Segreti e bugie di Federico Fellini. Il racconto dal vivo del più grande artista del '900 misteri, illusioni e verità inconfessabili 8868220318, 9788868220310

"Perché Mastroianni diceva di Anita Ekberg che le sembrava un ufficiale della Wehrmacht? E Fellini invece sosteneva

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Italian Pages 328 [331] Year 2013

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Segreti e bugie di Federico Fellini. Il racconto dal vivo del più grande artista del '900 misteri, illusioni e verità inconfessabili
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GIANFRANCO ANGELUCCI

SEGRETI E BUGIE di FEDERICO FELLINI Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili

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Collana Arte e spettacolo 2

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GIANFRANCO ANGELUCCI

SEGRETI E BUGIE DI FEDERICO FELLINI Il racconto dal vivo del più grande artista del ’900 misteri, illusioni e verità inconfessabili

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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di aprile 2013 per conto di Pellegrini Editore Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it - www.pellegrinilibri.it E-mail: [email protected]

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A Giuliano

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INTRODUZIONE

A Roma e anche a Rimini quasi tutti lo chiamavano per nome. Un invito che egli stesso rivolgeva molto presto a chi gli veniva presentato: “Chiamami Federico”. Qualcuno non ci riusciva subito, intimidito dal mito vivente, ma molti altri trovavano naturale quella disinvolta confidenza, che all’inizio aveva stupito anche me. Il regista una volta me ne aveva spiegato la ragione: “Se mi chiamano Fellini mi viene spontaneo guardarmi dietro le spalle, come se ci fosse mio padre da qualche parte e si rivolgessero a lui”. Eppure al telefono o in caso di incontri usava sempre il cognome: “Sono Fellini…”, oppure: “Piacere, Fellini, come sta?” Il patronimico sospinto avanti per buona creanza, chi non lo conosceva? ma anche in funzione di schermo; come succedeva a scuola quando, per la prima volta nella nostra vita, l’insegnante ci interpellava utilizzando il cognome fin dall’appello e creando così subito una distanza, l’ingresso nel mondo delle responsabilità e degli adulti; al quale Federico si sforzava in tutti i modi di non appartenere. Se la sindrome di Peter Pan ha una sua verosimiglianza, Fellini ne rappresentava la perfetta incarnazione. Letteralmente volteggiava in un mondo che apparteneva soltanto a lui; al punto che Pier Paolo Pasolini nel film La ricotta, mette in bocca a Orson Welles, intervistato su Fellini da un cronista petulante, la famosa definizione: “Egli danza…” Ho voluto aderire al suggerimento dell’editore di intitolare questo libro “Segreti e bugie di Federico Fellini”, proprio per sot7 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

tolineare il tono confidenziale, la sua natura di racconto dal vivo, capace di restituire la prodigiosa vitalità del più grande artista italiano del Novecento, rimasta praticamente intatta a vent’anni dalla scomparsa. Sarebbe un peccato relegare Fellini tra i monumenti di piazza o nella gelida galleria degli antenati; mi è sembrato più giusto che il racconto assomigliasse a un ritratto a mano libera, un tratteggio rapido in grado di riproporre il sembiante meno convenzionale del personaggio, scartando la tentazione di affidare al lettore un’immagine marmorea, a beneficio dei posteri. “I posteri – affermava senza mezzi termini l’interessato – mi stanno anche sul c….”. Scomparso Federico, il deposito della memoria ha iniziato ad affiorare a schegge, ordinandosi spontaneamente in un disegno quando giunsi a disporre di uno spazio personale su un quotidiano. Si formavano come bolle, risalivano in superficie per una minima sollecitazione, e le storie si presentavano come i tasselli di un intarsio. Erano bagliori, frammenti di vita, così diversi da una biografia ragionata, che avrebbe preteso sistematicità e ordine cronologico. La mia è una narrazione rapsodica dettata dal puro impulso rievocativo, con nessun altro scopo se non di riferire ciò che conosco; uno zibaldone di racconti, notizie, riflessioni, aneddoti, indagini, finti segreti, spiragli, smagliature, da cui chi si pone in ascolto possa trarre l’impressione di trovarsi in presenza di una persona familiare. Vorrei che il racconto inducesse il lettore a scegliere il percorso che più gli aggrada, anche saltabeccando a piacimento. Ho intenzionalmente evitato di interrompere il flusso con capitoli e titoli in modo da lasciare il respiro libero di espandersi secondo un proprio ritmo. Il personaggio Fellini è affascinante proprio perché non è incasellabile neppure sulla pagina. Se dovessi scegliere un’immagine simbolica di ciò che voglio esprimere, prenderei a prestito il dipinto che campeggiava nell’ingresso dello studio del 8 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

pittore Rinaldo Geleng, suo complice e amico fraterno. Era un ritratto, serio, a mezzobusto, eseguito a carboncino dalla mano esperta di un disegnatore molto dotato a cui un giorno Federico, incorreggibile, prendendo il pennello aveva aggiunto un gran fallo in erezione per tutta l’altezza della tela e in cima aveva scritto dentro un fumetto: “Ma quando mi fai fare qualcosa oltre la pipì?” Poi, da legittimo autore, aveva anche apposto in basso a sinistra la sua firma accanto a quella dell’artista. Sono persuaso che la strada migliore per stare vicino a Federico sia assorbirne la luce, unica e irripetibile, lasciarsene riverberare. Come è successo a me. Se qualcuno rintraccerà in questi racconti anche una biografia artistica del regista, non sarà fuori strada; se qualche altro avvertirà il bisogno di orientarsi in una geografia di argomenti e di personaggi, sarà sufficiente gettare un occhio all’indice dei nomi in coda al volume per rinvenire una mappa. Ma senza alcun impegno; con la medesima rilassata curiosità con cui si guardano i titoli di coda di un film, aspettando che finisca la musica.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

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Presentazione

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PRESENTAZIONE

Quando Federico è scomparso, la sostanza ancora magmatica di tanti anni trascorsi al suo fianco è iniziata spontaneamente a tracimare; forse anche in virtù del ruolo che ero stato chiamato a ricoprire, incaricato dal 1997 al 2000 di formare e dirigere l’Associazione Fellini istituita a Rimini. La sorella del regista, Maddalena, aveva ricevuto nel lascito la biblioteca del fratello e alcune casse di effetti personali, appunti, progetti di lavoro, rimasti nell’ufficio di Corso d’Italia. Con quell’eredità (la cui parte più preziosa fu messa al sicuro nel caveau della Cassa di Risparmio di Rimini), era possibile costituire una prima base di archivio; da arricchire con altro materiale di acquisizione, centinaia di disegni, ma anche lettere, documenti e quote di proprietà del “Libro dei Sogni”, da me recuperati grazie al finanziamento della Regione Emilia Romagna, lungimirante e sollecita nella prospettiva di un museo cittadino e di una vera e propria Fondazione. L’immersione nella dimensione della memoria, così lontana concettualmente dal rapporto quotidiano e ancora vivo intercorso con Fellini, mise inevitabilmente in moto il bisogno di dare un ordine narrativo a ciò che l’artista aveva rappresentato, almeno per me. Ed era nato il romanzo Federico F. pubblicato nel 2000 da Avagliano Editore; nel quale veniva raccontata la straordinarietà di un incontro così prezioso e singolare, ma in cui non poteva rientrare tutto il vissuto ‘quotidiano’ dei lunghi anni trascorsi a orbitare attorno all’artista. 11 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

La prima volta che avevo messo piede su un set di Fellini era stato nel 1970 in occasione del film Roma. Avevo ventitré anni e da quell’opportunità era conseguito per me anche il primo guadagno nell’industria del cinema, regolarmente corrisposto da Elio Scardamaglia, primo produttore del film. Roma era nato per una emanazione quasi fisiologica dall’opera precedente I clowns realizzato da Scardamaglia per la RAI ma poi distribuito regolarmente anche nelle sale. Per incarico di Federico avevo svolto un’inchiesta in forma di trattamento che era andata a confluire nella sceneggiatura scritta da Bernardino Zapponi. Il tema consisteva nel rapporto che le nuove generazioni intrattenevano con il sesso; dovevo mettere a fuoco in che modo fosse cambiata quella ricerca misteriosa e un po’ feroce della donna che per i nostri padri era coincisa con l’iniziazione nelle case chiuse, cioè con il piacere a pagamento, l’unico contatto intimo consentito dalla morale vigente; e come questo avesse in generale condizionato l’atteggiamento nei confronti della vita. Si respirava in quel momento la stagione di transizione e di radicale sovvertimento dei costumi propiziati dai movimenti hippy americani e dalle successive contestazioni studentesche in Europa. Uno sguardo ‘giovanile’ che confluì specialmente nella sequenza di Villa Borghese e in altre scene del film, compreso il finale del carosello motociclistico, notturno, attraverso le strade e gli antichi monumenti di Roma. La collaborazione di lavoro moltiplicò le occasioni di incontro; presto mi trovai a far parte della ristretta cerchia di intimi che si muovevano attorno a Federico, sul set e fuori. Alcune settimane di lavorazione vennero a cadere in piena estate quando la Capitale assume, se possibile, un aspetto ancora più fantasmagorico e affascinante. Fellini girava preferibilmente di notte e il caravanserraglio della produzione si spostava da uno scenario all’altro, da Piazza di Spagna al Colosseo, da Piazza del Popolo a Trastevere, creando ogni volta un evento a sé. Perché tutta Roma sembrava partecipare con eccitazione a quella festa. Sul set arrivavano in 12 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Presentazione

visita politici, alti funzionari televisivi, divi americani, bellissime donne in passerella, agenti internazionali, prelati, direttori di giornali, colleghi del cinema; e oltre le transenne si affollava instancabile la ressa di curiosi, di turisti, di aspiranti generici speranzosi di essere ingaggiati in scene di massa. Nelle pause tra una ripresa e l’altra, mentre si cambiavano le luci, a sorpresa arrivava su un tavolino da campo il cocomero tenuto in ghiaccio; veniva spaccato dagli attrezzisti e servito tra esclamazioni di gioia agli ospiti del regista. Il quale da tutti, indifferentemente, veniva chiamato “Federico”. A notte fonda, prima che il cielo iniziasse impercettibilmente a schiarire, veniva dato lo stop, le torrette dei proiettori venivano smontate, i camion si rimettevano in marcia uno in fila all’altro per tornare a Cinecittà. Appuntamento alla sera successiva, in un altro angolo di Roma, per proseguire la ‘scampagnata’. Una ‘festa mobile’ l’avrebbe definita Ernest Hemingway. Era cominciato così il mio ingresso nel mondo del cinema, parallelamente a una frequenza con Fellini che, partita senza alcun accordo, si era protratta giorno dopo giorno inanellando un bel numero di anni, fino a quando il mago era scomparso di scena. Un film dietro l’altro il tempo era volato via. Ancora ragazzo mi ero trovato al centro del sogno, a sedere abitualmente a tavola con il monarca e la sua corte, a trattare familiarmente con personalità altrimenti irraggiungibili nella vita comune, a seguire Federico negli incontri ad ogni livello, negli impegni a catena con produttori, giornalisti, editori, esponenti del governo, ammiratori di ogni nazione del mondo, belle signore capaci di accendergli la fantasia. Ascoltavo i suoi racconti, assorbivo i suoi punti di vista, mi esaltavo al suo funambolismo mentale, e verbale, capace di dischiudere prospettive insospettabili; con l’estrosa spontaneità dei bambini che vedono il mondo intorno a loro attraverso occhi incontaminati, capovolgendo ogni convenzione, ogni logoro luogo comune, ogni stanco giudizio ideologico. 13 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Lo sguardo di Federico era ogni volta una scoperta, un trasalimento, una rivelazione. Standogli al fianco assistevi all’affioramento del suo cinema inimitabile prima ancora che fosse imbrigliato in un soggetto e impressionato sulla pellicola; prima che un’idea, un’intuizione, si tramutasse in una storia, in una sequenza da filmare. Questa era anche l’emozione di scrivere insieme a lui, di dare forma a una situazione, a un personaggio, a uno scorcio, a un dialogo, che portavano inequivocabilmente dentro il suo mondo iridescente e inesauribile. ‘Secrezioni diamantifere’, le chiamava lui quando voleva spiegare la pura essenza di qualche scrittore che amava. Scendendo lungo via Veneto un giornalista gli si era parato davanti con volto crucciato, trattenuto ma risentito; da mesi non riusciva a ottenere un’intervista, ogni volta rinviata dal regista con una scusa diversa. Questa volta la balla era proprio sfacciata: “Ma Federico, mi avevi detto che stavi partendo per Hong Kong e invece sei qui a Roma?” E Fellini senza l’ombra di un tentennamento nella risposta: “Ti sbagli: tu sei a Roma, io sono a Hong Kong.” Se stavamo insieme per lavoro la giornata si concludeva con la buona notte davanti al suo portone di casa, in via Margutta 110; se invece non ci eravamo visti durante il giorno mi dava appuntamento a cena, in qualcuno dei locali da lui preferiti; passavo a prenderlo in macchina e ci univamo agli altri amici più stretti con cui concludere la serata. Oppure andavamo a Ostia, la sua mèta preferita per chiacchierare e raccogliere i pensieri, raggiungevamo quel mare che era per lui la copia scenografica, dunque un perfetto succedaneo, del litorale di Rimini. D’estate la rotta era più di frequente Fregene, dove Giulietta si trasferiva nella villa in pineta acquistata ai tempi di “Giulietta degli Spiriti”, e si restava a conversare in giardino, con chi c’era. Quasi senza accorgermene ho soggiornato nel campo magnetico di Fellini per tutti gli anni della mia formazione, quasi cinque lustri, dal 1969 al 1993. 14 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Tra il 1939 e il 1943 Federico Fellini pubblicava sul “Marc’Aurelio” raccontini in cui è facile ritrovare una galleria di personaggi così simili a quelli poi maturati, di lì a pochi anni, nei film. Sono proto/tipi, abbozzi, incunaboli che contengono tuttavia ben delineata l’intensa poetica onirica del regista di 8 ½. Federico era poco più di un ragazzo, ma in pochi anni aveva pubblicato sulla celebre testata satirica più di 800 articoli e 300 vignette, senza contare la produzione a getto continuo di testi e disegni per altri giornali umoristici, a cominciare dal fiorentino 420. Ai quali vanno aggiunti le scenette, le gag, i monologhi per gli attori del varietà (da Macario a Fabrizi), nonché i copioni per il teatro di rivista. Per non parlare del profluvio di sketch scritti per la radio, la EIAR a quei tempi. Sebbene non conosciuto di persona – non c’era la TV che rende familiare ogni volto noto e ignoto – la popolarità di Fellini era vastissima, soprattutto tra i giovani. Alberto Sordi ricordava con spasso che il pubblico del Teatro Sistina dove in quel momento era in cartellone un suo spettacolo, scoppiò in un applauso fragoroso e interminabile quando egli, a sorpresa, annunciò la presenza in sala di “Federico Fellini, la nota firma del “Marc’Aurelio”, che oggi s’è sposato.” Era infatti il 30 ottobre del 1943, Federico aveva 23 anni (Giulietta 22), e più di una volta mi aveva raccontato, con divertito compiacimento, di non aver mai guadagnato tanto – in proporzione al tempo o alla 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fatica – come in quel prospero periodo. Trattandosi oltretutto di un lavoro che non considerava tale, anzi svolgeva in una specie di allegra euforia, anche quando contemporaneamente alla radio aveva iniziato le prime collaborazioni alle sceneggiature cinematografiche, specialmente di film comici. Aldo Fabrizi gli pagava “brevi manu” le battute che lui gli suggeriva, e anche nelle riunioni di sceneggiatura, che Fellini rievocava con punte di esilarante comicità, il divertimento, la chiacchiera svagata, e soprattutto le spaghettate prevalevano decisamente sul dovere. La stessa Giulietta riferiva il proprio stupore quando, invitata finalmente a cena dal timido e romantico ragazzo di Rimini, al momento del conto lo vide tirar fuori dalla tasca dei calzoni un rotolo di banconote così grosso che non entrava quasi nella mano. Insomma Pinocchio era entrato davvero nel paese di Bengodi. E il “Marc’Aurelio” aveva svolto il ruolo di porta magica. Un passe-partout per le regioni della fantasia, del sentimentalismo candido, dell’intelligenza spiazzante, dell’umorismo surreale, delle confessioni private di quel singolare ragazzo di vent’anni che si firmava Fellini, Fellas, Federico, o una semplice F. a seconda dei casi. Le sue erano storielle personalissime che apparivano sotto rubriche dai titoli infallibili: “Primo Amore”, “I fidanzatini”, “Oggi Sposi”, “Ma tu mi stai a sentire?”, e in esse riversava la sua vena più malinconica e stralunata. Un intero universo di personaggi cominciava a farsi largo sulla scena: sono i primi abbozzi, riconoscibilissimi, di quei caratteri che presto affolleranno i suoi film, il cartone preparatorio di un arazzo a cui sta per mettere mano l’artista maturo. Non capita spesso di poter entrare con tanta naturalezza nella personalità di un genio, scoprirne i pensieri, le fantasie, i sentimenti, i modelli precoci, assistere all’espansione della sua esperienza esistenziale, al primo deposito della sua ‘memoria’. Il ragazzo che è partito da Rimini una mattina all’alba, quando tutti dormivano – come è narrato ne I vitelloni – non si stan18 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ca di parlare della sua città, dei suoi fantasmi inseparabili, della sua famiglia (“Richettino bambino qualunque”), della sua scuola (“Seconda liceo”, “Compito in classe”). E di Bianchina, la ‘fidanzatina rotonda’, chiamata anche Pallina: la rubrica con cui Fellini raggiunse un’immediata celebrità, colpendo al cuore – e per sempre – i suoi innumerevoli ammiratori.

Esiste un’opera giovanile di Fellini scomparsa nel nulla. Ultimi mesi del 1944. Federico aveva 24 anni, da un anno era sposato con Giulietta Masina incontrata all’EIAR durante la realizzazione di una rubrica da lui scritta e da lei interpretata. Si intitolava “Cico e Pallina”: una delle tante fantasticherie, fra comiche e sentimentali, che veniva pubblicando con enorme successo sulle pagine del “Marc’Aurelio”. Grazie alla sua verve, alla fervida immaginazione, alla facilità di scrittura e all’inclinazione per la battuta brillante di gusto spesso surreale, il giovane giornalista viene chiamato a collaborare alle sceneggiature dei film comici, inizialmente come gagman, e in seguito come soggettista. Il primo ad apprezzarlo seriamente e a coinvolgerlo nei propri progetti è Aldo Fabrizi, attore in quel momento assai in auge sia nel cinema che nel teatro di varietà. Insieme scrivono film di successo come Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella, Campo de’ fiori, diretti da abili registi di commedia, Mario Bonnard o Mario Mattoli. Fellini si fa un nome, e quando Roberto Rossellini e Sergio Amidei (l’autore del soggetto) decidono di realizzare Roma città aperta, si rivolgono a lui sia come sceneggiatore sia come tramite per attrarre Aldo Fabrizi, il quale con la sua popolarità avrebbe garantito al film distribuzione e finanziamenti. Di soldi non ce n’erano molti, tuttavia la produzione disponeva di una sede regolare, in via Francesco Crispi. Si chiamava Nettunia Film e faceva capo alla contessa Chiara Politi, moglie morga19 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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natica del Re Fuad d’Egitto, che Rossellini chissà con quali arti era riuscito a persuadere a quell’impresa. Racconta Alvaro Zerboni, giornalista romano e unico depositario di questa storia incredibile: “L’ufficio di via Crispi dalle parti del Tritone, era al quarto o quinto piano di un imponente edificio, provvisto di uno scalone da cui tante volte avevo visto discendere il giovane Fellini, già con la sua sciarpa intorno al collo. Io che avevo tre anni meno di lui e tentavo di fare l’animatore di fumetti, lo guardavo affascinato perché tutte le settimane leggevo i suoi raccontini sul “Marc’Aurelio”, oppure ascoltavo le scenette che scriveva per la radio e ne ero proprio entusiasta. Anche in redazione scherzava sempre. Anzi ho un ricordo preciso. Il giorno in cui gli arrivò una telefonata, lui andò a rispondere ed era Giulietta Masina che gli annunciava la nascita del figlio (Pier Federico detto Federichino, che vide la luce il 22 marzo 1945, destinato a spegnersi dopo pochi giorni). Improvvisamente lo vidi intenerirsi, commosso, e per cercare forse di arginare l’emozione, continuava a domandare: «E com’è: è racchio? È racchio?». Usando un termine di moda fra i giovani; esisteva persino una rubrichetta intitolata Genoveffa la Racchia. Quando chiuse la comunicazione non si trattenne dall’esclamare, “Mi è nato un figlio!”, rivolgendosi più al suo amico Panei che genericamente a noi della redazione. Però non lasciò subito l’ufficio, rientrò nella stanza della produzione per riprendere parte alla riunione in corso.” L’ufficio in cui si produceva Roma città aperta, era ospitato in un appartamentone di più stanze, e in una di esse, parallelamente alla lavorazione del leggendario film del Neorealismo, procedeva di pari passo un secondo progetto, un cortometraggio di animazione dal titolo americaneggiante: Hallo Jeep! Ne era autore lo stesso Fellini insieme appunto al suo amico Achille Panei che partecipava all’iniziativa insieme a un manipolo di disegnatori considerati i migliori sulla piazza. 20 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

“La direzione artistica – continua Zerboni – era stata affidata inizialmente a Luigi Giobbe, ma erano coinvolti altri illustri disegnatori del momento, come Niso Ramponi detto Kremos, Franco Coarelli, lo stesso Achille Panei, il maggiore in età, oltre me che stavo solo iniziando. Il più bravo era Niso Ramponi, cesellatore sopraffino di donne sensualissime, alla Boccasile, alla Walter Molino, e infatti era collaboratore del “Marc’Aurelio” e soprattutto del “Travaso” per cui illustrava le copertine, e già aveva partecipato a diversi film di animazione del periodo bellico. Fu lui infatti a raccogliere in seguito la direzione artistica di Luigi Giobbe. Federico Fellini aveva inventato la storia e siccome era appassionato di fumetti, stava dietro a Panei per imparare il mestiere. Confessava anzi che quello di animare i disegni era sempre stato il suo sogno.” In un primo tempo era stato cooptato anche Francesco Guido, che si firmava Gibba, originario di Alassio e già esperto di animazione: “Mi aveva chiamato Niso – conferma Ramponi – invitandomi a far parte dell’avventura, anticipandomi che si trattava di un’idea geniale scritta da un giovane autore appassionato di cinema. Io alla fine del 1944 ero già tornato dalle mie parti, in Liguria, ma approfittando del passaggio di un amico che si spingeva in macchina fino in Calabria ad acquistare fichi secchi, tornai per qualche giorno a Roma. Mi recai all’ufficio di via Crispi, quasi all’angolo con via del Tritone e incontrai tutti i personaggi coinvolti, compreso Fellini che ancora non era noto e se ne stava curvo al suo tavolo non so se a scrivere o a scarabocchiare. Mi ricordo un gran ciuffo nero, una testa di capelli che sembrava un orto incolto. Abbiamo scambiato qualche parola, gli ho raccontato un po’ delle mie vicende e mi sono fatto mettere al corrente su questo cartone animato. Apparivano tutti molto convinti, entusiasti. Niso aveva già disegnato la jeep e il carro armato Hermann, e pensava che un buon animatore di esperienza come me sarebbe stato utile all’im21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

presa. C’era da stabilire il compenso, ma sembrava che i soldi non mancassero, l’occasione era interessante. Però nessuno era in grado di garantirmi una continuità di lavoro, si parlava di un impegno di due, tre mesi al massimo. Preferii non prendere subito una decisione, avrei dovuto stare a Roma sulle spese, mi era necessario fare qualche calcolo. Niso, da buon romano che prendeva le cose non dico alla leggera ma con più filosofia, continuava a invogliarmi: “Ma che te frega! De che te preoccupi!” In effetti le persone erano stimolanti, i disegni preparatori molto promettenti. Ma io avevo bisogno di un guadagno fisso, e così presi tempo, me ne tornai a casa. E loro partirono senza di me.” Nell’ufficio di via Crispi, situato sopra il bar-biliardo “Mokaino”, una stanza era occupata dall’amministrazione, un’altra dalla produzione di Roma città aperta, e un terzo locale, lo stanzone più vasto, era assegnato alla realizzazione del cartone animato intitolato Hallo Jeep!, dove trovavano posto appunto i disegnatori, i bozzettisti e gli animatori impegnati nella lavorazione. In mezzo a loro, in qualità di autore del soggetto e della sceneggiatura del disegno animato, indugiava spesso Federico Fellini, “magrissimo, un testone dalla chioma rigogliosa, il viso sorridente, un marcato accento emiliano e la vocina chioccia quanto canzonatoria”. Gibba, rievocando il suo breve soggiorno nella redazione, riferisce che Fellini appena poteva si metteva seduto accanto a Panei per osservarlo con attenzione mentre animava il pupazzetto della jeep; tanto che Panei brontolava lusingato: “Questo è un rompiballe che vuol mettere becco su tutto, anche sul lavoro mio!” Serpeggiava insomma per lo stanzone una certa elettricità da prime donne gelose, e Gibba che aveva messo mano anche lui a qualche proposta di bozzetto, a un certo punto disegnò la jeep che faceva le smorfiacce a Federico. Ogni pomeriggio nell’ufficio di via Francesco Crispi, a fine riprese, convergevano gli autori di Roma città aperta che da varie settimane andava avanti nelle riprese; si rinchiudevano nella 22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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loro stanza e affrontavano discussioni interminabili, commenti, critiche, proposte, ripensamenti. Arrivavano Rossellini, Sergio Amidei, lo stesso Aldo Fabrizi e gli altri attori, compresa Anna Magnani. La quale se la prendeva spesso con Maria Michi (l’attrice interprete della sorella della protagonista che nel film se la fa con i tedeschi). “Una volta – continua Zerboni – dal nostro stanzone udimmo la Michi che piangeva e strillava, vittima di una strapazzata di Nannarella. Altre volte uscivano dalla stanza Fellini e Amidei, e lo scrittore benché fosse notevolmente più anziano di Federico, stava ad ascoltare il giovane collega con molta attenzione e annuiva convinto alle sue considerazioni.” Federico Fellini sessant’anni prima, aveva già anticipato la moda di trasformare le automobili in personaggi semi-umani e renderle protagoniste di film di animazione. Un’idea che i pagatissimi creativi delle Major Companies americane avrebbero saputo sfruttare a dovere, imbastendoci sopra brillanti commedie popolari: le automobili umanizzate vantano successi travolgenti a iniziare da Un maggiolino tutto matto della Walt Disney; e Cars negli Stati Uniti è stata una vera hit al botteghino. Ma l’ispirazione originaria risale proprio a Hallo Jeep! inventata e scritta da Fellini a cavallo tra il 1944 e il 1945. È del tutto verosimile che il cartone animato, realizzato con la medesima produzione, Nettunia Film, e durante le stesse settimane di Roma città aperta (1945), sia finito negli Stati Uniti seguendo il produttore americano Rod Geiger, il quale aveva comprato i diritti di distribuzione per il suo Paese del capolavoro di Rossellini a cui il film di animazione era commercialmente abbinato. Si comprenderebbe allora perché dopo il 1945 e al termine dei tre mesi di lavorazione, sia sparita ogni traccia di questo straordinario reperto. “L’ipotesi non è per nulla campata in aria; – aggiunge Zerboni – Fellini aveva scritto un brogliaccio di situazioni, accompagnato 23 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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da alcuni schizzi, in cui una jeep usciva dalla fabbrica e affrontava in guerra uno Stukas tedesco. La jeep era una macchina popolarissima in quel periodo, perché era in dotazione all’esercito americano che, si diceva, avesse vinto la guerra anche grazie a quell’innovativo mezzo di trasporto!” Non esisteva una trama vera e propria, la vicenda era affidata a un susseguirsi di gag che Fellini aveva già schizzato in una serie di vignette, un canovaccio figurato che attualmente chiameremmo story-board del film. Federico aveva genialmente antropomorfizzata la mitica Jeep Willis MB degli anni ’40, l’agile fuoristrada in dotazione alle truppe americane. Anzi l’aveva trasformata in una piacente signorina che insieme al carro armato Hermann, l’eroe maschile schierato dalla parte dei liberatori, combatte contro uno Stukas, il leggendario aereo monomotore biposto della tedesca Luftwaffe. Nella vicenda non apparivano personaggi umani, ma soltanto macchine umanizzate. Il carrarmato Hermann, per esempio, aveva un muso a proboscide come un elefante, che era poi il cannone utilizzato espressivamente come naso. “Si procedeva così, a tozzi e bocconi – ricorda Zerboni – fino a quando la produttrice della Nettunia Film, la contessa Politi, vendette Roma città aperta ancora incompleto a Rod Geiger, un ufficiale delle forze armate americane, lasciando in sospeso la realizzazione del cartone. Il nuovo produttore provvide a finanziare le brevi riprese di raccordo ancora mancanti di Roma città aperta, chiamati nel gergo cinematografico i ‘fegatelli’. Hallo Jeep! invece chiuse definitivamente i battenti.” La lavorazione andò avanti complessivamente per almeno tre mesi e stando alla testimonianza di Francesco Guido detto Gibba, la durata del film, a colori, si aggirava attorno ai dieci minuti. La pellicola impiegata era un triacetato di celluloide infiammabile; anch’esso un residuato bellico. In quel periodo infatti era prati24 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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camente impossibile reperire i più canonici rodovetri, ed era stata già una fortuna trovare d’occasione quelle vecchie celluloidi, di cui qualcuna sicuramente già usata. Come mai di un prodotto cinematografico così singolare, di una impresa tanto innovativa, non è rimasta praticamente traccia? Non si è saputo di fatto più nulla, scomparsa, cancellata dagli archivi.

“A mio parere – confida Zerboni – c’è di mezzo anche una precisa volontà di Federico, il suo atteggiamento superstizioso. Mi ricordo che dopo tanti, tantissimi anni, una volta che eravamo a pranzo insieme e provai a parlargli di Hallo Jeep!, egli glissò rapidamente. Al film infatti erano collegate varie vicende sinistre e a un certo punto si diceva proprio che portasse sfortuna. Anzi che fosse in particolare il musicista del film a portare jella.” Una catena di disgrazie preoccupanti: “Luigi Giobbe, il primo direttore artistico del film, si era sparato per una delusione d’amore. Sopravvisse soltanto perché il proiettile gli rimase conficcato nel muscolo cardiaco senza ledere il funzionamento di quell’organo vitale. E fu per questo che gli subentrò nella direzione Niso Ramponi. L’amministratore della Nettunia Film, che era notoriamente il giovane amante della contessa Politi (ricordo benissimo un particolare, teneva appeso al muro dietro la sua scrivania un ritratto-caricatura che gli aveva fatto Federico, talmente somigliante che sembrava balbettasse, cioè che riproducesse perfino il suo difetto nel parlare), se ne scappò con la cassa. E Franco Coarelli, uno dei migliori illustratori, fece una fine orribile di cui ebbe a occuparsi la cronaca nera. Una notte andò insieme a un amico a casa di una prostituta, minacciandola con una pistola per farsi dare i soldi. Quella aveva urlato, qualcuno era accorso, i due erano fuggiti in strada, ma Coarelli era stato inseguito da un garzone di fornaio e, vedendosi 25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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braccato, aveva usato la pistola contro se stesso. Si era sparato alla testa ed era morto sul Lungotevere. Il giovane non aveva mai avuto alcun precedente penale, né era conosciuto come un individuo violento. Lo ricordo come una persona gentile e garbatissima, oltre che valente disegnatore, un autentico talento.”

A Rossellini Fellini attribuiva l’occhio più limpido, il talento più puro, ma anche l’incapacità di preservare uno strumento tanto prezioso e delicato. “Amava troppo la vita.” Aggiungeva con una simpatia mista a disaccordo. Roberto era stato il suo maestro, o meglio il “pizzardone”, come preferiva definirlo, che gli aveva indicato la via, rivelato l’esistenza di una dimensione per lui ancora confusa. Questa dimensione era il cinema, scoperta prima con Roma città aperta, e poi soprattutto con Paisà, in cui oltre a occuparsi della sceneggiatura aveva anche partecipato come aiuto regista. E il viaggio in Italia, dalla Sicilia al Polesine, su una strada di macerie che la guerra aveva disseminato, lo incantò, gli parve di scoprire nella macchina da presa la possibilità di catturare l’anima nascosta della realtà, più di quanto la scrittura non gli consentisse. “Roberto – raccontava con una punta di autentica ammirazione – aveva la capacità di fotografare anche l’aria che lo circondava. Quando si andava in sala di proiezione a controllare il girato, lo stupore era di ritrovare esattamente le medesime sensazioni che avevi registrato con i tuoi occhi, come se la scena d’insieme e i dettagli coesistessero miracolosamente in quell’unico spazio dell’inquadratura.” Ciò che lo impressionava di più era l’abilità di Rossellini di cogliere e isolare l’essenza di una scena anche nel contesto più sfavorevole: “A Firenze – continuava Fellini – giravamo con i carri armati americani che ci passavano dietro le spalle, il chiasso, la confusione, la polvere, la troupe accampata tra i calcinacci. Roberto non ne era affatto disturbato, metteva l’occhio alla cinepresa e componeva la 26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sequenza con quella vera attitudine del cineasta che trasforma ogni ostacolo apparente in un elemento a proprio favore.” Rossellini, come amava ripetere Federico, era Adamo, il progenitore, il padre di tutti. Inventore di quella visione del cinema chiamata Neorealismo. Un movimento, se non una scuola, in cui però Fellini credeva assai poco: “Il Neorealismo è solo ciò che ha fatto Roberto – diceva – anzi neppure, un unico film, Paisà. Anche Roma città aperta, per quanto importante, era una storia di impianto tradizionale, raccontata secondo le convenzioni di sempre. E i film che sono venuti dopo si sono soltanto sforzati di orecchiare, hanno cercato di ripetere a casaccio una lezione irripetibile.” Era evidente come Fellini avesse assimilato da Rossellini l’approccio alla ‘macchina cinematografica’. E non parlo soltanto dell’organizzazione delle idee, della loro trasformazione in materia di racconto, del flusso di energie che si incrociano sul set e che non vanno mai ostacolate. Mi riferisco anche allo ‘stile’ festoso, da ‘scampagnata’ – per usare ancora un termine di Federico – che caratterizzava il clima delle riprese, quell’atmosfera più paternalistica che casermesca che i due sapevano istaurare; insieme alla complessità dei rapporti umani, un intreccio di vita e di arte, di quotidiano e di sublime, molto congeniale a entrambi i cineasti. Federico raccontava, da attore consumato, le settimane di lavorazione trascorse in un languore estenuato di vacanza sulla costa amalfitana, tra Maiori e Furore, nel 1948 per realizzare Il Miracolo, di cui era interprete; secondo episodio del film L’amore (il primo era La voce umana). Rossellini e la Magnani, in coppia anche nella vita, scandivano orari di tutto riposo, e in una specie di dolce indolenza romana si preoccupavano volentieri anche del pranzo, che spesso allestivano per tutta la troupe come due genitori premurosi. Sennonché un giorno era giunto dall’estero un telegramma indirizzato al regista, che per un disguido era capitato nelle mani di Nannarella, e sopra c’era scritto: “Conosco una sola parola di italiano: amore.” Firmato Ingrid 27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Bergman. L’attrice, in America, aveva assistito alla presentazione di Roma città aperta rimanendone folgorata; all’improvviso innamorata cotta di quell’autore italiano affascinante e geniale. Nannarella non ne aveva fatto parola e all’ora di pranzo, come al solito, aveva richiamato tutti: “A tavola, è pronto!” E s’era presentata con una gigantesca terrina di pasta al sugo, condita con le melanzane e la ricotta. Un piatto in cui eccelleva. Rossellini era esultante per quella sorpresa della sua compagna: “C’hai messo anche la foglietta di basilico fresco! Brava!” La circuiva galante. “L’ho preparata come piace a te.” Lo lusingava lei. “Lo so, lo so, come la fai tu non la sa fare nessuno.” E Nannarella velenosa, con la furia negli occhi: “E allora, tie’! Magnatela tutta!” Gli aveva rivoltato in testa l’intera scodella di spaghetti e sugo di pomodoro, gettando sulla tavola sprezzantemente il telegramma della rivale. Così era finita la loro bruciante storia d’amore che non doveva essere stata certo di basso conio se, quando la Magnani morì – mi raccontava sempre Federico – Rossellini aveva voluto essere lui a truccarla, con le proprie mani, con estrema cura, per l’ultima rappresentazione. Il padre del Neorealismo amava le donne, le sposava, generava figli, metteva su famiglia, ed era un padre affettuosissimo. Quando anche la storia con Ingrid finì, ancorché si trovasse nel bel mezzo della lavorazione di un film, a fine giornata prendeva l’aereo e correva in Svezia per stare accanto alle gemelle, perché non dovessero patire la sua mancanza. Soffrivano in compenso i produttori e le maestranze per le sue non preavvertite e a volte prolungate diserzioni dal set. E forse Federico dentro di sé non approvava che per Rossellini il cinema fosse meno importante degli affetti, avendo scelto per se stesso l’esatto contrario. Avvertiva nell’amico un tradimento della propria vocazione: “Era dotatissimo, anche negli aspetti più tecnici; aveva persino inventato, e si era fatto costruire, una testata speciale per la macchina da presa, 28 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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con cui effettuare movimenti complicatissimi, azzardare soluzioni originali, sperimentare grammatiche meno rigide.” Ma il richiamo della vita era più forte. Irrinunciabile. Aldo Tonti, uno dei suoi operatori preferiti, lo aveva accompagnato qualche volta nelle Mille Miglia, una corsa epica che Rossellini amava affrontare con la fiammeggiante Ferrari. “Comprata a buffo – sottolineava Tonti – tanto non pagava mai nessuno, sapeva raggirare, sedurre, otteneva ogni cosa.” Sennonché anche la corsa veniva seconda ad altre più impellenti esigenze. “Se non lo faceva almeno una volta al giorno – continuava Tonti con imperterrita comicità alla Buster Keaton – gli veniva un doloroso cerchio alla testa. Allora ci fermavamo in qualche osteria e mentre io mi mangiavo qualcosa, lui saliva su in camera. Non so neanche come facesse a trovarle, una cliente, la moglie dell’oste, la servetta. Poi scendeva che stava meglio, e si ripartiva.” Con Rossellini Aldo Tonti andò anche in India per un film da farsi laggiù non si sa con quali capitali. Ma a Bombay Roberto aveva incontrato Sonali das Gupta e se n’era innamorato. Così aveva lasciato l’operatore nella jungla di Karapur con il compito di andare avanti intanto con le riprese di ‘ambientazione’; avrebbe fatto ritorno in capo a un paio di giorni. Passavano le settimane e il regista non si faceva vivo; Aldo Tonti, senza generi di conforto e di sostentamento, s’era ritrovato a sopravvivere come un selvaggio tra le scimmie. “Dopo che l’ultima scatoletta di salmone era stata mangiata, digerita, rimpianta e ormai dimenticata, sentii improvviso il rumore di un’automobile che si avvicinava. D’un tratto cessò; udii poi un fruscio di foglie e infine la ben nota voce che mi si rivolgeva in tono scherzoso: «Uomo bianco, da dove vieni!» Era Rossellini, un po’ dimagrito, ma abbigliato impeccabilmente, un fazzoletto di seta intorno al collo, un casco coloniale sul capo.” Da strangolarlo sul posto. Ma in primo luogo Tonti era molto più piccolo di corporatura, e poi a dirla tutta, dentro di sé ancora gon29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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golava, col mezzo toscano fra le labbra, ripensando all’incredibile avventura di tanti anni prima. Quello era il Cinema!

Fellini e Rossellini si incontrano a Piazza del Popolo. Scambio di affettuosità, rapide notizie sul proprio lavoro. “Che stai facendo?” Domanda Federico. “Un film su Gesù.” “Ancora un altro!” “Sì, – ribatte serissimo il padre del Neorealismo – ma io racconto le cose come sono andate!” L’enormità dell’affermazione già si scioglie nel riso di entrambi, si perde tra i saluti festosi, le promesse di rivedersi presto. Se l’episodio non fosse accaduto sotto i miei occhi, sembrerebbe inventato tanto è emblematico. Rossellini pretendendo di “raccontare le cose come sono andate” certo non voleva – non poteva – riferirsi a una improbabile, oggettiva riproposta della figura del Messia, quanto evidentemente a un approccio al Vangelo meno leggendario e hollywoodiano. Alludeva a quella particolare ‘adesione alla realtà’ che aveva caratterizzato il linguaggio di tutto il suo cinema. Un atteggiamento ‘estetico’ che tuttavia in nessun modo garantiva maggior verità. Casomai più ‘verosimiglianza’, una più plausibile suggestione iconografica, ma nessun passo avanti fuori della ‘finzione’. Che è organica alla rappresentazione artistica, per quanto fedele al vero l’autore si imponga di restare. L’arte, e più generalmente l’espressione – di cui anche l’informazione fa parte – possiede la sua parziale verità nello ‘stile’ cioè nella capacità di essere condivisa, creduta, accolta per l’emozione che propone. Fellini ha capito molte cose, molte ce ne ha fatte capire: per esempio che la realtà, nel cinema, è soltanto il risultato della finzione, anzi è la perfezione della finzione. Perché l’arte, quella visiva ancora più intuibilmente, è tutta simbolica e procede per associazioni, come accade nei sogni, tanti frammenti da ricomporre 30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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in un discorso coerente e convincente. Il resto è spesso equivoco, mistificazione (o impostura). Quando Francesco Rosi per Cronaca di una morte annunciata, dal bel romanzo di Gabriel Garcia Marquez, si accingeva a partire per i sopralluoghi in Sud America, Federico cercava di dissuaderlo: “Non c’è bisogno, è uno sforzo inutile, a Roma puoi trovare tutto quello che ti serve”. Non aveva mai condiviso quel piglio da esploratore, quella sindrome da spedizione militare comune a tanti colleghi: disagi, notti insonni sotto le tende, cucine da campo, marce forzate, per selezionare luoghi non indispensabili alla ripresa. Dal momento che ciò che conta è lo sguardo del regista, non la latitudine geografica. Quando mi capitò di compiere il mio ‘viaggio di formazione’ alla Monument Valley in cerca delle località in cui John Ford aveva girato i suoi western indimenticabili a cominciare da Ombre Rosse (Stagecoach, 1939), mi aggiravo fra quelle sterminate sabbie vermiglie, quelle prodigiose formazioni di arenaria, ma il fondale del film mi sfuggiva. Alla fine seguii una freccia che indicava esattamente il sito. Trovai delle baracche ancora in piedi, già quartier generale della produzione trasformate in un museo e uno shopping center; c’era persino un registro delle presenze con la dedica ampia e svolazzante di John Wayne, in cui l’attore si proclamava di diritto padrone del luogo. Sullo spiazzo esterno troneggiava la diligenza dipinta di un rosso vivo, certo un facsimile, in cui mi sono subito infilato e ho preso posto. Ma continuavo a non ‘riconoscere’ il paesaggio del film. E non poteva essere altrimenti perché ciò che avevo in mente mi era stato mostrato da John Ford, soltanto dai suoi occhi. Mi è sembrato di capire che i paesaggi ‘esistono’ quasi esclusivamente in quanto ‘rivelati’ dall’arte, il resto è fondale indifferenziato, per quanto pittoresco. La Via Veneto de La dolce vita è pura invenzione di Fellini, irrintracciabile nella realtà. Dunque, il Sud America, l’Africa, il mondo intero possono es31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sere rinvenuti anche a Roma e nei suoi dintorni, così ricca di molteplici scorci da prestarsi a ogni uso e abuso. Alla pari del Lazio e dell’Italia intera con la sua variegata geologia, la stratificazione delle epoche storiche, e le isole senza tempo. Nel film Intervista, la location ‘africana’ con tanto di elefanti è girata presso il lago di Fogliano a pochi chilometri da Latina. L’agguato dei pellerossa sulla cresta del canyon, era ambientato scopertamente in una forra della Val Nerina, in Umbria, dove si forma la Cascata delle Marmore. Ed è ancora nulla rispetto al passaggio del Rex di Amarcord per il quale Fellini non ha neppure messo piede fuori da Cinecittà. Gli sono bastati la piscina dello stabilimento e una grande sagoma del transatlantico dipinta su cartone e masonite dal decoratore di scena Italo Tomassi; con le finestrelle bucate e illuminate da dietro come le casette dei vecchi presepi e intorno lo sfondo nero della notte. Davanti alla prua due getti d’acqua delle pompe idrauliche per simulare i baffi dell’onda, intorno sfilacci di fumo al posto della nebbia marina, e a coronamento il muggire di una sirena che accompagnava la prodigiosa apparizione. L’avanzare della nave sull’onda era ottenuto in virtù di un espediente ottico, il ‘movimento indotto’, cioè spostando in senso opposto la macchina da presa sui binari; un semplice carrello in movimento in direzione contraria a quella della rotta. E l’illusione era perfetta. Una sequenza emozionante, di indimenticabile verità. Tuttavia questo è cinema superlativo, realizzato, per dirla con Federico, usando forbici, colla e pezzi di carta: gli ‘effetti speciali’ che più amava, gli unici che praticava. Il cinema attuale, quello iper tecnologico di oggi, è costretto a ricorrere a stupefacenti scenari simulati al computer per risultare credibile. Non può permettersi, come ama fare Fellini, di scoprire il gioco, per dimostrare che nella rappresentazione tutto è simbolico. E che quindi è lecito anche ricostruire la superficie del mare con i sacchi di plastica nera della spazzatura, illuminati a luce radente dai riflettori e agi32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tati fuori campo dai macchinisti. Trucchi vistosamente teatrali, eppure efficaci. Per tutti gli spettatori quello è il mare, allo stesso modo in cui nei dipinti è sufficiente a indicarlo una pennellata blu sotto il segno di una barca. Nel film E la nave va il regista alla fine della storia scopre il ‘bilico’ su cui poggia lo scafo del piroscafo costruito a Cinecittà, artefice meccanico dei caratteristici movimenti marini di rollio e di beccheggio. Un’intera crociera dentro il Teatro 5. Una sublime lezione di cinema. Sullo schermo tutto ciò che vediamo è il risultato di un ‘effetto speciale’; primo dei quali è l’inquadratura stessa. Nel momento in cui qualcuno incornicia la realtà dentro un preciso perimetro, escludendo ciò che c’è intorno, assistiamo a un’opera di selezione e dunque all’effetto di un artificio. La realtà lascia il posto alla sua rappresentazione, a un linguaggio che la riproduce artificialmente, anche nel caso del più rigoroso documentary film. Nei fiction movies, come sono chiamati dagli anglosassoni, la natura del racconto è già contenuta nell’enunciazione. Le ‘riprese dal vero’ esistono come voce produttiva, logistica; allo stesso modo in cui alcuni cineasti preferiscono utilizzare interpreti presi dalla strada al posto di attori professionisti. Cosa cambia? Ci sarà pur sempre attorno a loro un set illuminato, una scenografia concordata, abiti sistemati da un costumista. I personaggi, che siano o meno affidati a dilettanti o laureati dell’Actor’s Studio, dovranno pur sempre compiere movimenti predefiniti, pronunciare battute e dialoghi previsti dal copione, assumere atteggiamenti e posizioni da ripetere a comando fino all’esito più convincente catturato dall’occhio vitreo della macchina da presa; la quale a sua volta verrà sistemata ad arte per inquadrare, seguire e registrare l’azione. E ogni scena non potrà che iniziare e terminare nel rispetto di quell’unica ‘grammatica’ che consente in fase di montaggio di giustapporre le sequenze nella composizione di una sintassi visiva. Cosa rimane di ‘vero’ in tutto ciò? Null’altro se non il senti33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mento espresso dalla finzione. “L’unico vero realista è il visionario” non si stancava di ripetere Fellini.

FELLINI: Anna!... Anna!... Vuoi dire anche tu qualcosa su Roma? Tu che sei quasi un simbolo... MAGNANI: Che so’ io? FELLINI: ...Lupa e vestale... MAGNANI: De che?... FELLINI: In che cosa assomigli a questa città? MAGNANI: A Federì, va a dormì... va’! FELLINI: Ascolta... MAGNANI: No, nun me fido!... Ciao!... Buonanotte!

Questa era una delle ultime sequenze del film Roma (1970), girata in Piazza S. Maria in Trastevere e non a Palazzo Altieri, dove abitava effettivamente Anna Magnani. Federico aveva voluto concludere la sua dichiarazione d’amore alla Capitale con un omaggio all’attrice considerata l’essenza stessa dello spirito romanesco, la musa e l’incarnazione femminile di Roma. Romana lei lo era di certo, nata nei pressi di Porta Pia, come risultava negli estratti anagrafici, sebbene nel corso della sua esistenza si sia scapricciata a inventare, per curiosi e giornalisti, un groviglio di mezze verità di cui è impossibile riafferrare il capo. Diceva di essere venuta al mondo ad Alessandria d’Egitto, poi smentiva infastidita, e indicava come luogo di nascita un portoncino sulla salita di Monte Cenci nel ghetto ebraico; oppure un palazzone di Piazza Campitelli, vicino al Campidoglio. Paolo Stoppa, che era stato suo compagno di corso alla scuola di recitazione, preferiva attribuirle un’origine più romanzesca. Sosteneva che lei fosse una pied noir, cioè una maghrebina, nata nel nord Africa perché la madre era entrata a far parte dell’harem di qual34 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che Pasha. In effetti i tratti somatici potevano rievocare oscure origini saracene, e del padre di Anna non si è mai saputo nulla; sua madre, Marina, era una ragazza nubile e l’aveva partorita nel 1908. Recita il certificato anagrafico: È nato il 7 marzo il bambino di sesso femminile Magnani Anna. Quindi Anna è romana, non ci sono dubbi. Tuttavia di dove sono i genitori? Le rarissime volte che ne parlava confidenzialmente, con gli amici stretti, la Magnani asseriva che il padre era calabrese e la madre romagnola. Se fosse così scopriremmo che nelle vene della più romana delle dive del cinema, la più genuina, l’icona insuperata della romanità, scorre sangue affine a quello di Fellini. C’è da sospettare che per Nannarella l’intera fascia adriatica a nord di Ancona fosse definibile come Romagna. Infatti, benché non esistano prove, ci sono buone ragioni di credere che Marina, la mamma della Magnani, fosse originaria di Fano, da cui si trasferì a Roma con tutta la famiglia, cinque sorelle (sartine o modiste come lei) e un fratello. Era molto bella e rimase presto incinta. La futura attrice la descrive con i capelli neri e gli occhi celesti, d’acciaio. Da bambinetta ne teneva sempre con sé una piccola fotografia, perché a quattro anni la madre l’aveva affidata alla nonna, volando incontro al proprio destino. Aveva attraversato il mare, questo è vero, verso Alessandria d’Egitto, al seguito di un austriaco con cui aveva formato una nuova famiglia, e generato un’altra figlia. Nannarella aveva rivisto la madre, quando era già adolescente, e racconta: “Mamma mi piacque subito. Adoravo il suo modo di parlare. Ha un senso fantastico dell’umorismo mia madre. Se vuole è capace di farti ridere fino alle lacrime per ore intere.” Eppure, nonostante il benessere di cui si circonda e i regali di cui la ricolma, non riesce a far breccia nell’affetto della figlia. È la nonna, che l’ha cresciuta bambina, a occupare il primo posto nel cuore di Anna, la quale non vede l’ora di tornare presso di 35 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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lei, a Roma. La ferita non si rimarginerà più. Quando, ormai adulta e famosa, un garagista di La Spezia dove ha ricoverato la macchina insiste per vedere la sua patente, l’attrice reagisce male, rabbiosa: “Allora, vuoi sape’ pe’ forza che so’ fija de ‘na mignotta. Tiè, pìatela!” Questo episodio è ricordato da Gigetto Pietravalle, storico agente di attori, lo stesso che testimonia di come, durante un viaggio notturno verso Milano, Anna gli chiese di fare una deviazione e passare per Fano: “Qui abita mia madre – gli spiegò. – La vado a trovare. Torna a prendermi fra un paio d’ore.” Non rassegnandosi, l’attrice aveva fatto persino eseguire un’indagine sul padre ignoto, di presunte origini calabresi, scoprendone forse il cognome: Del Duce. Così aveva preferito lasciar perdere, commentando sarcastica: “Non m’andava d’esse chiamata la fija Der Duce.” La versione più giusta alla fine ci sfugge tra le dita, come sabbia. Per me propenso piuttosto a scrutare le inafferrabili verità celate tra gli interstizi dell’anima, rimane un indizio suggestivo la canzone a cui Nannarella è rimasta morbosamente affezionata per tutta la vita, e che cantava da piccola, imparando a una a una le parole dalla nonna. Ed era Reginella: “Ti sei fatta ‘na veste scullata, /nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose... ” La madre le mancava, ne aveva sofferto immensamente l’assenza, in aggiunta a quel marchio incancellabile di essere la figlia della colpa: “Io le scrivevo e lei mi mandava dei bei vestiti di seta, molto raffinati. Strano, vero? Appartenevo a una famiglia, diciamo pure, povera, e ricevevo vestiti da principessa. Eravamo dunque così diverse io e mia madre? Avevo l’impressione che lei non mi amasse come l’amavo io.” Fabrizi era un attore brillante, mattatore del varietà, capace con la sua verve romanesca di inchiodare sui sedili il pubblico in visibilio, mai stanco di starlo ad ascoltare. In coppia con Anna 36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Magnani aveva interpretato, negli anni della guerra, commedie popolari di enorme successo, come L’ultima carrozzella, Campo de’ fiori, storie sentimentali dai teneri risvolti umani. In quelle sceneggiature appare per la prima volta il nome di un giovane talento dalla battuta rapida e stralunata, Federico Fellini. L’incontro tra i due futuri amici si fa risalire al 1939, quando Federico aveva appena 19 anni e, incantato dalle gambe delle ballerine, fantasticava un avvenire nel carrozzone dei comici, dietro le quinte, rapito dalla scia di profumi e dal fruscio di sete sollevato da tante ragazze formose e un po’ sboccate. Un ambiente che racconterà, a quattro mani con Alberto Lattuada, nel suo primo film di regia, Luci del varietà, con Giulietta Masina e un impagabile Peppino De Filippo nella parte del capocomico travolto da amor senile per la nuova soubrette della compagnia, la bellissima Carla del Poggio. Non si sa se Fellini abbia fatto veramente mai parte di una compagnia girovaga qui e là per l’Italia, com’egli sosteneva senza mai riuscire a convincere del tutto i suoi biografi. Ma il sodalizio con Fabrizi aveva avuto sicuramente per sfondo quegli ambienti pervasi di sogni carnali, non meno affascinanti del circo con le belle trapeziste in calze a rete. Fabrizi aveva preso in gran simpatia quel ragazzo magro e allampanato dotato di un ingegno sorprendentemente inclinato allo spettacolo, e gli comprava le battute – le gag, si diceva allora, all’americana – da usare nei suoi monologhi, pagandogliele pronta cassa con i soldi che tirava fuori dalla tasca dei pantaloni. A fine rappresentazione gli piaceva ritornare a piedi verso casa con il giovanotto al fianco, passo dopo passo nella Roma notturna e silenziosa, fino a via Sannio, nel quartiere San Giovanni, proprio di fianco alla basilica. Aldo Fabrizi abitava al n. 39, al piano attico, e Federico andava a trovarlo, invitato a pranzo specialmente la domenica. C’è una fotografia in cui è ritratto insieme a tutta la famiglia sul terrazzo dell’appartamento, mentre buffoneggia con un fiasco appoggiato sulla testa, accanto a Fabrizi che indossa una bombetta. Insomma 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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il grande comico e il giovane apprendista erano diventati inseparabili, ed era stato il celebre attore, già corteggiato e strapagato interprete cinematografico, che aveva aperto a Federico la strada della Decima Musa. Roberto Rossellini affannato a raggranellare la somma necessaria per girare Roma città aperta, pensava a un nome di cassetta nel ruolo di don Luigi Morosini, il prete partigiano fucilato dai nazisti, e chiese a Fellini di agire da tramite. Pur tra non poche perplessità, il primattore accettò di riciclarsi nei panni eroici di Don Pietro. Fu un successo inimmaginabile che d’un colpo proiettò l’Italia in macerie sul palcoscenico del mondo. Aldo Fabrizi, seduto a cavalcioni della sedia, di schiena al plotone d’esecuzione, che respinge con una mano la benda del condannato a morte e si accascia sotto il crepitio dei fucili con in volto il sorriso serafico dell’uomo di fede, tramutò l’attore in un’icona planetaria. Sembra che Fabrizi accusasse Fellini di rubargli le battute. Rivendicava come sua l’irresistibile trovata de I vitelloni, quando Alberto Sordi affacciato al tettuccio della Balilla saluta una squadra di stradini con il famoso: “Lavoratoriii…” facendo manetta insieme a una prolungata, sonora pernacchia. Federico dal canto suo raccontava maliziosamente che quando andò a proporre a Fabrizi la parte del prete partigiano, il comico spaventato gli obiettò: “Ma che sei matto! E se poi quelli (cioè i tedeschi) ritorneno…?” Insomma qualche sciabolata di troppo aveva lasciato il segno sulla pelle dell’uno e dell’altro. Venne però il momento in cui parve possibile un riavvicinamento, quando Fellini, durante la preparazione del Satyricon (1968), pensò in un primo tempo a Fabrizi per interpretare la parte di Trimalcione. Poi però scelse Mario Romagnoli proprietario del ristorante “Il Moro”. E i due vecchi amici non si incontrarono mai più. Ma quando ne parlava il regista lo definiva “un orco buono” che lo aveva aiutato generosamente nei primi tempi in cui si era trasferito a Roma. 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Alberto Lattuada era nato al cinema durante la guerra, nel periodo del cosiddetto ‘calligrafismo’, assistente di Mario Soldati in alcuni film capolavoro: Piccolo mondo antico, Malombra. Milanese, di buona preparazione letteraria, inizialmente si inserì da regista in quel fortunato filone realizzando nell’immediato dopoguerra la trasposizione di grandi romanzi (Il delitto di Giovanni Episcopo, Senza pietà, Il mulino del Po). In essi si avvalse per la sceneggiatura del giovane e brillante Fellini a quel tempo collaboratore assiduo della Lux Film dell’ing. Riccardo Gualino; e avvenne così che i due cineasti si alleassero per un’operazione in proprio, costituendo una cooperativa che comprendeva anche le loro mogli, entrambi attrici: Carla del Poggio e Giulietta Masina. Nacque così Luci del varietà, un film rifiutato da Carlo Ponti che in segreto stava allestendo una storia analoga, Vita da cani, protagonista Aldo Fabrizi, campione al botteghino, e al suo fianco una freschissima Gina Lollobrigida. Il soggetto, neanche a dirlo considerando l’argomento, era di Federico Fellini il quale metteva a frutto l’esperienza maturata accanto al comico romano; e sarà proprio su questa presunta competizione che si incrinò la loro amicizia. Lattuada partecipò alla sceneggiatura scritta da Fellini e Tullio Pinelli, e consapevole forse della sua maggior estraneità al tema agrodolce e all’ambiente dell’avanspettacolo, offrì al più giovane collega di occuparsi insieme a lui della regia e di firmare l’opera a doppio nome. Ecco dunque come nasce quel mezzo numero che Fellini si porta dietro sibillinamente nella carriera e che affiora per la prima volta in 8 ½, ottavo film e mezzo appunto dell’autore riminese che considerava il suo esordio con Lattuada un film a metà. È dall’uscita di Luci del varietà che gli appassionati e la critica si interrogano sulla paternità dell’opera. Nel 1950 Lattuada, nato nel ’14, era già un cineasta di esperienza, con quattro titoli alle spalle; mentre Fellini fino a quel momento aveva frequentato 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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con una certa distrazione soprattutto i set di Roberto Rossellini, azzardando qualche piccola ripresa in un paio di occasioni in cui il Maestro del Neorealismo, destreggiandosi tra fughe sentimentali e costante ricerca di denaro, trascurava il piano di lavorazione. Nell’ambiente si attribuiscono al riminese alcune inquadrature del film Paisà, nell’episodio di Firenze (la breve sequenza della damigiana, agli Uffizi) e in quello del Po (il cadavere del partigiano che scivola sulla corrente del fiume con un cartello appeso al collo). Dunque la bilancia pende dalla parte di Lattuada il quale d’altra parte non aveva esitazioni a dichiarare: “C’è da parte dei critici una certa ostinazione ad attribuire Luci del varietà più a Fellini che a me. È vero il contrario. Sì, ci sono cose di Fellini. Ma ho girato il film io. Fellini conosceva il mondo dell’avanspettacolo, ma lo conoscevo anch’io. Prima di girare, per esempio, ero stato per giorni interi all’Altieri a guardare, a studiarmi l’ambiente, a coglierne i particolari che poi sono entrati nel film. La regia del film è mia.” Ma le affermazioni personali non bastano. Nel cinema, come in genere nell’arte, le parole contano poco, è il risultato a parlare, lo stile, il tocco d’autore, il suo inconfondibile frasario. A un approccio fenomenologico dell’opera, anche se non conoscessi nulla di Luci del varietà e vedessi il film per la prima volta, non avrei perplessità ad attribuirlo sostanzialmente a Fellini; perché è sua l’aria che vi circola, il disegno dei personaggi, il gusto umoristico del racconto, la vena malinconica e sentimentale, l’improvviso apparire di caratteri apparentemente scollati dal resto della trama e che hanno la funzione di riverberare sulla materia una sospesa magia, di trasmettere un ‘messaggio’ di dolce speranza e di inafferrabile trascendenza. Soprattutto, e incontrovertibilmente, appartiene a Fellini il personaggio del grottesco, umanissimo, ridicolo, sognante capocomico Checco Dalmonte affidato a Peppino De Filippo. Attore amatissimo da Federico, il quale per capacità interpretative lo riteneva superiore al suo grande fratello Eduardo: e lo volle con sé nel film più apertamente satirico e beffardo 40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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della sua carriera: Le tentazioni del dottor Antonio, episodio de Il Casanova ’70. Esistono precise testimonizanze di De Filippo riferite a Luci del varietà: “(Fellini) insegnava bene il concetto di ogni battuta, ne spiegava in modo concreto e persuasivo la ragione e il perché. Vedeva ogni personaggio vestito di ogni particolare che riguardava il suo carattere e la sua origine, la sua mentalità e il suo modo di intendere la vita che a lui, per definizione, stava di fronte. Notai che per quanto registicamente gli competeva, non rifiutava agli attori di inventare qualcosa di positivo capace di migliorare un’azione scenica purché nulla si staccasse eccessivamente dalla misura della scena stessa o della stessa semplice battuta, di un ‘dettaglio’ intelligentemente meglio sottolineato.” Buona parte del mestiere di regista consiste esattamente in ciò che evidenzia Peppino, cioè la minuziosa direzione degli attori; al punto che negli Stati Uniti il termine per indicare il regista è ‘director’, che sta per ‘director of actors’. Funzione nata alle origini, con il cinema stesso. “John Houston – riferiva il direttore della fotografia Aldo Tonti che aveva lavorato con lui – usava ancora dirigere la scena senza guardare l’azione ma ascoltando a testa bassa le battute degli interpreti, e continuando a ripetere; ‘one more’ (cioè un altro ciak); fino a quando l’intonazione, i tempi, l’incisione non giungeva appropriata e convincente alle sue orecchie.” De Filippo, mestierante di genio, spiegava con chiarezza: “…Lattuada trasponeva sulla pellicola, in azione fotografica, ciò che tecnicamente gli suggeriva la sceneggiatura del film, mentre Fellini si sentiva spesso attratto dalle invenzioni occasionali che il momento o il luogo o un attore o l’atmosfera artistica gli offrivano in rispetto alla sua geniale fantasia artistica a volte solo emblematica a volte spesso allegorica a volte fortemente realistica.” 41 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Non c’è da dubitare che le cose siano andate come testimonia il più giovane dei figli di Scarpetta. Lattuada, regista di solido mestiere, aveva tutt’altra vena, univa a una grammatica di racconto esatta ma un po’ impersonale, l’interesse mai dissimulato per les jeunes filles en fleur, per le fanciulle appena sbocciate, per i torbidi turbamenti della femminilità acerba. È stato l’inventore italiano delle Lolite, aveva lanciato Jacqueline Sassard con Guendalina, a cui fecero seguito I dolci inganni della quindicenne Catherine Spaak; aveva reso irresistibilmente sensuale Rosanna Schiaffino nella Mandragola tratta da Machiavelli, e Ira Fürstenberg in Matchless, Katia Moguy in Don Giovanni in Sicilia (ispirato a Vitaliano Brancati), Teresa Ann Savoy in Le farò da padre, Dalila di Lazzaro in Oh, Serafina!, Nastassja Kinski in Così come sei, Clio Goldsmith e Barbara De Rossi in La cicala. Un’autentica vocazione. Anche in Luci del varietà è interessante notare come la macchina da presa avvolga e accarezzi la giovane e sensuale Liliana (Lilly) Antonelli (ovvero la sua giovane moglie Carla Del Poggio). È di lei, l’aspirante soubrette Liliana dalle cosce lunghe e polpose, che si innamora perdutamente il povero Checco Dalmonte, al punto da lasciare la fidanzata storica (al bisogno anche finanziatrice della sgangherata compagnia di varietà) Melina Amour alias Giulietta Masina. Lo stesso caravanserraglio di caratteri (e caricature) – un’umanità minore, ribalda, affamata, crepuscolare – che Fellini rimise in scena con identico divertimento nel suo film di esordio, Lo sceicco bianco, sia pure trasponendo la storia dal palcoscenico ai fotoromanzi. E rievocò di nuovo nell’affamata compagnia dei guitti che appare in una spassosa sequenza de I vitelloni.

Leopoldo Trieste era un erotomane, e la qualifica divertiva moltissimo Fellini. Lo collocava nella categoria privilegiata in 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cui trovava posto d’autorità Georges Simenon, suo amico e collezionista per propria ammissione di diecimila dame (non propriamente virtuose). Quando realizzammo lo special sul progetto ‘Casanova’ Federico mi istruì: “Vai a intervistare Poldino, nessuno può saperne più di lui.” Me lo illustrava come un infaticabile dragueur che incrociava tutta la notte lungo le strade di Roma, soprattutto periferiche, blindato nel suo “batiscafo” (Trieste possedeva una Citroën Ami 8, dalla forma improbabile e poco familiare al regista) finché non riusciva a imbarcare qualche irriducibile falena. E allora la sua fatica finalmente trovava sosta. “Com’era?” Si informava Federico. E Leopoldo con la sua vocina chioccia, titubante, rastremata verso l’alto, si diffondeva nella descrizione dettagliata. Come quella volta in cui la ‘preda’, dal fisico poderoso, aveva però il difetto di possedere un occhio solo: “Ma non le stava male, anzi la rendeva un tipo, come dire, ancora più singolare…” Non a caso Federico lo scelse per interpretare lo sposino smarrito e semi cornuto dello Lo sceicco bianco; e poi il velleitario drammaturgo de I vitelloni, corteggiatore della servetta del piano di sopra. Durante la lavorazione del film a Viterbo – mi raccontava – il perfido Alberto Sordi gli aveva rubato per scherzo un taccuino segreto pieno di annotazioni e di numeri. Leopoldo era più spiritato che mai, con gli occhi fuori dalla testa, e gli altri componenti della troupe se ne domandavano la ragione: in quelle pagine erano annotate le date dei cicli mestruali di tutte le sue concupite. Senza quel calepino era perduto! Le donne erano il suo universo, la sua missione. Quante ore abbiamo trascorso a parlarne! Giovane calabrese affamato di vita era salito a Roma prima della guerra (Leopoldo era nato nel ’17) in cerca di gloria e avventura. S’era laureato in glottologia, mica scherzi, e già scriveva pieces teatrali a getto continuo. Ma un giorno aveva scoperto, per caso, attaccando conversazione in un bar con la graziosa Adriana Benetti di Ferrara (la futura Teresa Venerdì di Vittorio De Sica), che a Roma esisteva un luogo pieno zeppo di ragazze che stu43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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diavano per fare cinema. Si chiamava Centro Sperimentale: una specie di recinto belante dove un lupo avrebbe potuto affondare le zanne a piacimento. Portava i pantaloni legati in vita con lo spago ed era senza una lira in tasca, ma arrivò fin laggiù, in fondo a via Tuscolana, portando con sé qualche manoscritto. Il direttore di allora, il leggendario Francesco Pasinetti, lo accolse in vestaglia da camera accarezzando il gatto che teneva in braccio, gli accordò udienza, lesse i suoi atti unici, e decise di ammetterlo al corso di regia. Figurarsi, non sapeva neppure di che cosa si trattasse. Ma le ragazze, quante erano! “Bionde, brune, castane, con gli occhi azzurri, con gli occhi verdi, coi capelli rame, con le vesti a fiori, con le vesti a scacchi!” Da Alida Valli a Carla Del Poggio a Irasema Dilian, a Elli Parvo. Leopoldo tendeva degli agguati, si appostava dietro i voluminosi pilastri squadrati dell’architettura razionalista, nel piano interrato dove erano le sale di proiezione, e saltava loro addosso come un forsennato. Il direttore dovette redarguirlo, minacciandolo di espulsione. Fu costretto a calmarsi. Ma il sangue ribolliva senza posa, e quando circolando sostava nel cervello, lo sospingeva a scrivere drammi che nel dopoguerra fecero parlare di lui come del nuovo genio del teatro. I suoi titoli (La frontiera 1945, Cronaca 1946, N.N. 1947) correvano sulla bocca di tutti, il suo stile violentemente antiaccademico aveva inaugurato una moda, conquistava le platee. Poi arrivò “il grande traviatore” come lo definiva l’attore, e il suo destino cambiò. Esordì con Lo sceicco bianco, sottoponendosi a un provino in cui Fellini, dietro la macchina da presa, rideva piegato in due mentre l’altro recitava un sonetto petrarchesco: “Eri sì dolce e bella e piccolina, con gli occhioni sperduti di gazzella…”. Fu riconfermato per I vitelloni, e la strada d’attore era ormai segnata. Il cinema, la più grande fabbrica di belle donne che un maschio potesse sognare, divenne il suo mondo. Claudio Gora, interprete classico, raffinato, che acquistava calze di seta viola da prelato nei negozi ecclesiastici, conoscendolo per dotto 44 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gli aveva affidato dietro compenso l’educazione culturale di una ragazza di straordinaria bellezza, ma poco istruita, che intendeva condurre all’altare. Il suo nome era Marina Berti. Divenne anche lei attrice di gran fama e Poldino in una severa stagione di ripetizioni a domicilio, si vantava di averle passato e ripassato la lezione fino a consumarla. I racconti di Leopoldo sono irriferibili, ma il loro incessante scoppiettio li rendeva una festa di Piedigrotta. Si trovò in un film a dover girare una sequenza a letto con Michèle Mercier, la seducente interprete della serie di Angelica. Si caricò a tal punto durante quella obbligata intimità che a fine lavorazione portò l’attrice in un appartamentino che teneva per buon uso sulla via Tiburtina, comprò il cibo necessario, chiuse a chiave la porta, e per quattro giorni non la fece più uscire di casa. Dalla Francia giungevano telegrammi allarmati alla produzione italiana per il mancato rientro della diva a Parigi, dove il marito la stava attendendo comprensibilmente nervoso. Un’altra volta, durante una trasferta, bussò alla stanza di una attricetta ancora inesperta ma di sovrana avvenenza, e quando lei dischiuse l’uscio lo infilò a tradimento tra lo stipite e il battente: rischiò l’amputazione ma riuscì ad averla vinta. Nell’ultimo periodo della sua vita Leopoldo trascorreva volentieri qualche ora della mattina in una garbata libreria antiquaria nei pressi della sua abitazione a via Piacenza. Il libraio, Arturo, gentiluomo ischitano, gli faceva un po’ da segretario, da confidente, spediva per lui i fax o la posta elettronica dal proprio computer. E Leopoldo indugiava volentieri a chiacchierare, senza mai separarsi dal suo thermos di caffè ben carico; a più riprese versava il liquido caldo nel cappuccio a vite e lo beveva con gusto a sorsetti. Quel thermos lo seguiva dovunque, in viaggio, in albergo, sui set di tutto il mondo. Confondendo le parole alla sua risata stridula, Poldino mi partecipò l’intenzione di destinarlo al Museo del Cinema di Torino che gli chiedeva un cimelio per la propria collezione: “Vittorio Storaro, il direttore della fotografia, 45 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ha donato l’obiettivo utilizzato in Apocalipse Now, e io regalo il thermos del caffè, il mio oggetto più rappresentativo!”. A fine carriera era stato preso in gran simpatia da Francis Ford Coppola, per il quale ne il Padrino parte II (1974) aveva interpretato il personaggio del signor Roberto, lo strozzino di Little Italy. E quando una ben nota ditta di caffè ingaggiò il regista americano per realizzare la propria campagna pubblicitaria, Coppola ricorse ancora una volta a Leopoldo. Il breve filmato, una manciata di secondi, era un esplicito omaggio a Fellini, il rifacimento in chiave di spot della celebre sequenza della pineta ne Lo sceicco bianco. Così Trieste tornò da dove aveva cominciato, al suo “fatale traviatore” che gli aveva dischiuso le porte di un paradiso al cui confronto quello dell’Islam con le sette vergini, è appena un surrogato.

“In un primo tempo avevo dei dubbi, non sapevo bene chi volevo per il personaggio del divo dei fumetti. Avevo pensato a un bellone volgare, tipo Rossano Brazzi. D’altra parte Sordi usciva dal fiasco di Mamma mia che impressione ed era malvisto dal noleggio. Ma io capivo che lui ci teneva. Mi ricordo che un giorno andai a trovare Giulietta sul posto di un filmetto che stavano girando fuori Roma. C’era anche Alberto, vestito da soldato, che faceva parte del cast degli attori. Mi ricordo che si mangiava sotto gli alberi, era d’estate, una colazione coi panini, c’erano le cicale. Alberto stava seduto per terra, io mi alzai per andare via. ‘Addio Alberto’. ‘Vai già via? Addio Federì.’ Poi disse: ‘L’hai trovati gli attori per il film?’ e io quasi seccato: ‘No, non li ho ancora trovati.’ Allora lui tirò su quegli occhi chiari e con grande semplicità, con quegli occhi sbiaditi, disse: ‘Perché non me lo fai fare a me, Federì? Lo sai che te lo farei bene!’ Non lo disse da questuante, ma lo disse in tono serio, senza presunzione, come se fosse già disposto ad essere scartato. Era consapevole d’essere bravo, ma con 46 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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molta umiltà. Questo suo atteggiamento mi colpì, ci pensai dopo e mi smosse dentro qualcosa. Allora decisi di fargli il provino. Mi ricordo che già nel provino era straordinario.” Così Fellini parla del suo primo film da regista, Lo sceicco bianco e di come accadde che alla fine Alberto Sordi ne divenne il protagonista, al fianco di Brunella Bovo e di Leopoldo Trieste, gli sposini in viaggio di nozze a Roma travolti in una vicenda tragicomica. Alberto Sordi non faceva ridere al cinema, e aveva precedenti assai poco incoraggianti. I produttori non lo volevano. Infatti anche Lo sceicco bianco andò male. Fu bocciato al Festival di Cannes, rientrò a stento nella selezione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, ma fu accolto piuttosto freddamente dal pubblico festivaliero e con palese ostilità da parte della critica. Nelle sale si risolse in un fiasco. Alberto Sordi racconta di quando lui e Fellini si infilarono al cinema Manzoni di Milano per spiare le reazioni degli spettatori: «Entrammo: tutto buio, tutto deserto, tutto silenzio. Barcollammo un po’, poi ci accorgemmo che le sedie erano vuote, non c’era nessuno. A un certo momento sentimmo ridere; allora un po’ confortati ci indirizzammo verso quella parte e ci sedemmo dietro quelli che ridevano: era una coppia anziana, lui le teneva il braccio attorno alle spalle. Stemmo lì a orecchie ritte, ma poi ci accorgemmo, con stupore, che quelli non ridevano mica, ma irridevano! Irridevano a me, allo Sceicco, e dicevano: “Ma chi l’è chel lì? Sel sa nanca parlà!” “Guarda ti che roba!” “L’è una roba da matti!” Ci alzammo delusi e sgusciammo via nel buio, quatti quatti, come due ladri inseguiti.» Per la mancanza di incassi la società produttrice di Luigi Rovere dovette chiudere e Lo sceicco bianco fu alla fine sequestrato dal curatore fallimentare. Commenta Fellini: «Purtroppo la comicità di Sordi in quegli anni era capita da pochissimi. Forse perché aveva qualcosa di folle 47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come accade a tutti i talenti innovatori. O forse perché non aveva una dimensione né ironica né sentimentale, ma era grottesca con un fondo di sgradevolezza che non piaceva. Ogni volta che avevo parlato di lui a registi e a produttori, avevo sempre visto delle smorfie, dei cenni di diniego. Io ebbi enormi difficoltà a prenderlo. Povero Alberto, ha dovuto fare una gran fatica a venir fuori.» Ma Sordi, consapevole dei propri mezzi, non perse la fiducia in se stesso: «Io non gli ho mai visto un’espressione mortificata sul viso. – Osserva Federico. – Non faceva mai cenno a queste umiliazioni. Non aveva neanche una baldanza rancorosa, rivendicatrice. Nulla. Sembrava soltanto che avesse la consapevolezza d’avere un talento vero e che si trattasse di tempo. Era molto dignitoso, ricominciava sempre. Mi ricordo anche che non provava invidia: quando gli spiegavo o gli mimavo qualcosa, me lo vedevo davanti, col suo faccione un po’ lunare, coi suoi occhi tondi, e diceva come incantato: ‘Quanto sei bravo Federì! Ammappelo se sei bravo.’ In questo era simpatico.» Il problema del cast si ripropone con I vitelloni. Fellini, incurante dell’ostilità, lo sceglie per il ruolo di Alberto: «Lì per lì – ricorda Sordi – io avrei risolto molte cose in maniera diversa, ma poi Federico mi aiutò a capire che un personaggio, anche più contenuto, può funzionare benissimo… Non c’è bisogno che uno punti solo sui momenti comici per far ridere il pubblico, in realtà ci possono essere dei momenti seri a cui uno si interessa ugualmente. M’insegnò che lo spettacolo è proprio così com’è la vita: ha i momenti allegri e i momenti dolorosi, un po’ di tutto.» A riprese concluse la società distributrice ENIC chiese addirittura che il nome di Sordi venisse cancellato dai manifesti e dai titoli di testa. Il film fu accettato in concorso a Venezia ma per precauzione venne organizzata in anticipo una serata a Mestre per saggiare le reazioni del pubblico. Sordi era comprensibilmente in fibrillazione: 48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

«Mi ricordo che i dirigenti della serata erano un po’ preoccupati, avevano paura che gli operai presenti in sala si sentissero derisi e si ribellassero per quella mia battuta: “Lavoratori!” seguita da una pernacchia. Invece quando arrivò il momento di: “Lavoratori!” il teatro venne giù dal gran ridere… Allora io cominciai a capire che in ogni battuta de I vitelloni le persone si riconoscevano, che ridevano a sentir dire questa frase: “Se ti dessero diecimila lire lo faresti il bagno?” perché l’avevano detta anche loro, ridevano del modo in cui si tirava il calcetto al barattolo perché anche loro l’avevano fatto da giovani… Cominciai a capire che il pubblico era contento di ritrovare sullo schermo tutta questa esperienza di vita… A poco a poco si formò una tale atmosfera di interesse, si sentiva nell’aria un tale divertimento, una tale attenzione! Si sentivano continuamente delle risate.» Il successo di Mestre fu travolgente, replicato la sera successiva nella proiezione ufficiale al Lido. Sordi aveva trentatré anni, e per la prima volta dopo diciotto lunghi anni di testardo lavoro, sentì di avercela fatta. Gli aggettivi di esaltazione dei recensionisti si sprecavano: insuperabile, perfetto nella parte, acutissimo, penetrante, ottimo, mirabile. Per la sua interpretazione l’attore ottenne in seguito il Nastro d’Argento. Già dal giorno dopo Alberto Sordi, ansioso di recuperare il tempo perduto, accettò tutti i ruoli che gli proponevano, e si trovò nello spazio di due mesi a mezzo a interpretare ben undici film, con tre turni al giorno su set diversi, che andavano dalle otto di mattina a mezzanotte. Alberto Sordi, coetaneo di Fellini, era nato nel 1920. Nel segno dei Gemelli, posizione astrologica connotata da una duplice personalità, da tensioni a volte discordanti, che trovano volentieri armonia sul palcoscenico, di fronte a un pubblico. Nel suo caso il doppio profilo del dio Giano ha generato un’intera folla di personaggi, amatissimi dagli italiani che vi si sono rispecchia49 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ti per mezzo secolo. Quando l’attore è passato a miglior vita, a Roma gli hanno dedicato la Galleria di Piazza Colonna, restaurata e riaperta dopo tanti anni di abbandono. La sontuosa costruzione tardo liberty prospiciente la Colonna di Marc’Aurelio (detta Antonina), a un passo da Palazzo Chigi e dal Parlamento, è diventata un salotto elegante. Con negozi frequentatissimi, librerie, caffè all’aperto, e un passeggio senza sosta tutto il giorno. Chissà se l’attore sarà contento di figurare su quella targa che gli intitola uno dei luoghi più prestigiosi della sua città. Penso che ne rimarrebbe intimidito nonostante la vanità comune a tutti i commedianti; e avanzerebbe ridanciani confronti con Fellini a cui è spettato appena un piccolo largo in cima a via Veneto, prospiciente Porta Pinciana. Dopo i primi successi – Lo sceicco bianco, I vitelloni – Sordi e Fellini non avevano più lavorato insieme. “Ormai è diventato una maschera, – osservava il regista – l’incrostatura è inamovibile, ci vorrebbe uno scalpello, e sarebbe perfino sbagliato affidargli personaggi separati da lui, come pretendere di cambiare faccia a Totò.” Sordi, straripato in una stupefacente icona nazionale, non corrispondeva più all’interprete ideale di Fellini, spesso incarnazione segreta e quasi ectoplasmatica dei suoi transfert artistici. Tuttavia i due si cercavano, si volevano bene al telefono; e ogni tanto, l’uno o l’altro, guardingo, faceva una prima mossa di avvicinamento. Come accadde nel 1975 quando Federico mi incaricò di girare uno special sulla preparazione de Il Casanova e se ne servì, senza esporsi troppo in prima persona, per eseguire una serie di provini a quel pantheon di mostri sacri convocati solamente per un giro di giostra. Alberto Sordi venne al Teatro 5 di Cinecittà, dove il costumista Danilo Donati aveva rimediato qualche fondale e un magnifico abito settecentesco, in cui l’attore si calò con la massima naturalezza pavoneggiandosi senza pudore: “Ah Federì, e 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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guàrdame: non sono io Casanova?” S’era impossessato all’istante del personaggio e davanti a uno specchio di scena recitò, per gran parte improvvisando, un monologo esilarante e gustosamente autoironico. Come compenso per il disturbo, gli fu inviato dalla produzione un bel televisore a colori. E dell’avventuriero veneziano, finito come tutti sanno sulle ampie spalle di Donald Sutherland, con lui non si parlò più; né credo che Sordi ebbe mai a rammaricarsene. L’aveva presa a ridere, con finissimo spirito, con autentico affetto, senza la minima traccia di risentimento. Come potei sincerarmi di persona quando ci incontrammo quasi dieci anni dopo, nel 1984, per un nuovo special di natura del tutto diversa. Stavo mettendo insieme una carrellata di testimonianze filmate con gli interpreti più importanti dell’intera opera felliniana. Questa volta non c’era Federico a fargli da sponda, e Albertone poté abbandonarsi liberamente ai ricordi, parlando dell’amico e di se stesso come fossero ancora due principianti in cerca di gloria e il tempo non fosse trascorso. Si lasciò trascinare dalla corrente del sentimento, divagando, debordando. Quel fondo di amarezza che qua e là poteva affiorare per non essersi più creata l’occasione propizia di lavorare insieme, apparteneva ormai a un passato che non si cambia, a quelle vicende dell’esistenza su cui non occorre formulare altri giudizi. Lo sceicco bianco, I vitelloni, i capolavori degli anni Cinquanta appartenevano a una stagione lontana nella prospettiva, sebbene vicinissima nell’emozione. E Sordi, elegante, inappuntabile, circonfuso da quel decoro ‘borghese’ con cui amava presentarsi regolarmente in pubblico – abiti di buon taglio, cravatta, camicie di stile – si rivolgeva alla macchina da presa affondando visibilmente, parola dopo parola, in una galassia miracolosamente intatta. Gli occhi gli scintillavano, il viso ringiovaniva a vista, ritornava ragazzo in virtù di una segreta alchimia. E quando arrivò, con una serie di pause graduali, studiate, sapienti, a quella famosa affermazione sul suo amico Federico, “alto 51 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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alto, secco secco, gracile, esile, ma ahò, con una capoccia grande così”, sembrava che quella capoccia l’avesse materialmente fra le mani, la tenesse abbracciata a sé, come il testone di carnevale che Alberto accarezzava piangendo ne I vitelloni. Non so se fu la commozione che aveva catturato tutti noi impegnati nella ripresa; Sordi da par suo aveva rievocato la latteria in cui, in mancanza di soldi, i due amici all’inizio della carriera si rifugiavano per la cena e, grazie al corteggiamento della proprietaria, “sotto l’uovo fritto al tegamino appariva per incanto la fettina di carne”; aveva ricostruito i lunghi momenti di angoscia che accompagnarono la presentazione a Venezia de I vitelloni, pronosticata dai più come un insuccesso inevitabile e invece rivelatasi un trionfo; certo è che mentre Alberto raccontava, persino la macchina da presa sembrava più silenziosa del solito, un ronzio appena percettibile, e quando l’attore concluse, sdrammatizzando con quella sua bella risata grassa, avvolgente, contagiosa, scoppiò un applauso fra i tecnici e le maestranze, incontenibile, fiammante d’entusiasmo, come fossimo stati tutti seduti in una poltrona di prima fila del Sistina. I due amici finirono per incontrarsi di nuovo su un set; ma per capriccio della sorte, a ruoli invertiti: Sordi regista, Fellini attore. Fu Maometto ad andare alla montagna; perché Alberto Sordi, ne Il tassinaro (1983), si inventò di prendere a bordo Federico e di tenerlo in affettuoso ostaggio tutto il tempo che desiderava. Finalmente! Federico si prestò al gioco, ma non mancò di commentare divertito, con una punta di sarcasmo: “Con la mia partecipazione speciale ha fatto mezzo film e con quella di Andreotti l’altra metà.” Lo punzecchiava: “Mi avevi detto che dovevamo scambiarci due battute, non che avrei dovuto tenere un comizio!” Ma era contento per quell’omaggio sincero, adorante, di Albertone: tornavano a stare insieme come ai tempi eroici, ritrovava un pro52 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fumo di casa, due fratelli che si rivedono dopo la lunga separazione di un viaggio a cui sarebbe stato impossibile rinunciare.

Nei comuni del viterbese Federico aveva realizzato molte sequenze dei suoi primi film. In particolare per La strada. Quest’area dell’alto Lazio, sulla via Cassia, denominata Tuscia, costituiva per lui lo scenario prediletto di ogni ambientazione, soprattutto se collegata per vie misteriose alla Rimini della sua infanzia; il “borgo” che per Amarcord riprodusse negli spazi all’aperto di Cinecittà perché risultasse il più fedele possibile ai suoi ricordi. A quel tempo infatti Federico non metteva quasi più piede fuori degli studi cinematografici, persuaso con sempre maggior convinzione, che l’unica verità sia la finzione. Sicuramente in arte. Tra Viterbo e Civita di Bagnoregio è possibile visitare i luoghi dei set felliniani, da I vitelloni fino a Le notti di Cabiria. Moraldo Rossi il primo aiuto, assistente, factotum di Fellini ai tempi della bohème romana aveva conosciuto Federico una notte dalle parti di Piazza di Spagna; Moraldo si era accostato scambiandolo per Giorgio De Chirico e il futuro regista gli aveva chiesto una sigaretta: fumarono insieme e diventarono inseparabili. “Ma tu cosa senti di essere?” Gli aveva chiesto Moraldo una sera. Ottenendo come risposta: “Io sono due occhi aperti sul mondo.” Nacque un’amicizia fraterna, interrotta dieci anni più tardi per un equivoco, un fraintendimento, e una lettera che non venne mai consegnata per la gelosia di un rivale fra gli assistenti del Maestro. Moraldo ricorda che nei primi inquieti anni di apprendistato, appena in possesso di un’auto propria, Federico esplorava golosamente i dintorni di Roma risalendo preferibilmente la via Cassia. In un articolo apparso su Epoca il 23 agosto 1952, intitolato “La mia avventura fantastica a Viterbo”, la definisce “la strada più bella del mondo”. E continua: “La campagna intorno mi attirava 53 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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enormemente, con tutto il suo potere così misterioso, pagano ma anche mistico, con la sua solennità che si fonde senza contrasti con la più assoluta aridità. In una di queste scorribande mi imbattei in Viterbo, che per me significava il ritorno alla provincia: le sue strade con la gente che cammina nell’aria assopita, anche quando c’è ombra, quell’aperto oziare che non è mai vuoto, sempre pieno di echi dolcissimi, e quel senso della città antichissima, borghese e aristocratica, così misteriosamente italiana…” Una volta stabilitosi a Roma Fellini avvertì il bisogno di rimaterializzare la sua Rimini, più vera del vero, e ne rintracciò il sembiante nel Lazio settentrionale; contrade e paesi in cui il regista aveva girovagato con spirito rabdomantico, apparentemente senza uno scopo preciso, ma fissando scorcio dopo scorcio i futuri scenari dei suoi film: Ronciglione, Bagnoregio, Canino, Tuscania, Bassano Romano, Caprarola. A Civita di Bagnoregio ebbi la buona sorte di incontrare il meccanico che mise insieme il motofurgone di Zampanò. Si chiamava Ugo Trucca (c’è sempre un destino nel nome); aveva allora circa ottant’anni, e mi raccontò con lucida profusione di particolari quando Fellini si recò nella sua officina per descrivergli il veicolo che avrebbe voluto utilizzare nel film. E di come alla fine pretese che sui lati della tela cerata del cassone fossero dipinte due sirene. Operazione cui pose mano lo scenografo Piero Gherardi, prezioso complice del regista ed esperto ancor più di lui di ogni anfratto viterbese. Trucca, dopo il passaggio del fronte, aveva trovato in fondo a una scarpata la carcassa di una motocicletta Norton. Il motore era ancora efficiente, ma il telaio quasi inservibile, mancavano le ruote e gran parte degli accessori. La recuperò, la adattò a un carro e la risistemò a puntino per le esigenze dell’artista. Il quale ne rimase entusiasta e volle che Trucca, reduce da fresche nozze, partecipasse anche alle riprese insieme a sua moglie Nevina, scritturati entrambi come generici nella festa di matrimonio sull’aia, in cui interpretano appunto la parte degli sposi. 54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sulla piazza del paese è possibile ritrovare ancora intatto lo sfondo della sequenza in cui il Matto compie il suo esercizio mozzafiato di funambolismo su una fune tesa a venti metri d’altezza, da un palazzo all’altro. La controfigura di Richard Basehart, un acrobata del circo, imbandisce addirittura una spaghettata con tanto di tavolo e sedia in equilibrio sul filo, inquadrato dal basso nel fascio di luce del fanale orientabile della propria automobile e sotto lo sguardo stupefatto e adorante di Gelsomina. Dice ancora Fellini: “A Viterbo ci sono le fontane, i vecchi alberghi con dentro le luci accese, nell’ombra, anche di giorno (una frescura meravigliosa d’estate) e le campane che battono come se suonassero dentro casa: tre cose che mi hanno sempre dato angoscia, ma anche dolcezza: come se si mescolassero più intimamente a tutti gli echi che mi porto dentro. E che cosa si può desiderare di più da una città, che altro motivo si deve avere per amarla profondamente?” Si può dire che per Fellini la scenografia più che una scelta dei posti era l’atmosfera stessa in cui calare la favola che aveva bisogno di raccontare. Il regista si spinge anche oltre: “Penso che un paesaggio può, con una linea, un gesto di colline, salvare addirittura una persona, comunicargli un messaggio prezioso.”

Se Pier Paolo Pasolini nel film La ricotta, aveva affidato a Orson Welles il compito di pronunciare la famosa frase su Fellini che fece il giro del mondo: “Egli danza”; una simile definizione, non foss’altro per proprietà transitiva, dovrebbe essere applicata di diritto a Giulietta Masina. “Giulietta, Giuliettina” come la chiamava Federico, che da subito aveva usato il diminutivo del diminutivo del suo vero nome: Giulia. Giulietta era magra, scattante, nervosa, e amava ballare; si muoveva naturalmente con passi da ballerina, come se misurasse un tempo interiore; anche quando 55 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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c’erano a casa degli ospiti e le capitava di portare un piatto in tavola, le sue movenze seguivano un’invisibile coreografia. Se udiva nell’aria una musica, istintivamente cominciava ad accennare qualche passo, per poi arrestarsi quasi frenata da un’autocensura. Specialmente se era presente Federico. Il quale invece era molto ammirato da questa inclinazione della moglie, al punto di cucirle addosso il personaggio di una ballerina in pensione nell’ultimo film a lei dedicato, Ginger e Fred; e, come sempre, aveva convocato Marcello Mastroianni per agire al proprio posto. Lo aveva ribattezzato Pippo Botticella, gli aveva fatto diradare i capelli in sala trucco, e in testa gli aveva piazzato come ‘sigillo’ personale il proprio cappelluccio a cloche, di disegno inglese, che amava indossare negli ultimi anni, quando ormai da tempo aveva smesso il fascinoso Borsalino nero del protagonista di 8 ½. Quel copricapo floscio e pratico, oltretutto, gli era stato materializzato dal mago Gustavo Rol una sera in cui il regista arrivando a Torino aveva dimenticato in treno il proprio cappello. Nel film anche Giulietta indossa cappello e mantellina pied de poule, a sottolineare la sua posizione da signora borghese che una volta lasciato il teatro leggero si dedica soltanto alla casa e ai nipoti. Ma poi, per amore del vecchio partner di palcoscenico, si fa coinvolgere in una trasmissione televisiva incentrata sulle vecchie glorie dello spettacolo, e torna a danzare con lui, in uno studio di registrazione, l’intramontabile successo di Irving Berlin “Let’s face the music and dance”. Ricorderete forse la sequenza clou della storia: Pippo Botticella è trasandato e sbeffeggiante almeno quanto Amelia Bonetti è ordinata e precisina; sono diversi in tutto eppure affiatati come due angeli. E quando l’orchestra attacca la melodia, entrambi in abito da sera, si producono nel numero che li ha resi celebri imitando Ginger Rogers e Fred Astaire. Purtroppo però all’improvviso viene a mancare la corrente, lo studio piomba nel buio, i due ballerini si ritrovano carponi sulla pista a cercare di capire cosa stia succedendo, tra stizza e vergogna, lacrime e risate, rimpianti 56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e malinconie; e per un lungo momento si fa strada il sospetto che quella inaspettata sospensione stia forse a indicare il passaggio indolore a un’altra dimensione, una fine in agguato. “È come nei sogni – mormora Pippo – lontani da tutto. Un posto che non sai dove sia, come ci sei arrivato…” Giulietta conclude dunque da ballerina di tip tap, come forse avrebbe da sempre aspirato diventare, la sua carriera folgorante con Fellini. Che ha inizio interpretando un personaggio secondario de Lo sceicco bianco, il primo film del marito; in cui avrebbe desiderato tanto impersonare il ruolo della protagonista, la sposina in viaggio di nozze a Roma che in segreto lascia l’albergo in cui è arrivata con il neo marito (Leopoldo Trieste) per raggiungere nella redazione di un giornale di fotoromanzi l’idolo dei suoi sogni, lo Sceicco Bianco (impersonato da Alberto Sordi). “Brunella Bovo è stata bravissima, ma io l’avrei fatto meglio!” Mi confidò Giulietta in un’intervista nella quale per la prima volta lasciò trapelare la sua sottile amarezza. A lei spettò invece il ruolo di Cabiria (attenti al nome!), una piccola prostituta che lo sposino abbandonato incontra a notte fonda in piazza Campitelli; una caricatura buffa e romantica che appare e svanisce nel giro di un’unica sequenza, ma fa in tempo ad accennare alcune mosse di danza. Che diventeranno una vera esibizione quando il personaggio sarà promosso a protagonista ne Le notti di Cabiria, il film più amato dalla Masina, in cui l’attrice era consapevole di aver riversato anche una consistente porzione di se stessa. La prostituta in bolerino di piume di pollo e calzini bianchi ai piedi, finalmente può scatenarsi in un vero ‘mambo’ mentre insieme alle colleghe attende i clienti sulla Passeggiata Archeologica; e balla in coppia con un giovane pappone che si vanta di essere “er mejo tacco de Roma”. Giulietta rotea, ancheggia, intreccia figurazioni, tiene scena con la gioia che le sprizza dai pori e gli occhi raggianti. È proprio lei, come amava essere, come amava apparire. E non basta, perché quando nel film viene rimorchiata per 57 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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strada, in via Veneto, e trascinata in un night club dal più celebre divo del momento (Amedeo Nazzari), anche lì, sotto lo sguardo di compatimento degli annoiati frequentatori, balla un lento tra le braccia del bellissimo attore in smoking bianco; il quale sta solo cercando di far sbollire la rabbia per la lite appena conclusa con la fidanzata troppo gelosa (la sofisticata biondo platino Dorian Gray). Nella storia scritta per lei, Giulietta esprime la sua personalità esuberante; per amore casca e risorge tradita ogni volta dalla persona a cui ha consegnato incautamente la propria vita, nell’illusione di voltare le spalle al “mestiere” e costruirsi un’esistenza onesta, regolare. Nell’ultima avventura, la più brutta, sta per lasciarci le penne, derubata di quei pochi risparmi che ha stipato nella borsetta. Si ritrova a vagare da sola, stravolta, piangente, disperata, avendo perso tutto, senza sapere dove sbattere la testa; eppure, sulla strada dei Castelli Romani, una comitiva di ragazzi e ragazze che sta rientrando in città la circonda suonando la chitarra, la salutano, le sorridono; e lei subito risponde, le lacrime si arrestano, il volto si illumina, il suo incedere fino a quel momento goffo e pesante, si scioglie in un alato slancio di ottimismo, incontro alla vita. È il messaggio che Cabiria ci affida, guardando direttamente in macchina (azione non ammessa dalla pedante grammatica), cioè rivolgendosi all’obiettivo: rasserenata, ridente, fiduciosa in un futuro migliore. Ancora e sempre pronta a ripartire, a ricominciare, a credere. Anche Gelsomina, la protagonista de La strada danza, e non una sola volta; compie passi leggeri quando annuncia, rullando sul tamburo, l’entrata in scena dello zingaro giramondo che l’ha comprata dalla madre per diecimila lire: “È arrivato Zampanò!” Ed esegue una vera e propria coreografia quando da autentico mimo impersona l’anatra che fugge davanti al cacciatore con il ‘ciufile’ spianato. Infine danza da artista ormai consumata nel circo Giraffa quando il Matto, il funambolo che cammina sulla corda tesa da un tetto all’altro delle case, le insegna a suonare 58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la tromba in un numero comico: lui strimpella al violino il tema dolce e straziante del film e lei lo interrompe ‘a tempo’ spernacchiando nell’ottone. Già clown, come l’aveva fantasticata Federico, pronta al giro di pista tra gli applausi, recitando da pagliaccia a ritmo musicale. In Spagna, in occasione di una festa in suo onore, aveva incantato gli ospiti con le sue improvvisazioni di Flamenco, eseguite a orecchio, d’istinto, affidandosi semplicemente alla musica e al suggerimento del corpo. Nel materiale di corredo del “Balletto La Strada”, etoile Oriella Dorella, che diressi nella versione televisiva alla Scala di Milano, esiste anche un’intervista in cui Giulietta parla del film La strada con la sua tipica vivacità trascinante, le mani che volano nell’aria accompagnando le parole, il viso ridente e monellesco, da femmina di razza e da irresistibile clown, un abbinamento che indusse il grande Chaplin a coniare per lei l’appellativo di “female-Chaplin”, Charlot donna. Giulietta possedeva una carica vitale contagiosa, innamorata della vita fino all’estasi, ed era così incantevolmente innocente che quando a Hollywood, seduta a tavola accanto a Clark Gable, il suo idolo di sempre (“con quelle orecchie a sventola!” si ripiccava Fellini) timidamente gli aveva chiesto un autografo, il Divo era scoppiato a ridere: “Ma sono io che debbo chiederlo a te, sei tu la festeggiata e mi stai onorando con la tua amicizia!” Giulietta aveva appena ritirato il Premio Oscar per Le notti di Cabiria, e quella era la serata di gala in cui l’American Film Academy ne stava consacrando il singolare talento. È questa l’immagine che conservo di Giulietta, impercettibilmente incrinata da un brutto sogno. L’ultima volta che ci siamo incontrati era ricoverata alla clinica Columbus, nel quartiere romano della Pineta Sacchetti, non lontana dal Policlinico Gemelli. Federico se n’era già andato, alla fine di ottobre dell’anno precedente, e Giulietta era peggiorata mese dopo mese corrosa dal 59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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suo male. Per ricevermi, seduta sul letto, aveva voluto che Mariolina, la sorella che la assisteva notte e giorno, la aiutasse prima ad indossare una specie di turbante, per mascherare l’oltraggio della chemioterapia. Era lo stesso copricapo amaranto con cui, un giorno, era giunta a Ferrara al capezzale di Federico, e Federico non aveva detto niente, non una sola parola di commento, ma da quel momento nessun medico o ragionamento sensato sarebbero più riusciti a trattenerlo lontano da Roma. “Giulietta ha bisogno di me”, era l’unica sua replica a chi cercava di calmarlo, ed era letteralmente ‘evaso’, fuggito dall’Ospedale San Giorgio, a bordo di una Mercedes ordinata per telefono a un autonoleggio cinematografico. Il primario di fronte all’inevitabile, gli aveva messo al seguito una neurologa e un infermiere, per scongiurare il peggio. Ma sapeva che Fellini non era più recuperabile alle sue cure e infatti in capo a un paio di settimane, il regista si era fatto ricoverare al Policlinico Umberto I, dove era caduto in coma irreversibile. Il giorno prima della morte, il 30 ottobre, ricorrenza del cinquantesimo anniversario di nozze, Giulietta ancora valida, benché minata, aveva voluto essere condotta nella camera asettica in cui il marito respirava attaccato alle macchine e aveva recitato il rosario accanto a lui. La mattina successiva, a mezzogiorno, il loro incontro terreno si era spezzato. E ora, a poco più di tre mesi di distanza, Giulietta mi sussurrava con la voce roca e un’infantile aria di sfida: “Ho finito anch’io di vivere, che ci sto a fare qui.” Con una mano, esile e scarna come la zampa di un uccellino, aveva rovistato dietro il guanciale tirando fuori dall’ingenuo nascondiglio un pacchetto di sigarette e un accendino; aveva dato un paio di cavernosi colpi di tosse, e con gesto improvvisamente fermo, preciso, s’era accesa la sigaretta fra le labbra, aspirando con evidente sollievo una prima densa boccata di fumo. Mi aveva sorriso ancor prima con gli occhi che con l’increspatura della bocca: “Che lo tengo a fa’, tanto siamo amici, mi conosci da tanto tempo!” E con la mano sinistra si era 60 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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strappato via il turbante dalla testa, che era perfettamente calva e bianca come la sua pelle. Giulietta, già minuta di corporatura, sembrava piccolissima in quel giaciglio d’ospedale, sciupata dalla malattia, una bambina di pochi anni nella sua camiciola candida; la mano da cui ora pendeva il turbante, portava una fasciatura al polso. “Che cosa t’è successo?” Le avevo chiesto a bassa voce. “Questa notte sono caduta dal letto – scuoteva la testa – sono tutta rotta, qua, qua, qua, tutta ammaccata, se appoggio il piede per terra non mi reggo per le vertigini. Il destino si accanisce, era con lui che me ne dovevo andare.” Mancava solo qualche giorno al fatale appuntamento, e il 23 marzo del 1994, leggera com’era, credo che le sia bastato un unico battito d’ali per volare dal suo Federico. San Giorgio di Piano, a poche leghe da Bologna, è il paese di circa 6000 anime in cui ha visto la luce Giulietta Masina. Era un avamposto felsineo in direzione di Ferrara, come ancora oggi testimonia la stupenda porta fortificata del Duecento che torreggia verso la pianura aperta a vista d’occhio. Un baluardo di difesa nel nome del Santo Guerriero a cui sono intitolati il borgo e la chiesa dall’alto campanile aguzzo, rosso carminio, che svetta per il visitatore da molto lontano. L’abitato è lindo, ordinato, perfettamente restaurato, tanto da suggerire l’impressione di un fondale di teatro. Persino la strada principale, con i portici, sembra una scena cinematografica, e al n. 112 di Corso della Libertà (già Corso Umberto n. 24) quasi al termine della fila di fabbricati, di fianco a un portone ad arco è affissa una lapide in cui si ricorda che in quella casa è nata l’attrice il 22 febbraio 1921. In quel luogo ha trascorso i primi anni insieme alla sua famiglia: la madre maestra elementare Flavia Pasqualin, il padre Gaetano Masina violinista e poi impiegato della Montecatini, la seconda sorella Eugenia (come Eugenio Pasqualin, fratello della madre) e i gemelli Mario e Mariolina. Più una balia, Ermelinda Montanari, 61 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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intorno alla quale si avvolge un alone di mistero. Esiste un fondo ‘familiare’ che Paolo Chiusoli, presidente della Pro Loco, ha recuperato imbattendosi nelle carte dei coniugi Zucchini, amici dei Masina. Sono lettere, fotografie, bigliettini, un fragile tessuto di memorie private che ci introducono, attraverso un magico spiraglio, in quel modesto spicchio del ‘mondo di ieri’. In alcune fotografie di assieme in cui la famiglia Masina posa raccolta davanti all’obiettivo, incontriamo per la prima volta, perfettamente integrata nel gruppo, la buona Ermelinda, tata amatissima da Giulietta e presumibilmente sua balia. All’età di 4 anni, la piccola Giulia, non ancora Giulietta, viene mandata dai genitori a casa dello zio materno Eugenio Pasqualin sposato con Giulia Sardi, discendente da un’ottima famiglia lombarda proprietaria del premiato calzaturificio Varese. I coniugi non hanno figli e vivono a Roma in un vasto appartamento al piano nobile di via Lutezia, una trasversale di viale Liegi, a un passo da piazza Ungheria nel prestigioso quartiere umbertino ai piedi dei Parioli. La casa è troppo vuota per un’agiata coppia rimasta sterile, e dopo un primo esperimento estivo di ospitare la bambina, nel 1926, la piccola Giulia che ha superato da poco i 4 anni viene definitivamente affidata alla zia. La famiglia di origine non è ricca ma neppure così indigente da non poter provvedere alla crescita della propria prole. Perché allora la primogenita viene allontana da casa? Soltanto nella prospettiva di una vita migliore di quella che l’attenderebbe a San Giorgio di Piano? Unicamente per le insistenze dell’affettuosa zia Giulia rimasta presto vedova e senza compagnia? Non v’è dubbio che la bambinetta sia andata a star meglio. Protetta e coccolata, non conoscerà neppure la scuola pubblica, tenuta a studiare privatamente in casa fino alla licenza elementare. Solo con il passaggio alle scuole medie entrerà nell’esclusivo collegio delle Orsoline, al pari delle figlie della buona società capitolina. 62 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Tuttavia il distacco resta enigmatico se non sospetto. Tanto che a distanza di svariati decenni, intervistata da Tullio Kezich per un volume biografico edito da Cappelli, Giulietta avverte istintivamente la necessità di mettere le mani avanti: “Papà e mamma non mi hanno mai scaricata, sia ben chiaro; – dichiara per minimizzare credo l’accaduto – hanno voluto semplicemente offrirmi un’apertura che i miei fratelli non hanno avuto.” Pur tuttavia utilizza il termine, ‘scaricare’, che possiede un suo peso e una sua necessità profondi. Sembrerebbe quel tipo di espressione che nell’ambito di un’analisi psicologica verrebbe definita come una parola chiave. Inoltre l’attrice compie una singolare associazione concettuale a quel punto dell’intervista. Passa a parlare volubilmente del padre, in tono ammirativo e ammiccante, descrivendolo nel suo attraente aspetto di artista, di violinista, dotato di bella presenza. “Mio padre, Gaetano Masina fino a trent’anni fece di professione il violinista. Era membro dell’orchestra Ghione, ma suonò anche in molti teatri lirici italiani ed esteri. Aveva una figura aitante e quando facevano L’amico Fritz di Pietro Mascagni lo mandavano in scena a impersonare lo zingaro violinista. Tutto finì quando mio padre rinunciò alla carriera musicale per sposare una maestrina, Flavia Pasqualin, ragazza molto bella e di idee moderne che veniva da San Donà di Piave.” Riferisce cioè intenzionalmente un particolare significativo: il bel papà violinista veniva tolto dal golfo mistico e promosso direttamente sul palco a eseguire il suo pezzo davanti al pubblico. Lo immaginiamo, sulla scorta delle parole di Giulietta, un uomo molto apprezzato, specialmente dalle signore, e di conseguenza non restio a esercitare il proprio ascendente in qualche inevitabile avventura galante. E forse più di una. E perché no, magari tra le stesse mura domestiche. Ho guardato bene, con attenzione, le fotografie che ritraggono il padre di Giulietta, con il violino appoggiato alla spalla e l’archetto in mano. Una folta testa di capelli mossi, un sorriso ma63 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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landrino, una posa compiaciuta della propria disinvoltura. Ma ciò che soprattutto mi ha sorpreso è una singolare somiglianza con Richard Basehart, l’indimenticabile attore americano interprete de La strada nel ruolo del Matto, funambolo e violinista che fa innamorare Gelsomina. Un sentimento, a quanto pare, traboccato dallo schermo fino a coinvolgere gli individui reali. Non soltanto dunque il personaggio inventato per il film, bensì anche l’attrice che c’è dietro Gelsomina, cioè Giulietta che, a dire dei bene informati, ebbe una vera liaison con Basehart. E addirittura se lo ritrovò – o lo pretese? – al suo fianco nel film successivo di Fellini, Il bidone (1955), in cui i due formano una giovane coppia sposata e affiatatissima. Tutto ciò prima che l’americano, avendo scelto l’Italia come sua seconda patria, convolasse a nozze e mettesse al mondo un figlio con un’altra attrice a suo modo sublime, Valentina Cortese, indiscussa star di teatro e amica dei coniugi Fellini. Al punto da essere in seguito chiamata da Federico a interpretare in Giulietta degli spiriti (1965) una delle due sorelle ‘belle’ e viziate della tormentata e stupefatta protagonista del film, tradita dal marito e assediata da una ridda di angosciose fantasie a sfondo sessuale. Ma torniamo a Giulietta bambina che d’estate, quando gli zii benestanti partono per le loro ferie di lusso, viene rimandata a casa. Riferisce la Masina nella già citata intervista a Tullio Kezich: “Poi durante l’estate, che passavo in villeggiatura con i miei in Valsugana, mamma mi preparava privatamente all’esamino da dare a settembre.” Infatti dal momento che la bambinetta, ospitata a Roma dalla ricca zia Giulia, non frequenta una scuola pubblica – come si legge nelle scarne note biografiche sull’attrice – la madre maestra la prepara a sostenere privatamente l’esame che le consente di accedere ogni autunno alla classe superiore. 64 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Invece di restare a San Giorgio di Piano, come del resto si apprende anche da altre fonti, Giulietta trascorre le vacanze estive presso la ex ‘balia’ che abita in una frazione di San Donà di Piave, nel Veneto, regione di provenienza della madre stessa. L’attrice infatti ripeterà spesso, durante conversazioni occasionali, di sentirsi parimenti emiliana e veneta, e di avvertire per il Veneto una forte appartenenza, tanto da comprenderne e parlarne correntemente il dialetto. Insomma, una sorta di seconda lingua che le deriva direttamente dalla madre, oppure dalla frequenza della tata ed ex balia? La tata, abbiamo detto, si chiama Ermelinda Montanari, e da quanto si sa era già in casa Masina quando Giulietta venne alla luce. Ermelinda tuttavia sembra fosse originaria di San Giorgio di Piano, non veneta. Presa in casa, com’era usuale a quei tempi, per badare alla neonata, dal momento che la madre maestra non aveva la possibilità di occuparsene a tempo pieno. E per quale ragione, allora, troviamo in seguito la ex balia in Veneto, dove Giulietta Masina continuerà a moltiplicare le sue visite non soltanto durante le vacanze della carriera scolastica, ma per tutta la vita, e con devozione filiale, fino alla scomparsa della donna? Giungendo persino ad ospitarla in più di un’occasione nell’appartamento suo e di Federico a Roma? Vado a riguardare le foto; osservo bene, di nuovo, la madre e la balia, Flavia ed Ermelinda: a chi delle due assomiglia di più la futura Gelsomina? La madre di Giulietta mostra nel viso una fissità, una carnosa gravezza, assai poco riconducibili alla mobilità estrosa e clownesca della ‘figlia’. E gli occhi? A chi appartiene quello sguardo? Passano gli anni, Giulietta diventa grande. Terminato il liceo nell’Istituto delle Orsoline si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne, e nell’ambito universitario inizia a recitare nella compagnia di teatro del Guf (Gioventù Universitaria Fascista). È in quell’ambiente, fra le altre esperienze, che farà conoscenza con il 65 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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giovanissimo Marcello Mastroianni, del quale determinerà la definitiva affermazione caldeggiandolo a Federico quale possibile protagonista de La dolce vita. In virtù dei suoi trascorsi teatrali, sia pure dilettantistici, Giulietta approda alla radio (EIAR) dove incontra il giovane autore di testi che si innamora di lei. Federico le scrive delle piccole parti su misura (Cico e Pallina), la corteggia, e la sposa, cambiandole nome da Giulia in Giulietta. È il 1943, lui ha ventitré anni, lei ventidue, e le nozze avvengono a via Lutezia, in casa della zia, con un rito privato officiato da un monsignore amico di famiglia. Fellini, abile vignettista, disegna per l’occasione una tenera e spiritosa partecipazione di nozze che è entrata ormai a far parte del repertorio figurativo associato al regista. Due anni dopo Fellini, diventato nel frattempo gagman e sceneggiatore per Aldo Fabrizi, Erminio Macario, e per tanti film di commedia, partecipa all’avventura di Roma città aperta e quindi, sempre con Roberto Rossellini, al capolavoro del neorealismo Paisà, in cui figura in veste di aiuto regista oltre che co-autore. Il cinema gli apre le porte. L’anno successivo a Luci del varietà (1952) il produttore Luigi Rovere lo invita ad assumere in prima persona la responsabilità del set; ma al posto del soggetto che il giovane autore insistentemente gli propone, preferisce affidargli un trattamento di Michelangelo Antonioni, Lo sceicco bianco. Una vicenda melodrammatica che il riminese trasforma da par suo in grottesca poursuite quasi surrealista. Dopo Lo sceicco bianco Fellini incontra ancora difficoltà a far accettare la storia a cui mostra di essere visceralmente legato, e affiora un altro progetto: il melanconico e impareggiabile resoconto di cinque amici di provincia, I vitelloni, dei quali uno soltanto, Moraldo, troverà la forza di abbandonare il borgo per inseguire i suoi sogni nella grande città. Finalmente al terzo tentativo, nel 1954, Fellini riuscirà ad imporre il suo misterioso soggetto alla produzione di Dino De 66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Laurentiis: il film si intitola La strada, la protagonista è Giulietta Masina. De Laurentiis, a cui pure la storia piace, oppone qualche resistenza, vorrebbe assegnare il ruolo alla propria moglie, la bellissima e improbabile Silvana Mangano. Fra Dino e Federico si arriva quasi alla rottura clamorosa, e quando il produttore al momento della firma cerca di far valere d’autorità la propria ragione, Fellini rabbiosamente gli strappa il contratto sotto il muso. Non ammette discussioni, quel film può essere fatto soltanto con Giulietta, o con lei o con nessuno. E De Laurentiis cede. Grazie al fato amico – va aggiunto – e per provvidenziale lungimiranza, dal momento che La strada diventerà un film epocale, conquistando il Premio Oscar e donando lustro, fama e ricchezza a tutti i suoi partecipanti. Come mai tanta fortuna? Quale messaggio arcano nasconde la pellicola? E soprattutto, qual è la vera storia che la ispira? La strada è la vicenda di una ragazza che vive in una catapecchia sulla spiaggia insieme alla sua famiglia poverissima, e viene venduta dalla madre, per diecimila lire, a un saltimbanco girovago di nome Zampanò (Anthony Quinn). Il film si apre con la sequenza, straziante, in cui Zampanò arriva sul motofurgone a prelevare la sua nuova ‘assistente’. Con un fiasco di vino e un cartoccio di salame e mortadella abbatte ogni resistenza dei familiari e compera per sé Gelsomina la quale, con gli occhi ricolmi di sgomento e di pianto, è costretta a lasciare la madre, le sorelle, i fratelli e il focolare, senza sapere se vi farà mai più ritorno. Assistiamo allo strappo, irreversibile, che la creatura innocente e inerme è costretta a subire senza ribellione, senza alcuna scelta, avviata a un avvenire di ‘orfana’ alla mercé di un uomo brutale e primitivo. La strada, favola astratta e senza tempo, è ancor oggi misteriosamente gonfia di un malessere immutato negli anni. Fellini mi raccontò che la scena appena descritta, la prima del film, veniva per ultima nel piano di lavorazione. E fu girata nella 67 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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spiaggia di Passoscuro, un tratto di costa lungo la via Aurelia, a non molti chilometri da Roma. Federico, che pure non era incline a rievocazioni personali, per la prima volta nella nostra lunga frequentazione mi stava dischiudendo uno spiraglio sconosciuto, confidandomi che la realizzazione del film era stata un’esperienza sofferta, pericolosa, uno sprofondamento quasi medianico, che l’aveva condotto sull’orlo del crollo psichico: «A una settimana dalla fine delle riprese, – racconta Fellini – stavo pranzando con la troupe da Bastianelli, sul molo di Fiumicino, a un tratto ho sentito che qualcosa mi si rompeva dentro, proprio lo scatto di una molla che si svirgola. In quei giorni stavo lavorando alle prime scene, quelle della spiaggia, che nel piano di lavorazione venivano per ultime. Terminata la pausa, sono ritornato alla macchina da presa con lo stesso stato d’animo di un naufrago che si aggrappa a un relitto, per salvarsi; era come se una parte di me dovesse tenere l’altra a bada, per mano, una metà che si era distaccata. E quel giorno ho girato con un senso di malessere così forte che anche Giulietta se n’era accorta. La sera non ero riuscito a prendere sonno e per una settimana non ho più chiuso occhio. La notte la passavo in bianco e il giorno ero occupato nelle riprese. Giulietta che era amica della compagna del professor Emilio Servadio, psicanalista freudiano, fece in modo di fissarmi un incontro con lui; e un pomeriggio, terminate le riprese, m’ero recato a trovarlo nel suo studio. Era la prima volta che mettevo piede da uno psicanalista: riceveva in una stanzuccia angusta, stretta, occupata per metà da un lettino, una impressione asfittica, di mancanza di spazio, in cui provavo solo disagio, non c’era niente che potesse aiutarmi. Mi ricordo che quella prima volta non ho praticamente parlato, non trovavo la disposizione, non volevo.» Perché tanta oscura sofferenza concentrata in quell’unica sce68 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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na? Quale zona nascosta veniva invasa, quale segreto la ripresa andava a disseppellire? Una cosa è certa, in quel luogo, in quel frangente, Gelsomina inizia il suo viaggio – reale e metaforico insieme – in cui è destino che la sua ragione si smarrisca e che lei si perda. È esattamente in quel film infatti che muore Gelsomina e nasce Giulietta. Scrive una studiosa de La strada, Valeria Tocchetti, con mirabile intuizione: “Gelsomina è un ‘puer’ assoluto, votato a non radicarsi sulla terra (pur essendo alla ricerca di un posto, di un ruolo, ovvero di un senso nel mondo). Il suo destino è totalmente legato al ‘Matto’, imprudente rivale di Zampanò, volatile e volubile, sfrontato e ‘senza terra’: perciò destinato a soccombere.” Giulietta invece è Giulietta, l’insostituibile, indiscutibile, intoccabile Giulietta: “La compagna di una vita, l’attrice dei miei film, mia moglie Giulietta Masina” come la definì – la proclamò – Federico Fellini dal palco del Dorothy Chandler Pavillion, di fronte a un pubblico televisivo di due miliardi di spettatori, dedicando il suo quinto premio Oscar a sua moglie. Era la fine di marzo del 1993, appena sei mesi prima dalla scomparsa. Un pubblico testamento. Il rapporto tra Federico e Giulietta – chiunque li abbia frequentati può testimoniarlo – era inestricabile, un groviglio di radici annodate insieme a profondità irraggiungibili nel cuore della terra. Marito e moglie, compagni d’arte e di vita, nonostante le tante tempeste delle loro esistenze, non si erano mai lasciati. Inseparabili. Non c’è stata donna o avventura, vera o presunta, che sia mai riuscita a mettere in crisi il ‘loro’ patto, impossibile da scalfire. Basato verosimilmente su un segreto sconosciuto, e che solo oggi comincia pian piano ad affiorare, come quando nel bagno degli acidi si sviluppa l’immagine restata impressa su una lastra fotografica. 69 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ma possiamo anche supporre che non sia vero niente, che si tratti soltanto di un’allucinazione, di una congestione mentale. Più precisamente di una suggestione che si è insinuata in me senza abbandonarmi più, da quella volta che accettai di accogliere una rivelazione a cui lì per lì non prestai fede. C’è di mezzo una signora, per anni intima di Federico, che un pomeriggio mi confidò: “Giulietta non era figlia di sua madre ma della domestica di casa. Quella che lei chiamava la sua balia. Lo venni a sapere non da Federico, che non me ne parlò mai e a cui io di proposito non volli mai domandare nulla, ma andando in villeggiatura in un minuscolo paesino della Valsugana. Il proprietario dell’albergo in cui mi sono recata per varie stagioni successive, un avvocato, mi raccontò tutta la storia. Giulietta era una figlia naturale di suo padre.” Ecco svelato l’arcano de La strada! Non è il film in cui una bambina viene ‘venduta’ dalla sua famiglia, da sua madre, e mandata via con uno sconosciuto? Non è la storia di una ‘trovatella’, di una senza famiglia? E non potrebbe essere questo il segreto che ha cementato Federico e Giulietta, la vicenda di una bambina ferita dall’abbandono che Fellini ha voluto raccontare nella sua favola truce? E d’altro canto non è stato La strada il film che il regista ha cercato di realizzare ancora prima de I vitelloni (forse addirittura de Lo sceicco bianco), il ‘loro’ film? L’opera che ha dischiuso a entrambi, quasi in una sorta di ricompensa, di risarcimento, la strada della gloria, della ricchezza, della popolarità, del consenso universale durato fino alla loro morte? Avrebbero mai potuto Federico e Giulietta separarsi, con quel segreto in corpo? Probabilmente l’indiscrezione amara è un indegno pettegolezzo. Ma io non credo che Giulietta abbia nulla da perdere da questa nuova visione della sua figura. Anzi può guadagnarne in simpatia, in grandezza. In mistero. Ci sono ancora in giro testimoni che possono aiutare a squarciare il velo. 70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Angiolina Ramponi, biscugina di Giulietta Masina, vive a Bologna in un confortevole e aristocratico appartamento di via Castiglione, in un palazzo del Cinquecento. Proviene anche lei, come tutta la famiglia, da San Giorgio di Piano. Sua nonna Bianca, cioè la madre della madre, era sorella di Gaetano Masina, detto zio Tanino, un prozio che era il padre di Giulietta. Sua madre si chiamava Italia, diplomata in pianoforte e sposata con Raffaele Ramponi, un uomo possente, alto, gran pedalatore di velocipede come attesta una foto d’epoca sul trumeau. Egli stesso musicista e virtuoso di tromba e fisarmonica, fondatore dell’orchestra Jazz Ramponi che nel dicembre del 1937 inizia la sua attività all’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche, l’antenata della RAI). Angiolina che è del 1919 aveva due anni quando nacque la cugina Giulietta nella casa proprio di fronte alla sua, dall’altra parte del Corso Umberto, oggi della Libertà. Le due famiglie erano unite e lo sono rimaste negli anni: “Perché Giulietta non ha mai smesso di pensare a San Giorgio di Piano, nonostante a Roma stesse così bene con la zia Giulia e avesse ottenuto in seguito una celebrità inimmaginabile. Ma appena poteva tornava a San Giorgio, riunendo i membri della famiglia ed era generosa con tutti.” – Ma perché era stata mandata dalla zia Giulia? “Il fatto è che allora si guadagnava poco, la madre Flavia faceva la maestra e non prendeva quasi niente; il padre, zio Tanino, aveva smesso di fare il violinista e lavorava alla Montecatini, ma con quattro figli non era facile tirare avanti. Mi ricordo quando dopo Giulietta e Eugenia la madre aveva quel gran pancione e sono nati i due gemelli, Mario e Mariolina. Era andata in casa l’Angiolla Garelli, a farli nascere, la levatrice che aveva portato al mondo gran parte dei bambini del paese, anche me, Giulietta, tutti. La famiglia era passata da due a quattro figli, e allora non c’erano i mezzi di oggi, si tirava avanti a fatica. 71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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– E la zia Giulia? “Oh, beh, ma la zia Giulia era ricca, la sua famiglia possedeva a Milano il calzaturificio di Varese. Lei aveva sposato il fratello di Flavia, Eugenio Pasqualin, preside del Liceo Tasso di Roma. Un uomo importante, austero, tutto d’un pezzo. – E vi frequentavate con Giulietta? “Quando io andavo a Roma mi appoggiavo presso di lei che faceva ancora il liceo dalle Orsoline. Era così brillante, vivace, aveva dei corteggiatori. Mi ricordo un certo Mario Mele che le stava molto dietro.” – E la zia Giulia lasciava fare? “Più della zia Giulia era Anna, la governante, che esercitava una sorveglianza severissima. Era una istitutrice vecchia maniera, che noi chiamavamo la tedesca perché era veneta e sembrava proprio una tata austriaca, segaligna e occhiuta. Giulietta diceva che Anna era capace di capire a chi stava telefonando semplicemente osservando, anche da lontano, il movimento della mano che componeva il numero. Insomma la controllava, ma Giulietta le era comunque molto affezionata e durante l’estate spesso andava da lei per le vacanze, nel suo paesino in Veneto che si chiamava Montagnaga di Pinè. Portava anche la sorella, Eugenia, che era quella considerata carina e anche lei aveva un corteggiatore, si chiamava Gigi Nigro. Una volta i due, Gigi Nigro e Mario Mele erano andati in bicicletta fino a Montagnaga per incontrare le due sorelle, ma poi mi avevano scritto, risentiti, che non erano neppure riusciti e vederle, perché loro frequentavano già altre persone. Insomma era stata una gita a vuoto. – E a Roma Giulietta che vita conduceva? “Beh, stava molto bene, usciva, le piaceva partecipare alle recite delle Orsoline, prima ancora di entrare a far parte della compagnia del Guf, all’università. Andava a teatro con la zia Giulia, che non si muoveva per Roma se non in vettura, cioè in carrozza. Pensi che una volta accadde che mio fratello Ruggero che faceva 72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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il militare alla Cecchignola, era stato consegnato e non poteva usufruire della libera uscita. Allora la zia Giulia prese la carrozza, arrivò fin lassù alla città militare, e battendo il suo ombrellino sulla guardiola d’accesso ottenne in men che non si dica che il ragazzo fosse liberato. Era una signora molto distinta, sapeva far valere la sua autorità, il suo stato. E la Montanari, la tata di San Giorgio? “Chi, la Ermelinda? Ermelinda era una ragazza di campagna che stava con i Masina al paese, ma poi li aveva seguiti anche quando si erano trasferiti a Mestre. Era lei che aveva tirato su i bambini perché, diciamolo pure, la madre di Giulietta era una ‘posapiano’, pesante, poco adatta per la casa. Ermelinda era affezionata soprattutto ai gemelli, aveva un debole per il maschio, Mario, e quando poteva dava anche una mano all’economia domestica, come si dice. Lei era di famiglia contadina, veniva da Argelata, e così magari portava i prodotti dell’orto, le uova, un po’ di cibo. Si sentiva una di casa, e quando la madre e il padre di Giulietta si trasferirono a Roma, non mancava mai di far arrivare loro le tagliatelle, che nessuno sapeva fare meglio di lei. Giulietta le era affezionata? “Moltissimo, spesso da bambina andava d’estate qualche giorno da lei, in campagna, e diceva che la facevano dormire su quei grossi sacconi con dentro le foglie di granturco. La considerava una parente e la coinvolgeva sempre quando veniva da queste parti. Ermelinda appare anche in una foto in occasione di una cerimonia pubblica a San Giorgio di Piano, forse l’assegnazione della cittadinanza onoraria. (Cerca fra le foto e me la porge) Cosa dice la data? – 9 maggio 1953. “Ecco, sì, Giulietta era già un’attrice. E il padre, zio Tanino, fin dall’inizio raccoglieva tutte le fotografie, gli articoli di giornale, segnava le date, le occasioni. Aveva fatto sempre così, seguendo passo passo ogni successo della figlia.” 73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ma Giulietta a chi era più affezionata, all’Anna, la governante della zia Giulia, o a Ermelinda? “Beh, erano due cose diverse, però direi a tutte e due.” – Qualcuno sostiene che l’Ermelinda fosse la mamma di Giulietta. “La mamma?! E come poteva?” – Si dice che l’Ermelinda avesse avuto una relazione col padre, lo zio Tanino, il cui frutto era stato Giulietta, una figlia illegittima. E che per questo la bambina fosse stata in seguito allontanata, mandata a Roma dalla zia Giulia. “Ma si sarebbe vista la pancia. E poi c’era la levatrice, l’Angiolla, che l’aveva fatta nascere. Quando nel ’68 Giulietta venne a Bologna per presentare il grande libro sui Clown edito da Cappelli, era uscita persino un’intervista in cui la levatrice aveva dichiarato che Giulietta era nata con la camicia, perché era stata partorita ancora avvolta nella placenta. A quei tempi si diceva che quando succedeva così, il nuovo nato sarebbe stato particolarmente fortunato.” – Quindi lei tenderebbe a escludere un adulterio fra le mura domestiche? “Non ne ho saputo mai niente. È vero che io ero piccola, avevo appena due anni, ma una faccenda così non avrebbe potuto rimanere nascosta, se ne sarebbe parlato.” – Non ha mai pensato che la vicenda dell’abbandono potesse riflettere la storia del film La strada? “No, veramente no…” Che ricordo ha lei di quel film?” “Siamo andati a vederlo a Venezia, io, mio marito Renzo Mazzini, mio fratello Ruggero. Giulietta aveva voluto che ci fossimo tutti. E mi colpì quando dopo la proiezione lei e gli altri attori uscirono tra due ali di folla, e una signora che era accanto a me, esclamò: “Ma è carina, Gelsomina, non è come nel film!” Però posso dirle una cosa: la donna che nel film interpreta la madre di 74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Gelsomina è di San Giorgio di Piano, si chiamava Anna Primula. Aveva accompagnato a Roma, a Cinecittà, la figlia che sognava di diventare un’attrice, ma Fellini quando le vide scelse la madre invece della figlia e le fece fare quella parte.” – Lei ha conosciuto Fellini a Roma, quando era fidanzato con Giulietta? “No, a San Giorgio, perché nel ’43, quando si sono sposati, l’Italia era tagliata in due dalla guerra, non si poteva viaggiare. In seguito Giulietta l’aveva portato a farcelo conoscere. Sebbene abitassimo già a Bologna, eravamo tornati tutti a San Giorgio, da sfollati. Giulietta era arrivata con questo ragazzo così buffo, alto, magro magro. Faceva ridere tutti con le sue uscite. Per esempio si rivolgeva alla moglie dicendole, per stupirci: “Quando torniamo ammazziamo la zia Giulia così ci prendiamo tutti i suoi gioielli.” Era molto divertente con le sue osservazioni quando per esempio si andava a ballare al Madera, perché Giulietta era pazza per il ballo. E poi Federico era bravo a disegnare, e aveva fatto una caricatura del papà di Giulietta a forma di violoncello. Lo zio Tanino ne andava orgoglioso e l’aveva messa da parte, come tutto il resto che riguardava Giulietta; raccoglieva i ricordi in un quadernone, con grande precisione.” – E avete continuato a frequentarvi negli anni? – “Sì, sempre. A Giulietta, come ho detto, mancava tanto San Giorgio, era proprio legata alle radici, alla sua famiglia, e coglieva ogni pretesto per tornare e radunarci tutti. Io ormai vivevo a Bologna, mi ero sposata, avevo avuto una figlia, e quando arrivava lei era sempre una festa. Oppure ci sentivamo anche per telefono, per comunicarci le novità.” – Lei seguiva tutti i suoi film? “Sì, tutti. Cabiria mi era piaciuto moltissimo, secondo me Giulietta era proprio Cabiria. Altri film mi erano piaciuti meno, per esempio Giulietta degli spiriti in cui sentivo la sua recitazione falsa, come forzata. Era stata bravissima invece in Ginger e Fred, 75 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dove ha potuto dimostrare finalmente in pieno il suo gran talento per la danza, come le fosse naturale muoversi al ritmo della musica. Giulietta assomigliava moltissimo al padre, basta guardare gli occhi, e probabilmente aveva ereditato da lui musicista il senso del ritmo, dell’armonia.” – Al papà di Giulietta piacevano le donne… “Così dicevano…” – Ma allora perché esclude che con la Ermelinda… “Non sarebbe stata il suo tipo. Non erano quelle le donne che potevano piacergli.” E l’Anna, la governante della zia Giulia?” “Ancora meno, era una donna legnosa, di quelle proprio asessuate.” – Ma Giulietta la considerava una seconda madre. “Questo sì. Anche dopo che è morta la zia Giulia e l’Anna è tornata a vivere a Montagnaga di Pinè, Giulietta andava sempre a trovarla, non l’ha mai dimenticata.” – E lei come giudica tanto attaccamento? “Lo giudico con il fatto che Giulietta ha molto sofferto l’allontanamento dai genitori e si è attaccata a chi le ha voluto bene come una madre. Ma quella ferita era rimasta, e lei non ha fatto altro che curarla tutta la vita; voleva i fratelli, le sorelle, il padre, la madre accanto a sé, si occupava di tutti, correndo sempre in soccorso di chi aveva bisogno, comportandosi con grande generosità nei confronti della famiglia, e verso tutti i parenti che rappresentavano per lei la provenienza, il nucleo, quel calore della casa, del focolare, che le era venuto a mancare troppo presto.” Probabilmente il mistero di Giulietta non potrà essere svelato più di quanto ci inducono a fantasticare coincidenze, sfumature, sincronismi, fatti e dichiarazioni. È verosimile invece che Federico, per sua natura un sensibilissimo rabdomante, avesse perfettamente colto nella malinconia della moglie quell’antico comples76 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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so, quello stato di disagio e di dolorosa inferiorità, che le aveva procurato essere allontanata dalla famiglia in una età ancora troppo infantile. Va considerato inoltre il rapporto di Giulietta con il padre, molto simile fisicamente al personaggio del Matto nel film La strada, che Federico con magica intuizione aveva affidato a un attore americano, Richard Basehart, ricalcato fedelmente sulla figura di Tanino, il violinista di San Giorgio di Piano. Un padre che, per quanto idealizzato, era però pur sempre anche Zampanò, esemplare di quel maschio ‘primitivo’, dominato dall’istinto, per il quale le femmine non sono nulla di più che secondari strumenti di appagamento. Nel film c’è una sequenza in cui Gelsomina, turbata e avvilita, si sfoga contro Zampanò reduce da una tresca con una prostituta da osteria: “Allora voi andate con le donne!?” Ed è come se quella scoperta le facesse crollare addosso il mondo intero. Federico, come era solito agire nel suo processo creativo, si era in questo caso sostituito medianicamente alla moglie, ne aveva assorbito gli umori e i veleni, e aveva costruito una storia in cui – lo sosteneva Giulietta, con lucida perspicacia – “era lui Gelsomina, ma anche il Matto e anche Zampanò”. I personaggi del film non sono altro che tre aspetti della sua personalità. E anche simboli del senso di desolazione – e di solitudine – che non lo abbandonava mai; e che la musica “spaccacuore” di Nino Rota era riuscita a tradurre in una melodia immortale “gonfia di rimorsi”. E questa, crediamo, sia l’unica verità. Una verità poetica, appunto, oltre la quale non è lecito avventurarsi.

Giulietta era artista e casalinga insieme, non a caso nata nel segno dei Pesci, che caratterizza una doppia natura ‘scontrata’. Molto simile a Gelsomina, il personaggio misterioso che si sovrapporrà a lei, nella fama, in tutto il mondo. In Inghilterra l’a77 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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spettavano all’uscita dell’albergo e la chiamavamo: Jasmine, Jasmine! Non Giulietta, Gelsomina. In Giappone, quando Fellini nel 1990 andò a ricevere il prestigioso Premio dell’Imperatore (il Nobel d’Oriente), tornando a Roma raccontava sorpreso e intenerito che in strada i passanti riconoscevano non lui ma Giulietta, rivolgendosi a lei per nome come fosse un personaggio dei fumetti, un cartoon. E rideva: “Più famosa di Paperina”. Akio Morita, il proprietario e inventore della Sony, li condussse entrambi ad assistere alla visione digitalizzata de La strada e regalò loro il prototipo del nuovo supporto appena inventato, un dischetto lucido ancora sconosciuto in Italia. Nel film La strada Gelsomina e Zampanò sono inseparabili. Dopo un’iniziale reciproca resistenza, la coppia si affiata. A lei piace la vita da vagabonda, il pubblico delle piazze a cui strappare le risate recitando le scenette che Zampanò inventa per lei; ma se si fermano in un luogo anche soltanto per più di un giorno, Gelsomina prova a piantare i pomodori sul fazzoletto di arido sterrato in cui è parcheggiato il furgone, annaffia le piantine come si trattasse del suo orto. Mette casa, accarezza il suo sogno impalpabile e le dispiace che l’altro glielo distrugga a calci sgarbati. Fra loro due sarà sempre così. Quando Zampanò durante la lite all’osteria tira fuori il coltello e i carabinieri lo trascinano in guardina, Gelsomina rimane ad attenderlo seduta sul marciapiede davanti alla porta della prigione, notte e giorno. Potrebbe finalmente fuggire, liberarsi delle sue prepotenze, e invece resta ad aspettare, e rifiuta persino la proposta del Matto, che pure le piace molto, di mettersi insieme e formare una coppia artistica. È tentata, ma non cede. Il Matto, che è buono, va allora a recuperare il motofurgone abbandonato in fondo al paese per portarlo vicino a Gelsomina, in modo che Zampanò lo ritrovi quando lo scarcereranno. Zampanò non ha nessuno e se non ci fosse lei sarebbe completamente solo. Il Matto le spiega che nella vita abbiamo tutti una funzione, anche se non ce ne rendiamo conto, veniamo al mondo con un desti78 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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no, uno scopo. “Lo vedi questo sasso? – Le dice raccogliendo un ciottolo da terra – sembra nulla, e invece è importantissimo. Noi non lo sappiamo, ma vale quanto le stelle che sono lassù.” E le indica il cielo. Gli occhi di Gelsomina tradiscono un vacillamento improvviso come se si fosse squarciato un velo. Sorride di gioia mentre ripone in tasca il sasso prezioso. Ha imparato la lezione. Il Matto si allontana celando il turbamento dietro un’ostentata strafottenza da toscanaccio e lei resta quieta ad aspettare Zampanò. Non ha da mangiare né da bere, e resterebbe digiuna se non fosse per due anime pietose che le portano una scodella di minestra. Il Matto nel film era interpretato da Richard Basehart, un attore americano di finissimo talento che aveva sposato e fatto un figlio con Valentina Cortese. Un giorno una rivale storica di Giulietta, mi confidò ‘per certo’ ciò che da anni era sulla bocca di tutti: che Richard s’era innamorato di Giulietta e lei l’aveva ricambiato, accettando di intrecciare con lui una breve storia appassionata. Già durante la lavorazione del film la voce girava, anzi i giornalisti mondani ci intingevano volentieri la penna, malignavano che le due coppie si scambiavano i partner, e che Federico se la faceva con l’affascinante Valentina. Allora Fellini convocò una conferenza stampa a Venezia in cui i protagonisti del malizioso pettegolezzo si presentarono tutti e quattro insieme, e sfidò i cronisti: “Ecco qua i fedifraghi!” A quella dimostrazione di armonia, e di fronte ai diretti interessati che scherzavano d’amore e d’accordo, la stampa rosa cessò di battere la pista e si rivolse ad altro. Giulietta aveva piantato il suo orto e lo accudiva con amore, né mai se ne sarebbe separata, malgrado le piacesse ancora tanto recitare e fare l’artista. In certi momenti, in alcune fotografie degli anni Sessanta, appare anche molto bella, un po’ inquieta, più florida di come la ricordiamo, vogliosa di vita. Aveva un corteggiatore fisso, una specie di cavalier servente in Salvato Cappelli, il commediografo, che scrisse anche per lei e con lei, affiancandola quando all’apice della popolarità Giulietta venne invitata da “La 79 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Stampa” a tenere una rubrica di corrispondenza con i lettori. Cappelli confidava volentieri agli intimi “che non c’era nulla di più incandescente della donna casta di un genio.” Era una di quelle espressioni letterarie che avrebbero fatto inorridire Fellini. Non si sapeva bene infatti che significato attribuirle. Liliana Betti, assistente ed esegeta di Federico, sosteneva che ‘casta’ si riferisse al fatto che Giulietta non faceva più da anni l’amore con Federico, pur essendone innamorata. Dunque Salvato poteva usufruire della sua ribollente e insoddisfatta sensualità. A me sembrava che casta volesse semplicemente dire che nonostante le insistenze, Cappelli non era riuscito nel suo intento e quindi bruciasse poeticamente nell’arsura. Roba dell’altro secolo. O magari anche del nostro. Salvato Cappelli indugiava spesso, specialmente d’estate, nella villa di Giulietta e Federico a Fregene; era per così dire “di casa”. Del resto anche lui era sposato e abitava in un’altra villa a pochi passi. E Giulietta stessa si recava spesso da lui e sua moglie a giocare a carte, il pomeriggio, in attesa dell’ora di cena. La quale veniva allestita una volta dagli uni, una volta dagli altri con simpatica alternanza. A Federico non dispiaceva che Giulietta stesse in compagnia: la condizione di un matrimonio senza figli, senza un’allegra confusione in casa, aveva aduggiato entrambi. Forse più Federico che Giulietta, la quale da primogenita aveva spostato l’affetto sulla propria famiglia, la sorelle, il fratello, e poi i nipoti a cui era attaccatissima. Le piaceva far da chioccia a tutti quanti, invitarli da lei. Ma il vuoto della casa rimaneva immutato. E così non tanto l’appartamento di via Margutta quanto la villa di Fregene, nella buona stagione si apriva con piacere agli amici, la sera e nei fine settimana. Giulietta del resto era una bravissima cuoca, cucinava polpette favolose e passava per vera virtuosa della pasta e fagioli, alla romana, con i borlotti rossi; sosteneva che il segreto consisteva nella densità giusta al punto che il cucchiaio di legno deve rimanere dritto infilzato dentro il tegame di coccio; allora sì che la minestra è gustosa, si scioglie in bocca 80 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come una leccornia! Gli ospiti erano tutti pazzi della sua cucina, e Cappelli non mancava mai. Così qualche volta capitava, tornando da Cinecittà, che Federico infilasse la chiave nella toppa della porticina sul retro e, fiutando la solita confusione si ritraesse infastidito. Risaliva in macchina e diceva: “Andiamo a cena da Mastino che è meglio.” E così andavamo lui ed io a mangiare pesce nel ristorante che era diventato notissimo proprio grazie a Fellini e a La strada. Nel ’54 era ancora una semplice baracca di pescatori in cui la troupe organizzava la pausa di mezzogiorno, Mastino preparava gli spaghetti alle vongole e il pranzo diventava una festa. Poi si ingrandì trasformandosi in uno dei locali più rinomati della costa. Ma Federico continuava a trattare il personale, a cominciare dal vecchio proprietario, come se fosse ancora l’ora di pausa, con la stessa cordiale sbrigatività, e loro gli riservavano in cambio i riguardi che si debbono a un principe, onorati della sua inestimabile familiarità. “Che je va ‘stasera, dottò? C’avrei un rombetto che è arrivato adesso adesso; je lo metto in tanto nel forno caldo insieme a du’ belle patatine, ce penso io, vedrà, mentre ve porto n’assaggio d’antipasto.” Fellini era trattato dovunque così nei ristoranti romani, come un figlio che torna a casa. Dalla Cesarina, dal Toscano, da Giuseppe a via Brunetti, al Fico Nuovo, da Checco al 13°, si ricreava invariabilmente la stessa atmosfera. Anche con Mastino, quella sera, Federico accettò i consigli sul menu distrattamente, sapendo che lo avrebbero comunque servito bene. E intanto tornava sull’argomento che l’aveva spinto lontano da casa, a cenare in trattoria: “Tutta quella gente! Con la giornata che ho avuto oggi, proprio non ne avevo voglia. E poi quel Salvato! Non manca mai, a qualunque ora rientro trovo lui. E pretende di parlare, gli piace atteggiarsi a letterato, fa lo spiritoso, è un vanesio. Di una noia insopportabile!” Versava il vino per se stesso e per me, spegnendo d’un tratto il sorriso, e in quei momenti, osservandolo meglio, mi sembrava proprio di scorgere Zampanò all’osteria. 81 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La Lea viene trasfigurata in un personaggio dello schermo nell’ultimo film di Fellini, La voce della luna. Ma la sua presenza ritorna di frequente nel “Libro dei Sogni”. Federico l’aveva conosciuta alla fine de La strada, a metà degli anni Cinquanta. Era stato per così dire un colpo di fulmine, accaduto peraltro in una circostanza molto particolare. Il regista riemergeva da una seduta con lo psicanalista Emilio Servadio; un incontro propiziato da Giulietta che ne conosceva l’amica e s’era rivolta a lei essendo molto preoccupata per un fosco malessere in cui era precipitato il marito. Erano i giorni in cui nel piano di lavorazione era prevista la scena iniziale della storia, quando la madre vende Gelsomina a Zampanò, il girovago che è tornato alla capanna sulla spiaggia perché la sorella di Gelsomina è morta e lui ha bisogno di un’altra assistente tuttofare. Forse Federico stava provando su di sé quello stesso sgomento della creatura innocente costretta a lasciare la povera casa, la madre, le sorelle, per essere trascinata incontro a un destino ignoto e minaccioso. La seduta psicanalitica, la prima nella sua vita, non gli era piaciuta; avvertiva opprimente il rapporto con il terapeuta, di scuola freudiana, seduto accanto al lettino e silenziosamente in ascolto. Salutò con sollievo la scadenza del tempo canonico, e abbandonò in fretta l’appartamento. Ma quando raggiunse il portone per uscire in strada, proprio sulla soglia lo accolse un tuono da far tremare i muri e immediatamente cominciò a piovere a cateratte. Federico non si lasciò scoraggiare e raggiunse il giardinetto che c’era davanti alla casa, cercando di ripararsi sotto la chioma di un grosso albero. Ma non era solo, c’era già una giovane signora che vi aveva trovato rifugio; gli bastò un’occhiata, mi riferiva Federico, per scorgere sotto l’abito a sacco le forme di “due chiappone gloriose”, messe in risalto dalla rotazione che la ragazza aveva compiuto per rivolgergli la parola, scherzosa: “La troveremo un’anima buona che viene a salvarci?” Aveva parlato con inconfondibile cadenza romagnola. Si chiamava Lea, era di 82 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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San Marino. Passò un taxi, lo fermarono, vi entrarono insieme con i vestiti bagnati. La sconosciuta abitava in una pensione quasi in cima a via Veneto; dissero all’autista di dirigersi lì come prima tappa e quando l’auto si arrestò davanti al portone, Fellini galante scese anche lui, per i saluti, mentre la macchina aspettava; seguì la donna fin dentro l’androne e in quella complice penombra non si trattenne dall’abbracciarla. “Lei mi lasciò fare.” Inizia così una delle storie più arroventate della vita del regista, che in quella stagione aveva trentaquattro anni. La Lea era una donna focosa, temperamentosa, difficile da soddisfare sul piano sessuale perché non le bastava mai; ed era proprio la sua accesa passione a renderla desiderabile fino alla furia. Federico ne era rimasto irretito, sebbene un po’ spaventato, e al suo solito pronto alla fuga. Tuttavia quando si ritrovavano erano fiamme. Non solo erotiche ma anche di zuffe, di scontri; vere e proprie sfuriate, massacranti bisticci. Una volta, stanco delle continue scenate, Federico s’era fermato in uno spiazzo a bordo della strada e l’aveva costretta a scendere, esattamente allo stesso modo in cui, in una scena de La dolce vita, Marcello (Mastroianni) esasperato scarica la fidanzata Emma (Yvonne Furneaux), nevrotica e possessiva al punto da non lasciarlo respirare. Purtroppo la sosta era avvenuta accanto a un cantiere stradale con cumuli di materiale a portata di mano; Lea aveva preso a bombardare a colpi di sampietrini la Lancia Flaminia Sport appena ritirata dal concessionario. Era tanta la sua forza nervosa che l’aveva distrutta, ridotta un ferrovecchio. Vincenzo Malagò, il proprietario dell’autosalone romano, non credeva ai suoi occhi quando era andato a recuperare l’auto con il carro attrezzi lungo la via Flaminia tra Terni e Spoleto: “Ah Federì, ma che t’è caduta addosso la montagna?” La mitica Lea! Quante volte era affiorata nei racconti per lampeggiamenti corruschi, abbaglianti come bengala; anche Titta 83 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benzi, amico fedelissimo, confidava che in certe occasioni Federico per avere un alibi passava a prenderlo a Rimini e si faceva accompagnare a San Marino, dove l’avvocato rimaneva in auto ad aspettarlo fino a tarda notte. Eppure se non me l’avesse rivelato Federico non avrei mai sospettato che la Marisa de La voce della luna, la sposa insaziabile e senza pace che vuole per sé il maritino in ogni angolo dell’appartamento, fosse proprio lei. È Lea la femmina incontentabile che gravando addosso al gracile Nestore appiattito sul divano, si trasforma a vista in una locomotiva sferragliante e inarrestabile, una spaventosa, potente vaporiera che ricolma la stanza di nuvole di fumo e fa ‘deragliare’ l’inadeguato maritino conducendolo fuori di testa, letteralmente alla follia. Lea, immagine leonina di spropositata sensualità, di incontenibile lascivia. L’amante bellicosa per cui anche Federico aveva perduto in parte la bussola. Non è un caso che Lea appaia nel Sogno dell’aeroporto che Fellini giudicava tra i più importanti tra quelli annotati. Nella vignetta Fellini ‘vede’ se stesso nelle vesti di direttore di un aeroporto alle prese con un personaggio orientale il quale, muto e quasi minaccioso, pretende da lui il visto di ingresso. Nella seconda versione del medesimo sogno compare un terzo soggetto, una poderosa donna nuda seduta di schiena sulla scrivania, con due chiappe prorompenti e la sola cintura in vita, abbigliata quindi come una femmina-gladiatore. Sono riconoscibili le fattezze della famosa Lea di San Marino. Allora ci si domanda: perché compare Lea nel sogno e in quella particolare posizione dominante nei confronti del sognatore, rappresentato decisamente minuscolo nonostante l’altezzoso berretto da capo scalo e la scritta esplicita ‘director’ nella targhetta della scrivania? Va notato che il sostantivo in lingua inglese significa precisamente ‘regista’. Ed è il regista-caposcalo a dover decidere se far entrare o no l’orientale, immobile e determinato, che gli sta di fronte. Federico lo giudicava un sogno cardine forse 84 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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anche per le parole oracolari pronunciate da Bernhard: “Il giorno in cui lei realizzerà questa figura che le stava dinnanzi, sarà un giorno straordinario”. Ernst Bernhard era lo psicanalista di scuola junghiana al quale Fellini si era accostato quasi ‘per caso’. Un giorno, chiamando un numero di telefono trovato in un biglietto che aveva in tasca e che pensava appartenesse a una piacente signora, gli rispose il terapeuta, il quale sull’abbrivio di quella propizia coincidenza lo invitò ad andarlo a trovare. Federico accettò e si appassionò alle conversazioni con lo studioso che aveva quasi venticinque anni più di lui (una figura paterna) ed ebbe la funzione di introdurlo a una visione psicanalitica dell’esistenza percepita dall’artista più amichevole e conciliatoria rispetto alle teorie di Freud. Quantomeno più affine al proprio carattere dal momento che tra gli strumenti di indagine della personalità venivano utilizzate l’astrologia, la chiromanzia e molte altre dottrine magiche o iniziatiche. Non escluso il grande libro cinese delle mutazioni, l’I Ching, che forniva al consultante risposte oscure, vaticinanti, eppure capaci nei momenti di maggior sconforto o incertezza di dischiudere vie d’uscita salutari, suggerire prodigiosi chiarimenti. Il ‘sogno del cinese’ risale appunto all’inizio della relazione con lo psicanalista e figurerebbe tra i primi della raccolta se in seguito non fosse stato strappato dall’autore e affidato all’amico Rinaldo Geleng. Reca la data 27 dicembre 1960, a ridosso dello spirare dell’anno, e si ricollega ad altri sogni di quei medesimi giorni che ci aiutano a illuminarne il contenuto. Il 5 dicembre Federico sogna di leggere sullo “Specchio” (giornale scandalistico dell’epoca): “…Fellini decide finalmente di abbandonare sua moglie.” La lettura di questa notizia, commenta il regista, “mi carica d’odio verso il giornale e di pena (ma non più così straziante come sarebbe accaduto tempo fa) per Giulietta e per me.” In un sogno precedente infatti, Federico perde Giulietta in stazione. Si attarda a comprare le sigarette mentre il treno parte portandosela 85 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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via. “Sono strozzato dall’angoscia, Giulietta è sola sul quel treno, come raggiungerla? (…) Chissà dove e quando la rivedrò.” La stessa notte in cui ‘incontra’ il misterioso cinese Fellini sogna anche di trovarsi a Villa Borghese in attesa di Delia Scala (una famosa e appetitosa soubrette), circondato dalle tenebre, da ruffiani e da puttane. Si accorge si essere nudo, bianco e magro. “Frociaccio!! – mi urlano dietro sghignazzando. – Rottinculo! – E a me sembra che abbiano ragione.” Il primo giorno del nuovo anno (1961) il sogno colloca Federico a via della Mercede (strada di uno storico casino); piove e “un’antica gloriosa troiona avanza verso di me sotto l’ombrellino; la bella ruffiana è amica della L(ea) e della Paciocca, quanto l’ho desiderata quella potente mignottona! (in realtà non è mai esistita).” Federico cerca di richiamare l’attenzione con dei fischi e continua: “Ma l’altra bellona che spunta laggiù sulla piazza non è forse L(ea) stessa? Oppure un’altra donna ma ancora più bella e desiderabile?” Poi il protagonista va a letto con la vecchia ruffianona, che gli fa anche un po’ schifo; ma “non è possibile resisterle, la sua ciccia dà pace e sonno.” L’altra figura femminile denominata Paciocca, meriterà a tempo debito un capitolo a parte. Il 20 gennaio (giorno del suo compleanno!) sogna invece che “Giulietta sta morendo”. È un sogno dettagliatissimo nella minuziosa descrizione e nel finale, in cui il regista invocando la moglie (“Giulietta, adorata Giulietta, non morire, non mi lasciare”) ammette che nell’atto di scrivere queste note sul librone, non riesce a trattenere le lacrime. A febbraio torna la Lea, questa volta a Rimini, nel quartiere San Giuliano: “…la culona notturna in posa discinta è la L.” Intorno ci sono due paesani che ridacchiano e dicono: “La L. con dieci lire la si può chiavare quanto si vuole.” E a quelle affermazioni, annota Fellini, “si sentiva il ridacchiare torbido lupesco della bella troiona.” Circa un mese dopo la Lea riappare oniricamente a Roma e 86 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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per l’esattezza al santuario del Divino Amore, una valletta in cui avvenivano gli incontri clandestini e le furibonde liti in macchina della coppia. Al posto dell’auto c’è un aereo, e insieme a lui c’è Giulietta. La Lea compare “con cinque, sei figli portati per mano”, Federico cerca di non farsi vedere ma poi esce dalla macchina e si defila sulla soglia di un’osteria a spiarla mentre avanza “con la sua figliolanza composta e graziosissima.” L’irresistibile Lea. Federico come si è detto l’aveva incontrata alla fine della lavorazione de La Strada, indicativamente cinque o sei anni prima, preda di un inizio di depressione in cui temeva di sprofondare. L’approccio era stato fulminante, proprio come le saette che scuotevano il cielo in quel momento particolarmente gravido di sviluppi. Nell’antichità la coincidenza sarebbe stata considerata un avvertimento, un segno di Giove. Esplose infatti una storia travagliatissima, rovente di sesso, nella quale Federico si sentiva in una posizione vagamente di inferiorità di fronte a tanta travolgente lussuria. Una femminilità sovrastante che nel sogno riduce alle minime proporzioni e totalmente insicuro il comandante (“director”) dell’aeroporto: “Davanti a me c’è un viaggiatore dall’aspetto misterioso, di razza sconosciuta, che mi incute soggezione, timore e ribrezzo insieme. (…) «Io non sono il vero direttore dell’aeroporto – dicevo arrossendo. – Non ho l’autorità di farla entrare…» Ma sapevo che non ero completamente sincero, e avevo vergogna per questa viltà…” Il destino dell’artista, del resto, è proprio di non sentirsi mai all’altezza, inevitabilmente impari al compito, alla prestazione che ci si aspetta da lui; e Fellini esprime questo sentimento anche tramite la presenza della donna sovradimensionata, una gigantessa all’apparenza impossibile da possedere. Per questo Bernhard azzardò la famosa profezia: “Il giorno in cui lei realizzerà questa figura che le stava dinnanzi, sarà un giorno straordinario.” In capo a qualche anno burrascoso la vicenda si concluse. I due 87 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a quanto pare non si videro più, anche perché l’equilibrio psichico della Lea peggiorava a vista d’occhio. La donna infatti si spense nel manicomio regionale di Imola.

Roma di notte. La fidanzata (Dorian Gray) è affascinante, avvolta da una pelliccia mollemente panneggiata sulle forme sinuose, capelli biondo platino, labbra turgide e sdegnose. Ma, Alberto Lazzari, il grande Divo, è arcistufo dei suoi capricci, la molla all’uscita di un night club in via Veneto e, per ripicca, carica sulla sfavillante decappottabile americana la prima mignottella che gli capita a tiro, con i calzini corti alla caviglia e addosso un bolerino di piume di pollo. Il favoloso personaggio, irritato e scontento, la porta con sé nella villa hollywoodiana sull’Appia Antica, in un ambiente di lusso sfrenato. La servitù prepara solerte calici di champagne e una svelta cenetta a base di caviale e aragosta; per la buffa, stupefatta Cabiria si annuncia una notte da sogno con l’attore nella sontuosa alcova ricoperta di morbido castoro, un’occasione unica nella sua esistenza derelitta. Ma la maliarda non si è arresa, ecco che irrompe nella villa, padrona più che mai del campo e soprattutto del cuore del Divo. Cabiria viene rinchiusa in fretta nella stanza da bagno, dove trascorre tutta la notte condannata a sorbirsi le smancerie dei due amanti fin quando, stanca, si addormenta sul pavimento rannicchiata alla maniera dei cani quando vengono messi alla porta. Durante la scena della camera da letto, quando l’attore si toglie la giacca dello smoking bianco per indossare una preziosa vestaglia di cachemire disegno tartan, lo spettatore ha avuto modo di restare sbalordito di fronte al suo guardaroba esagerato. Le vastissime ante dell’armadio, azionate elettricamente, scorrono illuminando l’interno e scoprendo l’esposizione di decine e decine di abiti allineati con la profusione di una sartoria alla moda: giac88 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che, capi interi, spezzati, completi da mattino, da pomeriggio, da campagna, da cocktail, da golf, da cerimonia; tagli impeccabili, tessuti finissimi, fogge accurate per ogni occasione e stagione. Un’invenzione cinematografica enfatizzata per arricchire la storia? No, tutto vero, fedelmente riprodotto dall’originale. Fellini mi confidò che la sequenza de Le notti di Cabiria gli si precisò proprio recandosi a trovare Nazzari per parlargli della storia in cui intendeva coinvolgerlo. Visitando la sua casa ebbe l’opportunità di imbattersi affascinato in quella strepitosa parata di eleganza: l’esatta connotazione che stava cercando per ritrarre a tutto tondo la dimensione fiabesca di un essere divinizzato dal pubblico. Pur incline a riempire di stupore i suoi racconti, Federico non si era inventato nulla. Ne ebbi conferma alcuni anni dopo dal produttore Toni Di Carlo, già controfigura e segretario di Amedeo Nazzari. Di Carlo era un omone grande e grosso, per statura e corporatura assai simile all’attore sardo di cui sapeva riprodurre a perfezione anche il suono della voce, che aveva per natura piena e rombante. Ricordava gli anni al servizio di Nazzari come i più entusiasmanti della sua vita, poiché essendo di famiglia modesta e abituato alla fame del dopoguerra – gli amici romani lo chiamavano ‘cannavota’ per quanto era magro ed emaciato – alla corte del divo dei divi aveva potuto sperimentare finalmente l’abbondanza dei pasti regolari e in qualche occasione perfino l’illusione di una vita da gran signore, sia pur vissuta nel riflesso di quel sole sfolgorante. Nazzari a suo giudizio – opinione unanimamente condivisa – era generosissimo; oltre a riconoscere al segretario un più che dignitoso mensile, gli passava gli abiti di stoffa inglese che rinnovava ad ogni cambio di stagione e qualche volta, la sera, gli permetteva di utilizzare la fiammante fuoriserie del momento con cui il fortunato assistente, pavoneggiandosi in via Veneto, riusciva a rimediare avventure femminili altrimenti fuori portata. 89 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Nella villa dell’attore – mi raccontava con ancora negli occhi uno scintillio di infantile ingordigia – la tavola era sempre splendidamente imbandita per amici, colleghi, compagni di set; e chiunque poteva presentarsi e sedere a pranzo e a cena servito con ogni riguardo dai camerieri in guanti bianchi. Nazzari gioiva nel donare piacere a chi era stato meno fortunato di lui, e pensava di attenersi a un religioso senso di giustizia restituendo quel di più che la Provvidenza gli aveva riservato. Anche la sua mano era prodiga, se qualcuno aveva bisogno di denaro non si tirava mai indietro. E a Cinecittà oltre al solito codazzo che pedinava l’attore in ogni spostamento, si creava invariabilmente la fila quando, nell’intervallo di un cambio di scena, al Divo poteva capitare di recarsi alla toilette. Allora era una lotta fra i questuanti a chi riusciva a guadagnare la postazione accanto alla sua negli orinatoi, approfittando di quella forzata immobilità per elencargli un rosario di patetici guai. Al buon gigante non rimaneva altro che infilare la mano in tasca e allungare allo sventurato le banconote che gli venivano a tiro. Durante la lavorazione di un film, Nazzari era solito avere a disposizione un camion-sartoria appositamente adibito ai cambi d’abito e la sua sarta personale doveva tenere sempre pronta una camicia candida e stirata di fresco da porgere all’attore persino tra un ciak e l’altro. Quella da sostituire finiva invariabilmente a beneficio di comparse e figuranti. Di Carlo ammetteva di possederne cassetti pieni, e di conservare ancora, al tempo in cui ci siamo frequentati, molti dei vestiti smessi dall’attore, compresi gli smoking bianchi e neri, i tight, gli sventolanti completi di candido lino. Nazzari era stato il primo attore italiano ad essere pagato con una percentuale sugli incassi, dal momento che il cachet sarebbe stato troppo alto per qualsiasi produzione, per quanto di rilevante impegno finanziario, come spesso erano i melodrammi popolari con cui Goffredo Lombardo aveva costruito l’immensa fortuna della Titanus. 90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ed era stato lui a convincerlo ad accettare Le notti di Cabiria. L’attore non era del tutto persuaso della parte, temeva che quella trovata di Fellini di fargli interpretare se stesso potesse ingenerare nel pubblico il sospetto di una sorta di liquidazione del proprio personaggio, con il rischio di venire equivocato per un divo sul viale del tramonto, già consegnato alla memoria. Quando nel 1974 conobbi Nazzari di persona, cercai di indagare discretamente sulla vicenda ricavandone una diversa versione; riguardo al film interpretato con Fellini si espresse con un’ammirazione punteggiata di sottili sfumature, dimostrando di aver ‘indossato’ il carattere richiesto dal regista con acuta e consapevole ironia. Non è certo un caso – non lo è mai nelle opere degli artisti eccelsi – che Fellini avesse scelto proprio lui per tratteggiare la sfuggente fascinazione di una stagione dorata ormai agli sgoccioli.

Angelo Arpa Servus Jesu, cioè gesuita, passava per il padre spirituale di Fellini, ma era molto di più, era suo amico. “Per vivere gli basta un pugno di sabbia”, ripeteva Federico, compiaciuto e intenerito di figurarsi l’ecclesiastico come un anacoreta, un profeta stilita. Quel corpo esile, ossuto, che sorreggeva il volto scavato e la gran corona di capelli bianchi, indomabili, come un nimbo luminoso intorno alla testa, lo rendevano un personaggio un po’ fiabesco, un alone che il regista aveva contribuito ad alimentare. “Angelo capisce tutto, – insisteva – puoi raccontargli qualsiasi cosa, la più intima, la più privata, la più confusa, e sei certo, lo vedi nei suoi occhi, che ha capito, s’è preso lui un po’ del tuo peso.” Federico era in cerca di assoluzioni almeno quanto Arpa era ardente di elargirne. Erano buoni alleati, con vocazioni complementari, nato l’uno per assecondare l’opera divina della creazione, l’altro, secondo una sua esplicita ammissione, “per fare al Pa91 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dreterno concorrenza”. Limitatamente al set cinematografico, ça va sans dire. Era stato Angelo a suggerire per 8 ½ la sentenza, rimasta proverbiale, che il Cardinale pronuncia tra i candidi vapori del bagno turco a beneficio del protagonista Guido-Marcello Mastroianni in cerca di una impossibile felicità: “Extra Ecclesiam nulla salus.” Non c’è salvezza fuori della Chiesa. Affermazione a lungo attribuita a Origene, un nome dal suono indiscutibilmente cinematografico, prima che l’intransigente filologia la riassegnasse al legittimo autore, Cipriano di Cartagine. Malgrado ciò la Curia non gli aveva più perdonato di aver preso partito, pubblicamente, con articoli e dibattiti, in difesa de La dolce vita, condannata senza appello dall’Osservatore Romano con un titolo a piena pagina: “VERGOGNA!” Il gesuita aveva subìto serenamente le conseguenze di quella cupa intransigenza; lui innamorato del cinema, costretto dalla disciplina a non potersi più esprimere pubblicamente in nessuna sede, imbavagliato per anni e con la minaccia pendente di una esemplare sospensione ‘a divinis’, cioè a non poter più recitare messa, se avesse infranto l’obbedienza. Arpa e Fellini si erano conosciuti alcuni anni prima, nel 1954, al tempo de La strada, quella favola eterna con cui il giovane regista, libero da ogni soggezione alla dittatura ideologia del Neorealismo, era stato capace di portare sullo schermo la novità di un linguaggio senza precedenti. A Genova Arpa aveva inventato i Cineforum, e i film di quel giovanotto di Rimini gli offrivano materia a profusione per le sue immersioni spirituali. Nell’inquieta ricerca di una cultura nuova che producesse qualche scossa nel provincialismo nazionale, padre Arpa aveva anche fondato il Columbianum, un istituto nato per spalancare una finestra e fare entrare aria fresca dai continui scambi con gli intellettuali latino-americani. Fino a quando, diventato troppo scomodo, e per sua natura più attento ai programmi di rinnova92 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mento che ai bilanci, nel 1967 il gesuita era inciampato nell’accusa di illeciti amministrativi, arrestato e trasferito direttamente al carcere giudiziario di Regina Coeli. Fellini era accorso la notte stessa a via della Lungara, ottenendo in grazia della notorietà di cui godeva che al sacerdote fosse risparmiata almeno la mortificazione della cella, assegnato all’infermeria della prigione. Aveva mosso tutte le sue conoscenze personali, fino all’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, perché si facesse piena luce sulla vicenda e il sacerdote riottenesse libertà di movimento e piena riabilitazione. Il cineasta era debitore ad Angelo della esistenza materiale del suo film Le notti di Cabiria, a cui la censura amministrativa dell’epoca aveva negato il visto di circolazione nelle sale nel marzo 1957; una decisione che a quei tempi comportava la distruzione del negativo, cioè una ridicola quanto drammatica e insensata condanna al rogo. Arpa che a Genova aveva avuto modo di guadagnarsi la stima e l’amicizia del Cardinale Giuseppe Siri – porporato potentissimo in predicato per il soglio pontificio nella successione a Pio XII – si era offerto di intervenire per sottrarre l’amico al preoccupante anatema oltre che alle conseguenze di un rilevante danno economico. Per consentire al prelato di visionare privatamente il film, era stata organizzata una proiezione in una sala cinematografica appartata, nei vicoli del porto. La lustra berlina nera del Cardinale era giunta a mezzanotte, in perfetta segretezza. In platea era stato piazzato una specie di trono sontuoso, in foglia d’oro e velluti cremisi, che Federico stesso si era premurato di scovare presso un antiquario della città come segno di deferenza alla regalità del personaggio. Non erano stati ammessi altri spettatori all’infuori di Arpa, al quale era stato assegnato il compito delicatissimo di tener desta l’attenzione del Principe della Chiesa in caso di assopimento, con strategici colpi di tosse o cauti sfioramenti, in coincidenza specialmente dei passaggi più edificanti della trama. Il regista era restato in attesa fuori, seduto sul gradino in pietra 93 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dell’ingresso. E tutte le luci, anche dell’atrio, erano state spente. Nessuno conosce con precisione cosa si siano detti il sacerdote e il cardinale Siri nel corso della proiezione. Si sa soltanto che nella penombra palpitante della sala, alle ultime battute del film e prima che si spegnesse lo schermo, il porporato avrebbe mormorato: “Bisogna fare qualcosa per la nostra povera Cabiria.” Bastarono quelle poche parole riportate nei corridoi giusti, perché nello zelo del regime democristiano il decreto di censura fosse ritirato per incanto. Ne pagò tuttavia le spese una sequenza di ‘carità laica’ denominata ‘L’uomo del sacco’ (interpretata dal montatore del regista, Leo Catozzo) che recava disturbo all’immagine di Roma; e non faceva onore a nessuno, né al regime della ricostruzione, con il boom economico alle porte, né tanto meno a Santa Madre Chiesa patrona della Città Eterna. Intanto si era stretto, come in un romanzo, il sodalizio tra Fellini e Padre Arpa, durato tutta la vita a dispetto dei partiti di sinistra che attribuivano a quell’insolito bazzicare con i preti la scarsa sensibilità del grande regista alle problematiche sociali; troppo individualista e conciliante con il nemico di classe, oltre che ambiguamente consolatorio nei confronti della vita. Al contrario fu in quell’occasione che Giuseppe Siri imparò ad apprezzare la profondità di ispirazione di Fellini, e di nuovo si schierò indirettamente a favore dell’artista, tre anni dopo, all’esplosione dello ‘scandalo’ sollevato da La dolce vita, permettendo (e forse incoraggiando) una recensione positiva del film da parte del “Nuovo Cittadino”, il quotidiano cattolico genovese (6 febbraio 1960); in controtendenza addirittura all’anatema senza appello pronunciato da L’Osservatore Romano. Esiste persino una lettera dell’alto prelato genovese in risposta alle rimostranze del cardinale Montini, allora Arcivescovo di Milano e fieramente avverso al film. Nell’aneddotica felliniana Federico si rivolse a lui per un colloquio risanatore. Era amareg94 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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giato per la violenta campagna clericale contro il suo film e la sua persona, culminata nei manifesti a lutto affissi nella diocesi di Padova in cui i fedeli venivano invitati a “pregare per la salvezza dell’anima di Federico Fellini, pubblico peccatore”. E a Rimini, assistendo alla messa, la madre Ida fu costretta ad uscire di chiesa in lacrime a causa delle dure parole che, durante la predica, il parroco aveva lanciato come folgori contro quel figlio scellerato. Fellini, ancora una volta accompagnato da padre Angelo Arpa, si era recato presso l’arcivescovato milanese sottoponendosi a una lunga e vana attesa nella speranza di essere ricevuto. E raccontò: “Dopo alcune ore Montini passò rapidamente in corridoio, mi rivolse uno sguardo gelido che aveva i bagliori dell’acciaio, e sussurrò: «Pregherò per lei», dileguandosi in fretta e senza permettermi di pronunciare una sola parola in difesa del mio film.” Dunque Giovanni Battista Montini, considerato l’esponente progressista e illuminato della Chiesa, eletto di lì a poco Pontefice con il nome di Paolo VI, si schierava con l’ala più reazionaria e retriva dei cattolici; mentre Giuseppe Siri, campione del conservatorismo più ortodosso, mostrava un’apertura moderna e consapevole nei confronti dell’artista che con il suo affresco ‘scandaloso’ ma denso di verità induceva a un’utile riflessione morale. E suonano oggi davvero sorprendenti le parole che possiamo leggere nella lettera del cardinale, dal tono finemente psicanalitico: “Il film è veritiero, ed è perché colpisce orribilmente la vita di molti, che taluni hanno reagito anche sulla stampa: vi si sono visti descritti ed hanno avuto paura di se stessi.” Mentre Montini, spaventato, scriveva: “Un film di tale immoralità è di tale cattivo esempio della depravazione umana, che ci vorrebbe qualche intervento dell’autorità ecclesiastica per farlo togliere dagli schermi.”

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“Abitavo in una strada presso Ruschena e quindi la mattina, uscendo di casa, mi fermavo nella pasticceria per fare colazione con il caffè e le brioche. In quel tempo dovevo recarmi a fare delle endovenose per una cura ricostituente, e così ogni mattina passavo da quel bar. Un giorno c’era nel locale un bell’uomo alto che vedendomi mi aveva indirizzato molti complimenti con segni della testa e degli occhi. Io indossavo un tailleurino di cotone a fiori gialli, senza maniche, con dei sandali bianchi non troppo alti sui tacchi. In testa avevo uno chignon, con un bel fiocco nero. Quando sono uscita lui era fuori ad aspettarmi e mi chiese se poteva accompagnarmi. Ridendo mi ero incamminata a piedi e lui era corso a prendere la macchina, una vistosa Chevrolet. Intanto avevo attraversato il ponte e mi ero infilata in un vicoletto dove si trovava il mio calzolaio; riemergendo dalla bottega avevo trovato la grossa auto che occupava tutto il vicolo e mi impediva di uscire: ero rimasta incastrata sulla soglia. Non avevo altra scelta: lo sconosciuto aveva fatto un po’ di marcia indietro in modo che la portiera della macchina fosse proprio alla mia altezza ed ero salita. Il simpatico corteggiatore, scherzando, non mi lasciava alternative. E invece di accompagnarmi a casa si era diretto fuori Roma, prendendo la Salaria. Mi ricordo che ci siamo fermati in un punto dove c’era una grande quercia, immensa, vicino a una centrale elettrica. Lui era molto galante, mi aveva baciato la mano, curiosissimo di me, di tutto ciò che mi riguardava. Mi aveva chiesto come mi chiamavo, e io dissi “Anna”. A mia volta mi informai sul suo nome, ma dalla risposta avevo capito Enrico e così ho continuato a chiamarlo per un po’. Finché lui mi ha corretto: “Non Enrico, Federico! Sono Federico Fellini.” Il nome non mi diceva nulla, fin quando non mi confidò di essere un regista e che tra i film che aveva realizzato c’era anche La strada. La strada! L’avevo vista sette volte! Ero innamorata di quella storia, e lui fu molto contento di questa mia passione. Mi chiese se potevamo rivederci il giorno dopo: “Che cosa fa 96 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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domani?” Risposi che mi recavo, come ogni mattina, a Piazza dei Cinquecento, a casa di un’infermiera per una cura di iniezioni ricostituenti. Il giorno dopo, quando sono scesa dal mio appartamento di via Calamatta, alle undici, l’ho trovato lì, davanti al portone con la sua Chevrolet. Aspettandomi aveva occupato il tempo a prendere informazioni su di me, e interrogando il portiere aveva saputo che vivevo da sola con mia figlia di pochi anni. Mi ha accompagnata a fare l’iniezione, e poiché la cura era di dieci fiale e ne avevo fatte soltanto tre, per sette mattine consecutive aveva sempre voluto accompagnarmi, presentandosi ogni volta con dei doni, fiori, cioccolatini, scatole di bonbon. Piano piano mi sono innamorata di lui. Abbiamo cominciato a uscire la sera. Finché un giorno, venendo a prendermi, mi ha regalato un anello d’oro a forma di serpente, con due rossi rubini per occhi. Una volta è salito anche a casa mia, dove io affittavo un paio di stanze a un criminologo, che era il padre di Nanni Loy. Non poteva star lontano da me, e mi raccontava che quando ci separavamo, tornando a casa abbracciava le tende e le baciava, tanto gli mancavo. Però non sapeva baciare. Lo faceva a labbra strette, come avrebbe fatto Andreotti. Io glielo avevo detto e lui aveva risposto che forse non aveva le labbra adatte. “Non è vero – gli ho spiegato – basta saperle adoperare”. E alla fine era diventato più bravo di me. Mi desiderava molto, rappresentavo per lui il tipo di donna di cui era appassionato, alta, vita stretta, e seni grandi senza reggiseno, perché allora per farli risaltare si indossava il bustier. Ma non era un campione nel fare l’amore, come tutti coloro che vanno con tante donne. Per fare l’amore bene bisogna sapersi dedicare a una sola donna e non disperdersi fra tante avventure fugaci che non ti permettono di conoscere a fondo e di apprezzare la creatura che hai accanto.” 97 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Questa breve confidenza appartiene ad Anna G. ed è stata raccolta al magnetofono in una delle mie tante visite a casa sua, diversi anni dopo la scomparsa del regista. Anna mi aveva proposto di scrivere insieme un libro sulla sua storia d’amore e avevamo iniziato a raccogliere il materiale, utilizzando anche la copiosa corrispondenza che era intercorsa tra lei e Federico. Per la verità le lettere appartenevano soprattutto a Fellini, e le avevo lette a più riprese, anche ad alta voce, per Anna stessa che ne aveva nostalgia ma cominciava a lamentare seri problemi alla vista. Alla fine avevo acquistato quel carteggio privato, pressoché nella sua totalità, per conto della Fondazione Fellini che in quegli anni dirigevo. Le lettere, assolutamente inedite, sono di struggente bellezza. Federico vi è riconoscibile nel suo aspetto più tenero e sentimentale, fantasioso e romantico, possessivo e canzonatorio, nello stile di tutta la sua produzione letteraria specialmente all’inizio della carriera, quando scriveva racconti umoristici per il “Marc’Aurelio”. In particolare la prima lettera della raccolta è molto commovente. Fellini – come viene indicato nel testo – le scrive a macchina, di getto, dalle Poste Centrali di piazza San Silvestro dove è andato a rifugiarsi. Scherza sul fatto che gli sembra di essere ritornato studente, ai primi tempi del suo soggiorno nella Capitale, quando non disponendo di una macchina da scrivere lasciava la sua camera ammobiliata per recarsi a comporre i pezzi per i giornali in quella stessa sala crepitante di percussioni di tasti e tintinnii di campanelli. Bisogna considerare che Fellini era allora un regista già di fama mondiale, al suo secondo Oscar, essendo l’incontro con Anna avvenuto a ridosso del film Le notti di Cabiria. Dall’epistolario era rimasta esclusa una piccola selezione – da Anna conservata gelosamente in una cassetta di sicurezza dentro l’armadio della camera da letto – di natura a suo giudizio troppo intima. I contenuti esplicitamente erotici la lusingavano, di alcuni 98 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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passaggi mi aveva anche messo al corrente, e tuttavia era determinata a distruggere quelle missive o addirittura a seppellirle con sé nel segreto della tomba. Era impaurita soprattutto dalle reazioni che avrebbe potuto avere sua figlia Patrizia la quale, a suo dire, non le aveva mai perdonato quella relazione clandestina. Da piccola era affezionatissima a Federico che giocava con lei, la riempiva di regali o la portava a spasso in macchina; ma una volta cresciuta aveva sviluppato nei suoi confronti una vera avversione, sfociata in seguito in un contrasto aperto di cui era la madre a fare le spese. Anche dopo la scomparsa di Fellini Anna continuava a vivere questo conflitto con la figlia, mitigato in parte dal grande amore che aveva stabilito con la sua unica nipote Ginevra. Nutriva per lei una autentica passione, era arrivata persino a donarle una finissima parure di corallo rosa che Federico le aveva regalato durante una delle loro fughe romantiche a Venezia. Mi mostrò a conferma una foto scattata dallo stesso Fellini con una macchina polaroid, in cui lei appare riflessa nello specchio dorato della camera dell’Hotel Danieli mentre si allaccia la collana attorno al collo. Dopo tanti anni di assoluto segreto riguardo alla loro relazione, era stata Anna stessa a rompere la consegna del silenzio suscitando un certo scalpore. In un servizio apparso sul settimanale “Chi” poco dopo la morte di Fellini, si lamentava dell’imprevidenza dell’amico che, colpito dalla malattia e confinato negli ospedali, irraggiungibile, l’aveva lasciata senza mezzi di sostentamento. Priva persino dell’assegno mensile che le veniva versato dal segretario amministrativo del regista, Enzo De Castro; il quale a difesa del Maestro sosteneva, carte alla mano, che alla signora oltre la lussuosa casa in cui abitava, un terzo piano di via Lima nel quartiere Parioli, era stato devoluto in varie riprese un ammontare di circa un miliardo di lire; e questo soltanto nell’ultimo periodo durante il quale egli se ne era occupato di persona. Probabilmente 99 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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hanno ragione entrambi, i soldi erano corsi realmente ma nel frattempo erano anche stati spesi a profusione, secondo un’abitudine alla quale Anna non intendeva rinunciare. Finché siamo rimasti in contatto la signora mi parlava un po’ di tutto, ripercorrendo volentieri con me le vicende della sua vita. Molti discorsi tornavano immancabilmente a Federico e a tutto ciò che lo riguardava. Così un pomeriggio di maggio, nelle ore in cui il sole degradava languidamente fuori dalle finestre, mi mise al corrente di una storia inaspettata e sconvolgente. Si trattava di un segreto che, secondo lei, erano ormai non pochi a conoscere, ma di cui in tanti anni di frequenza della famiglia Fellini non avevo mai avuto neppure il più remoto sentore. Mi rivelò che Giulietta era una figlia illegittima. Suo padre, Gaetano Masina, l’aveva concepita con la domestica di casa, che poi era dovuta rientrare precipitosamente nel proprio paese in Veneto. Ad essa l’attrice era rimasta legata per tutta la vita, facendola passare agli occhi di tutti per la sua balia, e andando a trascorrere accanto a lei lunghi periodi durante l’estate. Fino alla morte della donna. Fellini si occupò di Anna finché ebbe la forza di farlo, con una dedizione e una pazienza della quale non l’avrei mai ritenuto capace. La chiamava amorevolmente la “Paciocca”, andava a trovarla ogni volta che poteva, specialmente di domenica o nei giorni di festa in cui aveva più disponibilità di tempo; obbedendo a un senso di dovere mai disgiunto tuttavia da affettuoso trasporto, anche quando ormai la loro passione, suppongo, si era trasformata in una quieta tenerezza. Spesso lo accompagnavo in via Lima, oppure andavo a riprenderlo; lei non mancava mai di salutarlo dalla finestra, attendendo che risalisse in macchina prima di ritrarsi. Anna aveva sei anni circa più di Federico, e quindi specialmente nell’ultimo decennio erano cominciati gli acciacchi; aveva bisogno di molte cure, soffriva di una cattiva funzionalità del ginocchio destro, e aveva dovuto ricorrere all’intervento di un celebre 100 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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chirurgo ortopedico di Parma, il prof. Max Magi. Un virtuoso in camera operatoria e un ammiratore irriducibile del cinema di Fellini. Federico se poteva la accompagnava di persona, altrimenti le metteva a disposizione il suo autista, evitandole qualsiasi disagio, pianificando da lontano ogni spostamento. Era molto dispiaciuto per la sua amica, colpita proprio in ciò che aveva di più attraente; mi confidava di non aver mai visto in vita sua un più bel paio di gambe, altrettanto sensuali che modellate a perfezione. Anna non ha mai abdicato all’atteggiamento delle belle donne abituate agli omaggi, sempre curatissima in ogni dettaglio come un’anziana diva della rivista, Wanda Osiris, Nilla Pizzi. Assomigliava vagamente a Caterina Boratto, di cui era amica; il genere di donna per la quale Federico aveva un debole aperto; basta osservare come aveva utilizzato l’attrice nel film Giulietta degli spiriti, con quei cappelli giganteschi, le velette, i voile, le organze, i colori pastello, il trucco porcellanato da dea irraggiungibile; una maliarda, una creatura dal fascino denso, di indescrivibile avvenenza, di torbida raffinatezza. Tale da sovrastare, da schiacciare, dall’alto della sua prodigiosa appariscenza, la povera piccola Giulietta travolta dai suoi assillanti fantasmi quotidiani. Anna era di origine altoatesina e aveva avuto una vita molto avventurosa, piena di corteggiatori. Poi con l’arrivo di Fellini era stata costretta per amore a scegliere un’esistenza riservata, a scivolare nell’ombra. Anche perché il suo amante sembra ne fosse gelosissimo. Un giorno, arrivando nella casa di via Lima aveva visto un grosso fascio di rose rosse sul tavolo del soggiorno, omaggio di un insistente ammiratore, e dalla collera aveva preso il vaso gettandolo insieme ai fiori fuori dalla finestra senza neppure accertarsi che non passasse nessuno. Accecato dalla gelosia. Ma sarebbe più pertinente dire dalla possessività, un sentimento che Federico applicava a chiunque gli stesse vicino e col quale stabiliva un rapporto d’affetto; anche ai collaboratori stretti, agli amici, agli assistenti, uomini e donne. Raggiungeva sempre tutti al 101 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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telefono spinto da un bisogno costante di saperli avvinti in una rete invisibile con la quale egli potesse in ogni momento attrarli a sé. Con Anna era stato molto prodigo; dopo averla praticamente costretta a lasciare la persona con la quale si frequentava al momento del loro incontro, aveva in seguito cercato di isolarla dentro una prigione dorata da cui non potesse evadere. Nei primi anni, preoccupato che la giovane donna si annoiasse nelle lunghe attese, e forse anche sollecito del suo avvenire, le aveva intestato una farmacia che le assicurasse un’attività remunerativa e ne assecondasse anche la singolare propensione verso il campo sanitario. Per un certo periodo Anna se n’era anche occupata, vi andava ogni giorno e rimaneva per qualche ora alla cassa. Poi il capriccio era presto svanito. Anna non era fatta per lavorare, la sua esistenza si dipanava tra stilisti, antiquari, acquisti d’arredamento, parrucchieri, estetisti, vacanze eleganti in luoghi esclusivi. Volentieri ricordava con un guizzo di vanità la fuoriserie azzurra, una Fiat 1500 Osca Cabriolet, che il regista le aveva regalato solo per poterle sedere accanto e guardarla guidare, ammirarla mentre il vento le sfiorava i capelli. Percorrevano strade preferibilmente fuori mano, si dirigevano verso luoghi in cui fosse più facile mantenere l’anonimato, o quantomeno una prudente riservatezza. Anna usava quella macchina per raggiungere d’estate il paese nel Trentino dove a suo dire un avvocato, proprietario della pensione in cui era solita trascorrere almeno un paio di settimane in agosto, le aveva riferito per filo e per segno la recondita verità su Giulietta. Quel ruolo da seconda moglie senza diritti ufficiali, condannata a consumare una vita clandestina, l’amante prediletta sempre pronta ad assecondare il riposo del guerriero, ma mai a figurargli al fianco, se da un lato aveva appagato l’aspetto un po’ romanzesco di un’esistenza da eroina, dall’altro le aveva fatto sviluppare una sorda rivalità, mai apertamente esibita, nei confronti di Giulietta; la quale per giunta era diventata una delle attrici più famose del mondo, amata e riverita, venerata dal pubblico al pari di una 102 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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santa. E infatti fu a lei che Federico, durante la cerimonia di assegnazione dell’Oscar alla Carriera, aveva dedicato la statuetta d’oro di fronte a una platea mondiale. Anna non portava rancore; alla fine aveva accettato senza lamentarsi una vita fatta di carezze, di doni, di brevi incontri accesi, trattata come un idolo nel tabernacolo, curata e coccolata. Pur tuttavia si avvertiva un’incancellabile malinconia nella sua voce sottile da bambina, leggermente nasale. Era sempre al corrente di tutto, specialmente per quanto atteneva al mondo dello spettacolo; informata e intelligente, acuta nei giudizi. Leggeva moltissimo, divorava i copioni che Federico le sottoponeva in anteprima, e la sua libreria brulicava di volumi che erano stati a lui dedicati e che per una sorta di proprietà transitiva il regista deponeva nelle sue mani bianche, affusolate, curatissime. Non so se alla fine Anna avesse dei rimpianti, forse qualcuno. Però quando mi parlava di Federico il tono era sempre vibrante come nel racconto di quel loro primo incontro.

Marcello Mastroianni porta come data di nascita il 28 settembre, Anita Ekberg il 29. Come direbbe un astrologo sono due Bilance, appartengono al segno d’aria più amabile dello zodiaco. Entrambi buonissimi amici di Fellini. Marcello e Anita, protagonisti de La dolce vita, li ho ritrovati qualche lustro dopo sul set di Intervista (1986), disposti a prendersi piacevolmente in giro sotto il perfido e affettuoso sorriso del gran burattinaio. Si girava a casa di Anita, una villona dei Castelli Romani, alla periferia di Genzano. Nel parco disseminato di ulivi, si aggiravano inquieti e minacciosi due alani arlecchini, dal manto bianco pezzato di macchie nere. Il loro latrato scoraggiava la troupe a uscire dalle macchine, ma la voce di Anita, perentoria, li aveva rapidamente ridotti a cuccioloni inoffensivi. 103 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Mi tornavano in mente i racconti di Federico, sfuggenti ma non al punto di non lasciar trapelare una trascorsa intimità. Descriveva la bionda svedese come una creatura mitologica del Walhalla, dal corpo fastoso e scultoreo, la carnagione tersa e bianca che “emette luce anche al buio, una bellezza fosforescente.” Una semidea inarrivabile, per possederla bisognava disporre dei muscoli di un gladiatore. “Ci vorrebbe una schiena possente, da atleta, come quella di Gassman”, affabulava incantato dalla sua stessa visione, concludendo che però, insieme alla schiena, era richiesto tutto il resto, in proporzione. I suoi disegni descrivono Anitona simile a un’ammaliante orca marina pronta a divorarti. Ma si inteneriva anche per la sua natura infantile, inconsapevole, da gigantessa disarmata, assuefatta fatalmente a essere assediata dal desiderio degli uomini. Quando l’ho intervistata per lo special TV “I protagonisti di Fellini”, la Ekberg mi confidò con occhi di ghiaccio di aver sempre sofferto per questa sua avvenenza esagerata. Era timidissima, insicura, avvertiva addosso gli occhi delle persone, dei maschi specialmente, sentendosi come radiografata, scrutata, frugata. Quando entrava in un locale, per riuscire a vincere il disagio stringeva talmente i pugni da ferire con le unghie il palmo della mano. Temeva incessantemente di avere qualcosa fuori posto, “una imperfezione nel vestito, una smagliatura nella calza”. Dio mio, quanto poco ci conoscono le donne! Ed è la nostra impagabile fortuna. Se avesse saputo Anita quale sgomento provocava col suo incedere, quale religiosa intimidazione! La stessa con cui si esalta Mastroianni entrando vestito di tutto punto nella Fontana di Trevi: “Sì Sylvia, sì, sto sbagliando tutto…” Capitandomi in seguito di curare un libro fotografico su La dolce vita, mi trovai a spulciare decine di migliaia di negativi tra le foto di scena di Pierluigi Praturlon. Di Anita c’erano alcuni scatti quasi insostenibili per la bellezza estrema, sovrumana, che emanavano. Peppino De Filippo ne diventava pazzo in quel film crudele e magnifico, mai abbastanza ricordato, che è Le tenta104 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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zioni del dottor Antonio: “Bevete più latte, il latte fa bene...” Per l’accesa fantasia maschile Anita aleggiava in un empireo a sé, si favoleggiava fosse stata l’amante dell’Avvocato, e che quella coppia da Olimpo facesse l’amore soltanto nell’aereo privato dell’industriale, ad altissima quota, durante la tratta fra Roma e Torino, o viceversa. Chissà se è vero. Lei non ce lo rivelerà mai. Dicono che la Bilancia sia l’unico segno inanimato dello zodiaco, tra gli altri undici rappresentati invariabilmente da simboli vivi, e che la sua natura equilibratrice, stabilizzante, possa facilmente inclinare all’immobilismo. È probabile che prevalga una tendenza al compromesso, eppure credo sia difficile non essere conquistati dall’affabilità umana, dalla gentilezza d’animo di Marcello Mastroianni. Federico ne era invaghito, lo sentiva come l’amico ideale, che c’è sempre e non ti chiede mai nulla. E quando ci si incontra di nuovo è come se il tempo fosse trascorso appositamente per rinnovare il piacere di stare insieme. Ho girato un’intervista a Marcello quando a Parigi stava rappresentando in francese, al teatro Montparnasse, “Tchin Tchin” di François Billetdoux (regia di Peter Brook). Arrangiammo il set sul palcoscenico, e generoso com’era l’attore restò a conversare ‘amabilmente’ un intero pomeriggio, senza mai tradire un segno di stanchezza o di insofferenza. Di tanto in tanto, con discrezione, durante il cambio dello chassis, traeva da sotto la sedia un bicchiere di whisky, che spacciava per tè, inumidendosi la gola con un sorsetto. Ricordava con la gioia negli occhi la lavorazione del La dolce vita, la “zatterona” come la chiamava lui, su cui la carovana seguiva la corrente in preda a un empito di inesauribile felicità, e non si sapeva mai quale fosse la rotta. Oggi qui, domani là, una festa che si rinnovava ogni giorno più misteriosa, emozionante, travolgente. Il film aveva segnato il vero inizio del suo successo personale, planetario, paragonabile soltanto ai grandi miti di Hollywood. “È l’unico attore americano che abbiamo” sosteneva di lui Fellini, “possiede quello stesso magnetismo animale, che riempie l’obiettivo appena ce l’hai davanti.” 105 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Nella sceneggiatura di La dolce vita si legge che “al centro della pista Marcello e Sylvia ballano languidamente” e lui “tenendo le labbra sulla spalla nuda di Sylvia, furtivo e febbrile” mormora: “Perché sei venuta? Torna in America… Cosa faccio adesso io?” Una dichiarazione d’amore struggente e quasi disperata per la bellezza soggiogante della creatura che stringe tra le braccia. Il protagonista è ammaliato, sedotto, rapito da Sylvia, l’attrice sbarcata a Roma per interpretare una pellicola alla moda nella Hollywood sul Tevere. Cinecittà in quegli anni richiamava divi e registi da oltre oceano, ingolositi da un’Italia edonistica, allegra e a basso costo. Fellini aveva visto la fotografia della Ekberg su una rivista e l’aveva convocata per il suo nuovo film avvolto ancora dal mistero, in cui Anita avrebbe dovuto interpretare null’altro che se stessa, la propria emozionante incarnazione di una femminilità abbagliante e quasi divina. La svedese era stata immediatamente ribattezzata dai sovreccitati cronisti, “ghiaccio bollente” per le sue origini nordiche, leggendariamente trasgressive; ma anche per il candore luminoso della pelle che unito alle chiome biondissime accendeva l’aria intorno non meno del cuore degli ammiratori. Fellini la tratteggiava come un essere mitologico: una ninfa, una semidea. E spiava le reazioni di Marcello, suo alter ego nel film nella parte di un giornalista estroso che trascorre le notti in giro per la città, stazionando nei caffè di via Veneto insieme a un gruppo di fotoreporter per raccogliere notizie, scandaletti, pettegolezzi dell’alta società. Avrebbe desiderato che Marcello condividesse il suo entusiasmo nei confronti della svedese, ma l’altro non gli dava soddisfazione; si mostrava tiepido, indifferente, addirittura distaccato. “Da profonda conoscitrice di uomini – aggiunge Fellini – Anita, quando Marcello le fu presentato, gli tese distrattamente la mano guardando già da un’altra parte, e per tutta la sera non gli rivolse mai la parola. Più tardi Marcello, parlando d’altro, mi disse che la Ekberg non era poi questa gran 106 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cosa. Gli ricordava troppo un soldato tedesco della Wehrmacht che una volta, in una retata a viale delle Milizie aveva tentato di farlo salire su un camion. Forse si era sentito offeso, trascurato; quella gloria di divinità elementare, quella salute da squalo, quel riverbero da solleone, invece d’esaltarlo lo avevano infastidito.” Successivamente tuttavia, durante una cena della produzione, un bigliettino aveva preso a circolare tra le mani dei commensali morbosamente divertiti. Era la replica scritta di Anita a una richiesta ben precisa del collega: “No, Marcello, io non fare pompetto.” Insomma la divina creatura si negava, almeno a parole, a certe richieste intime; forse stizzita che la proposta non giungesse nella sede e nei modi opportuni. Erano i tempi eroici di un Olimpo che scendeva capricciosamente tra i mortali. “Quando ci incontrammo – raccontava Marcello sogghignando, e senza l’ombra del risentimento – Federico mi disse che mi aveva scelto perché aveva bisogno di una faccia qualunque. Bel complimento!” All’attore ciociaro, anzi frusinate, di incontestabile fascino latino, Federico aveva fatto aggiungere dal truccatore lunghe ciglia da seduttore e un’ombra scura sotto gli occhi per sottolinearne la vita debosciata, viziosa, e togliergli quell’aria indolente da bravo ragazzo provinciale. Ed è così che abbiamo tutti finito per ricordarlo. Gli scatti del film entrati nel pantheon delle immagini immortali, sono in genere due: Marcello e Anita teneramente abbracciati nel primo ballo al night club; e il vis a vis nella Fontana di Trevi, dove sono colti sul punto di baciarsi, le loro labbra si sfiorano, vicinissime, pronte a dischiudersi e incollarsi. Ma ad un tratto l’acqua cessa di sgorgare tra i marmi provocando con l’improvvisa assenza di rumore una inopportuna distrazione, una sospensione innaturale: è quasi l’alba, l’acquedotto viene chiuso per qualche ora, la romantica vasca si svuota, torna all’asciutto. Prima di quel momento che spezza l’incantesimo del bacio e 107 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dell’amore sul punto di rivelarsi, Marcello è già infatuato, irrimediabilmente, della travolgente scandinava; la segue per i vicoli di Roma fin quando Sylvia entra nella fontana con l’abito da sera bianco e nero che le si spalanca davanti scoprendole le gambe nude fino all’inguine. Gioca con l’acqua della cascata e chiama a sé Marcello, il quale senza più resistere si inoltra nella vasca vestito di tutto punto: “Ma sì, vengo anch’io, vengo anch’io! Ha ragione lei sto sbagliando tutto, stiamo sbagliando tutto.” Si avvicina alla diva e balbetta come rispondendo a una chiamata irrevocabile: “Sì, Sylvia. Sì.” Estasiato si accosta, vorrebbe toccarla, accarezzarla, ma la ragazza è così intensamente radiosa, eccitante, che le dita spalancate indugiano a sfiorare l’aria intorno al viso quasi temendo di sciupare una visione irreale. Lei, con la mano a conchiglia, raccoglie un po’ d’acqua e la fa gocciolare sui capelli dello spasimante, come in un battesimo. “Se mi si chiede della Dolce Vita, – scrisse in seguito Fellini – come nel test delle associazioni rispondo subito: Anita Ekberg! A distanza di trent’anni il film, il suo titolo, la sua immagine, anche per me, sono inseparabili da Anita. Era di una bellezza sovrumana. La prima volta che l’avevo vista in una fotografia a piena pagina su una rivista americana: “Dio mio”, pensai, “non fatemela incontrare mai!”. Quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità che si prova davanti alle creature eccezionali come la giraffa, l’elefante, il baobab lo riprovai anni dopo quando nel giardino dell’Hotel de la Ville la vidi avanzare verso di me preceduta, seguita, affiancata da tre o quattro ometti, il marito, gli agenti, che sparivano come ombre attorno all’alone di una sorgente luminosa. Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente. Voleva sapere del copione, se il personaggio era positivo, chi erano le altre attrici, e intanto beveva un bicchierone di quei cocktail pieni di colori, bandierine, pesciolini e parlava con una vocina da bambina raffreddata che la rendeva ancora più sconvolgente. Mi sembrava di scoprire le idee platoniche delle 108 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cose, degli elementi, e in un totale rincoglionimento mormoravo fra me e me: “Ah, ecco, questi sono i lobi delle orecchie, queste sono le gengive, questa è la pelle umana”.

Per La dolce vita Tazio Secchiaroli è stato l’ispiratore di Paparazzo, il fotografo simpatico, cinico e onnipresente, pronto a qualsiasi azzardo pur di realizzare il suo servizio. Tullio Pinelli diceva che quel bizzarro cognome era saltato fuori sfogliando a caso l’elenco telefonico di Roma. Fellini sosteneva che Paparazzo era un suo compagno di liceo che non stava mai zitto, ronzante e un po’ fastidioso, una specie di zanzara, da cui aveva tratto la suggestione del nome. Negli anni si sono rincorse le ipotesi più svariate e poiché – come sosteneva Borges in una delle sue geniali intuizioni – “ogni grande autore crea i propri precursori”, anche questo nome ha prodotto araldiche fantasiose e persino spericolate attribuzioni filologiche. La più originale – e affascinante – proviene da un professore di antropologia, Mauro Minervino, brillante traduttore di George Robert Gissing (1857-1903). Lo scrittore inglese nei suoi appunti di viaggio in Italia scrisse che a Catanzaro si era imbattuto nel proprietario di una locanda chiamato appunto Coriolano Paparazzo. Leopoldo Trieste, attore calabrese, entrato in possesso del libro tramite Leonida Repaci, lo aveva passato entusiasta a Ennio Flaiano sceneggiatore di Fellini. E così il cerchio, verosimilmente, si chiude. Di fatto, in seguito al travolgente successo del film ci fu una corsa campanilistica a rivendicare la paternità di quell’insolito cognome, che era entrato presto nel lessico comune e quindi nei dizionari della lingua italiana come sinonimo appunto di fotoreporter. E lo stesso fenomeno si registrò nei paesi anglofoni. Nella tragica vicenda di Diana d’Inghilterra i fotografi all’inseguimento vengono definiti Paparazzi sulle prime pagine dei giornali, e a 109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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New York sotto tale nome è stata allestita un’importante mostra fotografica. In ogni caso è stato Tazio Secchiaroli a fornire il modello per il personaggio del film. Molti ricorderanno infatti la celeberrima fotografia, scattata da un collega, in cui Secchiaroli cerca di sfuggire, in via Veneto, all’assalto di Walter Chiari sorpreso in compagnia di Ava Gardner, della quale in quella stagione era il fortunato e clandestino amante. Il personaggio de La dolce vita, impersonato da Walter Santesso è ricalcato fedelmente sulla figura felina, da predatore, di Tazio come appare in quell’immagine; e la circostanza nel suo complesso è alla base della sequenza in cui la bionda Sylvia (Anita Ekberg), dopo una notte randagia trascorsa a vagabondare per Roma insieme al cronista di ‘rosa’ Marcello Rubini (Mastroianni), ritorna all’alba nel suo albergo di via Veneto. Il marito Robert (Lex Barker) che la sta aspettando addormentato nell’auto scoperta, viene ridestato ad arte dai fotoreporter (Giulio Paradisi, Enzo Cerusico ed Enzo Doria) e nella rissa che ne segue sarà Marcello a fare le spese della furia gelosa del consorte. Che tuttavia non risparmia la bella moglie, ricondotta con un sonoro ceffone alla virtù coniugale. Fellini e Tazio erano dunque diventati amici. E non c’è film del regista riminese di cui Secchiaroli non abbia calcato il set, inventando reportage memorabili. Nel film successivo, 8 ½, considerato il capolavoro del Maestro, Secchiaroli fu chiamato a prestare la sua opera, ma non come fotografo di scena, cioè in una funzione che ne avrebbe limitato inevitabilmente la libertà di movimento. Come è noto a chi ha esperienza di set, il fotografo di scena è un ruolo tecnico ben preciso che consiste nel documentare le riprese del film – in ogni sequenza e possibilmente in ogni inquadratura – piazzandosi ‘in asse’ alla macchina da presa, in modo da riprodurne attendibilmente il punto di vista: l’angolazione, l’ottica, le condizioni di 110 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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luce, la posizione degli attori. Compito che Tazio avrebbe saputo eseguire egregiamente, da buon professionista, ma rinunciando a una vena della sua più autentica vocazione. Il suo occhio curioso e rapace puntava ad altro, la velocità del suo sguardo, la malizia del suo carattere, l’istintiva abilità di trovarsi sempre al posto giusto nel momento giusto, gli permettevano di effettuare quegli ‘speciali’, cioè quei servizi paralleli alle riprese, per i quali divenne poi famoso. All’interno della lavorazione del film riusciva a sfruttare soprattutto i cosiddetti tempi morti, cioè quegli spazi vuoti e apparentemente inerti intessuti di lunghe attese, istanti di riflessione, abbandoni, stanchezza, noia. E in essi sapeva infallibilmente catturare e restituire dei sottotesti di folgorante verità. Di un regista demiurgo come Fellini – completamente assorbito dalle creature in carne e ossa del suo immaginario – rivelava con mano leggera e sorniona gli aspetti più inediti e sorprendenti. Credo che nessun altro, al pari di Secchiaroli, sia stato capace di descrivere la personalità degli artisti con altrettanta avidità e precisione, di avventurarsi, munito della sua Leika, nelle pieghe segrete dei rapporti che inevitabilmente si creano sul set, e rendere fotogenica persino l’anima delle sue prede, nella trasparente e inafferrabile profondità. Era il mese di maggio quando Fellini conquistava la Palma d’Oro sulla Croisette con La dolce vita. Esattamente un anno prima entrava nella decima settimana di riprese (iniziate il 16 marzo 1959) e nell’ebbrezza della creazione il regista aveva confidato all’amico Renzo Renzi: “È come raccontare una scopata nell’atto stesso di compierla”. Il film era principalmente una sfavillante, incantata, appassionata dichiarazione d’amore alla vita. Come del resto lo stesso autore ebbe a confidare: “Il titolo del mio film non voleva essere né sarcastico, né ideologicamente polemico; per me significava che la vita è dolce nonostante tutto.” Chiunque abbia conosciuto 111 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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un po’ Fellini sa che l’affermazione è sincera. Era un artista di fantasia indomabile, illimitatamente curioso, aperto a ogni manifestazione dell’esistenza senza mai nessun moralismo. Anzi grato e pronto ad accogliere tutto ciò che la vita gli regalava, con sorprendente, fanciullesco candore, e con una sorridente, maliosa profondità di analisi. Un atteggiamento goloso ma innocente, da Cantico delle Creature, che lo accompagnò fino agli ultimi giorni di vita. Forse non è facile associare questo spirito religioso alla forza prorompente e spregiudicata della sua creatività, e alla sua stessa persona. Federico era una specie di monarca capriccioso e viziato che guidava set faraonici; appariva quasi ogni giorno nelle cronache dei giornali, usciva quasi sempre vittorioso dai contrasti con i produttori, ed era l’indiscutibile “genius loci” di Cinecittà in cui aveva praticamente eletto domicilio. Amico dei potenti della terra, venerato dai colleghi di tutto il mondo che venivano a inginocchiarsi al Teatro 5 come ci si reca dal Papa, consacrato negli Stati Uniti con cinque Premi Oscar e cooptato da Hollywood alla stregua di un figlio adottivo; noto in tutto il pianeta come l’artista italiano che rinverdiva i fasti del Rinascimento; inventore di un linguaggio cinematografico inesistente prima di lui e di uno stile riconoscibile anche da una sola inquadratura. L’artista era dotato di un talento straripante associato a una predisposizione innata alla comunicazione, che gli permetteva di attirare verso il film in corso d’opera falangi di giornalisti, intellettuali, scrittori, politici e di eccitare la morbosità dei media insieme all’attesa spasmodica del pubblico. Ma una volta accompagnata la sua creatura alla gloria, se ne distaccava assai presto, volgendole le spalle persino con un po’ di tedio; lanciato verso un nuovo progetto, un nuovo viaggio dentro il suo fertile universo di celluloide in cui poteva chiamare a raccolta i personaggi che ne affollavano l’instancabile immaginazione. Sono migliaia gli articoli dedicati a La dolce vita; rileggere 112 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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i giornali dell’epoca regala emozioni insospettabili. Rappresentano il controcanto quotidiano del film, lo strascico patinato, un mare cartaceo in cui tuffarsi per riassaporare al vivo non soltanto un’impresa cinematografica senza uguali, ma anche un’Italia di cui ormai rintracciamo a stento i lineamenti. Lo scenario spettacolare di quegli anni dei quali La dolce vita fu allo stesso tempo l’epitome e l’inevitabile liquidazione. Di tutta la carta stampata un quinto appena ripercorre la lavorazione del film, dal primo annuncio al termine delle riprese; il resto è occupato dallo scatenarsi delle polemiche seguite all’uscita in sala, l’infuriare delle contese, e il successo incontenibile di pubblico a contrasto con le proibizioni, le condanne, gli anatemi del Vaticano. La spaccatura in due del mondo cattolico, gli insulti sanguinosi della stampa di destra e l’immediato, strategico recupero dei partiti di sinistra, con l’Unità che a più riprese propone un referendum di assoluzione o di biasimo tra i lettori comuni e gli intellettuali di grido. Infine l’approdo dell’opera al Festival di Cannes, dove viene salutata come un capolavoro universale, e Georges Simenon presidente della giuria si batte a viso aperto per l’assegnazione del massimo riconoscimento, sbaragliando vili prudenze e faziosi battibecchi (quell’anno venivano presentati in concorso L’avventura di Michelangelo Antonioni e La fontana della Vergine di Ingmar Bergman). Luis Buñuel, il più estroso e anarchico dei cineasti, propone addirittura di fondare un “Dolce Vita club” affermando: “Federico è un genio”. Ma la cavalcata vertiginosa prende inizio sedici mesi prima (autunno ’58) con le complicate traversie produttive. L’annuncio delle riprese già provoca scalpori, liti, malumori. Il produttore Dino De Laurentiis (che con Fellini aveva conquistato due Premi Oscar per La strada e Le notti di Cabiria), di fronte a un preventivo di seicento milioni, giudicati di impossibile recupero, dichiara con sconsiderata disinvoltura: “Fosse pure il più grande regista del mondo, in questo momento, secondo me, gli mancano 113 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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quella modestia, quella serenità e quella semplicità senza la quali è impossibile fare qualcosa di valido.” (“Il Giorno”, 27/10/’58). E il 30 ottobre ribadisce su “Lo Spettatore”: “Il film non ha scopo preciso, non consente speranza, è insomma solamente e tristemente squallido.” Avviene la clamorosa rottura; Silvana Mangano, moglie del tycoon napoletano, decade di fatto dal ruolo di protagonista. A gennaio dell’anno successivo subentrano alla gestione finanziaria Peppino Amato e Angelo Rizzoli; corre il nome di Sofia Loren. Poi Federico tira fuori dal cilindro la svedese Anita Ekberg, “ghiaccio bollente” e ci sono trenta pagine febbricitanti dedicate interamente a lei: fotografie in ogni posa, prove dei costumi, la preparazione al personaggio, le lezioni di danza. Anita è di una bellezza eccessiva, disarmante; le sue bionde chiome spopolano sui rotocalchi insieme ai generosi decolleté. Le notizie si rincorrono frenetiche, il regista ha già scritturato Marcello Mastroianni, ha incontrato Aichè Nanà (all’anagrafe Nanà Keish, ballerina turca) che aveva offerto uno scandaloso spogliarello integrale ai clienti del Rugantino; e tra quattromila provini di minorenni è prevalso il volto angelico di Valeria Ciangottini (“Stampa sera”, 17 marzo 1959). La stampa quotidiana e periodica è straripante di notizie e di fotografie. Ecco che arrivano a Roma Anouk Aimée dalla Francia e Yvonne Furneaux dall’America. Hanno inizio le riprese con Anita che sale la scala a chiocciola della cupola di San Pietro inguainata dentro uno scandaloso abito talare. Nelle settimane successive, si passa dalla sequenza della festa alle Terme di Caracalla, e agli interni del Teatro 5 dove lo scenografo Piero Gherardi ha ricostruito via Veneto. Le immagini ribalzano, si accavallano; Fellini è ripreso accanto a Dorian Gray (la bionda amante di Nazzari in “Cabiria”), sostituita poi da Nadia Gray. Sotto il titolo “Una via Veneto che non esiste” (“Tempo”, 4 agosto 1959) Paolo Monelli pubblica un pezzo ispirato: “Federico Fellini, ricostruendo la celebre strada nel suo film, forse crea una Roma immaginaria.” Ad agosto arriva anche Magali Noël, dalle 114 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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splendide gambe; interpreterà la ballerina del night club accanto a Polidor e ad Annibale Ninchi che impersona il padre di Marcello; il quale (come testimonia il simpatico figlio Arnaldo) s’era veramente invaghito della seducente francesina. Iniziano a trapelare le prime indiscrezioni sulla pellicola: “Due ore di apocalisse” titola Vittorio Bonicelli su “Tempo” (1 settembre ’59). Le riprese del film sono finite, ma Anita Ekberg non cessa di imperversare su ogni giornale, mentre Federico si fa fotografare abbracciato a Giulietta (“Settimana Radio TV”, 4 ottobre) per dimostrare che tra lui e la moglie non c’è nessuna crisi. Rizzoli parla di Fellini chiamandolo “il caro artista”; e il film raggiunge il più alto incasso al botteghino mai registrato in Italia. Da Giuseppe Marotta a Giulio Cesare Castello, i critici innalzano un unico inno all’opera epocale, la più eccelsa di tutti i tempi. Rivedere il film attraverso la carta stampata è più istruttivo che leggere un libro di storia.

I film di Pasolini respingevano, sconvolgevano, facevano discutere, creavano fronti opposti. L’autore li definiva “cinema di poesia”, con esemplare lucidità, ben sapendo quanto fossero poco assimilabili alla prosa cinematografica. Occupavano una categoria a parte in cui l’artista ‘decadente’, assai più innamorato delle facce di Franco Citti e di Ninetto Davoli, o di Maria Callas, o di sua madre Susanna (che impersonò il viso della Madonna ne Il Vangelo secondo Matteo), aveva trovato lo stile per contrastare la lingua dei mass media, ogni giorno più povera e svuotata di espressività, appiattita da un boom economico già avviato alla tabe, per lui funesta, del consumismo. Il poeta di Casarsa era preoccupato dell’omologazione in atto, trasversale alla nostra società, da contrastare con ogni mezzo, compreso quello cinematografico, che per lui rappresentava lo strumento e non il fine. Tuttavia amava i grandi registi, a cominciare da Fellini, quei prodigi di 115 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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talento che sanno confondere il proprio respiro con il ronzio della macchina da presa. Chaplin, Kubrick, David Lean, Kurosawa, Billy Wilder, artisti come egli, presumibilmente, sapeva di non essere. “Ha troppa consapevolezza riguardo a quello che fa; – rifletteva diffidente Fellini – un’ammirevole capacità di girare un film analizzandone allo stesso tempo i contenuti, le ragioni, il linguaggio, i risultati.” Volendo significare che un vero artista non possiede mai una nozione troppo precisa del proprio impulso creativo. Paolo Veronese, nel Cinquecento, interrogato dall’Inquisitore sul presunto contenuto ‘eretico’ dei suoi quadri, si era difeso replicando laconicamente: “Io dipingo e fazzo delle figure”. Esisteva una diversità di fondo nell’atteggiamento dei due cineasti. E qui entra anche in gioco una vecchia e rugginosa incomprensione. Nei primi anni Sessanta, sull’onda del successo planetario de La dolce vita e 8 ½, Angelo Rizzoli e Fellini fondarono la Federiz, una casa cinematografica pronta a lanciare nuovi autori. Pasolini che aveva collaborato in qualità di ‘consulente linguistico’ a Le notti di Cabiria, propose il suo Accattone. L’organizzatore Clemente Fracassi mise insieme una troupe per realizzare alcune sequenze di prova, ma il materiale girato fu giudicato poco convincente da Fellini il quale sembra lo avesse liquidato infastidito come “la peggiore ripresa di un operatore di telegiornale.” Il film non andò avanti, e Pasolini ne fece una malattia, fino a quando non subentrò Alfredo Bini a permettergli di esordire. E il resto è storia. Ma l’amicizia fra i due fatalmente si incrinò. Tuttavia Fellini parlava con molta dolcezza di Pasolini, con sincero rispetto per le sue doti intellettuali. E non mi sorpresi quando il Corriere della Sera ripropose a qualche anno di distanza una conversazione inedita in cui Pasolini difendeva il film Roma (1970) freddamente accolto dalla critica: “C’è lo stesso talento che c’è in certi maestri della pittura italiana. E c’è la realtà…” Però sottolineava subito dopo: “Ed è strano perché Fellini ideologicamente e 116 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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concettualmente ha una idea convenzionale della realtà. Ma per una forza che gli è estranea, superiore a lui, riesce a fare di questa convenzione una nuova realtà, e la dilata semanticamente fino al barocco, all’esagerazione.” Dietro l’apparente critica negativa aveva compreso benissimo, con la sua consueta finezza, come tutto l’enigma dell’arte poggi su quella “forza misteriosa” – la O di Giotto – che stabilisce la differenza; al di là di ogni buon proposito e ardita costruzione mentale. La straordinarietà del poeta friulano si eprimeva nella parola, negli ‘scritti corsari’ che pubblicava in prima pagina, di spalla, sul Corriere della Sera diretto da Piero Ottone. La sua voce fuori dal coro riconduceva a un esercizio del pensiero nutriente e spericolato, a una iperventilazione del cervello. Rovesciando i punti di vista spiazzava i conformisti, soprattutto di sinistra; come quando prese le difese dei poliziotti, figli del popolo, contro i contestatori sessantottini rampolli della borghesia. Una categoria dalla quale Pasolini prendeva le distanze, per indole ed educazione. Era un profeta mite, un testimone scomodo e mai allineato, un provocatore sottile con la capacità di smontare le regole di una società pericolosamente inclinata a cancellare gli individui. Da linguista ben attrezzato sapeva destrutturare i linguaggi, compreso quello del cinema, creando un’estetica in cui potessero rientrare le proprie opere eterodosse. Ma resisteva in me l’impressione che gli mancasse l’ángel, come lo chiamano i portoghesi, quella grazia indefinibile che trasforma in arte il prodotto del pensiero. P.P.P. costruiva teoremi poetici – un suo film si intitola per l’appunto Teorema – e man mano che la visione estetica si affrancava dall’ideologia, prendeva forza piuttosto il poeta medioevale innamorato dei tableaux vivants, delle allegorie devozionali, delle sacre rappresentazioni. L’ultima opera, Salò o le 120 giornate di Sodoma ha tradotto all’estremo questa impostazione liturgica; ed era infatti l’annuncio di un martirio che, guarda caso, si sarebbe consumato di lì a poco. Il film uscì in anteprima, a delitto appena avvenuto, al cinema Etoile a Roma; una 117 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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folla sgomenta, commossa, straripante, premeva fuori delle porte non riuscendo ad entrare in sala, e dilagava nella piazza San Lorenzo in Lucina in attesa spasmodica di un ultimo messaggio.

Negli anni Sessanta Oriana Fallaci raccolse le sue interviste in un libricino intitolato Gli antipatici. Ne faceva parte anche la leggendaria e controversa chiacchierata con Federico Fellini durante la quale il regista, secondo una giornalista americana di “Vanity Fair” (Margaret Talbot) si era rivolto a Oriana offendendola con l’epiteto di “puttanella insolente”. L’incontro era avvenuto nel 1963, a Roma, dopo il travolgente successo planetario di 8 ½; una conversazione molto divertente in cui Federico, all’apice della gloria, accettava di civettare sui contenuti della propria ispirazione, giocando come si dice al gatto col topo. Malgrado si trovasse di fronte un’agguerrita duellante, determinata a sottrarsi a un fascino che pure palesemente subiva; e sottilmente intenzionata, se non a demolire, quanto meno a spiare le possibili incrinature del mito vivente che aveva di fronte. Oriana aveva nove anni meno di Federico e quindi nel ’63 era nel fiore dei trent’anni, già nota per le sue intemperanze e decisa a sfondare menando fendenti. Ma tra i due, ciò che a un occhio inesperto può apparire uno scontro, si accende una schermaglia in cui le lame si baciano; passa un’evidente corrente di velata attrazione, e la contesa – se mai esiste – assume le forme di un rissoso corteggiamento. Completo di astuti raggiri, di ritrosie, di improvvisi affondi, di studiati arretramenti, di salaci scontrosità e infine di toni anche scopertamente ‘scabrosi’, come talvolta si addice alla provocazione erotica utilizzata per parare le mosse o saggiare la resa. L’intervista con Fellini è intitolata Il peccatore insoddisfatto e sfodera un attacco impetuoso: 118 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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«Ancora un poco e la storia della sua vita, il significato della sua arte diventeranno materia di insegnamento in tutte le scuole della Repubblica (…), nemmeno su Giuseppe Verdi si è scritto tanto. (…) Io credo che solo per La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suo 8 ½: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l’abito nuovo, i critici che intrecciano corone d’alloro.» Fellini fa finta di schermirsi e intanto mette a frutto l’irruenza dell’interlocutrice per dare spazio con la consueta e sfrontata sincerità ai temi che gli sono più cari: lo scarso interesse per i film degli altri e per il cinema in generale; l’inclinazione personale alla malinconia, l’errore di voler interpretare i suoi film in chiave aneddotica o biografica; la funzione liberatoria della sincerità in arte: “Vorrei che con 8 ½ questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualcosa di gioioso.” L’una stuzzica, l’altro la blandisce con tenero tedio: “Uffa, che noiosina…” e le regala le sue perle scintillanti: “Non bisogna accanirsi a capire, ma cercare di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi…” Cita Sant’Agostino, ma per subito minimizzare, nascondersi dietro la propria conclamata ignoranza: “Ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina, qualcosa che non capisco neanche…” Ribadisce il suo scarso entusiasmo per i viaggi: “Tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante.” E si perde nella meravigliosa nuvola d’incenso di un cattolicesimo nutriente: “Ce l’abbiamo nel sangue, da secoli. (…) Il tentativo di liberarcene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l’ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l’oggetto della rivolta, perché dovremmo ribel119 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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larci? Guido è la vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l’episodio del bambino e della Saraghina?” Superfluo aggiungere che il Papa era Angelo Roncalli, Giovanni XXIII, e che Federico non si sogna neppure di sottrarsi alla immediata, prevedibile aggressione di Oriana: «Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?» “Certamente, ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiede aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine. (…) Io volevo dire soltanto che non capisco come una persona possa non pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto… il mistero che ci circonda e diventa chiarore…” Lei gli chiede se è felice. “Sto volentieri al mondo, volentieri con gli altri.” Risponde. “Mi interessa quel che succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro.” «Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore.» Esplode la Fallaci. E lui: “Disgraziata. Screanzata. Ballista.” Ma l’altra vuole l’ultima battuta: «Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.» 120 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La riga successiva porta tra parentesi una sola parola, ‘censura’. Può darsi che in quel non detto, in quel non riportato, sia caduta la famosa espressione “puttanella insolente” che la Fallaci avrebbe subito come un’ingiuria. Ma rileggendo l’intera serenata è molto inverosimile che quella frase sia stata pronunciata con il timbro di un insulto, di un’offesa; al contrario sembrerebbe introdurre il sospetto di una colorita, sfumata, intenzione ad aprire le danze. Eloquenti appaiono le fotografie del servizio: Federico sembra una tortora chiocciante.

“In genere non sono molto attratto dai grandi attori di teatro. Tranne Rossella Falk, un’attrice che ha la statura, la gestualità e la voce di un’eroina tragica, ma che comunica una tale gioia di stare sulla scena che ti fa venire voglia di saltare sul palco e farle compagnia.” Parola di Federico. Rossella Falk appartiene al cast di 8 ½, dunque ha preso parte alla più travolgente ed emozionante avventura cinematografica degli anni Sessanta e forse di tutti i tempi, il capolavoro che ha cambiato la sostanza stessa della Settima Arte. Rossella ‘ultima diva’, ha forse incarnato la stagione più magica e prestigiosa del nostro teatro, e tutti i passi della sua sfolgorante carriera sono raccontati con fastoso e fine divertimento nel suo libro di memorie: dai primi incontri con Luchino Visconti, il Conte di Modrone, il torturatore di genio, fino all’epopea della Compagnia dei Giovani, condivisa insieme a Romolo Valli e Giorgio De Lullo, in spettacoli indimenticabili di cui ancora si favoleggia come di eventi irripetibili, a cominciare dalle messe in scena di Luigi Pirandello. In tale percorso scintillante a Fellini è dedicato un intero capitolo, oltre a tante altre annotazioni sparse qua e là per le pagine, ed è giocoforza restare irretiti dal sortilegio di quel set leggen121 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dario. Rossella Falk, impersonava il Grillo Parlante. E se c’è un Grillo Parlante allora deve esserci anche un Pinocchio, anzi in questo caso due Pinocchi dal naso lunghissimo, Federico e Marcello Mastroianni, i più sinceri bugiardi dell’universo maschile. Federico vuole realizzare un film su un regista in crisi creativa (“non ho niente da dire ma voglio dirlo lo stesso”), il quale per sfuggire alle pressioni del produttore si rifugia in una stazione termale, Chianciano, a curarsi il fegato sanissimo e a prendere tempo. Nel luogo di cura alla moda si fa raggiungere dall’amante burrosa, la signora Carla (Sandrocchia, Sandra Milo), ma anche dalla moglie Luisa (Anouk Aimée, occhialuta, magra, affascinante, l’eterna sigaretta fra le labbra, il sorriso tenero e sprezzante) e alla fine, in carne e ossa o in straripante fantasia, da tutte ma proprio tutte le donne che ama, che vagheggia, che immagina, che desidera, che ricorda. Insomma, un harem. Riassumere 8 ½, sarebbe superfluo. Il fatto è che per dipanare e mettere in scena questo bel pasticcio, Fellini decide di appropriarsi dell’esistenza, analoga alla sua e parallela, del suo attore preferito e più complice, Marcello Mastroianni. Il quale, sposato da sempre con Flora Clarabella, non fa che ‘evadere’ dalla prigione matrimoniale nella quale si tiene tenacemente recluso con le proprie mani. Rossella Falk che è molto amica della coppia Flora-Marcello (condivide con loro il tempo libero e le vacanze) viene reclutata da Fellini come ‘suggeritrice’, come consigliera. Insomma il regista è talmente curioso che vuol conoscere da lei ogni particolare sul menage matrimoniale dell’attore e di sua moglie, gli scontri, gli equilibrismi, gli assetti, le tregue, le ferite, le rese. Rossella ha il compito di riferire per filo e per segno al pari di un agente speciale nelle file ‘amiche’. Ma il ruolo che l’attrice svolge è talmente calzante che alla fine – come quasi sempre accadeva con Federico – il personaggio trasloca direttamente nel film, diventa uno dei caratteri della trama, addirittura conservando il proprio nome. Rossella si trova a interpretare la parte del grillo parlante, appunto, con la funzione di interporsi 122 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tra il protagonista e la moglie della storia immaginata (cioè tra Marcello e Anouk Aimée), ammonendo l’uno e consolando l’altra, ma con uno spirito, una malizia, una spregiudicatezza, una naturalezza, da diventare lei medesima oggetto di desiderio nella confusione erotica del regista (quello rappresentato nel film o quello reale?). Profilo di femminile seduzione, ancella e musa; tanto da finire anch’essa direttamente nell’harem. È il trionfo. La diva di teatro diventa anche una star cinematografica. E come succedeva a quei tempi – ma forse anche adesso – arriva la lusinga a Stelle e Strisce. Robert Aldrich la chiama per interpretare un film in America (Quando muore una stella, 1968). In California, il regno dei sogni in celluloide, Rossella approda, sola, un po’ spaesata, ma con intorno una sontuosa villa sul Sunset Boulevard e in tasca uno di quei contratti catenaccio in cui non le è consentito muovere un solo passo senza il permesso della Major Company che la tiene al morso. La salva May Britt (conosciuta in Italia durante la breve liaison dell’attrice svedese con Carlo Ponti) la quale prendendo le sembianze della buona fatina la trascina nel castello incantato. Un elicottero discende addirittura a prelevarla e lei si ritrova a Palm Springs, ‘fra le palme, l’oceano e le dune’, nel bel mezzo di una superfesta americana organizzata nella villa faraonica di Frank Sinatra, sposato con Mia Farrow. The Voice la accoglie facendo intonare da chitarristi messicani e discinte vocaliste creole Arrivederci Roma e Besame mucho. “Caro vecchio Frankie!” Da Dino Crocetti detto Dean Martin, a Sammy Davis jr, non manca nessuno, tutti intorno a lei. Vogliono sapere di Fellini, vogliono che lei ne imiti la ‘vocetta’, che addirittura si travesta, ne assuma le insegne e i panni, cappello nero, camicia bianca, pantaloni flosci, megafono alla bocca. Altro continente, altro giro di pista, altro carosello, tutti in fila dietro una marcetta di Nino Rota. Ma non basta, negli studi della MGM, Rossella ode una voce calda e conosciuta appellarla con soave pronuncia britannica, si 123 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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volta e chi trova? Terence Stamp, conosciuto durante la lavorazione di Modesty Blaise (Joseph Losey, 1966) con il quale c’era stata, sì insomma, una simpatia, diciamo un rapido affaruccio. L’attore inglese nel frattempo è ‘molto cambiato’ in seguito alla bruciante interpretazione di Toby Dammit con Federico Fellini. Questo romagnolo, è sempre in mezzo! Pensate che una volta Rossella riferisce a Visconti l’episodio grottesco e stravagante di una coreografa ‘cieca come una talpa’, la quale scambiando un gruppo di seminaristi tedeschi in tonaca vermiglia per le proprie ballerine di fila, li aveva messi autoritariamente in riga imponendo a tutti di ‘alzare le gonne’, fra strilli e segni di croce. Il conte ride a più non posso ma poi con un’occhiata inquisitoria gela l’interlocutrice: “È troppo bello l’aneddoto. Tanto che lo sfrutterò, prima o poi. Ma ti proibisco di parlarne fuori di questa casa. Sennò me lo ruba il romagnolo per farci su il seguito de I vitelloni!”

“L’Europa dell’Est mi sembra Gambettola, il paese vicino a Rimini dove stava mia nonna. Il modo di baciarsi dei russi e di trattenersi le mani prima di salutarsi definitivamente mi è sempre parso segnato da quella religiosità campagnola che respiravo in casa della nonna durante la settimana santa insieme al profumo di certi dolcetti. In Russia, quando ci sono stato, ho provato soprattutto questo tipo di familiarità, quel senso cristiano dell’esistenza che ti fa pensare più a Tolstoj che a Majakovskij, ti ridà la memoria di una vita racchiusa fra cielo e terra, scandita da lunghe, avvolgenti stagioni, intiepidita da sapori e profumi d’altri tempi, di quand’eri piccolo e avevi i sensi ancora tutti dilatati sulle cose che ti circondavano, le persone, le piante, gli alberi, gli odori di casa...” Questo è l’inizio di un testo di Fellini che prende occasione 124 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dal Primo Premio assegnato a Intervista al Festival di Mosca nel 1987. Associato a un’altra testimonianza di oltre vent’anni prima quando, sempre a Mosca, era stato premiato 8 ½ a rischio di un grave incidente diplomatico, risulta un dittico prezioso. Esiste del resto un intreccio alquanto singolare tra l’opera di Fellini e la Russia, costellato di improvvisi riaffioramenti. La scrittrice russa Viktoria Tokareva ha raccontato, per filo e per segno, una cena in compagnia di Fellini in un ristorante romano. Pur non avendovi partecipato ricordavo bene quella cena, perché Federico me ne fornì un dettagliato e colorito resoconto. La scrittrice era stata inviata quale ambasciatrice di un progetto cinematografico molto ambizioso: si trattava di mettere insieme alcuni tra i più celebri registi occidentali con la prospettiva di realizzare una serie di film sulla Russia. Non importava quale fosse il soggetto – una regione, un paesaggio, un’opera letteraria, un edificio, una strada – l’artista avrebbe goduto della massima libertà, realizzando la propria fantasia più personale. E Fellini avrebbe dovuto aprire la schiera, diventare il capofila di quel sublime concerto a più voci. Federico aveva impiegato tutto il tempo – e presumibilmente le sue arti ammaliatrici – per cercare di scoraggiare l’affabile signora; le spiegava che un film sulla Grande Madre Russia avrebbe potuto sì girarlo, ma solo restando a Roma, nel Teatro 5 di Cinecittà, e parlando della Russia non come se l’aspettavano i russi, ma nell’unico modo in cui sapeva vederla lui. Cioè inventandola. Una Russia che era più simile a Gambettola, ai romagnoli delle sue parti, quando la notte tornavano a piedi, avvinazzati, cantando a squarciagola le romanze ascoltate al teatro Bonci di Cesena. E forse, tra le varie sequenze, avrebbe anche rievocato la notte in cui Gerasimov, regista di regime, aveva tentato di persuaderlo, in piedi sotto la neve che fioccava a larghe falde, a ritirare 8 ½ dal concorso se non voleva che rimanessero tutti travolti dallo scandalo. 125 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il film di Fellini è possibile figuraselo già spulciando nei suoi scritti. Gli bastavano quattro appunti a penna biro per evocare il sapore inimitabile di una sequenza: “Evtušenko, che ho incontrato la prima volta in occasione della premiazione di 8 ½ al Festival di Mosca, mi è parso subito un compagno di ginnasio; ci hanno presentato ed erano tutti intorno a noi due, giornalisti, fotografi, tutti in attesa delle cose importanti che ci saremmo detti pubblicamente; gli interpreti pendevano dalle nostre labbra, ma noi non sapevamo proprio cosa dire di storico, di definitivo. Ci eravamo soltanto simpatici. Quando poi, anni dopo, è venuto a trovarmi, a Fregene, e in tre giorni è riuscito a imparare l’italiano, parlavamo come vecchissimi amici. Una notte, sulla spiaggia mi ha raccontato che in Groenlandia, una sera d’inverno, una di quelle sere che dura sei mesi, su una baleniera in mezzo ai ghiacci c’era un eschimese, con una macchina da proiezione, che proiettava Le notti di Cabiria, e che tutti si divertivano, si commuovevano, anche gli orsi. Poi disse anche un’altra cosa bellissima che mi torna sempre in mente quando penso a Evtušcenko: disse che le foche hanno lo sguardo umido, tenero, come quello di sua moglie. Adesso io non so se per una donna sentirsi dire che ha gli occhi come una foca possa essere piacevole; ma da quella volta ho guardato alle foche con un sentimento diverso; ed è vero che hanno degli occhi bellissimi, di una dolcezza straziante, che ti fanno sentire colpevole.” Nel frattempo in Russia Fellini ha ulteriormente accresciuto il suo mito, al punto che la sua ‘opera omnia’ viene spesso diffusa televisivamente in tutti i Paesi della Confederazione. Le tette della Tabaccaia non fanno più paura. “Quando Amarcord doveva uscire in Russia, fui convocato qui a Roma per un colloquio all’ambasciata. C’era il caviale, la vodka, e un ministro gentile e impenetrabile che voleva che io acconsentissi a fare dei tagli al film. Non capivo perché, e che tagli bisognasse apportare, e naturalmente mi opposi. «Il ministro 126 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le chiede – mi traduceva l’interprete – perché lei vuole privare il popolo russo della visione del suo film.» «Io non lo voglio privare affatto, anzi sono felice che il mio film esca in Unione Sovietica». L’interprete riferiva, stava a sentire e poi si rivolgeva a me: «Allora bisogna tagliare la scena della tabaccaia». «Il ministro è stato turbato dalle tette della tabaccaia?», chiedevo. L’interprete un po’ confusa, traduceva, poi si accalorava subito a rassicurarmi: «No, niente affatto!». E anche il ministro con aria seria scuoteva rassicurante il testone. «Allora si può sapere – insistevo io – perché lo spettatore russo deve essere considerato diverso dal ministro? Se va bene per l’uno andrà bene anche per l’altro!». È continuato così per un po’, con l’interprete sempre più imbarazzata a tradurre le mie argomentazioni, e il ministro a insistere che io non potevo voler privare il popolo sovietico della gioia di assistere al mio film. Alla fine me ne sono andato con i regali, la vodka, il caviale, i sorrisi di tutti, le massime manifestazioni di stima e ammirazione, ma Amarcord, in Russia, è uscito mutilato della scena della tabaccaia e di quella dove i ragazzi si masturbano nella vecchia automobile: il popolo non è stato privato del mio film, ma un po’ della sua dignità sì. Questo aspetto censorio, restrittivo, autoritario nel senso più confessionale, chiesastico, oscurantista del termine, rende vana ogni altra congenialità.” Può darsi che sul metodo con cui affrontare il progetto i due commensali non si intendessero. Però senza dubbio si erano piaciuti, perché il racconto della cena arabescato oralmente da Fellini era già un film, e altrettanto affascinante risultava sulla pagina di Viktoria Tokareva la versione dell’incontro con il cineasta italiano, nella traduzione di Sabina Damiani. Esempio raro, immagino, di un medesimo avvenimento riportato da due diversi artisti.

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Partendo da Rimini poco dopo i diciotto anni l’aspirazione di Fellini era di diventare disegnatore di fumetti. Poi a Roma conobbe il cinema, se ne innamorò e ne divenne il re. Il conte Luchino Visconti che il titolo di nobiltà lo deteneva per rango, non riusciva a digerirlo. Eppure di sangue blu, a stretta osservanza, non era neppure lui. Danilo Donati, impareggiabile art director che aveva iniziato la sua professione come oscuro assistente ai costumi di Maria De Matteis nelle opere dirette da Visconti alla Scala, si beava di ogni più segreto pettegolezzo e del Conte sapeva tutto. Mi raccontava che Luchino, sebbene rampollo di Giuseppe Visconti di Modrone, era un figlio ‘naturale’, concepito fuori del matrimonio dalla madre Carla Erba, nipote di Carlo Erba, potente e ricchissimo industriale farmaceutico. Il quale aveva iniziato spingendo un carrettino con cui andava a far consegne per Milano e da quell’umile gradino aveva costruito l’intera sua fortuna. Un po’ come il vecchio Angelo Rizzoli che era un trovatello ospite dei Martinitt, l’istituto dei senza famiglia. Miracoli a Milano; la metropoli della speranza e dell’immigrazione, su cui Visconti realizzò il suo film più tragico e sofferto, Rocco e i suoi fratelli, una potente e indimenticabile epopea in bianco e nero. Purtroppo l’opera scontò la sorte di uscire lo stesso anno de La dolce vita e di rimanere così fatalmente all’ombra di quella debordante fiumana di creatività che aveva travolto tutti gli argini scandalizzando l’Italia bacchettona e provocando una rivoluzione culturale, di costume e di linguaggio in grado di proiettare in una sola stagione il Paese nell’era moderna. Nel tentativo di contenere un pubblico straripante che si scalmanava per correre a vedere La dolce vita, le sale cinematografiche erano state costrette a restare aperte giorno e notte senza interruzioni; e l’apparizione di una dea dalla lunga chioma d’oro come Anita Ekberg nella fontana di Trevi, con il seno a stento trattenuto dal decolleté dell’estroso abito studiato per lei da Piero Gherardi e le cosce voluminose da statua greca scoperte dallo 128 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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spacco assassino, aveva indotto i ragazzi siciliani durante la proiezione – come in seguito riferì Ugo Gregoretti in un suo film – ad addentare furiosamente la spalliera dei sedili che avevano davanti. Per sfogare la loro bramosia sessuale i maschi invitavano a gran voce la procace scandinava a scendere dallo schermo e consegnarsi così com’era al loro incontenibile furore; la credevano in carne e ossa e tuttavia irraggiungibile. Per Visconti quel successo delirante ottenuto dal rivale risultò intollerabile, e pur di incrudelire sul rivale dichiarò che la famosa sequenza dei nobili ambientata nel castello di Sutri era ridicola e che Fellini aveva raccontato l’aristocrazia con lo sguardo della servitù che mette l’occhio al buco della serratura. I due cineasti non si parlarono per anni, ma poiché si stimavano, finirono per riconciliarsi; nella piena maturità, entrambi onusti di gloria, e poco prima della grave malattia di Visconti, accettarono di scambiarsi panegirici, in parte sinceri, di fronte alle telecamere della RAI. Se dunque il Conte, come veniva rispettosamente chiamato nell’ambiente, insieme ai quarti di nobiltà che possedeva per titolo ospitava nelle vene il sangue popolare del nonno materno e forse del padre ignoto, se ne comprende ancor meglio la proverbiale durezza di carattere e la morbosa attrazione per una umanità sofferente e derelitta. La durezza di Visconti, tirannico con le maestranze e spietato fino al sadismo con gli attori, viene definita da Piero Tosi “primitiva, feroce, medievale”. I suoi set erano delle gelide cattedrali di terrore. Nessuno poteva fiatare, né dire una parola, né distrarsi un solo momento o muoversi senza un preciso motivo. I tecnici, se autorizzati, avevano facoltà di scambiarsi brevi istruzioni sussurrate, gli attori, muti, attendevano con scolastica disciplina di essere chiamati dal regista, il quale, è noto, li sottoponeva a prove da aguzzino, quando non a vere e proprie torture. “Il Conte – raccontava ancora Tosi – quando la mattina arriva129 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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va in teatro aveva preso le sue decisioni e non c’erano tentennamenti, né dubbi, né discussioni: era un condottiero, un ammiraglio che conosce la rotta, i venti, le vele, e rassicura la ciurma in quanto egli stesso non teme naufragi.” Anche Fellini percepiva in lui il segno del comando. Quando, colpito dall’ictus, gli amici cercavano di rincuorarlo: “Che t’importa, avrai chi ti aiuta, infermieri, domestici, assistenti. Guarda Visconti, che col tuo stesso malanno è riuscito a dirigere altri due film.” Federico scuoteva la testa, sfiduciato: “Luchino è abituato a dare ordini alla servitù fin da quando era in fasce.” Replicava, acuto e lucido come sempre.

“Mi spezzo ma non m’impiego” era uno dei fulminei aforismi con cui Flaiano fustigava i costumi ridendo, come Orazio. Con Ennio Flaiano ho steso i testi del mio primo programma televisivo nel 1972, l’anno stesso in cui lo scrittore è scomparso. E rimpiango di averlo conosciuto troppo giovane, e troppo impaziente del mio destino per godere più vantaggiosamente della sua compagnia. Per giunta fuorviato da un’ombra ingombrante che aleggiava tra lui e Fellini, a causa di una ruggine che si era depositata sulla loro amicizia e stentava a scomparire. Flaiano mal sopportava la pietra filosofale del regista, il processo alchemico con cui l’amico trasformava in oro qualsiasi materiale su cui mettesse le mani, assimilando come proprio ogni contributo, anche il più raffinato, dei collaboratori. S’era creato un attrito invisibile, un muto livore, che era infine precipitato per un banale incidente di percorso al tempo di Giulietta degli spiriti (1965). Nel viaggio verso New York che il produttore Angelo Rizzoli aveva organizzato per il lancio del film in America, a Flaiano era stato assegnato un posto in classe turistica mentre Fellini viaggiava in prima. Ne dedusse che fosse colpa di Federico, suggeritore 130 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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occulto di quell’affronto per godersi indisturbato il ruolo da primadonna, adorato e vezzeggiato: l’autore del film invariabilmente al centro dei riflettori, bersagliato dalle domande dei giornalisti, celebrato in ogni contesto, e gli sceneggiatori, bene o male coautori di quei successi, relegati sistematicamente nell’ombra. Un ruolo sempre più disagevole da sopportare per lo scrittore, maggiore in età di Federico e vincitore del Premio Strega (1947) con uno dei romanzi più acclamati del dopoguerra, quel Tempo di uccidere che raccontava la vicenda antieroica di un giovane sottotenente di complemento nella guerra di Etiopia. Permaloso, forse anche leggermente invidioso del successo planetario di Fellini con il quale aveva iniziato a collaborare fin dall’esordio in Luci del varietà, lo scrittore colse al volo l’antipatico inciampo per ritrarsi in un sordo rancore. Tornati a Roma dopo qualche settimana, i due amici cessarono di parlarsi, si creò una crepa tra loro, giorno dopo giorno sempre più difficile da colmare. Anche per come si intrecciarono gli eventi. L’anno successivo durante la preparazione di Il viaggio di G. Mastorna Fellini si ammalò di una insidiosa pleurite allergica da cui riemerse per miracolo. Riconquistata la salute non volle più saperne di quell’incursione nell’oltretomba, convinto che portasse sfortuna, e si rivolse ad altri soggetti, altri collaboratori. Ripartì con una breve sceneggiatura tratta da un racconto di E.A. Poe, “Non scommettere la testa con il diavolo”, scritta insieme a Bernardino Zapponi, un autore di brevi storie visionarie scoperto per caso in libreria. Il film si intitolò Toby Dammit, e subito dopo, ancora con Zapponi, mise mano al Satyricon di Petronio Arbitro; quindi a Roma, nel quale per la prima volta io stesso iniziai a collaborare. Quando incontrai Flaiano, il loro screzio era recente, una cicatrice ancora irritata; vivendo la mia esaltazione per Fellini, stavo attento a barcamenarmi. Flaiano mi era molto simpatico, era un maestro, avevo voluto fermamente la sua partecipazione 131 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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al programma che stavo curando e che si chiamava “Come ridevano gli italiani”, una cavalcata in molte puntate all’interno del nostro cinema comico delle origini, dai primi acrobati dei film muti, Cretinetti, Robinet, Polidor, fino a Macario, Totò, Dapporto, Rascel, ai grandi protagonisti delle farse degli anni Cinquanta e all’esplosione della Commedia all’Italiana. Avevo proposto a Ennio Flaiano di stendere insieme i testi e lui acconsentì. Così periodicamente, più volte la settimana, andavo a trovarlo al residence di via Isonzo in cui abitava, nel quartiere Pinciano; un fabbricato moderno, funzionale e anonimo, incastonato tra i palazzi liberty e umbertini di quella zona elegante. Flaiano aveva da qualche tempo lasciato la sua dimora di Via Nomentana, a Montesacro, dove la moglie Rosetta viveva con Lele, la loro figlia disabile, e si era ritirato in quella minuscola suite, soggiorno con angolo cottura, camera da letto e bagno, in cui diceva di aver trovato la migliore sistemazione. Non doveva pensare più a nulla, la mattina le cameriere gli riordinavano rapidamente le stanze, e poteva scrivere senza disturbo sulla sua imponente IBM a testina rotante, appoggiata sull’unico tavolo rotondo previsto dall’arredamento. In sottofondo, spesso, la musica di Mozart che amava incondizionatamente. Arrivavo con le mie cartelline in un’ora comoda (il giorno precedente avevamo magari visionato in moviola qualche comica finale) e buttavamo giù i testi che in trasmissione il presentatore – per l’occasione Alberto Lionello – avrebbe recitato davanti alle telecamere. Mi piaceva stare con Flaiano, vederlo battere sui tasti elettrici mentre compitava a voce alta le frasi che andava concependo; rapido, spiritoso, volubile. Sicuramente aveva accettato quell’impegno, da sbrigare con la mano sinistra, per arrotondare le entrate che nel mestiere delle lettere non sono mai abbastanza. Inutile dire che era più il tempo in cui si chiacchierava di quello destinato al lavoro; avendo letto il suo romanzo e qualcos’altro della sua produzione letteraria, potevo ascoltarlo con cognizione 132 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di causa; e così quando Ennio terminava un articolo, come si usa spesso con i giovani collaboratori, me lo sottoponeva con la scusa di conoscere il mio parere, più verosimilmente per percepire il suono della propria voce riflesso sul mio volto attento. E a pranzo mi conduceva al ristorante del residence, al piano terra: “Non si mangia male – mi assicurava – e poi non perdiamo tempo. C’è quest’atmosfera da camera operatoria che favorisce la creatività.” Amava scherzare di sponda intorno alla morte e un giorno mi confidò di essere minato da un grave vizio cardiaco. Di operazioni al cuore in quegli anni ancora non si parlava; assumeva semplicemente dei farmaci quando si ricordava. In quel periodo si vedeva con una ragazza che gli piaceva molto, anzi a volte le nostre sedute risultavano abbreviate per l’inserirsi di una telefonata, l’annuncio improvviso di una visita. Una mattina quando arrivai, lui così distrattamente affettuoso mi accolse con singolare calore, l’immancabile mezzo sigaro tra le dita, in preda a una strana euforia. “Questa notte non sono stato troppo bene, mi disse, è appena passato il cardiologo. Mi ha auscultato il cuore che dopo l’infarto non va più bene, perde i colpi. E mi ha detto che posso fare l’amore solo rimanendo sdraiato, senza affaticarmi; ne parlava alla stregua di un’impresa atletica, trattandomi però come un campione stanco: «Lasci l’iniziativa alla ragazza che è giovane e entusiasta, lei si risparmi»”. Rideva tra i denti, e ogni tanto sebbene gli fosse stato proibito, aspirava il sigaro a minuscole boccate. Poi aggiungeva alzando in aria il mezzo toscano: “Questo invece dovrei proprio buttarlo via, secondo lui.” Quel giorno non lavorammo, era stonato, non aveva voglia, preferiva continuare a parlare seduto su un divanetto a rivestimento tartan scozzese sistemato di fianco al tavolo, forse un letto estraibile per gli ospiti. Mi chiese cosa volevo fare nel mondo dello spettacolo. Risposi che non avevo idee precise, mi bastava restarci dentro. E in ogni caso pensavo di scrivere, di 133 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fare lo sceneggiatore. “Meglio il regista – mi fermò subito – gli sceneggiatori non contano niente. Il film è di chi lo dirige, di chi lo guida sul set.” E fu l’unica volta che alluse di sfuggita alla sua amarezza. Normalmente, debbo essere sincero, tutte le volte che il discorso cadeva su Fellini – e accadde di frequente – mai espresse un giudizio negativo su di lui, o utilizzò una parola sconveniente, e neppure una di quelle sue battute feroci, capaci di ustionare. Ne avvertii sempre, al contrario, la profonda amicizia velata di malinconia, forse prima ancora che per le mancate collaborazioni ai film, per una consuetudine venuta meno, una perduta complicità che si era nutrita di umorismo, di allegria, probabilmente anche di intesa tra ‘vitelloni’, un termine che certamente gli apparteneva essendo Flaiano originario di Pescara; in Abruzzo viene normalmente usato per indicare i giovani sfaticati, come appunto i protagonisti del film che rese subito celebre Fellini al Festival di Venezia. Forse Federico gli aveva ‘sottratto’ anche quel modo di dire, forse avevano deciso assieme di trasformare l’espressione insolita nel titolo della storia, forse chi lo sa, la pellicola ebbe successo anche per quel richiamo. E allo scrittore, alla fine, dovette pesare che le sue idee, le sue invenzioni, finissero nel tritacarne di un talento superiore. Racconta Giovannino Russo, il quale per un periodo collaborò al Mondo di Mario Pannunzio di cui Flaiano era capo redattore (ribattezzandosi da solo il ‘cupo redattore’), che parlando di Federico il collega gli confidò: “Io sono per Fellini come una Coca Cola: lui tira dalla cannuccia e aspira.” Non so se fosse proprio così, ma la scontentezza lo affliggeva. Lo avvertivo rassegnato alla sua condizione appartata, corteggiava segretamente le intemperanze del cuore. Qualche settimana dopo il compimento del nostro lavoro un secondo infarto se lo portò via, e aveva soltanto sessantadue anni. L’anno successivo, nel 1973, uscì postumo La Solitudine del satiro, alla cui nascita avevo assistito senza saperlo. 134 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il Viaggio di G. Mastorna è il film che Fellini non ha mai realizzato ed è quello intorno al quale si è probabilmente più discusso. “Assenza più acuta presenza”, direbbe il poeta Attilio Bertolucci, tanto che ad ogni nuova occasione il fantasma si riaffaccia con rinnovata energia da misteriose lontananze. Il titolo è stato anche interpretato da Andrea Zanzotto come MAS-TORNA, cioè mai-ritorna, alludendo in un brivido oscuro al protagonista che quasi senza accorgersi ha oltrepassato quel confine da cui non è concesso retrocedere. Fellini s’era ispirato per il soggetto a un breve racconto di Dino Buzzati, e insieme allo scrittore nel 1966 aveva steso la sceneggiatura, prima versione di una lunga serie che lo accompagneranno praticamente per tutto il corso della sua attività artistica. Ancora nel 1992, un anno prima della scomparsa, mi affidò il copione per saggiarne l’attualità, l’immutata freschezza. Il fascino rimaneva sorprendentemente intatto. Vi si narra di un suonatore di violoncello, Giuseppe Mastorna, scritturato per una esecuzione fuori del proprio paese. Ma durante il viaggio in aereo si verifica una terrificante turbolenza, le hostess informano i viaggiatori che l’apparecchio sarà costretto a un atterraggio di fortuna. E infatti così avviene, nella vasta piazza di una città sconosciuta, davanti a una cattedrale gotica assai simile a quella di Colonia. I passeggeri si disperdono per le strade, ogni comunicazione è interrotta, non si ha notizia di quando l’aereo potrà riprendere il suo viaggio. Mastorna, inizialmente insofferente, contrariato, si trova precipitato in un caos inestricabile, una dimensione sconosciuta dove tuttavia incontra alcune imprevedibili presenze familiari. Solo molto avanti nella storia, scoprirà di essere egli stesso trapassato nell’aldilà, vittima della catastrofe aerea. Con tutto il viluppo di rimorsi e rimpianti facilmente intuibili. Il film però non si fece. Quando la partenza sembrava ormai imminente e negli studi della De Laurentiis sulla via Pontina erano già state erette alcune costruzioni di scena – la carlinga dell’aereo, 135 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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il duomo di Colonia – Fellini si ammalò. Un morbo misterioso, sconosciuto, letale, a cui i luminari della medicina non sapevano dare un nome. E si temette il peggio. Il 12 aprile era stato colto da una violenta crisi respiratoria a causa della quale cadde privo di sensi nella sua camera del Residence Garden all’Eur. Mentre lo trasportavano precipitosamente alla Clinica Salvator Mundi, sul Gianicolo, l’ambulanza s’era imbattuta in una dimostrazione di piazza e nello stato di semicoscienza il regista aveva potuto udire il medico di servizio implorare angosciato: “Lasciateci passare, abbiamo un moribondo!” Alla Salvator Mundi era restato un mese, tra la vita e la morte. Nessuno riusciva a capire, neppure l’Archiatra Pontificio che era stato convocato al suo capezzale, di quale natura fosse il suo male. Si congetturava un tumore polmonare all’ultimo stadio, e più i giorni passavano più la stanza si riempiva di fiori e messaggi di cordoglio, accorrevano gli amici, i personaggi pubblici, i politici, e persino i nemici incalliti, che se li scorgi intorno al tuo letto sai di essere spacciato. Invece l’infermo ne venne fuori, con uno di quei ghiribizzi che appartengono alla magia del personaggio. Andò a trovarlo un suo vecchio compagno di liceo, Ercole Sega soprannominato Bagaròn, perché in classe il suo vocione non cessava mai di ronzare in sottofondo. Era intanto diventato medico, lesse le cartelle cliniche del paziente e ipotizzò che potesse trattarsi di una rara forma di pleurite allergica conosciuta sotto il nome di morbo Sanarelli-Schwarzman. Perso per perso fu adottata la decisione di somministrargli una dose di cortisone, allora alle prime sperimentazioni, e dopo poche iniezioni Federico si riprese completamente. Tutto passato. Ma il viaggio nell’aldilà che avrebbe voluto realizzare nel film – e che stava invece mettendo in pratica di persona – perse di colpo ogni attrattiva. Non trovò mai più la forza di convincersi a riprendere in mano il progetto. Cinematograficamente lo affrontò con il dovuto distacco, per liquidarlo definitivamente, in un medio metraggio in forma di appunti visivi intitolato Block-notes di un 136 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Regista (1969). Utilizzava l’argomento come traghetto a un altro film che aveva preso corpo nella sua fantasia, il Satyricon, nel quale apertamente confluì anche una parte della vecchia ispirazione. Come continuò ad accadere anche in film successivi, per esplicita ammissione del regista. Da Toby Dammit a La Voce della Luna, sembrava che il Mastorna rinnegato avesse assunto quella peculiare funzione di nutrire col suo uranio radioattivo inabissatosi nella coscienza, la formazione e la nascita di nuove creature, di altri scenari. Attorno al Mastorna probabilmente si è favoleggiato fin troppo, in una nebbia di parole che lo rende rarefatto. In un corpo di provini fotografici riapparsi tra i materiali di Tazio Secchiaroli appare Marcello Mastroianni visibilmente infelice, poco partecipativo, acquiescente, così lontano da quella eccitazione euforica di cui l’attore ha tante volte parlato ad ogni nuova impresa con Fellini. Nella esaltante prospettiva del film l’attore aveva interrotto, affrontando anche un’onerosa penale, le recite di Ciao Rudy! al Teatro Sistina, lo spettacolo che Garinei e Giovannini gli avevano cucito addosso e che stava riscuotendo un successo travolgente. Fellini stesso, inquadrato con il violoncello fra le gambe al posto del suo protagonista, mostra un’aria inappagata, assente, cupamente pensosa. Le fotografie più che la documentazione di un provino, appaiono immagini ctonie, affioranti da un mesto ipogeo. Persino lo sfondo della periferia romana, quasi irriconoscibile, offre un ulteriore motivo di spaesamento. Eppure siamo a poche centinaia di metri dai teatri di posa, in uno dei tre complessi di architettura piacentiniana che ospitavano accanto a Cinecittà, il Centro Sperimentale e l’Istituto Luce. I fondali sono quelli naturali, la terrazza, i viali, i giardini dell’edificio, senza alcun intervento scenografico. E quello scarno manipolo di collaboratori stretti intorno a una macchina da presa leggera (una piccola Hariflex non blindata, evidentemente si tratta di una ripresa 137 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che non prevede il sonoro) vi si aggira come smarrito in un sogno, un drappello di anime in pena improvvisamente imprigionato nel regno delle ombre.

Superato il brutto inciampo del Mastorna, Federico accenna al film in una lettera all’amico Simenon, in occasione di un nuovo impasse creativo (1 settembre 1977): Nel frattempo ho scribacchiato, lavoricchiato attorno a tre progetti: uno, antichissimo, che mi perseguita da sempre e che probabilmente ho paura di affrontare perché non riesco mai a metterlo in piedi; mi affascina e mi sgomenta, me lo trascino dietro da quindici anni e mi sembra sempre più attuale, sempre più necessario… ma non lo faccio. È un progetto che ha collezionato una serie incredibili di opposizioni, contrasti, ostacoli improvvisi, liti furibonde, processi, malattie, rotture di rapporti che sembravano tenaci, tutto è successo ogni qualvolta tentavo di riprenderlo in mano. Un giorno vorrei proprio parlarne a lungo, spudoratamente, di questa strana avventura creativa, o meglio di ‘impotenza creativa’, che ha finito per contagiarmi di fantasie superstiziose. Riconquistata la salute il regista torna sul set, ma questa volta accettando una proposta di Alberto Grimaldi di firmare uno dei tre capitoli di un film a episodi che si intitolerà Tre passi nel delirio. Fellini sceglie per sé un racconto di E.A. Poe: Non scommettere la testa con il diavolo, e lo ribattezza con il nome del protagonista: Toby Dammit. Nella sceneggiatura resterà poco della trama di E.A. Poe, ma quel titolo sembra parlare da solo. A quale ‘altra’ scommessa alludeva Fellini? E chi, alla fine del gioco, ci lascia la vita al posto 138 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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suo? Qualcuno che porta il destino nel nome: Dammit in inglese si pronuncia allo stesso modo di damn it, che sia dannato! E il protagonista, un bellissimo, inquietante, ‘dannato’ Terence Stamp muore con la testa mozzata da un cavo d’acciaio teso sull’orrido di un viadotto in costruzione che si interrompe all’improvviso. Dammit vuole volare da una parte all’altra a bordo della sua rossa Ferrari scoperta, prende la rincorsa, accelera all’impossibile, affronta il vuoto… E la sua testa rimbalza sul selciato come una palla, finisce in mano a una bambina che la sta aspettando, soddisfatta di quella sua preda, con il ghigno perfido e gli occhi malvagi del diavolo. Il film odora di zolfo e guardandolo un brivido corre lungo la schiena. Fellini ha intanto cambiato i collaboratori abituali al completo. A Pinelli, Flaiano e Brunello Rondi, sostituisce lo sceneggiatore Bernardino Zapponi, ingegno bizzarro, eterodosso. Il suo art director, Piero Gherardi, è deceduto e sperimenta una prima collaborazione con Pierino Tosi. Alla fotografia, dopo una breve parentesi di Pasqualino De Santis, è Giuseppe Rotunno che subentra al grandissimo Gianni Di Venanzo precocemente scomparso. Per la musica resta, insostituibile, Nino Rota, l’amico magico, il suo angelo custode. Ma lo stile visivo subisce un mutamento inevitabile, Fellini ha come cambiato pelle, si apre per lui un secondo, anzi un terzo periodo creativo, dopo le fiabe grottesche della memoria dei primi film e quindi i grandi affreschi – i “quadri in movimento” avrebbe detto l’autore – di un presente amplificato: la società romana e cinematografara sospesa sul margine di un futuro indecifrabile, in cui il sogno si mescola alla realtà e “l’unico autentico realista è il visionario”. La dolce vita, 8 ½, Giulietta degli spiriti chiudono impeccabilmente una stagione. In quella che si apre, di cui Toby Dammit è il corifeo, Satyricon stabilisce il modello e la misura. 139 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Piero Tosi è uno degli ultimi autentici artisti del nostro cinema. È l’art director legato soprattutto a Luchino Visconti per Senso, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, La caduta degli dei, Morte e Venezia, Ludwig, L’Innocente; ma anche ai capolavori di Pasolini, Bolognini, De Sica, Monicelli. A Fellini si concesse con capricciosa parsimonia, disorientato dalla sua possessività. “Questa volta potrò avere da te magari soltanto una piccola scarpina?” Lo circuiva ad ogni nuovo film il grande seduttore, corteggiandolo dietro il velo della canzonatura. E Pierino si diverte a imitarne abilmente la ‘vocetta’, revocandone lo sfottò. Più l’uno inseguiva, più l’altro scappava, ma non soltanto per civetteria: “Non ce la facevo, non mi lasciava più vivere. Io non so difendermi, non sono come Danilo Donati che scivolava via tra le maglie e chi lo riprendeva era bravo. Anch’io sono un gatto, forse più di Danilo, eppure mi lasciavo catturare, mi chiudeva in macchina, mi portava a Fregene, non faceva che parlare di lavoro, incessantemente, durante il tragitto, e a casa. Se Giulietta provava a inserirsi nel discorso accennando a ciò che le era successo durante la giornata, veniva liquidata con un “ah, sì?” e si riprendeva. Mi accompagnava a letto, mi rimboccava le coperte, mi dava il bacio della buona notte. E la mattina alle cinque sentivo già lo scalpiccio dei suoi piedi sulla ghiaia. Tòc, tòc... Bussava alla porta: “Sei sveglio, tesorino?” E si riprendeva da capo. Non esisteva pausa. Tutto l’opposto di Visconti con il quale sul set non si tirava letteralmente il fiato, la tensione era costante e insostenibile, ma una volta terminata la lavorazione i problemi del film venivano completamente accantonati.” Pierino Tosi pretende per sé il sigillo araldico dei ‘veri’ grandi, che non amano comparire; preferisce restare tra gli artefici, i guardiani dell’antro, gelosi delle alchimie, che quando vengono sospinti alla luce hanno bisogno di occhiali da sole. E le lenti dei suoi occhiali sono infatti amabilmente fumé. 140 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“Non ho mai amato il mio lavoro, parlo proprio del mestiere dello scenografo, in cui le variabili molto spesso non dipendono da te, sono assolutamente arbitrarie, incoerenti, incontrollabili. Mi sembra di aver sempre lavorato dentro strettoie di tempo, occasioni rovesciate, smarrite, un cumulo di decisioni tormentate. Il problema è anche mio personale, me ne rendo conto; sono condannato dalla mia indole a lavorare da solo, non posso avvalermi di aiuti, di assistenti, di nessuno, perché non so io stesso quello che faccio, mi porto tutto dentro, orientandomi a istinto, cercando la strada a tentoni. Non trovo pace neppure la notte, se un pensiero mi assilla continuo a svegliarmi, accendo la luce, disegno, prendo appunti, fermo l’idea sul blocco di carta che tengo sul comodino. Come una tortura, una fatica di Sisifo. A fianco di un regista come Federico, portato anche lui ai ripensamenti, a fare e disfare, a tornare sulle idee scartate, partorirne di nuove ad ogni momento, la somma di incertezze, e quindi di lavoro, si raddoppiava, si moltiplicava.” La vera collaborazione con Federico era iniziata con il Satyricon, quando il regista l’aveva chiamato per ‘inventare’ il trucco e le acconciature degli antichi romani; quelle facce, incancellabili nell’emozione, che hanno sovvertito il metodo stesso di concepire il film storico. Ma la prima responsabilità del set si era presentata con Toby Dammit, nel film a episodi Tre Passi nel Delirio: “C’è la scena del baratro, dentro cui l’attore drogato, interpretato da Terence Stamp, finisce con la sua Ferrari. Il burrone era stato ricostruito in teatro. Quando l’auto precipita, in mezzo a quel clangore di bidoni che rotolano e oggetti metallici che rimbalzano nel vuoto, da una tenda canadese piazzata sulla scarpata – le tipiche invenzioni di Fellini – si affaccia un omaccio incuriosito, o svegliato di soprassalto dal quel frastuono. Non si vede la sua faccia, perché indossa un sacchetto di carta con sopra disegnati gli occhi il naso e la bocca. Quello è l’unico sacchetto rimasto di non so quanti, che avevo impiegato una notte intera a pitturare.” 141 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Brevi bagliori su una collaborazione quasi fiabesca dedicata a colorare fantasmi, e costruire quella realtà visionaria – se si passa l’ossimoro – senza la quale la ripresa cinematografica non può esistere. Poi soltanto fughe, inseguimenti, sporadici avvicinamenti, interventi capaci sempre di lasciare un’impronta da gran pittore, intuizioni fuggevoli, sapienti ritocchi sulla fisionomia, l’espressione, la drammaticità di questo o quell’attore; ma mai più un film insieme. “Io pensavo solo a salvarmi. Lui con me era avvolgente come un serpente e io fuggivo. Quando sono andato a trovare Fellini, durante le riprese di E la nave va, ho capito che avevo sbagliato a rifiutare il film. Pur recalcitrando, avevo finito per accettare l’incarico di disegnare soltanto le facce, il trucco dei personaggi, e invece Federico stava realizzando qualcosa che non aveva mai fatto prima. Come potevo immaginarlo!”

Fellini era Capricorno cuspide Acquario, con Marte in Bilancia. Così lo studiava nel ‘cielo’ astrologico un mago di Trastevere, un veggente di nome Jacinto Yaria, che viveva in un appartamento al piano alto di vicolo del Mattonato circondato da gatti immobili come idoli scolpiti, ovunque nella stanza dell’oracolo. Ogni tanto andavo a trovarlo anch’io, spinto da Federico: “Quando le cose si aggrovigliano – asseriva – può essere utile bussare alla porta dell’irrazionale, anche soltanto per ricevere uno scossone, ritrovarsi in strada un po’ più leggero.” Jacinto era un personaggio inafferrabile, a cominciare da quel nome esotico che probabilmente nascondeva origini intorbidite; usava infatti un parlare molle, strascinato, in cui mescolava il romanesco a improvvise cadenze pugliesi o elleniche, che ricordavano molto, a ripensarci oggi, il frasario oscuro e scombinato 142 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dell’Ermafrodita nella struggente sequenza del Satyricon. La divina creatura, che portava nel corpo i sessi di Ermes e Afrodite, era stato doppiato se ben ricordo dall’infallibile Alighiero Noschese, un vero medium adorato da Fellini, il cui posto venne ereditato, quando il geniale imitatore si suicidò, da Oreste Lionello, altro virtuoso del mimetismo vocale. Anche Yaria aveva qualcosa dell’ermafrodita, creatura di confine tra il maschile e il femminile, un fenomeno incerto, un freak, altrettanto affascinante che repellente. Prendeva posto in un’alta poltrona sfarzosa dietro lo scrittoio ingombro di amuleti, schermava l’abat-jour con veli colorati e in una soffusa penombra scrutava le effemeridi, spesso integrando la lettura del destino con l’aiuto dei tarocchi, della chiromanzia, e anche della radioestesia, osservando l’oscillare del pendolino. La sua casa era molto frequentata, gli appuntamenti si accavallavano, ma per Fellini e i suoi amici non c’erano mai attese. Yaria disegnando il ‘cielo’ del Maestro ne aveva catturato l’arcano, la scoperta di avere di fronte un mago sicuramente più grande di lui, infinitamente più dotato. Un genio. E ne dipanava l’enigma astrale con la dignità di un sacerdote privilegiato, individuando ostacoli e trionfi nel ripercorrere instancabile il sentiero delle ‘case’, l’incessante vagare dei pianeti e i loro incontri, i trigoni, le quadrature, gli allineamenti, le infinite e sfumate combinazioni con cui si suppone che influiscano, beneficamente o malignamente, sulla sorte degli umani. Chi fosse dei due a scrutare in quell’oscuro e luminosissimo firmamento era difficile stabilire, perché Federico utilizzava il paranormale come una tempesta magnetica, una pioggia di bagliori in cui immergersi e agilmente districarsi. E conservava la mappa di Yaria, la magica composizione in cui i pianeti si erano disposti alla sua nascita, in un cassetto della scrivania, il secondo in basso a sinistra, in cui era riposto anche l’I Ching, il libro cinese delle mutazioni. Era una invecchiata edizione storica completa della prima e imprescindibile introduzione di Carl Gustav Jung, che 143 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gli era stata donata personalmente da Ernst Bernhard, lo psicoanalista junghiano suo amico, l’unica persona – l’avevo udito più volte affermare – a cui riconoscesse un’autentica influenza sulla propria esistenza. Custodiva il libro di sapienza protetto sotto chiave, avvolto in un drappo di seta nera come richiede il rituale; e lo consultava con incantata curiosità, permeata di fiducia, di innocente abbandono, leggendo a voce alta e interpretando fantasiosamente le fiorite e complicate sentenze. Ne rendeva partecipe anche chi era in quel momento con lui, se si creava l’atmosfera giusta. Il magico quotidiano costituiva la dimensione irrinunciabile della mia frequentazione felliniana; e anch’io mi lasciavo volentieri catturare dal sembiante sfuggente del mistero, restando spesso stordito alle previsioni di Jacinto Yaria e preferendo, devo ammettere, la rilettura del presagio nelle parole rassicuranti di Federico. Il quale sapeva adoperare argomenti lievi e trapunti di amichevole disinvoltura, con cui ricondurre su un terreno di ironica saggezza l’astrusità dei logaritmi celesti.

Frequentare Fellini significava incamminarsi a minuscoli passi sul sottile confine tra due dimensioni. Il suo set era il rifugio di molti sensitivi che affluivano nella capitale. Tra loro un piccolo elfo deforme, di nome Vincenzo Caldarola, che viveva di elemosina nei pressi di Piazza del Popolo, dormendo sotto i ponti e aggirandosi come un clochard carico di buste di plastica, con in mano un bastone ricurvo da pastore. Federico finì per fargli interpretare l’emiro di Amarcord, che arriva al Grand Hotel con la scorta di giannizzeri e il codazzo del suo harem. Era una creatura primitiva, dall’eloquio quasi incomprensibile, un sannita dei tempi antichissimi, ma sapeva leggere la mano. Non tanto basandosi sulle linee codificate da un’antica arte divinatoria a lui giunta per tradizione orale, ma attento piuttosto alla consistenza della pelle, 144 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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al calore, alla conformazione degli avvallamenti, dei rilievi, delle pieghe. Prendeva la mano fra le sue, la palpava come farebbe un cieco, cercando nella struttura anatomica le risposte alle tue interrogazioni. La percorreva come un paesaggio di carne, un plastico, e ne ricavava spesso intuizioni fulminanti. A volte si serviva di quella tecnica per accarezzare le belle ragazze attratte nella sua ragnatela (sembrava un innocuo ermafrodita, un eunuco, invece era molto sensuale, un viscido e perverso coboldolo del bosco) e se quelle lasciavano fare si avventurava in improvvise e oscene incursioni, che accompagnava a grugniti rauchi di soddisfazione. Alcune volte dagli anfratti più oscuri del set, al riparo di pareti posticce di legno, si alzavano gridolini improvvisi, o strepiti risentiti, ma anche gemiti soffocati. Altre volte con la promessa di rivelazioni più arcane, lo vedevo allontanarsi trascinando con sé per mano qualche comparsa ingenua e piacente e con lei si dileguava dietro le quinte appoggiate alle pareti o le cataste di materiale da costruzione del teatro di posa. Poi riemergeva dal buio con al braccio i suoi eterni sacchetti di plastica, rigonfi e penzolanti, ruminando chissà cosa tra i denti. In mano aveva le cinque o diecimila lire del compenso che scrutava esaminandole alla luce prima di infilare in una saccoccia dei suoi calzoni deformati, trattenuti alla vita con uno spago. Quasi nessuno gli negava quell’obolo in cambio di qualche illuminante preveggenza, e per la durata delle riprese Caldarola aveva l’esistenza assicurata. Incontrai insieme a Fellini tante maghe, di cui sarebbe troppo lungo e forse vano stilare l’elenco. Mi raccontava spesso della leggendaria Pasqualina Pezzola, che si recava a trovare a Porto Civitanova, nelle basse Marche, talora portando con sé Ennio Flaiano; e mi diceva di quando, avendo fatto visita a Padre Pio, aveva aspirato il profumo di rose che il Santo emanava in certi momenti della giornata, in special modo durante la messa del pomeriggio. Sulla via Tiburtina a volte ci spingevamo da Luciana che vive145 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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va in un piano terra ammobiliato come l’interno di un romanzo di Pasolini. Ci riceveva nelle ore in cui era sola perché abitava insieme alla figlia sposata con un carabiniere e il genero, appartenendo alle forze dell’ordine, la minacciava spesso di arrestarla per ciarlataneria, diffidandola dal continuare nella sua attività truffaldina. Invece era molto dotata. E pericolosa, perché non possedeva diaframmi, diceva tutto quello che avvertiva e che le passava in testa. Doppiamente pericolosa perché la sua specialità consisteva nel riconoscimento precoce delle malattie. Appena aveva davanti a sé il consultante, ne somatizzava il malanno con dolori nel proprio corpo. Era impressionante. Una volta si mise a zoppicare perché Federico aveva subìto una distorsione alla caviglia. Si sedeva al tavolo a parlava in continuazione come invasa, sospinta da una urgenza intrattenibile; gettava anche le carte sulla tovaglia ma si stancava prestissimo di consultarle seguendo a casaccio un suo pensiero contorto, rivolgendo domande di cui non aspettava la risposta: “Mi sbaglio? Mi sbaglio?” Continuava a ripetere meccanicamente senza aspettare conferma. Riversava indiscriminatamente su chi le stava di fronte un valanga informe e limacciosa di informazioni che tuttavia contenevano confusamente precisi episodi del suo vissuto. In un’occasione, a una ragazza che portammo con noi, enumerò per filo e per segno gli aborti che aveva praticato, gettandola in un tale malessere che credemmo stesse per svenire. Se provava forti fitte di dolore si interrompeva per un momento, come un medium, prima di cominciare a nominare malattie anche gravissime. Le persone che pure facevano la fila alla sua porta, avevano paura delle sue esternazioni capaci di decretare anche condanne senza appello. Smettemmo di andarla a trovare, era davvero troppo rischioso. Molto più sofisticata era Barbara Fortuny (nome d’arte), che abitava nei quartieri alti, era una donna sensuale leggermente âgé, dalla massa di capelli biondi, il corpo generoso ed elegante. Ri146 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ceveva nel suo appartamento a cui si accedeva attraverso complicati percorsi, stretti cunicoli e ripidissime scalinate. Ma una volta arrivati si restava avvolti dagli aromi degli incensi in una stanza piacevolmente sovraffollata di chincaglierie, con l’impressione di mettere piede nel vero antro di una maga di rango superiore. Sfoggiava modi squisiti e una voce musicale, conosceva l’arte di mettere l’ospite a proprio agio, di colmarlo di cortesie. Era una persona istruita, sicuramente imbevuta di psicanalisi junghiana, e sapeva leggere magistralmente i tarocchi. Prestava molta attenzione al carattere del consultante, evitava qualsiasi approccio angoscioso, al contrario tendeva ad addolcire anche i pronostici meno incoraggianti in una dimensione di superiore armonia. Si aggirava come in una danza leggera tra gli scogli del tuo destino, disegnando un arazzo accurato su cui analizzare insieme buone e cattive notizie. Era molto rassicurante e gioiva delle fortune in arrivo. Frequentatore di medium, Fellini più volte nei suoi film ha inscenato sedute spiritiche al limite del grottesco, ma con dentro uno sfumato palpito religioso. Anche nella Dolce Vita, durante la sequenza dei nobili al castello di Sutri, una signora ospite della festa precipita in una drammatica trance. Per un certo tempo sperimentai con lui anche episodi di spiritismo a carattere familiare. Andavamo a casa di una giovane e avvenente aristocratica, di nome Claudia, che viveva a Palazzo Taverna, nel cuore della Roma papalina, tra Panico e via di Monte Giordano. Era la moglie di un potente esponente della ‘nomenklatura’ e dell’alta finanza, il quale per i suoi molteplici incarichi pubblici era quasi sempre assente. In quella casa elegantissima con soffitti a cassettoni e arredi preziosi, ci davamo convegno in pochi intimi sapendo che la serata sarebbe andata inevitabilmente a concludersi intorno al tavolino a tre gambe. Era un gioco ma non soltanto, in quello stile ‘border line’ così congeniale all’ar147 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tista riminese. Una volta stabilita la catena delle mani il tavolino iniziava a sussultare, battendo colpi che corrispondevano alle lettere dell’alfabeto; si formavano le parole combinate in risposte spesso inquietanti, materializzavamo presenze che ci lasciavano a lungo con un peso sul cuore. Sono certo che il vero medium era proprio Fellini, e che provenisse da lui la più potente concentrazione di energie. Posava celiando da apprendista stregone ma nascondeva autentiche capacità extrasensoriali.

Dove si situa il confine che separa la chiaroveggenza dal trucco e dalla magia? E a che cosa vuole assistere il pubblico attratto da fenomeni paranormali? C’è un passaggio di 8 ½, nella sequenza delle Terme, in cui Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) assiste allo spettacolo di un’anziana coppia di telepati, Maya e Maurice, che intrattengono il pubblico con giochetti di magia leggendo nella mente degli ospiti e indovinandone i piccoli segreti. Quando è la volta di Guido, Maya si blocca, non riesce a decifrarne il pensiero e si limita a scrivere il contenuto sulla lavagna: ASA NISI MASA. È il camuffamento della parola ‘anima’, un scherzo che si usava fare da bambini aggiungendo a ciascuna sillaba una seconda sillaba consonante. Terminato il numero dei fantasisti Guido domanda a Maurice, sua vecchia conoscenza, quale accordo ci sia tra lui e la moglie, e l’altro risponde con candore, sorridendo: “Beh, ci sono dei trucchi ma c’è anche qualcosa di vero, non so come succede, ma succede…” Fellini non chiudeva mai nessuno spiraglio. L’illusionista nel suo laboratorio, circondato dai mille strumenti del mestiere, predispone ogni minimo dettaglio con ferrea intransigenza per la riuscita dello spettacolo. Non avviene lo stesso per ogni forma d’arte? Cos’altro fanno lo scrittore, il pittore, lo scultore, il musicista, il regista, nelle loro 148 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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opere? Se raccontano una storia, ogni parola è insostituibile, ogni virgola, ogni aggettivo, ogni nesso sintattico deve essere curato alla perfezione, instancabilmente, perché il lettore possa immedesimarsi nelle suggestioni della pagina e vivere in essa un’illusione a volte più forte della stessa realtà. Caravaggio, con le segrete alchimie dei suoi colori dona carne viva alle figure, riesce a simulare nei suoi quadri la sostanza stessa della luce. Bernini scolpisce il marmo fino a renderlo animato, le dita di Apollo lasciano l’impronta nelle cosce tornite di Dafne che sembrano fremere in quella stretta. La musica quando è grande, anche in una semplice canzonetta, intesse una combinazione infallibile di note in grado di trasportarci in un mondo ideale. Il cinema consiste in una successione di mille, diecimila diverse inquadrature girate giorno dopo giorno, per settimane e mesi, con un’esattissima, attenta manipolazione di luci, di sfondi, di movimenti e atteggiamenti degli attori, ripresi con tanti differenti obiettivi capaci di impressionare l’ emulsione chimica della pellicola; una pura finzione, a cui assistiamo provando forti emozioni nei confronti di fantasmi, cioè immagini trasparenti proiettate su uno schermo e ingigantite attraverso una lente colpita dal raggio luminoso. Si tratta dunque di effetti, di semplice artificio ottenuto con infinita pazienza da artigiano. Tutta l’arte è illusionismo, ma quando il contenuto è eccelso è anche inarrivabile magia. In che cosa si distingue dunque da ciò che comunemente chiamiamo prodigio, dal momento che viviamo per sua virtù emozioni non meno forti di quando siamo esposti ad accadimenti reali? E l’amore, quando avvertiamo in maniera così irrinunciabile di non poter fare a meno di un’altra persona, non è anch’esso illusionismo? Mi pare sia proprio ciò che racconta Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate. E non lo è anche il sogno che ci visita durante la notte con tutti i caratteri della concretez149 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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za? E le formule rituali dei misteri religiosi in cosa differiscono dall’abracadabra del prestigiatore? Avviene qualcosa che la nostra esperienza non sa spiegare ed è questo stupore che ci lascia sospesi: come di fronte ai miracoli, alle guarigioni improvvise, ai momentanei stravolgimenti delle leggi naturali, a tutto ciò che la scienza ancora non chiarisce e che nel suo complesso non svelerà mai, essendo l’inconosciuto incomparabilmente più vasto del conoscibile. Crediamo a ciò che desideriamo, è vero. Ma in tale tensione si situa la forza dell’illusionismo che coincide, quando è eccelso, con la magia stessa della vita. “Il mio scopo è solo quello di intrattenervi – dichiara il mago; – è falso pensare che ciò che io vi mostro sia vero.” Proposizione che corrisponde esattamente al fine e alla gloria di ogni artista sincero. Rileggo ogni volta con commozione il biglietto che Fellini scrisse a Joseph Losey in risposta a un messaggio del collega letteralmente esaltato dalla visione de La dolce vita: “Caro Joseph, io non rivedo mai i miei film e quando un amico me ne parla perché ne ha visto uno di recente, ho sempre un soprassalto, come se avessero scoperto all’improvviso che non ho pagato le tasse, o come se venissi a sapere che il marito di una bella signora ha scoperto tutto e mi cerca. Tu invece mi dici di no, che le cose non sono mutate, che nessuno si è ancora accorto di niente, e mi abbracci festoso... ”. Persino Federico si sentiva un impostore con la paura di essere smascherato. Quando Fellini fu colpito da ictus cerebrale al Grand Hotel di Rimini, mi disse che a salvarlo era stato un angelo apparso nel sembiante di un bambino vestito da marinaretto. Esistono vari racconti discordanti di quei momenti cruciali; ma ciò che conta è che Fellini mi descrisse il bambino in ogni particolare: un calzettone su e uno giù, un cono gelato in mano, l’apparenza di uno 150 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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straniero, forse figlio di ricchi inglesi o tedeschi; supposizione del tutto verosimile per la tipologia dell’albergo. Mentre lui parlava, disteso nel suo letto d’ospedale, nella stanza numero 1 di Medicina Generale, rividi come in un lampo davanti agli occhi l’immagine del finale di 8 ½ e quel piccolo mazziere, in frak bianco, che guida in passerella la sfilata di tutti i personaggi del film sulle note dell’indimenticabile marcetta di Nino Rota. Non seppi mai chi fosse quel bambino, né ebbi curiosità di chiederne notizie. Ma un giorno incontrai una persona, una regista americana, che me ne parlò spontaneamente, quasi stesse aspettando di rivelarmi qualcosa. Mi disse che stava cercando una sistemazione a Roma non potendosi più appoggiare alla solita coppia di amici che aveva lasciato la città per sempre. “Conoscevi i Gemini? – Mi domandò accentando correttamente il cognome sulla prima ‘e’. – Erano i genitori del bambino di 8 ½.” E continuò il suo racconto. Per varie stagioni, nei periodi che trascorreva a Roma, era stata loro ospite in via Frattina. Erano benestanti e vivevano in un vastissimo appartamento, molto lussuoso, in cui ricevevano il bel mondo della Capitale. La coppia da quando s’era sposata aveva cercato inutilmente di avere un figlio; erano ricorsi a ogni sorta di cura, e quando quasi non ci speravano più, dopo nove anni di matrimonio, era venuto al mondo Marco, che amavano più di se stessi. Qualche anno dopo Fellini era in cerca del bambino a cui affidare il ruolo dell’innocente capobanda che apre il carosello finale del film, e appena vide Marco lo scelse. Il piccolo Gemini partecipò alle riprese con molto divertimento, covato dagli occhi amorevoli dei genitori. Finito però il film il bambino si ammalò, colpito da una grave forma di mielodisplasia del midollo spinale o forse da una leucemia a quel tempo ancora incurabile. I genitori spesero una fortuna per portarlo in ogni parte del mondo presso cliniche e specialisti di fama internazionale che potessero guarirlo. Nessuno ci riuscì, e Marco Gemini concluse 151 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la sua breve esistenza in un ospedale degli Stati Uniti. I coniugi in seguito a quel lutto cominciarono a disertare per periodi sempre più lunghi l’appartamento romano, fino ad abbandonarlo del tutto e a trasferirsi all’estero. Mi domando se il piccolo Gemini non fosse il bambino comparso dal nulla per prestare soccorso a Federico nella stanza 314315 del Grand Hotel. So bene che la cronaca fornisce altre spiegazioni, più plausibili e concrete, di quell’infausto episodio. E so per certo che quel 3 agosto 1993 non c’era nessun bambino registrato tra gli ospiti del famoso albergo riminese. Ma che volete, gli angeli non hanno corpo e non si lasciano neppure vedere da tutti.

Federico amava credere nei prodigi e bussava volentieri alla porta dell’occulto. Lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard era anche un chiromante e un astrologo molto dotato al punto da riuscire a predire con esattezza la data della propria morte. E aveva tracciato di suo pugno la carta del cielo di Fellini. Cosa vi aveva scorto? E che cosa cercava incessantemente Federico negli oroscopi, dai maghi, dai libri sapienziali, dagli oracoli, dai medium e dagli spiritisti che non smise mai di frequentare durante la sua esistenza? L’artista possedeva una natura religiosa nel significato originario del termine che indica una tensione mai soddisfatta verso il mistero, una richiesta di legame con l’assoluto. E la sua opera appare sempre più simile a una galassia che continua a espandersi e non cessa di dare frutti. Il Viaggio di G. Mastorna era stato per Federico un tentativo di scrutare la dimensione interdetta viaggiando nella zona sepolta della propria coscienza, un’incursione nell’aldilà dimostratasi nei fatti irrealizzabile e perniciosa. La malattia contratta durante la 152 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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preparazione del film l’aveva persuaso che quel progetto contenesse la sua morte. Ragion per cui l’aveva sempre rimandato, fin quando, quasi per sfida, nel 1993 aveva accettato di tradurlo in un fumetto disegnato da Milo Manara. E la maledizione sembrò trovare così il suo compimento; in capo all’anno il regista si spense. L’altrove aveva sempre esercitato su Federico un potente magnetismo. Anche nella dimensione puramente psichica. La voce della luna, il suo film testamento, si interroga insistentemente sul ‘dopo’, e intanto indaga su quei territori della ‘dissonanza’ che comunemente chiamiamo follia. Un ‘disordine’ appassionante a cui il regista aveva cercato di dar corpo fin dagli anni Cinquanta progettando di trarre una sceneggiatura da Le libere donne di Magliano di Mario Tobino, psichiatra e scrittore. I bozzetti preparatori disegnati allora (e pubblicati nel catalogo generale della mostra di Roma del 1995) sono andati non a caso ad arricchire il canovaccio del film su L’Inferno di Dante, uno dei quattro block notes a cui il regista non ebbe il tempo di mettere mano. Nella stagione di massimo splendore (successiva a La dolce vita e 8 ½) Fellini dovette affrontare la spiacevole esperienza di trovarsi al centro di lettere delatorie. Strettamente anonime. Erano dirette a Giulietta Masina e riferivano per filo e per segno, con profusione di particolari, alcune vicende che avvenivano sul set; oppure visite che egli riservava a una signora con cui era a quel tempo in stretta confidenza. Venivano specificati luoghi, circostanze e orari, informazioni a conoscenza di pochissime persone del suo entourage più ristretto. Federico non sapeva come difendersi, di chi sospettare, come riuscire a mettere fine a quella odiosa persecuzione che stava provocando una catena di infelicità. Pensò così di rivolgersi a una veggente, Magda Fabi, che possedeva potenti facoltà divinatorie soprattutto per mezzo della radioestesia. Lei organizzò una seduta a due, dispose il pendolino sulle missive aperte e chiese a Fellini di nominare le persone che 153 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a suo giudizio potevano essere al corrente dei suoi movimenti. Il pendolino rimase a lungo inerte, fino a quando risuonò un certo nome, e la catenella ebbe un soprassalto, la cuspide metallica iniziò a vibrare acquisendo forza a vista e oscillando sui vari reperti allineati sul tavolo. Federico non voleva crederci; si trattava di un giovane di Rimini che gli era stato raccomandato da amici comuni e che aveva inserito volentieri nel gruppo degli assistenti. Gli era simpatico, benché fosse instabile, ipersensibile e nevrotico come accade di frequente ai temperamenti artistici. Forse accecato da una eccessiva infatuazione per il Maestro non sopportava di non essere l’unico, il prediletto, e voleva vendicarsi. Non ne rivelerò qui l’identità, essendo la persona ormai scomparsa. Fellini lo convocò nel suo ufficio, gli parlò e l’altro crollò ammettendo la propria colpa. Fu allontanato e le lettere crudeli cessarono di arrivare. Conobbi personalmente l’ex assistente, qualche anno più tardi, durante la realizzazione dello special televisivo su Il Casanova. La curiosità di Fellini nei confronti dell’individuo umano era sempre superiore a ogni risentimento; me lo indicò tra i caratteristi da convocare per la sequenza girata al ristorante la Vecchia Pineta di Ostia, dove lo scenografo Danilo Donati aveva ricreato il manicomio descritto da Mario Tobino nel romanzo Per le antiche scale. Il personaggio vi compare in camice bianco, non si sa bene se paziente o infermiere, ad esporre il suo punto di vista sulla donna, l’argomento in discussione. Sfoggia un piglio sicuro, sprezzante, sarcastico, un frasario quasi scientifico, di chi ha imparato a duellare quotidianamente con le proprie aggressioni nevrotiche. Al suo solito Fellini lo conduceva per mano a interpretare se stesso. Nel frattempo il suo stato di salute mentale si era aggravato, degenerando in una sindrome maniaco depressiva. Quando gli telefonavamo per convocarlo secondo il piano delle riprese, e gli chiedevamo: “Come va, oggi?” “Ho combattuto tutto il giorno con la piovra! – replicava stremato. – È astuta, tentacolare, ma io sono più furbo di lei.” Davanti alla macchina 154 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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da presa conservava quel balenio trionfante negli occhi, di chi ha appena scampato un pericolo mortale. Federico che era un pittore barocco, caravaggesco, e costruiva l’espressività dei suoi racconti sulle facce, sulla perfetta sovrapposizione di caratteri somatici e personaggi, lo prescelse di nuovo per Prova d’orchestra, dove il ravveduto delatore è chiamato a interpretare la parte di un violinista isterico. Bravissimo, con un guizzo diabolico nello sguardo vuoto. In seguito scomparve dalla circolazione, credo che avesse lasciato la sua pensioncina di via del Babuino, per rientrare in famiglia, a Rimini. Un po’ come accade a Ivo Salvini (Roberto Benigni) ne La Voce della Luna quando, ormai svanito di testa, ritorna a casa della sorella, nella sua cameretta da bambino che è rimasta intatta, con il Pinocchio di legno in un angolo e il ritratto di Giacomo Leopardi appeso alla parete. La creatività di Fellini era un unico vortice in cui incontri ed esperienze vissute si trasformavano in incandescente materiale visivo. Ernst Bernhard, allievo di Carl Gustav Jung è la persona che Fellini considerò fondamentale per la propria evoluzione personale e artistica. Il loro rapporto però sembra non si fosse mai sistematizzato in un vero percorso analitico. Tra i quaderni raccolti sulle sedute con i propri pazienti che Bernhard conservava scrupolosamente, non si sono trovati quelli relativi a Fellini. Notizie indirette del regista emergono dagli appunti di Dora, la (seconda) moglie di Bernhard, anch’essa psicanalista, la quale trascriveva in privato il contenuto dei colloqui confidenziali scambiati la sera a letto con il marito, prima di addormentarsi. Nello studio di Corso d’Italia Fellini teneva la fotografia di Bernhard sulla parete alle spalle della scrivania, come un nume tutelare; e sosteneva di essere entrato in contatto con lui per caso: aveva trovato nella tasca della giacca un biglietto con sopra scritto un numero di telefono e credendo appartenesse a una certa amabile signora, aveva chiamato. All’altro capo del filo gli rispose lo 155 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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psicoterapeuta che lo invitò ad andarlo a trovare. Le coincidenze si dispongono da subito secondo la teoria junghiana della ‘sincronicità’. Bernhard, medico pediatra, era stato allievo di Jung quando già nel 1933 era riparato da Berlino in Svizzera e aveva discusso con il Maestro la sua tesi di diploma in psicochirologia, cioè nella lettura della mano. Specializzandosi in seguito anche in astrologia e nello studio di I Ching, il libro cinese delle mutazioni, discipline da lui introdotte e applicate nell’analisi psicologica dei suoi pazienti. In via Gregoriana dove Ernst abitava dal 1940 con Dora, aveva sede anche la Società Teosofica, e a Roma nel dopoguerra i cosiddetti “tre viennesi”, gli astrologi Marianna Leibl, Lucia Alberti (cittadina italiana per matrimonio) e Francesco Waldner, avevano contribuito a diffondere l’interesse per il magico e l’astrologia. “Fra i professionisti dell’occulto che lavoravano a quel tempo nella Capitale – scrive la studiosa Luciana Marinangeli – ci sono anche Magda Fabi, una veggente astrologa a cui si rivolgono sia Dora che i suoi pazienti, e Jacinto Yaria, un occultista pittore ironico e ambiguo che a Trastevere, in uno studio molto maison spiritiste, tra velluti, gatti e amuleti pratica con l’astrologia, ma soprattutto con i suoi vecchissimi tarocchi…” Fellini a quel tempo si recava spesso in via Monti della Farina, presso un centro di macrobiotica fondato dalla marchesa Parvolo, ad approfondire le proprie nozioni astrologiche. E fu lui che mi avviò da Vittoria Toesca, la quale era stata prima paziente e poi allieva di Bernhard, per interrogare gli astri e cercare di comprendere meglio il disegno della mia vita; in linea con quella medesima concezione che, attraverso Bernhard, si era rivelata così salutare per lui. “L’idea di equilibrare accettando gli opposti e integrandoli anziché metterli in opposizione, è un’idea salvifica, è un modo di concepire la sanità.” Chiosa ancora la Marinangeli. Non è difficile sulla scorta di questi concetti ripensare all’alle156 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gro carosello finale di 8 ½ con tutti i personaggi del film in parata sulle note della marcetta di Nino Rota. Fellini iniziò le sedute con Bernhard nel 1961 (quindi all’indomani della Dolce Vita), quando si trovava in uno stato mentale depresso, “soprattutto attirato dalla fama del maestro tedesco come conoscitore di cose occulte”. Era un visitatore assiduo, molto costante, sia pure con orari sempre diversi. “Bernhard – diceva – mi ha illuminato e mi ha dato una nuova visione del mondo che mi circondava.” Bernhard pone al centro della sua ricerca una religiosità piena di fiducia, ed è questo concetto che Fellini assimila e condivide nel profondo, arrivando alla convinzione che “le difficoltà possono rivelarsi misteriose espressioni di amicizia, anche provvidenziali.” All’astrologia lo studioso tedesco toglie ogni senso di fatalità immutabile a favore di un destino in trasformazione. L’oroscopo non è solo una descrizione del carattere, ma anche del compito esistenziale dell’individuo. C’è il destino come base costituzionale, con il condizionamento psicologico e sociale, e c’è la propria unicità, che spesso è disobbedienza. L’oroscopo oltre che la radiografia del condizionamento psicologico ricevuto, è la stazione d’inizio del viaggio per modificare il passato, per realizzare la propria unicità. “L’oroscopo natale ti dà una situazione di nascita, di partenza, che poi si trasforma. Ti dà i problemi di base che dovrai elaborare per tutta la vita: le tue mancanze, le tue facilità, e il segno dice come elaborarle. Tutto è elaborabile.” Sembra di avvertire una perfetta consonanza con la personalità stessa dell’artista riminese che dal maestro ha accolto e rafforzato il senso della fluidità, del mobile, del trasmutante. E cerca di trasferirlo nei suoi film, di trasmetterlo alle persone che lo frequentano. Bernhard gli aveva regalato la vecchia edizione storica di I Ching e Federico la consultava frequentemente ricavando gli esa157 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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grammi dalle monetine e interpretandone le risposte oracolari. Quando Ernst si spense, nel 1965, il regista continuò a visitare la moglie Dora, occasionalmente, in una decina di sedute che si esaurirono nel 1967. Tramite un calcolo utilizzato dagli astrologi orientali per stabilire la longevità, Bernhard conosceva la data della propria morte già da molti anni, con un errore di soli otto giorni. Chissà cosa aveva visto nel ‘cielo’ di Federico. Chissà cosa lo stesso Fellini vi scorse se, all’ospedale di Ferrara non volle più prestare ascolto ai medici, né trarre conforto dagli incoraggiamenti degli amici. “La fortuna è girata.” Si limitava a ripetere, come se sapesse con certezza che il suo tempo era scaduto. Durante la preparazione del Satyricon – come racconta nel suo Block-notes di un regista, – ricorse più volte alle doti paranormali di Genius, sensitivo e radioestesista, reclutato per le incursioni notturne sull’Appia Antica. Genius era un maturo gay stravagante, indossava giacche sgargianti, pantaloni attillati in stile caprese, cappelli vistosi, nastri, coccarde, scarpette, e agitava nell’aria dita inanellate. Vantava virtù medianiche, la facoltà di entrare in contatto con lo spirito dei trapassati, di comunicare con loro attraverso lo stato di trance. Lo strumento di cui si avvaleva era il pendolino, stabiliva con quello, quasi fosse la forcella del rabdomante, gli accumuli sotterranei di energia metapsichica, captando voci dai sepolcri millenari. Fellini lo portava con sé al Colosseo, negli scavi della Domus Aurea, dei mercati traianei dei fori imperiali, sulla Via Sacra, e naturalmente fra le erme e le lapidi dell’Appia Antica, la vasta necropoli archeologica che si estende attorno al Mausoleo di Cecilia Metella. Quando calava la notte un corteo di auto si muoveva in silenzio fuori porta; della spedizione facevano parte Bernardino Zapponi e lo stesso Luca Canali, il latinista associato all’impresa come consulente, il quale scrisse i dialoghi in latino del film (poi 158 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sacrificati alle legittime esigenze commerciali della casa distributrice). Era una piccola schiera che si muoveva sui passi di Genius, nelle notti di luna. Fellini assisteva ai suoi deliri, ai suoi fremiti, ascoltava dalla sua bocca i suoni spesso inarticolati che affioravano dagli inferi, ma anche frasi e parole che similmente a un fenomeno di glossolalia il sensitivo emetteva inconsapevolmente, senza capirne il significato. Sembra che a volte oltre agli sproloqui in latino pronunciasse anche espressioni in greco antico. Si materializzavano le ombre evocate da contatti extrasensoriali: il buio della notte si increspava di presenze, una donna, un bambino, un guerriero. Non saprei dire quali di questi messaggi siano andati a far parte del racconto; da un’analisi della sceneggiatura è difficile estrapolarli. Ma che essi siano rimasti intrecciati nel misterioso tessuto del film, è a mio parere innegabile. Non va dimenticato che Federico era un essere di confine, abituato a destreggiarsi sul limitare di una esistenza irradiata dall’inconscio; appena una “sottile parete di carta velina” lo separava dal mondo sconosciuto. Pertanto veniva raggiunto, e spesso disturbato, da tutto ciò che agiva e premeva al di là di quella impalpabile barriera. Era attratto da qualsiasi fenomeno metapsichico, basta pensare al lungo e intenso sodalizio con il mago torinese Gustavo Rol, forse il più dotato e portentoso dei sensitivi apparsi nella nostra epoca; e nel fluire delle immagini, in particolari sequenze, agiva la vena sotterranea delle rivelazioni ultrafaniche.

Quanti film esistono nella nostra cinematografia che dopo decenni mantengano intatta una tale vitalità da sembrare realizzati appena ieri? Satyricon di Fellini rientra nell’esigua categoria, e forse ne è il campione. Fu girato dal 9 novembre 1968 a fine maggio del 1969 e presentato il 4 settembre alla Mostra di Ve159 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nezia dello stesso anno, dove ricevette stizzosa attenzione dalla critica di sinistra, più propensa a incensare Lo straniero, un’opera debole e incolore di Luchino Visconti tratta dal celebre romanzo di Albert Camus. Federico, neppure cinquantenne, proveniva da un incidente professionale e da una grave crisi personale che lo avevano indotto a cambiare pelle. I continui rinvii nella realizzazione di Il viaggio di G. Mastorna avevano provocato una serie di contraccolpi legali: il produttore Dino De Laurentiis che aveva già investito più di cinquecento milioni di allora per la preparazione e le costruzioni avviate presso i propri studi sulla Pontina, aveva ottenuto il sequestro giudiziario della villa di Fellini a Fregene; oltre a una sorta di ipoteca sui futuri emolumenti del regista fino all’estinzione del debito. Fu un altro produttore, Alberto Grimaldi, a trarlo dai guai; rilevò il contratto da De Laurentiis (il quale al momento di prendere l’assegno sembra fosse caduto in ginocchio esclamando: “San Gennaro esiste, e questa ne è la prova!”) e lasciò libero il regista di sostituire il progetto con un altro meno rischioso. In seguito Fellini raccontò che durante la convalescenza a Manziana gli era capitato tra le mani il Satyricon di Petronio Arbitro, un romanzo del tempo di Nerone arrivato a noi soltanto in un paio di capitoli lacunosi: “Quella faccenda dei frammenti mi affascinava davvero. Mi colpiva che la polvere dei secoli avesse conservato i battiti di un cuore ormai spento. Mi fece pensare alle colonne, alle teste, agli occhi mancanti, ai nasi spezzati, a tutta la scenografia cimiteriale dell’Appia Antica. Sparsi frammenti, brandelli riaffioranti di quello che poteva essere considerato un sogno, in gran parte rimosso e dimenticato. Mi parve di essere sedotto dall’occasione di ricostruire questo sogno, la sua trasparenza enigmatica, la sua chiarezza indecifrabile.” Ne venne fuori un’opera memorabile, in cui la morbosa avventura della morte, ormai superata, si trasfigura nell’affresco visio160 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nario di un’epoca tanto distante da noi da risultare comunque un viaggio nella ‘sconosciutezza’, una sorta di racconto fantascientifico rivolto al passato. Ogni trita convenzione adottata dall’intera produzione filmica precedente, a cominciare dai disinvolti peplum movies hollywoodiani, venne travolta; non più centurioni al dopobarba e scenografie di maniera, ma un universo reinventato nella sua feroce primitività, scandagliato attraverso una società arcaica in cui non era ancora penetrata la luce del cristianesimo e la vita umana non aveva alcun valore sacro. Si viveva alla fine degli anni Sessanta la stagione degli hippy, i figli dei fiori, e della prima pacifica rivolta giovanile che da Berkeley, in California, si stava tumultuosamente espandendo anche all’Europa e alle nostre università; si apriva il periodo della contestazione studentesca contro ogni autorità costituita, in nome di una nuova libertà esistenziale permeata di sesso e trasgressione, di musica rock e di cannabis. Quando il film fu presentato al Madison Square Garden di New York, migliaia di giovani accorsero ad assistervi come al messaggio di un guru, ammirati e sedotti dalla profezia di un artista italiano che, similmente ai pittori del Cinquecento, elevava al sublime il messaggio delle immagini prefigurando un mondo nella sua magmatica trasformazione. Una grandiosa opera d’arte. Mi recai a Roma a incontrare Fellini per la mia tesi di laurea. L’appuntamento era per mezzogiorno all’Hotel Plaza, in via del Corso, dove in quei mesi il regista aveva stabilito il proprio quartier generale. Era uno dei capricci di Federico quello di cambiare ubicazione dell’ufficio a ogni nuovo progetto. Un rito propiziatorio che coincideva anche con la sua affettuosa curiosità per Roma, la prospettiva di raggiungere un posto non usuale. Entrai nell’albergo di lusso, come in provincia non esistevano: tappeti, specchi, vetri molati, imponenti abat-jours, lampadari giganteschi, scintillanti ripiani dei banconi, personale in marsina nera 161 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come nei film. E nell’atrio, alla base dello scalone sfarzoso che saliva ai piani superiori, l’effigie marmorea, a grandezza naturale, di un leone con la criniera e le fauci aperte. Una sequenza già vista, un’esperienza vissuta: era la medesima scenografia, replicata in ogni dettaglio da Piero Gherardi in 8 ½ ; la sequenza in cui il produttore (interpretato da Guido Alberti) arriva in compagnia dell’attricetta di turno e Mastroianni/Guido Anselmi, regista geniale senza ispirazione, si inginocchia ossequioso e sfottente come davanti a un sultano. D’incanto ero già entrato a far parte del vagheggiato mondo di celluloide! Mi accolse ondeggiando mollemente i fianchi la segretaria di edizione Norma Giacchero, mi scortò maliosa nelle stanze interne, nel sancta sanctorum dove incontrai per la prima volta, di persona, il Mito vivente. Fui invitato a pranzo, lautamente nutrito di cappelletti in brodo, bollito e purè, come andava fatto con un ragazzo (quasi) romagnolo, da rifocillare secondo la migliore tradizione del carro dei comici. Dopo pranzo Fellini si intrattenne un po’ con me, da solo. Parlammo del suo film, forse avevo bevuto troppo Lambrusco, mi parve doveroso mettermi ingenuamente in cattedra, assumere un tono severo. Gli ponevo delle obiezioni, come per esempio di essersi rifugiato nella storia lontana, addirittura nella latinità, in un momento in cui il mondo stesso stava bruciando di febbre politica. Dall’America all’Europa, da Berkeley alla Sorbonne gli studenti stavano occupando le università, la contestazione divampava come un incendio, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam si succedevano senza posa, i nuovi filosofi della sinistra post hegeliana, la cosiddetta scuola di Francoforte, teorizzavano l’uomo a una dimensione (Marcuse), ponevano sotto accusa i sistemi capitalistici che soffocavano le coscienze civili creando falsi bisogni, affogando nel consumismo ogni vagito di ribellione. E l’America perseguendo politiche imperialistiche di assoggettamento verso i paesi non allineati, applicava la sua strategia di espansione dei mercati a 162 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vantaggio della propria industria, imponendo nel mondo l’idolatria delle merci. Non so se utilizzai queste frasi e queste parole, mi auguro di no. Ero già molto innamorato del cinema di Fellini e quindi i miei toni non potevano certo suonare così polemici. Cercavo di capire perché un autore sempre così poeticamente in anticipo sui mutamenti sociali – bastava pensare alla Dolce Vita – questa volta rivolgesse lo sguardo altrove, anzi volutamente lo rimuovesse da ciò che stava accadendo intorno a noi, dall’epicentro di una contestazione che a noi ragazzi appariva ‘universale’, per rievocare sia pure ad altezze sublimi, mai prima raggiunte, il fantasma di un mondo scomparso. Federico mi stette a sentire, lui così generalmente impaziente di ogni interlocutore petulante che utilizzasse anche una sola parola in più del necessario. Non si mostrò infastidito come regolarmente accadeva con chi gli faceva perdere tempo; usò nel rispondere un tono garbato, amichevole e, mi parve, innocente; come chi venga messo ingiustamente sotto accusa, e trova doveroso offrire una giustificazione: “Ma sai – si districò – nel mondo ognuno fa quello di cui è capace. Io so fare il regista, raccontare storie per mezzo delle immagini e cerco di farlo come meglio posso. Del resto sono convinto che nella vita l’unico vero impegno consista nel fare bene ciò che si sa fare.” Non era affatto una discolpa la sua, ma un fraterno insegnamento. Mi rispondeva con gli argomenti del mestiere, per farmi capire nel suo stile mai dottrinario, mai saccente quale sia l’unica, vera collocazione dell’artista. Mi invitava con il migliore understatement a non sovrapporre l’ideologia all’arte, a non intorbidire con vane parole, con inutili sovrastrutture, quello strumento delicato che abbiamo, o meglio che qualcuno possiede, per dono di natura (o forse della Provvidenza) e che al contrario andrebbe protetto da tutte le insidie che ci vengono tese continuamente, 163 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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preservato dagli attentati di chi vorrebbe strumentalizzarlo a proprio vantaggio. Federico mi parlò come ci si rivolge ad un adulto – che non ero, ma presto sarei diventato al suo fianco – non entrò in contraddittorio, non mi ‘rimise a posto’ come pure avrebbe avuto la ragione e l’autorità per fare; piuttosto mi condusse delicatamente nel suo recinto, curioso di conoscere ciò che avevo visto, che ero riuscito a distinguere con i miei occhi, in quel film che mi aveva tanto affascinato. Poco interessato, come è sempre stato, ai discorsi generici di chi pretenderebbe di leggere l’opera attraverso la feritoia del preconcetto, e imporre all’autore un punto di vista che non gli appartiene.

La lavorazione di Satyricon, durata più di sei mesi, è densa di aneddoti. Esiste anche un lungo video di backstage realizzato da Gideon Bachman Ciao, Federico! che ne registra le fasi e documenta i passaggi. Punzecchiato più che intervistato dal filmaker tedesco da cui appare visibilmente infastidito, Fellini parla. Malvolentieri, ma parla; e sono discorsi di poetica, a cui raramente si è lasciato andare in precedenza. Le linee del progetto appaiono chiare e soprattutto si percepisce il meccanismo della poderosa macchina fantastica dell’autore, il quale sta inventando per noi un universo inesistente. Indimostrabile. Che pure esiste ed è il suo. Fra le molte visite al set, assistiamo anche a quella di Roman Polansky con la sua bellissima moglie Sharon Tate, che ha appena sposato e che tornata in America incontrerà la morte, incinta al nono mese, per mano di una setta satanica dominata da Charles Manson. Tra le storielle curiose che punteggiano il lungo periodo di riprese, famosa è quella del capogruppo napoletano. Federico lo 164 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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incarica di procurargli un albino di 8/10 anni per interpretare il personaggio dell’Ermafrodita. Il mediatore parte a spron battuto, come suo solito; ma passano i giorni, le settimane, e di lui non si ha più notizia. Inutili le telefonate degli assistenti, non si fa trovare, oppure prende scuse, rimanda, procrastina. Alla fine il regista, stizzito, lo mette con le spalle al muro, lo convoca d’autorità nel suo ufficio. Quello si presenta, mortificato, cade in ginocchio, chiede clemenza: “Maestro, mi dovete credere, ve lo giuro sui figli miei, io l’ho cercato dappertutto, in ogni caserma di Napoli e anche della Campania, ma un alpino di otto anni non c’è da nessuna parte, fatemi fede, non esiste, sennò ve l’avrei portato per le orecchie!” Molteplici i colpi di genio del reparto scenografico (di cui faceva parte il giovane Dante Ferretti, oggi a più riprese Premio Oscar); primo tra tutti il grande ritratto musivo di Trimalcione che si ammira nella sequenza del banchetto. Fellini vuole ad ogni costo che il faccione di Mario Romagnoli (il proprietario della trattoria Il Moro che egli ha chiamato per interpretare l’antico romano arricchito), campeggi vistosamente a mosaico sulla parete. E nel piano di lavorazione le riprese di quella scena sono previste per il giorno seguente. Non esiste laboratorio specializzato in grado di far fronte a una simile richiesta in così poco tempo. I tecnici degli effetti speciali sarebbero in grado di realizzarlo, ma dove reperire il materiale, la gran quantità di tessere necessarie? Danilo Donati, il geniale costumista promosso anche scenografo sul campo, concepisce un’idea ardita che l’organizzatore generale, il più allarmato dell’intera troupe, sottoscrive senza fiatare. Si telefona alla Perfetti di Milano e viene ordinato un intero autotreno di caramelle Charms, di tutti i sapori e di tutti i colori disponibili. Le caramelle, scartate dal classico pacchetto a parallelepipedo, hanno la misura giusta ed anche la provvidenziale trasparenza ‘fotografica’ delle tessere invetriate. Il reparto di scenografia lavora tutta la notte a scartare, selezionare e 165 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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incollare i quadratini zuccherosi e la mattina successiva il ritratto è pronto: Trimalcione, con le sue guance cascanti e le borse sotto gli occhi, appare meravigliosamente raffigurato nella sala dei triclini. Un mosaico luccicante, bello per quanto è vero. Satyricon è il viaggio nella morte che Fellini non è riuscito a compiere con il progetto del Mastorna. E nello stesso tempo è un viaggio nella vita, anzi nella Dolce Vita spostata indietro nel tempo, all’epoca di Petronio e di Nerone. Durante quel primo colloquio al Plaza, Federico mi aveva anche avvertito: “Io faccio sempre lo stesso film”. Invitandomi a osservare oltre le apparenze, mi insegnò a inquadrare le sue storie in una prospettiva diversa, e a considerare con più attenzione come personaggi, argomenti, situazioni si riproponessero con caratteristiche simile quasi a ogni pellicola. Cambiavano la veste esterna, l’ambientazione, l’epoca, il movente, la suggestione; ma il cuore del racconto non mutava di molto. Mi aiutò a capire che un artista possiede un suo universo e quello percorre; il pittore ripete sempre un unico quadro e il musicista la medesima musica. È destino comune a gran parte dei creativi identificati totalmente con il proprio lavoro sviluppare instancabilmente un segno, un modo, uno stile, onorare la funzione che gli è stata assegnata come una livrea. Illuminante è il confronto con La dolce vita per la stupefacente concatenazione di anelli del tutto assonanti e rispondenti! Di entrambi i film è protagonista un intellettuale, lì un poeta cortigiano, Eumolpo (Salvo Randone), qui un giornalista mondano, Marcello Rubini (Mastroianni); la suburra era via Veneto. Ritroviamo la festa, il suicidio dell’intellettuale raffinato, l’amore mercenario e quello innocente, la tenerezza omosessuale, la rappresentazione teatrale, e l’approccio trepidante con il sacro, il miracolo, l’orgia. Fino alla conclusione delle due storie di fronte al mare, la spiaggia all’alba, il mostro marino, un organismo in putrefazione: lì un 166 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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pesce luna dall’occhio vitreo, qui il cadavere bendato del poeta, lasciato in pasto per eredità a un ruminante cenacolo. Lì Mastroianni inginocchiato sulla sabbia con le mani giunte come in una benedizione, o in un battesimo, qui il rito antropofago dell’eucaristia. E poi di nuovo l’allontanamento, la partenza, la diaspora verso la vita che continua e trascina con sé. Il modello si ripete uguale come la traccia di un unico palinsesto: 8 ½, Le notti di Cabiria, Il bidone, La strada, ma anche Roma, Il Casanova, La città delle donne, e per certi aspetti persino La Voce della Luna, che è la summa di tutti gli altri. Satyricon è il film che supera la morte traducendola in vita, sostituendo alla sconosciutezza del buio impenetrabile dell’Ade, quella non meno misteriosa e affascinante dell’esistenza che ci circonda ogni giorno, anche sotto la luce diurna. Che tuttavia non sarà mai il sole allo zenit che cancella le ombre, ma l’inclinazione obliqua che le produce, rendendole proiezioni dilatate, forme riconoscibili del nostro esistere corporeo.

“Quando dico: “clown”, penso all’augusto. Le due figure sono infatti il clown bianco e l’augusto. Il primo incarna l’eleganza, la grazia, l’armonia, l’intelligenza, la lucidità, che si propongono moralisticamente come le qualità ideali, le uniche, di una divinità indiscutibile. Ecco, quindi, che appare subito l’aspetto negativo della faccenda: perché il clown bianco, in questo modo, diventa la Mamma, il Papà, il Maestro, l’Artista, il Bello, insomma “quello che si deve fare”. Allora l’augusto, che subirebbe il fascino di queste perfezioni se non fossero ostentate con tanto rigore, si rivolta. Egli vede che le “paillettes” sono splendenti; però la spocchia con cui esse si propongono le rende irraggiungibili. L’augusto è il bambino che si caca sotto, si ribella a una simile perfezione; si ubriaca, si rotola per terra e anima, perciò, una contestazione per167 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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petua. Insomma essi sono due atteggiamenti psicologici dell’uomo: la spinta verso l’alto e la spinta verso il basso, divise, separate. Il film finisce così: le due figure si vengono incontro e se ne vanno insieme. Perché commuove tanto una situazione simile? Perché le due figure incarnano un mito che è in fondo a ciascuno di noi: la riconciliazione dei contrari, l’unicità dell’essere.” Il circo, prima ancora di essere l’epicentro, il nucleo fondante di ogni spettacolo, è soprattutto per Federico una grande metafora dell’esistenza stessa, dove appunto le donne sono delle irraggiungibili trapeziste, i succubi diventano pagliacci (l’Augusto), i prepotenti ostentano l’altezzosità dei Clown Bianchi, gli eroi vestono gli alamari dei domatori, e la sconosciutezza è rappresentata dall’esotismo delle fiere, minacciose e affascinanti. Uno strepitoso campionario riunito in un’unica concentrazione sotto l’enorme tendone, lo chapiteau, che diventa il ventre palpitante della condizione umana; e chi ha la capacità immaginifica e muscolare di dominarne la messa in scena, diventa a ragione, ai nostri occhi, il direttore stesso del circo. Ma Federico non è solo un direttore di circo: è anche il bambino che vorrebbe esserlo, innamorato dei pagliacci e delle acrobate con le calze a rete; ed è quello struggimento che ci trasferisce e con cui ci incanta. Ciò che soprattutto lo affascina è la diversità, che trova legittimo domicilio dentro quel ventre molle. Fellini era irretito da ogni diversità, che apprezzava come una inestimabile ricchezza, da riguardare con riconoscente curiosità: non certo qualcosa da cui difendersi, a cui opporsi in nome delle proprie certezze, della propria ‘normalità’. Da ragazzo, arrivando a Roma a diciannove anni, aveva voluto addirittura sperimentare la bohème – pur senza averne una reale necessità – adattandosi a dormire sulle panchine di Villa Borghese simile a un clochard; proprio per assecondare, io credo, la sua vena creativa, cioè mettersi ‘dentro quei panni’, così come era 168 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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accaduto a Chaplin. I suo raccontini giovanili sul “Marc’Aurelio” hanno spesso per protagonisti creature semplici, povere, umilissime, che vivono di briciole e di fantasie. Verso di essi agiva un’immediata simpatia, quasi egli già percepisse, sia pure in maniera ancora imprecisa, che era da quel genere di umanità sguarnita, indifesa, esclusa, che poteva trarre le energie elementari senza le quali l’artista non riuscirebbe ad esprimersi. Per creare, per parlare agli altri, è necessario mantenere un contatto con la propria identità più autentica, la zona meno adulterata, meno manipolata e compromessa del proprio essere. Il fool, il semplice, lo scemo, lo straccione, non manca mai in nessuno dei suoi film. È una specie di empatia, una predisposizione, verso i non integrati, i non garantiti, i dropouts. Tutto il cinema di Fellini ne è intriso, a cominciare da La strada. Anche i suoi set erano spesso il rifugio prediletto di un’umanità negletta e degradata; persone che il regista amava portarsi dietro film dopo film, inventando per loro ruoli del tutto pretestuosi pur di farli remunerare dalla produzione. La ‘diversità’ è una categoria di cui Fellini era letteralmente invaghito. Nei suoi film appaiono per la prima volta figure che prima non esistevano nell’immaginario cinematografico. Per primo Federico ha scritturato apertamente gli omosessuali, e ne La dolce vita ha messo in scena dei travestiti quando ancora in Italia non si sapeva letteralmente cosa fossero. La sua fantasia – ma anche la sua palpitante umanità – era di istinto dalla parte dei diversi, dei deboli, degli sconfitti; non gli interessavano certo i generali con i galloni e le medaglie, i manichini, i rodomonti; era sempre attratto da chi non indossava un’uniforme, una divisa, convinto che tutto ciò che maschera e nasconde è nemico dell’esistenza perché sopprime, inibisce, distorce la nostra più autentica capacità di espressione. Il suo equilibrismo, anche nella vita, consisteva nel talento di convivere contemporaneamente sui due fronti. 169 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Mi raccontava Rinaldo Geleng, suo amico fedelissimo fin dai giorni della bohème, che Federico vagheggiava quella condizione da tramp, da vagabondo, e nello stesso tempo esibiva delle generosità da principe regnante. Poteva capitare per esempio che la notte, tornando a casa, prendessero una carrozzella, e non avendo in tasca i soldi per pagare la corsa saltavano giù in quei tratti di strada in cui le ruote sobbalzando sui sampietrini facevano un tale frastuono che il vetturino non riusciva ad accorgersene. Allo stesso tempo, però, pareggiando i conti a modo suo, succedeva che Federico quando aveva un po’ di soldi in tasca, si accostasse al primo fiaccheraio che gli capitava a tiro e gli mettesse nelle mani tutto ciò che possedeva. L’aggettivo fellinesque riguarda soprattutto creature prive di collocazione, come Gelsomina, Cabiria, Giudizio, fino ai due clochards che danzano nella sequenza conclusiva di La Voce della Luna. L’invenzione affettuosa e stupita di quei personaggi che stanno a cavallo tra la vita e la proiezione onirica e che meglio di ogni altro racchiudono il senso profondo della sua poetica.

Fellini riconduce al circo la sua vocazione nel cinema. Era un bambino, a Rimini, quando un circo si era accampato sotto casa sua: la mattina aveva aperto la finestra e aveva scorto davanti a sé lo chapiteau, uno sbarco di marziani: esattamente come racconta nel film I clowns. “Anche se non so niente, io so tutto sul circo, dei suoi ripostigli, delle luci, degli odori e anche degli aspetti della sua vita più segreta. Lo so, l’ho sempre saputo. Fin dalla prima volta, si è manifestata subito in me una traumatizzante, totale adesione a quel frastuono, a quelle musiche assordanti, a quelle apparizioni inquietanti, a quelle minacce di morte. (passim) Questa ebbrezza, questa commozione, questa esaltazione, questo immediato sen170 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tirmi a casa mia io l’ho provato subito, la prima volta che sono entrato sotto la tenda di un circo; e non era nemmeno l’ora dello spettacolo, con il chiasso della gente che si affolla e la musica che riempie l’aria di fragore assordante; no, era la mattina presto e sotto il tendone dorato che respirava appena come una gran panciona calda, accogliente, non c’era nessuno. Si sentiva un gran silenzio, incantato, da lontano la voce di una donna che cantava sbattendo i panni e, solo, il nitrito di un cavallo, da qualche parte. Sono rimasto rapito, sospeso, come un astronauta abbandonato sulla luna che ritrova la sua astronave. E quella sera stessa, quando seduto sulle ginocchia di mio padre, tra le luci abbaglianti, il clangore delle trombe, i ruggiti, le urla, l’uragano sussultante degli applausi, ho visto lo spettacolo, ne sono stato folgorato; come se di colpo avessi conosciuto qualcosa che mi apparteneva da sempre e che era anche il mio futuro, il mio lavoro, la mia vita. I clown aberranti, grotteschi, ciabattoni, straccioni, nella loro totale irrazionalità, nella loro violenza, nei capricci abnormi, mi sono apparsi come gli ambasciatori ubriachi e deliranti di una vocazione senza scampo, un’anticipazione, una profezia: l’annunciazione fatta a Federico.” L’imprinting arriva dunque “senza scampo”, irrefutabile. Durante la notte nello sterrato davanti casa era stato montato l’enorme tendone, una misteriosa mongolfiera. Il bambino esce come magnetizzato dalla visione e si accosta a quel mondo di alieni. I clown lo terrorizzano, gli fanno paura con i loro volti dipinti, le espressioni stravolte, i movimenti di insolita agilità, da fiere, le reazioni sgangherate. Eppure riconosce in quella casa dei clown il recinto magico dello spettacolo; avverte che sotto la cupola di spessa tela si annida un morbo contagioso che condizionerà la sua futura esistenza. Nella poetica dell’artista il circo ritorna molto spesso, a cominciare con La strada. E arriva il momento in cui egli decide 171 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di tramutarlo nel tema di un suo film. Prende l’avvio al solito con un’inchiesta, affidata a Alain Remi, il grande storico circense francese; e comincia a frequentare di persona i circhi che si accampano a Roma. Soprattutto il Circo Orfei. Nandino, Rinaldo e Liana diventano suoi amici, spessissimo il loro accampamento è la mèta gioiosa, fiabesca, eccitante della serata. Federico deciderà persino di festeggiare al circo una notte di Capodanno, sotto lo chapiteau, come un girovago. Al termine dello spettacolo erano state imbandite di tutto punto le tavole, con la stessa rapidità con cui i funamboli si alternano nei numeri di scena. In brevissimo tempo erano arrivati i tortellini fumanti nelle grandi zuppiere. Abbiamo cenato mentre intorno ancora aleggiava l’afrore delle belve feroci. Il tema che più incuriosiva Fellini era la distinzione tra il Clown Bianco e l’Augusto. Il bambino ride con l’Augusto, non con il Clown Bianco, che pure all’apparenza è il personaggio più importante, il più autorevole; in realtà il suo è un ruolo di spalla all’Augusto. Il Clown Bianco si presenta in scena abbigliato in maniera sontuosa, è altezzoso, vanitosissimo, spesso si cuce da solo l’abito o addirittura arriva a rivolgersi a grandissimi sarti. Non bada a spese pur di impersonare fattezze da dignitario regale. L’Augusto invece è vestito come un clochard, col naso rosso da avvinazzato e i capelli arruffati; subendo prepotenze e facendo capitomboli si fa beffe dell’altro, ne mette in ridicolo il dispotismo, la perfidia, spesso la cattiveria, e strappa le risate del pubblico che si sente vendicato, risarcito. Federico si divertiva a teorizzare una contrapposizione universale tra Clown Bianco e Augusto, organizzando liste di persone che venivano assegnate all’una o all’altra categoria: Michelangelo Antonioni apparteneva ai Clown Bianchi, Albert Einstein agli Augusti. Ben consapevole però che nella vita ognuno di noi è chiamato a rivestire entrambi i ruoli a seconda delle posizioni che occupa. Di se stesso diceva: 172 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“Io sono l’Augusto del mio Clown Bianco”. Una delle sue sentenze preferite era presa a prestito dall’antico filosofo cinese Lao Tse: “Quando concepisci un’idea ridici sopra”. Nelle persone cercava autenticità, altrimenti perdeva presto ogni interesse. Magie, magie. Quando il regista scomparve e venne allestita la camera ardente nel Teatro 5 di Cinecittà, il direttore della fotografia de I clowns Dario di Palma mi rivelò trattenendo a stento la commozione che in quella precisa zona dello studio in cui era stato sistemato il feretro, con Federico avevano girato il funerale del clown. È la sequenza finale del film, il carosello vertiginoso, irrefrenabile, di una carovana di pagliacci che insegue a perdifiato la bara traballante del migliore tra loro. Un’ubriacante parodia del dolore inscenata dietro un carro funebre tirato da altri buffoni bardati da cavalli. Un profetico congedo.

In uno scatto del fotografo Marcello Geppetti, Federico è più o meno nell’età in cui l’ho incontrato e ho iniziato a frequentarlo, alla fine degli anni Sessanta. La fotografia risale al 4 agosto 1967 e la scena di svolge in via Ludovisi, l’elegante traversa di via Veneto. Le auto parcheggiate di muso o di coda contro il marciapiede sono quasi tutte Fiat Seicento e Cinquecento, e l’unico cartello stradale in vista è un segnale di precedenza del nuovo codice della strada, un rombo giallo dentro una cornice bianca. La stagione è quella estiva, rivelata dal tipico gesto di Fellini di gettarsi la giacca su una spalla, con stile disinvolto ma non trasandato, al contrario inappuntabile come tutto l’abbigliamento: camicia bianca con gemelli ai polsi, cravatta chiusa al collo, abito intero del genere che gradiva indossare d’estate, blu chiaro di seta leggera, pantaloni morbidamente appoggiati sui mocassini. Federico anche in questo suo modo di porgersi era molto perso173 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nale, borghesemente irreprensibile, ben lontano dalle estrosità da artista; un “regista in giacca e cravatta” per il quale a Cinecittà era stata adottata una massima argutamente rovesciata: “Genio e regolatezza.” Degna di Ennio Flaiano. La stravaganza infatti se era talvolta materia dei film, mai sarebbe entrata nella sua vita quotidiana. Un pomeriggio che ero passato a prenderlo in via Margutta abbigliato di bianco dalla testa ai piedi mi aveva liquidato alla prima occhiata: “Ti sei vestito da marinaio americano?” Fuori della necessità espressiva le mascherate lo irritavano. Intorno a sé aveva bisogno di ordine. Al suo decoro pensavano Giulietta e Mariona, la domestica divenuta anziana in casa loro, addetta al guardaroba e alla stiratura di ogni capo anche se indossato una sola volta. Ma era sempre Giulietta con una rapida supervisione, a controllare al mattino la mise di Federico prima che uscisse: “Mariona ti ha preparato il fazzoletto pulito?” Candido naturalmente, e di cotone pregiato (forse di tela batista); era quello il segno di un’attenzione accurata fino al dettaglio. I completi che cadevano a pennello erano confezionati su misura da Piattelli, il sarto romano da cui si serviva anche Marcello Mastroianni. Tagli da figurino con cui Federico, sebbene compensasse i chili di troppo con l’altezza, appariva più slanciato e asciutto del reale: giacche di lunghezza misurata al millimetro, modellate al corpo senza essere aderenti, e i pantaloni con le pince che fasciavano l’addome rimanendo fluidi. Le tonalità estive erano il blu profondo, il grigio ardesia brillante, il beige luminoso, sempre tinte molto classiche. Solo per la cravatta Federico si affidava a colori più vivaci, gli piaceva il rosso, aveva un debole per il bordeaux soprattutto nei capi invernali, il gilè di lana, la sciarpa abbondante. Nella fotografia l’aplomb familiare mi suscita reminiscenze sensoriali, tattili, visive; ricordo bene il tessuto dell’abito, la sua particolare sfumatura notturna, da cielo orientale, che rendeva di174 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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stinto il portamento. Si associano sensazioni persino olfattive; mi sembra di avvertire il profumo delicato che lo accompagnava con una fragranza discreta, sfuggente, donandogli un particolare alone di freschezza, da persona quasi mai affaticata. Anche in questo era un monarca. Il regista è ripreso in un angolo di Roma mentre si curva per deporre una moneta in mano a una vecchietta che chiede l’elemosina. A guardare bene Fellini non sta tendendo una moneta, bensì una banconota che tiene tra le dita mentre la poverella porge la mano a coppa nel gesto tipico di chi chiede la carità. Federico appare rilassato, evidentemente non va di fretta, e dall’espressione del viso si può dedurre che sta dicendo qualcosa, probabilmente curioso di sapere chi sia la creatura che ha di fronte, come si chiami, da dove provenga. Mai anonimo, mai distaccato. Porge l’obolo non come un compito da sbrigare in fretta, bensì con un sentimento di solidarietà, di umana partecipazione: un atto di carità cristiana. E basta soffermarsi sul viso della mendicante che solleva gli occhi verso di lui, con sorpresa gratitudine, per scoprire che tra i due sta passando una comunicazione diversa, di simpatia, di calore. Sicuramente anche la banconota non è di poco conto, Fellini poteva permetterselo, era generoso con chiunque gli si presentasse, anche con le zingare di piazza del Popolo, i diseredati, i senza tetto, i vagabondi che lo accostavano chiamandolo per nome. L’immagine fraterna di Federico che porge l’elemosina manifestando la semplicità di un ragazzo, rimane impressa perché suggerisce una riflessione più ampia. Il gesto di fare la carità è l’unico atto residuo nella nostra società in cui il potente, fosse anche un re, è costretto a inchinarsi al miserabile, a guardarlo negli occhi. Ed è l’unico momento in cui la povertà riceve questo omaggio così plateale da chi gode una posizione di privilegio. Proprio perché il mendicante è umile, cioè più ‘vicino alla terra’ (humus) e tende la mano da quel suo stato di inferiorità (di chi sta più ‘in basso’), chiunque per esaudire la sua richiesta 175 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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deve piegarsi, curvare la schiena, chinare la testa; non può evitare di compiere questo gesto di reverenza. L’azione dell’elemosina è tra le pochissime occasioni in cui ci prostriamo ai poveri. In essa si verifica un sovvertimento delle posizioni sociali, utile a farci capire che l’indigenza è tra tutte le condizioni umane la più sacra: “Ciò che darete al povero lo darete a me”. Qualsiasi individuo, fosse anche il papa o un califfo, oppure un regista di valore e notorietà mondiale come Fellini, facendo la carità al mendicante si prostra fatalmente. E l’immagine può essere riconsiderata in una prospettiva metaforica. Metafisica?

Grazie a Federico misi piede per la prima volta in una casa di piacere. Ricostruita a Cinecittà naturalmente. Sui postriboli i nostri percorsi divergevano generazionalmente, al punto che Federico decise di affidarmi, come contributo al film Roma che si accingeva a girare, un’inchiesta sul modo di concepire il sesso da parte delle nuove leve cresciute in libera promiscuità sotto la spinta della beat generation americana e del Sessantotto europeo. Ma soprattutto, è necessario aggiungere, grazie all’avvento della pillola anticoncezionale. Nella lunga sequenza di Villa Borghese, Trinità dei Monti e Piazza di Spagna, è la voce di Fellini a guidarci fuori campo: “Per questi ragazzi disincantati, che si stringono l’un l’altro come cuccioli, come pulcini, l’amore non è un problema, forse lo fanno o forse no, comunque non è più un dilemma di difficile soluzione come per noi, quando le nostre pene amorose ci costringevano a frequentare le case di tolleranza. Vi ricordate?” In ‘assolvenza’ vediamo alcuni soldati che imboccano via Dei Tre Archi (a Tor di Nona, vicino a Corso Rinascimento) e si avvicinano a un peccaminoso portone color rosso… La sua prima esperienza sessuale era avvenuta con una giovane prostituta napoletana in un casino di lusso di Roma, non ricor176 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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do con precisione se quello di via Mario de’ Fiori, dietro Piazza San Silvestro, oppure di via Capo le Case, nel palazzetto d’angolo in stile liberty che si trova in cima alla salita, a pochi portoni dal penultimo atelier del pittore Rinaldo Geleng, suo compagno di bohème. Era una ‘casa’ carica di specchi e divani di velluto rosso che egli ricreò poi nel film, reclutando nella parte di se stesso il giovane attore Peter Gonzales e in quella della ragazza, un’avvenente mora dalle forme morbide al pari di un’anfora egizia. Il nome d’arte era Fiona Florence, chiacchierata per amante di turno di un produttore-associato dell’ultima ora. Fiona incantò anche me. Rimasi ad ammirarla affascinato durante la ripresa in cui, avvolta in impalpabili veli trasparenti, scende come una madonna profana dentro un ascensore a pareti di vetro e risale portando con sé, ai piani superiori, l’intimidito cliente. Ciò che si svolge nella stanza è solo accennato… Più importante è il dialogo che segue, tenero e romantico: “Sei bellissima! – Diceva il giovanotto disteso sul letto; - ma tu di dove sei?” “Di Santa Maria la Bruna” “E dov’è?” “Vicino a Pompei.” “È da molto che…” “Che sto in un casino?” – Lo interrompe lei rivestendosi; – Due anni.” Il ragazzo è curioso: “Non ti sei innamorata mai?” “E come no! E quest’ è o’ risultato.” “Troviamoci fuori di qui… – Insiste lui. – Una mattina, quando vuoi… Dammi un appuntamento, mi piacerebbe vederti fuori… Domani?” Di nuovo interviene il commento fuori campo: L’amore, quello vero, alle volte poteva nascere anche qui; non amore precisamente, magari infatuazione, ma sempre sentimento. E di chi altro ci dovevamo innamorare, se non delle uniche donne che potevamo conoscere? Da quel momento avrei volentieri barattato la moderna libertà sessuale in cambio di quel postribolo. Lui lo capì, e mi ci collocò. Mi consentì di vivere sia pure virtualmente, nella finzione cinematografica, l’impagabile esperienza. Indossavo un impermeabile Burberry’s di foggia classica, vagamente retrò, potevo benissimo 177 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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figurare in mezzo al pubblico maschile in attesa di scegliere tra le ragazze in vendita. Per la sequenza il regista aveva bisogno di folla e mi aggregò alla calca, mi tenne in prima fila in quel casino di lusso a godermi lo spettacolo delle finte puttane che offrivano a gran voce la loro mercanzia, tette, culi, bocche, cosce, spudoratamente messi a disposizione del compratore. Federico faceva vorticare le figurazioni in un carosello congestionato e abbagliante; le ragazze sfilavano mezze nude davanti a noi magnificando i propri attributi con frasi sboccate, specificando caratteristiche, perizia, abilità nascoste, e accompagnando con inviti sguaiati l’esposizione di ogni dettaglio del corpo. Un delirio allegro e manicomiale insieme, erotico e merceologico, goloso e minaccioso. Un’arena da gladiatori, un combattimento con le fiere del circo. Trovavo più congeniale per me la bella Fiona e l’innamoramento di quel diciottenne per una quasi coetanea che lo introdusse sapientemente alla vita. Inoculandogli nel sangue il gene della propria avvolgente femminilità partenopea ne sviluppò anche la particolare inclinazione per la sensualità e l’antica saggezza di quel popolo in cui si incrociano le più disparate razze mediterranee. Una commistione, secondo Fellini, che riassume in sé il carattere più autentico dell’intera penisola. E la lingua napoletana non manca mai nei suoi film. Federico non chiudeva un cast se prima non passava alla Galleria Umberto I di Napoli, incontrando tutti gli attori, i figuranti, i caratteristi, la ribollente umanità dell’antica atellana, lo spettacolo per eccellenza. E per Amarcord, il suo film più personale, più privato e più romagnolo, scritturò attori napoletani per ricoprire i ruoli principali, a iniziare dai due protagonisti, i genitori di Titta, interpretati di Pupella Maggio e da Armando Brancia. Ma anche il nonno, Giuseppe Janigro, è napoletano, e perfino Biscein, il venditore di sementine, affidato a Gennaro Ombra. Forse la prostituta incontrata nel bordello romano non sarà stata altrettanto vellutata, felina e fotogenica di Fiona Florence, ma 178 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le descrizioni che Federico ne rievocava a distanza di decenni erano ancora prodighe di dettagli e ricolme di ammirazione per quella creatura che nel film viene chiamata Dolores. Franco Pinna, il fotografo di scena, me ne regalò l’immagine, nella sequenza dell’ascensore.

Fellini tornava di rado a Rimini, e qualche concittadino aggiungeva anche, ‘di malavoglia’. Utilizzando l’avverbio con stizza, alla stregua di un rimprovero venato di sorriso, di uno scappellotto o di una ruvida carezza. Certo, in molti sapevano di certe incursioni notturne di Federico, al riparo da ogni pubblicità; la storia dei sassi che gettava contro le imposte di Titta, l’avvocato Luigi Benzi, penalista di grido ma per lui rimasto sempre e soltanto “il Grosso”; il quale, a qualsiasi ora, scendeva in strada e gli si metteva al fianco per una passeggiata solitaria verso la “palata”, il porto canale, a confidarsi racconti di vita nell’aria intrisa di salsedine. Mi è sempre parso che fosse giusto così, e che l’atteggiamento schivo, riservato, sfuggente di Federico nei confronti della propria città, rispondesse non soltanto al suo carattere altrettanto affabile che chiuso, da Capricorno nato sotto il plumbeo Saturno, ma anche alla sua profonda, autentica aristocraticità, di chi non sopporta la volgarità che c’è sempre nel mettersi in mostra, nel pretendere il plauso, l’ossequio, l’ammirazione. Gli intellettuali della ‘diaspora’ hanno sempre sofferto intimamente di questa ferita, apertasi nel momento stesso in cui voltavano le spalle alle mura del borgo che pure, per tutti gli altri, costituivano protezione e conforto. Un giorno, come Moraldo ne I vitelloni, uno degli amici ha preso il treno, serbando un piccolo Guido nel cuore, ed è partito 179 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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senza dare nell’occhio. Ha cercato quel varco nelle mura, perché gli sembrava di non avere altra scelta, ha interrotto il cerchio magico e si è fatto forestiero. Un tradimento senza colpa, di cui pure si porta dentro una traccia indelebile. Tenendo vivo il rapporto – ciascuno a suo modo – con il proprio personale amico Titta – chi non ne possiede! – il quale ha continuato a volergli bene e a ragguagliarlo sornione con le notizie della tribù. Da parte di tutti gli altri viene alimentato – e volentieri ricambiato – il giudizio di diversità. Non fa molta differenza la riuscita o il fallimento dell’avventura intrapresa; il fuggitivo, l’apostata, porta addosso l’odore della savana, sufficiente a far storcere il naso a chi è restato al riparo delle mura; anche quando l’ossequio è inevitabile, con il cappello in mano. Così tutti più o meno abbiamo pensato che inseguendo i suoi sogni Fellini si fosse dimenticato di Rimini. Lo credevo anch’io, prendendo per note di colore la ricerca improbabile che Federico faceva in ristoranti romani, del cascione con le erbe, e della piadina, che mai sarebbe stata neppure paragonabile a quella di Maddalena, sua sorella, erede riconosciuta delle prodezze materne. Sembravano schegge di tenerezza, passi sdrucciolevoli sui sentimenti. Trasalimenti del palato. E poi invece accadde qualcosa che non avrei mai potuto immaginare. Nel 1993, dopo aver ritirato a Los Angeles il suo quinto Oscar, questa volta alla carriera, Federico dovette correre in Svizzera, per operarsi d’urgenza di un pericoloso aneurisma all’arteria femorale. Un intervento non poi così complicato, che pure si rivelò insidioso oltre ogni previsione. Il chirurgo elvetico Marko Turina ci scherzò sopra e dichiarò spiritosamente ai giornali: “Un’operazione raccontata da Fellini”. Alludendo alle debordanti conseguenze cliniche e anche per esorcizzare le possibili degenerazioni. Invece Fellini non si riprese più; la lunga degenza in Svizzera lo intristì, lo rese insofferente, voleva tornare in Italia anche contro il parere dei sanitari, senza rispettare i tempi consigliati per la 180 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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convalescenza. Ero sicuro che intendesse venire a Roma, a cercare quella salute propiziata dall’ambiente di lavoro, dai contatti, dai collaboratori, dai riti confortanti della sua città “reale”. Mi sbagliavo. Lasciata Zurigo, Federico volle rientrare a Rimini, concludere il suo difficile percorso nell’appartamento al Grand Hotel, la suite, di cui andava così fiero da quando il commendator Arpesella, dopo il successo mondiale di Amarcord, l’aveva messo a sua disposizione ‘vita natural durante’, come si fa con un principe di sangue. E quando, al Grand Hotel, fu colpito dall’ictus cerebrale che lo semiparalizzò e fu ricoverato all’Ospedale Infermi, la prima cosa che mi disse appena lo raggiunsi, e lo trovai coccolato dalle tante infermiere che gli svolazzavano intorno allegre e ciarliere, è stata: “Ma lo senti come parlano? Lo senti il suono di queste voci?” Aveva scelto la melodia dell’infanzia, il canto segreto della sua amatissima città, per rientrare nel grembo dell’universo. Più complesso di tutte le schematizzazioni e le semplificazioni, il rapporto di Federico con Rimini era dunque radicato nel ricordo – un ricordo che poteva risalire anche soltanto al giorno precedente, all’ultima sortita –; un sentimento difficilmente riconducibile a formule, e assai meno codificabile attraverso le interpretazioni di buon senso. Federico Fellini, sismografo biologico, era troppo sensibile, troppo vulnerabile per sottoporsi al reducismo di chiassose rimpatriate. Rimini preferiva portarsela dentro, in cento modi diversi, forse in mille; prima di tutto raccontandola nel suo cinema così come fioriva dalla propria invenzione: una dolcezza remota e presente assieme, uno smarrimento propizio, una “sottrazione” irrefutabile imposta dal destino e diventata per questo motore dell’esistenza. Se qualcuno ha mai subito o inflitto un abbandono d’amore, saprà quel che dico. Rimini aleggiava anche tra lui e me fin da quando laureando in lettere con una tesi dedicata al Satyricon, lo incontrai per 181 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la prima volta a Roma, col batticuore, e mi invitò al ristorante dell’Hotel Plaza a pranzare con un fumante piatto di tortellini (“li fanno buoni, quasi come da noi!”); ma oltre ai cappelletti in brodo Rimini era anche le telline aperte in padella – sauté – servite in tavola dentro profumate fiamminghe nelle trattorie di Fiumicino o di Fregene. Rimini era il lungomare di Ostia, raggiunto in macchina dalla Cristoforo Colombo a ogni buona occasione, giorno o notte, pioggia o vento; era il ristorante la Vecchia Pineta, costruito a tolda di nave, con le onde che si infrangono quasi contro le vetrate; era la spianata di cemento che costeggia il lido, diventata poi la passeggiata bei bagnanti in Amarcord; era persino la spiaggia, non importa se nera e di grana spessa e ferrosa. In quella sabbia affonda i piedi Gambòn, il bagnino guascone della riviera romagnola, infaticabile appagatore di femmine straniere: “Ogni giorno dovevo punirne anche sei di seguito, nei capanni, in acqua, sul moscone, dove capitava; quando la donna ha bisogno ha bisogno, te lo fa capire... Da cosa? Ma dall’occhio, le viene l’occhio bagarein, l’occhio bagarino.” Gambòn era entrato a far parte di uno speciale televisivo girato durante la preparazione de Il Casanova, la mia prima regia cinematografica all’ombra del Maestro: “Casanova Rendez-Vous con Federico Fellini”. Ma Rimini era anche Tonino Guerra, santarcangiolese, che custodiva con caparbietà la lingua degli avi e la poesia dell’infanzia; o meglio la ‘poescìa’, come ripeteva Fellini divertendosi a imitarne la pronuncia romagnola. E per prenderlo in giro collocava il suo paese di origine fuori dal mondo civile, anzi disperso nella foresta vergine. Aveva disegnato una vignetta in stile coloniale dove alcuni selvaggi in fila indiana appoggiano a terra i pesanti fagotti in prossimità di un cartello a freccia con sopra scritto “Sant’Arcangelo Km 10”; e la guida spiega ai cacciatori bianchi: “I portatori si rifiutano di proseguire”. 182 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Rimini era anche Sergio Zavoli, peraltro ravennate, con la sua voce vellutata come bruma di mare, al quale i provvidi e fedeli amici romagnoli inviano regolarmente lo squacquerone fresco – dove trovarlo altrimenti sui colli romani? – con la prima auto in partenza per Roma. Rimini, dicevo, era il cascione con la verdura, preteso da cuochi compiacenti che non l’avevano mai neppure visto; Rimini era la fotografia del babbo Urbano, sorridente dalla cornice d’argento, apparsa quasi all’improvviso su un ripiano della libreria, tra i lari e penati a cui si chiede consiglio, sempre più spesso, man mano che gli anni si sgranano dietro le spalle. Per non parlare dell’amico Titta che gli riservava folate di vento marino, ancora saporoso di banchi di scuola, e aveva battezzato il figlio maschio con il nome di Federico. Rimini era la mamma Ida, romana, che viveva nella palazzina vicino alla stazione e non sapeva nascondere la sua delusione per quel figlio stravagante che non aveva voluto diventare avvocato come il suo amico Benzi. Rimini era Gambettola e la fattoria della nonna Francesca, anzi Franzscheina, l’azdora con la faccia bruciata dal sole come Toro Seduto. Rimini non era, non è, la retorica del campanile, quella che in troppi sono pronti a invocare o avrebbero tanto gradito da lui con stracittadina autoindulgenza. Rimini sono i villeggianti che si tuffano dai trampolini (aboliti ormai da decenni); e che per la felicità rimangono sospesi a mezz’aria all’annuncio degli altoparlanti che Fellini è dichiarato fuori pericolo dai medici dell’Ospedale Infermi. Lo scriveva di suo pugno Federico nella lettera di congedo inviata al Sindaco della città per ringraziare tutti i riminesi che gli si erano stretti attorno. Rimini è oggi la stele funebre di Arnaldo Pomodoro al cimitero, ottone brillante in forma di prua di nave fessurata in verticale, dall’alto in basso, che in tanti propongono di spostare sulla spianata del porto, di fronte al mare vero, in mezzo alla popolazione, ai pescatori, ai turisti, ai pescherecci che rientrano all’alba, al 183 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ronzio delle biciclette, al grido dei gabbiani, alla voce di vento, indecifrabile, che è entrata a far parte della partitura sonora di tanti film di Fellini, forse di tutti. Nel corso delle lunghe sedute di mixage arrivava sempre il momento in cui Federico chiedeva quel rumore inciso nel nastrino che i rumoristi conoscevano bene e tenevano pronto ad “anello” con la scritta “vento Fellini”. “Qui ci vorrebbe un po’ di vento...” mormorava Federico e nell’inquadratura prendeva a sibilare quel soffio particolare che qualche attento esegeta sosteneva alludesse al Soprannaturale, fosse il simbolo stesso della Grazia. Rimini è tutti coloro che non sono partiti. Ne I vitelloni, del gruppo degli amici – Fausto, Riccardo, Alberto, Leopoldo – è solo Moraldo che sale sul treno all’alba, quando tutti dormono nelle sicurezza ovattata delle proprie case. E il piccolo ferroviere Guido, creatura fatata presa in prestito al grande Charlot, corre a fianco del finestrino domandando: “Moraldo, ma perché parti? Cosa c’è a Roma?” Già. Cosa c’è a Roma? Credo che a questa domanda Fellini abbia cercato di rispondere in quasi tutti i suoi film, compreso quello specificamente dedicato alla Capitale, col nome nel titolo Roma. Ma anche ne La dolce vita, in 8 1/2, ne I clowns, in Il Casanova, ne La voce della luna. Le vera risposta va cercata in quelle storie divenute immortali. Non l’ha sempre detto per primo Federico? “Non chiedetemi nulla, guardate i miei film.” Cosa potrebbe essere più illuminante di quel suo magico caleidoscopio che ci regala visioni irripetibili, vetrini colorati e sogni a celluloide?

Grand Hotel e Amarcord: un connubio inscindibile. Per fare in modo che l’albergo fosse più vero del vero, cioè fedele al magazzino della memoria, Fellini ne aveva rievocato gli esterni ricorrendo al Casino di Anzio, Il Paradiso sul Mare, progettato appena 184 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dieci anni più tardi. Possedeva quelle due cupole moresche che a quanto pare facevano parte originariamente anche del Grand Hotel di Rimini, se è vero che l’appartamento in cui il regista veniva ospitato era familiarmente chiamato ‘la suite della cupola’. Il proprietario Pietro Arpesella, in segno di stima e devozione, aveva voluto assegnargliela ‘vita natural durante’. Non so se fuori della porta sia mai stata apposta una targhetta d’oro come si usa negli alberghi americani per ricordare gli ospiti illustri. Posso testimoniare però che Federico era divertito e lusingatissimo dal gesto del Commendatore: gli pareva di tornare a casa ma con in testa la corona da re. Personalmente all’epoca di Amarcord non avevo mai messo piede in quel luogo leggendario. Mi ci portò Fellini, durante un’estate effervescente e irrequieta in cui stava meditando il soggetto di E la nave va, e aveva deciso di trascorrere un breve periodo a Rimini insieme a Giulietta. Conduceva vita da spiaggia, dimensione a lui particolarmente estranea. In realtà rimaneva un’ora o due sotto l’ombrellone blu, disteso su un lettino a leggere il gran fascio dei giornali, o sbirciando la voluminosa corrispondenza e i libri che gli venivano spediti dagli autori e dagli editori. Prendevamo qualche appunto e rimandavamo le risposte al pomeriggio. Dalla parte del mare il Grand Hotel appariva ancora più fastoso e imponente, pavesato di variopinte bandiere sventolanti. Sembrava lo sfondo di un film di James Bond, molto cinematografico: e come avrebbe potuto essere altrimenti! Giungeva l’ora del pranzo. A Fellini era riservato un tavolo fisso, accanto alle ampie vetrate dalle quali la luce filtrava ingentilita dalle candide cortine di mussola. Il maître accorreva a prendere le ordinazioni, con quella deferente familiarità che rivelava una prolungata consuetudine col Maestro; atteggiamento ricorrente anche in altri ristoranti, dove immediatamente il proprietario o il responsabile di sala sfoderavano nei suoi confronti un’inclinazione protettiva, allestendo la tavola come per una festicciola priva185 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ta, consigliando portate o esaudendo capricci con la complicità di dignitari orientali alla corte del Gran Khan. Spessissimo il nostro tavolo si rallegrava di amici riminesi, di visite, di saluti, di richieste di autografi da parte dei frequentatori dell’albergo. Titta Benzi non mancava di comparire almeno per il caffè, ed era con lui che Federico si intratteneva più volentieri, in allegre risate. L’amico avvocato gli riferiva della sua professione ed è stato proprio durante queste conversazioni che nacque l’idea di sviluppare un trattamento sulla vita forense del penalista, “L’avvocato racconta”. Con Titta radunammo al magnetofono un buon numero di casi giudiziari, vicende di tribunali, personaggi, visite in carcere. Un nutrito canovaccio che andò molto vicino a trasformarsi in sceneggiatura e poi in un film. Del resto Titta non era già stato l’adolescente protagonista di Amarcord, l’alter ego di Federico? Anche Arpesella si presentava al tavolo per assicurarsi che il servizio fosse di soddisfazione, indossando come un comandante l’immancabile giacca blu a doppio petto da yacht man. Nella necessità di tenersi aggiornato viaggiava molto per il mondo, visitava i migliori alberghi, i più esclusivi, ricevuto con ammirazione: era il più celebre e fortunato di tutti i colleghi e concorrenti dal momento che il suo gioiello era stato immortalato nel film vincitore del Premio Oscar. Nel 1983 Federico aveva concordato assieme al produttore Franco Cristaldi e a Sergio Zavoli presidente della RAI, che il lancio di E la nave va avvenisse a Rimini. L’evento si sarebbe svolto totalmente al Grand Hotel: diretta televisiva con Lello Bersani, conferenza stampa e il ricevimento esclusivo per la sera. In quell’occasione così particolare anche il Presidente Pertini rilasciò una dichiarazione di tuonante affetto per Fellini e il suo cinema. Ancora dieci anni – estate del 1993 – e Federico sarebbe sceso alla suite del Grand Hotel reduce dal complicato intervento chi186 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rurgico eseguito a Zurigo. Era l’ultimo appuntamento della sua vita con l’albergo del cuore. Al momento di tornare dalla Svizzera in Italia, aveva anteposto, contro ogni pronostico, Rimini a Roma. “Voglio fare la convalescenza al Grand Hotel.” Mi aveva comunicato per telefono. Quella era la sua dimora, il luogo del congedo. Si trovava nella propria stanza quando fu colpito dall’ictus cerebrale; crollò dal letto sul pavimento, si afferrò inutilmente all’apparecchio telefonico trascinandolo con sé, ma non riuscì a parlare. Mi raccontò in seguito che qualcuno aveva bussato alla porta, era entrato un bambino vestito da marinaretto. Fellini gli aveva chiesto di scendere alla reception, di avvertire il portiere, anzi il ‘concierge’ diceva, perché aveva capito che il bambino non era italiano, forse tedesco o inglese. Poi non ricordava più nulla se non la corsa affannosa nella barella spinta dagli infermieri lungo il corridoio dell’Ospedale. Nell’albergo che tanto amava, aveva tenacemente progettato di tornare, quando venne ricoverato a Ferrara per la riabilitazione motoria. Si era convinto che al Grand Hotel sarebbe stato circondato da un ambiente più propizio alla guarigione, avrebbe continuato gli esercizi ginnici in palestra e avrebbe potuto riprendere a lavorare nella sua ‘suite della cupola’. Stava già abbozzando la trama di un famoso regista che subisce un attacco ischemico, rimane qualche giorno tra la vita e la morte, si riprende e inizia un nuovo film stabilendo il quartier generale nel celebre albergo internazionale della sua città; ancora una volta tra donne, attori, collaboratori, comparse, tecnici: tutti imbarcati con lui nella nuova avventura creativa. E tra i personaggi ci sarebbe stato un bambino vestito da marinaretto che, come qualcuno sa, non è mai figurato nei registri della reception, sembrava anzi che non fosse mai esistito. Una presenza misteriosa, un angelo accorso in suo aiuto.

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E Il Casanova di Fellini? Con il punto interrogativo era intitolato lo special girato nel 1975 durante un periodo di sospensione forzata del film; ufficialmente per l’avvicendarsi dei produttori, di fatto a causa dell’irrisolutezza di Fellini che non riusciva a istaurare un rapporto di simpatia col celebre veneziano. Lo detestava, lo subissava di improperi per manifestare tutta la sua avversione, e se era costretto a nominarlo lo liquidava senza perifrasi con un epiteto offensivo, lo Stronzone. Poiché però il personaggio è universalmente diventato l’eponimo dell’amatore, Federico si interrogava su come l’archetipo fosse sopravvissuto attraverso tre secoli nella cultura e nei cromosomi degli italiani. Mi commissionò pertanto un’inchiesta sulle più recenti incarnazioni del latin lover, sui campioni dell’aggiornato ‘gallismo’ nazionale. E quando la produzione fu in piedi, vi entrò di persona per eseguire in corso d’opera provini immaginari agli interpreti che avrebbero potuto impersonare l’autore dei Memoires. Furono reclutati i più celebri attori brillanti del momento, i cosiddetti ‘colonnelli’ della commedia all’italiana, e insieme a loro anche una gloria della Comedie Française, veterano del pantheon felliniano. Ognuno un carattere. Vittorio Gassman, vitalistico e vincente, sempre ‘in scena’ in qualsiasi occasione dell’esistenza; Alberto Sordi, in fuga da ogni responsabilità e da ogni legame, soprattutto matrimoniale; Ugo Tognazzi gaudente, edonista, bon vivant; Marcello Mastroianni, il maschio sentimentale eternamente affascinato dalla figura femminile, instancabilmente inseguita e mai raggiunta; Alain Cuny amareggiato, rancoroso, pomposamente tragico. Le performance risultano accattivanti per ironia, garbo, fantasia, capacità istrioniche. Eppure nessuno di loro trovò posto nel film che, quando alla fine venne realizzato, ebbe per protagonista un gelido e lunare Donald Sutherland, attore americano di origine canadese. Per quanto bravo, anzi eccellente, fu una delle delusioni che accompagnarono l’opera, accolta con stiracchiati encomi di circostanza, a denti legati, da chi si 188 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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aspettava piuttosto un travolgente kamasutra di prestazioni erotiche. Federico, sul ciglio dei suoi sessant’anni, aveva utilizzato il Cavaliere di Seingalt per compiere una spericolata incursione esistenziale, cupa e avvelenata, su uno stereotipo maschile venato di inconfondibili tracce autobiografiche. Un racconto che – come qualcuno ricorderà – si concludeva nella laguna di Venezia, trasformata in una compatta lastra di ghiaccio, su cui il giovane Giacomo danza al vibrante martellio della spinetta stringendo rapito tra le braccia una bambola meccanica. Il film sconvolse e disorientò platea, critici e colleghi, con qualche eccezione confortante. Valerio Zurlini scrisse per “Il Messaggero” una recensione di sottile intelligenza; poi arrivò la lettera di Cesare Zavattini, insieme al quale il ventiseienne Fellini nel 1944 aveva ideato il soggetto di Quattro passi fra le nuvole, interpretato dall’indimenticabile Gino Cervi. Una mattina, nell’ufficio di Fellini che allora era in via Sistina, fu recapitata la missiva vergata a mano dal padre nobile di ogni sceneggiatore, di cui Federico lacerò impaziente la busta. Vi erano contenuti giudizi entusiastici a proposito de Il Casanova, del tutto aderenti alla stima che l’anziano patriarca nutriva nei confronti del regista, considerato da lui “indubitabilmente un vertice”. Tuttavia veniva avanzata una riserva sulla sequenza romana ambientata nel palazzo patrizio dell’ambasciatore inglese Lord Talou. Giacomo Casanova e il cocchiere Righetto, provocati ad arte dalla folla sovreccitata degli invitati, si sfidano a tenzone sulle reciproche capacità amatorie: cioè su chi dei due, scegliendo la dama a lui più congeniale, riuscirà a portare a termine senza pause il maggior numero di amplessi. Nel film vince Casanova ai punti, stremato, con cinque copulazioni. E qui Zavattini si inalberava, esplodeva in pirotecniche escandescenze, trovando risibile l’impresa del grande amatore, e del tutto usurpata la sua fama. Si chiamava direttamente in causa, con dati e prove, e raccontava – sembrava persino di udirne il simpatico vocione, le interiezioni, il tono concitato – che quando 189 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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egli giovanotto arrivò a Roma, esaltato dall’improvvisa libertà della Capitale e ubriacato dal licenzioso ambiente del cinema, aveva rinchiuso a chiave nella sua camera ammobiliata la prima attricetta disponibile e non ne era riemerso se non dopo dieci, diconsi dieci, colpi di fucile, uno di fila all’altro, senza tirare su il fiato. Stanato solamente, specificava, dalla fame a tarda notte. In breve il sommo scrittore di Luzzara – buon sangue romagnolo, anzi emiliano, non mente – ne faceva una questione di principio e anche di onore. Date a Cesare quel che è di Cesare!

Donald Sutherland non capiva cosa Fellini cercasse da lui. Quando era stato scritturato, dopo un rapido incontro sugli scalini del Grand Hotel, e Federico squadrandolo aveva detto al produttore: “voglio lui”, forse aveva creduto di sconfinare in una di quelle favole che accadono sempre agli altri. Non che fosse un attore ignoto, tutt’altro. Aveva già lavorato in Novecento di Bertolucci, e in molti avevano apprezzato una pellicola parapsicologica, A Venezia un dicembre rosso shocking di cui era stato il contorto protagonista accanto a un’incantevole Julie Christie. Ma un film diretto dal mitico Fellini e per di più nelle vesti di Casanova, un personaggio storico divenuto leggendario in tutto il mondo, doveva essergli sembrato il giro di boa, la svolta. Tanto più che le altre candidature volate per le rotative di tutti i giornali del pianeta avevano parlato di Paul Newman, di Robert Redford, di Robert De Niro, addirittura di Marlon Brando. Insomma Donald era svettato sul gotha dell’attorialità di lingua inglese. L’offerta economica era eccellente e l’attore si era tuffato nella parte anima e corpo, divorando eroicamente tutti i voluminosi tomi dei Memoires. Era preparatissimo. E questo era il guaio. Esattamente il contrario di ciò che Federico si aspettava da lui. E l’impatto fu inevitabile, tellurico. Il regista non poté fare a meno di dar190 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gli da leggere la sceneggiatura, ma ciò che temeva davvero era che l’altro la prendesse troppo sul serio, e si ingessasse in un’idea personale del personaggio che sarebbe entrata fatalmente in conflitto con la propria immaginazione. Quanto più Sutherland si preparava per arrivare ferrato sul set, con le battute pronte a memoria, tanto più il regista cambiava in corsa il piano di lavorazione, spostava le scene, lo spiazzava mettendolo di fronte al panico dell’improvvisazione. E inoltre c’era quell’interminabile turno di make-up alla mattina, affidato per quattro ore tutti i giorni alle mani del truccatore Giannetto De Rossi: naso finto, mento finto e una stempiatura a metà cranio che minacciava di fargli perdere per sempre i capelli. “Deve avere la faccia inespressiva come un piede”, insisteva Fellini che l’aveva scelto – lo si sarebbe capito a film concluso – per quei lineamenti che lo rendevano simile a un feto, a una creatura mai nata; per quegli occhi celesti e acquosi che sembravano ancora annegati nel liquido amniotico. Federico detestava Casanova proprio perché vi rintracciava una componente che ogni essere maschile annida dentro di sé e che ‘viene agita’ psicanaliticamente in una ricerca instancabile della donna, in una disperata compulsione a usare il sesso per rientrare simbolicamente nel grembo materno. Sembrava disgustarlo il casanovismo inteso come incancellabile eredità biologica del maschio immaturo, quella sorta di determinismo che nei secoli aveva allevato l’irritante genia di tutti i vitelloni e i dongiovanni e i play boy in circolazione, concentrati specialmente nelle nostre latitudini latine. Forse perché il regista, alla soglia dei sessant’anni, si trovava costretto a fare i conti con lo spettro di una vitalità che iniziava a svanire. Insomma il groviglio era complesso, e a subirne le conseguenze sotto gli abiti del Cavaliere di Seingalt, era Donald Sutherland che pure Federico appellava con vari e dolci vezzeggiativi, a cominciare da Donaldino. Ma Donaldino non sapeva più a che santo votarsi. Era stato sistemato dalla produzione, lui e la sua famiglia, in un’elegantissima villa sull’Appia Antica, 191 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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una zona a sud di Roma non troppo distante da Cinecittà. L’autista passava a prenderlo e la lussuosa berlina scivolando accanto ai ruderi romantici dell’Acquedotto Appio, nell’agro romano, in un quarto d’ora al massimo lo depositava negli stabilimenti di via Tuscolana. Sutherland rinunciò alla Mercedes. Aveva capito che per evitare uno scontro irreparabile era necessario che arrivasse sul set sfinito, senza forze. Così ogni mattina si alzava prima ancora dell’alba e percorreva di corsa quella decina di chilometri, sottoponendosi a un raid massacrante. Le lunghe ore di trucco lo frollavano definitivamente, e quando si trovava davanti alla macchina da presa era ormai diventato un automa nelle mani del suo demiurgo. La giornata di lavorazione trascorreva quasi sotto ipnosi, e l’attore la sera ritornava in villa scarico di ogni energia. La giovane moglie non ne poteva più, non si rassegnava all’idea di avere per casa un estraneo, assente, irritabile, senza più nessuna attenzione né per lei né per i figli piccoli. Un energumeno da cui guardarsi. Aveva deciso di lasciarlo. Una mattina, dopo settimane di travaglio interiore, era apparsa a Cinecittà con un figlio per mano, determinata a troncare quel rapporto privo di senso. Aveva già acquistato i biglietti aerei, sarebbe ritornata in Canada, e al resto avrebbero pensato gli avvocati. La fecero entrare in teatro di posa, e passo dopo passo, si era approssimata all’alone di luce dentro cui il marito stava recitando. Si girava la scena del Castello di Dux, in Boemia, dove Casanova ormai vecchio e dimenticato, vive praticamente in esilio, senza onore né gloria, con un incarico di bibliotecario. I servitori si fanno beffe di lui, imbrattano il suo ritratto con le feci, lo dileggiano quando reclama per pranzo i maccheroni promessi dal Principe regolarmente assente; lo prendono in giro, sbadati e infastiditi, quando in marsina e polpe bianche da gran gentiluomo del Settecento si sforza di intrattenere la ganga declamando a memoria le ottave del divino Ariosto. Casanova è vizzo, curvo, emaciato, le palpebre allentate sotto gli occhi mostrano bordi rossi e lacrimosi: un vecchio arnese di cui 192 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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disfarsi, superato dai tempi. La moglie rimane impietrita: contempla il marito come diventerà negli anni e le sembra di scorgere il padre di Donald, gli stessi movimenti incerti, la medesima stanchezza, l’identico volto cadente. Giacomo Casanova recita, battuta dopo battuta, la propria fine ingloriosa e lei si commuove, il viso le si riga di lacrime. Quando Fellini ordina lo stop, oltrepassa la linea delle luci, entra sul set incurante dei presenti, raggiunge il suo uomo, lo abbraccia senza una parola. Si stringono in silenzio, si avvinghiano e piangono insieme, non hanno bisogno di dirsi niente, capiscono che il patto non si è mai infranto, che il legame è ancora saldo, e lo sarà in futuro. Di separazione non si parla più. Sutherland a quel tempo – stiamo parlando del 1976 – era un gagliardo quarantenne. Sono sicuro che agli occhi della moglie sarà rimasto affascinante come allora, perché questo racconto me lo fece lui, commuovendosi ancora nel 1984, davanti alla macchina da presa.

Ugo Tognazzi abitava a Roma a Piazza dell’Oro, in pieno centro, dietro la chiesa dei Fiorentini, e aveva la villa a Torvajanica dove d’estate organizzava un popolarissimo torneo di tennis tra cinematografari; un appuntamento mondano e imperdibile negli anni della spensieratezza. Il trofeo consisteva, neanche a dirlo, in uno scolapasta e veniva quasi invariabilmente vinto dal super atletico Vittorio Gassman. Nelle maglie di Fellini era fatalmente incappato a metà degli anni Sessanta per il film più misterioso e inquietante del riminese. Si trattava del Viaggio di G. Mastorna, mai realizzato, nel quale Tognazzi era stato sottoposto a provino per la parte del maestro di violoncello destinato a visitare l’Aladilà. Per l’attore si presentava la consacrazione: dopo tanti film di cassetta e taluni sfacciatamente alimentari, era arrivato finalmente il suo turno. Si 193 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vedeva proiettato, grazie al genio di Federico, in quell’Olimpo degli immortali in cui persino i superciliosi e mai contenti critici ‘impegnati’ avrebbero smesso di storcere il naso, e tutto sarebbe stato possibile, chissà, il premio Oscar, la notorietà internazionale, la gloria. Come era accaduto a Marcello Mastroianni. La delusione che seguì al ripensamento di Federico, causò una brutta scottatura, di quelle che lasciano il segno. E per alcuni anni regnò il gelo. Ma in occasione de Il Casanova avvenne il riavvicinamento. Un giro di valzer, niente di più, a cui tuttavia Tognazzi si concesse con una disponibilità affabile quanto intelligente. Sapeva bene che la parte non sarebbe mai toccata a lui, ma in quella specie di gioco di specchi in cui Fellini desiderava veder riflesse le incarnazioni più emblematiche dell’amante latino, Ugo non poteva mancare. E infatti non mancò. Gli fu assegnato, come di dovere, la versione gastronomica della sensualità casanovesca e Danilo Donati, l’art director, approntò per lui al Teatro 5 di Cinecittà, una sontuosa tavolata imbandita di cibi settecenteschi, un immaginario banchetto da vera crapula, attraverso il quale l’attore avrebbe potuto ricamare associazioni di raffinata oscenità. Ne venne fuori una ripresa ironica e densa al tempo stesso, alla quale soltanto un artista di gran classe come lui avrebbe potuto conferire l’equilibristica leggerezza. Già mentre indossava mantello e tricorno e si cingeva la spada, Tognazzi metteva in chiaro che se Giacomo Casanova rispondeva benissimo alla maschera di Capitan Fracassa o Capitan Spaventa, lui poteva impersonare “al massimo Giupì Tre Gozzi di Bergamo.” E tracciava un nitido confine di differenze all’interno di comuni inclinazioni per “la donna e la buona tavola”. In lui prevaleva l’aspetto padano, poco internazionale. “Sì, – sosteneva – ho avuto anch’io degli amori… una inglese, una norvegese, una francese ecc, però, insomma, io le facevo venire qui da me, ho sempre giocato in casa…” Quindi affrontava la tiritera delle complicate ricette del banchetto, i cui piatti per ottenere il giusto 194 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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apprezzamento “dovevano frollare a lungo, quasi marcire…Quel sapore, quel profumo di putrefazione tanto caro ai buongustai. Perché la vera qualità del buongustaio è proprio questa: il gusto dell’insolito, dell’aberrante, del deforme…” E arrivava a raccontare da par suo di erotiche flatulenze. Sul petomane Tognazzi finì per interpretare un intero film.

A Viareggio Arnaldo Galli è l’allestitore di carri che hanno conquistato più riconoscimenti nella storia del Carnevale: 20 primi premi solo nella 1° Categoria. Pittore, scultore, autore di maschere allegoriche e scenografie, il personaggio incrocia Fellini, di cui è solo sei anni più giovane, al tempo de I vitelloni (1953) quando il regista si reca da lui per chiedergli un elemento di scena destinato a diventare un feticcio indiscusso per gli appassionati di cinema. È il testone di cartapesta che Alberto Sordi abbraccia in un attacco di cupo avvilimento al termine della festa di Carnevale, la mattina all’alba, vestito da donna e completamente ubriaco. Inutilmente Moraldo (Franco Interlenghi) vedendolo vacillante cerca di trattenerlo, vorrebbe accompagnarlo a casa, Alberto lo respinge: “Ma chi sei! Non sei nessuno, non siete nessuno tutti!” E si allontana nel vento che fa rotolare fogli di carta sgualciti e stelle filanti, tirandosi dietro quel ridente faccione da clown legato a una corda come un cane al guinzaglio: “Vieni, capoccione mio!” Quella testa di pupazzo era stata fabbricata da Arnaldo Galli. Ma non è rimasto neppure uno schizzo, un bozzetto che accompagnasse l’ordine. “Fellini mi aveva spiegato di aver bisogno di un faccione allegro, un po’ stupidotto, e io gliel’avevo fatto.” Era iniziata così una collaborazione dai frutti imprevedibili. Passano gli anni e nel 1962, dopo il successo de La dolce vita Fellini, in polemica con l’ipocrisia bigotta di chi aveva attaccato 195 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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il film, realizza Le tentazioni del dottor Antonio (episodio di Boccaccio ’70). Peppino De Filippo si innamora di Anita Ekberg la cui immagine campeggia da un cartellone pubblicitario di fronte alle finestre della sua abitazione, e nel delirio erotico sogna di sprofondare vestito e calzato – e con tanto di ombrello – fra le tette colossali di quella creatura irresistibile (“Bevete più latte, il latte fa bene!”). Per la sequenza servivano dunque le forme e i seni di una gigantessa. Così intervenne di nuovo Galli. “Quei seni l’ho modellati io. Per la prima volta abbiamo sperimentato un nuovo materiale, il lattice di gomma, disposto attorno a un meccanismo con cui facevo muovere e gonfiare le mammelle come se fossero vive, secondo le istruzioni di Fellini. Ma il lattice da solo non riusciva a ottenere l’effetto convincente di un incarnato morbido, capace di respirare con naturalezza. Allora pensai di mischiare all’amalgama un triturato di sughero e questa volta i seni stavano su da sembrare proprio veri!” Oltre le tette, anche le spalle, le gambe, e altri dettagli indispensabili alle riprese in campo ravvicinato erano stati modellati da Galli, e Fellini aveva potuto materializzare al meglio la sua fantasia. Tanto che la collaborazione prosegue ancora. Arriva la volta de Il Casanova, quando per il film c’è bisogno di un altro poderoso testone, quello turrito di Venusia, la dea del mare che durante il Carnevale di Venezia emerge dalla laguna e poi sprofonda. “Era una testa alta sei metri, e doveva dare l’impressione di essere stata sepolta negli abissi da chissà quanto tempo; il legno della polena doveva apparire spaccato, fessurato, con barbe d’alghe attaccate alla base. La realizzazione comportò una gran fatica, perché la testa era pesantissima e inoltre la piscina di Cinecittà, profonda soltanto 2 metri e 80, non riusciva a sommergerla tutta. Infatti nella sequenza finale del film, dove si intravede il volto di Venusia sotto la crosta di ghiaccio della laguna, fu necessario costruirne una seconda, identica ma di dimensioni dimezzate.” 196 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Nel ristretto cenacolo degli artisti cinematografici Fellini prendeva in considerazione due soli nomi tra i viventi, Akira Kurosawa e Stanley Kubrick. Kurosawa proveniva da un mondo parallelo e distante, e con lui avvertiva un’appartenenza araldica mista di ammirazione e reverenza. Con Kubrick invece, classe 1928 e dunque più giovane di otto anni, intratteneva pur nell’ispirazione così diversa, una sottile complicità. In un preciso momento della loro carriera artistica s’era creata persino una singolare coincidenza, per cui i loro destini sembrarono incrociarsi se non sovrapporsi. Fu a metà degli anni Settanta. Chissà per quali congiunzioni astrali i due cineasti decisero contemporaneamente di realizzare un film ambientato nel Settecento. Fellini basandosi sulle avventure di Giacomo Casanova, Kubrick sulla vita di Barry Lyndon raccontata nel romanzo di William Makepeace Thackeray. Kubrick arrivò prima al traguardo, ma la storia delle reciproche lavorazioni registrò numerosi punti in comune. Il periodo di riprese di Barry Lyndon si estese dal settembre 1973 al luglio 1974. Il film patì sei settimane di sospensione, e uscì in prima proiezione l’11 dicembre del 1975 a Londra (sette giorni più tardi a New York). Anche Il Casanova di Fellini sarebbe dovuto partire nell’estate del 1973, appena terminato Amarcord. Ma Fellini e De Laurentiis non trovarono un accordo sull’attore protagonista che il produttore avrebbe voluto scritturare tra i nomi di maggior richiamo del firmamento hollywoodiano: Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro, Jack Nicholson. Ci fu uno scontro radicale nella concezione del film, fino a che De Laurentiis si ritirò, e l’estate successiva, nel luglio del ’74, il progetto approdò ad Andrea Rizzoli (figlio di Angelo) che firmò il contratto tra una immersione e l’altra nella piscina della sua villa di Cap Ferrat. Con un preventivo di circa 4 miliardi di lire e con Clemente Fracassi organizzatore generale, si pianificò l’inizio delle riprese al successivo ottobre, e l’uscita dell’opera esattamente un anno dopo, nell’ottobre del ’75. Fellini decise di realizzare l’intero film a Cinecittà e di ricostruire 197 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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in teatro persino la laguna veneziana; ma in gennaio, a causa del lievitare del budget, Rizzoli passò la mano. Subentrò Alberto Grimaldi che fissò un tetto di spesa di 5 miliardi, e per protagonista fu scelto il canadese Donald Sutherland. La lavorazione iniziò il 21 luglio con una previsione di 21 settimane di riprese. Ad agosto alcune scatole del negativo vennero rubate dallo stabilimento di sviluppo e stampa di Cinecittà con relativa richiesta di riscatto. A dicembre, superati i limiti del preventivo e del piano di lavorazione, Grimaldi fermò il film dichiarando alla stampa: “Fellini è peggio di Attila”. A fine gennaio tornò la pace, e il 23 marzo si riprese a girare dopo tre mesi di interruzione; mancavano il finale del copione (che seguiva alla sequenza del castello di Dux) e l’inizio, cioè il Carnevale sul Canal Grande con l’apparizione e lo sprofondamento nelle acque lagunari della gigantesca testa di Venusia. Il 10 maggio del 1976 Il Casanova fu concluso; e apparve sullo schermo il 12 dicembre 1976, esattamente un anno e un giorno dopo il film di Kubrick. Kubrick si trovò ad ammirare Il Casanova almeno quanto Fellini ammirò Barry Lyndon. Qualcosa dell’uno finì nel film dell’altro. Trovandosi Fellini nella necessità di girare il film in inglese, Kubrick gli suggerì di affidare i dialoghi a Anthony Burgess, l’autore di Arancia Meccanica. Il quale successivamente affiancò il regista anche per l’edizione britannica del film (doppiaggio e sincronizzazione) che fu realizzata a Londra. Ma bisogna anche ricordare che al momento di partire con Barry Lyndon, Kubrick prese contatti con Danilo Donati, l’art director di Fellini, il quale – come in seguito mi raccontò – fu molto tentato dalla proposta ed ebbe anche vari colloqui preliminari con il regista americano; preferendo alla fine restare accanto a Federico in procinto di partire con Il Casanova. Al suo posto fu preso lo scenografo Ken Adam, già collaboratore di Kubrik per Il Dottor Stranamore (e ideatore della celebre war room, la sala operativa del Pentagono ricreata fantasiosamente in studio). 198 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Fellini e Kubrick prediligevano le riprese in teatro di posa, dove il controllo di ogni dettaglio è assicurato al meglio. Per Barry Lyndon Kubrick, che era un tecnico geniale e fotografo di esperienza, adottò in accordo con il suo fidato direttore della fotografia John Alcot, un obiettivo speciale già utilizzato dalla NASA per i rilevamenti spaziali. Uno Zeiss Planar da 50 mm modificato per la macchina da presa, accoppiato a un grandangolare e con un’apertura massima di f 0,7 con cui era possibile effettuare riprese a lume di candela. Con quell’espediente il regista voleva restituire non soltanto la più perfetta fedeltà alle condizioni luministiche dell’epoca storica, ma anche il sapore stesso dei molteplici dipinti a cui si era ispirato, da Hogarth e Gainsborough a Wattau a Chodowiecki. Un’intera pinacoteca in cui gli studiosi hanno in seguito individuato più di 271 citazioni da quadri famosi. Una delle sequenze più suggestive de Il Casanova, il teatro di Dresda, è stata girata con imponenti lampadari a candela, e sembra quasi di poter percepire l’odore stesso della cera. Fellini insieme al suo direttore della fotografia Peppino Rotunno e a Danilo Donati aveva collezionato una ben nutrita documentazione sui pittori del Settecento; e gli stessi costumi, sebbene rivisitati dall’estro dell’art director, riproducevano nei minimi particolari le indicazioni iconografiche delle tele. Kubrick, più intransigente – o come diceva di se stesso “perfezionista demenziale” – aveva addirittura inviato la costumista Milena Canonero nelle varie aste europee ad acquistare abiti originali del Settecento, da scucire, allargare e riadattare in sartoria sulle misure degli attori. Per entrambi i film i critici parlarono di tableaux vivants, di quadri in movimento; se per Kubrick si trattava di avvicinare “le inquadrature dinamiche del cinema alle immagini statiche della pittura”; Fellini dichiarava: “Vorrei fare un film di immagini eternamente fisse e in continuo movimento”. I due film nati parallelamente e riconosciuti tra i maggiori ca199 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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polavori dell’arte cinematografica, incontrarono all’uscita una tiepida accoglienza, pur nell’ammirata esaltazione degli appassionati. Entrambi i registi provenivano da successi mondiali: Fellini da Amarcord (Premio Oscar) e Kubrick da Arancia Meccanica (1971) l’opera di maggior scandalo, al punto di essere persino ritirata dalla circolazione nel regno Unito. Una frase di Kubrick mi colpisce ancora: “L’unica maniera di imparare a fare un film è girarne uno.” Le medesime parole, sentite con le mie orecchie, pronunciate da Fellini.

Danilo Donati, costumista e scenografo, era di Suzzara, tra Parma e Mantova, da dove era fuggito poco più che ragazzo, forse per non scontare troppo pesantemente, in un piccolo centro, la propria ‘diversità’. Era incalzato dalla confusa urgenza del talento, e dall’inquietudine di una condizione personale alla quale non avrebbe saputo rinunciare. Voleva dipingere, e a Firenze, dopo l’Accademia, era stato alla scuola di Ottone Rosai, altro ‘irregolare’ di gran genio che teneva studio in via San Leonardo. Danilo pensava di dovergli tutto, probabilmente anche una sorta di ‘seconda nascita’. Siamo stati alcune volte insieme a Firenze, per sopralluoghi, e camminando a piedi Danilo mi mostrava gli angoli della città come guardata ancora attraverso gli occhi del Maestro; inquadrava su tele immaginarie – o possibili sfondi cinematografici – tagli di luce, fughe di muri, scorci di case e di strade, che nell’esattezza delle sue parole acquisivano la luminosa fissità di altrettanti dipinti. A proposito di Rosai aveva scritto anche un racconto, ambientato in un’osteria dove andavano qualche volta a pranzare insieme. C’era scarsità di cibo nell’immediato dopoguerra e la padrona, con fantasia tutta italiana, si ingegnava di servire il ‘pesciovo’, cioè una sorta di omelette ricavata da un 200 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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unico uovo e modellata a illusione di un pesce. Il Maestro, consumando quel pasto frugale, discuteva e intanto tracciava disegni a carboncino sulla carta paglia della tavola, svelando all’allievo i segreti del mestiere. Quell’arte che Donati pensò per tutta la vita di aver tradito dedicandosi al teatro e al cinema, nonostante i riconoscimenti – a cominciare dai premi Oscar – che lo collocavano sulla ribalta più illustre del mondo dello spettacolo. Le tele che dipingeva, Danilo le mostrava a fatica e assai di rado, a causa di quel pudore ferito. Al pubblico regalava i suoi quadri virtuali che arricchivano le riprese di registi chiamati Pasolini, Zeffirelli, Fellini. Aveva addestrato un occhio infallibile alla scuola di Lila De Nobili e di Maria De Matteis, al Teatro alla Scala, per gli allestimenti di quel dio padrone che allora regnava incontrastato col nome di Luchino Visconti. Precisione, esattezza, disciplina ferrea, l’apprendimento di bottega. Colori, tessuti, tagli, ornamenti, il più insignificante dei dettagli, l’ultimo dei particolari, ottenuti come l’applicazione di un precetto assoluto, di una manualità imprescindibile. Rivedo ancora a Cinecittà Danilo, già maturo e famoso, curare da solo i bagni di colore per le stoffe, rivolgendo il bastone in grandi calderoni che fumavano sul fuoco acceso a terra, nel suo atelier, come nella spelonca del negromante. Da quel laboratorio usciva l’impensabile, come nessun altro sarebbe stato capace di fare. I pacchi di pasta minuta si trasformavano all’oro della porporina in gioielli faraonici, diademi, collane, orecchini. I tappi a corona delle bottiglie formavano improvvise decorazioni di muraglie barbariche. Le caramelle Charms, colorate e traslucide, andavano a comporre come tessere musive il ritratto di Trimalcione. I manichini avanzavano in processione avvolti in manti regali, in acconciature fastose, che Danilo schizzava con mano lieve prima di realizzare alla forbice, affidando le cuciture allo stuolo di sarte. Si divertiva nelle sue alchimie a ricreare la Storia. Satyricon, Il Casanova, non possederebbero quella stessa arcaicità fiabesca, quella incantata verità d’artificio, senza il suo 201 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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intervento di ‘pittore’. Amarcord, Roma, Intervista, evocano ai nostri occhi gli Anni Trenta e Quaranta per virtù di quel tocco fatato in grado di restituire il respiro stesso a un’epoca trascorsa. Uno scambio di anime, un esperimento di avatar. Come ogni autentico trasformatore della materia, Donati era anche un cuoco provetto. Durante la lavorazione dei film, nelle pause, ispirato dall’estro, usava gli stessi fuochi per la cucina. A volte sui tavoli di sartoria tirava la sfoglia, che sorgeva dalle sue mani come il più affascinante dei pleniluni; un immenso disco d’argento dorato che doveva riuscire così sottile da poterci guardare attraverso. Solo allora la pasta era pronta per essere avvolta su se stessa e affettata in nidi di tagliatelle da srotolare e calare nell’acqua bollente. A Roma si chiamano fettuccine, e sono più spesse, erte, da masticare sotto i denti riempiendosene la bocca. Non più che una onesta parentela con le tagliatelle emiliane, la cui consistenza dev’essere invece quella di un velo da sposa e, ben condite di ragù, disfarsi tra lingua e palato con viziosa cedevolezza, l’ultimo sospiro di un lussurioso sfinimento. Danilo trovava esemplari quelle di Giuseppe, il cuoco reggiano della leggendaria Cesarina, la quale dopo aver venduto il lussuoso ristorante di via Piemonte, aveva riaperto un localetto appartato, di gran garbo, a due passi dall’abitazione di Fellini, in via Brunetti. Cesarina è un personaggio un po’ fiabesco del periodo della bohème. Un giorno Federico, affamato, entra nella sua trattoria di via Piemonte senza una lira in tasca, mangia tutto quello che può e, al momento del conto confessa di non avere i soldi. Viene cacciato fuori dal locale a improperi. La proprietaria del locale, una sanguigna bolognese con la lingua sciolta e i pugni sui fianchi, è una virago; da quel momento Fellini cerca di girare alla larga dalla sua strada. Ma una mattina la Cesarina lo vede infreddolito, impaurito, e da lontano gli fa cenno con la mano di avvicinarsi, lo invita ad entrare. Lo fa sedere a tavola, gli serve il pranzo e non 202 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gli porta il conto; ha preso a benvolere quel giovincello magro come un chiodo e lo sfama per un’intera stagione. Passano gli anni. Fellini raggiunge una fama leggendaria. Al momento del lancio della Dolce Vita, Angelo Rizzoli gli chiede dove preferisce indire la conferenza stampa per il lancio del film, se sulla Terrazza Martini o in luoghi altrettanto prestigiosi della Capitale. E Federico per ricambiare la bontà di cuore della generosa bolognese, sceglie la sua trattoria . Il locale diventa in un lampo celebre in tutto il mondo, dall’America arrivano turisti col suo indirizzo in mano. La Cesarina diventa ricchissima, e finché non morirà, ottantenne, avrà sempre un tavolo per Federico, il suo intoccabile regista, trattato con la devozione e la protettiva gelosia di una madre. Per Federico il ristorante di via Brunetti era diventato una dependance di casa, per raggiungerlo gli bastava attraversare via del Corso. Ci portava gli amici, i collaboratori più stretti, le celebrità che passavano a trovarlo. Era venuto una sera anche il regista Spike Lee, con gli occhi dilatati di piacere e in mano un manifesto di 8 ½ che aveva scovato in un mercatino di Parigi e desiderava che Fellini lo firmasse. Vittorio Gassman, che abitava poco distante nella breve stradina, vi consumava volentieri i pasti, e per quanto anziano e in lotta con la depressione, già entrando irradiava nel locale una luce prodigiosa di eleganza principesca, fisica e mentale. Anche Danilo si recava spesso in via Brunetti, confermando con la propria presenza l’eccellenza della messa in tavola. I tortellini, serviti in brodo, erano un concerto ineffabile di sapori. I ravioli di zucca superavano ogni aspettativa. Ma le lasagne – le lasagne! – richiedevano una pausa religiosa, da esperienza mistica. Eppure Donati non era da meno. Nella sua casa alle Murelle, vicino Todi, capitava che con la buona stagione, e a film concluso, invitasse la brigata degli amici e cucinasse per loro, tutto da solo, dalla prima all’ultima portata. Erano cene sontuose e raffi203 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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natissime che parlavano una lingua ormai perduta. In una di esse Federico s’era fatto accompagnare, a sorpresa, da un dono regale, un pianoforte a mezza coda nuovo di zecca che potesse essere suonato dopo cena, al chiarore della luna, e sul quale appoggiò le mani il magico Nino Rota. Ma sono davvero avvenute queste cose? C’è stata una stagione adatta ad ospitarle?

L’avventura del cinema e la spinta dell’erotismo, sono pressoché indissociabili, al pari di qualsiasi impresa narrativa, da Omero in poi, e per ogni altro territorio dell’espressione. L’eros del resto è l’unica forza creativa a noi ben conosciuta che ci permette di trasformare, per mezzo dell’arte, ogni esperienza in un linguaggio simbolico, comprensibile a tutti. Fellini l’ha riaffermato in molti modi, negli scritti e nei suoi film. Si intraprende la carriera nel cinema prima di tutto per amore delle donne, affascinati come siamo dalle attrici, creature inarrivabili eppure così carnali da promettere paradisi di beatitudine. In Intervista Sergio Rubini incarna il giovane Federico che, collaboratore della rivista Cine Magazzino, stampata dalla “Premiata Sartoria Reanda” (sono queste le incongruenze entusiasmanti di Roma, capitale appunto della fabbrica dei sogni), si spinge a Cinecittà per intervistare la diva del momento, col cuore che gli galoppa nel petto. Il cinema rappresenta questo miraggio illimitato di donne affascinanti, seducenti, spesso disinvoltamente discinte, da vagheggiare abbagliati sullo schermo fino a che, per un miracolo del destino, un giorno attraversiamo quel telo bianco andando ad abitare dall’altra parte, sul set. Lì quelle femmine sublimi – sotto la direzione del regista – vengono convocate, fatte recitare, vestite e spogliate a piacimento, indotte a esprimere passioni, abbandoni, struggimenti. E ogni loro caratteristica viene enfatizzata, ogni 204 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sensualità esaltata con il trucco, le luci, gli abiti, il taglio delle inquadrature. Spiarle nel ‘mirino’ fino ad ottenere da loro esattamente ciò che si desidera costituisce una specie di climax del voyeur. E reciprocamente la donna, che è per costituzione esibizionista (nata per mostrare, per attrarre, per incantare, per scegliere), trova in quel gioco regolato dalle esigenze dello spettacolo, una perfetta corrispondenza con la propria natura: è coccolata, scrutata, messa in scena, ammirata, desiderata, in un’amplificazione quasi delirante che la porta infine ad immaginarsi pari a una dea, e ad essere considerata tale dal pubblico. Le divine, oggetto di corteggiamento in tutto il mondo, sulle copertine dei giornali, nell’obiettivo dei fotografi, nutrono l’illusione di essere evase dalla dimensione reale per sconfinare in un regno voluttuoso e incantato – quello appunto della celluloide – del quale sono le riconosciute, indiscusse e adorate protagoniste. “L’amante è naturalmente una bella culona, dalla pelle bianca e la testina piccola. Placida, bonaria, apparentemente l’ideale delle amanti perché non rompe le scatole, molto umile e sottomessa.” Così scriveva Fellini negli appunti per il film 8 ½ e più avanti precisava: “Il rapporto che lega il protagonista alla paciosa culona è basato su una specie di opaco benessere fisico come succhiare da una balia mansueta un goloso nutrimento e poi addormentarsi satollo e spento.” Una figura femminile che Federico ha disegnato centinaia, migliaia di volte nella sua vita. Bastava che avesse un foglio davanti, una penna a portata di mano, ed ecco che per incanto affioravano dalla carta quelle forme doviziose sempre uguali, prosperose, accoglienti, in cui sciogliersi. L’amante apparteneva alla schiera delle ‘pavoncelle’, così denominate per i fianchi poderosi e la testolina delicata. Sandra Milo, l’adorata Sandrocchia che non era certo un tipetto patito, dovette ingrassare più di dieci chili per interpretare la 205 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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signora Carla di 8 ½. Un paio di taglie le guadagnò direttamente sul set, durante la lavorazione, costretta a ripetere un ciak dietro l’altro nella scena del ristorante in cui trangugiava carnose cosce di pollo arrosto. “Mangia anche molto con lentezza ma inarrestabile, – continuavano le note di regia – facendo boccucce graziose e dimenandosi sul suo imponente bianco sedere. Una specie di grande cigno morbido, vasto, lento, e a modo suo affascinante e misterioso.” Quel grande cigno morbido esisteva davvero nella vita di Fellini ed era andato segretamente a nutrire una galleria di creature sontuose e mitologiche, spesso rappresentate con il gusto infantile del sogno proibito. Fantasie trasferite sulla carta e poi nei personaggi dello schermo, con invenzioni divenute degli archetipi indimenticabili: la Saraghina e la Signora Carla di 8 ½, Sylvia, l’Anita Ekberg de La dolce vita e Le tentazioni del dottor Antonio, la divina Susy di Giulietta degli spiriti, la Maga Enotea di Satyricon, la Gradisca o la Tabaccaia di Amarcord, la Gigantessa e la Bambola Meccanica de Il Casanova, la Donna Mongolfiera de La città delle donne, fino alla Marisa che si trasforma in Vaporiera nell’ultimo film, La voce della luna. La Saraghina, “donna ricca di femminilità animalesca, immensa e inafferrabile, e nello stesso tempo nutritizia, così come la vede un adolescente affamato di vita e di sesso, un adolescente italiano bloccato e impedito da preti, chiesa, famiglia ed educazione fallimentare. Un adolescente che cercando la donna ne immagina e desidera una che sia «una grande quantità di donna». Come un povero che pensando al denaro ragioni e farnetichi non di migliaia di lire, ma di milioni, di miliardi.” La Gradisca, della quale “anche in pieno inverno le sue leggendarie tettone s’intravedevano respirare, gonfie, satolle, sotto camicette quasi trasparenti.” La Moglie del Farmacista, che l’amico più grande gli fa spiare attraverso il buco di una cabina sulla spiaggia, e che il regista 206 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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racconta in una intervista degli anni Sessanta: “Dapprima non vidi niente, sentii solo canterellare «Fontane all’alba». Poi una gran parete bianca di ciccia che si muoveva, una cascata di capelli strizzati da due mani e infine lo scoppio di un seno nudo che riempiva tutto il visibile. Si allargava, si dilatava, andava da tutte le parti in un ribollire di curve, di sfere, di rotondità. Come il bucato al sole quando tira vento. Sopra di me la voce di Gigino: «Che cosa credi che siano quei due prodigi? Due lune fosforescenti e tiepide? Due grandi colombe bianche? Due fiaschi spaiati pieni di latte? Due gigantesche pere spadone sbucciate e piene di sugo? Un altare? Le guance di Eolo quando soffia il vento? Lo Spirito Santo? No, sono molto più di tutto questo messo insieme. Sono le tette. Le tette della professoressa di chimica del ginnasio Cesare Abba». Questo pantheon di divinità muliebri non erano che lo specchio di una donna mai svelata che Federico ha amato nell’ombra per gran parte della sua vita e riprodotto in infinite varianti e mutazioni, ammalianti o minacciose. Non dirò chi fosse la donna dello schermo – non ce n’è alcun bisogno – ma di incarnazione in incarnazione, attraverso trasfigurazioni successive, la sua immagine è giunta per strade misteriose fino a Sant’Arcangelo di Romagna e al ristorante La Sangiovesa. Dal tratto e dal soggetto, il disegno – diventato il logo della trattoria – è databile alla fine degli Anni Settanta, quando Fellini passa dallo schizzo alla figura, dalla caricatura al carattere, e la composizione comincia ad avvalersi del colore in funzione espressiva. Sulla scrivania del regista i pennarelli ad alcool cominciano a prendere il posto delle matite, la penna biro viene volentieri sostituita con la penna a china, la rappresentazione sta diventando pittorica. Come poi avverrà apertamente nell’ultimo decennio di vita, in una esplosione di forme e di colori – e con l’utilizzazione di tecniche miste sovrapposte – che conferiranno alla produzione figurativa di Fellini una chiave di lettura inconfondibilmente “espressionista”. La poetica alla base di ogni sua concezione artistica. 207 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Per rendere chiaro come il cinema sia il luogo della pulsione più sbrigliata, Fellini ne La città delle donne (1980) inventa una sequenza in cui compare un lettone smisurato, gigantesco, collocato proprio davanti a uno schermo acceso, e sotto le coperte una fila di ragazzi eccitati si agitano e si masturbano allegramente, incessantemente. “Nihil humani a me alienum puto”, ammoniva Lucrezio nel De Rerum Natura, non c’è nulla che riguarda l’uomo che non faccia parte anche di me. Una volta Fellini conversando con Francesco Rosi, autore di un cinema molto austero e spesso privo di presenze femminili, gli domandava provocatorio: “Ma che divertimento ci provi a girare i film se poi non usi le donne!?” Rosi se la rideva sornione, ma senza una risposta pertinente. Aldo Tonti, uno dei nostri più gloriosi direttori della fotografia, oggi scomparso, mi raccontava di quando con Rosi girava La Sfida. Protagonista era Rosanna Schiaffino, una mora tutta curve di vent’anni che la troupe divorava con gli occhi a ogni sequenza. Rosi non mostrava alcun turbamento. Solo alla fine della lavorazione, riferiva Tonti, in una scena in cui la Schiaffino veniva inquadrata da dietro mentre si inerpica su una scala a pioli, si era sentito il regista partenopeo commentare, quasi di fronte a un’improvvisa scoperta: “Però, tiene ‘nu bello culo ‘sta guagliona...” E la troupe, come una pentola in ebollizione, era esplosa in un applauso irrefrenabile. Cosa sarebbe il cinema senza le donne? Niente. Forse non esisterebbe neppure. Almeno per molti di noi. Ma si potrebbe porre anche un interrogativo speculare: cosa sarebbero le donne senza il cinema? Il cinema ne esalta la natura, la figura, l’infinita seduzione. E ogni donna, di fronte allo schermo, si cala nella parte dell’eroina, assume quella medesima ‘divinizzazione’, ne condivide le vicende, assapora virtualmente, furtivamente, le labbra del protagonista maschile e poi, una volta spenta la lampada del proiettore, qualcosa le rimane inevitabilmente addosso. Si sentirà più bella, 208 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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più importante, più desiderabile per gli uomini che le stanno intorno, che immaginerà cedevolissimi ai suoi piaceri. Questo è il magico inganno del cinema, una vita illusoria che riscalda quella reale e la rende forse più sopportabile. Per anni, per decenni la Settima Arte ci ha donato tale mondo parallelo, in cui scivolare deliziosamente come in un sogno, dimentichi di tutto. La sala si riempiva di fumo ad aumentare lo stordimento, e chiunque nei panni di Humphey Bogart poteva struggersi per Ingrid Bergman, lasciare che la donna amata si mettesse in salvo su quel bimotore a elica, e addio per sempre, le pupille lustre ma virili, il bavero dell’impermeabile rialzato sul collo, un crampo nello stomaco e il cuore dilatato come quello di un toro all’arena. Casablanca, e chi non c’è vissuto! Non c’è bisogno neppure di andarci per turismo, anzi sarebbe una cocente delusione. Ci bastano quelle poche note, “Play it again, Sam” per farci volare via. Anche Marcello Mastroianni era un uomo da sogno in celluloide. L’attore più ‘americano’ d’Italia. Il suo aspetto mite e accomodante, la sua naturale eleganza, quei lineamenti del viso delicati e maschi allo stesso tempo, lo hanno reso l’emblema intramontabile del latin lover, dell’amatore latino, consegnandolo all’immaginario collettivo tra i personaggi cinematografici più positivi e di spiccata simpatia. A Roma, quando l’attore ancora abitava nella sua villa di Porta Latina, fuori dei cancelli facevano tappa i pullman di turisti stranieri: le ammiratrici scendevano, scattavano fotografie, chiamavano senza convinzione “Marcello, Marcello!” e ripartivano recando nel cuore la certezza meno fuggevole della sua esistenza. Mastroianni si schermiva quando veniva tirato in argomento il suo ruolo di divo, che vestiva di malavoglia, e ancora peggio quello di playboy. Ma dall’anno de La dolce vita (1960) la sua figura era diventata un’icona planetaria, arrecando non poco lustro allo stereotipo nazionale, abilmente enfatizzato, di affascinanti e 209 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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instancabili amatori. In realtà Marcello originario di Frosinone, anzi di Fontana Liri, cioè ciociaro di pura schiatta laziale, più che dal bellicoso Turno re dei Rutuli, pronto a menar le mani, traeva misterioso lignaggio dal Pio Enea sbarcato dalla Troade e destinato dagli dei, secondo il Poeta, a fondare la stirpe Giulia da cui Roma assurse a eterna gloria. Marcello rievocava nel taglio degli occhi scuri e vellutati, nel sorriso avvolgente e sagace, nella gentilezza dei modi, nell’indolenza sensuale, qualcosa di orientale, di nobile, di distaccato. La dolce vita, 8 ½, e negli anni più tardi La città delle donne, Ginger e Fred, Intervista. Credo che Federico lo avrebbe voluto con sé ad ogni film, per la sua impareggiabile versatilità, per la fiducia con cui gli si affidava, e l’amicizia sincera e schiva che li univa. Avevano destini e storie assai simili, l’attore era solamente di quattro anni più giovane del regista. Marcello aveva voltato le spalle a un serio e sicuro impiego al Comune per tentare il teatro e aveva conosciuto Fellini tramite Giulietta Masina, sua collega nella compagnia universitaria del GUF. Entrambi si erano sposati presto con delle attrici ed erano restati per tutta la vita fedeli al vincolo coniugale, l’uno con Flora Carabella, l’altro con Giulietta, senza tuttavia limitare l’orizzonte femminile a quella prima incauta ed eterna promessa. Fautori convinti dell’amara saggezza di Balzac per la quale il matrimonio è una catena così pesante che per portarla bisogna essere almeno in tre. Mastroianni, da divo internazionale, si era preso delle vistose licenze poetiche. Una prima volta in America con Faye Dunaway, affascinante diva dalle gambe ammaliatrici, che si era perdutamente innamorata di lui. E lui di lei. Vivevano insieme a Los Angeles ma lei, di cultura anglosassone, dopo un iniziale periodo di tolleranza gli aveva dato l’aut aut, imponendogli di lasciare Flora e di sposarla. Marcello borbottava mezze promesse e faceva la spola in aereo fra le due sponde dell’Atlantico. Finché una sera, tornando dall’Italia, ave210 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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va trovato le sue valige sul pianerottolo. Aveva bussato alla porta, aveva cercato un dialogo. Niente da fare. Incapace di rassegnarsi, durante una cena dal Toscano cercava la complicità di Fellini riferendo con sincero stupore l’intransigente terminologia di Faye e imitandone d’istinto la cadenza da sergente yankee: “Stop Marcello! Finished!”. E aggiungeva costernato: “Così, da un momento all’altro: non sentiva ragioni. Io mica capisco come so’ fatte le donne americane!” Federico sogghignava perfido: “Però t’aveva avvertito.” “E allora? Che comportamento è!? Che stiamo nell’esercito? Stop, finish. Si parla, ci si chiarisce.” Intanto mangiava i fagioli cannellini cotti al fiasco e conditi nella terrina con buon olio di frantoio. E si consolava da solo: “Almeno mi mangio in pace i miei fagioli.” Aveva un debole invincibile per i legumi. Fellini si informava sornione: “Perché in America non si sono i fagioli?” “Ci sono, ma sai, fanno aria e diventava imbarazzante. A volte per liberarmi il ventre dovevo ricorrere all’espediente di andare a prendere qualcosa in cucina, mi alzavo, cambiavo stanza, spostavo fragorosamente le pentole, battevo i coperchi tra loro, amplificavo improvvisi accessi di tosse, insomma coprivo i rumori...” E tutti e due ridevano fino alle lacrime, accantonando per quella sera l’afflizione sentimentale. Con Catherine Deneuve, qualche anno dopo, la situazione si ripropose non dissimile nei presupposti, ma più ingarbugliata e dolorosa nell’epilogo. Dall’amore tra i due artisti era nata nel ’72 una bambina, Chiara, a cui Marcello, entrato nella maturità dei cinquant’anni, si era teneramente legato. Per starle accanto si era persino trasferito a Parigi dove ormai trascorreva più tempo che in Italia. Quando anche l’idillio con Catherine volse al tramonto, crollò in un profondo abbattimento. Soffriva ferocemente la mancanza della donna che non perdeva occasione di invocare come “la mia bambina”. Una volta, sempre durante una cena ristretta con Fellini, l’equivoco andò avanti con involontaria comicità tra una portata e l’altra; Federico credeva che la struggente espres211 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sione ripetuta dall’amico si riferisse a Chiara, la figlia; cercava di tranquillizzarlo, di farlo ragionare: si trattava di un capriccio infantile, un’impuntatura, alla fin fine non stava a lei decidere, l’avrebbe vista tutte le volte che desiderava, tenendola anche con sé senza problemi. E lui: “Macché, non torna indietro, è irremovibile, non ne vuole più sapere quella zoccola!” E qui dopo un soprassalto di gelata sorpresa per il pesante epiteto rivolto a una bimbetta, l’ingorgo di pianto si era risolto in irrefrenabili risate per l’esilarante malinteso. Era facile da parte di tutti affermare che Marcello fosse l’alter ego di Federico, senza sospettare che magari era vero il contrario: nello specchio qual è l’immagine reale e quella riflessa?

La storia della casina sul porto, nella mito-biografia di Fellini, è diventata negli anni il simbolo dell’occasione perduta, della riconciliazione negata. Quasi una sorta di lapsus freudiano da parte di Rimini, la città natale, che nel momento stesso in cui offriva al suo maggiore artista un ‘buen retiro’ tra le mura del ‘borgo’, con un clamoroso inciampo rivelava un desiderio inconscio esattamente di segno opposto, cioè lo strambo rifiuto a riaccoglierlo. Oggi è forse possibile azzardare una lettura in chiave psicanalitica di quanto accadde, sapendo quanto il rapporto tra Rimini e Fellini non sia mai stato improntato all’idillio. Ma era veramente così? E inoltre c’è da domandarsi: per colpa di chi? All’origine di ogni contrasto c’è sempre il peccato originale, quel treno per Roma preso all’alba voltando le spalle alla cittadina dell’infanzia mentre tutti gli amici dormono beati nei loro letti. Lo scambista de I vitelloni, una specie di giovanissimo angelo protettore che vigila sulla partenza, si chiama Guido, e Guido sarà anche il nome del protagonista di 8 ½. Molti anni dopo quella partenza, quando Federico tornerà a 212 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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casa – come egli stesso scrisse in quel bellissimo testo della memoria che è La mia Rimini – non riconosce più il borgo e il borgo non riconosce lui. Si è creata ormai una faglia insormontabile, una trincea di incomprensione, le strade si sono divaricate, ognuno è cresciuto per suo conto. L’ex villaggio sulla grande spiaggia adriatica si è trasformato in una specie di metropoli, d’estate si infiamma di luci, di insegne, di discoteche, di sballo, di febbre del sabato sera; protesa ai soldi, al consumo, alla modernità. Nel frattempo Fellini è diventato uno degli artisti più celebri del mondo, senza smettere di proteggere nel cuore, ormai irriconoscibile, il paese dell’infanzia che in seguito racconterà in Amarcord. E Rimini ha ormai perso di vista il ragazzo che disegnava le caricature dei divi americani per il proprietario del cinema Fulgor che in cambio lo faceva entrare senza biglietto; ora deve fare i conti con un personaggio talmente cresciuto di misura da risultare persino ingombrante. Per quasi tutti gli abitanti; tranne che per il Grosso, l’amico Titta con cui è rimasta la semplice complicità dell’adolescenza, e rappresenta la testa di ponte per certe brevi incursioni notturne dentro le proprie mura. Federico vive la celebrità sul palcoscenico del mondo, ma nella “sua” Rimini è schivo, scontroso; e persino contrariato, perché senza il suo permesso i cittadini hanno cambiato lo scenario della memoria. Non va dimenticato che è prima di tutto un regista, e nel suo mestiere coltiva l’ambizione “di far concorrenza al Padreterno.” Quando girerà Amarcord ogni angolo, ogni particolare della sua città verrà ricostruito dentro Cinecittà; a Rimini non verrà impressionato neppure un metro di pellicola, della vera città non ci sarà una sola inquadratura. I riminesi scambiano il suo atteggiamento per arroganza, per disprezzo, per mancanza di amicizia. Cresce l’ammirazione ma diminuisce l’affetto. Amarcord vince il quarto Premio Oscar; il Grand Hotel diventa l’albergo più noto nel mondo dopo il Plaza di New York; il commendator Arpesella, per riconoscenza, riser213 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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va all’artista “vita natural durante” l’appartamento denominato “della cupola” e con quel gesto è come se volesse rimediare al silenzio della municipalità donandogli un surrogato delle chiavi della città. Dopo Amarcord tuttavia l’atteggiamento generale dei romagnoli cambia, Fellini diventa una bandiera per l’intera regione. Inizia lentamente il disgelo. Ma debbono trascorrere ancora dieci anni. 1983: altro film, E la nave va, stesso produttore Franco Cristaldi. I tempi sono ormai maturi per il grande passo: Rimini ospiterà la prima mondiale della nuova opera di Fellini. L’evento è organizzato in ogni dettaglio: mega ricevimento al Grand Hotel, collegamento in diretta televisiva con RAI UNO e Domenica In condotta da Pippo Baudo. Tutta la stampa internazionale converge nella ‘resort city’ più importante dell’Adriatico. È festa grande. Davanti alle telecamere Federico, visibilmente turbato, si lascia andare a una pudorata dichiarazione d’amore per la sua città; arriva persino ad affermare, condizionato dalla gran commozione che lo circonda, che sì, in effetti, qualche volta ha fantasticato di finire i suoi giorni a Rimini, gli piacerebbe passare la vecchiaia in una di quelle casupole sul porto. Gli applausi scrosciano irrefrenabili. Fellini ritorna! E spente le luci della kermesse, si crea immediatamente un “comitato per la casina sul porto”, sindaco in testa, lo stesso Arpesella e suo figlio, tra i promotori. L’immobile viene identificato a spron battuto, la notizia corre per le colonne dei giornali: Rimini, esaudendo un desiderio del celeberrimo artista, onorata di riaccoglierlo finalmente tra le proprie mura, dona a Federico Fellini la ‘casina sul porto’ da lui vagheggiata. Sarà il Primo Cittadino in persona a mostrare la proprietà a Giulietta e Federico accorsi per l’occasione da Roma. Giulietta è molto elettrizzata, l’appartamento su due piani le piace, forse ancor più che al marito, il quale continua a celiare, ma così, per carattere, che il Grand Hotel è comunque da preferire. 214 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Però il gesto dell’amministrazione comunale è nobile in sé, di gran classe, abile per la positiva ricaduta di immagine sulla città, per l’incremento del turismo. Rimini per una volta è stata generosa, il sindaco è simpatico ed entusiasta. Certo l’immobile è malridotto, bisogna ristrutturarlo, ma alla fine diventerà un autentico gioiello. Si tratta soltanto di procedere al passaggio di proprietà. Fellini lascia l’incarico al fidato Titta, altresì avvocato Luigi Benzi, e torna nella Capitale. Ed ecco che come un fulmine a ciel sereno, giunge dall’amico la notizia inaspettata: la casa è gravata da tali ipoteche e impicci legali, che una volta intestata chissà quanti soldi ci vorranno per riscattarla; senza contare l’incognita dei tribunali, l’ufficio delle imposte, le tasse pregresse. Insomma un vero ginepraio. Meglio per Federico rinunciare al dono e filarsela in tempo. Così niente casina sul porto e niente vecchiaia tra le mura del borgo, il sogno è infranto. Il beau gest si ritorce in uno sberleffo: Rimini ancora una volta non si smentisce, inconsciamente (o forse consapevolmente!) preferisce che il grande regista se ne resti a Roma. La storiella sollevò non poche ironie; il direttore di produzione Gino Millozza andava per le spicce: “A Federì, i riminesi te volevano rifilà ‘na sòla!” ‘Sòla’ in romanesco è termine che indica una fregatura. E in Italia tutti risero. Onestamente, ne rise anche Federico, senza rancore. Conoscendolo un po’, credo si fosse sentito perfino sollevato di non essere costretto a onorare un ‘impegno’ che lo avrebbe davvero ricondotto a una condizione per lui poco felice. E tutto a causa di una frase imprudente, pronunciata forse più nell’emozione della circostanza che per una reale convinzione.

Pietro Notarianni non era un personaggio celebre, benché co215 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nosciutissimo nell’ambiente. Era stato organizzatore generale degli ultimi film di Fellini, precedentemente braccio destro (e anche sinistro, aggiungevano i maliziosi, per far intendere che aveva le mani infilate in qualsiasi pasticcio) di Franco Cristaldi, insieme al quale, alla Vides, aveva tenuto a battesimo praticamente l’intera schiera dei nostri cineasti più illustri, quelli che avrebbero segnato la stagione irripetibile degli anni Sessanta e Settanta. Cugino del senatore Pietro Ingrao, Notarianni, comunista d’antan sebbene di famiglia alto borghese e rigorosamente ‘governativa’ – suo padre era stato Prefetto – aveva trovato una larga intesa ideologica con un altro rivoluzionario in giacca da camera come Luchino Visconti, insieme al quale aveva collaborato al tempo del Gattopardo. Film memorabile che per poco non mandò gambe all’aria una casa di produzione solida da più di mezzo secolo come la Titanus di Goffredo Lombardo. Visconti non accettava la logica dei preventivi, andava dritto per la sua strada. Avendo immaginato un’inquadratura in cui doveva riprendere Donnafugata, la residenza estiva del principe di Salina, in campo lunghissimo, aveva preteso che fosse spianata un’intera collina. E Notarianni, non essendo sufficienti i bulldozer della produzione, s’era adoperato per far intervenire i mezzi cingolati dell’esercito. Una medaglia sul petto, ma anche un’impresa che era costata quanto mezzo film. Malgrado ciò non imparò la lezione, e volle diventare egli stesso produttore di Visconti impantanandosi nella realizzazione di La Caduta degli Dei (Götterdämmerung 1972). I soldi non bastavano mai, gli anticipi delle distribuzioni erano stati bruciati in fretta. Contava di rifarsi al botteghino, credeva ciecamente nel carisma del Conte, e così impegnò tutti gli averi, prima i liquidi, poi qualche proprietà di famiglia, infine mise sotto ipoteca il proprio appartamento. Avvertendo per scrupolo il regista che, continuando a ‘sforare’ sul budget, lo avrebbe rovinato. “A me interessa poco, sei tu il produttore non io.” Gli rispose laconico il tiranno. Dopo quel film Notarianni fu costretto per vivere 216 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ad accettare ruoli gregari, benché d’alto profilo. Veniva chiamato in veste di ‘organizzatore generale’; ma anche di consulente, o meglio ‘consigliori’, cioè persona di fiducia del produttore di turno; ribattezzato la ‘morchia’ dal cinico linguaggio dei cinematografari romani; vale a dire il grasso denso che unge il mozzo della ruota e l’aiuta a scivolare meglio. Notarianni si collocava cioè in una funzione di mediazione ‘diplomatica’ tra finanziatori, imprenditori, maestranze e registi. Posizione piuttosto scomoda ma non per lui, che anzi la assumeva con perfetta noncuranza, con dignitosa e quasi gioiosa impavidità. Persino sorridendo con una punta di vanagloria ai tanti nomignoli che aveva collezionato nell’estrosa fantasia delle troupe: da ‘tergi Cristaldi’, durante il lungo periodo trascorso accanto al patron della Vides, a ‘il tallone d’Achille’ quando affiancava il produttore Achille Manzotti; fino al soprannome più diffuso di ‘dottor Divago’ riferito alla sua innata abilità a non affrontare mai di petto nessun problema complicato; ma anche per la caratteristica dell’eloquio, tentennante, ondivago, costruito con lunghe pause sonorizzate da sospensioni gutturali, estenuanti gargarismi tra una parola e l’altra. L’appellativo che lo divertiva di più era quello coniato da Fellini che, conoscendone l’inclinazione sessuale, l’aveva soprannominato Peter O’Cul, in assonanza a Peter O’Toole l’indimenticabile attore irlandese interprete di Lawrence d’Arabia. Se il cinema è grande, anzi se rappresenta la vera aristocrazia dell’arte della scena, lo si deve anche alla sua forza ferina di presidiare un territorio franco, di autentica libertà, di non ipocrita tolleranza. Rifugio per decenni, e in tempi assai meno docili degli attuali, di tutti coloro considerati a qualsiasi titolo ‘diversi’ – compresi i sognatori, i disturbati mentali, gli emarginati, i non garantiti della Terra – che non avevano vita facile nel contesto sociale ordinario, e che a Cinecittà hanno sempre trovato la loro patria putativa.

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Per Intervista Federico indusse Notarianni – produttore esecutivo e come si è detto comunista integerrimo – a interpretare il ruolo di un gerarca fascista, in orbace e stivaloni, il quale giunge sul set in Mercedes e autista di servizio. “Compare prima l’Unità e poi il vecchio Peter” commenta la voce stessa del regista mentre il neo attore scende dall’auto dispiegando platealmente il quotidiano della classe operaia. È la sequenza del ‘tranvetto azzurro’ che, prima della guerra, partendo dalla Casa del Pellegrino adiacente alla Stazione Termini, arrivava fino agli stabilimenti in fondo a via Tuscolana. In quel tragitto di pochi chilometri sullo sfondo della via Appia Antica e dell’Acquedotto romano, la fantasia di Fellini intarsia un caleidoscopio di situazioni mirabolanti. Nell’attraversamento di un forra, lassù sul ciglio del dirupo, appaiono persino gli indiani a cavallo, sul piede di guerra. Ma il gerarca, che ha in odio tutti i ‘pellirossa’ non si lascia intimidire: “È una razza di gente coraggiosa, ma infida. Chissà perché non si decidono a sterminarle tutte quelle tribù, magari lasciando solo qualche esemplare per i loro film.” E atteggiando pollice e indice a pistola, come fanno i bambini, spara per finta contro i guerrieri impennacchiati: “Pam, pam!” Pietro Notarianni era tornato a fianco di Federico in occasione di E la nave va ed era rimasto con lui fino all’ultimo film, La Voce della Luna, prodotto da Mario e Vittorio Cecchi Gori. Per tutti quegli anni aveva abitato nel Residence di via Po, praticamente all’angolo dello stabile di Corso d’Italia in cui Federico aveva affittato lo studio. Erano per così dire ‘casa e bottega’. Quando Fellini entrò in coma al Policlinico Umberto I e ci davamo il cambio dietro le inaccessibili porte di vetro smerigliato del reparto di rianimazione, la notte in cui si era perduta ogni speranza, il commento di Notarianni era stato: “Vado a mettermi fra le pezze, e non mi alzo finché non mi chiamate”. Il ‘vecchio Peter’ di sei anni più giovane del suo amico, aveva aspettato la notizia disteso a letto, in compagnia del gatto che era solito accoccolarglisi sulla 218 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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testa. Un cucciolo di persiano che Fellini gli aveva regalato, sapendolo sempre solo nella sua stanza.

Viaggio a Tulum: da quanto tempo se ne è parlato! Fellini per anni ha alimentato la brace di una serpeggiante passione per Carlos Castaneda, il celebre scrittore visionario e occultista di origine brasiliana. Aveva letto i suoi libri, in parte romanzi in parte ricerche antropologiche sulla figura di Don Juan Matus, un messicano di etnia yaqui, che aveva iniziato l’autore alla stregoneria, conducendolo a scoprire mondi e stati di coscienza alterati attraverso l’uso di sostanze stupefacenti. Primo tra tutti il cactus Peyote da cui si estrae la mescalina. Un allucinogeno di cui Fellini parlava con allarmata diffidenza, attribuendogli cupe e angosciose influenze; inadatto nel suo caso a espandere l’immaginazione, ma al contrario incline a deprimerla in tormentose ossessioni, stati di malessere e vischiosi sensi di colpa. L’idea però di incontrare Castaneda, diventato per propria enunciazione uno sciamano egli stesso, anzi il nagual cioè il seguace, l’erede designato di Don Juan, lo poneva in uno stato di eccitata curiosità. Sembra che più volte i due artisti si siano incrociati, sfiorati senza riconoscersi, forse per precisa volontà del brasiliano. Nondimeno erano in contatto, si scrivevano e inviavano messaggi, proponendosi ogni volta una irrinviabile conoscenza personale. E l’occasione si presentò alla fine di E la nave va, quando Fellini tornando a fantasticare su un film ispirato ai romanzi dell’eccentrico narratore, decise su esplicito invito di Castaneda di partire veramente alla volta del Messico. La spedizione comprendeva il giovane scrittore Andrea Di Carlo cooptato in qualità di assistente, e il figlio del produttore Alberto Grimaldi in compagnia della sua inquieta e attraente girl friend del momento. Tuttavia, come era forse prevedibile, anche questa vol219 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ta l’incontro non ci fu. Castaneda, così come è stato fedelmente ripercorso nella storia a fumetti di Milo Manara, continuava a mutare luogo e ora dell’appuntamento, attirando Federico e i suoi amici nel cuore dello Yukatan, senza mai mostrarsi. Tenendo fede al mistero che ne avvolgeva la persona, al punto che alcuni irriducibili ‘dietrologi’ arrivarono a dubitare che lo scrittore fosse mai esistito, o addirittura a ipotizzare che fosse morto e che la sua corte di iniziati, per lo più femmine adoranti, continuasse in sua vece e per sua volontà a redigerne i testi. Non fu tanto questa imprendibilità a disturbare Federico, quanto l’accumulo di segnali negativi che si andavano disseminando lungo il viaggio e di cui non si riusciva a decifrare l’enigma: si trattava della sulfurea messa in scena di un abile giocoliere, oppure un’avventura affrontata troppo alla cieca che giorno dopo giorno si stava rivelando sempre più contorta e minacciosa? Questo è l’antefatto. In tanti hanno pensato, dopo l’uscita degli albi disegnati da Manara, a riprendere il soggetto per realizzarne un film, arrestandosi in genere di fronte ai primi ostacoli e all’oggettiva difficoltà di assicurare una trasposizione plausibile a una intuizione che Fellini chissà in che direzione avrebbe spinto. E che per la verità ben presto aveva abbandonato senza rimpianti. Rimesso piede in Italia, Federico insieme a Tullio Pinelli pubblicò sul Corriere della Sera, in forma di racconto illustrato da alcuni disegni di Manara, il resoconto della trasferta. Con lo scopo molto pragmatico di affermare il copyright della vicenda; ristabilire in un documento pubblico i punti fermi di una cronaca fumosa che già Andrea di Carlo stava rimaneggiando a sua volta in un romanzo.

Intervista avrebbe dovuto intitolarsi “Un Regista a Cinecittà”, ma all’ultimo momento Fellini cambiò idea, dal momento 220 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che egli stesso, presente in scena, snodava il racconto in prima persona scegliendo come pretesto narrativo una troupe televisiva giapponese che veniva a intervistarlo. In ogni caso al centro della storia c’erano gli stabilimenti di via Tuscolana, i teatri di posa inaugurati nel 1937 da Benito Mussolini con lo slogan: La cinematografia è l’arma più forte. Intervista ottenne un’emozionante vittoria al Festival di Cannes dove si aggiudicò il Premio Speciale della Giuria riscuotendo venti minuti di applausi, con il pubblico in piedi a rendergli omaggio e Fellini che mormorava incredulo: “Forse si sbagliano, è solo un fenomeno di suggestione collettiva.” La lavorazione del film ebbe inizio in piena estate nel 1986. Per una ragione di pre-finanziamenti – ma soprattutto perché Fellini amava sopra ogni cosa lavorare durante le ferie degli altri e non dover pensare alle proprie vacanze – fu deciso insieme al produttore Ibrahim Moussa, più celebre come marito di Nastassja Kinsky, di organizzare un’anticipazione delle riprese a ridosso di Ferragosto. Partendo proprio dalla sequenza notturna, che è quella di apertura: le braccia d’acciaio di due gigantesche gru meccaniche illuminate da potenti riflettori, si innalzano nel cielo buio tra spesse volute di nebbia artificiale, al di sopra dei tetti e delle costruzioni di Cinecittà. Erano giornate caldissime e lavorare di notte nella frescura dei pini recava un insperato sollievo. Con l’aggiunta di quella emozione adrenalinica, di quel tipico fremito di eroismo che serpeggia tra le maestranze quando si affronta un’impresa insolita, si stravolgono gli orari, si piega il flusso della giornata a un’esigenza prioritaria. La troupe diventa una sorta di eccitata soldataglia al comando di un capitano di ventura dai traguardi imprevedibili. Si creavano meravigliosi bivacchi nella notte fra i viali di Cinecittà, arrivavano amici e conoscenti, con la prospettiva di godersi il venticello e di assistere in ‘diretta’, da privilegiati, alla nuova creazione di Fellini. C’erano molte belle donne, intellettuali, fun221 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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zionari della TV, un corteo di irriducibili innamorati della Roma d’agosto che non si decidevano a partire e trovavano in quella gita notturna fuori porta un motivo in più di felicità: riscoprire la città vuota, le strade deserte, e la Capitale così bella come soltanto d’estate, antica e ammaliante oltre ogni immaginazione. A una cert’ora come di consueto veniva ‘spaccato’ il cocomero, si entrava in pausa affondando le facce in quelle mezzelune verdi e rosse afferrate a due mani, dissetandosi alla polpa succosa e zuccherina, tutti in silenzio o a ridere, nel ritrovarsi in quel rito allegro, infantile e povero, di una vita resa appagante dalla sua stessa dimenticata semplicità. Quanto amava Federico quell’aria da scampagnata cameratesca che accompagnava i suoi film! E nella magia della notte, a proiettori spenti, ascoltare il coro inesausto dei grilli tra le chiome degli alberi, quell’eccitato concerto d’amore sotto il chiarore della luna. Poi si tornava al lavoro, gli elettricisti riattivavano la corrente, Federico si rimetteva alla macchina da presa, e la squadra dei fedelissimi riprendeva la propria geometrica manovra. Quando concepì la prima idea di raccontare Cinecittà, Fellini mi propose di scrivere qualcosa, a mio piacimento, sugli stabilimenti. Un soggettone da sottoporgli, che buttai giù in pochi giorni e cominciava così: Circondata da un muro alto e compatto, occupata da padiglioni squadrati, ben dislocati tra filari di pini, aiuole e vialetti, silenziosa nel rombo ovattato del traffico lontano e il sospeso cinguettio degli uccelli, Cinecittà può apparire per chi sa guardare oltre che dritto anche di trasverso, una vasta ‘casa di cura’, un distretto ospedaliero, un nosocomio. La narrazione continuava sfiorando ripetutamente l’iniziale metafora, descrivendo padiglioni e persone, raccontando quella città eterodossa in tutti i suoi anfratti, miti e leggende. Ma anche inveterate abitudini, commerci, e persino fantasmi. Un’isola a se stante, un assortito campionario di umanità attorno all’instancabi222 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le peristalsi di un gran ventre produttivo che giorno dopo giorno sfornava favole di celluloide per le sale cinematografiche e per i nostri sogni a occhi aperti. Un capitoletto era anche dedicato al ponentino, il vento di Roma che si alza fatato dopo il tramonto: Soffia il vento nei viali di Cinecittà, è lo scirocco romano, umido e denso di odori. È arrivato fin quaggiù attraversando il Centro, spazzando case e cortili, avvolgendosi nella notte tra i ruderi di granito, le piazze gli obelischi gli archi, investendo immense cattedrali profumate d’incenso, scompigliando alberi e tetti, dilagando nei quartieri dormitorio della periferia, fino alla campagna, agli ovili, alle vestigia fatiscenti di tombe, acquedotti, mausolei, torri milizie, scontrandosi infine con la barriera dei colli e riavvolgendosi in un rigurgito dentro le mura di cinta di questo strano reclusorio addormentato. Qui si precipita rapinoso nei viali, sollevando carte, barattoli, aghi di pino, facendo correre pigne secche, piegando con forza le fronde dei cespugli, le chiome alte degli alberi, le buie spalle dei cipressi, fischiando negli androni e muggendo nei lunghi corridoi dei teatri, strappando teli alle impalcature, sbatacchiando sacchi neri di plastica con schiocchi infuriati. E i cani, col naso in aria, fiutano tutto quello che il vento gli porta, tendendo il collo, stringendo gli occhi e facendo fremere le narici senza posa. Chissà cosa sentono. Federico lesse nel soggetto anche di Nadia, un’avvenente biondina con il volto di bisquit, che nelle pause del lavoro d’ufficio all’Istituto Luce, approfittava per raccogliere la cicoria nei prati attorno alla piscina. Volle inserirla nella storia, e nel film successivo, l’ultima sua opera, diede alla luna il volto di lei. Fellini pensava anche a Kafka, e mi sollecitò a leggere America, che mi era fino ad allora sfuggito. Inoltre aveva i suoi racconti, i suoi ‘ricordi inventati’, naturalmente molto più belli dei miei appunti. Mettemmo insieme i materiali e il film iniziò rapidamente a prendere forma. La sceneggiatura, dopo la stesura di base, procedeva a salti, assecondando più gli umori e le improv223 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vise ispirazioni del regista che il piano di lavorazione. Che pur tuttavia venne rispettato alla lettera, nei tempi previsti da Gino Millozza, l’organizzatore generale divenuto leggendario per la su intransigenza. Dopo l’anticipazione di Ferragosto, la lavorazione ebbe una pausa fisiologica e riprese in autunno per concludersi prima di Natale. Del film entrarono a far parte i due divi de La dolce vita, Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, lui nei panni di un ingrigito e improbabile Mandrake ormai ‘prestato’ alla pubblicità, lei ‘rivisitata’ nella sua villa di Genzano, a spalle nude e avvolta in un pareo che non riusciva ad arginarne le forme in espansione. Entrambi più interessati al whisky che ai ricordi amorosi. Federico li accarezzò con la macchina da presa, in una sequenza struggente: stava celebrando con affettuosa amarezza la fine di un’epoca che aveva contribuito a creare, anzi che egli stesso aveva inventato e resa celebre in tutto il mondo. L’artista assisteva, così come accade nel film, all’assedio massiccio, all’accerchiamento sistematico dei nuovi padroni dell’immagine, quelle produzioni di filmati pubblicitari che stavano invadendo giorno dopo giorno tutti gli spazi di Cinecittà. E ancora non aveva visto – ma non ne aveva bisogno avendolo già prodigiosamente anticipato in Ginger e Fred – l’occupazione armi e bagagli della TV. Oggi quasi tutti i 15 gloriosi teatri di posa sono diventati studi televisivi, sequestrati dai talk-show, dal Grande Fratello, dalle roboanti serate del sabato catodico, lotterie nazionali e fantasie di comici nazional-popolari. Federico non è vissuto abbastanza per sperimentarlo, eppure l’aveva preannunciato molto prima e molto meglio di qualsiasi veggente nel finale del film. Una troupe di cinematografari si raccoglie sotto una tenda improvvisata dagli attrezzisti con cantinelle di legno e teli di plastica trasparente. Spalla a spalla, frementi, gli intrepidi superstiti aspettano l’alba, sanno che sarà quella l’ora dell’attacco. Si preparano al peggio, i più vecchi e irriducibili 224 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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imbracciando il fucile, spiando le creste delle colline da dove si scatenerà l’inferno. Ed ecco che ai primi lucori un bolide di fuoco si abbatte sull’attendamento e subito dopo esplode l’urlo di guerra degli indiani a cavallo, minacciosi, pronti allo sterminio. I pellirossa con i capi piumati si stagliano in controluce brandendo in alto le lance rilucenti, che al momento della carica si rivelano per antenne televisive. Non c’è scampo per i nostri eroi, e solo lo STOP! gridato nel megafono dalla voce di Fellini, ci risparmia il peggio. Il film è finito, tutti a casa. La troupe si disperde sotto la pioggerella invernale, il campo viene smontato, i camion dei mezzi tecnici si avviano all’uscita. Un aiuto regista con l’ombrello sfondato si allontana arrancando nel fango, di spalle, come in una inquadratura di Charlie Chaplin. Esiste altra verità oltre la poesia?

Di statura bassissima, Tonino Delli Colli ricordava proprio Brontolo, il nano della favola. La troupe l’aveva soprannominato ‘la callara delli fascioli’, cioè la pentola che ribolle senza mai smettere. Dopo il Premio Oscar a La Vita è bella di Benigni, l’operatore aveva lasciato il set senza rammarico. In Italia non esisteva più il cinema che conosceva lui, di lavoro ne aveva accumulato fin troppo e di soddisfazioni anche. Da Pasolini a Dino Risi a Sergio Leone, aveva collaborato con tutti i nomi più celebri della nostra industria di celluloide. E Fellini aveva segnato a fine carriera il gradito culmine della gloria. Per Ginger e Fred, cedendo alle insistenze di Giulietta Masina, Federico aveva ingaggiato inizialmente Ennio Guarnieri, operatore di molti film di Zeffirelli. Ma non era quella la fotografia che poteva soddisfarlo, troppo artificiosa ed edulcorata. Nel giro di una settimana era arrivato Tonino Delli Colli, già in squadra con il costumista Danilo Donati e lo scenografo Dante Ferretti nei grandi affreschi di Pasolini, da 225 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Accattone alla Trilogia della Vita. Da subito si era rivelato il tecnico giusto, sulla scia dei grandi maestri del passato che Federico più amava, Aldo Tonti, Otello Martelli, Arturo Gallea: solidi operai privi di qualsiasi retorica sul proprio mestiere, o di atteggiamenti intellettuali; al contrario geniali “elettricisti” capaci di creare con infallibile esattezza la luce desiderata, e senza tormentate lungaggini. Tonino Delli Colli riportava sul set l’estrema nobiltà della professione, l’artigiano che plasma e forma con le proprie lampade il pensiero astratto. Apparteneva proprio al gradino più alto. Parlava soltanto romanesco, non si atteggiava, non citava opere pittoriche, non si perdeva in chiacchiere. Per Intervista avevamo imbastito una sequenza in cui bisognava riuscire – diceva Federico – a raccontare la luce, che cos’è la luce. Avevamo immaginato una breve situazione in cui unico oggetto di ripresa fosse la luce nella sua manifestazione. Una sera, nel Teatro 5 completamente vuoto (un ettaro di superficie in fuga allo sguardo), era stato tentato l’esperimento. Per cogliere quella fibrillazione magica e incantatrice con cui la luce si rivela nel pulviscolo atmosferico, Fellini aveva immaginato di far piovere da una torretta alta sei metri, direttamente dentro il raggio di un proiettore, un bel sacchetto di limatura d’oro. Tonino Delli Colli sembrava un po’ restio all’idea; più scettico che ostile, non afferrava bene di cosa si stesse parlando; per uno spirito pratico come il suo, tutto quell’ armamentario al fine di non fotografare nulla, risultava disturbante e pretestuoso. Se ne stava seduto su un cubo, quasi opponendo la sua inerzia dubbiosa e massiccia a quell’incomprensibile capriccio; comunicava a cenni con gli elettricisti in allerta sui ponti, ma come un sottufficiale neghittoso: non se la sentiva di dare ordini, di mandare allo sbaraglio una truppa scelta utile ancora ad altre imprese. “Ah Federì, ma che dovemo fa’?” Continuava a domandare scorato: “Che dobbiamo ripijà?” Ed ecco un raggio obliquo solcava le tenebre materializzato da fumi d’incenso e dentro quel cono di luce scintillava il vorticare 226 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di pagliuzze d’oro che Adriano Pischiutta, l’attrezzista, lasciava cadere con studiata continuità; poi, in una mirabolante successione, dai ponti, dalle torrette, dal cielo, si accendevano in sequenza giganteschi proiettori, file di skypans, batterie di parabole al quarzo sotto le capriate. E la macchina da presa, solitaria e microscopica in quell’antro da ciclopi, ronzava serena e imperturbabile registrando l’evento. Fiat lux! Era nato il cinema nella sua pura essenza. Federico è ritratto da solo, in quell’ ambiente smisurato, investito da quel fascio luminoso; la sua figura è di spalle, col cappottone, la sciarpa, i capelli arruffati sotto la falda stretta del cappelletto a cloche. Quante volte l’abbiamo visto così, con le braccia alzate, proteso a sedurre, ipnotizzare, dirigere, quasi fossero attori, anche i tagli dei riflettori, i riverberi, quella inimitabile scrittura che veniva arabescata nell’aria?

Tra Silvio Berlusconi e Federico Fellini non correva buon sangue. All’inizio degli anni Ottanta e dell’avventura mediatica del Cavaliere, la Fininvest aveva acquistato da Fulvio Frizzi (papà del presentatore Fabrizio) il listino della Cineriz in liquidazione, di cui facevano parte cinque titoli tra le opere più celebrate del regista: Lo sceicco bianco, I vitelloni, La dolce vita, 8 ½, Giulietta degli spiriti. Molto presto le pellicole cominciarono ad essere trasmesse sulle reti di Berlusconi e interrotte senza tregua con gli spot pubblicitari. Per Federico fu una ferita insostenibile vedere i suoi film passati al tritacarne. Lanciò lo slogan “Non si interrompe un’emozione”, e intentò causa al tycoon, a titolo personale e senza l’appoggio dell’ANAC, Associazione nazionale degli autori cinematografici. La cronaca è nota. Fellini perse la causa, ma non rinunciò a combattere contro lo strapotere televisivo, soprattutto privato, che a suo giudizio avrebbe ucciso il cinema e stravolto irrepa227 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rabilmente il tessuto culturale della nazione. Così quando Berlusconi tentò lo sbarco in Francia con “La Cinq”, Federico forte dell’amicizia con Jack Lang, il ministro della cultura francese che lo aveva insignito della Legion d’Onore, utilizzò tutta la sua influenza e ben nota capacità di persuasione per mettere in guardia i cugini d’oltralpe contro il “pericoloso avventuriero”. Al punto che l’impresa si arenò, Berlusconi fu costretto a fare marcia indietro e a scegliere la Spagna come territorio di conquista. Dichiarando alla prima occasione che “Fellini da solo gli aveva causato più guai di tutta la sinistra messa insieme.” Nel frattempo però i tempi si evolvevano, i socialisti che sostenevano il Cavaliere mostravano un feeling irrefrenabile nei confronti del grande Maestro; Enrico Manca, allora presidente della RAI (dal 1985 al 1992) decise con un eccezionale atto d’imperio di trasmettere Ginger e Fred in prima serata e senza alcuna interruzione. Sergio Zavoli si adoperava nel ruolo di conciliatore a riavvicinare i due contendenti. Berlusconi, superato l’incidente giudiziario nella parte del vincitore manifestava grandissima stima per Fellini, e più volte aveva espresso la volontà di produrre un suo film o comunque la disponibilità a intervenire finanziariamente per contribuire alla copertura di un progetto arenato. Ma Federico non cambiò mai il suo atteggiamento sdegnoso; e rispondendo alle amichevoli insistenze di Zavoli, si limitò a commentare: “Berlusconi sa dove si trova il mio ufficio, può venire a trovarmi quando vuole.” Lasciando capire che non sarebbe mai stato lui a muovere il primo passo. Quando nel 1985 gli fu assegnato dal Festival di Venezia il Leone d’Oro alla Carriera, ci fu un nuovo tentativo indiretto di avvicinamento, su iniziativa del giornalista di RAI TRE Giancarlo Santalmassi, brillante intellettuale di area socialista e di incrollabile fede felliniana. Un portavoce riferì a Fellini che Nicola Trussardi (molto legato a Bettino Craxi, leader del PSI e capo del governo) si rendeva disponibile a finanziare il suo prossimo film 228 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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(stavamo lavorando ai vari capitoli di Block-notes di un regista, da cui sarebbe nata Intervista), chiedendo in cambio ‘soltanto’ il primo nome nei titoli di testa. La risposta fu rapida e tagliente: “Non mi faccio presentare da un sarto.” I due illustri antagonisti non smisero di guardarsi in cagnesco; Berlusconi viveva con disagio, e in parte temeva, l’ostilità di un cineasta tanto venerato nell’opinione pubblica; Federico sospettava che il disegno di Berlusconi fosse quello di attrarlo nella propria orbita per meglio legittimare, con in pugno la capitolazione del più importante cineasta italiano, la propria ‘inarrestabile ascesa”; e alla stregua dei pittori rinascimentali che utilizzavano le loro tele per collocare i nemici tra i diavoli, organizzò una beffa nel suo ultimo film, La Voce della Luna. Da discolo incorreggibile, nella sequenza del ristorante in cui ha luogo il banchetto nuziale, raffigurò il Cavaliere in tenuta da calciatore milanista sulla porta a vento della cucina, così che i camerieri per entrare ed uscire con le mani occupate dai piatti di portata, dovessero prenderlo continuamente a pedate. Fu l’ultimo capitolo di uno scontro a distanza che non poté concludersi per l’improvvisa e precoce scomparsa del regista. Nessuno potrà mai sapere cosa sarebbe accaduto in seguito e se Berlusconi con le sue innate qualità di equilibrista sarebbe riuscito a conquistare anche la roccaforte del temibile e amato avversario. È stata peraltro una sorpresa corroborante ascoltarlo nel suo discorso programmatico per la candidatura alla Presidenza del Consiglio; l’antico avversario evocava Fellini tra le figure esemplari, anzi tutelari della nazione, riconoscendone insieme all’alto magistero artistico il prezioso contributo nella difesa della libertà dell’uomo. Gli rendeva un tardivo ma ideale onore delle armi.

Per La voce della Luna, come per nessun altro film precedente, 229 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Fellini aveva riempito di figure, sfondi, cieli, arabeschi, decine e decine di pagine della risma di fogli extra strong che teneva sempre davanti a sé sul tavolo. Non più schizzi, ma vere tavole preparatorie, come si usa in pittura; uno story-board di sequenze sature di colore, inquadrature complesse descritte in ogni minimo particolare, campite da cima a fondo dalle felter pen, senza che un solo spazio bianco sfuggisse all’invasione delle pennellate. Era la sua partitura pittorica per il film, mobile e sapiente, sfaccettata e allusiva; c’era la luce del fuoco nel camino, la luce dei fulmini sulla quercia, la luce dell’intelligenza e della follia. Ariosto affidava alla Luna il senno smarrito dai mortali; i lunatici nutrivano pur sempre una speranza. Ma ora che anche la Luna era stata estirpata al suo alveo celeste, piegata alla bramosia di possesso, alla logica dell’apparire e del rumore, profanata e rimessa nel cielo, persino lei, la divina Diana, sorrideva stolida inneggiando alla pubblicità. Alla Voce della Luna era dedicata l’ultima opera del Maestro; il pallido astro che nelle notti di plenilunio si specchia nei pozzi come un disco splendente, galleggia sulla superficie immobile dell’acqua buia e ripete i sussurri che salgono da misteriose profondità sotterranee. Il richiamo è irresistibile e pericoloso, induce alla follia; e così il regista immagina che i tre fratelli Micheluzzi, costantemente immersi nel ventre della città per la manutenzione delle condutture idrauliche, un giorno concepiscano il folle progetto di utilizzare i loro complicati macchinari per strappare il satellite dal cielo e trascinarlo in terra. L’impresa riesce ed è così madornale che viene vissuta come un prodigio stupefacente, terrificante; le anime semplici si recano in pellegrinaggio alla cascina dentro cui è imprigionata la luna, si accostano con tremore al suo alone abbacinante, si inginocchiano a supplicare una grazia da quell’essere soprannaturale. La creatura celeste riaccende un anelito religioso in un mondo dove la fede è poco più di un’ombra sbiadita e tutti sembrano inseguire soltanto finti idoli che promet230 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tono immediata ma effimera felicità. Nestore, fresco sposo della procace Marisa, una bruna insaziabile di giochi amorosi, viene lasciato per un trucido motociclista e perde il senno smarrendosi sui tetti delle case, stregato dalla luna; in una moderna chiesa in vetroresina vengono scaricate dal cassone di un camion tante statue di Madonne fatte in serie con lo stampo; alla Sagra della Gnoccata, Aldina, eletta Miss Farina, è corteggiata da un maturo e ridicolo ganimede e respinge il romantico Ivo Salvini (Roberto Benigni) rapito fino all’estasi dal suo viso diafano in cui raffigura la candida malia della luna; in una confusionaria discoteca di campagna il sedicente prefetto Gonnella (Paolo Villaggio) interrompe d’imperio la musica assordante per volteggiare sulle note di un valzer di Strauss tra le braccia della sua antica fiamma, che torna a risplendere di magico fulgore; il sindaco della città, d’intesa con le autorità civili e religiose, organizza sulla cattura della luna un evento televisivo di piazza, con immancabile megaschermo, per dibattere sul significato di quel mitologico corpo celeste finalmente espiantato dal suo algido esilio per essere ricondotto a una più onesta misura terrestre. Ma un alto prelato avverte la folla che non c’è da aspettarsi alcuna rivelazione perché nella Chiesa tutto è già stato rivelato; tuttavia l’umile pretino incalzato dal cronista TV, risponde esitante che forse il Paradiso esiste solo al cinquanta per cento. Quando la luna segregata nel casolare appare sul grande schermo ripresa dalle telecamere, nella ressa uno spostato trae di tasca la grossa pistola a tamburo e spara contro la sua immagine, ingannevole al pari della vita sulla quale nessuno sa darci spiegazioni; la polizia lo arresta, uno psicanalista barbuto simile a Carlo Marx, imperterrito nel palco degli oratori, urla dal microfono che “siamo un paese di stronzi!”. Nel fuggi fuggi della folla impaurita, la piazza rimane deserta; soltanto una coppia di giovani clochard, due anime candide che non si pongono tante domande, si attardano a ballare goffamente sotto il monumento dei caduti. Mentre la luna in cielo si fa beffe di noi, strizza 231 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’occhio agli spettatori in sala e con spavaldo accento partenopeo gorgheggia: “Pubbllicitàààà!” Fellini ha disseminato nel film una costellazione di segrete presenze della sua vita; l’attrice che impersona la luna era una ragazza già utilizzata nel film precedente, Intervista. Si chiama Nadia Ottaviani e a quel tempo lavorava da archivista negli uffici dell’Istituto Luce, a Cinecittà, dunque a contatto quotidiano con i fantasmi di celluloide che alla moviola riemergevano dal passato. Era sempre abbigliata come una diva degli anni Trenta, chioma biondo platino con boccolo, vestiti avvitati sulla personcina elegante, gonne longuette, scarpine di vernice con tacchi alti. Sembrava uscita da una pellicola di Howard Hawks, da un romanzo di Dashiell Hammett. Era innamorata di Federico, il suo sogno sarebbe stato poter avere un figlio da lui, perché Fellini era il cinema, ed esserne fecondata avrebbe significato attraversare lo schermo incontro a un’altra dimensione, a un’altra vita. Un pegno di immortalità, come accadeva nella mitologia alle innumerevoli ninfe che si univano a Giove, il padre degli dei. Il suo desiderio, per strade diverse, trovò compimento: ora apparirà per sempre come l’ultima musa dell’artista. Moon struck, colpita dalla luna. In tanti sono vittima ogni giorno di quei raggi insidiosi e fatali che non concedono scampo. Alla luna piena ci si inchina sette volte esprimendo un desiderio, e se il voto è d’amore spesso si avvera. Fellini trovò l’ispirazione del film sfogliando le Operette Morali di Giacomo Leopardi, colpito da una frase che sembrava scritta proprio per lui dal più grande poeta della luna: “Nulla si sa, tutto s’immagina”.

“Vorrei fare un film su Venezia. Non una storia, ma tante storie, che compongano una sorta di mosaico. Insomma mi sembra che proprio il cinema abbia la possibilità di ricreare l’aspetto anche 232 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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femminile di questa città straordinaria, le impressioni misteriose, fantastiche, soprattutto oniriche che Venezia, anche se la vedi per una ennesima volta, sempre ti comunica. Parlo ovviamente di una dimensione non quotidiana, ma di una memoria, di una nostalgia, di un presentimento, di un colore dell’anima. Questo è il progetto che più mi sta a cuore, per la mia affinità con quella città così poco reale e così assolutamente fantastica.” Si tratta di un progetto con cui Fellini avrebbe voluto rinnovare il modello dell’affresco a episodi, già felicemente sperimentato per Roma, e che teneva in serbo anche per altre città come Napoli o New York; ventri ribollenti di boli – sosteneva – simili a Ninive, Sidone, Babilonia, le leggendarie capitali in cui l’uomo fin dall’alba dei tempi ha rincorso la propria aggregazione. Da tempo andava raccogliendo storie, aneddoti, immagini, affiancato a distanza, con generoso entusiasmo, dal giornalista Carlo Della Corte. Un brogliaccio di materiali arcani, intrisi di quell’umidore che lo scrittore conosceva così bene e che già aveva radunato nel romanzo Di alcune comparse a Venezia, da cui Tullio Pinelli tentò anche di ricavare, senza esiti, un trattamento cinematografico. Lo ricorda Alberto Ongaro, inesauribile narratore veneziano, messo in preallarme da Della Corte sulle intenzioni di Fellini e a sua volta intimamente deluso dal dissolversi del progetto: “Non avevamo tenuto conto che del cinema non ci si può fidare, – scrive Ongaro – avevamo dimenticato che su dieci progetti quando va bene si finisce per realizzarne uno, quando va male li si butta tutti. Non si sa di chi sia la colpa. Non si è mai capito, o almeno non l’ho capito io, e non l’ha capito neppure Carlo, nonostante gli sia andato così vicino. Forse il cinema è un fantasma che si incarna quando gli pare.” Al tempo de Il Casanova era stato Andrea Zanzotto, finissimo poeta, a comporre le varie ‘canzoni’ all’interno del film, tra le quali il ‘recitativo veneziano’ che avvolge in una dolce cantile233 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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na, un’ipnotica spirale d’incantesimo, l’inizio del film quando la gigantesca testa di Venusia, durante il Carnevale, riaffiora enigmaticamente in superficie per sprofondare di nuovo, subito dopo, negli abissi fluidi e silenziosi: Vera figura, vera natura, slansada in ragi come ‘n’aurora, che tuti quanti ti ne innamora... .............................................. Mona ciavona, cula cagona baba catàba, vecia spussona, toco de banda, toco de gnoca, squinsia e barona che a nu ne toca par sposa e mare, gnora e comare, sorela e nona, fiola e madona, nu te ordinemo, in sudor e in laor, che su ti sboci a chi te sa tor.

Venezia è rivissuta dal poeta e dal regista come la ‘grande mona’, la femmina bagnata, il grembo risucchiante, dal quale Casanova (Fellini?) non aveva più saputo riemergere. Ma l’intrigo non finisce qui, anzi è da qui che prende inizio. Alla testa del progetto di Federico sulla città lagunare troviamo un singolare patron, un formidabile personaggio di quegli anni rampanti, attirato nell’impresa da Sergio Zavoli. Si tratta di Raul Gardini, l’avventuroso genero di Serafino Ferruzzi da Ravenna, protagonista dell’affair Enimont e della lungimirante utopia del polo chimico italiano. Finito nell’occhio del ciclone di Mani Pulite, pochi mesi più tardi, nel luglio del 1992, si tolse la vita con un colpo di rivoltella. Ma le cose andarono davvero così? L’interrogativo resta ancora aperto per uno di quegli scandali o macchinazioni finanziarie di cui si finisce fatalmente per smarrire ogni traccia. Talvolta persino sotto il ponte dei Frati Neri. 234 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Raul Gardini capitano di industria, uomo di fascino e iniziativa, faceva sorridente mostra di sé nell’atelier del pittore Rinaldo Geleng, fraterno amico di Fellini. Nello studio di via Margutta il suo ritratto spiccava senza fatica tra le tele appoggiate alla parete, e non solo per le dimensioni: l’impavido nocchiero appariva sfidante e superbo con il viso al vento, le mani ben appoggiate alla grande ruota del timone del Moro di Venezia, la leggendaria imbarcazione che nel ’92 aveva sfiorato la vittoria della America’s Cup. Benché Gardini non si fosse mai avventurato prima nel business cinematografico, aveva però un forte legame con Venezia. Era proprietario sul Canal Grande di Palazzo Dario, aristocratica dimora marchiata da un sinistro maleficio: i suoi proprietari erano invariabilmente incorsi in oscure disgrazie, se non addirittura scomparsi in circostanze di morte violenta. Quando la figlia Eleonora Gardini mise in vendita il palazzo, lo stesso Woody Allen sembrava seriamente interessato all’acquisto, salvo ripiegare in precipitosa ritirata una volta scoperta la preoccupante superstizione. Eleonora, bellissima primogenita di Raul, era stata sposata con Giuseppe Cipriani, figlio di Arrigo, il fondatore e proprietario dell’Harry’s Bar. Di cui si legge nel trattamento del film: “Un altro luogo affascinante e misterioso è anche l’Harry’s Bar dove convergono il jet-set internazionale e gli aristocratici veneziani e dove si può trovare di tutto, dagli sceicchi agli spacciatori di droga, dalle puttane più sontuose a scrittorelli stranieri in cerca di ispirazione.” Tuttavia lo scenario del film si sposta quasi subito al di sotto dell’immobile superficie marina. Venezia, imputridita nelle fondamenta, sta correndo il serio rischio di un’immane catastrofe. Un ingegnere idraulico olandese viene invitato alla disperata dal governo a studiare sistemi di salvataggio della città, verosimilmente condannata a scomparire nella laguna. “Come una nuova incarnazione del Capitano Nemo l’ingegnere olandese nella sua batisfera munita delle più sofisticate 235 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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apparecchiature per l’esplorazione subacquea viaggia giorno e notte attraverso le misteriose fondamenta della città. Ai fasci di luce delle potenti lampade del suo piccolo sottomarino e di quelle dei suoi sommozzatori-palombari, esploratori di un paese sommerso, appare un paesaggio inimmaginabile nelle sue grandiose prospettive fantascientifiche: uno sterminato labirinto di palafitte, tra piramidali basamenti corrosi e marci e immense rovine di palazzi affondati, dove milioni di topi e una spettrale fauna marina vivono in una melmosa oscurità che a tratti vibra tutta per il passaggio in superficie di motoscafi e battelli.” Svariate erano le fonti letterarie consultate per l’opera di Fellini su Venezia; dal “Crollo della Casa degli Usher” a “La Maschera della Morte Rossa” di E.A. Poe, passando anche per Schiller e perfino disinvoltamente per Hugo Pratt. Si legge nel trattamento: “I racconti di Poe e di Schiller diventano degli incontri in cui ci si imbatte nella laguna non diversamente dal batiscafo dell’ingegnere idraulico o dalla convention pubblicitaria. Mi pare che la novità della proposta possa proprio far perno su questa apparente disomogeneità, quasi che il racconto intenda presentarsi con la stessa geografia della laguna, un equilibrio di terra e di mare, di vuoti e di pieni, che è poi anche il gioco che contraddistingue l’architettura veneziana, il suo stile inquietante e leggero, la trina infida e attraente dei suoi palazzi. Un gioco di ombre e di luci, un racconto visionario, fantastico, stratificato, metà in costume, metà attuale, metà inventato, come se in quell’unico elemento liquido su cui galleggia Venezia si fossero per l’appunto dissolti i confini del tempo e dello spazio, e tutto convivesse, compresente, in un unico inviolabile mistero.” Ecco dunque di nuovo incombere l’arcano, elemento caro all’artista riminese, che nella traduzione figurativa si sarebbe tinto dei luccichii dorati di Vittore Carpaccio insieme ai bagliori seducenti di Tiziano e ai pastelli del Canaletto. La storia spaziava 236 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dal batiscafo d’alta profondità, alla flotta di elicotteri che atterrano su Piazza San Marco per sbarcarvi il nuovo tycoon nazionale, circondato dalla sua corte di stelline mediatiche: “E intanto il re delle televisioni private sta comprando quasi tutta Venezia; compra l’Arsenale, la Madonna della Salute, i palazzi più belli e i principali alberghi. È tutto suo; e vuole fabbricare un Bucintoro e attraversare il Canal Grande ribattezzato Canale Cinque. Ha radunato a Venezia tutti gli amministratori, i consiglieri, gli agenti, i pubblicitari, tutti raccolti per festeggiare lui, che arriva in elicottero portando in premio l’ultima creatura del suo impero di spettacolo, una stupenda ragazza (un secondo, fondamentale personaggio femminile del film) che, giovanissima, ha acquistato una notorietà improvvisa e clamorosa reclamizzando in TV gli apparecchi igienici di una industria di provincia.” Purtroppo il destino della città sembra ormai fatalmente segnato: “È della notte la notizia che un altro vecchio palazzo è scivolato dentro la laguna. Assistiamo al crollo, alla lenta sparizione, della bellissima facciata dell’edificio che scivola scomparendo nelle acque torbide, circondata dai natanti e dalle batisfere della troupe degli addetti ai lavori.” Uno scenario apocalittico che tuttavia non sembra minimamente disturbare l’apparato del potere mondiale impegnato a celebrare i propri fasti: “Ma altri elicotteri stanno volteggiando nel cielo, lenti, guardinghi, minacciosi. Sono elicotteri militari, che insieme a motovedette, e presumibilmente a sottomarini, sorvegliano sulla sicurezza del summit che si sta svolgendo a Torcello fra i sette grandi della Terra. E tutto viene teleripreso dal network del nuovo padrone di Venezia, il summit degli uomini politici, il crollo dei palazzi, le vasche da bagno a forma di gondola, l’ultima trovata per lanciare nuovi articoli igienici con la ragazza gondoliera.” Questa Venezia di Fellini, mai realizzata, ci investe come una 237 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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metafora inaspettata, qualcosa che ci riguarda da vicino. A conferma che per l’artista passato e futuro debordano dai labili confini assegnati, si lambiscono, si incontrano, finiscono per fondersi nell’ispirazione del presente producendo talora immagini non del tutto comprensibili al primo apparire.

Negli ultimi tempi mi capitava di accompagnare Fellini presso una dama dell’alta società romana specializzata in manipolazioni della colonna vertebrale, la quale riceveva in un appartamento patrizio nel cuore più segreto della città. Federico lamentava fastidiose crisi di vertigini, capogiri e sbandamenti che a volte lo rendevano instabile, causandogli perfino improvvisi mancamenti. E quel trattamento, lo scioglimento di tensioni e contratture all’altezza delle vertebre cervicali, gli recava giovamento. “Ti lascio la mia testa – diceva alla signora – faccio un giro e poi torno a prenderla.” Al termine della terapia, sollevato e anche rasserenato, amava indugiare nell’appartamento confortevole e spesso restava a contemplare da un divano l’ampia finestra che si affacciava sul Tevere: lo scorcio della città, soprattutto al tramonto, era tra i più intatti e affascinanti, il lento scivolare dell’acqua tra gli argini e l’instancabile flusso, distante e astratto, delle auto sul lungofiume. Quando poteva il regista si tratteneva fino all’ora di cena, coinvolgendo anche Giulietta e qualche amico, immancabilmente gradito alla gioiosa ospitalità della castellana, onorata e felice di aggiungere una nota di festa al benessere del suo paziente. Perché Federico amava tanto quella casa? Si intratteneva volentieri con tutti, persino con la domestica di cui ascoltava commenti e racconti, avido e curioso di una vita così diversa dalla sua. Avvertiva intorno a sé un organismo vivo, pulsante. L’appartamento frequentato da pazienti, amici, compagni e compagne di scuola 238 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dei giovani figli della proprietaria, risultava una pila energetica, riproponeva in una diversa ambientazione, quel vitale crocevia di destini e nature umane così ampiamente descritte nel film Roma, particolarmente dalla sequenza di via Albalonga. Il primo approdo del regista nella Capitale. Da allora erano passati cinquanta anni. Il benessere, la celebrità, lo avevano avviato fatalmente a una vita protetta. Per i suoi spostamenti c’erano a disposizione autisti personali e auto di servizio, oppure gli amici che si contendevano il privilegio di accompagnarlo con la propria macchina per poter trascorrere con lui qualche decina di minuti in stretta confidenza. In quel modo la strade, la gente, il profumo di Roma rimaneva escluso al di là dei finestrini, come congelato in un acquario. Federico che da ragazzo aveva sceneggiato con Aldo Fabrizi Avanti c’è posto e L’ultima carrozzella, abituato a girare a piedi, o accalcandosi sui tram affollati, doveva avvertire una sottile nostalgia. Nel tempo la perdita di contatto con la variegata umanità della strada era vissuta come un impoverimento. Al punto che senza una spiegazione gli capitava di rimandare vuota a Cinecittà la macchina di servizio, per raggiungere a piedi la fermata di Piazzale Flaminio e prendere la Metropolitana, tra il divertimento e la sorpresa dei passeggeri. Oppure la sera, lasciando l’ufficio di Corso d’Italia saliva sul primo autobus e discendeva a Piazza del Popolo, verso casa, lungo i sottopassaggi e il Muro Torto. Rientrando a via Margutta chiudeva alle spalle il caos di Roma e veniva avvolto dal silenzio ovattato del suo appartamento che sembrava disabitato. Nessun rumore. Persino la suoneria del telefono era tenuta così bassa che soltanto lui riusciva a percepirla. E rispondeva invariabilmente con la sua vocina contraffatta al femminile, spacciandosi per la propria segretaria (anche se nessuno ci credeva) e liquidando impudentemente, ma soavemente, e non di rado con qualche incoraggiante civetteria, il noioso di turno. Per il resto nessun altro disturbo. La strada sottocasa era quasi priva 239 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di traffico, le pareti erano spesse, le imposte accostate. Qualche volta l’abbaiare di un cane, smorzato, gli rievocava all’improvviso il ricordo di Arcibaldo, il cocker che in altri tempi aveva regalato a Giulietta. “Accucciato sul tappeto – ricordava divertito – ogni tanto le mollava in sordina. Però fingeva di non essere stato lui, anzi si alzava di scatto come colto alla sprovvista, e si annusava sotto la coda, stupefatto, a dimostrazione della propria innocenza.” Giulietta si muoveva felpata per le stanze e si affacciava soltanto per accertarsi che il marito o il suo ospite non avessero bisogno di nulla. In caso contrario mandava Mariona (accrescitivo coniato dal regista), l’anziana domestica alla quale Fellini affibbiava per gioco epiteti da lupanare approfittando della progressiva sordità della devota fantesca. Un numero da clown, un gioco da teatro di varietà che qualche volta ripeteva variando con Giulietta. Le si rivolgeva muovendo le labbra senza emettere suoni, così che lei fosse costretta a chiedere: “Che dici? Non capisco!” E lui: “Perché sei sorda!” Federico era un discolo, irriguardoso di ogni autorità, vera o percepita come tale: il preside, l’insegnante, il prete, il gerarca, il re. E di grado in grado, scendendo nelle gerarchie, anche il produttore del film e infine la moglie; cioè il coniuge che ti costringe a un ruolo di persona perbene, ti impone di rivestire una seconda natura confacente all’ordine prestabilito. “Bravo studente, bravo patriota, bravo padre, bravo marito, bravo cittadino... – Amava ripetere a filastrocca. – Passiamo tutta la vita a sforzarci di essere qualcun altro.” Allora si ribellava. I suoi erano sberleffi innocenti e intrattenibili, riflessi condizionati, automatici.

Giulietta e Federico coniugi di lungo corso non di rado si malsopportavano, però non riuscivano a star lontani, a vivere separati. 240 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Quando semiparalizzato, nel centro di recupero di Ferrara, Federico si accorse che gli veniva nascosto qualcosa di grave riguardo a Giulietta, volle tornare ad ogni costo a Roma, sia pure in quell’anticamera dell’inferno che era il reparto di neurologia del Policlinico Umberto I. Il suo pensiero fisso era la moglie: “Sta male anche Giulietta – mi diceva; – cosa faccio senza di lei?” Si sentiva perduto, alla deriva, “disperso dei dispersi” come gli era stato anticipato da un sogno inquietante di sette mesi prima. E la notte soffriva continue crisi di dispnea, l’angoscia gli impediva di respirare. Una sindrome di asfissia, a terribile presagio di quanto sarebbe accaduto di lì a poco: il boccone di mozzarella che gli si mise di traverso e che finì per soffocarlo. O che probabilmente non era riuscito a deglutire a causa di una nuova, ancora più violenta crisi respiratoria. Appare verosimile che Federico avesse somatizzato la propria morte: ‘rimanere senza fiato’, l’interruzione del respiro, non è forse la reazione dell’animale che si sente braccato, privo di una via d’uscita? La bella signora dei massaggi mi raccontava dell’ultima volta che Fellini si era recato a casa sua, proprio prima di partire per la Svizzera incontro all’intervento chirurgico che l’attendeva. In quell’occasione era presente anche Margarethe von Trotta la regista tedesca de Gli Anni di Piombo. Federico aveva parlato della pubblicazione dei disegni di Milo Manara ispirati al soggetto del Mastorna e ne aveva tratto un cattivo presentimento. Confidò al momento di accomiatarsi: “Se si tratta di una vera maledizione come io penso, non tornerò più indietro da questa operazione”. “Perché? – Gli chiese allarmata Margarethe. – Quale maledizione?” E Federico ripeté incupito: “Quelle vignette sono legate a un brutto sortilegio, temo che aver consentito la loro stampa sia stato un errore, il segno della fine.” Tornò ad abbracciarle entrambe e se ne andò.

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Adesso resta da stabilire chi dei due artisti abbia copiato l’altro. Perché non è possibile una coincidenza così precisa, e soprattutto tra due amici legati da tanta intimità. Il grande Simenon, ha scritto in un romanzo la triste storia dell’ictus di Fellini, ma con trentuno anni di anticipo. Un enigma che mi piacerebbe sciogliere, anche se non sarà facile e mi spiego. Annota Fellini: “C’è stato un periodo della mia infanzia in cui, all’improvviso, visualizzavo il corrispondente cromatico dei suoni: un bue muggiva nella stalla di mia nonna? ed io vedevo un enorme tappetone bruno-rossastro che fluttuava a mezz’aria davanti a me: si avvicinava, si restringeva, diventava una striscia sottile che andava a infilarsi nel mio orecchio destro. Tre rintocchi del campanile? Ed ecco tre dischi d’argento staccarsi lassù dall’interno della campana, e raggiungere fibrillanti le mie sopracciglia, sparendo nell’interno della testa.” Ho ascoltato più volte questo ricordo dalla sua viva voce; di quando bambino, seduto al sole con la schiena appoggiata al muro della casa colonica della nonna Franzscheina (Franceschina), a Gambettola, il suono delle campane lo raggiungeva solcando l’aria in forma di tanti anelli argentei e scintillanti. E Georges Simenon scrive ne La campane di Biĉetre, il cui titolo francese è però Les anneaux – cioè gli anelli – de Biĉetre: “Quand’era bambino gli piaceva ascoltare le campane della chiesa di Saint-Étienne e, indicando con grande serietà l’azzurro del cielo, diceva: «I nanelli…» Lui non sapeva ancora pronunciare la parola anelli e indicava così le campane per via dei cerchi concentrici che esse lanciano nello spazio.” Questa memoria attraversa la mente di René Maugras ricoverato d’urgenza nel reparto neurologico dell’ospedale di Biĉetre perché colpito da ictus cerebrale. René è il direttore di uno dei più diffusi giornali parigini, una personalità in vista e molto potente, alla pari degli altri convitati, medici celeberrimi, avvocati 242 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di grido, accademici di Francia. Invece che a una clinica di rango i sanitari scelgono di affidare il malato a una struttura pubblica il cui primario è il più stimato neurologo del momento. Assisteremo al lento riaffiorare all’esistenza di un uomo transitato in un istante dalla vita alla (quasi) morte, dal potere al nulla; descritto ora dopo ora, giorno dopo giorno con una tale minuziosità di sensazioni, di dettagli clinici e di riflessioni circostanziate da indurci a pensare che il narratore sia passato a sua volta attraverso un’esperienza tanto atroce. L’intero romanzo sembra anticipare in un riflusso temporale l’infortunio che sarebbe toccato a Fellini trent’anni dopo. Il suo privato calvario. Emergono parallelismi impressionanti, come per esempio l’ospedale di Biĉetre e il Policlinico di Roma dove il regista fu ricoverato nel reparto neurologico di Cesare Fieschi, tra pazienti comuni e disturbati mentali (non in una clinica accogliente come ognuno si sarebbe aspettato). Lì un famoso direttore di giornale, qui un celeberrimo cineasta, due persone privilegiate per professione, per posizione sociale, per ceto, per rapporti personali. Una vicenda speculare e simmetrica: René è paralizzato nella parte destra del corpo e reso afasico; Federico nella parte sinistra e con l’uso della parola. In comune il ricordo infantile del suono delle campane associato ad anelli argentei e luminosi. Simenon scrive il romanzo nel 1963. Ha conosciuto Fellini tre anni prima; sono diventati amici perché lo scrittore, presidente della giuria del Festival di Cannes, si è battuto inflessibilmente per assegnare il palmarès a La dolce vita che giudica il capolavoro di un genio. I due artisti iniziano a frequentarsi, a scriversi. Verosimilmente a scambiarsi confidenze, a scoprire affinità, e persino un’analoga visionarietà. Ma chi dei due ha raccontato all’altro delle campane e degli anelli d’argento? È pensabile che un fenomeno psichico così peculiare si sia verificato identico in due individui diversi, per pura concomitanza; o non è piuttosto da supporre che si sia creato uno scambio tra l’uno e l’altro? In ogni caso il grande Sim affronta la malattia in una 243 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cronaca che lascia stupefatti per la quantità di elementi fungibili con la degenza di Federico. Muta soltanto il finale, che per Fellini fu meno fortunato. Contrariamente al solito, per questa sua opera Simenon si affidò a una lunga e scrupolosa ricerca e documentazione; lui abitualmente rapidissimo, impiegò molto tempo a terminarla. Impressionante per analogia il rapporto con le donne, l’erotismo, il sesso, che l’autore fruga in ogni piega segreta della mente intorpidita del malato. Ne ripercorre le fantasie anche nei confronti delle infermiere che lo accudiscono; la giovanissima e spigliata signorina Blanche, assai carina e quindi quanto mai idonea a favorirne la guarigione; Angèle dai modi diretti ed efficaci; e la più matura Joséfa, che passa la notte dormendo vestita su una branda pieghevole, e la cui carnalità, gli atteggiamenti innocentemente sensuali assunti nel sonno gli stimolano una spirale di pensieri morbosi. È con lei che vorrebbe avere un rapporto carnale una volta guarito; della giovane Blanche cercherebbe magari l’amore o forse la devozione; e infatti ne è quasi geloso. Posso assicurare che queste stesse creature, con nomi diversi, hanno volteggiato intorno a Fellini, ne ho scritto io stesso diffusamente. Mi domando se Federico, che conosceva tutte le opere dello scrittore belga, abbia letto a suo tempo anche questo romanzo nell’edizione francese. Cosa avrà pensato di quelle campane e di quegli anelli? E quando subì a Rimini l’ingiuria dell’ictus, avrà rievocato Maugras e gli altri personaggi già incontrati sulla pagina? Si sarà visto raffigurato al posto del celebre direttore di giornale e nella ‘ronde’ di personaggi che gli furono accanto, a iniziare dal suo medico personale Gianfranco Turchetti che sembra quasi ricalcato sul mondanissimo Pierre Besson d’Argulet? L’amico medico che nei primi giorni gli è sempre accanto per anticipargli il decorso della malattia, pretendendo di precorrerne persino gli stati d’animo, senza accorgersi dell’incolmabile distanza che esiste tra loro. Medesimo anche il ritornello: “Perché tu guarisca abbiamo bisogno 244 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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della tua collaborazione.” Che invece non viene accordata. René come Federico oppone resistenze, si rifiuta di tornare alla vita comune; sta bene come sta, in quella condizione semivegetativa in cui finalmente riesce a trovare un porto di quiete, uno spazio protetto nel quale indugiare indisturbato, con una sorta di voluttà. La sorte estrema di Fellini è anticipata con folgorante premonizione.

Non sapevo dell’esistenza di Gianna, come nessun altro tra gli amici di Fellini, finché non la incontrai all’Ospedale Infermi di Rimini, nell’estate del 1993, in occasione della malattia di Federico. Si aggirava in silenzio, in attesa, timorosa di disturbare. Non era mancata un solo giorno da quando Fellini era stato ricoverato. Quando per pudore si sforzava di sorridere, rialzava appena gli zigomi accentuando la triangolarità del viso affilato, da felino domestico, assuefatto alle moine. In tanti anni di frequenza con Federico non mi ero mai imbattuto in quella signora, e il suo dolore da innamorata mi aveva turbato. Ho visto per la prima volta nell’atelier di Rinaldo Geleng i disegni con cui Federico aveva rivissuto, compulsivamente, i loro incontri incandescenti; una passione erotica venata d’amore e di abbandono. Erano ventinove tavole, di cui non poche in grande formato, eseguite in tecnica mista (tempera, matita grassa, pennarello ad alcool, carboncino). L’ultima fiammata di passione erotica dell’artista prima della scomparsa. Nelle composizioni vengono rappresentate situazioni di esplicita e travolgente sensualità, che costituiscono il compendio e la summa artistica dei tanti disegni – migliaia – che l’autore ha continuato a tracciare con coattivo e autentico divertimento, durante la sua intera carriera artistica, accompagnando percorsi privati, o 245 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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elaborando appunti di bottega nelle fasi di preparazione dei film. Tutti affrettatamente catalogati fra lo scherzo e l’occasionalità. Fellini nasce – prima ancora che nel giornalismo, nella sceneggiatura cinematografica e nella regia – come disegnatore e vignettista. Il suo originario slancio creativo era indirizzato verso l’espressione figurativa, a imitazione dei grandi disegnatori dell’epoca che considerava di fatto i suoi maestri: dal riminese Demos Bonini, agli affermatissimi e ammiratissimi Nino Za e Enrico De Seta. Amante di pittura e assiduo frequentatore di pittori durante l’intera esistenza, era stato amico intimo di Balthus (Balthasar Klossowski de Rola), con incontri assai frequenti durante la direzione di quest’ultimo all’Accademia di Francia in Roma; e nei suoi film non aveva mai mancato di avvalersi di dipinti e composizioni di scena per mano di artisti amici, come Mario Scordia, Mario Fallani e Rinaldo Geleng. Colpito nel 1993 dall’ictus celebrale che gli paralizzò metà del corpo, aveva reagito all’ingiuria baloccandosi con l’idea di continuare a esprimersi in pittura, al punto di decidere, poco prima della sua morte, di affittare uno studio in via Capo le Case, a diretto contatto con l’atelier di Rinaldo Geleng, al quale già faceva riferimento in più di una occasione per la composizione saltuaria dei suoi abbozzi pittorici. I disegni dedicati a Gianna Cobelli rappresentano l’inesausto corpo a corpo, più gioco affannoso che battaglia, alla base di quella competizione irrinunciabile dei due sessi in cui il maschio risulta fatalmente perdente; e la sessualità femminile si dilata al pari di una galassia inaccessibile e inespugnabile ancorché instancabilmente inseguita e vagheggiata. Un’arena amatoria di corpi nudi: sessi mastodontici, visionari intrecci orgiastici attorno a un’unica protagonista che si impone come l’ossessivo fulcro ispirativo. 246 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La stragrande maggioranza delle caricature e dei disegni della sterminata produzione felliniana hanno per soggetto la donna, e in particolare alcune tipologie ricorrenti ed enfatizzate del corpo femminile nei cui confronti viene espressa un’insaziabile golosità e un’ammirazione sconfinata, mai disgiunte da una sconfortata inadeguatezza. Una galleria di creature sontuose e mitologiche, spesso rappresentate con il gusto infantile del sogno proibito, che hanno nutrito l’immaginario felliniano trasferendosi invariabilmente dalla carta alla pellicola, con personaggi divenuti archetipi indimenticabili. Al tempo de Il bidone Gianna era un’irresistibile aspirante divetta di diciassette anni, avida forse più di vita che di cinema, seppure ancora vergine nonostante l’assedio dei tanti e già troppi estimatori. Da quel primo incontro giovanile, per entrambi famelico, rapace e inconsapevole dei futuri sviluppi, la storia si dipana fino all’ultimo imprevedibile – preannunciato – riavvicinamento nell’estrema stagione di vita dell’artista.

Il Borsalino nero a larghe tese che aveva reso Fellini un’icona celebre nel mondo, negli anni Ottanta non era più il cappello prediletto. Federico preferiva indossare una cloche di morbida lana inglese, comoda da maneggiare, invariabilmente grigia e dal classico disegno pied-de-poule. L’ultima della serie raccoglie in sé un valore storico e magico assieme. Fellini ne entrò in possesso a Torino, in occasione di una visita al mago, sensitivo, chiaroveggente Gustavo Rol. Scendendo dal treno in un rigido pomeriggio invernale, si accorse di aver dimenticato il suo berretto. Rol era andato a riceverlo alla stazione, e sapendo quanto Federico fosse freddoloso in testa, si premurò di accompagnarlo presso uno stimato cappellaio della città, il quale però dovette ammettere di 247 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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non essere fornito di quel modello, anzi di non averlo mai trattato. Rol insistette, e incurante di contrariare il serio venditore che continuava a opporre resistenze, lo invitò a salire su una scala per raggiungere il più alto scomparto di un preciso scaffale. “Lassù – indicava con la mano – c’è una scatola verdina con dentro il cappello che cerca il Maestro.” Per compiacere l’illustre ospite il negoziante fece come gli veniva richiesto, portò la scatola sul banco e sollevato il coperchio trovò effettivamente il cappello desiderato. Fellini era convinto che fosse stato il mago Rol – che infatti sogghignava in silenzio – a materializzare quella cloche, e le rimase così affezionato da non separarsene quasi più. Nel 1975 quando Federico avendo in uggia i Mémoires stentava a trovare il sentimento giusto, il punto di vista, l’empatia indispensabile per realizzare Il Casanova, si era affidato ai buoni uffici di Gustavo Rol. Il mago compiacente aveva finito per metterlo in contatto medianico con il grande amatore utilizzando la tecnica della telescrittura. Ma i due non si erano riusciti simpatici nemmeno da un regno all’altro dell’esistente; monoliticamente fedele al proprio personaggio, il Cavaliere di Seingalt si era limitato a scrivere su un biglietto (materializzato nel taschino della giacca di Federico e accuratamente bruciato a fine seduta) generici precetti di igiene sessuale: “Mai più in piedi” discettava, “l’età non lo consentiva”. L’antipatia si era accresciuta a dismisura. Fellini portò il cappello di Rol con sé perfino nel suo viaggio in Messico, sulle orme dello scrittore Carlos Castaneda, alla cui opera almanaccava da tempo di ispirarsi per un film. Misterioso e inafferrabile, il leggendario personaggio non si faceva mai raggiungere, trasformando l’inseguimento in una specie di inquietante percorso iniziatico. Giunto in un albergo di Tulum, nello Yukatan, Federico s’era assentato al telefono lasciando sul banco della reception il suo cappello. Quando tornò e lo afferrò con gesto meccanico nel palmo della mano, si sentì pungere da uno 248 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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spillo. Nella fascia interna della cloche era stato infatti appuntato un’allarmante biglietto di avvertimento a non sfidare gli eventi e riprendere al più presto l’aereo per Roma. Federico mostrò di comprendere e, sensibile com’era ai segni, interruppe il viaggio. Tornato in Italia lasciò perdere il progetto su Castaneda per dedicarsi a un’idea che da tempo accarezzava per Giulietta, Ginger e Fred. Nel film, che poi realizzò, la famosa cloche è indossata da Mastroianni, alias Pippo Botticella, ballerino di tip tap in pensione. Fellini stesso gliela mise sulla testa dopo avergli fatto diradare la chioma per renderlo più simile a sé. Il cappello continuò ad accompagnare il regista, e alla sua scomparsa venne consegnato insieme ad altri oggetti personali alla sorella Maddalena. Un giorno, mentre percorrevo il lungo corridoio del suo appartamento, mi cadde inaspettatamente addosso qualcosa di morbido, come una carezza; l’afferrai al volo. Il cappello mi era planato nelle mani. Un bell’intreccio ammaliatore.

Il libro dei sogni giaceva nel caveau di una banca romana dal 1993. Enzo De Castro, segretario fiduciario di Fellini al quale era stato affidato all’insorgere della malattia, una volta scomparso l’artista portò i due volumi nell’appartamento di via Margutta; ma Giulietta, già molto malata e inappuntabile come sempre, non aveva neppure voluto sfogliarli. “Sono cose di Federico”, si limitò a commentare. Li fece avvolgere dentro un foglio di carta da pacchi, legare con uno spago, e riporre al sicuro. Né prese minimamente in considerazione le offerte che le arrivarono per lettera dalle due maggiori case editrici italiane di acconsentire alla pubblicazione dietro un compenso allora assai ingente, un minimo garantito di un miliardo di lire sui diritti d’autore. Giulietta agì con saggezza, i fogli in carta di Fabriano di quei due libroni contenevano raccontini e disegni che, seppure conce249 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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piti in sogno, si prestavano facilmente alla strumentalizzazione e allo scandalo. Non soltanto per il contenuto esplicitamente intimo e sessuale di tanti bozzetti, ma perché coinvolgevano noti personaggi ancora in vita che avrebbero potuto soffrire nel trovarsi esposti alla curiosità morbosa di un pubblico impreparato. Vivente Fellini il discorso sarebbe stato diverso, di natura artistica, pittorica; e la tutela dei contenuti sarebbe stata esercitata dal diretto interessato con quell’innato talento a maneggiare la comunicazione in cui eccelleva e non aveva mai fallito. Egli stesso aveva ceduto alla tentazione, ripetute volte, di portare alla luce alcune pagine di quelle sue Mémoires Intimes a colori. La prima volta avvenne con gli amici Oreste del Buono e Lietta Tornabuoni editori per breve tempo di un periodico, Dolce Vita (1987-1988), in cui quegli arcani bozzetti fantasmagorici erano apparsi a tutta pagina, compreso il sogno del “Cinese all’Aeroporto” al quale Federico attribuiva un profondo significato di mutamento. La seconda occasione si verificò con Vincenzo Mollica, che allora dirigeva un mensile a fumetti stampato a Firenze, Il Grifo, e che dall’aprile 1991 per ben dieci puntate ospitò alcuni di quei disegni onirici che Fellini si divertì ad annotare di suo pugno e a interpretare in chiave psicanalitica. Infine, nel 1992, l’anno dell’ultimo suo set per la realizzazione di un breve ciclo di spot pubblicitari, il regista ricorse ancora una volta al giacimento del proprio inconscio e strappò tre pagine del libro dei sogni che diventarono i tre soggetti dei brevi filmati: Il Pic-nic, La cantina del leone, Il crollo della galleria. Il rimanente contenuto dei favolosi volumoni era rimasto sconosciuto ai più. Fellini conservava i due tomi dentro il secondo cassetto, chiuso a chiave, della sua scrivania nello studio di Corso d’Italia. La mattina, arrivando presto in ufficio (quando non era impegnato sul set), prima degli incontri e delle telefonate, tirava fuori il librone e con i pennarelli colorati Staedtler (in precedenza anche con feltri ad alcol, lapis, penne a biro, penne a china, 250 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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persino acquarelli e matite grasse) vi ‘dipingeva’ con impegno serissimo il sogno della notte appena trascorsa, tratteggiando personaggi e figure secondo il suo tocco leggero, scanzonato, caricaturale e malizioso. Riportava, se ce n’erano, le frasi e i dialoghi racchiusi nei baloon, come fossero personaggi dei fumetti, e spesso aggiungeva una nota personale di spiegazione o di commento. Era il suo unico e vero giornale di bordo, il suo diario, fonte di ispirazione e di riflessione, oggetto di un rituale propiziatorio e anche vagamente oracolare; quasi alla pari della consultazione de I Ching, il libro cinese delle mutazioni, o la frequentazione di chiaroveggenti e sensitivi. Una spelonca delle ombre in cui preferiva avventurarsi da solo ma nella quale, rare volte, ammetteva la presenza discreta di qualcuno degli amici e dei collaboratori più fidati, sfogliando le pagine in una successione da lanterna magica e soffermandosi su quelle immagini o concetti di cui in quel preciso momento riteneva di avere più bisogno. Un metodo per portare chiarezza nelle aggrovigliate vicende dell’esistenza o per facilitare il processo creativo, assicurare spazio vitale all’idea che stava felicemente prendendo forma nell’ambito del suo incessante travaglio cinematografico. Il doppio volume rilegato, racchiude segreti è vero, ma per uno come Fellini che aveva raccontato tutto il raccontabile nel suo cinema, il tabù era davvero trascurabile, fatte salve le attenzioni dovute ad alcuni delicati equilibrismi sentimentali. Ad essere sinceri egli stesso stava accarezzando da tempo la tentazione di rendere pubblici i suoi sogni, e ne aveva maturato l’idea soprattutto tornando dal viaggio a Tokio dove nel 1990 fu insignito del Premio dell’Imperatore. Quel popolo del futuro, sorridente gentile e misterioso, gli aveva fatto balenare una soluzione singolare: dare alle stampe in Giappone il libro del proprio inconscio, consegnarlo a un pubblico che avvertiva rispettoso ed estraneo, profondamente amichevole e incoraggiante. 251 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Con più convinzione cominciò a parlare di possibili editori nel 1991, quando prese persino contatti concreti con Tullio Pironti; il quale infatti nella sua autobiografia Libri e Cazzotti riporta fedelmente l’incontro: “Fellini mi aspettava a casa sua, a via Margutta. L’appuntamento era per le dieci del mattino.” Il regista lo accoglie in soggiorno, lo invita a sfogliare insieme a lui un ‘grande album’: “Sui fogli fluttuavano donne sontuose, grandi e suggestive matrone, corpi sinuosi, pieni, seni enormi, cosce immense, capigliature leonine. Tratti decisi davano un’eternità solida a quell’universo femminile, ridondante, avvolgente, insinuante, decisamente erotico. Spesso appariva anche lui. Non c’era mai Giulietta. Lei rientrò all’improvviso e ci vide esaminare i disegni. Non disse nulla, ma sembrò contrariata.” E infatti l’accordo non ci fu. “Alcuni giorni dopo – conclude così Pironti la sua narrazione – Fellini mi inviò una breve lettera. «La nostra nascente amicizia deve soprassedere alla pubblicazione del libro. Ci devo pensare. Ma Le prometto che se dovessi decidermi a pubblicare quei disegni, Lei sarà il mio editore.»” Il Libro dei Sogni di Fellini stampato in Italia da Rizzoli è uscito in Francia da Flammarion con carta, grafica e veste editoriale leggermente diversi. Il dovizioso giacimento di rivelazioni inconsce può essere consultato come un viaggio nell’anima dell’essere umano, l’incursione proibita nel laboratorio segreto di un mago, la scorribanda nelle fantasie (a occhi chiusi e aperti) di un artista fuori misura. Le curiosità non sono poche: quando il Maestro componeva quei disegni? In quali ore del giorno scriveva quelle analisi degne di uno psicanalista di professione? E inoltre, annotando tutti i suoi fatti privati, pensava davvero di pubblicare un giorno l’opera? Durante quel periodo travagliato – e fertile – di Federico, coincidente con la progettazione e la preparazione del Il Casanova, 252 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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per la prima volta sono entrato in contatto con il Libro dei Sogni. Un giorno in cui eravamo soli nel suo studio, Fellini trasse dal cassetto della scrivania un grosso volume, lo aprì su una pagina bianca e, per nulla disturbato dalla mia presenza, cominciò a tracciare figure cambiando penne e matite come un pittore i pennelli della tavolozza. Appresi così che il regista annotava con una certa regolarità le sue incursioni notturne nel proprio privato sottosuolo. Mi metteva a parte di un’operazione riservata, che non mancherà in seguito di ripetere davanti a me, seduto dalla parte opposta della scrivania. In qualche occasione, quando aveva voglia di parlarne (per via di un segno, un’anticipazione, il pretesto per un ricordo, la traccia di un racconto) mi mostrava ciò che aveva disegnato o che stava completando con le annotazioni di rito. Era il sogno in sé a entusiasmarlo, quella visione affiorata dal buio, che metteva in scena materiali ripescati nel pozzo; storielle spesso bizzarre, o incongrue al primo sguardo, quanto al contrario gravide di messaggi non ignorabili perché profondamente sinceri. “La cosa straordinaria è che l’inconscio non mente mai. – Ripeteva. – Ciò che ti sforzi di dire a te stesso in quel linguaggio simbolico è la pura verità, ti appartiene profondamente. Non ci sono censure, o accomodamenti, come succede spesso nella vita diurna. Non ci sono imbrogli più o meno scoperti per far tornare i conti. Il sogno è sempre chiarissimo se riesci a entrare nella sua logica e a decifrarne il sistema espressivo.” E così, senza parere, senza una scoperta volontà di indottrinarmi, mi schiudeva un territorio per me a quel tempo in gran parte sconosciuto: la galassia dell’irrazionale in cui si esprimeva anche l’arte, linguaggio simbolico per eccellenza. E della quale facevano parte creature di un mondo magico con cui Federico intratteneva contatti nutrienti: maghi, ermeneuti, veggenti, illusionisti, psicanalisti, e altri personaggi dotati di facoltà paranormali, capaci di azioni che sconfinavano nel miracolo. Di Padre Pio portava l’immagine nel portafoglio. Più volte mi raccontò di averlo incontrato percependone quel mi253 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sterioso sentore di rose che si dice emanasse dal frate in particolari momenti di grazia. Istintivamente credente, e allo stesso tempo irriverente com’era, amava anche giocare sul fenomeno extrasensoriale e attribuirsi il medesimo effetto olfattivo: “Se sentite un profumo – diceva – non fateci caso, verso le sei, sei e mezza mi capita, come a Padre Pio.” Era la sua naturale inclinazione a sbeffeggiare, a irridere, fedele come di consueto all’insegnamento di Lao Tse: “Quando concepisci un’idea, ridici sopra”. Eppure l’odore che aleggiava nella stanza del suo studio, vagamente speziato e così preciso, non ho mai capito da dove provenisse. Mi parve persino di percepirlo, in chiesa, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, durante la cerimonia del suo funerale. Ma era sicuramente suggestione. A metà degli anni Settanta Federico aveva il suo ufficio in via Sistina, proprio di fronte all’edicola dei giornali, una cinquantina di metri a monte del teatro. Si saliva al secondo piano per una scala stretta e un po’ buia com’era consueto per i vecchi edifici nel cuore di Roma. L’ambiente interno era invece molto accogliente, affacciato con le finestre principali sulla strada, arredato con cura, i pavimenti ricoperti di una spessa moquette grigio perla. Lo studio di Fellini, ampio e silenzioso, era pervaso di un odore particolare e indimenticabile, leggermente speziato, un sentore forse di zenzero. Per me che iniziavo appena a frequentare il regista in privato, al di fuori di Cinecittà, l’impressione era di penetrare nel sancta sanctorum. Era il periodo in cui, dopo Amarcord, Federico stava girando un po’ a vuoto, tentato – ma poco convinto – di trarre un film dai Memoires di Giacomo Casanova. Un incauto assenso lasciatosi sfuggire con Dino De Laurentiis, tra il serio e il faceto, per non dispiacere il produttore a cui ancora bruciava di aver perso il grande affare di La dolce vita, dopo aver conquistato insieme al regista ben due Premi Oscar per La strada e Le notti di Cabiria. Ma Fellini era sospettoso del soggetto e poco amante 254 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di quel personaggio vanesio, così affannato dietro un vortice di avventure amorose che a lui apparivano tristi, vuote, meccaniche e persino un po’ lugubri. “Noiose – ripeteva – come la lettura dell’elenco telefonico”. Inoltre scorgeva nel film un pericolo per se stesso e cercava di tenersene lontano, soprattutto dopo aver fatto un brutto sogno a suo giudizio ammonitore. Sono circa trenta le pagine de Il libro dei sogni che riportano gli incubi notturni di Federico tra il ‘74 e il ’75, in cui l’artista vive una grave crisi di passaggio (si avvicinava ai sessant’anni) ma anche una stagione di esuberante e fertile vitalità. Il 27 giugno 1974 Fellini ritrae se stesso avvolto in una tela di ragno con una scritta allarmante, tutta in maiuscole e punto esclamativo: IMPRIGIONATO! Il 20 settembre sogna di essere a letto con Sandrocchia (Sandra Milo), entrambi nudi nel bel mezzo di Piazza Barberini, e fanno l’amore (c’era stato effettivamente un riavvicinamento e Federico s’era riacceso di passione). Il 23 settembre, il regista disegna una vignetta in cui un suo organizzatore storico, Clemente Fracassi, viene inviato presso Rizzoli ad annunciare che il regista al posto de Il Casanova, un progetto che non sente, si offre di girare il Mastorna. Tuttavia, dilaniato dal dubbio, Federico sempre nel sogno si rivolge a Magda Fabi (una potente veggente da lui molto stimata) che lo sprona invece ad andare avanti perché “non si lasciano le imprese incompiute”. Allora consulta I Ching e il responso dei due esagrammi (graficamente riportati nel testo) è confortante: L’innocenza e Il procedere. “Stupenda risposta”, annota Fellini; “bisogna fare il lavoro per amore del lavoro e non guardando al risultato.” Il 16 ottobre, tornando stanco da Milano e non riuscendo a prendere sonno, Fellini formula nel buio una domanda ad alta voce: “Farò il Casanova?” Ma una vocetta beffarda di bambina risponde ridacchiando: “No!” “Farò Mastorna?” Insiste il regista. Nessuna risposta. Il 25 ottobre una visione minacciosa con la scritta: “Crollo silenzioso della costruzione grattacielo”. Trascorrono un paio di giorni e Federico sogna Danilo 255 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Donati (il suo costumista e scenografo) che in macchina siede davanti, al fianco dell’autista. Specifica il commento: “Ho come l’impressione che quello dove c’è Danilo sia da considerarsi il posto migliore, il posto d’onore. Io sono dietro. P.S. Al risveglio penso con sicurezza che Danilo avrà l’Oscar per il film e che il sogno mi ha anticipato questa situazione.” Per la cronaca, Donati prese effettivamente il Premio Oscar quando infine il film si realizzò. Il 18 novembre compare un disegno in cui Fellini e Gassman (seduto a gambe accavallate e in costume shakespeariano) sono in attesa dietro una porta chiusa e panneggiata con una mantovana simile a un sipario. Il titolo enuncia in maiuscole: APPARIRÀ, ENTRERÀ CASANOVA? E nel testo si legge: “In un vasto salone lussuosamente arredato in stile seicentesco Gassman ed io attendiamo che da quella porta appaia ed entri Casanova. «Vediamo com’è questo buffone!» Penso incuriosito e sospeso. Gassman mi sembra truccato e in costume. È qui con me per ispirarsi e vedere com’è veramente Casanova? Ho scelto lui per il film? La porta sontuosa rimane chiusa. Arriverà?” Quando circa un mese dopo, per realizzare lo special su Il Casanova, ci recheremo al teatro Quirino a girare la testimonianza di Gassman impegnato a recitare Kean, l’attore indossa esattamente quel costume a calzamaglia con cui è ritratto nel disegno! Altri sogni naturalmente si inframmezzano a quelli che hanno per oggetto l’amatore veneziano; ruotano i personaggi della vita reale: Giorgio Strehler, approvante; Cristaldi e De Laurentiis insieme in aereo in viaggio verso New York; Luchino Visconti che si appoggia al bastone in seguito alla malattia; e naturalmente Anna G. (l’amante segreta), molto spesso rappresentata nella sua nuda formosità e in languidi abbandoni. Giulietta è una presenza costante, e tornano assedianti i fantasmi erotici di Sandrocchia e Normicchia. Ancora Danilo (Donati) esecutore materiale delle fantasie scenografiche. E persino Salvador Dalì che canta una 256 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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canzoncina: “Oh come è bella la vita del regista….” Si arriva al 15 febbraio del ’75; Federico si ritrae seduto dietro una scrivania alla PEA (la società di Alberto Grimaldi che intanto è subentrato nella produzione del film) e il titolo recita: “Come sono angusti piccoli scomodi gli uffici della PEA!” Il 18 gennaio rappresenta se stesso di schiena mentre assiste al precipitare, tra i palazzi, di un piccolo aereo da turismo, e accanto a lui c’è Luciano (il suo autista del momento) che commenta con saggezza romanesca: “Se sapeva da un bel po’ che annava a finì così!” Nell’affollarsi dei segnali onirici si accendono due palpitanti trasalimenti sessuali. “Il culo della segretezza”, in cui il suono della parola riconduce per ambigua assonanza a ‘segretaria’( e infatti le chiappe voluttuose appartengono alla segretaria di edizione Norma Giacchero). E poi una scenetta ambientata nell’appartamento di via Lutezia, la casa della famosa zia Giulia in cui Federico e Giulietta andarono ad abitare subito dopo il matrimonio. Racconta la didascalia del regista a spiegazione del sogno: “Una figura femminile – Giulietta? Mia madre? – palpeggia le enormi, meravigliose tette di A.” Ancora Anna (Giovannini) la sua silenziosa seconda moglie. In quegli stessi giorni compaiono anche annunci sinistri: Flaiano ‘paralizzato e morente’; De Laurentiis ‘completamente paralizzato’; Federico stesso ‘paralitico, anzi senza gambe’: “Mi aggiro sistemato su una piccola carriola per vasti corridoi cercando una via d’uscita”. L’angoscia è dunque immobilizzante. Eppure una soluzione ci sarà. Un sogno sorprendente visita il regista proprio a immediato ridosso dell’inizio delle riprese. È la notte precedente il 26 luglio 1975, e Fellini in seguito alla serie di minacciosissimi messaggi, disegna questo sogno finalmente conciliante: si trova nel giardino di Villa Elia a via Archimede, circondato dai tecnici della troupe e collaboratori del film. Arrivano delle automobiline minuscole, quasi dei giocattoli, sen257 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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za nessuno al volante. Federico si piega a terra e domanda: “Siete forse i marziani?” Un alieno, che è in tutto simile a un uomo, con i capelli rossi, lo fa stendere bocconi, poi compie alcuni gesti rituali e il regista si sente invadere da un fluido che gli trasmette questa notizia: “Non c’è nulla da temere.” Giulietta che sta pregando poco discosta con un rosario fra le mani, mormora: “È quello che ho sempre pensato e detto anch’io.” Nel tempo ho visto crescere il libro dei sogni, e anzi raddoppiare in un secondo tomo, di dimensioni maggiori, fatto rilegare dal suo segretario Enzo De Castro in una cartoleria di Piazza Fiume a poche centinaia di metri dall’ufficio di Corso d’Italia. L’appartamento era più vasto di quello di via Sistina, quasi di rappresentanza, al piano rialzato di un palazzo maestoso del primo Novecento. L’odore però, più acuto nella stanza principale, rimaneva lo stesso, inconfondibile alle mie narici. A volte arrivando, specialmente di mattina, trovavo Federico seduto alla scrivania a disegnare, ancora con il cappotto addosso, la sciarpa, e perfino il cappello in testa; quando l’urgenza di non lasciar svanire l’emozione lo induceva a trasferire al più presto in figure il messaggio della notte. Prendeva i pennarelli sistemati in bell’ordine davanti a sé sul ripiano lucido della scrivania, e iniziava a tracciare personaggi con estrema rapidità, muovendo le dita con scioltezza e perizia. Di rado partiva da un titolo, le descrizioni venivano dopo, come anche i dialoghi dentro i fumetti. Nel primo contatto con il foglio bianco prevaleva il disegno, l’impianto della scena in cui si inserivano i protagonisti del sogno. Seguivano le ombreggiature, le rifiniture esattissime, con autentico sguardo da pittore. Se si esamina il bozzetto del 3 marzo ’75, dove Giulietta accarezza le grandi tette nude di Anna (Giovannini), è facile notare che in una composizione totalmente in bianco e nero l’unica macchia di colore è il rivestimento del divano, definito nei minimi particolari. Non è casuale. Il Libro dei Sogni è anche una effemeride, un libro mastro, 258 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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illustrato come le pagine del vecchio “Corriere dei Piccoli” con le didascalie in rima sotto le vignette. E con tale spirito chiede di essere sfogliato, goduto al pari di un album di avventure da seguire col fiato sospeso fino alla conclusione della puntata. Ma anche con il segreto batticuore per tutte quelle donne spogliate, curvilinee, opulente, sfidanti, ricolme di lusinghe e di promesse! E di corrusche minacce. Ma davvero era intenzione di Federico dare alle stampe uno zibaldone così privato? E Giulietta? Giulietta appare nel libro come una perenne ragazzina, formosetta, con i capelli biondi un po’ boccoluti, la Pallina delle recite alla radio. È il personaggio che ricorre spesso nei suoi sogni, una specie di folletto che osserva e commenta, ma non giudica. Ritratta come la Campanellino di Peter Pan. Giulietta è ‘dentro’ Federico, e fuori c’è il mondo, con tutto il caotico arsenale dell’esistenza umana, che non può essere né bloccato, né compresso, né ridotto a un’unica forma. Tantomeno cancellato. È La dolce vita, è 8 ½, è Giulietta degli spiriti, l’assoluta sincerità e sconcertante libertà con cui Fellini ha raccontato se stesso, fino a La città delle donne, e al La voce della luna. Giulietta assisteva a quello stesso spettacolo, ma essendone la protagonista occulta, e persino l’essenza. Con amarezza? Anche. Con sofferenza? Anche. Come è giusto che sia. Esiste forse un’unica possibilità da parte di chicchessia di incatenare i sogni, di arginare l’inconscio? Quando Federico scomparve, Giulietta non espresse nessuna curiosità di aprire quei libroni. Però neppure li distrusse, e avrebbe potuto farlo. Quello era il mondo di Federico, il magma ribollente dei suoi film. E leggendolo vi troverete ogni traccia che conduce direttamente all’opera dell’artista. Federico disegnava tette e culi in quantità, arricchiti di ogni variante di genere sessuale. Per chi non lo conosceva personalmente aprire il libro dei sogni e precipitare nel magma del suo inconscio, può rappresentare una specie di shock, come scivolare 259 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e perdersi dentro una spirale risucchiante. Figure sfacciate, ipnotizzanti situazioni erotiche riferite con fantasiosi dettagli, forme femminili di proporzioni rubensiane. Il 23.11.’66 sogna la Ekberg: “Faccio l’amore con N. e Anita. N. è su di me ma il mio membro è infilato nel ficone di Anita che finalmente vedo godere. Ah! Che gioia, il suo limpido occhio di bambina viziata e crudele, si appanna nell’orgasmo, la palpebra si abbassa come a velarne l’estatico godimento… Finalmente!” La donna irraggiungibile, raggiunta con la mediazione dell’altra, che non dirò chi sia. Un artista visivo come Federico ha sempre dato voce e immagine a quel magazzino dell’oscurità in cui ognuno di noi si aggira di notte; e non di rado visita anche di giorno, a occhi aperti, pur non osando richiamare i fantasmi in superficie, per mancanza di strumenti adeguati o di talento, ma anche per semplice timore di incrinare la propria integrità esteriore, la propria rispettabilità. Non è per questa ragione che esistono gli artisti, chiamati a sognare per tutti noi? Non sono le loro opere uno specchio in cui l’umanità può riconoscersi senza vergogna? Nel Libro dei Sogni alcune pagine mancano – sono state tagliate ed è visibile il segno della lametta sulla carta – ma l’operazione non può essere ricondotta che a Federico stesso. Nessuno ha messo mano a quei due tomi. E anche i fogli sparsi erano usciti dal libro per volontà dell’autore. Le pagine mancanti sono in numero maggiore delle pagine recuperate, la caccia resta aperta: il mago continua a regalare sorprese. Il problema per i due Libri dei Sogni, come del resto per gran parte della produzione grafica di Fellini, consiste nella loro estrema fragilità e vulnerabilità. La carta, per quanto spessa e pesante, in ottimo filigranato di Fabriano, è pur sempre ricavata da impasto di cellulosa e pertanto deperibile; i colori, specialmente 260 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dei pennarelli ad alcool, sono evanescenti, tendono a sbiadire, a volatilizzare, anche molto rapidamente se esposti alla luce e al calore. Inoltre Federico spesso procedeva disinvoltamente a ‘pastrocchiare’, come diceva lui, tra le pagine: aggiungeva, sovrapponeva, tagliava, integrava, intervenendo di forbici e colla, dalla coccoina alla gomma arabica, a ciò che aveva per le mani; utilizzava anche resine più acide, ‘carta gommata’, e nastri adesivi i cui componenti chimici, assieme ai residui organici (ditate, saliva, sudore) svolgevano una costante azione corrosiva. Infine c’era il fattore tempo a compiere inarrestabilmente la sua opera. Così si espressero all’Istituto di Patologia del Libro (specializzato in codici antichi e miniature) al quale mi rivolsi, a Roma, nel proposito di ottenere una tutela dallo Stato e affrettare gli opportuni interventi conservativi.

Fellini fabbricatore di immagini. Non concepiva una vita lontano dalle figure. Giulietta degli spiriti era lui. Non ha mai smesso di disegnare, fino a pochi giorni prima di morire; il Pasqualino che si vede sulle gioconde rotondità di Valeria Marini fotografata in copertina di un popolare rotocalco, l’aveva rapidamente schizzato con la mano ancora buona dal suo letto d’ospedale: il candido ometto si toglieva il cappello con gesto di deferenza e asseriva con ferma convinzione: “Da oggi abito qui”. Siglato: Federico. Pasqualino è quel personaggino timido, mite, innocente e strampalato, che con nomi diversi, Giacomino, Richettino, o anche senza nome, in tante repliche fedeli di quel primo esemplare, aveva accompagnato la produzione grafica e umoristica di Fellini fin dalle sue prime collaborazioni ai giornali umoristici; una specie di alterego stralunato capace di vedere soltanto il lato incongruo, e quindi comico e quindi rivelatorio, di una vita che per gli altri scorreva invece sempre simile a se stessa e dunque confortante 261 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

soltanto nell’apparenza; nei fatti ingarbugliata e indecifrabile. Con le figure Federico aver scoperto di poter dar voce ai suoi pensieri, e forma alla voce. La raffigurazione cinematografica avrebbe in seguito costituito solamente un livello di espressione diverso, più elaborato. Mentre realizzava La voce della Luna, ultimo film della sua carriera, la mattina arrivando presto in ufficio, o la sera a fine riprese, indugiava alla scrivania a dipingere a pennarello le sequenze in preparazione: personaggi, sfondi, scenografie. I fogli di carta della risma extrastrong che teneva davanti a sé si andavano riempiendo con gli staedler, le chine, le matite, i pastelli. Prendevano il posto della tela sul cavalletto, e lo spazio bianco era occupato interamente, in ogni angolo; non più semplici figure ritagliate nel vuoto, ma vere opere pittoriche per concezione e ricchezza. Il lussureggiante story board (che lui mai avrebbe chiamato così) della Voce della Luna insieme a tanti altri ‘scarabocchi’ occasionali era stato spedito a Daniel Keel, l’editore della Diogenes Verlag di Zurigo, prescelto a ricevere per posta (e quindi a salvare da sicura distruzione) le grosse buste panciute con tutta la torrentizia produzione figurativa di Fellini. Privo di quell’argine, Federico avrebbe assecondato la sua attitudine ad accartocciare e gettare nel cestino, oppure strappare in pezzi, i fogli appena ‘pastrocchiati’. Il suo impulso – la compulsione? – era rivolta a disegnare, non a conservare; proveniva dall’esigenza di tradurre all’istante il balenio di un pensiero, assecondando una specie di irrefrenabile automatismo. Il suo rapporto con la creatività si rivelava prima di tutto in visioni. Solo in un secondo tempo subentravano le parole, di cui Federico, come sa chiunque abbia letto i suoi scritti, era anche prodigioso giocoliere. Scrittore nato. Ma le figure venivano prima: un filo ininterrotto che sgomitolava da dentro se stesso, inesauribilmente, incessantemente. Col tempo aveva arricchito le tecniche, concesso più spazio alla tentazione 262 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di rimpolpare il tratto lineare con l’introduzione del colore. E alla fine il colore, e quindi la luce, aveva preso il sopravvento nella composizione, conquistando una salda autonomia. Mentre era degente all’ospedale di Ferrara, scampato per miracolo al fulmine dell’ictus, utilizzava la scarsa energia residua per disegnare. Dell’equipe medica faceva parte una giovane e solare neurologa che lo sollecitava a eseguire alcune combinazioni di test grafici utilizzati per misurare la reattività cerebrale, il grado di recupero. In un’occasione la richiesta era stata di rappresentare una tavola imbandita con quanti più particolari possibili. Federico aveva disteso sulla tovaglia candida una prosperosa culona e rappresentato se stesso a capotavola, seduto in carrozzella, con forchetta e coltello golosamente impugnati. “Hai messo proprio tutto, non hai dimenticato nulla?” Insisteva la terapeuta. E Federico, con un tocco di eleganza, aveva completato la ricca imbandigione con due belle candele accese, una per chiappa. Una vignetta già pronta per il “Marc’Aurelio”. Ma la sua ispirazione pittorica andava ben oltre. Quando aveva saputo che l’avvenente dottoressa avrebbe dovuto partecipare a un party a tema un po’ osé, la mattina successiva aveva schizzato per lei, nell’album di carta di Fabriano, i figurini dei costumi che avrebbe dovuto indossare: la giovane donna veniva interpretata con un segno aguzzo e spigoloso, presentata in un’esuberante esplosione di colori; sembravano tavole di Grosz, di Oscar Kokoschka. Fellini espressionista: tutte le sue invenzioni lo erano, è così il suo cinema, lo è sempre stato. L’impulso a “pasticciare” con matite e colori, era per lui intrattenibile: alla scrivania, in automobile, sui tovaglioli del ristorante. Caricature, ma più spesso caratteri, affioramenti, rivelazioni di chi gli stava di fronte e che si scopriva rappresentato non soltanto nei tratti somatici, ma anche nella natura più riposta, un secon263 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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do sembiante invisibile a tutti gli altri. Nel tempo gli schizzi, gli “scarabocchi” come li chiamava lui, avevano avanzato pretese; Federico si lasciava volentieri sedurre dalla facce, dai corpi, dalle situazioni, sostituendo alla biro i pennarelli colorati; ne aveva sempre un riserva davanti, di tutte le sfumature, e con tocchi rapidi, calcati - metteva sempre molta energia nei suoi segni - dava rapida vita a eloquenti fantasmagorie. Il colore si sostituiva al disegno con estrema naturalezza, prendeva il sopravvento, invadeva la pagina, la riempiva di frastornanti arcobaleni. Negli ultimi tempi, sempre più spesso, Fellini andava a “scuriosare” nell’atelier dell’amico pittore Rinaldo Geleng che gli metteva a disposizione tempere, oli e cavalletti. Mi capitò di chiedergli un bozzetto per il festival cinematografico di cui mi stavo occupando; mi sarebbe piaciuto prendere a simbolo il pavone che si posa sontuoso e magico sulla fontana gelata di Amarcord. Una sera Federico era andato da Geleng e, su uno sfondo grigio da cielo invernale punteggiato da fiocchi di neve, accanto ai ghiaccioli che pendevano dalle vasche appena accennate della fontana di Piazza Cavour a Rimini, aveva dipinto non l’intero uccello, ma soltanto metà della sua coda spalancata a ventaglio, una mezza ruota d’oro e turchese, abbagliante. Intuizione grafica e pittorica insieme, una sintesi da artista. Mi aveva consegnato la prova d’autore con la solita spiazzante modestia: “Vedi se ti piace.” Avevo tra le mani un capo d’opera. Come accadeva sullo schermo, anche nello spazio bianco dell’improvvisato cartone, la luce era diventata colore e materia, sfondo e volume, simbolo e racconto. Tornato a Roma dopo mesi di degenza tra Rimini e Ferrara, e fortemente debilitato dall’emiparesi, Federico aveva stabilito di lasciare lo studio di Corso d’Italia per affittarne uno nuovo in via Capo le Case, immediatamente sotto quello di Rinaldo Geleng, il suo amico pittore. Una sola rampa di scala li avrebbe divisi, o piuttosto riuniti nella comune passione che avevano condiviso fin 264 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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da ragazzi quando, per sopravvivere, dipingevano le vetrine dei negozi di via Veneto; “per otto lire, dieci se la vetrina era doppia”, precisava Geleng, correggendo subito dopo: “ma anche solo per un caffellatte”. Fellini avrebbe rubato i colori, al suo amico Rinaldo, e si sarebbe messo a ‘pasticciare’ sui cavalletti, come già usava fare quando si presentava un’occasione particolare, per la quale non bastavano i pennarelli. Nello studio di Rinaldo era nata la prua del Rex tra sbaffi vorticosi di schiuma e lampadine scintillanti, divenuta nel 1982 il logo del 35° Festival di Cannes. Nel cinema di Fellini si avverte l’ammirazione per i post-impressionisti, Cézanne, Matisse, Marc Chagall e la grande venerazione per gli illustratori, Carlo Chiostri, Adolfo Bongini, Attilio Mussino: quella stessa luce a pioggia, calme et volupté, da incantesimo, tipica dei libri di avventure. In Roma le sequenze di via Albalonga, del defilé ecclesiastico, del raccordo anulare, – solo per citare soltanto tre fra le più trasparenti – alludono ai maestri della scuola romana, da Scipione a Mafai a Fausto Pirandello, ma anche a illustri disegnatori come Attalo e Giuseppe Novello. La luce pittorica è intrinseca al racconto, suscita emozioni autonome. Nel breve episodio del bombardamento dello Scalo San Lorenzo il racconto è risolto da una accecante macchia di luce riverberata dalle mattonelle del sottopassaggio, seguita subito dopo da un’ombra che correndo si allunga sul muro, inseguita dal lancinante ululato delle sirene. I compagni di scuola di Rimini, Luigi Benzi detto Titta o Il Grosso, Mario Montanari, Ercole Sega, ricordano l’amico quando, poco più che adolescente, usciva di casa con la cartella delle caricature sottobraccio e se qualcuno si accostava per chiedergli di vederle, la apriva con sussiego concedendo un’occhiata all’ultima creazione; quella che sarebbe andata a far bella mostra sulle 265 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vetrine del Cinema Fulgor. Nel suo intimo – come ha poi confessato il regista – avrebbe voluto essere all’altezza di Nino Za, più introdotto di lui, che d’estate sulle terrazze del Grand Hotel si faceva corteggiare dalle bellissime villeggianti per accettare, solo dopo giorni, di ritrarle col suo segno inconfondibile. Dalle prime, incancellabili emozioni dell’infanzia, tante volte raccontate, il mondo delle figure non aveva più smesso di attrarlo, quell’affascinante illusionismo della matita che abbatte il fragile schermo tra la vita in carne e ossa e quella di Cartunia. Fellini era entrato a farne parte con il cinema, nel quale aveva eletto cittadinanza senza possibilità di fuga. Premiato con cinque Oscar, incensato come uno dei più grandi artisti del Novecento, ancora gli piaceva ripetere: “Quando il cinema non ci sarà più, mi metterò a fare il madonnaro sui marciapiedi, con i gessetti colorati.”

Per i suoi film Fellini non amava tenere riunioni collettive di sceneggiatura. Forse ne aveva collezionate abbastanza all’esordio della carriera, per film di altri che poco lo interessavano. Tuttavia rievocava la stagione dei suoi inizi come un’età dell’oro, quando generalmente in coppia con Tullio Pinelli collaborava con registi molto affermati, illustri già prima della guerra. I suoi erano affettuosi bozzetti alla Attalo, allietati da ricordi soprattutto gastronomici. Gennaro Righelli, già regista del cinema muto, a un certo punto si annodava intorno alla vita un canovaccio bianco e si metteva a preparare in cucina due spaghetti alla sciuè sciuè, per corroborare gli spiriti. Poi regolarmente la voglia svaniva e la seduta veniva rinviata al giorno dopo, con esiti analoghi. A casa di Alfredo Guarini che aveva sposato la maliosa Isa Miranda, nel salone saturo di fumo si attendeva invece con impazienza l’ingresso della diva, invariabilmente accompagnata da un’offerta di torte golose preparate con le proprie mani. La discussione veniva su266 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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bito interrotta per l’assalto alle generose fette tagliate dal marito. L’atmosfera perdeva invece ogni languore romantico nelle riunioni in cui era presente Cesare Zavattini, che Federico sapeva imitare a perfezione. Lo scrittore di Luzzara debordava in una serie di inarginabili sproloqui, coglieva uno spunto a caso e filava via per la tangente, spesso inseguendo un film che non aveva nulla a che vedere con l’argomento prescelto. Per Sergio Amidei, frequentato soprattutto in occasione di Roma città aperta, Federico non nutriva una spiccata simpatia: dotato com’era di incredibile capacità imitativa, il regista quando ne parlava atteggiava istintivamente il volto alla spocchiosa supponenza di un clown bianco. A Fellini piaceva ripercorrere quell’inizio del suo apprendistato cinematografico in cui tutto sembrava risolversi in un gioco incosciente, dove l’impegno era minimo e il guadagno alto. Non sembrava vero lavoro quello in cui ci si ritrovava per dare libero sfogo alla fantasia, ridere alle battute di ognuno, buttare giù qualche appunto, magari imbastire i dialoghi di una scena e alla fine uscire dalla comune senza quasi nessuna responsabilità sull’esito finale. Federico vi identificava l’avventura stessa del cinema; equiparabile a quella felice parentesi di sospesa euforia che, tra tutte le varie fasi di lavorazione di un film, era per lui il periodo della “preparazione”. Un limbo ancora vago, dorato, avventuroso, in cui ci si mette in macchina per i sopralluoghi, in tre o quattro allegri perdigiorno, per andare a scegliere i posti delle riprese, sempre d’accordo su dove fermarsi a pranzo, su quale trattoria scegliere a spese del produttore. In tanti anni che ci siamo frequentati non l’ho mai sentito parlare della sceneggiatura in termini di fatica. Piuttosto tendeva a sminuire, a ridurre esageratamente il tempo dedicato a un copione (“un paio di settimanelle…”) come se l’idea si formasse da sola. E poi al suo fianco c’era Pinelli, di che cosa avrebbe dovuto impensierirsi? Pinelli aleggiava sullo stessa nuvoletta di Nino Rota, 267 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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venuto al mondo per giocare al cinema con lui: i suoi incontri del fato, misteriosi come la vita, su cui non c’era gran che da aggiungere. Esisteva però una differenza percettibile nel tono affabulatorio riservato ai collaboratori: per Pinelli non utilizzava mai il suo tipico approccio deformante, beffardo, canzonatorio (frutto di gioco, mai di cattiveria) che non risparmiava in genere agli altri della sua cerchia. Nei confronti di Tullio il suo atteggiamento era riguardosamente sobrio. Intanto per la deferenza che Federico aveva sempre mostrato verso i letterati, i veri scrittori. E Pinelli lo era a tutti gli effetti, premiato come drammaturgo persino dall’Accademia d’Italia. Poi per l’età, in quanto l’amico nato nel 1908 contava ben dodici primavere più di lui. E infine perché piemontese, anzi torinese e quindi appartenente a quell’esemplare di italiano roccioso, leale, resistente, capace di rispondere con la massima serietà a qualsiasi attesa. Ne ammirava l’ordine, la coerenza, l’articolata ingegneria costruttiva. Quando scrivevano a doppia firma le sceneggiature per la LUX dell’ing. Riccardo Gualino, Federico parlava, proponeva; l’altro raccoglieva le idee e le disponeva dentro una struttura. Nulla andava perduto sulla pagina di quanto era stato partorito. “Eravamo una coppia di sceneggiatori molto richiesti e molto impegnati – ricordava Tullio Pinelli – vivevamo con Federico un periodo di intenso lavoro quotidiano, elaborando soggetti per Rossellini, Lattuada, Germi, Coletti, Righelli, Franciolini e tanti altri.” Così quando toccò a Fellini passare dietro la macchina da presa, la ditta era già ben collaudata e l’affiatamento non venne mai meno benché le vicende della vita e del lavoro li portarono anche a separarsi per qualche tempo. Una separazione apparente, dal momento che Pinelli pur non firmando restava comunque accanto a Federico e le sceneggiature passavano, se non altro per l’ultima benedizione, dalle sue mani. Fu così anche per Il viaggio di G. Mastorna (mai realizzato) e per l’ultimo film, La voce della luna. E quando Giulietta Masina fu chiamata a interpretare i suoi 268 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sceneggiati di successo in TV (Eleonora, Camilla) fu Tullio Pinelli ad accompagnarla per mano e a ritagliarle i personaggi addosso. Non credo che Fellini l’avrebbe mai affidata ad altro scrittore; persino su Fortunella di Eduardo De Filippo ebbe non poco da ridire in privato. Giulietta sosteneva che fosse gelosia di mestiere. Non solo. Per Federico era visceralmente inammissibile che il personaggio de La Strada, scaturito dall’enigma più oscuro e misterioso che univa lui e sua moglie, potesse accasarsi sia pure sotto mutate spoglie presso un altro artista. Nonostante ciò si mise volentieri a fianco di Nino Rota, come lo stesso musicista confessò candidamente, per idearne insieme a lui il tema musicale; il medesimo che in seguito, opportunamente modificato, divenne anche la colonna sonora di Il Padrino di Francis F. Coppola, vincitrice del premio Oscar. Sono persuaso che Fellini non avrebbe mai licenziato una sceneggiatura senza l’approvazione di Pinelli. Oltretutto Tullio gli era simpatico, lo trovava spiritoso, dotato di fine senso dell’umorismo, di capacità poetica e a dispetto dell’aspetto esteriore, austero, scabro, legnoso, provvisto anche di una buona dose di suprema indulgenza verso le debolezze umane. Specialmente quelle degli amici! Insieme erano coalizzati contro ogni moralismo e contro tutte le approssimazioni. Con compiaciuta complicità Federico ricordava come durante la lavorazione di 8 ½ Pinelli, che si era sempre tenuto prudentemente discosto dalle riprese, avesse sviluppato un improvviso interesse per il set. Lo si vedeva comparire, inaspettato, e trattenersi anche a lungo in quella confusione di luci e cavi in cui i tempi morti sono estenuanti e ben superiori ai pochi momenti di pathos o di vivacità che si possono creare al momento dell’azione. Ma l’obiettivo era tecnicamente un altro, per la precisione una bellissima signora francese, Madeleine Lebeau (già apparsa in Casablanca), che nel film interpreta l’attrice convocata da Guido Anselmi, il regista senza ispirazione, e infatti egli stesso 269 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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all’oscuro di quale parte assegnarle, tenacemente, irritantemente evasivo. L’attrice che pure soggiorna nello stesso hotel, non riesce a ottenere altro che vaghe promesse o teneri nomignoli, come quello di petit escargot con allusione alle due vibranti antennine di lumaca fissate in cima all’acconciatura. Ma la donna era assai bella, ricordava l’aristocratica sensualità di Caterina Boratto. E accadde che Pinelli se ne innamorò. Al punto, ahi set galeotto!, che la fece sua sposa. Giunto in tardissima età lo scrittore, sollecitato a raccontare il senso del rapporto con Fellini e delle tante sceneggiature scritte per i suoi film, non aveva scrupoli a rivelare la verità più semplice e illuminante. La più sincera. E cioè che nonostante la conoscenza minuziosa di tutto ciò che si svolgeva sulla scena, il film gli appariva ogni volta una sorpresa: “Quando finalmente mi sedevo per assistere alla proiezione, mi sembrava di non vedere nulla di ciò che avevo scritto, perché i film di Fellini prendevano vita sul set, e questa era la sua creazione originale non condivisibile con nessun altro.” Acuto, onestissimo piemontese. Chissà se Flaiano o gli altri collaboratori che si sono avvicendati con Fellini si sarebbero mai spinti a tanta sincerità. Federico era affascinato dalla cultura e dalla ‘affilata intelligenza’ di Ennio Flaiano, il quale scriveva assai meno ma interveniva con contributi insostituibili. Era intenerito da Brunello Rondi, generoso e ridondante, capace di arrivare la mattina con cinquanta cartelle ‘inutili’ elaborate durante la notte su uno spunto appena accennato in conversazione. Ma quando parlava di Pinelli, finiva sempre per riservargli tutti i meriti della stesura. “Era lui che costruiva la storia – ammetteva – da autentico drammaturgo, abituato al teatro, all’incastro delle scene, ai dialoghi.” Il metodo rimaneva sempre lo stesso, Fellini affidava le sequenze da sviluppare e gli altri procedevano separatamente. Poi riuniva le stesure, si metteva ai tasti della sua Olivetti Lettera 32, 270 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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aggiustava battute, mutava l’ordine, incollava, tagliava, aggiungeva, intarsiava. E alla fine il materiale finiva da Pinelli. Il copione ufficiale, quello inviato in copisteria perché fosse letto e approvato dai produttori per il piano di lavorazione, aveva l’inconfondibile sigillo di Tullio Pinelli. Il più grande di tutti, il principe degli sceneggiatori. Per otto mesi ho rivisto tutti i film di Federico Fellini in funzione di un unico compito: accertarmi che le luci delle ristampe fossero fedeli all’originale, calibrate secondo le intenzioni dell’autore, prima che le pellicole fossero inviate alla retrospettiva organizzata dal MOMA a New York. Da Luci del varietà a La voce della luna, di ciascuna pellicola ho assistito più volte alla proiezione di controllo, nelle uniche condizioni in cui tutti i film, e non soltanto i capolavori, dovrebbero essere guardati, e cioè con copie smaglianti e su un terso schermo cinematografico. Diceva Fellini: “Spesso passiamo ore e ore, un’intera giornata sul set a inseguire un effetto particolare, a bilanciare le lampade in cento modi diversi finché non otteniamo il risultato sperato, a curare ogni sfumatura di colore, ogni campo di luce, ogni minimo dettaglio di costume e di trucco, correggiamo il vezzo invisibile sul viso di un attore, proviamo e riproviamo un gesto, un passo, un’espressione, un movimento in funzione di quell’unico elemento espressivo che determina tutto l’assieme e cioè l’impasto delicatissimo di vibrazioni fotocromatiche che interpretano in quell’unico modo e in nessun altro il sentimento di una sequenza, di una singola inquadratura; il direttore della fotografia spia incessantemente ogni sbavatura che possa guastare la limpidezza della scena, l’operatore alla macchina precipita in uno stato di trance per controllare che nel quadratino davanti ai suoi occhi non compaiano per errore imprecisioni millimetriche e quando finalmente ci sembra di essere riusciti ad ottenere l’esatta con271 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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clusione di questo lavoro da certosini, da orafi, da miniaturisti, il film passa in televisione e non vedi più niente.” La luce era l’ispirazione e il segno araldico dell’arte di Fellini, sempre più impegnato, film dopo film, a costruire quel paradosso immaginifico che risultavano i suoi quadri schermici: affreschi in movimento. “La luce è il primo effetto speciale inteso come trucco... La Luce è il sale allucinatorio che bruciando sprigiona le visioni. Ciò che vive sulla pellicola, vive per la luce.” Nella rappresentazione di un pittore tutto è ottenuto dalla luce e dalle ombre; sono esse che stabiliscono profondità e volumi, il teatro dell’azione, l’unicità dei visi, la descrizione dei costumi, l’atteggiamento dei corpi, la dinamicità delle figure. Luci e ombre articolano un racconto, muto e immobile ma mobilissimo e loquace in chi guarda. L’animazione dell’affresco era divenuto nel tempo l’ideale cinematografico di Fellini, e non c’era film che non dovesse qualcosa all’influsso figurativo dei pittori, ma sarebbe più esatto dire dalla pittura, che egli amava indistintamente, compulsava con ammirazione e appagamento inesauribili. Federico raccoglieva le suggestioni di luce come un grande manipolatore e le restituiva alle sue pellicole con la complicità di operatori sensibili, veri rabdomanti capaci di mettersi in sintonia con le sue vibrazioni: Peppino Rotunno, Tonino Delli Colli; e prima di loro Otello Martelli, Arturo Gallea, Aldo Tonti, il mitico Gianni Di Venanzo. “Era il più coraggioso di tutti – affermava Federico – sapeva rischiare, aveva il gusto della sfida, non si tirava indietro.” In genere aveva amato tutti i direttori della fotografia, trattandoli nel ricordo come padri affettuosi, brontoloni, protettivi. Martelli “si disperava ma poi finiva per trovare sempre le soluzioni più abili”; Tonti “un bravo operaio, intelligente, fine, rapidissimo”; Di Venanzo “angosciato, incontentabile, ma pieno di talento”; Peppino Rotunno, 272 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“il più ricettivo, grande professionista, attento, accurato”; Tonino Delli Colli, “pratico, concreto, senza vizi intellettuali, senza retorica, lamentoso e intuitivo, con quella sicurezza che deriva dal mestiere ma anche da una confidenza di destino con la materia che tratta.” Con l’occhio incollato al vetrino nero – quello col cerchio d’oro, prestigioso riconoscimento della Kodak, che teneva appeso al collo – Fellini non si stancava di seguire scrupolosamente ogni fase dell’illuminazione del set, spiando il lievitare della scena e intervenendo con garbo, delicatezza, come se effettivamente stesse maneggiando i pennelli, correggendo, spiegando a bassa voce, precisando, lì dove aveva l’impressione che il delicato equilibrio non corrispondesse esattamente a quello immaginato. La luce era la prima chiave di lettura, il primo approccio alla materializzazione della fantasia: “La luce è la materia del film, quindi del cinema. La luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, racconto.” I pittori non vengono immediatamente identificati, riconosciuti da quest’unico elemento? A Fellini sarebbe piaciuto fare il pittore, e amava ripetere: “Se finisse il cinema continuerei ugualmente a creare immagini, magari facendo il madonnaro inginocchiato sui marciapiedi.” Nei suoi film l’impressione di luce – e di colore – è la prima cosa che si ricorda; possiede la stessa sostanza della musica, un sentimento di malinconica, di dolce allegria. Le immagini agiscono in trasparenza, lasciano intravedere la rivelazione e il sogno. Lo stile è talmente inconfondibile che chiunque è in grado di riconoscerne la mano, anche da pochi fotogrammi. “Il film si scrive con la luce, lo stile si esprime con la luce.” Nel programma di ristampa di tutta l’opera intrapresa da Cinecittà, per i primi quattro film era stato necessario ricorrere a un vero restauro. I negativi, conservati in condizioni deplorevoli, 273 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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risultavano spesso cristallizzati, secchi, irrigiditi e quasi completamente inservibili. Attraverso una serie di controtipi e lavander, con un lungo e paziente lavoro di ricostruzione, era stato possibile ristabilire tutti i valori originari della fotografia, i contrasti, le profondità, la scala dei grigi. E con un ultimo intervento magistrale di un esperto stampatore, il patriarca Enzo Verzini, era stata rimossa anche l’impalpabile impressione di velatura, un’ombra del tempo che non voleva svanire. In Intervista, un’aperta riflessione sul cinema, Mastroianni vestito da Mandrake, mago d’avanspettacolo, con un flash di sali allucinatori riporta in vita il leggendario abbraccio con Anita Ekberg nella Fontana di Trevi: un sogno di trenta anni prima. E nel finale c’è il Teatro 5 improvvisamente vuoto, sgomberato di tutto, restituito per incanto alla sua essenza geometrica di parallelepipedo, scarno, essenziale, “gotico”, solenne per la ritrovata purezza e grandiosità. Un crepitante carico di voltaggio messo ‘sotto resistenza’ e docilmente manovrato tramite una consolle da astronave, sta per svolgere un compito elementare e sfuggente: fotografare la luce con la luce. La luce è il primo atto della creazione che viene prima dei mondi, della terra, dei mari, delle piante, delle creature viventi. Tutto questo anzi potrà esistere perché c’è la luce. Proprio come nel cinema. Fellini sembra voler restituire il valore semantico alla parola stessa, ridonare alla cinematografia la sua origine etimologia di disegno in movimento fatto con la luce, inciso con la luce, creato con la luce. Il teatro buio – in cui Fellini entra personalmente come personaggio di se stesso – è una dimensione ‘ventrale’, prima e dopo la vita, viscere e tomba, placenta e ipogeo. Il grande portone dello studio, socchiuso, lascia trapelare una striscia di sole, prima che in quel buio compatto altre luci prendano a disegnarsi, cominci274 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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no a definire lo spazio. Il pulviscolo atmosferico brilla nel fascio abbagliante di un primo proiettore, poi di un secondo, un terzo, un quarto, tutti quanti, tutti assieme: è la luce, sfolgorante, incandescente, fluida come un fiume di lava, magma dantesco e paradisiaco. Non è così la nascita, l’uscita dall’utero? Non è quel candore, quel bianco accecante, a travolgere il neonato al suo primo respiro di vita, al primo vagito? Il teatro di posa inondato di luce assume il doppio ruolo di esistenza e palcoscenico, l’unica dimensione in cui Fellini si è visto abitare da sempre. È lì che è possibile tutto, ora: far sorgere costruzioni, distribuire masse, cieli, volumi, modellare le forme; lì affiorerà la vita parallela, fantasmatica ma così reale, che il cinema continua a secernere nel suo sogno ininterrotto.

Quando arrivava la stagione delle vacanze sapevo in anticipo cosa Federico mi avrebbe ripetuto: “Non potrò andare da nessuna parte, sto lavorando attorno a un’ideina, credo che passerò l’estate così, a guardare facce.” E l’“ideina” si rivelava di volta in volta Il Casanova, o Roma, o La città delle donne, o La nave va. Capolavori di ideine. I direttori che nel tempo si erano succeduti alla guida di Cinecittà, lo sapevano e gli tenevano da parte gli uffici sopra il Teatro 5, cioè un doppio appartamento attrezzato di cucina, che rapidamente si animava di assistenti, maestranze, agenti, convocazioni, e pacchi di fotografie che invadevano i locali. Nell’arsura romana in cui turisti e residenti, per sopravvivere, si ingegnavano come in un miraggio di trasformare in piscine le fontane barocche di marmo e travertino, Fellini si beava dentro quel coro assordante di cicale che deliravano al sole, e passava al setaccio la fauna umana più improbabile della Capitale. Nelle stanze del Teatro 5 consumava giorno dopo giorno le 275 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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belle e lunghe estati, insensibile al caldo, indifferente alla fatica, grato e festoso a mezzogiorno per i cibi semplici e saporiti che venivano imbanditi su una spaziosa tavolona nella stanza accanto al suo ufficio. Un ispettore di produzione, Benedetto, si improvvisava gourmet, oppure erano le fedeli donne dei camerini – Ubaldina prima, Adriana poi – ad accudire il desinare con orgoglio matriarcale, senza dimenticare il basilico fresco, le polpette al sugo, la bufala rigonfia di latte, la noce tenera di parmigiano, o quei biscottini a ciambella, dei Castelli, che andavano gustati ben inzuppati nel bicchiere di vino fresco. C’erano quasi sempre ospiti alla mensa, attori, giornalisti, politici, psicanalisti, funzionari televisivi, produttori, cineasti americani, e gli argomenti si sperdevano lievi nel ponentino del meriggio. Era tutto ciò di cui Federico aveva bisogno per attrarre pazientemente in superficie quell’ideina che luccicava nel profondo e che chiedeva con insistenza di lievitare in una delle sue insuperate trasfigurazioni cinematografiche. Durante la lunga estate degli italiani, nella febbricitante festa dell’oblio quando persino la malavita chiude i battenti per ferie, nascevano nel grembo fecondo di Cinecittà ombreggiata dai pini marittimi, tutti i film di Fellini. Anche gli ultimi, Intervista, La voce della luna sono stati partoriti dal solleone. Ora che Fellini non c’è più, sono spariti con lui gli abitanti abituali di Cinecittà: un popolo gogoliano e quasi surrealista di comparse, operai, elettricisti, capigruppo, perditempo, stelline fuori orbita, venditori abusivi, piccoli malavitosi e figli di un dio minore che tutti insieme rendevano unica al mondo la Hollywood sul Tevere. Attorno alla piscina senz’acqua dove aveva pur navigato in altre stagioni il transatlantico Rex, ultimo natante di una lunga e poderosa scia di triremi romane e galeoni corsari, cresce l’erba a sommergere i reperti archeologici di una stagione silenziosamente trascorsa. 276 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il regista amava coerentemente abitare in una dimensione parallela a quella di tutti gli altri. Gli piaceva Pinocchio; e con la fama di bugiardo che aveva non ci sarebbe da stupirsi. Quando Fabio Roversi Monaco, Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, gli comunicò l’intenzione dell’Ateneo di attribuirgli una laurea honoris causa, Federico rispose che era lusingato, ma anche imbarazzato, perché entrando nell’Aula Magna tra le riverenze dei professori si sarebbe sentito come Pinocchio fra i due carabinieri. È vero, ammetteva, come artista pretenderei di fare gli sberleffi al Preside e poi di riceverne pure le lodi, di essere insomma premiato per la mia indisciplinatezza. Ma mi rendo conto che questa è una libertà, appunto, da Pinocchio, non da laureato. La lettera di diniego piacque talmente tanto che fu addirittura stampata in un poster, ancora reperibile tra gli amatori. Anche Carlo Bo, dell’Università di Urbino, aveva manifestato un analogo proposito d investitura. Ma Fellini che intratteneva con lui una maggior confidenza si permise addirittura di suggerirgli un’alternativa, indicando al proprio posto, come in un cast, un famoso giornalista suo amico più idoneo alla circostanza: “Gradisce molto queste decorazioni, e sa tenere bellissimi discorsi.” Insomma, a parte la Légion d’Honneur che non riuscì ad evitare, non faceva che tirarsi indietro – sorridendo, con garbo, con mitezza – da premi, riconoscimenti, encomi, medaglie e onorificenze. Sapeva infatti che l’artista, se vuol restare tale, deve rifuggire da quel tipo di lusinghe che tendono in qualche modo ad addomesticarlo; e quindi a infiacchire quello stesso talento che le cerimonie ufficiali vorrebbero esaltare. Quando ci si riconosce un’inclinazione a raccontare, a rappresentare, sarebbe più indicato restare un po’ defilati, marginali alle regole, essendo l’arte finzione, cioè attitudine a mentire. Finge l’attore sulla scena, finge il pittore sulla tela, fingono il musicista, lo scrittore, l’autore cinematografico. Tutti Pinocchi. Perché chi dipinge, o scrive, o compone, non fa che organizzare espressivamente il mondo come 277 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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piace a lui, a proprio genio. Persino Dio – stando alle Sacre Scritture – per rappresentare l’universo ha dovuto crearlo “a propria immagine e somiglianza”. Non c’è scampo. Ed è questa anche la ragione per cui ogni artista è originale, diverso dall’altro, nel proporci una visione che solo lui sa percepire e che è la sua verità. Pinocchio è dunque l’eroe, il Santo Protettore, di ogni artista (anche di ogni bugiardo, il confine sta a noi stabilirlo!), il quale se è tale convive col timore sottile di essere “scoperto”, cioè trasformato a vista da burattino insolente in un bambino aggraziato e obbediente alla buona Fatina. Pinocchio con le bugie crea il proprio mondo, un mondo ingenuo, innocente, infantile in cui fatalmente vengono smascherate molte magagne e incongruenze degli adulti. E dunque era fatale che dopo tanto amoreggiare platonico, il burattino di Collodi comparisse di persona in un film di Fellini, anzi proprio nell’ultimo, La Voce della Luna. Un “pinocchietto lunare” che veste le spoglie di Benigni, col naso affilato, le movenze legnose, gli occhi mobili e curiosi su una realtà dissociata, stridente, cacofonica. Il protagonista Salvini è un Pinocchio che ascolta la voce dei pozzi, che vorrebbe vivere sui tetti delle case, che si domanda dove vanno a finire le faville del camino o le note emesse dagli strumenti musicali, oppure tutti coloro che muoiono, una volta che si è spenta la luce. E finisce per essere sopraffatto da una società che invece di vagheggiare la luna, la strappa dal cielo trascinandola oscenamente nello sciagurato frastuono di una diretta televisiva. Tuttavia a casa della sorella, nella sua stanzetta di bambino, il burattino di legno è ancora seduto in un angolo, e alla parete è appeso il ritratto di Giacomo Leopardi, il più sapiente – struggente – cantore della luna e di ogni sogno – o bugia - che in essa si sperde. Dopo La Voce della Luna, quasi una prova generale, Benigni avrebbe dovuto interpretare il vero Pinocchio nel film che stavamo scrivendo, “L’Attore”, mentre a Paolo Villaggio sarebbe spettata la parte dell’Omino di Burro o di Mangiafuoco. Ma di 278 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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quel progetto sono restati soltanto un breve trattamento e alcuni disegni preparatori.

Sul suo set Fellini accoglieva tutti, come un vero porto franco, come una chiesa laica in cui ognuno potesse trovare una sorta di ‘immunità ecclesiastica’ nella vasta e poco conformista famiglia dell’arte. Anzi la diversità di opinione politica, e non soltanto quella, veniva considerata un elemento di vitalità, e trasformata in un valore aggiunto alla ginnastica intellettuale, alla palestra della polemica civile. Nessuna discriminazione, mai, era stata esercitata nei confronti dei collaboratori, scelti al contrario, forse per inesauribile curiosità o per spirito di contraddizione, proprio tra le fila opposte alle proprie. Istintivamente era contro ogni fascismo, a cominciare da quello comunista, semplicemente perché avverso a ogni sistema politico che mortificasse l’essere umano nella sua dignità, nel suo individualismo, nella sua intelligenza e creatività. Ma per capire meglio la qualità e la natura del suo pensiero e orientarsi nel suo atteggiamento è utile tracciare una geografia delle frequentazioni preferite in ambito politico. Era amico di Antonello Trombadori – poeta ed eretico – e aveva scambi di sincera cordialità con Enrico Berlinguer. Il segretario del Partito Comunista lo prendeva da parte e gli raccontava la famosa barzelletta: “Sai come si riconosce se un socialista è morto oppure no? Dalle dita, perché pollice e indice (faceva il noto gesto di chi chiede soldi) continuano a sfregarsi fino all’ultimo respiro.” E ridevano insieme con una complicità da compagni di scuola. Giovanni Amendola amava Federico, ricambiato con calore. E ugualmente Giulio Andreotti, che da presidente della Società Dante Alighieri lo invitava persino – senza successo - a tenere conversazioni sulla Divina Commedia. Con Renato Zan279 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gheri c’era un istintivo piacere a frequentarsi, condito di emilianità. Su Ciriaco De Mita, sollecitato da L’Espresso, aveva scritto una noticina piena di simpatia per dire che gli ricordava un preside di scuola, affidabile e capace. Era molto stimato da Ugo La Malfa, che ricambiava con sincera ammirazione per l’onestà ottocentesca e pessimistica, da clown triste. Detestava alcuni social democratici per la ragione opposta, e perché sosteneva che tramite Luigi Preti, ministro delle Finanze, l’avevano perseguitato per una vendetta trasversale. Negli anni Ottanta non aveva negato il suo appoggio, come tanti italiani in cerca di rinnovamento, all’avventura poi effimera di Mariotto Segni, il figlio del Presidente della Repubblica Antonio Segni; e neppure in seguito a Giorgio La Malfa, con cui s’era lasciato fotografare a spasso per i viali di Cinecittà in occasione di una tornata elettorale. Le sue simpatie giovanili andavano a Pietro Nenni per ragioni affettuosamente regionali, e anche per quel basco in testa che invecchiando aveva adottato volentieri lui stesso. Gli piacevano i vecchi socialisti, idealisti e umanitari, sempre dalla parte della libertà, come Sandro Pertini, di cui era amico, e che diventato Presidente della Repubblica lo invitava spesso a colazione con tono perentorio, da zio protettivo e bisbetico: “Fellini! Ti aspetto a pranzo, oggi c’è riso in bianco, lo so che ti piace!” Dopo Pertini, Francesco Cossiga aveva continuato la tradizione di presentare i suoi film al Quirinale, e andavano d’accordo. Ma Oscar Luigi Scalfaro che, durante un pranzo mondano, da giovane parlamentare democristiano aveva schiaffeggiato pubblicamente una signora per la provocante scollatura dell’abito (un gesto da pericoloso fondamentalista), era diventato suo bersaglio, simbolo di ogni odiosa ottusità. Intorno a quell’episodio di bigotteria aveva finito per costruire Le tentazioni del dottor Antonio, un capolavoro di ironia contro tutte le ipocrisie che finiscono per inacidirsi dentro incontrollabili nevrosi. Il superbo interprete era stato Peppino De Filippo, impareggiabile Cavalier Antonio 280 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Mazzuolo, che perde il ben della ragione per le tette troppo generose di Anita Ekberg: “Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene, a tutte le età!” Federico giudicava pericoloso Bettino Craxi, ritrovando nel suo stile politico e personale atteggiamenti già noti e sperimentati. “La nostra fortuna – ripeteva – è che non sia romagnolo; i milanesi non sono simpatici agli italiani, altrimenti avremmo presto un altro Duce.” Si era sempre battuto – anche quando i suoi colleghi, per la maggioranza di sinistra, tacevano opportunisticamente – contro l’arroganza e la sopraffazione di ogni potere occulto o plateale: prima fra tutti quello della Chiesa oscurantista che aveva lanciato l’anatema contro La dolce vita con un titolo a tutta pagina sull’Osservatore Romano, “Vergogna!” Una condanna senza appello, fondata sull’ignoranza, decretata dal direttore Raimondo Manzini il quale sosteneva di non aver bisogno di vedere il film per giudicarlo, e lo rinominava senza esitazioni “Schifosa Vita”. Nel cinema italiano nessuno più di Fellini ha saputo difendere la libertà. Non esiste un film più antifascista di Amarcord, in cui la sciagurata prepotenza squadrista è raccontata con acuta precisione attraverso tre sequenze memorabili. La violenza pubblica: quando i fascisti sparano, pistola alla mano, contro un grammofono che suona l’“Internazionale” nascosto in cima al campanile, e la tromba precipita da quell’altezza schiantandosi a terra. Il sentimentalismo di regime: quando il faccione di Mussolini, composto come un mosaico di petali di fiori, benedice il sogno delle nozze del piccolo balilla Ciccio con la giovane italiana Aldina. La violenza privata: l’olio di ricino fatto inghiottire a forza al padre di Titta, Aurelio, umiliato fra i propri escrementi nella tinozza di casa. E infine la violenza ideologica, di chi ti terrorizza per il tuo bene: “Non vogliono capire! È questo che ci addolora! Questa ostinazione a non capire!” Declama il federale fascista, in 281 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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carrozzella, mentre si allontana indignato dal luogo della tortura. Federico aveva salutato con molto sollievo l’era di Gorbaciov e della Glasnost, e giudicava una calamità la Rivoluzione Culturale di Mao dove il popolo era trasformato in un esercito di replicanti in casacca grigioverde. E naturalmente amava l’America, che aveva liberato l’Europa dalla schiavitù della tirannide mussoliniana e nazista e che con il cinema aveva regalato orizzonti di libertà nella cui attesa la sua generazione aveva potuto respirare un insperato e congeniale nutrimento. Se di partiti bisogna parlare, Fellini sosteneva che se ce n’era uno in grado di interpretare più profondamente degli altri la natura dell’italiano, congeniale per struttura organica all’alchimia dei cromosomi nazionali, questa era la Democrazia Cristiana, con la sua capacità di conciliare ogni opposto, ogni tensione, ogni apparente contraddizione, fino a strologare le “convergenze parallele” per un’azione politica che alla fine accontentava tutti, persino le opposizioni. In ciò Aldo Moro gli pareva insuperabile. Il suo anticomunismo non va certo scovato nelle quattro vignette pubblicate nel Travaso, su commissione e un tanto a battuta (allo steso modo in cui vendeva le sue gag a Aldo Fabrizi). Fellini tutelava una libertà mentale che non tollera restrizioni e imposizioni; era contro la barbarie dei gulag, contro il compiacimento liberticida mascherato dietro il trionfo della ‘giusta’ causa. Nel suo sacrosanto individualismo d’artista – e non da politico – Fellini era stato ostacolato da alcuni partiti politici operaisti come un nemico di classe, perché i suoi film – I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria – non si occupavano di ‘problematiche sociali’, e al contrario si abbandonavano a una poetica intessuta di decadente e ambigua spiritualità, borghese, solipsistica, imperdonabilmente consolatoria. Fellini era contro la negazione della libertà di pensiero, i discorsi costruiti per slogan, l’omologazione acritica dentro una 282 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“chiesa”, qualunque fosse, autorizzata a esprimere condanne e biasimo, fino all’emarginazione, di chiunque non si allineasse. Se oggi siamo tutti più liberi, lo dobbiamo anche a Fellini.

Federico dormiva pochissimo, per costituzione ma anche per un progressivo peggioramento del delicato equilibrio notturno sconnesso dall’età che avanzava. Alquanto contrariato affermava che aiutandosi con una compressa di Tavor riusciva a “racimolare” quattro, al massimo cinque ore a notte. Dopo una prima immersione in un sonno denso, buio e privo di sogni, riemergeva verso le tre del mattino e a parte brevi e sporadici intervalli di assopimento, trascorreva il resto del tempo leggendo. Leggeva di tutto, senza nessun metodo, lasciandosi guidare dalla curiosità, dal caso, dall’istinto, dalle segnalazioni di collaboratori, di intellettuali, di autori o editori con cui era in confidenza e che gli inviavano novità e manoscritti. Del resto insieme a Giulietta Masina era stato inserito tra gli Amici della Domenica, cioè nel comitato dei giurati chiamati a eleggere il vincitore del Premio Strega; forse su segnalazione di Ennio Flaiano che con il romanzo Tempo di uccidere aveva ottenuto l’ambito riconoscimento nella prima edizione del 1947. Oppure per diretto interessamento di Guido Alberti, marito di Maria Bellonci, interprete nel film 8 ½ del magnate e produttore napoletano, ispirato alla figura di Peppino Amato. Insieme alle immaginabili pressioni degli agenti editoriali, Fellini riceveva tutti i libri dell’annata che secondo il regolamento del Premio si apriva il 1° maggio e si concludeva il 30 aprile dell’anno successivo con la cerimonia di proclamazione del vincitore nel Ninfeo di Villa Giulia. Era amico degli scrittori, sentiva nei loro confronti una profonda affinità, li considerava compagni di strada, seppure di una strada da cui aveva deviato. Me ne accorgevo da come ne parlava, mai da critico, mai da let283 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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terato, ma da affabulatore e da artista. E da raffinato, generosissimo, lettore. Molti dei suoi entusiasmi mi si sono modellati addosso con divertimento e con la scoperta di una assoluta assonanza. Si andava spesso a periodi. Truman Capote, Altre voci altre stanze, A sangue freddo, L’arpa d’erba, Musica per camaleonti. Georges Simenon, le inchieste del commissario Maigret senza distinzione, i romanzi psicologici, e infine i Dictées; possedeva tutti i libri dello scrittore belga, spesso li leggeva ancora in bozze su sua specifica sollecitazione o per iniziativa dell’editore francese. Alla fine sospinse Roberto Calasso a subentrare a Mondadori nei diritti per l’edizione italiana e a mettere in catalogo l’intera opera; impresa che Adelphi continua a onorare con lodevole puntualità, ristampando tutti i titoli nelle sue prestigiose collane. All’inizio del nostro sodalizio, quando ero ancora fresco di università e irrigidito negli studi classici, mi aveva spazzato via la polvere da dottorino con le ventate indimenticabili di autori come Raymond Chandler e Dashiell Hammett, la narrativa hard boiled d’oltreoceano, trasposta in molti film di culto, capace di raccontare l’America ancora meglio di Hemingway, Steinbeck, Sherwood Anderson, Erskine Caldwell, Mark Twain e Jack London. Un’America fantastica. «Chandler» – diceva – «descrive le giacche di quei gangster con bottoni grandi come piattini da caffè, ti trovi a salire sulla macchina di Marlowe e avverti l’odore di vecchio cuoio dei sedili, il rumore della pioggia sul tetto di lamiera, tutto è dilatato, deformato e per questo riconoscibilissimo. Un grande realista, come tutti i visionari. Hammett riproduce la secchezza dei rapporti di polizia, i dialoghi conservano il crepitio delle vecchie Remington con cui vengono trascritti i verbali degli interrogatori. Non c’è spazio per la retorica.» Però gli piacevano anche le spy stories, Ian Fleming, le avventure dell’Agente Segreto 007. Le aveva lette tutte, e io mi ero affrettato a imitarlo in modo che fra noi il rilancio dei riferimenti 284 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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avvenisse senza bisogno di spiegazioni; gli emissari della Spectre sedevano alla nostra tavola in carne e ossa. Forse per questo negli anni Ottanta quando un consorzio di editori lo aveva interpellato per realizzare alcuni spot pubblicitari a sostegno della lettura, uno dei progetti ipotizzava una città invasa da personaggi di romanzi: l’autobus, le piazze, le strade paralizzate dal traffico, i grandi magazzini, erano affollati dagli eroi della pagina scritta; D’Artagnan porgeva aiuto a una casalinga con la borsa della spesa troppo pesante. I libri vivono con noi, non ci abbandonano mai. Era il presupposto di Federico. E un suo slogan recitava: «Se leggi non sei mai solo». Quegli appunti dimostrano l’attenzione febbrile, entusiastica, abbandonata, che Federico riservava alla lettura. È lui che mi ha introdotto al premio Nobel Saul Bellow, la copia di Il dono di Humboldt che conservo in libreria era la sua. Mi ha fatto scoprire Patricia Highsmith nella cui opera si era immerso titolo dopo titolo con una sorta di survoltata morbosità. Ne divorava i romanzi di notte e me li passava la mattina dopo esasperato: «Tieni, portali via! Sono libri avvelenati di una strega! La tensione è talmente insostenibile che ti soffoca di rabbia, vorresti prenderli e stracciarli, farli volare dalla finestra. Una narratrice abilissima, proprio tra le più dotate, ma ti viene voglia di strangolarla.» Naturalmente ne era ammirato e così subito le scriveva all’indirizzo del paese svizzero, forse proprio di Locarno in cui la scrittrice americana aveva deciso di risiedere stabilmente ormai da molto tempo, la raggiungeva con le parole della sua travolgente meraviglia. Più volte si sono anche incontrati e scambiati effusioni di stima durante cene ristrette organizzate con sapiente riservatezza da Anna moglie di Daniel Keel della Diogenes Verlag, editore di entrambi. Federico scriveva senza parsimonia agli autori di cui si entusiasmava, e di moltissimi era diventato amico. Peccato non possederne la corrispondenza. Sulle lettere di risposta c’è poco da sperare, dal momento che il regista strappava tutto. Se non fossero 285 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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stati gli assistenti di turno a salvare i reperti dal cestino della carta, non rimarrebbe più alcuna traccia. «Ha il complesso dell’assassino – diceva di lui Lietta Tornabuoni – non lascia prove dietro di sé». Era così, distruggeva ogni segno del suo passaggio, i suoi stessi schizzi, o ‘scarabocchi’ come preferiva chiamarli, finivano accartocciati o a brandelli nel secchiello sotto la scrivania. Non conservava nulla, non sapeva cosa fosse lo spirito né l’atteggiamento del collezionista; forse troppo carico di pensieri, cercava di procedere nella vita con meno peso possibile, niente scartoffie, niente agende, neppure l’orologio da polso. Non gli ho mai visto una borsa tra le mani, una busta di pelle, una ventiquattrore. Soltanto il minuscolo taccuino, scritto a penna, dei numeri telefonici, che peraltro consultava di rado, possedendo una memoria formidabile per i nomi e per i numeri. La sua comunicazione era preferibilmente orale, vocale, e per questo sensuale. Raggiungeva gli amici col suono della voce e li colmava di doni di cortesia, di attenzione, di intelligenza, di osservazioni estemporanee. Contagioso negli slanci, se un libro gli era piaciuto comperava copie su copie per regalarlo a tutti coloro che frequentava. Sapendo di dormire molto poco e di dover affrontare notti faticose, la sera subito prima della chiusura passava da Feltrinelli in via del Babuino, poco distante da casa, e pescava volumi volteggiando rapido tra banchi e scaffali, curioso dei romanzi dei giovani, degli esordienti. Bernardino Zapponi, suo sceneggiatore in tanti film, l’aveva conosciuto così, comprando il suo volumetto di racconti, Gobal, e poi telefonandogli a casa. «Sono Fellini, ho letto il suo libro, mi è molto piaciuto…». In tanti, raggiunti inaspettatamente dalla sua voce, non gli credevano fino alla fine, temevano lo scherzo perfido di amici malevoli. Anche con Andrea De Carlo aveva agito spontaneamente da sponsor, dopo aver letto Treno di panna ne aveva accompagnato la seconda prova, Uccelli da gabbia e da voliera fino al successo e ai premi. 286 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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A Tommaso Landolfi riservava una passione senza riserve; quando apprese che a ventitré anni ancora non conoscevo i suoi romanzi, cominciò a elencarmi tutti i titoli con cui rimediare all’istante; Le labrene, Il mar delle blatte, Le due zittelle, Racconto d’autunno, accompagnandone l’esaltazione con sintesi folgoranti, sembrava li conoscesse a memoria. Perché me ne appassionassi mi ritraeva lo scrittore come l’aveva conosciuto lui, con gli occhi cerchiati da giocatore d’azzardo, il lungo bocchino e la sigaretta sempre accesa, la sciarpa di seta bianca, le dita affusolate. Lo imitava nei gesti, nell’espressione, era come se incarnandone il sembiante riuscisse a rendermi meglio anche il gusto ricercato della lingua, la nobiltà avvolgente e inimitabile dello stile. Gadda lo riempieva di meraviglia, si avvertiva che ne era stregato già nel ricordo, come chi essendosi nutrito di un cibo rarissimo si attardi a riassaporarne mentalmente la fragranza, la squisitezza, le nuances. Anche i classici, Ariosto, Dante, riaffioravano spessissimo nella sua conversazione. Del primo invidiava la posizione di poeta pagato appositamente dal principe di turno per inseguire le fantasie e assecondare l’espressione del proprio talento. Per l’Alighieri lamentava l’ottica deformata, mistificatoria con cui ci era stato imposto nei banchi del liceo, il personaggio severo “col naso adunco e l’asciugamano in testa” come veniva rappresentato nelle tavole di Gustave Dorè. Un’immagine arcigna, intimidente, che non corrispondeva alla grandiosità e alla chiaroveggenza di un poeta capace di tracciare con sottile umorismo e spesso con aperta comicità, ogni profilo dell’animo umano e del carattere italiano in particolare; e allora citava magari un aggettivo, una terzina, una definizione che gli tornava in mente, sostenendo come La Divina Commedia contenesse già qualsiasi invenzione dell’ingegno poetico, le sintesi più limpide e efficaci sul piano evocativo oltre che intellettuale. Agli studios hollywoodiani che con costanza ventennale e con 287 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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offerte di denaro sempre più alte (per chiunque altro irrifiutabili) gli chiedevano insistentemente di tradurre in cinema l’Inferno, opponeva gentilmente ma invariabilmente il suo punto di vista troppo distante dall’alluvione di effetti speciali che i generosi committenti si aspettavano da lui. “Io penso a un infernetto asfittico, scomodo, opprimente; una scenografia di carta e di fondali da ricostruire a Cinecittà con colla e pennelli. Un posto impervio, scosceso, dove non c’è spazio, in cui manca l’aria, nella chiave figurativa di Luca Signorelli. Da girare al Teatro 5, non so lavorare in altro modo.” Le sue osservazioni erano accolte da sorrisi comprensivi, rispettosi e increduli. Al punto che di fronte a tanta garbata insistenza, lusingato dall’attesa fiduciosa della presidentessa di una Major Company che gli era più simpatica di altri, si era perfino imposto di raccogliere qualche appunto che poi mi aveva passato; intendeva raccontare, secondo il suo solito metodo di una finta inchiesta, per quale ragione non ritenesse possibile procedere a una vera e propria trasposizione sullo schermo del poema dantesco. “Proponetelo a Spielberg – rilanciava – è molto più adatto di me”. Rimasi spiazzato e affascinato dalla folgorante intuizione che aveva avuto nell’immaginare l’Inferno: la cessazione improvvisa di qualsiasi forma di comunicazione, ogni nesso stravolto, ogni significato distorto o assente. Tutte le sinapsi saltate, i ponti crollati, e il pensiero stesso naufragato in una melmosa, informe, nauseante sofferenza a causa della completa congestione dei circuiti mentali. Alludeva anche all’esperienza provata molti anni prima con l’assunzione, sotto controllo medico, dell’LSD 25, l’acido lisergico, attraverso cui conobbe visioni dilatate all’assurdo, amplificazioni incontrollabili di ogni sussulto interiore, l’angoscioso e confuso riflusso della sostanza pre-sensoriale e preconcettuale di ogni percezione, persino degli stessi colori irradianti luce assoluta; quasi il ritorno a uno stadio ancestrale, anteriore a ogni segno e alla sistemazione dell’universo sensibile dentro un ordine cerebrale. Lo scenario mi arrivò 288 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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– credo che fosse così anche per lui – come una sorta di precognizione; l’Inferno percepito, per quanto possiamo saperne, come assenza di Dio, cioè di una mente ordinatrice; la condizione di caos anteriore al Verbo e alla Luce. A posteriori sembrerebbe proprio un presentimento, un’anticipazione da sensitivo di quanto era in procinto di accadere nella sua mente, lo stato ‘infernale’ in cui sarebbe precipitato in conseguenza dell’ictus che lo condusse alla morte. Al tempo in cui girava I vitelloni, per mesi Federico aveva tenuto sul comodino dell’albergo una copia delle Confessioni di Sant’Agostino. Chi lo avrebbe sospettato. Il fatto è che lui, come Socrate, preferiva dar conto piuttosto della propria ignoranza, cosciente di non sapere. Fingeva di non aver letto nulla, ma non c’era titolo degli antichi o dei moderni che gli fosse ignoto, e naturalmente sapeva restituirne l’essenza con poche frasi esattissime, come non avesse praticato altro nella vita che la critica letteraria. Verso le pagine di Carl Gustav Jung nutriva un sentimento di delicata amicizia, come si prova nei confronti di «un compagno più saggio che ti si mette accanto senza la pretesa di giudicarti». Di Kafka poteva ragionare senza stanchezza, con la naturale intimità di una parentela, come l’avesse conosciuto a pranzo e cena, come fosse stato un fratello. Del resto possedevano il medesimo sguardo. Per rendersene conto basta isolare gli occhi in una fotografia dell’uno o dell’altro: il taglio, la luce, l’identica cupa profondità dei maghi. Considerava Edgar Allan Poe il progenitore di tutta la letteratura moderna. Da un suo racconto, Non scommettere la testa con il diavolo, aveva tratto ispirazione per il film Toby Dammit, uno degli episodi di Tre passi nel delirio. Da Il crollo della casa degli Usher era partito per il progetto che stava componendo su Venezia. Ne era incantato. Poe gli piaceva anche nel sembiante, diceva che quando la mattina si guardava allo specchio, scontento del289 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la propria faccia carnosa, avrebbe voluto vedere piuttosto quella dello scrittore di Boston, pallida, smunta, segnata da un’aristocratica, lunare sofferenza. L’attrazione per il personaggio era tale che lo aveva persino inserito arbitrariamente in Il Casanova, in un incontro con l’avventuriero veneziano inventato di sana pianta in una taverna di Londra. Guardava a Joseph Conrad, e più tardi a Vladimir Nabokov, come autentici fenomeni che, esiliati dalla propria lingua, erano riusciti prodigiosamente a salvaguardare stile e profondità nell’idioma di adozione. Di Collodi possedeva più di un’edizione illustrata, compresa quella ottocentesca con le tavole del Chiostri. Nel film sulla figura dell’Attore – tra i primi progetti in procinto di essere realizzati – Paolo Villaggio avrebbe vestito i panni di Mangiafuoco e Roberto Benigni quelli di Pinocchio. Ma la Fata Turchina rimaneva ancora una fantasia incerta tra le forme doviziose di almeno due popolari soubrette. Non so se sono autorizzato a rivelarlo, forse le interessate non arrivano neppure a supporlo, eppure erano proprio loro: Francesca Dellera e Valeria Marini. Che genio! Amava Cervantes, e fra gli inglesi, incondizionatamente, Charles Dickens che gli appariva insuperabile, assai più grande di scrittori unanimamente più celebrati, i miti contemporanei, nei confronti dei quali interponeva una prudente, diffidente distanza. Di Joyce riconosceva l’importanza e una posizione di astratta paternità stilistica. Una volta che una sua assistente con aspirazioni letterarie aveva notato che nel loro incontro si sarebbe potuto figurare il binomio tra il grande dublinese e il suo segretario, scusate se poco, Samuel Beckett, Federico ridendo l’aveva riportata in un lampo con i piedi a terra: «Con la differenza che io sono Joyce e tu non sei Beckett». Robert Musil, Thomas Mann, mi sembra gli fossero svagatamente estranei. Di Pirandello detestava il pirandellismo, soprat290 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tutto nel compiacimento dei suoi emuli; insofferente da spettatore delle concettose messe in scena alle quali non riusciva a sottrarsi, e da cui evadeva regolarmente a metà tempo con improvvisi mal di denti. Marcel Proust pretendeva di non averlo letto, forse con una sottile polemica nei confronti di Luchino Visconti, il quale per i suoi film aveva necessità di appoggiarsi sempre a qualche monumento. «Non c’è più bisogno di leggerlo, ormai lo respiri con l’aria. Certi autori finisci con assimilarli ugualmente, fanno parte del paesaggio, dei muri, degli abiti, delle persone che incontri». Regredendo all’alba della letteratura citava Archiloco, i frammenti di poche parole che venivano recitati in punta di lingua, come leccornie, da forforosi professori in estasi: «Bevo appoggiato alla lunga lancia». Tracciava ipotesi esilaranti e caricaturali su quelle scarne affermazioni passate tuttavia di bocca in bocca nel corso di due millenni; completava a soggetto la storia del soldato poeta che il capriccio del tempo aveva ridotto a un solo emistichio. Ma la sua irriverenza rivelava un’intrattenibile curiosità e una malcelata empatia Verso Omero, invece, il padre di tutti i narratori, si esaltava in una gratitudine inarginabile. Il progetto di un film sui miti greci che riemergeva periodicamente nei periodi di interregno tra un’opera e l’altra, traeva nutrimento da quel poema immortale, nel senso concreto della parola: finché fosse esistito un uomo sulla terra, quello sarebbe stato il libro degli archetipi, ripercorso all’infinito da ogni vero scrittore. Era riconoscente all’artista capace di intrattenere, umile nel perseguire questa forma di rispetto sacro, imprescindibile, nei confronti di coloro che si rivolgono fiduciosi al suo talento, alla sua abilità di cantore, di aedo, di favoleggiatore. Non a caso considerava il clown del circo l’angelo della sua vocazione, il genio tutelare per eccellenza. Si annoiava infastidito con tutti gli altri, quelli che fornivano 291 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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troppe spiegazioni prima di distillare la loro presunta maestria. Per questo aveva tagliato corto nell’eterna polemica sull’autore in cui ogni tanto veniva coinvolto da amici giornalisti: «Non ci sono film d’autore o non d’autore. Ci sono film belli e film brutti: i primi appartengono a un autore, i secondi a qualcuno che autore non è». John Ford era per lui l’autore più completo: «Nei suoi film – diceva – arrivi a sentire nelle narici il sudore dei cavalli». Mi chiese a quale regista avrei voluto assomigliare. «A Francis Ford Coppola del Padrino» esitai, timoroso di deluderlo. «Hai ragione, è un narratore robusto, muscoloso». Condivideva il mio desiderio di sentimento epico, il vagheggiamento di un cinema dal respiro arioso, sentimentale, alla David Lean. Anche il suo cinema era epico, benché soggettivo. Anzi questo miracoloso equilibrio costituiva il segreto del suo stile inimitabile, La dolce vita, Satyricon, Il Casanova. Ripeteva sempre che avrebbe voluto incontrare un produttore che gli proponesse L’ isola del tesoro, Ventimila leghe sotto i mari, Il conte di Montecristo, insomma film non intellettuali, innocentemente visionari. Ma quando Dino De Laurentiis gli telefonò dall’America alle tre di notte, incurante del fuso orario, per offrirgli seriamente la regia di “Il figlio di King Kong”, si attardava a riferire frase per frase la loro conversazione antelucana, divertito fino alle lacrime: “Fefé, sono stato ispirato! Tu non hai voluto girare King Kong, e adesso facciamo insieme il figlio dello scimmione! Pensa che trovata mondiale!” Né prese in considerazione, successivamente, l’invito dell’amico napoletano a occuparsi di Flash Gordon, progetto al quale aderì invece entusiasticamente il suo art director Danilo Donati. Chissà cosa sarebbe stato capace di tirar fuori il suo sguardo prodigioso di bambino nascosto dietro il cervello di un genio. Me lo sono domandato ripetutamente vedendo Peter Pan di Spielberg: dovizioso ma privo di incanto. Spielberg sa raccogliere 292 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ogni segnale dall’ambiente che ha intorno, è un’antenna parabolica sensibilissima, ma tecnologica. Fellini è un rabdomante, un medium, affonda nei misteri del sottosuolo, nelle vibrazioni telluriche, attinge fra i tesori di Plutone, nello scrigno sepolto sotto il mare; e le immagini che ne trae si sprigionano dai sali allucinatori disciolti nel liquido universale. Qualcuno saprebbe dire da dove affiorano i serbi in guerra, con quindici anni di anticipo sul conflitto balcanico, issati a bordo della “Gloria N.”? E quel risibile maschio conquistatore che ne Il Casanova stringe al petto una bambola meccanica, potrebbe mai essere riducibile a un personaggio da videogame? Isaac Asimov, e ancor più Ray Bradbury (Cronache Marziane) erano tra i suoi autori preferiti di fantascienza, ma di certo non li avrebbe scambiati con Little Nemo di Winsor McKay e neppure con Moebius, di cui teneva appesa alla parete dello studio una tavola autografa. Vi era rappresentato il cavaliere incappucciato che sorvola una landa rossa e desolata in sella all’uccello preistorico. Un regalo completo di dedica dello stesso Jean Giraud, suo fervente ammiratore. Di George Orwell amava assai più La Fattoria degli Animali di 1984, come ebbe anche occasione di scrivere sul “Corriere della Sera”. Gli sembrava che Alexandre Dumas riassumesse tutte le qualità del narratore più autentico. E tra i poeti riscopriva emozionato, in un approccio meno scolastico, il Leopardi delle Operette Morali, delle riflessioni abbaglianti come bengala che squarciano il buio. Una l’aveva trasfusa nella Voce della Luna: “Nulla si sa, tutto si immagina.” Con Sandro Penna che gli abitava di fronte, in via Margutta, intratteneva dialoghi da finestra a finestra, e nell’aria della strada stretta aleggiava al mattino qualche verso. Riccardo Bacchelli e Aldo Palazzeschi, con cui ricordava di 293 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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avere avuto scambi di lavoro in gioventù, appartenevano saldamente al suo bagaglio personale. Come del resto anche tutti gli umoristi della sua epoca, a iniziare dall’insuperabile Achille Campanile. Però non teneva la testa forzatamente girata all’indietro, fu lui a farmi scoprire la purulenta, demoniaca raccolta degli Under 25 curata da Vittorio Tondelli, uno scenario post moderno capace di repellere e di sconvolgere. Ma anche mi introdusse ai versi oracolari di Silvia Bre, e alla narrazione per rapidi squarci di Marco Lodoli, che riteneva adatta alla trasposizione cinematografica tanto da indurre Dino De Laurentiis ad assicurarsi i diritti di un paio di suoi romanzi. Aveva adottato Susanna Tamaro, promuovendola con tenacia presso ogni editore di sua conoscenza dopo averne letto i primi racconti nella raccolta intitolata Per voce sola; e similmente aveva agito con Marta Morazzoni, con Paola Capriolo, con Ermanno Cavazzoni al cui “Poema dei Lunatici” aveva persino finito per attingere nel suo ultimo film, La Voce della Luna. Era stato amico deferente di Dino Buzzati, intimo di Mario Tobino, estimatore fraterno di Mario Soldati; curiosava nelle prose amare e taglienti di Guido Ceronetti, nei malumori sanniti ricamati al merletto da Giorgio Manganelli. Si frequentava con Luca Canali, estensore dei dialoghi latini di Satyricon, con Tonino Guerra, Carlo Della Corte, Toni Cibotto. Con Alberto Moravia, più anziano di lui di tredici anni, intelligente e coltissimo, oltre che scrittore consacrato dell’intellighenzia letteraria di tutti i decenni successivi al dopoguerra, intratteneva un rapporto rispettoso quanto scanzonato. Gli riconosceva uno sguardo originale, da entomologo, attraverso il quale descriveva il comportamento umano; l’asciutta oggettività con cui riferiva vizi, debolezze, processi mentali, con un resoconto partecipe ma allo stesso tempo distaccato, da laboratorio, da referto. Una sorta di indagine scientifica che lo scrittore romano – sottolineava Federico – aveva sviluppato nell’incessante frequentazione con 294 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le opere di Fëdor Dostoevskij, e le sue discese negli oscuri abissi del cuore. Gli piaceva l’inflessibile professionalità con cui si dedicava alla stesura dei libri, la disciplina che applicava a se stesso durante la composizione dei romanzi, quel ferreo orario di lavoro quotidiano dalle otto di mattina alle dodici e trenta, con una cadenza da operaio, da impiegato delle lettere, da artigiano che rifinisce il suo pezzo alla mola eseguendo un compito ineludibile, senza stanchezza e senza noia, nella salutare ripetitività della bottega. Gli sembrava un solido esempio per tanti sedicenti scrittori che attendevano l’ispirazione nella stravaganza, nell’arroganza e nell’inerzia. Poiché Moravia mostrava per i suoi film una sincera ammirazione, analizzandoli con affilata e partecipe capacità diagnostica, Federico gli era grato e nel tempo il rapporto fra i due s’era spontaneamente sistemato in una allegra intesa da vecchi liceali. Anche perché dietro l’aspetto ruvido, brusco e a tratti impaziente, il romanziere nascondeva un’indole giocosa, monellesca. Si chiamavano al telefono anche per il semplice piacere di un saluto e qualche volta quando comparivano sulla scena giovani ammaliatrici particolarmente agguerrite, giocavano volentieri di sponda, facendosi da spalla l’un l’altro, come gli dei maggiori dell’Olimpo pagano, assai poco virtuosi dietro l’apparente austerità e inclini a una superiore impertinenza da eterni adolescenti. Quando nel 1974 uscì per Einaudi La Storia di Elsa Morante, Fellini nonostante le considerevoli dimensioni divorò il volume in poche notti e subito me lo passò con l’ordine tassativo di leggerlo fino all’ultima riga. Compito che eseguii, ma senza riuscire a condividere il suo irrefrenabile entusiasmo. Alle mie obiezioni non voleva dare peso, sosteneva che ero ancora troppo giovane e che ne avrei apprezzato l’importanza e la grandezza più in là nella vita. Della Morante esaltava la generosità fluviale della scrittura, la spinta torrentizia a monte del talento, nella quale rinveni295 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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va l’autentica vocazione del narratore di sangue, una resa inerme a un demone incontrastabile. Gli piaceva la Roma del periodo bellico da lei descritta, i quartieri popolari, gli argini del Tevere, la molteplicità dei dettagli che riconducevano alle proprie esperienze, e quel finto neorealismo di una creatrice portentosamente visionaria. Mi sembrava invece di non avere resistenze da opporre, di trovarmi più aderente al suo gusto, nei confronti di Natalia Ginzburg verso la quale Federico alimentava una sollecitudine quasi fraterna. Ne esaltava lo stile essenziale, terso, privo di ornamenti, dove ogni parola possedeva quella sola e unica necessità, scolpita nella frase. Considerava la sua qualità di scrittura una vera scuola di espressione che dalla pagina si propagava a una rigorosa concezione di vita. Chiamava spesso Natalia al telefono, si confrontava con lei, si recava a farle visita nella sua casa accanto a via dei Coronari. E alcune volte, di rado, la scrittrice era apparsa sul set, accolta con affetto e deferenza, come un’emanazione propizia, da assistenti e collaboratori che ne onoravano la statura artistica e morale e ne subivano, al pari di Fellini, il fascino scontroso da divinità ctonia. Con Andrea Zanzotto, dopo la collaborazione a Il Casanova s’era stabilita una complice intesa, un insaziabile desiderio di incontri. E un sentimento altrettanto forte era cresciuto con Pietro Citati, per una forma di innocente deferenza verso il sacerdote delle lettere che usava una lingua morbida, una scrittura “vergata da una mano senza nervi”. A Geno Pampaloni, che gli aveva inviato un biglietto d’amicizia quando era ricoverato a Ferrara, sebbene semiparalizzato aveva voluto telefonare dal letto dell’ospedale San Giorgio. Non s’era dato pace finché non era riuscito a raggiungerlo, a parlargli di persona. Nell’attesa della comunicazione mi chiedeva di ripetergli l’esatto contenuto del messaggio, per memorizzarne indelebilmente le parole. E io glielo rileggevo, ogni volta ammirandone 296 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a mia volta la sintesi perfetta, una delle più felici riferite alla sua arte. Recitava così: «Lei possiede insieme il sentimento delle radici, del dolore e dell’allegria.» Un ultimo retaggio misterioso quanto prezioso. Dell’ammirazione e dell’amicizia fraterna con Georges Simenon si sa ormai tutto. È persino uscito da Adelphi uno scambio epistolare tenero e profondo tra i due geni del Novecento che si erano ritrovati per elezione: “Carissimo Simenon - Mon cher Fellini”. Ma resta da aggiungere un dettaglio. Poco prima di spegnersi Federico mi raccomandò di cercare e di leggere tre libri dell’autore belga, che aveva divorato in francese e non erano ancora stati tradotti in Italia: L’ottavo giorno, Victorine et Antoinette, Ci sono ancora dei germogli. La consegna di un arcano.

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Federico Fellini nota biografica

FEDERICO FELLINI NOTA BIOGRAFICA (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993)

Nascita e formazione Capricorno cuspide Acquario (con un interessante Marte in Bilancia) Fellini nacque a Rimini da Urbano, rappresentante di liquori, dolciumi e generi alimentari e da Ida Barbiani casalinga, romana; ma Gambettola, paese d’origine del padre, ne rivendica se non i natali quantomeno il concepimento, che sembra avvenne, in treno, durante la fuga d’amore dei genitori. In ogni caso sangue misto, metà romagnolo e metà romano, quasi a onorare il nome stesso della regione di origine. Due anime che non vennero mai in contrasto, e anzi si integrarono nella natura e nell’arte del futuro regista con stupefacente armonia. Ebbe due fratelli, Riccardo anch’egli vocato alla vita artistica e Maddalena, la minore, che per quanto talentuosa nel recitare antepose all’avventura della scena un’esistenza tranquilla nella propria città; sposando il pediatra Giorgio Fabbri da cui ebbe la figlia Francesca. Federico seguì studi regolari, frequentò il Liceo Classico Gambalunga senza sgobbare ma con buon rendimento soprattutto nelle materie letterarie, e rivelò fin dall’adolescenza una naturale inclinazione per il disegno, che esercitava sotto forma di vignette o di divertenti caricature di compagni e professori. Ritraeva anche i divi del cinema, a carboncino e gesso colorato, che venivano esposti nelle bacheche del cinema Fulgor in cambio dell’entrata gratuita agli spettacoli. Il mondo della fantasia era la dimensione 299 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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alla quale il futuro regista si abbandonava più volentieri, giocando fin dall’infanzia con il teatrino dei burattini e inscenando storie inventate. Prima di addormentarsi immaginava anche che i quattro montanti del suo letto corrispondessero ai quattro cinema di Rimini, e creava mentalmente le trame a cui preferiva ‘assistere’. Un universo parallelo in cui si perdeva con gioia, simile a Little Nemo del celebre disegnatore Winsor McCay che non smise mai di ammirare. Amava tutti i personaggi di cui leggeva voracemente le avventure sul “Corriere dei Piccoli”; e nella ‘mitobiografia’ che l’artista ha ordito su se stesso disseminando tasselli nelle interviste o nei molteplici episodi dei suoi film, anche l’ambiente del circo è saldamente legato alla sua ispirazione; il clown è il magico traghettatore verso il mondo dello spettacolo. Fu anche impressionato dalla recita teatrale, scoperta ancora bambino ascoltando due attori che ripassavano la parte; il retropalco dell’edificio che ospitava le compagnie si affacciava infatti sul cortile di casa. E perfino l’opera lirica ebbe la sua influenza; assistendo a I Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, seduto sulle ginocchia del padre in un palco di proscenio, l’eccessivo fragore della musica gli provocò una lesione del timpano, che prese a sanguinare. Una volta cresciuto e terminato il liceo, Fellini non proseguirà gli studi universitari (solo l’iscrizione a giurisprudenza e nessun esame) secondo il desiderio di sua madre e sull’esempio dell’amico Titta Benzi; ma come è raccontato metaforicamente ne I vitelloni un giorno prese un treno per lasciare Rimini incontro al suo destino. È noto che sulla strada di Roma, Fellini diciottenne fece tappa a Firenze dall’Editore Nerbini e rimase qualche tempo a collaborare con il disegnatore Giove Toppi (L’Uomo mascherato). A Roma invece coronò il suo sogno di entrare a far parte della redazione del “Marc’Aurelio”, il quindicinale umoristico diretto da Vito De Bellis, di cui divenne ben presto una firma di punta pubblicando centinaia di raccontini e vignette nel suo stile più 300 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Federico Fellini nota biografica

sognante e surreale. Fantasie venate di romanticismo e di sottile malinconia, forse a causa di una piccola ferita amorosa subita da Bianchina, il primo amore da adolescente; la quale trasferitasi con la famiglia a Milano ben presto gli aveva preferito un partito più concreto (benché rivelatosi sfortunato). Ed era entrata così a far parte con tanti nomignoli diversi (fidanzatina rotonda, Pallina) della prima produzione letteraria del giovane scrittore. Fu quella del “Marc’Aurelio” un’autentica palestra professionale, a contatto con i migliori disegnatori dell’epoca (iniziale referente era stato Enrico De Seta, a cui non perdonò mai di trattenergli una percentuale sui compensi) e soprattutto con quella schiera di umoristi che avrebbero nutrito il cinema italiano nel passaggio dal fascismo al periodo postbellico: Marcello Marchesi, Cesare Zavattini, Mino Maccari, Vittorio Metz, Steno (Stefano Vanzina) e molti altri. Nel domicilio romano lo avevano seguito la madre Ida (che nella città aveva i suoi parenti) con Riccardo e Maddalena piccolissima, alloggiando in quell’appartamento di via Albalonga, a San Giovanni, che il regista descrive nel film Roma, e dove in seguito rimase da solo come pensionante. Fu un breve periodo di boheme che Fellini condivise con Rinaldo Geleng, di cui restò fraterno amico fino alla morte. Insieme racimolavano soldi offrendo ritratti e caricature nei ristoranti, oppure dipingendo le vetrine dei negozi di via Veneto, ma spesso soffrendo la fame e qualche volta dormendo all’addiaccio sulle panchine del Pincio. Un’esperienza passeggera. Il successo al “Marc’Aurelio” si tradusse presto in ottimi guadagni ed inaspettate offerte di lavoro. Fellini fu chiamato a scrivere testi per la radio (la EIAR) dove conobbe Giulietta Masina, un’attrice che sembrava incarnare misteriosamente le creature femminili dei suoi sketch. Si sposarono nel ’43, entrambi giovanissimi, e Alberto Sordi annunciò le loro nozze dal palcoscenico del Teatro Sistina, presenti i neosposi, scatenando nel pubblico un applauso fragoroso. La coppia andò ad abitare a via Lutezia nell’appartamento della zia Giulia, benestante (la sua 301 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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famiglia possedeva a Milano il calzaturificio di Varese) e vedova dello zio Eugenio Pasqualin, preside del Liceo Tasso di Roma. Da loro Giulietta era stata praticamente adottata già in tenera età, lasciando la famiglia originaria di San Giorgio di Piano (Bologna) per trasferirsi nella Capitale. Aveva studiato al collegio delle Orsoline, e poi all’università dove, praticando il teatro universitario, conobbe anche Marcello Mastroianni che in seguito fu lei stessa a segnalare al marito come possibile interprete de La dolce vita. Gli Inizi (Luci del varietà, Lo sceicco bianco, I vitelloni, L’amore in città) Come giovane e brillante giornalista del “Marc’Aurelio” Federico veniva chiamato a partecipare in funzione di ‘battutista’ a qualche copione di film comico (specialmente di Macario), stabilendo però una particolare simpatia e poi una vera amicizia con Aldo Fabrizi, affermatissimo attore di varietà a cui forniva gag per i suoi spettacoli. A iniziare già dal 1943 firmarono insieme divertenti commedie cinematografiche, Campo de’ fiori, Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella, grandi successi popolari che introdussero Fellini a pieno titolo nel mondo del cinema. Ma la svolta avvenne quando nel dopoguerra Roberto Rossellini si rivolse a lui per convincere Fabrizi ad accettare il ruolo drammatico di Don Morosini, martire dell’occupazione tedesca, in Roma città aperta. Fellini partecipò alla sceneggiatura insieme a Sergio Amidei e il film riscosse un tale consenso da diventare il manifesto stesso del movimento neorealista. Nel successivo film di Rossellini, Paisà (1946), Fellini partecipò di nuovo alla stesura del copione e svolse anche compiti da assistente sul set; anzi sembra ormai provato che in assenza del regista si trovò nella necessità di sostituirlo estemporaneamente in alcune scene di raccordo (di certo per una lunga inquadratura della sequenza ambientata sul Po). Fu il suo 302 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Federico Fellini nota biografica

battesimo dietro la macchina da presa e anche l’ingresso in un mestiere che gli si rivelava particolarmente congeniale. Nel 1947, a quattro mani con Alberto Lattuada (insieme al quale e alle reciproche mogli, Giulietta Masina e Carla Del Poggio era stata fondata un’apposita società di produzione), firmò Luci del varietà, quella ‘mezza regia’ che accompagnerà bizzarramente in futuro il conto numerico dei suoi film. Ma il vero passaggio alla regia avvenne per merito del produttore Luigi Rovere, che gli propose di dirigere un soggetto di Michelangelo Antonioni ambientato nel mondo dei fumetti, e da lui sceneggiato con vena grottesca: Lo sceicco bianco. Con quell’esordio Fellini inaugura uno stile nuovo, estroso, umoristico, una sorta di realismo magico, onirico, che non venne subito apprezzato. Il film non ottenne buone accoglienze alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia; Alberto Sordi risultò antipatico, si mormorava addirittura che portasse ‘jella’. Al punto che quando Fellini, non riuscendo a convincere i produttori a realizzare La strada, decise di raccontare la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini (I vitelloni), Alberto Sordi venne accettato fra gli interpreti solo a patto che il suo nome non figurasse sui manifesti. Questa volta, contrariamente alle attese, il film ebbe un’accoglienza entusiastica, sia nell’anteprima a Mestre che poi al Lido, dove conquistò il Leone d’argento. Nel film il giovane Moraldo lascia la sua piccola città di provincia per prendere un treno all’alba incontro alla propria avventura. Federico può ora dire di avercela fatta.

Lo spiritualismo fiabesco (La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria) Insieme a una accresciuta sicurezza nei propri mezzi espressivi prende forza la poetica più intima e personale dell’artista, che trova compimento nel capolavoro La strada (1954) opera chiave nella carriera felliniana. La storia dell’innocente Gelsomina 303 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

venduta dalla madre al rude saltimbanco Zampanò per farne una girovaga, sembra scaturire da profondità oscure dell’autore che ne esplora le pieghe segrete con crescente sofferenza. Sarà anche l’origine del primo (deludente) accostamento di Fellini alla psicanalisi e al contempo l’inizio di un processo liberatorio di energie creative che per un buon decennio non conosceranno più impedimenti al proprio libero fluire. Nato e cresciuto fra contrasti di ogni tipo (il produttore Dino De Laurentiis avrebbe preferito come protagonista sua moglie Silvana Mangano; Giulietta non simpatizzò sul set con Anthony Quinn, al contrario di ciò che avvenne – con corredo di maliziose illazioni – nei confronti di Richard Basehart, interprete del Matto) il film incantò le folle internazionali guadagnando al regista il suo primo premio Oscar e donando alla coppia notorietà planetaria. Successo ribadito due anni dopo con un nuovo Oscar assegnato a Le notti di Cabiria, che conclude insieme a Il bidone il trittico ambientato nel mondo degli umili e degli emarginati, nella vena più spirituale e favolistica di Fellini.

La rivoluzione del ’60 e l’invenzione del cinema d’autore (La dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio, 8 ½, Giulietta degli spiriti) All’affacciarsi degli Anni Sessanta Fellini è pronto per introdurre nel cinema la sua rivoluzione. L’intesa col magnate milanese Angelo Rizzoli (subentrato nella produzione a Dino De Laurentiis) darà vita in quel lustro ai film più sconvolgenti dell’epoca. La dolce vita definita da Federico stesso un film ‘picassiano’ (“comporre una statua per romperla a martellate”, aveva dichiarato) spinge all’estremo limite la rinuncia a ogni trama, sostituita da un procedere frammentario e apparentemente svagato. Scandaloso nel linguaggio come nel contenuto – dal bagno 304 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Federico Fellini nota biografica

di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi, alle danze erotiche dei locali notturni, ai riti mondani di una Roma pagana e gaudente, turgida di sensualità al pari delle cupole delle sue basiliche – il film apparve orgiastico, panico, violento. Lo striptease finale e l’alba sciagurata sulla spiaggia di Fregene approdo di un mostro marino in decomposizione, provocarono l’anatema della curia; furiose interpellanze parlamentari spaccarono il paese in due, tra progressisti e reazionari. Fellini fu avvolto da vapori sulfurei. Con Le tentazioni del dottor Antonio, rispose irridendo a tutti gli ipocriti che lo accusavano di immoralità. E con 8 ½ sbalordì il mondo mettendo in scena sogni e fantasie di “un artista senza ispirazione”. Con Giulietta degli spiriti domò i demoni di un immaginario traboccante, adottando per la prima volta il colore in funzione espressionistica.

Nella città di Dite (Mastorna, Toby Dammit, Satyricon) Ma quando a metà degli Anni Sessanta pensò di violare le porte di Averno, Fellini si ammalò. Il Viaggio di G. Mastorna, opera mai realizzata, lo condusse a un passo dalla morte. E fu simile per lui al perdersi di Dante nella selva oscura. La discesa agli inferi di colui che mas torna, cioè mai ritorna, (come ipotizzò il poeta Andrea Zanzotto) non prese forma. E Fellini, quarantacinquenne, pagò lo scotto, anche in termini di pesanti penali pecuniarie. Però quello sguardo sia pure furtivo nell’aldilà gli accese la curiosità verso dimensioni diverse. Tornato sul set, dopo aver completamente rinnovato la squadra tecnica e artistica intorno a sé, diresse un episodio di Tre passi nel delirio in cui, ispirandosi a una novella di E.A. Poe, il protagonista scommette – e perde – la testa con il diavolo. Il suo cognome Toby Dammit suona come una imprecazione: damn it! A seguito di quel tentativo di incursione nel mondo delle ombre, 305 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

provvidenzialmente interdetto, Fellini viaggiò indietro nei secoli sfidando la storia fin dentro la “sconosciutezza” dell’età di Nerone e di Petronio Arbitro. Nel Satyricon la frammentarietà già propria del romanzo latino, si fa reperto, affresco pompeiano, e i caratteri sfumano in ritratti scontornati, la lingua si disarticola, incomprensibile, e l’immagine schiuma in una visionarietà convulsa. Giuseppe Rotunno, Danilo Donati, Piero Tosi, i nuovi collaboratori della sua lanterna magica, impastano le luci di Hieronymus Bosch con quelle di William Blake, le iconografie arcaiche con i languori di Alma Tadema, in un amalgama ipnotico e febbricitante. Un trip da allucinogeni che troverà estatica accoglienza nell’America già hippy e californiana e in un’Europa attonita per la rivolta studentesca. Satyricon è La dolce vita della Roma del I secolo dopo Cristo rispecchiata nella fine dell’illusione. La memoria (I clowns, Roma, Amarcord) Tornato a riveder le stelle, Fellini riemerge portando con sé, per il decennio successivo, la dimensione della memoria come sogno. Il ritmo resta ternario, e nei Settanta arrivano I clowns, Roma, Amarcord, in cui l’autore cerca le sorgenti della propria poetica esplorando le tre città dell’anima: il Circo, la Capitale e Rimini. A ritroso verso il crogiuolo del proprio vissuto, compone una dichiarazione d’amore per la terra che l’ha nutrito, raccontando assieme al passaggio delle stagioni lo spirito stesso del borgo e di ogni provincia del mondo. Lo stile è raffinatissimo, tra Breughel e “il Corriere dei Piccoli”, tra la favola e il sogno, tra il Grand Hotel e il Rex. Un affresco impareggiabile dell’Italia fascista, sonnolenta, dolce e minacciosa, spiata come la condizione fisiologica di un intero popolo, una sorta di carattere genetico, di eredità nazionale. Il film riceve un’accoglienza planetaria e ancora un premio Oscar. 306 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Federico Fellini nota biografica

La percezione inquieta della morte (Il Casanova, Prova d’orchestra, La città delle donne, E la nave va) Una serie di congiunture produttive inducono il regista a interessarsi della vita di Giacomo Casanova, veneziano. Ma ciò che sulla carta doveva rappresentare per i committenti un’esplosione di vitalità e di eros latino, si trasforma in mano all’artista nella più cupa e dolente riflessione su un uomo mai nato, affaticato e travolto da una sessualità compulsiva rivestita di vuoto ed esteriore lirismo. Fellini è chiamato a fare i conti con una stagione, personale e collettiva, che si sta svuotando di energia. E nella città lagunare del disfacimento e dell’agonia – meticolosamente ricostruita in studio – compone il più ardito disegno pittorico della sua carriera: “un unico quadro fisso e perennemente in movimento”. Ancora un viaggio, non dentro la morte ma verso l’appuntamento con la morte, evocata nello scintillio di una messa in scena funebre e preziosa, e nella danza amorosa con la bambola meccanica sulla laguna ghiacciata di Venezia. Fellini si avvicina ai sessant’anni e l’Italia sta cambiando tetramente intorno a lui: si annuncia la stagione cupa degli ‘anni di piombo’, dei sequestri, degli omicidi e degli attentati. Nel 1979 il regista scrive da solo e dirige in appena tre settimane e quattro giorni Prova d’orchestra sulla tragica egemonia del disordine e la fine dell’armonia. Subito dopo, nel 1980, vara con la Gaumont Italia di Renzino Rossellini La città delle donne. In cui l’alter ego Marcello Mastroianni, travolto dal conflitto sessuale (il femminismo) e generazionale (la subcultura punk) degli anni Ottanta, ricompone il proprio inesausto rapporto con le donne in una fantasmagorica nostalgia del passato. Il nuovo trittico si chiude con la crociera sontuosa della motonave Gloria N. (E la nave va) durante la quale vengono disperse in mare le ceneri della più grande soprano di tutti i tempi; una raffinata epopea del melodramma inscenata come il canto del ci307 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

gno di un’epoca destinata a scomparire di fronte ai venti di guerra che si annunciano. Anche qui oceani di plastica e fondali dipinti, per celebrare la superiorità della finzione su ogni pretesa realtà, con la rivelazione in sottofinale che la nave stessa è puro frutto di scenografia, allestita su un bilico meccanico in teatro di posa.

Il testamento del clown (Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna) Fellini sta riflettendo sull’arte cinematografica minacciata dai nuovi media in arrivo. L’apparecchio televisivo che fibrilla nell’angolo di ogni casa gli appare la gola ingorda di un mostro pronto a inghiottire e distruggere ogni altra forma di spettacolo. Il decennio del 1980, iniziato con E la nave va, ha in serbo ancora tre film, i conclusivi della carriera del regista. Essi costituiranno ‘il testamento del clown’: Ginger e Fred, Intervista, La Voce della Luna. Nel primo il nuovo mezzo di comunicazione di massa, la televisione, in alleanza con la pubblicità, stritola nel suo abbraccio mortale una società ipnotizzata e incapace di reagire. Fellini patisce la “stagione di barbarie” in cui i suoi film vengono “fatti a pezzi” e trasmessi con continue interruzioni dalle emittenti private. Conia persino lo slogan: “Non si interrompe un’emozione”, e intenta causa, perdendola, a Silvio Berlusconi che considera l’incarnazione del nuovo totalitarismo mediatico. Nell’opera che segue (Intervista) ritorna alla sua Cinecittà, l’unico autentico grembo di creatività, teatro e fabbrica dei burattini, dove la fantasia armata di forbici e colla è capace di materializzare qualsiasi sogno d’artista. Nel terzo e ultimo film (La voce della luna) immagina l’atteso cataclisma: che la luna stessa venga espiantata da cielo, nell’indifferenza di una umanità assoggettata agli idoli di una vuota e volgare tecnologia. Soltanto i matti, e dunque i santi, sono ancora in grado di percepire il messaggio 308 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Federico Fellini nota biografica

bisbigliato che proviene dai pozzi, cioè dai miti, dalla poesia, e dalla bellezza femminile. Per tutti gli altri la voce si è spenta, confusa e dimenticata nella fragorosa invadenza dei media e della pubblicità. “Se tutti facessimo un po’ più di silenzio…” Fellini scompare tre anni dopo aver concluso la sua opera più estrema e radicale. Nel frattempo ne aveva progettate altre tre, ed era tornato sul set per mettere in scena i suoi sogni privati in alcuni spot pubblicitari commissionati da un prestigioso istituto di credito. Le storielle, interpretate da Paolo Villaggio, erano tratte dal ‘diario notturno’ in cui l’artista disegnava da decenni le sue scorribande nell’inconscio: il Libro dei Sogni, prezioso e imponente volume editato nell’estate del 2007, dopo quattordici anni dalla sua morte. In esso è possibile imbattersi in una compiuta visione del talento pittorico di cui era dotato il regista, il quale per tutta la vita non smise mai di disegnare, accompagnando con i suoi bozzetti colorati qualsiasi incontro personale, qualsiasi sviluppo di personaggi o situazioni da consegnare allo schermo. Ripercorrendo le più di trecento pagine di testi e disegni è anche possibile conoscere da vicino la statura di un artista che ha sempre donato agli altri le sue faticose conquiste di libertà; un uomo generosissimo nei rapporti privati, amorosi, familiari, con amici e collaboratori; ma altrettanto implacabile nella difesa del proprio mestiere e della propria arte. Illimitatamente curioso del prossimo, specialmente delle anime semplici, e grato alla vita per ogni sua manifestazione, Fellini era consapevole in ogni momento che il suo talento era un dono di Dio: “Sono stato soltanto più fortunato dei miei colleghi.” Alla sua morte centomila persone sono sfilate a Cinecittà, per rendere omaggio al suo genio nella camera ardente allestita nel Teatro 5. I funerali di Stato sono stati celebrati nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma, in Piazza della Repubblica; e l’estremo saluto ripetuto a Rimini, dove l’artista 309 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

riposa nel cimitero della città, accanto a Giulietta e al figlio Federichino deceduto a pochi giorni. Sulla tomba svetta un’alta stele in bronzo lucido, in forma di prua di nave, opera dello scultore Arnaldo Pomodoro.

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FILMOGRAFIA (regia e sceneggiatura)

Luci del varietà 1950 b/n 100 (min.) Lo sceicco bianco 1952 b/n 85 (min.) I vitelloni 1953 b/n 103 (min.) Agenzia matrimoniale (episodio di Un amore in città) 1953 b/n 16 (min.) La strada 1954 b/n 94 (min.) Il bidone 1955 b/n 104 (min.) Le notti di Cabiria 1957 b/n 110 (min.) La dolce vita 1960 b/n 178 (min.) Le tentazioni del dottor Antonio (episodio di Boccaccio ’70) 1962 colore 60 (min.) 8 ½ 1963 b/n 114 (min.) Giulietta degli spiriti 1965 colore 120 (min.) Toby Dammit (episodio di Tre passi nel delirio) 1968 colore 37 (min.) Block-notes di un regista - Fellini A Director’s Notebook 1969 colore 60 (min.) Fellini-Satyricon 1969 colore 138 (min.) I clowns 1970 colore 93 (min.) Roma 1972 colore 119 (min.) Amarcord 1973 colore 127 (min.) Il Casanova 1976 colore 170 (min.) Prova d’orchestra 1979 colore 70 (min.) La città delle donne 1980 colore 145 (min.) E la nave va 1983 colore 132 (min.) Ginger e Fred 1985 colore 125 (min.) 311 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Intervista 1987 colore 113 (min.) La voce della luna 1990 colore 118 (min.) Sceneggiature Chi l’ha visto? (1945) Roma città aperta (1946) Paisà (1946) Il passatore (1947) Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) Senza pietà (1948) Il mulino del Po (1948) L’amore (1948) Francesco giullare di Dio (1950) Il cammino della speranza (1950) La città si difende (1952) Cameriera bella presenza offresi... (1951) Fortunella (1958) Sweet Charity (1969) Interpretazioni L’amore (1948) Alex in Wonderland (1970) Roma (1972) C’eravamo tanto amati (1974) Il tassinaro (1983) Intervista (1987)

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INDICE DEI NOMI

Adam, Ken, 198 Aimée, Anouk, 114, 122, 123 Alberti, Guido, 162, 283 Alberti, Lucia, 156 Alcot, John, 199 Aldo Fabrizi, 18 Aldrich, Robert, 123 Allen, Woody, 235 Al Pacino, 197 Amato, Peppino, 114, 283 Amendola, Giovanni, 279 Amidei, Sergio, 19, 23, 267, 302 Anderson, Sherwood, 284 Andreotti, Giulio, 52, 97, 279 Angelucci, Alberto, 315 Angelucci, Giuliano, 315 Anselmi, Guido, 269 Antonelli, Liliana (Lilly), 42 Antonioni, Michelangelo, 66, 113, 172, 303 Arbitro, Petronio, 131, 160, 306 Archiloco, 291 Ariosto, 192, 287 Arpa, Angelo, 91-95 Arpesella, Pietro, 185, 186 Asimov, Isaac, 293 Astaire, Fred, 56 Attalo, 266

Bacchelli, Riccardo, 293 Bachman, Gideon, 164 Baldelli, Jole, 315 Balthus, de Rola Balthasar Klossowski, 246 Balzac de, Honoré, 210 Barbiani Fellini, Ida, 183, 299, 301 Barker, Lex, 110 Basehart, Richard, 55, 64, 77, 79, 304 Baudo, Pippo, 214 Bellonci, Maria, 283 Benetti, Adriana, 43 Benigni, Roberto, 155, 231, 278, 290 Bentivoglio, Giovanna, 315 Benzi, Luigi (Titta), 83, 179, 180, 183, 186, 213, 215, 265, 300 Bergman, Ingmar, 113 Bergman, Ingrid, 28, 209 Berlinguer, Enrico, 279 Berlin, Irving, 56 Berlusconi, Silvio, 227-229, 308 Bernhard, Dora, 155 Bernhard, Ernst, 85, 87, 144, 152, 155-158 Bernini, Gian Lorenzo 149 Bersani, Lello, 186 Berti, Marina, 45 Bertolucci, Attilio, 135, 190 313

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Besson, Pierre, 244 Betti, Liliana, 80 Billetdoux, François, 105 Bini, Alfredo, 116 Blake, William, 306 Bo, Carlo, 277 Bogart, Humphey, 209 Bolognini, Mauro, 140 Bond, James, 185 Bonetti, Amelia, 56 Bonicelli, Vittorio, 115 Bonini, Demos, 246 Bonnard, Mario, 19 Boratto, Caterina, 101, 270 Borges, Jorge Luis, 109 Bosch, Hieronymus, 306 Botticella, Pippo, 56 Bovo, Brunella, 47, 57 Bradbury, Ray, 293 Brancia, Armando, 178 Brando, Marlon, 190, 197 Brazzi, Rossano, 46 Bre, Silvia, 294 Britt, May, 123 Brook, Peter, 105 Burgess, Anthony, 198 Buzzati, Dino, 135, 294 Calasso, Roberto, 284 Caldarola, Vincenzo, 144 Caldwell, Erskine, 284 Callas, Maria, 115 Camus, Albert, 160 Canaletto, Giovanni Antonio Canal, 236 Canali, Luca, 158, 294 Canonero, Milena, 199 Capote, Truman, 284

Cappelli, Salvato, 74, 79-81 Caravaggio, Michelangelo Merisi, 149 Carpaccio, Vittore, 236 Castaneda, Carlos, 219, 248 Castello, Giulio Cesare, 115 Cavazzoni, Ermanno, 294 Cecchi Gori, Mario, 218 Cecchi Gori, Vittorio, 218 Celli, Giovanni, 315 Ceronetti, Guido, 294 Cerusico, Enzo, 110 Cervantes, Miguel de, 290 Cervi, Gino, 189 Cézanne, Paul 265 Chagall, Marc, 265 Chandler, Raymond, 284 Chaplin, Charlie, 59, 116, 169, 225 Chiari, Walter, 110 Chiusoli, Paolo, 62 Chodowiecki, Daniel, 199 Christie, Julie, 190 Ciangottini, Valeria, 114 Cibotto, Toni, 294 Cipriani, Arrigo, 235 Cipriani, Giuseppe, 235 Citati, Pietro, 296 Citti, Franco, 115 Clarabella, Flora, 122 Coarelli, Franco, 21, 25 Cobelli, Gianna, 246, 247 Codelli, Lorenzo, 315 Coletti, Duilio 268 Collodi, Carlo, 278, 290 Conrad, Joseph, 290 Coppola, Francis Ford, 269, 292 Cortese, Valentina, 64, 79 Cossiga, Francesco, 280

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Craxi, Bettino, 228, 281 Cretinetti, André Deed 132 Cristaldi, Franco, 186, 214, 216, 256 Crocetti, Dino, 123 Cuny, Alain, 188 Dalmonte, Checco, 40, 42 Damiani, Sabina, 127 Dammit, Toby, 305 Dante, Alighieri, 153, 287, 305 Dapporto, Carlo, 132 Davis, Sammy jr, 123 Davoli, Ninetto, 115 De Bellis, Vito, 300 De Carlo, Andrea, 219, 220, 286 De Castro, Enzo, 99, 249, 258 De Chirico, Giorgio, 53 De Filippo, Eduardo, 40, 269 De Filippo, Peppino, 37, 40, 41, 104, 196, 280 De Laurentiis, Dino, 66, 67, 113, 160, 197, 254, 256, 257, 294, 304 Del Buono, Oreste, 250 Della Corte, Carlo, 294 Dellera, Francesca, 290 Delli Colli, Tonino, 225, 226, 272, 273 Del Poggio, Carla, 37, 39, 42, 44, 303 De Lullo, Giorgio, 121 De Matteis, Maria, 128, 201 De Mita, Ciriaco, 280 De Niro, Robert, 190, 197 De Nobili, Lila, 201 De Rossi, Barbara, 42 De Rossi, Giannetto, 191 De Santis, Pasqualino, 139 De Seta, Enrico, 246, 301 De Sica, Vittorio, 43, 140

Diana d’Inghilterra, 109 Di Carlo, Toni, 89, 90 Dickens, Charles, 290 Di Lazzaro, Dalila, 42 Dilian, Irasema, 44 Di Venanzo, Gianni, 139, 272 Donati, Danilo, 128, 140, 154, 165, 194, 198-202, 256, 292, 306 Dorè, Gustave, 287 Dorella, Oriella, 59 Doria, Enzo, 110 Dostoevskij, Fëdor, 295 Dumas, Alexandre, 293 Dunaway, Faye, 210, 211 Einstein, Albert, 172 Ekberg, Anita, 103, 104, 106, 108, 110, 114, 115, 128, 196, 206, 224, 260, 281, 305 Erba, Carla, 128 Erba, Carlo, 128 Evtušenko, Evgenij, 126 Fabbri, Francesca, 299 Fabbri, Giorgio, 299 Fabi, Magda, 153, 156, 255 Fabrizi, Aldo, 17, 19, 23, 37, 38, 39, 66, 239, 282, 302 Falk, Rossella, 121, 122, 124 Fallaci, Oriana, 118, 120, 121 Fallani, Mario, 246 Farrow, Mia, 123 Fellini, Pier Federico (Federichino), 20, 310 Fellini, Maddalena, 11, 180, 299, 301 Fellini, Riccardo, 299, 301 Fellini, Urbano, 299 Ferretti, Dante, 225 315

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Ferruzzi, Serafino, 234 Fieschi, Cesare, 243 Flaiano, Ennio, 109, 130, 132, 139, 145, 174, 257, 283 Fleming, Ian, 284 Florence, Fiona, 177, 178 Ford Coppola, Francis, 46 Ford, John, 31, 292 Fortuny, Barbara, 146 Furneaux, Yvonne, 83, 114 Fracassi, Clemente, 116, 197, 255 Franciolini, Gianni, 268 Fregni, Franco, 315 Freud, Sigmund, 85 Frizzi, Fulvio, 227 Fuad d’Egitto, 20 Fürstenberg, Ira, 42 Gable, Clark, 59 Gainsborough, Thomas 199 Gallea, Arturo, 226, 272 Galli, Arnaldo, 195 Gardini, Eleonora, 235 Gardini, Raul, 234, 235 Gardner, Ava, 110 Garinei, Pietro 137 Gassman, Vittorio, 188, 193, 203, 256 Geiger, Rod, 23, 24 Geleng, Rinaldo, 9, 85, 170, 177, 235, 245, 246, 256, 264, 301 Gelsomina, 69, 77 Gemini, Marco, 151, 152 Geppetti, Marcello, 173 Gerasimov, Sergej, 125 Germi, Pietro, 268 Gherardi, Piero, 54, 114, 128, 139, 162 Giacchero, Norma, 162, 257

Ginzburg, Natalia, 296 Giobbe, Luigi, 21, 25 Giotto, 117 Giovannini, Anna, 98, 99, 100, 102, 137, 256, 258 Giraud, Jean, 293 Gissing, George Robert, 109 Giulia, Sardi, 73, 74, 76 Goldsmith, Clio, 42 Gora, Claudio, 44 Gorbaciov, Michail, 282 Gray, Dorian, 58, 88, 114 Gray, Nadia, 114 Gregoretti, Ugo, 129 Grimaldi, Alberto, 138, 160, 198, 219, 257 Grosz, George, 263 Gualino, Riccardo, 39, 268 Guarini, Alfredo, 266 Guarnieri, Ennio, 225 Guerra, Tonino, 182, 294 Guido, Francesco (Gibba), 21, 22, 24 Hammett, Dashiell, 232, 284 Hawks, Howard, 232 Hemingway, Ernest, 13, 284 Highsmith, Patricia, 285 Hogarth, William, 199 Houston, John, 41 Ingrao, Pietro, 216 Interlenghi, Franco, 195 Janigro, Giuseppe, 178 Joyce, James, 290 Jung, Carl Gustav, 143, 155, 156, 289 Kafka, Franz, 223, 289

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Indice dei nomi

Keaton, Buster, 29 Keel, Daniel, 262, 285 Keish, Nanà, 114 Kezich, Tullio, 63, 64 Kinski, Nastassja, 42, 221 Kokoschka, Oscar, 263 Kubrick, Stanley, 116, 197-200 Kurosawa, Akira, 116, 197 La Malfa, Giorgio, 280 Landolfi, Tommaso, 287 Lang, Jack, 228 Lattuada, Alberto, 37, 39, 42, 268, 303 Lazzari, Alberto, 88 Lea, (Giacomini), 82-84, 86, 87 Lean, David, 116, 292 Lebeau, Madeleine, 269 Leibl, Marianna, 156 Leopardi, Giacomo, 155, 232, 278, 293 Lionello, Alberto, 132 Lionello, Oreste, 143 Lodoli, Marco, 294 Lollobrigida, Gina, 39 Lombardo, Goffredo, 90, 216 London, Jack, 284 Loren, Sofia, 114 Losey, Joseph, 124, 150 Loy, Nanni, 97 Luciana, 145 Lyndon, Barry, 197 Macario, Erminio, 17, 66, 132 Maccari, Mino, 301 Machiavelli, Niccolò, 42 Mafai, Mario, 265 Maggio, Pupella, 178

Magi, Max, 101 Magnani, Anna (Nannarella), 23, 27, 28, 34, 35, 37 Magnani, Marina, 35 Majakovskij, Vladimir 124 Malagò, Vincenzo, 83 Manara, Milo, 153, 220 Manca, Enrico, 228 Manganelli, Giorgio, 294 Mangano, Silvana, 67, 114, 304 Mann, Thomas, 290 Manson, Charles, 164 Manzini, Raimondo, 281 Manzotti, Achille, 217 Mao, Tse Dong, 282 Marchesi, Marcello, 301 Marinangeli, Luciana, 156 Marini, Valeria, 261, 290 Mariona, 174 Marotta, Giuseppe, 115 Marquez, Gabriel Garcia, 31 Martelli, Otello, 226, 272 Martin, Dean, 123 Marx, Carlo, 231 Mascagni, Pietro, 63 Masina, Eugenia, 61, 71 Masina, Gaetano, 61, 63, 71, 100 Masina, Giulietta, 14, 17- 20, 37, 39, 42, 46, 55, 57-66, 68-80, 82, 8587, 100-102, 115, 140, 153, 174, 185, 210, 214, 225, 238, 240, 241, 249, 252, 256-259, 268, 269, 283, 301-304, 310 Masina, Mario, 61, 71 Masina, Mariolina, 61, 71 Mastorna, Giuseppe, 135 Mastroianni, Marcello, 56, 66, 83, 92, 103-106, 108, 110, 114, 122, 123, 317

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137, 148, 162, 166, 167, 174, 188, 194, 209, 210, 212, 224, 249, 274, 302, 307 Matisse, Henri, 265 Mattoli, Mario, 19 Maugras, René, 242, 244 Mazzini, Renzo, 74 Mazzuolo, Antonio, 280 McKay, Winsor, 293, 300 Mele, Mario, 72 Mercier, Michèle, 45 Metella, Cecilia, 158 Metz, Vittorio, 301 Michi, Maria, 23 Millozza, Gino, 215, 224 Milo, Sandra, 122, 205, 255 Minervino, Mauro, 109, 315 Miniucchi, Alberico, 315 Miranda, Isa, 266 Moguy, Katia, 42 Molino, Walter, 21 Mollica, Vincenzo, 250 Monelli, Paolo, 114 Monicelli, Mario, 140 Montanari, Ermelinda, 61, 65, 73, 74, 76 Montanari, Mario, 265 Montini, Giovanni Battista, 94, 95 Morante, Elsa, 295 Moravia, Alberto, 294, 295 Morazzoni, Marta, 294 Morita, Akio, 78 Moro, Aldo, 282 Morosini, Luigi, 38 Moussa, Ibrahim, 221 Mozart, Wolfgang Amadeus, 132 Musil, Robert, 290 Mussolini, Benito, 221

Nabokov, Vladimir, 290 Nandino, Orfei 172 Nazzari, Amedeo, 58, 89, 91 Nenni, Pietro, 280 Nerbini, Editore, 300 Nerone, 160, 306 Newman, Paul, 190 Nicholson, Jack, 197 Nigro, Gigi, 72 Ninchi, Annibale, 115 Noël, Magali, 114 Noschese, Alighiero, 143 Notarianni, Pietro, 215, 217, 218 Ombra, Gennaro, 178 Omero, 291 Ongaro, Alberto, 233 Orfei, Liana, 172 Orwell, George, 293 Osiris, Wanda, 101 O’Toole, Peter, 217 Ottaviani, Nadia, 232 Ottone, Piero, 117 Padre Pio, 253 Palazzeschi, Aldo, 293 Pampaloni, Geno, 296 Panei, Achille, 20, 21, 22 Pannunzio, Mario, 134 Paolo VI, Giovanni Montini, 95 Paradisi, Giulio, 110 Parvo, Elli, 44 Parvolo (marchesa) 156 Pasinetti, Francesco, 44 Pasolini, Pier Paolo, 7, 55, 115-117, 140, 146, 201, 225 Pasolini, Susanna, 115 Pasqualin, Eugenio, 61, 62, 72, 302

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Pasqualin, Flavia, 61, 63, 71 Pellegrini, Walter, 316 Penna, Sandro, 293 Pertini, Sandro, 186, 280 Pezzola, Pasqualina, 145 Pietravalle, Gigetto, 36 Pinelli, Tullio, 39, 109, 139, 220, 233, 267-269, 271 Pinna, Franco, 179 Pio XII, Eugenio Pacelli, 93 Pirandello, Fausto, 265 Pirandello, Luigi, 12, 290 Pironti, Tullio, 252 Pischiutta, Adriano, 227 Pizzi, Nilla, 101 Poe, E.A., 138, 236, 289, 305 Polansky, Roman, 164 Polidor, Ferdinand Guillaume, 132 Politi, Chiara, 19, 24, 25 Pomodoro, Arnaldo, 183, 310 Ponti, Carlo, 39, 123 Pratt, Hugo, 236 Praturlon, Pierluigi, 104 Preti, Luigi, 280 Primula, Anna, 75 Proust, Marcel, 291 Quinn, Anthony, 67, 304 Ramponi, Niso, 21, 22, 25 Ramponi, Raffaele, 71 Randone, Salvo, 166 Rascel, Renato 132 Redford, Robert, 190 Remi, Alain, 172 Renzi, Renzo, 111 Repaci, Leonida, 109 Righelli, Gennaro, 266, 268

Rinaldo, Orfei 172 Rizzoli, Andrea, 197, 255 Rizzoli, Angelo, 114, 115, 116, 128, 130, 203, 304 Robinet, Marcel Fabre, 132 Rogers, Ginger, 56 Rol, Gustavo, 56, 159, 247, 248 Romagnoli, Mario, 38, 165 Roncalli, Angelo, 120 Rondi, Brunello, 139, 270 Rosai, Ottone, 200 Rosi, Francesco, 31, 208 Rossellini, Roberto, 19, 20, 23, 26, 27, 28, 29, 30, 38, 40, 66, 268, 302 Rossellini, Renzino, 307 Rossi, Moraldo, 53 Rota, Nino, 77, 123, 139, 151, 157, 204, 267 Rotunno, Giuseppe (Peppino), 139, 272, 306 Rovere, Luigi, 66, 303 Roversi Monaco, Fabio, 277 Rubini, Marcello, 110 Rubini, Sergio, 204 Russo, Giovannino, 134 Sant’Agostino, 119 Santalmassi, Giancarlo, 228 Santesso, Walter, 110 Saragat, Giuseppe, 93 Sardi, Giulia, 62 Sassard, Jacqueline, 42 Savoy, Teresa Ann, 42 Scala, Delia, 86 Scalfaro, Oscar Luigi, 280 Scardamaglia, Elio, 12 Schiaffino, Rosanna, 42, 208 Schiller, Friedrich, 236 319

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Scipione, (Gino Bonichi) 265 Scordia, Mario, 246 Secchiaroli, Tazio, 109, 110, 111, 137 Sega, Ercole, 136, 265 Segni, Antonio, 280 Segni, Mariotto, 280 Servadio, Emilio, 68, 82 Shakespeare, William, 149 Signorelli, Luca, 288 Simenon, Georges, 43, 113, 242, 284, 297 Sinatra, Frank, 123 Siri, Giuseppe, 93-95 Sisifo, 141 Soldati, Mario, 39, 294 Sordi, Alberto, 17, 38, 43, 46-52, 57, 188, 195, 301, 303 Spaak, Catherine, 42 Spielberg, Steven 288, 292 Stamp, Terence, 124, 141 Steinbeck, John 284 Stoppa, Paolo, 34 Storaro, Vittorio, 45 Strehler, Giorgio, 256 Sutherland, Donald, 51, 188, 190-13, 198 Sylvia, (Anita Ekberg) 106, 108 Tadema, Alma, 306 Talbot, Margaret, 118 Talou, Lord, 189 Tamaro, Susanna, 294 Tate, Sharon, 164 Thackeray Makepeace, William, 197 Tiziano, Vecellio, 236 Tobino, Mario, 153, 154, 294 Tocchetti, Valeria, 69 Tognazzi, Ugo, 188, 193, 194

Tokareva, Viktoria, 125, 127 Tolstoj, Lev, 124 Tomassi, Italo, 32 Tondelli, Vittorio, 294 Tonti, Aldo, 29, 41, 226, 272 Toppi, Giove, 300 Tornabuoni, Lietta, 250, 286 Tosi Piero, Pierino, 129, 139, 140, 306 Totò (Antonio de Curtis), 50, 132 Trieste, Leopoldo, 42, 47, 57, 109 Trombadori, Antonello, 279 Trucca, Ugo, 54 Trussardi, Nicola, 228 Tse, Lao, 254 Turchetti, Gianfranco, 244 Turina, Marko, 180 Twain, Mark, 284 Valli, Alida, 44 Valli, Romolo, 121 Vanzina, Stefano, 301 Verdi, Giuseppe, 119, 120 Veronese, Paolo, 116 Verzini, Enzo, 274 Villaggio, Paolo, 231, 278, 309 Visconti, Giuseppe, 128 Visconti, Luchino, 121, 124, 128, 129, 130, 140, 160, 201, 216, 256, 291 von Trotta, Margarethe, 241 Waldner, Francesco, 156 Wattau, Antoine, 199 Wayne, John, 31 Welles, Orson, 7, 55 Wilder, Billy, 116 Yaria, Jacinto, 142-144, 156

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Zandonai, Riccardo, 300 Zangheri, Renato, 279 Za, Nino, 246, 266 Zanzotto, Andrea, 135, 233, 296, 305 Zapponi, Bernardino, 12, 131, 139, 158, 286

Zavattini, Cesare, 189, 267, 301 Zavoli, Sergio, 183, 186, 228, 234 Zeffirelli, Franco 201, 225 Zerboni, Alvaro, 20, 21, 23-25 Zucchini (coniugi), 62 Zurlini, Valerio, 189

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RINGRAZIAMENTI

Prima di ogni altro vorrei ringraziare mio fratello Giuliano senza il cui concretissimo sostegno questo libro probabilmente non sarebbe mai nato. Insieme a lui vorrei ringraziare mio fratello Alberto che per primo mi incoraggiò ancora adolescente ad esprimermi nella scrittura. E continuando senza un ordine ma con indistinta gratitudine, mi rivolgo con particolare sentimento di amicizia al mio giornale La Voce di Romagna e al suo proprietario Giovanni Celli che in questi anni mi hanno offerto l’opportunità di accumulare buona parte del materiale confluito nella stesura del volume. Ringrazio il direttore Franco Fregni per la fiducia che mi ha accordato con sorridente complicità intellettuale. Ringrazio Lorenzo Codelli, presidente della Cineteca del Friuli, che non ha mai smesso di spronarmi a sistemare in una narrazione originale i tanti spunti che stavo raccogliendo sulla persona e sulla vicenda artistica del Maestro; e con lui i molti amici che si sono appassionati ai miei racconti: Giovanna Bentivoglio ardente vestale di Fellini che ha costantemente ravvivato il fuoco con il suo raffinato consenso; Alberico Miniucchi intelligente lettore dell’iniziale stesura del libro, ancora in fase di sistemazione; Mauro Minervino che per primo “ha visto” il progetto editoriale e mi ha accompagnato per mano alla pubblicazione. Ringrazio Jole Baldelli per il sostegno incessante e la capacità infallibile di passare al setaccio ogni pur minima imprecisione del testo. Di particolare conforto sono stati i miei studenti delle Accademie in cui ho insegnato e continuo a insegnare, i quali mi hanno sollecitato in nome di un’amabile intesa a non interrompere il filo del discorso iniziato nelle aule, e a poter continuare a soggiornare nel nutriente mondo felliniano. 323 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Segreti e bugie di FederiCo Fellini

Ringrazio l’editore Walter Pellegrini che ha raccolto la proposta del libro con la prontezza di un vero capitano d’industria e con l’elegante passione di uno stile ormai raro; inoltre di aver usato nei miei confronti fin dai primi contatti cortesi tratti di amicizia, bruciando i tempi della preparazione alla stampa per consentire al presente volume di uscire nel ventennale della scomparsa di Federico Fellini.

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Indice dei nomi

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INDICE

Introduzione .............................................................. pag.

7

Presentazione .............................................................

»

11

Segreti e bugie di Federico Fellini ...........................

»

15

Federico Fellini nota biografica...............................

»

299

Filmografia (regia e sceneggiatura) .........................

»

311

Indice dei nomi ..........................................................

»

313

Ringraziamenti ..........................................................

»

323

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Indice dei nomi

Stampato da Ragusa Grafica Moderna - Bari

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Perché Mastroianni diceva di Anita Ekberg che le sembrava un ufficiale della Wehrmacht? E Fellini invece sosteneva che il corpo della bionda svedese era luminoso anche al buio, anzi fosforescente?

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Fotografia di Jole Baldelli

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Perché Mastroianni diceva di Anita Ekberg che le sembrava un ufficiale della Wehrmacht? E Fellini invece sosteneva che il corpo della bionda svedese era luminoso anche al buio, anzi fosforescente? Per quale motivo nel film “La voce della Luna” i camerieri di un ristorante prendono a calci l’immagine di Silvio Berlusconi, in divisa milanista, dipinta sulle porte a vento della cucina? Forse sarebbe interessante scoprire che relazione intercorresse tra Jack Lang, Ministro della Cultura di Mitterand, e l’artista italiano. O conoscere il nome della veggente che riuscì a smascherare l’autore delle lettere anonime nelle quali veniva rivelato a Giulietta ogni incontro clandestino tra il marito e Sandra Milo. Esiste una quantità di enigmi nella vita di Federico Fellini, che non sono stati mai sciolti. Chi scattò l’immagine agghiacciante del regista in coma diramata in tutto il mondo dall’Agenzia Reuter? E chi era il bambino vestito da marinaretto che salvò Federico al Grand Hotel di Rimini quando venne colpito dall’ictus? Un racconto senza precedenti in cui le risposte ai tanti quesiti sospesi consentirà al lettore di salire sulla giostra incantata del più grande regista-mago della Settima Arte.

GIANFRANCO ANGELUCCI, è stato lo sceneggiatore del film di Federico Fellini “INTERVISTA” (1987), Premio Speciale della Giuria a Cannes e Primo Premio al Festival di Mosca. Scrittore, regista, giornalista, docente d’Accademia, vive e lavora a Roma dove alterna l’attività letteraria a quella cinematografica. Laureato all’Università di Bologna con una tesi sull’opera del regista, è stato suo amico e collaboratore per più di venti anni. Dal 1997 al 2000, per incarico della famiglia e del Comune di Rimini ha diretto la “Fondazione Federico Fellini”, attuando un intenso programma di acquisizioni, di convegni, di pubblicazioni e mostre per onorare la memoria e la figura dell’artista. L’autore ha pubblicato numerosi libri sui film del Maestro e un “romanzo verità”, Federico F. dedicato agli ultimi, convulsi, mesi di vita. Nell’ambito della narrativa ha anche firmato: L’amore in corpo (Sperling & Kupfer, 1994); Tra un anno al Caffè della Plaka (Abramo Editore 2007).

progetto grafico di Stefania Chiaselotti

ISBN 978-88-6822-031-0

9 788868 220310

€ 18,00 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.