, in particolare la rivolta ugonotta. La volontà di impegnarsi in una prova di forza interna così gravosa come il confronto definitivo con gli ugonotti che ridimensionò definitivamente le concessioni a suo tempo strappate con l’editto di Nantes, rappresentava la scelta di un governo nel quale si facevano sentire in modo sempre maggiore le opinioni di Richelieu48. I fattori che indussero il cardinale ad agire in questa direzione vanno ricercati nello scenario della politica europea in un momento nel quale la potenza asburgica sembrava aver assunto in Europa un peso soverchiante. La Guerra dei trent’anni si era aperta infatti con una schiacciante prevalenza asburgico-cattolica49, che metteva la Francia di fronte al difficile dilemma della scelta fra l’adesione alla solidarietà cattolica internazionale e la salvaguardia della propria posizione geopolitica50. Mentre però la lotta antiprotestante godeva dell’appoggio del partito cattolico e filospagnolo, quella contro gli Asburgo lasciava in esso una forte apprensione. La direzione presa dalla politica di 47 J. Garrison, Enrico IV, Mursia, Milano 1987, pp. 232-277. 48 Sull’ascesa di Richelieu cfr. G.R.R. Treasure, La vertigine del potere: Richelieu e la Francia dell’ancien régime, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 9-22, pp. 29-33, pp. 42-3. 49 Cfr. oltre, § 2.5. 50 Inizialmente tra i vari teatri locali di guerra si impose l’Italia settentrionale, nel settore strategicamente sensibile della Valtellina, geograficamente prossima alla Francia ed essenziale per il collegamento fra l’Italia Settentrionale, l’Alto Reno e il Tirolo, regioni di importanza decisiva per gli Asburgo. Successivamente gli scontri in Italia ripresero con la successione al ducato di Mantova e del Monferrato, che la Spagna non voleva riconoscere al Duca di Nevers.
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Richelieu fu fortemente contrastata dalla regina madre, che tentò di estromettere il cardinale dal governo (journée des dupes, 10 novembre 1630). Il fatto che questi ricevesse tuttavia la fiducia del monarca, portando al definitivo esilio della regina madre e stroncando le congiure nobiliari che ad essa facevano riferimento, rese possibile quella politica di restaurazione dell’autorità regia che era necessaria per mantenere una posizione coerente a livello internazionale. Naturalmente tutto ciò aveva anche un’altra conseguenza rilevante, ossia la necessità, dapprima a causa dei sussidi elargiti a Olanda e Svezia e poi dell’intervento diretto nella guerra, di dare la priorità all’aumento continuo del carico fiscale, anche se ciò comportava la rinuncia al programma di riforme economiche e politiche di ampio respiro enunciato da Richelieu negli anni Venti51. La vittoria di Richelieu rappresentava la cessazione del ricorrente pericolo di una sgretolamento dell’autorità statale simile a quella verificatosi nel secolo precedente. Naturalmente questo non significava la fine delle tensioni politiche e sociali – che anzi nel ventennio seguente alla piena presa del potere del cardinale si moltiplicarono – ma semplicemente che queste ultime poterono esser tenute più agevolmente sotto controllo e che, anche quando esplosero nella forma più dirompente come nel periodo delle Fronde, non riuscirono ad arrestare che per un breve tratto il processo di centralizzazione monarchica, il quale aveva ormai radici sufficientemente profonde. Lo sforzo di accrescere il gettito fiscale esigeva naturalmente la limitazione dei poteri di rimostranza dei parlamenti e delle associazioni che riunivano i funzionari fiscali delle province, nonché il contrasto dei nobili che ostacolavano l’azione del fisco ottenendo esenzioni fraudolente e/o tollerando o addirittura promuovendo la resistenza dei contadini all’esazione per garantire i propri canoni. Lo strumento primario dell’intervento statale nelle province furono gli intendenti, che vennero moltiplicati nel numero e nelle funzioni. Accanto ai compiti consueti di polizia e giustizia essi si videro conferire anche l’esercizio di funzioni relative alla tassazione, che permettevano all’occorrenza di sostituirsi alla tradizionale amministrazione del fisco. 51 Cfr. G.R.R. Treasure, op. cit., pp. 253-70 e A.D. Lublinskaya, op. cit., pp. 272-326.
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Per quanto rilevante, l’inasprimento del carico fiscale non fu l’unica forma assunta dall’insaziabilità di risorse manifestata dallo stato. Si moltiplicarono infatti la creazione di nuove cariche da porre in vendita, la richiesta di prestiti di vario genere, forzosi oppure ottenuti dietro lucrose contropartite da finanzieri e appaltatori di imposte. L’ovvia conseguenza di una situazione nella quale si accumulavano miseria e vessazioni del contribuente da un lato e patrimoni spesso di origine speculativa dall’altro, era il diffondersi e il radicarsi di un clima propizio non solo a singole manifestazioni di scontento, ma a veri e propri fenomeni di estesa rivolta. Questi ultimi scoppiarono in contemporanea all’accrescimento del carico fiscale dovuto alla partecipazione diretta della Francia alla Guerra dei trent’anni. Nel ’35 e nel ’37 insorsero i rivoltosi del Sud Ovest per connotare i quali era stata ripresa l’antica denominazione di croquants; nel ’36 i focolai furono localizzati soprattutto nella Francia orientale, mentre nel ’39 fu il turno della Normandia dei va nu-pieds. Le rivolte, con diverse dislocazioni, continuarono anche negli anni successivi, determinando attorno alla questione della lotta contro il carico fiscale una ostilità continua, dal carattere cumulativo e destinata a sfociare ben presto in più laceranti sviluppi52. Fu questo lo sfondo sul quale presero forma le Fronde, che nel giro di pochi anni sottoposero a forti sollecitazioni il nascente edificio dell’assolutismo. Se le rivolte persistenti ne formavano il retroterra sociale, sul piano politico la grande crisi venne alimentata da vari ordini di fattori. Innanzitutto era in corso, mentre la Guerra dei trent’anni continuava pur nella generale stanchezza dei contendenti, e vi era inoltre in atto una reggenza sottoposta all’influenza preponderante di un ministro di origine straniera; l’avvento di Mazzarino, succeduto nel ’43 a Richelieu, aveva infatti spezzato i legami tradizionali di varie forze aristocratiche ed ecclesiastiche con la monarchia. 52 Come scrive Porchnev, “ è impossibile comprendere le origini della Fronda senza avere studiato in precedenza le sollevazioni degli anni dal venti al quaranta del XVII secolo. Al contrario, basta individuare il legame che le unisce perché la Fronda cessi di essere un enigma “. B.F. Porchenev, Lotte contadine e urbane, Jaca Book, Milano 1976, p. 317.
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In secondo luogo, più in profondità si incrociavano e tendevano a collidere due rilevanti processi storici di segno opposto. Per un verso esisteva l’orientamento, di cui si è detto, della monarchia ad assumere caratteri sempre più centralistici e per l’altro un crescente spirito di corpo dei funzionari, inaspriti dalla continua creazione di cariche dettata dalle esigenze finanziarie del re, che spingeva verso il basso la quotazione di quelle già esistenti. Tra essi, un ruolo particolare era rivestito dagli alti magistrati che formavano i ranghi dei parlamenti e che tendevano a considerarsi sempre più i custodi della legalità contro l’invadenza del potere monarchico53. Nell’arco di un quinquennio le Fronde sottoposero la Francia ad una reiterata successione di scosse, che mise a dura prova la tenuta sociale del paese, poiché sia a Parigi che in provincia si erano succedute sommosse, guerra civile e distruzioni54. Senza con questo voler 53 S. Tabacchi, Mazzarino, Salerno editrice, Roma 2015, pp. 159-60. 54 La prima Fronda nacque proprio dallo scontro tra il potere centrale e le corti sovrane, a cui vennero decurtate annualità di stipendio in occasione del rinnovo della paulette (1648). Il Parlamento di Parigi, pur in sé esentato dal provvedimento, fece causa comune con gli altri magistrati e la resistenza prese l’aspetto imprevisto di una rivendicazione del potere delle corti come perno di una riforma organica della sovranità in senso antiassolutistico. La rivolta fu tuttavia domata nel ’49, anche grazie al fatto che, nonostante varie defezioni, in un primo momento grandi aristocratici e militari si erano mostrati nel complesso fedeli alla monarchia. Fu il contrasto fra Mazzarino e Condé, scoppiato poco dopo, che finì per compattare i residui della primitiva opposizione con l’alta nobiltà, dando il via alla seconda fase della rivolta. All’indomani della prima Fronda, infatti, il principe di Condé, che aveva diretto sul piano militare le operazioni contro Parigi, avanzò pretese di partecipazione al potere che avrebbero di fatto esautorato Mazzarino. La contrapposizione crescente indusse quest’ultimo a una mossa azzardata, ossia l’arresto di Condé e di alcuni altri aristocratici, che di fatto fece convergere vecchi e nuovi nemici di Mazzarino. La rivolta, estesa alle province, stava assumendo i contorni di una vera e propria guerra civile senza possibilità di soluzione politica; Condé venne liberato e Mazzarino nei primi mesi del ’51 fu costretto a rifugiarsi all’estero, mentre il giovane re e la reggente rimanevano a Parigi in segreto contatto col cardinale. L’apparente successo, ossia l’uscita di scena di Mazzarino, lavorava tuttavia contro la Fronda stessa, facendo affiorare le divergenze fra Condé e gli altri esponenti della rivolta; il governo, proprio nel momento in cui Luigi XIV diventava maggiorenne (7 settembre 1651), si riavvicinò a questi ultimi, mentre Condé fuggiva dalla capitale. Ormai decisa a risolvere la guerra civile, nel frattempo anche la Corte lasciava Parigi e all’inizio del ’52 si congiungeva con le forze fedeli a Mazzarino. Il protrarsi degli scontri e la mancanza di
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evocare raffronti impropri tra la rivoluzione inglese e le Fronde55, si può infine aggiungere che le classi più elevate, divise dall’incompatibilità degli obiettivi e dalla rivalità reciproca, non avevano saputo dare una direzione coerente al malcontento delle masse popolari. In generale, dunque, la lunga stagione di scontri e conflitti sociali non era riuscita delineare un modello alternativo a cui improntare i presupposti della legittimazione e i meccanismi di governo, lasciando in tal modo uno strascico di disorientamento e prostrazione che dava spazio alla lenta riaffermazione del potere centrale. Va notato, inoltre, che l’apparato militare e diplomatico della monarchia francese nel frattempo aveva retto, riuscendo a conseguire due grandi successi in politica estera che indirettamente la rafforzavano anche all’interno: la pace con l’Impero (Pace di Westfalia, 1648) e quella con la Spagna (Pace dei Pirenei, 1659), le quali gettavano le fondamenta di quella pretesa all’egemonia europea che il paese avrebbe iniziato a far valere di lì a poco e su cui torneremo nel prossimo capitolo56. Il periodo immediatamente successivo alle Fronde coincise con l’ultima fase della preminenza di Mazzarino. All’interno esso corrispose sul piano politico a una lenta ripresa di controllo del territorio da parte dell’amministrazione centrale e su quello ideologico all’inizio della lotta contro il giansenismo, guardato con diffidenza in quanto potenziale focolaio di opposizione. Lo stile di governo che divenne tipico dell’assolutismo francese prese forma in un momento leggermente più tardo, col governo personale di Luigi XIV57. coesione ideologica fra le varie componenti frondiste giocava a sfavore del principe di Condé, il quale passò all’alleanza con la Spagna, opportuna sul piano militare ma difficile da sostenere su quello politico. Mentre egli cercava di provocare un ultimo sussulto di rivolta a Parigi, la Fronda iniziava a decomporsi e nell’ottobre del ’52 il re rientrava nella capitale, seguito qualche mese dopo da Mazzarino. Sulle vicende della Fronda si vedano E. Le Roy Ladurie, L’Ancien Régime, vol. I, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 111-163 e S. Tabacchi, op.cit., pp. 162-234. 55 B.F. Porchenev, op. cit., pp. 301-17. 56 Cfr. più oltre, § 2.7 e § 2.8. 57 Il passaggio a un nuovo stile di governo dopo la morte di Mazzarino fu contraddistinto da un unico episodio traumatico: il processo e l’incarcerazione di Fouquet. La vicenda prese forma nell’ultimo periodo della vita del cardinale, il quale aveva accumulato negli ultimi anni una fortuna enorme con metodi che andavano largamente al di là del lecito e dei quali il suo intendente, Colbert, era a conoscenza. Approssimandosi la morte di Mazzarino, era prevedi-
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La svolta più evidente che caratterizza tale modello è data dal modo in cui l’alta nobiltà fu allontanata dalle cariche di governo e indotta a gravitare attorno alla vita di corte. Era questa, d’altra parte, una naturale conseguenza di quanto avvenuto nell’epoca da poco trascorsa. Da un lato infatti le basi economiche tardofeudali della società francese conferivano ancora un peso centrale all’aristocrazia, dall’altro la mutevolezza degli umori politici che la caratterizzava rischiava di determinare un’instabilità endemica dello stato. Diveniva quindi necessario “strutturare la corte, istituzionalizzarla, in modo che i grandi [potessero] essere controllati da presso, spinti a servire negli ambienti vicini a Sua Maestà e nei gradi maggiori dei suoi eserciti”58. Solo la presenza a corte garantiva ai nobili la possibilità di accedere ai favori reali, col risultato che l’aristocrazia, facendo della corte il centro di gravità della propria vita sociale, perdeva quel contatto coi territori d’origine che nei decenni precedenti era stato una componente essenziale delle rivolte. Anche il vertice dell’attività di governo fu strutturato secondo nuovi criteri. Dai consigli del monarca scomparvero i membri della famiglia reale e i principi del sangue, mentre veniva fatto spazio a funzionari di più modesta origine, come i Le Tellier-Louvois e Colbert, coi quali il re lavorava a stretto contatto. Essi formarono dei clan di congiunti e clienti a cui furono garantite cospicue possibilità di ascesa sociale, ma a nessuno di questi ministri il sovrano garantì la propria bile che le appropriazioni illecite sarebbero venute alla luce e che avrebbero potuto dar luogo a serie conseguenze per i collaboratori. Nicolas Fouquet, il sovrintendente alle finanze in carica all’epoca, che godeva della protezione di Mazzarino, aveva mantenuto anch’egli una condotta mirante all’arricchimento personale con metodi riprovevoli. Colbert, il cui obiettivo era di mettersi in buona luce col re, raccolse consistenti prove a suo carico che furono sottoposte al monarca e convinse quest’ultimo che Mazzarino stesso aveva pensato all’allontanamento di un ministro a tal punto discutibile. La mossa di Colbert, che contribuiva ad accreditare se stesso presso il re, aveva degli aspetti di convenienza anche per Luigi XIV. Lo scandalo legato a Fouquet, infatti, metteva in ombra il comportamento di Mazzarino, che se fosse venuto in piena luce avrebbe coinvolto anche il re, a cui era stato strettamente legato. Di conseguenza ci si valse del caso Fouquet, che venne arrestato e condannato al carcere a vita, per dare un monito contro la corruzione senza toccare la figura del cardinale e di riflesso quella del sovrano. Cfr. p. es. F. Bluche, L’età di Luigi XIV, Salerno Editrice, Roma 1966, pp. 138-142. 58 F. Bluche, op. cit., p. 76.
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fiducia incondizionata; lasciando che si sviluppasse una certa rivalità reciproca, anzi, fu evitata la formazione di un fronte comune fra essi. Il tramite dell’esercizio del potere verso il basso divennero, in misura stabile e crescente, gli intendenti. Le competenze di tali figure, che già avevano fatto la loro comparsa con Richelieu, furono allargate progressivamente, fino a comprendere questioni di giustizia, fisco e amministrazione locale e agli intendenti fu affidata la vigilanza su possibili attività pregiudizievoli all’ordine pubblico dei personaggi socialmente più in vista nelle realtà provinciali. Anche la condotta dei governatori di provincia, carica che pure fu formalmente lasciata in vita, venne posta più strettamente sotto il controllo reale. Queste riforme furono sufficienti, per lo meno nel corso di vari decenni, a mantenere senza difficoltà la presa del potere centrale sul territorio francese nel suo insieme. Non parve allora necessario abolire istituzioni tradizionali come i parlamenti e gli Stati Generali; i primi (1673) vennero però privati dell’arma principale, permettendo loro di esercitare il diritto di rimostranza solo dopo la registrazione dei provvedimenti reali, mentre i secondi semplicemente non furono più riuniti, cosicché fra la convocazione del 1614 e quella gravida di conseguenze del 1789 trascorsero 175 anni59. Si può a buon diritto ritenere che, se al paese fosse stato consentito di esprimersi senza frapporre un intervallo così lungo60, forse gli Stati Generali del 1789 non sarebbero stati convocati o, se non altro, avrebbero avuto un carattere assai meno dirompente. 1.6 L’Inghilterra. Dall’assolutismo imperfetto alla rivoluzione Anche in Inghilterra, come in altri paesi europei, il periodo a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento vide un consolidamento del po59 Su questo complesso di mutamenti istituzionali si veda l’efficace sintesi di J. Lough, La Francia di Luigi XIV, in F. L. Carsten (a cura di), Storia del mondo moderno, Garzanti, Milano 1968, vol. V, cit., pp. 298-303. 60 F. Bluche (op. cit., pp. 470-2) si chiede se un’operazione simile avrebbe potuto essere portata a termine, ma ritiene che il regno di Luigi XIV sia stato nel complesso il periodo meno adatto, anche negli anni Ottanta del Seicento, quando erano assenti particolari motivi di tensione. Egli rinvia il momento propizio per la liberalizzazione dell’Ancien Régime al regno di Luigi XV o al primo periodo di quello di Luigi XVI.
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tere reale. In estrema sintesi, gli eventi su cui si fondò tale rafforzamento della monarchia sono sostanzialmente due: l’ascesa al trono di Enrico VII dopo la lunga Guerra delle Due Rose, che falcidiò le grandi casate feudali minando gravemente la forza dell’aristocrazia, e la riforma, che mise nelle mani della monarchia il controllo della chiesa. Dopo questi cospicui cambiamenti, nonostante i seri problemi successivi creati dagli avvicendamenti dinastico-religiosi e dalle condizioni internazionali, nel paese non si determinarono crisi istituzionali di rilievo e la supremazia dei Tudor rimase fondamentalmente solida lungo tutto il XVI secolo. Nel suo insieme, il periodo Tudor è connotato da alcune caratteristiche sostanziali. In primo luogo tutte le grandi svolte politiche che si determinarono nel corso di esso vennero compiute col consenso dei parlamenti. Naturalmente il campo di azione dei parlamenti va considerato relativizzandolo in relazione al contesto storico. Le convocazioni dei parlamenti nel XVI secolo furono meno frequenti rispetto al secolo precedente e ed essi – al contrario di quelli attuali – non rimanevano attivi in permanenza; in base alle condizioni dell’epoca, inoltre, i Lord e la corona avevano mezzi rilevanti per influire sulla loro composizione61. Nonostante queste profonde differenze, tuttavia, l’assenza di attriti di considerevole entità rappresentava un indicatore significativo della sintonia fra la casa regnante e il paese. Una seconda peculiarità della monarchia Tudor consisteva nel carattere relativamente rudimentale del sistema finanziario pubblico. Una prima fonte di entrate derivava dalle terre della corona, le quali tuttavia presentavano non pochi limiti di gestione, soprattutto a causa della loro vastità che impediva di seguirle puntualmente e del fatto che esse erano date in concessione più in vista di scopi politici o di prestigio che economici in senso stretto. Le carenze di amministrazione erano inoltre aggravate dal periodo d’inflazione. Altre fonti rilevanti d’entrata erano costituite per un verso da imposte indirette e dazi, più facilmente adeguabili all’inflazione, e per l’altro da tradizionali tributi feudali (p. es. successioni, tutele etc.). Se queste ed altre minori erano le entrate ordinarie, un ruolo di notevole importanza ebbero quelle straordinarie, derivanti in gran 61 C. Russell, Alle origini dell’Inghilterra moderna. La crisi dei parlamenti 1509-1660, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 73-8.
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parte dalla soppressione dei monasteri. Le terre espropriate furono in parte distribuite a funzionari della corona, ma per la maggior parte collocate sul mercato, procurando un sostegno alla causa protestante da parte delle classi abbienti. I proventi ricavati in parte servirono indubbiamente ad alimentare gli sprechi, ma in misura considerevole furono destinati a sostenere spese militari a cui sarebbe stato impossibile far fronte con le entrate ordinarie62. Si può anzi dire che fu proprio questo fattore a consentire che nel corso del secolo non si aprisse un rischioso squilibrio fra entrate e uscite. Quanto appena detto sulle finanze dello stato ci porta a sottolineare una terza peculiarità dell’assolutismo dei Tudor. Esso infatti, così come mancava di un sistema di tassazione in grado di alimentare con sufficiente larghezza le spese dello stato e tendeva a far assegnamento su espedienti temporanei, così difettava di solidi apparati burocratici e militari. Per quanto riguarda l’amministrazione periferica, una parte rilevante di essa era nelle mani delle oligarchie urbane e dei giudici di pace tratti dalla nobiltà locale, cui erano affidate non solo funzioni giudiziarie, ma anche incarichi civili. Analoga carenza di una solida organizzazione si registrava sul piano militare. L’uso di mercenari che nel frattempo era in voga presso le grandi monarchie europee, in Inghilterra fu soltanto temporaneo. Le forze armate del paese constavano soprattutto di milizie locali e, in caso di necessità, del seguito di dipendenti e fittavoli delle grandi casate aristocratiche. La persistenza di tali caratteri istituzionali lungo tutto il XVI secolo significa che l’assolutismo Tudor poté affermarsi e consolidarsi senza che ad esso venissero posti compiti particolarmente ardui. D’altra parte, ognuno di quei tratti sopra ricordati segnalava degli elementi di incompletezza negli apparati che avrebbero dovuto sostenere il potere assoluto. Ognuno di essi, quindi, poteva convertirsi in una possibile fonte di debolezza nel momento in cui la crescita delle tensioni sociali e politiche fosse stata in grado di mettere a dura prova la tenuta dell’ordinamento statale. Fu questo che avvenne a partire dai primi decenni del secolo XVII, col passaggio dai Tudor agli Stuart, allorché l’edificio politico della monarchia fu sottoposto a progressive incrinature, fino a crollare sotto il peso della rivoluzione. 62 Ivi, pp. 63-73 e 188-92.
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Le cause sociali degli avvenimenti verificatisi in Inghilterra nei due decenni centrali del secolo XVII sono state oggetto di un ampio e spesso aspro dibatto. L’analisi dei presupposti sociali più lontana nel tempo è quella tipica del marxismo tradizionale, che vedeva dispiegarsi nella rivoluzione inglese, come poi in quella francese, la funzione storica della borghesia; in tale visione viene ripercorsa la lotta della borghesia in quanto soggetto collettivo cresciuto nell’alveo della vecchia società, contro aristocrazia e monarchia intese quali rappresentati di rapporti sociali obsoleti e tali da mortificare con la loro persistenza il futuro sviluppo sociale63. La tesi in questione, la cui formulazione più nota e articolata è contenuta nel lavoro coordinato da Cristopher Hill apparso nel ’4064, ha naturalmente il merito di tener ferme alcune fondamentali caratteristiche di classe del processo in questione. Essa si fonda però su due presupposti impliciti che tendono in un certo senso ad irrigidire l’approccio alle fasi iniziali della rivoluzione e a renderne la lettura suscettibile di equivoci. La dinamica di classe del processo rivoluzionario, infatti, viene pensata a partire da un soggetto con caratteri ben definiti, preesistente alla rivoluzione stessa, il quale dà ad essa l’impulso iniziale anche se poi alcuni dei presupposti originari mutano nel corso delle lotte successive. Puntando in modo prioritario e pressoché esclusivo sullo scontro tra la classe rivoluzionaria e le vecchie classi dominanti, questa tesi tende inoltre a mettere in secondo piano l’azione dei conflitti interni alle classi dominanti stesse nell’innescare rotture rivoluzionarie attraverso l’indebolimento, in determinati momenti critici, del tessuto dei rapporti politici. Gli esiti della storiografia relativa alle cause della rivoluzione inglese fanno emergere i limiti di tale approccio. In primo luogo esiste un risultato di ricerca ormai sostanzialmente stabilito per il quale all’esordio del Lungo Parlamento e della guerra civile non 63 Una rappresentazione simile, in cui la variante più significativa era costituita dalla sostituzione alla borghesia della gentry in ascesa, fu quella di Tawney, dalla cui contestazione prese origine la discussione degli anni Cinquanta e Sessanta. Su di esse cfr. P. Zagorin, L’interpretazione sociale della Rivoluzione inglese, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, Il Mulino, Bologna 1974, vol. III, pp. 236-7 e L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese. 1529-1642, Einaudi, Torino 1972, pp. 34-9. 64 C. Hill (a cura di), Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, Feltrinelli, Milano 1976.
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troviamo contrapposta a Carlo I una più o meno compatta borghesia e/o gentry, ma un fronte abbastanza composito e reso intricato da numerose distinzioni trasversali di religione, modelli culturali, stratificazione per età etc., difficilmente riconducibili a un semplice modello di opposizione binaria; detta in altri termini, siamo di fronte a uno scontro nel quale la borghesia e/o le altre classi “progressive” sono presenti, entro certi limiti, da entrambi i lati della barricata65. In secondo luogo, l’indebolimento del ruolo sociale dell’alta aristocrazia fra Cinque e Seicento studiato da Stone66 contribuisce in modo rilevante a spiegare perché la monarchia inglese si sia trovata priva del naturale sostegno del trono proprio nel momento in cui stava consolidandosi l’opposizione nei suoi confronti67 (senza 65 Nella sintesi L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese, cit., si vedano le pp. 68-9 e 177-80. 66 In sintesi, secondo Stone, il fenomeno decisivo al fine di identificare le ragioni della rivoluzione non è tanto l’ascesa della gentry, quanto la crisi sopravvenuta al livello più alto dell’aristocrazia – ossia i Pari – che si verificò a cavallo tra Cinque e Seicento, durante il regno di Elisabetta e quello di Giacomo I. Una rilevante ascesa dello strato superiore e politicamente determinante della gentry, a detta dello storico inglese, andrebbe considerata un fatto non provato e sarebbe spiegabile piuttosto come un’illusione ottica dovuta al vuoto lasciato dall’eclisse dell’aristocrazia: fu la sensibile caduta di ricchezza e prestigio dei Pari, sostiene Stone, che privò la monarchia del suo più naturale sostegno. Il seguente passo sintetizza in breve le cause del fenomeno: “Agli inevitabili mutamenti dovuti alle irregolarità della capacità riproduttiva dell’uomo [estinzione di famiglie], si aggiunsero – alla fine del XVI secolo – le eccezionali tendenze e le costrizioni a spendere senza misura in consumi di lusso, il servizio a corte e le spese per dotare le figlie, nonché le eccezionali esigenze di adattamento nell’amministrazione dei patrimoni, le nuove possibilità e gli straordinari pericoli del ricorso al prestito su larga scala. A tutto ciò mancava un’adeguata compensazione durante il regno di Elisabetta, per l’eccezionale parsimonia con cui venivano distribuiti i favori reali e per le resistenze snobistiche che ancora venivano opposte al matrimonio con ereditiere di rango sociale inferiore. Ad aggravare le cose contribuiva il fatto che debolissimi erano gli ostacoli giuridici atti ad impedire l’elusione dei vincoli di indisponibilità imposti ai patrimoni, e altrettanto deboli le obiezioni morali contro la disgregazione delle proprietà familiari. Raramente un’aristocrazia terriera aveva attraversato un periodo così infausto”. L. Stone, La crisi dell’aristocrazia, Einaudi, Torino 1972, p. 213. Sulle caratteristiche della decadenza economica si vedano in generale le pp. 166-75. 67 Nella seguente illustrazione, del tutto condivisibile, delle cause della rivoluzione fatta dallo stesso Stone dopo l’uscita dell’opera maggiore, questo elemento figura al secondo posto: “Se […] si fosse costretti a identificare gli elementi più determinanti fra i numerosi prerequisiti […], quattro sarebbero quelli della massima importanza. Il primo fu la mancata acquisizione da parte
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naturalmente negare altri fattori e l’inettitudine personale e politica dei sovrani Stuart nel guastare i rapporti coi parlamenti). Globalmente considerate, queste critiche tendono a ridimensionare l’idea di una rivoluzione scolasticamente scandita dal contrasto tra classi “progressive” in ascesa e “regressive”. Considerando in retrospettiva il dibattito, si può anzi agevolmente concedere che le precisazioni introdotte dalla storiografia più recente permettano di definire, al di là di schemi ideologicamente prefissati, il quadro della prima fase della rivoluzione, contraddistinto dall’obiettivo della limitazione dei poteri della monarchia e dalla conseguente guerra civile68. della Corona di due strumenti chiave del potere, un esercito permanente e una burocrazia salariata e affidabile. Al secondo posto viene il declino dell’aristocrazia, e la corrispondente ascesa della gentry: ascesa che in parte fu in termini di ricchezza relativa, prestigio, istruzione, esperienza nell’amministrazione, e identità di gruppo nel governo delle contee, in parte in termini di sicurezza politica acquisita sul banco della Camera dei Comuni in quanto rappresentante dell’ideologia della “Campagna”. Terzo, la comparsa in vari settori delle classi abbienti e medio-basse di un puritanesimo diffuso, che ebbe come principale riflesso politico una bruciante esigenza di cambiamento nella Chiesa, poi nello Stato. Per ultima, ma non meno importante, la crisi di fiducia sempre più grave nell’integrità e nel valore morale di chi deteneva le massime cariche nell’amministrazione, si trattasse di cortigiani, di nobili, di vescovi, di giudici o persino di re”. L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese, cit., pp. 143-4 e p.103. 68 Il conflitto tra re e parlamenti, in gran parte derivato dalle eccessive richieste finanziarie della corona, si era delineato con Giacomo I ed era continuato con Carlo I, succeduto al padre nel 1625. Il terzo parlamento di Carlo, in particolare, votò la “Petizione dei diritti” a tutela della persona, del patrimonio e della libertà dei sudditi (1628), ma l’anno successivo il parlamento fu sciolto ed iniziò il governo personale del sovrano. Esso si caratterizzò per i provvedimenti finanziari arbitrari e per la politica religiosa intollerante di Laud, finché la ribellione della Scozia (1639) non portò alla convocazione di due successivi parlamenti. Il primo di essi fu sciolto facilmente, ma il secondo – il “Lungo Parlamento” (1640) – si rivelò determinato e mise sotto accusa Strafford e Laud, i principali ministri del re, revocò i monopoli concessi dalla corona, abolì i tribunali considerati strumenti dell’oppressione regia. Nel ’41 la ribellione in Irlanda e la conseguente necessità di reclutare un esercito pose il problema del comando di quest’ultimo, riaccendendo il conflitto fra re e parlamento, che si aggravò progressivamente fino a portare alla guerra civile nel ’42. Il conflitto si trascinò a lungo, finché si rese necessaria la riorganizzazione dell’esercito antimonarchico (1645), che passò in mano all’ala radicale del puritanesimo, gli Indipendenti, tra i quali Cromwell era la personalità più eminente; il parlamento rimaneva invece dominato dai presbiteriani, l’ala puritana moderata, e tra esso e l’esercito andò delineandosi un conflitto. Nel frattempo emergeva dal popolo il movimento dei Livellatori,
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Pur concedendo tale premessa, sarebbe tuttavia discutibile considerare irrilevanti, a partire da essa, i conflitti di classe. Man mano che la fase iniziale della rivoluzione procedeva verso la conclusione della prima guerra civile, essi si fecero infatti sempre più netti, dando luogo a una radicalizzazione caratterizzata da nuove dinamiche. Si assistette così al sempre maggiore intervento in scena di un nuovo attore politico – l’esercito, con le proprie stratificazioni e contraddizioni interne – e di componenti di massa sempre più difficili da controllare69. Si concretizzò dunque una seconda fase del processo, durante la quale prese forma la dittatura militare che poi scivolò gradualmente verso la restaurazione monarchica70. In questi anni si assistette ad di indirizzo socialmente egualitario, che trovava seguito nei livelli più bassi dell’esercito. Cromwell e i capi dell’esercito si destreggiarono per poter trattare col re, nel frattempo consegnatosi agli Scozzesi e passato poi nelle mani del parlamento, senza perdere il controllo della propria base militare (1647). 69 “In breve, mentre erano in gioco problemi politici di grave importanza, non si discerneva ancora alcun mutamento sociale in questa fase. Solo con la formazione dell’esercito di tipo nuovo e le impreviste complicazioni che seguirono alla sua vittoria, si sarebbe aperta la seconda fase. Fu allora che i portavoce delle classi escluse dalla nazione politica, o che ne avevano solo un posto marginale, si fecero avanti, per la prima volta, per prendere l’iniziativa. I livellatori […] alleati col radicalismo dell’esercito cui loro stessi avevano dato origine, tentarono di fare della rivoluzione politico-costituzionale del 1640-41 il prologo alla creazione di una repubblica democratica e cercarono la distruzione dell’intero sistema di privilegi in atto”. P. Zagorin, L’interpretazione sociale della Rivoluzione inglese, cit., p. 258. 70 La fuga del re prigioniero e il voltafaccia degli Scozzesi che si schierarono ora al suo fianco portarono nel ’48 a un riaccendersi della guerra civile, risolta nel giro di pochi mesi a favore dell’esercito rivoluzionario. Il Parlamento fu drasticamente epurato dagli oppositori (Rump Parliament) e il re, nuovamente imprigionato, fu processato e decapitato. Proclamata la repubblica (1649), il potere esecutivo passò nelle mani di un consiglio di stato dominato da un’oligarchia militare, la quale tuttavia non era assolutamente orientata a soddisfare le esigenze di carattere sociale dei livellatori, il cui movimento fu represso militarmente, così come l’ancor più radicale movimento dei Diggers (Scavatori, Sterratori). Domate l’Irlanda e la Scozia, l’Inghilterra si incamminò verso un duro scontro militare a sfondo commerciale con l’Olanda. L’irrequietezza del paese spinse Cromwell a sciogliere il Rump, che aveva ormai perso di significato, sostituendolo con un parlamento nominato dall’alto, che si rivelò tuttavia troppo radicale e fu a sua volta sciolto (1653). Ne seguirono una nuova costituzione, in cui Cromwell veniva nominato Lord Protettore, e un nuovo parlamento, che si mostrò anch’esso poco docile e fu sciolto (1655), inducendo Cromwell ad attuare un controllo militare capillare del territorio. Nonostante
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un crescente compattamento fra interessi borghesi e nobiliari all’insegna della difesa della proprietà e della liberazione di quest’ultima dai vincoli tradizionali. Per tale ragione la dittatura militare e il Protettorato videro uno sforzo continuo di reprimere il dissenso sociale che si esprimeva nei movimenti di Levellers e Diggers, ma anche nelle inquietudini dei parlamenti e convocati e sciolti in breve tempo sotto Cromwell. A partire dagli anni della rivoluzione e della Restaurazione molte cose cambiarono anche a livello economico. La terra aveva notevolmente risentito del clima di instabilità sociale inaugurato dalla rivoluzione, che aveva portato a ingenti passaggi di proprietà dovuti a vendite di terre ecclesiastiche o statali, a multe o ad alienazioni derivate dalla pesantezza della tassazione. È ben noto che l’aristocrazia riuscì a recuperare molte delle terre che le erano state strappate, ma il fenomeno non fu generale e comunque resta il fatto che gli ingenti passaggi di mano portarono alla formazione di ricchezze speculative diffuse. Tutto ciò rese la mentalità economica meno tradizionalista e più indirizzata verso il mercato, anche a livello delle innovazioni gestionali71. Da Cromwell in poi, con un orientamento che durò anche negli anni della Restaurazione, fu inaugurata inoltre una politica commerciale ispirata da un mercantilismo aggressivo, che diede luogo a distanza ravvicinata a ben tre guerre anglo-olandesi72. Il risultato finale fu che esse “ruppero il predominio dell’Olanda sul commercio di schiavi e tabacco, zucchero, pellami e merluzzo, e posero le fondamenta per la instaurazione del potere territoriale inglese sull’India. Anche il commercio inglese con la Cina risale a questi anni”73. Sul versante commerciale, così come sopra abbiamo visto per quello agricolo, i risultati della rivoluzione rinforzavano dunque le componenti borghesi della società inglese. questo, nemmeno il successivo parlamento fu prono ai desideri del Protettore, che lo sciolse nel 1658 mentre il paese andava assomigliando sempre più a una monarchia di fatto. Fu solo la morte di Cromwell in quello stesso anno e l’effimera successione del figlio a riportare in gioco l’esercito, che mise in atto pressioni per riconvocare il Rump e aprì così la strada alla restaurazione. 71 C. Hill, La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al 1780, Einaudi, Torino 1977, cit., pp. 163-73. 72 1652-54, 1665-67, 1672-74. 73 C. Hill, op. cit., cit., p. 175.
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Nonostante le forme esteriori, l’Inghilterra della Restaurazione si fondò in sostanza sulla combinazione di una società aperta all’innovazione economica e di una politica di fatto ispirata a quei valori di tutela della proprietà che erano venuti in primo piano durante la seconda fase della rivoluzione. Le forme monarchiche furono ripristinate, ma rimase in vigore l’istituzione parlamentare, che manteneva il potere di controllare le finanze. Soprattutto, si evitò di porre la questione di principio relativa alla supremazia della corona o del parlamento. Attraverso tali accortezze pragmatiche, la monarchia Stuart si assicurò la sua ultima epoca di sopravvivenza; come è stato scritto, “pur conservando gli orpelli della divinità […], la monarchia aveva svelato la sua natura di sistema di governo più che di regno di un monarca”74.. L’equilibrio tra corona e parlamento, come la storiografia ha sottolineato da tempo, manteneva tuttavia i caratteri di un espediente temporaneo, che difficilmente avrebbe potuto dar luogo ad un accordo stabile75. Quando il contrasto riprese vigore e si aggravò poi definitivamente con la successione cattolica di Giacomo II e la nascita di un erede maschio di quest’ultimo, sia whigs che parte dei tories cominciarono a puntare sulla soluzione alternativa rappresentata da Guglielmo d’Orange76. 74 M. Kishlansky, L’età degli Stuart. L’Inghilterra dal 1603 al 1714, Il Mulino, Bologna 1999, p. 291. 75 Si veda ad esempio il classico G.M. Trevelyan, La rivoluzione inglese del 1688-89, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 20-22. 76 I primi segni di incrinatura furono visibili abbastanza presto, già dal tempo del Parlamento cavaliere, che durò dal 1661 al 1679 (anche se elezioni parziali avvenute nel corso della sua esistenza ne determinarono una graduale evoluzione di orientamento). La contrapposizione – né poteva essere diversamente, dati i trascorsi della società inglese nei decenni precedenti – riguardava la questione religiosa e la tendenza di Carlo II ad andare incontro alle esigenze dei cattolici con la Dichiarazione d’Indulgenza (1672), di cui il parlamento impose il ritiro, rispondendo anzi nell’anno successivo col Test Act. Il riaprirsi delle tensioni provocò naturalmente una polarizzazione della vita politica (le denominazioni di whigs e tories nacquero proprio da questo periodo) e il re negli anni successivi si rassegnò a governare senza il parlamento, cercando nel contempo di intervenire sull’organizzazione delle amministrazioni locali per minare i poteri dell’opposizione. Morto Carlo II, gli succedette senza problemi il fratello, il cattolico Giacomo II, che non aveva inizialmente eredi maschi. Anch’egli entrò tuttavia in contrasto col parlamento allorché pretese di non sciogliere l’esercito che il parlamento gli aveva permesso di reclutare e di nominare in esso ufficiali cat-
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La nuova monarchia, la quale non poteva che poggiare su un accordo con il Parlamento, mise fine ad una situazione in cui le istituzioni monarchiche rimanevano fondate su presupposti superati dal paese reale. Quest’ultimo, come abbiamo visto, aveva trovato da tempo una convergenza fra interessi nobiliari e borghesi di cui il parlamento rappresentava in qualche modo la sintesi e col quale la corona mantenne un sostanziale accordo. Per tale ragione i parlamenti, che in passato avevano lesinato i fondi ai monarchi Stuart, furono invece molto più disponibili ad assecondare la monarchia nella fase successiva alla loro caduta, finanziando generosamente quelle guerre attraverso le quali l’Inghilterra si impose come potenza marittima. 1.7 Asburgo d’Austria e Hohenzollern. L’assolutismo centro-orientale Mentre le guerre in cui furono coinvolti gli Asburgo di Spagna si verificarono all’esterno della penisola iberica, l’area d’Europa su cui regnavano gli esponenti del ramo austriaco della famiglia vide succedersi una sequenza di conflitti svoltasi proprio nel cuore dei territori da esso controllati e che si intrecciò a una serie di altri processi, sia religiosi che economici. Le guerre in questione furono la Guerra dei trent’anni, col suo strascico di devastazioni e spopolamento, che si sovrappose alla congiuntura economica negativa attraversata da molte aree d’Europa man mano che ci si inoltrava nel Seicento, e il confronto endemico – durato praticamente due secoli – con i Turchi. Tali processi contribuirono in modo determinante a consolidare i tratti assolutistici del dominio asburgico.77 tolici. L’opposizione del parlamento spinse il monarca a tentare di affermare la prerogativa regia contro il Test Act, alienandosi così non solo i whigs ma anche i tories anglicani e la chiesa ufficiale e proseguendo in questo scontro attraverso la Dichiarazione di indulgenza (1687). Quando la successione di Maria – figlia di Giacomo, protestante e moglie di Guglielmo d’Orange – fu messa in forse dalla nascita di un erede maschio, che sarebbe stato presumibilmente cattolico come il padre, finì per rendersi necessario un intervento esterno. 77 Un sintetico inquadramento della storia del mondo austro-tedesco si può rinvenire in F.L. Carsten, L’impero dopo la guerra dei trent’anni e R.R. Betts, I domini asburgici, in F.L. Carsten (a cura di) op. cit., vol. V, rispettivamente pp. 549-82 e pp. 610-44.
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Sia per l’assolutismo asburgico che per quello prussiano del quale diremo tra non molto, va sottolineato un altro aspetto determinante. A differenza di quanto avveniva in Europa occidentale, infatti, le tendenze assolutistiche nell’Europa centro-orientale si rafforzavano in territori nei quali era in corso una reimposizione della servitù78. Mentre nell’Europa occidentale le relazioni fra proprietari e contadini cominciavano ad esser mediate in misura crescente dai rapporti mercantili, qui nella maggior parte dei casi si assisteva ad un rafforzamento della signoria e all’incremento delle prestazioni di lavoro obbligate. Quello che si verificò in Oriente fu nella sostanza un doppio processo: da un lato la monarchia limitava il potere della nobiltà, soprattutto ridimensionando ad ogni occasione il peso delle tradizionali assemblee dei ceti, ma dall’altro ribadiva e rafforzava il potere nobiliare sui contadini79. Venendo ai domini asburgici, dal punto di vista territoriale un primo decisivo rafforzamento del potere reale al loro interno si verificò con la sottomissione della Boemia seguita alla battaglia della Montagna Bianca (1620). I provvedimenti più caratteristici di questa fase furono l’abolizione dell’elettività della monarchia, da allora divenuta ereditaria, la ricattolicizzazione del paese e la drastica compressione dei diritti della dieta boema (solo più tardi limitatamente ripristinati)80. Queste e altre disposizioni vennero accompagnate da una altrettanto energica operazione di confi78 Cfr. supra,§ 1.1 79 Riguardo al ruolo dell’aristocrazia nell’assolutismo centro-orientale vale, per l’Austria e ancor di più per Prussia e Russia, quanto scrive Anderson: “Il servizio della nobiltà nell’apparato dell’assolutismo assicurava che lo stato assoluto servisse agli interessi politici dell’aristocrazia. Questo rapporto comportava maggiori costrizioni che in Occidente, ma presupponeva anche legami più stretti tra nobiltà e stato assoluto. […] La proprietà privata e la sicurezza dell’aristocrazia fondiaria rimanevano, sul piano interno, il talismano dei regimi monarchici, indipendentemente dal grado delle loro pretese autocratiche […] L’assolutismo orientale, non meno di quello occidentale, si arrestava ai margini del feudo: all’opposto, l’aristocrazia traeva ricchezza e potere sostanzialmente dal possesso stabile della terra, non dalla propria temporanea presenza all’interno dello stato”. P. Anderson, op. cit., p. 211. 80 Cfr. H. Sturmberger, L’imperatore Ferdinando II e il problema dell’assolutismo, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo stato, cit., vol. III pp. 165-72. Per un quadro articolato delle vessazioni che caratterizzarono la sottomissione della Boemia agli Asburgo, cfr. J.V. Polišensky, La guerra dei trent’anni, Einaudi, Torino 1982, pp. 63-80.
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sca della proprietà fondiaria alla parte di aristocrazia boema che aveva appoggiato la rivolta, espropriazione di cui approfittarono condottieri e soldatesche al servizio degli Asburgo e famiglie cattoliche fedeli alla dinastia. Il frutto di tale rivolgimento fu l’irrobustirsi dell’alta nobiltà, processo che, su un altro piano, era incentivato anche dalla reazione nobiliare alla crisi economica attraverso l’accentuazione del servaggio alla quale abbiamo fatto cenno più sopra81. Altrettanto importante fu per gli Asburgo l’acquisizione di un saldo dominio sull’Ungheria. Quest’ultima era divisa in tre parti: quella settentrionale e occidentale sotto il dominio asburgico, quella centrale controllata dai Turchi e quella orientale – la Transilvania – costituita in principato dipendente dal Sultano. Il problema costituito da esso era tornato di attualità nella seconda metà del XVII secolo, allorché i Turchi, che mal tolleravano le velleità autonomistiche transilvane, travolsero il paese e minacciarono direttamente l’Ungheria asburgica. Le truppe imperiali fermarono i Turchi (San Gottardo, 1664), ma senza impegnarsi per conseguire un successo decisivo, mostrando quindi un atteggiamento che l’aristocrazia ungherese interpretò come disinteresse e indifferenza, al punto di far maturare un tentativo di ribellione. Esso fu duramente represso, ponendo il paese in stato di occupazione (1670), ma la durezza del regime così instaurato rischiò di riaccendere la rivolta, cosicché l’imperatore giudicò conveniente riconciliarsi con l’aristocrazia magiara, che riottenne le tradizionali autonomie (1681). Dopo la vittoriosa resistenza all’assedio di Vienna (1683) e l’inizio della controffensiva antiturca, tuttavia, i rapporti di forza in Ungheria subirono un rovesciamento e le forme tradizionali di autogoverno concesse alcuni anni prima furono per sempre revocate: la corona divenne definitivamente ereditaria, fu abolito il diritto di resistenza nel caso di mancato rispetto dei patti che regolavano i rapporti reciproci e gli stati non si riunirono più (anche la Transilvania tornò poco più tardi sotto il dominio asburgico).
81 R.J.W. Evans, Felix Austria, Il Mulino, Bologna 1981, pp. 117-130 e pp. 258-304. Su principi, ceti e burocrazia in questo periodo, cfr. H. Schilling, Ascesa e crisi. La Germania dal 1517 al 1648, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 359-434.
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Uniti al riassetto territoriale, i mutamenti sociali verificatisi nel corso del secolo fornirono la base necessaria a rinsaldare il blocco di potere assolutistico. Rafforzando economicamente la nobiltà maggiore e accrescendo ulteriormente la subordinazione dei contadini, esso univa la dinastia alla grande aristocrazia e alla gerarchia della chiesa cattolica, mentre la borghesia urbana, che pure svolgeva un ruolo di un certo peso nell’amministrazione, occupava una posizione nettamente subordinata. La struttura di governo dei domini asburgici aveva tradizionalmente al vertice il Consiglio Privato (più tardi, nel tardo XVII secolo, divenuto Conferenza Privata), sotto il quale operavano due cancellerie esecutive: quella imperiale e quella austriaca. Questi organismi non furono però in grado di centralizzare efficacemente il governo. Non mancarono infatti ricorrenti attriti reciproci ed inoltre essi non avevano autorità verso Boemia e Ungheria, che possedevano ognuna propri consigli e cancellerie. Anche i supremi organi di amministrazione finanziaria (Hofkammer) e militare (Hofkriegsrat) registrarono reciproci conflitti di competenze e dovettero convivere con altri organismi locali o espressione di particolari sezioni dell’esercito82. Nel complesso, dunque, fino a tutto il XVII secolo, non parve che gli Asburgo fossero prioritariamente orientati ad ottenere coesione ed uniformità tra i differenti domini dei quali erano titolari83. Una decisa sterzata si verificò soltanto negli anni Quaranta del secolo successivo, con Maria Teresa e Haugwitz, allorché gran parte dei vecchi organismi di vertice – con la significativa eccezione dell’Hofkriegsrat – scomparve. Fu costituito un Direttorio centrale le cui competenze unificavano amministrazione finanziaria, fiscale e grandi questioni di politica interna e più tardi un Consiglio di Stato, con il compito di consigliare il sovrano sulle più importanti questioni di politica estera e generale. Va sottolineato che nell’ispirare questa riorganizzazione giocò una parte di primo piano l’osservazione di quanto nel recente passato 82 Evans, op. cit., pp. 191-7. 83 Il punto è sottolineato da Anderson: “L’assolutismo austriaco conservò sempre […] una struttura assai più irregolare, che rivelava la compresenza imperfetta di elementi occidentali e orientali, corrispondenti alle sue basi territoriali miste dell’Europa centrale. A Vienna non riuscì mai a prevalere una concentrazione paragonabile a quella di Berlino”. P. Anderson, op. cit., p. 195.
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era avvenuto in Prussia, il paese diventato nel frattempo il punto di riferimento per gli sviluppi dell’assolutismo nell’Europa centro-orientale84. Il cammino verso l’assolutismo in Prussia85 cominciò più tardi di quello asburgico, ma mostrò in compenso un itinerario di maturazione assai energico, che nel giro di alcune generazioni portò il paese non solo a caratterizzarsi per la peculiarità del proprio modello politico, ma ad imporsi come grande potenza in Europa. La vicenda dell’assolutismo prussiano ebbe inizio verso la metà del XVII secolo, allorché Federico Guglielmo avviò un confronto con gli Stati dei propri domini per acquisire le risorse necessarie ad armare un piccolo esercito permanente. Fu nel ventennio ’60-’80 che tale confronto entrò nella fase decisiva, allorché l’Elettore impose in modo forzato agli organismi rappresentativi di fornire il gettito fiscale necessario al mantenimento dell’esercito. Alla morte del principe (1688, anno di pace) la consistenza dell’esercito superava i 30000 effettivi ed essa si accrebbe ulteriormente nei decenni seguenti. La tendenza a erigere un apparato militare sovradimensionato rispetto alla popolazione e alle risorse del paese diede una torsione particolare alle istituzioni prussiane. Innanzitutto, la necessità di alimentare finanziariamente la macchina militare contribuì a modellare i rapporti fra stato e sistema economico portò alla creazione del Commissariato generale per la guerra (Generalkriegskommkissariat), col compito di amministrare – imponendosi ben presto nei riguardi dei governi locali – le imposte prelevate. Data la centralità dell’esercito nei piani del governo, tuttavia, l’attenzione del Commissariato si estese alla promozione di tutte le attività commerciali, industriali, marittime etc. che potevano far aumentare il numero dei contribuenti e le entrate da destinare all’amministrazione militare. In tal modo le esigenze militari dello stato si saldavano in modo diretto con la politica mercantilistica tipica dell’epoca. Il processo di cui stiamo parlando, ad ogni modo, non avanzò in modo lineare. Il Commissariato generale per la guerra, infatti, do84 H. Schilling, Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al 1763, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 397-419. 85 Pur consapevoli dell’inesattezza, per motivi di praticità usiamo il termine Prussia per riferirci al complesso dei domini degli Hohenzollern.
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vette inizialmente convivere con un altro organismo direttivo, Il Direttorio finanziario generale (Generalfinanzdirectorium). Quest’ultimo era stato creato tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo con il compito di amministrare le entrate dell’amministrazione civile. Le due autorità agivano parallelamente e non era infrequente che entrassero reciprocamente in conflitto, cosicché soltanto nel 1723 Federico Guglielmo I procedette ad una loro riunificazione, dando vita al Direttorio generale supremo per la finanza la guerra e i domini (detto in breve Generaldirectorium), che rese più solida la centralizzazione86. In secondo luogo veniva a profilarsi un nuovo compromesso tra la monarchia e la nobiltà, giacché quest’ultima, che stava perdendo potere in seguito alla decadenza degli Stati, lo riacquistava in un’altra direzione, divenendo il nerbo dell’ufficialità e quindi la spina dorsale dell’esercito, che a sua volta costituiva una fonte indiscussa di prestigio sociale ed uno sbocco di carriera per i cadetti87. Da un certo punto di vista si può indubbiamente asserire che “durante tutto il corso della storia prussiana, dal principio alla fine, le forze armate e non la burocrazia civile furono il fulcro della partecipazione attiva degli Junker ad un governo su base professionale”88. Se la compenetrazione fra la nobiltà e l’esercito fu una costante della storia prussiana, più oscillante invece fu quello tra nobiltà e amministrazione civile. Per le esigenze di quest’ultima, infatti, da Federico Guglielmo in poi la dinastia si valse in misura significativa di personale non nobile. Ancora sotto Federico Guglielmo I, che pure accentuò il monopolio nobiliare sugli alti gradi dell’esercito, fu consentito a personale di umili origini di occupare posti nella burocrazia civile. Poco più tardi, con Federico il Grande, si impose tuttavia una visione per molti aspetti differente. Solo la nobiltà, per Federico, possedeva le doti richieste all’élite della nazione, cosicché l’impiego delle classi medie al servizio dello stato veniva a configurarsi in linea di principio come un male necessario, da circoscrivere nei limiti del possibile89. 86 H. Schilling, Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al 1763, cit., pp. 484-9. 87 F.L. Carsten, Le origini della Prussia, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 312-9. 88 H. Rosenberg, La nascita della burocrazia. L’esperienza prussiana 16601815, Editori Riuniti, Roma 1986, p.158. 89 Ivi, pp.172-4.
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Al di là dei desideri del sovrano, alla metà del XVIII secolo lo spazio sociale occupato dalla borghesia – manifatturiera e commerciale, intellettuale, delle amministrazioni e della giustizia etc – aveva comunque raggiunto un livello apprezzabile, difficile da comprimere in modo rilevante90. La concezione federiciana non poteva di fatto ridimensionare oltre certi limiti la posizione della borghesia, ma eresse comunque un piedistallo su cui far poggiare il privilegio della nobiltà; le basi economiche di quest’ultima – in particolare il possesso delle terre – non meno che la sua posizione politica e sociale, venivano messe al riparo da ogni forma di concorrenza91. Tale subordinazione arrestò in modo artificiale la mobilità sociale e creò conseguentemente dei danni rilevanti di lungo periodo, ma essi emersero con evidenza solo all’inizio dell’Ottocento, molto oltre i termini cronologici che formano al momento l’oggetto della nostra trattazione.
90 “Nel XVIII secolo in Brandeburgo e nelle province occidentali […] si formò una borghesia economicamente e finanziariamenteforte il cui peso crebbe sensibilmente quando, alla metà del secolo, la Slesia ricca di industrie e città venne definitivamente inserita nello stato prussiano. Ancor più importante fu la posizione della borghesia colta soprattutto dei funzionari […] La borghesia burocratica, soprattutto i giuristi, ebbero perfino l’opportunità di salire fino ai ranghi superiori dell’élite dello stato. Sotto Federico Guglielmo I i massimi uffici di governo erano in mani borghesi e persino quando la situazione cambiò sotto Federico il Grande, per i borghesi rimasero aperti medi e alti uffici sufficientemente influenti”. H. Schilling, Corti e alleanze, cit., p. 519. 91 Ivi, pp. 479-80 e p. 520.
2. LA FINE DEI DISEGNI EGEMONICI E L’EQUILIBRIO
2.1 Stati e apparati militari Si è sottolineato in precedenza come la costituzione degli apparati di stato nei primi secoli dell’età moderna non fosse avvenuta stabilendo un immediato controllo da parte dello stato sulle strutture militari e su quelle fiscali destinate sostenerle. In un periodo storico nel quale gli stati cercavano con fatica e con percorsi differenti la propria strada verso la centralizzazione, infatti, entrambi gli apparati su cui verte il nostro discorso attraversarono una serie di tappe intermedie protrattesi per lungo tempo. Per comprendere il meccanismo che alimentava la formazione degli eserciti nei secoli XVI e XVII è necessario sottolineare come all’epoca, declinato rapidamente il sistema dei seguiti feudali, gli stati non disponessero né delle risorse materiali né di quelle umane per mantenere larghi eserciti permanenti. Questi ultimi, dunque, o mancavano o erano molto limitati. In tale contesto, nel corso del XVI secolo venne affermandosi in misura crescente un sistema di arruolamento in larga parte fondato su rapporti di natura privata che prendevano varie forme. La prima era la semplice sopravvivenza del sistema, nato nel secolo XIV, di costituire compagnie armate di migliaia di uomini il cui ingaggio veniva poi proposto ai titolari del potere politico. Più diffuso era invece il sistema per il quale un appaltatore militare negoziava dapprima un contratto e sulla base di questo procedeva all’arruolamento; un altro metodo, diffusosi durante la Guerra dei trent’anni, prevedeva infine che venisse offerto un esercito completo, di cui l’appaltatore curava tutti gli aspetti, compresi i rifornimenti1. L’arruolamento delle truppe così realizzato non si ispirava a principi di nazionalità. Molto spesso percentuali rilevanti di queste 1
J.R. Hale, Guerra e società nell’Europa del rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 162.
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soldatesche – a volte anche la metà – erano composte di elementi stranieri, frequentemente reclutati in aree di povertà diffusa2. In alcune circostanze, anzi, era pratica corrente arruolare nell’esercito di un paese i soldati prigionieri che fino a poco prima avevano combattuto con gli avversari. Accanto ai combattenti, questi eserciti portavano con sé un numeroso seguito, la cui entità era sovente pari a quella dei soldati in senso stretto, con funzioni ausiliarie, tra cui il trasporto delle salmerie, la cura dei cavalli, i servizi di cucina e altre mansioni domestiche. Molte di esse erano svolte da donne, alle quali si aggiungeva un congruo numero di prostitute3. L’amministrazione relativa a tali apparati militari, una volta che essi erano stati costituiti, non era priva di inconvenienti e disfunzioni. Un fenomeno assai diffuso erano le numerose frodi praticate dagli ufficiali e le ruberie da essi esercitate sulle paghe dei soldati. Eventualità frequente, inoltre, era il fatto che tali eserciti non operassero con tutti gli effettivi dichiarati, giacché le licenze venivano concesse con criteri largheggianti, oppure che i soldati stanziali si integrassero mediante matrimoni o lavori sussidiari nell’ambiente civile che li circondava4. La logistica connessa al movimento degli eserciti, la cui consistenza raggiungeva a volte alcune decine di migliaia di persone, ossia la popolazione di un centro urbano di un certo peso, era dunque assai complessa, sia dal punto di vista dell’alloggio che da quello dei rifornimenti alimentari e della mobilità, nonché del rapporto con le popolazioni civili. Se ad essa si aggiungono altri inconvenienti, come l’intermittenza con cui spesso giungevano le paghe, che spesso dava luogo a saccheggi e/o rivolte, è evidente che mantenere il controllo di tali armate era un compito per molti versi arduo. Nei secoli XVI e XVII la dimensione degli eserciti delle potenze europee non cessò di crescere. Nei primi decenni del ’500 la gran2
3 4
“Le grandi fanterie cinquecentesche sono, in realtà, una parata della miseria europea. […] Ancor prima del proletariato che ha da offrire allo sviluppo dell’Europa protoindustriale solo la forza malpagata delle sue braccia, ecco questo proletariato che offre la sua vita, anch’essa malpagata: scozzesi, svizzeri, tedeschi del Sudovest. Ed ecco, ancora,le fanterie castigliane costituite dai frugali e silenziosi pastori della meseta: una volta di più, è la povertà ad alimentare i campi di battaglia europei”. F. Cardini, Quell’antica festa crudele, Mondadori, Milano 1995, pp. 106-7. G. Parker, La rivoluzione militare, Il Mulino, Bologna 19992,, pp.130-1. Ivi, pp. 145-6.
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dezza media era alcune decine di migliaia di uomini, ma essa crebbe velocemente e un secolo più tardi, durante la Guerra dei trent’anni, per le maggiori potenze raggiungeva o superava i 150000 effettivi, toccando l’apice verso fine secolo. A quest’epoca la Spagna non era più in grado di mettere in campo forze robuste, ma altri paesi, come Olanda e Inghilterra, avevano accresciuto la loro presenza militare; soprattutto, l’aveva accresciuta la Francia, che schierava in quel momento circa 400000 uomini. Le ragioni date per spiegare questa crescita sono di tre ordini: la nascita di monarchie forti, in grado di mobilitare risorse, l’aumento della conflittualità fra stati che costrinse a gestire simultaneamente fronti differenti ed infine la nascita delle nuove architetture bastionate. Queste ultime, apparse originariamente in Italia all’inizio del Cinquecento per rispondere agli effetti delle artiglierie e presto diffusesi altrove – anche se in modo ineguale – tennero impegnate ingenti quantità di truppe per gli assedi e le guarnigioni, fini in vista dei quali veniva accresciuto il bisogno di fanterie5. L’ampiezza sempre maggiore degli apparati militari tendeva a cronicizzare quelle disfunzioni organizzative alle quali si è fatto cenno più sopra, rendendo necessario un intervento di controllo da parte degli stati. Paradigmatico, da questo punto di vista, fu il caso francese. La monarchia, che con fatica aveva ripreso il dominio del paese dopo le Fronde, col giovane Luigi XIV procedette a riformare l’esercito, che soffriva da diversi punti di vista: “Il suo sistema di vettovagliamento – come è stato scritto – era minato dalla corruzione, la sua organizzazione reggimentale era caotica, il soldo irregolare, la disciplina dura e incostante”6. L’opera di riforma, iniziata da Le Tellier e proseguita dal figlio, marchese di Louvois, agì in varie direzioni. Innanzitutto il ridimensionamento del ruolo dei colonnelli, ai quali venivano appaltati il reclutamento e la gestione dei reggimenti e la cui posizione dava luogo a vari tipi di abusi. Tali figure vennero conservate, ma il loro lavoro fu ispezionato ed essi vennero privati delle competenze relative al controllo dei rifornimenti, delle attrezzature. Fu inoltre costituita una burocrazia di intendenti con compiti di negoziazione 5 6
G. Parker, La rivoluzione, cit., p. 46 e pp. 301-6. R.A. Preston, S.F. Wise, Storia sociale della guerra, Mondadori, Milano 1973, p. 141.
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e sovrintendenza all’esecuzione dei contratti relativi a forniture di armi, equipaggiamenti e rifornimenti. Anche i reggimenti vennero ispezionati periodicamente7. Un ultimo rilevante aspetto di questo lavoro di riordino, che ebbe riflessi anche all’estero, fu la definizione durevole dei livelli gerarchici, con la codificazione dei gradi e delle procedure per il passaggio da un grado all’altro. In realtà questa formalizzazione conviveva con tradizioni ben radicate nella Francia di Luigi XIV, ossia il privilegio nobiliare e la vendita degli uffici. Gli alti gradi rimasero dunque monopolio della nobiltà. Una maggiore mobilità sociale fu invece possibile nei gradi più bassi, dove borghesi arricchiti potevano comprare brevetti da ufficiale, come avvenne abbastanza spesso nel secolo successivo; questo finì per determinare contrasti, specialmente con la piccola nobiltà che vedeva insidiata, grazie alle possibilità aperte dal denaro, una carriera ritenuta propria attribuzione naturale8. Chiaramente non in tutta Europa ebbero luogo fenomeni simili. In Prussia, in particolare, si verificò il caso opposto di una carriera militare strettamente limitata agli Junker. In tutti i casi, ad ogni modo, le analogie prevalsero sulle differenze e le distanze sociali tra ufficiali e soldati semplici si cristallizzarono ovunque. Come è stato rilevato, una rigida struttura gerarchica […] separava nettamente gli ufficiali muniti di un brevetto reale, in diretto e personale rapporto con la corona (nobili di nascita o no, tutti costoro avevano adottato uno stile di vita aristocratico) dagli altri militari. Questi ultimi erano considerati individui di una specie diversa reclutati da tutta Europa a forza o col miraggio di un premio da arruolamento, tenuti a freno da una classe di sottufficiali, veri cani da guardia, che mantenevano la disciplina con largo uso dello staffile, addestrati senza respiro fino a riuscire a compiere come automi, anche sotto il fuoco nemico, le elaborate evoluzioni indispensabili a muovere i loro estesi e ingombranti schieramenti.9
Fu con formazioni militari di questo tipo che si combatterono le guerre del secolo XVIII. 7 8 9
M. Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 123-9. F. Cardini, op.cit., pp. 207-8. M. Howard, op. cit., p. 137.
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2.2 L’evoluzione delle tecniche di combattimento Gli eventi bellici di cui si parlerà nel seguito di questo capitolo, snodatisi nell’arco di due secoli, videro realizzarsi una progressiva evoluzione delle tecniche militari. In nessun ambito dell’arte della guerra alla fine del XVII secolo le condizioni erano paragonabili a quelle dell’inizio del secolo precedente: non la tattica di fanteria, nelle quali fucile e baionetta avevano sostituito la coppia archibugio-picca; non l’artiglieria, che dopo un faticoso sviluppo stava intravedendo l’epoca dei pezzi mobili da campagna; non, infine, quelle navali, in cui la galea era stata sostituita dal vascello di linea. Al momento in cui cominciarono le guerre d’Italia, ossia a cavallo fra il XV e il XVI secolo, il modello di riferimento per l’organizzazione delle fanterie era costituito dalla falange svizzera. Le formazioni svizzere, che si erano imposte all’attenzione europea attraverso le prestigiose vittorie sui duchi di Borgogna, erano costituite fondamentalmente da falangi serrate e profonde di picchieri, le cui file anteriori entravano a diretto contatto col nemico fidando sull’impatto della massa compatta di combattenti, mentre le file più arretrate subentravano nel corso degli scontri per colmare i vuoti che via via si creavano. Tale disposizione fu ben presto imitata dalle fanterie degli altri paesi, in particolare dai lanzichenecchi. Nel corso del loro sviluppo, gli schieramenti in questione inclusero in misura crescente, a scopo di protezione, reparti di tiratori armati di archibugio. Le armi disponibili all’epoca scontavano tuttavia ancora parecchi inconvenienti che ne limitavano l’efficacia. In linea generale si trattava infatti di congegni a canna liscia dotati di meccanismo di sparo a miccia (gli archibugi a ruota erano più delicati e costosi), lenti da caricare e poco pratici da usare specie in caso di avversità atmosferiche. La loro precisione e forza penetrante rimanevano circoscritti nei limiti di un centinaio di passi e nemmeno l’entrata in uso del moschetto, con calibro e penetrazione maggiori ma più pesante e manovrabile solo col supporto della forcella, migliorò in modo apprezzabile questo stato di cose10. Nonostante i limiti persistenti, l’impiego delle 10 Sulle caratteristiche delle armi individuali in questa fase, si veda R. Held, Storia delle armi da fuoco, La Giostra, Milano 1958, pp. 47-88 e S. Masini, G.R. Rotasso, Armi da fuoco, Mondadori, Milano 1987, pp. 12-31.
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armi da fuoco guadagnò terreno col passare dei decenni e il tercio spagnolo, in cui le proporzioni di picchieri e archibugieri o moschettieri sostanzialmente si equivalevano, rappresentò per tutto il XVI secolo la formazione di fanteria considerata più forte11. Un’evoluzione rilevante nell’equilibrio tra armi bianche ed armi da fuoco e più in generale negli schieramenti cinquecenteschi intervenne a partire dalla fine del secolo, come effetto dello sforzo mirante a consentire alla moschetteria di superare la discontinuità di fuoco dovuta alla lunghezza delle operazioni di ricarica, che costituiva uno degli impedimenti più rilevanti nell’utilizzo di archibugi e moschetti. La difficoltà fu risolta da Guglielmo Luigi e Maurizio di Nassau attraverso un’innovazione organizzativa, ossia col posizionamento dei tiratori su più file (inizialmente una decina) e un movimento di contromarcia effettuato dalla fila anteriore subito dopo lo sparo: mentre essa arretrava dietro l’ultima per ricaricare, le file seguenti si portavano a loro volta in avanti per sparare, imitando poi il movimento all’indietro della prima. Questa disposizione tattica, in grado di stendere davanti alle truppe una cortina di fuoco, esigeva naturalmente accurate esercitazioni e spingeva verso una minor profondità dello schieramento, che tendeva sempre più a svilupparsi in linea e con contingenti più ridotti e manovrabili12. Un’evoluzione ulteriore nella stessa direzione si ebbe con Gustavo Adolfo, il quale perfezionò i dettagli di questa impostazione alleggerendo i moschetti, rendendo ancor meno profondo lo schieramento (ridotto a sei file o anche meno) e riuscendo a far svolgere la manovra descritta più sopra anche durante il movimento di avanzata. 11 “Nei ventun anni di combattimenti che intercorsero fra la battaglia di Fornovo del 1494 e quella di Pavia del 1525, possiamo vedere come la potenza di fuoco passò da un ruolo puramente ausiliario a un ruolo centrale e decisivo: quando l’archibugio non fu più un semplice accessorio del quadrato di picche, ma quando anzi la funzione essenziale del quadrato divenne quella di proteggere gli archibugi. Gli spagnoli arrivarono a questa conclusione, quando organizzarono la loro fanteria nel 1534 in tercios di 3000 uomini ciascuno. Invece di porvi un moschettiere ogni sei armati di picca, secondo l’usanza delle guerre italiane, picche e moschetti vi furono collocati in numero uguale, e anzi ai moschettieri fu assegnata una paga da specialisti”. M. Howard, op.cit., p. 64. 12 G. Parker, La rivoluzione, cit., pp. 39-44 e W.H. Mc Neill, The pursuit of power, The University of Chicago Press, 1984, pp. 125-34.
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Se a questo stadio permaneva ancora la differenza fra contingenti di picchieri e di tiratori, questa venne gradualmente meno avvicinandosi alla fine del secolo, con l’entrata in uso della baionetta. L’usanza di inserire a pressione pugnali nella canna dei moschetti era nata da tempo, durante la Guerra dei trent’anni e probabilmente anche in precedenza, ma ne era stato fatto un uso episodico. Dopo il 1670, tuttavia, questo accorgimento venne adottato negli eserciti della Francia e di altre potenze europee; l’inconveniente di non poter sparare a baionetta in canna fu presto superato innestando la baionetta stessa su una ghiera o un simile dispositivo esterno alla canna stessa. L’entrata in uso, pressoché contemporanea, dei fucili muniti di meccanismo di sparo ad acciarino, completò l’innovazione13. La fanteria entrò dunque nel nuovo secolo con questo armamento, il quale aveva la particolarità di rendere il fucile un sostituto della picca, che in caso di necessità permetteva al fuciliere di combattere all’arma bianca, eliminando le suddivisioni precedenti e semplificando quindi le manovre con la creazione di un’unica figura di fante. L’insieme di questi mutamenti non poteva naturalmente lasciare inalterato il ruolo della cavalleria. Se con ogni evidenza la cavalleria pesante di origine medievale aveva fatto il suo tempo, ciò non significava il suo completo venir meno, ma piuttosto la sua riduzione relativa e sostituzione con una cavalleria media e leggera di diverso tipo: Il ruolo della cavalleria rimase indispensabile nonostante la diminuzione numerica in rapporto alla fanteria; ma la cavalleria assunse un carattere più elastico, basato su azioni di molestia, su interventi rapidi nei punti di maggiore pressione, sull’efficacia dell’inseguimento.14
Nonostante i tentativi di munire la cavalleria di armi da fuoco di facile maneggio, alla fine il suo impiego prevalente divenne quello basato sull’arma bianca15. 13 R. Held, op. cit., pp. 171-84. 14 J.R. Hale, op. cit., p. 52. 15 Entro la cavalleria si distinsero varie figure, come il cavaliere armato di pistola, il carabiniere e il lanciere. Alla fine, tuttavia, “se nella fanteria era l’arma da fuoco a trionfare, la cavalleria avrebbe risposto scegliendo non la via del parallelismo, bensì quella della complementarità, e puntando sull’arma bianca. E appunto Gustavo Adolfo [..] non ebbe dubbi: eliminò il caracollo e si affidò decisamente, per i suoi cavalieri, alla carica all’arma bianca. Tale era la lancia, ma anche la sciabola”. F. Cardini, op. cit., p. 133.
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Il rapporto fra l’evoluzione dell’artiglieria e le tecniche di combattimento fu invece più complesso e indiretto. A differenza delle armi da fuoco portatili, la diffusione delle artiglierie fu ostacolata dalla loro pesantezza e dalla lentezza di movimento. Esse si rivelarono efficaci come armi d’assedio e anzi imposero il passaggio alle nuove architetture bastionate delle fortificazioni le quali, dopo i primi decenni del Cinquecento, dall’Italia si diffusero altrove16. Tutt’altra cosa si verificava invece nel corso delle battaglie campali. La loro scarsa maneggevolezza, infatti, imponeva di posizionarle in anticipo e anche dove la scelta si dimostrava esatta si facevano sentire la lentezza del fuoco e l’imprecisione del tiro. Il loro ruolo, certamente accresciuto, era ancora lungi dall’essere determinante: varietà di calibri, inadeguatezza degli affusti e dei sistemi di trasporto, incertezza sul metallo con cui costruire le bocche da fuoco (ferro o bronzo) erano tutti ostacoli tecnici difficili da superare. Fu solo con Gustavo Adolfo che l’artiglieria da campagna raggiunse un grado adeguato di agilità d’impiego e di velocità di tiro, anche se non tutti gli esperimenti fatti negli eserciti svedesi e replicati altrove si rivelarono adeguati17. I nuovi metodi introdotti dagli Svedesi servirono indubbiamente a sbloccare alcuni importanti ostacoli, ma nella seconda metà del secolo nessun paese diede segno di compiere sforzi energici di riforma dell’artiglieria. Solo in Francia, ad esempio, è possibile notare alcuni passi verso la costituzione di un corpo specifico di artiglieria, che fu realizzato compiutamente solo verso fine secolo. È invece nell’applicazione dell’artiglieria alla guerra d’assedio che – grazie a Vauban – venne compiuto un notevole lavoro di sistematizzazione18. Come Cipolla rilevò a suo tempo in un noto studio19, i caratteri di scarsa mobilità che resero poco tempestiva l’affermazione delle artiglierie da campagna non crearono invece impedimenti all’installazione dei cannoni sulle navi. Questo fattore, di conseguenza, nei secoli XVI e XVII giocò un ruolo di primo piano, rivelandosi deci16 G. Parker, op. cit., cit. pp. 26-35. 17 Fu il caso, ad esempio, dei cannoni di cuoio. Cfr. ivi, pp. 57-8. 18 J. Jobé, Dalla Guerra dei trent’anni alla Rivoluzione francese (1789), in J. Jobé (a cura di), Storia dell’artiglieria, Garzanti, Milano 1971, p. 62. 19 C.M. Cipolla, Velieri e cannoni d’Europa sui mari del mondo, UTET, Torino 1969, p. 59.
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sivo nel passaggio da una tecnica di combattimento basata sull’abbordaggio a una contraddistinta dal duello a distanza. Tale mutamento andò di pari passo con la nascita di nuovi tipi di nave. All’origine, nella varietà del naviglio che componeva le flotte schierate del Mediterraneo il ruolo di spicco era svolto dalla galea, mentre nell’Atlantico predominavano versioni modificate di navi da trasporto, come la caracca. Si trattava di navi di concezione assai differente, sia per le caratteristiche costruttive che per il tipo di propulsione, le quali erano inoltre destinate ad operare in contesti assai diversi. La galea, mossa in forma mista da remi e vela e facilitata dalla forma lunga e stretta, possedeva una prontezza di manovra che la rendeva ideale nell’abbordaggio. Essa tuttavia aveva dei limiti, tutti riconducibili in qualche modo al criterio con cui era concepita la sua struttura: il largo spazio riservato ai rematori riduceva notevolmente il numero e il calibro dei cannoni che era in grado di caricare; analogamente, poneva dei margini ristretti alla quantità di provviste e acqua trasportabili, costringendo la nave a viaggiare sotto costa, con scali frequenti; il profilo allungato ed esile, infine, escludeva la navigazione nelle stagioni avverse e in pieno oceano. Le navi a vela in uso nell’Atlantico erano attrezzate per viaggi più lunghi, ma avevano i difetti opposti alle galee, che rimanevano le sole navi veramente specializzate in vista della guerra: Anche nell’Atlantico e nel Baltico, in guerra si utilizzavano le navi a vela, ma erano impiegate principalmente come mezzi di trasporto per le truppe, e furono rari i casi in cui le flotte di navi a vela si scontrarono in mare. La tecnologia delle navi a vela non aveva ancora raggiunto un livello tale da consentire una facile manovrabilità in combattimento, o di navigare senza rischi sottovento in prossimità delle coste.20
In entrambi i contesti – Mediterraneo ed Atlantico – si sarebbe resa opportuna una evoluzione costruttiva, seppur in direzioni diverse. Nei due ambienti, tuttavia, operavano sollecitazioni diverse al mutamento. Minori in quello mediterraneo, esse diventavano forti in quello atlantico, dove i traffici erano in crescita e dove erano necessarie imbarcazioni in grado di portare grossi carichi e di navi20 J. Glete, La guerra sul mare 1500-1650, Il Mulino 2010, p. 11.
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gare per lunghi periodi di tempo. Era dunque possibile che operasse lo stimolo a trovare un disegno di nave che riunisse buone capacità di manovra, di carico e – grazie a queste – anche un buon armamento di cannoni: nasceva così il galeone. Lo scafo di quest’ultimo – solitamente a tre o quattro alberi – a prua terminava con uno sperone che in qualche maniera ricordava quello della galea; anche se non aveva più alcuna valenza offensiva e serviva unicamente a sostenere il bompresso, esso contribuiva a conferire alla nave una linea nell’insieme slanciata. Il castello di poppa rimaneva elevato, ma quello di prua era decisamente più basso rispetto alla caracca, con un profilo che offriva minor resistenza nel corso della navigazione. L’armamento era dato, oltre che dai cannoni sul cassero, dalle batterie poste sulle fiancate nei ponti inferiori a quello di coperta. Tra Cinque e Seicento l’affermazione del galeone procedette con continuità e con esso anche la consuetudine del combattimento a distanza. Fu nella seconda metà del XVII secolo che la crescita di dimensione delle flotte, portando allo scontro masse compatte di navi, portò a riflettere sul modo di accrescere l’impatto del cannoneggiamento21. In tale situazione, allo scopo di massimizzare l’effetto di fuoco dell’artiglieria sulle fiancate, nacque la tattica dello schieramento in linea, dando luogo sul mare a un fenomeno per certi versi analogo a quello che si stava verificando negli eserciti di terra. Naturalmente, per eseguire con profitto i movimenti appropriati, era necessario schierare navi con capacità di manovra e potenza di fuoco comparabili. Prese forma così la suddivisione delle navi in classi, a seconda della stazza e dell’armamento. Se a questo si aggiunge che la costruzione degli scafi fu rafforzata col raddoppio delle ordinate, è facile scorgere qui il punto di svolta in cui nacque il robusto vascello destinato a caratterizzare le marine da guerra europee del secolo successivo. 2.3 I conflitti cinquecenteschi. Dal Mediterraneo all’Atlantico Venendo alla ricostruzione del sistema dei rapporti internazionali, è necessario identificare le forze che spingevano gli stati europei verso una politica di conquista e le direzioni verso cui tale espansio21 Ivi, pp. 58-9.
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ne era diretta. A tal fine è necessario da un lato richiamare quanto si è detto più sopra parlando della natura dello stato in un’età di transizione22 e dall’altro individuare quelle che, con linguaggio odierno, potremmo definire le aree geopolitiche europee. In linea generale, per comprendere le motivazioni che generavano le mire espansionistiche degli stati nell’epoca che stiamo considerando, è necessario evitare le tentazioni che potrebbero derivare da una certa vulgata marxista, mirante a rintracciare ovunque le determinanti “economiche” delle imprese di conquista senza comprendere a fondo con quale concetto di “economia” si opera. In realtà, le motivazioni economiche si configurano diversamente a seconda dei modi di produzione nei quali esse affondano le radici. Nella società feudale o tardo-feudale le strutture che giustificavano le pretese territoriali e quelle che legittimavano il possesso e il governo dei paesi una volta conquistati erano espressione di un modello ancora dinastico e/o patrimonialistico. Naturalmente quella di cui parliamo era un’epoca già largamente permeata da rapporti capitalistici, ma nel complesso le spinte economiche “capitalistiche” erano mediate ancora da strutture feudal-patrimoniali. L’inscindibilità di questi due aspetti di segno diverso va tenuta presente onde evitare di introdurre cesure troppo marcate, come quelle proposte da Tilly, il quale distingue piuttosto rigidamente una fase di “patrimonialismo”, durata fino al 1400, e un’altra di “brokerage”, da lì fino al 1700. La prima, in cui i governanti prelevavano le risorse per la guerra sotto forma di tributo o rendita delle terre, viene così contrapposta alla seconda, in cui la guerra era condotta da forze mercenarie reclutate da “intermediari”, affidandosi ai capitalisti per la concessione di prestiti o la conduzione di attività produttive in grado di alimentare le finanze23. In realtà, come si è visto, le forze tardofeudali e quelle capitalistiche si compenetravano, rendendo artificiosa, in questa fase di transizione, ogni tentazione di distinguere un modo di combattere “feudale” e uno “capitalistico” o, peggio ancora, di sceverare ciò che vi è di “feudale” o “capitalistico” in ogni impulso di conquista.
22 Cfr. supra, § 2.1. 23 C. Tilly, L’oro e la spada, Ponte alle Grazie, Firenze 1991, p. 41.
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Venendo alle aree geopolitiche che è possibile distinguere nell’Europa dell’epoca e che hanno un’incidenza pratica dal nostro angolo visuale, esse in generale sono cinque: 1) Il mondo mediterraneo occidentale; 2) Il mondo mediterraneo orientale; 3) La regione nord-occidentale dell’Europa; 4) La regione centro-orientale; 5) Il Nord Europa affacciato sul Baltico. La completezza geografica ci impone di indicarne anche una sesta, rappresentata dalla Russia, la quale però in questa fase non svolge un ruolo attivo e condizionante per la politica europea come invece si verificherà nei secoli successivi. Nell’esplorare questi ambiti territoriali cominciando da Occidente, si poteva individuare innanzitutto in Italia un naturale campo di contrasto tra i due maggiori stati dell’Europa occidentale che si affacciavano sul bacino mediterraneo, Spagna e Francia, i cui conflitti italiani tennero impegnati i due paesi per oltre un sessantennio. Una prima fase di essi si estese dal 1494 al 1516, mentre quella successiva coprì il periodo seguito alla salita al trono imperiale di Carlo V e si concluse nel 1559. Pur nelle naturali diversità di rapporti di potere interni, sia Francia che Spagna mostravano importanti analogie che potevano proiettarle verso guerre di conquista. In ambedue, infatti, il XV secolo si era chiuso con un aumento del controllo interno da parte della monarchia, un fattore che rafforzava il potere e la coesione politico-militare dello stato, con la conseguente maggior propensione a impegnarsi in guerre esterne. La seconda analogia da considerare era che il crollo dell’impero d’Oriente e la crescente presenza turca nel mondo mediterraneo rendevano più facile, sebbene con diverse sfumature, la prospettiva di un impegno di entrambe le potenze in quella direzione. Le case regnanti di entrambi i paesi vantavano infine rivendicazioni territoriali sull’Italia. Questa dunque, ed in particolare il regno di Napoli, venne a trovarsi al centro di una serie di conflitti di natura dinastico-patrimoniale: la Francia si riteneva infatti erede dei diritti angioini, mentre il ramo spagnolo della casa d’Aragona considerava dubbio il diritto di Ferrante – figlio naturale di Alfonso il Magnanimo – alla successione napoletana24. 24 M. Pellegrini, Le guerre d’Italia (1494-1559), Il Mulino, Bologna 20172, pp. 12-24.
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Soprattutto nel periodo iniziale le guerre franco-spagnole furono agevolate dalle rivalità e debolezze interne del sistema degli stati italiani, i quali pensarono di poter evocare l’intervento delle potenze straniere e di riuscire ad indirizzarlo alla realizzazione dei rispettivi calcoli, spesso miopi o azzardati. Nella fase ulteriore, in particolare dopo la pace di Cambrai del ’29, l’Italia perse relativamente d’importanza come teatro militare, mentre salirono in primo piano il coinvolgimento francese nelle questioni che contrapponevano protestanti e Impero in Germania e l’alleanza francese coi Turchi in funzione antiasburgica. Nella prima delle due fasi lunghe appena distinte, la Francia si installò (1499-1500) nel Milanese e più tardi si accordò con la Spagna per la spartizione del Napoletano, anche se poi i contrasti insorti nel corso dell’occupazione determinarono la guerra e la vittoria spagnola (1501-3). Tale situazione rimase inalterata anche nel clima pur convulso degli anni immediatamente seguenti e fu confermata col trattato di Noyon del 151625. 25 Il periodo indicato nel testo vide succedersi tre sequenze belliche. Esse iniziarono nel 1494 con il tentativo di Carlo VIII, sollecitato da Ludovico il Moro, di impadronirsi del Regno di Napoli. Una volta che egli riuscì nell’intento, gli stati italiani, che inizialmente non si erano opposti efficacemente all’irruzione nella penisola, costituirono una lega antifrancese; Carlo VIII, compreso il rischio di rimanere prigioniero del regno conquistato, dove inoltre erano sorte ben presto consistenti opposizioni, si decise per il ritorno in Francia, contrastato senza efficacia dall’esercito della lega a lui contraria (1495). Il regno di Napoli tornato agli Aragonesi, ad ogni modo, finì per soccombere poco più tardi per effetto dell’alleanza di Francia (la cui corona era passata a Luigi XII) e Spagna, che si accordarono per la sua spartizione. Il territorio napoletano, attaccato nel 1501, fu ben presto conquistato e diviso, ma proprio l’ambiguità del criterio di divisione determinò il conflitto fra i vincitori, che si concluse nel 1503 con la prevalenza spagnola. Nel frattempo però Luigi XII, appoggiato da Venezia e dal papa, fra il 1499 e il 1500 aveva battuto Ludovico il Moro e si era impadronito del ducato di Milano. Due aree cardine della penisola, quindi, erano ormai in mani straniere. La situazione che vedeva la Francia installata a Milano e la Spagna nel Meridione non cambiò nemmeno con la successiva sequenza bellica connessa alla Lega di Cambrai, condotta inizialmente contro Venezia, che con scaltrezza aveva accresciuto i propri domini in occasione delle guerre precedenti, e le cui potenze principali erano Francia, Impero, Spagna e papato. La Serenissima accusò il colpo con la grave sconfitta di Agnadello e la perdita di quasi tutto lo stato di terraferma (1509). Nel 1511, tuttavia, il papa Giulio II, raggiunti i propri obiettivi, rovesciò le alleanze e promos-
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L’equilibrio così ristabilito fu tuttavia momentaneo. Proprio Carlo I, che in quanto re di Spagna aveva sottoscritto il trattato fu infatti, eletto imperatore come Carlo V, la persona che nel giro di qualche anno avrebbe determinato una nuova e lunga stagione di scontri. Nato da una rete di legami politico-matrimoniali che implicavano una valenza antifrancese (“geneticamente antifrancese”, è stato detto della sua discendenza)26, egli infatti riuniva sotto il proprio dominio alcuni dei più importanti nuclei territoriali europei: l’eredità dei tradizionali territori asburgici, quella borgognona e quella costituita dai possedimenti iberici dei re cattolici. Il titolo imperiale, aggiuntosi nel 1519, finì col completare questo intreccio di influenze internazionali. L’ascesa al trono imperiale di Carlo V significò l’inizio di una nuova fase lunga di conflitti dislocati su vari teatri di guerra, tra cui l’Italia. Le operazioni svolte in Italia, nonostante le energie profuse dai Francesi e dagli stati italiani che si allearono ad essi, non diedero effetti decisivi27 A questo punto alla Francia non restò se un accordo antifrancese cui aderirono Spagna e Venezia e che godette dell’appoggio svizzero. Alle iniziali vittorie francesi fece però riscontro poco più tardi la conquista di Milano ad opera degli Svizzeri, un disastro che convinse il monarca francese (1513) a tornare all’alleanza con Venezia. Il successo si fece desiderare a lungo, ma alla fine con Francesco I, il giovane successore di Luigi XII, la coalizione franco-veneta giunse a riportare la Francia a Milano (Marignano, 1515). 26 A. Tallon, L’Europa del Cinquecento, Carocci, Roma 2019, p. 47. 27 Gli ispano-imperiali riuscirono in breve a conquistare Milano e a frustrare il tentativo di riscossa francese (1521-22).. Un successivo sforzo francese giunse a riprendere Milano, ma fu vanificato dalla rovinosa sconfitta subita a Pavia (1525), che ridusse in prigionia Francesco I, al quale fu strappata la pace di Madrid (1526), che implicava per la Francia non solo la rinuncia alle pretese italiane, ma anche alla Borgogna. La preponderanza ispano-imperiale aveva nel frattempo impensierito gli stati italiani (Venezia, Firenze, Milano, Stato pontificio) che formarono con la Francia la lega antispagnola di Cognac. Quest’ultima non brillò per iniziativa militare, cosicché Milano poté essere conquistata dagli imperiali, i quali – in arretrato con le paghe – saccheggiarono poi in modo devastante Roma (il contraccolpo di tale episodio fu la seconda caduta del potere mediceo a Firenze). Ugualmente, fallì più tardi il tentativo francese di conquistare il Napoletano, mentre Genova passava all’alleanza spagnola. Dopo Cambrai, a Firenze, divenuta ormai una pedina del potere spagnolo in Italia, vennero restaurati i Medici e Carlo V, infine riconciliato col papa, poté negli anni successivi regolare le questioni di dettaglio rimaste sospese nella penisola (1530).
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che trattare la pace (Cambrai, 1529), la quale implicava il riconoscimento francese delle conquiste italiane di Carlo V, ma lasciava a Francesco I la Borgogna. Fondamentalmente, nei decenni seguenti le posizioni franco-spagnole in Italia, nonostante il ripetersi di scontri costosi e logoranti, non videro spostamenti di rilievo nei rapporti di forza reciproci, portando di conseguenza alla pace di Cateau Cambrésis28 (1559), che riconfermava nelle sue linee essenziali quella di Cambrai. La Spagna rafforzava in tal modo la posizione di dominatrice d’Italia e di potenza mediterranea preminente, ma tale successo non era privo di risvolti negativi: innanzitutto esso veniva colto pienamente proprio nel momento in cui il Mediterraneo stava ridimensionando la propria posizione nell’insieme dei traffici internazionali e secondariamente caricava la potenza spagnola di un onere rilevante nella contesa coi Turchi per il dominio del mare. 28 Nel periodo che seguì la pace di Cambrai la situazione rimase sostanzialmente incerta per tre decenni, durante i quali si poterono contare quattro riprese della guerra, senza che si giungesse a risultati durevoli. a) Nel 1536 la Francia si impadronì del ducato di Savoia, senza che gli imperiali riuscissero a contrastare efficacemente questa mossa. L’episodio si chiuse con la tregua di Nizza del ’38, che cristallizzava momentaneamente questo stato di cose. b) Nel ’42 la situazione internazionale di difficoltà per la Spagna indusse Francesco I a riaprire le ostilità su vari fronti. Le operazioni militari non furono decisive e si dovette ripiegare su un altro accordo di pace, che lasciava il Piemonte ancora in mano francese (pace di Crépy del 1544). c) Il duello si riaccese nel 1552, all’insegna di un’alleanza tra Francia e protestanti che aprì le ostilità in Lorena verso Metz, Toul e Verdun e non solo colpì al cuore i domini asburgici, ma si fece sentire anche in Italia. Desideroso di metter fine alla logorante situazione, resa difficile anche dall’abdicazione di Carlo V, Filippo II negoziò con la Francia nel 1556 la tregua di Vaucelles che sanciva lo stato di fatto. Sul versante della lotta coi protestanti, nel 1552 si era invece giunti ad opera di Ferdinando, fratello di Carlo V, alla pace di Passau (1552), aprendo un dialogo che portò nel 1555 a quella di Augusta. d) Paolo IV Carafa, papa di sentimenti fortemente antispagnoli eletto nel 1555, adottò una politica di scontro politico-religioso con Carlo V e Filippo II. La Spagna lo contrastò e si giunse così a una ripresa della guerra franco spagnola, sia sul fronte italiano che su quello delle Fiandre. In entrambi i casi la Francia ebbe la peggio. La pace di Cateau Cambrésis lasciò l’Italia alla Spagna; anche il Piemonte, tranne alcune piazzeforti, tornò ai Savoia. La Francia conservava tuttavia Metz, Toul, Verdun e Calais.
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La prima metà del Cinquecento aveva assistito a grandi trasformazioni anche sul versante del Mediterraneo orientale, dove si era visto il più grande spostamento del secolo in termini di aree e popolazioni controllate. Solidamente insediati nei Balcani già dal XV secolo, in quello successivo i Turchi avevano continuato ad espandersi – attraverso il controllo diretto e la formazione di stati vassalli – verso Nord (Ungheria meridionale, Transilvania) e verso Nord Est (Moldavia, Valacchia), rendendo più agevole il collegamento con la Crimea e i possedimenti a Nord del Mar Nero. Il controllo dei mari circostanti (Adriatico, Ionio, Egeo) era agevolato dal possesso di un numero sempre maggiore di isole e località costiere. Verso Est le conquiste si allargarono dall’Anatolia fino al Caucaso e verso Sud raggiunsero i due versanti della penisola arabica, affacciandosi al Golfo Persico e al Mar Rosso. La Siria, conquistata nel 1516, assicurava la continuità territoriale fra la Mesopotamia e l’Egitto, sottomesso l’anno successivo. Nell’arco di qualche decennio gli stati vassalli dell’Africa settentrionale completarono la presenza turca nel Mediterraneo. La guerra tra Turchi e Cristiani su questo sfondo si trascinò per lungo tempo senza risultati decisivi La ragione di ciò stava fondamentalmente nella vastità degli spazi da controllare e nella divergenza di obiettivi fra le potenze cristiane maggiormente interessate, ossia Spagna e Venezia: la prima era volta soprattutto a neutralizzare il Mediterraneo occidentale dalle incursioni turche che partivano dal Nord Africa; la seconda mirava a difendere i resti del proprio impero marittimo situato ad Oriente, non senza una certa propensione più o meno esplicita a cercare qualche accordo con l’avversario. La lotta si protrasse per oltre mezzo secolo con fasi alterne, senza un durevole spostamento nei rapporti di forza in una direzione o nell’altra Nel 1534 i Turchi conquistarono Tunisi, che fu però ripresa dall’Imperatore nel ’35; più tardi (1551) dai Turchi fu conquistata Tripoli e successivamente a Gerba (1560) venne disfatta una flotta cristiana. A loro volta, tuttavia, i musulmani furono sconfitti a Malta (1564), la cui espugnazione avrebbe permesso di creare un ponte fra l’Africa settentrionale e il resto dell’impero. Il pendolo riprese subito dopo ad oscillare nuovamente a favore dei Turchi, che nel 1570 conquistarono Cipro. Nel frattempo, sotto l’impressione di quell’evento le potenze cristiane si unirono, conseguendo la clamorosa vittoria di Lepanto (1571) che non venne tuttavia sfruttata
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a fondo, mentre qualche anno più tardi gli Spagnoli, momentaneamente rientrati a Tunisi, la persero definitivamente (1574). Dopo di allora, tuttavia, le lotte nel Mediterraneo si ridimensionarono a un’ordinaria guerra di corsa, mentre i grandi eventi bellici si spostarono altrove. L’attenuarsi della contrapposizione nel Mediterraneo era da ricondurre, su entrambi i lati delle potenze in lotta, all’emergere di altri fronti che ne assorbirono le energie. Nel caso dei Turchi, fra il ’78 e il ’90 si riaccese il conflitto con la Persia, che si rivelò assai faticoso pur portando a limitate e temporanee acquisizioni. Messo da parte tale confronto, si riaprì quello in Ungheria contro gli Asburgo (1593-1606), che si concluse con una situazione di stallo senza risultati apprezzabili e, una volta esaurito quest’ultimo, di lì a poco tornò nuovamente ad affacciarsi il pericolo persiano. La Spagna, invece, venne richiamata sempre più da quel che avveniva in direzione dell’Atlantico: Vi è attirata – scrive Braudel – dalla guerra dei Paesi Bassi, e più ancora dall’occupazione del Portogallo […]. Più tardi, dopo aver riconquistato quello che sarà poi il Belgio cattolico […], s’impegna in una guerra contro l’Inghilterra […]; poi, dopo il il 1589, […] si accanisce nella lotta, sproporzionata per i suoi mezzi per quanto immensi, per la conquista della Francia o del trono di Francia.29
Si tratta, conclude giustamente lo storico francese, di una serie di eventi bellici a cui si nega usualmente un nome d’insieme, ma che a buon diritto si potrebbe definire una sorta di “guerra dell’Atlantico”. È a questa regione, dunque, che dobbiamo indirizzarci. 2.4 Versante atlantico, Impero e Baltico La Spagna, che nella seconda metà del Cinquecento ricopriva il ruolo di potenza maggiore tra quelle che si affacciavano sull’Atlantico, fu indotta, proprio da questa sua posizione di preminenza, ad inserirsi in tutte le situazioni di crisi che si erano aperte nei propri domini e nei paesi vicini. Se per essa l’annessione del 29 Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., p. 905.
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Portogallo, almeno in un primo tempo, si presentò come un fattore di rafforzamento, tutt’altro avvenne con l’impegno negli altri teatri di guerra. Si può anzi asserire senza ombra di dubbio che la struttura geograficamente composita dell’impero spagnolo moltiplicava i fronti che richiedevano un intervento o quanto meno una vigilanza costante, con la conseguente pressione sulle risorse militari e finanziarie. Nell’Europa Nord-occidentale erano tre gli scacchieri su cui la Spagna doveva giocare la propria partita: i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la Francia. Si trattava di tre aree interdipendenti, nelle quali la Spagna voleva mantenere la propria presenza per evitare che si creassero vuoti di potere, pericolosi perché sarebbero stati in grado di ripercuotersi sulle altre aree alle quali essa era interessata, in particolare la Germania e l’Italia, quanto meno per ciò che riguardava la parte settentrionale della penisola30. La ribellione dei Paesi Bassi fu probabilmente il problema più grave che la Spagna di trovò ad affrontare. Essa rimase anzi una ferita aperta per diversi decenni e portò con sé notevoli implicazioni, molte delle quali negative, a livello internazionale. Scoppiata in modo aperto nel 1566, nel primo decennio la rivolta si estese fino a coinvolgere tutte le province (Pacificazione di Gand, 1576), ma poco più tardi i conflitti reciproci fra le province stesse portarono a una rottura del fronte dei ribelli (1579), mentre la Spagna prendeva nuovamente l’iniziativa31. La ripresa spagnola, 30 P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1999, p. 97. 31 Le radici di essa erano maturate dopo la metà del secolo per una varietà di ragioni: il peso delle tasse e dei debiti derivanti dal lungo ciclo di guerre in cui la Spagna era stata coinvolta, il tentativo spagnolo di centralizzare il governo della chiesa, la radicalizzazione religiosa connessa al calvinismo. In un primo tempo il malcontento fu gestito dai nobili, che invocavano un governo espresso dagli “stati” e una maggiore tolleranza religiosa, ma nel 1566 una rivolta iconoclasta anticattolica dilagò in larga parte del paese, annullando i margini di trattativa. La successiva politica di dura repressione, pesante fiscalismo e intolleranza religiosa messa in opera da Duca d’Alba tra il 1567 e il 1573 si rivelò controproducente e la rivolta continuò a serpeggiare; il tentativo di De Requenses, subentrato al Duca d’Alba, di inaugurare una politica più conciliante giunse troppo tardi. Nel frattempo Guglielmo d’Orange si caratterizzava sempre più come leader della lotta antispagnola, il perno della quale era costituito soprattutto da Olanda e Zelanda, che si erano costituite come indipendenti dalla Spagna.
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a guidare la quale – deceduto Don Giovanni d’Austria – si era distinto Alessandro Farnese, fu tuttavia in gran parte vanificata dall’impossibilità di concentrarsi unicamente sui compiti derivanti dalla repressione. Ad allontanarla da essi, infatti, intervennero le altre situazioni di crisi emergenti sul versante atlantico che difficilmente si potevano ignorare, in particolare quelle dell’Inghilterra elisabettiana e della Francia. Nel primo caso esisteva uno stato di tensione latente imposto dalle lotte politico-religiose, un delicato equilibrio che imponeva a Filippo II di sostenere la cattolica Maria Stuart, ma senza permettere che quest’ultima, legata ai Guisa, potesse veramente prevalere, portando Inghilterra e Scozia nell’orbita della Francia. Elisabetta, anzi, gli era temporaneamente necessaria appunto perché avrebbe posto un ostacolo alle ambizioni egemoniche francesi. Tale margine di ambiguità, su cui Elisabetta sapeva di poter giocare, diventò tuttavia sempre più stretto, sia per le continue incursioni marittime ai danni della Spagna alimentate dall’Inghilterra, sia per l’intervento del conte di Leicester nella guerra d’indipendenza nei Paesi Bassi. Il quadro mutò repentinamente allorché i complotti di Maria Stuart costrinsero Elisabetta a farla giustiziare (1587) e
Anche le province meridionali, inizialmente meno radicalizzate, col passare del tempo e il moltiplicarsi delle vessazioni da parte delle truppe occupanti, si ribellarono alla Spagna e nel 1576 si riunirono a Gand gli Stati Generali che avrebbero dovuto rappresentare tutte le province (pacificazione di Gand). La disomogeneità sociale sociale e religiosa delle realtà rappresentate impedì di prendere posizioni decise. Le trattative con Don Giovanni d’Austria, nuovo governatore dopo la morte di De Requenses, non ebbero risultati durevoli e nel periodo successivo le contrapposizioni interne si acutizzarono, finché nel 1579 subentrò la scissione: le province filospagnole sottoscrissero l’“Unione di Arras”, ritornando all’obbedienza nei confronti del re, mentre quelle settentrionali antispagnole risposero con l’“Unione di Utrecht”. Due anni più tardi queste ultime disconobbero anche formalmente la sovranità spagnola. Nel frattempo l’abile generale di Filippo II, Alessandro Farnese, accoppiando flessibilità politica e capacità militare, riuscìva a riguadagnare l’iniziativa a favore della Spagna. Gli Olandesi attraversarono un periodo travagliato, sia perché Guglielmo d’Orange era caduto vittima di un sicario (1584), sia perché in un primo tempo, in omaggio al principio monarchico, i ribelli si erano affidati a governanti stranieri, rivelatisi tuttavia poco capaci (il francese Francesco duca d’Angiò nel periodo ’81-’83 e successivamente l’inglese Robert Dudley, conte di Leicester, tra l’’85 e l’’87).
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quindi fu possibile a Filippo rivendicare per sé o per gli immediati discendenti l’eredità della regina scozzese32. La conseguenza di tutto ciò fu la spedizione dell’Invincibile Armada (1588), volta ad invadere l’Inghilterra, imponente sforzo organizzativo e finanziario che si concluse tuttavia con un clamoroso insuccesso. Pur provata da questa sconfitta, nell’anno successivo la Spagna dovette nuovamente far fronte ad un gravoso impegno nell’altro paese che attraversava una crisi interna, intervenendo nella lotta tra cattolici e ugonotti in Francia. La logorante impresa bellica durò fino al 1598, senza incidere sugli equilibri della società francese e senza impedire che Enrico IV giungesse al potere33, cosicché alla fine essa si concluse con un nulla di fatto (pace di Vervins). La congiuntura internazionale aveva dunque imposto una dispersione delle forze spagnole, alleggerendo la pressione sui Paesi Bassi e permettendo quindi all’Olanda di superare i momenti più critici, anche grazie al fatto che a Guglielmo d’Orange era subentrato il giovane figlio Maurizio (1585), che aveva preso la guida politica 32 “Gli Inglesi, che non vedono altro che il pericolo immediato che li minaccia, vorrebbero la morte della Stuart per essere sicuri di non cadere sotto una sovrana cattolica. La loro regina, che vede molto più lontano di loro nel groviglio degli interessi delle corone, sa viceversa che la vita di Maria Stuart rappresenta la migliore garanzia per la sicurezza dell’Inghilterra. Giacché i Guisa sono degli ingenui a fidarsi tanto del loro alleato Filippo II. Il re di Spagna ha tutto l’interesse a pascerli di illusioni, perché gli conviene di tenere viva l’agitazione cattolica contro Elisabetta, onde distoglierla dalle Fiandre. Ma non ha alcun interesse a vedere realizzato il grande piano guisardo di una potenza anglo-franco-scozzese, la quale farebbe da contrappeso alla potenza spagnola. […] Fino a che Maria sarà viva, Filippo avrà interesse a che viva anche Elisabetta per tenere desto un conflitto anglo-francese. La cosa che potrebbe meglio tornare a vantaggio della Spagna sarebbe precisamente la morte della Stuart, poiché in questo modo si porrebbe il problema della successione del trono inglese, e per riflesso, anche al trono scozzese. Ambedue, infatti, spetterebbero a Giacomo VI, che è protestante e quindi, secondo il punto di vista cattolico, indegno di regnare. Filippo II, dunque, per via del matrimonio di Margherita, figlia di re Edoardo III d’Inghilterra, con Carlo il Temerario avo materno di Carlo V, potrebbe in caso di morte di Maria Stuart avanzare la sua candidatura alla corona d’Inghilterra, come qualche anno prima la ha avanzata a quella del Portogallo. Non che egli pensi davvero a lasciare la Castiglia per tornarsene daccapo fra gli inglesi. Ma vi è la sua figlia adorata, l’infanta Isabella, […] cui tanto bello sarebbe assicurare una corona regale”. G. Spini, Storia dell’età moderna, Einaudi, Torino 1965, vol. I, pp. 378-9. 33 Cfr. supra, § 1.5.
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e militare della repubblica. La guerra continuò ancora per decenni, ma dagli ultimi anni del secolo l’esistenza della Repubblica delle Sette Province non fu più messa seriamente in discussione ed essa divenne un protagonista di primo piano – politico oltre che economico – del quadro internazionale europeo. Spostando l’attenzione verso l’Europa centro-orientale, rimasta sotto il controllo degli Asburgo d’Austria, nella seconda metà del Cinquecento si poteva osservare inizialmente uno scenario assai meno teso. Nell’ambito dell’Impero, con la pace di Augusta (1555) erano stati archiviati i momenti più acuti della lotta tra cattolici e protestanti; la logica del cuius regio eius religio sembrò esser in grado di affievolire il conflitto religioso, arrestando le confessioni contrapposte sulle posizioni raggiunte e mettendo quindi fine allo sforzo delle due parti per raggiungere un successo definitivo. In tal modo la pace aveva fatto cessare gli scontri più laceranti, ma rimanevano in essere forze sotterranee in grado di logorare gli equilibri raggiunti. Le appropriazioni di beni ecclesiastici, infatti, non si erano affatto arrestate dopo il 1552, così come il reservatum ecclesiasticum del 1555, pensato per far cessare il passaggio di vescovadi a pretendenti protestanti, veniva di fatto eluso. Altrettanto importante, inoltre, era il progressivo infiltrarsi nel tessuto religioso tedesco di una nuova confessione: il calvinismo. In effetti per circa due decenni la situazione del mondo tedesco rimase nel complesso tranquilla, ma alla lunga le tensioni riaffiorarono. La chiesa cattolica, infatti, aveva oramai elaborato a fondo il programma della Controriforma, mentre l’imperatore Rodolfo II, a differenza dei predecessori, si mostrava meno tollerante verso il protestantesimo; anche la Spagna, sempre più preoccupata di quanto avveniva nei Paesi Bassi, si stava progressivamente allarmando per la situazione religiosa dell’area renana. Dall’ultimo ventennio del secolo i sintomi della controffensiva cattolica volta a riconquistare posizioni di potere politico-religioso si moltiplicarono e contribuirono ad inasprire le dispute fino a coinvolgere in aspre controversie le massime istituzioni imperiali. Il graduale venir meno di un quadro istituzionale di riferimento indusse i protestanti da un lato e i cattolici dall’altro a tutelare le rispettive posizioni formando due leghe (Unione Evangelica 1608, Lega Cattolica 1609). Queste ultime si affrontarono, coi relativi sostegni a livello internazionale (Spagna per i cattolici, Francia e
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Olanda per i protestanti), nella complicata lotta di successione per il ducato di Jülich-Kleve-Berg, scoppiata nel 1609 e conclusasi, dopo molti sviluppi imprevisti, nel 161434. Vari fattori – e in particolare l’uccisione di Enrico IV, che supportava i protestanti – impedirono che il conflitto si allargasse. Nonostante che alla fine fosse stata trovata una soluzione di compromesso, la vicenda rendeva tuttavia evidente come si andasse verso una situazione in cui l’Impero stava diventando teatro di scontro tra due sistemi di potenze europee. La regione baltica, apparentemente defilata rispetto ai grandi equilibri politici europei, negli ultimi decenni aveva acquisito un peso sempre maggiore. Anche nell’Europa Nord-orientale – ove sia Danimarca che Svezia avevano aderito alla Riforma – il fattore religioso aveva svolto un ruolo di primo piano, intrecciandosi alla lotta per il dominio dei traffici del Baltico. Verso la metà del Cinquecento l’Ansa aveva ormai perduto la preminenza su quella importante via commerciale, mentre la posizione strategica tra tutte le potenze interessate ad essa era ormai passata – grazie al controllo del Sund – alla Danimarca. Nella seconda metà del secolo la Svezia cominciò tuttavia a gareggiare per gli spazi del commercio baltico, puntando soprattutto sui territori dell’Ordine di Livonia, importanti non solo per l’esportazione di grano, ma anche perché ad essi facevano capo vie di traffico che portavano alla Russia ed oltre, verso più lontani paesi asiatici35. 34 Col Trattato di Xanten i ducati di Jülich-Kleve-Berg vennero divisi tra il duca Volfango Guglielmo di Pfalz-Neuburg e l’elettore Giovanni Sigismondo di Brandeburgo. Neuburg ricevette Jülich-Berg e l’elettore di Brandeburgo Kleve-Mark; le vicende ereditarie portarono poi questi ultimi possedimenti alla Prussia. Una buona visione d’insieme del problema tedesco è in G. Ritter, La formazione dell’Europa moderna, Laterza, Bari 1968, pp. 555-92. 35 Nell’insieme, tale settore geografico era stata messo in subbuglio dagli attacchi russi e questo aveva offerto anche a Danimarca, Svezia e Polonia l’occasione di intervenire e di impadronirsi in esso di una serie di territori. Era inevitabile che questa nuova stagione di conquiste desse luogo ad attriti reciproci, tra i quali ebbero un’importanza particolare quelli tra Svezia e Polonia. In Polonia, estinta la dinastia degli Iagelloni, la monarchia di Stefano Báthory cercò in ogni modo di riportare il paese e i territori di recente conquista al cattolicesimo, scontrandosi in ciò con Erik XIV, figlio primogenito di Gustavo Vasa, che in Svezia conduceva una politica antipolacca ed anticattolica. Questo orientamento durò finché Erik fu spodestato dal fratello Giovanni III, che aveva sposato la sorella dell’ultimo Iagellone di Polonia, e quando succedette al trono di Svezia il loro figlio Sigismondo (1592), già divenuto re di Polonia. In questa fase la pressione per riportare la Svezia al cattolicesimo si
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2.5 La Guerra dei trent’anni. La stagione dei successi asburgici In Europa occidentale e centrale l’inizio del XVII secolo fu nel complesso un periodo di relativa stabilità, durante il quale i focolai di crisi rimasero generalmente circoscritti e i contrasti internazionali non giunsero ad innescare nuovi episodi bellici rilevanti. Ripercorrendo il quadro alla luce delle tensioni latenti caratteristiche di alcune delle aree geopolitiche delineate più sopra, è possibile tuttavia individuare i settori che presto sarebbero stati in grado di amplificare le irrequietezze originatesi nelle singole aree e soprattutto in quella tedesca. Nel mondo germanico, come si è visto, si viveva un clima di instabilità crescente, nel quale il modus vivendi che si era instaurato nella seconda metà del Cinquecento cominciava ad esser messo in questione a causa di un’invadenza politico-religiosa sempre più attiva da parte della Controriforma e della cedevolezza che l’imperatore Rodolfo mostrava nei suoi confronti. Lo scontro armato nella Renania settentrionale che sarebbe potuto derivare dalla polarizzazione religiosa fu scongiurato sul nascere, senza tuttavia fornire garanzie del mantenimento di una pace durevole. La politica spagnola, interessata all’Impero in virtù di comuni origini dinastiche e legami famigliari, nonché di generali considerazioni di ordine politico-religioso, si era intromessa attivamente, contrastata da Francia e Olanda, nella questione dei ducati. Tale coinvolgimento era rafforzato dalla circostanza che il teatro bellico olandese presentava significative connessioni con il mondo tedesco, in particolare a causa del corridoio che, passando attraverso le Alpi, collegava la Spagna e l’Italia per un verso al Tirolo e per l’altro, seguendo il corso del Reno, ai Paesi Bassi. Garantire il dominio asburgico in Germania e mantenere sicura tale via di comunicazione militare era considerato di importanza strategica nel caso di una prossima ripresa della guerra con l’Olanda, prevista per il 162136. intensificò e fu bloccata solo dall’intervento di Carlo, il figlio più giovane di Gustavo Vasa, il quale sconfisse Sigismondo e divenne a sua volta re (1604). Con Carlo IX il paese tornò al protestantesimo luterano e solo i luterani poterono essere ammessi alle cariche pubbliche; il suo successore, Gustavo Adolfo, proseguì la riforma della pubblica amministrazione che inseriva in misura crescente la nobiltà nell’alta conduzione dello stato. 36 L’importanza attribuita dalla Spagna alla via delle Fiandre era tale che, nel momento in cui si profilò il problema della imminente estinzione della li-
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A settentrione, infine, persisteva la rivalità tra le potenze affacciate sul Baltico (Danimarca, Svezia, Polonia, Russia). In particolare, la Svezia di Gustavo Adolfo, pur continuando a confrontarsi coi tradizionali avversari, riuscì a trovare un supporto economico e politico ad Occidente, istituendo nel 1614 un’alleanza difensiva con l’Olanda. Il passo in questione contribuiva a mettere in rapporto due poli del continente europeo apparentemente lontani fra loro e a render interdipendenti i rispettivi conflitti. Questi complessi intrecci finivano per rendere le contrapposizioni interne alla Germania strettamente connesse al più ampio contesto continentale non solo attraverso i grandi drammi religiosi che travagliavano l’Europa, ma anche da precisi interessi delle potenze circostanti: in particolare, da un lato quelli spagnoli contrastati da Francia e Olanda e dall’altro da quelli delle potenze nordiche protestanti – Danimarca e Svezia – che, sebbene separate da antagonismi reciproci, guardavano con attenzione a quanto si verificava nella Germania settentrionale. Il numero e la varietà dei paesi potenzialmente coinvolgibili nelle questioni tedesche contribuiscono a spiegare il carattere decisamente virulento e protratto che vi assunsero i conflitti una volta scoppiati. La lunga sequenza di eventi bellici che ha preso il nome dalla sua durata trentennale nacque sulla base di uno scontro interno al mondo tedesco, ossia la contestata successione di Ferdinando di Stiria, del ramo collaterale degli Asburgo, all’imperatore Mattia37. In esso dapprima la componente internazionale rimase nel complesso cirnea principale degli Asburgo d’Austria e la probabile successione del rigidamente cattolico Ferdinando di Stiria, la Spagna rinunciò ai propri diritti, impegnandosi ad appoggiare Ferdinando in cambio della cessione di territori italiani e soprattutto tedeschi in Alsazia e sulla destra del Reno (Trattato di Oñate, 1617). 37 La successione di Ferdinando fu preparata da lontano, attraverso l’incoronazione dapprima come re di Boemia (17 giugno ’17) e successivamente (28 agosto 1619) come imperatore (Ferdinando II). Nel frattempo, tuttavia, la politica religiosa intollerante da lui perseguita aveva fatto scoppiare la rivolta in Boemia e, proprio poco prima dell’incoronazione imperiale, i Boemi lo dichiararono decaduto come re, nominando al suo posto Federico V del Palatinato. Quest’ultimo, principe elettore calvinista e capo dell’Unione Evangelica, oltre a detenere importanti territori sul Reno, si presentava come un punto di riferimento internazionale per le forze protestanti e antiasburgiche. Una volta accettata l’elezione da parte di Federico V, la contrapposizione senza quartiere con l’imperatore che si era profilata divenne necessariamente realtà.
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coscritta, ma gli iniziali successi asburgici giunsero ben presto con l’allargarla all’Europa del Nord e la guerra finì da ultimo per caratterizzarsi come una lotta ad oltranza tra la Francia da un lato, decisa ad impedire di esser chiusa in una morsa, e i due rami Asburgo. La guerra non solo dissanguò le economie coinvolte in essa e quella tedesca in particolare, ma cambiò totalmente, grazie alla vittoria conclusiva della Francia, lo scenario della politica internazionale europea. Nel periodo Boemo-Palatino (1618-25), il primo dei quattro nei quali viene solitamente divisa la guerra, la vittoria andò nettamente al fronte asburgico. La scarsa coesione del mondo protestante sia all’interno che all’estero, contrapposta all’aiuto considerevole prestato dalla Spagna e dalla Lega Cattolica a Ferdinando II, la scadente organizzazione militare boema e in parte anche la stessa inettitudine personale di Federico del Palatinato determinarono la disfatta dei ribelli. La battaglia della Montagna Bianca presso Praga inflisse un colpo durissimo ai Boemi, consegnando il paese al nemico e lasciando sopravvivere soltanto alcuni focolai di resistenza eliminati in seguito; negli anni successivi la guerra si spostò ad Occidente, nell’area renana, dove le truppe protestanti furono sconfitte in una serie di scontri, l’ultimo dei quali (Stadtlohn) avvenne nel ’23 presso il confine olandese, lasciando un clima di smobilitazione nel campo protestante. A questa crisi si accompagnò in Moravia, nella prima metà del ’24, l’arenarsi dell’offensiva del principe transilvano Bethlen Gábor, schierato nel campo antiasburgico. I vincitori, nel frattempo, si appropriavano dei frutti della propria affermazione. La Boemia fu sottoposta a un regime ferreo di repressione ed esproprio. Federico dovette fuggire all’estero e venne privato dei suoi domini. Il Palatinato Elettorale passò a Massimiliano di Baviera e Ferdinando II, ignorando le pur rilevanti obiezioni costituzionali avanzate da molti principi, conferì al capo della Lega il titolo di elettore a vita. La stessa Unione Evangelica accettò il proprio scioglimento. Le vicende di questo primo periodo di guerra avevano visto una tale schiacciante prevalenza cattolica da rimettere in movimento anche l’irresoluto fronte internazionale protestante. Già nel ’24 l’Olanda, dove Maurizio d’Orange sarebbe deceduto di lì a poco sostituito dal fratello Federico Enrico, la Francia e la stessa Inghilterra sia riavvicinarono, assieme a Danimarca, Svezia e altre potenze minori. Ne uscirono non solo una ripresa della lotta per la Valtellina,
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ma anche una vera e propria alleanza militare anglo-dano-olandese (1625). Si apriva quindi il secondo periodo – detto appunto danese – della guerra (1625-1629). Nel giro di pochi anni, tuttavia, soprattutto grazie all’esercito di Wallenstein, l’intervento danese poté essere definitivamente contrastato38. Nel ’28 Cristiano di Danimarca vedeva frustrati gli ultimi tentativi di riscossa, in particolare a Wolgast in Pomerania, e si risolse a trattare la pace. Nel timore che si determinasse una convergenza fra Danimarca e Svezia, questa fu concessa a condizioni relativamente miti: la Danimarca rinunciava ad esercitare la propria influenza nella Germania del Nord in cambio della restituzione dei territori conquistati dalla coalizione imperiale. Agli occhi di Ferdinando i successi militari erano tali da consentirgli di procedere alla ricattolicizzazione dell’Impero, scopo a cui era volto l’Editto di Restituzione (1629); esso non riconosceva diritto di esistenza ai calvinisti e decretava la restituzione delle terre tolte alla Chiesa dopo il 1552. Il provvedimento, imponendo il ritorno integrale alla Chiesa di beni passati attraverso decenni di trasferimenti e compravendite, rischiava di provocare un vero e proprio terremoto sociale, allarmando non solo i principi protestanti, che invocavano a gran voce l’intervento svedese a propria tutela, ma anche quelli cattolici. 38 Nel 1625 Wallenstein offrì all’imperatore di mettere in piedi a proprie spese un esercito di cinquantamila uomini, il cui alloggio e vettovagliamento sarebbero stati a carico del territorio e del quale Ferdinando avrebbe dovuto corrispondere solo le paghe. Sebbene imbarazzante per l’eccessivo potere che avrebbe consegnato al generale boemo, la proposta fu accettata, per quanto inizialmente con alcune cautele. Cfr. C.V. Wedgwood, La guerra dei trent’anni, Dall’Oglio, Milano 1964, p. 199. Mentre Spinola incalzava in Olanda con notevoli anche se non decisivi successi e la rivolta protestante imponeva a Richelieu di circoscrivere il proprio impegno in Valtellina, in Germania si andava verso lo scontro con la Danimarca. Nell’aprile del ’26 Wallenstein batté Mansfeld a Dessau sull’Elba e nell’agosto dello stesso anno Tilly inflisse una dura sconfitta a Cristiano di Danimarca a Lütter. La coalizione protestante si sfaldò, mentre quella filoimperiale controllava la Germania settentrionale e penetrava nello Holstein e nello Jutland, mirando in prospettiva anche al controllo del Baltico. L’esercito di Wallenstein si era allargato a dismisura e Ferdinando indennizzò il proprio comandante supremo col ducato di Meclemburgo tolto a un principe ribelle, attribuendogli, in modo costituzionalmente discutibile, un ruolo talmente rilevante da suscitare timore negli stessi alleati spagnoli e bavaresi dell’Imperatore.
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2.6 L’impegno francese e la crisi dell’egemonia spagnola I successi ottenuti nel primo decennio di guerra avevano accresciuto eccessivamente il potere asburgico in Germania e di conseguenza misero in movimento tutti quei poteri che avevano elementi di contrasto con gli Asburgo, i quali si rivelarono dunque incapaci di mantenere il clima favorevole oltre la conclusione della guerra con la Danimarca. Già dall’anno successivo alla conclusione della pace emersero contrasti coi principi39, ma un altro e più esplicito segnale che la fortuna sembrava aver voltato definitivamente le spalle all’imperatore fu che in quello stesso periodo Gustavo Adolfo sbarcò in Pomerania con la chiara intenzione di muover guerra, aprendo così la terza fase di essa (svedese, 1630-1635). Non si trattava solo dell’annuncio di una nuova sequenza di scontri bellici, ma anche di una crescente internazionalizzazione di questi ultimi. Dopo essersi impadronito della Pomerania, infatti, il re di Svezia stipulò a Bärwalde (23 gennaio 1631) un’alleanza quinquennale che impegnava la Francia a versargli un rilevante sussidio economico per la condotta della guerra a condizione di garantire i cattolici tedeschi e che escludeva la possibilità di paci separate. Pur senza un diretto intervento militare, dunque, la Francia entrava chiaramente nella guerra, che da allora in poi venne a connotarsi sempre più come una lunga lotta francese per eliminare la sempre temuta morsa ispano-imperiale. La situazione militare, esordita con brillanti vittorie svedesi, si rovesciò dopo la morte in battaglia di Gustavo Adolfo40. Il mu39 Le tensioni riconducibili all’Editto di Restituzione si sommarono a quelle derivanti dai timori per l’eccessivo potere di Wallenstein. Un primo segnale di tutto ciò fu la Dieta di Ratisbona dell’estate 1630, dove i principi segnarono un successo riuscendo a far dimettere spontaneamente Wallenstein; nonostante ciò Ferdinando non riuscì ad ottenere contropartite, in particolare l’elezione del proprio figlio a Re dei Romani che avrebbe prefigurato la sua futura ascesa al trono imperiale, né a sfruttare politicamente fino in fondo l’impegno militare in Italia a fianco della Spagna che aveva portato alla presa di Mantova, la quale rimase al Nevers. 40 Ottenuta l’alleanza con gli Elettori di Brandeburgo e Sassonia, Gustavo Adolfo sbaragliò il nemico a Breitenfeld, proseguendo poi verso la Germania centrale e il Reno. Lasciate truppe a guardia del Reno, egli puntò poi verso la Baviera e giunse ad entrare a Monaco. Wallenstein, scongiurato dall’Imperatore affinché intervenisse, aveva intanto ricostituito il suo esercito e marciava
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tato rapporto di forze condusse a trattative che approdarono alla Pace di Praga (1635), cui aderiva tra l’altro l’Elettore di Sassonia; essa, oltre a prevedere vari mutamenti territoriali e a concedere una parziale amnistia ai protestanti, ribadì l’Editto di Restituzione ma ne sospese l’esecuzione per quarant’anni. Sul versante franco-svedese, tuttavia, la prevalenza imperiale aveva allarmato sia la Svezia che la Francia, che riconfermarono la coalizione con una più netta prevalenza francese. Nel 1635, inoltre, la Francia dichiarò guerra alla Spagna e stipulò un nuovo trattato antispagnolo con l’Olanda. La Pace di Praga veniva dunque superata già sul nascere, cosicché facilmente si entrò nella quarta e ultima fase (franco-svedese, 1635-1648)41. verso la Sassonia, costringendo gli Svedesi a trincerarsi a Norimberga. Gli scontri non portarono a risultati decisivi, ma in autunno del ’32 uno dei generali di Wallenstein conquistava Lipsia. Le truppe del re svedese raggiunsero Wallenstein, intenzionato a svernare in Sassonia, e lo impegnarono duramente a Lützen il 16 novembre. Wallenstein dovette cedere il campo, ma la vittoria svedese era stata pagata a duro prezzo, poiché Gustavo Adolfo era morto nello scontro. Nel seguito della guerra Wallenstein non brillò per iniziativa militare. Nel corso del ’33 si moltiplicarono le voci secondo cui il comportamento contraddittorio del generalissimo era dovuto a oscure trattative col nemico che egli stava conducendo alle spalle dell’imperatore. L’allarme crebbe all’inizio dell’anno successivo, allorché a corte si decise il licenziamente di Wallenstein e nei suoi confronti si emise un ordine di cattura che si tradusse in un complotto per assassinarlo (25 febbraio 1634). Il comando supremo dell’esercito passò al figlio dell’Imperatore. Ai travagli del fronte imperiale-cattolico facevano riscontro quelli della coalizione svedese-protestante. A Gustavo Adolfo era seguita una reggenza guidata dal cancelliere Oxenstierna, il quale tuttavia intendeva continuare la guerra e utilizzare l’esercito come perno del futuro ruolo della Svezia in Germania, promuovendo una lega (Lega di Heilbronn) con vari stati protestanti avente lo scopo di istituzionalizzare la presenza svedese nell’Impero (G. Schmidt, La guerra dei trent’anni, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 58-9). Agli scarsi successi politici di questa si aggiunse, nel 1634, dopo alterne vicende militari, una rovinosa sconfitta ad opera di truppe imperiali e spagnole a Nördlingen, seguita da altre minori operazioni che ne rafforzarono gli effetti. 41 La nuova fase cominciò con l’attacco ispano-imperiale alla Francia su più direttrici, senza sortire esiti sostanziali. Poco più tardi gli Svedesi mettevano a segno un’importante vittoria a Wittstock nel Brandeburgo e i Franco-Olandesi ottenevano altri successi nei Paesi Bassi, ma anche queste offensive alla fine si esaurirono. Nel frattempo la situazione della Spagna subiva un sostanziale logoramento: nel 1640, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra,
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Benché non fossero mancati episodi politico-militari rilevanti e per certi aspetti memorabili, col tempo l’incapacità di concludere la guerra era ormai divenuta evidente a tutti i contendenti, sicché si cominciò lentamente ad intavolare trattative di pace. I primi accordi sulle modalità dei negoziati furono presi già alla fine del ’41, ma i combattimenti continuarono a lungo anche nel tentativo di strappare migliori condizioni nei successivi patteggiamenti. A Münster e Osnabrück in Vestfalia, le due città sedi di trattativa, l’arrivo dei delegati cominciò nel ’43 e si concluse solo all’inizio del ’46; la firma dei trattati si ebbe due anni più tardi, nel 164842. Come spesso si è detto, con la pace di Vestfalia si concluse l’epoca delle guerre di religione. Le lacerazioni che avevano originato la lunga serie di lotte non furono risolte definitivamente, ma diedero luogo a compromessi maggiormente praticabili43 e i successivi conflitti che si verificarono in Europa si limitarono esclusivamente ad aspetti politico-territoriali. Dal punto di vista dei rapporti internazionali, che più direttamente ci interessano in questa sede, l’esito dell’estenuante vicenda bellica rappresentò una sconfitta per gli Asburgo di entrambi i rami. Non solo infatti Francia e Svezia ricevevano ingrandimenti territoriali44, ma l’Olanda, concludendo scoppiarono le rivolte in Catalogna e Portogallo, a cui si aggiunse nel 1643 la storica sconfitta di Rocroi nelle Ardenne, che stroncò il tentativo di aprirsi la via di Parigi. Negli anni successivi la guerra, alla cui conduzione ormai facevano difetto generali di lunga esperienza e capacità di fornire rifornimenti adeguati alle armate da parte del paese esausto, si trascinò stancamente. Le contrapposte offensive del ’44-’45 sul fronte renano si rivelarono inconcludenti, mentre fra il ’45 e il ’48 su quello orientale le forze filoimperiali furono messe alle strette dall’invasione della Sassonia, della Baviera e dall’assedio di Praga. 42 Sulle trattative di pace e l’origine del sistema degli stati europei, cfr. C. Tilly, op. cit., p. 185. 43 Accanto a cattolicesimo e luteranesimo fu riconosciuto ufficialmente il calvinismo, anche se si cercò di stabilire una limitata tolleranza per le minoranze religiose. L’anno di riferimento per il trasferimento legittimo dei beni ecclesiastici venne stabilito al 1624. 44 La Francia confermò il possesso di Metz, Toul, Verdun e ottenne l’Alsazia; alla Svezia, oltre ad un risarcimento in denaro, furono attribuiti la Pomerania Anteriore e altri territori che assicuravano il controllo del Baltico meridionale e lo sbocco dei fiumi Elba, Weser e Oder. Ingrandimenti territoriali di rilievo ebbe anche il Brandeburgo. La Baviera mantenne il titolo elettorale e il Palatinato superiore, mentre gli eredi di Federico del Palatinato ebbero il Palatinato inferiore e un titolo elettorale (l’ottavo) creato ex novo.
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la pace con la Spagna, le imponeva anche formalmente la propria esistenza. La guerra franco-spagnola continuava (fu risolta solo più tardi, a favore della Francia, nel 1659) ma in essa l’Impero, alla testa del quale dal 1637 era subentrato Ferdinando III, doveva rimanere neutrale. La prospettiva di una unificazione tedesca da parte degli Asburgo d’Austria, inoltre, era ormai diventata impraticabile, tanto più che gli accordi di pace ribadivano la possibilità da parte degli stati tedeschi di concludere alleanze tra loro e con potenze straniere45. 2.7 L’Olanda tra Inghilterra e Francia Tra la pace di Vestfalia, che segna sostanzialmente la fine delle aspirazioni egemoniche della Spagna, e la guerra di devoluzione, con la quale Luigi XIV inaugurò la serie di guerre che polarizzarono i rapporti tra gli stati europei nei decenni seguenti, intercorre un ventennio durante il quale nel cuore dell’Europa non si ebbero grandi conflitti generali. La lotta franco-spagnola – e con essa il declino della Spagna – continuò fino al 1659, quando fu conclusa la pace dei Pirenei, ma questa guerra non rappresentò un fatto nuovo, quanto piuttosto la conclusione di una vicenda bellica non risolta dalla pace di Vestfalia46.
45 Naturalmente tali alleanze non dovevano andare contro l’Impero, ma la clausola era facilmente aggirabile. “Le limitazioni del diritto di alleanza […] poterono svolgere solo una scarsa forza normativa. L’ambito d’azione in politica estera, soprattutto dei grandi Territori, era praticamente illimitato; in seguito non furono vietate né alleanza contro la casa d’Asburgo, né patti di alleanza contro altri membri dell’Impero; in ogni caso, il carattere difensivo di tali unioni costituiva un’ottima giustificazione”. E. W. Böckenförde, La pace di Westfalia e il diritto di alleanza dei ceti dell’Impero, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), op. cit., vol. III p. 362. 46 Oltre a clausole di un certo rilievo territoriale, l’accordo franco-spagnolo prevedeva l’importante patto di matrimonio tra Luigi XIV e Maria Teresa, figlia di Filippo IV, in base al quale la rinuncia da parte della sposa alle pretese sul trono di Spagna sarebbe divenuta effettiva solo dietro il versamento da parte spagnola di una dote economicamente molto impegnativa. Se il matrimonio esteriormente sembrava avere un intento pacificatore, le clausole in realtà furono calcolate da parte francese proprio in vista della previsione, poi confermata dagli eventi, che lo stato precario delle finanze spagnole non avrebbe
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La relativa tranquillità dell’assetto internazionale consentì che per un certo periodo salisse in primo piano uno scontro più circoscritto, ossia quello fra l’Inghilterra e l’Olanda, che costituiva la nuova variabile entrata ufficialmente nel consesso degli stati47. Nelle guerre finora trattate la componente dinastico-patrimoniale, pur strettamente intrecciata a quella economico-commerciale in senso stretto tanto da rendere difficile la distinzione, risulta spesso preponderante. Una tangibile prevalenza dell’aspetto commerciale è rinvenibile invece nei conflitti di cui stiamo parlando, che Graham Allison fa rientrare nella tipologia delle guerre tra una potenza economica in tendenziale declino (in questo caso l’Olanda) e una avviata su un percorso di ascesa (in questo caso l’Inghlterra)48. Possiamo aggiungere che in essi le rivalità assumevano le caratteristiche tipiche del periodo mercantilistico, ossia la competizione per un volume di traffico considerato dato e non modificabile, quel che oggi si direbbe un “gioco a somma zero”. L’economia delle Province Unite rappresentava un prospero insieme di attività agricole, manifatturiere, cantieristiche, di pesca etc.; il fattore decisivo nel conferirle la posizione di preminenza economica internazionale stava tuttavia nell’aver concentrato nelle proprie mani buona parte del commercio di mediazione tra Nord e Sud dell’Europa e dei traffici col mondo coloniale e nell’aver messo a punto un elaborato sistema finanziario che facilitava lo scambio di merci, il movimento di capitali privati e i prestiti agli stati. Il controllo e la gestione di questa enorme ricchezza commerciale e finanziaria erano nelle mani di una ristretta oligarchia, che governava al tempo stesso le istituzioni politiche49. Queste ultime avevano una struttura che prevedeva al vertice gli Stati Generali, a loro volta emanazione degli Stati delle province. Si trattava di un sistema macchinoso, complicato da due ordini di fattori: la preminenza della ricca provincia d’Olanda, che forniva allo stato metà dei contributi finanziari complessivi, e la convivenza con una sopravviconsentito l’adempimento del patto, consentendo alla Francia di rimettere in discussione gli accordi di successione. 47 E.H. Kossmann, La repubblica olandese, in F.L. Carsten (a cura di), Storia, cit., vol. V, p. 358. 48 G. Allison, Destinati alla guerra, Fazi Editore, Roma 2018, pp. 100-3. 49 Su di essa, anche in rapporto alle altre classi, si veda Wilson, La Repubblica, cit., pp. 46-58.
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venza del vecchio potere feudale, la carica di statolder delle singole province. Quasi tutte nominavano ad essa il membro più in vista della famiglia degli Orange che, cumulando un analogo mandato da parte delle diverse province, diventava una figura leader soprattutto in campo militare e poteva entrare facilmente in contrasto con il potere espresso dagli stati Generali. Gli Orange costituivano per tradizione il partito rigidamente calvinista, favorevole alla guerra e forte dell’appoggio delle masse popolari, cosicché i conflitti con l’oligarchia mercantile, tendenzialmente pacifista, si erano fatti sentire in varie occasioni. In particolare, negli anni della rivoluzione inglese e della fase finale del conflitto con la Spagna, era stata contestata la politica di Federico Enrico d’Orange, vicina agli Stuart e favorevole alla continuazione della guerra antispagnola. La morte di Federico Enrico (1647), seguita a breve distanza da quella del figlio Guglielmo II (1650), rese più facile la prevalenza del partito repubblicano guidato da De Witt. Dopo la metà del secolo il governo olandese si trovò ad affrontare una difficile situazione internazionale relativa ai rapporti con l’Inghilterra. Quest’ultima risentiva della rivalità economica con l’Olanda sui mercati mondiali e, impegnata nella rivoluzione all’interno, guardava con apprensione all’atteggiamento filomonarchico del partito orangista. Una volta che gli orangisti furono allontanati dal potere, Cromwell prospettò un progetto di unione delle due repubbliche protestanti, che non trovò tuttavia il favore dei governanti olandesi. Il rifiuto di questi ultimi rese più facile l’adozione dell’Atto di navigazione50, che esacerbò i rapporti reciproci e portò alla guerra, durata dal ’52 al ’54 e conclusasi con una pace di compromesso non risolutiva, la quale comportava tra l’altro l’impegno olandese per il futuro ad escludere gli Orange dal governo. Poiché conflitti commerciali continuarono negli anni successivi e d’altra parte la restaurazione degli Stuart confermò la politica dell’Atto di navigazione, la guerra tornò a divampare, durando dal ’65 al ’67. L’Olanda, che aveva condotto una decisa azione militare, riuscì a conseguire l’appoggio francese e danese e a concludere un nuovo compromesso in base al quale, tra l’altro, essa si ritirava dal Nordamerica e l’Inghilterra dall’Indonesia. 50 Cfr. supra, § 1.3.
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La contrapposizione anglo-olandese continuò anche nel periodo seguente, ma essa divenne un elemento subordinato di un nuovo gioco internazionale, stavolta imperniato sulla Francia. Quest’ultima, superata la crisi interna delle Fronde e in via di rafforzamento interno, stava ora ritornando in forze sulla scena. La circostanza propizia, in particolare, era costituita dalla crisi oramai inarrestabile della Spagna, che lasciava sempre più indifesa l’area a cavallo tra le Fiandre e il mondo tedesco, non potendo più impedire il profilarsi di quel vuoto politico che in passato si era cercato di scongiurare. L’occasione, che sfruttava l’ambiguità degli accordi di alcuni anni prima, giunse dopo la morte di Filippo IV. Proprio alla vigilia della pace destinata a concludere la seconda guerra anglo-olandese (Breda 1667), la Francia attaccava le Fiandre e poco dopo la Franca Contea51. Olanda, Inghilterra e Svezia considerarono pericolosa tale mossa e strinsero un’alleanza antifrancese, ma la Francia trattò con la Spagna che, in cambio della restituzione della Franca Contea, accordò ad essa una serie di città delle Fiandre mettendo fine alla guerra. L’atteggiamento diplomatico assunto dall’Olanda nella Guerra di Devoluzione aveva tuttavia incrinato il suo rapporto con la Francia e negli anni successivi quest’ultima, abbandonato l’atteggiamento benevolo nei suoi confronti, si mostrò ormai decisa ad aggredirla, nel quadro di una politica in parte mossa da motivazioni commerciali e in parte volta a rafforzare e fortificare i confini nazionali52. In quest’ottica Luigi XIV aveva inoltre sottoscritto con Carlo II Stuart, bisognoso di un appoggio esterno, un accordo segreto diretto contro l’Olanda stessa. Dopo i primi successi militari (1672), Luigi XIV aveva rifiutato le generose offerte di pace olandesi, ma la mossa prolungò la guerra per vari anni e diede luogo a vaste conseguenze interne e interna51 Il pretesto giuridico fu trovato nel diritto di devoluzione, vigente però a livello privato in alcune località dei Paesi Bassi, secondo cui i figli di primo letto – e tale era la moglie di Luigi XIV – avevano un titolo prioritario all’eredità rispetto a quelli di secondo letto. 52 Scrive a questo proposito Le Roy Ladurie: “In realtà le ambizioni di Luigi non erano assolutamente napoleoniche: non superavano infatti i confini dell’attuale esagono e il monarca del ‘gran secolo’ si comportava più da notaio o da contadino preoccupato di perfezionare i confini del suo appezzamento che da conquistatore universale”. E. Le Roy Ladurie, L’Ancien Régime, vol. I, cit., p. 351 e p. 256 per il confronto con l’estensione territoriale asburgica.
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zionali53. Luigi XIV, rendendosi conto dell’isolamento in cui stava entrando il proprio paese, optò a questo punto per la trattativa con l’Olanda. La coalizione avversa, privata dell’alleato più battagliero, si sfaldò e la pace fu conclusa a Nimega con una serie di trattati stipulati nel ’78-’79. La Francia rinunciava alle alte tariffe protettive mercantiliste imposte da Colbert che avevano contribuito a scatenare la guerra e abbandonava varie conquiste, mantenendo tuttavia la Franca Contea e altri territori. Nel complesso i vantaggi acquisiti furono meno rilevanti di quelli prospettati all’inizio, ma Luigi XIV poteva comunque vantare di aver fatto fronte alla coalizione avversaria mantenendo intatto il proprio prestigio. 2.8 La Successione spagnola e l’origine del sistema d’equilibrio Per vari anni dopo la pace di Nimega i rapporti di forza sul continente europeo non consentirono agli altri stati di rispondere alle sfide francesi, cosicché Luigi XIV divenne di fatto l’arbitro della politica internazionale. Anche la pace di Nimega, dunque, non rappresentò per Luigi XIV un punto d’approdo definitivo. Poco dopo, infatti, il re di Francia iniziò a a piegare sistematicamente alle proprie esigenze i trattati internazionali, sostenendo che essi gli davano il diritto alle “dipendenze” delle città conquistate. In questo modo egli giunse ad annettere alla Francia località che in un modo o nell’altro in passato erano state legate ai territori di cui i trattati internazionali garantivano il possesso. Con questi e altri espedienti la Francia si impadronì tra l’altro dell’intera Alsazia, di Strasburgo e di Casale Monferrato, una delle chiavi dell’Italia. Naturalmente tale politica suscitava molte avversioni nei confronti di Luigi XIV, ma questi contava sulla stanchezza degli stati europei e sulla tormentata situazione dell’Europa orientale, dove i Turchi esercitavano sull’Impero una pressione che anche la Francia 53 All’interno dell’Olanda una rivolta orangista travolse il governo di De Witt, ucciso insieme al fratello, e consegnò il potere a Guglielmo III d’Orange. Anche a livello internazionale crebbero le preoccupazioni: Impero e Spagna entrarono in gioco a favore dell’Olanda, mentre Carlo II, pressato dall’opinione pubblica contraria, uscì dalla guerra (tre anni dopo, nel ’77, anche gli antichi legami fra Stuart ed Orange furono riallacciati col matrimonio fra Guglielmo III e Maria, la nipote di Carlo II).
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si sforzava di alimentare, appoggiando gli Ungheresi in rivolta. Tra il 1681 il 1682 si andò costituendo una nuova lega tra Province Unite, Svezia, Impero e Spagna, ma essa non era in grado di sfidare concretamente il re di Francia. Quando, nel 1684, la Spagna resistette alle pretese francesi, il Lussemburgo venne invaso e la città di Genova, legata alla Spagna, bombardata. Con la tregua ventennale di Ratisbona dello stesso anno, Luigi XIV si vide riconoscere gran parte delle annessioni finora compiute. Ormai la Francia sembrava ergersi a potenza egemone del continente, sostituendo in ciò la Spagna, le cui energie erano andate scemando sempre più. Nell’Europa di allora non vi erano tuttavia le condizioni affinché il modello egemonico potesse riproporsi in modo stabile e la cosa divenne sempre più evidente nei decenni che seguirono. Nell’ultima parte del XVII secolo Luigi XIV dovette constatare che non esistevano più i presupposti favorevoli che avevano inizialmente giocato a suo favore e che le mosse francesi trovavano una resistenza crescente, agevolata dal graduale evolvere delle condizioni internazionali. Due elementi nuovi, in particolare, vennero ad ostacolare i disegni francesi. Innanzitutto, sebbene non fosse ancora conclusa la guerra ad Oriente, la vittoria sui Turchi del 1683 aveva dato maggior respiro all’imperatore in Germania. Gli stessi principi tedeschi che avevano possedimenti in aree prossime alla Francia o che comunque coltivavano progetti su di esse, cominciavano a manifestare una crescente diffidenza verso l’invadenza della propria vicina. In secondo luogo, in Inghilterra la caduta degli Stuart ad opera di Guglielmo d’Orange, nemico di Luigi XIV e della sua politica espansionistica, portò con decisione il paese nell’ambito dello schieramento antifrancese. Ne seguì la guerra della Lega di Augusta, alleanza cui aderirono l’Impero e molti stati tedeschi, la Spagna e la Svezia e successivamente allargatasi all’Inghilterra, durata dal 1689 al 1697. Mentre inizialmente entrambe le parti in lotta pensavano di poter giungere ad azioni militari risolutive, il conflitto divenne sempre più una guerra di logoramento; sebbene i combattimenti continuassero, i contendenti cominciarono di conseguenza a considerare la possibilità di ricorrere a vie diplomatiche54. 54 Inizialmente la Francia ignorò i segnali di mutamento, mantenendo il precedente indirizzo di politica estera. Un primo sintomo di svolta si registrò nel
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Luigi XIV, soprattutto, fu spinto a intensificare gli sforzi diplomatici sia dalla gravità della situazione economica, sia da importanti valutazioni di politica estera, in particolare dal profilarsi della successione al trono spagnolo. La salute malferma del re spagnolo Carlo II si deteriorava sempre più ed era ormai evidente che egli sarebbe morto senza figli cui lasciare la propria eredità. Per avanzare la candidatura francese alla successione dell’impero spagnolo o a parti consistenti di esso era necessario non solo essere in pace con la Spagna, ma anche avere un quadro europeo momentaneamente sgombro da nubi che potesse facilitare le trattative. La svolta decisiva per la risoluzione della guerra si ebbe nel ’96, quando Luigi XIV riuscì ad attrarre nuovamente il duca di Savoia
1686, quando il ripetersi di interventi francesi diede luogo alla formazione della Lega d’Augusta, cui aderirono l’Imperatore Leopoldo I e molti stati tedeschi, la Spagna e la Svezia. Lo scopo della lega era quello di far rispettare i trattati di pace finora sottoscritti e di intervenire con le armi contro eventuali aggressioni che una o più potenze aderenti avessero subito. Luigi XIV sottovalutò la gravità dei mutamenti in atto e agì ignorando le ripercussioni sfavorevoli che sarebbero potute derivarne per la Francia, compiendo mosse avventate (in particolare l’invasione dei territori del Palatinato e di Colonia nel 1688) e provocando così la guerra. Nemmeno la caduta di Giacomo II e l’ascesa al trono di Guglielmo d’Orange in Inghilterra fecero desistere il re di Francia dalla sua impostazione offensiva. Nel 1689 i paesi occupati furono devastati e fu tentata, peraltro senza successo, una spedizione per far sollevare la cattolica Irlanda a favore del deposto Giacomo II. La mossa poco cauta rese però ancor più facile l’adesione inglese alla grande alleanza già in atto contro la Francia. In breve l’alleanza antifrancese si era ormai ampliata fino a comprendere Inghilterra, Province Unite, Impero e Spagna e i teatri di guerra si estesero in modo corrispondente: oltre che al fronte renano, in Irlanda e sul mare, il conflitto si allargò in breve anche i Paesi Bassi e alla Catalogna. Un ulteriore complicazione del conflitto si ebbe nel 1690, allorché Vittorio Amedeo II di Savoia, per liberarsi dalla tutela militare dei francesi di cui era alleato, passò dalla parte degli avversari dietro la promessa di riottenere Pinerolo e di far ritornare Casale Monferrato al duca di Mantova. I Francesi, pur imponendo subito la loro supremazia militare, non riuscirono però ad ottenere un successo decisivo e la guerra si trascinò lungamente anche su questo fronte. Una ricostruzione delle ultime due guerre di Luigi XIV che tiene ben presenti i legami coi problemi economici e finanziari è contenuta in P. Goubert, Luigi XIV e venti milioni di francesi, Laterza, Bari 1968, pp. 171-239. In generale, si veda anche M. Gori, Guerra e pace in Europa 1648-1763, Leg edizioni, Gorizia 2020, pp. 213-319.
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nell’orbita francese. Il duca di Savoia, infatti, da tempo aveva ripreso nuovamente i contatti con la Francia, la quale aveva finalmente consentito la cessione di Casale e Pinerolo. Il voltafaccia del duca di Savoia rese difficile per Spagna e Impero continuare le operazioni in Italia e si aprì la strada ad un armistizio. Nel settembre ’97, a Ryswick, tra Francia, Inghilterra, Spagna e Olanda, si giunse ad un trattato di pace. In esso la Francia riconosceva a Guglielmo d’Orange la sua posizione di re di Inghilterra, Scozia, e Irlanda e restituiva alla Spagna i territori occupati e quelli ottenuti con la politica di “riunione” dopo Nimega, accettando inoltre che gli Olandesi creassero una barriera militare di garanzia in varie importanti piazzeforti fiamminghe. L’Olanda ottenne inoltre il ritorno alla tariffa doganale, a lei più favorevole, del 1664. La pace con l’Impero venne stipulata sulla base dell’impegno francese a ritornare alla situazione anteriore alle ostilità (conservando tuttavia il possesso di Strasburgo). I conflitti che da tempo opponevano la Francia al duca di Lorena furono appianati restituendo a quest’ultimo il possesso dei suoi territori, ma lasciando alla Francia il controllo strategico dell’importante regione di confine. Con gli ultimissimi anni del secolo e ancor più con l’esordio del successivo, il problema della successione spagnola andò concretizzandosi sempre più e il clima internazionale si fece più difficile. In effetti, fra le tensioni internazionali innescate dalle precedenti pretese di Luigi XIV e quelle connesse alla successione spagnola esisteva una differenza qualitativa. Nel primo caso la Francia puntava sostanzialmente, pur con modalità spesso discutibili, ad obiettivi piuttosto limitati, ossia conquistare regioni in grado di esser fortificate al fine di rendere più difendibile il paese e impadronirsi a tal fine di aree territorialmente abbastanza circoscritte. Quello che si profilava con la spartizione dei domini spagnoli era invece un gioco di dimensioni incomparabilmente più vaste, in grado di alterare gli equilibri geopolitici a livello continentale. Il problema di una possibile egemonia francese in Europa, che a Ryswick era stato in qualche modo rinviato, si poneva ora con un’evidenza ineludibile. I paesi le cui case regnanti avevano legami di parentela più diretti con gli Asburgo di Spagna erano infatti la Francia di Luigi XIV e l’Impero, rappresentato da Leopoldo I.
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Restando irrisolte le trattative sulla possibile successione, Carlo II si trovò al centro di pressioni da parte del partito filoasburgico e di quello filofrancese, che alla fine prevalse. Superando le lunghe esitazioni, il sovrano spagnolo fece testamento a favore di Filippo d’Angiò, figlio dell’erede al trono francese, alla sola condizione che questi, per il futuro, rinunciasse a riunire la corona di Spagna con quella di Francia. Poco dopo, il 1° novembre 1700, Carlo II morì. Il testamento, che trasmetteva all’erede francese i domini spagnoli indivisi, alterava vistosamente l’assetto europeo a favore della Francia e annullava le precedenti aspettative di spartizione, ma, nonostante ciò, Luigi XIV consentì che il nipote salisse sul trono spagnolo col nome di Filippo V. Inghilterra e Olanda, per quanto fortemente contrariate, non erano propense a prendere le armi. La guerra della Lega di Augusta, da poco finita, era stata troppo onerosa e in Inghilterra aveva creato una maggioranza tory contraria a ulteriori avventure belliche. Luigi XIV, tuttavia, mostrò di non comprendere quanto tenue fosse il limite che separava la pace dalla guerra. In breve compì una serie di atti da cui si poteva concludere che si considerava padrone della Spagna, arrivando fino al punto di occupare di sorpresa, in nome della Spagna stessa, le fortezze dei Paesi Bassi che l’Olanda deteneva come barriera di garanzia militare. L’Imperatore, che candidava all’eredità spagnola il figlio minore Carlo, dal canto suo stava già manovrando per creare una propria coalizione e aveva accordato all’elettore del Brandeburgo il titolo di re di Prussia, per avere il suo appoggio militare. Le nuove elezioni inglesi diedero questa volta una maggioranza whig, che consentì l’entrata di Inghilterra e Olanda nella coalizione antifrancese. Anche la Francia aveva imbastito rapidamente un sistema di alleanze. Guadagnò a sé l’elettore di Baviera (che era anche governatore dei Paesi Bassi) e quello di Colonia, nonché Vittorio Amedeo II di Savoia. Il Portogallo, pur non partecipando alle operazioni, si impegnò a chiudere i suoi porti alle navi anglo-olandesi. La guerra cominciò di fatto nel 1701 con l’invasione imperiale del Milanese, anche se la dichiarazione ufficiale giunse l’anno successivo. Complicata da un mutamento di campo di Portogallo e ducato di Savoia, essa si trascinò per oltre un decennio non solo
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su tutti i fronti europei (Spagna, Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Italia e Germania), ma anche nell’Atlantico e nell’America settentrionale, in parte ad opera dei coloni locali e in parte con l’intervento di truppe regolari55. Nonostante la profusione degli sforzi militari, la soluzione del conflitto si verificò soprattutto a causa del mutare delle condizioni politiche generali. Nel corso della guerra, infatti, l’Inghilterra aveva ormai conseguito l’obiettivo di controllare i traffici commerciali atlantici e mediterranei e le fortune politiche del duca di Marlborough. A rendere ancor più opportuna per tutti la conclusione del conflitto giunse poi, nel 1711, la morte dell’imperatore Giuseppe I (succeduto al padre nel 1705), che lasciava al fratello Carlo, già designato come re di Spagna, il titolo imperiale, delineando un’egemonia asburgica sul continente altrettanto indesiderabile di quella francese. Nel 1712 si aprì a Utrecht una conferenza di pace conclusa l’anno successivo con un trattato che però non fu sottoscritto dall’Impero. Un secondo trattato, stipulato nel 1714 a Rastadt, ricompose tutti i conflitti rimanenti. 55 Fino al 1708 i risultati della guerra furono nel complesso sfavorevoli alla Francia, anche a causa di sviluppi politici che si affiancarono a quelli militari. Nel 1703, infatti, a coalizione antifrancese riuscì a trarre dalla propria parte il Portogallo e il ducato di Savoia, il primo allettato da alcune promesse territoriali e concessioni commerciali (trattato di Methuen con l’Inghilterra), il secondo spinto dall’arroganza francese e dalle offerte imperiali. L’anno successivo, i massimi generali della coalizione, l’inglese duca di Marlborough e l’imperiale Eugenio di Savoia, attaccarono vittoriosamente i franco-bavaresi a Blenheim: la Francia perse così la possibilità di operare in Germania meridionale e minacciare Vienna. Quasi contemporaneamente, gli inglesi conquistarono Gibilterra, che garantiva l’accesso al Mediterraneo, e l’arciduca Carlo poté sbarcare in Catalogna, proclamandosi re di Spagna col nome di Carlo III: fu un successo importante ma non decisivo, perché molti spagnoli, specie in Castiglia, considerarono lui un invasore e Filippo V il campione della causa nazionale. Il protrarsi della guerra ridusse la Francia allo stremo sul piano militare e finanziario. Inutili trattative di pace furono aperte nel 1709-10, ma le condizioni troppo dure che si cercò di imporre provocarono in Francia un sussulto d’orgoglio, il quale facilitò una ripresa militare. La grande battaglia di Malplaquet (1709) fu vinta di misura dagli alleati, ma le ingenti perdite subite impedirono l’invasione della Francia e anche successivi tentativi di Marlborough i questo senso non ebbero particolare successo; anche in Spagna, a Brihuega e Villaviciosa (1710), si registrarono importanti vittorie franco-spagnole.
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Le condizioni fondamentali stabilite dai trattati di Utrecht e Rastadt prevedevano una spartizione dei domini spagnoli. Filippo V manteneva il trono di Spagna e le sue colonie, rinunciando a ogni diritto sul trono francese. L’imperatore otteneva i Paesi Bassi, il Milanese, Napoli e la Sardegna. L’Inghilterra riceveva dalla Francia la baia di Hudson, l’Acadia e Terranova in America settentrionale, nonché l’isola di San Cristoforo nelle Antille. Essa fece anche revocare i privilegi commerciali a suo tempo concessi dalla Spagna ai Francesi e riservò a una compagnia privilegiata inglese l’asiento relativo al monopolio del trasporto e della vendita degli schiavi neri in America. Ottenne inoltre il “vascello di permissione”, cioè l’autorizzazione a una nave inglese di 500 tonnellate di commerciare nell’impero spagnolo (aprendovi così una breccia che facilitava il contrabbando). Infine, gli Inglesi mantenevano Gibilterra e Minorca come basi navali, rinunciando a concessioni territoriali in Europa. Alla Prussia furono riconosciuti aggiustamenti territoriali e il titolo regio. Ai duchi di Savoia, analogamente, furono attribuiti titolo reale, ingrandimenti territoriali in Italia settentrionale e il possesso della Sicilia, di cui gli Inglesi si erano impadroniti durante la guerra56. 56 La lunga guerra ebbe tuttavia una serie di strascichi. Alla base dei nuovi problemi diplomatici stava ancora la Spagna, dove Filippo V consolidò il suo potere e aumentò il carico fiscale, rafforzando l’esercito e assumendo un contegno sempre più indipendente dalla Francia. Nel 1714 ci fu una svolta nella politica estera spagnola, quando, morta la regina, il re (su consiglio del cardinale italiano Alberoni) si risposò con Elisabetta Farnese, nipote del duca di Parma e del granduca di Toscana. Le casate dei Farnese e dei Medici erano entrate in urto con l’Impero durante la guerra e, dato che entrambe erano in via di estinzione, Filippo V fu considerato il futuro punto di riferimento per gli umori antimperiali della penisola. Approfittando dell’impegno asburgico in una nuova guerra contro i Turchi, una squadra navale spagnola si impadronì della Sardegna, strappandola agli Austriaci nell’agosto 1717. L’anno successivo fu la volta della Sicilia, dove sbarcò un esercito col compito di conquistare l’isola. La mossa di Filippo V giungeva nello stesso anno in cui la Gran Bretagna rovesciava la sua tradizionale politica antifrancese, stringendo un’alleanza con Francia e Olanda. Anche l’Impero vi si associò, dando vita a una coalizione a quattro contro la Spagna (2 agosto 1718). Le vicende belliche ebbero una svolta allorché la flotta inglese distrusse quella spagnola a Capo Passero e la Francia intervenne apertamente contro la Spagna. Furono allora intavolati colloqui che portarono al Trattato dell’Aia (1720), importante anche per l’assetto politico italiano: la Spagna rinunciava
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La conclusione del conflitto metteva fine alla lunga epoca delle relazioni interstatali in cui una sola potenza, prima la Spagna e poi la Francia, sembrò poter esser arbitra della politica europea. L’idea di un equilibrio fra potenze, occasionalmente avanzata già nei decenni passati, diventava ora un principio riconosciuto. Come è stato scritto, l’esito della guerra di Successione spagnola configurò una situazione destinata a rimanere in sostanza inalterata nel corso del secolo. Da un lato, l’Inghilterra vedeva rafforzata la sua posizione coloniale e il dominio dei mari, a spese della Francia e della Spagna; dall’altro, le mire egemoniche francesi sull’Europa continentale venivano infrante e si creava una situazione di tendenziale equilibrio politico-diplomatico tra le potenze. Ma soprattutto, assimilando i rapporti internazionali a un sistema meccanico di contrappesi, la dottrina dell’equilibrio “naturalizzava” la guerra, togliendole il suo tradizionale carattere di eccezionalità.57
Nel periodo successivo le guerre dunque non mancarono, ma assunsero un carattere diverso. Scomparvero i conflitti prolungati e dilanianti, mentre le operazioni militari, più che alla distruzione totale dell’avversario, furono finalizzate ad ottenere posizioni di vantaggio da poter spendere utilmente nei successivi negoziati.
ai possedimenti italiani a favore dell’Impero; l’Impero riconosceva Filippo V come re di Spagna; i Savoia scambiarono la Sicilia con la Sardegna; Elisabetta Farnese, infine, ottenne che il figlio don Carlos si insediasse a Parma e in Toscana all’estinzione delle rispettive case regnanti. 57 C. Costantini, Le monarchie assolute, UTET, Torino 1984, p. 453.
3. LE ORIGINI DEL CAPITALISMO INDUSTRIALE
3.1 Origini e caratteri della rivoluzione agricola Nonostante la crescente penetrazione di elementi capitalistici sotto forma di una maggior presenza dei rapporti di mercato e dell’accumulazione commerciale e finanziaria, il quadro economico di fondo dei secoli XVI e XVII era quello di un’economia tendenzialmente statica, incapace di mantenere un processo di crescita prolungato senza perdere i propri caratteri propulsivi. Sotto questo profilo, l’epoca successiva alla metà del Settecento fece registrare un netto contrasto, poiché in essa prese forma un processo di sviluppo autosostenuto che si irradiò in tutta Europa partendo dalla Gran Bretagna per diffondersi dapprima alla Francia e ad altre aree minori, toccando successivamente alla Germania per poi raggiungere alla fine le aree periferiche del mondo mediterraneo, dell’Europa settentrionale e di quella orientale1. Un indice significativo dell’avvio di un nuovo meccanismo di crescita è l’aumento della popolazione europea. Quest’ultima, che nel 1700 era di 100-120 milioni di abitanti, era passata nel 1750 a 120-140. Cinquant’anni più tardi essa era giunta a 187 milioni e più avanti, nel 1850 e nel 1900, rispettivamente a 266 e 401 milioni; il suo tasso d’incremento, possiamo aggiungere, aumentava a un ritmo crescente, con una dinamica che sopravanzava quella del resto del mondo2. L’agricoltura europea del Settecento, sebbene mutasse con lentezza e vedesse coinvolte nel cambiamento solo regioni ancora 1 2
G. Garrier, La crescita economica, in P. Léon, Storia economica e sociale del mondo, cit., vol. 4.1, pp. 118-124. A. Armengaud. La popolazione (1700-1914) in C.M. Cipolla (a cura di), Storia, cit., vol. III, pp. 22-3. Sul confronto fra il regime demografico preindustriale e quello industriale si veda M. Livi Bacci, La popolazione nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, pp. 127-225.
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circoscritte, si dimostrò in grado di sostenere una sensibile espansione della popolazione. Ciò sia nel senso più ovvio di alimentare una popolazione in durevole aumento, sia in quello di ridurre le punte di carestia, le quali, in un quadro di incremento demografico mediamente molto basso, tendevano spesso a far regredire gli incerti progressi conseguiti. Il XVIII secolo registrò infatti una graduale metamorfosi dei fattori fondamentali che avevano fino ad allora governato l’andamento demografico; particolarmente evidente fu l’attenuarsi delle ondate di carestie ed epidemie – soprattutto di peste – a volte intrecciate tra loro, che erano state tipiche dei secoli precedenti. Agli inizi, l’interazione tra incremento demografico e aumento della produzione agricola ebbe molti punti di contatto con altri fenomeni analoghi registratisi nell’età preindustriale. I fattori che giocarono il ruolo più rilevante nel sostenere con regolarità un maggior numero di persone furono di vario ordine: per un verso operarono la messa a coltura di nuove terre, la lenta diffusione di coltivazioni come il mais e la patata, le nuove rotazioni agricole che, scaglionando le colture nel corso dell’anno, rendevano meno drammatici gli intervalli tra un raccolto e l’altro o i fallimenti di singoli raccolti; su altri versanti, agirono la diffusione di redditi integrativi derivanti dall’industria rurale, oppure il miglioramento dei trasporti e l’abbattimento di barriere naturali o artificiali al commercio, che permisero una miglior circolazione da un luogo all’altro delle derrate, smussando le crisi alimentari più drastiche3. Alla lunga, tuttavia, per sostenere tale processo non poteva non intervenire una trasformazione radicale delle tecniche e dei rapporti sociali nell’ambito dell’agricoltura. Paul Bairoch identifica la rivoluzione agricola attraverso l’azione concomitante di cinque ordini di innovazioni: 1) scomparsa del maggese e rotazione continua delle colture; 2) introduzione, in parte collegata a ciò, di nuove colture (rape, foraggere varie, mais, patata); 3) miglioramento degli attrezzi (aratro in ferro, seminatrice, falce, ferratura dei cavalli); 4) selezione delle sementi e degli animali da allevamento; 5) sostituzione dei
3
M. Garden, L’evoluzione demografica, in P. Leon (a cura di), op. cit., vol 3.1, p. 179.
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buoi col cavallo ai fini della trazione4. A questo primo insieme di innovazioni si aggiungeranno, molti decenni più tardi, la meccanizzazione e l’uso di concimi chimici5. Se le lontane origini della rivoluzione agricola inglese si collocano all’inizio del Settecento o anche prima, fu nella seconda metà del secolo che si assistette a una nuova e decisiva svolta, che coinvolse tecniche e rapporti sociali. Se i raccolti abbondanti anteriori alla metà del secolo avevano determinato bassi prezzi e favorito i consumatori, quando più tardi i prezzi aumentarono, anche sotto la spinta dell’incremento demografico, furono favoriti i produttori, che videro aumentati profitti e rendite; nelle nuove condizioni gli agricoltori più progrediti ebbero lo stimolo a sfruttare più intensamente le loro proprietà. AI fine di investire in migliorie agricole, tuttavia, era necessario che le terre fossero svincolate dagli usi comunitari. Si intensificò di conseguenza il fenomeno delle recinzioni imposte dal Parlamento, che partivano spesso su iniziativa di membri della nobiltà e i cui oneri consistenti (spese legali, di recinzione ecc.), svantaggiavano i piccoli proprietari e, a maggior ragione, gli strati più deboli della popolazione agricola, il cui sostentamento dipendeva dalle risorse delle terre comuni. In Gran Bretagna si andò così definendo un nuovo tipo di agricoltura, caratterizzata da aziende più ampie, dall’estensione delle superfici coltivate a spese di quelle prima incolte, da una mentalità imprenditoriale volta a cogliere gli stimoli derivanti dal mercato. Fu tale processo che fece entrare in uso le migliorie sopra ricordate. La trasformazione agricola esercitò varie funzioni di supporto nei confronti alla rivoluzione industriale: le si riconosce infatti ge4
5
P. Bairoch, Agricoltura e rivoluzione industriale (1700-1914), in Cipolla (a cura di), op. cit., vol. III, pp. 414-23. Le date iniziali della rivoluzione agricola per i vari paesi europei sono così riepilogate da Bairoch: Inghilterra 1690-1700; Francia 1750-60; Svizzera 1780-90; Germania e Danimarca 1790-1800; Austria, Italia e Svezia 1820-30; Russia e Spagna 1860-70. Una sintesi, per quanto a tratti impressionistica, sulle diverse esperienze di rivoluzione agricola in Europa, è in M. Garden e altri, Le agricolture europee, in P. Léon (a cura di), op. cit., vol. 3.1, pp. 199-270. Una panoramica delle tecniche agricole e della loro evoluzione è in F. Dovring, La trasformazione dell’agricoltura europea, in H.J. Habakkuk, M. Postan, (a cura di) Storia economica Cambridge, Einaudi, Torino 1974, vol. 6.2, pp. 653-730.
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neralmente di aver finanziato quest’ultima rendendo disponibili capitali, sostenendo anche un cospicuo onere fiscale durante le guerre napoleoniche, e di aver provveduto – se non totalmente, per lo meno in buona parte – alle necessità alimentari di una popolazione rapidamente crescente, evitando così massicce importazioni di prodotti agricoli che avrebbero disperso all’estero il potere d’acquisto necessario ad allargare il mercato dell’industria nascente. Sulla scia di P. Bairoch, inoltre, val la pena di segnalare che il moltiplicarsi delle iniziative in campo agricolo fece sentire la propria influenza non solo sulla domanda di beni di consumo, ma anche su quella di beni strumentali; le stime dello storico belga, infatti, portano a ritenere che l’insieme dei mutamenti relativi agli attrezzi, ai trasporti e alla ferratura dei cavalli richiesti dall’evoluzione dell’agricoltura possa spiegare una quota rilevante dell’incremento della produzione siderurgica tra il 1720 e il 17806. Le vicende di lungo periodo del settore agricolo britannico, ad ogni modo, furono tutt’altro che lineari. Tra un secolo e l’altro, infatti, le vicissitudini legate alle guerre con la Francia determinarono dapprima un’espansione anomala degli investimenti agricoli7 a cui seguì però uno shock derivato dalla brusca caduta dei prezzi. Questi livelli di prezzi anormalmente alti erano destinati a non sopravvivere al periodo immediatamente successivo alle guerre napoleoniche, rendendo difficile il ritorno a condizioni di normalità e coagulando anzi le forze sociali gravitanti sulla terra al fine di difendere attraverso la legislazione protezionistica (corn laws) il mantenimento dello status quo. La legislazione protezionistica sui grani alla lunga entrava tuttavia in conflitto con le esigenze del mondo industriale in crescente 6 7
P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, Torino, Einaudi 1967, pp. 85-9 e pp. 268-71. In relazione alla crescita dei prezzi, nel paese si manifestò un grande interesse per l’investimento terriero e, nonostante i tassi d’interesse fossero più elevati rispetto al periodo anteriore, le recinzioni ripresero vigorosamente. I provvedimenti imposti con un atto parlamentare, a cui peraltro vanno aggiunte le recinzioni realizzate tramite accordi privati, furono 2000 contro le 900 degli anni ’60-’70. Il movimento, per lo meno nella maggioranza dei casi, servì ad incorporare in modo accelerato i nuovi metodi produttivi; gli investimenti sulla terra si accrebbero e con essi i redditi dei proprietari e di fittavoli. J.D. Chambers, G.E. Mingay, The agricoltural revolution, BT Batsford ltd, London 1970, pp. 110-12.
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sviluppo, che vedeva in essa la causa di un aggravio del costo del lavoro e – privando i paesi esteri più arretrati dei proventi delle importazioni agricole britanniche – di una contrazione degli sbocchi commerciali. Il dibattito si trascinò a lungo, finché alla fine degli anni Trenta l’agitazione entrò nella fase decisiva con la formazione della Anti-Corn Laws Association di Cobden. Il governo stesso, d’altra parte, nel ’42 reintrodusse l’imposta sul reddito, rendendo meno necessari i dazi come fonte d’entrata. Fu in questo clima, nel quale la contrapposizione frontale si mostrava sempre meno sostenibile e nel quale la revisione tariffaria stava ormai progressivamente entrando nell’ottica del governo, che si inserì lo stimolo decisivo dato dai cattivi raccolti e dalla carestia in Irlanda tra il ’45 e il ’46, i quali portarono ad abolire di fatto la legislazione sui grani e poco dopo, in rapida sequenza, molti altri residui del vecchio regime di protezione. Lo sviluppo dell’industria, in altre parole, aveva provocato risposte di politica commerciale adeguate alle proprie esigenze. 3.2 La diffusione della rivoluzione agricola Tra i grandi paesi continentali la Francia fu la prima a seguire le orme della Gran Bretagna. Anche se la struttura sociale era nel complesso più arretrata, in Francia esistevano infatti poli di sviluppo agricolo8 e movimenti agronomici in grado di poter fornire degli stimoli all’economia rurale. Un iniziale impulso di crescita poté essere registrato nel ventennio 1760-80, anche se esso fu meno prolungato e intenso di quello sperimentato oltremanica e si arrestò nel decennio precedente la Rivoluzione9. Negli anni della Rivoluzione vi fu effettivamente una redistribuzione delle terre della chiesa e della nobiltà – anche se quest’ultima riuscì a recuperarne una parte – ma tale spostamento nell’assetto della proprietà rimase in buona parte nell’ambito dell’economia contadina e non si accompagnò un sostanziale mutamento nei rapporti di affittanza; essi rimasero nel complesso prevalentemente 8 Cfr. supra, § 1.1 9 Le periodizzazioni richiamate qui ed oltre sono tratte da P. Bairoch, Rivoluzione industriale e sottosviluppo, cit., pp. 314-19.
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mezzadrili e non si ebbe dunque un conseguente miglioramento delle tecniche10. Anche durante l’età napoleonica, nonostante lo stato fosse intervenuto con incentivi a singole produzioni, nell’insieme l’agricoltura fece segnare una carenza di braccia, strumenti e cavalli che rallentarono lo sviluppo. Una ripresa nella crescita delle disponibilità alimentari in rapporto alla popolazione sopravvenne dopo il 1820 e continuò nei decenni successivi andando verso la metà del secolo, quando cominciò ad essere introdotta la nuova generazione di concimi e di attrezzature agricole meccanizzate. La diffusione di tali migliorie avvenne con una certa lentezza, ma nel frattempo l’agricoltura cominciò sempre più a beneficiare degli sviluppi che si erano determinati nelle altre sfere dell’economia, ossia canali, ferrovie e nascita di nuovi centri industriali, tutti fattori che allargarono gli sbocchi e che accrebbero la prosperità del settore. In questo stadio, come è stato detto, essa “fu aiutata più da mutamenti prodottisi in altri settori dell’economia che non da mutamenti prodottisi nello stesso settore agricolo”11. Con un certo ritardo rispetto a Gran Bretagna e Francia, i nuovi metodi di coltivazione si affermarono anche in Germania: eliminazione del maggese, nuove colture e rotazioni, divisione delle terre comuni, maggior integrazione tra agricoltura e allevamento – ossia le stesse innovazioni che avevano contraddistinto altrove le fasi iniziali della rivoluzione agricola – si diffusero gradualmente nella prima metà del secolo. Il problema dell’agricoltura nel mondo tedesco non era tuttavia solo quello del ritardo nell’introduzione 10 “Le trasformazioni, imposte dalla rivolta contadina, confermarono in campo agricolo la paysannerie nel possesso dei suoi fondi e la liberarono dai suoi obblighi nei confronti dei signori. Una certa quantità di terra in più si rese disponibile all’acquisto da parte dei contadini forniti dei mezzi, anche se nulla fu fatto per migliorare la condizione di coloro che di terra ne avevano poca, o non ne avevano per nulla. Nonostante fossero approvate delle leggi che consentivano la riassegnazione dei campi aperti e la spartizione delle terre comuni del villaggio, l’abolizione dei vecchi sistemi di coltivazione non era generalmente auspicata dai contadini […]. Allo stato delle cose, nonostante l’abolizione dei rapporti feudali, ben poco d’altro era cambiato nel settore agrario. I contadini continuarono a coltivare come prima la terra della quale ora detenevano saldamente la proprietà giuridica”. T. Kemp, L’industrializzazione in Europa nell’800, Il Mulino, Bologna 1975, pp. 88-9. 11 A.S. Milward, S.B. Saul, Storia economica dell’Europa continentale 17801870, Il Mulino, Bologna 1977, p. 433.
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delle innovazioni tecniche, ma anche e soprattutto quello del cambiamento dei rapporti sociali. Diversamente da Gran Bretagna e Francia, in Germania le sopravvivenze della servitù erano abbastanza radicate, in particolare nelle regioni orientali. Mentre infatti il rapporto tra signori e contadini ad Occidente era spesso simile a quello della Francia prerivoluzionaria, dove il contadino era in sostanza un affittuario pur gravato da una variegata serie di oneri feudali, ad Est il peso della condizione servile era notevolmente più gravoso12. Gli editti entrati in vigore in Prussia dopo che le pesanti sconfitte ad opera di Napoleone avevano dimostrato i limiti del sistema sociale di quel paese, assicurarono la libera scelta dell’occupazione, ma riuscirono solo in modo molto parziale a trasformare il contadino in proprietario terriero. L’emancipazione della proprietà contadina fu vincolata alla cessione al signore di una parte delle terre come indennizzo e per giunta limitata allo strato superiore dei contadini; gli altri, pur liberi, rimasero privi di garanzie e vincolati a prestazioni. Ulteriori provvedimenti che facilitarono la definitiva liberazione dei contadini dagli oneri residui furono presi più tardi, in particolare dopo il ’48. Nonostante l’ingresso nella fase più avanzata del miglioramento delle tecniche non fosse stato particolarmente veloce, l’effetto congiunto delle prime innovazioni e del mutamento dei rapporti sociali assicurò all’agricoltura tedesca un aumento della produttività maggiore di quello, pur sostenuto, della popolazione13. L’ultima notevole esperienza di rivoluzione agricola europea fu, ad oltre un secolo dagli esordi della prima in Gran Bretagna, quella russa. Tra il Settecento e la prima metà dell’Ottocento, mentre la società rurale europea si stava lentamente risvegliando, in Russia vigeva ancora un sistema servile assai spinto e arbitrario, a volte prossimo allo schiavismo. I nobili, dal canto loro, avevano progressivamente lasciato il servizio dello stato a cui avrebbe voluto vincolarli Pietro il Grande per dedicarsi alle proprie tenute, senza tuttavia disporre di adeguata volontà e risorse per renderle più produttive. Pur godendo di esorbitanti privilegi, i proprietari russi in linea di massima non svolgevano una funzione imprenditoriale. La coltiva12 Cfr. supra, § 1.1 13 Sul processo nel suo insieme si veda A.S. Milward, S.B. Saul, op. cit., pp. 473-484.
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zione delle terre, controllate direttamente o tramite amministratori, era effettuata dalle comunità contadine locali, che procedevano secondo un sistema consuetudinario sia sulle proprie terre che su quelle del signore. La tecnica di coltivazione era basata su attrezzi rozzi e pesanti e nella maggior parte dei casi – soprattutto nella Russia centrale – era ancora ferma alla rotazione triennale col maggese, mentre in altre vaste zone prevalevano colture itineranti, su campi bruciati o condotte secondo altre rotazioni. Mancando le piante foraggere, l’agricoltura non era affiancata da una prospera attività di allevamento e rimaneva quindi vicina al puro livello di sussistenza. L’unica attività collaterale a cui si dedicavano i nobili era una forma rudimentale di manifattura su base servile, che produceva prevalentemente tessuti per l’esercito e la marina oppure distillava vodka per i mercati urbani14. L’anacronismo dei metodi di coltivazione era diventato evidente fin dal tardo Settecento, ma lo sforzo di innovare era rimasto confinato a episodi sporadici e l’azione dello stato era stata frenata dal timore di sconvolgere gli equilibri sociali, temendo sia l’instabilità politica derivata un eccessivo indebolimento della nobiltà, sia la possibilità che provvedimenti incauti potessero scatenare rivolte contadine. In ossequio alla tradizione che aveva legato occasionali interventi statali nell’economia alle necessità di carattere militare, la svolta decisiva avvenne all’indomani della sconfitta nella guerra di Crimea15 che aveva mostrato l’arretratezza delle dotazioni militari e logistiche russe rispetto a quelle delle potenze occidentali16. L’emancipazione dei servi previde un meccanismo in base al quale lo stato anticipava dai 3/4 ai 4/5 del valore complessivo del riscatto, somma che sarebbe poi stata recuperata dai contadini rateizzandola nell’arco 49 anni17. Nel complesso, tuttavia, il provvedimento non consentì la creazione di una classe contadina economicamente florida, giacché nel concreto l’assegnazione delle terre ai contadini affrancati comportò una riduzione rispetto alle terre pre14 Si veda il contributo di F.X. Coquin in M. Garden e altri, cit., pp. 241-59. 15 Cfr. oltre, § 4.11 16 A. Gerschenkron, Politica agraria e industrializzazione in Russia, in Habakkuk, Postan (a cura di) op. cit., vol. 6.2, pp. 768-9 e 784-5. 17 Ivi, pp. 798-9.
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cedentemente coltivate e riscatti troppo onerosi18. Il governo, inoltre, continuò a limitare la proprietà individuale mantenendo in vita la comune contadina, vista come garanzia della riscossione delle imposte e del mantenimento di condizioni egualitarie fra i contadini stessi, dalla quale era difficile emanciparsi19. Il nesso fra riforma agraria e industrializzazione rimaneva dunque ancora tenue e sarebbe diventato più stretto solo nell’arco di due o tre decenni. 3.3 Sviluppo autosostenuto ed evoluzione tecnologica L’entrata delle economie europee in un percorso di sviluppo autosostenuto20 poggia, come si è visto, su una trasformazione preliminare del retroterra agricolo, sulla quale si innesta in un secondo momento l’evoluzione del mondo dell’industria e dei servizi, in particolare dei trasporti21. Ripercorrere l’articolazione di tale processo è importante non solo per ricostruire le tappe fondamentali del sentiero di mutamento della tecnologia, ma anche per comprendere in quale fase dell’avanzamento tecnologico di lungo periodo si inseriscano i singoli paesi al momento del decollo e quali configurazioni particolari del sistema economico ciò comporti. Tutto questo naturalmente a partire dalla Gran Bretagna, che rappresenta la culla dell’innovazione tecnologica sette-ottocentesca al punto tale che, disegnando il percorso evolutivo della tecnologia, possono essere fissati anche alcuni momenti fondamentali della trasformazione economica inglese. Storicamente, l’avvio della trasformazione strutturale delle economie europee a partire dalla seconda metà del Settecento si valse di tre sequenze di innovazioni tecnologiche in sfere economiche 18 Ivi, pp. 802-4. 19 Ivi, pp. 809-13. 20 “È forse più importante, nel definire la rivoluzione industriale, sottolineare la natura durevole della crescita economica iniziata in quel periodo piuttosto che la sua rapidità [..] A differenza di periodi anteriori […] la crescita da quel momento in poi fu continua e rese possibili periodi di accelerazione senza uguali […] Con la rivoluzione industriale per la prima volta una crescita netta del reddito pro capite si verificò nonostante un brusco incremento demografico”. P. Hudson, La rivoluzione industriale, Il Mulino, Bologna 1995, p. 15. 21 Su questo aspetto ha insistito in particolare Hartwell, in R.M. Hartwell, La rivoluzione industriale inglese, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 188-208.
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distinte: il tessile, la siderurgia e la generazione di un flusso energetico continuo. Mentre nel primo caso si trattava della produzione di beni di consumo, i progressi della siderurgia si basarono invece sull’utilizzazione delle risorse minerarie interne al fine di dar luogo a un prodotto utilizzato essenzialmente come bene intermedio; né le differenze si fermavano qui, giacché l’organizzazione della siderurgia ebbe fin dall’inizio caratteri più marcatamente capitalistici, mentre quella dell’industria cotoniera – e più in generale del tessile – mantennero una lunga fase di coesistenza con lo sfondo dell’industria domestica. Se le innovazioni fin qui ricordate rimanevano interne a singoli ambiti settoriali, la macchina a vapore, attraverso i perfezionamenti apportati da Watt, ebbe un impiego trasversale nelle miniere, negli altiforni e praticamente in tutti i rami manifatturieri. La fase della lavorazione da cui partirono le innovazioni decisive nella produzione cotoniera fu la filatura. Eseguita a mano, essa comportava l’impiego di diversi filatori per ogni tessitore; spesso era svolta come attività sussidiaria dagli agricoltori, cosicché risentiva dei ritmi stagionali del lavoro dei campi. Nei decenni centrali del secolo cominciò ad aumentare la domanda di filato, per il maggiore potere d’acquisto derivato dai bassi prezzi agricoli e per alcune innovazioni nella tessitura, in particolare la navetta volante, che accrebbero la richiesta di materia prima22. Questo sollecitò gli sforzi di meccanizzazione della filatura, dando vita a macchine come la jenny e il filatoio di Arkwright. Nel 1779, ad opera di Samuel Crompton, venne brevettata la mule, una macchina che riuniva il meglio dei dispositivi precedenti e permetteva di produrre col cotone sia la trama che l’ordito del tessuto, con un sensibile aumento di qualità. Queste innovazioni trasformarono in breve tutto il sistema della filatura del cotone e negli ultimi decenni del secolo la produzione aumentò vertiginosamente. Le prime macchine si adattavano facilmente alla lavorazione domestica. Man mano che le macchine si facevano più complesse, tuttavia, la filatura non solo venne sem22 La navetta era il dispositivo necessario a passare il filo della trama (disposto trasversalmente) attraverso quello dell’ordito (disposto longitudinalmente). Finché il tessitore doveva passare la navetta da una mano all’altra, era costretto a regolare la dimensione della stoffa sull’apertura delle sue braccia. La navetta volante, consentendo di lanciare in modo comodo la navetta da una parte all’altra attraverso un meccanismo munito di guide, permise di compiere l’operazione su una stoffa assai più larga e di velocizzare l’esecuzione del lavoro.
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pre più concentrata in stabilimenti, ma i tessitori potevano contare su un’offerta ininterrotta di filato, dedicandosi esclusivamente a questo mestiere e quindi abbandonando l’attività agricola. Il bisogno rapidamente crescente di macchine con struttura metallica si rifletté, d’altro canto, sulla richiesta di ferro e quindi sullo sviluppo dell’industria siderurgica. La diminuzione del prezzo dei filati innescò a sua volta un forte aumento della domanda sul mercato interno ed esterno, cosicché i cotonati inglesi presto vennero smerciati in tutto il mondo sfruttando i canali commerciali che la Gran Bretagna aveva da tempo aperto. Nello stesso tempo l’abbondanza di filato determinò l’esigenza di macchinari capaci di aumentare il ritmo della tessitura. Il telaio meccanico fu brevettato nel 1785, ma la sua entrata in uso fu piuttosto lenta e accelerò più decisamente solo dopo il 1830. Pur essendo il tessile uno dei settori guida della rivoluzione industriale, la meccanizzazione nei suoi diversi rami procedette con maggior lentezza di quanto fosse avvenuto nel caso del cotone. Nel caso della lana, che prima dell’avvento del cotone era la fibra tessile per eccellenza, la meccanizzazione fu completata dopo la metà del secolo. Mentre nel caso del tessile occorreva diminuire la quantità di lavoro necessaria al trattamento della materia prima, in quello dell’industria siderurgica, invece, il problema fondamentale era di introdurre nella lavorazione dei minerali inglesi materie prime meno costose. Da tempo si era cercato di usare il carbone minerale nella fusione del ferro greggio, ma fino a Settecento inoltrato la parte di gran lunga preponderante della produzione avveniva con l’uso del carbone di legna, un combustibile costoso e difficile da reperire su larga scala. Nel 1709 Abram Darby mise a punto l’utilizzazione del coke (un distillato del carbone minerale) nella fusione, ma il processo non consentiva di produrre ferro di qualità elevata; l’utilizzazione di questo tipo di ferro era limitata a una gamma ristretta di prodotti, cosa che ne rallentava la diffusione. Soltanto nell’ultimo quarto del Settecento il numero di altiforni a coke giunse a superare quelli a legna. La situazione di stallo si sbloccò allorché fu brevettato il puddellaggio, nel 1784, un processo che raffinava il ferro fuso facendo agitare la ghisa (il ferro grezzo, ad elevato tenore di carbonio) per togliere le scorie carboniose attraverso il contatto con l’aria. A questo procedimento ne fu poi abbinato un altro, il quale, attraverso laminatoi rotanti scanalati, dava facilmente al ferro la forma di barra.
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Da quel momento la produzione di ferro fece registrare un’accelerazione consistente e la Gran Bretagna ridusse sensibilmente la dipendenza dall’estero; dopo il primo decennio dell’Ottocento le esportazioni di ferro superarono le importazioni. Le innovazioni nella siderurgia resero disponibile il ferro a basso prezzo per l’utilizzazione nella meccanica, nell’edilizia, nelle opere di urbanizzazione. Un vero e proprio balzo in avanti del settore, tuttavia, si registrò soltanto molto più avanti, con l’era delle ferrovie. Il vapore veniva utilizzato dalla fine del Seicento, soprattutto per azionare le pompe necessarie a svuotare le miniere di carbone dall’acqua presente nelle falde sotterranee. La tecnologia del vapore trovò il proprio motivo conduttore nella necessità di accrescere l’efficienza energetica, ossia la quantità di lavoro compiuta per unità di energia assorbita23. La prima e più rudimentale soluzione fu quella della macchina di Savery, che attraverso l’immissione di vapore in un cilindro e successivo raffreddamento provocava una depressione in grado di aspirare l’acqua; in quello stesso volger d’anni fu creata la macchina di Newcomen, che funzionava con un principio analogo, ma collegando, attraverso un pistone e un bilanciere, il cilindro a una pompa aspirante. Il tipo di motore in questione aveva però un rendimento assai basso, soprattutto perché per far condensare il vapore si raffreddava tutto il cilindro, con grande dispersione di energia termica. La macchina a vapore ebbe un’evoluzione decisiva a opera di James Watt. Egli comprese che per aumentarne il rendimento era necessario far condensare il vapore in un recipiente separato e nel 1776 riuscì a costruire le prime macchine di nuovo tipo. Oltre a ciò, Watt ebbe l’idea di aumentare la potenza facendo agire alternativamente il vapore su entrambe le facce del pistone e individuò il meccanismo che consentiva di trasformare il movimento lineare del pistone in un movimento rotatorio24. L’insieme di questi espedienti tecnici rese il motore a vapore molto più pratico ed efficiente, con un grande ampliamento delle sue applicazioni. Anche se in seguito si ebbero ulteriori perfezionamenti, già dagli ultimi decenni del Settecento si poté disporre di un tipo di propulsione che consentiva di attingere alle grandi riserve carbonifere inglesi25. 23 D.S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 1978, p. 135. 24 Ivi, pp. 133-36. 25 Date le cattive condizioni del sistema stradale, fino alla metà del XVIII secolo i trasporti interni furono uno dei punti deboli dell’economia inglese. L’alto
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3.4 La maturazione della tecnologia Gli ambiti di innovazione che fin qui abbiamo sommariamente messo a fuoco caratterizzarono l’esordio della trasformazione industriale. Quando il movimento era ormai giunto ad una fase relativamente matura, nelle quale le potenzialità delle innovazioni iniziali si erano in larga parte esplicate, si assistette ad un nuovo impulso di innovazione nato sulla base del primo. Ad esso vanno attribuite l’applicazione del vapore al sistema dei trasporti e il completamento della rivoluzione nelle tecniche siderurgiche attraverso i nuovi metodi per la produzione di acciaio a basso prezzo. L’origine della ferrovia risiede nella confluenza di due sviluppi separati: il trasporto su rotaia (usato già da un certo tempo per spostare carichi pesanti lungo percorsi relativamente brevi) e l’uso del vapore nella locomozione sulle strade ordinarie, che fu tentato senza eccessivo successo nel periodo a cavallo tra Sette e Ottocento26. Quando si pensò alla trazione a vapore su rotaia, il meccanismo che azionava le locomotive, modificato col sistema dell’alta pressione e dell’espansione multipla e montato su macchine adattate ai binari, si rivelò capace di un rapidissimo aumento delle prestazioni27. Il maggior artefice della nuova combinazione fu George Stephenson e, dopo che la ferrovia fu sperimentata negli anni precedenti, nel 1830 fu inaugurata la prima linea per passeggeri, sul percorso Liverpool-Manchester. A essa seguirono altri brevi tratti, che unirono le grandi città – tra cui naturalmente anche Londra – ai costo dei trasporti incideva negativamente sui rapporti commerciali e, in definitiva, restringeva le dimensioni del mercato interno. Nella seconda metà del secolo si cominciarono però a costruire strade a pedaggio, che permisero un miglior livello di manutenzione delle arterie di maggiore traffico. Il trasporto del carbone – usato come combustibile da riscaldamento nelle maggiori concentrazioni urbane, oltre che nella siderurgia e nelle attività manifatturiere – rese infine necessaria la costruzione di una rete di canali navigabili. I canali infittirono il sistema delle comunicazioni più di quanto potrebbe sembrare considerando il loro chilometraggio; un breve tratto di canale, infatti, poteva collegare due fiumi navigabili ma fino a quel momento poco utilizzati perché separati. Tale impresa necessitò di investimenti molto rilevanti e proseguì fino agli anni Trenta dell’Ottocento, quando intervenne la vera e propria rivoluzione nei trasporti rappresentata dalla ferrovia. 26 L. Girard, I trasporti, in H.J. Habakkuk, M. Postan, (a cura di), op. cit., vol. 6.1, p. 145. 27 D. S. Landes, op. cit., pp. 136-7.
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centri vicini. Nonostante la strenua opposizione degli interessi colpiti dalla deviazione delle correnti di traffico, la ferrovia fece rapidi progressi: era stata in un primo tempo concepita come sussidiaria dei canali, ma in breve il rapporto si rovesciò. In Gran Bretagna lo stato si limitò ad autorizzarne la costruzione e a regolare le operazioni di esproprio dei terreni, ma per il resto la crescita del sistema ferroviario fu lasciata all’iniziativa privata. Negli anni Quaranta le costruzioni assunsero carattere febbrile, spesso avventato e speculativo, cosicché proliferarono molte piccole linee. In Gran Bretagna, dopo la grave crisi nel 1847, si verificò tuttavia un primo movimento di concentrazione e il numero di società ferroviarie diminuì notevolmente, ma non è questo il momento di trattare tempi e modalità dell’estensione geografica delle ferrovie, che fanno parte della storia dei singoli paesi e dell’intervento pubblico nei diversi stati. Nel nostro contesto val invece la pena sottolineare come avanzamenti nel campo della metallurgia e del vapore si siano estesi ben presto anche alla navigazione. Questo avvenne tuttavia in un periodo in cui la navigazione a vela stava facendo ancora significativi progressi e quindi la concorrenza tra vela e vapore fu vivace, tanto più che i piroscafi con propulsione a vapore presentavano dei limiti abbastanza rilevanti, per l’ingombro delle macchine e del combustibile e l’assenza di un numero sufficiente di stazioni di rifornimento. Una definitiva prevalenza delle navi a vapore costruite in ferro e con propulsione a elica si registrò solo dopo il 187028. Anche nella siderurgia i progressi conseguiti nel secolo precedente non erano ancora stati portati alle loro conseguenze ultime. Certamente la produzione di ghisa sfruttò una serie di migliorie, come le fornaci ad aria calda, il riutilizzo dei gas di combustione per il riscaldamento, la costruzione di fornaci più grandi: l’insieme di questi procedimenti consentì una notevole espansione produttiva e la possibilità di utilizzare minerali ritenuti prima di difficile lavorazione, ma non si riuscì tuttavia a mettere a punto un metodo economico per la trasformazione del ferro in acciaio, problema che fu risolto in un periodo decisamente più tardo, nella seconda metà del secolo. 28 L. Girard, op. cit., pp. 265-270 e S. Lilley, Rivoluzione industriale e progresso tecnico, in Cipolla (a cura di), op. cit., vol. III, pp. 188-90.
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Solo tra il 1855 e il 1865, infatti, vennero messi a punto i due metodi fondamentali per la produzione di acciaio a basso costo: il processo Bessemer e il processo Martin-Siemens. Nel convertitore Bessemer l’eliminazione del carbonio e di altre impurità dalla ghisa veniva effettuata attraverso un getto d’aria calda che attraversava il metallo fuso, dando luogo a una reazione chimica che sviluppava calore e alimentava così il processo stesso. Il metodo Martin-Siemens si basava invece sul surriscaldamento del materiale oltre il punto di fusione realizzato attraverso l’uso dei gas di scarico per surriscaldare l’aria immessa nella combustione e sul gas prodotto dal carbone povero come combustibile. Questo sistema consentiva di raggiungere temperature molto elevate a basso costo e ulteriori economie venivano dal fatto che in tale lavorazione il ferro fuso doveva esser mescolato con del rottame. Entrambi i metodi richiedevano un minerale a basso contenuto di fosforo, in quanto non riuscivano a eliminarne le scorie, ma nel 1878-79 fu messa a punto un’innovazione (metodo Gilchrist-Thomas) che permetteva di superare questo inconveniente combinando le scorie fosforose, che davano una reazione acida, con materiali basici e formando un composto che poteva poi essere estratto e separato. Per questa ragione l’acciaio prodotto col metodo Gilchrist-Thomas fu detto anche “acciaio basico”: i metodi esistenti furono da allora adattati alla produzione di acciaio basico. A trarre i maggiori vantaggi dal Gilchrist-Thomas fu il continente europeo, e in particolare la Germania, dove esistevano vasti giacimenti di minerale fosforoso; di questo tipo era anche il minerale della Lorena, annessa alla Germania nel 1870 e fortemente valorizzata dalla nuova scoperta29. In questo modo l’intero ciclo di lungo periodo delle trasformazioni tecniche iniziate un secolo prima venne portato a termine. Le innovazioni del periodo successivo nacquero sulla base di ambiti in precedenza poco esplorati e con un considerevole apporto di ricerca scientifica, che agli esordi della rivoluzione industriale non si era rivelato necessario: si trattava delle tecnologie connesse all’elettricità, all’elettrochimica e alla chimica organica, ai motori a combustione interna, tutti campi i cui sviluppi avrebbero ca29 Sulla siderurgia dell’acciaio si veda D.S. Landes, op. cit., pp. 325-45.
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ratterizzato quanto rimaneva dell’Ottocento e la prima parte del secolo successivo. L’avanzamento sulla strada della trasformazione economica in senso industriale aveva inoltre portato a un mutamento dimostratosi difficilmente reversibile, ossia il crescente ricorso a fonti di origine fossile sia per le materie prime che per l’energia. Nelle società preindustriali le fonti di energia meccanica erano sostanzialmente due: l’energia muscolare (umana o animale) e quella naturale (solare, idrica o eolica). Anche dal punto di vista delle materie prime la dipendenza dell’economia preindustriale dall’agricoltura, ossia da processi organici, era considerevole. Pur essendo autosufficienti dal punto di vista ecologico, le economie basate sulla disponibilità di risorse naturali presentavano dei limiti di espansione notevoli: esse dipendevano infatti da un flusso di energia e materie prime difficile da incrementare in tempi brevi e il processo di crescita tendeva in breve a porre l’economia di fronte ai vincoli rappresentati dalla bassa disponibilità di risorse. Questa situazione di fondo era considerata dagli economisti tra Sette e Ottocento un limite invalicabile allo sviluppo. Riuscendo ad accedere a vastissime riserve di risorse minerali, la trasformazione industriale emancipò i sistemi economici dai limiti delle risorse organiche. L’impatto di questa nuova tendenza fu enorme, perché permise di accrescere la produzione a ritmi che il settore agricolo non avrebbe mai potuto sostenere30. Col passare del tempo, anzi, fu l’agricoltura a divenire sempre più dipendente dall’industria, sotto forma di energia meccanica, fertilizzanti chimici etc. In una prospettiva lunga, tuttavia, tale metamorfosi era destinata a mostrare il proprio rovescio, in quanto rompeva gli spontanei rapporti omeostatici esistenti fra attività umana e ambiente organico, il quale restava così senza difesa di fronte ai possibili squilibri introdotti dalle nuove tecniche industriali31. 30 E.A. Wrigley, La rivoluzione industriale in Inghilterra, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 60-67. 31 Per ragioni di economia espositiva, solo un cenno può esser dedicato all’evoluzione della tecnologia chimica. Quest’ultima si rivolse dapprima alla produzione industriale di alcali ed acidi. Particolare importanza assunsero la soda (carbonato di sodio) e l’acido solforico. Inizialmente la soda veniva prodotta col metodo Leblanc, di origine settecentesca. Esso consisteva in due stadi: nel primo il cloruro di sodio veniva con-
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3.5 La formazione della società industriale sul continente In un noto articolo che comparava lo sviluppo economico britannico e francese nel XVIII secolo32, Crouzet sottolineava che, fermi restando alcuni aspetti strutturali di superiorità britannica (innovazione agricola e industriale, ampiezza del mercato interno ed estero, finanza), il tasso di sviluppo dei due paesi nel Settecento non fu molto differente. Se il dato della produzione pro-capite inglese era complessivamente più alto, il ritmo di crescita settecenteso era largamente comparabile, con alcuni settori in cui anzi la Francia aveva la superiorità (ad esempio in rami del tessile come lana e seta e – si tenga presente che siamo nell’epoca anteriore alla diffusione del puddellaggio – nella stesa produzione del ferro). Il ritardo francese, che prima della rivoluzione appariva relativo, si approfondì tuttavia nei decenni della rivoluzione e dell’età napoleonica. Ai problemi inerenti alla vendita delle terre cui si è fatto cenno33 si aggiunsero infatti le perturbazioni monetarie, la perdita di fonti di materie prime e di mercati, coloniali o meno, insufficientemente compensate dalla ristrutturazione delle relazioni economiche continentali e dal ricorso a singole soluzioni tecnico-economiche alternative. Considerato che nel frattempo l’economia britannica aveva continuato a espandersi, il risultato fu quello logicamente derivante dall’analisi di Crouzet: nel 1815 il divario tra i due paesi era molto più sensibile che nel 178934. vertito reagendo con acido solforico in solfato di sodio, mentre nel secondo stadio una miscela di solfato di sodio, carbone e carbonato di calcio veniva sottoposta a riscaldamento, ottenendo carbonato di sodio e solfuro di calcio. Il maggior inconveniente del processo stava nei sottoprodotti dannosi cui esso dava luogo (acido cloridrico e solfuro di calcio). Nella seconda metà del secolo essa venne soppiantato dal processo Solvay, che produceva la soda da un trattamento preliminare del carbonato di calcio e da una successiva reazione con cloruro sodico ed ammoniaca. L’acido solforico, invece, durante tutto l’Ottocento veniva prodotto col metodo delle camere a piombo, dapprima ottenendo l’anidride solforosa e poi idratandola. 32 F. Crouzet, Inghilterra e Francia nel secolo XVIII. Analisi comparata dello sviluppo di due economie, riprodotto in R.M. Hartwell (a cura di) La rivoluzione industriale, UTET, Torino 1971, pp. 188-233. Il lavoro era apparso originariamente nel ’66 sotto forma di articolo in “Annales”. 33 Cfr. supra, § 3.2. 34 F. Crouzet, op. cit., p. 233.
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Le specificità di fondo dell’economia francese e i riflessi delle vicende politiche che la caratterizzarono diedero al percorso della Francia verso lo sviluppo autosostenuto un carattere decisamente più gradualistico rispetto alla Gran Bretagna35. I settori fondamentali coinvolti furono sostanzialmente gli stessi (tessile, siderurgia, trasporto e ferrovie), ma il loro processo di cambiamento seguì un percorso molto più lento e diluito nel tempo. La filatura del cotone, che pure già prima della rivoluzione aveva visto approdare in Francia le innovazioni d’oltremanica, assunse una fisionomia industrialmente matura fra il 1815 e il ’30, con poli localizzati in Normandia, nei dintorni di Parigi, in Alsazia e nel Dipartimento del Nord. La tessitura, grazie alla disponibilità di manodopera addestrata e al costo basso dei telai a mano, venne meccanizzata molto più tardi, anche sotto la pressione dell’abbondanza di filato, ma questo processo andò a compimento definitivo solo dopo la metà del secolo. Anche se con alcune notevoli eccezioni, l’industria della lana si meccanizzò ancor più lentamente e mantenne a lungo la fisionomia della piccola industria a domicilio basata in prevalenza su tecniche manuali. La stessa industria della seta, localizzata innanzitutto a Lione e nella quale la Francia deteneva un primato internazionale, vide l’affermazione del telaio Jacquard ma rimase a un livello di piccola impresa ancora prevalentemente basata sull’energia idraulica fino a metà del XIX secolo36 Un fattore che rallentò significativamente l’industrializzazione francese fu la difficoltà di utilizzare le risorse fossili e in particolare il carbone. I due principali bacini carboniferi erano quello del Nord e del Centro (quest’ultimo fino alla metà del secolo in una posizione prevalente) che non erano tuttavia in grado di supplire all’intero fabbisogno nazionale, mediamente coperto per circa un terzo da importazioni. Il carbone francese non solo era difficile da estrarre e non godeva di facili condizioni di trasporto, ma non era nemmeno della qualità adatta ad essere usata nella siderurgia. Il prezzo elevato del carbone, al quale faceva invece riscontro un utilizzo efficiente dell’energia idraulica, rese lenta l’adozione del 35 C. Fohlen, La rivoluzione industriale in Francia (1700-1914), in Cipolla (a cura di), op. cit., vol. III, p. 50. 36 Sul tessile si veda W.O. Henderson, La rivoluzione industriale in Germania, Francia, Russia (1800-1914), Giannini, Napoli 1971, pp. 171-8.
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vapore come forza motrice per l’industria. Le difficoltà connesse all’uso del carbone non mancarono di riflettersi sulla siderurgia, nella quale la fusione a carbone di legna resistette a lungo e quella a coke progredì lentamente, raggiungendo il 40% solo verso la metà del secolo per generalizzarsi solo verso il 1860-70. La definitiva maturazione dell’industria del ferro giunse proprio nel periodo nel quale si generalizzarono le nuove tecniche per la produzione dell’acciaio37, che contribuirono in breve a dare alla siderurgia francese un volto tecnico-organizzativo moderno38. In Francia come altrove, il fattore che risultò decisivo nello stringere le maglie del mercato nazionale, facendo confluire in un sistema unitario di interazione vicendevole i progressi dell’agricoltura e dei singoli rami industriali, fu costituito dai trasporti e in particolare dalle ferrovie. Anche in questo caso, tuttavia, la trasformazione si impose con particolare lentezza, conferendo al movimento d’insieme un carattere di notevole gradualismo. Una certa attenzione fu prestata alle strade e ai canali già a partire dal periodo prerivoluzionario, ma senza risultati di rilievo. Un maggior interessamento sopravvenne dopo la restaurazione e la monarchia di Luigi Filippo, durante la quale furono destinati finanziamenti alle strade e ai canali, fornendo un pur limitato stimolo all’economia. Un primo impulso fu dato anche alle costruzioni ferroviarie, inizialmente soprattutto in funzione del traffico di merci. Nel 1842 una legge suddivise le spese ferroviarie tra stato, enti locali e compagnie. Tale criterio si rivelò difficile da rispettare e negli anni successivi furono adottate soluzioni di volta in volta differenti. Comunque sia, il fatto che lo stato contribuisse in modo sostanziale alle spese ferroviarie gli diede diritto di riprendere la proprietà delle ferrovie una volta scaduta la concessione, nonché di aver voce in capitolo sul tracciato delle linee e in merito alla loro amministrazione. Nonostante l’azione svolta dallo stato, la costruzione delle linee procedette lentamente e fu ulteriormente ritardata dalla crisi economica e politica del ’47-’48. Il vero e proprio balzo in avanti della rete ferroviaria si ebbe col secondo impero, grazie a una politica di concessioni a lungo termine, garanzie ai dividendi e spinta 37 Cfr supra, §3.4. 38 Una buona sintesi su carbone e siderurgia è nel già citato lavoro di C. Fohlen, La rivoluzione, cit., pp. 33-44.
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alla concentrazione delle compagnie. Dopo la crisi del ’57, lo stato intervenne garantendo in particolare la profittabilità delle nuove linee. Per effetto di tali politiche, la lunghezza della rete in esercizio, che nel ’48 era di 1800 km, passò a 9000 nel ’60 e a 17500 dieci anni più tardi39. Lo sviluppo del sistema ferroviario del secondo impero rientrò nel programma di stimolo della crescita economica attraverso la costruzione di ferrovie, canali e lavori di rinnovamento urbanistico. In questo progetto generale rientrò anche l’adozione di una politica doganale liberoscambista, che avrebbe dovuto rendere più efficiente l’industria esponendola alla concorrenza e creare all’estero, attraverso l’aumento delle importazioni degli altri paesi, un potere d’acquisto di cui avrebbero beneficiato le esportazioni francesi. Tale proposito politico, che non godeva di grande popolarità presso l’opinione pubblica, fu attuato, pur tra proteste degli industriali, nel trattato anglo-francese 1860 ed approdò a una generale riduzione dei dazi, aprendo una fase di accordi con altri paesi ispirati al libero scambio. Il percorso tedesco verso la trasformazione industriale, che seguì a ruota quello francese, differì notevolmente da questo e a maggior ragione da quello britannico. Naturalmente non mancarono anche alcune analogie: esso fu preceduto infatti da mutamenti significativi nella sfera agricola e nella sua fase iniziale coinvolse il settore tessile, che, seppure con una certa lentezza, andò meccanizzandosi e giunse ad occupare un numero elevato di addetti. 39 W.O. Henderson, op. cit., pp. 182-92, pp. 226-31.Non è opportuno lasciare il tema dell’espansione ferroviaria francese senza ricordare che ad essa si riconnette anche lo sviluppo delle banche di investimento, in cui la Francia ebbe un ruolo pionieristico. La Gran Bretagna dopo la metà del secolo sviluppò certamente le banche per azioni, le quali si mantennero tuttavia entro il perimetro del credito commerciale, lasciando la promozione degli investimenti all’autofinanziamento o alla borsa. In Francia, invece, fu costituito dai fratelli Pereire nel 1852 il Crédit Mobilier, il quale si proponeva di finanziare lo sviluppo degli investimenti attraverso l’emissione di obbligazioni. Non essendo riuscito a far autorizzare l’emissione di queste ultime, il Crédit procedette nella sua opera attingendo ai depositi del pubblico, il che costituì uno dei fattori – forse il maggiore – della sua crisi nel 1867. L’esempio fece scuola sia in Francia che negli altri paesi del continente europeo, in particolare in Germania. Mentre però in Francia col passare del tempo il modello della banca d’investimento si differenziò da quello della banca di deposito, in Gernania le due funzioni della banca rimasero sovrapposte.
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La manifattura del lino, un tempo più rilevante, fu quella che mantenne le caratteristiche più tradizionali di organizzazione domestica affiancata al lavoro agricolo. Mentre essa subiva gli effetti della concorrenza estera ed entrava in un periodo di decadenza, cresceva velocemente l’industria cotoniera, che meccanizzò dapprima la filatura. Man mano che ci si avvicinava alla metà del secolo crebbero dei centri di produzione industriale localizzati in Renania, nella Germania meridionale e nella Sassonia. Il settore, investito dalla carenza di cotone, attraversò una fase di crisi in corrispondenza al periodo della guerra civile americana: mentre le imprese più deboli soccombevano, quelle più solide riuscirono tuttavia a ristrutturarsi pervenendo a un livello più elevato di efficienza tecnologica e meccanizzando anche la tessitura. Il ramo laniero, più disperso territorialmente, registrò anch’esso un considerevole sviluppo e da area esportatrice di lana grezza la Germania divenne importatrice, mentre i tessuti manufatti si imponevano all’interno e all’estero. Anche qui la meccanizzazione procedette con una certa lentezza, interessando prima la filatura, mentre nella tessitura la fase tecnologicamente più evoluta subentrò verso il 187040. Se fin qui si possono scorgere analogie con gli altri casi esaminati, la specificità dell’evoluzione economica del mondo germanico deriva dal fatto che i prodromi dell’industrializzazione passarono attraverso la creazione di un vasto spazio commerciale – lo Zollverein – che contribuì a dare una certa omogeneità economica all’Europa centrale. Uno dei punti deboli dell’economia tedesca era costituito infatti dal sistema doganale. Non solo la Germania del primo Ottocento era ancora divisa in una quarantina di staterelli, ognuno dei quali dotato del proprio sistema doganale, ma esistevano anche dogane interne nell’ambito dei singoli stati. Da tale situazione derivavano diversi inconvenienti: inefficienza, alti costi di riscossione e contrabbando. Un primo passo avanti fu conseguito con la nuova normativa prussiana andata in vigore fra i 1816 e il 1818, che contemplava la soppressione delle dogane interne, l’esenzione dai dazi d’importazione per le materie prime, l’introduzione di dazi miti sui prodotti 40 W.O. Henderson, op. cit., pp. 56-9 e A.S. Milward, S.B. Saul, op. cit., pp. 485-94. Cfr. anche K. Borchardt, La rivoluzione industriale in Germania (1700-1914), in Cipolla (a cura), op. cit., vol. III, p. 50.
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manifatturieri e alti per i generi coloniali. A essa furono costretti a uniformarsi anche gli staterelli incuneati all’interno dei domini prussiani. Di fronte al successo prussiano, gli altri stati tedeschi scelsero di tutelare i propri interessi particolari, aggregandosi anch’essi in unioni doganali. Nel 1828 si formarono due leghe, una al Centro e una al Sud, ma esse gradualmente si disgregarono e molti degli stati aderenti confluirono nell’unione creata dalla Prussia. Alcuni stati rimasero ancora fuori dallo Zollverein, che partì ufficialmente nel ’34, ma senza creare alla nuova unione impedimenti rilevanti. Le potenzialità del nuovo spazio economico vennero tradotte in atto e consolidate dalla tempestività con cui i territori vennero uniti da una rete ferroviaria efficiente, la cui costruzione iniziò all’indomani dello Zollverein. Alla metà del secolo esistevano ormai tre ferrovie che attraversavano la Germania in direzione Nord-Sud e altre tre orientate in senso Est-Ovest; il chilometraggio complessivo della rete, alla quale lo stato contribuì con un supporto finanziario consistente, era il doppio di quello francese alla stessa epoca. Le costruzioni ferroviarie mantennero una crescita sostenuta e triplicarono nel ventennio successivo41. Gli sviluppi paralleli che si stavano verificando nell’industria e nelle ferrovie, portando ad una diffusione crescente della macchina a vapore, diedero l’impulso decisivo anche al settore minerario – in particolare per il carbone, di cui la Germania divenne nel 1870 il secondo produttore mondiale – e alla estrazione e lavorazione del minerale ferroso. Da questo punto di vista tra Francia e Germania esiste una differenza sostanziale: Mentre in Francia – è stato giustamente osservato – la nuova tecnologia siderurgica aveva lottato per decenni prima che alla fine le ferrovie fornissero un mercato ampio e dinamico per i suoi prodotti, in Germania invece fu l’esistenza di un mercato che determinò la nascita della nuova tecnologia.42
Alla fine del ventennio 1850-70 la Germania superò la Francia nell’uso di tecnologia a vapore e nella produzione di carbone e la 41 W.O. Henderson, op. cit., pp. 37-9. 42 A.S. Milward, S.B. Saul, op. cit., p.500.
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eguagliò in quella di ferro. Nella siderurgia crebbe l’uso dei nuovi metodi, sia per quanto riguardava la fusione a coke del ferro, sia per quanto concerneva i nuovi metodi di produzione dell’acciaio; a tutto ciò si affiancava la crescita di efficienti imprese di costruzioni meccaniche. In generale, sia il settore minerario che quello siderurgico videro l’aumento delle dimensioni aziendali e la moltiplicazione delle società per azioni. Dopo il ’48, mentre l’economia tedesca si avviava a una rapida crescita, si pose il problema dell’egemonia economica all’interno del mondo Germanico. L’Austria, infatti, mirava a creare una grande unione doganale di tipo protezionistico tra i propri territori e quelli dello Zollverein, un’idea avversata in particolare dalla Prussia. In concreto, tra Austria e Zollverein si giunse nel 1853 a un accordo parziale, ossia una sistema di reciproco trattamento preferenziale. La consistente crescita dall’economia tedesca in quel decennio spinse la Prussia, a differenza dell’Austria, a non aver più timore di una svolta liberistica. Dopo il trattato anglo-francese del 1860, la Prussia indusse lo Zollverein a stipulare con la Francia un trattato commerciale con reciproca riduzione dei dazi, rinviandone l’attuazione al ’66. Gli accordi di trattamento preferenziale reciproco con l’Austria dovettero di conseguenza esser ridiscussi e l’Austria dovette accontentarsi di ottenere la clausola della nazione più favorita. Il nuovo accordo, tuttavia, non ebbe tempo di consolidarsi perché di lì a poco scoppiò la guerra austro-prussiana; dopo di allora, e ancor di più dopo la successiva guerra franco-prussiana, i termini della questione cambiarono interamente e l’unione politica subentrò a quella doganale43. 3.6 Russia. La lenta uscita dall’arretratezza La via russa verso l’industrializzazione si discostò profondamente da quelle che abbiamo visto all’opera nei casi esaminati in precedenza. Pur con le differenze che è d’obbligo riconoscere, infatti, esse evidenziarono anche rilevanti analogie nella sequenza di sviluppo: un retroterra di crescita e mutamento sociale nell’agricoltu43 W.O. Henderson, op. cit., pp. 46-53.
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ra, una rivoluzione produttiva iniziata nel tessile e proseguita con la siderurgia, la rapida costruzione – pur in diversi stadi del processo – di sistemi ferroviari adeguati all’estensione del territorio. In Russia entro la fine del secolo XIX si era ormai delineato un quadro di capitalismo basato su una significativa presenza della grande impresa e capace di autoalimentarsi, ma esso era maturato accumulando una serie di difformità rispetto agli altri paesi europei che ne condizionarono fortemente lo sviluppo e che fecero sentire i loro effetti postumi fino a dopo la prima guerra mondiale e sotto un diverso un regime sociale quale era quello postrivoluzionario. Un primo elemento di persistente arretratezza fu naturalmente l’agricoltura, di cui abbiamo già sottolineato lo scarso dinamismo anche nel periodo successivo all’emancipazione44. L’industria nel suo complesso mostrò indubbiamente un maggior ritmo di crescita, ma il mutamento fu irregolare e discontinuo. Guardando al settore dei beni di consumo, nel 1860 solo la distillazione dello zucchero di barbabietola era a un livello moderno. L’industria cotoniera, che entro il tessile rappresentava il ramo più nuovo e che inizialmente dipendeva dalla Gran Bretagna per forniture di filato e tecnica, aveva meccanizzato la filatura, mentre la tessitura rimaneva indietro. Nello stesso periodo l’industria dei beni strumentali era ancor più arretrata. Il carbone del Donec era per la massima parte inutilizzato e la regione degli Urali, che rappresentava il centro della siderurgia russa, non aveva ancora assimilato nessuna delle tecniche che avevano innovato il settore in Gran Bretagna fra Sette e Ottocento. Un forte elemento di discontinuità sopravvenne negli anni ’70-80, col rapido sviluppo, agevolato anche dell’apporto di capitale estero, del bacino minerario e siderurgico ucraino. A ciò si aggiunse, più o meno contemporaneamente, la valorizzazione del petrolio del Caucaso, anch’essa realizzata col concorso determinante del capitale straniero. Un’ulteriore grande spinta allo sviluppo economico russo venne data dal potenziamento della rete ferroviaria, che al momento dell’emancipazione non raggiungeva i 3000 km ma vent’anni più tardi ne contava oltre 20000 e nel 1890 oltre 30000 (la Transiberiana fu iniziata immediatamente dopo). Dietro alla necessità di dar vita a un grande sistema di comunicazione ferroviaria stavano 44 Cfr. supra, § 3.2.
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diverse motivazioni intrecciate, ossia necessità politiche, militari ed economiche (del mondo agricolo come di quello industriale). Nonostante la rapida crescita, tuttavia, il sistema ferroviario rimaneva ancora indietro rispetto a quanto sarebbe stato reso necessario dall’enorme superficie dell’impero. Nei decenni anteriori al 1890 il quadro generale che si presentava era ancora quello di un paese essenzialmente agricolo, che esportava materie prime e grano e con una bilancia dei pagamenti il cui equilibro si fondava essenzialmente su tali poste attive. L’industria rimaneva ancora circoscritta ad alcune regioni la cui estensione era paragonabile a quella dei maggiori stati europei, ma che rimanevano ancora limitate e poco integrata considerando l’enorme territorio del paese. I poli di questa localizzazione erano gli Urali (metallurgia), la regione centrale (tessili, metallurgia ed altre attività manifatturiere); a Sud di essa stava la regione meridionale (prevalentemente zuccheriera) e a Nord quella di Pietroburgo, fondata sulla metallurgia e la meccanica, che poteva facilmente importare dall’estero carbone e semilavorati, ma che solo abbastanza tardi venne collegata con la regione centrale. L’esordio industriale dell’Ucraina, del Caucaso e della Polonia completò questo quadro ma non ne mutò la natura45. Mentre l’industrializzazione stava lentamente prendendo forma, si modificavano anche le istituzioni finanziarie e le forme dell’intervento statale. Gradualmente si rafforzò il ruolo della banca centrale e il sistema bancario andò sviluppandosi e articolandosi, con banche specificamente concepite in funzione delle esigenze dell’agricoltura e dell’industria. La politica doganale, negli anni immediatamente successivi all’emancipazione orientata in senso liberistico, invertì la propria direzione andando verso il protezionismo: dagli anni Ottanta il valore delle tariffe sulle importazioni non cessò di crescere (in percentuale, esso passò dal 28,3 % nel 1885-90 al 33% nel 1891-1900 e al 40% nel 1902)46 Anche gli investimenti esteri – in particolare, ma non esclusivamente, quelli francesi – cominciarono a dirigersi verso il paese, sostenendo sia il debito pubblico che l’espansione industriale. Il ca45 R. Portal, L’industrializzazione della Russia, in H.J. Habakkuk, M. Postan, (a cura di), op. cit., vol. 6.2, pp. 869-71 e pp. 881. 46 Garrier, art. cit., in P. Leon, Storia, cit., p. 261.
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pitale estero rappresentava nel 1890 il 26% del totale investito nelle società per azioni e il 41% alla vigilia della guerra, concentrandosi soprattutto nei beni strumentali (settore metallurgico e meccanico) e meno invece in quello dei beni di consumo (tessile e alimentare)47. Al fine di rafforzare l’afflusso del capitale estero si rese necessario stabilizzare la circolazione monetaria, troppo esposta alle fluttuazioni inflazionistiche, pareggiando il bilancio statale e ancorando (1897) il rublo all’oro48. Nel complesso, il periodo 1890-1913 vide un’accelerazione consistente del progresso economico russo, anche se interrotta da alcuni anni di crisi a partire da inizio secolo che si prolungarono fino a dopo la rivoluzione del 1905. La popolazione crebbe in cifra tonda da 118 milioni nel 1890 a 162 nel 1913, con un aumento del 37,3% e una quota urbana cresciuta quasi del doppio (68,9 %). Tra le due date ricordate sopra la produzione industriale lorda pro capite crebbe del 124% e le ferrovie passarono – sempre in cifra tonda – da 30000 a 71000 km, infittendo le relazioni economiche sul mercato interno. Anche l’agricoltura, che inizialmente era stata il settore meno dinamico dello sviluppo russo, riprese a crescere, anche perché il lungo periodo di stasi all’indomani dell’emancipazione lasciò il tempo di adattare le aziende alle mutate condizioni e perché la lunga congiuntura internazionale negativa che aveva colpito il prezzi del grano si invertì49. Nonostante questi successi, tuttavia, la Russia continuava a sentire il peso dell’arretratezza. Non solo i progressi erano distribuiti ancora in modo estremamente ineguale50, ma anche il settore industriale dell’economia soffriva di grossi scompensi di struttura 47 Ivi, p. 263. 48 W.O. Henderson, op. cit., pp. 373-5. 49 A. Kahan, La crescita del capitale in Russia durante la prima fase dell’industrializzazione dal 1890 al 1913, in H.J. Habakkuk, M. Postan, (a cura di) Storia economica, cit., vol. 7.2, pp. 331-7. Dopo la rivoluzione del 1905, con la politica di Stolypin, si cercò di modificare i rapporti di classe nelle campagne, favorendo la formazione di proprietà contadine individuali al posto di quelle collettive. Cfr. p. es. H. Seton-Watson, Storia dell’impero russo (1801-1917), Einaudi, Torino 1971, pp. 592-4. 50 “Nel 1913 oltre ¾ degli addetti alle industrie manifatturiere ed estrattive erano concentrati in cinque regioni su 10. La manodopera di fabbrica, pura rappresentando un ventesimo della popolazione attiva del paese, produceva 1/4-1/5 del reddito, mentre il settore agricolo, dove lavoravano 2/3 degli abitanti, vi
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interna. Tra il 1860 e il 1913 i lavoratori delle fabbriche e delle miniere passarono (in migliaia) da 860 a 3100, ma è stato notato che per ogni occupato nella grande industria ve ne erano sei impiegati nella piccola industria non di fabbrica o in impieghi collegati solo marginalmente con la produzione industriale moderna51. Mettendo la questione in altri termini, questi dati mostravano che nelle circostanze russe potevano prosperare solo le grandi imprese, che godevano dei molteplici vantaggi della dimensione, o le piccole o piccolissime, che traevano vantaggio dalla estrema flessibilità dei rispettivi costi52. Queste condizioni non mancarono di far sentire il proprio peso anche dopo la rivoluzione del ’17, quando Lenin si trovò a constatare che le forme più avanzate di grande capitalismo ereditate dall’epoca precedente coesistevano con uno sterminato settore economico patriarcale o piccolo-borghese. In che modo Lenin pensasse di far leva sul capitalismo di stato per superare questo dualismo e gli inconvenienti che ne derivarono è questione che esula dagli argomenti che stiamo trattando, ma che merita comunque di essere segnalata53.
contribuiva col 45-55 %”. O. Crisp, Lavoro e industrializzazione in Russia, in H.J. Habakkuk, M. Postan, (a cura di) Storia, cit., vol. 7.2,, p. 438 e p.509. 51 Ivi, p. 432. 52 Ivi, pp. 508-9. 53 V. Lenin, Sull’infantilismo di sinistra, in Opere scelte, cit., Editori Riuniti-Progress, s.d., vol. IV, p. 700 e p. 703. Cfr. anche V. Lenin, Sull’imposta in natura, in Opere scelte, cit., vol. VI, pp. 454-7.
4. L’ETÀ DELL’EQUILIBRIO
4.1 Il quadro generale L’arco temporale coperto dal presente capitolo, che va dall’inizio del XVIII secolo alla vigilia della Rivoluzione francese, vide prevalere ancora nei conflitti, sebbene in modo non esclusivo, le motivazioni tradizionali di tipo dinastico-patrimoniale, attraverso modalità di conduzione della guerra che nel complesso mantennero i confronti bellici entro limiti contenuti. Fu nel corso di tali decenni che si consolidò il sistema delle grandi potenze che dominarono la scena politica europea nelle epoche immediatamente successive. In linea generale, la politica estera settecentesca del periodo anteriore alla Rivoluzione francese si mosse sulla falsariga della tendenza all’equilibrio che si era imposta in Europa dopo la Successione spagnola1. Nel corso del Settecento, terminate le grandi lotte politico-religiose e archiviati con la Successione Spagnola i trasferimenti territoriali da cui dipendeva l’assetto dell’intero continente, gli obiettivi dei confronti bellici diventavano più contenuti. Ciò non escluse il verificarsi di vari ordini di mutamento, alcuni dei quali si rivelarono rilevanti. Almeno quattro di essi ebbero un particolare risalto: 1) l’entrata della Russia e della Prussia nel novero delle grandi potenze; 2) la crisi progressiva dell’impero turco; 3) la definizione di un assetto degli stati italiani che nella sostanza rimase inalterato fino all’unificazione del paese; 4) l’inserimento di consistenti componenti coloniali (in America e India) nelle vicende belliche delle potenze europee. I conflitti che determinarono tali spostamenti geopolitici si verificarono tuttavia in tempi lunghi e senza brusche alterazioni dei 1
Vedi sopra, § 2.8.
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rapporti di forza a livello europeo, il che permise al meccanismo di conservazione degli equilibri formatosi fin da inizio secolo di rimanere operante. Tale gradualità era in accordo col fatto che nel XVIII secolo l’attività delle forze sociali, pur mostrando segnali di accelerazione, aveva registrato un’evoluzione ancora lenta e la struttura sociale nel suo complesso, con le relative stratificazioni, rimaneva ancora sostanzialmente statica. In questo quadro sociale di fondo gli eserciti erano reclutati tra gli strati sociali situati in posizione marginale, ritenuti privi di effettiva utilità per la vita economica, e comandati da ufficiali in gran parte di origine aristocratica. L’influenza razionalizzatrice dello stato iniziava a farsi sentire attraverso una progressiva imposizione di uniformità (divise, armamento, esercitazioni) entro i singoli corpi militari e una maggior professionalizzazione degli ufficiali tramite le accademie, ma era ben lungi dall’essere preponderante. Pur non essendo più quelli feudali o semifeudali di un tempo, tali eserciti erano pensati ancora come strumenti dinastici, anziché come depositari dell’orgoglio nazionale2. Gli sviluppi settecenteschi della strategia militare derivarono dal perfezionamento delle tecniche introdotte tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo, in particolare da quello del fucile. Col 2
M.S. Anderson, War and society in Europe of the old Regime 1618-1789, Sutton Publishing, Stroud 1998, p.87 (ma anche pp. 132-3, 162-3, 177-9 e p.184). I caratteri di questa fase sono ben compendiati in queste considerazioni di Alatri: “Per i sovrani dell’epoca la guerra e la diplomazia costituivano il nocciolo e l’essenza del loro métier de roi: erano soprattutto quelle – oltre al mecenatismo – le attività che contribuivano alla ‘gloria’ di un sovrano. E creare i mezzi per fare la guerra rappresentava la principale preoccupazione degli statisti europei. Per gli Stati, tutto era subordinato alla necessità di sopravvivere e possibilmente di espandersi. Inoltre, una delle caratteristiche della vita politica del tempo era costituita dalle basi dinastiche della diplomazia e del suo esercizio da parte di una élite politica ristretta. Era universalmente accettato che la direzione della guerra e della diplomazia fosse prerogativa di una piccola classe dirigente; le opinioni della maggioranza dei cittadini di un paese non erano praticamente prese in considerazione. I popoli venivano barattati, e in una situazione in cui le questioni dinastiche avevano tanto rilievo e creavano tanti problemi di successione, anche i matrimoni tra membri delle case regnanti svolgevano una funzione nella formazione delle alleanze e nella soluzione dei conflitti, a causa delle eredità che potevano determinare”. P. Alatri, L’Europa delle successioni (1731-1748), Sellerio editore, Palermo 1989, p. 13.
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tempo furono migliorate la sicurezza dell’arma – permettendo ai soldati di assumere posizioni maggiormente ravvicinate tra loro – e la velocità di tiro, grazie alla cartuccia e alla bacchetta di ferro per il caricamento. Così armata, la fanteria divenne il nerbo degli eserciti, mentre la cavalleria e l’artiglieria – dotata di pesanti cannoni a canna liscia e ancora poco mobile3 – operavano in funzione ausiliaria. Esisteva una relazione tra l’adozione generalizzata del fucile e la difficoltà di manovrare gli schieramenti. Quando il fuoco della fanteria si fece decisivo per la conduzione delle battaglie, infatti, i generali si posero l’obiettivo di stendere davanti al fronte delle truppe una muraglia di fuoco. A questo fine essi disposero gli eserciti in lunghe linee parallele di fronte al nemico, ma la difficoltà di passare dalla colonna di marcia alla linea di battaglia rese necessario schierarsi a distanza, avanzando lentamente a file spiegate. Il nuovo sistema di combattimento ebbe successivi perfezionamenti, nei quali i Prussiani si distinsero particolarmente. Fin dal 1720 fu ufficialmente adottata la disposizione di fuoco su tre righe serrate fianco a fianco, a prima in ginocchio, la seconda in piedi curva, la terza diritta. L’attacco procedeva inoltre attraverso fasi precise: passaggio dalla colonna di marcia alla linea di battaglia, successiva avanzata a salve regolari e infine, se necessario, attacco alla baionetta. L’ordine sottile, le righe serrate e le salve di fuoco verso la metà del secolo erano diventate pratica corrente. Nell’ambito di queste usanze militari, l’esercito di maggiore efficienza fu quello di Federico II. L’importanza attribuita alle esercitazioni e alla disciplina aveva prodotto soldati in grado di marciare più velocemente, di passare più 3
Ciò non toglie che nel corso del secolo fossero stati fatti molti sforzi indirizzati all’alleggerimento e alla standardizzazione delle artiglierie. In particolare si deve ricordare l’opera di Gribeauval, che si ispirò alle realizzazioni prussiane: “Rientrato in Francia, Gribeauval è incaricato di riorganizzare l’artiglieria reale. Egli pone alla base della sua riforma un principio di assoluta chiarezza: “Bisogna variare le armi secondo la natura dei servizi che devono rendere.” Di qui la divisione dell’artiglieria in quattro categorie: artiglieria da campagna, da assedio, da fortezza e da costa. Si riducono la lunghezza e il peso dei pezzi pur conservando la stessa gittata e potenza; la carica è fissata uniformemente a un terzo del peso del proiettile; si misura la precisione di tiro con l’adozione di una linea di mira e una vite di puntamento; la cadenza di tiro è triplicata con l’impiego di cartocci, cartucce a palle e a mitraglia; gli affusti e i cassoni sono costruiti secondo dei modelli-tipo”. J. Jobè, Dalla Guerra dei trent’anni alla Rivoluzione francese (1789), cit., p. 65.
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rapidamente dalla colonna alla linea, di caricare le armi e sparare con maggior rapidità ed efficacia4. Nonostante i perfezionamenti, il tipo standard di schieramento conservò comunque difetti ineliminabili, i quali fecero pensare a vari tipi di formazioni d’attacco in colonna che tuttavia non registrarono generalmente esiti soddisfacenti. La scarsa mobilità degli eserciti era riconducibile non solo alla già ricordata necessità di passare dall’ordine di marcia a quello di battaglia, ma anche al fatto che le truppe dovevano avere alle spalle depositi e reti di comunicazioni da cui non potevano allontanarsi eccessivamente (per evitare disordini e diserzioni derivanti dalla mancanza di rifornimenti regolari). Da ciò conseguiva la difficoltà di compiere movimenti rapidi e risolutivi, inseguimenti del nemico etc. La guerra come si era configurata nei decenni centrali del Settecento, dunque, si muoveva nell’ambito di limitazioni tattiche ben precise, derivate dalla qualità dell’armamento e dalla composizione degli eserciti, che non potevano essere superate da una semplice evoluzione delle tecniche militari in uso. Era necessario piuttosto che cambiassero i presupposti sociali dei conflitti e conseguentemente gli obiettivi che essi erano chiamati a conseguire, generando le soluzioni organizzative adatte allo scopo. Fu questo che avvenne con la Rivoluzione francese e i suoi successivi sviluppi. 4.2 La formazione della potenza russa Uno dei mutamenti geopolitici di maggior rilievo realizzatosi in Europa nel Settecento fu l’imporsi della potenza russa, che nel giro di pochi decenni divenne una delle variabili fondamentali a livello internazionale. Fin dai primi decenni del XVIII secolo il giovane impero di Pietro il Grande mostrò una decisa capacità di espansione, la cui prima direttrice fu quella orientata verso il Baltico e l’Europa centro-orientale. Tra Sei e Settecento in quest’area giocavano un ruolo importante due paesi – la Polonia e la Svezia – uno dei quali già avviato verso una profonda crisi e l’altro che, per lo meno in una prima fase, sembrava teso a rafforzare la propria egemonia sul Baltico. Ogni strategia volta ad accrescere il predominio internazionale russo avrebbe dovuto confrontarsi con essi. 4
R. Mousnier, E. Labrousse, Il XVIII secolo, Casini, Firenze 1959, pp. 90-1.
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Nel XVII secolo la società polacca, caratterizzata da un’economia nella quale si era rafforzata la componente feudale e in cui l’elemento urbano era debole5, stava attraversando un periodo di difficoltà economica a cui la nobiltà cercava inutilmente di porre rimedio inasprendo le pressioni sui contadini e le loro prestazioni. A quella economica faceva riscontro una debolezza politica, dovuta all’elettività della monarchia e al condizionamento sempre più pesante esercitato dall’assemblea nobiliare, nella quale vigeva il principio del liberum veto che richiedeva delibere votate all’unanimità; esso apriva la possibilità per qualsiasi opposizione, spontanea o manovrata dall’esterno, di paralizzare l’attività decisionale. Un sistema di tassazione rudimentale e squilibrato, infine, impediva che lo stato disponesse delle risorse necessarie a mantenere un esercito efficiente. La debolezza dello stato, che nel corso del XVII secolo aveva visto svolgersi sul suo territorio le guerre contro la Russia, l’invasione svedese e la lotta contro i Turchi, rendeva più forte il condizionamento sul paese esercitato dalle potenze estere. La Svezia, dal canto suo, nella seconda metà del XVII secolo era proiettata a consolidare la preminenza sul Baltico che si era delineata con la conclusione della Guerra dei trent’anni. La potenza svedese si dimostrò capace di fronteggiare una serie di conflitti in cui fu coinvolta, a partire dalla Prima guerra del Nord. Nel 1655, approfittando delle ostilità in atto tra Russia e Polonia, il re di Svezia Carlo X Gustavo invase la Polonia, ma il rapido spostamento dei rapporti di forza conseguente all’invasione provocò una serie di reazioni: il Brandeburgo, in precedenza alleato, si staccò dalla Svezia, la Russia mutò fronte e la Danimarca attaccò la Svezia. Quest’ultima comunque riuscì a prevalere, strappando alla Danimarca la parte meridionale della penisola scandinava e alla Polonia la Livonia settentrionale (1660). Anche nella successiva guerra in cui la Svezia fu coinvolta contro Brandeburgo, Danimarca e Olanda (1675-9) il sistema territoriale svedese sostanzialmente resse. L’affermazione esterna del paese andava tuttavia in parallelo a rilevanti squilibri interni. Fin dalla Guerra dei trent’anni, infatti, il peso dell’aristocrazia si era accentuato, dando luogo a crescenti appropriazioni delle terre reali e a un conseguente peggioramento delle condizioni dei contadini. Anche le finanze statali, a cui erano 5 Cfr. supra §1.1
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state sottratte risorse proprio mentre dovevano finanziare le guerre sopra ricordate, ne avevano risentito. Dagli anni Ottanta le pressioni dei contadini e della nobiltà minore e le necessità dello stato, quindi, si incontrarono e al tempo di Carlo XI prese avvio il processo di “riduzione”, ossia di recupero delle terre della corona6. Ne derivò un rafforzamento interno della monarchia, al quale si accompagnò un atteggiamento attivo nella politica estera. Gli eventi decisivi per l’assetto della regione baltica maturarono negli ultimissimi anni del XVII secolo, allorché la Svezia si trovò a fronteggiare l’ennesima coalizione avversaria stretta fra la Danimarca, la Polonia (in cui era giunto al trono Augusto II di Sassonia) e la Russia di Pietro il Grande. I tre Stati stipularono un’alleanza segreta antisvedese e nel 1699 aprirono le ostilità, dando inizio alla Seconda Guerra del Nord. Carlo XII, succeduto al padre nel ’97, fece fronte al pericolo con grande decisione: sbarcò rapidamente in Danimarca, giungendo a minacciare la capitale e costringendo il re a uscire dalla guerra. Subito dopo le truppe svedesi affrontarono i Russi, sconfiggendoli a Narva. Invece di inseguire i Russi, tuttavia, l’esercito svedese si diresse a Ovest, liberando Riga dall’assedio e invadendo la Polonia. Carlo XII si pose l’obiettivo di scalzare Augusto II dal trono della Polonia, alimentando la guerra civile in quel paese e mettendo sul trono polacco, dopo molti sforzi, un suo candidato, Stanislao Leszczynski. Augusto II, stretto dalla preponderanza svedese, dovette alla fine concludere la pace (1706), abbandonando l’alleanza con la Russia. Carlo XII non aveva però ancora messo a terra la vera potenza emergente, ossia la Russia di Pietro il Grande. Gli anni trascorsi, anzi, avevano dato modo allo zar di riorganizzarsi e di dotarsi di un esercito ben equipaggiato, decisamente superiore a quello svedese. Nelle regioni baltiche su cui stava rinforzando il suo controllo, lo zar aveva fondato la città di Pietroburgo. Quando Carlo XII si accinse a vibrare il colpo decisivo ai Russi, questi iniziarono una ritirata che distruggeva ogni cosa e lasciava il nemico privo di rifornimenti in un territorio ostile. Carlo XII piegò verso sud (1708), nel tentativo, fallito, di provocare una sollevazione dei cosacchi dell’Ucraina. 6
Cfr. J. Rosén, La Scandinavia e il Baltico, in Carsten (a cura di) Storia, vol. V, cit., pp. 670-4 e pp. 682-94. Una sintesi stringata ma incisiva è in P. Anderson, op. cit., pp. 172-6.
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Il re svedese, privo di rifornimenti e bisognoso di un successo che rianimasse le truppe, attaccò in condizioni di inferiorità la fortezza di Poltava, ma subì una severa sconfitta (1709). Carlo XII riuscì a riparare fortunosamente in Turchia, dove cercò di indurre i Turchi a muovere guerra alla Russia. Si accese così un breve conflitto russo-turco di cui si dirà tra poco, che fece perdere alla Russia l’importante base di Azov sul Mar Nero, ma non indebolì la posizione di Pietro il Grande sul Baltico. Ne frattempo la rovinosa sconfitta svedese di Poltava aveva dato modo alla coalizione russo-sassone-danese di riformarsi e in Polonia Augusto II aveva ripreso l’iniziativa, cacciando il Leszczynski. Solo nel 1714 Carlo XII poté ritornare in patria e riprendere la guerra, che durò ancora per anni. Nel 1718 il re-condottiero svedese trovò la morte nel corso delle operazioni militari e gli succedette la sorella Ulrica Eleonora, che allentò il sistema assolutistico instaurato dal padre e dal fratello. La guida del governo venne poi assunta nel 1720 dal marito della regina, Federico I di Assia-Kassel. Era tempo, per la Svezia, di mettere fine alla guerra attraverso iniziative diplomatiche. Con negoziati conclusi nel 1719-20 Brema e Verden furono ceduti allo Hannover, mentre Stettino e parte della Pomerania andarono alla Prussia. La guerra con la Russia terminò l’anno seguente: il trattato di Nystad (1721) attribuì alla Russia Ingria, Estonia e Livonia, conferendole il controllo di un ampio tratto delle coste orientali baltiche; alla Svezia tornò la Finlandia, eccetto una regione di frontiera. L’esito della guerra frantumava definitivamente l’antica supremazia svedese sul Baltico e la consegnava alla Russia, che poté goderne i frutti sia sul piano commerciale che su quello militare. La necessità di conservare l’influenza sulla Polonia e quella di opporsi al comune nemico ottomano spinsero la Russia ad avvicinarsi all’Austria, stipulando (1726) un’alleanza che fu rinnovata fino alla guerra dei Sette Anni. All’opposto, la tendenza della Francia a far leva sui paesi ai quali guardava l’espansionismo russo, ossia Svezia, Polonia e impero ottomano, faceva sì che i rapporti franco-russi rimanessero all’insegna di una certa ostilità7. Tali orientamenti di politica estera si videro all’opera nella Guerra di Successione polacca, nella quale, come vedremo meglio più oltre, gli austro-russi riuscirono a ribadire la propria influenza sulla Polonia. 7
M.S. Anderson, L’Europa del Settecento, Edizioni di Comunità, Milano 1974, p. 228.
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La seconda direttrice fondamentale di espansione russa fu quella che puntava a Sud in direzione del Mar Nero e dei Balcani, dove stava gradualmente venendo meno la pressione esercitata dall’impero turco, che nel secolo XVI e gran parte del XVII era stato l’avversario più aggressivo e tenace degli stati europei. Tale indebolimento era determinato da varie ragioni: l’inefficienza e gli intrighi di palazzo tipici del sistema di governo, la crisi progressiva del feudalesimo militare turco, colpito dalla concentrazione eccessiva della proprietà e da un crescente parassitismo, e infine l’accresciuta energia dimostrata dai due maggiori antagonisti tradizionali dei Turchi, ossia l’Impero asburgico e la Russia. Complessivamente, il rovesciamento dei rapporti di forza fra Turchi e stati europei può esser fatto iniziare dalla seconda metà del XVII secolo e in particolare dal fallito assedio di Vienna del 1683. A differenza di quanto era avvenuto dopo San Gottardo (1664)8, questa volta il successo militare divenne l’inizio di una vera e propria controffensiva, condotta con spirito di crociata. Nel 1684 venne formata una lega, cui a cui aderirono gli Asburgo, la Polonia, Venezia e altre potenze minori e più tardi la Russia. La vittoria definitiva contro i Turchi venne tuttavia solo nel 1697, con un successo del nuovo comandante imperiale, Eugenio di Savoia, a Senta, sul fiume Tibisco. Ne seguì la pace di Carlowitz (1699), con la quale l’alleanza antiturca otteneva acquisizioni di rilievo. Gli Asburgo annettevano definitivamente Ungheria e Transilvania, tranne la regione del banato di Temesvar; anche Venezia, umiliata nel 1669 con la caduta di Candia, conobbe in queste circostanze gli ultimi sussulti di gloria e le vennero riconosciuti un tratto della Dalmazia e il Peloponneso. La Polonia riebbe la Podolia e la stessa Russia si vide assegnate Azov ed altre vicine fortezze in prossimità delle foci del Don. Un altro colpo venne inflitto ai Turchi allorché l’Austria si inserì in una guerra iniziata con l’attacco turco ai possedimenti veneziani e, dopo alcuni brillanti successi militari, concluse il trattato di Passarovitz, del 1718. L’insuccesso turco fu tuttavia parziale, perché la perdita del banato di Temesvar e altre cessioni territoriali agli Asburgo veniva compensata dalla riacquisizione della Morea e della parte di Creta che ancora restava sotto il controllo di Venezia. 8 Cfr. supra, § 1.7
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La crisi del dominio turco rappresentò comunque un processo lungo e complesso, che accanto a quelli di arretramento conobbe anche momenti di stasi o di ripresa e che non procedette in egual maniera su tutti i fronti interessati. Mentre nei Balcani gli Asburgo avevano ottenuto risultati di un certo rilievo, decisamente meno brillanti furono gli esiti iniziali conseguiti dalla Russia, l’altra grande rivale dei Turchi. Attaccata nel 1710, l’anno successivo la Russia di Pietro il Grande reagì con una vigorosa campagna militare che giunse fino al fiume Prut, ma non riuscì ad ottenere risultati decisivi e, pressata dai conflitti del Nord, concluse una pace onerosa che la privò di Azov e altre fortezze. Spostamenti decisi nei rapporti di forza non si ebbero neppure nei decenni immediatamente seguenti e anche le tensioni tra le due potenze del decennio successivo, causate dalla crisi persiana, si conclusero con un sostanziale compromesso. Nemmeno la successiva guerra russo-turca condusse a risultati sostanziali. La guerra del ’35, iniziata dalla Russia che dal ’37 fu sostenuta anche dall’Austria, si trascinò infatti con esiti alterni e registrò tra l’altro rilevanti insuccessi militari austriaci. Alla conclusione della pace (1739) la Russia vide riconosciuta la propria sovranità sui territori cosacchi nella zona del Dniepr, ma dovette smantellare le fortificazioni di Azov. Ancor peggiori furono le conseguenze per l’Austria, che perdette le recenti conquiste balcaniche. Nel complesso, dunque, anche in questo caso gli avversari dei Turchi non erano riusciti a conseguire risultati decisivi e i rapporti di forza a cui si era giunti rimasero inalterati per alcuni decenni. Solo dopo la metà del secolo le cose andarono in modo decisamente diverso. Nel ’68 scoppiò infatti un’ulteriore guerra russo-turca, dovuta alla reazione turca verso l’eccessiva influenza che la Russia di Caterina II stava acquisendo in Polonia9. La Russia volse le proprie operazioni militari sia verso il Mar Nero e il territorio compreso tra Danubio e Dnestr, sia, più tardi, verso la Crimea. Grande sensazione internazionale destò poi l’incursione che la flotta russa del Baltico compì, entrando nel Mediterraneo con l’aiuto inglese, riuscendo a infliggere una dura sconfitta navale ai Turchi e cercando di accendere rivolte nei territori medi9
Cfr. oltre, §4.6.
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terranei della Turchia. Nonostante le preoccupazioni destate da un possibile conflitto con la Svezia e quelle create all’interno dalla rivolta di Pugačëv, la Russia riuscì a mettere alle strette la Turchia e nel 1774 si giunse alla pace. In base agli accordi raggiunti, l’influenza russa nell’area del Mar Nero si accresceva: la Crimea veniva dichiarata indipendente sotto la sovranità del Khan tartaro mentre si allargavano le acquisizioni territoriali della Russia sulle coste del Mar Nero e nel Caucaso. Le navi russe non solo poterono commerciare nel Mar Nero, ma ebbero la possibilità di attraversare gli Stretti ed affacciarsi al Mediterraneo. I principati di Moldavia e Valacchia furono resi autonomi e posti sotto la protezione russa; vennero inoltre consentite la libertà religiosa ai cristiani sudditi dei Turchi e l’esistenza di una chiesa greca a Costantinopoli controllata dalla Russia. Conflitti locali verificatisi in Crimea diedero successivamente alla Russia la possibilità di annettersi l’importante penisola sul Mar Nero (1783). A partire da questa fase la decadenza dell’impero turco divenne un processo sempre più marcato, che come tale entrò ben presto nei calcoli delle diplomazie europee e che si accentuò nel corso del secolo successivo. D’altra parte, attraverso il compimento dell’espansione verso il Mar Nero, che in sostanza rappresentava l’altra faccia e la causa del processo geopolitico verificatosi, la Russia completava la propria ascesa al ruolo di grande potenza che aveva iniziato a profilarsi all’inizio del secolo. 4.3 Tra Mediterraneo ed Europa orientale. La Successione polacca Prima di ritornare agli assetti dell’Europa centro-orientale e all’entrata in gioco della Prussia di Federico II come nuova variabile di peso, è necessario riprendere le fila di quanto era avvenuto nell’area italiana e più in generale nel Mediterraneo occidentale dopo la guerra di Successione spagnola. Dividendo l’impero spagnolo, la pace aveva determinato in questo settore due importanti conseguenze: la perdita di possedimenti spagnoli che, sebbene difficili da mantenere, erano considerati in patria come simboli di un prestigio che usciva da questi eventi gravemente menomato e l’acquisizione di basi navali britanniche nel Mediterraneo, che conferiva alla flotta
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inglese una capacità di intervento nelle vicende italiane e una potenziale capacità di contrasto alle flotte francesi e spagnole10. Era dunque naturale che alla base dei nuovi problemi diplomatici si collocasse ancora la Spagna, dove Filippo V aveva consolidato il proprio potere, rafforzando l’esercito e la flotta. Nel 1714 ci fu una svolta nella politica estera spagnola, quando, morta la regina, il re – su consiglio del diplomatico italiano Alberoni – si risposò con Elisabetta Farnese, discendente dei duchi di Parma e dei granduchi di Toscana. Le casate dei Farnese e dei Medici erano entrate in urto con l’impero durante la guerra e, dato che entrambe erano in via di estinzione, Filippo V sarebbe potuto divenire il futuro punto di riferimento per gli umori antimperiali della penisola. Approfittando dell’impegno asburgico nella guerra contro i Turchi11, una squadra navale spagnola si impadronì della Sardegna, strappandola agli austriaci nell’agosto 1717. L’anno successivo fu la volta della Sicilia, dove sbarcò un esercito col compito di conquistare l’isola. La mossa di Filippo V, tuttavia, giungeva nello stesso anno in cui la Gran Bretagna aveva rovesciato la sua tradizionale politica antifrancese, stringendo un’alleanza con Francia e Olanda volta a preservare gli equilibri europei (Alleanza dell’Aia). Anche l’Impero più tardi vi si associò, dando vita a una coalizione a quattro contro la Spagna. Le vicende belliche ebbero una svolta allorché la flotta inglese distrusse quella spagnola a Capo Passero e la Francia intervenne apertamente contro la Spagna. Furono allora intavolati colloqui che portarono al Trattato dell’Aia (1720), importante anche per l’assetto politico italiano: la Spagna rinunciava alle conquiste italiane a favore dell’Impero, mentre l’Impero riconosceva Filippo V come re di Spagna; i Savoia, a loro volta, scambiarono la Sicilia con la Sardegna mentre Elisabetta Farnese ottenne che il figlio Don Carlos si insediasse a Parma e in Toscana all’estinzione delle rispettive case regnanti. Le vicende italiane rimasero per il momento in una posizione di attesa, ma conobbero rapidi sviluppi con la guerra di Successione polacca. In Polonia, alla morte di Augusto II (1733), i magnati e la nobiltà minore affidarono la successione a Stanislao Lesczyn10 M.S. Anderson, L’Europa del Settecento, cit. pp. 274-275. 11 Cfr. supra, § 4.2.
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ski, che, grazie anche all’appoggio francese, era tornato in Polonia per cingere la corona. La minoranza della nobiltà polacca sostenuta dalla Russia e dall’Austria, era tuttavia favorevole al figlio di Augusto II, Augusto III. Un’armata russa penetrò quindi in Polonia, esercitando una forte pressione a favore di Augusto III e costringendo Lesczynski a lasciare di nuovo il paese. La Francia, in cui era prevalso il partito bellicista, dichiarò guerra all’Austria e sostenne formalmente Lesczynski, ma gli fornì scarsi aiuti. La Francia mirò invece soprattutto ad attaccare i domini austriaci in Italia, mentre la Polonia si rassegnò alla prevalenza degli austro-russi (1736). Gli eventi polacchi portarono a una rapida accelerazione dei conflitti anche su altri scacchieri. La Francia, infatti, che non aveva speso grandi risorse per sostenere il proprio candidato in Polonia, approfittò della guerra per attaccare i possedimenti asburgici in Italia e in Germania. Essa stipulò un accordo con cui si impegnava ad aiutare il re di Sardegna Carlo Emanuele III a conquistare il Milanese e un altro accordo con la Spagna, con cui appoggiava don Carlos nel tentativo di conquistare il Napoletano e la Sicilia. Dal canto suo, la Francia mirava ad impadronirsi di lembi del territorio germanico, nel quale gli stati si divisero tra ostili e favorevoli agli Asburgo. La Gran Bretagna, in cui dominava l’orientamento pacifista di Walpole, questa volta non intervenne. Le campagne militari condotte in Italia dalla Francia e dai suoi alleati ebbero un esito favorevole. L’Austria, disorganizzata sul piano militare e finanziario, non riuscì a sostenere il peso della guerra e cominciò a cercare una soluzione diplomatica. Anche in Francia, tuttavia, il peso finanziario e le divergenze interne di orientamento cominciavano a farsi sentire, cosicché la posizione conciliante di Fleury ebbe nuovamente il sopravvento. Furono stabiliti contatti diplomatici con l’Austria, da cui scaturirono i preliminari di pace sottoscritti a Vienna (1735). La definizione nel dettaglio delle condizioni di pace si protrasse a lungo, a causa di una serie di resistenze incrociate. Quando la guerra di Successione Polacca si chiuse definitivamente, nel 1738, fu comunque riconfermato nella sostanza quanto deciso nei preliminari. La pace di Vienna stabilì una serie di compensazioni territoriali reciproche, la cui logica, com’era consuetudine del tempo, seguiva un criterio strettamente dinastico.
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In base a tali accordi, Augusto III di Sassonia era confermato come re di Polonia, ma Stanislao Lesczynski, in cambio della sua rinuncia al trono polacco, otteneva a titolo vitalizio la Lorena, che dopo la sua morte sarebbe passata alla Francia. Il Granducato di Toscana – il cui trono era vacante per l’estinzione dei Medici – andava a Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Austria. La Toscana passava quindi nell’orbita asburgica. Don Carlos di Borbone ricevette il Napoletano e la Sicilia, in cambio della Toscana e di Parma e Piacenza, anch’esse andate all’Austria. Il re di Sardegna, infine, ottenne Tortona, Novara e Langhe. La pace di Vienna fu di notevole importanza per la penisola italiana e stabilì un assetto che, nelle sue linee di fondo, rimase inalterato per oltre un secolo, fino al momento dell’unificazione nazionale 4.4 La Prussia e la Successione austriaca Se durante la Successione polacca l’assetto del mondo germanico era rimasto sostanzialmente invariato, i rapporti di forza all’interno di esso subirono un brusco mutamento con la Successione austriaca. In quest’ambito il contrasto fondamentale era costituito dall’opposizione fra la compagine asburgica e le ambizioni della Prussia, la cui struttura di governo era stata plasmata al fine di massimizzarne la potenza militare e che ora si trovava governata da Federico II, il quale era ben deciso ad usare lo strumento militare ereditato dai predecessori senza riguardo per l’Impero. Dal canto loro gli Asburgo si erano trovati di fronte a una contraddizione sempre più evidente: la vastità dei loro possedimenti suscitava le mire di molti altri stati, mentre la debolezza delle loro finanze non consentiva di opporre ai potenziali nemici un solido argine militare. In seguito alla guerra di Successione polacca gli Asburgo avevano subito perdite territoriali di rilevo (la Lorena, il Napoletano e parte del Milanese), compensate solo in parte dall’acquisizione del granducato di Toscana. Ancor più deludenti erano stati i risultati della guerra con la Turchia12, in cui Carlo VI si era inserito nella speranza di riscattare gli insuccessi recenti. 12 Vedi supra, § 4.2.
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La coesione dei territori asburgici, formati da possedimenti giustapposti e spesso gelosi della propria autonomia, in circostanze particolarmente difficili avrebbe potuto trovarsi in pericolo. Per tale ragione una delle massime preoccupazioni di Carlo VI fu di scongiurare i problemi che potevano derivare da una crisi di successione. Lo strumento scelto fu l’emanazione (1713) della Prammatica Sanzione, che stabiliva il principio della trasmissione ereditaria di tutti i domini indivisi al primogenito, anche in linea femminile13. Per garantirne il rispetto era necessaria una lunga procedura: all’interno doveva essere accettata da tutte le diete regionali appartenenti ai domini degli Asburgo, all’esterno doveva ottenere il consenso delle altre potenze. L’imperatore si impegnò su entrambi i piani e, ottenuto l’assenso all’interno, con una serie di accordi stipulati tra il 1725 e il 1735 riuscì a far riconoscere la Prammatica sanzione anche dai maggiori stati europei. La debolezza di tale edificio diplomatico venne però alla luce ben presto. Le trattative condotte per il riconoscimento della Prammatica Sanzione, infatti, erano state faticose e per giungere al risultato voluto Carlo VI si vide costretto a compiere sacrifici sul piano economico e diplomatico, senza peraltro poter escludere del tutto che le altre potenze potessero in futuro aggirare con qualche pretesto gli impegni assunti, come in effetti si verificò. Federico II, infatti, al momento in cui si manifestò la potenziale fragilità dei domini asburgici dovuta alla morte di Carlo VI e alla successione (1740), si impadronì della Slesia senza dare gran peso alle giustificazioni giuridiche che motivavano le proprie pretese. Con tale acquisizione, infatti, Federico si [avvicinava] al suo obiettivo di creare un potere statale che avesse uno stato centrale territorialmente compatto, di separare il bacino boemo dai suoi collegamenti con l’Europa orientale e di inglobare sotto la sua sovranità e per l’intero suo corso uno dei maggiori fiumi della Germania settentrionale.14
La Prussia, che aveva dato inizio alla guerra e conservato le proprie acquisizioni territoriali fino alla fine del conflitto contro la co13 V. L. Tapié, L’Europa di Maria Teresa, Mondadori, Milano 1982, pp. 26-37. 14 T. Schieder, Federico il Grande, Einaudi, Torino 1989, p. 126.
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alizione tra gli Asburgo e altre potenze, la Prussia si impose come comprimario dei maggiori paesi europei. Non appena Maria Teresa succedette al padre, Federico II fece seguire l’enunciazione delle proprie pretese sulla Slesia e l’invasione militare della provincia. Alla Prussia si associarono la Francia, dove prevalse la pressione del partito che puntava a sfaldare i possedimenti asburgici attraverso la guerra, e la Spagna, che voleva impadronirsi del Milanese. Con la coalizione si schierarono pure l’Elettore di Baviera (che mirava a Boemia, Alta Austria e al titolo imperiale) e la Sassonia (che puntava su Moravia e Alta Slesia). Opposta era la posizione della Gran Bretagna di Giorgio II. La Gran Bretagna contrastò infatti la coalizione antiasburgica, sia perché aveva conflitti coloniali nei territori extraeuropei con la Francia e con la Spagna, sia perché aveva interesse a mantenere l’equilibrio sul continente e limitare l’ingrandimento dello Stato prussiano (Giorgio II, in quanto Elettore di Hannover, era anche un principe tedesco). La Gran Bretagna, di conseguenza, appoggiò l’Austria con sussidi economici, mentre la Russia, travagliata dalla grave crisi interna seguita alla morte della zarina Anna, non era in grado di portarle aiuto. Le operazioni militari ebbero inizialmente un andamento molto sfavorevole all’Austria. La Slesia fu facilmente invasa dalla Prussia e Carlo Alberto di Baviera giunse a conseguire l’elezione imperiale (Carlo VII, 1742). Maria Teresa riuscì tuttavia a riequilibrare la situazione con una serie di mosse politiche. Nel 1741 fu concluso un compromesso che impegnò l’Ungheria e gli altri territori di confine alla mobilitazione militare, in cambio di autonomie e privilegi: il sostegno ungherese in un momento così critico (sebbene in concreto minore di quanto promesso) rinsaldò di riflesso la fedeltà degli altri domini ereditari. Nel 1742 fu poi stipulato un accordo che riconosceva a Federico II gran parte della Slesia in cambio della pace separata. L’anno seguente, infine, si rafforzò l’alleanza con il re di Sardegna, al quale venivano assicurate concessioni territoriali in caso di successo. La Francia replicò rafforzando i legami con la Spagna e inducendo Federico II e altri principi tedeschi a rientrare in guerra. Federico II mantenne la superiorità militare e alla fine del 1745 risultò inequivocabilmente vincitore ma, esaurito dalla lotta e preoccupato per un possibile attacco russo, si accontentò di una pace che ricalcava gli accordi del 1742 e gli riconosceva la Slesia.
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Per quanto riguardava il fronte che aveva dato inizio alla guerra, quest’ultima era nella sostanza conclusa. Il conflitto continuava intanto a Occidente. In Italia gli austro-sardi ottennero alcuni successi importanti, mentre il nuovo re di Spagna, Ferdinando VI, cominciò a disimpegnarsi da una guerra superiore alle sue forze e la Francia non riusciva a rispondere con contromosse decisive. Andò assai meglio ai Francesi sul fronte dei Paesi Bassi (1746-1747). Anche se brillanti, queste operazioni non furono comunque risolutive, perché la Gran Bretagna si preparava a contrastarle assoldando un esercito russo da affiancare alla coalizione anglo-austro-olandese. Col passare degli anni, la stanchezza per una guerra inconcludente sul piano militare e oltremodo gravosa su quello finanziario cominciò ad avere il sopravvento e furono intavolate trattative di pace. Questa, conclusa ad Aquisgrana nel 1748, assicurò all’Austria il riconoscimento della Prammatica Sanzione e quindi l’indivisibilità dei domini asburgici, nonché dell’incoronazione imperiale di Francesco Stefano di Lorena (Carlo VII di Baviera era deceduto nel ’45), marito di Maria Teresa. In compenso, Maria Teresa dovette rassegnarsi a concessioni rilevanti: l’acquisizione prussiana della Slesia fu confermata e la Prussia, che aveva dato inizio alla guerra e conservato le proprie acquisizioni territoriali fino alla fine del conflitto contro la coalizione avversari, si impose come comprimario dei maggiori paesi europei. Il regno di Sardegna si ampliò in Italia settentrionale a spese dell’Austria, portando così i confini fino al Ticino pur non ottenendo l’accesso al mare su cui sperava. I ducati di Parma, Piacenza e Guastalla passarono a don Filippo di Borbone, figlio minore di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, mentre la Spagna dovette rinunciare a Gibilterra e fare concessioni economiche alla Gran Bretagna15. 15 La guerra di Successione austriaca ebbe per teatro anche le colonie americane e l’India, dove Gran Bretagna e Francia si combatterono per anni senza dar luogo a risultati decisivi. Da tempo Gran Bretagna e Francia avevano vari punti di attrito coloniale in America. La crescente penetrazione francese nel bacino del Mississippi, in particolare, faceva temere la congiunzione dei possedimenti francesi meridionali e settentrionali, con la creazione di un gigantesco arco alle spalle delle colonie inglesi. Anche nei Caraibi esistevano conflitti riguardanti il possesso di alcune isole. Militarmente la Francia era in grado di opporre un’apprezzabile resistenza, quindi in un primo tempo la
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4.5 La Guerra dei sette anni La Guerra dei sette anni fu un ciclo di eventi bellici che introdusse importanti fattori nuovi nel gioco della politica europea. Alcuni erano di carattere squisitamente europeo, giacché l’Austria, cercando di recuperare la Slesia e più in generale di fronteggiare la posizione di rilievo assunta dalla Prussia dopo la Successione Austriaca, era alla ricerca di una nuova strategia di alleanze. A ciò si aggiunse tuttavia il ruolo svolto dai fattori coloniali, che in precedenza non erano entrati tra i motivi scatenanti delle guerre o che comunque vi avevano giocato un ruolo più contenuto. Verso la metà del XVIII secolo, ai tradizionali motivi di contrasto tra paesi europei si aggiunse – in particolare tra Francia e Gran Bretagna – una rilevante componente coloniale sia in America settentrionale che in India16. Il peso degli interessi coloniali era ormai spinta inglese per allargare la propria influenza commerciale investì soprattutto i più deboli possedimenti spagnoli, alimentandovi il contrabbando e altri conflitti economici locali. Allorché sopravvenne la guerra di Successione austriaca, tra Gran Bretagna e Spagna era già iniziata dal 1739 una guerra coloniale aperta, nel corso della quale gli Inglesi avevano tolto agli Spagnoli Portobello, sull’istmo di Panama. Dopo l’inizio ufficiale delle ostilità contro la Francia (1744), gli Inglesi strapparono ai Francesi l’importante fortificazione di Louisbourg, nell’isola di Capo Bretone. Diverso fu l’andamento del conflitto anglo-francese in India, dove esistevano solo insediamenti di tipo commerciale. In India i Francesi riuscirono a togliere agli Inglesi la base commerciale di Madras, anche se nessuno dei due paesi europei, allora, pensava di istituire un vero e proprio impero coloniale. Nelle trattative di pace si giunse alla restituzione reciproca delle conquiste. Per compensare le restituzioni francesi in Europa e in India la Gran Bretagna rese a sua volta Louisbourg, ma questo scontentò i coloni inglesi e mantenne viva l’ostilità anglo-francese in America. Sulla Successione austriaca si veda M. Gori, op. cit., pp. 377-419. 16 In America settentrionale la popolazione delle colonie inglesi aveva ormai notevolmente accresciuto il proprio potenziale demografico, determinando un crescente bisogno di espansione. La contrapposizione franco-inglese divenne concreta quando i grandi coloni della Virginia fondarono una compagnia per sfruttare i terreni nella valle dell’Ohio, in una direzione che avrebbe compromesso le comunicazioni tra la Louisiana francese e il Canada. Gli scontri armati che ne seguirono nel 1754-55 portarono all’inizio delle ostilità di fatto tra Francia e Gran Bretagna. In India, i contrasti franco-inglesi si inserivano nel contesto della crescente instabilità politica che caratterizzava la regione. Nel giro di alcuni decenni,
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tale da far riflettere anche in Europa le tensioni originatesi oltreoceano, cosicché una guerra tra Gran Bretagna e Francia sembrava ormai nell’aria. La Gran Bretagna, nell’eventualità di un conflitto, cercava alleanze sul continente europeo, ma sembrava poco probabile che l’Austria, preoccupata soprattutto dal progetto di recuperare la Slesia, intendesse dare un contributo incisivo su altri fronti. L’Austria stessa, d’altra parte, stava allentando i legami con la Gran Bretagna, giacché la sua ricerca di alleanze antiprussiane la orientava verso la Francia. I primi sondaggi per un rovesciamento delle alleanze coincisero con l’arrivo a Parigi nel 1750 di Kaunitz come ambasciatore austriaco, ma procedettero molto lentamente e ancora a distanza di alcuni anni non avevano prodotto risultati apprezzabili. Una prima rottura decisa dei vecchi schemi diplomatici subentrò solo quando Federico II, nell’intento di prevenire un avvicinamento anglo-russo volto soprattutto tutelare i possedimenti tedeschi dei sovrani hannoveriani britannici, si accordò rapidamente con la Gran Bretagna stipulando, all’inizio del 1756, il Trattato di Westminster, con cui Londra e Berlino si garantivano reciprocamente i rispettivi territori tedeschi contro eventuali invasioni straniere17. La nuova alleanza determinò da un lato l’irritazione austriaca e russa per la mossa britannica e, dal lato opposto, quella francese per il contegno prussiano. La Francia compì di conseguenza l’ultimo passo verso l’avvicinamento all’Austria: nel 1756 fu stipulato un trattato difensivo tra i due paesi, cui aderì in un secondo tempo anche la Russia. infatti, l’impero Mogol si era disgregato a causa delle lotte di successione e l’autorità del Gran Mogol ormai si limitava alle regioni vicine a Delhi, mentre il resto del paese era in mano a vassalli resisi autonomi o a dinastie locali indiane. L’urto continuo fra potentati mongoli e indù rese più facili le invasioni straniere – nel 1739 quella iraniana di Nadir Shah e nel 1748 quella di un principe afghano – senza che gli stati indiani riuscissero ad organizzare un’efficace resistenza. Di tale confusa situazione approfittò il Dupleix, governatore della Compagnia delle Indie francese, per intervenire nelle controversie locali, fornendo aiuti militari ai propri candidati e ricevendone in cambio concessioni. Agendo dietro lo schermo delle lotte indiane, la compagnia era giunta ad ottenere una rilevante influenza politica. I disegni della compagnia francese furono però avversati da quella inglese. Il ritorno in patria di Dupleix nel ’54 sembrò introdurre una stasi nelle rivalità franco-inglesi, le quali ripresero tuttavia l’anno successivo, dando origine a una guerra di fatto anche in India. 17 Per tutta la questione si veda V.L. Tapié, op. cit, pp. 108-152. Cfr. anche M. Gori, op. cit., pp. 439-450.
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Le tre maggiori potenze continentali rovesciavano così gli equilibri diplomatici tradizionali, trovando una intesa contro la Prussia. Di fronte alle minacce che si addensavano sul suo capo, Federico II ritenne che una mossa preventiva, pur mettendolo nella posizione di aggressore, gli avrebbe permesso di agire tempestivamente e di acquisire quindi un vantaggio iniziale contro l’Austria, che rappresentava l’avversario più accanito. Per tale ragione egli, nell’estate del 1756, passò attraverso la Sassonia (il cui elettore era anche re di Polonia) e attaccò l’Austria in Boemia. La campagna portò alla conquista della Sassonia stessa, ma non riuscì a far crollare l’Austria ed anzi spinse gli alleati a impegnarsi più a fondo nella guerra, che assunse un’impostazione decisamente offensiva, consolidando l’alleanza antiprussiana formata dalla Svezia, dall’elettore di Sassonia (nel frattempo rifugiatosi in Polonia) e da molti stati tedeschi minori. La guerra sul continente europeo vide ben presto la Prussia in una situazione strategica sfavorevole. Alcune brillanti vittorie di Federico II (Rosbach e Leuthen) non potevano compensare la condizione di inferiorità dell’esercito prussiano, incalzato su tutti i fronti e in stato di crescente logoramento. Solo la disperata tenacia del sovrano e le difficoltà nella collaborazione militare tra Austria e Russia ne impedirono il crollo completo. La stanchezza per l’ormai lungo conflitto portò infine nel 1760 ad un avvio di trattative, che rimase però senza seguito: nel ’61, anzi, un patto stipulato tra Francia e Spagna previde per l’anno successivo l’entrata in guerra di quest’ultima. Le cose andarono in modo opposto fuori d’Europa, dove la Gran Bretagna, dopo alcuni insuccessi iniziali, riuscì a imporre la propria supremazia. Il primo ministro William Pitt, pur non lesinando risorse militari e finanziarie alla guerra sul continente, era fermamente convinto che il teatro prioritario dell’impegno inglese dovesse essere quello marittimo e coloniale. Già dal 1758 i risultati cominciarono ad arrivare: in America, infatti, fu riconquistata Louisburg, mentre le comunicazioni tra Canada e Louisiana venivano interrotte. I successi inglesi si accrebbero col passare del tempo e nel 1760 la conquista di Montréal completò la caduta del Canada in mano inglese. Colpi efficaci furono inferti alla Francia pure nelle Antille e in Africa. Anche in India i rapporti di forza volsero nel giro di pochi anni in favore della Gran Bretagna. Robert Clive, un funzionario della
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Compagnia inglese, si inserì infatti nel conflitto tra il nababbo del Bengala e i suoi nemici, riuscendo a sopraffare nel 1757 il nababbo (battaglia di Plassey) e ponendo la regione sotto l’influenza britannica. Tale acquisizione facilitò ulteriori passi in avanti degli Inglesi e i Francesi furono posti sulla difensiva, finché 1761 la resa di Pondichéry completò l’estensione dell’influenza inglese in India18. In Gran Bretagna, dove il debito pubblico e il carico fiscale si erano notevolmente accresciuti e gli interessi finanziari e commerciali si ritenevano paghi dei risultati raggiunti, cominciò a prevalere un atteggiamento pacifista. Il nuovo governo britannico subentrato a quello di Pitt esercitò pressioni su Federico II, minacciando la sospensione dei sussidi che gli erano essenziali per continuare la guerra. All’inizio del 1762, tuttavia, venne in aiuto della Prussia un evento inatteso, ossia la morte della zarina Elisabetta e la successione del nipote Pietro III, di cui era noto l’atteggiamento filoprussiano. Questi rovesciò completamente la politica di Elisabetta e non solo concluse la pace con Federico II, ma si alleò con lui. Gli ultimi sviluppi si rivelarono favorevoli all’alleanza anglo-prussiana che, grazie all’apporto russo, riuscì a migliorare la propria posizione militare. La Gran Bretagna, a sua volta, trasse occasione dalla guerra navale contro la Spagna per compiere nuove conquiste coloniali a spese di quest’ultima. La conclusione della guerra sopravvenne solo in seguito a un ulteriore colpo di scena, verificatosi allorché lo zar Pietro III venne deposto e ucciso, mentre la moglie Caterina II si impadroniva del trono. Le ostilità non furono riprese, ma l’alleanza con la Prussia stipulata da Pietro venne lasciata cadere e l’evento tolse alla Prussia ogni speranza di cogliere ulteriori successi, contribuendo così alla ripresa delle trattative di pace. Tra il 1762 e il 1763 furono condotte trattative ad Hubertsburg ed a Parigi. Con la pace di Hubertsburg tra Austria, Prussia e Sassonia, in Europa veniva ribadito lo status quo ma, se i confini rimanevano inalterati, il logoramento militare reciproco mutava comunque i rapporti di forza tra gli stati europei, sia nell’Europa occidentale, dove il prestigio francese restava considerevolmente ridotto, sia in quella orientale:
18 Sull’affermazione britannica in India si veda N. Fergusson, Impero, Mondadori, Milano 2009, pp. 35-50.
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Federico conservava la Slesia con un immenso prestigio in Germania e in Europa, ma era, nonostante questo, il capo di un piccolo stato in rovina. L’Austria usciva indebolita e diminuita dalla nuova sconfitta. La vera dominatrice dell’Europa orientale e centrale era la Russia, le cui possibilità di sviluppo erano in aumento e che stava per trovare un capo: la zarina Caterina II.19
Se i sette anni di guerra non avevano mutato la carta politica d’Europa, ben più rilevanti furono i mutamenti territoriali previsti dalla pace di Parigi per le colonie e i riflessi economici che ne derivarono. La Francia perdeva infatti a favore della Gran Bretagna il Canada – tranne alcune isole e diritti di pesca nella zona di Terranova – e tutta la Louisiana a Est del Mississippi. La Spagna cedeva alla Gran Bretagna la Florida, ma otteneva in cambio la Louisiana francese a Ovest del Mississippi. Anche se la Francia tornava a ottenere Guadalupa e la Martinica, la posizione inglese nelle Antille si rafforzava con l’acquisto di altre isole. L’impero mondiale britannico si ingrandiva con l’acquisizione di ricchi domini in India, dove la Francia avrebbe potuto mantenere solo poche basi commerciali, ed anche in Africa Parigi perdeva il Sénegal a favore della Gran Bretagna, che riacquistava infine l’isola strategicamente importante di Minorca nel Mediterraneo. 4.6 La spartizione della Polonia Dopo la guerra dei Sette anni la Francia mostrò di volersi concentrare soprattutto su una politica di rivincita in campo coloniale e marittimo nei confronti della Gran Bretagna, senza cercare ulteriore avventure militari sul continente europeo. A questo scopo mantenne come punto di riferimento internazionale l’alleanza con la Spagna e con l’Austria. Un mutamento nel sistema delle alleanze fu invece attuato dalla Russia, la quale negli ultimi decenni del secolo XVIII cercò di sfruttare pienamente la posizione di vantaggio che era riuscita a conquistare nell’Europa centro-orientale dopo l’ultima guerra. Le due aree alle quali la Russia guardava maggiormente 19 E. Mousnier, E. Labrousse, Il XVIII secolo, cit., p. 196. Sulle svolgimento della guerra cfr. M. Gori, op. cit., pp. 457-529.
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per l’espansione della sua influenza erano l’Impero turco e la Polonia. Per realizzare questi piani fu coltivata una convergenza con la Prussia, che dopo il recente conflitto si trovava isolata di fronte ai suoi vecchi nemici (Austria e Francia) e alla stessa Gran Bretagna, con cui vi erano stati crescenti dissensi nell’ultima fase della guerra dei Sette Anni. Riguardo alla Polonia, le due potenze si accordarono per mantenere la costituzione tradizionale del paese, con la sua debole monarchia non ereditaria, e per imporre al trono polacco, dopo la morte di Augusto III, un candidato comune, Stanislao Poniatowski. Quest’ultimo, salito al trono nel 1764, era stato in passato amante di Caterina di Russia, la quale sperava di poterne fare un utile strumento per estendere la sua influenza. I piani di Caterina tuttavia, non si svolsero interamente nella direzione sperata. L’elezione di Stanislao Poniatowski, infatti, cadeva in un momento particolare della storia polacca, in cui la crescente decadenza del paese aveva convinto parte dell’aristocrazia e il nuovo re della necessità di una politica di riforme che abolisse il liberum veto e rafforzasse l’autorità monarchica. A favore di questa linea si era schierato il potente casato degli Czartoryski, cui Stanislao era legato dal lato materno. All’elezione di Stanislao Poniatowski seguirono i primi cenni di riordino amministrativo e fiscale, i quali avrebbero dovuto però essere sostenuti da decisioni ufficiali della Dieta relative all’esercito, ai tributi e alla questione del liberum veto. Quando si giunse alla convocazione della Dieta, nel 1766, si dovette constatare l’opposizione non solo dell’ala tradizionalista dell’aristocrazia, ma anche di Russia e Prussia, tanto che truppe russe intervennero per imporre con la forza la rinuncia a qualsiasi cambiamento. Alla questione costituzionale si aggiunse ben presto un divampare di lotte a sfondo religioso, che contribuirono a portare sulla scena le masse contadine, fino a quel momento rimaste passive. Poiché la Russia, con l’appoggio prussiano, aveva sostenuto le minoranze religiose non cattoliche, essa fu accusata di essere intervenuta per estirpare il cattolicesimo dalla Polonia. Una serie di leghe cattoliche locali si unì fino a formare una vera e propria confederazione (Confederazione di Bar, 1768) guidata da clericali e conservatori, mentre contro di essa sorgevano in Ucraina bande contadine ortodosse.
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L’evoluzione della situazione polacca fu fortemente condizionata dagli equilibri generali esistenti nell’Europa orientale, e in particolare dal già ricordato contrasto russo-turco scoppiato nel 1768, in cui la Turchia, spinta anche da Francia e Austria, cercò di approfittare delle difficoltà create dalla questione polacca per attaccare la Russia. Il probabile collasso turco, ormai all’orizzonte, allarmò notevolmente la Francia e soprattutto l’Austria. Questa, che rischiava di perdere a favore della Russia i territori balcanici cui aveva sempre guardato nel caso di una crisi ottomana, si preparò a contrastare una catastrofe estrema della Turchia. In tale complesso gioco diplomatico si inserì la Prussia. Quest’ultima, infatti, puntava ad evitare una nuova guerra generale e temeva che la disfatta degli Ottomani eliminasse una potenza che poteva equilibrare di volta in volta pretese eccessive dell’Austria o della Russia. Per tale ragione, da parte prussiana venne avanzata la proposta di compensare il mancato ingrandimento russo nei Balcani attraverso una spartizione di parte del territorio polacco. In questo modo all’ingrandimento della Russia avrebbe fatto da contrappeso quello delle altre due potenze. Nel 1772 si giunse ad un accordo di spartizione, che la Polonia dovette approvare l’anno successivo. Con esso la Prussia si impadroniva di territori che le consentivano di superare la discontinuità territoriale tra Prussia orientale e occidentale, la Russia portava i propri domini fino al corso della Dvina e del Dniepr, mentre l’Austria si ingrandiva in Galizia. La spartizione rappresentò per la Polonia un duro colpo dal punto di vista economico, sia per i saccheggi e la sottrazione di territori, sia per il trattamento assai sfavorevole che le potenze vincitrici imposero sul piano dei rapporti commerciali. Essa tuttavia, mettendo a nudo le debolezze dello stato polacco, non solo non arrestò il movimento di riforma, ma ne accentuò l’urgenza. Fu proprio l’opera di riforma, che raggiunse il culmine tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, che determinò la reazione delle potenze circostanti, le quali nel 1793 e nel ’95, con due interventi successivi, incorporarono nei propri possedimenti quanto rimaneva della Polonia20. 20 La circolazione delle nuove idee nel paese si accrebbe e, dopo lo scioglimento dei gesuiti, fu istituito un sistema di istruzione superiore laico. Cambiamenti avvennero anche nell’ambito del diritto: il potere assoluto
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Con la scomparsa della Polonia come stato autonomo dalla carta d’Europa si chiudeva il primo dei periodi che abbiamo distinto in apertura di questo capitolo. Considerando nel suo insieme l’arco temporale che va dall’inizio del secolo alla Rivoluzione francese, è stato rilevato che il principio d’equilibrio, nella sua veste di elemento regolatore dei conflitti fra gli stati europei settecenteschi, si era appannato dopo la guerra dei Sette Anni, poiché questa aveva portato Austria e Francia – ossia due dei perni opposti attorno ai
che i proprietari esercitavano sui contadini fu attenuato e fu abolito l’uso della tortura nei procedimenti giudiziari. Fu lentamente avviata inoltre una ristrutturazione fiscale. Il ritmo delle riforme si accentuò con la grande Dieta del 1788-92, che cercò di incrementare le entrate al fine di potenziare l’esercito e che diede segni evidenti di volersi liberare della tutela russa. Nel 1791 fu approvata anche una nuova costituzione monarchica, che assegnava la successione ereditaria al re di Sassonia e prevedeva che leggi fossero approvate da una dieta bicamerale. La costituzione introduceva inoltre l’eguaglianza degli abitanti delle città di fronte alla legge e la garanzia dello stato nei patti tra proprietari terrieri e contadini. Anche in questo caso le vicende polacche furono condizionate dalla più generale situazione dell’Europa orientale. La prosecuzione dell’opera di riforma in Polonia, infatti, era stata in gran parte resa possibile da una nuova guerra che, contrapponendo dal 1787 al 1792 la Turchia all’Austria e alla Russia, aveva tenute occupate queste ultime e la stessa Prussia, decisa a compensare eventuali conquiste austriache nei Balcani. Il mutare delle condizioni politiche internazionali, e in particolare la fine della guerra russo-turca nel 1792, pose le premesse per un ulteriore accordo ai danni della Polonia. Caterina di Russia, preoccupata per la costituzione del 1791, che sembrava ricalcare gli sviluppi della Rivoluzione francese, fece marciare le sue truppe in Polonia, sconfiggendo rapidamente la resistenza interna. Col pretesto di reprimere la rivoluzione si giunse così ad un nuovo accordo di spartizione russo-austro-prussiano (1793), che riduceva il territorio polacco a una superficie di poco più di centomila chilometri quadrati. L’occupazione straniera questa volta non restò senza reazione. Si determinò infatti una convergenza fra elementi della ristretta borghesia polacca e i capi dello sconfitto ma ancora sostanzialmente integro esercito, tra cui spiccava Tadeusz Košciuszko, con un programma mirante a salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza del paese. Nel 1794 scoppiò pertanto l’insurrezione, nella quale l’esercito fu coadiuvato da milizie popolari, che giunse a controllare l’intero territorio nazionale residuo. Per ottenere l’appoggio dei contadini, Košciuszko proclamò l’abolizione della servitù, ma la mossa allontanò ulteriormente la nobiltà, che vide con favore la reazione russo-prussiana. Quest’ultima non si fece attendere e nel giro di pochi mesi quanto rimaneva della Polonia fu definitivamente spartito tra Russia, Prussia e Austria.
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quali ruotava l’equilibrio stesso – sul medesimo lato degli schieramenti politico-diplomatici21. Val tuttavia la pena di osservare che la considerazione regge fino a un certo punto. L’altro grande asse di conflitto la cui azione interveniva nell’aggiustamento degli equilibri, ossia quello tra Gran Bretagna e Francia, rimase infatti ben vivo, come dimostra l’intervento francese nella Guerra di Indipendenza delle colonie americane (1778-1783). A ben vedere, inoltre, tutte le vicende dell’Europa orientale – e segnatamente della Polonia – che abbiamo appena ripercorso, si erano svolte all’insegna di una meticolosa attenzione a non alterare i rapporti di forza tra gli stati direttamente interessati all’assetto di quell’area geografica. Tutto ciò rivela che alla vigilia della Rivoluzione francese il meccanismo tendente a ricomporre i conflitti entro un piano di equilibrio era tutt’altro che venuto meno.
21
M.S. Anderson, L’Europa del Settecento, cit., p. 208.
5. I CONTRASTATI SVILUPPI DEL POTERE BORGHESE
5.1 Alle origini della rivoluzione borghese in Francia Volendo completare il quadro della trasformazione economica trattata in precedenza con quello dei mutamenti fondamentali intervenuti in quello stesso periodo nella sfera politica, è difficile poter prescindere dal nodo problematico costituito dalla rivoluzione borghese. In parte la questione era già stata affrontata parlando dell’Inghilterra nel XVII secolo, per cui è opportuno entrare in argomento ricapitolando i risultati ai quali eravamo pervenuti1. Come si è detto a suo tempo, la tesi marxista tradizionale, conferendo importanza alle dinamiche di classe, contiene a nostro avviso un sostanziale elemento di validità. Essa, tuttavia, è stata spesso declinata in termini semplicistici, ragionando – in modo forse implicito ma certamente netto – 1) come se prima della rivoluzione il conflitto fra la classe rivoluzionaria e quella dominante fosse stato l’unico o di gran lunga il principale e 2) come se all’esordio della rivoluzione stessa la classe rivoluzionaria si fosse presentata con una ben precisa coscienza delle proprie rivendicazioni. In realtà, come si è visto, né l’una né l’altra di queste tesi implicite regge. Nel creare le condizioni della rivoluzione inglese giocò un ruolo rilevante un elemento che non si lascia semplicisticamente ridurre al conflitto fra una classe in ascesa ed un’altra tenacemente attaccata ai propri privilegi. La rivoluzione inglese, infatti, fu preceduta da un indebolimento interno delle classi dominanti – e quindi della monarchia – dato dal declino dell’alta aristocrazia, che rappresentava il naturale sostegno del trono. In secondo luogo, ragionando come se la classe rivoluzionaria fosse un soggetto entrato in gioco con una ben definita composizione e altrettanto ben definite rivendicazioni, si tende a mettere in secondo 1 Cfr supra §1.6.
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piano l’evoluzione degli obiettivi della classe in ascesa nel corso del processo rivoluzionario. Si tratta di una negligenza di non poco conto per dei marxisti, in quanto tende ad equiparare la classe in sé, vale a dire la classe come è definita dal proprio ruolo oggettivo nel quadro dei rapporti di produzione, con la classe per sé, ossia la classe come si configura concretamente in relazione ad acuti conflitti con le altre classi2. La composizione delle forze che guidano un processo rivoluzionario e gli scopi che esse si pongono, naturalmente, cambiano nel corso del processo stesso, che parte da una serie di finalità relativamente moderate e giunge a scelte molto radicali nel momento culminante della rivoluzione; è infatti logico che le alleanze opportune nel primo caso, all’esordio della rivoluzione, non siano le stesse dei momenti successivi. Se i marxisti si sono curati poco di questi aspetti nel definire l’identità della classe rivoluzionaria, è ancor più ovvio che la questione sia sfuggita a quegli studiosi che si sono posti il problema della rivoluzione eliminando il fattore lotta di classe attraverso dotte analisi sulla composizione sociale del fronte parlamentare. Dando il dovuto peso alle considerazioni appena svolte, è facile individuare l’importanza delle fasi più acute della rivoluzione per mettere a fuoco l’identità di classe: nel caso della rivoluzione inglese, come si è visto, il momento decisivo per sbloccare la rivoluzione fu costituito dall’intervento dell’esercito, che metteva in gioco componenti radicali, a volte anche estreme; proprio per questo, nella fase della dittatura militare si resero necessarie per reazione alleanze di classe in cui gli interessi borghesi avevano acquisito un peso decisivo, ma nell’ambito di un orientamento generale moderato, ispirato alla tutela dei possidenti vecchi e nuovi. Possiamo infine chiudere questa sintesi relativa alla fenomenologia della rivoluzione borghese facendo riferimento ad un ultimo connotato che caratterizza il caso inglese ma che, come vedremo, non è limitato ad esso, ossia il lungo periodo di assestamento seguito alla fase più calda della rivoluzione stessa. Nell’Inghilterra tardo seicentesca un ventennio di sconvolgimento nei rapporti sociali e politici, di confronti militari e di altrettanto traumatiche contrapposizioni religiose, infatti, difficilmente poteva chiudersi con un epilogo stabile. In particolare, il regime personale criptomonarchico di 2
Per la distinzione cfr. K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 145.
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Cromwell pareva inadatto a garantire ai nuovi rapporti sociali una solida garanzia istituzionale. Di qui il ritorno alla monarchia Stuart, che però doveva rivelarsi – per motivi opposti – altrettanto inadatta allo scopo. Lo sbocco risolutivo, cui si approdò nel 1688-9, giunse perciò a quasi tre decenni di distanza dalla restaurazione. Per quanto in modo non vincolante, la prospettiva appena ripercorsa ci consente di inquadrare la storia francese tra Sette e Ottocento distinguendo le fasi preparatorie della rivoluzione, i suoi momenti critici e i lunghi processi di assestamento che l’hanno seguita. Il nostro intento non è naturalmente di aderire ai minuti dettagli degli eventi, quanto di evidenziare le svolte storiche fondamentali, identificando il ruolo svolto in esse dai rapporti di classe. Guardando alle origini della rivoluzione, il primo elemento da mettere a fuoco, come già abbiamo visto nel caso dell’Inghilterra, è il rapporto tra l’aristocrazia e l’assolutismo, tenendo presenti le differenze tra l’assolutismo inglese e quello francese. Nel primo caso, infatti, si era di fronte ad un assolutismo nel complesso fragile in termini di solidità degli apparati di stato (economici, amministrativi e militari) e – in particolare con gli Stuart – di stile di governo; il caso francese, invece, presenta il modello più solido e compiuto di assolutismo e proprio per questo presenta delle specificità rispetto alla variante d’oltremanica. Non solo infatti esso si logorò più lentamente, ma la radicalità con cui si dovettero sovvertire gli equilibri dell’Ancien Régime diede luogo a una fase di assestamento più protratta e difficoltosa di quella inglese. Ricostruendo gli eventi francesi cominciando dalla crisi dell’assolutismo, è il caso di soffermarsi su quella che la storiografia, con una tesi ormai saldamente acquisita, definisce la “rivoluzione aristocratica”, ossia l’acutizzarsi del conflitto fra corona e aristocrazia, il quale, a sua volta, aveva avuto una componente molto importante nell’opposizione tra corona e parlamenti3. Momentaneamente sopita dalla rigida politica di Luigi XIV, essa si era riaperta durante il regno del successore, in particolare dopo la metà del secolo. In questo periodo, infatti, i costi crescenti delle guerre4 resero sempre meno praticabile il compromesso di fondo su cui poggiaSul problema lungo il Settecento si vedano F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Einaudi, Torino 1973 e P. Alatri, Parlamenti e lotta politica nella Francia del Settecento, Laterza, Bari 1977. 4 Cfr. supra, §§ 4.3-4.5. 3
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va l’assolutismo. Garantendo alla nobiltà donativi ed esenzioni, in cambio della sua rinuncia all’esercizio diretto del potere politico, l’assolutismo limitava infatti le entrate dello Stato e questo appesantiva il bilancio e accresceva il debito pubblico. Quando le necessità finanziarie indussero la monarchia a tentare di intaccare alcuni dei privilegi aristocratici, infatti, i parlamenti fecero sentire la propria opposizione. Svolgendo la funzione di registrare i decreti reali, essi si erano conquistati il diritto, o perlomeno avevano imposto la consuetudine, di giudicare i contenuti dei decreti stessi, suggerendo modifiche e, a volte, rifiutando di registrarli. Anche se il re conservava teoricamente il diritto di stroncare tali opposizioni, i margini di contrattazione di cui disponevano i parlamenti erano abbastanza ampi5. La resistenza dei ceti superiori a una riduzione dei propri privilegi fu rafforzata anche dalla crescente fusione tra la nobiltà di toga, che componeva i parlamenti, e la nobiltà di spada. Con il passare delle generazioni, i nobili di toga tendevano ad assimilare i propri comportamenti a quelli dell’aristocrazia di sangue; la differenza di origini, di mansioni e di prestigio rimaneva, ma gli interessi da difendere di fronte alla corona erano per molti aspetti quelli di una classe unitaria. In particolare, la suscettibilità mostrata dai parlamenti allorché si profilavano misure fiscali incisive fu un’efficace arma a difesa delle classi privilegiate nel loro complesso. Anche se le fasi di aperto scontro o i singoli episodi di contrapposizione fra corona e parlamenti venivano formalmente ricomposti, il protrarsi degli attriti aumentava la coesione tra i parlamenti. Essi, cioè, tendevano sempre più a considerarsi come un corpo unitario, investito del compito di interpretare gli interessi della nazione e di tutelare le sue libertà. Nell’ultima fase del suo regno, Luigi XV e i suoi ministri si convinsero della necessità di spezzare definitivamente le resistenze dei parlamenti. Così, nel 1771, il cancelliere Maupeou fece esiliare i parlamentari che si opponevano alla volontà del governo e varò una riforma che ridimensionava il ruolo dei parlamenti, ne snelliva gli organici e trasformava i magistrati in funzionari stipendiati dallo Stato. Questa mossa provocò lo scontento dei potenti interessi dan5
La posizione dei parlamenti fu importante anche nell’ambito politico-religioso, che si intrecciò alla lotta per le questioni fiscali. La nobiltà di toga parlamentare, infatti, era favorevole alla concezione gallicana in tema di politica ecclesiastica e si verificò quindi una convergenza di fatto tra parlamenti e giansenisti.
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neggiati e, del resto, la trasformazione dei parlamentari in funzionari statali rappresentava un onere eccessivo per le finanze del paese. La svolta avrebbe perciò richiesto la ferma volontà di rimuovere intralci e opposizioni, ma le cose non andarono in questo modo. Luigi XVI, salito al trono nel ’74, non mostrò l’energia necessaria a contrastare l’opposizione parlamentare. Nell’intento di ripristinare la popolarità della monarchia, egli prestò ascolto alle voci contrarie alle riforme da poco introdotte, licenziando rapidamente Maupeou e ripristinando i vecchi ordinamenti. Il cedimento politico accentuò nuovamente la dipendenza del monarca dalla tutela dei ceti privilegiati6. Man mano che si aggravava la situazione finanziaria l’opposizione aristocratica tendeva a risorgere, fino ad assumere toni allarmanti nel biennio ’87-’88, quando il tentativo della monarchia di imporre alcune riforme fu aspramente contestato prima dall’assemblea dei notabili e poi dal parlamento di Parigi. Fu appunto questa convulsa sequenza di eventi che tolse alla monarchia qualsiasi via d’uscita e la costrinse a convocare gli Stati Generali7. 6
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La volontà di conciliazione del giovane re rappresentò per la corona un passo gravido di conseguenze: i parlamenti ripresero ben presto l’atteggiamento consueto, mostrando che la corona aveva di fatto capitolato nel conflitto protrattosi per decenni. e non mancò di riflettersi negativamente, di lì a poco, anche sulla riforma economica tentata da Turgot. Turgot reagì agli inconvenienti sia cercando di reprimere i moti che si erano manifestati, sia procedendo con decisione maggiore nella liberalizzazione del commercio. In un primo tempo, malgrado le pressioni contrarie, il re appoggiò il suo ministro, che nei primi mesi del 1776 varò una serie di provvedimenti noti come “sei editti”; essi contenevano misure non particolarmente radicali, che liberalizzavano il commercio dei grani anche a Parigi e abolivano cariche e istituzioni commerciali inutili. Due dei sei editti, tuttavia, toccavano alcuni privilegi tradizionali e assumevano un valore simbolico molto elevato. Il primo aboliva le corvées regie per la manutenzione delle strade, sostituendo le prestazioni gratuite dei contadini con una modica tassa che avrebbe gravato su tutti i proprietari fondiari, l’altro aboliva le corporazioni, ossia la forma di organizzazione della produzione artigiana e del commercio ereditata dal Medioevo. Il parlamento di Parigi, in prima linea nella difesa dei privilegi, si irrigidì e rigettò gli editti, al punto che fu necessario imporne la registrazione forzata. L’opposizione degli ambienti aristocratici e cortigiani rimase tuttavia accesa, accentuata anche dal favore mostrato dal popolo per i provvedimenti contro le corvées; il re fu così indotto a licenziare Turgot in quello stesso 1776, appena due anni dopo il suo insediamento alle Finanze. Nel 1787 Calonne sottopose ad un’autorevole assemblea di notabili, riunita per evitare la convocazione ben più impegnativa degli Stati Generali e composta di aristocratici, prelati e funzionari accuratamente scelti, un piano di
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5.2 La rivoluzione. Svolte e conseguenze Le controversie sul carattere di classe degli sviluppi rivoluzionari posteriori al 1789, come si è accennato, poggiano in gran parte sulla messa a fuoco – a partire dalla sua collocazione e composizione interna – del soggetto sociale e politico che ha dato inizio alla rivoluzione. La tesi marxista classica è ben espressa dalla nota sintesi di Albert Soboul, il quale individua come motore della rivoluzione una borghesia in cui si distingue il nucleo maggioritario dedito alle attività commerciali e artigiane, al quale si si aggiungono la grande borghesia d’affari e l’imprenditoria della nascente industria; questa componente centrale viene completata da quelle dedite alle libere
ampio respiro per la riforma delle finanze. La proposta prevedeva di sostituire il “ventesimo” sui beni fondiari, la cui ripartizione favoriva gli ordini privilegiati, con una nuova imposta sui terreni indipendente dallo stato sociale dei proprietari, la cosiddetta “sovvenzione territoriale”. Il progetto prevedeva al contempo l’alienazione graduale di infruttuosi domini regi, la libertà di commercio dei grani, l’abolizione delle dogane interne e della corvée regia. La reazione dei notabili si fece ben presto sospettosa e ostile, cosicché i rapporti col ministro divennero molto tesi e Calonne dovette lasciare l’incarico. Dopo una breve transizione, il controllo delle finanze passò a Loménie de Brienne, il quale si era distinto in precedenza fra gli oppositori di Calonne. Il nuovo ministro dette alle riforme una veste parzialmente diversa, propose espedienti che evitarono la bancarotta e si accattivò il Terzo stato attraverso la concessione di assemblee consultive provinciali in cui la sua rappresentanza era numericamente eguale a quella degli altri due stati. Di fronte all’insuperabile nodo del deficit, tuttavia, egli si trovò costretto a riproporre la sovvenzione territoriale prospettata dal predecessore e ad appesantire l’imposta sul bollo. L’assemblea dei notabili, recalcitrante, fu sciolta, ma quando si trattò di registrare gli editti al parlamento l’opposizione risorse fortissima. Nell’estate del 1787 il parlamento di Parigi contrastò duramente i provvedimenti fiscali e, nonostante il rigido atteggiamento adottato verso i magistrati, alla fine il governo dovette cedere. Il conflitto appena superato si riaccese però quando Brienne fu costretto a chiedere l’autorizzazione di un prestito e impose forzatamente il provvedimento ai parlamentari. Per spezzare la rivolta dell’assemblea, nel maggio del 1788 si adottò una riforma che ridimensionava drasticamente le funzioni giudiziarie dei parlamenti e li privava della facoltà di registrare gli editti. Il provvedimento esasperò il clima già teso, allargando la rivolta alle province e determinando una convergenza tra i parlamentari, l’ala liberale dell’aristocrazia e la borghesia. Di fronte all’onda montante del malcontento e della protesta, aggravati dalle difficili condizioni economiche dell’estate 1788, il re dovette ritirare la riforma giudiziaria, concedere gli Stati generali e richiamare Necker, che godeva il favore dell’opinione pubblica.
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professioni e dalla frazione le cui entrate sono alimentate da varie forme di rendita (da prestiti, immobili, proprietà fondiarie etc)8. A questa tesi è stato obiettato che la composizione dei deputati del Terzo Stato alla Costituente rifletteva ben poco una simile realtà sociale e che la borghesia intesa in tal senso era debolmente rappresentata nell’assemblea, mentre lo era in modo molto più consistente una categoria mista di avvocati e pubblici funzionari i cui connotati corrispondevano in modo troppo impreciso al concetto di borghesia sopra ricordato9. Su una linea analoga, è stato sostenuto che in Francia era largamente diffuso l’investimento in vari tipi di impieghi sostanzialmente volti all’acquisizione di prestigio sociale (terre e altre proprietà, cariche venali e rendite), ben lontane dalla ricchezza capitalistica in senso moderno e che anche larga parte del terzo stato era permeata da questa mentalità10. Il modo di porre il problema a cui abbiamo appena fatto riferimento risulterebbe fondato se il 1789 si fosse aperto con la rivoluzione borghese all’ordine del giorno, mentre in realtà all’epoca il risultato che sembrava ragionevolmente a portata di mano era quello di portare la monarchia a un dialogo fisiologico con le istituzioni rappresentative, obiettivo per il quale non era necessario una composizione di classe delle stesse particolarmente caratterizzata nel senso di un radicalismo borghese. Le scelte laceranti che caratterizzarono la rivoluzione, in realtà, giunsero più tardi, quando ci si rese conto che essa, al di là dei propositi iniziali, stava dando vita a una società dai fondamenti completamente nuovi e per di più in una condizione attraversata da continue tensioni. Nel quinquennio ’89-’94, infatti, la Francia fu caratterizzata da una serie ininterrotta di travagli situati a diversi livelli: 1) la questione istituzionale, con una monarchia spiccatamente propensa al doppio gioco al punto di tentare l’abbandono del paese prima, sperando poi che la guerra in cui il paese era stato coinvolto
A. Soboul, La rivoluzione francese, Laterza, Bari 1966, pp. 31-9. A. Cobban, Il mito della Rivoluzione francese, in M. Terni (a cura di), Il mito della rivoluzione francese, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 45-7. 10 G.V. Taylor, Ricchezza non capitalistica e le origini della Rivoluzione francese, ivi, pp. 65-86.
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terminasse con un esito infausto per la rivoluzione (senza trascurare inoltre la crescente emigrazione di settori della nobiltà); 2) la questione della libera proprietà della terra dai vincoli e i passaggi di proprietà di ampie estensioni di essa, di cui in prima battuta aveva beneficiato la parte più agiata della borghesia; 3) i momenti di difficoltà nei raccolti e la congiuntura sempre più inflazionistica da cui il paese fu progressivamente coinvolto; 4) la gestione della guerra verso l’esterno sotto il profilo economico e militare e le parallele rivolte controrivoluzionarie in molte aree del paese; 5) le contrapposizioni ideologiche e religiose (conflitto tra clero costituzionale e refrattario, scristianizzazione), le quali contribuirono ad aggravare le fratture politiche interne. L’insieme di queste circostanze determinò la dinamica caratteristica del periodo rivoluzionario, ossia il progressivo distacco delle forze moderate, che passavano nel campo della controrivoluzione, mentre quelle radicali tendevano ad appoggiarsi in misura crescente sulle classi popolari. Acquisivano dunque importanza crescente i club – in particolare i Giacobini e i Cordiglieri – che dirigevano l’azione delle masse e influenzavano l’orientamento delle assemblee rappresentative. L’attenzione eccessiva rivolta alla composizione sociale di queste ultime, tanto cara alla storiografia revisionista, si rivela quindi irrilevante sul piano esplicativo, in quanto le assemblee – e in particolare la Convenzione – furono poste di fronte alla necessità di prender decisioni dettate da un clima di continua emergenza, che le dominò e per certi aspetti le travolse. La contrapposizione più netta e risoluta che caratterizzò i momenti culminanti della rivoluzione fu quella tra Girondini e Giacobini. Entrambi in gruppi prendevano come riferimento un orizzonte borghese, ma con significative differenze: “[…] I Girondini si guadagnarono la borghesia possidente e se ne fecero portavoce, mentre i Montagnardi si identificarono ai Giacobini e al giacobinismo, ottenendo un certo seguito anche fra gli artigiani rurali e i piccoli coltivatori. Per migliorare la condizione del povero e del consumatore essi non esitarono a contestare i diritti del produttore e del capitalista”11. I Giacobini, pur appoggiandosi sui sanculotti, 11 M. Bouloiseau, La Francia rivoluzionaria. La Repubblica giacobina 17921794, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 67.
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non intendevano comunque abolire la proprietà privata, ma unicamente regolarne l’esercizio e il godimento. La prevalenza giacobina e montagnarda si esercitò, come è noto, in un contesto nel quale l’attività di repressione delle rivolte e in generale delle attività controrivoluzionarie toccò l’apice, così come lo toccarono gli eccessi della scristianizzazione. Al di là degli sforzi volti in questa direzione, che per il loro carattere appariscente ha attratto l’attenzione in modo per certi aspetti eccessivo, l’attività del Comitato di salute pubblica si concretizzò sia nell’impegno di sostenere lo sforzo bellico attraverso la leva in massa, l’approvvigionamento e il controllo politico delle armate, sia nel tentativo di regolare l’economia tramite la controversa politica dirigistica che passava attraverso l’imposizione dei provvedimenti di maximum delle derrate e dei salari e il tentativo di rimediare in forma coercitiva alle sue disfunzioni. Nell’insieme questa politica fu in grado di ottenere dei successi che consentirono di ribaltare la situazione militare a favore della Francia12, ma non riuscì a stabilizzare i rapporti politici interni. La rivoluzione, infatti, aveva allontanato dal potere molte forze conservatrici che non cessavano tuttavia di mantenere un atteggiamento di opposizione; nel frattempo la vendita delle terre della chiesa e degli emigrati, l’instabilità economica e l’imponente campo d’affari e di frodi apertosi con le forniture militari avevano determinato il rafforzamento di una borghesia speculativa che mal si adattava al clima di rigore imposto dalla dittatura rivoluzionaria; la disorganizzazione economica, sommandosi agli eccessi del terrore e della scristianizzazione, infine, cominciava ad alienare dalla rivoluzione anche settori consistenti delle masse popolari. Fu questo insieme di fattori ad imporre la svolta della rivoluzione in senso moderato, creando una coalizione tra la borghesia moderata e le altre classi privilegiate. Il governo corrispondente a questa fase, che si inaugurò con Termidoro e il Direttorio per finire con il colpo di stato del 18 Brumaio attuato da Bonaparte, mantenne inizialmente le forme repubblicane, ma cercò di reprimere ogni movimento che minacciasse gli interessi dei ceti benestanti vecchi e nuovi. Nel corso della rivoluzione, la difficoltà di disarticolare la forte resistenza del blocco sociale che sosteneva l’assolutismo richiese 12 Cfr. oltre, §6.1.
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una progressiva radicalizzazione dello scontro politico-ideologico e conseguentemente, come già nel XVII secolo era avvenuto in Inghilterra, ciò lasciò in eredità un lungo periodo di assestamento, che anzi si estese su un arco temporale assai più ampio di quanto era avvenuto oltremanica. L’importanza di tale periodo, che in ambito marxista fu evidenziata da una brillante intuizione di Gramsci13, è dovuta anche al fatto che, prolungandosi nell’Ottocento, esso dette vita a importanti tendenze, sia a livello di pensiero che di eventi, che caratterizzarono l’orizzonte politico successivo. In primo luogo le diverse fasi della rivoluzione produssero orientamenti che assunsero un valore paradigmatico, fornendo i modelli per le principali correnti di pensiero politico della prima metà dell’Ottocento: il liberalismo moderato prese forma nella fase monarchico-costituzionale dell’’89-’91, la tendenza radical-democratica nella repubblica del ’92-’93, il socialismo nella fase che va dalla rivoluzione dell’anno II a Babeuf 14. In secondo luogo la Francia ottocentesca, su uno sfondo contraddistinto dal graduale irrobustirsi del movimento operaio particolarmente sensibile dopo il 1830, fu caratterizzata dalla ciclica riemersione di crisi istituzionali che avevano tutte in comune la necessità di mantenere una certa equidistanza tra i pericoli del radicalismo e della reazione. Per dirla ancora con Hobsbawn, il rapido susseguirsi dei regimi – Direttorio (1795-99), Consolato (1799-1804), Impero (1804-1814), restaurazione della Monarchia Borbonica (1815-30), Monarchia Costituzionale (1830-48), Repubblica (1848-51), Impero (1852-70) – fu tutta una serie di tentativi compiuti per mantenere in vita una società borghese evitando nello 13 In un’ottica marxista, l’idea di una lunga fase postrivoluzionaria di assestamento apparve in Gramsci: “[…] Solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si esauriscono tutti i germi nati nel 1789 […] Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870”. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, III, pp.1581-2. Una ricostruzione della storia francese nell’ottica degli equilibri di lungo periodo è in F. Furet, Il secolo della rivoluzione 1770-1880, Rizzoli, Milano 1989. 14 E.J. Hobsbawn, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il Saggiatore, Milano pp. 160-1.
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stesso tempo il duplice pericolo costituito dalla repubblica democratica giacobina e dal vecchio regime.15
5.3 Alle origini del socialismo Una parte considerevole delle tensioni politiche ottocentesche scaturì dalla configurazione sempre più marcatamente industriale assunta dal capitalismo. L’avvento di un nuovo assetto sociale si snodò gradualmente nell’arco di alcuni decenni e inizialmente le uniche due realtà europee nelle quali si poteva parlare di un movimento operaio o di un embrione di esso erano Gran Bretagna e Francia. Le caratteristiche dei movimenti, tuttavia, dipendevano in modo rilevante dal contesto socio-istituzionale entro cui prendevano forma, cosicché fin dall’inizio apparve evidente la differente fisionomia che essi assumevano nei due paesi. La Gran Bretagna, come sappiamo, era l’unico paese europeo che aveva dato vita precocemente a una monarchia costituzionale. Nel corso del Settecento il sistema si era assestato, ma aveva rivelato anche la sua ristrettezza. Esso era guidato da una stretta élite che non aveva integrato le nuove forze sociali emerse nel corso del secolo e che si era anzi ulteriormente irrigidita di fronte alla rivoluzione francese16. Fino agli anni Trenta dell’Ottocento le forme di contestazione esercitate dalla classe operaia passavano da un lato attraverso il tentativo di costituire un vasto movimento sindacale e dall’altro, anche in sintonia con le classi medie, attraverso la pressione per rendere più inclusive le istituzioni tramite l’allargamento del diritto di voto. La visione teorica di tipo socialista, nella Gran Bretagna dell’epoca, non andava oltre il cooperativismo owenista. La necessità di un’azione autonoma dei lavoratori per garantire i propri diritti politici si accentuò dal momento in cui andarono in porto il Reform bill e la successiva Poor law, rivelando i limiti della precedente alleanza con le classi medie; l’obiettivo dei lavoratori divenne quindi quello di rendere universale il diritto 15 Ivi, p. 105. 16 Cfr. p. es. G.D.H. Cole, Storia del movimento operaio inglese 1789-1900, Bonetti editore, Milano 1965, pp. 32-66.
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di voto, portandolo oltre i confini ristretti entro cui l’aveva circoscritto la riforma elettorale17. Pur essendosi registrate tensioni sociali per il riconoscimento dei sindacati e l’estensione del diritto di voto, nella società inglese non si era determinata – anche per la varietà e l’immaturità delle diverse impostazioni politiche confluite nel cartismo – la necessità di infrangere la cornice istituzionale nel suo complesso; si può anzi aggiungere che la rilevanza assunta dalla rivendicazione di una radicale riforma elettorale dava al movimento un comun denominatore apparente facilmente identificabile, dietro il quale stava tuttavia una varietà di correnti incapace di trovare una idea coerente di trasformazione sociale. La pur vivace stagione del cartismo si concluse dunque con un pesante riflusso e si spense definitivamente per esaurimento negli anni Cinquanta. 17 Fra il 1837 e il 1838 varie iniziative si mossero in questa direzione e da esse uscì la Carta del Popolo, le cui rivendicazioni si articolavano in sei punti: 1) suffragio universale maschile; 2) voto mediante ballottaggio; 3) parlamenti eletti annualmente; 4) abolizione dei requisiti di censo per i deputati; 5) stipendi per i deputati; 6) circoscrizioni elettorali eguali e ridefinite periodicamente. Nel 1838 l’agitazione a favore della Carta del Popolo si propagò rapidamente e si tennero grandi comizi di massa, cui parteciparono centinaia di migliaia di persone, anche se il composito campo cartista ondeggiava tra una linea strettamente legalitaria e una di tipo insurrezionale. I cartisti riuscirono a presentare al parlamento una petizione con 1250000 firme, ma in luglio i Comuni la respinsero. L’insuccesso mise a nudo le deficienze organizzative e politiche del movimento e del disorientamento approfittò il governo, che colse tutte le occasioni per moltiplicare gli arresti degli agitatori Una ripresa del cartismo si ebbe qualche anno più tardi e nel 1842 una nuova petizione fu presentata in parlamento, per venirne ancora respinta. Nel frattempo, la crisi economica aveva dato luogo a un’ondata di scioperi, dei quali i cartisti cercarono di prendere la direzione. Gli scioperi continuarono a lungo, ma non ebbero successo. Per il governo fu quindi facile intervenire nelle zone in tumulto e arrestare gli attivisti più esposti. Gli eventi del 1842 inaugurarono la fase discendente del cartismo, anche se il movimento sopravvisse e dette luogo a varie iniziative, tra cui un progetto di cooperativismo agrario e l’inutile presentazione di una terza petizione al parlamento nel 1848. Sull’intero periodo, oltre al già citato Cole (pp.124205), si vedano A.L. Morton, E. Tate, Storia del movimento operaio inglese, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 49-101 e A. Briggs, L’età del progresso. L’Inghilterra fra il 1783 e il 1867, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 269-389. Cfr. anche G. Lichteim, Le origini del socialismo, Il Mulino, Bologna 1974. pp.195-242.
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Del tutto diversa era la situazione della Francia. In essa il dinamismo della trasformazione economica era indubbiamente minore, ma nel paese all’eredità del pensiero sociale settecentesco e a quella più recente degli sviluppi radicali della rivoluzione francese faceva riscontro un susseguirsi periodico di crisi politico-istituzionali che imponevano regimi (impero, monarchia legittimista, monarchia borghese) incapaci di far posto a pur elementari esigenze delle masse popolari. Era naturale dunque che nel corso dei decenni crescessero sia le elaborazioni teoriche (i Saint Simon, Fourier etc.), sia una rete sotterranea di organizzazioni socialiste che giunsero a maturazione durante la monarchia orleanista e che salirono in primo piano con la rivoluzione del ’48. Quest’ultima rivelò tuttavia l’impreparazione di questi primi nuclei politici, che non seppero arrestare le manovre della borghesia moderata, dell’aristocrazia e delle forze clericali. In Francia la sconfitta subita nel ’48 aprì la strada al secondo impero e rappresentò in modo ancor più traumatico quello che già era avvenuto con la fine del cartismo in Gran Bretagna, ossia la conclusione di un lungo ciclo di lotte iniziato con l’ultimo decennio del Settecento18. Nel periodo successivo al Quarantotto il socialismo subì una profonda crisi le cui ragioni furono sostanzialmente due: l’ampiezza e la radicalità dell’esplosione rivoluzionaria quarantottesca, che avevano messo in crisi le fragili costruzioni utopistiche elaborate fino ad allora, e l’ondata di repressione e ripiegamento dei lavoratori, che costrinse i nuclei rivoluzionari più attivi a disperdersi nell’emigrazione e a logorarsi in sterili lotte intestine. Solo verso il 1860 si avvertirono i sintomi di una ripresa politica del fronte democratico e socialista. Fu in quest’epoca, infatti, che ripresero vigore i movimenti di liberazione nazionale e che la spinta delle contraddizioni sociali legate allo sviluppo economico ridiede forza alle organizzazioni operaie, momentaneamente messe a tacere dal disorientamento e dalla repressione. In Gran Bretagna, dove la forza sindacale e la libertà politica erano maggiori, le manifestazioni di solidarietà internazionale verso i popoli di altri paesi si erano moltiplicate e prese quindi forma l’idea di creare un’associazione internazionale dei lavoratori, anche se la 18 Si veda p. es. S. Bernstein, Storia del socialismo in Francia, Editori Riuniti, Roma 1963 e G. Lichteim, Le origini, cit., pp. 13-176.
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varietà di tendenze presenti e la scarsa chiarezza teorica rendevano difficile formulare una linea comune19. Neanche in questo caso, tuttavia, si giunse a dar vita a un esito politico-organizzativo durevole. L’Internazionale, infatti, nonostante la sua utilità nel coordinare le organizzazioni operaie dei vari paesi, fu indebolita dalla varietà di tendenze presenti in essa, tra cui i proudhoniani – contrari agli scioperi – e gli anarchici di Bakunin, che aveva aderito all’Internazionale col proposito di farne uno strumento delle proprie attività rivoluzionarie organizzate in società segrete. I contrasti esplosero dopo la guerra franco-prussiana del 1870 e il grande conflitto di classe legato all’episodio della Comune di Parigi. Nonostante nella Comune vi fosse ben poco di strettamente marxista e molto invece del socialismo tradizionale20, Marx difese apertamente la Comune 19 Nel progetto fu coinvolto a un certo punto anche Marx, il quale nel 1864 redasse l’indirizzo inaugurale dell’lnternazionale in modo da conciliare il proprio punto di vista con le diverse tendenze presenti. La lotta sindacale e la creazione di cooperative da parte dei lavoratori, che avevano mobilitato le energie in quegli anni, erano riconosciute da Marx come un’importante esperienza positiva, ma nello stesso tempo egli sottolineava che si trattava di conquiste isolate e parziali e che lo scopo ultimo cui doveva tendere la classe operaia era la conquista del potere politico. 20 L’amministrazione della Comune, formatasi a Parigi dopo la sconfitta francese nella guerra con la Prussia, rappresentò una forma di collaborazione tra classe operaia, piccola borghesia e forze della cultura: assieme agli operai, infatti, sedevano in essa piccoli commercianti, artigiani e intellettuali. La Comune non era espressione di un partito politico e vi convivevano varie tendenze democratiche e socialiste, dai giacobini ai blanquisti, ai proudhoniani. Si trovò però subito a fronteggiare l’ostilità del governo di Thiers, che ottenne la collaborazione tedesca al fine di organizzare un proprio esercito in grado di riconquistare la capitale (la repressione fu poi attuata in modo durissimo). Il governo rivoluzionario si pose come obiettivo immediato la democratizzazione dello stato. Costituì un esercito e una polizia formati da lavoratori armati, rendendo elettivi e revocabili tutti i membri dell’amministrazione e della stessa Comune. Anche gli stipendi dei più alti funzionari furono portati al livello di quelli degli operai specializzati. L’amministrazione della città, in parte per gli urgenti compiti di difesa che le si ponevano e in parte per la varietà di tendenze che in essa convivevano, non espropriò i patrimoni dei capitalisti e nemmeno le riserve della Banca di Francia furono poste sotto controllo. Le misure prese dalla Comune furono di più immediato carattere umanitario: essa annullò gli affitti per il periodo della guerra, emanò provvedimenti per aiutare i debitori e i poveri, fissò il prezzo del pane e cercò di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, associandoli in qualche caso alla direzione delle imprese.
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stessa come embrione di un nuovo potere rivoluzionario e ritenne che si sarebbero dovuti fondare partiti organizzati e coordinati incisivamente dall’Internazionale. Al congresso dell’Aia (1872) egli riuscì a prevalere, ma le lotte interne al movimento erano ormai incontrollabili. Per sottrarre il consiglio generale alle dispute, Marx ne ottenne il trasferimento a New York, ma il destino dell’Internazionale era segnato e in breve l’organizzazione si disgregò. Per le classi dominanti di tutta Europa L’Internazionale rappresentò l’emblema della pericolosità del socialismo. Agli occhi dei lavoratori essa dimostrò invece l’impossibilità di una collaborazione di classe con la borghesia e la necessità che il proletariato si organizzasse in modo autonomo per perseguire i propri obiettivi rivoluzionari. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento tale processo trovò un importante supporto nella trasformazione della società europea in senso industriale, che si stava ormai imponendo in modo irreversibile. La crisi della prima Internazionale rappresentò quindi un momento transitorio, superato in breve con la formazione, negli anni Settanta-Ottanta, di nuclei di partiti di orientamento socialista nella maggior parte dei paesi europei, finché nel 1889 fu quindi fondata a Parigi la seconda Internazionale, destinata a orientarne l’azione fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. 5.4 I divergenti percorsi dei movimenti socialisti. L’Europa occidentale Come già nella fase iniziale, anche in quella più matura i partiti socialisti risentirono in modo rilevante delle caratteristiche tipiche del rispettivo ambiente sociale. In Gran Bretagna il periodo immediatamente seguente alla metà del secolo vide la compresenza tra la delusione politica seguita alla crisi definitiva del cartismo e oltre un ventennio di crescita economica sostenuta, in cui le crisi cicliche – che all’epoca sembravano aver assunto una regolare scansione decennale – si rivelarono complessivamente di breve durata. Il risultato della nuova situazione fu che le grandi mobilitazioni generali dei decenni precedenti lasciarono il posto a prospettive politiche di respiro contenuto e ad una limitazione degli obiettivi di lotta. La tendenziale coesione di classe dei decenni precedenti fu soppiantata da una frammentazione particolaristica, in cui il
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soggetto di riferimento dell’azione sindacale divennero i lavoratori specializzati dei singoli settori. Tale sindacalismo, basato sulla figura dell’operaio di mestiere, fu affiancato dalla crescita di attività di mutuo soccorso e di assistenza finanziate dai contributi dei lavoratori; esse beneficiavano di un atteggiamento di favore da parte dell’opinione pubblica benestante, che approvava il diffondersi tra gli operai del senso di risparmio, previdenza e responsabilità caratteristici dei valori borghesi21. A livello politico, l’ambiente sindacale inglese restò impegnato soprattutto nella lotta per l’allargamento dei diritto di voto e la completa legalizzazione dell’attività sindacale; esso aderì all’Internazionale, ma in chiave di vago solidarismo e al fine di limitare il possibile ricorso al crumiraggio internazionale. Una svolta subentrò solo nel corso degli anni Settanta, quando per la Gran Bretagna, sotto il peso della concorrenza estera, si interruppe il lungo periodo di prosperità precedente e cominciarono a circolare in Europa le nuove formulazioni teoriche socialiste collegate al pensiero di Henry George e Marx. Un primo gruppo a suo modo ispirato a Marx fu fondato da Hyndman (1881), ma fu presto attraversato da tensioni e andò incontro a una scissione; parallelamente (1884) prese forma la Fabian Society, di ispirazione socialista ma con un programma dichiaratamente gradualistico. Alla fine degli anni Ottanta, con alcuni grandi scioperi dei lavoratori del gas e dei portuali di Londra, entrò in fermento anche il mondo sindacale, che tornò a guardare ad un’azione più decisa e più ispirata alla solidarietà di classe. Frutto di questa nuova stagione del sindacalismo fu l’idea di costituire un partito politico di orientamento socialista (Indipendent Labour Party, ILP, 1893) che sostenesse a livello politico i valori di democrazia, solidarietà e allargamento dei diritti sociali caratteristici del nuovo sindacalismo. Fu solo nel ’99, tuttavia, che fu decisa la convocazione di una specifica commissione avente l’intento di far confluire lo ILP con le altre componenti sindacali e politiche che in vario modo si richiamavano al socialismo al fine di ottenere una rappresentanza politica dei lavoratori (Labour Representation Committee, LRC). Il comitato, che si riunì nel 1900, si mostrò poco propenso ad accettare la formulazione programmatica di coloro che volevano dar 21 G.D.H. Cole, Storia del movimento operaio inglese 1789-1900, pp. 242-4.
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vita ad un partito socialdemocratico di tipo marxista, avente lo scopo ultimo di socializzare i mezzi di produzione. I delegati, infatti, erano liberali radicaleggianti [… i quali] volevano che il movimento operaio avesse una rappresentanza parlamentare indipendente non perché avessero subito un processo sostanziale di conversione ideologica, ma perché […] erano giunti alla conclusione che il movimento operaio aveva bisogno di portavoce capaci e onesti in Parlamento, se voleva proteggere ed estendere i diritti penosamente conquistati. […] Dopo la creazione del LRC […] i membri del comitato si dedicarono immediatamente alla ricerca di alleanze elettorali, particolarmente con il partito liberale.22
L’azione politica della nuova formazione, che cominciò ad acquisire una rappresentanza di una certa consistenza nel 1906, fu coerente con questa impostazione ideologica riformista, puntando ad appoggiare qualsiasi iniziativa politica, anche governativa, che presentasse proposte volte a migliorare le condizioni del lavoro. In Francia la lenta ripresa successiva del movimento operaio dopo la repressione della Comune fu influenzata da un insieme di fattori: la tendenza delle classi dominanti a farsi coinvolgere in ricorrenti avventure a sfondo reazionario, la disomogeneità economica del paese, in larga parte agricolo e con un tessuto manifatturiero semiartigianale, e la varietà di impostazioni socialiste ereditata dal passato. Le organizzazioni dei lavoratori, quindi, apparvero condizionate da una forte frammentazione e da una scarsa chiarezza degli obiettivi politici. Un primo partito socialista, guidato da Guesde e Lafargue, nacque nel 1878 con un programma a cui aveva contribuito lo stesso Marx, ma esso fu sottoposto a successive scissioni, promosse da Vaillant (1881) e da Brousse (1882). Fu solo col nuovo secolo che si intravide qualche processo di unificazione. Dapprima (1901) si riunirono le due forze più intransigenti, critiche verso la partecipazione del socialista Millerand al governo Waldeck-Rousseau. Successivamente fu la volta del variegato mondo delle tendenze riformiste, che si riunirono nel Partito Socialista Francese guidato da Jaurès. I due partiti che erano nati da queste progressive aggregazioni, seguendo le indicazioni dell’Internazionale, si fusero a 22 R. Miliband, Il laburismo, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 16-7.
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loro volta nel 1905 e diedero vita alla Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (SFIO). Se la scarsa omogeneità politica fu una debolezza del socialismo francese, un secondo elemento problematico fu la scissione tra l’azione politica e quella rivendicativa, tra le quali venne a crearsi tendenzialmente una diffidenza reciproca. Fin dall’inizio, infatti, all’azione politica venne contrapposta la cosiddetta “azione diretta”, che partiva direttamente dal luogo di lavoro e che poteva essere declinata in una varietà di forme, culminanti nello sciopero generale. Dottrine di questo tipo trovarono accoglienza nella Confederazione Generale del Lavoro ed esprimevano la volontà di sottrarsi ad alleanze ed intrighi, di cui sembrava dar prova la scarsità di risultati che scaturivano dalla dialettica parlamentare. Nel complesso, dunque, il socialismo francese dimostrò la propria mancanza di incisività e un’insufficiente capacità di integrare l’azione rivendicativa con quella politica. Si verificò anzi un fenomeno di segno opposto, ossia la capacità da parte delle classi dominanti di integrare componenti socialiste nei governi borghesi e nella loro politica: dapprima vi fu il caso Millerand, poi la deviazione, in nome di un’alleanza progressista, delle forze socialiste dalla lotta di classe alla politica anticlericale e infine la gestione da parte di di esponenti di rilievo del fronte progressista (radicali e socialisti, come Clemenceau e Briand) della repressione di importanti ondate di scioperi23. 5.5 I divergenti percorsi dei movimento socialisti. L’Europa centro-orientale Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, l’effetto dell’unificazione della Germania e dell’accelerato sviluppo economico del paese contribuì in breve a spostare la leadership del movimento operaio in Europa sul versante della socialdemocrazia tedesca. I tratti di fondo che contraddistinsero l’esperienza tedesca furono in sostanza due: in primo luogo il ruolo subordinato della borghesia liberale, che aveva visto il proprio compito storico prioritario – ossia 23 Sulle vicende del socialismo francese nel suo insieme si veda G.D. H. Cole, Storia del pensiero socialista. 1889-1914 La seconda Internazionale, Laterza, Bari 1972, pp. 383-461.
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l’unificazione nazionale – realizzato dal militarismo prussiano; secondariamente la persistenza di un quadro di costituzionalismo monarchico, in cui il governo era responsabile solo verso il sovrano e il parlamento, nonostante la formale concessione del suffragio universale, giocava un ruolo del tutto subordinato24. In Germania la socialdemocrazia, nata nel ’75 a Gotha con la fusione della componente lassalliana e di quella eisenachiana, rimase legale in linea di principio, anche se le sue attività furono seriamente limitate tra il 1878 e il 1890 dalle leggi antisocialiste volute da Bismarck. Considerata la natura generale del sistema politico e la difficile condizione in cui fu posto inizialmente, non vi era alcuna prospettiva che il partito, anche dopo la fine delle leggi antisocialiste, potesse inserirsi nelle istituzioni come forza a cui era aperta la possibilità di entrare al governo, ragion per cui si è parlato a questo proposito di “integrazione negativa”25. Gli ostacoli posti sul cammino del partito non riuscirono tuttavia a frenarne lo slancio. Le tendenze oggettive dello sviluppo sociale verso cui il paese era incamminato e i vari espedienti con cui le leggi antisocialiste furono aggirate portarono infatti, verso la fine del periodo bismarckiano, alle soglie di un raddoppio dei voti socialisti. Nel 1891 la socialdemocrazia ebbe un nuovo programma integralmente marxista che il maggior teorico del partito, Kautsky, non mancò di illustrare più tardi con un dettagliato commento divulgativo26. Il consolidarsi del movimento dei lavoratori diede luogo progressivamente a un apparato di partito e attorno ad esso a una rete di sindacati, cooperative, organi di stampa e associazioni culturali la cui presenza politica finiva per imporsi. L’importanza di questa macchina organizzativa e la necessità di salvaguardarla finivano per consigliare ai dirigenti una certa cautela di movimento, evitando mosse avventate. La stessa avanzata del movimento, quindi, tendeva a creare le basi per una strategia gradualistica e riformistica, tanto più che bisognava orientare anche ampi strati picco-
24 G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, Il Mulino, Bologna 1971, p. 140 e p. 90. 25 Ivi, p. 7. 26 K. Kaustky, Il programma di Erfurt, Samonà e Savelli, Roma 1971.
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lo-borghesi e contadini ai quali non si poteva prospettare una linea troppo radicale. La tendenza riformistica era dunque oggettivamente radicata nella socialdemocrazia, ma dato che il partito tedesco si era assunto il ruolo di custode dell’ortodossia marxista, la giustificazione teorica del riformismo diede luogo a un aspro dibattito interno. Bernstein nel ’99 esplicitò la necessità di rivedere il pensiero marxiano, di cui venivano criticati quelli che ne erano considerati i punti cardine: la tesi marxiana dello sfruttamento era considerata unilaterale e contrastante col progressivo miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia; anche la concentrazione del capitale – si sosteneva – era un processo meno netto di quanto Marx avesse pensato e le sue conseguenze non apparivano del tutto negative. Il socialismo, quindi, non era un processo ineluttabile che nasceva dalle contraddizioni economiche della società capitalistica, perché esse non erano così incisive come si era creduto: secondo Bernstein, il socialismo diveniva il lontano punto d’approdo di un processo di crescita morale e politica del movimento operaio. Contro i revisionisti si schierò l’ala ortodossa del partito, capeggiata da Bebel sul piano politico e da Kautsky su quello teorico. Kautsky sosteneva che Bernstein aveva travisato il pensiero di Marx e riteneva comunque che nel giro di alcuni decenni le tendenze distruttive del capitalismo, momentaneamente sopite, sarebbero riemerse. In un primo tempo gli ortodossi prevalsero e i revisionisti furono messi in minoranza. Sul piano ideologico la replica ebbe un certo successo, ma per le ragioni sopra ricordate anche l’ala ortodossa del partito – se si eccettua l’estrema sinistra di esso – non era in alcun modo disposta a impegnarsi concretamente in un’azione rivoluzionaria vera e propria. Alla polemica teorica si accompagnava quindi un sostanziale compromesso politico con i revisionisti. Formalmente, dato lo sforzo di tenere unito il partito sul piano ideologico, la socialdemocrazia tedesca continuava a presentare una facciata di incrollabili formulazioni di principio marxiste, dietro le quali stava però la volontà della maggioranza di non accettare nessuna prova di forza decisiva, come rivelavano le reticenze del
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dibattito sullo sciopero di massa27: lo scoppio della prima guerra mondiale avrebbe reso evidente questo equivoco di fondo. Ovunque fosse stata all’opera una istituzionalizzazione più o meno dissimulata – quanto meno nella forma minimale di quell’“integrazione negativa” di cui si è detto in relazione alla socialdemocrazia tedesca – i partiti operai si dimostrarono propensi alla collaborazione di classe, perfino nel caso di quello tedesco, il più ideologizzato tra essi. Solo in Russia il socialismo fece registrare una evoluzione radicalmente difforme da quella verificatasi negli altri grandi paesi europei. Il lento sviluppo economico della Russia portava con sè la persistenza di rilevanti elementi di arretratezza a livello sociale e politico: 1) sostanziale stabilità dell’autocrazia zarista, cui si accompagnava la mancanza pressoché totale di dialettica politica costituzionalmente legittima; 2) debolezza della borghesia, con un’opposizione liberale che stentava a prender corpo e che andò organizzandosi lentamente, in parallelo col al movimento dei lavoratori; 3) larga prevalenza dell’elemento contadino, a cui faceva riscontro una crescita ben percettibile, ma nel complesso ancora contenuta della classe operaia. Per questo insieme di ragioni il socialismo in Russia maturò tardi e la totale chiusura a ogni forma di opposizione mostrata dal regime zarista, a differenza di quanto era avvenuto nei più avanzati paesi europei, conferì un maggior spazio alle correnti rivoluzionarie Le forze che verso fine secolo potevano esser riferite al socialismo in Russia erano due. La più legata alla tradizione era quella dei socialisti rivoluzionari, formazione che aveva il proprio soggetto sociale di riferimento tra i contadini, gli artigiani e gli operai delle zone rurali. Essa, che poneva in primo piano tra i propri obiettivi la spartizione delle terre, si articolava in un ventaglio di tendenze che andavano dall’estremismo rivoluzionario al riformismo. La socialdemocrazia, ispirata invece all’emancipazione operaia e al pensiero marxista, ben presto si scisse nelle due componenti fondamentali che caratterizzarono la sua storia fino alla rivoluzio27 E. Matthias, Kautsky e il kautskismo, De Donato, Bari 1971, pp. 49-50. Si veda anche, con sfumature differenti, M.L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista 1880-1938, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 122-34 e M. Waldenberg, Il papa rosso. Karl Kaustky, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 523-68.
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ne del ’17: bolscevichi e menscevichi. La differenziazione tra le due correnti, che dopo alcuni anni di difficile convivenza finirono per costituire due differenti partiti, passava attraverso due ordini di controversie, che si acutizzarono rispettivamente in occasione del secondo congresso del partito (1903) e con la rivoluzione del 1905. La prima disputa verteva sulla questione dell’organizzazione, che i menscevichi volevano più aperta alla partecipazione e collaborazione esterna – secondo il modello prevalente nella seconda Internazionale – e i bolscevichi invece più strettamente vincolata sul piano individuale all’organizzazione. Quest’ultima, di conseguenza, avrebbe assunto un carattere più coeso e ideologicamente determinato. La seconda questione controversa era invece relativa al ruolo del partito nel passaggio dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione proletaria, a cui si connetteva il problema dell’atteggiamento verso la componente contadina della rivoluzione stessa, che in Russia costituiva un fattore determinante. Anche in questo caso la posizione menscevica era più in sintonia con la mentalità prevalente della seconda Internazionale, che tendeva a ragionare in termini di stadi sequenziali. La rivoluzione, per comune ammissione, avrebbe assunto inizialmente un carattere borghese: i menscevichi ritenevano tuttavia – in ossequio all’impostazione stadiale di cui si diceva – che dopo la vittoria della rivoluzione il partito operaio non avrebbe dovuto partecipare ad un governo borghese e che le contraddizioni di classe sarebbero maturate in un momento successivo; il timore dei bolscevichi era invece che la borghesia sarebbe stata troppo pavida per portare avanti la rivoluzione e che questa avrebbe rischiato di arenarsi se il partito operaio non avesse partecipato al governo, mobilitando anche i contadini poveri per impedire che si consolidasse un compromesso tra la borghesia e le forze della reazione feudale28. Fin dai primi anni del Novecento i bolscevichi avevano dunque posto le premesse per una linea politico-organizzativa che si distanziava di fatto da quella prevalente nella maggioranza dei partiti operai europei. La linea bolscevica non può esser tuttavia connotata solo attraverso le questioni che furono al centro del dibattito di 28 G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, cit., pp. 462-569. Più recentemente, sullo sviluppo del socialismo in Russia si vedano i saggi di A. Walicki, V. Strada, I. Getzler, J. Scherrer, in AA. VV., Storia del marxismo, Einaudi 1979, vol. II, pp. 359-546.
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inizio del secolo. Negli anni seguenti, allorché le tensioni fra stati si fecero sempre più acute, a queste scelte si aggiunse infatti una netta consapevolezza del carattere di classe delle lotte politiche per le sfere d’influenza in una dimensione internazionale. In tal modo i bolscevichi affrontarono le prove culminate nella prima guerra mondiale unendo alla lucida consapevolezza sulla natura dei conflitti di classe interni quella relativa alla dimensione internazionale, dando prova in tal modo di una coscienza che mancava alle altre componenti del movimento operaio. Sarebbe tuttavia fuorviante ricondurre il successo rivoluzionario del ’17 unicamente alle capacità politico-organizzative dei bolscevichi. A differenza di quanto era avvenuto in Occidente la Russia, entrando nella guerra mondiale, stava affrontando una prova che avrebbe non solo logorato i rapporti tra le masse popolari e il governo, ma anche i rapporti interni al blocco dominante che sosteneva l’autocrazia zarista. La Russia, infatti, era entrata in guerra pur essendo l’unico paese europeo in cui si era avuta una rivoluzione (1905) e dove questa crisi era stata superata con difficoltà, dando vita a un regime semicostituzionale incapace di rinnovare il sistema politico. Con la guerra si aggiunse l’isolamento sempre maggiore della famiglia imperiale, mentre le singole componenti del blocco dominante (borghesia, nobiltà, chiesa ufficiale) non erano più in grado di esprimere una volontà unitaria. Fu in tale clima che maturò l’abdicazione dello zar, atto che diede vita alla definitiva disgregazione di equilibri secolari. 5.6 La risposta delle classi dominanti Nel corso dell’Ottocento, in parallelo alla trasformazione economica e sociale, il liberalismo aveva accresciuto la propria penetrazione nei paesi dell’Europa occidentale e centrale. In linea generale, le sue rivendicazioni riguardavano per un verso la tutela dei diritti dei cittadini e la possibilità che questi partecipassero alla vita politica nel quadro di precise garanzie costituzionali e per l’altro l’emancipazione dell’individuo dai vincoli restrittivi sul piano giuridico ed economico. Forte di tali principi, il liberalismo tendeva a considerare se stesso come rappresentante delle istanze di progresso dell’intera società.
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Col tempo l’ideologia liberale si era rivelata un utile strumento per conferire alla borghesia un ruolo politico di rilievo, ma gradualmente essa aveva cominciato a veder contestata la pretesa di incarnare l’interesse generale della società di cui si era fatta forza in precedenza. Per quanto non priva di limiti e contraddizioni interne, infatti, l’avanzata del movimento operaio si stava rivelando una tendenza vigorosa e generalizzata che metteva in discussione i privilegi borghesi non meno di quelli delle classi che avevano esercitato il dominio politico in passato. Avendo in parte realizzato i propri compiti storici originari e sentendosi incalzata dalle forze politiche che rappresentavano le classi lavoratrici, negli ultimi decenni del secolo la borghesia liberale andò avvicinandosi ai conservatori29. Il processo di convergenza tra queste sponde politiche che fino al recente passato erano state opposte è un fenomeno complesso, del quale è necessario individuare alcune delle dinamiche di maggior rilievo. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, ci soffermeremo sulle due che si possono ritenere fondamentali: la persistenza dell’aristocrazia e la graduale diffusione del nazionalismo, un orientamento che avrebbe alla fine trascinato anche il movimento operaio nel turbine del conflitto mondiale. Il primo punto da sottolineare è che la trasformazione industriale ripercorsa nella prima parte di questo capitolo non ebbe il carattere così travolgente che una rappresentazione di maniera aveva portato a postulare. Il settore agricolo, infatti, aveva dimostrato una notevole persistenza e con essa le tradizionali stratificazioni di classe; anche la crescita industriale si era limitata prevalentemente al settore dei beni di consumo, mentre il capitalismo delle grandi concentrazioni economiche e delle grandi masse operaie aveva cominciato a prender vigore solo con la fine del secolo. La conseguenza di questo andamento è che la borghesia stentava ancora a rivendicare il proprio ruolo autonomo, mentre l’elemento nobiliare si mostrava molto più robusto, coeso e fiducioso. Le borghesie in ascesa guardavano quindi alla nobiltà, formata da proprietari terrieri ma anche dai più elevati servitori civili e militari dello stato, come ad un punto di riferimento e mostravano una costante tendenza ad assimilarsi ad essa. Certamente anche la nobiltà cercò 29 W. Mommsen, L’età dell’imperialismo. Europa 1885-1918, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 13-19.
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di approfittare delle occasioni economiche create dal capitalismo in espansione e di intrecciare le proprie fortune a quelle borghesi, così come gli apparati di stato amministrativi e militari si aprivano – specialmente nei ranghi più bassi – alle competenze tecniche dei borghesi; nonostante ciò, tuttavia, la pressione indirizzata in senso inverso era senza dubbio maggiore30. La seconda dinamica che andò crescendo nel corso dell’Ottocento fu quella che declinò il nazionalismo in chiave conservatrice ed aggressiva. Un cambiamento di carattere del nazionalismo era connesso inevitabilmente all’industrializzazione e al fatto che quest’ultima tendeva a disarticolare le comunità locali e con ciò a disperdere le popolazioni su aree più vaste, diluendo in misura crescente i legami di parentela, di vicinato, di cooperazione reciproca. Man mano che venivano meno nella realtà, questi nessi vennero proiettati su una nuova comunità immaginaria, la “nazione”, a cui gli stati davano progressivamente vita allo scopo di creare un collante di lealtà sociale al quale far appello verso l’interno e l’esterno. Negli ultimi decenni del secolo, man mano che si accentuavano la concorrenza internazionale e i conflitti tra stati, il nazionalismo assunse una colorazione sempre più xenofoba e aggressiva e nello stesso tempo si diffuse tra i ceti medi (artigiani, commercianti, agricoltori), agli occhi dei quali i disagi sociali sembravano in gran parte spiegati dai complotti dello straniero. Di questo stesso movimento fece parte anche l’ostilità che si rivolgeva verso coloro che venivano considerati gli “stranieri” per eccellenza, ossia verso gli ebrei. In tal modo il nazionalismo dava a questi ceti un’identità collettiva che compensava l’inferiorità sociale31. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento l’influenza tenace delle forze conservatrici, che forniva alla borghesia un polo di riferimento, finì per convergere con il processo di formazione di un’identità nazionale collettiva di ispirazione nazionalistica e xenofoba, dando 30 Cerchiamo di sintetizzare la linea argomentativa proposta da Mayer, che nel suo volume è esposta in varie riprese. A. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 10-1, 16-29, 38-118, 122-4, 164-73. 31 E.J. Hobsbawn, Nazionalismo, Rizzoli, Milano 2021, pp.91-3 e pp. 106-9. Sull’esclusione di ebrei e minoranze etniche si veda anche D. Sassoon, Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo 1860-1914, Garzanti, Milano 2022, pp. 362-86.
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luogo a forze composite il cui intento era di bloccare ogni tentativo di riforma liberale e democratica. Queste ultime si affidavano a ideologie elitistiche richiamantesi in vario modo alla competizione e alla lotta per l’esistenza, conferendo centralità al militarismo e all’esercito che ne rappresentava l’incarnazione istituzionale32. La riflessione politica portata avanti dai partiti operai si schierava contro questo tipo di degenerazioni, ma tale spinta era però destinata a rimanere lettera morta, dal momento che non si traduceva in una piena consapevolezza del carattere di classe del conflitto mondiale. Né si può dire che il graduale moltiplicarsi dell’inquietudine delle relazioni internazionali che precedette il conflitto fosse stata in grado di far maturare quella riflessione che era mancata negli anni precedenti. Si può anzi affermare che la maggior parte dei partiti operai – e in particolare la prestigiosa socialdemocrazia tedesca – si accodò alle giustificazioni che ognuno dei paesi in lotta addusse per legittimare la propria entrata in guerra e alla difesa di quelli che ogni paese considerava i valori nazionali. Il movimento operaio, che nelle proprie risoluzioni aveva proclamato l’opposizione alla guerra, alla fine fu travolto dalla catastrofe.
32 A. Mayer, op. cit., pp. 269-300.
6. EGEMONISMO NAPOLEONICO E RITORNO ALL’EQUILIBRIO
6.1 La Francia dalla Rivoluzione all’egemonismo L’epoca delle guerre dagli obiettivi misurati e dai risultati facilmente negoziabili e reciprocamente compensabili ai tavoli della diplomazia che avevano caratterizzato il Settecento venne bruscamente a cessare nell’ultimo scorcio del secolo. A partire da questo momento e per oltre due decenni la Francia mantenne una forte capacità di iniziativa politico-militare che le permise di esercitare in Europa una prevalenza che divenne durante l’impero una vera e propria egemonia politica sul continente. Gli eventi che si verificarono in questo periodo sono sono riconducibili sostanzialmente a tre componenti di fondo: 1) in primo luogo lo scoppio della rivoluzione portò alla ribalta soggetti sociali in grado di mettere in gioco energie nuove in un contesto di dinamiche inedite; 2) proprio per questo, in secondo luogo, la Francia impose alle altre potenze la propria iniziativa attraverso una inedita organizzazione militare e un nuovo modo di combattere; 3) per lungo tempo, infine, essa riuscì a mantenere divise le potenze europee che la osteggiavano. L’esercito con cui la Francia iniziò la guerra contro gli austro-prussiani era, come è noto, un esercito reclutato coi criteri della tradizione settecentesca, nel quale tuttavia il primo triennio della Rivoluzione aveva aperto grosse crepe, soprattutto per quanto riguardava la crisi dei quadri, in maggioranza di origine nobiliare. Le potenze che lo fronteggiavano, tuttavia, erano lungi dal presentarsi compatte, a cominciare dagli austro-prussiani che nel frattempo avevano l’occhio attento alle due ultime spartizioni della Polonia. Anche il fronte della coalizione che si inaugurò nel ’93 ad opera della Gran Bretagna1 era scarsamente compatto e minato anzi dai 1
Gli stati che ne facevano parte erano Gran Bretagna, Austria, Prussia e vari stati tedeschi, Olanda, Spagna, Portogallo, Regno di Sardegna, Regno di Napoli, Stato della Chiesa.
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particolarismi dei singoli stati, più preoccupati di strappare qualche ingrandimento territoriale che di restaurare la monarchia in Francia. L’andamento della guerra iniziata nel ’92 fu dapprima alterno. Inizialmente si presentò il pericolo dell’invasione del suolo francese, arginato dopo Valmy; nel ’93 si verificò l’occupazione francese del Belgio, ma nel corso dello stesso anno le sorti militari si rovesciarono nuovamente e si resero necessari gli imponenti sforzi del governo giacobino per fronteggiare il pericolo. Fu proprio la riuscita di questi ultimi che consentì alla Francia non solo di forgiare un apparato militare di rilievo, in linea con le esigenze del governo rivoluzionario, ma anche di trasformare la guerra difensiva in guerra offensiva. Divenendo strumento di conquista, la guerra cominciò a mutare alcune caratteristiche essenziali, coprendo i costi dell’apparato militare attraverso le acquisizioni territoriali e le contribuzioni imposte ai paesi occupati, mentre l’esercito assumeva gradualmente i tratti di un esercito di mestiere fedele ai propri capi2. La guerra contro la prima coalizione si svolse in due fasi. In un primo tempo, superata la crisi del ’93, le armate francesi presero l’iniziativa su tutti i fronti e nel ’95 avevano imposto la pace con cessioni territoriali all’Olanda3, alla Spagna e alla Prussia, alla quale venivano prospettate compensazioni in cambio delle acquisizioni francesi sulla riva sinistra del Reno e la possibilità – in funzione antiaustriaca – di svolgere il ruolo di interlocutore privilegiato della Francia nella sistemazione delle questioni aperte nel mondo tedesco. Conclusa questa prima tappa, rimaneva ancora in piedi la guerra contro Gran Bretagna, Austria e vari stati italiani. Una parte rilevante di questo secondo tempo delle operazioni militari fu costituita dalla campagna d’Italia, nella quale si impose come figura di rilievo internazionale Bonaparte. Il quadro strategico entro cui la campagna 2
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“Questa truppa accampata in paesi stranieri, necessariamente diventata truppa di mestiere, si volge[va] ora verso i suoi generali. La devozione alla nazione faceva lentamente posto alla fedeltà a un capo, allo spirito di avventura e ben presto di saccheggio”. A. Soboul, La rivoluzione francese, cit., pp. 498-9. In un senso analogo anche F. Furet, D. Richet, La Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1980, p. 399. L’Olanda dovette cedere importanti piazzeforti, a pagare un’indennità di guerra e a stabilire un rapporto di alleanza con la Francia, con connesso mantenimento di un corpo di truppe. Il paese fu trasformato in repubblica, la Repubblica Batava, divenendo uno stato satellite della Francia.
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era stata concepita prevedeva un colpo decisivo da sferrare in Germania da parte delle armate guidate da Jourdan e Moreau e un ruolo diversivo per l’armata d’Italia, che avrebbe dovuto contrastare Piemontesi e Austriaci. L’armata d’Italia, dapprima affidata a Schérer e passata successivamente sotto il comando di Bonaparte, era mal pagata, carente di cavalleria e male attrezzata anche sul piano logistico. Gli eventi smentirono le premesse iniziali. Le due armate inviate in Germania, dopo i primi successi subirono dei rovesci, mentre in Italia la guida di Bonaparte riuscì a superare le limitazioni di quella che avrebbe dovuto essere un’armata di importanza non decisiva. Nel giro di un anno i domini austriaci in Italia caddero nella mani dei Francesi, i quali non solo acquisirono un netto predominio nella parte settentrionale e centrale della penisola, ma riuscirono a incunearsi in territorio austriaco e ad imporre all’Austria i preliminari di pace4. Mentre il governo francese intendeva scambiare le conquiste in Lombardia con la riva sinistra del Reno, Bonaparte, firmando a Leoben i preliminari di cui si è detto, perseguì una diversa strategia: in cambio del Belgio e della Lombardia egli concedette all’Austria l’Istria, la Dalmazia e gran parte del territorio della repubblica di Venezia (la quale – in questo stadio della trattativa – avrebbe dovuto tuttavia essere indennizzata). 4
All’esordio della campagna, in una decina di giorni di serrati scontri culminati a Mondovì, Napoleone riuscì a separare i Piemontesi dagli Austriaci e a batterli, imponendo loro l’armistizio di Cherasco, col quale si conseguivano tra l’altro Nizza e Savoia. Traversato il Po da Sud (a Piacenza) i Francesi batterono gli Austriaci a Lodi, entrando a Milano il 15 maggio. In breve tempo fu posto l’assedio a Mantova, la munitissima fortezza austriaca che controllava la via delle Alpi, e vennero strappate concessioni e lembi di territorio agli stati dell’Italia centrale. Nei mesi successivi Bonaparte dovette contrastare quattro consecutivi attacchi austriaci (Castiglione, Bassano, Arcole e Rivoli). Fu solo all’inizio del ’97, dopo Rivoli, che i Francesi poterono impadronirsi di Mantova. Ripresa la guerra contro il papa, in breve costrinsero lo stato pontificio alla capitolazione definitiva e alla cessione di Romagna, Bologna e Ferrara, nonché di Avignone (pace di Tolentino). Nell’autunno del 1796, intanto, Bonaparte aveva favorito, grazie alla fusione di Ferrara, Modena, Reggio Emilia e Bologna, la creazione della Repubblica Cispadana, che poco dopo ebbe una costituzione modellata su quella francese del 1795. Poco più tardi, Bonaparte decise di creare con i territori della Lombardia e di parte del Veneto la Repubblica Cisalpina, nella quale vennero fatti confluire la Cispadana, la Romagna e altri territori.
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Una volta decise le sorti del dominio veneto, Bonaparte approfittò poi di alcuni episodi antifrancesi, verificatisi a Verona e Venezia stessa, per imporre la democratizzazione del vecchio governo oligarchico e occupare il territorio della repubblica (aprile-maggio 1797). I preliminari di Leoben vennero successivamente integrati dal trattato di Campoformio (ottobre 1797). L’Austria acquisiva Venezia, la terraferma veneta fino all’Adige, l’Istria e la Dalmazia e varie isole, allargando la sua presenza sull’Adriatico. La Francia otteneva la rinuncia austriaca al Belgio e alla riva sinistra del Reno, oltre al rimanente dei domini veneziani; essa vide inoltre riconosciuta la grande Repubblica Cisalpina, che ebbe al suo fianco la neonata Repubblica Ligure. Nel contesto tipico del Settecento, mutamenti di tale entità avrebbero offerto lavoro alla diplomazia nel tentativo di cercare compensazioni agli squilibri venutisi a determinare tra sfere d’influenza precedentemente consolidate, ma nulla di simile accadde all’indomani di Campoformio. Nei pochi anni passati dall’esordio della Rivoluzione francese, infatti, la situazione si era fortemente radicalizzata, sia in relazione alle contrapposizioni ideologiche, sia nei rapporti fra stati. La tensione tra Francia e Gran Bretagna, in particolare, rimaneva alta e in Francia si era convinti che oltremanica le condizioni economiche e sociali fossero ormai ai limiti. Per tale ragione, la conseguenza dei mutamenti avvenuti fu il determinarsi di un clima di “guerra perpetua”5 in grado di impedire ogni ripresa della trattativa. L’aumento dell’instabilità in Europa fu evidente dall’allargamento della cintura di “repubbliche sorelle” di cui la Francia si circondava in qualità di stati satelliti. Nel ’98 la Repubblica Batava fu riorganizzata, mentre in Svizzera venne creata una Repubblica Elvetica. In Italia, in breve tempo i vecchi stati superstiti crollarono e nacquero la Repubblica Romana e la Repubblica Partenopea6. 5 6
F. Furet, D. Richet, op. cit., pp. 504-5. Nel primo caso, l’uccisione di un generale francese da parte delle forze pontificie, nel corso di una dimostrazione popolare, diede ai Francesi il pretesto per procedere all’occupazione militare di Roma, cui seguirono la proclamazione della repubblica (15 febbraio 1798) e l’esilio del papa in Toscana. Una successiva azione del re di Napoli contro la Repubblica Romana consentì ai Francesi di penetrare nel territorio napoletano, provocando così la fuga del re in Sicilia, mentre veniva riconosciuta la repubblica formata dai patrioti (24 gennaio 1799).
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Si trattava di un insieme di eventi che non poteva che accrescere l’apprensione generale7. Altrettanto difficile era la situazione a Parigi, dove il Direttorio subiva gli effetti delle lacerazioni interne al paese e della prolungata situazione di guerra. Il rientro di Bonaparte creava timori latenti sia da parte del Direttorio, timoroso per le ambizioni del generale, sia da parte di quest’ultimo, che temeva di esser ridimensionato in breve. Nello stesso tempo urgeva la guerra con la Gran Bretagna, che la Francia non riusciva a concludere. Il blocco commerciale, che vietava gli acquisti nel paese nemico sia ai Francesi che ai paesi neutrali, non si era rivelato infatti un’arma decisiva e il progetto di uno sbarco nell’isola era reso pressoché impraticabile dalle difficoltà logistiche e dalla capacità di interdizione dalla flotta britannica. Di fronte a questa complessa situazione, Bonaparte avanzò una proposta che gli offriva un’occasione personale e nello stesso tempo sembrava dare un nuovo orientamento alla strategia francese. Egli propose infatti di dislocare il teatro dello scontro in direzione dell’Egitto. L’impresa era tale da prospettare all’opinione pubblica francese molte aspettative di controllo del Mediterraneo e dell’area medio-orientale, con la conseguente possibilità di colpire i traffici inglesi con l’India. La spedizione francese, sebbene nominalmente diretta contro i guerrieri mamelucchi che sfruttavano l’Egitto e quindi formalmente rispettosa dei diritti del sultano, allarmò non solo la Gran Bretagna e la Turchia, ma anche la Russia. In breve, si costituì una Seconda coalizione, cui si aggiunsero Austria, Napoli e Svezia, e la Francia si trovò nuovamente in gravi difficoltà. Bonaparte, intanto, otteneva in Oriente successi tanto fulminei quanto privi di utilità sostanziale. Malta e l’Egitto vennero occupati, ma la flotta inglese, al comando di Nelson, distrusse la quasi totalità di quella francese ad Abukir, impedendo alla spedizione il ritorno in patria. Le operazioni di assedio del 1799 in Siria, a San Giovanni d’Acri, si risolsero in una dura ritirata e, nonostante una nuova vittoria ottenuta dopo il ritorno, Bonaparte rimase intrappolato in Egitto. 7
“Azioni così arroganti erano però molto rischiose dal punto di vista diplomatico. Sorprende molto che a ciò non seguisse una guerra di vaste proporzioni, specialmente dopo che Malta e l’Egitto furono aggiunti all’elenco delle conquiste francesi”. D.G. Chandler, Le campagne di Napoleone, RCS, Milano 1992, p. 336.
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Ancor più disastrosi sembravano gli esiti della guerra sul continente europeo, dove gli eserciti francesi furono ripetutamente sconfitti dagli austro-russi in Germania e in Italia, mentre anche l’Olanda era gravemente a rischio. I fallimenti travolsero così i destini delle neonate repubbliche italiane8. Proprio al culmine del successo, tuttavia, la reciproca diffidenza all’interno della Seconda coalizione impedì il tracollo definitivo della Francia. Le trattative fra gli stati coalizzati portarono infatti a una riorganizzazione degli alti comandi e dei fronti d’operazioni che causò difficoltà di coordinamento e fece guadagnare tempo all’avversario. Tra settembre e ottobre del 1799 l’iniziativa era passata nuovamente in mano ai Francesi, sia in Svizzera che in Olanda, mentre anche lo zar usciva dalla coalizione. Nonostante l’irreparabile non fosse accaduto, le difficoltà della situazione militare e il crollo del dominio francese in Italia avevano ulteriormente logorato il Direttorio, nel quale si respirava una crescente atmosfera di congiura. Essa fu colta da Bonaparte, allorché – lasciando l’esercito in Egitto al suo destino e privo di una prospettiva strategica – egli si presentò in Francia circondato dal prestigio esteriore delle vittorie ottenute e svolse il ruolo di protagonista militare di cui il progettato colpo di stato aveva bisogno. Divenuto primo console, Bonaparte assunse nei confronti di Gran Bretagna e Austria un atteggiamento apparentemente pacificatore, che nella sostanza tuttavia copriva una mossa diplomatica finalizzata a lasciare agli avversari la responsabilità di continuare la guerra. Di fronte alle risposte negative ottenute, infatti, essa riprese rapidamente. Sebbene forze consistenti fossero state destinate al fronte renano con l’obiettivo di raggiungere la Baviera, la campagna principale si sarebbe giocata ancora una volta in Italia. Valicato il Gran San Bernardo, Bonaparte entrò in Milano all’inizio di giugno e proseguì verso Sud, ma perdendo a un certo punto il contatto con l’esercito austriaco di Melas che era suo intento affrontare. Fu così che Melas poté attaccarlo di sorpresa, in condizioni di relativa debolezza, 8
Nell’estate del 1799 tutta la penisola centro-settentrionale, tranne la Liguria, era ormai nelle mani delle forze antifrancesi. Nel Meridione, il peso delle contribuzioni imposte dagli occupanti e il ritardo nel varo di provvedimenti antifeudali da parte della Repubblica Partenopea provocarono la rivolta dei contadini, contribuendo alla riconquista borbonica. Mentre Ferdinando IV rientrava a Napoli e faceva massacrare i patrioti italiani, anche la Repubblica Romana cadeva.
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a Marengo. L’esito della battaglia, che stava stava per volgere a favore degli Austriaci, fu tuttavia rovesciato dalla ricomparsa del contingente di Desaix, precedentemente distaccato in compiti di ricognizione. Alcuni mesi più tardi i generali Brune al Nord e Murat al Sud riuscirono ad aver ragione degli Austriaci e dei Napoletani. Nello stesso tempo in Baviera, a Hohenlinden, Moreau infliggeva una nuova e definitiva sconfitta agli Austriaci. Il 9 febbraio del 1801 fu firmata la pace di Lunéville con l’Austria, che riconfermava più esplicitamente le condizioni del trattato di Campoformio. Essa prevedeva, in particolare, la cessione alla Francia della riva sinistra del Reno e l’indennizzo dei principi tedeschi spossessati con domini ricavati da una riorganizzazione territoriale della Germania. Furono poi riconosciute le repubbliche Batava, Elvetica, Cisalpina e Ligure9. Anche la Gran Bretagna, infine, fu indotta a più miti consigli da una serie di motivi: un pericoloso intervento franco-spagnolo nel Portogallo, che rischiava danneggiare seriamente la navigazione e il commercio britannici, la volontà di riprendere i traffici con il continente e le tensioni sociali provocarono una crescente aspirazione alla pace. Per tale ragione si arrivò nel 1802 all’accordo di Amiens, sottoscritto dal governo Addington dopo le dimissioni di Pitt. Con esso la Gran Bretagna restituiva quasi tutti i possedimenti coloniali strappati alla Francia, mentre quest’ultima rinunciava all’Egitto ormai indifendibile e cedeva Malta all’ordine cavalleresco di San Giovanni, che la deteneva dai tempi di Carlo V. Con tale conclusione, i vantaggi acquisiti dalla Francia all’indomani di Campoformio sembravano ampliati e definitivamente riba9
Anche il predominio francese in Italia venne rafforzato. Il Piemonte rimase sotto l’occupazione territoriale francese, la Cisalpina venne ampliata, mentre il duca di Modena e il granduca di Toscana, legati dinasticamente agli Asburgo, perdevano i propri territori italiani (con diritto tuttavia a un indennizzo in Germania). La Cisalpina venne poi trasformata nel 1802 in Repubblica Italiana e, per quanto i patrioti aspirassero ormai all’indipendenza politica, furono designati come presidente e come suo vice rispettivamente Bonaparte e Francesco Melzi d’Eril. Più tardi, dopo l’incoronazione imperiale di Napoleone, essa fu trasformata in Regno d’Italia di cui Bonaparte assunse il trono. Poco dopo la Spagna, che perdeva Parma e la Louisiana a favore della Francia, venne compensata con la concessione del Regno d’Etruria, ricavato dalla Toscana, a Lodovico di Borbone, nipote della regina di Spagna e sposo di un’infanta. La Francia vendette poi, nel 1803, la Louisiana agli Stati Uniti.
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diti, ma si trattava appunto di un’alterazione inaudita – se misurata coi metri del secolo ormai giunto alla fine – dei rapporti di forza tra le potenze. Per tale ragione il mantenimento durevole della pace avrebbe richiesto per il futuro una disponibilità alla ricucitura diplomatica e al bilanciamento che non era facile trovare nell’Europa di allora, dove ormai la relativa omogeneità di strutture sociali e regimi politici ancora esistente nel Settecento stava venendo meno. 6.2 L’Europa napoleonica Durante il decennio che va dalla fine della guerra contro la seconda coalizione alla campagna di Russia si assistette a un progressivo assoggettamento dell’Europa ai voleri della Francia napoleonica, sorretto dalla potenza delle armate che essa era capace di mettere in campo. Nel ricostruire questa protratta stagione di guerre si è a lungo dibattuto sulla responsabilità del cronicizzarsi dei conflitti, distribuendola tra la Francia e le altre potenze, in particolar modo la Gran Bretagna. Per comprendere il periodo, tuttavia, più che cercare di rinvenire i frammenti di verità che tutte queste analisi in qualche modo contengono, è necessario mettere a fuoco le caratteristiche generali assunte dai rapporti internazionali in quegli anni, che ruotano attorno ad alcuni punti cardine. Di fondamentale importanza è il fatto che nella guerra contro le due prime coalizioni la Francia aveva conseguito risultati territoriali di notevole rilievo, che andavano molto al di là di quelli per i quali essa si era battuta nel secolo precedente. La contrapposizione con la Gran Bretagna non solo rinnovava e portava su un piano più alto i conflitti coloniali settecenteschi, ma li intrecciava a quelli relativi ai mercati europei e – sul piano politico – all’interesse verso quegli stati che la Gran Bretagna considerava i propri punti di riferimento sul continente10. In particolare, inoltre, va sottoli10 Indubbiamente era già in atto da tempo una competizione tra le due maggiori potenze incamminate sulla via dei rapporti sociali capitalistici. Come ha scritto a suo tempo Tarle, “la Francia, che aveva imboccato da poco tempo la via dello sviluppo industriale capitalistico, doveva drasticamente scontrarsi con l’Inghilterra, che l’aveva intrapresa già da molto tempo con risultati incomparabilmente maggiori”. Non va tuttavia dimenticato che la lotta contro la Francia fu sostenuta dalla Gran Bretagna in stretta unità con le potenze so-
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neato che l’acquisizione francese della riva sinistra del Reno e le modalità di indennizzo che essa prevedeva avrebbe richiesto una ristrutturazione tale da sconvolgere i rapporti di forza nell’ambito del mondo tedesco, approfondendo i contrasti interni a quest’ultimo. Il complesso delle potenze che avversavano la Francia, infine, non costituiva un fronte compatto, ma alcune di esse si prestavano ad assecondare il gioco francese, come era stato il caso, in quegli anni, soprattutto della Prussia. Il conflitto franco-britannico era ormai troppo radicato per approdare a una pacificazione durevole. Al trattato di pace non seguirono infatti le sperate concessioni commerciali sui mercati sotto il controllo francese, mentre la Francia dava segnali di avere ambizioni coloniali in varie direzioni (Santo Domingo, Mediterraneo orientale, India); la Gran Bretagna, a sua volta, rallentò l’evacuazione dell’Egitto e di Malta, dando l’impressione di assecondare segretamente le trame monarchiche in Francia. Dalla primavera del 1803 Francia e Gran Bretagna erano di nuovo in guerra, anche se per oltre un anno non vi furono coinvolte altre potenze. L’entità degli sconvolgimenti politici che la Francia stava introducendo in Germania e in Italia, tuttavia, fu tale che tra il 1804 e il 1805 la diplomazia britannica riuscì a superare le esitazioni di Austria e Russia, dando vita alla terza coalizione11. L’abilità politica di Talleyrand riuscì tuttavia a tener fuori da essa – per lo meno inizialmente – la Prussia, a cui fu fatta balenare la possibilità di acquistare l’Hannover. L’intenzione iniziale di Napoleone, quando la coalizione non era ancora formata, era di tentare lo sbarco in terra britannica e per tale ragione sulla Manica fu concentrata una gran quantità di uomini e mezzi, ma l’impresa continuava a rimanere ardua per le difficoltà connesse ai fattori atmosferici e alla copertura navale. Verso l’estate del 1805 fu evidente che non era possibile tenere congelate inutilmente in posizione d’attesa truppe che avrebbero potuto essere dicialmente più arretrate del continente. Per dirla ancora con Tarle, “Napoleone era destinato a battersi per tutta la vita contro la coalizione delle monarchie semifeudali, economicamente arretrate, capeggiate però dalla nazione economicamente più avanzata, che godeva di una assoluta egemonia nel mondo capitalistico di quei tempi”. E.V. Tarle, Napoleone, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 141. 11 Oltre ad esse, si associarono la Svezia e il Regno di Napoli. Sull’insieme di questi eventi, D.G. Chandler, op. cit., pp. 413-425.
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rette contro la coalizione avversaria che si apprestava a colpire. Di conseguenza le truppe destinate allo sbarco furono con ogni precauzione di segretezza, fatte confluire in una grande armata che marciò in contingenti separati dal Reno al Danubio, convergendo su Ulm. Qui (20 ottobre) 1805 i Francesi trionfarono, aprendosi la strada per Vienna, mentre il 2 dicembre una nuova folgorante vittoria contro gli austro-russi si registrò ad Austerlitz. Nelle successive trattative di pace l’Austria fu trattata assai duramente: con la Pace di Presburgo (1805) dovette cedere a Napoleone Venezia e il Veneto, il Friuli, l’Istria e la Dalmazia, nonché pagare una pesante indennità di guerra. L’imperatore dovette inoltre riconoscere come re gli elettori di Baviera e del Württemberg. In seguito ai nuovi eventi, il riassetto territoriale della Germania, in corso fin dal 1802-03, ricevette un nuovo impulso: Baviera, Württemberg e altri stati minori ruppero i loro legami con l’impero asburgico, riorganizzandosi in una Confederazione renana la cui presidenza fu offerta a Napoleone (1806). All’interno della confederazione, i piccoli stati furono fatti confluire in quelli maggiori. In cambio, questi ultimi si impegnarono a fornire a Napoleone contingenti di truppe12. Il Sacro Romano Impero della nazione tedesca non aveva più ormai ragion d’essere e Francesco II assunse, col nome di Francesco I, il 12 Nel suo autorevole lavoro sulla grande strategia asburgica, Wess Mitchell riassume così il senso di un decennio di campagne napoleoniche nei confronti dell’Austria: “Cacciando le armate straniere dalle sue frontiere, la Francia invase le zone cuscinetto in Germania e in Italia, imponendo la pace di Campoformio, in base alla quale la monarchia cedette il Belgio e perse il controllo di ampie aree del nord Italia e della Renania. La portata della sconfitta austriaca mostrò che la nuova Repubblica di Francia era una minaccia più formidabile di quanto fossero stati i Borboni e – aspetto più rimarchevole di tutti – era in grado di reclutare più ampie armate. […] Dopo aver diviso gli eserciti degli Stati-clienti dell’Austria e averli sconfitti a uno a uno, Napoleone trattava con generosità i loro governi per minarne la fedeltà a Vienna. Così facendo egli si impadronì di quello che in precedenza era stato un punto di forza degli Asburgo – i numerosi piccoli Stati-clienti – e lo tramutò in un fattore di debolezza. Il suo scopo era di separare in modo definitivo questi Stati dall’Austria e legarli alla Francia, dando vita a un ’bastione di repubbliche’ che doveva estendersi alla Germania e all’Italia. Nel 1806 Napoleone formalizzò questo tipo di accomodamento sciogliendo il Sacro romano impero, il fulcro del sistema di cuscinetti ideato dagli Asburgo, e sostituendolo con una nuova Confederazione del Reno dominata dalla Francia”. A. Wess Mitchell, La grande strategia dell’impero asburgico, LEG, Gorizia 2019, pp. 291-93.
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titolo di imperatore d’Austria. La Prussia, che pur senza prendere le armi si era avvicinata ai nemici di Napoleone, fu costretta ad un’alleanza forzata con la Francia, con l’unica vaga promessa dell’Hannover. La Francia ristrutturava infine l’intera rete protettiva di stati satelliti, estesa dall’Olanda e dal Reno alla Svizzera e all’Italia13. L’ingerenza della Francia nelle questioni tedesche era stata troppo pesante per rimanere senza conseguenze. Nel 1806 la Prussia, insoddisfatta della politica tedesca di Napoleone e delle promesse non mantenute da questi (in particolare relative all’Hannover), si unì a Gran Bretagna e Russia nella Quarta coalizione ed entrò in guerra contro la Francia, ma venne sconfitta rovinosamente in breve tempo. Messa fuori gioco la Prussia (Jena-Auerstadt), Napoleone riprese subito la partita contro Gran Bretagna e Russia. Contro la prima, egli si valse innanzitutto dei mezzi economici. Il 21 novembre del 1806, da Berlino, decretò il blocco continentale, che inaspriva e generalizzava i divieti di commercio con la Gran Bretagna estendendoli a tutti i paesi compresi nella sfera di influenza francese. L’intento era privare la Gran Bretagna degli sbocchi commerciali sul continente, facendo precipitare il paese in una crisi industriale e finanziaria. Torneremo più tardi sul blocco continentale e sulle conseguenze che esso provocò, cercando al momento di mantenere un filo di continuità nella ricostruzione delle campagne che si susseguivano in modo serrato, Mentre iniziava quello che nelle sue intenzioni doveva essere il lento soffocamento della potenza economica inglese, Napoleone avanzò in Polonia e attaccò la Russia. Nel febbraio del 1807 si ebbe un primo grande e sanguinoso scontro a Eylau: esso fu vinto di misura dalla Francia, ma non si trattava di un successo tale da imprimere una svolta decisiva alla guerra. L’esercito francese, lontano dalle sue basi e trovandosi in un paese povero e inospitale, dovette affrontare grandi difficoltà per il vettovagliamento e il trasporto dei materiali necessari a sostenere una nuova campagna. Solo nel giu-
13 Approfittando del fatto che Ferdinando di Napoli si era avvicinato alla Gran Bretagna, Napoleone ne invase il regno e lo assegnò al fratello Giuseppe. Il re di Napoli si rifugiò in Sicilia, sotto la protezione della flotta britannica. La Repubblica Batava, infine, venne trasformata in Regno d’Olanda e concessa a Luigi Bonaparte, anch’egli fratello dell’imperatore.
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gno dello stesso anno, a Friedland, presso Königsberg, riuscì a ottenere la vittoria decisiva, che spinse lo zar a chiedere l’armistizio. Bruciata ormai ogni possibilità di intesa con la Prussia, Napoleone ottenuta una posizione di forza, al fine di dividere il fronte delle potenze a lui ostili trattò con la Russia, senza avanzare richieste territoriali e offrendole anzi un’alleanza in vista della spartizione dell’Europa. A Tilsit, sul fiume Niemen, si svolse nel 1807 un incontro tra Bonaparte e lo zar, nel quale probabilmente il primo prospettò alla Russia grandi possibilità di conquiste in Oriente ai danni dell’Inghilterra, non appena domata quest’ultima. Alessandro si impegnava conseguentemente ad associarsi al blocco continentale, escludendo le merci inglesi dall’impero russo. La sorte della Prussia, rimasta fino a quel momento in sospeso, fu definita nel corso degli accordi di Tilsit. Su richiesta dello zar il regno prussiano non venne cancellato. Esso fu però pesantemente amputato sia sul lato occidentale che su quello orientale: i territori persi dalla Prussia a Occidente vennero fusi assieme ad altri nel nuovo Regno di Westfalia, assegnato a Girolamo Bonaparte, fratello di Napoleone; a Oriente, con i territori polacchi appartenenti in precedenza alla Prussia, fu formato il Granducato di Varsavia, concesso al re di Sassonia, alleato di Napoleone. L’accordo di Tilsit, pur avendo apportato qualche vantaggio alla Francia, non aveva sistemato durevolmente gli equilibri dell’Europa continentale. Napoleone non fece nulla per concretizzare le promesse avanzate a Tilsit, mentre agli occhi dei latifondisti russi le perdite derivanti dall’adesione al possibili vantaggi territoriali derivati dalla nuova collocazione internazionale del paese. Mentre la Russia mostrava una freddezza crescente, le difficoltà incontrate dai Francesi in Spagna di cui diremo tra poco spinsero l’Austria, coalizzata con la Gran Bretagna, a entrare nuovamente in guerra nel 1809. Nasceva in tal modo la Quinta coalizione. Grazie a una nuova leva anticipata e al contributo degli stati tedeschi vassalli, Bonaparte riuscì a presentarsi di fronte all’Austria con un’armata di circa 300 000 uomini. La resistenza austriaca, pur a prezzo di gravi perdite, fu rilevante e Napoleone non riuscì a concludere la campagna in modo fulmineo, anche perché l’aiuto russo fu tardivo e non portò a risultati decisivi. Il 6 luglio 1809, alla fine, Napoleone conseguì comunque a Wagram un nuovo grande successo, che mise in ginocchio l’Austria. Il trattato di pace, firmato a Schönbrunn il
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14 ottobre, impose nuove concessioni territoriali – Carinzia, Carnia, Istria e Trieste alla Francia, altre cessioni alla Baviera, al Granducato di Varsavia e alla Russia –, una indennità di guerra e la limitazione dell’esercito austriaco a 150 000 uomini. Una conseguenza ancor più rilevante della guerra fu l’ulteriore raffreddamento dei rapporti con la Russia, il cui impegno nell’alleanza con Napoleone non era stato pari alle aspettative di quest’ultimo. Bonaparte, inoltre, desideroso di avere un erede che Giuseppina Beauharnais non era in grado di dargli, aveva divorziato e chiesto in matrimonio la sorella dello zar, ricevendone però un rifiuto. L’Austria pensò quindi di mettersi dalla parte del dominatore d’Europa, favorendo nel 1810 le nozze tra Napoleone e Maria Luisa, giovane figlia dell’imperatore asburgico, unione da cui l’anno successivo nacque un figlio cui fu dato il titolo di Re di Roma. Ancora una volta, dunque, la Francia riusciva a introdurre un elemento di divisione tra le potenze avverse14. 6.3 Il declino dell’impero Mentre si svolgevano le campagne finora sommariamente ripercorse, che consegnavano all’impero francese un’egemonia estesa fino all’Europa centro-orientale, una serie di elementi avversi si addensavano progressivamente sull’orizzonte delle realizzazioni napoleoniche, al punto che da essi si può far cominciare in qualche modo il declino dell’impero stesso. Il primo di essi, che oltre al rilevante valore effettivo ne assume uno di altrettanto importante a livello simbolico, è costituito dalla battaglia di Trafalgar. Si è già sottolineato come il progetto di invadere l’Inghilterra fosse di difficile realizzazione e come Napoleone stesso ne avesse 14 “Il punto di fondo era che nel 1810 l’Austria aveva fatto una scelta simile a quella della Russia a Tilsit. Affrontare la Francia era troppo pericoloso: un’altra sconfitta avrebbe segnato la fine degli Asburgo e del loro impero. Avvicinandosi a Napoleone l’Austria salvaguardava invece la propria esistenza per tempi migliori. Se l’impero francese fosse sopravvissuto, lo stesso sarebbe accaduto all’Austria, il suo più importante Stato satellite. Se al contrario l’impero di Napoleone si fosse disintegrato, allora l’Austria, ormai più forte, sarebbe stata in ottima posizione per aggiudicarsi molti dei suoi pezzi”. D. Lieven La tragedia di Napoleone in Russia, A. Mondadori Milano 2010, p. 98.
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posposto indefinitamente l’attuazione allorché si presentò un pericolo concreto sul fronte danubiano. Il grande confronto navale avvenne alcuni mesi dopo questa decisione, allorché Napoleone era già seriamente impegnato sul Danubio nella battaglia di Ulm, che anzi si verificò proprio il giorno precedente ad essa. Il 21 ottobre 1805, infatti, la flotta franco-spagnola (la Spagna in quel momento era alleata della Francia) comandata dall’ammiraglio Villeneuve uscì da Cadice e in breve tempo venne a contatto con quella britannica di Nelson nei pressi di Capo Trafalgar. L’accanito combattimento che ne seguì si tradusse in una vera e propria disfatta per la flotta franco-spagnola, che perdette una ventina di vascelli e poco meno di 7000 uomini tra morti e feriti, a fronte di perdite decisamente più contenute da parte britannica (anche se Nelson vi trovò la morte). L’effetto di questa sconfitta non incise immediatamente sulle campagne terrestri di Napoleone che anzi, come si è visto, proseguirono imperturbate registrando alcuni dei loro maggiori successi, ma stroncarono ogni velleità francese di dominio del mare e di sbarco in Inghilterra15. Tutto questo indusse Napoleone a proseguire la lotta con la Gran Bretagna soprattutto attraverso il metodo indiretto del blocco continentale. Quest’ultimo, tuttavia, era una strategia che comportava costi consistenti, sia sul piano economico che su quello politico. Il blocco, pur avendo assicurato vasti mercati all’industria francese, lasciava infatti il paese privo di alcune materie prime che giungevano soltanto dalla Gran Bretagna e dalle sue colonie, come il cotone e i coloranti, di generi di consumo come lo zucchero e il caffè e dei prodotti industriali inglesi. Anche le esportazioni francesi, soprattutto sete e vini, risentivano della mancanza di un mercato vantaggioso come quello britannico. La carenza e gli alti prezzi delle materie prime, uniti alla sensibile contrazione degli sbocchi esteri derivata dal blocco e dallo sfruttamento cui erano sottoposti i paesi europei, determinavano difficoltà crescenti all’industria francese tanto che, allo scopo di evitare il fallimento di interi settori manifatturieri e l’acutizzarsi delle tensioni sociali, Napoleone stesso fu costretto ad attenuare l’esclusione delle merci inglesi dal continente. 15 Sullo scontro di Trafalgar visto in prospettiva, cfr. A. Martelli, La lunga rotta per Trafalgar, Il Mulino, Bologna 2005.
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La Gran Bretagna, inoltre, aveva sviluppato un sistema di contrabbando esteso a tutto il continente europeo e persino all’interno dell’impero, grazie alla corruzione dei funzionari addetti al controllo. I prodotti industriali britannici passavano attraverso la penisola iberica, le coste del Nord Europa e il confine occidentale della Russia. Gli stati vassalli, e a volte gli stessi monarchi insediati da Napoleone, erano costretti a tollerare il contrabbando per non rovinare completamente le economie dei propri paesi (per tale ragione nel 1810 Napoleone destituì il fratello Luigi, re d’Olanda, incorporandone direttamente il territorio nell’impero). Sul piano politico, la conseguenza più rovinosa del blocco fu la scelta, che da esso direttamente conseguiva, di conquistare militarmente la penisola iberica. Dopo Tilsit le possibilità di stringere efficacemente il blocco commerciale contro la Gran Bretagna divennero più concrete, ma vi era ancora un ostacolo da superare, sull’altro versante d’Europa: la penisola iberica. Le dinastie dei Braganza in Portogallo e dei Borboni in Spagna, pur mostrandosi acquiescenti verso Napoleone, non si rassegnavano infatti a mantenere con fermezza un blocco commerciale che avrebbe privato i loro paesi di uno sbocco di esportazione per i prodotti agricoli e della possibilità di importare manufatti a basso prezzo. Per ovviare alla difficoltà, Napoleone agì fulmineamente anche nei confronti di Portogallo e Spagna, la cui conquista non solo avrebbe rafforzato il blocco, ma avrebbe dato alla Francia nuove basi marittime per operare contro la Gran Bretagna. Dapprima, nel novembre 1807, fu sistemata la questione portoghese: il paese venne conquistato da truppe fatte affluire attraverso la Spagna con il consenso dei regnanti di Madrid. Alcuni mesi più tardi fu la volta della Spagna stessa. Approfittando del conflitto tra il re Carlo IV e il suo favorito Godoy, da un lato, e l’erede al trono Ferdinando dall’altro, Napoleone si eresse ad arbitro della crisi e conferì la corona al fratello Giuseppe. Sul trono di Napoli, lasciato libero da Giuseppe, fu chiamato Gioacchino Murat, cognato dell’imperatore francese, mentre anche l’effimero regno d’Etruria veniva meno e la Toscana era annessa all’impero. La conquista della Spagna, tuttavia, fece emergere reazioni impreviste: le classi sociali più elevate si mostrarono ostili alla dominazione straniera e tale atteggiamento si propagò in breve ai contadini e al popolo delle città. La prospettiva che il paese di-
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ventasse un’appendice economica della Francia faceva infatti temere che la Gran Bretagna interrompesse le comunicazione marittime tra la Spagna e le sue colonie americane. Nel regno iberico, inoltre, i nuclei borghesi erano ristretti, mentre la nobiltà e il clero si mostravano avversi alle riforme istituzionali che i Francesi avrebbero potuto introdurre. Per questo complesso di ragioni, contro gli invasori sorse ben presto una guerriglia popolare che, sostenuta dagli Inglesi, nel giro di alcuni mesi creò serie difficoltà alle truppe francesi. Solo la parte settentrionale della Spagna, fino all’Ebro, rimase sotto effettivo controllo francese, mentre il primo grande insuccesso delle armate napoleoniche in territorio europeo aveva una grande risonanza e rinfocolava tutti gli odi momentaneamente sopiti. Napoleone gettò in pochi mesi forze preponderanti sullo scacchiere spagnolo, ottenendo alcuni importanti risultati – Madrid fu ripresa e Saragozza espugnata –, ma non vi fu il tempo di condurre fino in fondo la riconquista e negli anni successivi ingenti forze militari dovettero comunque rimanere a presidiare la penisola iberica, continuamente tormentate dall’opposizione popolare. A fronte di tante difficoltà, vi era però in Napoleone la convinzione che, una volta subordinati alla Francia gli stati dell’Europa centrale, ossia l’Austria e la Prussia, l’unico avversario da battere per dare in breve un compimento decisivo al blocco fosse la Russia. I non facili rapporti con quest’ultima si erano infatti deteriorati in misura crescente dopo la guerra contro la Quinta coalizione e lo zar fece intuire che egli non intendeva allinearsi passivamente alle decisioni di Napoleone. Nel 1810 la Russia, che tradizionalmente vendeva in Gran Bretagna i propri prodotti agricoli ricevendone in cambio prodotti industriali a buon mercato, permise l’ingresso nei porti russi di navi neutrali, riprendendo il commercio con gli Inglesi attraverso l’intermediazione marittima dei paesi non belligeranti. Alla fine dello stesso anno, poi, fu introdotta una tariffa doganale che colpiva con forti dazi le merci francesi e che aggravava la crisi economica di cui la Francia era vittima. Il conflitto, pur essendo ormai sostanzialmente deciso nel 1811, richiese tuttavia da parte di entrambi i contendenti la messa a punto di una fitta rete di preparativi militari e diplomatici e cominciò quindi nel giugno dell’anno successivo. In vista della guerra contro
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l’impero zarista, Napoleone allestì un’armata di oltre 650 000 uomini, 300000 dei quali erano Francesi, mentre il resto venne fornito dai regni vassalli e dall’alleanza militare cui furono costrette Austria e Prussia. Di questo esercito, una parte dovette rimanere a presidiare la Germania e la Polonia, ma per l’attacco al territorio russo rimasero disponibili circa 450 000 soldati. Rimpinguato attraverso nuove leve inesperte e dalla presenza di truppe di dubbia fedeltà messe a disposizione dagli stati satelliti, l’esercito napoleonico aveva certamente una capacità combattiva minore rispetto al passato, ma costituiva comunque una massa di manovra imponente, doppia rispetto a quella che poteva schierare la Russia. Il piano iniziale di Napoleone si ispirava a quello delle sue precedenti campagne. Egli prevedeva infatti di battere il nemico in alcuni grandi scontri presso la frontiera, per poi eventualmente raggiungere la capitale e dettare le condizioni della pace. Fin dall’inizio le cose andarono diversamente rispetto alle precedenti campagne. L’armata napoleonica non riuscì infatti a sconfiggere separatamente i due nuclei centrali dello schieramento avversario e impedire che essi si congiungessero. Anche quando il congiungimento avvenne, l’esercito russo si rifiutò di accettare una grande battaglia campale. A Smolensk (16-17 agosto 1812) fu opposta una fortissima resistenza al fine di coprire la ritirata, ma poi la città devastata fu lasciata al nemico. Cresceva sempre più la sensazione che i russi concepissero la guerra come una lotta per la vita e che il popolo stesso fosse disposto a fare terra bruciata e a entrare attivamente nella mischia contro l’invasore. L’esercito di Napoleone fu costretto ad avanzare verso l’interno del paese, a esporsi alle insidie di un territorio inospitale, ad allungare le vie di comunicazione e a dividere le proprie forze per presidiarle. Man mano che si inoltrava in territorio russo, infine, l’esercito francese era vittima del caldo torrido, della fame causata dal ritardo dei convogli, dalle malattie, dalla mancanza di foraggio per i cavalli, cosicché la sua superiorità numerica tendeva a svanire. Più volte, durante la campagna, l’imperatore vagliò anche l’opportunità di adottare una strategia non convenzionale, basata sull’abolizione della servitù della gleba, che reggeva l’intero edificio sociale russo. Tale soluzione, che avrebbe forse potuto avere un effetto dirompente nelle immense campagne della Russia, fu però scartata: oltre ad essere problematica l’adesione dei contadini alle
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prospettive lanciate da un esercito invasore, essa avrebbe portato infatti a uno stato di anarchia difficilmente dominabile, mentre la disgregazione dello stato russo avrebbe privato Napoleone di un interlocutore con cui trattare la pace16. Nonostante crescessero le difficoltà dei Francesi, la continua ritirata suscitava perplessità non solo nell’aristocrazia, ma anche tra i comandanti e i soldati russi, al punto che lo zar, superando l’avversione personale nei suoi confronti, fu costretto a nominare comandante in capo l’autorevole Kutuzov. Quest’ultimo accettò finalmente la battaglia campale nel villaggio di Borodino, a poco più di cento chilometri da Mosca. Lo scontro (7 settembre 1812) fu durissimo e alla fine i russi si ritirarono, ma la vittoria francese era assai dubbia: le perdite dell’armata napoleonica furono superiori a quelle avversarie e la ritirata di queste non si trasformò in una rotta. Nonostante per essi Borodino fosse stata un successo morale, nemmeno i Russi potevano combattere ulteriormente senza ricostituire le proprie riserve. Per tale ragione Mosca fu abbandonata e distrutti molti depositi di viveri e materiali. Quando i Francesi vi entrarono sfiniti, il 14 settembre, in vari punti della città scoppiarono incendi, che si propagarono grazie al forte vento e che in cinque giorni la ridussero a uno stato spettrale. A Mosca Napoleone si trovò privo di prospettive. Essendo praticamente impossibile inseguire ulteriormente i Russi all’interno del paese o portare l’attacco su Pietroburgo, egli lanciò allo zar ripetute offerte di pace che salvassero formalmente l’onore della Francia, ma non ebbe risposta. Impossibilitato a procedere oltre, dopo un mese di permanenza a Mosca Napoleone iniziò la ritirata verso Sud, sperando di ripiegare per questa nuova via su Smolensk o Vilna, dove l’esercito avrebbe potuto svernare, in attesa di riprendere la guerra l’anno successivo. I Russi, tuttavia, avevano rapidamente occupato posizioni tali da impedire la ritirata in questa direzione. Napoleone dovette così ripercorrere la strada devastata all’andata dal suo stesso esercito, tormentato dagli attacchi dei cosacchi e dei reparti partigiani, ai quali si aggregavano i contadini. Nel frattempo sopraggiunse l’inverno, che fu più rigido del solito e inflisse sofferenze durissime all’armata francese, priva di equipaggiamento adatto. Fermarsi si rivelò impossibile e fu necessario procedere ve16 Il punto è ben sottolineato da E.V. Tarle, op. cit., pp. 304-8.
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locemente nella ritirata, prima che l’avversario tagliasse la strada del ritorno a quanto rimaneva dell’armata. L’ultimo grande ostacolo, l’attraversamento della Beresina, fu superato a fine ottobre a prezzo di ingenti perdite. I primi reparti che riuscirono a mettersi al sicuro arrivavano a poco più di 20000 uomini, ai quali si unirono poi altri esigui contingenti di reduci che giungevano gradualmente. La disastrosa campagna di Russia ebbe subito contraccolpi nel mondo tedesco e in particolare in Prussia, dove il fermento patriottico si sviluppava in misura crescente tra gli intellettuali e il popolo. Il re Federico Guglielmo III, pur timoroso, di fronte alla ripresa della potenza russa si schierò con lo zar in quello che venne presentato come un vasto movimento di liberazione nazionale dei popoli d’Europa dal giogo francese, sebbene la sua direzione fosse assunta dai governi monarchici e dall’aristocrazia. Contro la Francia si formò una nuova coalizione – la sesta – composta da Russia, Prussia, Gran Bretagna e Svezia, sul cui trono era stato posto dal 1810 J. B. Bernadotte, ex maresciallo napoleonico che aveva condotto però una politica indipendente. Bonaparte fece fronte rapidamente ai coalizzati e l’Austria, legata formalmente alla Francia da un’alleanza e timorosa di un eccessivo aumento della potenza russa, si apprestò a svolgere una politica di mediazione. Nella primavera del 1813, quando si aprirono le operazioni militari, Napoleone sembrò aver ritrovato la buona stella di un tempo e ottenne delle rapide vittorie a Lützen e Bautzen; il logorio e i dissensi entro i comandi si fecero sentire da entrambe le parti in lotta, che negoziarono pertanto un armistizio – poi prorogato – che durò complessivamente da giugno ad agosto, ma l’imperatore francese rigettò le condizioni di mediazione proposte dall’Austria. La guerra dunque riprese in condizioni più favorevoli agli alleati, che avevano ricevuto rinforzi e ai quali si era associata anche l’Austria. Ancora una volta Napoleone prevalse a Dresda, ma nei giorni successivi questa vittoria fu offuscata da altri episodi minori in cui la coalizione prevalse su singoli marescialli francesi. In breve la campagna da offensiva si trasformò in difensiva e Napoleone tentò di prevenire la concentrazione di forze avversarie in direzione di Lipsia. Tra il 16 e il 19 ottobre del 1813 attorno a Lipsia si svolse lo scontro decisivo: Napoleone si trovò in condizioni di inferiorità numerica, con un divario che si accrebbe nei giorni successivi per l’arrivo di rinforzi avversari. La preponderanza dei mezzi schierati dalla
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coalizione determinò la sconfitta francese, la quale questa volta ebbe effetti decisivi. Gli stati tedeschi prima alleati si schierarono dalla parte della coalizione, il regno di Westfalia cessò di esistere e il dominio francese crollò anche negli altri paesi europei. Già nel giugno del 1813, del resto, gli insorti spagnoli e gli Inglesi avevano ottenuto una vittoria decisiva nella penisola iberica. All’inizio del 1814 la Francia venne invasa dagli avversari sia da Sud che da Ovest. Napoleone riuscì ancora una volta a ottenere alcuni brillanti successi militari, ma ormai la fermezza e la forza numerica degli alleati si erano accresciute: essi non apparivano più disposti ad accordare la pace, se non a condizione che la Francia rientrasse nei confini prerivoluzionari. Mentre i suoi avversari occupavano Parigi (31 marzo), Napoleone desisteva da un estremo tentativo di riconquistare la capitale e abdicava. Egli fu esiliato all’Elba, mentre il trono passava ai Borboni. Nell’intento di consolidare il regno borbonico, l’atteggiamento delle potenze europee verso la Francia fu moderato: essa mantenne i confini del 1792, comprendenti tra l’altro il Belgio, parte della Savoia e i territori sulla sinistra del Reno. Le furono inoltre restituite le colonie. Dopo il ritorno di Napoleone dall’Elba tra febbraio e marzo del 1815 le potenze straniere, superato l’iniziale sbigottimento, misero da parte i loro contrasti e decisero di stroncare definitivamente il pericolo. Fu costituita una nuova coalizione, in grado di mettere in campo forze militari schiaccianti e in buona parte già mobilitate. L’imperatore, dal canto suo, pensò di iniziare la campagna cercando di battere separatamente le due armate di Wellington e di Blücher, già schierate in Belgio. La neutralizzazione dell’armata di Blücher, tuttavia, riuscì soltanto parzialmente a causa di un inseguimento mal gestito sia da Napoleone che dal maresciallo Grouchy e non poté impedire che a Waterloo (18 giugno 1815), mentre era in corso lo scontro decisivo tra Napoleone e Wellington, Blücher comparisse improvvisamente in aiuto degli Inglesi, volgendo così lo scontro a loro favore17. Tornato a Parigi, Napoleone abdicò a favore del figlio e, dopo aver inutilmente cercato di 17 Questi non furono gli unici errori francesi della giornata: macroscopici furono quelli compiuti da Gerolamo Bonaparte, D’Erlon e lo stesso Ney. Nell’insieme si veda F. Barbero, La battaglia. Storia di Waterloo, Laterza, Roma-Bari 2003.
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rifugiarsi in America, si consegnò agli Inglesi, i quali lo confinarono definitivamente a Sant’Elena. Poiché le vicende dell’età napoleonica avevano radicalmente alterato la carta d’Europa, il compito immediato delle potenze vincitrici consistette nel ridefinire le linee portanti dell’ordine internazionale e impedire la rinascita del predominio francese18. Perché 18 Prima ancora che fosse combattuta la decisiva battaglia di Waterloo, il Congresso di Vienna si era concluso e aveva stabilito il riordino dell’Europa. La Germania non fu unificata ma tra gli stati tedeschi venne stretta la Confederazione Germanica, posta sotto la presidenza dell’Austria. I complessi rimaneggiamenti territoriali degli anni precedenti avevano infatti provocato un certo compattamento, riducendo le entità autonome che costituivano la Germania in passato da oltre trecento a una quarantina circa. La Prussia acquisì parte della Sassonia e della Westfalia e le province renane. All’Austria furono restituiti i territori perduti e all’impero asburgico furono annessi direttamente la Lombardia, i possedimenti appartenuti alla repubblica di Venezia e così pure il Salisburghese e altri territori. L’Italia fu nuovamente smembrata in numerosi stati, molti dei quali strettamente legati all’Austria: il granducato di Toscana fu assegnato a Ferdinando III, fratello dell’imperatore d’Austria, il ducato di Parma a Maria Luisa, ex moglie di Napoleone, e quello di Lucca all’infanta Maria Luisa di Borbone-Parma, mentre Modena venne affidata a Francesco IV d’Asburgo-d’Este. Il regno di Napoli tornava ai Borboni e i possedimenti pontifici al papa, ma la tutela austriaca gravava su entrambi. Il regno di Sardegna, cui fu annessa Genova, fu restituito ai Savoia e divenne l’unico stato realmente indipendente della penisola. I confini della Svizzera, a loro volta, furono ampliati e il congresso ne garantì la neutralità perpetua. La Gran Bretagna riebbe l’Hannover e vide riconosciute le conquiste coloniali fatte a spese della Spagna e della Francia. Ottenne poi dall’Olanda Ceylon, Città del Capo e la Guyana. Oltre a ciò conservò l’isola di Malta, di grande importanza strategica, e le isole ioniche, che completavano il suo dominio sul mare. La Polonia venne di nuovo spartita tra Austria, Russia e Prussia e la maggior parte del Granducato di Varsavia passò ai Russi. In Spagna rientrò la vecchia dinastia borbonica. All’Olanda, trasformata in regno dei Paesi Bassi, venne unito il Belgio. La Svezia conservò il possesso della Norvegia. Al Congresso di Vienna avevano partecipato quasi tutti i sovrani europei, ma le decisioni essenziali furono prese dai rappresentanti delle quattro maggiori potenze: Gran Bretagna, Austria, Russia e Prussia. A esse, a un certo punto, riuscì a unirsi anche la Francia. Nonostante fosse una potenza sconfitta, Talleyrand si mostrò capace di inserirla nel gioco delle mediazioni diplomatiche, facendo leva in parte sul conflitto tra gli stati minori e quelli maggiori e in parte sulle divergenze tra i quattro grandi. L’avventura napoleonica dei Cento giorni comportò tuttavia un nuovo peggioramento della posizione internazionale della Francia, aggravando le
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questa operazione desse risultati stabili era tuttavia necessario neutralizzare per un lungo periodo i cambiamenti politici e sociali intervenuti nei decenni successivi alla rivoluzione. La Gran Bretagna, che era stata il perno più solido della resistenza a Napoleone, aveva ormai una base sociale in rapida evoluzione e molto più avanzata di quella degli stati continentali, ma non si oppose al ripristino dei vecchi ordinamenti e del predominio delle monarchie assolute sul continente. Essa, infatti, cercò di assicurarsi vantaggi diretti soprattutto in campo marittimo e coloniale, in gran parte al di fuori d’Europa. Riguardo a quest’ultima, la sua preoccupazione fu soprattutto di smussare le spinte contrastanti dei vari stati, creando tra essi un duraturo equilibrio. Le aspirazioni nazionali dei popoli avevano svolto un ruolo crescente nelle ultime vicende politiche e avevano contribuito alla caduta dell’impero francese, ma erano state costantemente subordinate agli interessi dei governi e non poterono quindi svolgere alcun ruolo nel determinare le condizioni del dopoguerra. A conclusione dell’età rivoluzionaria e napoleonica tornò dunque a imporsi una concezione della politica e della diplomazia di derivazione settecentesca, mirante a un equilibrio internazionale basato sulle esigenze dinastiche e sul rafforzamento del blocco sociale dominato dalle forze aristocratiche e clericali, che rappresentava il principale sostegno delle monarchie assolute.
precedenti condizioni di pace. Con la seconda Pace di Parigi (20 novembre 1815) la Francia dovette cedere agli stati circostanti altri territori di confine, tra cui la Saar e parte della Savoia, tornando così ai confini del 1790. Dovette permettere che le sue frontiere fossero presidiate per cinque anni da guarnigioni alleate mantenute a sue spese e dovette pagare un’indennità di guerra. Le fu inoltre imposto di restituire i tesori artistici di cui i Francesi si erano impossessati durante le guerre napoleoniche. Talleyrand, restio a sottoscrivere un accordo che lo avrebbe reso impopolare in patria, fu sostituito dal duca di Richelieu. Per effetto combinato delle decisioni del Congresso di Vienna e delle condizioni di pace, la Francia si trovò infine circondata da una serie di stati che avevano una chiara funzione di contenimento. I Paesi Bassi formavano una barriera a Nord; a Est la Prussia era saldamente insediata sul Reno e la Gran Bretagna, tramite l’Hannover, poteva intervenire a rafforzare il sistema degli stati tedeschi, mentre la condizione di neutralità della Svizzera era stata garantita internazionalmente; verso Sud, infine, stavano il Regno di Sardegna e i possedimenti italiani dell’Austria.
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6.4 Verso un nuovo modello di confronto militare I successi internazionali della Francia nel venticinquennio della rivoluzione e dell’impero non sono dissociabili dalla preminenza militare che essa aveva esercitato, in particolare durante il periodo più brillante dell’età napoleonica. Per comune ammissione, in quel lasso di tempo si era creato un modo nuovo di condurre le operazioni militari, che differiva sostanzialmente da quello del passato e in particolare dalla guerra praticata nel corso di gran parte del Settecento19. Le innovazioni introdotte da Napoleone non riguardavano la tecnica degli armamenti, per la quale ci si limitò a singoli perfezionamenti di dettaglio. I fucili, ad esempio, rimasero quelli, complessivamente lenti e imprecisi, con acciarino a pietra focaia e colpo singolo il cui modello si era assestato nel corso del secolo precedente; nelle artiglierie i miglioramenti tecnici in senso stretto rimasero contenuti rispetto all’epoca di Gribeauval e Du Teil; per muovere verso il campo di battaglia le truppe continuavano a spostarsi a piedi e l’unico elemento di ausilio alla mobilità era costituito dai cavalli, risorsa fondamentale per i trasporti ma anche per le ricognizioni e la trasmissione degli ordini. Nemmeno sul mare si erano compiuti passi decisivi nelle tecniche di costruzione dei vascelli e della navigazione a vela. Se da questo punto di vista traspariva la continuità col passato, esisteva con tutta evidenza anche un elemento di rottura. Laddove la guerra settecentesca procedeva con relativa lentezza ed era indirizzata verso obiettivi limitati, quella napoleonica si caratterizzò fin dall’inizio per la velocità di conduzione e per la tendenza a risolvere i conflitti attraverso un numero limitato di scontri campali, nei quali la capacità di prevalere era affidata all’individuazione dei punti critici fondamentali da cui dipendevano gli equilibri complessivi dello schieramento avversario. Questo diverso modello non sarebbe stato pensabile senza la Rivoluzione francese. Quest’ultima infatti introdusse la coscrizione obbligatoria, aumentando la base del reclutamento. Rispetto al criterio settecentesco di arruolare soprattutto coloro che occupavano una posizione marginale nella società, il nuovo criterio immette19 Cfr. supra, § 4.1.
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va nell’esercito dei cittadini maggiormente inseriti nell’organismo del paese. Anche i quadri superiori subirono un deciso mutamento, giacché molti di essi emigrarono o furono comunque messi da parte, creando lo spazio per una nuova ufficialità, più giovane, di più bassa estrazione sociale e promossa in base al merito. Le truppe rivoluzionarie, infine, si rivelarono più mobili perché costrette anche dalla necessità a non avvalersi del complicato supporto logistico tradizionale e a fare invece assegnamento sulle risorse del territorio nel quale si trovavano ad operare20. Per quanto importanti, queste trasformazioni non sarebbero state tuttavia in grado di assicurare una stabile supremazia militare se non fossero state inserite nell’ambito di un nuovo quadro strategico. Esso rappresentò lo specifico contributo di Napoleone, derivato dall’assimilazione dei contributi dei teorici settecenteschi, dai quali fu indotto a meditare su molti importanti aspetti delle operazioni belliche: l’idea di una guerra fondamentalmente rapida e offensiva, l’importanza degli schieramenti in marcia e sul campo, della concentrazione di artiglieria etc.21. Nella sua forma più matura, il pensiero strategico napoleonico giunse ad organizzare l’esercito in corpi d’armata, raggruppamenti che comprendevano alcune divisioni in numero variabile, integrate da un supporto di cavalleria, artiglieria e genio. Per Napoleone essi rappresentavano il punto d’equilibrio fra una rigorosa unità di comando, necessità essenziale della quale egli si era sempre mostrato convinto, e quell’altrettanto ineliminabile margine di flessibilità che doveva esser lasciata a formazioni numerose. Affidati alla guida di un maresciallo, essi dovevano marciare unite ognuna secondo un percorso predeterminato dai piani previsti dall’imperatore. Napoleone si affidò sempre al proprio colpo d’occhio per valutare l’andamento delle singole battaglie e per tale ragione egli non giunse mai a formulare una sistematizzazione organica dei principi strategici che guidarono la propria condotta. Dall’analisi delle sue campagne, tuttavia, possono esser ricavate alcune linee di fondo 20 Cfr. p. es. P. Griffith, Tattiche della fanteria napoleonica francese 17921815, LEG, Gorizia 2018, pp. 9-27. 21 Per una sintesi rapida ed efficace di tali contributi, cfr. ivi, pp. 29-53. Sugli studi strategici di Napoleone, oltre al classico D.G. Chandler, op. cit.., pp.200-10, si veda J. Garnier, L’arte della guerra di Napoleone, LEG, Gorizia 2016, pp. 53-76 e pp. 308-9.
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ricorrenti, che costituiscono delle costanti compendiabili in tre tipi di manovre strategiche da adottare nelle diverse fasi e situazioni di una campagna militare. La prima caratteristica del modo napoleonico di impostare le campagne militari stava nell’integrazione della manovra con la battaglia. La guerra così come la concepiva Napoleone, infatti, non scindeva le due componenti e cominciava anzi da lontano, mettendo in movimento le truppe su un arco spaziale molto ampio, in maniera da celare al nemico entità e obiettivo della manovra e da poter scegliere in modo flessibile l’area geografica nella quale si sarebbe verificato lo scontro decisivo. Spostandosi separatamente e con sufficiente distanziamento, i corpi d’armata avrebbero potuto mantenere una buona velocità di marcia e usufruire di un’ampia area di rifornimento. Essi avrebbero effettuato la convergenza man mano che il punto critico dello scontro sarebbe andato avvicinandosi22. Venendo al contesto più strettamente tattico, è possibile individuare altri due tratti che andavano a costituire il modo tipicamente napoleonico di gestire i singoli scontri. Il primo era la manovra di aggiramento, che consisteva nell’impegnare uno scontro frontale con una quota ridotta dell’armata, facendo sfilare il resto – al riparo di ostacoli naturali o artificiali – lungo i fianchi del nemico, minacciando questi ultimi e le comunicazioni retrostanti. Per prevenire la convergenza di armate nemiche – ricordiamo tra l’altro che la Francia fu impegnata spesso contro coalizioni – la scelta privilegiata da Napoleone era quella di assumere una posizione centrale tra le armate avversarie, cercando di batterle separatamente23. Questi ed altri accorgimenti della strategia napoleonica fecero registrare alle armate francesi una serie pressoché ininterrotta di vittorie, ma alla lunga si rivelarono insufficienti a mantenere l’egemonia politico-militare sul continente europeo. Concepita per ingaggiare uno o pochi scontri decisivi in teatri di guerra relativamente limitati, la strategia napoleonica si rivelò inadeguata alle condizioni della guerra sui mari – come dimostrò il caso di Trafalgar – e in Spa22 L’esempio più classico di tale movimento è quello che consentì lo spostamento delle truppe verso il Danubio nel 1805, prima di Ulm e Austerlitz. Cfr. supra, § 6.2. 23 Su questi aspetti della strategia napoleonica si veda D.G. Chandler, op. cit., pp. 210-273 e J. Garnier, op. cit., pp. 101-30.
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gna, dove la guerriglia impediva di concentrare le forze, che pure in astratto erano numericamente preponderanti. Il fallimento più clamoroso, tuttavia, si verificò quando Napoleone affrontò la guerra su grandi spazi, nella campagna di Russia. L’opinione popolare, che attribuisce il disastro russo fondamentalmente alla ritirata in condizioni ambientali avverse, focalizza solo un momento, anche se significativo, dell’intera campagna. In realtà, tuttavia, i fattori determinanti dell’insuccesso furono altri. Innanzitutto la penetrazione in profondità nel territorio russo non era prevista, in quanto non si pensava che i generali nemici riuscissero sottrarsi agli scontri decisivi cercati da Napoleone come invece avvenne. L’unico grande combattimento si ebbe a Borodino, troppo avanti sulla strada di Mosca e quando l’ormai avanzato logoramento non consentiva all’esercito francese di ottenere una vittoria decisiva. In realtà l’armata napoleonica, costituita in misura crescente da giovani coscritti inseriti nei ranghi per colmare le perdite derivate dalle continue guerre degli anni precedenti, era troppo ampia, specie per un territorio arretrato sotto l’aspetto economico-produttivo e della rete di comunicazioni. La difficoltà maggiore si rivelò quella di far procedere a un ritmo adeguato, in un ambiente mancante di sufficienti foraggi, i convogli trainati da cavalli o buoi coi rifornimenti e l’artiglieria, determinando un impedimento divenuto sempre più arduo da superare man mano che ci si allontanava dalle basi di partenza. Il fattore avverso che si rivelò decisivo, in altre parole, fu quello logistico, anche sotto il profilo delle scarse comunicazioni tra i vari corpi della grande armata, dislocati su un teatro troppo esteso. Al di là di singoli errori di impostazione e di esecuzione che la caratterizzarono, questi aspetti della campagna di Russia sono emblematici delle difficoltà insuperabili attribuibili ai mezzi tecnici allora a disposizione24. Considerati in prospettiva storica, successi e insuccessi della strategia napoleonica, pur con segno opposto, sono entrambi riconducibili al carattere di transizione che la contraddistinguono. L’idea della risoluzione dei contrasti attraverso la concentrazione delle forze disponibili in vista di uno scontro decisivo introdusse infatti 24 Cfr. D.G. Chandler, op. cit., pp.1020-1031. Sulla campagna si veda anche la ricostruzione di D. Lieven, op. cit., pp. 109-294.
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un’innovazione epocale rispetto al paradigma di guerra limitata tipico della tradizione settecentesca; nello stesso tempo, tuttavia, tale concezione strategica trovò un limite a volte pesante nel contesto geografico e logistico con cui essa era chiamata a misurarsi. Di qui la spinta, nei decenni seguenti, a superare restrizioni e condizionamenti attraverso gli strumenti che la tecnologia industriale stava rendendo accessibili, con la nascita conseguente di un nuovo tipo di guerra, la guerra industriale di cui si dirà nei capitoli seguenti25. 6.5 Il 1830 e la tenuta della Restaurazione In linea generale, nei primi tre o quattro decenni che seguirono il Congresso di Vienna le perturbazioni dello scenario internazionale furono soprattutto – anche se non esclusivamente – conseguenza delle rivoluzioni del ’30 e del ’48. Passata la fase dei moti rivoluzionari, invece, furono gli scontri fra stati – legati prima al Risorgimento italiano e più tardi all’unificazione tedesca – a occupare sulla scena una posizione privilegiata. Questi conflitti armati, parlando in termini complessivi, rimasero localizzati nella propria sfera d’origine e si svolsero in modo relativamente rapido, senza mostrare la tendenza a propagarsi a livello continentale. Fino al 1830 la solidarietà conservatrice fra le potenze26 riuscì agevolmente a mantenere il controllo delle inquietudini manifesta25 Cfr. più oltre, §8.2 26 Un posto essenziale, specialmente nella fase iniziale della Restaurazione, ebbe il sistema delle alleanze costituite con intenti conservatori. Parallelamente agli accordi di Vienna, su iniziativa dello zar Alessandro fu sottoscritta da Austria, Russia e Prussia, la Santa alleanza. Essa partiva dalla premessa ideologica secondo cui i sovrani erano delegati dalla provvidenza a governare i popoli in ottemperanza ai principi cristiani, prestandosi vicendevolmente aiuto e assistenza. Pur considerandolo con scetticismo, Austria e Prussia sottoscrissero l’accordo per compiacere lo zar e furono imitati poi dagli altri stati europei. Alla Santa alleanza non aderirono tuttavia né la Gran Bretagna, aliena dal prendere impegni troppo generici, né il papa, che non volle essere accomunato a sovrani di diversa fede. La Santa alleanza, peraltro, non svolse un ruolo effettivo e la collaborazione tra Austria, Russia e Prussia nelle questioni internazionali si basò sempre su valutazioni politiche contingenti e concrete. Insieme alla seconda pace con la Francia, le quattro maggiori potenze stipularono una Quadruplice alleanza di durata ventennale, in base alla quale si
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tesi in varie parti d’Europa, ossia i moti costituzionali in Spagna, quelli di tipo analogo in Italia (Regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna) e a dare uno sbocco all’insurrezione greca contro il dominio turco, che si concluse con la proclamazione dell’indipendenza greca, agevolata dall’accordo anglo-franco-russo. Un impatto decisamente maggiore ebbe invece la rivoluzione di luglio in Francia, che non solo sfidava il principio di legittimità, ma implicava la possibilità di una pericolosa diffusione a livello internazionale. In effetti le ripercussioni si verificarono, ma attorno ad esse si trovarono convergenze a livello internazionale, che permisero di contenerne la portata. Esse, possiamo aggiungere, furono diverse nell’Europa occidentale e orientale, contribuendo ad accentuare la differenza fra le due aree che sappiamo essere una delle caratteristiche dell’assetto geopolitico continentale27. Nell’Europa centro-orientale l’evento di maggior peso seguito alla rivoluzione francese del ’30 fu la sollevazione polacca contro la Russia dello stesso anno, che tuttavia ebbe dalle potenze occidentali solo vaghe attestazioni di simpatia e si concluse l’anno successivo con una dura repressione. L’intervento repressivo fu seguito da successivi accordi tra Austria e Russia per agire di comune accordo verso l’impero turco e la Polonia (accordi di Münchengrätz, 1833) e tra Austria, Russia e Prussia per ribadire il principio di intervento a favore dei sovrani assoluti che ne avessero fatto richiesta (trattato di Berlino). Se si tien conto che l’Austria era agevolmente intervenuta in Italia nel 1830 stroncando i moti di quell’anno, era evidente che una parte considerevole del sistema della Restaurazione era stata salvata28. impegnavano a fornire truppe per salvaguardare l’ordine appena ristabilito, qualora fosse stato necessario, e a reciproche consultazioni sui principali problemi internazionali. Nel 1818 si tenne tra le quattro potenze alleate il congresso di Aquisgrana e, accanto alla Quadruplice alleanza, venne costituita una Quintuplice alleanza, cui aderì la Francia. I congressi successivi (Troppau 1820, Lubiana 1821, Verona 1822), convocati per discutere le misure da adottare nei confronti dei movimenti rivoluzionari che tornavano a farsi sentire in diversi paesi europei, videro un progressivo divaricarsi delle posizioni tra Gran Bretagna e Francia da un lato e le tre potenze centro-orientali dall’altro. 27 O. Barié, Dal sistema europeo alla comunità mondiale, vol. I, Celuc, Milano 1999, p. 243. 28 Ivi, pp. 254-5.
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Diversamente erano andate le cose ad Occidente. Allo scoppio della rivoluzione parigina del ’30, mentre ovunque si guardava ad essa nella speranza – o, all’opposto, nel timore – che la Francia si sarebbe fatta promotrice della rivoluzione europea come già nel ’92, Luigi Filippo mostrò una decisa moderazione che fu evidente sia nelle scelte di politica interna, sia in quelle internazionali. In particolare, la monarchia orleanista non mostrò la tendenza a voler volgere a proprio favore la rivoluzione belga contro il dominio dell’Olanda scoppiata a ridosso di quella francese, risuscitando lo spettro di una temuta annessione del Belgio come nell’epoca rivoluzionaria. Alla Gran Bretagna fu lasciato perciò di fatto un ruolo arbitrale, con la promozione di una conferenza internazionale che sancì l’indipendenza e la neutralità perpetua del Belgio. Successivamente, declinando l’offerta della corona belga per il figlio di Luigi Filippo e associandosi alla Gran Bretagna nell’intervenire militarmente contro il tentativo olandese di usare la forza, la Francia riuscì nell’intento di favorire in Belgio un regime liberale e nazionale. L’evidente diversità dell’epilogo occidentale rispetto a quello centro-orientale e la convergenza che in quella circostanza si manifestò tra Francia e Gran Bretagna sembrò l’inizio di un’intesa tra le due potenze, che parve prendere consistenza quando entrambe appoggiarono le nuove tendenze liberali manifestatesi nella penisola iberica. Sia in Spagna che in Portogallo, infatti, negli anni Trenta si erano determinate lotte di successione che avevano portato al trono in Spagna la regina Isabella e in Portogallo la regina Maria, entrambe appoggiate dalle correnti liberali. Francia e Gran Bretagna assecondarono questa tendenza, ma l’accordo venne meno nel decennio successivo, allorché tra i due paesi si verificarono attriti relativi al candidato al matrimonio della regina di Spagna e della sorella. Se questo incidente diplomatico rappresentava nella sostanza un episodio secondario, l’impossibilità di una duratura convergenza anglo-francese si era tuttavia manifestata in modo ben più clamoroso con riguardo alla questione d’Oriente, in relazione al tentativo francese di esercitare una funzione egemonica in Egitto e in Siria. Al centro di questa vicenda vi era l’ambizioso Mehemet Alì, governatore dell’Egitto che durante la lotta per l’indipendenza greca aveva prestato aiuto al sultano, ma non aveva poi ricevuto le contropartite attese. Mehemet Alì mosse allora contro
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il sultano nell’intento di ottenerle, ma fu fermato dall’intervento russo. A seguito di esso, fu concluso un trattato che prometteva l’intervento russo nel caso di un attacco alla Turchia e la chiusura degli stretti da parte della Turchia nel caso che la Russia fosse stata in guerra (Unkiar-Skelessi, 1833). Nel ’39 la controversia turco-egiziana fu ripresa dal sultano, che tuttavia fu sconfitto da Mehemet Alì. Nelle trattative che seguirono, la Gran Bretagna sostenne il sultano, mentre la Francia puntò su Mehemet Alì, che era il veicolo degli interessi commerciali e finanziari francesi in Medio Oriente. Quando quest’ultimo rifiutò una proposta di mediazione contando sull’aiuto francese, la Gran Bretagna mise in atto un intervento militare in Siria che costrinse gli Egiziani al ritiro e che consigliò alla Francia di non insistere ulteriormente. La questione fu risolta diplomaticamente nel 1841, con una convenzione che stabiliva la chiusura degli stretti alle navi da guerra di tutte le potenze in tempo di pace, ma la possibilità di entrata in tempo di guerra. L’insieme di queste vicende si concluse con un vantaggio per la Turchia e soprattutto per la Gran Bretagna, che riuscì a limitare sia la potenza russa, sia l’influenza francese sul Mediterraneo orientale29. 6.6 Dal ’48 al nuovo assetto europeo Il sistema della Restaurazione, che finora aveva mostrato una discreta tenuta, sembrò resistere anche alla rivoluzione del ’48, che pure rispetto al ’30 aveva mostrato nell’insieme maggiore rapidità di diffusione e maggiore radicalità delle rivendicazioni. In effetti, nel corso del ’49 i fuochi rivoluzionari parvero spegnersi ovunque sotto il peso delle proprie contraddizioni interne e dei colpi della repressione, ma nonostante ciò era sempre più difficile pensare che si potesse continuare a lungo con una pura e semplice riaffermazione del passato. Tre situazioni, in particolare, avrebbero potuto in futuro introdurre elementi di instabilità. In Francia, innanzitutto, la seconda repubblica procedette velocemente verso un esito bonapartista e 29
Oltre al sopra citato O. Barié, op. cit., pp. 262-5; si veda anche R. Albrecht-Carrié, Storia diplomatica d’Europa 1815-1968, Laterza, Bari 1968, pp. 57-63.
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Napoleone III inaugurò una politica internazionale mirante a rialzare il prestigio francese attraverso una revisione dell’ordinamento stabilito dal Congresso di Vienna, che passava attraverso il riconoscimento delle esigenze avanzate dalle nazionalità in fermento. In secondo luogo vi era poi un elemento apparentemente di minor rilievo, ma che avrebbe dimostrato in seguito la sua importanza, ossia il fatto che il regno di Sardegna, nonostante la sconfitta nella guerra di indipendenza contro l’Austria, aveva mantenuto una costituzione liberale. Nell’Europa centro-orientale, infine, sebbene Federico Guglielmo IV avesse rifiutato la corona offertagli dall’assemblea costituente di Francoforte ispirata al programma piccolo-tedesco, la Prussia si pose il problema di riformare le istituzioni germaniche in modo da conseguire una posizione egemonica. Essa si assicurò l’appoggio della Sassonia, dell’Hannover e di altri stati più piccoli del nord e nel 1850 a Erfurt fu convocato un parlamento che doveva rendere operativa l’unione. L’Austria era però ben decisa a impedire tale progetto e in quello stesso periodo convocò a Francoforte una assemblea rivale, considerandola valida nonostante l’assenza della Prussia e di molti altri stati. L’azione austriaca era appoggiata dalla Russia, la quale non vedeva di buon occhio la formazione di un forte stato tedesco controllato da Berlino. Il pericolo di una guerra tra Austria e Prussia a un certo punto si fece concreto, ma il nuovo primo ministro prussiano, Manteuffel, ritenne poco prudente aprire un conflitto con gli Asburgo e lo zar, cosicché si arrivò all’accordo di Olmütz (29 novembre 1850). Con esso Austria e Prussia si impegnavano a tenere degli incontri a Dresda per decidere sul futuro della Confederazione. Poiché tuttavia in quella sede la discussione fu paralizzata da una serie di veti reciproci, alla fine si giunse a restaurare la Confederazione nella vecchia forma (maggio 1851). Il potenziale destabilizzante che stava maturando secondo le linee indicate più sopra ebbe bisogno di un periodo di tempo relativamente lungo per emergere. Paradossalmente, tuttavia, furono proprio le potenze meno propense a patrocinare cambiamenti politici ad accelerare, in tempi molto più rapidi, la sequenza di eventi internazionali che avrebbe archiviato in breve quanto restava della solidarietà conservatrice europea. L’occasione fu fornita, a partire dal ’53, dalla guerra di Crimea.
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La prima mossa sulla strada del nuovo conflitto venne dalla Russia, la quale sentiva la propria posizione internazionale accresciuta dal ruolo che essa aveva avuto nello stroncare la rivoluzione ungherese del ’49 e successivamente nel dirimere – a sostanziale favore dell’Austria – la controversia austro-prussiana conclusasi a Olmütz. L’occasione dell’intervento russo fu data dalle controversie tra monaci cattolici e ortodossi per il controllo dei luoghi santi in Palestina, che diede allo zar l’opportunità di inserirsi nelle questioni interne dell’impero turco, proponendo quello che veniva a configurarsi come un protettorato o, addirittura, in prospettiva, una divisione in sfere d’influenza. Il calcolo russo era che le grandi potenze non avrebbero reagito: non la Prussia, poco interessata a questo scacchiere; non l’Austria, grata per gli interventi a suo favore degli anni immediatamente precedenti; non la Gran Bretagna, coinvolgibile in un progetto di spartizione e comunque diffidente verso la Francia bonapartista, né infine quest’ultima, ancora bisognosa di consolidamento. In realtà, alla risposta negativa della Turchia fece seguito una convergenza tra Gran Bretagna, guardinga verso l’espansione russa, e la Francia, desiderosa di riprendere i programmi di espansione finanziaria nel Mediterraneo orientale e di affermare i propri nuovi orientamenti di politica internazionale30. Il fronte principale della guerra, iniziata con l’occupazione russa dei principati danubiani, in un secondo momento fu spostato dalle potenze occidentali in Crimea. Gran Bretagna e Francia ricorsero anche a pressioni sull’Austria perché essa si associasse all’alleanza, ma quest’ultima, scissa fra il richiamo della solidarietà conservatrice e quello opposto del timore dell’espansione russa nei Balcani, non andò oltre una mediazione diplomatica che fallì e un più tardo ultimatum rivolto alla Russia, cui non fecero però seguito concrete azioni belliche. Nel frattempo però, anche per rassicurare l’Austria di fronte a un possibile intervento piemontese in Italia, venne conclusa l’alleanza col Regno di Sardegna, che si impegnava all’invio di un corpo di spedizione da impiegare in Crimea. Nonostante continuassero le azioni militari, tuttavia, la fine della guerra arrivò solo all’inizio del ’56, dopo la morte dello zar Nicola I. 30 Cfr. O. Barié, op. cit., pp. 284-6.
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Le due condizioni più rilevanti imposte alla Russia col Congresso di Parigi furono l’autonomia dei principati balcanici sotto la sovranità turca e la chiusura del Mar Nero alle navi da guerra di tutte le potenze, anche rivierasche. La guerra, nella sostanza, rappresentava un successo per la Gran Bretagna e la Turchia e, a livello diplomatico, della Francia, tornata a recitare un ruolo di primo piano in Europa. Ancor più importante, tuttavia, fu il raffreddamento delle relazioni tra Russia e Austria, dovuto in parte alla mal calcolata iniziativa russa e in parte ancor maggiore all’incerto contegno austriaco31. Dopo il Congresso di Parigi il quadro politico-diplomatico delineato al Congresso di Vienna poteva dirsi di fatto archiviato. Tutto il contesto politico europeo, del resto, era entrato in movimento32, con conseguenze che si videro di lì a poco in Italia. In un breve volger d’anni si susseguirono infatti il convegno di Plombières tra Cavour e Napoleone III, l’alleanza franco-piemontese e la seconda guerra di indipendenza, le cui ripercussioni, nonostante il tentativo di Napoleone III di arrestarla coll’armistizio di Villafranca, diedero luogo alle rivoluzioni filopiemontesi in Italia centrale. Si era di fronte a una sequenza di eventi che non poteva non destabilizzare il regno borbonico, facilitando la sua conquista da parte di Garibaldi, che Cavour e la monarchia piemontese si sforzarono di riportare in binari compatibili all’esterno con la posizione di tutela che Napoleone III aveva assunto verso il pontefice e all’interno col ripristino degli equilibri sociali del meridione. A breve distanza dalla realizzazione dell’unità d’Italia riprese poi quota la questione delle istituzioni del mondo tedesco, che riportarono in primo piano il conflitto austro-prussiano ricomposto a suo tempo con un compromesso, deludente soprattutto per 31 Ivi, pp. 288-97. Sul complesso della guerra si veda anche R. Albrecht-Carrié, op. cit., pp. 95-107. 32 “Il trionfo della controrivoluzione europea fu seguito, a partire dalla guerra di Crimea […], da una serie di guerre scoppiate alla periferia del continente, che assorbirono le forze e l’interesse delle principali potenze europee. Nell’Europa centrale fu da allora possibile, giocando d’audacia e come atto di quell’antirivoluzione creativa che si dipartiva dal nucleo della potena prussiana, realizzare quell’unione nazionale rispetto alla quale nel 1848/49 l’assemblea della Paulskirke era così amaramente fallita”. M. Stürmer, L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, Il Mulino 1986, p. 25.
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la Prussia. Questa volta, soprattutto per merito di Bismarck, la Prussia riuscì tuttavia a mantenere l’iniziativa fino in fondo33. Se per l’Austria l’unificazione italiana rappresentò una sconfitta, lo fu ancor di più quella del mondo tedesco avvenuta pochi anni più tardi. Essa, andando ad alterare gli equilibri dell’Europa centrale gelosamente custoditi dalle grandi potenze, rappresentò un duro scacco anche per la Francia. Anche le vicende tedesche, una volta iniziate, marciarono rapidamente. Nel ’62 Bismarck riuscì ad imporre ad un parlamento recalcitrante il finanziamento di un esercito professionale; l’anno successivo riuscì – impedendo la partecipazione prussiana – a far fallire una iniziativa austriaca volta a riformare la Confederazione germanica e nel ’64 inserì la Prussia, associandola momentaneamente all’Austria, nella complicata questione dello Schlewig-Holstein che sarebbe divenuta poi la grande occasione di discordia tra le due potenze34. 33 “Per Bismarck la debolezza dell’Austria a seguito della crisi italiana, manifestatasi così poco tempo dopo la débacle in Crimea offriva un varco di proporzioni storiche, un’occasione che come ministro degli esteri dal 1862 in poi egli era deciso a sfruttare come mezzo per proiettare la Prussia verso la condizione di primus inter pares in Germania e di Stato più potente dell’Europa centrale”. A. Wess Mitchell, op. cit., p. 396. 34 Lo Schleswig-Holstein faceva parte della Confederazione, ma era governato dal re di Danimarca, alla morte del quale si aprì una complicata questione di successione. Di essa approfittò un principe tedesco, Federico di Augustenburg, per proclamarsi duca dello Schleswig-Holstein. Bismarck ebbe l’appoggio dell’Austria e affrontò la questione esigendo dalla Danimarca il rispetto dell’autonomia della regione. Quando la Danimarca respinse l’ultimatum, fu dichiarata la guerra (1864) e in breve le truppe austro-prussiane occuparono i due ducati. Cristiano IX, nuovo re di Danimarca, in seguito a ciò rinunciò ai suoi diritti sui territori contesi. Fu a questo punto che cominciarono ad affiorare le divergenze austro-prussiane perché, per dare il suo assenso alla creazione di un ducato aderente alla Confederazione sotto Federico di Augustenburg, Bismarck pose condizioni gravose, che menomavano la sovranità del nuovo stato (le sue truppe, ad esempio, avrebbero dovuto passare sotto il comando prussiano) e suscitarono allarme nell’Austria e tra gli stati minori. Le divergenze furono momentaneamente appianate separando l’amministrazione congiunta dei due ducati e attribuendo all’Austria quella dello Holstein. Poiché però l’Austria continuava a tollerare nello Holstein manifestazioni favorevoli al suo passaggio al duca di Augustenburg, gli attriti non cessarono e si crearono le premesse per una rottura.
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Era questa l’occasione attesa da Bismarck. La vittoria in un eventuale confronto con l’Austria, infatti, avrebbe imposto irreversibilmente l’egemonia prussiana sugli stati tedeschi. Il cancelliere preparò accuratamente il conflitto sul piano diplomatico: si assicurò con vaghe promesse di compensazioni territoriali un benevolo atteggiamento da parte di Napoleone III, incoraggiò l’autonomismo ungherese al fine di mettere in difficoltà gli Asburgo e strinse un’alleanza militare col giovane Regno d’Italia, ansioso di strappare il Veneto all’Austria. Poco prima dello scoppio della guerra, egli cercò inoltre di accattivarsi i liberali tedeschi attraverso una proposta di riforma della Confederazione che apriva in qualche misura al suffragio universale. Nel giugno del 1866, quando si giunse alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Austria e Prussia, la Dieta federale decise, con una lieve maggioranza, di appoggiare Vienna. Non tutti gli stati si attennero però a questa decisione, indebolendo così la coalizione antiprussiana. Alla prova delle armi l’Austria subì una bruciante sconfitta. La riorganizzazione militare prussiana, infatti, aveva prodotto un esercito, dotato di un efficiente stato maggiore, che stava rapidamente approfittando delle innovazioni tecniche divenute disponibili. In meno di due settimane l’esercito prussiano, mobilitato rapidamente grazie all’uso dell’efficiente sistema ferroviario e concentrato abilmente sul campo di battaglia da uno stratega di valore come Helmut von Moltke, attaccò in Boemia gli austriaci. Questi ultimi, paralizzati dall’indecisione del comando, subirono a Sadowa una disfatta che apriva al nemico la via di Vienna. Nonostante la prova deludente data nel frattempo dall’alleato italiano, lo scontro decise l’esito della guerra35. 35 Per effetto della guerra l’Austria usciva dalla Confederazione germanica e alcuni degli stati che avevano combattuto a suo favore vennero incorporati dalla Prussia, la quale poté così creare una continuità tra i suoi possedimenti a Est e a Ovest. Si formava una Confederazione germanica del Nord, di cui il re e il cancelliere di Prussia sarebbero stati, rispettivamente, il capo supremo e il primo ministro. Si prevedeva inoltre la formazione di una Confederazione germanica del Sud, che avrebbe avuto un’esistenza internazionale indipendente. L’importanza di questa clausola fu però ridimensionata dall’alleanza militare conclusa da Bismarck subito dopo, che in caso di guerra poneva le forze armate di questi stati sotto il comando prussiano.
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La fulminea conclusione della guerra austro-prussiana aveva fortemente contrariato la Francia, che negli anni successivi non riuscì a conseguire le contropartite territoriali che a suo tempo Bismarck aveva fatto balenare senza impegnarsi concretamente. Questo pose le premesse per un conflitto con la Prussia, scoppiato nel ’70 in seguito ad un incidente diplomatico relativamente banale, manovrato ad arte da Bismarck, relativo alla ipotesi di successione di un Hohenzollern alla corona spagnola. Allo scoppio della guerra l’esercito prussiano rivelò ancora una volta una grande prontezza di mobilitazione. Mentre ancora la mobilitazione francese era in corso, i prussiani avevano preso l’iniziativa in Alsazia e in Lorena. I Francesi abbandonarono in breve l’Alsazia, mentre anche l’armata della Lorena dovette ripiegare su Metz, che fu posta sotto assedio. Con i resti delle truppe cacciate dall’Alsazia e altri rinforzi, il generale Mac Mahon costituì una nuova armata che avrebbe dovuto raggiungere Metz e liberarla dall’assedio. Mac Mahon, tuttavia, fu incalzato abilmente dai Prussiani, che lo costrinsero ad accettare la battaglia campale a Sedan, dove il 2 settembre l’armata francese capitolò, costringendo l’imperatore a consegnarsi al nemico. Mentre la Francia proclamava la repubblica, la Prussia continuò la guerra assediando Parigi, che più tardi fu costretta alla resa36. Con le guerre intervenute nel giro di poco più di un decennio che abbiamo sinteticamente tratteggiato, il volto d’Europa era definitivamente mutato. Non solo era finita la pretesa che un consesso di potenze potesse decidere il destino politico del continente, ma stava volgendo al termine anche quella tendenza all’equilibrio tra le principali potenze che aveva caratterizzato il periodo della Restaurazione. Si era ormai consumata, nella sostanza, una serie di rotture che marcavano una forte discontinuità col passato. La prima di esse era di carattere più strettamente tecnico-militare: le innovazioni militari prussiane ponevano di fronte – come abbiamo accennato più sopra – al primo esempio europeo del nuo
Il Veneto, già promesso all’Italia prima della guerra indipendentemente dall’esito di questa, fu ceduto dall’Austria alla Francia, la quale a sua volta lo concesse all’Italia. 36 Per una sintetica ricapitolazione delle campagne prussiane del ’66 e del ’70 si veda F. Herre, Prussia. La nascita di un impero, Rizzoli, Milano 1982, pp. 317-401.
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vo modo di combattere che stava nascendo nella seconda metà del XIX secolo, ossia la guerra industriale, sulla quale torneremo. La seconda riguardava gli effetti provocati a livello internazionale dal conflitto franco-prussiano. Esso dava vita infatti a una Germania unificata sulla spinta dell’entusiasmo patriottico, cui faceva riscontro invece una Francia mutilata territorialmente (Alsazia-Lorena), travagliata dai conflitti sociali, incerta sulle prospettive istituzionali e desiderosa di rivincita. Ancor di più, infine, la nascita di nuova potenza nel cuore dell’Europa rendeva problematici gli assetti diplomatici tradizionali, con il rischio conseguente che i conflitti futuri divenissero meno localizzati e più dirompenti. Nulla, per il momento, era scontato, ma si aprivano possibilità inquietanti che avrebbero avuto modo di dispiegarsi in seguito37.
37 “L’assalto all’egemonia, dal quale Bismarck saggiamente si astenne, ma che rimase però la tentazione della politica tedesca, doveva rappresentare quel rivoluzionamento del sistema degli stati che nel 1870 era ancora un’ipotesi”. M. Stürmer, op.cit., p. 28.
7. I DIVERGENTI PERCORSI DELLE SOCIETÀ EUROPEE
7.1 Verso un nuovo capitalismo Nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento il capitalismo europeo era ormai saldamente attestato sulla via dello sviluppo industriale. Esso era in grado di sfruttare le principali innovazioni resesi disponibili in quel periodo, messe a punto in misura crescente da laboratori legati direttamente o indirettamente ai grandi gruppi industriali anziché derivati, come nelle fasi anteriori, dall’attività di inventori indipendenti o dal sapere diffuso accumulato nel mondo artigianale. L’elettricità, ora generata industrialmente, venne destinata ad un’ampia gamma di applicazioni, i motori a combustione interna resero possibile sfruttare – oltre al carbone – altre forme di energia fossile come i derivati del petrolio; la chimica organica, infine, fornì i mezzi per produrre artificialmente coloranti, materie plastiche, medicinali. I sistemi bancari, che in un primo tempo avevano faticato a seguire i ritmi dello sviluppo industriale, ormai avevano elaborato una gamma di modalità di organizzazione e finanziamento che consentivano di sopperire alle diverse esigenze del mondo delle imprese. In un’epoca in cui stampa, ferrovie e telegrafi avevano facilitato in modo rilevante la circolazione delle informazioni, inoltre, si rendeva più facile un’operazione che peraltro non era estranea nemmeno alle fasi anteriori del capitalismo, ossia il trasferimento di capitali verso paesi il cui grado di sviluppo risultava minore1. In questo modo l’Europa assumeva il ruolo che un classico libro di H Feis definì di “banchiere del mondo”2. Per comprendere in che modo si configurava l’esportazione di capitali, è necessario tener presenti due fattori. Il primo era il las1 Cfr. supra, § 1.2 2 H. Feis, Finanza internazionale e stato, Etas libri, Milano 1977
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so di tempo trascorso dall’inizio dell’industrializzazione, che aveva dato modo di accrescere le fonti di accumulazione disponibili. Il secondo era il diverso ritmo di sviluppo che i paesi industriali avevano nei decenni tra un secolo e l’altro e che contribuivano a determinare le necessità interne di capitali e quindi il margine destinabile all’esportazione. La Gran Bretagna, ad esempio, non aveva adattato il proprio sistema bancario all’espansione dell’industria, non aveva creato adeguate sinergie fra istruzione e ricerca ed era rimasta indietro nella creazione di nuovi apparati direttivi manageriali; essendole sfuggite molte delle nuove occasioni di sviluppo industriale, aveva stabilizzato il proprio ritmo di crescita all’1,9 % (1% pro-capite); la Francia si posizionava a un 1,7% complessivo e un 1,5% pro-capite; la Germania, il paese dallo sviluppo produttivo più recente e sostenuto, manteneva un tasso sensibilmente più elevato del 2,8% (1,6 pro-capite)3. Nella graduatoria dell’esportazione di capitali, conseguentemente, il primo posto era occupato dalla Gran Bretagna, i cui bisogni di investimento interno erano poco elevati, cui seguivano Francia – anch’essa con uno sviluppo lento – che lasciava quote di capitale disponibili per l’investimento estero e Germania, con una crescita ancora elevata e quindi bisognosa di capitali all’interno. Gli investimenti europei a livello mondiale erano, quanto alla loro struttura, per il 90% investimenti di portafoglio, vale a dire che rappresentavano impieghi in titoli senza partecipazione alla gestione. Se si considera la loro ripartizione per settori, essi affluirono prima di tutto verso prestiti di stato, seguiti subito dopo da impieghi nelle ferrovie e nei sistemi di trasporto. Decisamente minori erano le percentuali collocate in piantagioni, miniere, industrie ed altre attività4. Complessivamente considerate, le destinazioni degli investimenti dal punto di vista della distribuzione geografica, vedevano Europa e Nord America ricevere da sole oltre metà degli investimenti complessivi, mentre l’altra metà era divisa tra le rimanenti aree dell’economia mondiale, che ricevevano percentuali considerevolmente inferiori. La Gran Bretagna, peraltro, si discostava da queste 3 4
A. Maddison, Phases of capitalist developement, Oxford University Press, 1982, pp. 44-5. P. Bairoch, Commerce extérieur et développement économique de L’Europe au XIX siècle, Mouton, Paris-La Haye, 1976, p. 108.
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percentuali, perché mentre gli investimenti rivolti all’Europa continentale non raggiungevano il 10% del totale, quelli verso il Nord America (USA e Canada) erano prossimi a due terzi degli investimenti esteri ad essa attribuibili5. Naturalmente, il consolidarsi di una certa distribuzione geografica non era privo di logica sul piano economico. Gli investimenti che contribuivano a creare infrastrutture o a sostenere attività produttive nei paesi capitalistici giovani, i quali avevano già imboccato la strada dell’industrializzazione, erano quelli che avevano gli effetti maggiori in termini di crescita economica e che tendevano quindi ad autoalimentarsi. Ben diverso era l’esito delle iniziative economiche che si indirizzavano verso paesi dall’assetto sociale molto più arretrato o distorto, dove potevano essere sviluppate con un approccio selettivo singole attività che vivevano in funzione del mercato estero (miniere, piantagioni, ferrovie e attrezzature portuali etc.). In questo caso l’investimento non innescava uno sviluppo cumulativo autocentrato, tale da ampliare gli scambi commerciali e richiedere ulteriori apporti di capitale estero; esso tendeva quindi a rimanere entro limiti ristretti. Al di fuori dell’Europa, l’unico investitore estero di rilievo erano gli Stati Uniti. Questi ultimi avevano intrapreso una politica di espansione finanziaria verso il Canada e l’America Latina; per un ammontare quantitativamente minoritario ma strategicamente significativo gli investimenti erano diretti anche anche in Asia (Cina, Vicino Oriente etc)6. Nonostante l’attività sempre più rilevante di investimento all’estero, prima del conflitto mondiale gli Stati Uniti continuavano ad avere rispetto all’Europa una posizione netta debitoria. Tale esposizione si spiega, soprattutto inizialmente, con la grande necessità di capitale derivata dalle ferrovie, al punto che, anche quando il sistema ferroviario era stato ormai realizzato, metà degli investimenti europei – e in particolare britannici – erano ancora indirizzati ad esso. Col tempo, tuttavia, essi affluirono anche agli altri settori7. Ivi, p. 105. W.Woodruff, Impact of western man, Macmillan, London 1966, pp. 117-19. 6 Per molti versi antiquata ma chiara è l’esposizione di S.Nearing-J. Freeman, La diplomazia del dollaro, Dedalo, Bari, 1975, pp. 59-66. 7 W.Woodruff, op. cit., pp. 119-20.
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Già verso la fine dell’Ottocento gli Stati Uniti avevano assunto i caratteri di un’economia avanzata anche dal punto di vista della struttura delle esportazioni, che erano costituite sempre più da prodotti industriali. Il tipo di struttura produttiva a cui gli Stati Uniti stavano dando vita era tuttavia inedito sia rispetto alla tradizione del paese, sia in relazione alle caratteristiche dell’economia europea. A cavallo tra i due secoli, infatti, prese forma quella che può esser definita come produzione di massa e che tuttora – con varie modifiche di cui avremo modo di parlare più oltre – caratterizza le società industriali avanzate. La direttrice lungo cui si realizzò il nuovo modello di organizzazione industriale si situava nel solco di quello che storicamente aveva costituito l’impulso dinamico dell’evoluzione capitalistica, ossia il controllo sul processo di produzione. L’intervento del capitale, che nei secoli precedenti si era esercitato sulla divisione del lavoro (la marxiana epoca della “manifattura”) e successivamente sulla sua subordinazione al sistema delle macchine (la marxiana epoca della “grande industria”), a partire dal periodo tra Otto e Novecento investì la produzione contemporaneamente su tutti i versanti8. In primo luogo il controllo capitalistico, attraverso un’analisi minuziosa di tempi e metodi, riuscì ad eliminare ogni discrezionalità nell’esecuzione del lavoro, erodendo così i margini di resistenza dei lavoratori; nel contempo, riducendo il lavoro a una combinazione di semplici gesti ripetitivi, secondo le concezioni sviluppate da Taylor e Ford, divenne possibile immettere nella produzione strati sempre più ampi di lavoratori non qualificati. In secondo luogo le scienze, che il capitale ormai sviluppava direttamente o appaltando la ricerca alle università e ad altri centri, entrarono in modo continuativo nell’ambito della produzione, dando vita ininterrottamente a nuovi processi e nuovi prodotti. Alle due caratteristiche appena evidenziate se ne aggiungeva una terza: la complessità dei compiti organizzativi derivanti dalla scala della produzione, dal controllo capillare dei processi e dalla necessità di pianificare l’innovazione tecnologica, si sommava a quella derivante dalla gestione dei finanziamenti e delle vendite e richiedeva pertanto un imponente apparato manageriale che affiancasse la proprietà o si sostituisse ad essa interiorizzando gli imperativi del profitto. 8
H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978, pp. 167-70.
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La nuova struttura della produzione realizzava una forte rottura con l’organizzazione industriale ottocentesca, che abbiamo ricostruito nei capitoli precedenti9. Essa richiedeva, per lo meno nella fase iniziale, un ambiente interamente nuovo, che l’economia europea non poteva fornire ma che era invece alla portata di quella statunitense. Durante il periodo successivo alla guerra civile, infatti, il territorio statunitense fu unificato economicamente in modo sempre più stretto da telegrafo e ferrovie ed alimentato da una ampia riserva di manodopera derivante dall’immigrazione, creando le condizioni per un forte aumento della scala di produzione. Una funzione altrettanto se non ancora più importante ebbero le economie derivanti dalla velocizzazione delle lavorazioni. In quelli dove avevano un posto di rilievo i processi chimici basati sull’uso intensivo del calore, l’accelerazione dei flussi produttivi e le economie corrispondenti furono più marcati. Analoghi successi si potevano ottenere in quelle industrie nelle quali le attrezzature meccaniche consentivano l’integrazione delle operazioni in un ciclo continuo o semicontinuo10. Il nuovo modello di struttura produttiva crebbe in modo incessante durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, fino al lungo boom degli anni Venti durante il quale gli Stati Uniti si imposero a livello produttivo come paese leader dell’economia mondiale. I settori produttivi nei quali si concentrò la crescita, infatti, furono da un lato l’edilizia e dall’altro le produzioni tecnicamente più avanzate dell’auto, delle apparecchiature elettriche e di comunicazione (telefonia, radio)11. In tal modo i rami nei quali si stava maggiormente diffondendo la produzione di massa, che prima della guerra avevano ancora un’importanza circoscritta, assumevano ora una consistenza determinante per l’andamento del ciclo economico. In contrasto con questo quadro, la Gran Bretagna mostrava ormai i sintomi della senescenza industriale. Industria cotoniera, estrazio9 Cfr. supra, § 3.4 e § 3.5. 10 Dei processi del primo tipo si avvantaggiarono la chimica, la lavorazione dei prodotti petroliferi, la metallurgia e la lavorazione dei metalli, il vetro etc; di quelli del secondo trassero profitto importanti rami dei beni di consumo, come quelli della produzione di alcolici e di altri prodotti di origine agricola (tabacco, prodotti cerealicoli, cibi in scatola etc.). Cfr. A.D. Chandler Jr., La mano visibile, Angeli, Milano, 1981, pp. 409-18. 11 R.A. Gordon, Crescita e ciclo nell’economia americana dal 1919 al 1973, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 28-40.
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ne del carbone, cantieristica e siderurgia – rami fondamentali nel passato – mostravano tutti a vario titolo segni di rallentamento che contribuivano a frenare la ripresa12. Il fatto che gli Stati Uniti nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale fossero ancora un paese che pur investendo all’estero rimanevano globalmente un debitore netto e che investissero solo marginalmente in Europa rendeva meno percettibile le potenzialità di dominio finanziario che essi avrebbero potuto tradurre in pratica in futuro. La situazione si rovesciò tuttavia nel dopoguerra, allorché gli Stati Uniti emersero come paese creditore, vantando oltre 3,5 miliardi di dollari di attivo netto negli investimenti esteri, ai quali si dovevano aggiungere i crediti derivati dai prestiti intergovernativi13. Tale posizione statunitense si rafforzò nel corso degli anni Venti, a partire dalla definizione del piano Dawes sulle riparazioni tedesche del ’24, allorché i prestiti esteri degli Stati Uniti decollarono e si mantennero elevati fino al ’28-’29. A conferma della posizione preminente assunta in questo campo rispetto alla Gran Bretagna, l’ammontare dei prestiti statunitensi in questo periodo sfiorò i 6,5 miliardi di dollari, contro i 3,3 britannici14. Gli investimenti degli Stati Uniti si diressero principalmente verso Europa, America latina e Canada, mentre quelli britannici si orientarono prevalentemente verso Dominions e Asia15. Negli investimenti di cui beneficiò l’Europa, una parte sostanziale andò verso la Germania, facilitandone la ripresa. In tal modo la Germania poteva iniziare a pagare le riparazioni e l’afflusso di queste ultime contribuiva alla progressiva sistemazione dei debiti interalleati. Questo meccanismo virtuoso, tuttavia, poggiava sulla fragile premessa della prosecuzione di tale flusso internazionale di capitali, molti dei quali oltretutto a breve termine. Fu tale presupposto che presto trovò dei limiti. Infatti il flusso di capitali statunitensi cominciò a inaridirsi tra il ’28 e il ’29 a causa del 12 Cfr. A.J. Youngson, Britan’s Economic Growth 1920-1966, G. Allen & Unwin Ltd, London 1967, pp. 35-50. 13 G. Hardach, La prima guerra mondiale 1914-1918, Etas libri, Milano, 1982, pp. 291-2 e D. Aldcroft, Da Versailles a Wall Street 1919-1929, Etas 1983, p. 51. 14 C.P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo 1929-1939, Etas, Milano 1982, pp. 40-2. 15 D. Aldcroft, op. cit., p. 258.
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boom economico degli Stati Uniti e della politica monetaria che ne conseguiva, mettendo in difficoltà non solo la Germania, ma anche gli altri mutuatari16. Questa inversione non era in realtà che il prologo della tragedia. A partire dagli ultimi mesi del ’29, infatti, si innescavano la crisi della borsa americana e quella dell’economia reale che l’accompagnò a ridosso, protraendosi, tra alti e bassi, per tutto un decennio durante il quale gli investimenti esteri subirono una battuta d’arresto. In questa sede, in cui la priorità viene data al discorso sull’egemonia economica mondiale, non ci interessa analizzare in dettaglio le cause della crisi17, sulle quali esiste peraltro una vasta letteratura. Ci preme semmai sottolineare come la persistenza della depressione dimostrasse che erano divenuti definitivamente obsoleti i meccanismi di regolazione interna e internazionale. Le regole severe del gold standard, infatti, tendevano a rendere rigida la riposta dei singoli paesi agli squilibri dei conti esteri e a diffondere quindi le tendenze depressive, mentre la filosofia del bilancio in pareggio impediva una risposta efficace alla depressione una volta che questa diventava manifesta. Anche il New Deal restò in parte prigioniero di tali contraddizioni. I provvedimenti presi nella prima fase andavano da un lato a consolidare e riformare la struttura creditizia duramente provata dalla crisi, mentre contenimento della deflazione, redistribuzione del reddito e rilancio erano invece gli obiettivi interconnessi delle misure prese per l’agricoltura e l’industria. In questo quadro furo16 Ivi, pp. 272-77. 17 In questa sede ci limitiamo soltanto a citare a titolo indicativo una sintesi, nel complesso equilibrata, sulle cause della crisi statunitense: “Per quanto concerne specificamente l’esperienza americana,esistono certamente elementi per ritenere che nelle fasi finali del boom i modelli del consumo evolvessero in senso sfavorevole, contribuendo pertanto a determinare il punto di svolta. La distribuzione sbilanciata dei guadagni di reddito – con un vantaggio preponderante dei profitti – significò un aumento molto lento dei salari reali; e ciò, combinandosi con l’ipoteca sui redditi futuri rappresentata da un eccessivo ricorso agli acquisti a rate, fatalmente frenò il tasso di espansione del consumo. Tra il 1928 e il 1929 il tasso di crescita del consumo cadde bruscamente: un evento che, in presenza di un esaurimento delle opportunità di investimento nel campi dell’edilizia e dei beni di consumo durevoli, non poteva non incidere negativamente sulle aspettative di investimento”. D. Aldcroft, op. cit., p. 289.
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no promossi il contenimento della produzione agricola, accordi su prezzi e salari ed ampi programmi di assistenza e realizzazione di opere pubbliche. L’insieme dei provvedimenti che siamo venuti sommariamente ricordando – e di altri che abbiamo trascurato per ragioni di sobrietà espositiva – prospettava una tendenza sempre più capillare dello stato a soppiantare il mercato e il “libero” gioco degli interessi individuali. Questo provocò ben presto un crescente distacco di molti ambienti imprenditoriali e finanziari dalla coalizione rooseveltiana e sotto la pressione degli attacchi conservatori, la politica di Roosevelt dovette cercare altri interlocutori sociali e registrò, dal 1935, una svolta in senso radicale. Frutto di tale svolta furono il proposito di riprendere la lotta alle grandi concentrazioni finanziarie e di attuare programmi fiscali più incisivi, nonché nuove disposizioni legislative che tutelavano le organizzazioni sindacali (Wagner Act). Al parziale mutamento degli orientamenti sociali non corrispose tuttavia un’azione sufficientemente decisa nel praticare la politica di spesa in deficit, ancora concepita come un espediente temporaneo da adottare finché non fosse subentrata nuovamente l’azione degli investimenti privati. Il deficit dovuto alle spese assistenziali, ai lavori pubblici e ai sussidi agricoli crebbe di anno in anno fino al ’36; la ripresa che si era nel frattempo determinata fece sperare che non vi fosse più la necessità di farvi ricorso18, cosicché esso fu bruscamente ridotto, facendo così sgonfiare rapidamente la ripresa stessa. Le vicende connesse al New Deal dimostravano che diveniva necessario un nuovo sistema di regolazione economica, il quale tuttavia in un periodo di destrutturazione del mercato mondiale e di forti resistenze degli orientamenti liberisti stentava ad affermarsi. La peculiarità di quel momento storico, nel quale la Gran Bretagna aveva perduto di fatto la propria preminenza e gli Stati 18 In effetti fra il ’33 e l’inizio del 37 l’operato dell’amministrazione federale si rivelò in certa misura capace di rianimare, per quanto in modo debole e irregolare, l’attività economica. Il contesto economico degli anni Trenta era tuttavia assai diverso da quello del decennio precedente e le industrie che prima erano state trainanti – edilizia e settore manifatturiero – non furono in grado di generare un livello di investimenti paragonabile a quello anteriore. R. A. Gordon, op. cit., pp.66-7.
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Uniti non erano ancora capaci di dare un assetto stabile al sistema, non solo rallentava l’avvicendamento della leadership globale, ma anche la messa a punto di nuove regole e nuove istituzioni di governo dell’economia19. 7.2 I travagli delle democrazie europee L’Europa d’anteguerra, in particolare quella centro-occidentale, esercitava verso il resto del mondo un’egemonia che, come è stato scritto, non si regge[va] soltanto sulla forza militare […], ma si basa[va] su una superiorità materiale e tecnica che [aveva] fatto di essa l’“officina del mondo”, su di una potenza finanziaria che ne [aveva] fatto la banca del mondo, su una superiorità intellettuale universalmente riconosciuta.20
La sicurezza derivante da questa posizione si trovò bruscamente scossa all’indomani del conflitto mondiale. La perdita di dinamismo economico fu subito evidente. Fra il 1913 e il 1929 l’indice del prodotto statunitense passò da 100 a 163,4, contro un aumento decisamente minore non solo per l’Europa nel suo complesso, ma anche per gli stessi paesi vincitori (l’indice 1929 era 128,7 per la Gran Bretagna, 130,6 per la Francia, 132,9 per l’Italia), con un andamento sostanzialmente confermato dai dati relativi alla crescita della produttività21. Anche le percentuali di produzione e commercio mostravano un quadro analogo. Confrontando i dati del 1913 e quelli del 1923, l’incidenza europea sulla produzione industriale mondiale decrebbe dal 43% al 34% contro un sviluppo di segno opposto – dal 26% al 41% – dell’America settentrionale, di cui gli Stati Uniti costituivano l’economia più cospicua. Un processo simile avvenne per il commercio mondiale: per l’Europa si passò infatti dal 59% al
19 Cfr. C.P. Kindleberger,op. cit., pp. 257-72. 20 M. Crouzet, L’epoca contemporanea, in M. Crouzet (dir.), Storia generale delle civiltà, Casini, Firenze 1959, vol. VII, p. 9. 21 A. Maddison, Economic growth in the West, Hertford and Harlow, London, 1964, pp. 201-3 e pp. 231-3.
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50%, mentre la quota dell’America settentrionale si accresceva dal 14% al 18%22. Per l’economia europea la situazione di crisi persistente subentrata nei primi anni successivi al conflitto si intrecciava ad acuti squilibri, come le difficoltà di riconversione dell’economia dalla produzione bellica e i forti processi inflazionistici ereditati dalla guerra e dall’immediato dopoguerra, tra cui quello parossistico sperimentato in Germania; al tempo stesso, inoltre, essa era attraversata da una serie di laceranti conflitti sociali, anch’essi in gran parte eredità della guerra e che l’inflazione aveva contribuito ad aggravare. Mentre in Russia il nascente stato socialista riusciva a sopravvivere alla controrivoluzione e agli interventi delle potenze occidentali, il resto d’Europa vedeva moltiplicarsi scioperi e agitazioni nell’industria come nell’agricoltura, tensioni esplosive che sembravano annunciare svolte rivoluzionarie. Ovunque il disorientamento delle classi dirigenti aveva toccato l’apice: all’orizzonte non appariva alcuna prospettiva nuova e la massima aspirazione era quella di tornare all’ordine prebellico. Quando, alla fine degli anni Venti, sembrò che questo sogno potesse realizzarsi, sopravvenne la grande crisi. Si trattava di un terremoto che negli Stati Uniti aveva in gran parte radici interne, mentre in Europa prese i connotati di un trauma giunto dal di fuori. Se questi rappresentano i tratti generali della crisi postbellica europea, va detto che ogni paese si rapportò ad essi in modo specifico, dando luogo a percorsi con sbocchi differenti. Mantenendoci nei limiti di un’esposizione finalizzata all’analisi della conflittualità internazionale, l’elemento centrale da evidenziare appare la differenza tra i due grandi paesi liberal-democratici occidentali da un lato e la Germania dall’altro. Questo sia in relazione alla risposta data alle difficoltà del dopoguerra, sia riguardo alle strategie messe in atto per mitigare le conseguenze della depressione. Tra le due guerre la Gran Bretagna mantenne una coesione sufficiente a difendere da sconvolgimenti le proprie strutture politiche, ma senza riuscire a compiere alcun sforzo sostanziale di rinnovamento. Nella prima metà degli anni Venti, caduto il governo di coalizione di Lloyd George, si realizzò una prima importante evoluzione del quadro politico generale. Sebbene la maggior forza 22 G. Hardach, op. cit., p. 291 e pp. 313-4.
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politica rimanessero ancora i conservatori, si assistette a un avvicendamento nell’influenza elettorale rispettiva di liberali e i laburisti, i quali da allora acquisirono stabilmente la posizione di secondo partito. Questo fatto, intrecciatosi alle difficoltà del primo governo Baldwin, portò i laburisti a misurarsi con una prima prova di governo (1924), alla quale essi si presentarono tuttavia poco preparati e troppo preoccupati di dare un’immagine conciliante del laburismo al potere. Tale governo durò meno di un anno, sostituito da un nuovo esecutivo conservatore – stavolta di più lunga durata – guidato nuovamente da Baldwin. Nessuno di questi governi tuttavia si rivelò capace di condurre una politica industriale in grado di far fronte alla sostanziale stagnazione dell’apparato produttivo britannico, che doveva lottare coi problemi derivanti dalla propria arretratezza e dall’inadeguatezza della politica monetaria. Fu proprio sotto i conservatori, anzi, che il velleitario ritorno della sterlina rispetto alla parità prebellica23 finì per portare all’estremo le difficoltà dell’industria carbonifera e al conseguente sciopero dei minatori sostenuto dallo sciopero generale (1926). La prova di forza portò alla sconfitta dei sindacati, aggravata più tardi da una legge che vietava gli scioperi di solidarietà. La rigidità dimostrata verso le organizzazioni sindacali, unita alla tendenza a limitare i sussidi di disoccupazione e all’indirizzo generale restrittivo della politica economica provocarono tuttavia una reazione elettorale, che nel ’29 favorì i laburisti. Questi ultimi si ritrovarono dunque, pur con una maggioranza fragile, a guidare un governo alla testa del quale figurava nuovamente – dopo la precedente esperienza del ’24 – Ramsay MacDonald. Il nuovo governo, formatosi quando ancora non si era verificata la caduta di Wall Street, era nato con l’intento di compiere una politica di limitate riforme favorevoli ai lavoratori, ma si trovò ben presto a fronteggiare la crisi economica con un patrimonio di convinzioni liberiste e favorevoli al Gold Standard che lo resero inerte di fronte al montare degli eventi. Nel ’31 le condizioni della bilancia dei pagamenti britannica erano ormai tali da mettere sotto pressione la sterlina. L’opinione degli interessi legati alla finanza era che 23 B. Eichengreen, Gabbie d’oro, Cariplo-Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 207-11.
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si dovesse perseguire una politica deflazionistica, anche attraverso tagli ai salari e all’assistenza sociale. Di fronte a ciò il partito laburista si divise e MacDonald con alcuni ministri accettò di guidare un governo “nazionale” insieme con conservatori e liberali che durò in questa forma fino al ’35, quando – rimanendo inalterata la sostanza politica – la presidenza passò ancora una volta a Baldwin. Paradossalmente, fu proprio MacDonald, non appena formato il governo “nazionale”, a svalutare la sterlina di cui poco prima aveva promesso di sostenere la parità24. Fu l’effetto inaspettato di questa mossa lungamente ad agevolare un minimo di ripesa dell’economia britannica. Oltre a rendere più competitive le esportazioni, lo sganciamento dall’oro fece sentire i propri effetti rendendo più permissiva la politica monetaria e nel contesto di tale allargamento dell’offerta di moneta fu effettuata la conversione del prestito di guerra dal 5 al 3,5 %, che consentì al bilancio statale consistenti risparmi annuali25. Dal ’32 al ’39 i tassi rimasero più contenuti rispetto agli anni Venti e, nell’intento di non sottoporre a tensioni la bilancia dei pagamenti e di non compromettere così l’ampliamento del credito, gli investimenti esteri furono sottoposti a ufficiose limitazioni. Mentre la crisi delle vecchie industrie veniva appianata attraverso sussidi, prestiti e piani di riorganizzazione, i nuovi indirizzi impressi all’economia nazionale si tradussero in fattori di stimolo che consentirono di attivare la ripresa degli investimenti privati soprattutto nelle industrie nuove. Si verificò, in altri termini, un balzo in avanti abbastanza simile a quello che si era verificato negli Stati Uniti durante il decennio precedente26. I bassi tassi di interesse, i bassi costi e le sovvenzioni pubbliche portarono ad una ripresa dell’edilizia; le nuove costruzioni indussero a loro volta una richiesta di elettrodomestici che, insieme all’elettrificazione di impianti industriali e tratti ferroviari, rimise in moto l’industria delle apparecchiature elettriche; anche l’auto, grazie soprattutto 24 Sull’insieme di tali vicende si veda p. es. A.C. Parker, Il XX secolo I. Europa 1919-1945, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 116-41 e G.D.H. Cole, Storia del movimento operaio inglese 1900-1947, cit., pp. 225-86. 25 A.J. Youngson, op. cit., pp. 90-94. 26 H.W. Arndt, Gli insegnamenti economici del decennio 1930-1940, Einaudi, Torino, 1949.
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alla preferenza imperiale, registrò un boom, nel quale ebbero parte rilevante le esportazioni27. Detto questo, tuttavia, resta da sottolineare che tale ripresa si verificò nel contesto di una politica di bilancio ortodossa, rivelandosi non durevole. Nel giro di alcuni anni il boom di investimenti privati che la alimentava tese ad esaurirsi ed essa dunque non sopravvisse alla nuova svolta verso il basso intervenuta nei principali paesi nel ’37, durata finché non si fece sentire l’effetto delle spese di riarmo. Mentre in Gran Bretagna la struttura politico-istituzionale resistette al mutamento della situazione economica e delle circostanze politiche durante tutto il periodo tra le due guerre, in Francia il clima economico e politico degli anni Venti differì in maniera considerevole rispetto a quello successivo. Superati gli immediati sussulti postbellici, infatti, l’economia riprese un buon andamento sotto l’effetto delle attività di ricostruzione e delle spese governative che continuavano a correre in attesa che la Germania pagasse le riparazioni. In realtà queste ultime si mostrarono difficili da riscuotere nonostante l’occupazione militare della Ruhr e l’elevato livello di spese non venne coperto dal sistema fiscale poco efficiente. Il risultato furono un graduale lievitare del deficit, l’inflazione e la caduta del cambio del franco che i governi radicali appoggiati dai socialisti eletti dal ’24 in poi non seppero affrontare. Dal ’26 si formò dunque un governo di unità nazionale guidato da Poincaré che riuscì a stabilizzare il franco a un livello relativamente basso (1928)28, permettendo alla Francia di riassestare il proprio commercio estero e di giungere in condizioni apparentemente floride alla fine del decennio. Il peggioramento connesso alla crisi fu in Francia più graduale che altrove, ma nel ’32 esso era ormai divenuto evidente. E con lo sconvolgimento economico si fecero avanti anche le convulsioni sociali e politiche. Inizialmente (1932) si era determinata una nuova maggioranza radicale con l’appoggio socialista guidata – come nel ’24 – da Herriot, il quale cercò di aumentare le entrate e diminuire le spese, trovando tuttavia forti resistenze. Fra il ’32 e il ’34 si succedettero senza successo cinque governi, creando una situazione di instabilità che provocò la ripresa delle 27 A.J. Youngson, op. cit., pp. 107-115. 28 Sulle vicende monetarie francesi si veda B. Eichengreen, Gabbie d’oro, cit., pp. 219-31.
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agitazioni di destra. Queste ultime, gonfiate anche da scandali a sfondo finanziario che avevano lambito il governo, assunsero un carattere seminsurrezionale il 6 febbraio ’34. Il tumulto verificatosi in quella circostanza non condusse a risultati concreti – tranne la caduta del governo Daladier appena formato e la sua sostituzione con una formazione di centro – ma suonò come un campanello d’allarme per le sinistre. I comunisti, che fino a quel momento avevano avuto un atteggiamento rigido nei riguardi delle altre componenti del campo democratico, cominciarono – anche per effetto di interventi di Mosca – a mostrare un atteggiamento più flessibile e di collaborazione unitaria che rientrava nella politica dei “fronti popolari” poi teorizzata esplicitamente dall’Internazionale comunista nel suo VII congresso del ’3529. La nuova impostazione ebbe un rilevante successo di massa, che portò ne ’36 alla formazione di una coalizione elettorale, con un programma che riconosceva la legittimità della difesa nazionale contro il pericolo fascista e che puntava ad aumenti salariali, a riduzioni dell’orario di lavoro e alla giustizia fiscale. Il successo elettorale portò alla formazione di un governo con l’appoggio esterno dei comunisti e allo scoppio di un’ondata di scioperi miranti a ottenere quelle rivendicazioni contrattuali fino a quel momento insoddisfatte. Preso alla sprovvista, il padronato accolse buona parte delle richieste, tra cui aumenti salariali, settimana di quaranta ore e ferie pagate. Nel giro di alcuni mesi, tuttavia, si determinarono reazioni di segno contrario, ossia aumento di prezzi e fuga di capitali all’estero, che costrinsero la maggioranza a una politica di rigore30. I governi di fronte popolare continuarono anche in seguito, ma in un contesto sempre più spostato a destra, finché nel ’38 essi ebbero termine. Il paese rimase così senza una prospettiva politica e sempre a maggior disagio per le iniziative aggressive della Germania nazista (guerra di Spagna e patti di Monaco). A. Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 90-101 e S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Einaudi, Torino 2012, pp. 100-5. 30 Dal punto di vista economico, l’esperienza del fronte popolare fu analizzata a suo tempo da un noto articolo di Kalecki apparso nel ’38. Cfr La lezione dell’esperimento Blum, in M. Kalecki, Sul capitalismo contemporaneo, Editori riuniti, Roma 1975, pp. 13-33.
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7.3 Cedimento liberale e fascismo Nelle democrazie occidentali le tentazioni autoritarie provenienti dagli ambienti della destra estrema si fecero consistenti soprattutto negli anni Trenta e nel complesso vennero respinte, anche se in Francia con maggiore difficoltà rispetto alla Gran Bretagna. In Italia, invece, esse furono più precoci, trovarono una resistenza minore e finirono col prevalere, dando una loro decisa impronta al quadro politico fin dall’inizio degli anni Venti. Rispetto alle maggiori realtà politiche europee l’Italia, che pure rientrava tra i vincitori della guerra, era un paese di industrializzazione tardiva, con un settore agricolo ancora vasto e per molti aspetti arretrato, cui corrispondevano forti squilibri territoriali tra Nord e Sud. La democrazia era fragile, manovrata da accordi tra gruppi dirigenti ristretti, sostenuti da articolate clientele e spesso esposti alle tentazioni di una condotta repressiva. A inizio secolo la politica giolittiana aveva concesso uno spazio all’azione rivendicativa delle masse lavoratrici, ma spesso adattandosi ai condizionamenti imposti dal ristretto assetto politico del paese. Il primo conflitto mondiale aveva modificato in modo tumultuoso e spesso disordinato il tessuto economico e sociale, incidendo diversamente sulle varie classi sociali31. La borghesia, sia quella industriale più direttamente interessata alla produzione bellica, sia quella che aveva tratto profitto dalle forniture allo stato, dalla penuria di merci o dalle oscillazioni della borsa, fu notevolmente avvantaggiata, anche se molte delle fortune così create non si rivelarono stabili. Assai più disagiate erano le condizioni delle classi popolari. Il peso maggiore della guerra, infatti, fu sopportato dai salariati agricoli e dagli strati più disagiati del mondo contadino, colpiti dall’arruolamento e dal basso livello dei salari reali. Le masse popolari uscivano dal conflitto duramente provate, con la sensazione che una classe ristretta di capitalisti e di speculatori avesse approfittato della guerra e delle loro sofferenze. I lavoratori 31 Sul dopoguerra e l’avvento del fascismo esiste una letteratura sterminata. Si vedano tuttavia G. Candeloro, Storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1978, vol. VIII; N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, TEA, Milano 1996; A. Lyttleton, La conquista del potere, Laterza, Roma-Bari 1973.
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volevano ottenere per i loro sacrifici un compenso sul piano del trattamento economico e della giustizia sociale. Il peso dei partiti popolari e delle organizzazioni sindacali, di conseguenza, si accrebbe considerevolmente. Nel biennio ’19-’20 le lotte contrattuali si intrecciarono con le occupazioni delle terre e alle proteste contro il carovita. La radicalizzazione politica provocata dalla guerra rafforzò le correnti socialiste intransigenti, che anche nei primi anni del dopoguerra riuscirono a determinare la linea ufficiale del partito. Il partito socialista ostentava completa fiducia nell’avvento della rivoluzione, senza tuttavia porsi il problema di adattare la struttura organizzativa del partito a compiti storici di così vasta portata; a questo obiettivo guardava invece attivamente la frazione comunista, che si scisse all’inizio del ’21. Un ruolo rilevante nella dinamica degli avvenimenti politici del dopoguerra fu svolto dai ceti medi, che avevano aderito agli appelli della propaganda e investito i loro risparmi nei prestiti emessi dallo stato e che erano danneggiati in vario modo dall’inflazione. Molte componenti del ceto medio avevano inoltre partecipato alla guerra, condividendo i disagi della vita militare e svolgendo un ruolo di responsabilità, perché da essi era venuta la maggior parte degli ufficiali di complemento. Al ritorno della pace, questi strati sociali si scontravano con una condizione di dissesto economico e di fatica a reinserirsi nella vita civile, tanto più che, conclusosi il conflitto, la scena politica era mutata e occupata da organizzazioni di massa nelle quali essi non si riconoscevano. Nell’ambito del malcontento dei ceti medi si produsse l’aggregazione di forze di destra violente; pericolose per il sistema politico liberale: numerosi ex socialisti e sindacalisti rivoluzionari, esponenti del movimento futurista ed ex arditi. Esse finirono ben presto per formare un forte movimento extraparlamentare. Il rafforzamento dei gruppi manovrabili in una prospettiva di destra era ben vista da alcune frazioni del grande capitale. Nella congiuntura politica del dopoguerra, infatti, vi erano gruppi economici interessati all’egemonia nell’Adriatico e nei Balcani che intendevano alimentare l’agitazione nazionalista contro le limitazioni poste in quell’area all’Italia. Fu in questo contesto che nacque il movimento fascista e che D’Annunzio occupò Fiume, al cui controllo italiano era stato attribuito un forte valore simbolico. L’impresa si concluse in
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realtà nel ’20 con una mediazione internazionale, ma per un anno aveva tenute mobilitate le forze della destra estrema. Anche sul versante delle lotte operaie l’anno decisivo fu il ’20. La tensione tra le forze che componevano il blocco economico dominante e le organizzazioni operaie e contadine era andata crescendo e gli industriali guardavano con timore al movimento dei consigli di fabbrica, che rischiava di sottrarre loro il controllo delle aziende. La prova di forza decisiva si ebbe nel l’agosto del ’20, quando il ricorso alla serrata da parte padronale provocò per contraccolpo in tutto il triangolo industriale l’occupazione delle fabbriche, col tentativo operaio di continuare la produzione sotto il controllo e la gestione dei consigli. Il governo Giolitti non intervenne con la forza, ma lasciò che il movimento si sgonfiasse ed approdasse di fatto a un insuccesso politico. Fu a quel punto che le forze del padronato agrario e industriale agirono per stroncare ogni futura velleità di ribellione. Questi avvenimenti permisero a Mussolini di trovare finalmente una precisa e forte collocazione politica a destra per il proprio movimento. Quest’ultimo, che a un anno dalla sua formazione aveva già registrato una percettibile svolta in tale direzione, fece blocco con le forze di centro e di destra per scagliarsi contro i socialisti. La borghesia industriale e agraria, con l’appoggio o la benevola negligenza dei militari e delle forze dell’ordine e con un crescente consenso da parte della piccola borghesia, mise in atto una pressione sempre maggiore contro le organizzazioni sindacali e socialiste, utilizzando le squadre fasciste. I socialisti, di fronte a ciò, si trovarono impreparati e non seppero opporre una difesa tempestiva e organizzata. Al loro interno, anzi, i dissensi crescevano, in quanto i comunisti nel gennaio del ’21 lasciarono il partito32. Anche la reazione liberale fu debole e i governi non vollero o non seppero frenare con decisione l’avanzata fascista che si stava imponendo con la forza e che nell’ottobre del ’22 diede luogo alla marcia su Roma. La monarchia stessa cedette e il re conferì l’incarico di formare il governo a Mussolini, legalizzando così quello che era in realtà un colpo di stato.
32 P. Spriano, Storia del partito comunista italiano, Einaudi, Torino 1967, pp. 78-121.
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Il fascismo resse il potere dapprima con governi di coalizione e un programma economico liberista ma, superato il grave momento di crisi derivante dall’uccisione di Matteotti (1924), si caratterizzò in senso sempre più interventista in campo economico e sempre più dittatoriale in quello politico. Nel ’28 si giunse addirittura alla legge elettorale basata su un “listone” unico espresso dai fascisti. Nel ’29 il fascismo ottenne anche l’appoggio dei cattolici, a cui si era venuti incontro riconoscendo col concordato alcune importanti esigenze della chiesa. Negli anni Trenta, l’involucro politico-istituzionale del regime venne completato dalle riforme corporative dell’economia. La cornice legislativa del corporativismo era stata già definita in precedenza, senza tuttavia che venisse data un’attuazione concreta alle corporazioni. Queste ultime, in numero complessivo di 22 e suddivise per lo più secondo il tipo di attività svolte dalle imprese in esse raggruppate, vennero costituite nel 1934. Esse rimasero spesso apparati burocratici inefficienti e i loro compiti di coordinamento e di regolamentazione dei rapporti economici furono di fatto marginali. Anche la tutela assicurata ai lavoratori era puramente illusoria. Nelle corporazioni non solo imprenditori e lavoratori erano rappresentati in modo numericamente equivalente nonostante la grande disparità quantitativa, ma i rappresentanti dei lavoratori non erano di fatto scelti da questi ultimi. Il partito fascista e le corporazioni divennero la base della nuova Camera33: le elezioni, in effetti, non solo erano divenute un rito inutile, ma erano inadeguate, anche sul piano della forma, a uno stato totalitario in cui ormai ogni autorità scaturiva dall’alto. Negli anni compresi tra il 1929 e il 1936 il regime riuscì a dunque creare il massimo di consenso attorno alle sue realizzazioni, portando a compimento la costruzione dello stato totalitario34. La guerra 33 Una legge del 1938, quindi, stabilì che la nuova Camera sarebbe stata formata dai membri dei Consiglio nazionale del PNF e delle corporazioni e sarebbe divenuta quindi Camera dei fasci e delle corporazioni; i componenti di tale organismo ne sarebbero stati membri in virtù della posizione da essi ricoperta e per il periodo in cui erano in carica. 34 Sulle istituzioni del regime fascista cfr. G. Candeloro, Storia d’Italia, Feltrinelli, Milano 1996, vol. IX, pp. 233-308; E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in R. Romano, C. Vivanti, (a cura di), Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976, vol. 4.3, pp. 2298 -2232.
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d’Etiopia (1935-1936), presentata in modo tale da far sentire l’Italia una grande nazione in grado di sfidare il mondo e procurarsi un impero, occupò un posto fondamentale in questo sviluppo. Alla mobilitazione militare fece riscontro un eccezionale coinvolgimento propagandistico, che mirava a suscitare spettacolari manifestazioni di fede patriottica35. Negli anni Trenta anche l’Italia si trovò a dover fronteggiare la grande depressione. Al di là del farraginoso ordinamento corporativo, la novità maggiore della politica economica fascista negli anni Trenta fu il potenziamento della presenza statale nell’industria, che segnò un salto di qualità sia per l’ammontare ingente delle risorse impiegate sia per le caratteristiche degli interventi attuati. La situazione che portò alle misure di salvataggio degli anni Trenta fu dovuta all’impatto della crisi mondiale sul sistema bancario, la cui forte presenza nella proprietà industriale era una delle caratteristiche strutturali dell’economia italiana36. Di fronte alla gravità della crisi, oltre all’IMI (1931), istituto destinato a finanziare le industrie attraverso l’emissione di obbligazioni a lunga scadenza, fu creato all’inizio del 1933 l’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale). Dotato di forti mezzi dallo stato, l’IRI assorbì le società che gestivano le partecipazioni della Banca Commerciale e del Credito Italiano e rilevò gran parte delle azioni delle due banche e del Banco di Roma. In questo modo lo stato finiva per divenire di fatto proprietario di tali istituti bancari, 35 Nel contesto della crescente fascistizzazione dello stato, in quegli anni molti settori del regime mostrarono crescente ammirazione per l’efficienza con cui il totalitarismo hitleriano aveva integralmente nazificato la società tedesca, senza i compromessi con la componente dell’apparato statale legata alla monarchia e alla Chiesa cui si era dovuto ricorrere in Italia. Sulla scia di quanto avveniva in Germania, la legislazione per l’incremento demografico, la tutela della purezza razziale e l’emarginazione degli ebrei fece la sua comparsa anche in Italia, dove il razzismo non era mai stato particolarmente forte. A partire dal 1937 a livello ufficioso e dal 1938 con veri e propri atti legislativi, gli ebrei furono esclusi dall’insegnamento e dalla frequenza delle scuole pubbliche, dal servizio militare e dalla pubblica amministrazione nonché dalla gestione delle aziende e dallo svolgimento delle libere professioni; furono vietati inoltre i matrimoni misti. 36 Nella letteratura tradizionale, a questo riguardo si vedano R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Cappelli, Bologna 1972, pp. 134-95; S.B. Clough, L. De Rosa, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, Cappelli, Bologna 1971, pp. 297-346.
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i quali tuttavia si impegnavano a non assumere più, per il futuro, partecipazioni azionarie nell’industria. Quanto alle partecipazioni azionarie ora in mano all’IRI, il proposito iniziale era quello di procedere a una loro graduale liquidazione; ciò, tuttavia, nella maggioranza dei casi non si rivelò possibile, data la riluttanza dei gruppi privati a farsi carico dei rischi e degli oneri del risanamento. L’IRI rimase perciò titolare di ampie quote azionarie in settori come la metallurgia e la meccanica, la navigazione, l’elettricità, la telefonia, oltre – ovviamente – le banche. Constatata tale situazione e considerando che lo stato desiderava mantenere il controllo delle industrie di base in vista della sua politica di guerra e di autosufficienza economica, l’IRI fu trasformato in istituto permanente, costituendo poi società finanziarie con cui coordinare l’attività delle aziende rimaste sotto il suo controllo37. A ragione, quindi, si può dire che il fascismo creò in Italia l’economia mista, in cui si affiancavano attività privata e intervento statale, ma con l’indispensabile precisazione che quella dell’Italia fascista era soprattutto un’economia mista “di salvataggio”38. L’apparato economico di stato che veniva così a formarsi rimase comunque intrecciato da molteplici legami personali e finanziari ai grandi gruppi privati, affiancato dalle organizzazioni corporative del regime fascista e finalizzato alla politica autarchica del regime. Nella sostanza esso rimase sempre uno degli strumenti con cui il fascismo tutelò le classi possidenti.
37 La soluzione adottata per il salvataggio delle banche delineò implicitamente i contorni di quella che sarebbe stata la riforma bancaria. Attuata nel 1936, essa accentuò il ruolo della Banca d’Italia come banca delle banche, mentre le banche di credito ordinario vennero limitate al credito commerciale e separate dagli istituti che svolgevano credito a medio e lungo termine. Alcuni importanti istituti di credito furono dichiarati “banche di diritto pubblico”, mentre Banca Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma furono definite “banche di interesse nazionale”. Anche tutte le altre categorie di banche, a seconda del tipo di credito esercitato, furono distinte a seconda della tipologia ed ebbero discipline apposite. 38 L’espressione è di Valerio Castronovo, La storia economica, in R. Romano, C. Vivanti, (a cura di), Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1975, vol. 4.1, pp. 296-350.
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7.4 Crisi di Weimar e dominio nazista Gli eventi interni delle democrazie liberali e perfino quelli italiani, dove il liberalismo aveva mostrato un rapido cedimento, non ebbero di per sé effetti tali da squilibrare l’assetto internazionale europeo. La svolta decisiva in tale direzione venne invece dal cambiamento di regime verificatosi negli anni Trenta in Germania. Essa derivò, nella sostanza, dagli sconvolgimenti seguiti alla crisi del ’29 e dalla gravità dei suoi sviluppi, che provocarono un cedimento del fragile compromesso che nell’immediato dopoguerra aveva permesso alla politica tedesca di rivestire forme esteriormente democratiche e fece riemergere, raccordandole con la forma nuova rappresentata dal nazismo, le forze reazionarie che avevano contraddistinto il vecchio blocco di potere. La sconfitta nella grande guerra portò in Germania a un apparente terremoto politico, con sollevazioni di massa e caduta della monarchia. Al di là dell’immediata evidenza, tuttavia, per le vecchie classi dominanti il trauma non fu così radicale. Esse infatti riuscirono a compiere un passaggio di poteri nella sostanza indolore, che preservò pressoché integralmente la loro posizione sociale e molti elementi del vecchio blocco di potere. La chiave di questo avvicendamento relativamente pacifico risiedeva in ultima analisi nell’accordo che le vecchie classi dominanti riuscirono a trovare con la socialdemocrazia39. Il potenziale rivoluzionario della socialdemocrazia, come si è visto più sopra40, era già decisamente scemato alla vigilia del conflitto. La sinistra tedesca, inoltre, negli anni della guerra aveva at39 “La stessa rivoluzione minacciò una trasformazione economica radicale soltanto per breve tempo, poiché esisteva un ampio terreno di implicito accordo tra i socialistiche ereditavano il paese e le forze più conservatrici. Mentre i socialdemocratici giuravano di rinunciare ad ogni abbandono del pluralismo parlamentare, la destra rinunciava il pratica a contestare la forma del nuovo regime. […] Le divisioni tra i rappresentanti socialisti e la maggior compattezza della SPD, insieme alla decisione di Ebert di convocare un’assemblea costituente elettiva, approvata a metà dicembre dai Consigli degli operai e dei soldati, garantirono la forma parlamentare della nuova repubblica. Ciò significava, in definitiva, che accanto alle forze della sinistra erano rappresentate le forze conservatrici e antidemocratiche”. C. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, De Donato, Bari 1979, pp.73-4. 40 Cfr. supra, § 5.5.
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traversato un grande travaglio interno che l’aveva portata alla scissione (1917). La maggioranza del partito socialdemocratico (SPD) aveva ripudiato le originarie posizioni rivoluzionarie e mirava a una repubblica che conservasse sostanzialmente il vecchio apparato statale. Alla sua sinistra si collocavano l’ala socialdemocratica più radicale, l’USPD (partito socialdemocratico indipendente), e la Lega di Spartaco (Spartakusbund) di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che propugnava una repubblica fondata sui consigli operai, sul modello dei soviet russi, dalla quale scaturirà poi il partito comunista (KPD). Il vecchio blocco di potere, pur sconfitto politicamente, non si era disgregato e gli esponenti dell’alleanza fra grande capitale e militarismo, di conseguenza, restavano ancora influenti e in grado di condizionare la scena politica, consentendo un passaggio di mano alla socialdemocrazia a condizione che essa riuscisse a evitare una rivoluzione socialista. L’esecutivo provvisorio fu formato da tre socialdemocratici maggioritari e tre indipendenti, ma in concreto l’attività di governo fu modificata di poco; la vecchia amministrazione imperiale rimase in carica e l’esercito assicurò la sua fedeltà al presidente della repubblica, il socialdemocratico Friedrich Ebert. Il governo provvisorio si mantenne tuttavia nei limiti di una serie di riforme democratiche, pur importanti: tra esse suffragio universale esteso anche alle donne, libertà di associazione, contratti collettivi e giornata lavorativa di otto ore. I risultati della scelta moderata dei socialdemocratici maggioritari furono evidenti nella rivolta di Berlino del 5-6 gennaio ’19. Essa fu appoggiata solo dalla sinistra USPD; il governo organizzò la repressione, durante la quale furono arrestati e uccisi anche la Luxemburg e Liebknecht, i leader del movimento spartachista. La repressione, gestita dai Freikorps, dilagò in tutta la Germania, ovunque si profilassero movimenti di sommossa, e ciò mostrava che il governo socialista non esitava a servirsi di formazioni paramilitari che politicamente si connotavano come appartenenti all’estrema destra. Nei mesi seguenti entrò in vigore la nuova costituzione democratica elaborata a Weimar. In essa furono garantite le libertà di opinione, di stampa e di associazione, così come fu estesa l’uguaglianza dei diritti politici anche alle donne. La parte della costituzione relativa alla regolamentazione della vita economica non usciva in sostanza dai cardini della visione liberale, ma prevedeva in linea di
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principio la possibilità di esproprio di terre e imprese per ragioni sociali. Anche la funzione sociale dei sindacati era esplicitamente riconosciuta, così come veniva riconosciuto il diritto al lavoro. Lo stato ereditava dal passato una struttura federale, ma il potere centrale fu rafforzato rispetto a quelli locali, soprattutto dal punto di vista fiscale e del controllo delle comunicazioni, anche se agli stati rimasero notevoli attribuzioni in materia di polizia, giustizia, politica scolastica ecc41. La costituzione di Weimar fu approvata a larga maggioranza, ma anche le componenti che la rispettavano lealmente la vissero senza intima adesione. Dato che in quel momento le forze reazionarie non riscuotevano un consenso sufficiente per governare, esse preferirono convivere con una costituzione democratica, ma si trattava di un atteggiamento dettato da motivi di opportunità e quindi sostanzialmente provvisorio. Rinunciando al rovesciamento dell’ordine sociale capitalistico e del sistema parlamentare, la socialdemocrazia weimariana aveva di fatto stipulato con le forze reazionarie tre compromessi: militare, economico-sociale e politico42. Con il primo i vertici militari sceglievano di rimanere apparentemente fuori dal gioco politico; con il secondo, mentre le forze del mondo del lavoro riconoscevano la legittimità dell’ordine sociale esistente, le forze reazionarie accettavano il sistema della legislazione sociale e della mediazione statale nei conflitti di lavoro; con il terzo i partiti politici convivevano con l’apparato ministeriale e burocratico, di fatto intangibile e sottratto al controllo degli organi elettivi, che rappresentava la vera e propria spina dorsale del potere. Le forze reazionarie accettarono tali compromessi data la situazione politica a loro sfavorevole, ma si trattava di un consenso momentaneo, che avrebbe potuto venir meno in seguito a un mutamento delle circostanze. 41 La costituzione di Weimar presentava un tratto caratteristico che in seguito si sarebbe rivelato gravido di conseguenze. Poiché un parlamento frazionato poteva essere fonte di instabilità politica, si pensò di compensare questo pericolo potenziale prevedendo un presidente eletto direttamente dal popolo; in caso di necessità egli avrebbe avuto la possibilità di governare tramite decreti, che avrebbero dovuto avere una ratifica parlamentare solo in un secondo tempo. In questo modo si creava un’autorità presidenziale che possedeva una diretta legittimazione popolare e si collocava al di fuori, e in certi casi al di sopra, dei partiti e del governo. 42 G.E. Rusconi, La crisi di Weimar, Einaudi, Torino 1977, pp. 22-30.
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L’entrata in vigore della nuova costituzione, comunque, non stabilizzò il paese. Gli anni dal 1919 al 1923, infatti, furono attraversati da notevoli contraddizioni economiche e da forti travagli politici43. Dal punto di vista economico il problema più rilevante era costituito dall’iperinflazione, che raggiunse il culmine nel 1923, in concomitanza con l’occupazione della Ruhr voluta soprattutto dalla Francia per imporre il pagamento delle riparazioni. Il governo assecondò la reazione sotto forma di resistenza passiva, non bloccando l’inflazione e cercando di mostrare che essa era dovuta al peso esorbitante del pagamento dei danni di guerra. L’inflazione avvantaggiò quelle classi possidenti che detenevano la loro ricchezza sotto forma di impianti industriali, attrezzature e beni immobili, le quali poterono anzi liberarsi dal peso dell’indebitamento; essa invece svantaggiò i lavoratori e soprattutto quei ceti medi che avevano fatto assegnamento sui frutti di un patrimonio in titoli a reddito fisso per mantenere un tenore di vita superiore a quello del proletariato. L’opinione pubblica, inconsapevole della volontaria inerzia del governo e delle autorità monetarie, aveva attribuito gli effetti dell’inflazione al peso delle riparazioni, determinando un esasperarsi delle reazioni nazionalistiche44. Hitler, già leader del piccolo partito nazionalsocialista, aveva tentato nel ’23 senza successo un primo colpo di stato a Monaco in seguito al quale scontò un breve periodo in carcere. Gli anni successivi non furono propizi per la popolarità del movimento nazista. A partire dal 1924, infatti, si entrò nel periodo della distensione inter43 Questo clima di instabilità e di malessere economico cadeva a ridosso dei violenti scontri sociali e della repressione dell’immediato dopoguerra; in tale situazione si verificarono tentativi di sommosse e di insurrezioni da parte della sinistra, che portarono alla creazione di una repubblica sovietica di breve durata in Baviera (1919) e alla formazione in Sassonia e Turingia di governi rivoluzionari composti da socialdemocratici di sinistra e comunisti (1923). Mentre tutti questi tentativi rivoluzionari furono repressi in breve e con decisione, una tolleranza assai maggiore fu mostrata dallo stato nei confronti dell’attività eversiva di estrema destra. La Baviera, caduta sotto il controllo della destra, divenne un ricettacolo di elementi reazionari, tra cui molti componenti della brigata paramilitare che aveva sostenuto un fallito colpo di stato nel 1920. Fu in questo ambiente che prese forma il colpo di stato tentato da Hitler nel ’23. 44 Sugli aspetti monetari dell’inflazione si veda A. Fergusson, Quando la moneta muore, Neri Pozza, Vicenza, 2011. Su quelli politici cfr. C. Maier, op. cit., pp. 375-441.
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nazionale e della stabilizzazione economica agevolata dal capitale estero45; anche i circoli più nazionalisti e aggressivi del capitalismo tedesco trovarono allora conveniente approfittare del nuovo stato di cose. Nella seconda metà degli anni Venti, quindi, il partito nazionalsocialista accrebbe la sua forza e compattezza organizzativa (i suoi membri alla fine del decennio divennero circa 200.000), ma non oltrepassò il 3% dei consensi elettorali. Dopo un primo periodo di difficoltà acute, la democrazia weimariana cominciò finalmente a funzionare. Poiché né i socialisti né altri partiti avevano la forza politica sufficiente a imporre una maggioranza governativa stabile, i governi vennero controllati alternativamente dalle varie aggregazioni politiche che si riconoscevano nella costituzione di Weimar. La crisi del ’29 si abbatté sulla Germania con particolare intensità: nel 1932, al culmine della crisi, il paese aveva una produzione industriale praticamente dimezzata rispetto al 1929 e circa sei milioni di disoccupati. In questa fase assumeva particolare importanza il problema della politica finanziaria, che con il sopraggiungere della crisi divenne più restrittiva. All’epoca, infatti, era largamente diffusa la convinzione che di fronte alle crisi economiche la diminuzione delle entrate statali andasse coperta con nuove imposte e tagli corrispondenti delle uscite, in modo da portare il bilancio in pareggio. Nel 1930 la “grande coalizione” allora al governo sotto la guida socialdemocratica si sfaldò proprio sul problema del bilancio e divenne cancelliere il cattolico Heinrich Brüning, che condusse una politica di aggravi fiscali e tagli a spese e stipendi pubblici destinata a mantenere il pareggio del bilancio stesso. A tal fine, egli si servì dei poteri eccezionali garantiti al presidente dalla costituzione, riducendo progressivamente le funzioni politiche del parlamento. Per effetto della rigida politica deflazionistica, nel giro di due anni la crisi economica si aggravò notevolmente e ciò contribuì a spostare gli equilibri politici, dando il colpo finale ai già deboli ordinamenti democratici della repubblica. Con la crisi, i compromessi che stavano alla base della repubblica cominciarono a incrinarsi46. Nell’intento di rendere più docile 45 Cfr supra, §7.1. 46 La cronologia di questa incrinatura progressiva è messa a fuoco da G.E. Rusconi, op. cit., pp. 252-4.
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il parlamento, nel 1930 Brüning lo fece sciogliere per procedere a nuove elezioni, ma ciò permise una forte avanzata elettorale dei nazionalsocialisti. Fino ad allora essi erano rimasti una forza marginale, ma i gruppi capitalistici e agrari più reazionari e i vertici militari cominciarono a guardare con interesse a un partito che poteva essere utilizzato come forza d’urto per scrollarsi di dosso la legislazione sociale della repubblica e quella che veniva considerata una politica internazionale di umiliazione della Germania. I magnati dell’industria siderurgica e chimica, delle grandi banche e delle assicurazioni cominciarono a far affluire fondi al partito nazista. Il partito socialdemocratico, in forte contrapposizione coll’intransigenza dei comunisti e impaurito dall’avanzata nazista, finì col tollerare il governo Brüning come l’ultima diga a difesa del sistema democratico. Nella primavera del 1932 cessò il mandato alla presidenza della repubblica di Hindenburg, vecchio militare dichiaratamente conservatore e di simpatie monarchiche. Poiché anche Hitler scese in lizza come candidato, la socialdemocrazia, temendo che egli diventasse presidente, appoggiò la rielezione di Hindenburg. Questi riuscì in tal modo a sconfiggere Hitler, ma l’illusione che la democrazia avesse vinto fu di breve durata. Al momento della rielezione di Hindenburg, Brüning era ancora cancelliere, ma le forze a lui ostili – tra cui esponenti militari, in particolare il generale Kurt von Schleicher – gli fecero perdere il già tiepido appoggio del presidente e ne provocarono le dimissioni. La guida del governo passò a Franz von Papen, un aristocratico cattolico orientato a destra, che sciolse il parlamento e convocò le elezioni per fine luglio. Esse segnarono un’ulteriore avanzata dei nazisti che, pur superando il 37% dei suffragi, non avevano ancora i voti sufficienti per costituire una maggioranza. La situazione rimaneva instabile e nemmeno ulteriori elezioni, indette per il novembre dello stesso anno, riuscirono a sbloccarla. In questo difficile frangente Schleicher cercò inutilmente di compiere un ultimo tentativo per formare una maggioranza, tentando di dialogare con i sindacati e di aprire una frattura nel movimento nazista. Lo spodestato von Papen si alleò nel frattempo con Hitler, convincendo Hindenburg ad affidare il cancellierato al leader nazista. Il 30 gennaio del 1933 il vecchio presidente nominò cancelliere Hitler; il governo, formato da conservatori e da tre ministri nazisti, ebbe von Papen come vicecancelliere e la sua prospettiva fu di in-
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dire immediatamente nuove elezioni, che consentissero il definitivo consolidamento del governo. Queste ultime, svoltesi in un clima di intimidazione, diedero il risultato voluto, anche se i voti dei partiti di opposizione erano ancora rilevanti. In breve tempo, tuttavia, fu votata la legge sui pieni poteri e le organizzazioni libere furono sciolte o si sciolsero spontaneamente. L’anno successivo il regime affrontò la questione delicata dei rapporti tra l’esercito e le organizzazioni paramilitari di cui i nazisti si erano serviti. Le due principali organizzazioni erano le SA, comandate da Ernst Röhm, e le SS, inizialmente dipendenti dalle SA e controllate da Heinrich Himmler. Mentre le prime erano quantitativamente più numerose, le seconde, che costituivano tra l’altro la guardia personale di Hitler, erano assai più esigue e di estrazione sociale mediamente più elevata. Röhm, il capo delle SA, era convinto che le sue truppe fossero destinate a formare il nerbo del futuro esercito tedesco; tra le SA, inoltre, trovava spazio una retorica anticapitalistica, che era stata un utile strumento di propaganda ma che ora rendeva inquiete le forze conservatrici, che avevano portato al potere i nazisti, e i militari di carriera. Quando si profilò la morte di Hindenburg, che i militari consideravano il loro garante al vertice dello stato, Hitler giudicò opportuno eliminare il vertice delle SA al fine di rassicurare l’esercito (“notte dei lunghi coltelli”). Il 2 agosto del 1934 Hindenburg moriva e Hitler assunse le funzioni di capo dello stato e di comandante supremo delle forze armate, al quale i militari dovettero prestare un giuramento di fedeltà personale. Hitler promosse ben presto una politica di aggressione militare verso l’Europa orientale. Sentendosi abbastanza forte, nel 1938 sostituì con uomini fedeli al nazismo quegli alti comandanti militari che, pur senza aver manifestato dissensi politici, avevano avanzato obiezioni di ordine tecnico47. Questo fatto accelerò la formazione all’interno dei comandi di una segreta corrente di opposizione, la quale non dimostrò tuttavia sufficiente volontà di passare all’azione. La scomparsa dei vertici delle SA dalla scena politica significò l’ascesa delle SS, che già controllavano la polizia politica (Gestapo). Nel 1936, tutte le forze di polizia tedesche vennero poste sotto il controllo di Himmler, che divenne di fatto il personaggio più potente dopo Hitler. Gli oppositori venivano colpiti da arresti arbitrari 47 G.P. Megargee, Il comando supremo di Hitler, LEG, Gorizia 2005, pp. 79-111.
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e dalla “custodia protettiva”, che li portava alla reclusione nei campi di concentramento che andavano moltiplicandosi48. Nato sotto gli auspici del grande capitale finanziario, il regime nazista rispettò, con limitate eccezioni, l’assetto privatistico del sistema economico; non ostacolò la tendenza alla concentrazione della vita economica in poche mani e anzi cercò di incentivare la creazione di grossi complessi ai quali affidare la realizzazione degli obiettivi industriali del regime. Il nazismo promosse un ordinamento dell’economia di tipo verticistico e improntato al corporativismo, creando sei raggruppamenti per settori economici (industria, commercio, artigianato, banche, assicurazioni, energia), controllati dai massimi esponenti delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie del paese49. Lo smantellamento delle organizzazioni sindacali e dei partiti operai, assieme alla larga compenetrazione tra gli organi di governo e il capitale finanziario, diedero ai grandi imprenditori la sicurezza di aver messo il potere in mani sicure. Il pieno appoggio del mondo degli affari assicurò ai nazisti la possibilità di condurre senza suscitare allarmi una politica economica diversa e addirittura opposta a quella raccomandata allora dalle teorie ufficiali. Uno dei fattori che 48 Il programma antisemita che Hitler aveva annunciato cominciò a essere tradotto in atto con zelo. Provvedimenti per l’esclusione degli ebrei dalla pubblica amministrazione e da alcune professioni furono emanati poco dopo la presa del potere, ma con le Leggi di Norimberga (così chiamate perché annunciate nel congresso nazista tenuto nel 1935 in quella città) la legislazione antisemita fece un salto di qualità: gli ebrei furono privati della parità dei diritti e della cittadinanza ed espulsi dai pubblici uffici, mentre venivano vietati i matrimoni tra ebrei e “ariani”. Negli anni successivi l’esclusione degli ebrei dal commercio e dalle libere professioni, la loro riduzione in miseria e l’emarginazione dalla vita pubblica e dai più elementari contatti sociali fecero passi da gigante. Fra il 9 e il 10 novembre del 1938 fu organizzata la famosa “notte dei cristalli”, nella quale le squadre d’assalto vennero scatenate contro gli ebrei e i loro beni. Parallelamente alla persecuzione antisemita venivano adottate altre misure di “igiene razziale” volte a eliminare tutte le tare ritenute pregiudizievoli alla salute della razza: dapprima la sterilizzazione obbligatoria per i portatori di malattie ereditarie, poi il programma di eutanasia per i malati di mente giudicati inguaribili, che portò all’eliminazione di molte decine di migliaia di persone (1939-41). Nella loro lucida follia, queste misure non furono che un pallido preludio di persecuzioni ben più atroci ed estese che sarebbero state perpetrate solo pochi anni più tardi. 49 Cfr. E. Collotti, La Germania nazista, Einaudi, Torino 1962, pp. 116-19.
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avevano favorito l’ascesa del nazismo era stato, come si è visto, la crisi economica. Era naturale che la capacità di far fronte alla crisi e alla disoccupazione di massa fosse considerata un banco di prova dal quale dipendeva il futuro del regime e che l’attenzione di questo si concentrasse innanzitutto sui mezzi per stimolare la ripresa50. In linea generale, i nazisti non si preoccuparono prioritariamente – come invece avevano fatto i governi precedenti – dell’equilibrio della finanza pubblica. Preferirono invece puntare su un flusso di spesa che fosse in grado di esercitare un impatto sulla disoccupazione, lasciando che le variabili monetarie si assestassero di conseguenza. A differenza del New Deal statunitense, che aveva accoppiato le spese per opere pubbliche a quelle per scopi assistenziali, la politica economica nazista puntò dapprima sui lavori pubblici (autostrade strategicamente importanti, strade, canali, ferrovie e bonifiche) e poi in modo sempre più massiccio sugli armamenti. Grazie alla decisione con cui si imboccò la strada dell’aumento della spesa pubblica, la ripresa economica della Germania fu più pronta e sensibile di quella degli altri paesi. Alla metà degli anni Trenta lo scopo di far sollevare l’economia dalla depressione e di eliminare la disoccupazione di massa era stato in buona parte raggiunto, assicurando al regime un certo consenso da parte dei lavoratori nonostante i salari rimanessero bassi51. I provvedimenti economici presi fra il 1932 e il 1936 furono per molti aspetti il frutto di una fortunata improvvisazione e solo più tardi si parlò implicitamente di essi come di un primo piano quadriennale. Nel 1936 fu annunciato un secondo piano quadriennale per l’economia tedesca, la cui attuazione fu affidata ad Hermann Göring, uno degli uomini forti del regime. Lo scopo di questo piano era di adattare il sistema economico tedesco alle esigenze di un’economia di guerra, rendendolo per quanto possibile autosufficiente, soprattutto dal punto di vista delle più importanti materie prime. Si tentò di raggiungere l’obiettivo sia attraverso la fabbricazione di surrogati sintetici delle principali materie prime (benzina, gomma e grassi sintetici), sia tramite l’accumulazione di scorte; una partico50 Cfr. H.W. Arndt, op. cit., pp.245, 279-81. 51 Ivi, pp. 244-51, 267-78. C. Bettelheim, L’economia della Germania nazista, Mazzotta, Milano, pp. 212-217. Si vedano anche le pp. 255-278 di quest’ultimo sulle fonti di finanziamento.
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lare importanza fu data all’obiettivo di sviluppare le importazione di materie prime e generi alimentari dai paesi dell’Europa sud-orientale, creando fonti di rifornimento che potessero difficilmente venir meno in caso di guerra52. 7.5 L’URSS dalla rivoluzione al capitalismo di stato Nel periodo tra le due guerre, al margine orientale dell’Europa stava gradualmente prendendo forma, al posto della vecchia Russia, l’Unione Sovietica, un paese destinato a maturare in breve una forza economica e militare ragguardevole. Mentre al di là dell’Atlantico si stavano ponendo le premesse per la trasformazione degli Stati Uniti nella potenza che avrebbe assunto dopo il secondo conflitto il ruolo dominante a livello economico e politico mondiale, con la crescita dell’Unione Sovietica andava configurandosi quella che sarebbe stata per alcuni decenni la loro principale antagonista. Tra il ’17 e il ’21 la nascente Unione Sovietica si trovò a dover fronteggiare il problema della sopravvivenza immediata. Negli anni immediatamente a ridosso della rivoluzione la società sovietica fu sconvolta da un susseguirsi convulso di eventi, nel quale la guerra civile e l’inflazione dominarono la scena. Dalla seconda metà del ’18 alla fine del ’20 il territorio sovietico fu teatro di scontri accaniti che amputarono temporaneamente ampi spazi economici e contribuirono a disarticolare l’economia già provata dalla disorganizzazione seguita al rivolgimento politico. All’economia sovietica mancavano combustibili, minerali e materie prime, rifornimenti alimentari per le città, mentre il rublo veniva travolto dal flusso delle emissioni, che costituivano ormai la fonte principale di entrata dello stato. Queste tendenze di fondo contribuirono ad amplificare i risvolti imprevisti dei provvedimenti presi nel corso della rivoluzione riguardo ai trasferimenti di proprietà della terra e dell’apparato industriale, nonché ai problemi di controllo che ne derivavano. La prima e forse più grave difficoltà che si trovò nella costruzione di un nuovo sistema economico fu certamente il problema della terra e della condizione contadina. Nel ’17 i bolscevichi si erano 52
H.W. Arndt, op. cit., pp. 310-15.
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inseriti nella contraddizione crescente alimentata dall’incerta politica dei socialisti rivoluzionari. Lenin, in particolare, maturò una svolta di rilievo: egli riconobbe infatti che l’appoggio contadino ad una rivoluzione radicale contro il capitalismo avrebbe reso possibile l’accoglimento delle richieste contenute nell’ipotesi di decreto sulla spartizione delle terre avanzata dai socialisti rivoluzionari. Fu sulla base di questo mutato atteggiamento che il decreto approvato all’indomani della rivoluzione poté mettere la terra a disposizio ne dei soviet53. L’attuazione di questa politica si configurò tuttavia come un insieme di iniziative attuate su scala locale, con metodi e criteri differenti, portando ad una frammentazione delle terre divise e a incrementi poco significativi della superficie coltivabile disponibile per le piccole aziende contadine. Sotto la spinta del divario fra aumento rapidissimo dei prezzi del mercato libero – sospinti dalla svalutazione monetaria – e i prezzi pagati dallo stato per gli ammassi obbligatori, le consegne mensili di grano diminuirono vertiginosamente, fino al pratico annullamento verso la metà del ’18. In quella fase il governo sovietico non fu sfiorato dall’idea di riattivare in qualche modo i meccanismi di mercato54. La distruzione di questi ultimi, anzi, fu portata avanti con determinazione e affiancata da una deliberata pressione sui contadini agiati attuata mediante l’istituzione di comitati di contadini poveri e raggruppamenti armati al fine di estorcere le consegne. Inevitabilmente tale politica, aggravata da un afflusso del tutto insufficiente di manufatti alle campagne si tradusse in una contrazione delle semine, destinata a provocare o aggravare i fe 53 E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, pp. 444-9. 54 “È chiaro che, se la NEP fu un successo nel 1921, lo sarebbe stata certamente in misura ancora maggiore nel 1918. In altri termi termini, si sarebbe dovuto creare fin dalla primavera del 1918 un’imposta in natura per coprire il grosso del deficit delle regioni consumatrici di grano e, contemporaneamente, autorizzare la vendita libera delle eccedenze di grano e degli altri prodotti alimentari. Una simile soluzione avrebbe allentato rapidamente la tensione che andava sempre più accentuandosi tra città e campagne e consolidato l’alleanza con i contadini poveri e anche medi, tagliando l’erba sotto i piedi alla propaganda antisovietica dei socialisti-rivoluzionari e, probabilmente, aprendo la prospettiva di un compromesso tra i bolscevichi da un lato e i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari dall’altro”. R. Medvedev, La rivoluzione d’ottobre era inevitabile?, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 91-2.
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nomeni di carestia, come avvenne nel ’21. Il tentativo di sopprimere il mercato era giunto dunque ad esiti catastrofici. Un’oscillazione iniziale analoga a quella che si verificò per l’agricoltura contraddistinse l’azione dei bolscevichi per quanto riguarda l’industria. La linea da essi propugnata prima della rivoluzione, infatti, non prevedeva in alcun modo un immediato programma di nazionalizzazione e di istituzione di un’economia pianificata. La nazionalizzazione era prevista per le grandi banche e per i grandi trust già esistenti nei fatti, ma questi provvedimenti erano finalizzati soprattutto ad evitare che lo sfacelo crescente dell’economia venisse gestito dalle forze legate al grande capitale. Una gamma sempre più articolata di controlli era già stato attuata dai grandi paesi capitalistici durante la guerra e in Russia i bolscevichi intendevano ampliarla, rendendola esercitabile dal popolo attraverso l’abolizione del segreto commerciale ed una più generale trasparenza della contabilità delle grandi aziende e dei loro rapporti con lo stato55. Le nazionalizzazioni, sebbene non contemplate in modo massiccio in quella fase iniziale, si imposero nondimeno sotto la spinta delle circostanze. In molti casi esse derivarono da decisioni autonome dei collettivi operai, in altri furono causate dalla rovina e dalla disgregazione in cui versavano le aziende di fronte al disinteresse e all’abbandono da parte dei capitalisti e/o dalla reazione all’atteggiamento del padronato, che non accettava forme di controllo operaio. Inizialmente si trattava tuttavia di casi singoli, nei quali spesso l’autorità centrale veniva ad avallare decisioni di fatto già prese nelle situazioni locali. Il partito cercò di imporre l’idea che il controllo operaio, di per sé auspicabile, andasse tradotto in atto nel più ampio quadro dell’azione esercitata da tutti gli organismi sovietici, ma tale linea si impose solo lentamente56. Anche se inizialmente differenti, organizzazioni 55 V. Lenin, La catastrofe imminente e come lottare contro di essa, in Opere scelte, cit., vol. IV, pp. 358-74; cfr. anche V. Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale?, in Opere scelte, cit., vol. IV, pp. 425-27. 56 Il ritmo delle nazionalizzazioni si accrebbe tuttavia quando i Tedeschi occuparono l’Ucraina; nella tarda primavera del ’18 cominciarono ad essere nazionalizzati interi complessi produttivi come quelli dello zucchero e del petrolio e, per impedire che i Tedeschi tentassero di prendere il controllo finanziario dell’industria sovietica, a fine giugno furono nazionalizzate le grandi imprese nei principali rami di industria. Nell’insieme si veda E.H. Carr, La rivoluzione, cit. pp. 496-512.
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vecchie e nuove finirono per confluire, col procedere delle nazionalizzazioni, in una piramide di controllo burocratico che partiva dal centro e si irradiava verso il basso, anche se il loro potere di direzione era nei fatti molto limitato. Questo si rifletté drammaticamente sul livello della produzione industriale, che precipitò, soprattutto nelle grandi unità maggiormente centralizzate. Nel settore industriale non meno che in quello agricolo, dunque, alla fine del periodo della guerra civile lo sforzo di sostituire la direzione centrale al mercato era approdato a un punto morto. La lenta ricomposizione delle tensioni che laceravano la società sovietica, come è noto, prese avvio nel ’21, col limitato ripristino di relazioni di mercato realizzato dalla NEP. La svolta, che non era stata posta in alcun modo all’ordine del giorno nel corso del ’20 e sulla quale non si era svolto di conseguenza un dibattito significativo, fu imposta dall’incalzare degli eventi e sottoposta da Lenin agli organismi centrali del partito proprio alla vigilia dalla drammatica sollevazione di Kronstadt (il successivo X Congresso del partito si svolse nel marzo del ’21, proprio mentre la repressione della rivolta era in corso). Ferma restando la nazionalizzazione della parte essenziale della grande industria e delle banche, l’intento iniziale della NEP era di riscuotere dai contadini una imposta in natura di entità minore delle eccedenze che venivano anteriormente prelevate e di permettere lo scambio di quanto rimaneva disponibile sui mercati locali. In realtà, la necessità di far arrivare il grano in aree lontane impose ben presto anche l’ampliamento e la legalizzazione del commercio privato. Nello stesso tempo, inoltre, attività nazionalizzate inefficienti e piccole imprese passate in mano allo stato furono date in concessione ai privati; le piccole imprese sfuggite alla nazionalizzazione, infine, trovarono un quadro migliore entro cui continuare o riprendere l’attività. In sintesi, ci si andò incamminando verso “una forma di economia mista, con una grande prevalenza del settore agricolo privato, e con la legalizzazione del commercio e della piccola industria privata”57. Se le grandi imprese industriali erano ormai controllate dallo stato, la piccola impresa privata non solo dominava l’agricoltura ma continuava ad avere un peso decisivo nella piccola produzione artigianale o semiartigianale, in gran parte 57 A. Nove, Storia economica dell’Unione Sovietica, UTET, Torino 1969, p.93.
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gestita dal capitale privato; un ruolo rilevante – oltre il 40% verso la metà degli anni Venti – era inoltre giocato da quest’ultimo nel commercio, in particolare in quello al minuto58. Naturalmente, la funzione crescente affidata alle forze dell’economia privata e del mercato nella ripresa economica non poteva non riflettersi sulla situazione delle campagne, nelle quali riprendevano fiato le differenziazioni sociali tra i contadini e il rafforzamento dei kulaki. In esse, com’è ovvio, giocava una parte fondamentale l’ampiezza delle proprietà, ma anche altri fattori costituivano una presenza ugualmente di primo piano: l’impiego di lavoro salariato proveniente dai livelli più bassi della gerarchia sociale nelle campagne, l’affitto delle terre da parte di contadini poveri ad altri più benestanti o la cessione dietro corrispettivo da parte di questi ultimi di animali e/o attrezzi etc; di importanza rilevante, infine, era l’inserimento dei contadini più ricchi nel circuito commerciale o finanziario, l’esercizio dell’usura etc. Tra il ’22 e il ’23 la situazione cominciò finalmente a stabilizzarsi, ma i primi anni del potere sovietico, contraddistinti dalla guerra e dai dissesti economici, avevano creato un serio danno allo sviluppo della democrazia. Nell’originaria concezione leniniana, il potere sovietico avrebbe dovuto procedere dal basso verso l’alto e reprimere i tentativi di rivalsa delle classi dominanti senza compromettere la libera espressione politica delle masse lavoratrici e il loro controllo sullo stato. Questo compito, già difficile in condizioni ordinarie, diventava impossibile nella situazione disperata di quegli anni. Il centro del sistema di governo divenne quindi il partito. Da alcune decina di migliaia di iscritti prima della rivoluzione si era passati a 750.000 nel 1921, ma una parte consistente di queste iscrizioni derivava però da ragioni di opportunismo politico. Nel clima della guerra civile l’organizzazione aveva assunto caratteri di tipo militare in tutti i settori, accentuando nei bolscevichi la propensione per forme organizzative disciplinate e centralizzate e portando a confondere l’avversario politico col nemico in armi. Il potere si con58 Ivi, pp. 113-118. Naturalmente l’adeguamento dell’economia al sistema di mercato non fu né istantanea né lineare. Ne risentirono infatti i rapporti tra prezzi industriali e agricoli (“crisi delle forbici”) e dovette esser messa a punto una riforma monetaria.
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centrò nelle mani del partito e si servì di tre strumenti fondamentali: i soviet, inizialmente considerati organo dell’autogoverno popolare, diventarono un’istanza che si limitava ad approvare formalmente le decisioni già prese dal partito; l’armata rossa vide reintegrati gradi e disciplina; veniva istituita infine la polizia segreta, alla quale furono impartite direttive molto rigide e che non davano garanzie a chi veniva colpito dalla repressione. Di fatto, la partecipazione dei lavoratori alla direzione della vita politica ed economica era decisamente circoscritta e vi erano indubbi segni di autoritarismo, anche se relativamente moderato, perché la situazione politica negli anni della NEP era diventata molto meno tesa rispetto al periodo del comunismo di guerra. Negli anni Venti si intrecciarono due ordini di problemi. A livello politico già prima della morte di Lenin e ancor di più in seguito si aprì una lotta di successione tra i maggiori leader del partito: Trockij, Stalin, Zinov’ev e Kàmenev. Essa non operò tuttavia sempre in modo aperto, ma rimase spesso intrecciata ed occultata dietro a questioni economiche o di prospettiva politica che venivano delineandosi in quegli anni. La prima questione, di tipo economico, aveva dato luogo a due linee contrapposte in base all’atteggiamento da tenere nei riguardi dei contadini. Esse si avvalevano di argomentazioni formulate soprattutto da due importanti economisti del partito. Bucharin era convinto, dopo l’esperienza della guerra civile, dell’importanza delle campagne e del loro appoggio al potere sovietico. A suo parere si doveva procedere con gradualità verso i contadini che operavano privatamente sul mercato; un certo arricchimento da parte dei contadini non doveva considerarsi negativo, perché avrebbe dato luogo a una maggiore domanda di prodotti industriali e a maggiori risparmi che indirettamente avrebbero sostenuto l’industria. Preobraženskij, al contrario, aveva una concezione di taglio più industrialistico: una volta che il vecchio apparato industriale fosse stato ricostruito, si sarebbe dovuto attuare un programma di industrializzazione vera e propria, sottraendo, soprattutto attraverso un aumento dei prezzi industriali, le risorse ai kulaki che venivano visti come agenti del capitalismo privato nelle campagne. Questa seconda linea era per molti aspetti condivisa da Trockij, mentre la prima era sostenuta dalla maggioranza, che aveva a suo favore i membri più autorevoli del vertice del partito. Alla fine Trockij fu
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sconfitto e all’inizio del 1925 si dimise dalle cariche di governo. Emarginato Trockij, si riacutizzarono i dissensi tra Zinov’ev, Kamenev e Stalin. Quest’ultimo, scaricati i due alleati ormai inutili, si appoggiò a Bucharin, per combattere sul piano teorico contro Trockij, attaccando la strategia che puntava prioritariamente all’estensione della rivoluzione in Occidente. Una svolta negli indirizzi politici si stava necessariamente imponendo, perché alla metà degli anni Venti le economie occidentali sembravano aver riguadagnato una certa prosperità, allontanando l’iniziale prospettiva di una rivoluzione. Fu perciò elaborata tra il 1925 e il 1926 la teoria del “socialismo in un solo paese”, che alla stabilizzazione del capitalismo opponeva un fenomeno di segno opposto, ossia il consolidamento della società sovietica. Il futuro dell’Unione Sovietica non sarebbe perciò dipeso da quello della rivoluzione mondiale, come sosteneva Trockij; viceversa, il consolidamento del socialismo sovietico sarebbe stato la base di ulteriori progressi della rivoluzione mondiale. Nel ’27 Stalin ebbe la meglio sull’opposizione – tardivamente unificatasi – di Trockij, Zinov’ev e Kàmenev, ma mentre con il primo la rottura fu insanabile, con gli altri due si giunse più tardi a un compromesso che li relegava in posizioni subordinate. Iniziava così l’età staliniana in senso proprio, il cui esordio coincise con la scelta di accelerare i ritmi dell’industrializzazione, abbandonando la condotta cauta degli anni precedenti. Era evidente che il lancio di piani di investimento consistenti avrebbe richiesto un’agricoltura tecnicamente più avanzata, con aziende più estese ed efficienti e che la NEP, di conseguenza, non poteva durare indefinitamente. La trasformazione dei rapporti nelle campagne, già di per sé complessa, si verificò però in un contesto politico profondamente distorto che ne accentuò all’estremo le difficoltà. L’anno di crisi della NEP fu il 1927, quando si intrecciarono due fenomeni: la carenza nell’afflusso di prodotti industriali nelle campagne e la minor disponibilità governativa ad assecondare l’agricoltura e il commercio privato, al fine di bloccare alcuni fenomeni speculativi sul mercato del grano. I contadini, danneggiati da questa situazione, risposero con una riduzione delle consegne di grano59. 59 M.H. Dobb, Storia dell’economia sovietica, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 246-253. C. Bettelheim, Le lotte di classe in Urss 1923-1930, Etas Libri, Mi-
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In seguito a tali eventi i rapporti tra governo e contadini si raffreddarono e il governo puntò ad accelerare il ricambio dell’azienda agricola contadina con l’azienda collettiva meccanizzata. Queste circostanze politiche determinarono l’allontanamento di Bucharin dalla direzione del partito. Eliminato politicamente Bucharin, Stalin, che negli anni precedenti non aveva mostrato particolari propensioni verso l’industrialismo, all’improvviso cominciò a sostenerlo a oltranza60. Istintivamente portato ad aver fiducia nelle mobilitazioni organizzate dall’alto, con stile per certi versi militare, Stalin si era inizialmente alleato con le forze filocontadine soprattutto per facilitare la sua ascesa politica. Quando il compromesso coi contadini fu logorato, egli non ebbe difficoltà a pensare alla soluzione della crisi attraverso una trasformazione industriale accelerata. Essa appariva inoltre ancora più necessaria nell’ipotesi che una grave crisi economica spingesse in breve gli stati capitalistici a una guerra contro l’Unione Sovietica. Le scelte economiche furono condizionate anche dalla configurazione di classe dell’Unione Sovietica stessa. La deformazione burocratica – fenomeno che già Lenin aveva segnalato con preoccupazione – si era ormai consolidata in una sorta di monopolio di potere esercitato dal partito. La nomenklatura di partito, ossia la classe che dirigeva gli apparati politici e quelli economici, nella sostanza, era ormai diventata la nuova classe dominante al posto dei capitalisti privati e l’Unione Sovietica era divenuta un paese a capitalismo di stato diretto da essa61. lano 1978, pp. 19-23. Si veda anche la dettagliata ricostruzione di E.H. Carr, R.W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica 1926-1929, Einaudi, Torino 1972, vol. I, pp. 47-101. 60 Sulla posizione di Bucharin nella lotta di successione e in generale sulle lotte nel partito degli anni Venti è di fondamentale importanza S.F. Cohen, Bucharin e la rivoluzione bolscevica, Feltrinelli, Milano 1975. 61 La tesi in questione è stata formulata, in ambito marxista, da C. Bettelheim, Les luttes de classe en URSS, Maspero/Seuil 1982, vol 3. 1, p. 15 e cfr. anche pp.13-14. Sull’involuzione delle istituzioni poltiche sovietiche, oltre alle opere di Carr citate in testo, si vedano, a titolo puramente indicativo, R.V. Daniels, La coscienza della rivoluzione, Sansoni, Firenze, 1970, R. Conquest, Il grande terrore, Mondatori, Milano, 1970; R. Medvedev, Lo stalinismo, Mondatori, Milano, 1972; G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Mondadori, Milano, 1976; J. Elleinstein, Storia del fenomeno staliniano, Editori Riuniti, Roma,
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Gli esponenti di questa classe dominante vedevano di buon occhio l’industrializzazione e ogni gruppo premeva affinché gli fosse destinata la maggior quota possibile di risorse, da cui dipendeva il prestigio delle realizzazioni. Queste richieste portavano ad accrescere gli obiettivi del piano, soprattutto riguardo alla produzione di beni d’investimento, ma essa fu avallata senza riguardo ai vincoli economici, ideando perciò un piano quinquennale che dava la netta priorità all’industria pesante a scapito della soddisfazione delle esigenze di consumo avvertite dalle masse. Il piano, già formulato in modo ottimistico nel 1928, fu rivisto al rialzo a più riprese nel 1930; al XVI congresso del partito si pensò che esso avrebbe potuto raggiungere gli obiettivi fissati alla fine del 1932, ancor prima del previsto. L’industrializzazione, prospettata come un’impresa grandiosa grazie alla quale la Russia sovietica sarebbe uscita da un’arretratezza secolare, suscitò una forte ondata di entusiasmo e di adesione. Durante la realizzazione del piano, tuttavia, si registrarono spesso contraccolpi negativi: le iniziative, proprio perché eccessive e volte in troppe direzioni, portavano a pressioni non coordinate, caotiche, sull’apparato di produzione, trasporto etc.; obiettivi meno ambiziosi, soprattutto nel settore metallurgico ed energetico, avrebbero potuto portare a risultati più consistenti. Il secondo piano quinquennale puntò al consolidamento dei risultati ottenuti nel primo, unito a un graduale spostamento territoriale dell’industria sovietica verso Oriente. Anche nel caso del secondo piano si registrarono vari squilibri nella fase di attuazione. Mentre furono raggiunti gli obiettivi dell’industria metallurgica e meccanica – anche grazie all’entrata in funzione dei grandi complessi creati nel corso del piano precedente – altri settori, come quello minerario e petrolifero, rimasero indietro. Vi fu inoltre un ritardo assai marcato nella crescita dei salari e nella produzione di beni di consumo rispetto a quella dei beni di investimento. Questo ritardo, destinato con l’andar dei decenni a cronicizzarsi, era fondamentalmente dovuto al fatto che i dirigenti, interessati soprattutto al completamento dell’apparato industriale, rinviavano indefinitamente la soddisfazione dei bisogni di massa; in 1975; J. Elleinstein, Storia dell’URSS, Editori Riuniti, Roma, 1976. Tra i lavori più recenti, A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, Il Mulino, Bologna 2007.
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parte, tuttavia, incise anche la necessità di migliorare le attrezzature dell’esercito sovietico in vista dello scontro con la Germania che si profilava all’orizzonte. Pur con questi inconvenienti, per il settore industriale nel suo insieme l’esordio della pianificazione fu complessivamente un successo. Assai gravi furono invece i problemi sorti nel settore agricolo. Il perno della trasformazione agricola era dato dalla confluenza delle aziende private in aziende collettive, che potevano essere di tipo cooperativo – i colcos – o statale –- i sovcos. I mezzi meccanizzati per la coltura della terra vennero fatti confluire nelle Stazioni Macchine e Trattori, di proprietà statale, che ne avrebbero offerto i servizi alle aziende. Naturalmente i contadini si opponevano alla confluenza forzata nelle aziende collettive. Il fenomeno era molto ampio e coinvolgeva larghi strati di popolazione contadina, ma la responsabilità fu attribuita alla resistenza dei kulaki. Servendosi di questo pretesto si rispose con pressioni politiche e repressioni poliziesche, che andavano frequentemente fino alla deportazione di interi villaggi. Per non cedere il bestiame allo stato, molto spesso erano i contadini stessi a macellare le proprie bestie. La resistenza dei contadini e la disorganizzazione legate al carattere troppo brutale e drastico della collettivizzazione portarono a una caduta della produzione agricola, particolarmente grave nella zootecnia. Ai morti causati dalla repressione e dalle deportazioni si aggiunsero i milioni di vite perse a causa della carestia; il deficit demografico fu aggravato considerevolmente dal fatto che le terribili condizioni di quegli anni avevano abbassato drasticamente la natalità. Da allora i rapporti tra contadini e potere centrale, fino a quel momento oscillanti, si guastarono definitivamente e l’agricoltura divenne il più debole tra i settori dell’economia sovietica. Le trasformazioni che avvennero nella prima metà degli anni Trenta acuirono il disagio sia nella società sia nelle file del partito. Proprio per questo, anche se il partito aveva ormai accettato il predominio di Stalin e il culto della personalità stava diventando una prassi diffusa, non si era ancora giunti a una stabilizzazione irreversibile della dittatura. Molti dirigenti del partito schierati con Stalin avevano accettato le nuove condizioni politiche più per necessità che per convinzione; una parte di essi, inoltre, era convinta che le immense sofferenze legate alla collettivizzazione dovessero
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subire una battuta d’arresto. Proprio in quegli anni Stalin aveva poi incassato un pesante insuccesso in politica estera, in quanto le direttive impartite ai comunisti tedeschi attraverso l’Internazionale non avevano saputo frenare l’ascesa di Hitler al potere nel 1933. Era naturale che al momento di tirare le somme su quanto era avvenuto si cominciasse a chiedere anche un diverso e meno oppressivo clima politico; questa esigenza si concretizzò, sebbene sotterraneamente, al XVII congresso del partito (1934). Anche se ufficialmente rappresentò un trionfo per Stalin, esso ne acutizzò i timori. Al Comitato centrale furono infatti rieletti i vecchi dirigenti, tra cui ex oppositori riammessi dopo l’autocritica; parallelamente prese consistenza una sorda opposizione, che lavorò segretamente per sostituire Stalin con Kirov, segretario del partito a Leningrado. Di fronte alle potenziali minacce, Stalin cominciò a predisporre un meccanismo repressivo. Alla fine del 1934 Kirov fu ucciso, probabilmente con la connivenza della polizia segreta. Seguì un’ondata di arresti e la condanna al carcere di Zinov’ev e Kàmenev come mandanti politici dell’assassinio. Sebbene l’intenzione di Stalin fosse probabilmente quella di inaugurare la politica delle condanne a morte contro gli oppositori, il rapporto di forza all’interno del partito ancora non glielo consentiva. Di conseguenza lasciò trascorrere un breve periodo di tregua, durante il quale mise a punto una grande montatura giudiziaria che gli avrebbe consentito di liberarsi di ogni vincolo. Nel biennio ’36’38 furono celebrati i “processi di Mosca”, allestiti per accreditare la tesi secondo cui tutti i gruppi sconfitti – di destra e di sinistra – avevano finito con l’unirsi contro Stalin con la complicità internazionale del fascismo. In seguito a tali processi Zinov’ev, Kàmenev e Bucharin furono uccisi. Non solo furono epurati i vertici del partito a livello centrale e periferico, ma tutta la società sovietica fu attraversata in profondità dalla repressione. Il clima di terrore veniva giustificato con l’idea che l’accerchiamento capitalistico e gli stati fascisti infiltrassero sabotatori nell’Unione Sovietica. In moltissime circostanze si fece un uso sistematico della tortura fisica e psicologica, nonché della delazione. Gli stessi responsabili della polizia segreta, divenuti custodi di segreti troppo scottanti, vennero a volte eliminati dopo aver svolto il loro servizio. Anche gli alti gradi dell’esercito subirono drastiche epurazioni e questa è una delle ragioni che
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spiegano l’impreparazione militare russa di fronte all’attacco tedesco nella seconda guerra mondiale62. Le eliminazioni causate dalle fucilazioni seguite a processi più o meno regolari furono solo la parte minoritaria del terrore staliniano. L’internamento massiccio nei campi di lavoro forzato, iniziato già durante la collettivizzazione, si intensificò, giungendo a vari milioni di detenuti alla vigilia della seconda guerra mondiale; in tali campi, una percentuale considerevole dei deportati moriva a causa delle condizioni di vita durissime. Sostenere che i metodi brutali coi quali fu portata avanti la trasformazione economico-sociale del paese consentirono poi all’URSS di affrontare vittoriosamente il secondo conflitto mondiale rappresenterebbe una tesi non solo in qualche modo giustificazionista, ma anche sostanzialmente fuorviante. Sul piano economico, infatti, l’accelerazione che indubbiamente si verificò fu meno efficace del previsto, ma ancor più gravi furono i contraccolpi politici, in particolare quelli che indebolirono gravemente i comandi dell’Armata Rossa; essa fu quindi esposta pesantemente ai colpi tedeschi nella prima fase della guerra, la quale fu in generale condotta attraverso un impiego estensivo e spesso avventato e cinico delle risorse umane che caratterizza tutta l’età staliniana.
62 J. Erickson, Storia dello stato maggiore sovietico, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 451-559.
8. CONFLITTI E DECLINO
8.1 Il ritorno dei conflitti Per l’Europa il periodo storico seguito al 1870 è contraddistinto da due sviluppi per certi versi connessi. Da un lato il vecchio continente, che all’inizio del periodo considerato era all’apogeo della propria influenza mondiale, fu messo progressivamente in secondo piano, sia per effetto dello sviluppo economico che delle guerre da cui era stato coinvolto, da potenze esterne. In secondo luogo esso sperimentò, nel corso dei due conflitti mondiali e della guerra fredda, gli effetti di un mutamento più generale nel modo di concepire la condotta dei grandi confronti militari. In questo capitolo si cercherà quindi di articolare, ripercorrendone le fasi, lo svolgimento di tali processi e di cogliere il loro intreccio. Nell’esame dei rapporti internazionali, si può affermare con sicurezza che la rottura dell’assetto di equilibrio europeo che era stato ripristinato con la fine dell’età napoleonica cominciò con l’unificazione della Germania e le sue conseguenze. Difficilmente, d’altra parte, il mutamento nel modello di relazioni internazionali cui abbiamo fatto cenno sarebbe potuto provenire dalla Gran Bretagna. Quest’ultima, paese oramai industrialmente maturo il cui assetto economico era sostenuto da un sofisticato sistema di relazioni commerciali, da articolate istituzioni finanziarie e da un vasto impero coloniale, aveva un orizzonte assai diverso da quello degli stati continentali. Per quanto ovviamente vigile riguardo ai contrasti tra questi ultimi, la Gran Bretagna fino all’inizio del Novecento mantenne una tradizione tendente a privilegiare le cure rivolte all’impero e a minimizzare la portata dei propri interventi sul continente europeo, guardando ad essi soprattutto in termini di mantenimento degli equilibri. Ben diversa era la situazione per gli altri paesi, Germania e Francia in particolare. La nascita stessa della Germania come stato
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unitario era avvenuta per mezzo di due importanti guerre nel cuore dell’Europa: quella austro-prussiana per la supremazia entro il mondo germanico e quella franco-prussiana che decise l’affermazione della Germania bismarckiana contro la Francia. La seconda, in particolare, aveva avuto conseguenze durevoli, scavando un fossato incolmabile tra Francia e Germania1. È da questo momento che iniziò una sedimentazione progressiva di contrasti che può essere sostanzialmente scandita in tre fasi: 1) la prima, muovendo dal conflitto franco tedesco del 1870-71, si concluse all’inizio degli anni Novanta con la stipulazione dell’alleanza franco-russa; 2) la seconda vide la saldatura dell’accordo anglo-francese del 1904 e i suoi successivi sviluppi; 3) la terza, infine, fu connessa alla crescente instabilità dei Balcani all’inizio del nuovo secolo e sfociò in breve nella guerra mondiale. Inizialmente, al tempo di Bismarck, la Germania rispose all’ostilità francese riannodando un solido rapporto con l’Austria, al quale nel 1882 fu associata anche l’Italia, desiderosa di uscire dall’isolamento politico dovuto al conflitto con la Francia (Triplice alleanza, rinnovata con alcune varianti fino alla viglilia del primo conflitto mondiale). In un primo tempo essa cercò anche, con un paziente lavorio che nel caso del trattato di “controassicurazione” fu spinto fino a un equilibrismo funambolico, di mantenere a tutti i costi i rapporti con la Russia2. Questa impostazione politico-diplomatica si logorò tuttavia in breve. La chiusura del mercato dei capitali tede1
2
“L’acquisizione di un ‘grande spazio’ strategicamente sicuro (e, più tardi, dopo le esperienze del conflitto economico del 1914-18, anche il più possibile autarchico) nel caso del Reich tedesco era possibile solo con la rottura di quello che era visto come un accerchiamento e con la costruzione di un’ampia e piena posizione egemonica, essendo il Reich sin dalla sua nascita quasi ‘schiacciato’ nell’Europa centrale tra la Francia e la Russia, ed impossibilitato dalla Gran Bretagna ad espandersi oltremare”. A. Hillgruber, La distruzione dell’Europa, Il Mulino, Bologna 1991, p.71. “Mentre l’intesa mediterranea, promossa moralmente da Bismarck, garantiva gli Stretti dalle mire russe, il trattato di controassicurazione incoraggiava i piani di Pietroburgo per conquistarli: il patto austro-italiano firmato nel 1887, simultaneamente al rinnovo della Triplice alleanza, l’Austria-Ungheria e l’Italia, stabiliva infatti che ogni altra decisione sulle questioni balcaniche doveva essere presa di comune accordo fra i contraenti, ma con il trattato di controassicurazione la Germania assegnava alla Russia, di propria iniziativa, la tutela della Bulgaria”. H. Holborn, Storia della Germania moderna, Rizzoli, Milano 1973, pp. 277-8.
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sco seguita a un momentaneo raffreddamento dei rapporti russo-tedeschi nel periodo ’86-’87 e il rifiuto dei successori di Bismarck di rinnovare il trattato di “controassicurazione” – considerato troppo impegnativo – provocarono un rapido riorientamento della Russia verso la Francia. Tale avvicinamento diplomatico, cominciato nel ’91 e conclusosi all’inizio del ’94, certamente conteneva il germe di un possibile conflitto, ma lo scoppio di esso esigeva il maturare di molte altre condizioni. Queste ultime erano connesse alle fonti di instabilità esterne che si riflettevano maggiormente sull’Europa a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, legate soprattutto a due ordini di problemi. Il conflitto per la spartizione dell’Africa e – di importanza ancora maggiore – l’interazione delle sfere di influenza ai margini di tre grandi imperi confinanti: quello asburgico, quello turco e quello russo. In Africa i conflitti reciproci riguardarono, in momenti diversi, tutte le principali potenze europee, ma indubbiamente l’attrito intervenuto a più riprese e protrattosi più a lungo fu quello tra le due maggiori sfere di influenza, che facevano capo a Francia e Gran Bretagna. La direzione prevalente assunta dall’espansione della prima era la creazione di una fascia di possedimenti che tagliasse trasversalmente l’Africa dall’Atlantico all’Oceano Indiano, mentre quella della seconda si sviluppava principalmente – anche se non esclusivamente – lungo l’asse di riferimento Città del Capo-Cairo. L’ultimo e più rilevante scontro fra tali sfere di influenza fu quello determinatosi a Fashoda nel 1898. Questa tensione, accoppiata all’isolamento derivante dalla successiva guerra anglo-boera, rappresentava per la Germania una garanzia che la Gran Bretagna sarebbe rimasta impegnata in contese extraeuropee e quindi potenzialmente bisognosa di un aiuto tedesco in Europa. Il secondo grande focolaio di tensione era costituito dalla disgregazione del dominio turco e più in generale dall’assetto dei Balcani, area di tangenza tra i tre grandi imperi europei. La decadenza dell’impero turco era dovuta al progressivo disfacimento dell’organizzazione statale basata sul feudalesimo militare, che aveva portato fin dal Settecento ad un graduale sforzo di autonomizzazione dei popoli della penisola balcanica; esso aveva assunto una coloritura religiosa ed era continuato anche nel secolo successivo. Dopo la guerra russo-turca del ’77-’78, in particolare, gli stati che si erano
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guadagnati l’autonomia in precedenza divennero anche formalmente indipendenti (tranne la Bulgaria, che restava nominalmente sotto la sovranità turca). L’impero asburgico, dopo gli scacchi subiti in Italia e Germania3, si era concentrato sui Balcani come direttrice privilegiata di espansione; in ciò esso era sostenuto – dopo il riavvicinamento con la Germania – dalle mire del capitalismo tedesco, caratterizzato da una volontà di espansione finanziaria che riguardava non solo i Balcani, ma anche il Vicino Oriente. Assai guardinga verso l’Europa orientale, per la questione balcanica e degli stretti, era naturalmente la Russia, la cui netta vittoria nella guerra con la Turchia aveva reso necessaria la successiva mediazione del Congresso di Berlino. Il quadro definito nel ’78, pur con significativi spostamenti dell’influenza di Russia e potenze centrali sui singoli stati, rimase nelle linee generali inalterato nei decenni seguenti, durante i quali le grandi potenze furono maggiormente polarizzate dai problemi coloniali. Nel giro di pochi anni, tuttavia, sia gli attriti coloniali che la questione balcanica registrarono una progressiva evoluzione4. Nel primo caso si giunse nel 1904 a un rovesciamento delle precedenti tensioni tra Francia e Gran Bretagna, attraverso un ravvicinamento che eliminava tutte le controversie coloniali tra i due paesi. Considerati i precedenti contrasti, il passo da compiere era arduo da entrambe le parti, ma una serie di condizioni nuove intervenne a facilitare le trattative. La diplomazia francese, determinata a rafforzare la posizione del paese in Marocco per acquisire una maggior influenza nel Mediterraneo, entrò nell’ordine di idee che per compiere questo passo era necessario eliminare ogni possibile opposizione britannica, in particolare riconoscendo in modo inequivocabile il dominio inglese in Egitto. Sul versante britannico destava allarme la sfida tedesca sugli armamenti navali, che fin dall’inizio era forse difficile da vincere ma che suscitava comunque considerevoli apprensioni. Inoltre la guerra anglo-boera aveva condotto a guardare con timore anche le potenziali debolezze militari in India e preoccupazioni non meno forti erano costituite dall’espansionismo russo in Asia centrale, 3 Cfr supra, § 6.6. 4 Una scorrevole esposizione d’insieme in M. Macmillan, 1914, Rizzoli, Milano 2013, pp. 145-214.
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nonché dai veloci progressi russi nella penetrazione economica verso Manciuria e Corea5. La Gran Bretagna trovò quindi naturale non solo allearsi col Giappone in funzione antirussa (1902), ma al tempo stesso puntare ad un avvicinamento alla Francia, che avrebbe potuto esercitare una funzione moderatrice anche sull’alleato russo6. L’Intesa (1904) che scaturì da tali convergenze e che appianava tutte le controversie coloniali tra Francia e Gran Bretagna, tra cui quella allora strategica per il Marocco, fu completata più tardi dall’accordo britannico con la Russia. Alleata con la Francia e ridimensionata in Asia dalla rivoluzione e dalla sconfitta nella guerra russo-giapponese (1905), la Russia poteva diventare ora un interlocutore credibile per accordi di ampia portata volti alla spartizione delle sfere di influenza in Asia, che furono effettivamente trovati nel 1907. Rispetto a un decennio prima, la configurazione delle alleanze era completamente cambiata. Pur avendo ancora implicazioni militari molto vaghe, sul piano politico le nuove combinazioni trovarono la reazione irritata della Germania, che si manifestò – peraltro in modo maldestro – nel corso delle due crisi marocchine del 1905 e del 1911. La nuova trama di alleanze determinava una situazione inedita. Non solo infatti essa delineava due fronti – la Triplice e l’Intesa – sempre più contrapposti tra loro, ma collegava vicendevolmente le grandi questioni geopolitiche su scala intercontinentale. Come gli obiettivi dei più potenti gruppi economici erano concepiti su scala mondiale7, così lo erano divenuti sempre più quelli politici dei maggiori stati, creando una configurazione in grado di rendere interdipendenti – e quindi di amplificare – le tensioni emerse su singoli scacchieri anche geograficamente molto lontani fra loro. Una grande deflagrazione bellica, che a fine Ottocento era ancora remota, diventava ora una possibilità concreta. Fu in questo nuovo contesto che prese forma l’ultima delle pluridecennali crisi balcaniche. È noto che fu la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, che contribuì a indebolire lo stato turco senza 5 6 7
Su questi ultimi cfr. p. es. H.Seton Watson, op. cit., pp. 399-405 e pp. 529-544. C. Clark, I sonnambuli, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 150-51. Clark (p. 149) nota opportunamente che per la Gran Bretagna l’importanza della Cina come mercato era molto maggiore di quella dell’Africa. E.J. Hobsbawn, L’età degli imperi, Mondadori, Milano 1996, pp. 358-63.
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riuscire a rinnovarlo, a mettere in moto gli appetiti delle potenze: nell’immediato l’Austria-Ungheria annetté formalmente la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria proclamò la propria indipendenza; pochi anni più tardi, mentre la Francia giungeva ad ottenere il protettorato sul Marocco, l’Italia si impadroniva della Libia. La progressiva destabilizzazione del dominio turco, infine, facilitò la formazione dell’alleanza balcanica che portò alle due guerre del 1912-13. Il risultato più inquietante di queste complesse vicende intervenute in Europa orientale fu indubbiamente il rafforzamento della Serbia, un paese percorso da torbide trame interne8 che poteva fungere da polo di riferimento per gli Slavi all’interno e all’esterno dell’impero asburgico. Fu questa circostanza che irrigidì l’Austria9 e la fece propendere per la soluzione di forza dei contrasti (a maggior ragione, ovviamente, dopo l’attentato di Sarajevo); a loro volta, tuttavia, le scelte dell’Austria non avrebbero potuto sortire effetti dirompenti senza l’appoggio tedesco. Pur senza condividere l’ipotesi di Fischer che faceva dell’entrata in guerra della Germania una scelta preordinata10, è comunque ragionevole pensare che la responsabilità tedesca consista nell’aver avallato le mosse azzardate dell’Austria senza esercitare nei suoi confronti il proprio potere di interdizione11. Nel guardare alle scelte tedesche, peraltro, è necessario tener conto dell’ambiente nel quale maturarono, in cui la spirale delle tensioni si era autoalimentata e aveva creato automatismi che andavano al di là della volontà di singoli attori, rendendo la guerra praticamente inevitabile. La specificità della decisione presa dalla Germania non riguardò quindi tanto la predeterminazione della guerra in sé, le cui cause risiedevano in un quadro di interdipendenze sistemiche in cui le responsabilità tedesche erano pesanti ma certamente non esclusive, quanto la scelta del momento migliore per scatenarla12. 8 Clark, op. cit., pp. 7-71. 9 Cfr. p. es. M. Macmillan, op. cit., p. 558 e O. Janz, 1914-1918, Einaudi, Torino, 2014, p.50. 10 F. Fischer, Assalto al potere mondiale, Einaudi, Torino, 1965, pp. 13-101. 11 M. Hastings, Catastrofe 1914, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2014, p. 162. 12 Cfr. p. es. Lichteim: “La certezza che la Russia era ancora economicamente arretrata, che la Gran Bretagna [era] non più all’apice della sua potenza, e che la Francia era impastoiata da un ristagno dell’incremento demografico e da uno sviluppo industriale stentato, incoraggiò i dirigenti politici e militari
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8.2 La guerra industriale Negli stessi decenni conclusivi dell’Ottocento in cui cominciarono ad accrescersi le tensioni internazionali si affermò in Europa un nuovo modo di combattere, del quale si era già avuto un saggio nella Guerra di Secessione americana e che è stato definito come guerra industriale13. I suoi fondamenti furono ampliati ed approfonditi in seguito fino alle due guerre mondiali, quando, prima con l’invenzione delle armi atomiche e successivamente con la guerra fredda, esso andò incontro a un progressivo declino. Il primo carattere significativo della guerra industriale, comune con quelle che avevano contrapposto le nazioni europee nel periodo successivo alla rivoluzione francese, fu lo svolgersi attraverso lo scontro di eserciti di massa al fine di portare – in pochi confronti campali – alla distruzione delle principali forze avversarie. Tali eserciti, ridimensionati in tempo di pace, mantenevano ingenti riserve addestrate che avrebbero potuto essere richiamate in caso di guerra. Passando invece agli elementi che esprimono una discontinuità, quello che maggiormente colpisce è l’utilizzo massiccio delle tecnologie messe a disposizione in tutti i campi dalla fase matura dell’industrializzazione: nell’industria nuovi esplosivi, siderurgia dell’acciaio, meccanica pesante; nei trasporti e nelle comunicazioni navi in ferro, ferrovie e telegrafo. Di considerevole portata, inoltre, furono i mutamenti organizzativi, sia nell’articolazione dei comandi che nella strutturazione dei corpi combattenti14. Tutto il sistema degli armamenti, che finora aveva registrato un’evoluzione molto lenta, entrò in un periodo di intenso sviluppo tecnologico, a cominciare dalle armi individuali. I fucili, ad esempio, misero a frutto una serie di innovazioni parallele maturate nella prima metà dell’Ottocento: l’idea di passare al principio della retedeschi a cercare una decisione sul campo di battaglia, finché il tempo giocava ancora in loro favore”. G. Lichtehim, L’Europa del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 10. 13 Questo tipo di confronto militare è stato così definito: “uno scontro su un campo di battaglia tra uomini e tra macchine, un imponente evento decisivo in una disputa riguardante gli affari internazionali”. Cfr. R. Smith, L’arte della guerra nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2009, p. 43. 14 Ivi, pp. 121-64.
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trocarica, reso sempre più necessario dai limiti di utilizzo pratico delle armi tradizionali ad avancarica; l’invenzione di polveri che miglioravano l’innesco rispetto al vecchio sistema ad acciarino; il miglioramento delle rigature delle canne e gli accorgimenti che consentivano di impegnare meglio il proiettile nella rigatura stessa. Entrarono così in uso i fucili Dreyse (1841) e Chassepot (1866), muniti di otturatore girevole-scorrevole e di percussore ad ago, che consentirono – in particolare quest’ultimo – una maggior velocità e portata di tiro. I nuovi fucili a retrocarica, inoltre, consentivano di sparare coricati, sfruttando le coperture fornite dal terreno e permettendo di superare i tradizionali schieramenti in linea. I difetti di impiego di questo tipo di fucili, consistenti soprattutto nella delicatezza dell’ago e nella scarsa tenuta dei gas, furono rapidamente superati attraverso armi che impiegavano un bossolo metallico come contenitore della carica di lancio. Nel giro di pochi anni entrarono in uso i fucili a ripetizione, ma una rivoluzione ancor più determinante fu costituita da cartucce caricate con la nuova polvere senza fumo, più potente, praticamente priva di residui e più sicura da maneggiare (anche le pistole, come le armi lunghe, furono adattate ovviamente a questo rapido rinnovamento)15. Durante lo stesso ciclo di innovazione delle armi da fuoco furono messi a punto i prototipi iniziali di mitragliatrice. Il primo in assoluto fu quello progettato da Gatling, a canne multiple fatte ruotare da una manovella, usato per la prima volta dall’Unione durante la Guerra di Secessione ed imitato con varie modifiche anche in Europa. Più tardi vennero in uso le mitragliatrici a canna singola, in cui la ricarica era effettuata sfruttando l’energia fornita dall’esplosione, tramite l’utilizzo dei gas di scarico o del rinculo. Il primo esempio di questo tipo di arma fu la mitragliatrice Maxim, entrata nell’uso effettivo durante l’ultimo decennio dell’Ottocento, e di cui tutte le principali potenze fabbricarono proprie varianti. In queste e in altre versioni, la mitragliatrice divenne una delle armi di maggior rilievo tattico della prima guerra mondiale. Fino alla guerra franco-prussiana lo sviluppo delle artiglierie rimaneva ad uno stadio piuttosto incerto. I cannoni ormai tendevano generalmente ad esser costruiti col criterio della canna rigata, ma diversi aspetti rimanevano ancora da definire, come la controversia 15 R. Held, op. cit., pp. 295 e ss. e S. Masini, G.R. Rotasso, op. cit., pp. 125-237.
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sulla superiorità del cannone in acciaio rispetto a quello in bronzo e soprattutto quella tra il principio dell’avancarica e della retrocarica. Nel giro di pochi anni sarà quest’ultimo a prevalere, soprattutto grazie all’uso di culatte apribili e rinchiudibili con un sistema a vite interrotta, dimostratosi superiore agli altri otturatori. In un contesto nel quale il volume di fuoco e la gittata delle armi era sempre più determinante, la sfida ulteriore fu quella di fabbricare cannoni a lunga gittata e tiro rapido, che permettessero semplicità d’uso e rapidità del puntamento. Per fare un salto di qualità in tal senso era necessario gestire la fase di rinculo, impedendo che quest’ultima portasse i pezzi fuori posizione, obbligando così a ripetere le operazioni di puntamento. Il problema, dopo vari tentativi e il ricorso a diversi espedienti, cominciò ad esser risolto negli anni Novanta, grazie all’adozione di ammortizzatori idraulici16. Naturalmente tali brevi cenni sono ben lungi dall’esaurire l’illustrazione delle innovazioni balistiche introdotte con le nuove artiglierie, ma sono comunque sufficienti a far intuire quali conseguenze potessero comportare sul campo di battaglia. Innanzitutto la cavalleria perdeva in gran parte la propria funzione d’urto in favore dell’artiglieria. Allo stesso modo anche la tattica della fanteria poteva essere profondamente modificata dalla necessità per quest’ultima di attaccare sotto la pioggia di fuoco di inusitata intensità prodotta dalle nuove armi. Si trattava di gravi interrogativi, al momento appena accennati ma che sarebbero emersi in modo dirompente nel corso della prima guerra mondiale. Negli ultimi decenni dell’Ottocento i mutamenti tecnici delle armi e ancor di più della logistica, l’evoluzione dei sistemi di reclutamento e mobilitazione e la definizione delle strutture di comando si verificarono sotto l’effetto delle guerre del ’66 e del ’70-71, che posero l’Europa di fronte alla potenza prussiana, risultata vincitrice soprattutto grazie alla superiorità della propria organizzazione in tutti gli ambiti della condotta di guerra. Il riflesso di questa situazione portò le potenze europee a guardare con rispetto alle istituzioni militari prussiane, che vennero prese come modello. La prima conseguenza si ebbe con la rivalutazione 16 P.E. Cleator, L’artiglieria dal 1815 al 1870 e D. Reichel, Un secolo di artiglieria moderna, entrambi in Jobé (a cura di), op. cit., pp. 135-65.
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della coscrizione obbligatoria (tranne che in Gran Bretagna) e della velocità della mobilitazione, che cominciò ad esser considerata come una componente strategica. In seguito a ciò, un accento particolare fu posto sul ruolo delle ferrovie, che avevano una funzione essenziale nel portare a termine la mobilitazione e nel trasferire rapidamente le truppe al fronte, e delle linee telegrafiche che assicuravano un costante flusso di comunicazioni. L’imponenza delle masse da comandare e la varietà dei corpi e delle relative esigenze logistiche, infine, portava ad accrescere la pianificazione svolta dagli stati maggiori, il cui modello di riferimento, anche se raramente eguagliato, rimaneva quello prussiano17. Anche gli armamenti navali parteciparono al processo di cambiamento tecnologico dell’ultima parte del secolo. Superata la prima fase dei tentativi di applicare corazzature alle tradizionali navi da battaglia in legno e di mantenere la propulsione mista ad elica e a vela, negli anni Settanta divenne corrente la costruzione di scafi metallici corazzati che presto tutte le grandi potenze adottarono, dando origine ad una corsa agli armamenti navali che si dimostrò – per lo meno in certi momenti – ancor più netta e finanziariamente impegnativa di quella agli armamenti terrestri. Dopo l’iniziale fase di sperimentazione, un primo assestamento si ebbe verso la fine del secolo, quando le corazzate tesero a convergere in media verso modelli di 9000-16000 tonnellate e velocità dai 13 ai 18 nodi. L’armamento era costituito da cannoni di diverso calibro, da impiegare nel combattimento con differenti tipi di vascelli, riservando quelli di grosso calibro alle navi più potenti e quelli di calibro minore al naviglio di importanza più contenuta. La svolta si verificò nel 1906, quando la Gran Bretagna varò la Dreadnought, una corazzata di nuova concezione, più veloce di quelle allora in uso perché basata su un nuovo sistema di propulsione a turbina e caratterizzata da un tipo inedito di armamento, che privilegiava nettamente i grossi calibri. Questa scelta permetteva di ingaggiare combattimenti a distanza e standardizzare – semplificandola nettamente – la direzione del tiro. Progetti simili erano allo studio anche di altre marine e ben presto si aprì una corsa verso le 17 W.H. Mc Neill, op. cit., pp. 223-306; M. Howard, Le forze armate, in F. H. Hinsley (a cura di) Storia del mondo moderno, Garzanti, Milano 1968, vol. XI, pp. 255-79.
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migliorie tecniche nelle nuove costruzioni, al punto da render obsoleta in pochi anni l’originaria Dreadnought, mentre per le nuove navi si parlò di super Dreadnought. Mentre l’attenzione della politica e l’ingente sforzo finanziario si concentravano sulle grandi navi come le corazzate e gli incrociatori da battaglia – in special modo in Germania e Gran Bretagna – prendevano forma altre innovazioni destinate a modificare profondamente la guerra sul mare, come i sommergibili, i siluri e le mine, che tuttavia, a differenza delle grandi navi, non riuscirono ad attrarre l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica in modo altrettanto efficace. Gli sviluppi che abbiamo sintetizzato portarono a conseguenze paradossali anche nella guerra navale, simili per certi aspetti a quelle che si stavano profilando nella guerra terrestre. Le grandi navi da battaglia, infatti, si rivelarono troppo costose per esser lasciate ferme e nello stesso tempo troppo preziose per esser messe a rischio a cuor leggero negli scontri. Esse inoltre, nonostante la loro mole, si dimostravano vulnerabili di fronte ai sommergibili e alle mine e questo in prospettiva non poteva che condizionarne in senso restrittivo l’impiego. 8.3 Dalla guerra industriale alla guerra totale Fra i tratti distintivi delle due guerre mondiali spicca non solo la piena aderenza al paradigma della guerra industriale, ma anche l’estremo potenziamento di quest’ultima attraverso la mobilitazione estesa a tutti i livelli della società; dalla dimensione militare in senso stretto, dunque, al sistema produttivo, ma anche alla finanza pubblica, alla ricerca scientifica e agli apparati ideologici e di propaganda. Nell’insieme, la finalizzazione di ogni aspetto della vita sociale agli scopi bellici consentiva di connotare la nuova guerra come guerra totale18. Le dimensioni ormai raggiunte dagli eserciti, dalla logistica e dalla complessità tecnica delle armi tendevano tutte a dilatare all’estremo il coinvolgimento della società nell’impresa bellica. Più ancora, 18 R. Smith, op. cit., p. 112 e p. 167. Sulla guerra totale si veda G. Hardach, La prima guerra mondiale 1914-18, Etas, Milano 1982, pp. 76-256.
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rendevano necessario allargare la rete delle alleanze internazionali, coinvolgendo paesi che contribuissero allo sforzo comune in base alla propria posizione geopolitica, alle proprie dotazioni militari e alle rispettive risorse finanziarie19. La percezione, se non la piena consapevolezza, che la guerra stesse aumentando la propria complessità rispetto al passato sopravvenne piuttosto rapidamente sui campi di battaglia, dal momento in cui ci si rese conto che armamento efficiente e velocità di mobilitazione non erano bastevoli da soli a garantire il successo, come era invece avvenuto ai tempi delle guerre che avevano portato all’unificazione tedesca. Estese a tutti i belligeranti, anzi, tali condizioni finivano per paralizzare reciprocamente la libertà di manovra di cui ci si era avvalsi nelle guerre ottocentesche. In breve tempo la nuova realtà si incaricò di ricordare ai capi militari quello che solo voci isolate avevano paventato prima del conflitto, ossia che i nuovi armamenti avevano trasformato radicalmente la guerra di posizione. Se sul fronte orientale la maggior estensione delle linee e le minori forze che presidiavano ogni tratto di fronte lasciavano ancora dei margini alla guerra di movimento, su quello occidentale dopo pochi mesi di guerra si era arrivati a uno stallo destinato a durare20. La differenza in questione contribuì a causare ripercussioni degne di nota. Mentre infatti la Germania vinse la guerra ad Oriente21, a Occidente le cose andarono in modo totalmente diverso e con esiti che alla fine compromisero anche ciò che la Germania aveva acquisito sul fronte opposto. In Francia il fronte correva, continuo e quindi non aggirabile, dalle coste delle Fiandre ai confini della Svizzera. Da entrambe le parti si era posto in essere un sistema di trincee scaglionato in profondità, articolato e fittamente difeso da un complesso sistema di reticolati. Supportato dall’azione delle mitragliatrici, questo sistema difensivo era diventato praticamente impenetrabile, nonostante i pesanti bombardamenti preliminari di artiglieria da cui solitamente erano preceduti gli attacchi, i cui effetti, per quanto devastanti, toglievano all’attacco stesso la componente della sorpresa. 19 B. Liddell Hart, La prima guerra mondiale 1914-18, Rizzoli 1968, p. 605. 20 Ivi, p.104 e D. Stevenson, La Grande Guerra, RCS, Milano 2004, pp. 234-5 e p. 253. 21 Cfr. F. Fischer, op. cit, parte III.
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La situazione di stallo prodotta dai sistemi trincerati, che nel corso del tempo si era evoluta introducendo nella difesa una componente di risposta elastica, indusse ad elaborare varie tattiche offensive. La prima fu quella del logoramento, il cui esempio più compiuto fu l’impostazione data da Falkenhayn all’offensiva di Verdun: essa prevedeva la scelta di un obiettivo la cui difesa potesse essere considerata irrinunciabile da parte del nemico, su cui impegnare una vasta battaglia nella quale avrebbe prevalso la parte che sarebbe stata in grado di sacrificare la maggiore quantità di uomini e mezzi. Una seconda modalità tattica assunta delle offensive fu quella dell’infiltrazione. Messa a punto da Ludendorff, essa mirava non tanto ad accanirsi contro determinati obiettivi strategici, ma ad ottenere una serie di successi limitati; dove questi avessero avuto gli esiti più promettenti, si sarebbe insistito in vista di risultati più decisivi. Un fondamentale accorgimento fu quello di sfruttare il fattore sorpresa, adottando bombardamenti preliminari brevi e lanciando verso le trincee avversarie piccoli contingenti di truppe d’assalto scelte (armate di mitragliatrici portatili, lanciafiamme e granate), che si incuneavano nello schieramento avversario scompaginandolo e lasciando alle ondate successive le usuali operazioni di consolidamento dell’avanzata. In realtà, tuttavia, anche la nuova impostazione non era esente da inconvenienti, poiché richiedeva una serie di rapide scelte militari che non sempre potevano essere compiute in tempo o dirette verso l’obiettivo appropriato. Anche i tentativi di ricorrere a nuove armi non portarono, nel corso della guerra, a risultati decisivi. L’arma più effimera dal punto di vista degli sviluppi successivi furono i gas, di varia tossicità e meccanismi d’azione, usati dapprima su iniziativa tedesca e poi imitati. Essi tuttavia presentavano difetti di praticità ed eccessiva dipendenza dalle condizioni atmosferiche, in particolare dai venti; anche quando furono impiegati sotto forma di granate, la loro azione fu contenuta dall’uso di respiratori e maschere antigas. Se l’iniziativa nella sperimentazione dei gas fu dovuta soprattutto ai Tedeschi, quella dei carri armati appartenne indubbiamente agli alleati. Anche i carri armati, agli esordi, presentarono parecchie difficoltà di progettazione e di impiego. I prototipi di carro pesante erano caratterizzati da difetti di costruzione spesso vistosi. Ogni modello aveva le sue carenze specifiche, ma alcune limitazioni erano comuni ed evidenti: scarsa potenza in rapporto al peso e
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conseguentemente carenza di velocità e di autonomia, corazzature di spessore insufficiente e prevalenza dell’armamento leggero. Essi, per lo meno agli inizi, furono inoltre impiegati in numero insufficiente e su terreni inadatti, riducendo così l’effetto d’impatto ed esponendosi ad avarie e al fuoco nemico. Per quanto nel giro di pochi anni il loro spiegamento fosse divenuto più efficace, nemmeno i carri armati di per se stessi ebbero conseguenze risolutive sull’andamento della guerra. Diversamente dai carri armati, che avevano fatto la loro comparsa sul campo di battaglia solo nel 1916, l’utilità bellica degli aeroplani fu evidente fin dall’inizio. Un primo uso degli aerei, anzi, era stato fatto dagli Italiani in Libia alcuni anni prima del conflitto mondiale, ed essi ebbero subito un pronto impiego, dapprima soprattutto per ricognizione. Sopravvennero poi l’utilizzo per supporto alla fanteria, per i bombardamenti e per la caccia e l’abbattimento degli apparecchi altrui. Per far ciò occorreva risolvere il problema tecnico della sincronizzazione di elica e mitragliatrice e il problema organizzativo di raggruppare gli aerei in speciali unità di caccia. Inizialmente gli scontri avvenivano tra aerei singoli o piccoli gruppi di velivoli, ma dopo il 1917 si cominciarono a usare gruppi di combattimento in cui decine di apparecchi volavano in formazione compatta. Malgrado la costruzione di modelli d’aereo concepiti specificamente come bombardieri, i numerosi limiti (potenza dei motori, tecniche costruttive) e la scarsità numerica impedirono che i bombardamenti potessero avere un impatto rilevante. Nel complesso, dunque, nonostante che negli anni della guerra la produzione aeronautica avesse raggiunto livelli quantitativi notevoli, sia il perfezionamento tecnico degli aeroplani che la dottrina relativa al loro impiego – come del resto nel caso dei carri armati – furono lasciati in eredità al periodo successivo. Dalle sintetiche considerazioni sin qui svolte appare evidente che né le innovazioni tattiche e organizzative né quelle relative alla messa a punto di nuovi sistemi d’arma riuscirono a sbloccare il fronte occidentale. La guerra sul mare produsse per certi aspetti risultati più incisivi, però anche in questo caso attraverso percorsi che sarebbero stati difficilmente concepibili pochi anni prima del conflitto. La marina inglese, superiore a quella tedesca sebbene la distanza si fosse ridotta a causa della recente politica tedesca di
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costruzioni navali, evitò la ricerca di uno scontro decisivo, consapevole del peso che avevano assunto nuove armi nelle quali la Germania aveva un posizione d’avanguardia: mine e sommergibili. Verso il nemico fu dunque adottato un blocco commerciale prudentemente esercitato a distanza, che fu gradualmente inasprito e che era destinato a produrre risultati nel lungo periodo. Anche i Tedeschi, tuttavia, non attuarono una strategia di scontro diretto, preferendo differire quest’ultimo al momento in cui la propria strategia basata su posamine e sommergibili avrebbe prodotto i propri logoranti effetti. Gli scontri navali rimasero quindi relativamente rari e di importanza abbastanza contenuta. Solo la battaglia dello Jutland (1916) vide un combattimento in grande stile, conclusosi con una vittoria di misura tedesca la quale non ebbe tuttavia esiti strategici di rilievo22. Con un certo sapore di paradosso per una potenza che ai tempi in cui Tirpitz era ministro della marina aveva profuso sforzi di bilancio per la costruzione di una grande flotta di superficie, l’arma navale preferita dei Tedeschi nel corso della guerra furono i sommergibili, mediante i quali essi cercarono sia di contrastare il blocco nemico, sia soprattutto di bloccare le importazioni britanniche, strangolando l’economia dell’avversario23. Per la Germania il pericolo della guerra sottomarina consisteva nel fatto che essa, se condotta in modo indiscriminato, avrebbe rischiato di compromettere i rapporti coi paesi neutrali, in particolare gli Stati Uniti. La svolta decisiva si ebbe nel febbraio del ’17, quando fu dato il via alla guerra sottomarina senza riserve, confidando che essa avrebbe portato alla vittoria anche nel caso di un’eventuale guerra con gli Stati Uniti, il cui intervento effettivo in Europa avrebbe avuto tempi lunghi. Dopo alcuni mesi di affanno, tuttavia, la reazione britannica si dimostrò efficace: le risposte difensive efficienti (convogli navali protetti dalla marina da guerra, nuovi mezzi di ricerca dei sommergibili, appoggio della ricognizione aerea) ridussero sensibilmente le perdite, mentre cresceva il tonnellaggio prodotto per sostituire quello affondato. Alla fine del 1917 la Germania, pur essendo anda22 Liddell Hart, La prima guerra, cit, pp. 109-12 e pp. 349-379. 23 Per la periodizzazione della guerra sottomarina e le sue implicazioni internazionali si veda la chiara trattazione in M. Silvestri, La decadenza dell’Europa occidentale, Einaudi, Torino 1978, pp. 60-84 e pp. 115-122.
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ta vicina all’obiettivo, dovette constatare che le operazioni sottomarine, su cui era stato fatto grande assegnamento, non potevano più raggiungere i risultati sperati. Mentre, sebbene contenuta a fatica, l’offensiva sottomarina tedesca falliva, restava tuttavia in vigore il blocco navale britannico verso la Germania, che produsse danni di grandi proporzioni, al punto che alcuni storici l’hanno considerato come il fattore più rilevante che contribuì alla vittoria alleata24. Se la guerra sottomarina ad oltranza fu una scelta azzardata, lo fu analogamente quella che avrebbe portato subito dopo la Germania ad arrischiare le sue ultime risorse militari nelle offensive del ’18. Il costo umano e materiale di queste ultime aveva dato fondo alle residue risorse del paese. Il fattore decisivo diventava dunque sempre più la capacità di mobilitare risorse e capacità produttive su larga scala, mettendo progressivamente in evidenza la superiorità economica degli alleati sostenuti dagli Stati Uniti, nuova potenza leader dell’economia mondiale. I dati citati da Paul Kennedy ci dicono che le spese belliche alleate ammontarono a 57,7 miliardi di dollari a prezzi 1913, contro 24,7 degli Imperi Centrali e stati ad essi legati e che gli alleati mobilitarono 40,7 milioni di uomini contro 25,1 degli avversari25. La sproporzione, visibile retrospettivamente dalle statistiche, fu percettibile immediatamente sui campi di battaglia: Da metà luglio [1918] in avanti, gli alleati furono superiori, non solo in fatto di truppe fresche, ma anche di artiglieria, di carri armati e di aerei – permettendo a Foch di orchestrare tutta una serie di offensive con gli eserciti dell’impero britannico, della Francia e degli Stati Uniti in modo da non dare tregua alle indebolite forze tedesche.26
La supremazia acquisita dalla Germania sul fronte orientale, che le aveva consentito di piegare la Russia e di mutilare territorialmente l’Unione Sovietica, fu in tal modo vanificata dall’entrata in guerra degli Stati Uniti. 24 B. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, cit., p. 604. Si può convenire con Liddell Hart anche su un’altra osservazione, ossia che la scelta tedesca del ’18 di non mantenere un’impostazione difensiva della guerra ad Ovest consolidando così le conquiste ad Est, fu controproducente e che essa avrebbe impedito o reso meno rovinosa la sconfitta (ivi, p. 600). 25 P. Kennedy, op. cit., p. 386. 26 Ivi, p. 385.
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8.4 I presupposti politici della seconda guerra mondiale Le imponenti perdite umane e materiali generate dalle operazioni belliche, cui si aggiunse nell’immediato prosieguo la pandemia di febbre spagnola, furono indubbiamente una pesante eredità della guerra. Al di là di questi gravosi lasciti, tuttavia, i fattori che influirono in modo più decisivo sulle dinamiche dei due decenni seguenti derivarono dagli squilibri creati dalle condizioni di pace, i quali resero instabile l’assetto internazionale e portarono allo scoppio di un nuovo e ancor più devastante conflitto. In una prima fase, durata fino alla fine degli anni Venti e contraddistinta da un’atmosfera di ricostruzione economica e politica, il tentativo di gestire tali scompensi sembrò un’impresa possibile. I problemi da risolvere, in quella prima fase, erano connessi soprattutto al ruolo della Germania. Innanzitutto, ad essa erano state imposte condizioni di pace eccessivamente onerose sul piano territoriale e militare, a cui si aggiungeva l’onere schiacciante delle riparazioni, ulteriormente complicato dalla connessione tra queste e i debiti interalleati. Le vicende legate all’occupazione francese della Ruhr e all’iperinflazione convinsero l’opinione pubblica internazionale, e in particolare la classe politica francese, dell’impossibilità di continuare con un atteggiamento punitivo e della necessità di garantire un margine di respiro all’economia tedesca che consentisse il pagamento delle riparazioni, il che avvenne dal ’24 col piano Dawes e i successivi investimenti americani. Sul piano politico il problema era quello di mettere al riparo l’Europa da future tentazioni tedesche di rovesciare con la forza l’assetto raggiunto a Versailles. A seguito della disgregazione di tre grandi imperi – ed in particolare di quello asburgico, collocato nel cuore della vecchia Europa – si era determinata infatti in Europa centro-orientale la nascita di una serie di potenze minori spesso divise da conflitti etnici e contese territoriali27 alle quali andava fornita una garanzia rispetto ad un possibile risorgere dell’aggressività tedesca. 27 A titolo puramente esemplificativo e senza pretese di esaustività si possono citare la guerra tra Polonia e URSS del 1919-20 e la formazione della “Piccola Intesa” (1920-21), con la quale Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia intendevano tutelarsi dalle pretese revisionistiche dell’Ungheria.
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Alcune delle grandi potenze che avrebbero potuto contribuire a tale sforzo politico-diplomatico in questo periodo rimasero assenti, determinando conseguentemente un vuoto politico. Gli Stati Uniti si erano volutamente estraniati dalle vicende europee. In un clima intossicato dalla paura del pericolo rosso, dal risorgere del razzismo e dai timori per l’immigrazione, i trattati di pace suscitarono obiezioni contrastanti da parte dei vari gruppi etnici di origine europea, mentre l’intransigenza di Wilson nelle trattative parlamentari rese impossibile la loro ratifica (e con essa anche l’entrata nella Società delle Nazioni). L’Unione Sovietica, a sua volta, era ancora emarginata; in difficoltà per la faticosa ricostruzione economica e per le lotte politiche interne, essa cominciò ad essere riconosciuta diplomaticamente solo verso la metà degli anni Venti (gli Stati Uniti la riconobbero addirittura nel ’33) e fino al ’34 rimase fuori dalla Società delle Nazioni. Tra le potenze maggiori, solo Francia e Gran Bretagna erano in qualche modo disponibili a lavorare attivamente per una risoluzione della questione tedesca e per il contributo che ciò avrebbe portato alla stabilizzazione europea. Nel nuovo clima creatosi dopo la svolta del ’24, la disponibilità franco-britannica si incontrò con quella della Germania di Stresemann; quest’ultimo intuì che se la Germania avesse fornito in termini per lei accettabili garanzie per il rispetto del trattato di Versailles, si sarebbe aperta una fase nuova nella collaborazione internazionale28. Con gli accordi raggiunti a Locarno (1925) Germania su un versante e Francia e Belgio sull’altro riconoscevano le frontiere comuni stabilite dal trattato di Versailles, accettando di ricorrere all’arbitrato pacifico in caso di controversie. Italia e Gran Bretagna, quali garanti del Patto, si impegnavano (anche se l’intervento in realtà non era concepito come automatico) a difendere tra le due parti quella che fosse stata attaccata. Il trattato relativo alle garanzie dei confini, tuttavia, nasceva fin dall’inizio con importanti limiti, rispondenti alla volontà della Germania e anche ai desideri della Gran Bretagna, poco desiderosa di impegnarsi nell’Europa dell’Est. Per tali ragioni il sistema delle garanzie venne concepito solo in funzione dell’Occidente; nessun impegno fu preso invece riguardo alle frontiere meridionali e orientali della Germania, introducen28 R.A.C. Parker, op. cit., p. 88.
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do così una sorta di gerarchia dei confini29. Tale scelta costrinse la Francia ad assumersi il ruolo di unica vera custode dell’assetto di Versailles, fornendo a Cecoslovacchia e Polonia una sorta di garanzia surrogata sotto forma di trattati di alleanza e mutua assistenza nel caso in cui la Germania le avesse attaccate. Sebbene non andassero esenti da rilevanti lacune, i Trattati di Locarno, seguiti nel ’26 dall’entrata della Germania nella Società delle Nazioni, si inserirono nel clima di ottimismo della seconda metà degli anni Venti e contribuirono a loro volta ad alimentarlo. Quel periodo, durante il quale fiorirono progetti di federare gli stati europei, iniziarono trattative sul disarmo e venne varato il piano Young per le riparazioni, giunse al suo risultato diplomaticamente più significativo col patto Briand-Kellog (1928). Esso impegnava gli stati contraenti, che col tempo divennero oltre una cinquantina, a condannare la guerra come mezzo per risolvere i contrasti, aderendo invece a tal fine a forme di arbitrato. Se contribuì a diffondere l’atmosfera pacifista, il patto rimase in realtà una semplice dichiarazione di intenti, destinata ad essere investita dai cambiamenti che sarebbero intervenuti con l’esordio del nuovo decennio. La svolta conflittuale che si fece sentire dall’inizio degli anni Trenta fu legata alla crisi del ’29 e soprattutto alla svolta politica intervenuta in Germania, dove la crisi accelerò l’avvento del nazismo. Il clima internazionale, tuttavia, non dovette attendere l’ascesa di Hitler al cancellierato per divenire più teso. Già il governo Brüning, infatti, aveva chiuso con l’era di Stresemann. Brüning, come è stato scritto, voleva utilizzare la crisi economica mondiale per ottenere in modo più rapido di quanto sperato la cancellazione delle riparazioni e la parità dei diritti militari del Reich tedesco così che, liberato dalle più pesanti “catene di Versailles”, avrebbe potuto fare nuovamente rotta verso la propria tradizionale politica di grande potenza.30
Dopo le elezioni del ’30 e il balzo elettorale ottenuto dai nazisti il governo fu ancor più condizionato e dovette irrigidire le posizioni per sottrarre terreno all’estrema destra. 29 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Laterza, Roma-Bari 1994, p.27. 30 A. Hillgruber, op. cit., p. 138.
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Mentre, dopo il varo del piano Young, finivano gli ultimi residui di occupazione straniera e la crisi economica mondiale travolgeva l’intero sistema delle riparazioni, nel ’31 la Germania lanciava il progetto di unione doganale con l’Austria e dal ’32 alla conferenza di Ginevra sul disarmo rivendicava la parità di diritti tedesca in tema di armamenti. Se la prima iniziativa fu poi bloccata a livello internazionale, nel secondo caso si innescò una irrisolvibile disputa di principio che fu chiusa nel ’33 senza possibilità di appello. L’abbandono praticamente simultaneo della conferenza e della Società delle Nazioni da parte della Germania hitleriana non fu che l’inizio di una politica di svincolamento unilaterale dagli obblighi imposti dal trattato di Versailles e nello stesso tempo l’esordio di una serie di provocazioni di intensità crescente volte a saggiare la volontà di reagire delle democrazie occidentali. Queste tappe sono ben note e non necessitano di essere ripercorse nei dettagli. Dapprima (1935) si ebbe l’ufficializzazione del riarmo e poco dopo la sottoscrizione di un patto con la Gran Bretagna sulla consistenza delle rispettive flotte assai generoso verso la Germania, che non poteva non suonare come un sostanziale avallo britannico al riarmo tedesco. A stretto giro, nell’arco di tre anni, seguirono la militarizzazione della Renania, l’aiuto dato ai franchisti nella guerra di Spagna, l’Anschluss dell’Austria e lo smembramento, accompagnato dall’annessione di fatto, della Cecoslovacchia. In tutto questo periodo il contegno di Francia e Gran Bretagna non seppe o non volle porre veti sufficienti ad ostacolare lo scivolamento lungo la china che portava alla guerra. L’atteggiamento britannico, come è noto, fu quello più dichiaratamente conciliante. Con una leggerezza che sfiorava la complicità, la politica dell’appeasement, alla quale non erano estranee le connessioni tra l’ambiente conservatore inglese e i grandi interessi economici anglo-tedeschi31, assecondava la tendenza germanica all’espansione verso Est. Più oscillante si mostrò la politica francese, che per certi aspetti cercò inutilmente di includere la Germania in patti di mutua garanzia degli stati dell’Europa centro-orientale e per l’altro colse le aperture sovietiche alle democrazie occidentali stipulando l’alleanza difen31 L’elemento è sottolineato dalla storiografia sovietica. Si veda p. es. L. Bezymenskij, I generali di Hitler, Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 59-61.
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siva con l’URSS nel ’3532. Di fronte a tutte le provocazioni hitleriane sopra ricordate Gran Bretagna e Francia non opposero di fatto resistenza33. Fu solo dopo lo smembramento della Cecoslovacchia che Francia e soprattutto Gran Bretagna cominciarono a realizzare i limiti della politica di appeasement34. Le trattative con l’Unione Sovietica condotte nell’estate del ’39 dimostrarono tuttavia quanto lentamente procedesse la svolta, mentre Stalin stava ormai maturando la convinzione che le potenze occidentali mirassero a deviare verso l’URSS la spinta aggressiva dei Tedeschi. Fu ciò, come è noto, che spinse Stalin a stipulare con questi ultimi il patto di non aggressione, che gli assicurava guadagni territoriali e la prospettiva di una guerra che logorasse reciprocamente le potenze capitalistiche. Prima di mettere a fuoco nel prossimo paragrafo gli sviluppi militari della guerra, è necessario concludere il discorso sui suoi presupposti politici esaminando come contribuirono allo scoppio del conflitto gli eventi politici esterni all’Europa. Negli anni Trenta, infatti, il progressivo sfaldamento dell’assetto politico in Europa andò parallelo a quello dell’Asia, dove il ruolo di potenza destabilizzante fu giocato dal Giappone, il cui intento era la creazione di un vasto impero coloniale che avrebbe incluso i territori della Cina, dell’Estremo Oriente sovietico e di altre regioni dell’Asia centrale. Il Giappone fra il ’31 e il ’32 occupò militarmente la Manciuria e cominciò ad invadere da Settentrione la Cina orientale. L’operazione, debolmente contrastata da Francia e Inghilterra, portò la Società delle Nazioni a formulare una blanda iniziativa di condanna che indusse il Giappone a ritirarsi dall’organizzazione (1933). Fra il ’37 e il ’38 l’espansione giapponese si accrebbe ulteriormente e giunse a mettere sotto controllo numerose città, tra cui Shangai, Nanchino e Canton. L’accrescersi della presenza in Asia portava inevitabilmente il Giappone a scontrarsi con altre potenze. A Nord fra il ’37 e il ’39 vi furono significativi attriti di frontiera con l’URSS, risoltisi con una 32 Parker, op. cit., pp. 271-9. 33 Possiamo aggiungere che anche verso l’Italia la risposta all’aggressione etiopica fu assai indecisa e che le sanzioni economiche applicate con l’appoggi franco-britannico, pur non riuscendo ad arrestare l’Italia, riuscirono tuttavia ad irritare Mussolini, contribuendo a spingerlo definitivamente nelle braccia di Hitler. 34 A. Hillgruber, op. cit., pp. 180-4.
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netta prevalenza sovietica. Al momento in cui si prospettò l’attacco tedesco all’Unione Sovietica del ’41, il legame esistente tra Germania e Giappone, sancito dal patto Antikomintern del ’36 e dal patto tripartito del ’40, avrebbe dovuto rendere naturale la partecipazione del Giappone alla guerra a fianco dei Tedeschi. Una parte della classe dirigente giapponese, anche alla luce degli insuccessi subiti, riteneva tuttavia troppo impegnativo e pericoloso proseguire lungo la linea dell’espansione settentrionale35. Per tale ragione, quindi, non solo nell’aprile del ’41 venne stipulato con l’URSS un patto di non aggressione, ma nel luglio dello stesso anno si decise in modo definitivo che la linea prioritaria di espansione giapponese sarebbe stata diretta verso Sud, cominciando dall’Indocina meridionale. Fu l’occupazione di quest’ultima che provocò dure reazioni anglo-americane di embargo le quali orientarono il Giappone verso la guerra36. La guerra mondiale, facendo esplodere contemporaneamente le tensioni del versante atlantico e quelle del Pacifico, creò un sistema inedito di alleanze che ebbero una ricaduta determinante sul destino dell’Europa, ridimensionandola a livello mondiale e inserendola in un contesto internazionale assai più ampio che nel corso della guerra e ancor di più in seguito ne condizionò gli sviluppi politici fino ad oggi. Tra tutti gli aspetti rilevanti di questi mutamenti, quello più notevole fu costituito certamente dall’inserimento irreversibile degli Stati Uniti nelle vicende del vecchio continente. Il percorso di coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra europea non fu tuttavia lineare, giacché nell’opinione pubblica del paese rimanevano vivi gli atteggiamenti isolazionistici che avevano indotto il governo a prese di posizione ufficiali che ostentavano distacco rispetto alle contese che si stavano riaccendendo oltre Atlantico, soprattutto rispetto all’eventualità di esser coinvolti in guerre, con un atteggiamento che fu ribadito nei tre Neutrality Act emanati fra il ’35 e il ’37. Una embrionale svolta si ebbe nel ’39, dopo l’inizio della guerra in Europa, quando si destarono le prime preoccupazioni relative all’aggressione tedesca e fu permessa la vendita di materiale bellico con la clausola del cash and carry, ribadendo tuttavia il divieto di prestiti ai belligeranti. Allorché nel ’40 – in par35 Sull’intera questione si veda J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, Einaudi Torino 1979, pp. 197-218. 36 A. Hillgruber, op. cit., pp. 335-8 e pp. 342-3.
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ticolare dopo la sconfitta francese – si realizzò che dalla Norvegia alla Francia le coste del versante atlantico dell’Europa continentale erano ormai sotto il controllo tedesco, le spese militari si accrebbero e con esse anche le forniture di materiale bellico alla Gran Bretagna effettuate in cambio della cessione di basi militari britanniche. Nel marzo del ’41 esso fu seguito dal Land-Lease Act, che consentiva di vendere, affittare o prestare materiale bellico a potenze il cui sostegno rientrasse negli interessi statunitensi. Fu solo dopo Pearl Harbor che il sostegno informale si trasformò, attraverso la comune sottoscrizione della Carta Atlantica, in un’alleanza a tre fra USA, Gran Bretagna e URSS37. La “grande alleanza” sperimentò vari momenti di tensione, riguardanti l’entità degli aiuti occidentali all’URSS, l’apertura di un secondo fronte, la creazione di una zona di sicurezza sovietica in Europa orientale, ma nel complesso rimase solida fino alla fine del conflitto. La previsione iniziale che essa potesse cooperare in modo efficace anche alla ricostruzione economica e politica internazionale fu tuttavia smentita nel giro di un paio d’anni, portando a quella situazione di inedita polarizzazione tra Est e Ovest che contraddistingue il lungo periodo della “guerra fredda”. Sulle implicazioni di essa torneremo alla fine del prossimo paragrafo. 8.5 La guerra totale e i suoi limiti La prima guerra mondiale cominciò al centro dell’Europa per poi condurre alla partecipazione degli Stati Uniti. Nella seconda invece il coinvolgimento statunitense, che in parte indubbiamente avvenne sulla scia di dinamiche europee per certi versi analoghe a quelle del conflitto precedente, fu reso inevitabile dall’improvviso attacco contro gli Stati Uniti da parte del Giappone, motivato dalle ragioni appena esaminate più sopra. Sia in Europa che nel Pacifico, sul piano tecnico-militare la guerra fu iniziata attraverso un uso massiccio delle nuove armi testate durante il primo conflitto mondiale e ora disponibili in versioni tecnologicamente sofisticate: gli aerei (e le portaerei) e i carri armati. In linea generale, si trattava di armi 37 La sequenza di tali provvedimenti è efficacemente ricostruita in M.A. Jones, Storia degli Stati Uniti d’America, RCS, Milano 2004, pp. 624-55.
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che, al livello perfezionato ormai raggiunto allo scoppio del nuovo conflitto, restituivano alla guerra la dimensione della mobilità e – accanto ad essa – quella della sorpresa. In Europa gli orientamenti relativi alle nuove concezioni strategiche trovarono sostenitori in Gran Bretagna e in Francia, ma fu solo in Germania che le nuove idee riuscirono a superare almeno in parte le obiezioni dei generali della vecchia scuola e misero capo a una svolta concreta. In parte considerevole questo era dovuto al credito dato da Hitler alle nuove teorie, che gli prospettavano la possibilità di ottenere rilevanti successi militari con l’impiego di forze contenute come quelle di cui disponeva la Germania nel corso degli anni Trenta38. Fu l’attacco alla Polonia del ’39 a dimostrare la potenzialità dei nuovi metodi. In sé e per sé il numero di divisioni di cui disponeva la Germania era piuttosto contenuto e il grado di trasformazione dell’esercito tedesco in una forza corazzata e meccanizzata non era andato troppo oltre, al punto che l’insieme di divisioni qualificabili come una forza mobile ammontava a quattordici, di cui solo sei potevano definirsi corazzate in senso stretto, e gli stessi carri armati disponibili erano in parte considerevole carri leggeri. Più progredita era invece la Luftwaffe, la cui collaborazione fu decisiva per la campagna. A fronte di esse stava tuttavia un avversario con diverse elementi di fragilità. Innanzitutto di debolezza dei confini, configurati come due grandi salienti a Nord e a Sud, e di schieramento difensivo troppo spostato verso il Corridoio e poco articolato in profondità. Dotato di armi e logistica sostanzialmente risalenti alla prima guerra mondiale, esso fu investito da un’offensiva in cui le pur limitate forze mobili tedesche ebbero una parte di primo piano. La Luftwaffe mise in breve fuori combattimento l’antiquata aviazione avversaria e supportò efficacemente la fulminea avanzata dei carri armati, i quali penetrarono velocemente nel paese operando manovre di accerchiamento che misero fuori gioco le forze polacche, mentre Varsavia veniva investita e costretta a capitolare a meno di un mese dall’inizio della guerra39. 38 B. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1970, pp. 25-30. 39 Ivi, pp. 36-45 e R. Cartier, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1993, pp.16-32.
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Il ruolo decisivo dell’impreparazione strategica avversaria nel favorire le vittorie tedesche è confermato da quanto avvenne nella campagna di Francia. Da un certo punto di vista, anzi, l’aspetto in questione in tale contesto è ancora più evidente. Mentre infatti in Polonia l’arretratezza delle impostazioni difensive andava di pari passo con quella del materiale bellico, la stessa cosa non si può dire della Francia, che era in grado di schierare un esercito consistente in termini di effettivi e con nuove armi, in particolare carri armati, in linea con la tecnologia allora disponibile. La superiorità tedesca si rivelò vincente sia a livello dell’impostazione della campagna che in quello della sua realizzazione. Il piano effettivamente messo in atto nel ’40, come è noto, non corrispondeva a quello originario e anzi ne rovesciava radicalmente l’impostazione. Inizialmente, infatti, il piano elaborato dai generali tedeschi ricalcava per vari aspetti il vecchio piano Schlieffen, in quanto prevedeva un attacco esteso fino alle coste della Manica ma passante fondamentalmente attraverso il Belgio, assegnato a un gruppo d’armate fortemente corazzate (gruppo B), e un fronte secondario (gruppo A) che avrebbe dovuto incaricarsi di un’operazione indirizzata verso le Ardenne e la Mosa (un terzo gruppo di armate, il gruppo C, avrebbe invece dovuto tenere sotto controllo la linea Maginot). Il difetto del piano risiedeva sostanzialmente nella sua prevedibilità, che avrebbe indotto Francesi e Inglesi a scattare in avanti nella direzione di aggressione al primo segno di questa, col rischio conseguente di vederla arrestata in modo simile a quanto avvenuto nel 1914. Il piano eseguito più tardi, in accordo con le osservazioni di Manstein, rovesciava invece la priorità delle due ali dello schieramento, dotando il gruppo A del nucleo più consistente di forze corazzate e assegnandogli come direttrice di movimento la linea che portava dalle Ardenne alla costa. Al momento cruciale le truppe franco-inglesi, muovendosi vigorosamente verso il Belgio con la maggior parte delle forze mobili per contrastare l’attacco del gruppo B, spostarono troppo in avanti e sulla sinistra il peso del proprio schieramento, accrescendo gravemente la vulnerabilità del fianco destro40. 40 Tutta la questione è ben ricostruita in B. Liddell Hart, Storia di una sconfitta, RCS, Milano 1998, pp. 165-87.
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La mossa tedesca non solo si dimostrò strategicamente superiore, ma venne tradotta in pratica sfruttando in massimo grado – soprattutto grazie all’intraprendenza di Guderian – la mobilità consentita dai nuovi mezzi. Le divisioni corazzate tedesche, che avevano attaccato il 10 maggio, il 13 avevano passato la Mosa e il 16 avevano raggiunto l’Oise per poi lasciar spazio all’opera di consolidamento della fanteria e riprendere in breve la corsa verso la Manica41. Le reazioni francesi, basate sui tempi classici di una guerra di fanteria, furono rese deboli e disarticolate dal carattere fulmineo dell’avanzata. Quest’ultima riprese, stavolta verso il Centro-Sud della Francia, seguendo tre direttrici: una occidentale verso il mare, una centrale e una orientale che accerchiava le truppe a ridosso della linea Maginot42. Mentre dal punto di vista delle armi nell’esordio della guerra in Europa si rivelò decisivo l’accoppiamento dei carri armati e dell’aviazione, nella guerra del Pacifico la parte di primo piano fu giocata dal binomio aviazione e portaerei, che in breve avevano soppiantato le corazzate come navi di punta delle flotte. Le corazzate, infatti, erano in grado di sviluppare una considerevole potenza di fuoco con effetti devastanti nel raggio di 30-40 km, ma il loro raggio d’azione non andava oltre. Esse erano poi vulnerabili rispetto agli attacchi aerei, che potevano colpirle con varie tecniche, dai mitragliamenti a bassa quota ai bombardamenti e ai siluri. Tramite l’aviazione di cui era dotata, una portaerei invece era in grado di compiere missioni distruttive del tutto analoghe a quelle di una corazzata, ma con un raggio d’azione di tre o quattrocento km e un costo di costruzione sensibilmente minore43. Per il Giappone le mosse d’apertura della guerra dovevano conseguire due obiettivi strategici: assestare un colpo formidabile alla flotta statunitense del Pacifico che la rendesse impotente per lungo tempo e conquistare un impero marittimo in grado di assicurare una base economica allo sforzo militare; a difesa di esso si sarebbe 41 Non è essenziale ai nostri fini discutere le ragioni che indussero Hitler ad esitare nella liquidazione della sacca di Dunkerque. 42 In complesso si veda B. Liddell Hart, Storia militare, cit., pp. 89-120, R. Cartier, La seconda guerra, cit., pp. 58-229, J. Keegan, La seconda guerra mondiale, RCS, Milano, pp. 51-85. 43 V. Davis Hanson, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 2019, pp. 213-4.
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dovuto poi approntare una serie di basi dislocate in direzione NordSud, destinate a costituire una barriera che mettesse il Pacifico occidentale al riparo dagli attacchi che gli Stati Uniti avrebbero prima o poi effettuato44. In questa ipotesi strategica la sorpresa e l’accoppiamento di forze aree e navali avrebbe avuto un ruolo di primo piano. In effetti, in un primo tempo esso sembrò aver ottenuto una piena riuscita. L’attacco a Pearl Harbor (7 dicembre ’41), come è noto, in parte distrusse e in parte danneggiò le grandi corazzate americane, anche se non poté colpire le portaerei, in quel momento in navigazione, e non si protrasse fino al punto di distruggere a fondo le attrezzature portuali. A questa operazione seguì in breve la conquista di Malacca, delle Indie orientali olandesi, di Hong Kong, delle Filippine e della Birmania, che si aggiunsero ai territori della Manciuria e della Cina occupati dal Giappone già in precedenza. L’ebbrezza dell’invincibilità cominciò tuttavia ad esser ben presto scossa verso la metà del ’42. Una prima volta, nella battaglia del Mar dei Coralli, la flotta giapponese in viaggio per rafforzare la testa di ponte di Port Moresby, fu intercettata ed arrestata da quella americana, che subì perdite ma riuscì a sventare l’intento strategico di far avanzare forze di terra in direzione dell’Australia. Analogamente, a Midway la flotta giapponese riuscì a mettere a segno due ondate di bombardamenti sulla base statunitense e a fronteggiare una prima serie di attacchi aerei, ma era rimasta scoperta nei riguardi di un’ondata di bombardieri in picchiata lanciati dalla Enterprise, che nel giro di pochi minuti trasformarono quella che sembrava una vittoria già conseguita in una bruciante sconfitta45. Pochi mesi più tardi (agosto-novembre ’42), giunse l’episodio di Guadalcanal, in cui gli statunitensi attaccarono l’isola e in una serie di combattimenti successivi impedirono ai Giapponesi di rinforzarne la guarnigione, che fu costretta a lasciare le proprie posizioni e a ridimensionare la minaccia che il possesso dell’isola stessa costituiva per le rotte alleate verso l’Australia. Sebbene non sia ancora risolta la controversia storica su quale dei due eventi bellici – Midway o Guadalcanal – sia stato decisivo nel rovesciamento dei rapporti di forza tra flotta giapponese e statunitense che sarebbe stato poi completato dall’entrata in funzione dell’enorme 44 J. Keegan, op. cit., p. 250. 45 Ivi, pp. 273-78.
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potenziale produttivo degli Stati Uniti46, è indubbio che esso si verificò in quei mesi. Sia nel caso della Germania che in quello del Giappone, le nuove impostazioni strategiche che abbiamo visto all’opera con esiti brillanti scontavano tuttavia dei limiti di fondo che ne condizionavano la sostenibilità nel lungo periodo. Esse infatti non erano state pensate secondo il paradigma della guerra totale, ma come svolgimento di brevi campagne che avrebbero esercitato un impatto relativamente contenuto sull’economia. Per la Germania, in particolare, gli sforzi enormi di mobilitazione economica e sociale sostenuti nel corso della prima guerra mondiale rappresentavano una scelta da non ripetere, tanto più che i paesi da cui la Germania era circondata erano potenze deboli, verso le quali la sola minaccia dell’uso della forza o un breve ricorso ad essa potevano considerarsi sufficienti. Anche il Giappone, la cui economia era nel complesso fragile e fortemente limitata nella disponibilità di materie prime, pensava ad una guerra breve e rivolta alla conquista di una ben definita estensione di territorio47. L’occasione si pensò fosse arrivata nel momento in cui la Germania stava vincendo la guerra in Europa e questo avrebbe determinato il crollo della presenza coloniale delle potenze dell’Occidente europeo in Asia48. I presupposti su cui si erano fondate le prime mosse della guerra, tuttavia, vennero meno abbastanza rapidamente negli anni successivi. La conquista della Russia, nella quale Hitler si impegnò nel 46 A favore di Guadalcanal si veda ad esempio V. Davis Hanson, op. cit., p. 257; l’opinione tradizionale è invece in B. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, cit., pp. 494-6. 47 L’impreparazione della classe dirigente giapponese ad affrontare una guerra basata su uno sforzo economico durevole è messa in luce da Halliday: “Per quanto strano possa sembrare, è certo che i governi giapponesi degli anni di guerra (1941-45) e dell’epoca prebellica, mentre avevano visto con chiarezza gli scopi del conflitto, non avevano adeguatamente preparato il paese alla lotta economica che avrebbe dovuto sostenere. Sorprendentemente, il Giappone – che nel periodo 1940-44 ebbe un tasso di espansione più rapido di quello inglese (e tedesco) – nel 1942 dedicava alle spese di guerra una percentuale del suo prodotto nazionale lordo (30 percento) inferiore a quella degli Stati Uniti (44 percento). Quanto grave sia stato l’errore di valutazione compiuto dai dirigenti giapponesi sugli aspetti generali del conflitto lo dimostra il fatto che nel 1942 il Giappone diminuì il suo sforzo bellico anziché intensificarlo. La strategia basata su un ’programma limitato’ fu abbandonata solo nell’inverno 1942-43”. J. Halliday, op. cit., p.238. 48 A.S. Milward, Guerra, economia e società 1939-1945, Etas libri, Milano 1983, pp. 28-37.
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tentativo di togliere alla Gran Bretagna l’ultimo possibile appoggio in Europa, assunse in breve proprio le caratteristiche della guerra di logoramento che inizialmente si era voluto evitare. D’altro canto, le iniziative giapponesi nel Pacifico trascinarono nel conflitto gli Stati Uniti, i quali si trovarono schierati dalla parte della Russia, sommando le proprie dotazioni militari a quelle sovietiche. La sinergia tra un paese ricco di capacità industriali e attrezzato per la produzione di massa e un paese che poteva contare soprattutto – anche se non esclusivamente – su una enorme disponibilità di risorse umane e materie prime si rivelò vincente49. Niente di simile si determinò sul fronte avverso, dove le guerre contro l’URSS di Germania e Giappone corsero parallele l’una all’altra senza interagire vicendevolmente, grazie al patto di non aggressione sovietico-giapponese rispettato fino alle soglie delle battute conclusive della guerra. Nel momento in cui prese forma il progetto di invadere l’Unione Sovietica, a Hitler come ai suoi generali si prospettò l’analogia con quanto era accaduto nel 1812 a Napoleone. Il problema degli spazi immensi percorsi da una rete stradale primitiva, delle difficoltà climatiche, del pericolo di un arretramento strategico avversario che avrebbe potuto imporre la penetrazione in profondità nel territorio nemico suscitarono timori più nei generali che in Hitler50. Quest’ultimo rimaneva convinto della superiorità qualitativa dell’esercito tedesco e dei suoi armamenti, nonché della dirompente prontezza del Blitzkrieg, che avrebbe consentito di rispondere “alle distanze con la velocità, all’immensità con il motore”51. Nonostante ciò, l’adesione di Hitler ai principi della guerra lampo non era priva di contraddizioni. Per un verso infatti egli non aderiva all’idea dei suoi sostenitori più spinti come Guderian, che avrebbe voluto puntare in modo veloce e diretto coi carri su Mosca per impedire la riorganizzazione dei Russi. Il timore di una penetrazione eccessiva e prematura nel territorio russo indusse Hitler a prevedere la distruzione delle forze nemiche attraverso più tradizionali battaglie di accerchiamento senza puntare prematuramente 49 R. Smith, op. cit., p. 203. 50 Sulla discussione preliminare dell’“operazione Barbarossa” fra Hitler e gli alti comandi tedeschi, si veda B. Liddell Hart, Storia di una sconfitta, cit., pp. 293-300. 51 R. Cartier, op. cit., p. 347.
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sulla capitale52. D’altro canto egli conferiva un’importanza elevata ai fattori economici, elemento che lo spinse a includere nei suoi obiettivi l’Ucraina, il basso Dnepr e più tardi il Caucaso53, con la conseguente necessità di diversificare le direttrici d’attacco. Per questo insieme di motivi la strategia tedesca subì una serie di oscillazioni che ne condizionarono l’orientamento e la tempistica. Lo spettro della guerra di logoramento comparve ai Tedeschi per la prima volta nel dicembre del ’41, quando il tempo perso nelle battaglie di accerchiamento ritardò la ripresa dell’avanzata su Mosca e inchiodò le truppe stremate davanti alla capitale esponendole alla controffensiva nemica; la scena si ripeté l’anno successivo a Stalingrado, finché nell’estate del ’43, col fallito attacco al saliente di Kursk, la Germania perse definitivamente l’iniziativa strategica. Da quel momento fu necessario tenere un fronte lunghissimo con risorse sempre minori e con l’insensata proibizione hitleriana di ritirate di alleggerimento. Mentre il destino militare tedesco appariva sempre più segnato, qualcosa di simile avvenne per il Giappone nel Pacifico. A partire dal ’43, infatti, si assistette agli effetti concreti dell’entrata in funzione del sistema economico basato sulla produzione di massa: vennero costruiti decine di migliaia di aerei e varate su larga scale portaerei, corazzate, incrociatori e navi di scorta. Con tali mezzi fu investito il perimetro difensivo giapponese, attraverso attacchi sistematici che avvennero contemporaneamente lungo due direttrici: una attraverso il Pacifico occidentale (Nuova Guinea, Molucche, Filippine) e l’altra attraverso gli atolli del Pacifico centrale (Marshall, Marianne, Caroline). Un ultimo e ancor più evidente segnale della superiorità economica alleata, infine, venne dato dall’apertura del secondo fronte in Europa, operazione effettuata con grande spiegamento di forze navali e aeree e continuata con altrettanta sovrabbondanza di mezzi. Se essa dal settembre ’44 rallentò il suo impeto, la causa non fu certo la mancanza di mezzi, ma il non aver colto tempestivamente il momento in cui le resistenze tedesche – dopo una tenace 52 B. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, cit., pp. 215-235. 53 Su questo aspetto, oltre al sopra citato B. Liddell Hart, cfr. R. Cartier, op. cit., p. 288.
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opposizione iniziale – subirono un rapido crollo e la difficoltà di coordinare le diverse iniziative offensive54. Seguire nei dettagli l’epilogo della guerra non rientra nei compiti che ci siamo posti55. A questo proposito val invece la pena di fare due considerazioni generali. La prima è che alla fine anche l’esito del secondo conflitto mondiale fu deciso dalla schiacciante superiorità produttiva di cui disponevano gli alleati, economicamente più attrezzati per far fronte alle esigenze di una competizione bellica che si era rapidamente trasformata in guerra totale. Un dato fra tutti può darne l’idea. Tra il ’41 e il ’43, infatti, l’aumento della produzione di armi delle potenze dell’Asse fu pareggiato da URSS e Gran Bretagna, ma quella degli stati Uniti aumentò addirittura di circa otto volte. Grazie a ciò il totale della produzione di armi nel ’43 da parte degli Alleati fu più del triplo di quello dell’Asse56. Si trattava di una superiorità schiacciante, praticamente impossibile da contrastare con le sole scelte tattiche o strategiche. La seconda considerazione riguarda la scelta statunitense di ricorrere alla bomba atomica per chiudere la guerra col Giappone rimasta aperta dopo la resa della Germania. Il ricorso ad un’arma non convenzionale di sterminio di massa è stato lungamente discusso sia sotto il profilo etico che politico-militare. Da quest’ultimo punto di vista, gli aspetti che più sono stati evidenziati riguardano la possibilità di anticipare la conclusione della guerra, quella di evitare una occupazione russa del Giappone e/o quella di giustificare le ingenti spese di ricerca sostenute per lo sviluppo dell’arma atomica. Senza negare l’opportunità di dibattere su questi temi, resta tuttavia da sottolineare un altro e forse ancor più determinante elemento. La bomba atomica era frutto dello stesso paradigma che aveva dato origine alla guerra totale e che imponeva di impegnare grandi risorse nella ricerca per contrastare l’avversario attraverso armi sempre più sofisticate e distruttive. Il risultato raggiunto, tuttavia, rappresentava un’arma i cui problemi di impiego erano 54 B. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, cit., pp. 762-95. 55 Anche la ricostruzione delle campagne in Nord Africa e in Italia è nel complesso ininfluente rispetto alla nostra argomentazione. 56 P. Kennedy, op. cit., pp. 489-90. Più in dettaglio si veda A. Milward, op. cit., pp. 56-97.
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difficilmente risolvibili non solo eticamente ma anche sul piano strategico57. Essa apriva dunque un’era nella quale si imponeva una battuta d’arresto alla logica della guerra totale o quanto meno se ne rendevano problematici i presupposti. In una direzione analoga spingeva il clima instauratosi con la “guerra fredda”. Sebbene sostenuta dalla reciproca minaccia dei mezzi militari, infatti, la contrapposizione fra Stati Uniti e Unione Sovietica non ebbe le caratteristiche di una esplosione di forza distruttiva, ma di un confronto prolungatosi per vari decenni nel quale lo sforzo principale era quello di influenzare l’avversario a livello politico-diplomatico, modificandone gli obiettivi e condizionandone in qualche modo la volontà58. Anche questo contribuì a relativizzare il paradigma della guerra totale e a dar origine a un insieme di intrecci strategici completamente nuovo.
57 R. Smith, op. cit., pp. 209-13. 58 Ivi, pp. 253-5.
9. NUOVI CAPITALISMI, NUOVE EGEMONIE
9.1 Gli Stati Uniti e la salvaguardia della supremazia postbellica Negli Stati Uniti l’economia di guerra spezzò definitivamente ogni legame coi resti della vecchia ortodossia finanziaria. Il New Deal, infatti, pur avendo delineato l’idea di un modello economico fondato su riforme sociali e nel quale il mercato era governato da un articolato sistema di apparati pubblici, non aveva ancora accettato l’esigenza di un livello elevato di spesa statale finanziato in deficit anche per lunghi periodi. La recessione sopravvenuta nel ’37-’38 era anzi, per lo meno in parte, attribuibile proprio alla tendenza a contrarre il deficit pubblico non appena il mercato avesse manifestato segnali di ripresa1. Sotto la spinta della spesa bellica il PNL statunitense crebbe (a prezzi costanti del ’58) da 209 miliardi di dollari nel ’39 a 361 nel ’44 e dal ’42 il paese rimase in condizioni di pressoché piena occupazione. Meno di metà della spesa governativa fu coperta da tasse, dando luogo a un consistente aumento del debito pubblico, mentre i controlli contribuivano a tener bassi consumi e investimenti privati. Tutto ciò lasciò un arretrato di domanda che, quando diminuì la spesa militare, contribuì a mitigare la lieve recessione del ’462. L’economia statunitense si avviava così ad assumere in breve tempo quella che sarebbe stata la configurazione tipica dei sistemi economici del dopoguerra, che si distinsero per un grado di stabilità decisamente maggiore rispetto al periodo prebellico. Questa caratteristica derivava a sua volta da una serie ben nota di fattori: il livello elevato della spesa pubblica, che rendeva il sistema meno sensibile alla fluttuazione degli investimenti privati, l’estesa occupazione nel settore dei servizi – pubblici e privati – che oscillava 1 2
R.A. Gordon, op. cit., pp. 71-72. Ivi, pp. 87-100.
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meno di quella dell’industria e di altri settori; la presenza di una serie di “stabilizzatori automatici” (tasse sul reddito e profitti non distribuiti, indennità di disoccupazione e altri trasferimenti) che tendevano a reagire in senso contrario alle contrazioni cicliche. In modo decisamente diverso andarono le cose in Gran Bretagna, dove l’impegno economico costituito dalla guerra mise subito in evidenza l’inadeguatezza delle risorse alle quali poteva far appello il paese, la cui sopravvivenza dipese in gran parte dal Lend-Lease Act approvato negli Stati Uniti3. Fu evidente fin dall’inizio che tale provvedimento, pur costituendo un robusto supporto per lo sforzo bellico britannico, nelle intenzioni americane non doveva esser privo di contropartite. Gli esponenti statunitensi, infatti, “utilizzarono per anni il Lend-Lease come un’arma per fare pressioni senza tregua sulla Gran Bretagna, al fine di ottenere concessioni finanziarie e commerciali che le avrebbero impedito, dopo la guerra, di continuare ad essere un rivale economico e politico”4. L’area della sterlina, sostenuta da un fitto reticolo di relazioni preferenziali tra Gran Bretagna e paesi del Commonwealth, rappresentava infatti un ostacolo alla penetrazione del commercio statunitense e riduceva – a favore della sterlina – il ruolo del dollaro e dell’oro5. La posizione statunitense, in altre parole, nascondeva un intento non troppo velato di egemonismo economico. A un diverso livello, questo stesso atteggiamento si fece sentire nella differente posizione di Stati Uniti e Gran Bretagna in merito ai punti di vista relativi alla ricostruzione del sistema monetario internazionale a Bretton Woods. L’idea base della proposta di Keynes, che nei negoziati del luglio ’44 rappresentava la Gran Bretagna, era quella di incorag3 Cfr. supra, § 8.3. 4 B. Steil, La battaglia di Bretton Woods, Donzelli, Roma 2015, p. 108. 5 Negli anni Trenta la Gran Bretagna, infatti, pur mantenendo una politica fiscale del tutto ortodossa puntò a scindere i precedenti legami con la filosofia internazionale ispirata al liberismo e al gold standard. La svalutazione della sterlina ebbe indubbiamente un effetto positivo – quanto meno temporaneo – sulla bilancia dei pagamenti britannica, ma non fu l’unica svolta intrapresa per combattere la crisi. Dal ’32, infatti, fu inaugurata la politica di protezione e di preferenza imperiale, che condusse all’imposizione di dazi sulle importazioni e alla garanzia di entrata libera per gran parte dei prodotti dei Dominions e poco più tardi anche delle colonie. Né ci si limitò solo a questo, perché con molti paesi furono progressivamente stipulati accordi bilaterali di pagamento e di clearing.
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giare la circolazione della moneta internazionale. Il bancor, la moneta internazionale auspicata da Keynes, sarebbe stata ancorata a un valore fisso rispetto all’oro e alle altre valute e avrebbe dovuto avere solo funzioni di compensazione reciproca, così come la banca internazionale che l’avrebbe emessa e che avrebbe fatto da perno al sistema. Ogni paese poteva farsi assegnare crediti in bancor in base alle proprie esportazioni o versando oro, ma non sarebbe stato possibile cambiare il bancor in oro. Se le esportazioni avrebbero dato luogo a un credito in bancor, l’inverso sarebbe accaduto con le importazioni iscritte a debito. Nel caso di squilibri eccessivi fra esportazioni e importazioni, i paesi in deficit avrebbero dovuto svalutare e quelli in surplus rivalutare o, in caso di surplus persistente, pagare un interesse sui crediti in eccesso6. Di taglio assai differente era la proposta statunitense, che intendeva vincolare il sistema monetario all’oro e al dollaro, allora convertibile in oro al rapporto di 35 dollari l’oncia (gold exchange standard). Non solo infatti gli Stati Uniti detenevano una parte molto rilevante delle riserve auree mondiali, ma il sistema che veniva auspicato consentiva loro di effettuare pagamenti internazionali nella propria moneta. La differenza rispetto al precedente gold standard consisteva nel fatto che un’emorragia di dollari non avrebbe innescato in questo caso il complesso meccanismo di aggiustamento deflazionistico previsto dal gold standard classico. La mancanza di un automatismo di questo tipo, la cui convenienza per gli Stati Uniti era evidente, era stata probabilmente pensata per rendere meno vincolante il rapporto con l’oro e accrescere la manovrabilità dell’economia, ma tendeva ad assecondare l’emissione di dollari in una misura che, tollerabile all’inizio, si sarebbe rivelata fatale più tardi7. Le vicende legate ai piani di ricostruzione del sistema monetario dimostravano che già durante la guerra gli Stati Uniti, con molta maggiore decisione di quanto era avvenuto in occasione del primo conflitto mondiale, avevano cominciato a coniugare la volontà di affermare la propria posizione internazionale con l’intento di modellare attivamente l’ordine mondiale che si intendeva ricostruire. Un’analoga tendenza si vide all’opera nel dopoguerra, allorché si 6 7
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dovette constatare che i danni derivati dalle distruzioni e dalla disorganizzazione economica erano tali non solo da compromettere la rapida ripresa dei mercati internazionali immaginata in precedenza, ma da consegnare alcuni stati europei particolarmente logorati alla già ampia influenza del comunismo8. Furono questi fattori a dare avvio al piano Marshall, proposto nel 1947 e sostanzialmente realizzato nel periodo ’48-’52. Gli aiuti che esso prevedeva, in buona parte gratuiti, erano raccolti sotto forma di merci da un organismo centralizzato negli Stati Uniti e ceduti ai singoli stati europei. Le industrie europee li pagavano in valuta nazionale ai rispettivi governi, i quali venivano quindi dotati di un fondo con cui finanziare la ricostruzione del paese. Una volta superato il periodo di ricostruzione e avviato un processo di crescita sostenuto sia al di qua che al di là dell’Atlantico, gli Stati Uniti si confermarono come primo paese al mondo esportatore di capitali. La specificità dell’investimento di capitali privati nel secondo dopoguerra fu costituita dal fatto che si trattava di investimenti diretti anziché, come in precedenza, di portafoglio. Gli investimenti manifatturieri all’estero consentivano di far concorrenza direttamente attraverso le imprese multinazionali piuttosto che attraverso le esportazioni, accaparrandosi una parte del mercato interno del paese ospitante e una quota dei suoi canali commerciali. Conseguentemente, una parte sempre maggiore dei profitti proveniva da operazioni effettuate all’estero9. Quanto si osservava nell’ambito degli investimenti privati era peraltro solo una parte di ciò che accadeva sul versante estero dell’economia statunitense. Altrettanto importanti erano infatti i fondi pubblici inviati all’estero, sia sotto forma di spese per assistenza militare e guerre, che di aiuti forniti a paesi amici per aumentare a vario titolo 8
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Si noti che la situazione era estremamente delicata anche per le potenze vincitrici. La Gran Bretagna vide la legge Lend-Lease sospesa bruscamente all’indomani della guerra e dovette contrattare con gli Stati Uniti un oneroso prestito, che fu accordato a condizione che la sterlina tornasse convertibile, che venissero tolte tutte le discriminazioni alle importazioni dall’area del dollaro e che fossero rapidamente ratificati gli accordi di Bretton Woods. La convertibilità della sterlina, ripristinata come da accordi il 15 luglio del ’47, si rivelò insostenibile e dovette essere soppressa in poco più di un mese. H. Magdoff, L’età dell’imperialismo, Dedalo, Bari 1971, pp. 92-100 e pp. 235-41.
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l’influenza degli Stati Uniti nel mondo. Naturalmente queste spese rappresentavano una fonte permanente di passivo per la bilancia dei pagamenti e finivano per alimentare il volume di dollari in circolazione nel mondo10. Nel corso degli anni Cinquanta, la carenza di dollari dell’immediato dopoguerra si trasformò gradualmente in un eccesso in grado di mettere in pericolo la riserva aurea degli USA11. Gli scricchiolii del sistema monetario creato a Bretton Woods, cominciarono a divenire percettibili negli anni Sessanta, allorché la debolezza del dollaro iniziò a creare problemi sul mercato dell’oro di Londra, nel quale le autorità inglesi e statunitensi si impegnavano a intervenire per mantenere il prezzo dell’oro approssimativamente uguale al prezzo ufficiale di 35 dollari l’oncia. Nel 1960, quando la sfiducia nel dollaro fece salire l’oro sopra il livello di guardia, l’operato della speculazione fu bloccato attraverso la creazione del pool dell’oro, che impegnava gli alleati europei degli Stati Uniti a intervenire sul mercato dell’oro (e a condividere le eventuali perdite che ne sarebbero derivate). Questa temporanea soluzione durò fino al marzo del ’68, allorché l’ennesima offensiva della speculazione fu bloccata mettendo fine all’intervento delle banche centrali sul mercato libero dell’oro (rimase invece per esse la possibilità di negoziare oro reciprocamente). Era tuttavia evidente che si trattava solo di un espediente temporaneo e che lo squilibrio di fondo rimaneva irrisolto. L’instabilità ormai evidente del sistema monetario internazionale si fece sentire nuovamente di lì a poco attraverso il mercato dell’eurodollaro, ossia quella rete entro cui circolavano i dollari internazionali che rimanevano nell’ambito del sistema bancario statunitense, la cui espansione era alimentata in ultima analisi dal deficit cronico degli Stati Uniti. All’inizio degli anni Settanta le banche statunitensi, che ngli anni precedenti si erano indebitate in eurodollari, restituirono i prestiti abbassando i tassi e rendendo conveniente agli europei indebitarsi a loro volta, acquisendo dollari che finivano poi per uscire dal mercato dell’eurodollaro per entrare, per lo meno in parte, in quello delle banche centrali; la stessa speculazione contro la valuta statunitense si valeva del mercato dell’eurodollaro, dando 10 Ivi, pp. 147-56. 11 Un’efficace sintesi sui movimenti di capitale cui si è fatto cenno è in M. Niveau, Storia dei fatti economici contemporanei, Mursia, Milano 1972, pp. 347-92.
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luogo a una richiesta di dollari che poi venivano convertiti in altre monete e approdavano quindi anch’essi nelle casse delle banche centrali. Fu a questo questo punto che la Germania lasciò fluttuare il marco (maggio ’71) e che, pochi mesi più tardi (agosto dello stesso anno), Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro12. In tal modo quel legame con l’oro che era divenuto sempre più una pallida finzione veniva definitivamente scisso. Si potrebbe arguire da ciò che l’egemonia statunitense avesse subito una scossa irreparabile, ma in realtà non fu così. Col passaggio a quel che si può definire un dollar standard, gli Stati Uniti riaffermavano senza veli che non vi era alcuna alternativa al dollaro, pur nella sua consistenza ormai esclusivamente cartacea, nell’ambito del sistema dei pagamenti internazionali. È indubbio, tuttavia, che gli anni Settanta costituirono una svolta dopo i decenni relativamente tranquilli del dopoguerra. Vennero meno infatti i bassi prezzi delle materie prime e in particolare del petrolio, creando sensibili scompensi inflazionistici ai paesi importatori, le cui economie si trovarono esposte al fenomeno della stagflazione. Dal lato degli esportatori petroliferi, a sua volta, si determinarono forti surplus finanziari che vennero riciclati attraverso il mercato finanziario internazionale sottoponendosi alle vicissitudini di quest’ultimo. Nel complesso l’egemonia economica statunitense era ancora forte, ma si esercitava in un ambiente economico molto più instabile che in precedenza e sembrava imporre alle classi dirigenti nuovi criteri di gestione dell’economia. 9.2 La nuova economia europea La produzione di massa, che nella sua forma fordista si era delineata negli Stati Uniti tra Otto e Novecento e che si era ulteriormente affermata nel perido tra le due guerre, inizialmente si diffuse solo in modo graduale al di là dell’Atlantico13. Dopo la seconda guerra 12 G. Bell, Mercato dell’eurodollaro e sistema finanziario internazionale, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 156-7. Sugli intrecci tra debolezza del dollaro, termini di pagamento e bilancia commerciale, cfr. B. Tew, L’evoluzione del sistema monetario internazionale, Il Mulino, Bologna, 1989, pp. 178-9. 13 B. Settis, Fordismi, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 107 e ss.
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mondiale e la ricostruzione essa si impose in modo generalizzato anche in Europa occidentale, diventando un tratto caratteristico di tutte le economie industrialmente avanzate. Il forte aumento della produttività che ne derivò si tradusse in una generale crescita del reddito, anche se tra i diversi gruppi di paesi avanzati il ritmo di crescita non era uniforme. Prima della seconda guerra mondiale, in particolare, gli Stati Uniti avevano registrato un tasso di sviluppo maggiore di quello dei paesi europei e del Giappone, ma negli anni Cinquanta-Sessanta la graduatoria si invertì. Alla definitiva maturazione del fordismo corrisposero mutamenti di una certa rilevanza anche nella struttura delle grandi imprese, che diversificarono la loro produzione e misero a punto nuove forme di organizzazione direttiva. Nelle industrie strettamente legate alla ricerca scientifica, le grandi imprese disponevano ormai di un vasto insieme di quadri, conoscenze tecnologiche e attrezzature potenzialmente utilizzabile in varie direzioni. Per utilizzare pienamente tali risorse era spesso necessario impiegarle nello sfruttamento di nuove opportunità in differenti settori a rapida espansione. Sulla base di tale pressione, le imprese tendevano quindi a crescere simultaneamente in direzioni differenti, dando vita a generi di prodotti sempre nuovi. Data la difficoltà di controllare settori tanto diversi da un unico centro, si studiarono strutture organizzative più flessibili e decentralizzate14. Un’altra tendenza generalizzata nei paesi più avanzati nel secondo dopoguerra, fortemente incentivata dall’incremento della produttività industriale fu la crescita del settore terziario, che già aveva preso forma in precedenza; a un certo grado di sviluppo, le sue dimensioni cominciarono a sopravanzare non solo il settore agricolo e quello industriale isolatamente presi, ma anche la somma complessiva dei due. La difficoltà sempre minore che si incontrava nel produrre beni, infatti, consentiva che la forza-lavoro venisse progressivamente dislocata verso i servizi pubblici e privati. In Occidente, e soprattutto in Europa, nel dopoguerra si era instaurato un compromesso sociale che tendeva a compensare le classi lavoratrici dei sacrifici sostenuti e nello stesso tempo tenerle lontane da tentazioni rivoluzionarie. La produzione di massa si diffondeva dunque in un quadro in cui la classe operaia rinunciava 14 A. D. Chandler, Strategia e struttura, Angeli, Milano 1976, pp. 387 e ss.
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a rivendicare la socializzazione dell’economia, ma veniva compensata con diritti contrattuali e politici garantiti ai sindacati, alti livelli salariali, una politica macroeconomica finalizzata al mantenimento dell’occupazione e un sistema di assistenza sociale solidamente strutturato. In tali contesti, nei quali si voleva garantire entro certi limiti il potere contrattuale dei sindacati, la via maestra alla riduzione dei costi era stata la realizzazione di ampi volumi di produzione, standardizzata nella massima misura possibile e rapidamente smaltita grazie alla continua espansione economica. Per quanto la necessità di ottimizzare i singoli segmenti del processo produttivo imponesse una serie di oneri (scorte, magazzini etc.) necessari ad assicurare la sincronizzazione dell’insieme, la possibilità di mantenere un elevato livello di attività dovuta alla favorevole configurazione del mercato consentiva di trascurare o tollerare zone di minore efficienza. Ben diversa era la situazione giapponese, nella cui fase iniziale i mercati erano di dimensioni più ristrette e nella quale la tradizione nazionale imponeva valori ispirati alla collaborazione di classe e alla coesione di gruppo. La produzione di massa, di conseguenza, doveva ispirarsi a un diverso orientamento del ciclo produttivo, orientato da valle a monte concatenando i differenti segmenti della fabbrica in modo da trasmettere fedelmente a ogni fase produttiva anteriore le richieste di quella più prossima al prodotto finale e gestendo i rapporti coi fornitori in questa stessa chiave: da ciò derivava una rilevante riduzione delle scorte e dei conseguenti costi di magazzino. A differenza della fabbrica occidentale, quella giapponese poteva inoltre contare sulla disponibilità della manodopera a rimuovere eventuali disturbi della produzione, eliminando i difetti riscontrati nel corso della lavorazione e diagnosticando tempestivamente nel contempo i guasti del macchinario, col risultato di limitare i costi relativi al controllo di qualità e alla manutenzione15. A partire dagli anni Ottanta si cominciò a guardare ai modelli organizzativi giapponesi come forme alternative al fordismo e come base per una fase postfordistica del capitalismo, ma ci sembra in realtà appropriato considerarlo più semplicemente una variante della produzione di massa. Va sottolineato, infatti, che in realtà il 15 Per un confronto d’insieme su fordismo e toyotismo si veda J.P. Womack, D.T. Jones, D. Roos, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli, Milano 1996.
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toyotismo implica un controllo – in definitiva un dominio – della fabbrica molto più capillare di quello del fordismo classico e che la celebrata autoattivazione dei lavoratori che esso realizza non oltrepassa i limiti piuttosto ristretti di una delega sul controllo di processo16. Ciò che lo contraddistingue specificamente, perciò, non è certo la capacità di rappresentare un vero e proprio nuovo stadio epocale del modo di produzione capitalistico, ma semplicemente quella di spostare il centro di gravità interno alla produzione di massa dalla fabbrica rigida a quella flessibile, capace di adattarsi alle esigenze di un ambiente economico incerto e difficilmente governabile come quello caratteristico degli ultimi decenni. Una delle caratteristiche fondamentali delle economie del dopoguerra – e di quelle europee in particolare – fu costituita da un intervento particolarmente articolato dello stato. A seguito dell’esperienza della crisi e della guerra, infatti, l’atteggiamento verso l’intervento statale – e in particolare verso l’espansione della spesa pubblica – fu molto differente rispetto al passato; l’accrescimento dell’intervento statale e della spesa pubblica vennero considerati come funzionali all’espansione economica. La rapida crescita del sistema economico generò un rilevante ammontare di risorse, con le quali poterono essere alimentati bilanci pubblici in espansione. La spesa pubblica si aggiunse a tutte le altre condizioni favorevoli di cui godettero le economie occidentali nel dopoguerra e di conseguenza agì come un rilevante fattore di stimolo. Tra l’aumento della spesa pubblica e lo sviluppo economico si determinò quindi una forma di interazione positiva17. 16 C. Filosa, G. Pala, Il terzo impero del sole, ES/Synergon, Milano 1992, pp. 50-4. 17 “L’apparente successo del welfare state durante il periodo 1950-70 si fondava anche sulla natura del boom del dopoguerra. Il periodo di prosperità del fordismo generò le entrate fiscali per finanziare l’espansione del welfare e fornì anche la base materiale per un compromesso di classe tra capitale e lavoro. Inoltre, nella misura in cui fu realizzata la piena occupazione in un mercato del lavoro che era relativamente unificato piuttosto che frazionato, essa ridusse anche il volume di povertà primaria tra le famiglie dei lavoratori. Ciò a sua volta creò lo spazio per programmi più generosi di integrazione del reddito per altri gruppi (generalizzando così le norme del consumo di massa) e/o per un’espansione del welfare in altri campi […] In breve, se il welfare state keynesiano contribuì ad assicurare le condizioni per l’espansione economica fordista, questa da parte sua aiutò a garantire le condizioni per l’espansione
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Le società capitalistiche del secondo dopoguerra furono caratterizzate da un livello di sostegno statale non solo molto più ampio di quello registrato in precedenza, ma articolato in nuove direzioni. Schematicamente, è possibile distinguere tre aree di intervento. 1) Miglioramento del capitale fisico e umano. Lo stato assicurò il suo intervento nella costruzione di infrastrutture materiali, nella ricerca scientifica e nell’istruzione quando i costi dei progetti assunsero un’entità tale da superare la disponibilità del finanziamento privato. La conduzione di esperimenti per l’uso pacifico dell’energia atomica e la costruzione di complessi apparati di ricerca scientifica, ad esempio, furono compiti nei quali lo stato svolse un ruolo di primo piano. 2) Industrie di base, reti di servizi e infrastrutture. Una maggior presenza pubblica fu richiesta anche dalla necessità di sviluppare le industrie che fornivano l’energia e le materie prime di base, di coordinare i flussi di energia e le infrastrutture e di correggere gli squilibri prodotti sull’ambiente dalle grandi concentrazioni industriali. Soprattutto in Europa, dove la tradizione dell’intervento pubblico era più solidamente affermata, lo stato si inserì nella vita economica nazionalizzando i settori industriali di base, quelli relativi ai rifornimenti energetici, le reti di trasporto ecc. e sviluppando quindi un esteso sistema di nazionalizzazioni e imprese pubbliche. 3) Spese sociali. Lo stato, infine, si sostituì al mercato nella fornitura di servizi sociali, intervenendo nella scuola, nella sanità, nell’assistenza, nella costruzione di sistemi pensionistici in misura assai più vasta che in passato. La spesa pubblica non crebbe ovunque con lo stesso ritmo. Il suo ammontare, infatti, era soggetto a decisioni politiche e all’influenza dell’ambiente sociale, ossia a fattori che differivano considerevolmente nei diversi paesi. La spesa sociale, ad esempio, si accrebbe molto più velocemente in Europa che negli Stati Uniti, nei quali le forze economiche dominanti preferirono tipi di spesa che, pur traducendosi in sostanziose commesse per le grandi industrie, non interferissero con le attività private. Quando fu necessario un rapido accrescimento della spesa pubblica, quindi, si ricorse spesso alla spesa militare, la quale consentiva anche di mantenere un margine del welfare state keynesiano”. R. Jessop, La transizione al postfordismo e il welfare state postkeynesiano, in M. Ferrera, Stato sociale e mercato, Edizioni della fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1993, pp. 69-70.
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di preminenza strategica degli Stati Uniti rispetto agli altri paesi. Va comunque sottolineato che, col passare dei decenni, anche qui le esigenze di carattere sociale si fecero fortemente sentire, fino a costituire una voce di un certo rilievo. L’ampiezza della spesa sociale rende necessario individuare i settori dove essa rivestì un rilievo maggiore. Una parte degli interventi pubblici era direttamente connessa alla presenza di società fortemente urbanizzate, nelle quali l’industrializzazione aveva disintegrato e soppiantato definitivamente la società agricola, con tutte le possibilità di assorbimento di tensioni economiche che essa garantiva. Lo sviluppo dell’urbanizzazione, agevolato anche dalla motorizzazione privata, aveva determinato necessità connesse all’edilizia popolare, alle attrezzature e ai servizi urbani etc. Il lavoratore inoltre era sempre più esposto a un intenso logorio nervoso, derivante sia dal processo di lavoro che dalla vita nell’ambiente urbano. Perché tali inconvenienti non superassero soglie pericolose, fu necessario dar vita a servizi sanitari, ricreativi etc. Nella società urbana, infine, a differenza di quella rurale dove era la famiglia a badare ai figli, addestrarli al lavoro etc, tali funzioni passavano a organismi specializzati, cioè apparati scolastici, culturali, assistenziali18. Altre forme di intervento erano più direttamente riconducibili alla necessità di mantenere la continuità dei consumi di massa anche in presenza di fluttuazioni economiche o dopo la cessazione della vita lavorativa degli individui. Nel consumo dei lavoratori, inoltre, erano entrati beni durevoli caratterizzati da un costo notevolmente superiore al salario corrente (automobile, elettrodomestici ecc.). Alle industrie che vendevano questi beni era necessario che il potere d’acquisto del lavoratore non subisse interruzioni rovinose a causa di repentini aumenti della disoccupazione: furono quindi stabiliti meccanismi di integrazione salariale in caso di ridotta attività e sussidi di disoccupazione, che regolarizzavano il flusso del reddito. Nello stesso tempo crescevano gli stanziamenti necessari a mantenere sufficientemente elevato il tenore di vita della popolazione nelle fasce d’età più elevate e venivano creati sistemi pensionistici di dimensioni sconosciute in passato19. 18 H. Braverman, op. cit., pp. 287-88. 19 M. Aglietta, Régulation et crises du capitalisme, Calmann-Lévy, Paris 1976, pp. 135-138.
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Negli anni Sessanta-Settanta, quando lo sviluppo dei sistemi di assistenza pubblica raggiunse il suo apice, le direzioni di intervento erano ormai molteplici: miglioramento dell’occupazione, lotta contro la povertà, assistenza sanitaria, previdenza sociale e protezione contro gli infortuni, istruzione, interventi a favore delle aree depresse, etc. Relativamente indolore in un periodo di grande espansione economica, il finanziamento di ampi sistemi di istruzione, assistenza e sicurezza sociale poteva però esser messo in questione non appena, per un insieme articolato di ragioni, si fosse manifestata una flessione durevole della crescita. 9.3 Il destino delle economie socialiste. L’implosione sovietica Mentre la guerra aveva imposto in Russia una forzata coesione patriottica e l’allentamento delle forme più estreme di repressione, nel dopoguerra il regime staliniano reagì ricorrendo nuovamente – e a volte in forma più esasperata – a risposte ideologiche e repressive analoghe a quelle che avevano caratterizzato il periodo più buio degli anni Trenta. Il rinvigorito nazionalismo russo portò alla deportazione forzata di nazionalità minori e di ampi gruppi appartenenti a nazionalità più numerose, mentre prendeva quota – pur senza essere esplicitamente teorizzato a livello ideologico – l’antisemitismo. Nel campo della cultura la guerra fredda si tradusse immediatamente nello ždanovismo, che impose all’intellettualità sovietica – dagli artisti, agli scienziati, ai filosofi – una programmatica circospezione verso le idee occidentali e l’immediata sottomissione alle esigenze della propaganda. Ancor più torbida di quanto fosse nel decennio precedente era l’atmosfera che circolava al vertice del potere politico, nel quale non si rispettavano nemmeno le regole formali di convocazione degli organismi statutari e regnava un’atmosfera paranoica intrecciata a complotti, in gran parte frutto di montature di vertice che si era delineata dalla fine degli anni Trenta. Queste tensioni interne, che paralizzavano l’attività dei massimi organismi sovietici, furono improvvisamente sciolte dalla morte di Stalin. Nella nuova fase i metodi economici drastici dell’età staliniana non erano più praticabili e non solo per gli esorbitanti costi politici, Date le nuove condizioni, nelle quali l’Unione Sovietica era ascesa
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al rango di superpotenza, si veniva infatti delineando la necessità di competere con un capitalismo al quale era sempre più difficile contestare elementi di dinamicità, era evidentemente necessario pensare in termini nuovi20. Ipotizzare una trasformazione radicale dei metodi economici e politici nell’élite sovietica cresciuta all’ombra dello stalinismo sarebbe tuttavia completamente antistorico. Quello che ci si poteva aspettare, e che fu in effetti realizzato, è che la dirigenza sovietica cercasse di operare seguendo le linee di minor resistenza e più promettenti nell’immediato. Questo aspetto balza agli occhi in modo particolare a proposito delle politiche agricole. Nell’urgenza di ottenere risultati concreti per l’agricoltura, Cruščev ricorse all’espediente temporaneo di coltivare le terre vergini situate nelle aree orientali dell’URSS, le cui riserve nutritive accumulate avrebbero consentito di ottenere in breve tempo grandi raccolti. Dopo qualche successo iniziale, gli inconvenienti agronomici di questa iniziativa improvvisata si fecero però sentire, conducendo nel ’63 a risultati disastrosi (fu in quell’anno che si dovette ricorrere a massicce importazioni agricole che ridussero sensibilmente le riserve auree e valutarie). Decisamente controproducente fu inoltre la contemporanea estensione forzata della coltivazione del mais con la prospettiva di usarlo per potenziare l’allevamento a scapito dei foraggi. Anche in questo caso, la varietà 20 I progressi agricoli, ad esempio, non potevano prescindere da un’adeguata dotazione di macchine, da un’appropriata rete di trasporto e stoccaggio, nonché da un potenziamento dell’industria chimica che assicurasse la fornitura di fertilizzanti; analogamente, non si poteva non ripensare alla riformulazione di tutto il sistema delle forme di proprietà e degli incentivi. Forse meno evidente, ma altrettanto stridente appariva l’arretratezza dell’industria. Innanzitutto l’URSS non aveva sviluppato alcuni settori tecnologicamente avanzati. Nella misura questo era stato fatto, le risorse di finanziamento, ricerca, manodopera qualificata andavano prioritariamente al complesso militare-industriale (si pensi, per ricorrere ad un esempio dell’epoca, agli sforzi dedicati al nucleare e alla ricerca missilistica, ma anche a sistemi d’arma convenzionali da produrre su larga scala). Nei rimanenti ambiti, in misura differenziata a seconda delle singole branche, non si riusciva a superare alcuni ostacoli di fondo: gli investimenti nella produzione dei beni di consumo erano scarsi e gli apparati centrali di pianificazione e direzione ipertrofici; gli indici quantitativi di incentivazione con cui essi guidavano le imprese rimanevano grossolani e inefficienti, mentre vi erano evidenti difficoltà nel sostenere il progresso tecnico incorporandolo nei prodotti e nel motivare le diverse componenti sociali che operavano all’interno delle unità produttive.
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delle situazioni ambientali, a torto trascurata nella fase di estensione delle coltivazioni, produsse in breve dei danni evidenti fin dai primissimi anni Sessanta. Un’analoga tendenza a promuovere nuove iniziative in modo estemporaneo e affrettato allo scopo di ottenere in breve risultati tangibili fu rappresentata dalla liquidazione delle STM (stazioni di macchine e trattori), ossia le organizzazioni statali che svolgevano presso i colcos, dietro corrispettivo, i lavori per i quali erano necessarie attrezzature meccaniche moderne. Nell’ipotesi che la proprietà delle macchine avrebbe migliorato la loro utilizzazione da parte dei colcos, nel ’58 pressoché tutte le SMT vennero smantellate e le loro macchine vendute alle aziende nell’arco dell’anno, provocando una sequenza di inconvenienti tecnici e finanziari21. Se la politica agricola risente in modo particolare dello stile improvvisato e impaziente di Cruščev, quella industriale testimonia invece maggiormente alcune delle contraddizioni oggettive a cui si andò incontro nel tentativo di ovviare all’impianto centralistico della pianificazione sovietica. Di fronte alle opposizioni latenti accentuatesi dopo il XX congresso, Cruščev rispose varando una vasta riforma, nella quale lo scopo di migliorare l’efficienza economica era intrecciato al ridimensionamento del potere delle buro crazie ministeriali del centro, ma che riuscì soltanto a moltiplicare le interferenze reciproche tra i due livelli22. 21 Per il complesso delle vicende agricole abbiamo seguito R., Ž. Medvedev, Cruščev. Gli anni del potere, Mondadori, Milano, 1977, pp. 59-69 e pp. 93-124. 22 Il sistema sovietico di direzione consolidatosi negli anni Trenta era basato sul ruolo dei ministeri. Questi ultimi – il cui numerò oscillò a seconda delle fasi e che al momento della riforma erano circa una trentina – traducevano le direttive centrali in relazione a specifici settori produttivi. A questa amministrazione settoriale, la riforma ne contrapponeva una di tipo territoriale, in base alla quale vennero disegnate 104 regioni, ciascuna dotata di un consiglio direttivo (sovnarchoz) che avrebbe dovuto disciplinare le aziende sul territorio. In questo modo, oltre a richiedere un notevole sforzo di realizzazione, non si otteneva tuttavia una reale autonomia delle imprese, le quali passavano semplicemente dal controllo della burocrazia ministeriale a quello della burocrazia regionale. L’avvicinamento dei centri direzionali alle imprese accentuò la pressione degli interessi locali e non contribuì a chiarire i rapporti con quei settori e/o competenze che rimanevano ancora sotto il controllo centrale, creando così una diffusa insoddisfazione Anche in questo campo, dunque, si dovette iniziare una ritirata e nel 1962 il numero delle regioni economiche
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Gli anni ’62 e ’63 furono anche segnati da insuccessi all’estero (crisi dei Caraibi e conflitto ideologico con la Cina), ma le difficoltà di Cruščev continuarono ad accrescersi soprattutto sul terreno economico. Della grave crisi agricola del ’63, cui si pretese di rispondere annunciando piani velleitari di produzione di fertilizzanti, si è già detto. Ciò che segnò in particolare il destino politico di Cruščev fu tuttavia il tentativo di risolvere i problemi economici modificando l’organizzazione di partito, con la divisione degli organismi regionali del partito in una sezione agricola e in una industriale. Questo e altri aspetti della riforma provocarono scontento nella dirigenza periferica del partito e, pur originati dall’intento di dare a ogni settore un’attenzione adeguata, provocarono conflitti di competenze e/o disinteresse per tutte le attività intermedie tra le due fondamentali. Il persistere delle difficoltà spinse tuttavia Cruščev a compiere un altro passo, che toccava stavolta i livelli politici più alti. La nuova riforma immaginata avrebbe impegnato infatti i massimi livelli del partito in un articolato lavoro di direzione economica, con il probabile risultato di estraniarli dalle più alte decisioni politiche23. Fu questo pericolo che spinse il vertice del partito a far decadere il segretario dal suo incarico, aprendo un’altra fase della storia sovietica. Il gruppo dirigente guidato da Brežnev manifestò certamente il proposito, in parte realizzato, di aumentare i consumi e modernizzare il paese, ma senza mettere in questione gli equilibri politico-ideologici caratteristici della società sovietica. La politica economica adottata seguì fedelmente queste linee di fondo. Essa puntò infatti non tanto a rimuovere i limiti delle strutture macroeconomiche della pianificazione24, che conobbero dei mutamenti nel complesso venne praticamente dimezzato. M. Lavigne, Le economie socialiste europee, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 69-72. 23 Questa ricostruzione è stata avanzata da M. Tatu, La lotta per il potere in Urss (1960-1966), Rizzoli, Milano, 1969, pp. 276-83 e pp. 441-74. In una direzione analoga si muovono le considerazioni di Roy e Žores Medvedev, op. cit., p.186. 24 L’insieme di queste disfunzioni dava luogo a una fenomenologia tipica dell’economia sovietica e di quelle dei paesi socialisti descritta più volte nella letteratura. La formulazione degli obiettivi del piano avveniva attraverso un’interazione tra ministeri e imprese, nella quale queste tendevano a sottostimare la propria capacità produttiva e a sovrastimare le risorse necessarie, generando così un flusso d’informazioni distorto. A loro volta i ministeri, il
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limitati, ma su una riordino dei meccanismi microeconomici, soprattutto a livello d’impresa. L’economia sovietica, infatti, mancava di meccanismi simili a quelli delle economie di mercato, in grado di penalizzare efficacemente le imprese inefficienti e di migliorare la qualità della produzione. Mancava inoltre – e questo aveva un’importanza determinante nella competizione con l’Occidente – uno stimolo a rinnovare la produzione servendosi dei nuovi ritrovati scientifici: la ricerca sovietica, infatti, si svolgeva in larga parte fuori delle imprese e queste ultime stentavano a incorporarne i risultati25. Dopo l’esito fallimentare dell’esperimento di organizzazione territoriale, le macrostrutture della pianificazione furono ripensate ritornando in parte alla tradizionale impostazione settoriale. La vera novità della riforma economica adottata nel ’65 e gradualmente realizzata stava tuttavia nel recepire in qualche modo i risultati dei dibattiti avvenuti tra il ’62 e il ’64, che prevedevano una maggior autonomia per le imprese. Per queste ultime si pensò a una riduzione del numero di indici quantitativi da rispettare e soprattutto all’introduzione di un indice di redditività costituito dal rapporto fra profitto e fondi di produzione, che doveva spingere l’impresa ad aumentare il profitto e/o economizzare i fondi. Dal profitto netto dovevano essere creati tre accantonamenti a beneficio dell’impresa: uno per i premi individuali, uno per le attività culturali e i servizi sociali resi ai lavoratori e uno per finanziare piccoli miglioramenti produttivi. cui interesse verso le proprie imprese era quello di far emergere le disponibi lità nascoste, nei confronti degli altri ministeri spingevano invece per ottenere un allargamento delle assegnazioni. Da questa dinamica, in base alla quale i singoli centri cercavano di gonfiare i propri progetti di investimento, derivava la tendenza alla sovraccumulazione. Il complesso degli sforzi compiuti singolarmente dai vari settori per aumentare i mezzi a propria disposizione generava una pressione costante sulle risorse, che tendevano a diventare insufficienti e a determinare una condizione cronica di scarsità nell’approvvigionamento di beni capitali e di consumo. Le imprese dovevano adattarsi in vari modi, modificando qualità e quantità dei prodotti, nonché i metodi di lavoro. L’incertezza nella disponibilità di input materiali e servizi ausiliari provocava sensibili irregolarità nel ritmo di produzione e di lavoro, in cui si alternano momenti di eccessiva rilassatezza e altri di sforzo parossistico. La conseguenza di tutto ciò era un ritardo strutturale della produttività. In generale si veda B. Chavance, Le système économique soviétique de Brejnev a Gorbatchev, Éditions Nathan, Paris, 1989. 25 Ivi, pp. 63-67.
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L’esito della riforma, tuttavia, si rivelò nel complesso deludente per vari ordini di ragioni, in parte derivate dai rapporti fra le unità economiche di base e le autorità centrali, in parte riconducibili ai difetti intrinseci con cui era stata concepita l’incentivazione. I ministeri e gli altri organi dell’amministrazione continuarono infatti a interferire sulla vita delle imprese e a cercare di impedire i rapporti diretti fra un’impresa e l’altra, che pure erano permessi dalla legge. Le imprese, inoltre, mancavano di autonomia nella fissazione dei prezzi e, in mancanza di un adeguato sistema di sanzioni, le inadempienze delle imprese fornitrici potevano danneggiare le imprese clienti; anche l’utilizzo dell’indice di produzione venduta ebbe poco successo in un mercato cronicamente carente dal lato dell’offerta, nel quale gli acquirenti non avevano alternative. Gli stessi fondi accantonati che rimanevano disponibili presso le aziende, infine, erano difficilmente utilizzabili: in parte risultavano distribuiti in modo inadeguato e in parte, dato il contesto di distorsioni burocratiche e penuria, erano difficilmente spendibili26. In agricoltura, in cui alle deficienze organizzative si accoppiavano le indubbie difficoltà derivate dall’andamento climatico, si operò su vari versanti. Si assistette quindi a una crescita degli investimenti agricoli, mentre cambiava l’atteggiamento dell’amministrazione nei riguardi dei colcos, nei quali la condizione dei lavoratori fu migliorata tramite un sistema di pensioni e una retribuzione salariale certa. Per le aziende collettive furono pensati obiettivi realistici basati sulle vendite e prezzi più vantaggiosi in caso di superamento del piano, alleggerimenti fiscali e finanziari27. L’aumento dei prezzi d’acquisto, non potendo esser compensato da un aggravio su quelli di vendita, si tradusse tuttavia nella crescita del deficit dello stato. D’altra parte le persistenti insufficienze della meccanizzazione e della condizione dei trasporti, la mancanza di attrezzature di conservazione e le carenze organizzative che impedivano di concentrare una quantità sufficiente di manodopera nei ristretti lassi temporali disponibili per i raccolti erano una fonte permanente di spreco e inefficienza. L’agricoltura sovietica, in passato finanziatrice dello sviluppo, stava ora diventando un fardello sempre più pesante28. 26 M. Lavigne, Le economie, cit., pp. 95-134. 27 Ivi, pp. 190-5. 28 B. Chavance, op. cit., cit., pp. 91-5.
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Il quadro sin qui tracciato mostra come la crescita economica sovietica, pur conseguendo ritmi accettabili fino agli anni Settanta, continuasse a mantenere a tutti i livelli aree di inefficienza e penuria, che provocavano la graduale diffusione di iniziative miranti a compensare le lacune del sistema economico e/o a trarne profitto. Col procedere degli anni Settanta era ormai sempre più percettibile l’esistenza di un’economia parallela, che operava ai margini della legalità, la quale offriva beni di consumo e servizi non reperibili presso i canali ufficiali. Essa coinvolgeva una larga gamma di attività; alcune erano interamente clandestine, ma molte altre linee di produzione e/o servizi fiorivano dietro la facciata delle imprese di stato. Quest’ambito sommerso, per quanto illegale, suppliva nella sostanza alle larghe smagliature dell’economia di piano29. Le autorità, che formalmente tuonavano contro il malcostume e ne combattevano alcune punte, nel complesso lo tolleravano, sia perché l’economia parallela tamponava nascostamente falle importanti di quella ufficiale, sia perché dava laute occasioni di introito ai funzionari che a vario titolo vi erano coinvolti. La rilevanza dell’economia sommersa non significava solo la delegittimazione implicita di quella ufficiale, ma ne modificava in concreto il funzionamento. Per quanto la consistenza di tale settore parallelo fosse difficilmente quantificabile, lavoro e risorse materiali entravano infatti in quel circuito attraverso vari canali, alterando in tal modo le risposte degli agenti economici alle direttive ufficiali dell’amministrazione. Questi fenomeni si sommavano ad altri che, per quanto striscianti, tendevano anch’essi ad ostacolare l’aumento della produttività: l’incremento della popolazione in età lavorativa era notevolmente rallentato, lo stock di capitale era invecchiato e richiedeva un pesante lavoro di manutenzione, le risorse energetiche erano sempre più spostate verso Oriente. Le cospicue importazioni di attrezzature industriali e prodotti agricoli erano un’evidente spia delle difficoltà. Pur senza registrare episodi particolarmente acuti, dalla metà degli anni Settanta l’economia sovietica entrò in una fase nella quale essa mostrò in misura sempre maggiore i segni di una stagnazione 29 Ivi, pp. 141-9.
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produttiva30 sulla quale non avrebbero tardato ad innestarsi sintomi di degrado sociale e di senescenza dei vertici politici, destinati a raggiungere dimensioni preoccupanti fin dall’inizio del decennio successivo. Da qui si apre un capitolo nuovo nella storia dell’economia sovietica, il cui corso ulteriore non può più esser seguito solo come uno svolgimento interno al sistema, ma fa tutt’uno con la disgregazione di quest’ultimo a tutti i livelli. Negli anni Ottanta alla situazione di malessere generale della società si aggiunse una nuova componente: l’accentuarsi delle tensioni etniche. Esse avevano radici differenti e non sempre riconducibili a un denominatore comune, ma cadevano in un momento di crisi generale della società sovietica e venivano esasperate dallo stile centralistico con cui il governo cercava di venirne a capo. Le linee di frattura etniche che attraversavano il territorio sovietico erano soprattutto due: quella che separava gli stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) dalle repubbliche slave e quella che divideva le repubbliche musulmane meridionali dal resto del paese.31 La situazione cominciò a precipitare verso la metà degli anni Ottanta, allorché, dopo la morte di Brežnev (1982) e due brevi permanenze al vertice del partito di Andropov e Černenko, nel 1985 la carica di segretario del PCUS passò a Gorbačëv. Questi affrontò la situazione cominciando a denunciare le deformazioni burocratiche e autoritarie esistenti nella società sovietica e proponendone una riforma. Al tema della riforma si associò quello della pubblicizzazione dei dibattiti e dei processi decisionali per renderli visibili ai cittadini. Nonostante la sorda resistenza degli uomini dell’apparato politico, Gorbačëv propose la collocazione del partito in un sistema politico diverso da quello tradizionale, in cui esistesse un potere statale dotato di una reale autonomia. Le proposte di Gorbačëv erano sostenute da quella parte della dirigenza insediata non negli organismi di partito ma in quelli dello stato e di governo dell’economia (complesso militare-industriale, ministeri, comitati economici statali, dirigenti delle grandi organizzazioni produttive industriali e agricole ecc.)32. Essa era favorevole in linea di massima alla piani30 J. Sapir, Les fluctuations économiques en URSS, Éditions del l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 1989, pp.182-220. 31 V. Zazslavsky, Dopo l’Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 50-81. 32 R. Di Leo, Vecchi quadri e nuovi politici, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 96-7.
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ficazione, alla cui gestione era preposta, ma non approvava sempre l’invadenza della burocrazia di partito e vedeva quindi con favore le riforme politiche proposte da Gorbačëv. Queste ultime prevedevano l’elezione di un Congresso del popolo con deputati in parte eletti direttamente dal popolo a scrutinio segreto, in parte (un terzo) nominati dalle organizzazioni sociali come il partito, il sindacato ecc.; questo organismo parlamentare, che avrebbe avuto il potere di cambiare la costituzione, si sarebbe dovuto riunire una volta all’anno ed eleggere un Soviet supremo. Libere elezioni si sarebbero tenute anche per i Soviet locali delle singole repubbliche. Il Congresso del popolo fu eletto nel marzo 1989 e poco più tardi esso nominò il Soviet supremo, nel quale il partito comunista non godeva più di un monopolio precostituito e le sue proposte dovevano essere approvate dopo una pubblica discussione, in buona parte teletrasmessa. La nuova architettura costituzionale fu completata il 15 marzo 1990, allorché Gorbačëv fu eletto presidente dell’Unione Sovietica. Tra le decisioni prese, particolarmente rilevante fu l’abolizione dell’articolo della costituzione brezneviana del 1977, che sanciva il monopolio del partito comunista. Nello stesso tempo diventava sempre più evidente che il mantenimento dell’impero sovietico aveva dei costi insostenibili. Al ritiro dall’Afghanistan seguiva la caduta del muro di Berlino, che Gorbačëv dovette gestire con cospicue concessioni all’Occidente33. La liquidazione della passata potenza sovietica accresceva presso l’Occidente il prestigio di Gorbačëv, ma in Unione Sovietica le cose si presentavano diversamente. I recenti avvenimenti creavano frustrazioni nei militari, nei quadri del partito e spesso anche nella gente comune, che vedeva cadere il prestigio della patria all’estero. La crisi istituzionale che interessava il potere sovietico, indebolendo l’autorità centrale, lasciava spazio al progressivo rafforzamento dei movimenti indipendentisti, che in alcuni casi avevano contagiato anche i partiti comunisti locali. Nel corso del 1989 i movimenti nazionali di massa si erano progressivamente rafforzati. All’inizio del 1990 la situazione si aggravò, anche a seguito delle prime elezioni libere relative alle singole repubbliche, che rafforzarono le forze indipendentistiche nelle repubbliche baltiche – dove il potere centrale attuò invano dimostrazioni militari e il blocco 33 Cfr. oltre, §10.5.
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economico – e in varie altre. Segnali della ricerca di autonomia e indipendenza si ebbero non solo nelle repubbliche baltiche, ma anche praticamente in tutte le ex repubbliche sovietiche, comprese quelle dell’Asia centrale. Anche la Russia, principale repubblica dell’Unione, cominciò a opporsi alla presidenza federale. Nonostante l’opposizione del partito, infatti, Eltsin vinse la battaglia per la nomina a presidente del Soviet, puntando in prospettiva alla presidenza della repubblica russa In quello stesso anno alla disgregazione politica e al conseguente venir meno delle tradizionali strutture di comando faceva riscontro una crescente disgregazione economica che procedeva lungo varie direttrici: si accentuò l’assenteismo, già in precedenza male cronico dell’organizzazione produttiva sovietica, e comparvero gli scioperi, prima sconosciuti; poiché le elezioni avevano riguardato anche le amministrazioni locali, che in molti casi erano passate a una direzione non comunista, si era determinata una difficoltà di collaborazione con la nomenklatura economica anche in grandi città, come Mosca e Leningrado, passate in gestione agli oppositori. Mentre in passato esistevano rapporti consolidati tra le varie repubbliche che in molti casi erano riusciti a ovviare alle deficienze della pianificazione, ora la nomenklatura economica tendeva a organizzarsi autonomamente nelle rispettive sfere di influenza locale, generando una tendenza alla frammentazione dell’economia; nel timore di nuove scarsità e di aumenti dei prezzi, le merci sparivano dai negozi a un ritmo maggiore del necessario; spesso, inoltre, si compravano i prodotti a prezzi politici per poi rivenderli al mercato nero. A ogni anello della catena dei rifornimenti avvenivano ingenti sottrazioni, che andavano ad alimentare l’economia parallela. Di fronte a questa situazione Gorbačëv tenne un contegno incerto. Nel corso del ’90 cercò di diminuire il peso dell’apparato di partito e in un primo momento parve schierarsi coi riformatori liberisti, per distanziarsene in breve di fronte alle opposizioni degli apparati. Gli scontri sulla gestione dell’economia, momentaneamente rientrati, erano destinati in breve a riemergere nella discussione sull’assetto dell’Unione, che ormai avrebbe dovuto soppiantare la vecchia URSS e che avrebbe dovuto stabilire in concreto la configurazione del controllo economico delle risorse Nel frattempo Eltsin, uscito dal partito, si faceva eleggere presidente della repubblica più potente dell’URSS, la Russia.
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I vecchi quadri comunisti, alcuni dei quali erano ancora presenti in organismi di vertice, prevedendo che sarebbero stati esclusi dai nuovi centri decisionali, conclusero che il colpo di stato non era più rinviabile. Il 19 agosto 1991, il comitato guida del golpe, formato da alcune delle più alte cariche dello stato, cercò di appropriarsi del potere. I promotori dell’azione, paralizzati dal loro autoisolamento, dalla diffidenza verso i subordinati e dalla loro stessa incapacità, non riuscirono però a coordinare le forze. Ben condotta fu invece la resistenza dei radicali e di Eltsin, che fecero ricorso alla mobilitazione popolare e si trincerarono nella sede del parlamento russo, finché le incerte truppe mobilitate contro di loro non desistettero dall’azione. Tornato a Mosca, Gorbačëv si dimise dalla carica di segretario del PCUS, accusando il partito di aver avuto una responsabilità morale nella preparazione del golpe ed Eltsin mise fuori legge il partito nel territorio russo. Gorbačëv rimaneva ancora presidente dell’URSS, ma in questa veste era ormai circondato da forze contrarie, il cui leader incontrastato era Eltsin, che lo accusavano di non aver saputo prevenire il colpo di stato. Il parlamento russo, controllato in quel momento da Eltsin, era divenuto il vero e proprio centro del potere. Nel dicembre del 1991, con molta difficoltà e in termini alquanto vaghi, nasceva la Comunità degli Stati Indipendenti, comprendente undici repubbliche dell’ex URSS. Da quel momento Gorbačëv, presidente di un’entità politica ormai scomparsa, dovette uscire anche ufficialmente di scena, mentre per l’ex URSS incominciava una nuova epoca storica. Avendo deciso di concludere il nostro esame approssimativamente con la fine del Novecento, non entriamo nei dettagli di quel che era destinato a succedere nel sistema politico ed economico russo, in particolare mettendo a fuoco i meccanismi delle privatizzazioni postsovietiche e dell’era Putin, che ci porterebbe per certi versi fino alla stretta attualità34. Per chiudere ci basta sottolineare 34 Per un primo approccio a questa fase si vedano R. Medvedev, La Russia posst-sovietica, Einaudi, Torino 2002; L. Gudkov, V. Zaslavsky, La Russia da Gorbaciov a Putin, Il Mulino, Bologna 2010; C. Belton, Gli uomini di Putin, La Nave di Teseo, Milano 2020. S. Borkocovič, M. Romani, P. Tabak, Storia economica della Russia dal 1991 al 2016, in G. Aragona (a cura), La Russia post-sovietica, Mondadori, Milano 2018, pp. 82-111. Sulla politica estera nel periodo di transizione tra Eltsin e Putin, si veda P. Short, Putin. Una vita, il suo tempo, Marsilio, Venezia 2022, pp. 272-297.
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che la nuova Russia si presentava economicamente più debole della vecchia URSS e aveva perso gran parte del suo impero, sperimentando anche negli anni immediatamente seguenti considerevoli frustrazioni sia a livello della popolazione comune che di settori della classe dirigente. È possibile aggiungere che essa rimaneva ancora titolare di immense risorse naturali (energetiche e anche agricole) utili all’Occidente e fonte di proficui rapporti commerciali che potevano essere in grado di orientarne il futuro in direzione pacifica. Nello stesso tempo, tuttavia, la Russia restava in possesso di un arsenale nucleare di prima grandezza, ossia di un potente fattore di deterrenza che avrebbe potuto esser messo al servizio di una rivalsa nei confronti delle recenti umiliazioni sperimentate a livello geopolitico. Come si vede, si trattava di un possibile percorso in netto contrasto con quello pacifico cui si è fatto cenno più sopra. Queste due vocazioni, visibili fin da allora, si stanno contendendo ancor oggi la guida strategica del paese. 9.4 Il destino delle economie socialiste. L’ascesa cinese Nell’ultimo decennio del Novecento, a fronte della crisi definitiva del regime sovietico, appariva già evidente a livello mondiale quella che sarebbe stata una caratteristica saliente del secolo successivo, ossia l’emersione di una potenza che, pur mantenendo varie caratteristiche ereditate dal precedente esordio come economia socialista, era riuscita ad adattarsi al nuovo contesto del capitalismo internazionale conseguendo importanti successi e giungendo anzi a costituire una sfida per l’egemonia globale statunitense. La svolta cinese incominciò alla fine degli anni Settanta, dopo che il paese aveva sperimentato ricette economiche diverse ed anzi decisamente contrapposte, che andavano dalla sostanziale imitazione del modello sovietico basato sulla costruzione prioritaria di un supporto di industria pesante a quella di un sistema a base agricola, decentrato e con forti venature volontaristiche. Nessuno dei due tentativi diede i risultati attesi ed il secondo, anzi produsse una crisi di vaste dimensioni, con un seguito altrettanto vasto di lotte politiche dirompenti.
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Prima di intraprendere un piano di sviluppo con caratteri socialisti, la Cina dovette attraversare una fase preliminare di ricostruzione e di riforma agraria, durata dal ’49 al ’52, a seguito del quale venne redistribuita la grande proprietà terriera, usando un criterio duttile e aderente alle situazioni locali (i comunisti cinesi – non si dimentichi – erano profondamente radicati nella società rurale) e tenendo conto anche delle esigenze dei contadini medi o ricchi. Conclusa questa fase, che ridimensionò anche il commercio privato e l’usura, si entrò nella fase del primo piano quinquennale (1953-’57), di impronta sovietica e basato perciò sulla priorità dell’industria pesante, alla quale venne riservata la parte maggiore degli investimenti. L’adozione di questo modello, nonostante la maggior arretratezza della Cina, rispose in parte ad esigenze di uniformità e di razionalità nella distribuzione delle risorse e in parte al fatto che quella sovietica rappresentava praticamente l’unica esperienza allora nota di rapida crescita economica in un paese arretrato. Per affiancare lo sviluppo industriale con un parallelo potenziamento dell’agricoltura si ricorse alla collettivizzazione, dapprima introducendo forme inferiori di cooperazione, che mettevano in comune il lavoro ma riservando una remunerazione a parte per la terra e le altre risorse conferite dalle singole famiglie; l’obiettivo iniziale era di arrivare col tempo e la persuasione ad una collettivizzazione integrale nell’ambito di unità più ampie. Si giunse in pochi anni – fra il ’56 e il ’57 – a conseguire lo scopo, ma in molti casi con forti pressioni che dettero luogo a rilevanti resistenze contadine35. Al momento di dare avvio al secondo piano quinquennale si dovette constatare che la collettivizzazione non aveva aumentato grandemente il prodotto agricolo. Di fronte all’alternativa di ridimensionare gli obiettivi, fra il ’57 e il ’58 si registrò la tendenza, il cui esponente più autorevole era Mao, a proporre un diverso programma di mobilitazione delle forze produttive (il “grande balzo”), che si fondava sull’integrazione di attività industriali e agricole entro unità economiche decentrate e a tal fine furono create le comuni. Le circa 750000 cooperative esistenti furono fuse in 24000 comuni (solo più tardi il gigantismo delle comuni fu ridimensionato triplicandone il numero). Nelle comuni venivano fusi quattro tipi di proprietà: quella individuale, quella “collettiva inferiore” (corrispon35 G. Samarani, La Cina contemporanea, Einaudi, Torino 2017, pp. 218-221.
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dente alle brigate, ossia le vecchie cooperative), quella “collettiva superiore” a livello della comune e quella “nazionale” costituita da imprese statali cedute in gestione alla comune o costruite in collaborazione con essa. La comune univa le attività agricole e, industriali, nonché i servizi necessari alla vita associata (refettori, lavanderie, forni, laboratori di vario genere, servizi per l’infanzia e scuole etc). L’intento di questa modalità organizzativa era insieme economico (nel senso di liberare dalle incombenze domestiche per rendere disponibili risorse lavorative) e nello stesso tempo ideologiche, ossia di aumentare la partecipazione degli individui ad una vita gestita direttamente in modo collettivo e quindi più vicina al socialismo. Nello stesso senso, le retribuzioni erano sempre meno legate al lavoro individuale e sempre più connesse a quelle della squadra e all’utilizzazione delle strutture collettive36. Le speranze riposte nelle nuove forme organizzative si rivelarono tuttavia deludenti. L’entusiasmo e la motivazione ideologica sostenute dalla propaganda non bastarono a compensare la mancanza di attrezzature adeguate e di una produzione svolta su una scala efficiente. La caduta di produzione agricola si trasmise al settore industriale e già nel ’59 il paese era entrato in una fase recessiva che si aggravò nel ’60. A ciò si aggiunsero calamità naturali (eccesso di precipitazioni in certe aree, carenze in altre) che non poterono esser adeguatamente fronteggiate. Il paese si trovò sconvolto da una carestia associata ad epidemie che provocarono – secondo le valutazioni correnti – circa 30 milioni di morti e un altrettanto grave deficit di nascite. Nel contempo l’Unione Sovietica, con cui già stavano montando crescenti conflitti sulla politica estera37, ritirava aiuti e consiglieri economici alla Cina in evidente dissenso con le politiche economiche di quest’ultima. Negli anni seguenti si dovette ridimensionare gli obiettivi, tenendo conto del vincolo all’industria costituito dal ritmo di crescita della produzione agricola; in parallelo, l’industria dovette far posto alla produzione di prodotti chimici (fertilizzanti, inset36 J. Charrière, Pianificazione e gestione delle unità di produzione, in C. Bettelheim, J. Charrière, H. Marchisio, Il socialismo in Cina, Editori Riuniti, Roma 1966, pp. 66-8. 37 Cfr. più oltre, §10.1.
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ticidi), metallurgici, meccanici, etc. necessari dall’agricoltura. Si delineava, in altri termini, uno schema alternativo a quello sovietico, la cui direzione andava dall’agricoltura all’industria leggera a quella pesante38. La correzione di rotta permise che il paese ritrovasse il sentiero della crescita, che non fu più esposta ad oscillazioni così gravi come quelle sperimentate nel recente passato. Il fallimento del “grande balzo” lasciò tuttavia degli strascichi profondi, in quanto pose le premesse per un periodo di grande instabilità politica. Nella fase successiva al “grande balzo”, infatti, la linea ispirata da Mao veniva guardata con occhio critico e si profilava un ritorno a criteri meno collettivisti di responsabilità individuale; il partito inoltre non aderiva alla lotta al burocratismo – urbano e rurale – con la determinazione che Mao avrebbe voluto. Cominciò inoltre a caratterizzarsi un gruppo radicale guidato da Jiang Qing, moglie di Mao, che, malvista in passato entro il partito, aveva cominciato a ritagliarsi un ruolo politico appoggiandosi su Lin Biao. Il suo intento era quello di introdurre riforme culturali radicali valendosi della collaborazione di un gruppo di intellettuali radicali poco noti di Shanghai, coi quali cercò di mettere in atto una strategia contro l’apparato di partito che aveva il suo centro a Pechino. Poiché nel partito prevaleva la linea di dirigenti come Liu Shaoqui e Deng Xiaoping, Mao andò progressivamente appoggiandosi sull’esercito nel quale, dopo che Peng Dehuai era stato rimosso per aver criticato le politiche del “grande balzo”, era salita in primo piano la figura di Lin Biao. Questi sostenne decisamente Mao, politicizzando e ideologizzando al massimo l’esercito, in particolare la componente costituita dalle forze distaccate nelle singole regioni che non avevano compiti di prima linea39. Una seconda componente di massa a cui Mao iniziò ad appoggiarsi furono gli studenti, fra cui si erano moltiplicate le insoddisfazioni. Questi ultimi nella Cina socialista erano fortemente aumenta38 C. Bettelheim, Le linee generali della pianificazione cinese, in Bettelheim, Charrière, Marchisio, op. cit., pp. 43-4. 39 J. King Fairbank, Storia della Cina contemporanea 1800-1985, Rizzoli, Milano 1988, pp. 386-7 e p. 409. Sulle posizioni di Mao negli anni Sessanta si veda anche S. Schram, Mao tse Tung e la Cina moderna, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 403-51.
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ti di numero, ma permanevano squilibri fra quelli che provenivano da famiglie più colte ed agiate e quelli saliti dal basso, che faticavano a raggiungere risultati adeguati pur uscendo da una estrazione sociale operaia o contadina, ossia da una origine che in una società socialista avrebbe dovuto garantire loro un maggior successo. Nell’agosto del ’66 Mao convocò a Shanghai un Plenum del Comitato centrale che retrocesse Liu ed altri dirigenti, insediando come suo vice e successore designato Lin Biao; fu approvata inoltre una risoluzione che dava la priorità al cambiamento della coscienza popolare attraverso la lotta contro il “revisionismo” della dirigenza. A quel punto cominciarono ad entrare in scena gli studenti. Manifestazioni di massa di giovani attivisti (le “guardie rosse”) furono organizzate in ondate successive a Pechino e la loro foga travolse non solo dirigenti di vertice come Liu e Deng, ma buona parte della gerarchia direttiva del partito, sottoposta a umilianti violenze e critiche pubbliche. Nel partito e nell’esercito si formarono fazioni rivali di “guardie rosse” e il paese scivolò ai limiti dell’anarchia. Resosi conto dell’eccessiva destabilizzazione che si era determinata, lo stesso Mao fra il ’68 e il ’69 mise fine al movimento, introducendo negli organi dirigenti una robusta quota di militari e di nuovi quadri. In questo modo la posizione di Lin Biao si rafforzava, diventando però in breve troppo pericolosa agli occhi dello stesso Mao e quindi fra il ’69 e il ’71 prese corpo un lavorio sotterraneo per ridimensionarne l’influenza. Lin Biao comprese che il gioco volgeva a suo sfavore e organizzò – secondo la versione ufficiale – un colpo di stato che fallì; nella fuga verso l’URSS il suo aereo si schiantò in Mongolia. Con questa svolta l’epoca della Rivoluzione culturale veniva ridimensionata, anche se molti suoi postumi durarono ancora per anni. Si determinò così una situazione contraddittoria in cui per un verso l’amministrazione ritornava in mano a figure di intellettuali e funzionari di tipo tradizionale, mentre per l’altro rimanevano ancora in auge e politicamente attivi gruppi legati alla frangia più estrema della Rivoluzione culturale, in particolare il gruppo di Shanghai guidato da Jiang Qing (la cosiddetta “banda dei quattro). Mentre declinavano la salute di Mao e quella di Zhou Enlai, dirigente storico che fu tra i pochi a rimanere in sella durante la Rivoluzione culturale, si aprirono pertanto manovre miranti a configurare l’assetto futuro della Cina. Nel 1973 Zhou riuscì a riportare al po-
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tere Deng, che era stato messo da parte in precedenza, ma nel ’76, dopo la morte di Zhou, la frazione di Jiang Qing riuscì nuovamente a farlo destituire40. Mao a sua volta scomparve poco dopo, lasciando ufficialmente come erede Hua Guofeng, un funzionario che non aveva mai giocato ruoli di primo piano e che rimase in carica, come figura di transizione, fino all’inizio degli anni Ottanta. Subito dopo la morte di Mao la “banda dei quattro” fu arrestata e alcuni anni più tardi processata. Con questi eventi si chiudeva l’epoca di Mao e nel ’77 Deng Xiaoping poté nuovamente tornare a far parte dei vertici del partito. Questo importante snodo può essere considerato la premessa della cesura tra la Cina rivoluzionaria e postrivoluzionaria e quella contemporanea. Da allora restarono da completare molti – e tutt’altro che irrilevanti – aggiustamenti politico-ideologici, ma contemporaneamente a ciò venne messo mano ai meccanismi di governo dell’economia e in ultima analisi dello sviluppo economico. Sul fronte più strettamente politico, negli anni seguenti la morte di Mao e l’eliminazione politica della “banda dei quattro” si moltiplicarono in Cina i segnali di critica verso i dissesti e le ingiustizie perpetrate dalla Rivoluzione culturale. Nel mirino entrava progressivamente anche Hua Guofeng in quanto erede diretto di Mao, che nel 1980 dovette lasciare la carica di primo ministro e l’anno successivo quella di presidente del partito. Nelle due cariche gli subentravano rispettivamente Zhao Ziyang (presidenza del consiglio) e Hu Yaobang (presidenza del partito), due figure strettamente legate a Deng. Nel frattempo si chiusero ufficialmente i conti con la figura di Mao, di cui si riconobbe lo spessore di rivoluzionario fino al 1957, ma si criticarono molto esplicitamente le scelte connesse al “grande balzo” alla Rivoluzione culturale. Nel 1982 il XII congresso del partito sancì l’assetto di vertice già emerso (per Hu fu ripristinata la carica di segretario del partito). Si cercò di ringiovanire, con una operazione solo in parte riuscita e che sarebbe stata ripresa in se40 Determinante, a questo proposito, fu un episodio dell’aprile ’76 seguito di qualche mese alla morte di Zhou. In occasione della sua commemorazione vi furono imponenti manifestazioni per ricordarne la memoria. Esse allarmarono l’ala radicale, che vi videro una retrostante volontà di sostenere Deng, con la conseguenza di essere dichiarate controrivoluzionarie e represse. Agli incidenti seguì immediatamente la destituzione di Deng.
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guito, i quadri dirigenti e di mantenere gli equilibri interni che solo di recente erano stati faticosamente ripristinati, ma comunque il partito apparve complessivamente più orientato a concentrarsi sullo sviluppo economico41. Sul versante economico il fronte era già in movimento da qualche anno. In agricoltura, in particolare, vi erano difficoltà derivate dalla bassa produttività, tale da richiedere che nel settore fosse occupata una quota eccessiva di forza-lavoro. Dal ’79 fu avviato un sistema che introduceva la responsabilità familiare nella coltura, per cui ogni famiglia si impegnava a consegnare allo stato una quota di produzione, trattenendo il resto per il consumo e la commercializzazione. La disponibilità per l’uso della terra veniva liberalizzata, rendendo possibile la cessione di quote del diritto d’uso ad altre famiglie, e così il commercio dei prodotti. Il risultato fu l’aumento non solo della quantità, ma anche della varietà delle colture che prima erano indirizzate pressoché esclusivamente verso i cereali. La crescita dell’agricoltura provocò una richiesta di beni di consumo che fece crescere le piccole imprese collettive di villaggio. Mentre avvenivano queste trasformazioni la comune perdeva progressivamente terreno e cessò praticamente di esistere nell’’83. Ai provvedimenti per l’agricoltura seguirono quelli sull’industria, ossia l’idea di creare dei punti privilegiati di apertura verso lo sviluppo, attraverso la costituzione di quattro zone economiche speciali sulla costa meridionale, nelle quali venivano offerte rilevanti facilitazioni alle imprese straniere che avessero voluto investire. Alla loro istituzione seguì l’apertura ai contatti commerciali di altre città costiere. La politica di accettazione degli investimenti esteri nella fase iniziale mise però un argine al controllo totale delle imprese da parte degli investitori, preferendo il modello della joint venture. Contemporaneamente per le imprese industriali urbane vennero attuati altri interventi di emancipazione dai controlli centralizzati, liberalizzando prezzi e salari e consentendo alle imprese di tener per sè i profitti dopo aver provveduto al pagamento delle imposte allo stato. Anche questa direttiva si rivelò utile allo sviluppo, provocando il sorgere di nuove iniziative e la migrazione di manodopera dalle campagne ai centri urbani. 41 F. Mezzetti, Da Mao a Deng, Corbaccio, Milano 1995, pp. 282-4.
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Questa generale effervescenza economica non era naturalmente priva di risvolti. In primo luogo la formazione di fenomeni speculativi e impulsi inflazionistici anche di rilievo, col malessere sociale che ne derivava; molti dirigenti di partito e i loro figli inoltre furono coinvolti, in forma palese od occulta, nelle nuove iniziative economiche, o in altri casi vi si inserirono attraverso la percezione di tangenti e altre forme di guadagno illecito. Tali fenomeni davano origine a effetti contraddittori: irrigidimenti della vecchia guardia da un lato e richieste di una maggior libertà di stampa e di espressione critica secondo il modello occidentale dall’altro, determinando tensioni entro il partito e facendo entrare in urto i giovani con la direzione. Fra l’’86 e l’’87 ebbero luogo manifestazioni in varie città, che raggiunsero anche il centro della capitale e provocarono una pronta reazione del partito che, pur incamminato sulla via delle riforme economiche, era ben attento a non perdere il monopolio politico42. In seguito a tali eventi Hu Yaobang fu retrocesso, perdendo la segreteria del partito. Al suo posto andò Zhao Ziyang, aprendo la strada per la presidenza del consiglio ad Jiang Zemin. Il XIII congresso, che formulò questi mutamenti di vertice, si mantenne tuttavia saldamente sulla linea delle riforme economiche. Venne teorizzata l’idea che la Cina si trovava in uno stadio elementare del socialismo e che il compito prioritario, per un lungo periodo, era quello di sviluppare le forze produttive. Il settore pubblico e quello privato venivano considerati complementari e lo stato avrebbe dovuto limitarsi a governare la sfera macroeconomica anziché intervenire nella gestione delle imprese, che doveva diventare sempre più privatistica e finanziata attraverso il mercato azionario e obbligazionario. Entro tale cornice politica i prezzi furono ulteriormente liberalizzati, determinando conseguentemente un accentuarsi dell’inflazione, che negli anni immediatamente seguenti portò ad un sensibile rallentamento delle riforme43. Le circostanze tese facevano riemergere le contrapposizioni già viste in atto qualche anno prima, tra i conservatori e i critici, capeggiati da studenti sempre più insoddisfatti. Lo scontro si riaccese nell’aprile ’89, in occasione della morte di Hu Yaobang che diede luogo a imponenti manifestazioni di cor42 Ivi, pp. 311-6 e pp. 326-31. 43 Ivi, pp. 332-46.
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doglio le quali, contrastate in modo incerto, crebbero fino a divenire uno scontro frontale tra gli studenti e il potere. Questo scontro culminò in piazza Tian’anmen tra maggio e giugno e fu risolto solo con l’intervento dell’esercito. Dal punto di vista politico questa svolta significò la caduta di Zhao e dei dirigenti a lui vicini e la corrispondente ascesa come segretario del partito di Jiang Zemin, con un peso maggiore riservato ai militari che avevano condotto la repressione44. Nell’immediato la crisi del biennio ’87-’89 portò ad un atteggiamento ufficiale di chiusura sia sul piano economico che politico: come è stato scritto, lo stretto binomio che emerse dalla crisi della primavera del 1989 [controllo ideologico e austerità…] risultò egemone […]; inoltre, la crisi del 1986-87, prima, e quella del 1989, poi, ebbero l’effetto di annullare qualsiasi residua speranza di riforma del sistema politico, anche parziale, come avrebbero dimostrato gli eventi successivi.45
Le tensioni di quegli anni furono guardate dal gruppo dirigente cinese anche con l’occhio rivolto verso quello che avveniva in URSS (non si dimentichi che la crisi di Tian’anmen si verificò proprio in occasione della visita di Gorbačëv in Cina, con cui L’URSS stava lentamente ricucendo i rapporti). La stretta finale delle vicende sovietiche tra l’’89 e il ’91 fu considerata con apprensione, rischiando di bloccare definitivamente il processo di riforma. Lo stesso Deng, ormai formalmente fuori dal gioco istituzionale ma ancora notevolmente influente sul piano politico in qualità di ispiratore delle riforme, si trovava in una posizione esposta ad attacchi. Per uscire dallo stallo, in vista del congresso del PCC che si sarebbe tenuto entro l’anno, all’inzio del ’92 Deng intraprese un viaggio nella Cina meridionale, proprio in quelle zone nelle quali le riforme erano andate più a fondo, per constatare di persona ed asseverare con la propria autorevolezza l’opportunità della politica di trasformazione e gli effetti di benessere che essa aveva comportato. La visita rappresentava un’implicita prova di forza con quei settori del partito che ostacolavano l’apertura economica, nella quale Deng riuscì – anche con l’appoggio degli alti gradi dell’esercito – ad imporsi46. 44 Per la cronaca della rivolta cfr. ivi, pp. 350-90. 45 G. Samarani, op. cit., p. 344. 46 F. Mezzetti, op. cit., p. 411.
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Il XIV congresso ribadì la prevalenza della nuova impostazione, ossia il passaggio ad una “economia socialista di mercato” in cui lo stato si limitava alla regolazione generale dell’economia ma imponeva sempre più alle imprese di seguire criteri privatistici di gestione. Le imprese, pubbliche e private, vennero trasformate in società per azioni, con una legislazione che ne definiva le diverse tipologie; l’orientamento del potere centrale divenne progressivamente quello di privatizzare per quanto possibile le piccole imprese (cedendole a dipendenti, dirigenti o soggetti esterni) e mantenere partecipazioni dominanti solo in alcuni settori strategici (XV congresso, 1997)47. Il ruolo del settore privato dell’economia venne sempre più riconosciuto e il governo (2003) decise di concentrare la propria attenzione solo su un gruppo di 196 importanti imprese statali, di cui andava garantita l’affermazione internazionale. Anche il sistema bancario venne modernizzato, superando il vecchio modello delle poche grandi banche di stato e favorendo la crescita di una varietà di istituti bancari aperti anche al capitale estero. L’industria manifatturiera cinese divenne il cuore dell’apertura del paese, che a fine secolo aveva ormai un commercio internazionale dell’ordine del 40% del PIL. L’evoluzione fu evidente anche a livello qualitativo, dove all’iniziale prevalenza di settori come l’abbigliamento e i semilavorati si sostituì gradualmente una specializzazione legata all’elettronica di consumo, alle telecomunicazioni, all’informatica etc Il forte aumento delle esportazioni cinesi era certamente da connettere agli investimenti diretti stranieri, ma va notato che anche gli investimenti cinesi all’estero cominciarono a crescere, in parte per procurare risorse naturali ed energetiche sempre più necessarie, in parte per trasferire produzioni mature o cercare mercati di sbocco48. 47 Nel periodo successivo a quello che abbiamo considerato i leader cinesi furono Hu Jintao come segretario del PCC e Zhu Rongji e Wen Jiabao come primi ministri. 48 Sull’insieme di queste trasformazioni si vedano p. es. S. Chiarlone, A. Amighini, L’economia della Cina. Dalla pianificazione al mercato, Carocci, Roma 2007, pp. 28-81 e F. Lemoine, L’economia cinese, Il Mulino, Bologna 2005, pp.25-74. Per un esame del caso cinese in relazione al complesso delle economie asiatiche si veda M. Schuman, Il miracolo, Tropea, Milano 2010, pp. 144-73 e V. Castronovo, Un passato che ritorna, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 193-201.
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Esaminato in prospettiva storica, il corso delle riforme economiche cinesi rivela sostanziali differenze dal caso sovietico. Nell’URSS, dove all’inizio degli anni Ottanta l’economia era giunta ad uno stato di tendenziale stagnazione, si scelse di partire dalla revisione del ruolo del PCUS e dai suoi rapporti col sistema politico. Questo paralizzò la già sfibrata economia di piano, alla cui crisi era difficile rispondere con le traumatiche alternative degli ultraliberisti, e rese esplosive le tensioni nazionalistiche, generando una crisi irreversibile. Nel caso cinese le riforme economiche furono graduali e cominciarono dall’agricoltura, facendo in modo che le tensioni sociali che inevitabilmente l’apertura all’esterno avrebbe generato non trovassero un retroterra esplosivo49. Nonostante alcune pericolose oscillazioni nei momenti di crisi, il partito comunista riuscì a mantenere saldamente il controllo del potere e a inserire, gradualmente ma in modo metodico, una quantità crescente di elementi di mercato nel tessuto economico del paese. Mentre per l’ex Unione Sovietica l’ultimo decennio del secolo rappresentò una confusa transizione al capitalismo privato in un clima di marasma economico, in Cina esso significò la svolta definitiva verso lo sviluppo. Quest’ultimo naturalmente aveva ed ha tuttora le sue tare, fatte di squilibri economici tra le varie zone del paese, inquinamento, debolezze del sistema finanziario e corruzione, ma aveva ormai instradato la Cina verso una una posizione di primo piano nell’economia mondiale50. 9.5 Finanza e capitalismo di fine secolo Le trasformazioni delle economie socialiste di cui abbiamo cercato di dar conto si è delineato nel trapasso tra il Novecento e il nostro secolo. Questo stesso periodo, tuttavia, è stato denso di eventi anche per il capitalismo mondiale. In particolare, gli Stati Uniti sono stati la culla di un nuovo modello di economia capitalistica 49 Come ha scritto Thurow, “gli shock sui salari e un’elevata disoccupazione sono ben più semplici da fronteggiare se c’è cibo in abbondanza”. L. C. Thurow, Giappone oltre la crisi, Il Sole 24 H, Milano 1999, p. 81. 50 G. Allison, op. cit., pp. 33-63 e pp. 181-218.
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basato sui nuovi assetti della finanza internazionale e sui nuovi criteri neoliberali di governo dell’economia. Il neoliberismo, fondato sul presupposto di liberare la valorizzazione della ricchezza da ogni vincolo di natura sociale e istituzionale, aveva avuto le sue radici negli anni Trenta e Quaranta e si era gradualmente fatto strada in varie teorie messe a punto dagli economisti di professione51, ma non giunse ad imporsi se non negli anni Settanta, quando le tecniche di controllo dell’economia basate sulle impostazioni keynesiane sembrarono perdere definitivamente la loro efficacia. Mentre si accresceva il disordine economico mondiale, il fronte neoliberale, arricchito di nuove componenti e centri di irradiazione, accresceva la propria penetrazione entro l’opinione pubblica e questo permise che si verificassero pressoché simultaneamente due svolte decisive. Nel vecchio continente il definitivo cambiamento di rotta si verificò nel contesto nazionale e culturale della Gran Bretagna tathcheriana, dopo il 1979; negli Stati Uniti esso sopravvenne poco più tardi, con l’elezione a presidente di Ronald Reagan (1980)52. Due fenomeni, in particolare, affrettarono la svolta in questa direzione. Il primo e più evidente era dato dalla sempre più difficile governabilità delle relazioni economiche interne e internazionali, che sembrava delegittimare definitivamente i modelli di regolazione keynesiani. Non meno importante, tuttavia, era la volontà di invertire la tendenza alla distribuzione del reddito favorevole al lavoro, fattasi sensibile nell’ultimo decennio e che in un periodo di durevoli difficoltà economiche diventava sempre meno accettabile per le grandi concentrazioni industriali e finanziarie53: queste ultime puntavano dunque a ridar vigore all’iniziativa privata, in modo da ribaltare i rapporti di forza sul mercato del lavoro ed ottenere un 51 P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma, 2013; sui progressi della nuova visione nella professione economica cfr. B. Applebaum, Il tempo degli economisti, Hoepli, Milano 2021. 52 Sulla politica della Thatcher, che non trattiamo in questo paragrafo, si veda C. Magazzino, La politica economica di Margaret Tatcher, Angeli, Milano 2010. 53 L’inversione di tendenza nella distribuzione del reddito nel corso degli ultimi decenni è ormai un fenomeno largamente ammesso. Si veda p. es. Reich, op. cit., pp. 117-135 e D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Milano 2007, p. 24. La più organica ricerca su questo fenomento è comunque quella di Piketty, T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014.
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trattamento fiscale più favorevole. L’influenza delle dottrine neoliberali si dimostrò ben presto pervasiva, anche al di fuori del mondo anglosassone. Il modo in cui esse si tradussero nel contesto statunitense, tuttavia, illustra bene l’impatto globale della nuova visione. Il programma con cui Reagan inaugurò la propria presidenza – ispirato a un mix eclettico di offertismo e monetarismo – prevedeva un rilancio dell’economia basato sulla deregolamentazione e la riduzione delle imposte; questa accelerazione avrebbe dovuto fornire risorse sufficienti ad incrementare le spese militari necessarie ad accrescere la potenza del paese e a riportare il bilancio in pareggio senza intaccare in modo significativo le spese sociali54. Si trattava di un insieme di progetti molto ambizioso, che trovò ben presto ostacoli in sede di realizzazione. I tagli fiscali, infatti, fecero sentire il proprio effetto immediato sul bilancio federale, gravato dalle accresciute spese militari senza che nel contempo si riuscisse a risparmiare con decisione su altri versanti. Il risultato fu un deficit imprevisto, ossia un’espansione basata su un involontario keynesismo. La FED allora diretta da Volcker, orientata verso un deciso sforzo mirante a domare l’inflazione, nell’’80 alzò considerevolmente i tassi, che vennero mantenuti eccezionalmente elevati fino a tutta la seconda parte dell’’81, per poi lasciarli scendere solo molto gradualmente nel corso dell’anno successivo55. Il dollaro accrebbe di conseguenza la propria quotazione (una tendenza che proseguì anche negli anni seguenti), creando difficoltà alle esportazioni che già risentivano del rallentato incremento della produttività in atto dal decennio precedente. L’inflazione fu indubbiamente ridimensionata, ma nell’’82 al posto dell’attesa crescita si era avuta una sensibile recessione. Nell’anno successivo una serie di fattori (allentamento monetario, moderazione salariale derivata dalla recessione, persistenza del deficit di bilancio) portarono a un’inversione del ciclo economico, determinando un biennio di crescita sostenuta, a cui seguì un’espansione più lenta negli anni del secondo mandato di Reagan. 54 Cfr. in generale E. Sassoon, L’economia americana dopo cinque anni di di “reaganomics”, in Aa.Vv., America oltre il boom, Edizioni Sole 24 Ore, Milano, 1986, pp. 13-131. 55 G. Vaciago, Politica monetaria: alla ricerca della stabilità, in Aa.Vv. America, cit., pp. 144-57 e 163-6.
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Si trattava tuttavia di uno sviluppo caratterizzato da alcune distorsioni durevoli, che da allora si consolidarono, divenendo tipiche dell’economia statunitense. Innanzitutto all’elevato deficit pubblico si accoppiò un deficit strutturale della bilancia dei pagamenti, che non venne sufficientemente corretto nemmeno dall’abbassamento del valore del dollaro a partire dall’’85. Le trasformazioni di cui si è appena detto inauguravano una svolta storica in cui si consolidavano due deficit gemelli (commerciale e del bilancio pubblico), che dovevano essere finanziati da un flusso di capitali esteri, la cui entità in breve giunse ad annullare l’attivo netto degli investimenti all’estero accumulato in precedenza e a fare degli Stati Uniti il maggior debitore mondiale. Nel frattempo molti rami produttivi si ridimensionavano in modo tangibile e l’occupazione industriale cessava praticamente di crescere, subendo una severa ristrutturazione geografica, accompagnata da una riduzione del potere dei sindacati; il grosso dell’occupazione prodotta dall’espansione dell’era Reagan venne creato invece nel settore dei servizi (un aggregato composito di occupazioni, che andava dai servizi finanziari e medici ad altre molto meno qualificate come i fast food o la distribuzione)56. In generale, nel corso degli anni Ottanta gli Stati Uniti videro accrescersi il ruolo dei mercati finanziari: all’aumento dell’incertezza economica interna e internazionale, infatti, si accoppiava la svolta connessa alla deregulation e alla ricerca, da parte degli operatori finanziari, di nuove opportunità di guadagno. I fondi pensione accrescevano la loro presenza in borsa, mentre – anch’essa legittimata dalla nuova legislazione – decollava un’ondata di acquisizioni e fusioni spesso promosse aggressivamente tramite i leveraged buyout finanziati col debito-spazzatura (junk bond)57; dal canto suo la borsa – se si eccettua la momentanea frenata dell’’87 – proseguì nel suo trend ascendente. Già dalla fine degli anni Ottanta, dunque, una osservazione attenta poteva constatare che la svolta dell’era neoliberale era andata in parallelo alla crescita della componente finanziaria nell’economia degli Stati Uniti.
56 Sulla società statunitense a cavallo tra anni Ottanta e Novanta si veda M. Sylvers, Gli Stati Uniti tra dominio e declino, Editori Riuniti, Roma, 1999. 57 E. Chancellor, Un mondo di bolle, Carocci, Roma, 2000, pp. 235-251.
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Conseguenza di tutto ciò era un importante mutamento nel modello di sviluppo che riguardava le relazioni esterne degli Stati Uniti. Abbiamo appena visto infatti come il sintomo forse più vistoso della decadenza statunitense fossero i deficit gemelli del bilancio statale e dei conti esteri, a fronte dei quali si poneva il flusso di capitali, in gran parte di provenienza asiatica, necessari a compensare lo squilibrio appena evidenziato. In modo molto calzante Yanis Varoufakis ha sottolineato come sia proprio questo drenaggio divoratore di risorse, immaginificamente definito “Minotauro globale”, che ha alimentato nei decenni recenti la crescita della domanda mondiale, in particolare per paesi come Germania, Giappone e più recentemente Cina, che sono stati storicamente contraddistinti da forti surplus commerciali58. La finanziarizzazione, tuttavia, portava anche ad un altro mutamento significativo del modello di sviluppo, questa volta interno e riguardante il mondo delle relazioni sociali incardinate sull’impresa. Fondata – come abbiamo visto – sul presupposto di liberare la valorizzazione della ricchezza da ogni vincolo di natura sociale e istituzionale, la nuova fase del capitalismo affidava alla finanza in tutte le sue forme (banche sempre più “universali”, assicurazioni, borse etc) il compito di spostare le risorse verso gli impieghi più promettenti, fluidificando le capacità operative del mercato concepito come unico orizzonte della razionalità economica. Neoliberismo e finanziarizzazione procedono dunque di pari passo. La caratteristica determinante del modello di accumulazione impostosi negli ultimi decenni del Novecento consiste in una nuova configurazione delle funzioni del management e dei rapporti fra proprietà e controllo delle imprese molto diversa rispetto a quella che si era imposta nei decenni precedenti. Il periodo di affermazione della produzione di massa aveva necessitato di un lungo sforzo di formazione del management e di strutture direttive adeguate. La creazione di grandi unità economiche e la gestione dei loro processi di diversificazione avevano certamente richiesto la mobilitazione di risorse e un conseguente 58 Y. Varoufakis, Il minotauro globale, Spider & Fish, 2016, pp.106-28. Un’interessante messa a fuoco dei problemi legati ai surplus e ai deficit strutturali a livello mondiale è in M.C. Klein, M. Pettis, Le guerre commerciali sono guerre di classe, Einaudi, Torino 2021, pp. 104-234.
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impegno finanziario, ma l’attenzione prioritaria era rimasta focalizzata sui problemi della produzione. Mentre col tempo veniva meno l’influenza esterna delle banche e dei grandi finanzieri, la proprietà entrò in una progressiva sinergia col management, il quale acquistò un proprio spazio operativo specifico. Questa assunzione di una fisionomia e di un ruolo specifici da parte del management a suo tempo fu enfatizzata in modo improprio dalla letteratura sul capitalismo manageriale, che a partire da essa teorizzò una sostanziale scomparsa del ruolo della proprietà nelle grandi imprese59. I primi decenni del secondo dopoguerra, durante i quali i mercati rimasero stabili e in espansione, non richiesero mutamenti sostanziali nell’assetto che si era creato nel periodo precedente, che divenne un connotato durevole nelle economie a capitalismo avanzato. La situazione cambiò a partire dagli anni Settanta-Ottanta, per l’aumento dell’instabilità economica e per il peso crescente – in particolare nel mondo anglosassone – degli investitori istituzionali60. Questi ultimi, la cui rilevanza era aumentata anche per effetto dei sistemi pensionistici ad accumulazione, acquisivano titoli – e quindi anche quote di proprietà delle imprese – con un criterio differente dagli investitori del passato. Nella sua nuova forma, assunta attraverso i fondi di investimento, la proprietà mutava il proprio criterio di interessamento alla vita dell’impresa, intervenendo in essa non per diretta conoscenza dei progetti e delle imprese, ma secondo modelli di gestione del rischio basati sul calcolo delle probabilità e sulla diversificazione dei rischi e seguendo giorno per giorno le evoluzioni dei mercati finanziari.61
Il management rimaneva titolare della gestione ordinaria delle società, ma la sua azione subiva ora un vincolo finanziario di ordine esterno che ne modificava almeno in parte la natura; come è stato scritto, rispetto al passato “i nuovi superdirigenti invece hanno competenze di altra natura: sono degli strateghi dell’alta finan-
A. Berle, G. Means, Società per azioni e proprietà privata, Einaudi, Torino 1966; J. Burnham, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 60 Una interessante panoramica delle forze e degli interessi in gioco è in L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino, 2009, pp. 7-79. 61 S. Andriani, L’ascesa della finanza, Donzelli editore, Roma, 2006, p. 23. 59
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za”62. Si verificava, in altri termini, quello che è stato giustamente definito come il passaggio da un capitalismo manageriale produttivista ad un capitalismo manageriale azionario63. La nuova configurazione delle forze fondamentali della direzione di impresa andava in parallelo ad una visione della governance societaria elaborata gradualmente nel corso di decenni64 e perfettamente allineata all’ortodossia neoliberista ormai dominante. L’idea fondamentale che sta alla base della nuova concezione considera l’impresa non un’organizzazione complessa che deve contemperare, oltre agli interessi di azionisti e manager, quelli di lavoratori, comunità locali, fornitori etc., ma una rete di contratti, il più determinante dei quali è quello sussistente tra manager e azionisti; l’impresa deve innanzitutto creare valore per gli azionisti e il compito del management consiste nel perseguire prioritariamente questo obiettivo, eliminando ogni ostacolo che si interpone su questa strada65. Gli obiettivi finanziari fissati dagli investitori istituzionali che controllano le imprese sono di regola molto elevati, decisamente superiori a quelli ottenibili in base al solo sviluppo dell’economia reale; conseguentemente le imprese esercitano una costante pressione verso i lavoratori, assunti spesso con contratti a breve termine ed esclusi da ogni partecipazione ai guadagni di produttività, verso le singole filiali e/o i fornitori, al fine di rispondere a tali vincoli di redditività66. Consegue da ciò una spinta strutturale verso il contenimento delle retribuzioni, la delocalizzazione e lo sviluppo di catene di fornitura globali67. Il top management è stato coinvolto in questo tipo di logica sia facendo pesare su di esso minacce di licenziamento e/o di acquisizioni ostili, sia, di regola, vincolando la sua retribuzione a parametri legati all’incremento di valore delle azioni (stock options), gratifiche e indennità di licenziamento milionarie, di fronte alle quali lo stipendio vero e proprio rappresenta una quota nettamente mi62 A. Casiccia, Il trionfo dell’élite manageriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.117. Cfr. anche S. Andriani. op. cit., pp.161-75. 63 L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005, p. 47. 64 Ivi, pp. 116-8. 65 L. Gallino, Con i soldi degli altri, cit., pp. 108-9. 66 Ivi, pp.116-8. 67 A. Glyn, op. cit., pp. 94-8; L. Gallino, L’impresa irresponsabile, cit., pp. 118126. Cfr. anche S. Andriani, op. cit., pp. 151-61.
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noritaria. Questo tipo di incentivi in primo luogo ha aumentato la diseguaglianza dei redditi, portando la retribuzione complessiva dei top manager a rappresentare multipli dell’ordine di alcune centinaia di volte rispetto ai dipendenti di basso livello; in secondo luogo, inoltre, ha potentemente interessato il top management delle grandi imprese a tutte le operazioni (ristrutturazioni, tagli oppure fusioni e altre alchimie finanziarie) in grado di accrescere, anche soltanto nel breve termine, le valutazioni del capitale azionario da parte dei mercati; tale scopo è stato ottenuto sia attraverso mezzi leciti, sia – in varie occasioni che hanno avuto clamorosi risvolti di cronaca all’inizio degli anni 2000 – tramite la spregiudicata manipolazione della contabilità aziendale68. Il nuovo modello di relazioni economiche non soltanto ha avuto effetti pervasivi a livello sociale, ma ha prodotto modifiche strutturali nelle relazioni economico-istituzionali degli Stati Uniti. Innanzitutto, la rottura del patto sociale dei primi decenni del dopoguerra, che manteneva un legame tra crescita delle retribuzioni e della produttività, si è tradotta in un forte indebolimento delle condizioni contrattuali dei lavoratori e, in seguito alla stagnazione salariale, anche in un tendenziale contenimento della dinamica dei consumi di massa69. Analoghe limitazioni nello sviluppo della domanda sono derivate dal versante dei rapporti esterni dell’economia statunitense. Il deficit commerciale praticamente irreversibile si è tradotto nella spesa di una parte crescente del reddito verso l’estero, così come lo sviluppo di nuove catene di fornitura globale ha peggiorato le condizioni del mercato del lavoro all’interno e ridotto per questa via lo sviluppo del potere d’acquisto del lavoratori. Per vie diverse, 68 Sui casi più clamorosi cfr. J. Stiglitz, I ruggenti anni Novanta, Einaudi, Torino 2004, pp. 109-34 e pp. 235-60. 69 “Se si accelerano i processi di liberalizzazione e si rendono pienamente trasferibili i capitali, si crea un’asimmetria nei rapporti capitale-lavoro a favore dei capitali. La effettiva possibilità di spostamento delle persone è infatti effettiva molto più difficile di quella dei capitali, che possono spostarsi anche con una semplice telefonata. Inoltre i lavoratori si muovono prevalentemente da paesi a basso reddito verso quelli più ricchi ed esercitano una pressione al ribasso sulle retribuzioni. Oggi poi si tende a dare in outsourcing a paesi emergenti attività di servizio anche specializzate. Anche l’importazione di manufatti da paesi a bassissimo costo del lavoro esercita una pressione negativa sulle retribuzioni dei paesi avanzati”. S. Andriani, op. cit., p. 107.
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dunque, si è prodotto un analogo effetto di debolezza della domanda. Quest’ultima, infine, è stata accentuata dal fatto che la globalizzazione, spostando gli investimenti sempre più verso l’estero, tende a contrarre la spesa per investimenti interni, riducendo redditi e competitività70. Nel sistema, in definitiva, agiscono in misura crescente forze che tendono a far ristagnare la domanda e che richiedono l’entrata in gioco di fattori compensativi. Questi ultimi vengono forniti dallo sviluppo stesso della finanziarizzazione. Nel giro di pochi decenni, oltre al debito estero, sono aumentati simultaneamente il debito delle famiglie e delle imprese, soprattutto nel campo finanziario, e quello dello stato: il debito è dunque divenuto la vera e propria locomotiva trainante dell’economia statunitense. Il quadro che abbiamo tracciato, costruito sugli Stati Uniti in quanto paese leader dell’economia mondiale, non ha naturalmente pretese esaustive. La fenomenologia del capitalismo attuale viene declinata in contesti istituzionali molto differenti, nei quali cambiano aspetti significativi del modello di sviluppo e della struttura della domanda (si pensi alla componente export-led che in momenti e con modalità differenti ha caratterizzato Giappone e Germania), della governance societaria, dei rapporti fra economia e ricerca scientifica etc. Al di là delle differenze, sulle quali sarà opportuno tornare in altra sede, crediamo tuttavia che il modello comune di fondo del quale abbiamo individuato i contorni contribuisca a ricostruire la dinamica degli eventi più vicini ai nostri giorni. 70 T.I. Palley, From Financial Crisis to Stagnation, Cambridge University Press, New York, 2012, pp. 34-43. Foster e Magdoff (J. B. Foster, F. Magdoff, Tre great financial crisis, Montly Review Press, New York, 2009, pp. 105-8) criticano Palley per il suo modo di considerare la stagnazione come prodotto della finanziarizzazione anziché delle tendenze profonde del capitalismo. L’osservazione può avere certamente una parte di verità, ma bisogna tener conto che è poco accettabile – all’opposto – anche considerare il capitalismo monopolistico come affetto da una tendenza immanente al sottoconsumo tamponata solo da temporanee controtendenze. Pur rendendoci conto che anche la nostra affermazione andrebbe motivata e circostanziata meglio, ci limitiamo a far rilevare che sarebbe più opportuno studiare ogni fase del capitalismo in base alle dinamiche che le sono proprie. In particolare, ci sembra difficile negare la specificità della lunga espansione posteriore al secondo dopoguerra e considerarla una semplice eccezione o controtendenza a un sottoconsumo immanente.
10. L’INCERTO DESTINO DELL’EUROPA
10.1 Il mondo bipolare In senso generale, l’assetto politico-territoriale con cui si concluse il secondo conflitto mondiale conteneva molti presupposti di quella che sarebbe divenuta di lì a poco la “guerra fredda”. Gli Stati Uniti avevano ormai assunto il ruolo di grande potenza a livello planetario, ma l’Unione Sovietica, a dispetto dell’enorme emorragia di uomini e mezzi cui era stata sottoposta nel corso della guerra, aveva a sua volta conseguito un’influenza di assoluto rilievo, territorialmente meno ramificata ma con il sostegno di un robusto apparato militare e rilevanti vantaggi strategici potenziali. La zona di influenza sovietica, infatti, costituiva un blocco euroasiatico continuo che andava dalla linea Oder-Neisse fino alla Siberia e al Pacifico settentrionale, la cui collocazione poteva condizionare gli sviluppi politico-territoriali dei Balcani, del Medio Oriente e della Cina1. È evidente che tale configurazione dei rapporti geopolitici era implicitamente gravida di una forte tensione, ma quest’ultima si tradusse in atto solo in seguito a una serie di conflitti particolari che nel corso di pochi anni logorarono il clima di collaborazione creatosi durante la guerra. Alla base della rottura vi furono soprattutto due ordini di problemi. Il primo fu costituito dalla gestione dell’occupazione – congiunta, ma divisa in quattro zone – della Germania. I Sovietici pensavano di poter attingere riparazioni sia dalla propria zona di occupazione sia dalle altre, ma in breve questa visione fu rifiutata da Statunitensi e Britannici, i quali non intendevano sussidiare l’economia tedesca per un lungo periodo e pensavano invece che le riparazioni dovessero essere liquidate da una economia tedesca entrata in una fase di ripresa autonoma. Da 1
E. Di Nolfo, op. cit., pp. 610-1.
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parte degli occidentali, quindi, si concretizzò abbastanza presto l’idea che il futuro del paese si sarebbe dovuto giocare sulla base della separazione di due Germanie. Il possesso statunitense della bomba atomica fu il secondo grande fattore che alimentò le tensioni. L’URSS, infatti, reagì da un lato intensificando il proprio programma atomico e dall’altro preoccupandosi di non mostrare cedevolezza verso le iniziative degli Stati Uniti. Ne seguì un irrigidimento sovietico sia all’interno del paese che negli stati dell’Europa orientale sottoposti all’influenza dell’URSS, le cui istituzioni politiche vennero rudemente omologate al modello sovietico, mentre gli stessi partiti comunisti venivano irregimentati e richiamati a mantenere una linea più rigida (Cominform)2; a questi sviluppi si accompagnò un altrettanto marcato atteggiamento di ferma contrapposizione da parte statunitense. I conflitti tra i due campi, che fin dal ’46 si erano moltiplicati lungo un’ampia fascia territoriale (Grecia, Turchia, Iran), si inasprirono ulteriormente nell’anno seguente, soprattutto in relazione al lancio del piano Marshall. Quest’ultimo obbediva agli scopi congiunti di rilanciare l’economia mondiale nel quadro di un sistema multilaterale di rapporti di mercato e di sostenere le economie di quegli stati europei che, a causa della precarietà delle loro condizioni sociali, rischiavano di cadere sotto l’influenza sovietica. Quando fu evidente che si prospettava l’inclusione nel piano Marshall della Germania occupata dagli occidentali e di paesi orientali come Cecoslovacchia e Polonia, l’Unione Sovietica costrinse queste ultime a recedere. Poco più tardi, mentre si profilava un’alleanza europea occidentale che includeva Gran Bretagna, Francia e Benelux (trattato di Bruxelles), i Sovietici reagirono mettendo in atto per quasi un anno la prova di forza del blocco di Berlino, dalla quale uscirono sconfitti. Nel ’49, nel momento in cui prendeva vita la NATO, Germania occidentale prima e orientale poco dopo venivano erette in entità politiche autonome3. Il cuore dell’Europa, di conseguenza, veniva 2 3
L. Nagy, Democrazie popolari. 1945-1968, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 70-121; W. Hitchcock, Il continente diviso. Storia dell’Europa dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2003, pp. 129-61. Su tutta la vicenda si veda p. es. F. Romero, Storia della guerra fredda, Einaudi, Torino 2009, pp. 17-72, J.L. Harper, La guerra fredda, Il Mulino,
L’incerto destino dell’Europa341
attraversato da due blocchi politici contrapposti, la cui antitesi era destinata a estendersi ad altre aree geografiche con la rivoluzione in Cina e la guerra di Corea. Fra essi non vi era stato scontro militare aperto, ma si era determinata una intransigente opposizione reciproca ad ogni livello, dall’organizzazione economica a quella politica e ideologica. Il primo periodo della “guerra fredda” fu quello che vide il consolidamento dei blocchi politico-militari contrapposti. Esso fu particolarmente delicato soprattutto in Europa centrale, la quale, a causa del carattere atipico della situazione tedesca, fu tra le aree di maggior attrito del periodo. L’incipiente contrasto con l’URSS, infatti, pose l’Occidente nella necessità di rimettere in gioco la Germania in funzione antisovietica, superando la minorità diplomatica a cui essa era stata inizialmente vincolata e le diffidenze francesi connesse ai pregressi rapporti storici fra le due potenze. L’esigenza di reinserire la Germania nel gioco politico-militare derivò dal fatto che dopo il ’50, allorché i sovietici avevano ormai sperimentato l’arma atomica ed era scoppiata la guerra in Corea, alla difesa degli alleati europei da parte degli USA non era più sufficiente soltanto una generica superiorità militare, ma lo schieramento di rilevanti forze convenzionali nell’Europa centrale, cosa che richiedeva necessariamente una attiva presenza militare tedesca. Il modello a cui si pensò ricalcava quello con cui si era dato vita al primo esempio di collaborazione sovranazionale a livello economico, attraverso la creazione dell’autorità europea per il settore carbosiderurgico (CECA, 1951). Il progetto della CED (Comunità Europea di Difesa) prevedeva un esercito europeo fondato su contingenti integrati dei sei paesi aderenti4,, il quale avrebbe dovuto coesistere con i singoli eserciti nazionali, tranne che per la Germania, che avrebbe invece disposto solo delle forze militari conferite alla CED. Sebbene il relativo trattato, sottoscritto nel ’52, non fosse mai andato in vigore poiché due anni più tardi non fu ratificato dalla Francia, dove si era fatta sentire l’opposizione di un insieme ete-
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Bologna 2013, pp.81-101, T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 129-92. I paesi erano gli stessi che avevano dato origine alla CECA: Francia, Germania, Italia, Bergio, Olanda, Lussemburgo.
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rogeneo di forze nazionaliste e di sinistra5,, il progetto andò avanti comunque. Lo scopo di riarmare la Germania fu raggiunto infatti nello stesso anno (1954) riformulando il trattato di Bruxelles e fondando l’Unione Europea Occidentale, con scopi di collaborazione politico-culturale e militare, nella quale furono incluse Italia e Germania (i cui armamenti vennero sottoposti a controlli e limitazioni). Pressoché contemporaneamente la Germania entrò nella Nato, mentre l’Unione Sovietica e i paesi della sua sfera d’influenza, già legati all’URSS da patti bilaterali, risposero a stretto giro con la formazione del patto di Varsavia. Una caratteristica fondamentale dei rapporti fra i due blocchi e dell’assetto politico-territoriale europeo nel corso degli anni Cinquanta-Sessanta fu la loro sostanziale stabilità, cosa tanto più notevole se si pensa che la vita dei paesi del blocco orientale fu punteggiata da una serie di crisi interne. L’imposizione di regimi basati sulle esigenze sovietiche, infatti, moltiplicava in quei paesi le tensioni sociali e politiche che, sebbene in forme diverse, si manifestarono in modo ricorrente. Nel ’53 il tentativo di peggiorare le condizioni materiali della popolazione portò alla rivolta di Berlino; nel ’56, poco dopo il XX Congresso, rivolte popolari duramente represse portarono in Polonia alla caduta di Ochab, rimpiazzato da Gomulka, mentre alcuni mesi più tardi la rivolta ungherese provocò la sostituzione di Rákosi con Gerö e l’ascesa al governo di Nägy, che ventilò l’uscita dal Patto di Varsavia e provocò in tal modo l’intervento sovietico; nel ’61 il cospicuo deflusso migratorio da Berlino Est indusse Chruščëv a permettere la costruzione del muro di Berlino, mentre nel ’68 l’esperimento liberalizzatore cecoslovacco fu stroncato dalla repressione sovietica. In nessuna di queste crisi, che pure denunciavano evidenti problemi di tenuta del blocco orientale al punto di richiedere per due volte l’intervento armato esterno (Ungheria, Cecoslovacchia), vi fu tuttavia il tentativo occidentale di forzare la massiccia compagine militare che sosteneva la sfera di influenza sovietica6. Mentre il quadro europeo si manteneva sostanzialmente stabile, una situazione potenzialmente più fluida sembrava delinearsi nei 5 6
F. Romero, op. cit., pp. 93-102. Cfr. L. Nagy, op. cit., pp. 153-249, pp. 265-8, pp. 382-406; W. Hitchcock, op. cit., pp. 246-73.
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paesi periferici7. Verso la metà degli anni Cinquanta si assistette ad una serie di eventi destinati a divenire punti di riferimento simbolici: nel ’54 (anno che coincise con l’inizio della guerra d’Algeria) la Francia dovette abbandonare il Vietnam, nel ’55 si tenne la conferenza di Bandung, dominata da un’atmosfera anticolonialistica e di non allineamento, mentre nel ’56 la crisi di Suez dimostrò il logorio delle vecchie forme di dominio coloniale rappresentate soprattutto da Gran Bretagna e Francia. L’evento prese forma allorché l’Egitto nasseriano entrò in urto con Gran Bretagna e Stati Uniti, che avrebbero dovuto finanziare la costruzione della diga di Assuan. La risposta immediata di Nasser fu quella di nazionalizzare il Canale di Suez, attraverso il quale passava gran parte del traffico petrolifero destinato all’Europa Occidentale. Gran Bretagna e Francia reagirono con durezza, architettando un’operazione che avrebbe preso spunto da un attacco israeliano all’Egitto e che avrebbe legittimato un intervento franco-britannico volto in apparenza a separare i contendenti, ma in realtà finalizzato a mettere sotto controllo il Canale. Si trattava di un’azione di forza dai connotati imperialistici, che avrebbe avuto un senso nell’epoca di maggior autorevolezza delle potenze europee ma che era fuori delle loro possibilità del momento. Mentre anche l’Unione Sovietica minacciava di intervenire contro gli aggressori, gli Stati Uniti, timorosi di una possibile opposizione araba generalizzata, condannarono la mossa azzardata, esercitando pressioni economiche che l’indebolita posizione finanziaria britannica non era in grado di reggere8. In tal modo Gran Bretagna e Francia furono costrette a recedere, registrando una forte perdita di prestigio che consolidava l’assetto della politica mondiale dominata dal bipolarismo delle superpotenze9. 7 8
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Sul colonialismo europeo in quel periodo si veda p. es. T. Judt, op. cit. pp. 342-72. Una sintetica panoramica sullo stesso argomento è in J. Smith, La guerra fredda, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 101-25. Ricordiamo che gli Stati Uniti si erano inseriti con un ruolo di rilievo nelle questioni orientali già alcuni anni prima, architettando il colpo di stato in Iran ai danni di Mossadeq. Si veda O.A. Westad, La guerra fredda globale, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 136-9. F. Romero, op. cit., pp. 114-8. W. Hitchcock, op. cit., pp.223-232. Ovviamente la mossa di Nasser e quel che ne seguì comportarono conseguenze anche in Medio Oriente: l’Egitto si avvicinò per un certo periodo all’URSS, mentre si accrebbe il sostegno degli USA nei confronti di Israele.
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L’entrata in scena dei paesi del terzo mondo e l’incalzante rapidità del processo di decolonizzazione costituirono per Unione Sovietica e Stati Uniti un nuovo terreno di confronto, che poteva spostare, partendo dalle periferie, i rapporti di forza tra i due blocchi che in Europa si presentavano difficili da alterare. In particolare, la prospettiva si presentava attraente dal punto di vista ideologico per l’Unione Sovietica, in quanto poteva consentire di orientare le rivendicazioni di tipo nazionalistico in vista di un possibile approdo socialista. Veniva così delineandosi, agli occhi della dirigenza sovietica, una sorta di circolo virtuoso in cui la forza di attrazione del sistema socialista ormai esteso avrebbe fatto da polo di attrazione verso gli stati periferici che, valendosi dell’aiuto dei paesi socialisti, sarebbero stati in grado di giungere a livelli di sviluppo tali da rafforzare a loro volta il blocco socialista nel suo complesso10. Due situazioni, in particolare, si presentarono negli anni Sessanta come terreno di confronto tra le grandi potenze: Cuba e il Vietnam. La crisi politico-diplomatica che ebbe come centro l’isola caraibica si verificò dopo che la rivoluzione castrista aveva impensierito e reso ostili gli Stati Uniti al punto di spingerli a sostenere nel ’61 un inefficace sbarco di fuorusciti. L’inimicizia statunitense aveva naturalmente avvicinato Cuba all’Unione Sovietica e portato alla richiesta cubana di installazioni missilistiche di protezione. I sovietici, pur rendendosi conto in certa misura del rischio, accettarono la richiesta, sperando da un lato che, dopo la prima inevitabile reazione, gli Stati Uniti avrebbero accettato il fatto compiuto e dall’altro che la mossa si sarebbe rivelata una risposta all’installazione di missili americani in Europa e un successo spettacolare sul piano diplomatico. In realtà la reazione statunitense alla minaccia che veniva portata in prossimità delle sue coste fu molto più decisa del previsto e si tradusse in un blocco nei confronti delle navi sovietiche dirette a Cuba, dietro il quale si fece intuire la possibilità di conseguenze di gravità incalcolabile. La minaccia indusse l’URSS a frenare l’operazione e a mostrare disponibilità alla trattativa, che portò al ritiro dei missili in cambio di un impegno a non invadere Cuba e di un successivo ritiro dei missili statunitensi installati in Turchia. Nel complesso, per i Sovietici l’iniziativa cubana rappresentò indubbiamente uno scacco, non solo di fronte agli Stati Uniti, verso 10 O.A. Westad, op. cit., pp. 188-9.
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i quali era stata recentemente impegnata la battaglia diplomatica relativa allo status di Berlino, ma anche nei confronti della Cina, con cui l’URSS era entrata da alcuni anni in una fase di tensione crescente, e degli stessi Cubani, delusi dal brusco voltafaccia chruščëviano; anche all’interno del partito comunista e della sua dirigenza, infine, essa si tradusse in una perdita di prestigio personale di Chruščëv e fu uno dei fattori che, sommati fra loro, portarono alla caduta del leader. L’indubbio successo ottenuto dagli USA nella questione cubana fu seguito negli anni successivi da altri interventi andati a segno: […In] America Latina si imposero regimi anticomunisti, spesso militari. In due paesi emblematici della decolonizzazione, il Ghana e l’Algeria, il rovesciamento dei governi di Nkrumah e di Ben Bella inaugurò tra il 1965 e il 1966 dei percorsi di avvicinamento all’Occidente, in entrambi i casi guidati dalle forze armate. E in Indonesia furono ancora i militari, assieme alle forze islamiche, a spezzare l’alleanza social-rivoluzionaria di Sukarno (una figura chiave del non allineamento) con i comunisti.11
Completamente opposto, invece, fu l’esito della vicenda vietnamita, nella quale gli Stati Uniti sperimentarono forti contraccolpi all’interno e all’estero. Gli Stati Uniti, allorché la Francia aveva abbandonato il Vietnam le erano subentrati come garanti del governo del Vietnam del Sud nell’intento di impedire la diffusione del comunismo in Asia. Con Kennedy il sostegno al governo di Diem si accrebbe e, allorché se ne constatò l’inefficienza, venne organizzato un colpo di stato che eliminò Diem ma non riuscì a risolvere la crisi politica interna. Nel ’64 – sotto la presidenza Johnson – l’intervento statunitense fece un salto di qualità, inaugurando crescenti campagne di bombardamenti sul Vietnam del Nord e un sempre maggiore invio di uomini, che nel ’67 superò i 500000 effettivi senza risultati decisivi. Il crescente coinvolgimento in una guerra apparentemente senza prospettive provocò negli Stati Uniti una sensibile contestazione e disaffezione dell’opinione pubblica, al punto che il presidente Johnson rinunciò a ricandidarsi. Nixon, che gli succedette nel ’69, ebbe come obiettivo quello di cercare un’uscita onorevole dalla guerra; le azioni 11 F. Romero, op. cit., p. 183.
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militari coinvolsero anche Cambogia e Laos per far mancare un retroterra ai comunisti, mentre si cercava di ritirare le truppe statunitensi spostando il peso del conflitto sui vietnamiti. Anche tale strategia non ebbe successo e lo sbocco fu ottenuto soprattutto per via diplomatica12. Per comprendere il quadro della politica mondiale all’inizio degli anni Settanta, entro cui si realizzò la conclusione del conflitto vietnamita, è necessario tener presente che quest’ultimo prese forma parallelamente all’approfondirsi della contrapposizione russo-cinese. Il rapporto di collaborazione tra i due paesi socialisti aveva cominciato ad incrinarsi dopo l’inizio della destalinizzazione, con dissensi riguardanti sia i metodi di collettivizzazione e di sviluppo 12 Il costo rilevante del conflitto vietnamita e gli scompensi politici interni che esso provocò portarono in primo piano la discussione sul ruolo dell’industria bellica e sui suoi rapporti con l’apparato statale. L’egemonia internazionale acquisita dagli Stati Uniti li aveva portati infatti ad essere il principale produttore d’armi a livello mondiale. Passata la severa crisi di riconversione dell’immediato dopoguerra, l’industria degli armamenti iniziò a riprendersi e con la guerra di Corea ricominciò a lavorare a pieno ritmo. Le dimensioni che essa aveva raggiunto anche in tempo di pace – che comprendevano ora anche il settore aerospaziale – condizionavano ormai in modo rilevante ľeconomia nel suo complesso in termini di prodotto e occupazione, mentre la spesa militare era divenuta un fattore determinante per la gestione della congiuntura economica. Tra l’apparato statale e quello dell’industria bellica si era ormai creato un intreccio che poteva esser fonte di preoccupanti conseguenze (il “complesso miltare-industriale”), come avvertì lo stesso Eisenhower nel suo famoso discorso d’addio del 1961. Questa compenetrazione non cessò di crescere negli anni seguenti, assumendo caratteri più espliciti attraverso l’introduzione di una direzione politica formale nei riguardi dell’industria bellica e divenne oggetto di una letteratura critica. Di particolare rilievo furono le tesi avanzate da Seymour Melman in Pentagon Capitalism (1970). L’introduzione di una direzione governativa, secondo Melman, aveva eliminato quanto ancora rimaneva di rapporti di mercato nel precedente sistema del “complesso militare-industriale” all’epoca di Eisenhower, inaugurando un vero e proprio sistema di capitalismo di stato. Esso si presentava emancipato dai vincoli imposti dal mercato e il suo scopo era quello di ingrandire costantemente il proprio insieme di attività: “L’effetto fondamentale del sistema di controllo sulle direzioni ausiliarie che viene gestito dal dipartimento della Difesa non è, come si potrebbe pensare, quello di ridurre i costi, ma quello di estendere il controllo […] Il complesso era un mercato, e determinava i prezzi alla maniera di un mercato; la direzione statale, proprio perché è una direzione, regola i costi, i prezzi e i profitti, e può stabilire delle priorità indipendenti dal prezzo”. S. Melman, Capitalismo militare, Einaudi, Torino 1972, pp. 91-2.
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messi in atto dai cinesi sotto la guida di Mao, che i sovietici giudicavano frutto di una visione troppo volontaristica, sia la politica estera. Nel rapporto bipolare che l’URSS andava costituendo con gli Stati Uniti, i Cinesi infatti sentivano sacrificata la propria visione, nella quale la possibilità di una guerra mondiale, che i Sovietici ormai erano impegnati a scongiurare, era ancora considerata verosimile. Già alla conferenza di Mosca dei partiti comunisti nel 1957 Mao aveva sostenuto che non si doveva farsi prendere dal timore del conflitto atomico e che la vittoria del socialismo era inevitabile. Alla conferenza dei partiti comunisti del 1960 un compromesso fu raggiunto solo a fatica, ma negli anni successivi la tensione crebbe senza sosta fino ad arrivare alla rottura. In questo contesto si verificarono altre occasioni di attrito coi Sovietici. Dopo aver iniziato negli anni precedenti a fornire ai Cinesi la concessione delle tecnologie necessarie a costruire la bomba atomica, infatti, l’URSS ebbe un ripensamento. Un altro importante punto di contrasto era costituito inoltre dal fatto che l’Unione Sovietica non intendeva perdere il collegamento con l’India, attraverso cui si potevano influenzare i paesi in via di sviluppo e che non doveva quindi esser spinta nell’orbita statunitense: per tale ragione l’URSS, con grande disappunto cinese, si mantenne neutrale allorché si verificò un conflitto di frontiera cino-indiano. Quando cominciò l’escalation del conflitto vietnamita, dunque, il contrasto russo-cinese era già arrivato ad un punto di non ritorno. Inizialmente il Vietnam del Nord era stato prevalentemente sotto l’influenza cinese, ma l’escalation portò l’Unione Sovietica ad accrescere il proprio ruolo di sostegno. Tra URSS e Cina, sempre più divise dalle contrapposizioni sopra ricordate, si creò dunque una involontaria – e per certi aspetti reciprocamente concorrenziale – collaborazione con il Nord Vietnam e la guerriglia del Sud. L’apporto sostanziale che l’URSS fornì alla resistenza vietnamita, dimostrando la capacità di sostenere un alleato geograficamente lontano, rafforzò nella dirigenza sovietica la convinzione che il proprio paese fosse diventato una superpotenza a pieno titolo13. Il conflitto con l’URSS, che aveva subito un ulteriore inasprimento fino a portare a scontri di frontiera, spinse la Cina a interrogarsi sul proprio isolamento e a valutare la possibilità di un’apertura 13 O.A. Westad, op. cit., p. 220.
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diplomatica verso gli Stati Uniti che, scossi dalla guerra in Indocina e dall’incipiente crisi del dollaro, sembravano meno pericolosi che in passato. Gli Stati Uniti, a loro volta, abbisognavano di un interlocutore di peso nel Pacifico e di una potenza che consentisse una certa libertà di manovra nel confronto mondiale, troppo diretto ed esclusivo, con l’URSS14 (naturalmente la svolta, che si concretizzò fra il ’71 e il ’72, implicò un allentamento del rapporto politico con Taiwan, ultimo baluardo della Cina nazionalista). L’entrata in scena della Cina come interlocutore diplomatico a livello mondiale ebbe due conseguenze. La prima, più generale, fu il venir meno del modello politico-diplomatico accentuatamente bipolare dell’immediato dopoguerra. La seconda fu un contributo di apprezzabile importanza alla conclusione della vicenda vietnamita. L’avvicinamento Usa-Cina portò infatti quest’ultima a rendere meno deciso il suo sostegno al Vietnam del Nord e, venuto ormai meno l’isolamento cinese, la stessa cosa avvenne per l’URSS. Le trattative per il Vietnam, in corso da tempo, ebbero così la spinta decisiva; il disimpegno USA avvenne nel ’73, mentre nel ’75 il Vietnam fu unificato dall’offensiva comunista. 10.2 Prove di multipolarismo L’evoluzione degli armamenti nei decenni di cui si è appena parlato si mosse in direzioni apparentemente contraddittorie. La prima tendenza che è possibile rilevare sul piano degli arsenali atomici è che gli ordigni nucleari non cessarono di crescere, sia nel caso degli Stati Uniti che in quello dell’Unione Sovietica. La fluidità della situazione mondiale, infatti, imponeva ad entrambi i contendenti di possedere un deterrente adeguato a gestire possibili spostamenti di forza a livello internazionale, rassicurando i propri alleati attuali o potenziali, e/o a prevalere nell’eventualità di una crisi globale grave e improvvisa come quella che si era verificata a Cuba nel ’6215. Nello stesso tempo, tuttavia, si manifestarono sviluppi di segno opposto, che portarono le superpotenze a interventi miranti, pur conservando nei limiti del possibile il monopolio delle armi atomi14 E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1202-4. 15 F. Romero, op. cit., p. 165.
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che, a disciplinare in qualche modo uno sviluppo incontrollato del loro potenziale distruttivo. Nel corso degli anni Sessanta si ebbero vari segnali in questo senso: la creazione di una “linea calda” tra Washington e Mosca all’indomani della crisi cubana, la limitazione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nell’acqua e nello spazio, il divieto di dislocare nello spazio armi di distruzione di massa e il Trattato di non proliferazione nucleare. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, anche se i loro rapporti reciproci accusarono singoli momenti di asprezza, sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica manifestarono una crescente disponibilità alla trattativa che fece parlare di un’era della “distensione”16. Essa fu il prodotto di spinte autonome, provenienti da entrambi i lati e in definitiva convergenti. Gli Stati Uniti constatavano che le dotazioni militari sovietiche si erano accresciute rispetto ai primi anni della “guerra fredda” e che il mondo manifestava ormai una varietà di situazioni geopolitiche che non consentivano di essere approcciate con la semplice logica del bipolarismo e del contenimento tipica dei decenni appena trascorsi. I Sovietici, dal canto loro, erano convinti che il capitalismo mondiale manifestasse in misura sempre maggiore i sintomi di una crisi (Vietnam, debolezza del dollaro, inflazione etc) e che questo favorisse l’affermazione del socialismo su scala planetaria; nella misura in cui la forza dell’URSS avrebbe consentito di stipulare dei patti che garantissero la pace, quindi, l’estensione del socialismo non sarebbe stata accompagnata da catastrofi dirompenti su scala globale17. Frutti di questa stagione furono il trattato SALT1 per la limitazione degli armamenti strategici (1972)18 e la Conferenza per 16 In generale, cfr. p. es. J.L. Harper, op. cit., pp. 195 e ss. 17 F. Romero, op. cit., p. 239 e p. 247. 18 “Gli accordi sulla riduzione delle armi strategiche poggiarono su due principi; la “sufficienza strategica” come alternativa alla ricerca di una fugace superiorità, e la […] la prevenzione della guerra affidata alla capacità di ciascuna parte di infliggere all’altra danni inaccettabili anche dopo aver subito un attacco nucleare. […] Il Salt 1[…] cercò di codificare una parità di massima fra gli arsenali delle due superpotenze. Aveva una validità di cinque anni, durante i quali i negoziati sarebbero continuati. Esso congelava il numero degli Icbm [missili intercontinentali] permessi (1054 per gli USA, 1618 per l’URSS) e fissava il limite per i missili a bordo dei sottomarini (710 missili su 44 sottomarini per gli USA, 950 su 62 sottomarini per l’URSS). La disparità dei numeri concessi a Mosca era una compensazione per i B-52 americani e
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la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) che si concluse nel ’75 ad Helsinki. Preparata dall’Ostpolitik19 e fortemente voluta dall’URSS e dai paesi dell’Est, che vedevano in essa l’equivalente della pace generale mancata nel ’45 e una conferma del ruolo ormai assunto dall’URSS, la Conferenza si concluse con un documento finale che prevedeva l’accordo su importanti questioni di principio: esso impegnava i paesi firmatari20 a riconoscere l’inviolabilità delle frontiere e la sovranità degli stati, stabiliva le linee generali della cooperazione economica e dello sviluppo degli scambi e imponeva infine il rispetto dei diritti umani. Questo periodo di relativo rilassamento delle tensioni internazionali, tuttavia, ebbe breve durata, poiché ben presto entrarono in gioco forze che tornarono a far crescere gli attriti. Il primo fattore da considerare fu il rinnovato attivismo della presenza sovietica nel terzo mondo. Come già si è detto, il gruppo dirigente sovietico riteneva che l’imperialismo statunitense fosse incamminato verso un percorso di declino e che i paesi periferici fossero ormai sospinti da una tendenza storica a farsi attrarre nell’orbita del socialismo. Di qui, per l’URSS, la necessità di intervenire nei contesti ove si presentasse l’occasione di accelerare tale processo. La prima di tali opportunità prese forma con la crisi del colonialismo portoghese in Africa e lo scivolamento dell’Angola verso la guerra civile nel ’75. In essa i Sovietici, anche su sollecitazione cubana, appoggiarono, contro le forze sostenute dagli Stati Uniti, il Mpla guidato da Neto, che alla fine riuscì a prevalere. Una analoga possibilità di intervento si presentò dopo il ’74 in Etiopia, un’area strategicamente importante per la sua vicinanza al Mar Rosso e al Golfo Persico. La svolta che aveva creato la crisi etiopica si era determinata allorché una iniziativa militare aveva deposto e ucciso l’imperatore. Gli Stati Uniti agirono piuttosto lentamente e si dissoper i “forward-based systems” […]. Il trattato sui missili antibalistici (Abm) proibiva lo siluppo, il test e lo schieramento di missili difensivi al di là dei sistemi molto limitati consentiti a ciascuna delle due potenze. Il Salt 1 evidenziò una comune volontà di porre un freno alla corsa agli armamenti, ma presentò gravi deficienze. La più vistosa di tutte fu che non comprendeva i missili a testate multiple e a obiettivi indipendenti […], ossia gli Icbm muniti di più testate nucleari”. J.L. Harper, op. cit., p. 209. 19 Cfr. oltre, §10.4. 20 I sottoscrittori furono 33 paesi europei, gli Usa e il Canada.
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ciarono quando constatarono la direzione sempre più radicalizzata e brutale assunta dal nuovo governo militare, nel quale spiccava la personalità del maggiore Menghistu. Nel frattempo i militari etiopici sollecitavano l’appoggio dell’Unione Sovietica, che si concretizzò fra il ’76 e il ’77. Dopo il successo contro la Somalia21, nel ’79 l’URSS cercò di introdurre in Etiopia un partito di tipo sovietico per dare una direzione politica al paese, ma né questa mossa né le riforme economiche di Menghistu davano frutti, mentre rimaneva vivo il conflitto etiopico con l’Eritrea. Il gruppo dirigente sovietico dovette non solo constatare che l’intervento, che inizialmente era sembrato un successo, aveva portato a una impasse, ma anche che esso aveva minato la politica di distensione verso gli Stati Uniti. Una ulteriore fonte di contrasto con gli Stati Uniti si ebbe infine allorché l’Unione Sovietica a partire dal ’78 si inserì nelle vicende afghane. In Afghanistan infatti si erano susseguite nel giro di pochi anni vicende politiche convulse e colpi di stato, che misero capo nel ’78 all’ascesa al governo di gruppi della sinistra afghana, caratterizzata da una forte conflittualità interna. L’evento si verificò poco prima della rivoluzione iraniana, che portò alla sostituzione dello scià con un governo islamico fondamentalista, che in Iran assumeva una coloritura sciita e che si mostrava non solo particolarmente avverso nei riguardi degli USA, ma poco amichevole anche verso l’URSS. Si trattava, come fu evidente di lì a poco, di una svolta storica che portò in primo piano l’islamismo come componente duratura della situazione internazionale. Il nuovo regime afghano cercò subito – e in certa misura ottenne – l’appoggio sovietico, ma non riuscì a far cessare né le lotte di fazione né la crescente opposizione interna degli islamisti che agiva nelle zone rurali e periferiche del paese. La crescente instabilità portò l’Unione Sovietica a decidere l’intervento armato dall’esterno per rimuovere il leader afghano Amin, che fu condotto negli ultimi giorni del ’79 nella convinzione che si trattasse di un’operazione circoscritta e di breve durata. In realtà si sottovalutarono non solo la radicalità della resistenza interna, ma anche la forza della reazio21 In particolare, l’aiuto sovietico, a cui furono associati Cubani e Sudyemeniti, si fece sentire quando la Somalia, su cui i Sovietici avevano puntato in precedenza, attaccò l’Etiopia (la Somalia, da cui i Sovietici si erano staccati, passò dalla parte degli Stati Uniti).
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ne internazionale e soprattutto statunitense, che si espresse in varie forme di boicottaggio ma anche dando sostegno alla resistenza islamista. La vastità della resistenza e l’impotenza del governo di Karmal, col quale Amin era stato sostituito, richiesero all’URSS un sempre maggior impegno militare, difficile da sostenere anche sul piano economico, e imposero ai Sovietici dapprima la creazione di un nuovo governo guidato da Najibullah e poi il definitivo ritiro delle truppe iniziato nell’’8822. Il secondo fattore che rese difficile mantenere il clima costruttivo che aveva caratterizzato la prima metà degli anni Settanta fu la continua competizione tecnologica tra le superpotenze che, nonostante gli accordi e/o sfruttando le lacune di questi, determinava un costante potenziamento degli arsenali nucleari. Gli Stati Uniti, ad esempio, stavano mettendo a punto i missili cruise, guidati da un sistema computerizzato, che volavano a bassa quota e rasenti al terreno aggirando così le difese radar, mentre i Sovietici registravano notevoli progressi nella costruzioni di missili a testate multiple e obiettivi indipendenti. La comparsa di questi ed altri sistemi d’arma sempre nuovi rendeva difficile la loro classificazione e inclusione nelle trattative, che venivano conseguentemente rallentate. Esse inoltre erano ostacolate anche da questioni più squisitamente politiche. Mentre in Europa si era sempre fatto affidamento sul deterrente strategico statunitense, quando i Sovietici installarono i missili SS20 a medio raggio gli Europei – e in particolare i Tedeschi – si sentirono resi più vulnerabili; gli Stati Uniti, per mantenere credibile la propria leadership, dovettero proporre l’installazione compensativa in territorio europeo dei cosiddetti euromissili, che furono tuttavia contestati dai movimenti pacifisti al punto da doverne posporre l’adozione effettiva. Nel frattempo (1979) erano stati conclusi gli accordi SALT2, che si basavano sulla fissazione di un limite comune di 2400 vettori (indipendentemente dalla loro natura), di cui 1320 con testate multiple. In realtà si trattava di un accordo generico, che non bloccava veramente la sperimentazione di nuove armi e che lasciava fortemente scontenta la destra statunitense, negli ultimi anni divenuta più aggressiva e timorosa di concedere vantaggi strategici all’URSS. 22 Sull’insieme di queste vicende relative ai paesi periferici si veda soprattutto O.A. Westad, op. cit., pp. 235-372, pp. 411-447.
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Negli Stati Uniti, di conseguenza, la ratifica parlamentare si rivelò difficoltosa e fu definitivamente accantonata come ritorsione per l’intervento sovietico in Afghanistan23. Gli anni Settanta si erano chiusi con la fine, mai dichiarata ufficialmente ma di fatto tangibile, del breve periodo della distensione, cosicché il decennio successivo si aprì con un clima ulteriormente irrigidito. Negli Stati Uniti, la nuova destra era riuscita a far prevalere le proprie idee, portando Reagan alla presidenza: si realizzava così un’ambiziosa svolta, che accoppiava la sperimentazione di politiche economiche neoliberali all’interno alla denuncia della pericolosità dell’avversario sovietico all’esterno. A fronte di ciò, l’URSS stava avviandosi verso un periodo di crisi strisciante, nel quale si intrecciavano la stagnazione economica, la senescenza del gruppo dirigente e i crescenti sintomi di debolezza dell’impero nell’Europa orientale. Sebbene in tono minore, le trattative USA-URSS in realtà continuarono, così come continuò il riarmo convenzionale, ma ciò che in superficie contrassegnò il clima dell’epoca sembrava essere l’ostentata sfida lanciata attraverso il progetto di una sorta di “scudo spaziale” (1983). Esso avrebbe dovuto proteggere gli Stati Uniti intercettando eventuali lanci missilistici sovietici al momento della partenza, operando la distruzione dei missili avversari attraverso fasci di emissioni ad altissima energia provenienti da componenti posizionate in orbita. In realtà si trattava di un programma estremamente costoso, irto di difficoltà sul piano tecnico-scientifico e suscettibile di molte obiezioni sul piano diplomatico e strategico, al punto che qualche anno più tardi furono gli stessi Stati Uniti a ridimensionarlo. Sebbene risultasse in definitiva velleitario, nel momento in cui fu formulato esso serviva a mettere l’Unione Sovietica di fronte all’impossibilità di competere ad armi pari con l’avanzatissima tecnologia statunitense. Una svolta di rilievo molto maggiore, invece, si verificò alcuni anni più tardi, durante il secondo mandato di Reagan e quando in Unione Sovietica salì al potere Gorbačëv, il quale prese atto realisticamente delle difficoltà economiche del paese e accettò la prospettiva di ridimensionare un impegno militare divenuto insostenibile sia in termini di teatri di presenza che di entità di armamenti. Le truppe 23 Cfr. p. es. J. Smith, La guerra, cit., pp. 140-5 e pp. 152-60.
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stanziate in Europa furono ridotte sensibilmente, allo stesso modo in cui ci si ritirò da altre aree di crisi come l’Afghanistan. Ancor più spettacolari furono i risultati delle trattative sugli armamenti nucleari. Dapprima (Washington 1987) si stabilì che sarebbero stati distrutti gli euromissili; seguirono poi, dopo un decennio di inutili trattative, il trattato START 1 del ’91 (il presidente USA era allora Bush) sulla riduzione delle armi strategiche e lo START 2 dell’anno successivo (quando Gorbačëv era ormai caduto) che portarono a una sensibile riduzione degli arsenali nucleari. Quest’ultimo accordo venne stipulato in condizioni storiche profondamente diverse da quelle di pochi anni prima, che ridimensionavano la pur importante questione degli armamenti. Nel breve giro d’anni dall’’89 al ’91, infatti, si era ormai verificato il vero e proprio terremoto geopolitico: esso non solo aveva portato all’implosione dell’Unione Sovietica, ma prima ancora avevano spazzato il dominio sovietico in Europa orientale; facendo venir meno le pretese dell’URSS di esercitare il ruolo di paese guida, infine, esso aveva aperto la strada alla fine del conflitto russo-cinese, liberando la Cina dalla necessità di volgere ingenti energie politico-militari in tale direzione. Per quanto in una situazione per certi aspetti paradossale, poiché la loro economia aveva ormai un peso relativo assai minore di quello che era stato alla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si trovarono ad essere l’unica superpotenza politico-militare a livello planetario24, lasciando a una significativa distanza quanto ancora rimaneva del vecchio mondo socialista. Sconfitto una volta per tutte il tentativo di costruire un blocco alternativo a quello del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti potevano dirsi in qualche modo vincitori della partita, ma proprio questo successo aveva mutato le regole del gioco, dando vita ad un mondo potenzialmente multipolare la cui gestione poteva rivelarsi assai più difficile di quanto fosse nel mezzo secolo precedente. L’assoluta novità del quadro planetario configuratosi negli ultimi anni del secolo si conferma anche dal punto di vista dei modelli di confronto militare. Mentre dall’Ottocento alla seconda guerra mondiale, come abbiamo visto, operava la tendenza verso un modello unico di guerra industriale e/o totale, nei decenni successivi 24 E. Todd, Dopo l’impero, Marco Tropea Editore, Milano 2003, pp. 114-33.
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possiamo distinguere tre piani di conflitto, con le relative differenze di armamento e di criteri di condotta strategica. Sul gradino più elevato si colloca il livello della distruzione di massa, mediante armi atomiche e/o batteriologiche, che fino a questo momento non ha avuto modo di concretizzarsi; ad esso seguono la guerra convenzionale tipica della tradizione e infine la guerriglia, che è venuta accrescendosi nell’ultimo mezzo secolo con le lotte partigiane durante la seconda guerra mondiale, le guerre di liberazione anticoloniale e le più recenti ostilità a sfondo fondamentalistico-religioso o razziale25. Le guerre più recenti presentano appunto molti tratti di questo genere. Come ha rilevato Mary Kaldor, nell’età della globalizzazione si verificano conflitti di tipo nuovo, di cui si sono visti esempi nella ex Jugoslavia, in Africa, in Asia e nell’ex URSS, che prendono forma in contesti di disgregazione dello stato e nei quali si fronteggiano eserciti “regolari” e gruppi paramilitari che si alimentano col saccheggio, operazioni finanziarie occulte e l’accesso privilegiato a finanziamenti esteri26. Senza nulla togliere a questa acuta caratterizzazione, tuttavia, non si può pensare che tale modello abbia soppiantato gli altri in modo irreversibile. In realtà, pur nel venir meno di alcuni punti di riferimento classici, gli stati rimangono delle entità tangibili e in quanto tali possono possono dar vita ad altre – probabilmente inedite – modalità di conflitto. Uno sguardo al mondo dell’ultimo trentennio mostra come sia in Medio Oriente che in Asia esistano stati che hanno avuto accesso alle armi atomiche (anche in versione tattica) e/o chimico-batteriologiche e che considerano tali acquisizioni come simboli di modernità, ma le cui decisioni vengono prese secondo modelli lontani dalla strategia basata sul calcolo razionale che guidava USA e URSS al tempo della guerra fredda e che possono approdare a esiti imprevedibili: Il modello occidentale di calcolo razionale di equilibri di forze […] si sostiene su un atteggiamento di fredda professionalità verso la guerra che è in netto contrasto con il ribollire di passioni nazionalistiche 25 Si veda p. es. W. Hahlweg, Storia della guerriglia, Odoya, Città di Castello 2019, pp. 133 ss. 26 M. Kaldor, Le nuove guerre, Carocci, Roma 1999, pp. 12-5, pp. 18-9, pp. 92-3, pp. 117-22.
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dell’Iran o di altri paesi […]. L’Occidente non persegue più, e dunque non comprende più la più tradizionale politica di idee di scontri fondamentali per questioni etniche, religiose o per gli altri capisaldi del nazionalismo. Nella politica che si fonda sull’ideologia, la competizione va oltre il calcolo materiale di costi e benefici e le guerre per le idee sono più intense di quelle combattute per un tornaconto materiale.27
Anche dal punto di vista militare, in altre parole, il mondo nato con la fine della “guerra fredda” si rivela più complesso e denso di incognite di quello che l’aveva preceduto. Come si collochino gli sviluppi europei in questo quadro più generale sarà oggetto della parte conclusiva di questo capitolo. 10.3 Velleità egemoniche nell’Europa postbellica L’esordio delle rivalità atomiche e la connessa necessità di riarmare la Germania avevano rappresentato per l’Europa postbellica una situazione interamente nuova non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello economico. Il bisogno di indurre i paesi dell’Europa occidentale – e in particolare la Germania – a un maggior impegno militare implicava un potenziamento delle loro economie e della collaborazione a vari livelli tra i paesi interessati. Gli Stati Uniti erano orientati a favorire tali processi, ma trovavano resistenze da parte di Gran Bretagna e Francia. Sebbene in condizioni economiche poco floride, infatti, entrambi i paesi erano tra i vincitori del recente conflitto e possedevano ancora imperi coloniali – o resti di essi – di una certa estensione territoriale e peso economico, cosicché entrambi presumevano di poter sostenere per proprio conto una parte di rilievo come protagonisti della scena internazionale. La Gran Bretagna continuava a sentirsi titolare del ruolo, ricoperto durante la guerra, di tramite fra gli Stati Uniti e l’Europa; per quanto indebolita sul piano economico, inoltre, manteneva ancora un’economia largamente aperta, in particolare verso i paesi del Commonwealth, che la faceva sentire al centro di una rete mondiale anglofona in cui si incrociavano scambi di merci e flussi di capitali. 27 P. Bracken, Fuochi a Oriente, Corbaccio, Milano 2001, p. 89. Ma in generale si vedano le pp. 88-91 e 144-8.
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Se si aggiunge che dopo la guerra essa si era avviata, ad opera della maggioranza laburista, sul binario di una politica di nazionalizzazioni e di riforma del welfare che non desiderava sottoporre a influenze sovranazionali, era naturale che una stretta collaborazione coi paesi dell’Europa continentale la lasciasse indifferente se non contraria28. La Francia, d’altra parte, era in una posizione difficile: da un lato infatti essa guardava alla ripresa dell’economia europea come un obiettivo auspicabile, ma dall’altro tendeva ancora a considerare la Germania un paese potenzialmente ostile, la cui prosperità economica, accompagnata al riarmo, avrebbe potuto ritorcersi contro la Francia stessa. Proprio perché tendenzialmente contraddittorio e in prospettiva arduo da mantenere, l’atteggiamento della classe dirigente francese si rivelò accessibile al lavorio diplomatico statunitense che spingeva verso una mediazione con la Germania. Prese forma quindi la proposta di un’autorità sovranazionale, composta da Francia, Germania, Italia e paesi del Benelux, col compito di coordinare e razionalizzare congiuntamente il settore carbosiderurgico (CECA, 1951). Dando vita a una collaborazione nel settore in quel momento più strategico per la ripresa economica continentale, la CECA consolidò un’intesa franco-tedesca che si rivelò durevole e suscettibile di sviluppi, il più importante dei quali fu la creazione nel ’57, su spunto iniziale dato dai paesi del Benelux, della Comunità economica europea (CEE), a cui aderivano i paesi già membri della CECA. Essa ruotava attorno alla costituzione di un mercato comune le cui strutture di governo erano ricalcate su quelle della CECA (Commissione, Consiglio dei ministri, Assemblea parlamentare e Corte di giustizia). La nuova organizzazione si rivelò subito vitale, dando luogo a una crescita significativa degli scambi intracomunitari e giungendo alla riduzione prevista dei dazi e all’adozione di una tariffa comune esterna già nel ’68. Diversamente andarono le cose per la Gran Bretagna, la quale trattò in un primo tempo coi paesi della CEE sulla base della creazione di un’ampia zona di libero scambio priva di una tariffa comune esterna, elemento che le avrebbe consentito di mantenere le proprie tradizionali relazioni economiche. Quando questo approccio fu respinto, la Gran Bretagna ripiegò nel ’59 su 28 T. Judt, op. cit., pp. 199-201 e W. Hitchcock, op. cit., pp. 70-2 e pp. 292-5.
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una zona di libero scambio di dimensioni contenute e priva di istituzioni politiche che legassero i paesi aderenti (oltre alla Gran Bretagna, Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera). Proprio in quel periodo, mentre prendevano vita le aree economiche sovranazionali di cui si è appena detto, in Francia, a seguito alla crisi politica interna provocata dalla guerra per l’indipendenza dell’Algeria, nel ’58 era salito al potere De Gaulle, il quale impresse alla politica estera francese una notevole torsione, che caratterizzò le relazioni internazionali della Francia e più in generale dell’Europa negli anni a venire. La visione coltivata dall’anziano statista francese assegnava al proprio paese, che veniva concepito quale leader della CEE, il ruolo decisamente ambizioso di ridimensionare l’assetto bipolare assunto dalle relazioni internazionali nel dopoguerra. La CEE, rappresentando lo strumento del quale avvalersi per poter occupare la posizione di rilievo nella politica mondiale a cui De Gaulle aspirava, doveva assumere tuttavia una struttura particolare, configurandosi come un’organizzazione di stati, controllata strettamente dai governi. Per questo motivo la Francia gaullista avversò ogni tentativo di dare alla CEE istituzioni proprie non strettamente legate agli stati aderenti – in particolare l’allargamento dei poteri della Commissione – e di dotarla di entrate proprie, dando luogo nel ’65, alla “crisi della sedia vuota” tramite l’astensione dei propri rappresentanti dal Consiglio dei ministri e dalla Commissione29. Per De Gaulle anche la partnership tra i vari paesi della Comunità andava attentamente dosata al fine di conservare un peso adeguato all’interno dell’Europa, cosicché egli si orientò verso il mantenimento di un asse privilegiato tra la Francia e la Germania occidentale di Adenauer. Per tale ragione, quando la Gran Bretagna riconobbe la scarsa incisività della propria precedente politica commerciale e richiese l’ammissione alla CEE, la Francia oppose il proprio veto (1963 e nuovamente 1967), nel timore che tale ingresso potesse diventare il veicolo di eventuali pressioni statunitensi e cambiasse gli equilibri tra stati all’interno della Comunità. Anche l’opposizione di De Gaulle al controllo delle armi atomiche e all’influenza militare statunitense in Europa fu molto esplicita. La Francia infatti, pur rimanendo nell’alleanza, annunciò nel ’66 di non voler mantenere le forze francesi sotto il comando integrato 29 W. Hitchcock, op. cit., pp. 294-9.
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della NATO (il rientro avverrà solo nel 2009) e di non permettere ulteriormente lo stazionamento di forze militari straniere nel paese Per un certo tratto – come accennato più sopra – le iniziative di De Gaulle trovarono una sponda nel cancelliere tedesco Adenauer, il quale desiderava una struttura di difesa europea più autorevole nel timore che eventuali trattative tra USA e URSS potessero relativizzare agli occhi statunitensi la necessità di tutelare la Germania. A lungo andare, tuttavia, la radicalità e le ambizioni autonomistiche di De Gaulle trovarono una crescente freddezza nel cancelliere e ancor più nelle classi dirigenti tedesche, solidamente legate agli Stati Uniti, al punto che il trattato di amicizia e collaborazione franco-tedesco del ’63 venne ratificato in Germania anteponendovi una premessa filoatlantica che ne ridimensionava l’intento iniziale30. Il tentativo di De Gaulle di creare una convergenza franco-tedesca continuò – questa volta sul terreno economico – anche dopo Adenauer. Negli anni Sessanta il dollaro manteneva formalmente il suo valore, ma le emissioni eccessive minavano il gold exchange standard, logorato dalla continua riduzione delle riserve auree statunitensi. A fronte di questa crisi incipiente del sistema monetario internazionale, in Europa la Germania cresceva molto rapidamente, grazie anche al dinamismo delle esportazioni, e questo tendeva a spingere verso l’alto le quotazioni del marco. Diversa e per certi aspetti opposta era la situazione dell’economia francese, caratterizzata da uno sviluppo meno florido e da una inclinazione all’indebolimento del franco. In tale contesto la Francia si trovava a scegliere tra una ricorrente svalutazione del franco e/o la dipendenza dalla Germania per il sostegno della propria valuta. Di qui la proposta avanzata al cancelliere Erhard nel ’64 di introdurre una moneta comune. Si trattava verosimilmente di una mossa tattica31, che andava considerata nel contesto 30 Ivi, pp. 282-91, pp. 300-1. 31 “[Erhard] aveva immediatamente capito che la proposta di moneta comune di De Gaulle era uno strumento per lusingare il suo paese, neutralizzare la Bundesbank, promuovere l’immagine della Francia a spese della Germania e piantare una spina fra Bonn e Washington. Capiva anche che qualunque risposta avesse dato l’avrebbe messo dalla parte perdente. Se avesse accettato l’offerta di De Gaulle avrebbe corso il rischio di regalare la Bundesbank a Parigi, o comunque di incorrere nell’eterna collera della Bundesbank. Se avesse rinviato per un po’ di tempo, De Gaulle avrebbe guadagnato tempo prezioso
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dei contrasti legati all’assetto monetario internazionale, e che Erhard probabilmente valutò come tale, lasciandola tacitamente cadere. L’insoddisfazione di De Gaulle per la configurazione del sistema monetario internazionale nel suo complesso non esitò comunque a trasparire e nel ’65 egli denunciò i privilegi monetari statunitensi, mentre nel ’67 la Francia uscì dal pool dell’oro, voluto a suo tempo dagli USA per calmierare la speculazione sul prezzo del metallo prezioso. Sul fronte statunitense, come già su quello tedesco, le mosse del vecchio statista non riuscirono tuttavia ad ottenere risultati di rilievo ed anzi l’economia francese si trovò ben presto ad affrontare le complicazioni inflazionistiche derivate dalle tensioni sociali del ’68. Proprio la persistenza delle difficoltà economiche spinse Pompidou, succeduto a De Gaulle, a reiterare proposte simili a quelle del precedessore, nella convinzione che far convergere franco e marco verso una valuta comune avrebbe risolto simultaneamente i problemi economici e quelli di prestigio francesi (Conferenza dell’Aja, 1969). In realtà il disegno di una valuta unica significava per definizione un progetto monetario europeo fondato sui cambi fissi, che veniva tuttavia avanzato proprio in un momento storico in cui, a livello mondiale, il sistema dei cambi fissi stava mostrando i suoi limiti. L’idea così lanciata si fondava su un equivoco di fondo, dovuto alla scarsa percezione dell’inevitabilità che la moneta unica dovesse tradursi in una sostanziale rinuncia da parte dei singoli paesi alla propria sovranità economico-finanziaria o, in termini leggermente differenti, all’idea che le condizioni a cui ciò sarebbe avvenuto avrebbero potuto formare l’oggetto di una futura trattativa politica in cui avrebbero potuto contemperarsi le esigenze di tutti i contraenti. Il rapporto Werner (1970), in cui si cercò di mettere a punto la fattibilità nell’arco di un decennio del percorso verso la moneta unica, si rivelò sufficientemente elastico perché i futuri aderenti potessero interpretarlo secondo i rispettivi punti di vista32. (perché gli speculatori avrebbero smesso di scommettere contro il franco aspettando che si posasse il polverone) ed Erhard sarebbe rimasto indeciso. Se avesse respinto l’offerta apertamente e pubblicamente, il suo profilo di uomo favorevole all’unione ne avrebbe sofferto e quello di De Gaulle ne avrebbe guadagnato”. Y. Varoufakis, I deboli sono destinati a soffrire?, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 102-3 e più in generale pp. 71-151. 32 A. Mody, Euro. Una tragedia in nove atti, Castelvecchi-Lit Edizioni, Roma 2020, pp. 74-80 e pp. 83-86.
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10.4 La Germania alla ribalta Negli anni Sessanta la scena europea fu occupata in larga parte, come si è visto, dalla Francia. Fin dall’esordio del decennio successivo fu evidente che il paese europeo caratterizzato da maggior dinamismo era divenuto ormai la Germania. Naturalmente la Francia cercò di mantenere la propria posizione di rilievo, ma il gaullismo di Pompidou dovette adattarsi a uno stile più elastico rispetto a quello del predecessore, in particolare evitando i tentativi frontali di imporre alla CEE i propri progetti egemonici. Il diverso atteggiamento si vide all’opera in occasione dell’allargamento della Comunità alla Gran Bretagna, verso il quale la Francia non mise più il veto, vedendovi ora un bilanciamento del peso tedesco. La Gran Bretagna poté far ingresso nella CEE dal 1973 (assieme a Danimarca e Irlanda) dopo una trattativa che le consentiva una gradualità nell’adeguamento alle condizioni comunitarie e che fu seguita da un ulteriore negoziato di minore entità dopo il passaggio del governo ai laburisti33. Né l’ampliamento si fermò qui, giacché gli stati del Sud Europa, di recente tornati alla democrazia, fecero richiesta di entrare e vennero ammessi (Grecia 1981, Spagna e Portogallo 1986), nonostante la loro relativa arretratezza, anche per sostenere recenti svolte democratiche da essi operate. La grande innovazione della politica europea negli anni Settanta provenne tuttavia dalla Germania, che col governo socialdemocratico guidato da Brandt rovesciò l’approccio tedesco ai rapporti Est-Ovest. Fino a quel momento l’impianto di fondo della politica estera tedesca era rimasto quello di matrice adenaueriana, che considerava la Germania Orientale come uno stato sostanzialmente illegittimo, col quale pertanto non si sarebbe dovuto mantenere relazioni diplomatiche. La Ostpolitik inaugurata da Brandt impostava invece i rapporti con la Germania orientale e in genere con l’Est Europa in termini di dialogo, ad esempio aderendo al trattato di non proliferazione delle armi nucleari e rassicurando i vicini del blocco sovietico 33 In generale la Gran Bretagna non esercitò tuttavia una funzione di traino nella costruzione dell’Europa comunitaria. Nel complesso essa si mostrò molto attenta alla salvaguardia delle proprie prerogative nazionali, come si vide negli anni Ottanta, quando la Thatcher inaugurò un aspro contenzioso sul contributo britannico alla politica agricola comunitaria, e più tardi, allorché la Gran Bretagna si tenne fuori dalla moneta unica.
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sulla propria volontà di rispettarne confini. Si trattava di sondaggi che andavano in parallelo all’atmosfera di distensione che si stava respirando a livello internazionale34. La questione dell’inviolabilità dei confini fu risolta dapprima con l’URSS (trattato di Mosca, 1970) e successivamente con la Germania Est (1972). Pur senza giungere a un riconoscimento ufficiale di quest’ultima, le iniziative diplomatiche occidentali risolsero molti problemi pratici delle relazioni tra i due stati e furono accompagnate da altri trattati coi paesi dell’Europa orientale, dando luogo in un breve volger d’anni a un significativo incremento delle relazioni commerciali e dei prestiti35. Un simile ruolo di punta cominciò ad esser esercitato dalla Germania anche sul piano economico. Se il clima politico dell’Europa a inizio decennio si stava progressivamente rasserenando, le relazioni economiche si facevano infatti più complicate e contraddittorie, impedendo di giungere agli ambiziosi traguardi di unificazione monetaria ipotizzati per la fine del decennio. Gli anni Settanta videro infatti un accumularsi di perturbazioni che sarebbero state impensabili fino a pochi anni prima: il venir meno definitivo del gold exchange standard, due shock petroliferi al distanza di pochi anni (1973 e 1979) e infine l’inedita concomitanza di stagnazione e inflazione36. Tale insieme di eventi mise a dura prova le economie 34 Cfr. supra, § 10.2. 35 Hitchcock, op. cit., pp. 368-377. 36 “Il tasso di crescita del Prodotto nazionale lordo per i Paesi della Comunità, che nel decennio 1961-70 si era mantenuto sul 4,7 per cento […] si riduceva al 2,9 e scendeva ulteriormente allo 0,5 nel 1983 per stabilizzarsi sul 2,3/2,4 nella prima metà degli anni Ottanta. Si riducevano gli investimenti [… e] la disoccupazione, quasi scomparsa negli anni Sessanta col 2,5 per cento, saliva al 4,3 nel 1975 e al 10,8 nel 1985, fino a diventare strutturale […]. Cresceva inevitabilmente anche l’inflazione che, rimasta attorno al 3,5 per cento negli anni Sessanta, si collocava nel 1972 tra il 5,3 (Francia) e il 7,8 (Gran Bretagna). Nel 1974 la Germania federale, che di tutti i governi della CEE era quello che meglio riusciva a contenere l’impatto della crisi, accusava un tasso di inflazione del 6 per cento, ma l’Italia e la Gran Bretagna raggiungevano, anche se per brevi periodi, picchi del 24 per cento. […] Solo a partire dal 1976 si delineava una ripresa abbastanza generalizzata con il ridimensionamento dell’inflazione […]. Per far fronte alla disoccupazione e per mantenere i livelli di vita e di consumi, i governi erano costretti a dilatare la spesa pubblica che passava dal 32,1 per cento del PIL nel 1960 al 51,5 per cento nel 1984. Era l’inizio di quel processo di accumulazione di deficit sempre più pesanti destinati a gonfiare a dismisura
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europee, evidenziando l’eterogeneità delle singole reazioni nazionali e dei criteri di politica economica con cui esse furono gestite. Di fronte al disordine montante la reazione comune europea fu complessivamente blanda, limitandosi alla fluttuazione congiunta delle monete nei riguardi del dollaro, la quale nella sostanza ebbe tuttavia vita breve. Il serpente monetario, sia nella versione originaria del ’72 che in quella rivista dopo la crisi del ’73, si rivelò incapace di raggiungere il suo obiettivo di fluttuazione congiunta delle monete e nel 1974 tre dei quattro maggiori paesi europei (Italia, Gran Bretagna, Francia) erano fuori dal serpente: Con l’uscita del franco […] il ‘serpente’ comunitario si riduceva a una specie di ectoplasma: vi erano ancorati soltanto il marco, le valute del Benelux e quella danese. […] Nel giro di pochi anni il ‘serpente’ si trasformava nell’area del marco e invece di svolgere una funzione di integrazione tra le varie monete ne produceva una contraria.37
Passati gli effetti immediati del primo shock petrolifero e constatata la scarsa coesione che il serpente era stato in grado di garantire, nella seconda metà degli anni Settanta tra Francia e Germania emerse l’idea di un nuovo e più stabile accordo sui cambi dell’area comunitaria nel quale convergevano la tradizionale propensione della Francia verso i cambi fissi e la tendenza della Germania ad attenuare l’eccessiva rivalutazione del marco rispetto al dollaro38. Lo scopo fu raggiunto creando lo SME, un sistema di cambi fissi ma aggiustabili che ruotava attorno all’ECU, unità costituita da un paniere di valute in relazione alla quale veniva definita – con limitati margini di possibile scostamento – la parità delle singole monete nazionali. L’operazione portava a riannodare il rapporto tra le monete deboli del serpente iniziale (in particolare franco e lira)39 e quelle forti (in il debito nazionale”. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari, pp. 170-1. 37 Ivi, p. 169. 38 B. Eichengreen, La globalizzazione del capitale, Baldini & Castoldi, Milano 1998, pp. 195-6. 39 Sulle ragioni della scelta italiana e le relative conseguenze si veda S. Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia 2017, pp. 220-6 e dello stesso Chi non rispetta le regole?, Imprimatur, Reggio Emilia 2018, pp. 19-28.
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particolare il marco). Poiché la Germania era tra i grandi paesi europei quello con la più bassa inflazione, ripristinare i legami col marco significava dare la priorità al contenimento dell’inflazione; una priorità – possiamo aggiungere – che venne rinforzata anche dalla necessità di far fronte al secondo shock petrolifero e alle sue possibili conseguenze inflazionistiche. In tal modo – come è stato scritto – lo SME conferiva alla Germania una posizione di riferimento, perché era più facile, per gli altri paesi, importare della disinflazione fissando le loro monete al marco. Lo SME non poteva funzionare, perciò, se non in maniera profondamente asimmetrica. La Germania poteva perseguire la politica monetaria di sua scelta – il marco non era fissato a niente –, gli altri dovevano seguire. Essa aumentava in potenza, poiché il mondo intero comprendeva che la sua politica economica trainava con sé, per effetto di imitazione, quella degli altri paesi europei. Era darle un potere di influenza sugli andamenti mondiali che da sola, quale che fosse il suo potere iniziale, non avrebbe avuto.40
Lo SME si inseriva in uno sforzo più generale, che non riguardava solo l’ambito economico, volto a riprendere il cammino di edificazione delle istituzioni comunitarie interrotto negli anni Settanta41. Rispetto al serpente, esso ebbe una vita più lunga e meno tormenta40 J.P. Fitoussi, Il dibattito proibito, Il Mulino, Bologna 1997, p. 230-1. 41 È il caso della riforma dei meccanismi di governo della Comunità in vista del completamento del mercato unico, che si verificò con la firma, nell’’86, dell’Atto Unico Europeo. Il contenuto di quest’ultimo è stato così riassunto: “L’UE confermò il termine del 1992 per l’apertura del mercato interno, definito “uno spazio senza frontiere” in cui merci, persone, servizi e capitali avrebbero circolato liberamente. Le novità istituzionali correlate furono due: introduzione del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio dei ministri sui provvedimenti riguardanti l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno (ad eccezione delle misure fiscali e di quelle relative ai diritti dei lavoratori e alla circolazione delle persone su cui il governo britannico volle mantenere il potere di veto); l’istituzione, limitatamente alle deliberazioni concernenti il mercato, di una procedura di cooperazione tra il Consiglio e il Parlamento, che divenne così compartecipe del processo legislativo (in caso di contrasto tra i due organi la parola definitiva spettava però al Consiglio). Sul versante della cooperazione politica la UE si limitò a dare forma giuridica alla prassi delle consultazioni periodiche tra i paesi membri, a cui da qualche tempo era stato associata anche la Commissione: fu istituito un segretariato con sede a Bruxelles, ma non si fece nessun passo avanti verso una politica estera comune né verso iniziative congiunte nel campo della difesa”. L. Rapone, Storia dell’integrazione europea, Carocci, Roma 2002, pp. 88-89.
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ta. Dal ’79 all’’87 nel complesso venne effettuato un numero relativamente contenuto di riallineamenti, con lo scopo di riequilibrare gli effetti sfavorevoli dei tassi di inflazione sulla competitività delle singole industrie nazionali; nel quinquennio ’87-’92 non si ebbero adeguamenti di questo tipo, ma nel frattempo furono definitivamente liberalizzati i movimenti di capitale e i differenziali di inflazione continuarono ad accumularsi. Tutto questo rendeva più fragile il sistema monetario, sul quale nel ’92-’93 si abbatté una crisi speculativa che, per il contesto in cui era maturata e le conseguenze che ne derivarono, significò una cesura di portata storica42. 10.5 L’incerta Europa di fine secolo I problemi che caratterizzarono la scena monetaria all’inizio del nuovo decennio erano una delle conseguenze del sommovimento politico derivante dalla crisi del blocco sovietico ed in particolare della riunificazione della Germania43. Che il processo in atto aprisse 42 F. Fauri, L’integrazione economica europea 1947-2006, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 177-81. 43 Per quanto le radici prossime del processo in questione fossero individuabili fin dagli anni Ottanta, la loro evoluzione fu inizialmente lenta e nulla faceva prevedere la brusca accelerazione di fine decennio. Nei paesi dell’Europa orientale il punto più dolente era dato dalla Polonia, dove col pontificato di Wojtyła la chiesa cattolica stava assumendo un atteggiamento decisamente critico che si associava alla nascita di un embrione di movimento sindacale. L’ondata di proteste e scioperi iniziata nel ’81, in un’epoca ancora brezneviana, era stata affrontata nel modo classico dal generale Jaruzelski, da poco primo ministro, che proclamò la legge marziale nel tentativo di evitare un probabile intervento militare sovietico. Il gesto fu duro, ma non riuscì a sradicare il movimento di opposizione, che dovette essere tacitamente tollerato; parallelamente in Unione Sovietica l’ascesa di Gorbačëv cambiava il clima politico e rendeva evidente che l’epoca di interventi repressivi del passato si era definitivamente conclusa. Mentre anche in URSS si delineavano i primi tentativi di democratizzazione, in Polonia fra ’88 e ’89, non solo il governo dovette trattare esplicitamente col sindacato, ma si giunse ad elezioni che ridimensionarono grandemente il partito comunista, il quale si avviò verso un inesorabile declino. Nello stesso lasso di tempo anche in Ungheria si giunse a risultati analoghi e a sua volta l’allentamento dei controlli di frontiera ungheresi dette avvio a esodi di popolazione dalla Germania orientale, contribuendo ad aprire la crisi definitiva del paese, che nel giro di un breve periodo si concluse con la caduta
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in prospettiva un percorso di superamento della divisione fu chiaro fin dall’inizio; più inaspettato fu invece il ritmo travolgente che esso ben presto finì per assumere. Il favore popolare nei riguardi della riunificazione apparve subito evidente fin dai mesi immediatamente seguenti la caduta del muro di Berlino, quando la Germania orientale si manifestò ansiosa di cancellare ogni traccia del precedente regime e di convocare elezioni democratiche appena possibile (esse furono fissate per il marzo ’90). Se il cancelliere Kohl si orientò in breve verso l’idea di un veloce approdo unitario, ben diverso fu l’atteggiamento degli altri paesi europei – in particolare Francia e Gran Bretagna – che apparve improntato a cautela se non a vera e propria ostilità. Prontamente tuttavia gli Stati Uniti, allarmati dalla possibilità che in futuro la nuova Germania si dichiarasse neutrale, passarono a sostenere con decisione l’idea di una Germania unita e aderente alla Nato, esercitando pressioni in questa direzione su Francia e Gran Bretagna. Paradossalmente, l’interlocutore che rivelò una inattesa cedevolezza fu l’Unione Sovietica, dove Gorbačëv era stretto tra i problemi politici ed economici della crisi in atto. Egli arrivò ben presto ad ammettere l’idea di una Germania unita aderente alla Nato, cercando di contrattare un prezzo in termini di aiuti economici44. A quel punto i principali ostacoli politici erano stati rimossi e la riunificazione fu proclamata ufficialmente (3 ottobre ’90). Data la disomogenità dei sistemi economici che andavano a fondersi, altrettanto rilevanti si rivelarono i problemi economici della riunificazione. Le ragioni politiche indussero a soprassedere sulle del muro di Berlino. Una volta iniziato, il movimento travolse rapidamente anche gli altri paesi del blocco “socialista”: entro la fine del 1989 il modello a partito unico cedette rapidamente in Cecoslovacchia, Romania e Bulgaria. Se nell’’89 la periferia del dominio sovietico aveva cominciato a sgretolarsi, nel biennio successivo l’incalzare della crisi travolse anche il centro dell’impero. La scelta riformatrice di Gorbačëv, infatti, aveva messo a nudo la fragilità degli equilibri ereditati dal passato, dando origine ad una varietà di pressioni disgregatrici. Sotto l’azione congiunta della crisi della classe dirigente e delle istituzioni politiche, delle incertezze sulla conduzione dell’economia e delle spinte centrifughe delle singole repubbliche, alla fine del ’91 l’Unione Sovietica cessava conseguentemente di esistere. Cfr. p. es. T. Judt, op. cit. pp. 690-819 e I. Kershaw, L’Europa nel vortice dal 1950 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2020, pp. 408-38 e pp. 461-508. 44 T. Judt, op. cit., pp. 788-91.
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reali quotazioni delle monete delle due Germanie, cosicché l’unione monetaria del maggio ’90 sancì il cambio 1:1 fra il marco dell’Ovest e quello dell’Est. Né questo fu l’unico onere finanziario che la Germania occidentale dovette assumersi, giacché l’Est necessitava di enormi investimenti in infrastrutture e reti di comunicazione, nonché costi pesanti per sussidi di disoccupazione e oneri previdenziali45. Il nuovo quadro di fondo naturalmente ebbe riflessi profondi. Lo SME, in particolare, subì dei colpi durissimi che significarono nella sostanza la fine del sistema. La Germania, infatti, impegnata in una robusta politica di spesa, fu spinta a tener alti i tassi di interesse a livelli che economie più deboli difficilmente avrebbero potuto sopportare. Fu questo potenziale squilibrio che aprì margini alla speculazione, la quale cominciò a vendere le monete dei paesi, in particolare Gran Bretagna e Italia, che faticavano a reggere questi livelli di tassi e di cambi, spingendole verso una svalutazione (16 settembre ’92) che le indusse poi all’uscita dallo SME. Anche il franco, inizialmente sostenuto dalla Bundesbank, nel ’93 dovette poi svalutare e le bande di oscillazione dello SME furono allargate ad una misura (+/- 15%) che di fatto lo rendeva simile a un sistema di cambi flessibili46. Su un piano più profondo rispetto alle oscillazioni della congiuntura, la rapidissima unificazione della Germania aveva comunque rimesso in moto il gioco politico-diplomatico, dando un impulso decisivo al movimento verso la moneta unica. L’abbandono del marco trovava contrari sia gli ambienti economici che la Bundesbank, ma alla fine Kohl decise di dare il proprio consenso politico all’avvio del processo di unificazione monetaria47, accordando garanzie sulla volontà tedesca di integrarsi a pieno titolo nella costruzione comunitaria e pagando in tal modo un corrispettivo per aver dato vita alla concentrazione di potere economico e politico più forte d’Europa. 45 È comunque il caso di sottolineare che la privatizzazione dell’apparato economico della Germania orientale fu una ghiotta occasione di guadagno per i gruppi occidentali che vi parteciparono. Cfr. V. Giacché, Anschluss. L’annessione, Imprimatur, Reggio Emilia 2013. 46 F. Fauri, op. cit., pp. 182-5. 47 A. Mody, op. cit., p.121, p. 126 e p. 135; G. Mammarella, P. Cacace, op. cit., pp. 223-4; I. Kershaw, L’Europa nel vortice, Laterza, Roma – Bari 2020, pp. 484-5.
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Il risultato di questi nuovi orientamenti politici fu il Trattato di Maastricht (7 febbraio ’92). Con esso venivano stabilite le tappe che avrebbero dovuto portare alla moneta unica e i criteri che le monete aderenti avrebbero dovuto rispettare al momento dell’avvio di essa, più tardi integrati dal Patto di stabilità e crescita del ’9748. Se tali criteri sono oggi largamente noti, vale invece la pena di mettere in rilievo i caratteri dell’architettura istituzionale entro cui il nuovo sistema monetario è stato edificato. In generale, infatti, la rinuncia della Germania al marco avvenne attraverso la creazione di una banca centrale europea che ricalcava da vicino i desideri tedeschi: essa nacque esplicitamente concepita come indipendente dal potere politico, con l’obiettivo prioritario di mantenere la stabilità dei prezzi e il divieto di acquistare titoli di stato monetizzando il debito49. Questa evidente anomalia negli strumenti della politica monetaria andava parallela ai limiti imposti alla politica fiscale. I criteri stabiliti a Maastricht per la manovre di bilancio, come è facile constatare, prevedevano per i singoli paesi un indirizzo restrittivo. Mancava un meccanismo sistemico di politica fiscale. Il bilancio dell’Unione era (ed è) quantitativamente troppo contenuto per esercitare un’influenza effettiva sull’economia europea nel suo complesso e le leve della politica di bilancio rimanevano ancora manovrate in massima parte dai singoli stati, al punto che fra essi hanno 48 Li richiamiamo sinteticamente per comodità del lettore: 1 – Il paese deve mantenere stabile il proprio tasso di cambio, che deve rimanere entro la banda di oscillazione del +/- 2,25 % almeno per i due anni precedenti. 2 – Il tasso medio di inflazione di un paese, osservato nell’arco di un anno, non non deve superare di oltre 1,5 punti percentuali il tasso di inflazione dei tre Stati membri dell’UE che hanno conseguito i migliori risultati. 3 – Il disavanzo annuo di bilancio di un paese non deve portarsi oltre il 3% del prodotto interno lordo (PIL). 4 – Il debito pubblico complessivo non deve superare il 60% del PIL. 5 – Il tasso di interesse a lungo termine di un paese, osservato nell’arco di un anno, non deve eccedere di oltre 2 punti percentuali quello dei tre Stati membri che hanno ottenuto i migliori risultati. Il patto di stabilità, a sua volta, rinforzava il limite del 3% del deficit, stabilendo le procedure d’infrazione derivanti dal suo mancato rispetto. 49 “I tedeschi – è stato scritto – avevano ottenuto quello che volevano: una normativa fiscale soddisfacente e una banca centrale del tutto indipendente il cui obiettivo era la stabilità dei prezzi”. A. Mody, op. cit., p. 134.
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continuato a verificarsi consistenti pratiche di dumping fiscale. Non esisteva (né esiste) nulla che potesse essere paragonato al trasferimento di fondi attraverso gli stabilizzatori automatici che opera in modo anticiclico tra la fiscalità generale e le singole regioni all’interno di uno stato unitario. Si è detto che l’unione monetaria avrebbe potuto in qualche modo prefigurare quella politica degli stati europei, ma di fatto l’architettura delle nuove istituzioni economiche sovranazionali non era in grado di smorzare gli squilibri tra le diverse economie e quindi poneva le premesse economiche di futuri scontri politici tra diversi paesi, in particolare tra quelli finanziariamente forti (primo fra tutti la Germania) e quelli finanziariamente deboli. La creazione dell’euro ha indubbiamente determinato inizialmente un periodo di fiducia nella stabilità monetaria che si è tradotto in tassi d’interesse ridotti ma, come è stato notato, tutto ciò ha rappresentato per molti Paesi una politica monetaria eccessivamente espansiva, che ha dato luogo a un rapidissimo aumento dell’indebitamento privato e alla formazione di vere e proprie bolle immobiliari. Questo è sicuramente quanto è successo in Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda.50
Il contesto istituzionale creato in seguito all’unificazione tedesca, quindi, ha portato a crisi, derivate dal movimento di capitali privati ma che hanno in definitiva scaricato sui bilanci pubblici il peso dei disordini generati dai prestiti incautamente concessi. A tutto ciò si sono sommati gli effetti della crisi iniziata nel 2007-8. Di fronte alla crisi le istituzioni europee hanno cercato di imporre la filosofia di contenimento del deficit, generando delle politiche economiche sostanzialmente procicliche che si sono tradotte in una cronicizzazione del malessere economico e anche quando la BCE ha prospettato una politica di quantitative easing, ciò è avvenuto nel quadro di un peso eccessivo dato alla politica monetaria a scapito di quella fiscale51. È noto che gli eventi a noi prossimi creati dalla recente pandemia hanno portato ad un’attenuazione della rigidità della politica economica imposta dall’Unione Europea, sia nel senso di un allentamento 50 V. Giacché, Titanic Europa, Aliberti editore, Roma 2012, p. 168. 51 T. Fazi, G. Iodice, La battaglia contro l’Europa, Fazi Editore, Roma 2016, pp. 140-144.
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dei vincoli del deficit sia in quello di un possibile allargamento del bilancio dell’Unione e della emissione di un debito comune. Resta tuttavia molto difficile dare una valutazione di tali orientamenti, sia perché essi sono stati presentati come temporanei e dovuti all’eccezionalità della situazione, sia perché appaiono ancora fortemente condizionati dalla divergenza di interessi tra i paesi aderenti, il cui numero e la cui eterogeneità si sono fortemente accresciuti dopo il crollo del sistema sovietico. L’unificazione tedesca e il venir meno di un potente blocco di stati strettamente controllato da Mosca erano inevitabilmente destinati a determinare conseguenze geopolitiche di rilievo. Per comprendere i percorsi attraverso cui si verificò la crisi dell’URSS e dei paesi dell’ex blocco sovietico è necessario tener presente che essa seguì due dinamiche differenti. I paesi caratterizzati da una forte componente multietnica subirono rilevanti fenomeni di frammentazione, nella maggioranza dei casi accompagnati da una accentuata conflittualità (Jugoslavia, Russia). Diversa fu invece la reazione ove lo stato si strutturava attorno a una più compatta identità nazionale. In questo caso gli stati cercarono di sviluppare istituzioni legate al mercato e di tutelarsi da possibili rivalse russe attraverso l’adesione a una solida alleanza come la NATO52. Venuti meno l’URSS e il suo impero, d’altra parte, anche la NATO aveva subito un processo di trasformazione. Innanzitutto la riunificazione della Germania e l’adesione della nuova potenza alla Nato non avevano implicato l’arresto nell’espansione dell’alleanza verso Oriente. Una disponibilità a fermare la futura estensione della NATO come contropartita dell’unificazione tedesca era stata fatta balenare dalla diplomazia statunitense durante le trattative, ma non fu adeguatamente formalizzata53. Verso la fine degli anni Novanta anche gli obiettivi dell’alleanza furono ridefiniti nell’ambito di una nuova prospettiva strategica. Le minacce future, infatti, non apparivano più legate principalmente alla difesa di determinati territori, ma si presentavano come più in52 S. Romano, Atlante delle crisi internazionali, Rizzoli, Milano 2018, pp. 2021. Sulla ridefinizione del ruolo NATO nei decenni successivi, si veda M. Dinucci, Guerra nucleare. Il giorno prima, Zambon, Jesolo 20182, pp. 11834 e pp. 163-94. 53 A. Orsini, Ucraina, Paperfirst, Roma 2022, pp. 137-53.
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determinate e mutevoli sia per la loro natura (terrorismo, instabilità politica) che per le aree coinvolte. La NATO doveva caratterizzarsi come un’organizzazione di stati accuratamente scelti per efficienza militare e affidabilità politica che all’occorrenza potesse agire ovunque e se necessario senza mandato internazionale. Questo le avrebbe consentito di accrescere la propria autonomia rispetto all’ONU e nello stesso tempo di mantenere la propria presenza in Europa, depotenziando eventuali progetti europei di difesa autonoma54. Lo spostamento geopolitico più immediatamente rilevante per l’Europa fu costituito dalla crisi iugoslava. Gli accadimenti che si verificarono su questo versante paradossalmente cominciarono con una crisi convulsiva, violenta e dagli sviluppi imprevisti, proprio nel paese che era riuscito a mantenere in misura maggiore l’autonomia dall’Unione Sovietica, ossia la Jugoslavia. I conflitti su base nazionalistica ed etnica che la dilaniarono ebbero una lenta incubazione nel corso degli anni Ottanta dopo la morte di Tito ed esplosero nel ’91. Essi durarono, con diverse fasi e su diversi fronti, per circa un decennio55 e portarono alla fine della Jugoslavia come unità territoriale. Nel corso della loro durata né 54 S. Romano, La pace perduta, Longanesi, Milano 2001, pp. 192-6. 55 Le guerre in questione possono essere articolate in cinque fasi: 1 – La prima guerra, esauritasi nel ’91, consistette in un vano tentativo delle truppe federali di contrastare la secessione della Slovenia. 2 – Il secondo conflitto fu originato sempre nel ’91 dalla dichiarazione di indipendenza della Croazia e vide il tentativo dei nazionalisti serbi di appropriarsi di quote di territorio da annettere a una Grande Serbia, operazione che fu conclusa verso la fine dell’anno e che trovò sostanziale riconoscimento col cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite. 3 – Nel ’92 ebbe inizio la guerra in Bosnia, nella quale i serbo-bosniaci, col supporto serbo, cercarono di ritagliare aree del paese a maggioranza serba, spesso con inaudite violenze contro le popolazioni musulmane di questi territori. Europa e USA contrastarono l’operazione cercando di concludere un’alleanza tra Croazia e Bosnia e di far dissociare la Serbia dai serbo-bosniaci. Nel ’95, grazie ad un’offensiva croata e ad un pesante intervento aereo della Nato, i serbo-bosniaci dovettero accettare la mediazione internazionale. 4 - La quarta fase, iniziata dopo la metà degli anni Novanta, derivò dalla tendenza della Serbia ad epurare il Kosovo dagli Albanesi. Anche in questo caso la crisi fu risolta dai bombardamenti aerei della Nato e si concluse nel ’99. 5 – L’ultima coda dei conflitti di cui stiamo parlando si ebbe nel 2001 con lo scontro – che si risolse interamente in quell’anno e che fu concluso da una mediazione – in Macedonia tra l’etnia albanese e quella macedone.
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l’Unione Europea – le cui iniziative si rivelarono non sempre opportune ed efficaci56 – né l’ONU riuscirono ad intervenire in modo risolutivo. Risultati più consistenti ebbe l’azione degli Stati Uniti e della Nato, la quale tuttavia era a sua volta l’effetto della scarsa incisività europea. Gli sforzi di assimilare all’Occidente i paesi appartenenti all’ex blocco sovietico continuarono in modo più metodico negli anni seguenti. Sarebbe inappropriato distinguere nettamente i moventi economici e quelli politici dell’operazione. La creazione di sbocchi di mercato e d’investimento o l’accesso a riserve di manodopera a basso prezzo, che pure contarono come moventi, non erano infatti di per sé sufficienti a compensare gli elevati costi finanziari delle sovvenzioni necessarie a stabilizzare le strutture dei paesi dell’Est uscenti da una delicata transizione e quelli politici derivanti dal difficile impatto dei nuovi ingressi sui meccanismi decisionali dell’Unione Europea. Altrettanto essenziale, in realtà, era stabilizzare ed inserire negli intrecci internazionali dell’Occidente un’intera area geopolitica57. D’altro parte, anche i paesi prima appartenenti al blocco socialista guardavano dal canto loro con attenzione all’Occidente. I Paesi ex socialisti dell’Est – è stato scritto giustamente – hanno vissuto decenni nell’orbita sovietica, senza libertà e senza indipendenza nazionale. Per loro, l’adesione alla Ue, non a caso vista quasi sempre in parallelo all’adesione alla Nato, era finalmente garanzia di salvaguardia della loro indipendenza nazionale, non la strada per realizzare una visione post-nazionale che non hanno mai avuto.58
Per tale ragione si assistette a due processi paralleli. In meno di un decennio si verificò l’inclusione ad ondate progressive dei paesi orientali nell’Unione Europea59. Già precedentemente, tuttavia, 56 Si pensi ad esempio al riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche secessioniste da parte della Germania (e del Vaticano) a cui si accodarono poi gli altri paesi dell’Ue. 57 W. Hitchcock, op. cit., p.562. 58 D. Taino, Scacco all’Europa, Solferino-RCS MediaGroup, Milano 2019, p. 229. Sulla varietà di situazioni esistente al di fuori dell’Europa occidentale, si veda Judt, op. cit., pp. 512-4. 59 Dapprima Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia; successivamente Romania, Bulgaria e infine Croazia.
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molti di questi paesi erano entrati, sempre in scaglioni successivi, nella Nato60. Aver portato ai confini della Russia sia Unione che Nato, tuttavia, non ha conferito omogeneità né all’una né all’altra. La nostra trattazione si ferma intenzionalmente alle soglie della cronaca, ma nel chiuderla vale la pena di sottolineare che le tendenze che abbiamo visto operare nel passato recente condizionano in buona parte anche l’odierno approccio europeo ai problemi mondiali. In particolare, lo sforzo di gestione dell’area a moneta unica con le sue artificiose e divisive regole finanziarie e quello di far convivere paesi con tradizioni differenti hanno indotto l’Europa a concentrarsi su se stessa per mediare i propri conflitti interni senza dare risposte univoche ai grandi problemi geopolitici mondiali. Dopo i grandi conflitti novecenteschi che ne hanno ridimensionato la centralità mondiale, l’Europa – e soprattutto i suoi paesi egemoni – è giunta a fine secolo mostrandosi scissa tra la volontà di sviluppare le relazioni economiche con potenze esterne come Russia e Cina e un’adesione di principio all’atlantismo venata da tentazioni, ricorrenti quanto velleitarie, a rafforzare la propria autonomia61. L’Europa della seconda metà del Novecento è rinata dalle macerie, ha raggiunto posizioni di riguardo nell’economia mondiale, ma non ha saputo darsi una nuova identità geopolitica.
Ci occupiamo qui, come si è detto nel testo, dei paesi dell’Europa orientale. Austria, Svezia, Finlandia, Cipro, Malta avevano già aderito in precedenza. 60 Anche in questo caso possiamo distinguere in sostanza alcune fasi: 1) Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca; 2) Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia; 3) Albania e Croazia; 4) Montenegro e Macedonia. Sul parallelismo tra adesione alla Nato e alla UE cfr. M. Dinucci, op. cit., p. 133. 61 D. Taino, op. cit., p. 227, 231, 243, pp. 255-6.
ETEROTOPIE Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna 800. Chiara Montini, Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore 801. Sara Manuela Cacioppo, Giovanna Di Marco e Ivana Margarese (a cura di), I miti allo specchio. Riscritture femminile liberamente ispirate al mito 802. Pierandrea Amato, Trincee della filosofia. Heidegger e la Grande Guerra 803. Giuseppe Deiana, Terra perduta. Terra ritrovata. Una Costituzione mondiale per l’uomo planetario: il punto di svolta per il futuro dell’umanità e di tutti i viventi 804. Simone Tulumello (a cura di), Verso una geografia del cambiamento. Saggi per un dialogo con, Alberto Tulumello, dal Mezzogiorno al Mediterraneo 805. Maria Patrizia Salatiello, Pietro Alfano, Palma Audino, Bambini stregone nelle strade di Kinshasa 806. Egidio E. Marasco e Luigi Marasco (a cura di), Corsi di formazione transculturale per analisti adleriani. Linee guida di Parenti & Pagani, Postfazione di Gian Giacomo Rovera Prefazione di Claudio Ghidoni 807. Giorgio Azzoni, Pasquale Campanella (a cura di), Coabitare l’isola. Spazio pubblico e cura dei luoghi 808. Claudio Concas, Voci dall’Hazaristan 809. Giuseppe Molinari e Matteo Settura (a cura di), (In-)attualità di Adorno. Estetica e dialettica 810. Luca Licitra, Antonio Sichera, Ritornare ai corpi. La politica tra paura e affidamento 811. João Pedro Avellar George, Storia di Goa. L’India Portoghese sulla via delle spezie 812. Gianmichele Marotta, La corruzione in Italia. Una prassi consolidata (1992-2018). Analisi etica ed educativa 813. Gabriele Scaramuzza, Mare senza mare. Estati a Bonassola 814. Giuseppe Zuccarino, Forme della singolarità. Da Michaux a Quignard 815. Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria 816. Lorenzo Benadusi e Vincenzo Lagioia (a cura di), In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea, Prefazione di Didier Lett 817. Fausto Colombo, Verità e democrazia. Sulle orme di Michel Foucault 818. Alessandro Tedde, Silvia Teano (a cura di), Sconfinate frontiere. Riace, l’eccezione che ha sconfinato la regola 819. Fabio Pierangeli, Dante a margine e le interrogazioni di Guido Morselli 820. Daniela Carmosino, Da Narciso a narcisista passando per Dracula. Lo “Stile Narciso” fra letteratura, cinema e serie tv 821. Laura Tussi (a cura di), Resistenza e nonviolenza creativa 822. Antonietta Bivona e Cettina Rizzo (a cura di), Migrazioni e appartenenze. Identità composite e plurilinguismo
823. Vincenzo Susca, Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale 824. Gaspare Polizzi (a cura di), Le città toscane e l’ambiente dopo la pandemia. Resilienza o trasformazione? Riflessioni in onore di Marco Dezzi Bardeschi 825. Emiliano Bazzanella, Critica della ragion burocratica 826. Michele Cometa (a cura di), La letteraturae il bios. Quattro istantanee su Siri Hustvedt 827. Davide D’Alessandro (a cura di), Pasolini, ritratti di pensiero 828. Chiara Pasanisi, La resistenza delle attrici nel secondo Novecento. Recitazione, repertorio e regia in Miranda Campa, Ave Ninchi, Lilla Brignone, Sarah Ferrati 829. Anselm Jappe, Le avventure della merce 830. Manuela Barbarossa, Alberto Giannelli, Marialfonsa Fontana Sartorio, Luci e ombre della solitudine, Introduzione di Eugenio Borgna 831. Caterina Diotto, Markus Ophälders (a cura di), Formare per trasformare. Per una pedagogia dell’immaginazione 832. Luca Gallesi, “Amo l’America, nonostante…”. Le vite parallele di Ezra Pound e Gore Vidal, Prefazione di Francesco Ingravalle 833. Massimo Giovanardi, Destination. Canzoni per la gestione del territorio e del turismo, // Destinations. Songs for place and tourism management 834. Dario Altobelli, L’eredità del presente. Capitalismo, forme di vita, utopia 835. Eugenio Mazzarella, Contro Metaverso 836. Emiliano Brancaccio Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Postfazione di Roberto Scazzieri 837. Matteo Bittanti (a cura di), Reset. Politica e videogiochi 838. Maria Chiara De Angelis, Coltivare la felicità, abitare il desiderio 839. Aldo Marroni, Muse senza mito. Meteore esistenziali vissute nell’ombra 840. Simone Cinotto, Gastrofascismo e Impero. Il cibo nell’Africa Orientale italiana, 1935-1941 841. Stefano Berni, Antonio Camerano, L’alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt 842. Paolo Gallina, La protoarte dei robot. Quando l’arte, la robotica e l’intelligenza artificiale si intrecciano 843. Simone Arnaldi, Stefano Crabu, Paolo Magaudda (a cura di), Co-creazione e responsabilità nell’innovazione tecnoscientifica dal basso 844. Emanuele Coco, La fine degli spiriti. La natura come indagine filosofica del Sé 845. Nicla Vassallo, Donne, donne, donne 846. Giuseppe Ferraro, Determinismo e giustizia sociale 847. Sostene Massimo Zangari, Narrazioni etniche. Il romanzo di marginalità negli Stati Uniti 848. Mihaela-Viorica Ruşitoru, Eccellenza educativa in Finlandia, come mi si è rivelata. Tradizione e pedagogia, ingegneria dell’inclusione e innovazione tecnologica, diritto, cultura e politica, valori e pratiche, sostegno e sviluppo
849. Andrea Di Berardino, Prime pagine. Piccola antologia di incipit letterari italiani 850. Stefania Frezzotti, L’infinito tangibile. Vincent Van Gogh, Il Giardiniere, L’Arlesiana 851. Davide Pellegrino, Trasformazioni elettorali nello spazio urbano di Torino (1970-2022) 852. Alessandra Peluso, Contra miglior voler, voler mal pugna. Il Dante di Simmel e Kelsen 853. Danila Genovese, La meta-politica e il terrorismo Gli islamisti britannici tra politiche multiculturali e pratiche di razzismo 854. Davide d’Alessandro, Sipario italiano. Attori e spettatori della contemporaneità 855. Anselm Jappe, Guy Debord: un complotto permanente contro il mondo intero 856. Lorenzo Tassoni, L’illusione dell’immagine in movimento. L’influenza del cinema nelle esposizioni della Pinault Collection di Venezia 857. Sandro Moiso e Alberto Sebastiani (a cura di), L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura 858. Silvana Salvini, Letteratura e demografia. La popolazione nel pensiero degli scrittori dei secoli XIX e XX 859. Leonardo Quaresima, Babylon Berlin. Weimar oggi 860. Pietro E.G. Pontremoli, Ridere di santa ragione Etologia, filosofia e logica dell’ironia, del gioco umoristico e del paradosso 861. Francesco Tibursi, Democrazia come produzione del sociale. Il pensiero dei New York Intellectuals fra marxismo e pragmatismo 862. Victoria Law, “Le prigioni rendono la società più sicura” e altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa, Traduzione e cura di Arabella Soroldoni 863. Patrizia Iacopini, Franco Lolli (a cura di), L’appetito vien parlando. Un’esperienza di cura e di riabilitazione dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione 864. Paola Scrolavezza, Gino Scatasta, Anna Specchio (a cura di), NipPop: 10 anni di cultura pop giapponese in Italia 865. Chiara Mortari, Affetti s/connessi. Rigenerare sentimenti e legami nel tempo che divide 866. Giulio de Martino, Lo spettatore turbato. Forme della felicità e del panico nella società distopica, Appendice di Edoardo Ferrini 867. Guido Traversa, La forma dell’opposizione nelle emozioni e passioni 868. Franco Baldini, Transfert. Sette lezioni sulla teoria freudiana del trattamento psicanalitico 869. Romano Romani, Pace per l’Europa. Persuadere la necessità 870. Luciano Di Gregorio, Le catene dello smartphone. Rischi e implicazioni psicologiche della rivoluzione digitale
Finito di stampare nel mese di aprile 2023 da Puntoweb S.r.l. – Ariccia (RM)