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Italian Pages 216 [209] Year 2005
BIBLIOTECHINA DI STUDI, RICERCHE E TESTI collezione fondata da giorgio varanini † diretta da davide de camilli, michele dell’aquila, bruno porcelli e gianvito resta
35.
COMITATO DI CONSULENZA lina bolzoni, alberto casadei, marcello ciccuto, maria luisa doglio, emerico giachery, salvatore silvano nigro, emilio pasquini, michelangelo picone, mario saccenti, alfredo stussi
MICHELE DELL’AQUILA
SCRITTORI IN FILIGRANA Studi di letteratura da Dante a Leopardi a Saba e ad Alvaro
mmv GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
Volume pubblicato con il contributo della Università degli Studi di Bari. Fondo di ricerca 60% erogato dal Dipartimento di Linguistica Letteratura e Filologia Moderna. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo eVettuati, compresi la copia fotostatica, il microWlm, la memorizzazione elettronica, ecc. senza la preventiva autorizzazione scritta della Giardini Editori e Stampatori in Pisa®, un marchio della Accademia Editoriale®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2005 by Giardini Editori e Stampatori in Pisa®, un marchio della Accademia Editoriale®, Pisa · Roma. Uffici di Pisa: Via Giosuè Carducci 60 · i 56010 Ghezzano La Fontina (Pisa) E-mail: [email protected] Uffici di Roma: Via Ruggero Bonghi 11/b (Colle Oppio) · i 00184 Roma E-mail: [email protected] www.libraweb.net isbn 88-427-1367-8
Questi saggi, pensati e scritti in giorni agili e luminosi, raccolti ora in volume, quasi per una scommessa con me stesso, in una stagione per me grigia e di ristretto orizzonte, belli o brutti che siano, dedico con inWnita riconoscenza innanzitutto ai miei cari, tutti solleciti, aVettuosi, prodighi di consigli e di baci, di commovente abnegazione, anche nelle mansioni meno gradite: essi mi hanno fatto uscire dalla più comoda inerzia, per tentare la scalata della parete di vetro con zampine di formica: alla moglie, Camilla, la cara lumaca, costretta a darsi gambe di lepre per correre lungo il corridoio di casa; alla Wglia Paola, medico di rapide diagnosi e decisioni, cui devo più volte la vita; alla Wglia Elena, madre di famiglia, vivandiera varia, geniale e gustosa; alla Wglia Giulia, gambe, braccia, testa di me superstiti, medaglia al merito nella guerra contro la burocrazia inpdap, pt e delle banche; a Federico, Wglio amato, carissimo, vicino/lontano; ai generi e nuora, più che Wgli, come i nipoti amatissimi che mi hanno donato: Gianluca, geniale e immaginoso (corri, corri, ragazzo, dietro ai tuoi sogni e progetti!); Andreuccio, operoso, industre, fattivo,
aVettuoso e fraterno nel suo slancio solidale; Stefania, reginella nel regno delle fate; Mario, più che Wglio per me, lupo, mezzo marinaio di bordo, cintura di judo; il piccolo Michele già un po’ Wlosofo, che si interroga sulla vera Pineto; il mozzo di bordo Tommy, che libero da preoccupazioni di sorta, preso il sacco dei giocattoli, si aVretta verso la spiaggia per riprendere il gioco antico ed eterno di vuotare il mare con i secchielli. E li dedico anche ai tanti amici, sparsi qua e là, ai molti che mi sono stati vicini con scritti, parole, attese, pensieri: ai medici e alle Wsioterapiste che mi hanno rimesso in piedi e (quasi) guarito; ai cari allievi lasciati a mezzo nel lavoro; a Fabrizio Serra editore, a Rita Gianfelice, segretaria di redazione, che ancora una volta mi hanno creduto. Prosit.
INDICE Nota ai testi
11
Dante: « versi d’amore e prose di romanzi »
13
Dante e gli auctores
32
Episodi di dantismo novecentesco : i Versi militari di Umberto Saba
48
Un rompicapo poetico: Petrarca RVF 66
67
Foscolo, Gabriele Rossetti e gli esuli italiani a Londra
82
Suggestioni foscoliano-bremiane in Leopardi
101
Parini in Leopardi
133
Leopardi. Primi esercizi di lingua e stile
148
Leopardi. Il riso del fanciullo
161
Croce storico e critico di letteratura : un modello di stile
171
Il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti nei primi racconti di Corrado Alvaro
189
NOTA AI TESTI
I
l presente libro è niente più che una silloge di saggi scritti negli ultimi anni in diverse occasioni e con diverse motivazioni. Il fatto che essi si concentrino su pochi autori, gli stessi per molti saggi, non ne muta il carattere, né gli dà la possibilità di ambire ad una struttura unitaria, come tanti, in ugual condizione, si affrettano a dichiarare, appellandosi alla unità del metodo, dello stile, alla convergenza degli interessi. Resto dell’avviso che ogni saggio di quelli qui raccolti debba valere per se stesso, e se pure può esser collegato agli altri, ciò è solo nella unità (e varietà) di scrittura e di interessi dell’autore. Se ne segnala ad ogni modo per ognuno, eccetto che per gli inediti, il riferimento alla prima sede di pubblicazione :
– Versi d’amore e prose di romanzi, « Italianistica », xxxii, 2002, 2, pp. 193-204. – Dante e gli auctores, « Rivista di letteratura italiana », xxii, 2004, 1, pp. 137-148. – Episodi di dantismo novecentesco. Dantismo in Saba, inedito. – Petrarca, RVF 66, « Veltro », xlviii, maggio-agosto 2004, pp. 243-256. – Foscolo inglese, inedito. – Foscolismo leopardiano, inedito. – Parini in Leopardi, « Rivista di letteratura italiana », xvii, 1999, 2-3, pp. 111-124. – Leopardi puerilia, in Atti del vii Convegno internazionale leopardiano di Recanati, 1991, Firenze, Olschki, 1994, pp. 381-392. – Leopardi. Il riso del fanciullo, in Atti dell’viii Convegno internazionale leopardiano di Recanati, 1994, Firenze, Olschki, 1998, pp. 271-277. – Croce scrittore, Atti del Convegno crociano di Sulmona del 2002, in « Oggi e domani », xxxi, 2003, 1, pp. vii-xiii. – I racconti di Alvaro, « Italianistica », xxxi, 2002, 2-3, pp. 97-109.
DANTE : « VERSI D’AMORE E PROSE DI ROMANZI »
L
a loda guinizelliana del trovatore provenzale Arnaldo Daniello (o de Mareuil) in Purg. xxvi, s’incentra nell’esser stato quello « miglior fabbro del parlar materno » e nell’aver soverchiato tutti in « versi d’amore e prose di romanzi », con riferimento a quella produzione amorosa e cortese che di Francia s’era venuta espandendo in tutta Europa ed in Italia tra la fine del secolo xii e il xiii. E tuttavia, l’autopresentazione del poeta che segue in lingua provenzale, oltre le espressioni di cortesia d’uso (« Tan m’abellis vostre cortes deman » / etc.) mette in primo piano un atteggiamento penitente (« Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan » : cantano il salmo Summae Deus clementiae) nella considerazione della passata follia (« consiros vei la passada folor »), che è quasi una anticipazione, assai più determinata e senza elegiaco autocompatimento, del petrarchesco « I’ vo piangendo i miei passati tempi / i quai posi in amar cosa mortale » di Rime, 365, onde nel Proemio, di quel suo « primo giovenile errore », il poeta di Laura sperava « trovar pietà non che perdono ». Di Arnaldo, se Daniello, sappiamo che scrisse in stile forte alcune canzoni amorose, e sarebbe stato tra i modelli di Dante nelle Petrose. Petrarca lo cita innanzi agli altri provenzali nel suo Trionfo d’Amore (« fra tutti il primo Arnaldo Daniello, / gran maestro d’amor, ch’a la sua terra / ancor fa onor col suo dir strano e bello » vv. 40-42). Di che cosa piange Arnaldo, l’ombra di Arnaldo, si badi bene, del suo esser stato lussurioso, per cui non ci sono in vero attestazioni, o non anche della responsabilità connessa all’esser stato poeta di una materia amorosa, anzi dell’aver soverchiato tutti in « versi d’amore e prose di romanzi » ? L’altro Arnaldo, de Mareuil, bellissimo della persona, oltre che poeta d’amore, sarebbe stato anche amante adultero della duchessa Adelaide di Tolosa ; ma la diceria è probabilmente malevola e senza fondamento ; l’ambiguità resta, in qualche modo, anche per lui. Nella prospettiva salvifica del viaggio penitenziale, dalla quale non bisogna discostarsi per la interpretazione della Commedia, se non si vorrà cadere nella frammentazione interpretativa o, peggio, nelle passionalità romantiche, s’intravede dunque da parte di Dante
14 michele dell ’ aquila personaggio e dietro quello, in qualche modo anche da parte del poeta nella rappresentazione delle situazioni, una sorta di rifiuto di tutta quella materia erotico-cortese che pure risultava diffusa tra un pubblico sempre più vasto e ne suggestionava la sensibilità e perfino i comportamenti, imponendosi come modello di riferimento nelle situazioni stesse della vita. Dante conosceva bene, non tanto per esserne stato lettore, ma testimone certamente, quella letteratura cavalleresca, avventurosa ed amorosa che aveva prodotto la fioritura del romanzo medievale coevo al profondo rinnovamento culturale e di pubblico dei secoli xii-xiii e l’affermarsi degli idiomi romanzi come lingue letterarie. Dapprima in Francia e poi nelle altre nazioni europee si diffusero racconti di fatti inventati di notevole estensione, in un primo tempo in versi, in seguito anche in prosa, che presentavano temi e toni svariati,dalle narrazioni ispirate alla storia classica, quali il Roman de Troie di Benoit de Sainte-Maure, a quelle che cantavano il mondo cortese, le avventure, gli amori dei cavalieri (Tristan e Lancelot du Lac di Chretien de Troyes), a quelle di carattere didattico-allegorico (Roman de la rose). Motivi di derivazione classica si affiancavano a suggestioni d’ispirazione celtica, bizantina, orientale o cortese, dando vita a una produzione assai ricca, emblematica e insieme formatrice di una nuova sensibilità. Nel vagheggiamento del buon tempo antico di Romagna per bocca di Guido del Duca esce evocata una società cortese che di quella letteratura si nutriva, prendendola a modello per le proprie imprese : « le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia » (Purg. xiv, 109-110) La successiva diffusione delle redazioni in prosa di tali racconti, e i relativi volgarizzamenti delle avventure di cavalieri e paladini allargò il pubblico di lettori di romanzi agli strati borghesi e mercantili e aprì la strada a nuovi esperimenti narrativi, come sarà per il Filocolo, e la Fiammetta di Boccaccio. Nell’altro comparto, quello dei « versi d’amore », v’era tutta la produzione occitanica, sensuale e galante, sotto lo schermo della cortesia e della lealtà nei confronti del signore, peraltro non sempre osservata, con sconfinamenti e tradimenti che s’ammantavano di eroismo nel riferimento all’archetipo di Tristano. Molti di quegli amori (Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra, Paride ed Elena) producevano adulterio, e comunque infrangevano il codice di lealtà cavalleresca, nonostante l’alone eroico e passionale di cui erano cir-
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 15 confusi, e perciò finivano spesso tragicamente. Trovatori provenzali erano presenti nelle corti italiane, suscitando imitatori e producendo nuove scuole poetiche, dalla siciliana alla toscana, fino allo stilnovo, il quale, peraltro, su base più intellettuale e quasi filosofica, rispondeva al bisogno, sentito negli ultimi decenni del secolo xiii, di sublimare e quasi teologizzare il discorso amoroso, depurandolo in parte da quei referenti erotici, di sottile o più esplicito erotismo che la precedente produzione aveva in sé. È probabile che frammista alla sollecitazione intellettualistico/ filosofico/religiosa intesa a sublimare quella materia (si veda l’ultima strofa della guinizelliana canzone Al cor gentil reimpara sempre Amore in cui giustificazione del poeta dinanzi a Dio per aver levato le lodi di creatura terrena è la somiglianza di essa ad un « angel del tuo regno »), operasse anche l’intento di rivalutare la poesia tenuta, secondo san Tommaso, quale « fictio » e « infima doctrina », con conseguente inferiorità rispetto a teologia, filosofia e iure : una operazione d’innalzamento statutario della poesia che si dimostrasse capace di una interiorità attraverso la quale poteva forse competere con gli altri statuti ritenuti maggiori. La dichiarazione di Dante a Bonagiunta (« I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando », Purg. xxiv, 52-54) si spiega proprio per questa scelta intimistica della ispirazione. Così il suo volger lo sguardo a Virgilio e agli altri antichi, come a riceverne più alta autorizzazione. E tuttavia, ‘versi d’amore’ rimanevano anch’essi, d’intonazione laudativa (Dante della Vita Nuova), passionale e drammatica (Cavalcanti di Donna me prega), fino agli epigoni ed infine al grande Petrarca. E v’erano ancora, frammisti a quei versi, rime in lode di pastorelle, pargolette e Violette, residui di un’allegrezza giovanile provenzaleggiante, che Beatrice avrebbe fieramente biasimato in Purg. xxxi, 58-60 e degradato ad « altra vanità con sì breve uso ». Poteva bastare una poetica della sublimazione a sollevare quella materia e a redimerne il potere di suggestione sulle coscienze ? Non finiva lo stesso stil novo, con le sue dichiarazioni d’identità « Amor e cor gentil sono una cosa » ; « Amor al cor gentil ratto s’apprende », etc. col partecipare pur sempre a quella operazione suggestiva, tutta terrena ed in fin dei conti erotica, sia pure di un sottile ed intellettuale erotismo ? Il distanziamento di Dante personaggio e di Dante poeta da quella materia lungo il cammino della Commedia, che nel suo dinamismo
16 michele dell ’ aquila interno si configura quasi come un vero e proprio romanzo di formazione scandito nelle sequenze della medievale commedia dell’anima,in cui il personaggio è Dante pellegrino, architetto Dante poeta, e vi sono mentori progressivi di eccellenza e stazioni di esemplarità, va di pari passo con il superamento della sua esperienza poetica giovanile, con il distanziamento dai primi maestri e la ricerca di altri modelli ed autori. Nei confronti del primo Guido rimane, naturalmente l’affetto e la riverenza (« il padre / mio e delli altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre » Purg., 97-98), così come verso tutta quella esperienza giovanile riguardata con compiacimento storiografico e definitorio della poetica del gruppo (« I’ mi son un che quando / Amor mi spira » etc. Purg. xxiv) ; ma s’intende subito trattarsi di una chiusura di conti col passato. Ora altri sono i suoi modelli, i suoi autori : di Virgiliio, eletto a guida anche spirituale, dirà « Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore », Inf. i, 85-87. Insieme al distanziamento si fa strada peraltro un processo di consapevolezza di una responsabilità della letteratura e dei guasti ch’essa può produrre oltre l’intenzione dell’autore. Un processo di autocoscienza che investe Dante stesso in quanto poeta e partecipe di quella produzione amorosa che la prospettiva salvifica del poema gli fa riconoscere tristemente suggestiva. Alcuni passaggi del poema sembrerebbero avvalorare questa ipotesi. Tra i poeti del Limbo oltre Virgilio e Omero « poeta sovrano » vi sono Orazio « satiro » e Lucano. Tra gli spiriti magni è Seneca « morale » : una scelta, anche tra le opere di uno stesso poeta, che sembra voler escludere di proposito la materia amorosa. V’è peraltro anche Ovidio, ma il rapporto con la sua opera, con molti prelievi nella Commedia, è limitato alle Metamorfosi ed ai Fasti, quanto dire alla materia mitologica, con esclusione di quella erotica. Più innanzi s’incontrerà Sordello, Stazio, ed ancora Bonagiunta, Guinizelli ed Arnaldo. Gli ultimi due tra i lussuriosi del Purgatorio. Anche questa una significativa dislocazione sulla quale torneremo. D’altro canto, Dante poeta sapeva bene, superata la giovanile folor, quale fosse la responsabilità della letteratura, quali i suoi fini (« che essa massimamente intende inducere gli uomini a scienza e virtù » Conv. i, ix, 7) ; quali i mezzi (con stile « temperato e virile », non già come nel passato « fervido e spassionato » (Conv. i, i, 16) ; la lingua : il volgare illustre, atto a manifestare « altissimi e novissimi concetti
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 17 convenevolmente, sufficientemente e acconciamente », « pane orzato », che non gli verrà mai meno, pur satollando migliaia di persone, « principi, baroni, cavalieri, e molta altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine che sono molti e molte in questa lingua volgari e non letterati » (Conv. i, ii). E sa anche di dove attingere la materia : da quel genere da lui praticato delle canzoni dottrinali nelle quali, sul modello degli antichi autori, ha dato prova del « bello stilo che m’ha fatto onore » (Inf. i, 87). Ed elencava le ragioni di un tale impegno letterario : « La prima : dare a molti ; la seconda è dare utili cose ; la terza è sanza essere domandato lo dare, ché dare a uno e giovare a uno è bene ; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende somiglianza da li benefizi di Dio, che è universalissimo benefattore » (Conv. i, viii, 2-3). Ricordo che il Convivio fu scritto tra il 1304 ed il 1307, e non è un caso che tutte e tre le canzoni in apertura dei trattati contengano nel primo verso la parola Amore. Ma di altro amore, evidentemente si trattava, rispetto a quello delle rime giovanili. Naturalmente nella Commedia Dante poeta doveva rappresentare la successiva formazione e purificazione del suo personaggio. E lo fa non senza apparenti contraddizioni. Nel Limbo (Inf. iv) il pellegrino s’incanta dinanzi agli spiriti magni, che erano stati gli eroi dei suoi studi (« che nel vedere in me stesso m’essalto », Inf. iv, 120) ; e tanto più dinanzi ai poeti, la cui amichevole accoglienza e l’esser stato fatto sesto tra cotanto senno lo riempie di orgoglio, appena attenuato dal sorriso di Virgilio. Ma già nel girone dei superbi in Purg. xi, accetta la lezione di umiltà di Oderisi (« più ridon le carte che pennelleggia Franco bolognese », Purg. xi, 82-83) e la reprimenda contro la vanagloria terrena e il mondan romore, simile a fiato di vento « che or vien quinci e or vien quindi » (ivi, 100). Finché in Paradiso xi, dinanzi alla gloria celebrata di San Francesco, comprenderà che essa gli viene tutta dal suo essersi « fatto pusillo », cioè umile (Par. xi,112). Ma nel nostro tema, relativo alla responsabilità della letteratura, una prima riflessione potrà venire dall’episodio di Paolo e Francesca nel v dell’Inferno. Dante è attento a far emergere la splendida cornice feudale e cortese, l’atmosfera entro la quale si svolgono le scene del dramma ; si aprono, nel dispiegamento delle terzine, prospettive di stanze, interni di una dimora signorile illuminati da una luce discreta che filtra dalle invetriate, abitudini e discorsi di una vita che ha i suoi
18 michele dell ’ aquila rituali e la sua retorica : tutto il discorso di Francesca è l’espressione di una tal manierata e cortese consuetudine di vita : « Se fosse amico il re dell’universo… ». Non è solo una captatio benevolentiae nei confronti del vivo che visita pietosamente quei morti, ma anche una gentile maniera di riconoscere quella “pietà” e di mostrarglisi grata. Quella corte di donne, di cavalieri era legata da una legge di vassallaggio che proiettava le sue regole anche nelle relazioni amorose ; e v’erano un cerimoniale ed una liturgia che presiedevano a tutto, anche ai discorsi di quella « fin amor », oltre che ai gesti e – si direbbe – ai sentimenti, o almeno all’espressione di essi. Così non perderei di vista, tra quelle abitudini cortesi, il gusto per la lettura, tutta quella letteratura d’amore e di avventura che prodotta in abbondanza in Francia e nella stessa Italia padana, inondava le corti e ogni altro ambiente in cui si raccoglieva quella società, esaltandone la mente ed i cuori in un desiderio di evasione dal quotidiano, in una proiezione imitativa, in un desiderio di emulazione velleitario ; quanto meno produceva suggestioni non sempre riconducibili ad una misura che sapesse governare poi gli effetti. « Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto, come amor lo strinse… ». In quelle sale aperte sulle grandi vallate d’Appennino a riflettere i rossori dei tramonti nei ricercati splendori che l’ambizione signorile perseguiva, i protagonisti sembravano rinnovare altri ambienti e altre vicende che quella letteratura celebrava. Né va trascurato come ad un tal mondo e rituale di consuetudini riconducano anche certe espressioni e gesti d’amore ricorrenti nel canto : la lettura, gli sguardi, i trasalimenti, il bacio, il Galeotto/testimone/mezzano : tutti da ricondurre alla funzione e significato propri nell’ambito di quella cultura e modello di vita. Ma se feudale e cortese sono lo sfondo e la cultura stessa dell’episodio, non va trascurato come sia evidente anche il richiamo a quella operazione nobilitante della passione amorosa che lo stil novo con i suoi poeti aveva tentato di mettere in atto. Guinizelli, e dunque anche lui, Dante, almeno in giovinezza, e l’altro Guido e Lapo e gli altri. Un’operazione che certo s’ingegnava di sollevare a livelli simbolico-filosofici e perfino teologici la « fin amor », quell’amore tutto sommato sensuale di tanti provenzali e trovatori, con una simbologia evidente perfino nel nome delle varie donne celebrate (Beatrice, Giovanna, fino alla Laura che verrà dopo) ; ma che, nonostante ogni intenzione salvifica, non riuscirà mai in tutto a superare quel tanto di passionale e di sensuale che è pro-
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 19 prio della passione amorosa, anche la più idealizzante ; ed in taluni (Cavalcanti, ma anche lo stesso Dante della Vita nuova) non andrà disgiunto da una tormentosa allucinazione di morte. Dei lussuriosi puniti in questo cerchio Dante condanna senza ambage il peccato : « Intesi ch’ a così fatto tormento / énno dannati i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento ». « Intesi » è verbo che fa riferimento all’intelletto, alla comprensione, alla presa di coscienza. Nonostante la sceneggiatura della bufera infernale che sembra voler richiamare il sentimento doloroso dell’amore/ passione quale rapimento ed estraniazione di sé e l’ombra tragica della morte del corpo prima che dell’anima che si profila sovente in fondo a quella esperienza umana, l’approccio all’episodio non sembra voler concedere attenuazione di colpa e simpatia da parte del pellegrino. Non è incontro d’anime amorose. « Intesi » : con la mente fredda e con la coscienza razionale, « énno dannati » : un verbo forte, che non lascia dubbi sulla condanna e sull’adesione morale ad essa del poeta-teologo ; « dannati », « peccator carnali », sono espressioni senza riserva, né mezzi termini di condanna. A chiarire i quali, se ve ne fosse bisogno, v’è una definizione di peccato da manuale : « che la ragion sommettono al talento ». La lussuria, dunque, come vittoria degli istinti, degli appetiti, sulla « constantia della ragione ». 1 La lunga schiera che gli viene presentata ribadisce da una parte la condanna (« Ell’è Semiramìs… », « Cleopatràs lussuriosa ») ; dall’altra il binomio tragico amore-morte : Didone « che s’ancise amorosa » ; mentre sullo sfondo, come a riprendere il motivo cavalleresco, appaiono cavalieri antichi e moderni come in un infernale trionfo dell’Amore : Elena, il grande Achille ; Parìs, Tristano, « e più di mille / ombre… ch’amor di nostra vita dipartille ». In questo contesto si sviluppa l’episodio dell’incontro con Francesca, sul quale tanta critica si è esercitata con finezza di osservazioni. Al nostro discorso vale solo richiamare il carattere di esemplarità dell’episodio e della figura dell’eroina che è esempio tragico e pietoso insieme dell’amore ‘dilettevole’, secondo la distinzione aristotelica richiamata da Boccaccio nelle sue Esposizioni sopra la Comedia, 1. D. Alighieri, Vita Nuova, xxxix, 1. Per questa e per le altre opere « minori » di Dante ci si è riferiti alla edizione curata dalla Società dantesca italiana, Firenze, 1921 e recentemente, Milano, Mursia, 1965. Per la Commedia i riferimenti sono alla Vulgata della ed. Petrocchi.
20 michele dell ’ aquila tra « amor onesto, amore dilettevole e amore utile ». 2 Qui di amore dilettevole si tratta, ma anche di un amore forte ed eroico nell’accettazione della morte e della dannazione ; di un amore giustamente punito da Dio, assai più che dal pugnale di Gianciotto. Alla metafora della bufera infernale che esprime la rapinosa forza della passione, s’oppone un desiderio di pace dell’eroina (« mentre che ‘vento come fa ci tace », « Siede la terra dove nata fui/ su la marina dove il Po discende / per aver pace co’ seguaci sui » ; « noi pregheremmo lui della tua pace… ») ; ma anche la consapevolezza dolorosa delle vie che la indussero a quella fine. Il richiamo di alcuni versi della poetica stilnovista, con la triplice ripetizione in principio di verso (« Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende », « Amor ch’a nullo amato amar perdona », 3 « Amor condusse noi ad una morte »), dopo le fuorvianti esasperazioni romantiche, è stato generalmente inteso quasi quale intenzione di Francesca di rapportarsi a quella tematica per giustificare e nobilitare la propria passione, tanto più nel cospetto di un visitatore che per diversi indizi poteva aver dato luogo all’idea che fosse un poeta d’amore. Ben diversa la correzione dantesca di Purg. xxii, 10-11 : « Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese… » ; ben altro amore, questo, che Fra’ Giordano da Pisa così commentava : « Il buono amore, dicono i savi, ch’incende e trae ». Ma si potrebbe tentare altra ipotesi di lettura. il richiamo al manifesto stilnovista « Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende » potrebbe essere inteso in funzione non giustificativa da parte di Francesca, ma enfatico-denunciativa. Come si concilierebbe altrimenti il rinvio alla tematica stilnovista, ma anche dantesca (« Amore e cor gentil sono una cosa », Vita nuova, xx) con il forte riferimento alla bellezza ed all’invaghimento anche fisico (« prese costui della bella persona / che mi fu tolta… ») ; riferimento che risulta estraneo al concetto idealizzante di tutte le donne cantate da quei poeti d’amore, che qui invece Francesca richiama per dire i termini di quella loro passione ; 2. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Commedia, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965, vol. i, p. 318. 3. Ben diversa la correzione dantesca di Purg. xxii, 10-11 : « Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese… » ; ben altro amore, che Fra’ Giordano da Pisa commentava così : « Il buono amore, dicono i savi, ch’incende e trae ». La utilizzazione del lessico stilnovista e perfino provenzale negli ultimi canti del Purgatorio è frequente, ma chiaramente in una mutata dimensione idealizzante e quasi teologica.
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 21 concetto ribadito con forza ed insistenza dalla stessa Francesca per dire del suo sentimento (« Amor etc. mi prese del costui piacer sì forte… ». Una passione dunque sensuale e sentimentale, com’è sempre l’amore che non voglia mascherarsi in amore intellettuale che o non è amore o rischia di restringersi in gioco e finzione. Mi chiedo se non possa esser plausibile una lettura del genere : Amore, quello che voi poeti dite, nobilitando, che è prerogativa dei cor gentili, Amore prese costui etc. con tutta quella rapinosa forza di sensi e di sentimento che, contraccambiata, ci ha condotto qui, ad una morte. Quei versi suonerebbero così come un monito da Dante poeta messo in bocca a Francesca (personaggio esemplare, come tutti gli altri, non si dimentichi), nell’intento di mettere in guardia da una passione i cui meccanismi, ancorché nobilitati come lo stil novo aveva tentato di fare, ed anzi proprio allora in maniera più irresistibile, risultano incontrollabili dalla ragione e possono provocare quello smarrimento, da cui ha inizio la precipitosa china del sopravvento degli appetiti e degli istinti. Se Dante fosse stato compiaciuto, in quanto poeta d’amore, da quel richiamo di Francesca ai versi più emblematici di quella poesia, avrebbe dato segno di gratitudine ; invece sembra colto da smarrimento : « Quand’io intesi quell’anime offense, / china’ il viso e tanto il tenni basso, / fin che ‘l poeta mi disse : “Che pense ?” ». Un antico autorevole commentatore, Boccaccio, nelle sue Esposizioni, spiega : « quasi volesse dire “E” si conviene intendere ad altro ». 4 Che mi sembra non affrontare la questione. A che cosa pensava Dante ? Pensava a Francesca, alla sua vicenda tragica ? Certo anche a questo. Ma vi accennerà, come per sbrigarsi della cosa : « Francesca i tuoi martiri a lagrimar mi fanno tristo e pio. / Ma dimmi… ». L’avversativa è fortissima e riporta a quello che a me sembra essere il vero assillo di quel momento, la responsabilità di poeta d’amore, sua e degli altri amici del gruppo, e di tutti gli scrittori di « rime d’amore e prose di romanzi », nonostante le nobilitazioni e sublimazioni intellettualistiche : responsabilità di persuasione sottile, di una educazione sentimentale che forse portava alcuni a ‘raffinare’, ma poteva contribuire a portare altri in situazioni di difficile controllo, in cui la ragione poteva, anzi, finiva certamente soccombente di fronte alla forza della passione. 4. G. Boccaccio, Esposizioni, cit., p. 322.
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michele dell ’ aquila Virgilio rimane senza risposta, tanto Dante è preso da quell’assillo ; le sue parole sono rivolte a Francesca : « Oh lasso, quanti dolci pensier…/ Ma dimmi…/ al tempo de’ dolci sospiri,/ a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri ? ». Non è curiosità indiscreta, ma bisogno che venga fuori, nella esemplarità dell’episodio, la responsabilità o se si vuole la concausa dell’evento, il punto preciso in cui le suggestioni oneste della letteratura e i sentimenti cortesi e nobili, i « dolci sospiri », finiscono col non essere più controllati dalla ragione, « Ma solo un punto fu quel che ci vinse… ». Forse questo è l’assillo : in qual momento e per quale improvviso scatto del meccanismo, avvenga questo guasto : quale sia il momento in cui la « constantia della ragione », che pure orgogliosamente crede di poter dominare i sentimenti, e si permette di giocare con essi in dolci rime d’amore, rivela la sua impotenza a signoreggiare la natura fragile dell’uomo travolta dall’amore vero, terribile, distruttivo, straniante. La risposta di Francesca chiama in causa la letteratura, Lancillotto, Galeotto, il desiato riso, il cotanto amante. I « versi d’amore e prose di romanzi » che avevano reso celebri tanti poeti e scrittori, avevano pure una loro ricaduta sul pubblico sensibile delle corti, e quello dei nostri due amanti è un caso tra mille ; certo fra i più tragici, ma un caso tra mille. Il pianto dei due amanti commuove le ultime forze del poeta confuso, « sì che di pietade / io venni men così com’io morisse… ». E certo la pietade è nei confronti di quei due in quanto persone ; ma più, forse, per la fragilità umana, dell’anima disarmata e fragile dinanzi a questo sentimento meraviglioso ed inebriante, ma rapinoso e terribile ch’è l’amore ; forza ingovernabile che, nonostante tanti ammonimenti, continua ad essere oggetto di gioco, di evasione,di rischiosa letteratura. Il problema si ripropone in Purg. xxvi, in occasione dell’incontro di Guido Guinizelli e poi del provenzale Arnaldo, dal quale siamo partiti. Anche in quella occasione, proprio nel bel mezzo dell’affettuosa e reverente dichiarazione di magistero e di discendenza (« il padre / mio e delli altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre ») sembra di cogliere in Dante una sospensione pensosa che rimanda alla nota questione. Il nodo dei problemi è intricato e il coinvolgimento nell’episodio di Guinizelli e di Arnaldo è forte, non solo a livello poetico, ma sembrerebbe anche e soprattutto morale. Ne costituisce dimostrazione
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 23 l’atteggiamento di Dante : « e senza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui… » (Purg. xxvi, 100-101) : lui, Guinizelli, « il padre suo », nel cerchio ardente dei lussuriosi. Del primo Guido nessun documento pervenutoci lo denuncia particolarmente peccatore di lussuria ; dunque in quel cerchio può esser lecita l’ipotesi che fosse per quelle sue dolci rime d’amore. Non basterà dire che su questo pensoso vi sia stato un lungo interrogarsi di critici. Bisogna chiedersi di che pensosità si trattasse. 5 Viene in mente la stessa pensosità di cui s’è detto, che s’addensa sul capo di Dante all’incontro con Francesca, dopo il primo discorso di lei. L’episodio dei lussuriosi del Purgatorio, letto generalmente nell’ottica dell’incontro con Guinizelli e del conseguente interesse letterario, offre forse anche altri motivi di rilievo : la ripresa del discorso sulle responsabilità della letteratura d’amore nell’esaltazione oltre il giusto della passione amorosa : Francesca leggeva romanzi cavallereschi e la storia di Lancillotto poté contribuire al nascere e crescere di un sentimento che portò poi alla morte dei due amanti. Guinizelli sembra qui in qualche modo svalutare quei « versi d’amore e prose di romanzi » che pure cita attribuendoli ad Arnaldo, ma che, almeno per i versi, erano stati anche suoi, e non si sofferma più di tanto a considerarne i meriti. Insomma, non perderei di vista nella lettura del canto, come in quello di Francesca, questa particolare pena e turbamento di Dante, che non è solo dell’uomo dinanzi ad esempi dolorosamente puniti di lussuria, un peccato largamente praticato e fors’anche in gran misura turbativo della coscienza di Dante ; ma del poeta, per le sue responsabilità letterarie nei confronti dei lettori disarmati. 6 5. Tra le interpretazioni del canto xxvi del Purgatorio si richiamano almeno quelle di F. Torraca, Il canto xxvi del Purgatorio, nella Lectura Dantis fiorentina del 1900, poi in Letture dantesche, a cura di G. Getto, vol. ii, Firenze, Sansoni, 1958 ; A. Roncaglia, Il canto xxvi del Purgatorio, Roma, Signorelli, 1951 ; A. Vallone, Cortesia e stile in tre canti della Commedia (Purg.,viii, e xxvi, Par. xi), in Studi sulla Divina Commedia, Firenze, 1955 ; F. Gabrieli, Il canto xxvi del Purgatorio, Torino, 1963 ; B. Porcelli, Il canto xxvi del Purgatorio, in Letture del Purgatorio della Lectura Dantis internazionale, Milano, 1965 ; A. Monteverdi, Il canto xxvi del Purgatorio, Firenze, 1965 ; G. Folena, Il canto di G. Guinizelli, « gsli », cliv, 1977 ; lo studio di Contini, cit. ; la postilla di U. Bosco al xxvi canto del Purgatorio, ed, commentata a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze, Lemonnier, 1982 ; Marti, cit. ; R. Stefanelli, Il canto xxvi del Purgatorio, « La Ricerca », MandruriaBari, Lacaita, 1987 ; la mia lettura del Canto xxvi del Purgatorio nel ciclo della « Lectura Dantis Neapolitana », a cura di P. Giannantonio, Napoli, dicembre 1985, ora anche nel vol. M. Dell’Aquila, Al millesmo del vero. Letture dantesche, Fasano, Schena, 1989. 6. È stato fatto notare anche il forte tasso di letterarietà impresso all’episodio,
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michele dell ’ aquila Il tema della responsabilità della letteratura sembra attraversare anche questo canto dei lussuriosi in Purgatorio, con varietà di toni, naturalmente, data la diversa situazione delle anime e dello stesso Dante, giunto qui al termine del suo viaggio di penitenza, così come lì era al principio ; e dunque con diversa drammaticità, che in molti casi qui tende a sfumare in elegia dolente confortata da speranza, dove lì era di tragedia sanguinosa e lacrimevole disperazione. Ma la storia retrospettiva della sua partecipazione e coinvolgimento poetico, con tutte le turbative polemiche aspre e le memorie dolci di giovinezza, e le responsabilità gravi ch’esse riproponevano, fa parte ormai del passato, ed esse tornano qui quasi simbolicamente nella commedia dell’anima, nel cammino di purificazione. Anche di esse Dante doveva liberarsi e fare ammenda. Sarà Beatrice più innanzi a liquidare bruscamente le ultime resistenze ed i superstiti affetti di quel coinvolgimento, a far giustizia di ogni alibi e giustificata compromissione, a denunciare il traviamento e a imporgli la definitiva, amara confessione. Si potrebbe continuare con questo viaggio, ch’è morale e letterario, di Dante, nella ricostruzione della propria genealogia poetica e nei distanziamenti dalle esperienze e responsabilità recenti. Il Purgatorio è pieno d’incontri : Casella, Belacqua, Oderisi, Bonagiunta, Guinizelli, Arnaldo ; infine Beatrice, che inaspettatamente severa con Dante giunto stremato fino a lei, gli scompiglia ogni superstite compiacenza giovanile, « o pargoletta / o altra vanità con sì breve uso » (Purg., xxx, 59-60). Assorbita la dura rampogna, si schiudono le sfere celesti, ove altra poesia risuona, quella della « gloria di colui che tutto move », cui si deve conformare la sua, di Dante, teso con ogni forza a « ridire cose che né sa né può chi di là su discende » (Par. i, 6-7). Non è un caso che nel Paradiso gl’incontri con i poeti cessino (Folchetto da Marsiglia è letterarietà di tono e di lingua, oltre che di forme e di stile, in relazione certo alla presenza di poeti che discorrono di cose di poesia ; l’affettuosa urbanità e mansuetudine di comportamenti che s’irradia nei discorsi e nello stesso modo di disporsi al discorso, in una ininterrotta ricerca di benevolenza che non è solo retorica captatio come altre volte nel poema, ma richiama in qualche modo la conversazione in versi tra poeti negli scambi di sonetti di saluto o di dichiarazione poetica. Letterarie sono le similitudini delle formiche e delle grù, con precedenti in Virgilio, Ovidio e Plinio. Ma anche con corrispondenza alle similitudini delle colombe, delle gru e degli stornei di Inf. v.
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 25 presentato più quale uomo di corte amoroso e poi vescovo contro gli Albigesi, che non quale poeta) ; che non si discuta di letteratura, e che la sola poesia s’identifichi con quella mistica di San Bernardo alla Vergine ; mentre lo sforzo poetico di Dante è inteso a rappresentare il riso di Beatrice e le manifestazioni del mistero di Dio. Il canto xxvii del Purgatorio segnerà l’attraversamento del muro del fuoco, barriera di separazione e purificazione, superata nel nome e nella promessa d’incontro di Beatrice : anche qui con eloquente ripresa di lessico e forme dello stilnovo (la ripetizione del nome, quasi una parola magica ed un salvacondotto ; ed ancora l’accenno agli occhi : « Gli occhi suoi già veder parmi », verso 54). Certo quel muro di fiamma può sembrare anche un confine, l’ultimo baluardo tra il mondo del peccato e quello della beatitudine. Il tema del fuoco che brucia, ed è fuoco di un ben definito peccato, di cui Guinizelli ed Arnaldo hanno offerto esempi, continua infatti in tutto questo avviamento di canto : a cosa allude questa sinfonia ardente se non agli ardori dell’amore terrestre di cui ci si doveva in tutto liberare ? e nel contrappasso della pena tutto quel fuoco che morde e non brucia non era esso stesso allusivo del necessario, doloroso processo di purificazione prima di essere ammessi al regno della purezza,al cospetto del vero amore che rende beati ? Questo procedimento non era, e non poteva essere senza dolore ed interno sconvolgimento : era la rottura definitiva con il passato umano e terreno, una rinnegazione totale di ogni falso bene, di ogni anche nobile illusione. Non è un caso che gli ultimi peccatori incontrati fossero due poeti, quel Guinizelli salutato come padre ed autore di « rime d’amore dolci e leggiadre » ; e l’altro, Arnaldo, che « versi d’amore e prose di romanzi/ soverchiò tutti » ; e l’uno e l’altro tendono ad attenuare quella loro terrena gloria, anche nel ricordo, protesi come sono ad altre conquiste, ad altra luce d’amore. Guido all’amico discepolo che auspicandone l’immortalità lo esaltava per « li dolci detti vostri, / che quanto durerà l’uso moderno,/ faranno cari ancora i loro incostri », chiede più umilmente per sé una preghiera di suffragio (« falli per me un dir d’un paternostro, / quanto bisogna a noi di questo mondo »). E Arnaldo andava ripensando « la passada folor ». Sulla soglia del regno delle beatitudini, dinanzi a quest’ultimo ostacolo, a questa prova definitiva, il nome di Beatrice, fantasma lontano finora solo evocato in alcuni difficili passaggi del poema a rafforzare la fede di Dante, a certificarlo delle ragioni del viaggio
26 michele dell ’ aquila e dell’autorità del soccorso, scioglie anche qui l’aggrovigliato nodo della passione terrena, le illusioni, i falsi amori, gl’inganni che si ammantano di nobiltà e di piacere. Perché questo, in fondo, erano la lussuria, l’amore terrestre, anche la loro nobilitazione in « rime d’amore e prose di romanzi » da cui Beatrice in vita aveva liberato Dante, che a Dante rimprovererà aspramente al primo incontro nel Paradiso terrestre, dissolvendo senza scampo ogni superstite attaccamento ad un modulo antico d’amore anche nei suoi confronti. 7 Beatrice, dunque, la donna che dà beatitudine, verità rivelata, luce di Dio ridente dagli occhi per uno splendore d’amore vero, crescente nella salita dei cieli, lontano mille miglia da quelle ingannevoli apparenze che nel mondo crediamo essere amore e non sappiamo il nostro vaneggiamento. L’attraversamento del fuoco si compie nel nome di Beatrice ; e non sembri contraddittorio che, quasi a sorreggere l’animo e a vincere la resistenza di quel tanto di umano che ancora fa peso in Dante, la sua immagine venga evocata nei termini della storia d’amore che aveva dato corpo alla Vita nuova (« il nome / che nella mente sempre mi rampolla », vv. 41-42 ; l’accompagnamento esortativo di Virgilio : « Li occhi suoi già veder parmi », v. 54) : la ragione umana fa ricorso a questi infingimenti, ed anzi lo fa esplicitamente, con sorriso allusivo d’inganno : « indi sorrise/ come al fanciul si fa ch’è vinto al pome » (vv. 44-45). Peraltro il commento dell’antico Buti risulta illuminante : « Gli occhi di Beatrice sono le ragioni sottilissime ed efficacissime e l’intelletti sottilissimi che hanno avuto li Teologi in considerare e contemplare Iddio ed insegnare a considerarlo e contemplarlo ». Gli occhi, ch’erano stati cantati in tanti versi di una poesia non ancora finalizzata alla lode della Bellezza/Verità. 7. Oltre a molti antichi, anche recentemente G. Contini ha ritenuto essere propriamente il peccato della libidine da purificare nell’attraversamento del muro del fuoco, fondando la sua tesi con ampiezza di argomenti d’ordine retorico/poetico ritenuti preminenti rispetto a quelli filosofici e teologici (G. Contini, Alcuni appunti su Purg., xxvii, in Studi in onore di A. Monteverdi, Modena, 1959, i, pp. 142-157). In ogni modo, quel passaggio del muro del fuoco rappresenterebbe « il ritorno dell’uomo allo stato d’innocenza primitiva » (B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, cit., pp. 350356). E Sant’Agostino riteneva che la generazione umana è frutto di un peccato di concupiscenza carnale, eredità del peccato originale ; pertanto le anime debbono essere sottoposte al fuoco punitore e purificatore dell’innata lussuria, per poter ritornare allo stato della primitiva purezza.
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 27 A voler procedere di un passo ancora più innanzi, nella scansione triplice della Commedia, in Paradiso viii la figura di Carlo Martello, l’ottimo principe moderno sottratto alla felicità dei sudditi ed alle attese d’amicizia di Dante s’estende sul canto e sull’intero episodio del cielo di Venere, al punto da polarizzare forse oltre il dovuto l’attenzione dei critici, indirizzandone la lettura alla filigrana politica innegabilmente sottesa, ma forse tanto più rimarcata per la contiguità con gli episodi, essi stessi « politici » del canto di Cunizza, ove si denuncia il malgoverno della Marca Trevigiana e del canto di Giustiniano (Par. vi), l’ottimo principe antico, tratto dalle istorie a rappresentare esemplarmente, come « per iscripto », la virtù cristiana del regnare. In realtà il canto, che pure ha il suo nucleo nell’episodio del giovane principe angioino, affronta ben altra tematica e forse trova i suoi punti d’incastro in altri addentellati della complessa struttura del poema, dai quali prende forza e luce, come le inarcature e i richiami dinamici delle volte e dei pilastri, delle crociere e delle cinture di una costruzione, che si tengono insieme invisibilmente. E forse non è stato considerato con pienezza di significato il fatto che già l’esordio del discorso di Carlo a Dante (vv. 32-39) faccia riferimento esplicito alla intensità del sentimento amoroso che pervade gli spiriti di quel cielo di Venere (« e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, / non fia men dolce un poco di quiete ») ; così come il moto e il canto di essi è esemplato al moto dei Principi celesti, quella gerarchia di angeli moventi appunto il terzo cielo, dei quali Dante aveva cantato in una ‘amorosa’ canzone del suo Convivio. Il richiamo della ‘amorosa’ canzone dottrinale, Voi ch’intendendo il terzo ciel movete, è indizio da non trascurare nella dislocazione teologica del canto e dell’intero episodio, poiché sembra introdurre nella problematica della materia d’amore, che in qualche modo il canto deve svolgere per la stessa sua corrispondenza al cielo di Venere, una netta diversificazione rispetto ad ogni concezione/esemplificazione d’amore/passione e perfino d’amore/sublimazione, come pure era stato fatto nei precedenti episodi di lussuriosi (Inf, v, Purg., xxvi). Qui, in Paradiso, quella materia non può più comportare commistioni o simbologie sublimative, pur sempre ingannevoli e fragili, come presumevano le « rime d’amore e prose di romanzi » di francesi e provenzali e poi di Guinizelli e di tutti gli altri. Che il canto affronti dunque una materia ‘amorosa’ la quale necessariamente debba correlarsi con precedenti episodi in cui la stessa
28 michele dell ’ aquila materia è stata svolta, appare da non mettere in dubbio. Non per nulla, sia pure in Paradiso, siamo nel cielo di Venere, ove vengono incontro spiriti ‘amanti’. Ma altrettanto indubbio appare, fin dalle prime battute, la determinazione di condanna e di chiusura nei confronti di ogni qualsivoglia elemento ‘contemplativo’ dell’amore/ passione o dell’amore/sublimazione ch’era stata materia prediletta della letteratura e della poesia. L’incipit astronomico del canto non appare casuale nella ferma e ribadita condanna del paganesimo morte dell’anima e di tutti i suoi miti connessi alla figura / simbolo di Venere. 8 « Lo mondo » – qui in una accezione quasi di linguaggio da mistici, come a marcarne la distanza e la vanità – vaneggiava dietro alla bella Ciprigna, « in suo periclo » : quanto dire, in suo danno, non già nell’età del suo errore, cioè durante il paganesimo, concetto che viene enunciato subito dopo (« le genti antiche ne l’antico errore »). Non poteva, dunque, esser più dura e senza riserve la condanna : « in suo periclo », « ne l’antico errore ». Credo sia necessario disporsi, nel considerare tutto l’episodio così compatto e fortemente unitario nel contesto della Commedia, ad una grande e quasi astronomica mutazione di prospettiva e di proporzioni. Bisogna lasciarsi dietro valori e sentimenti terreni, legati ad una considerazione terrena dell’amore, e disporsi a considerare la terra, come farà Dante di lì a poco dal cielo delle stelle fisse, nella sua trascurabile piccolezza, appena visibile pianeta negli infiniti spazi del cielo illuminati dalla gloria di Dio, retti dalla sua Provvidenza. E dunque, il tema dell’amore – già sviluppato in precedenti episodi del poema, per mostrarne le deviazioni sentimentali, sensuali e lussuriose, i ravvedimenti tardivi o tempestivi, le ebbrezze e le insidie, come gli amanti perduti dell’Inferno mostrano e con non minore pietà i fedeli d’Amore del Purgatorio, tra cui tanti poeti – qui va considerato in diversissime implicazioni e nella specificazione di valori che appena lasciano riconoscere, mutato dal profondo, il primitivo sentimento che umanamente ci aveva incantati. 9 8. Già altre volte nel poema Dante aveva toccato di Venere e delle sue influenze : « Lo bel pianeta che d’amar conforta / faceva tutto rider l’Oriente... » (Purg., i, 19-20) ; « Venere trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume » (Purg. xxxviii, 65-66), senza le implicazioni di condanna del paganesimo che qui sono esplicite. 9. Per una interpretazione ‘unitaria’ dei canti ‘amorosi’ della Commedia, rimando alle mie letture dantesche di Inf. v, Purg. xxvi e Par. viii e ix in Lectura Dantis, Potenza, voll. 3, Galatina, Congedo, 1987-1990.
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 29 Sembra evidente, peraltro, un certo parallelismo e richiamo di situazioni di questo canto con il v dell’Inferno, nella situazione generale e nell’approccio delle anime. La velocità e la non percezione dell’entrare in quel cielo, se non per la bellezza di Beatrice fatta più radiosa, che in qualche modo richiama la rapidità ed inconsapevolezza con cui Amor s’apprende al cor gentile e lo stato di incoscienza del punto che vinse i due amanti nell’episodio di Francesca. Ed ancora, la velocità delle anime, paragonata a quella di venti festini, che richiamano la bufera infernale del cerchio dei lussuriosi. Ed ancora : la loro sollecitudine amorosa ad accoglierli ed a parlare, che ricorda l’analoga sollecitudine di Francesca. Si aggiunga il già accennato richiamo ad una canzone di Dante, Voi che intendendo il terzo ciel movete, che in qualche modo s’allinea (contrapponendovisi) alle citazioni di Francesca : « Amor c’a cor gentil ratto s’apprende...Amor c’a nullo amato amar perdona... Amor condusse noi ad una morte... ». Infine, quel riferimento all’« animal di sua seta fasciato », che nella flessuosa mollezza richiama « l’animal grazioso e benigno ». Altre cose si potrebbero notare ma, io credo, sempre con un proposito di richiamo per contrasto e comunque per distacco. Anche l’insistenza di verso 55-57 : « Assai m’amasti...di mio amor... », etc., con una insistenza non insignificante sul lemma amoroso, che ormai significa però tutt’altra cosa dalla passione che s’intende sulla terra con esso. Il seguito dell’episodio non tarderà a chiarirlo. Ha inizio così l’episodio di Carlo Martello, l’ottimo principe moderno, l’incarnazione ideale del sovrano sollecito del bene dei sudditi, immaturamente scomparso in un mondo abbandonato sempre più alle sfrenate passioni ed all’avarizia. Tutto l’episodio sembra uscir fuori da un atteso contesto ‘amoroso’ per una prevaricante significazione politica. Ma forse proprio nell’approfondimento di questa sfera del ‘politico’ si può ritrovare il filo rosso che lega questi canti agli altri ‘amorosi’ delle altre due cantiche. L’amore, che nella sua prevalente accezione terrena è esposto a degenerazione sensuale e diventa lussuria, come provano i casi, pietosi fin che si vuole, ma colpevoli, di Francesca e dello stesso Guido Guinizelli, tenuto nei giusti limiti produce frutti e consente la perpetuazione del genere umano come di ogni altra creatura. È « l’amore onesto », di cui parla Aristotele, richiamato dal Boccaccio. Virgilio
30 michele dell ’ aquila aveva già spiegato a Dante nel xvii del Purgatorio la teoria dell’amore naturale e di quello « d’animo », e di come il primo « è sempre senza errore », ma l’altro « puote errar per malo obietto/ o per troppo o per poco di vigore » ; e comunque l’amore è « sementa in voi d’ogni virtute » (Purg. xvii, 104) Ora non è forse casuale che qui in Paradiso il discorso sull’amore si sposti dall’ambito della passione amorosa a quello dei frutti dell’amore, quanto dire la discendenza, con tutti gli obblighi morali di educazione e di indirizzo che ne derivano, e delle relative devianze che possono produrre danni gravi tanto più quando esse si verificano su personaggi che hanno responsabilità di governo, quali sono i principi ai quali è affidato il compito di assicurare il bene dei popoli ad essi affidati. Quell’amore che per tanti è passione e lussuria, per i migliori ed eletti è « charitas seu recta dilectio », come Dante stesso aveva detto nel suo De Monarchia (i, xi, 13-19), quando aveva definito l’amore del sovrano verso il suo popolo, amore che rafforza la giustizia e con essa la pace, che sono le basi della felicità del genere umano. La metafora del « più oltre che le fronde » rimanda certamente al frutto di quell’amore, alla sua consistenza positiva nella sfera della storia e della vita associata. Non diversamente in altri passaggi della Commedia si era fatto riferimento alla distinzione tra sterile e fruttuoso : i pagani ‘virtuosi’ del Limbo non possono essere chiamati al cospetto di Dio, poiché le loro virtù non sono vere virtù : « fieri enim non potest ut steriliter boni simus », secondo il detto di Matteo (7, 17). « Steriliter bonu» : un concetto ed una immagine che Dante avrebbe ripreso per bocca di Virgilio in Purgatorio (iii, 40-44) : « e disiar vedeste senza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato,/ ch’etternalmente è dato lor per lutto : / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri... ». Proprio quelli che erano lì, nel Limbo, nella chiara luce degli spiriti magni, ma fuori dalla vista di Dio. Sterile, dunque la cultura, priva della Grazia. Sterile l’Amore, anche il più sublimato dei poeti del dolce stile, del padre suo Guinizelli e degli altri, che può perfino risultar fuorviante, e ne fanno penitenza. Il vero e retto Amore è quello che dà frutti nello svolgimento provvidenziale della società. Le vicissitudini non liete della eredità angioina, con l’affermazione di Roberto rispetto all’ancor fanciullo Carlo Roberto e le con-
dante : « versi d ’ amore e prose di romanzi » 31 seguenti implicazioni affettive e biografiche del canto (l’amicizia di Carlo Martello troncata dalla morte), non possono far velo ad una considerazione : che dall’ottica del Paradiso, compiuti molti passi del processo salvifico, l’amore terreno risulti ormai escluso e comunque altra cosa rispetto a quello che travolse Francesca e nella sua pur alta nobilitazione incantò provenzali e stilnovisti. Nella memoria del poeta naturalmente quell’amore non è cancellato. Tutto continua a far parte dell’umano che Dante si sforza di esprimere. Ma quel sentimento, e si direbbe quella stessa parola, nei processi didascalici e dialettici intesi a sottolineare i livelli dell’itinerario della salvezza ed il processo della perfezione umana conforme alla legge ed alla armonia divina, acquista via via altro e più alto significato. La stessa letteratura nella sua responsabilità è chiamata a rapportarvisi. Il leitmotiv dell’amore, che attraversa tutto il canto, si collega alla teoria generatrice dell’amore « che move il mondo e l’altre stelle » e piove sui cieli e sugli uomini attraverso le angeliche influenze, innescando quel moto d’amor naturale che tende a ricongiungere la creatura al creatore, e l’altro moto, differenziato e soggetto alle scelte dell’uomo che può portare al bene supremo della salvezza, ma anche a disperdersi dietro i falsi piaceri. Qui, nel cielo di Venere, l’amore « folle » della « bella Ciprigna » giunge al suo ultimo grado di perfezione, volto com’è a fin di bene generale : l’amore dell’ottimo principe verso i suoi sudditi e l’amore di questi verso il sovrano, garanzia di giustizia e di pace, quanto dire di un bene comune dislocato ben oltre le individuali smanie amorose ispiratrici, nei casi più alti, di tanti « versi d’amore e prose di romanzi ». [2003]
DANTE E GLI AUCTORES
I
l rapporto degli intellettuali del medioevo con i classici dell’antichità è variegato e complesso. Superato il momento del rifiuto in nome della ideologia cristiana che nella fase più contrastiva della cosiddetta letteratura apologetica opponeva valori a valori, cristianesimo a paganesimo, con una radicalizzazione dello scontro dal quale uscivano rifiutati anche i grandi classici e i moralisti del pensiero antico accomunati nell’accusa di essere comunque pagani e adoratori degli « dei falsi e bugiardi », già con Lattanzio e poi più decisamente con Agostino, il bisogno di conservare una tradizione di pensiero e di rapportarsi alla grande poesia e filosofia classica, sia pure per differenziarsene, ebbe il sopravvento sulla fiera contrapposizione. Si tornò a leggere Cicerone e Seneca, Orazio e Virgilio, si cercò negli antichi non solo modelli di scrittura ma nuclei di messaggi morali che scaturivano da una zolla profondamente radicata nella natura dell’uomo, nella sua spiritualità, nel suo anelito a varcare l’orizzonte stretto della vita terrena. Si può dire, anzi, che tanto più i tempi si facevano bui nella fase più dura delle invasioni barbariche e degli stanziamenti di popoli di remota origine e feroce cultura, tanto più nei monasteri e negli scriptoria la salvaguardia dei codici antichi, la loro trascrizione e conservazione diveniva un impegno che faceva tutt’uno con la regola stessa. Si trattava evidentemente di un culto conservativo e duplicativo, che avrebbe dato frutti più tardi, quando quei codici salvati dalla distruzione e riprodotti avrebbero reso possibile la nuova civiltà degli umanisti. Senza dire che in area bizantina, in Oriente ed in Italia, la patristica orientale mantenne un più saldo collegamento con i testi dell’antica filosofia, con le scuole ove quei testi erano letti e commentati, e con la tradizione mai interrotta con la quale, pur nelle mutazioni della storia, si riuscì a mantenere un rapporto non radicalmente contrastivo. Perfino dal mondo arabo, nei lunghi secoli di presenza mussulmana in Oriente ed in Occidente, in Spagna e nell’Italia meridionale ed insulare, la voce degli antichi giunse fino a noi attraverso tradizioni e traduzioni, soprattutto nel campo degli autori di scienza e filosofia ; ed anzi molta parte del patrimonio di quell’antica cultura, lo stesso insegnamento di Aristolele, giunse fino a noi per quel tramite. Va infine considerata la
dante e gli auctores 33 funzione sempre più decisa di inglobamento e di assimilazione, nei limiti dell’utile e del possibile, beninteso, esercitata nei secoli dalla Chiesa nel campo della lingua, della liturgia, dell’attività curiale e diplomatica, della stessa tradizione testuale. Superato così il crinale del primo millennio, dopo la fase carolingia in cui fiorì un vero e proprio classicismo nella scuola, nella storiografia, nella epistolografia di stato, le nuove lingue e le letterature romanze in Occidente fanno registrare tramiti di continuità e di derivazione non confutabili, pur nella persistenza e nella contaminazione con i nuovi apporti etnici, linguistici e culturali delle migrazioni. In letteratura, che è poi quanto qui ci interessa, temi lirici, ma più la materia narrativa e didascalica, tendono ad una contaminazione di straordinaria efficacia tra moduli, leggende, personaggi delle antiche letterature ed eroi vicende tradizioni della nuova storia, tal che la materia carolingia e celtica si mescola a quella classica e frammiste alle imprese dei cavalieri della Tavola Rotonda o della corte carolingia troviamo quelle della Historietta troiana o di Cesare e di Achille. La stessa antropologia, oltre che la mitologia, non sfugge a tale contaminazione che nasce anche da un deficit di prospettiva storica, con la percezione di eventi appiattiti in sincronia, come negli antichi dipinti. Così Ercole o Giasone si comportano e si rappresentano come cavalieri medioevali, perfino nelle armature e nella gestualità, ed i miti antichi risultano ripensati in chiave medievale, con un evidente processo di appropriazione/deformazione. Appropriazione/deformazione : può essere questo, in sintesi di enunciato, l’atteggiamento anche degli scrittori e dei poeti dei primi secoli del secondo millennio, fino alle soglie dell’umanesimo, nei confronti di tutta la tradizione antica della quale gli scrittori classici erano gran parte. Una appropriazione nascente da un grande amore e desiderio di patrocinio. Rivolgendosi a Virgilio nella selva del peccato Dante dirà : « Vagliami il lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume ». 1 Quell’amore nasceva dalla consapevolezza, certamente talora oscura o fuorviata, della grandezza e dei meriti di quello e dal desiderio di averne autorizzazione e nobiltà : « e più d’onore ancor assai mi fenno, / ch’e’ sì mi fecer della loro schiera / sì ch’io fui sesto tra cotanto senno ». 2 1. Dante Alighieri, Inf. i, 83-84. 2. Idem, Inf. iv, 100-102.
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michele dell ’ aquila La Commedia, che può anche leggersi quale un romanzo/viaggio di formazione, offre un vasto campionario di un tal rapporto. La biblioteca di Dante, che pure sembra immensa per la quantità di citazioni e questioni emergenti dal poema, in realtà, come ogni altra degli scrittori del tempo, non era poi sterminata. V’erano certamente i testi sacri dell’antico e nuovo testamento, tra i poeti Omero “poeta sovrano”, ma nelle traduzioni/riduzioni della tradizione latina, le trame non già i testi della tragedia greca e latina, Virgilio Orazio e Ovidio, Stazio e Lucano, largamente diffusi, soprattutto i primi tre, nella cultura medioevale, Seneca tragico e morale ; tra gli oratori, i trattatisti e i retori, innanzi tutto Cicerone, tra gli storici Livio « che non erra » ; tra i filosofi soprattutto Aristotele, o meglio quel che era stato tramandato della speculazione aristotelica. Ma v’erano anche Boezio, Agostino, i padri della Chiesa, tutta la Scolastica e la filosofia dei suoi tempi. Forse anche i testi della cultura araba o pervenuti attraverso la mediazione araba. Ma di filosofi e teologi diremo poi. E c’erano gli autori della scienza, dell’astronomia, della medicina, della filosofia antica e cristiana. La copiosa rassegna degli spiriti magni nel iv dell’Inferno offre un campionario, sia pur incompleto. Tra i poeti gli scrittori i filosofi e gli uomini di scienza risultano annoverati, oltre ad Omero, Orazio, Ovidio e Lucano (e Virgilio, naturalmente), Aristolele, « ’l maestro di color che sanno » insieme alla sua « filosofica famiglia », e Socrate e Platone, Democrito, « che il mondo a caso pone », e Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone ; il medico Dioscoride, Cicerone, Seneca, insieme a due poeti del mito, Orfeo e Lino, gli uomini di scienza, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galieno, e Averroè, « che ‘l gran comento feo ». Non è che un elenco abbreviato. Dante dice di non poter « ritrar di tutti a pieno / però che sì mi caccia il lungo tema ». D’altro canto non si deve pensare che di tutti avesse o conoscesse le opere. Di molti gli era giunta fama e quella conoscenza parziale consentita dagli excerpta, dalle epitomi della tradizione. Può essere interessante notare, tra l’altro, che in tal rassegna gli eroi del fare precedano quelli del dire e del pensare, cioè i poeti ed i filosofi. Elettra Ettore ed Enea, « Cesare armato con occhi grifagni », e Camilla e la Pentasilea, il re Latino con la figlia Lavinia, e Bruto e Lucrezia, Julia, Marzia e Cornelia, ed in disparte il Saladino. Evidentemente anche Dante partecipava all’idea diffusa, che sarebbe stata ripresa dallo stesso Leopardi nell’Operetta intitolata Parini o
dante e gli auctores 35 della gloria, secondo cui « essendo il soggetto principale delle lettere la vita umana, e il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni ; non è dubbio che l’operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti » 3 quanto dire che poiché compito degli scrittori è illustrare le gesta degli eroi per la superiorità indiscussa dei fini sui mezzi, ne consegue che la gloria conquistata con le azioni è certamente superiore a quella conquistata dai poeti cantori di essa. Più importante sembra invece essere l’atteggiamento di Dante nei confronti della situazione di sospensione di quei grandi del passato, sia pure in luogo luminoso e sereno, ma fuori dalla visione di Dio, confinati in un Limbo che li vede in sembianza « né trista né lieta ». Il nodo di quella esclusione è dichiarato con inflessibile chiarezza : « Or vo’ che sappi, innanzi che più andi, / ch’ei non peccaro ; e s’elli hanno mercedi, / non basta, perché non ebber battesmo, / ch’è porta della fede che tu credi ». 4 È Virgilio, anch’egli in tal condizione, a spiegare la dura legge e Dante mostra subito di esserne afflitto : « Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi / però che gente di molto valore / conobbi che in quel limbo eran sospesi » : 5 prescindendo dagli eroi del mito e della storia, v’erano i poeti a lui cari, i filosofi e gli uomini di scienza sui quali s’era fatta la sua cultura,che erano compagni silenziosi ma eloquenti delle sue lunghe vigilie di studio. L’impedimento è certamente teologico, e Dante, che pure in questo canto si prende più di una libertà censurata dai contemporanei e dallo stesso Boccaccio, non se la sente di eluderla, ma mostra di soffrirne acerbamente. V’era il divieto scritturale di San Giovanni, 3,5 : « Amen, amen, dico tibi : nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto non potest introire in regnum Dei ». Sulla sorte sentita come ingiusta dei ‘virtuosi’ nati prima della venuta di Cristo s’era aperta nei secoli una lunga riflessione, con tentativi diversi di attenuazione del divieto scritturale. Il problema coinvolgeva il bisogno di recupero della eredità classica, ma anche quello più alto della giustizia di Dio e della sua imperscrutabilità. Non mi dilungherò nei particolari 3. G. Leopardi, Operette morali. Parini o della gloria. 4. Dante Alighieri, Inf. iv, 33-35 5. Ivi, 43-45.
36 michele dell ’ aquila aspetti della questione e sui tentativi di superamento. Chi ne avesse interesse può leggerne in un mio commento al iv dell’Inferno. 6 Ciò che qui può interessare è che quel mancato riconoscimento di meriti, gran mistero di una imperscrutabile giustizia, feriva anche lui, Dante, il personaggio, l’uomo ancora tutto terreno che s’avviava al gran viaggio ; e dietro di lui, a graduare i sentimenti e i pensieri, il poeta che gli faceva incontrare in quella soglia d’inferno i suoi autori, a cominciare da quel Virgilio, maestro di vita e di stile. Dante, egli stesso magnanimo, uomo di scienza e di poesia, esule, consapevole dei suoi meriti misconosciuti : un megalopsicos, secondo le opportune indicazioni che il Forti 7 ne ha dato nel suo noto saggio, in cui si indica nell’Etica Nicomachea un testo familiare a Dante. Magnanimità che non è superbia, ma giusta considerazione del proprio valore. Né va perduto di vista il fatto che l’episodio che riguarda questi magnanimi si contrappone, come in un dittico, al precedente di Inferno iii, in cui sono rappresentati gli ignavi. Dante leggeva nei suoi autori che l’uomo per distinguersi dai bruti deve esercitare al massimo le sue virtù naturali ed intellettuali, che certo, senza la grazia e l’esercizio delle altre virtù teologali non potranno salvarlo, ma certamente lo rendono degno d’onore. Di qui il turbamento, che gli fa quasi ignorare la sorte degl’infanti e lo concentra solo su quella delle « femmine e di viri ». La resa dello stato d’animo è fortemente indicativa : « gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi ». Il duolo nasce dalla condizione di quella « gente di molto valore », la cui esclusione dalla salvezza gli ripropone in termini drammatici, fin dal principio del viaggio, il problema arduo della giustizia di Dio. Dante mostra dinanzi a quella prima esemplificazione di quel mistero il desiderio fermissimo di penetrarvi fin ch’è possibile. Vuol sapere, lui, magnanimo, come sia avvenuto che altri magnanimi, da lui ammirati, abbiano o non abbiano ricevuto il premio che s’attendevano. Virgilio funziona quale rivelatore di quel disagio e di quell’ansietà ; Virgilio che, pur asseverando la legge di Dio (« s’elli hanno mercedi, / non basta, perché non ebber battesmo, / ch’è porta de la fede che 6. M. Dell’Aquila, L’onrata nominanza. Studi su Dante, Manzoni ed altra letteratura, Pisa, Giardini, 2001. 7. F. Forti, nel vol. Magnanimitade. Studio di un tema dantesco, Bologna, Patron, 1977.
dante e gli auctores 37 tu credi »), dimostra non solo mestizia, ma anche una non del tutto acquietata rassegnazione (« Or vo che sappi... / per tai difetti, non per altro rio, / semo perduti... »). Teologicamente impeccabile, come s’è visto ; ma umanamente duro ad accettarsi. La possibile infrazione teologica, quel pericoloso mettersi fuori dalle scritture, che gli era stato rimproverato da molti, tra cui più fieramente da Sant’Antonino, arcivescovo di Firenze (« Verum in hoc videtur Dantes errasse non parum ») e che gli aveva fruttato le prese di distanza dei commentatori osservanti ; quell’aver messo nel Limbo tutti quegli uomini e quelle donne d’antica virtù, era cosa dunque né casuale, né fatta con leggerezza, se poteva, nello stesso tempo, servire ad esprimere una ammirazione antica e mai venuta meno, nei confronti di un mondo di cui s’era nutrito ; e, in ugual misura, offrire un esempio di attaccamento a terrene virtù, ad effimeri, per quanto nobili, valori che nel prosieguo del viaggio gli si riveleranno, nella loro effimera consistenza. Il momento drammatico dell’episodio mi sembra vada riconosciuto nella sua maggior tensione proprio in quello che non a pochi commentatori è sembrato invece un arido elenco di Padri richiamati alla gloria di Dio. La domanda di Dante è di quelle più commosse, s’affida alla retorica dell’iterazione : « Dimmi, maestro mio, dimmi segnore /... uscicci mai alcuno, o per suo merto / o per altrui, che poi fosse beato ? ». 9 Dove è chiarissimo che non vuol sapere se fosse stato mai da quel Limbo liberato qualcuno, cosa ben nota ad ogni buon cristiano ; ma chi, quali anime, soprattutto tra quelle di cui le scritture non facevano il nome. La risposta di Virgilio, con quella rappresentazione premichelangiolesca di Cristo liberatore (« un possente / con segno di vittoria coronato »), non è un arido elenco di eletti, ma una secca scansione di nomi, da cui amaramente, duramente, restano esclusi proprio quelli che Dante personaggio poteva se non sperare, almeno desiderare. La tensione è in Dante che silenzioso ascolta, ed in Virgilio, che nell’apparente aridità dell’enunciato, ha sofferto nella sua propria esclusione la durezza del divieto, pur nella larghezza di quell’atto liberatorio : « e altri molti e feceli beati ». Ma nessuno di quei grandi 8
8. Dante Alighieri, Inf. iv, 34-36. 9. Ivi, 46-50.
38 michele dell ’ aquila che aveva in mente. Dunque per altri meriti, che non d’ingegno o di virtù, si andava nel cospetto di Dio « cui sine fide placere impossibile est ». Era una dura lezione per chi aveva puntato tutto nella vita al tavolo della cultura e della poesia ; che i suoi auctores, e suoi heroes, perfino quel Virgilio umanissimo e già quasi cristiano, lambito dalla rivelazione, erano pur sempre fuori dalla vista beatificante di Dio ; e rispetto ad essi più meriti avevano nel cospetto del Padre « Abraam patriarca e David re, / Israel con lo padre e co’ suoi nati/ e con Rachele per cui tanto fe’ », 10 e la folla anonima delle donne ebree. Naturalmente Dante poeta sapeva bene tutto questo, e doveva apprenderlo anche Dante personaggio, che però, nella commedia dell’anima, doveva percorrere tutti i gradi delle esperienze e delle penitenze, per riuscire illimpidito e puro, liberato dalla scorza terrestre, nella luce di Dio. Ma una tal esperienza penitenziale, che poi è il fine dichiarato del viaggio e del poema, costava mortificazioni e sofferenza : ogni scoglio di peccato ed errore che cadeva via, provocava strappi dolorosi, e doveva provocarne nei lettori ; produceva sanguinose ferite nel tessuto delle abitudini, nel sistema rassicurante dei valori. A che cosa pensava Dante in quel silenzioso andare, dopo quel drammatico resoconto ? I silenzi della Commedia sono sovente più eloquenti e tesi dei dialoghi. I meriti e il divieto ; il molto valore e il non poter piacere a Dio. Un rovello, quello della giustizia di Dio, che ha tormentato non solo Dante, ma anche il cattolico Manzoni : e non solo nella metafora poetica di Adelchi o di Ermengarda, o in quella piú quotidiana, ma tutto sommato meno tragica, ed anzi in certo modo « fortunata » di Renzo Tramaglino e di Lucia Mondella ; ma nella fine drammatica di un’altra innocente, non della letteratura, ma della sua stessa vita, Enrichetta Blondel, dinnanzi alla cui morte venne meno la forza di ogni domanda, di ogni grido poetico : « cecidere manus » reca sulla pagina lasciata a mezzo il manoscritto del drammatico Natale 1833. Così, non rassegnandosi, egli exul immeritus, e volendo in qualche modo risarcire tutti quei grandi, esuli essi stessi senza colpa dalla lu10. Ivi, 58-60.
dante e gli auctores 39 ce di Dio, s’immagina un luogo luminoso, e quieto in cui celebrarne la gloria, separandoli, più che la contiguità fisica non dica, da « l’aura che trema ». Certamente molto poté la reminiscenza dei Campi Elisi del suo Virgilio, come già mostrava di aver capito Sant’Antonino nella sua requisitoria. E può valere l’osservazione secondo la quale proprio aver recuperato l’antichità romana e virgiliana in senso provvidenziale, come preparazione del cristianesimo, consente di poter ospitare in quel Limbo nientemeno che « Cesare armato con occhi grifagni » e Cornelia, Marzia e Lucrezia suicida. Ma gli altri, i poeti, i filosofi, i materialisti, perfino quel Democrito precorritore di Epicuro, i cui seguaci sono nientemeno che nell’Inferno degli eretici ? ed Averroè, intorno al quale si accendevano le polemiche filosofiche e teologiche del suo tempo ? e perfino il Saladino, che, nonostante la fama cavalleresca che lo circondava, era pur sempre il conquistatore del Santo Sepolcro ? È evidente, invece, che il comune denominatore di tutti è l’essere magnanimi, sapienti ed eroi, di quella pasta umana ch’egli terrenamente ammirava e di cui sentiva orgogliosamente concreto se stesso. Le cadenze di tutto l’episodio sono da riconoscere in una liturgia della remunerazione dei meriti, che tiene luogo di altra remunerazione « non percepita ». « Onore », « onrata nominanza », « molto valore », « fannomi onore », « e più d’onore ancora mi fenno » : un leitmotiv dei meriti e delle ricompense della virtù nella cui perfetta corrispondenza l’uomo virtuoso ritrova la sua pacificazione.Quella liturgia costituiva risarcimento per quegli esuli del cielo, e per Dante, che in essi si riconosceva. E può essere vero che in quell’accoglimento dei poeti antichi egli cercasse di dichiarare una genealogia poetica, che peraltro non contraddiceva quella, certamente selettiva, che avrebbe indicato in Purgatorio e in Paradiso, incontrando Guinizelli e Sordello e Arnaldo. Non era tanto la sua geografia o genealogia letteraria che in quel momento stava a cuore a Dante, quanto il bisogno di un risarcimento, di non lasciar misconosciuti meriti che aveva ammirato da sempre. Leggeva in San Tommaso : « Inferno existentes praemium, bonorum suorum recipere possunt, in quantum bona praeterita eis valent
40 michele dell ’ aquila ad mitigationem penae » ; 11 e in altri teologi : « quis in mortali peccato decèdat, tamen si aliqua bona facerit, licet vadat in Infernum, tamen propter bona iam facta minorantur ei poenae ». Nella Monarchia aveva riportato il detto aristotelico : « Honor sit praemium virtutis ». 12 Cosí l’intero episodio è da leggere in quest’ottica terrestre della virtù, con i suoi orgogliosi compiacimenti di cui il più disincantato Virgilio può qualche volta sorridere. Di quei suoi autori s’era nutrito, da essi aveva preso molte cose in quel processo di assimilazione/ deformazione proprio del tempo. Da Virgilio, soprattutto, eletto a maestro e guida, « delli altri poeti onore e vanto », riconosciuto come colui « da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore » ; ma anche mago e precursore del cristianesimo nella sua iv Ecloga. Enumerare i luoghi delle suggestioni virgiliane nella Commedia comporterebbe un volume, ed è stato fatto da molti, dai passaggi della discesa in Inferno, ricalcati su quella di Enea, ai vari mostri / guardiani Cerbero, Minosse, Caronte, Flegiàs, ai quali naturalmente non poteva mancare l’aggiunta di un aspetto diabolico, all’angelo/Mercurio dinanzi alle porte di Dite, alla configurazione dell’Inferno, con i suoi fiumi, imbarcazioni e nocchieri, i Campi Elisi, il Tartaro, ai personaggi storici e mitologici, Didone, Venere, Apollo, Trivia che ride splendente nel cielo notturno ; alcuni di essi, come Francesca e Conte Ugolino parlano addirittura con versi tradotti dalla Eneida : « Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria… » ; 13 « Ma se a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice » ; 14 « Tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor che ’l cor mi preme / già pur pensando, pria ch’io ne favelli » ; « parlar e lacrimar vedrai insieme ». 15 Senza dire delle similitudini, molte delle quali quasi in gara col modello. Ma anche Ovidio con le sue Metamorfosi ed i Fasti, assai presente nella cultura medievale, offre copia di miti ed immagini al Dante della Commedia. L’episodio di Cacciaguida sembra mutuato in parte dal Somnium ciceroniano. Altrettanto presente Stazio e Lucano, Orazio « satiro » e Seneca « morale ». Senza dire di Omero « poeta 11. Summa Th., supl. q. lxix, a. 7 : 12. Dante Alighieri, Monarchia, ii, 3. 13. Dante Alighieri, Inf. v, 121.22. 14. Ivi, 124-126. 15. Dante Alighieri, Inf. xxxiii, 4-9
dante e gli auctores 41 sovrano », che Dante poteva aver conosciuto dalle epitomi in latino correnti al suo tempo. I commenti danteschi, da quello antico del Boccaccio, agli altri via via negli anni, si offrono come miniere di corrispondenze e di fonti classiche attestanti la conoscenza di Dante : « vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume ». 16 Più interessante potrebbe essere invece considerare la mutazione di modelli e di riferimenti letterari avvenuta in Dante dopo la fase giovanile e già nei primi anni dell’esilio. Più volte nella Commedia il poeta dichiara di sentire il bisogno di un innalzamento di tono per affrontare una materia più ardua via via che il suo cammino salvifico si compie appressandosi alla gran luce di Dio. Famoso è l’esordio del Purgatorio con l’accenno alle « migliori acque » che si aprono dinanzi alla « navicella del suo ingegno », per cui è necessario che « la morta poesì resurga » e « Calliopè alquanto surga / seguitando il suo canto ». Analogo invito troviamo nel xxix del Purgatorio, al momento di rappresentare i misteri della processione : con l’invito alle « sacrosante vergini » muse che lo aiutino a « forti cose a pensar mettere in versi » (vv. 37-42). L’ascesa nei cieli del Paradiso è tutta contrassegnata da questa necessità d’innalzamento del canto : ben 36 versi del i° canto dedicati ad una invocazione ad Apollo ed alle Muse che lo sorreggano nell’impresa dell’« ultimo lavoro » che gli farà meritare la corona poetica. Ma già tutta la Commedia, fin dal suo primo concepimento nell’ultimo capitolo della Vita nuova imponeva uno stile ed una forma più alta rispetto alle precedenti esperienze giovanili, per poter lodare Beatrice « più degnamente dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna » (xlii) : allusione non solo ad un raffinamento formale, ma ad un radicale mutamento di registro in direzione dottrinale e morale. Per far ciò, naturalmente era necessario sciogliere molti nodi e rinunciare a radicate compromissioni, ch’erano poi la sua storia ed esperienza precedente, umana e poetica. Un tal itinerario si snoda come in figurale processo attraverso tutto il poema, ma in particolar modo nella parte finale della seconda cantica, tra precisazioni, messe a punto, rivendicazioni che in apparenza possono sembrare persistente adesione e non dismessa con16. Idem, i, 83-84.
42 michele dell ’ aquila tinuità di affetti, ma in realtà si configurano quali funzionalmente sono, presa di distanza e sostanziale ripudio. Non è un caso che una tal mutazione si svolga tutta nel segno della poesia come terreno più proprio e congeniale agli interessi ed alle compromissioni di Dante, ed assuma l’andamento e le forme di una figuralità penitenziale, attraverso incontri e discorsi in cui s’intrecciano il doloroso bisogno di ammenda dei peccati, con la liberazione dai nodi che tennero non solo Bonagiunta e il Notaro, ma lui e gli altri poeti nuovi di qua dalla vera alta poesia della lode di Dio. Si compie con gli ultimi canti del Purgatorio il ciclo penitenziale dell’antico amore stilnovistico nella luce di una finalmente retta aspirazione al bene supremo della Bellezza/Verità. Ma già ve n’è un preannunzio negli episodi ‘letterari’ della cantica : non può più esservi comprensione né indugio al dolce canto di Casella, l’amico della giovinezza spensierata, intorno al quale si raccolgono come incantate le anime sulla soglia del monte : Catone le disperde, richiamandole al dovere di espiazione. Belacqua, liutaio pigro anche nell’aldilà come era stato in vita, ricorda una amicizia e dimestichezza terrena che sono anch’esse da rimuovere. Oderisi miniatore richiama Dante alla vanità della gloria umana ed all’alternanza del successo di questo e di quello. Un itinerario penitenziale inteso a mostrare che anche nel comparto a lui più caro, quello dell’arte e della poesia, altre radici, più profonde, ed altre mete, più alte dovevano nutrire quel suo bisogno di Verità. La scelta del canone classicistico e l’affidamento al magistero degli antichi poeti rispetto ai nuovi della giovinezza traviata viene da lontano ed è dichiarata fin dall’inizio del viaggio. Solo Virgilio è « colui da cui i’ tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore« (Inf. i, 86-87). Tale scelta è ribadita con l’apparizione di Stazio, che può intendersi quasi come un ‘alter ego’ dello stesso Dante a riaffermare fedeltà al modello e amore verso l’Eneide (« de l’Eneida dico, la qual mamma / fummi, e fu nutrice, poetando » ; 17 ma Dante aveva usato espressioni analoghe in più parti del poema) ; quello Stazio che nella suggestione di Virgilio cantò d’Achille e di Tebe e meritò « le tempie ornar di mirto … tanto fu dolce suo vocale spirto ». 18 E va subito rilevato il richiamo e la persistenza sulla quale s’insisterà in tutti gli episodi successivi ad un lessico connotativo di una poesia (dolce, dolcezza, 17. Dante Alighieri, Purg. xxi, 97-98. 18. Ivi, 88-90.
dante e gli auctores 43 etc.) che può richiamare lo stilnovo, ma solo in apparenza, poiché nello stesso tempo lo rifiuta, rinnovandone il senso intimo in una più alta luce d’amore. Di qui il suo volger lo sguardo a Virgilio e agli altri antichi, come a riceverne più alta autorizzazione. Il distanziamento di Dante personaggio e di Dante poeta dalla sua prima materia amorosa risulta evidente lungo il cammino della Commedia, che nel suo dinamismo interno si configura quasi come un vero e proprio romanzo di formazione scandito nelle sequenze della medievale commedia dell’anima, in cui il personaggio è Dante pellegrino, architetto Dante poeta, e vi sono mentori progressivi di eccellenza e stazioni di esemplarità, va di pari passo con il superamento della sua esperienza poetica giovanile, con il distanziamento dai primi maestri e la ricerca di altri modelli ed autori. Nei confronti del primo Guido rimane, naturalmente l’affetto e la riverenza (« il padre / mio e delli altri miei miglior che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre », 19 così come verso tutta quella esperienza giovanile riguardata con compiacimento storiografico e definitorio della poetica del gruppo (« I’ mi son un che quando / Amor mi spira », etc.) ; 20 ma s’intende subito trattarsi di una chiusura di conti col passato. Ora altri sono i suoi modelli, i suoi autori : di Virgilio, eletto a guida anche spirituale, dirà « Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore », Inf. i, 85-87. Auctores (da Augeo, accresco), sono quegli scrittori la cui opera, ed in certo modo la vita, ci fanno crescere, c’innalzano, accrescono altezza ai nostri scritti, conferiscono autorità referenziale alla nostra epressione ed agli stessi pensieri. La dichiarazione di Dante « Tu sei solo colui da cui io tolsi lo bello stilo che m’ha fatto onore » esprime pienamente il legame intellettuale e morale, oltre che affettivo nei confronti di Virgilio, relativamente al « bello stilo » etc. Nel dinamismo del viaggio ultraterreno che si configura quale parafrasi dell’itinerario di salvezza dell’uomo, la sostituzione di Beatrice a Virgilio nella guida dell’anima verso Dio risulta raffigurato il passaggio all’insegnamento di altri libri, di altri auctores, filosofi, teologi e mistici che nel Paradiso prendono il posto dei poeti. Insieme al distanziamento si fa strada peraltro un processo di 19. Dante Alighieri, Purg. xxvi, 97-98. 20. Idem, Purg. xxiv, 52-54.
44 michele dell ’ aquila consapevolezza di una responsabilità della letteratura e dei guasti ch’essa può produrre oltre l’intenzione dell’autore. Un processo di autocoscienza che investe Dante stesso in quanto poeta e partecipe di quella produzione amorosa che la prospettiva salvifica del poema gli fa riconoscere tristemente suggestiva. Alcuni passaggi del poema sembrerebbero avvalorare questa ipotesi. Tra i poeti del Limbo oltre Virgilio e Omero « poeta sovrano » vi sono Orazio « satiro » e Lucano. Tra gli spiriti magni è Seneca « morale » : una scelta, anche tra le opere di uno stesso poeta, che sembra voler escludere di proposito la materia amorosa. V’è peraltro anche Ovidio, ma il rapporto con la sua opera, con molti prelievi nella Commedia, è limitato alle Metamorfosi ed ai Fasti, quanto dire alla materia mitologica, con esclusione di quella erotica. Più innanzi s’incontrerà Sordello, Stazio, ed ancora Bonagiunta, Guinizelli ed Arnaldo. Gli ultimi due tra i lussuriosi del Purgatorio. Anche questa una significativa dislocazione sulla quale torneremo. D’altro canto, Dante poeta sapeva bene, superata la giovanile folor, quale fosse la responsabilità della letteratura, quali i suoi fini (« che essa massimamente intende inducere gli uomini a scienza e virtù ») ; 21 quali i mezzi (con stile « temperato e virile », non già come nel passato « fervido e passionato » (Conv. i, i, 16) ; la lingua : il volgare illustre, atto a manifestare « altissimie novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconciamente », « pane orzato », che non gli verrà mai meno, pur satollando migliaia di persone, « principi, baroni, cavalieri, e molta altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine che sono molti e molte in questa lingua volgari e non letterati » (Conv. i, ii). E sa anche di dove attingere la materia : da quel genere da lui praticato delle canzoni dottrinali nelle quali, sul modello degli antichi autori, ha dato prova del « bello stilo che m’ha fatto onore » (Inf. i, 87). Ed elencava le ragioni di un tale impegno letterario : « La prima : dare a molti ; la seconda è dare utili cose ; la terza è sanza essere domandato lo dare, ché dare a uno e giovare a uno è bene ; ma dare a molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende somiglianza da li benefizi di Dio, che è universalissimo benefattore ». 22 Ricordo che il Convivio fu scritto tra il 1304 ed il 1307, e non è un caso che tutte e tre le canzoni in apertura dei trattati contengano nel 21. Idem, Conv. i, ix, 7. 22. Ivi, i, viii, 2-3
dante e gli auctores 45 primo verso la parola Amore. Ma di altro amore, evidentemente si trattava, rispetto a quello delle rime giovanili. Nella commedia dell’anima l’episodio rappresenta una confessione e una testimonianza ; una dichiarazione di amore positivo, ancorché imperfetto. La luce delle virtù terrestri di cui s’illumina la vita del saggio è destinata ad esser vinta, nell’esperienza salvifica, da quella assai più viva delle virtù cristiane e teologali. E già sulla spiaggietta del Purgatorio, un altro indugio ad un sentimento e ad un valore terreno, il dolce canto di Casella, viene denunciato da Catone come una colpevole negligenza, con una severità che coinvolge Virgilio non meno di Dante, e lo induce ad un eloquente riconoscimento della sterilità della cultura antica priva della Grazia. In quel turbamento sembra di riconoscere la consapevolezza da Virgilio raggiunta al suo limite spirituale : quell’amore esclusivo della poesia e dell’arte che è stato il segno della sua vita ed ora lo tiene in disparte dalla luce di Dio. Nel dinamismo della Commedia (i passaggi sono molti e non sarà qui il caso di enumerarli), nella progressione di esperienze e nel cammino penitenziale del pellegrino Dante (ma anche nella esperienza umana e poetica del poeta Dante visto che la composizione del poema durò quasi vent’anni, che sono vent’anni !) non v’è da ricercare immobilità che pongano al riparo da contraddizioni (più apparenti che reali, invero). L’itinerario di entrambi è « progressivo », neppure sempre rettilineo né privo di ritorni. Quel che poteva valere in un passaggio, nel chiaro/scuro dei sentimenti e delle idee, non vale in un altro, ove altre cose sono in luce, altre verità sono contemplate da ottiche diverse. Così anche la grandezza dei magnanimi, « che del vedere in me stesso m’essalto », i loro libri sui quali s’era formato, quella piccola/ grande gloria dell’esser « sesto tra cotanto senno », che aveva fatto sorridere Virgilio, e quel parlar di cose « che il tacere è bello », riconsiderate nelle luminose sfere del Paradiso – si rivelano a quello stesso Dante accresciuto d’esperienze e fatto salvo dalla Grazia, una piccola cosa, una gloriuzza, il pallido barlume di un lontano riflesso di quel fuoco d’amore che irradia l’universo, col rischio della vanità, anche se fondata sulle virtù. Altri libri si aprivano ormai per lui, altri autori, altri modelli, e saranno filosofi, teologi e mistici a prendere il posto dei poeti.
46 michele dell ’ aquila L’incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre tende a rimuovere con durezza sorprendente le ultime scaglie dell’amore terreno per la poesia ludica ed amorosa e a far comprendere essere la filosofia volta alla contemplazione del Sommo Bene il solo e vero libro cui attingere. Dante leggeva in Boezio, nel De consolatione philosophiae un passo (i, i, 7-11 e i, i, 1-4) in cui la filosofia scaccia dal letto del malato le muse « Sirene dolci fino alla rovina, meretrici che non possono lenire in alcun modo i suoi dolori, anzi li accrescono coi loro veleni cosparsi di dolcezza », proponendosi quale unico medico in grado di procurarne la salute. Il brano presenta notevoli concordanze con i versi di rampogna di Beatrice e la contrapposizione tra l’antico amore per la poesia e quello salutare per filosofia e teologia. Sono questi ormai i libri, gli autori, i modelli di Dante. La poesia sarà stata solo un mezzo per innalzarsi a tanto. In fondo l’ottica e la intentio della Commedia non è poetica né speculativa, ma etica. Lo dichiara Dante stesso nella Epistola xiii. « Genus vero phylosophiae sub quo hic in toto et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica ; quia non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars ». 23 Se è vero, come ha osservato Contini che se Dante « si è nutrito di filosofia e teologia, è forse opportuno non dimenticare che il suo primo pascolo è di poesia e di retorica », 24 è altrettanto vero che morale è la sua intentio. In Paradiso, nel cielo dei Sapienti, che fa quasi corrispondenza con il nobile castello del Limbo, incontrerà San Tommaso e San Bonaventura, Sant’Alberto e Pietro Lombardo, Paolo Orosio e Boezio « che il mondo fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode », Isidoro da Siviglia e Riccardo da San Vittore, « che a considerar fu più che viro », Sigieri di Brabante e Pietro Ispano, Elio Donato e « lo calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dottato ». In quel cielo Dante, megalopsicos, comprenderà che questi sono i veri grandi e che un altro vero grande, San Francesco, aveva celebrato la vera grandezza, e quindi la sua gloria, nell’umiltá, e perciò era piaciuto a Dio : « Quando a colui che a tanto ben sortillo / piacque di tralo suso alla mercede / ch’el meritò nel suo farsi pusillo... ». 25 23. Dante Alighieri, Ep. xiii, 40-41. 24. G. Contini, Alcuni appunti su Purgatorio xxvii (1959), ora in Un’idea di Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 171-190. 25. Dante Alighieri, Par., xi, 109-111.
dante e gli auctores 47 Farsi pusillo, umile nella gloria di Dio. Ma da quell’altezza tutta la terra, e le sue passioni per cui egli, Dante, era stato ed era exul immeritus, gli appare nella sua vera dimensione angusta e dissennatamente violenta : « l’aiuola che ci fa tanto feroci », a petto della quale l’anima non può che desiderare il ritorno alla sua vera patria celeste. [2004]
EPISODI DI DANTISMO NOVECENTESCO : I VERSI MILITARI DI UMBERTO SABA
L
o svolgimento della letteratura italiana fa registrare un particolare diagramma. Presenta fin dal suo primo tempo, vicino alle origini, opere ed autori di forte rilevanza che elaborano ed offrono modelli di grande levatura e durata. Intendo riferirmi, naturalmente, all’opera dei tre grandi trecentisti, ed in qualche modo, prima di essi, alla lirica d’amore di siciliani e stilnovisti. Dei tre grandi, si deve dire, non solo le opere passate in giudicato quali capolavori, la Commedia, il Canzoniere, il Decameron, ma per Dante lo sperimentalismo forte delle Rime, la forma enciclopedica del Convivio, l’attenzione alla questione della lingua ; per Petrarca l’epistolografia che si muove tra la riflessione morale, il trattato e l’autobiografia, il modello di autodafè poi così diffuso in letteratura costituito dal Secretum, il dubbio e l’oscillazione della volontà che anticipa l’inettitudine e l’inazione dell’eroe moderno, la pervasiva irruzione dell’Io nella scrittura letteraria ; in Boccaccio, oltre la forma novella e la sua disposizione in struttura organica, il romanzo d’amore, il romanzo boschereccio, l’erudizione enciclopedica, la biografia, la mitografia. Si potrebbe continuare. Ma fermiamoci qui. Va registrato peraltro che il sopraggiungere e il prevalere dell’umanesimo, con l’ammirazione del modello antico e l’uso del latino classico produsse un moto di indifferenza verso quella produzione trecentesca, che pure aveva avuto nel suo secolo grande diffusione. La si considerò, dapprima con circospezione e con certo riguardo, poi più manifestamente e senza remore, se non proprio rozza, certamente incolta, segno dei tempi in cui era stata concepita, ignara dello splendore e della lactea ubertas della latinità. Il latino di quei tre grandi, perfino del già umanista Petrarca, era considerato approssimativo, con molte concessioni all’uso ecclesiastico, superficiale la sua filologia ; perfino le rime, che pure si ebbero imitatori, erano soverchiate dai distici e dai metri classici della poesia che mutuava gli antichi. Non si vuol dire, naturalmente, che non vi fosse rispetto, soprattutto nella Firenze medicea nei confronti di quei padri della tradizione, ma l’omaggio rituale non escludeva la rimozione e la preferenza di altri modelli.
episodi di dantismo novecentesco 49 Superata la fase quattrocentesca dell’umanesimo latino, con il ritorno al volgare e la codificazione di Bembo, le nostre tre corone ripresero il loro viaggio negli svolgimenti delle nostre lettere. Viaggio travagliato e gloria non priva di entusiasmi, freddezze, distanziamenti, appropriazioni, tradimenti ed equivoci, di cui non si vuole qui, naturalmente, segnare i passaggi. Ci limiteremo a qualche episodio del cosiddetto dantismo nel Novecento letterario e particolarmente in un’opera di Saba. Ma varrà definire cosa abbia ad intendersi per dantismo. La consuetudine che tende a riconoscerlo quasi esclusivamente nel prelievo sporadico di qualche lemma, citazione o forma espressiva, magari con funzione contrastiva rispetto al sistema linguistico dominante, mi sembra francamente limitativa. La vicenda del petrarchismo (per far un esempio che può servire a chiarire il concetto) può essere illuminante. Il Cinquecento, soprattutto dopo la codificazione di Bembo che poneva il poeta aretino quale supremo modello per il genere lirico, traboccò da ogni parte di una lirica petrarchesca che delle rime del Canzoniere mutuava temi, lessico, stile. Gli stessi rimatori che Petrarca misero in burla, quale il Berni ed i berneschi, ne assumevano metri, figure e linguaggio. Ma cosa rimaneva in tutta quella produzione del Canzoniere ? che cosa dell’impianto strutturale lungamente perseguito dal poeta ? della tensione sentimentale e morale che lo portava a disegnare un libro/ itinerario di pena, di pentimento e di salvezza ? S’intese che gran parte dell’eredità petrarchesca fosse nel limpido cristallo del suo stile, in un lessico rarefatto, tendente all’astrazione che ha lungamente condizionato il linguaggio lirico dei nostri poeti, rendendolo immobile e poco innovativo, quasi una maniera obbligata alla quale era difficile sottrarsi. Ma le oscillazioni della sua volontà, il dissidio interiore, il non poter volere, la strenua fede nella letteratura come istituzione e pratica di vita, la costruzione unitaria del suo libro di rime, ch’è un Canzoniere, un libro lungamente costruito, non già una silloge qualunque ? Il Cinquecento, con la sola eccezione (forse) del Casa, di Petrarca prese la forma ma non l’anima. Se ne ammirò e riprese lo splendore, la sonorità, la dulcedo e la gravitas, spingendone ancora innanzi gli effetti. I componimenti, così misurati dell’aretino, di calibrata misura e collocazione, si accumulavano nelle sillogi senza misura. Centinaia, migliaia di liriche, per ogni autore. Il solo grande Tasso ne annovera oltre millesettecento. L’accostamento di Tasso al
50 michele dell ’ aquila Petrarca va ricercato in altra sede, nelle oscillazioni dell’anima, nella tensione religiosa, nell’autobiografismo delle lettere, nelle tematiche dei dialoghi e dei trattati. Il petrarchismo cinquecentesco superficializza Petrarca, in fondo lo tradisce nel momento stesso in cui lo proclama quale modello. Il Seicento ne noterà irrispettosamente le mende (Tassoni) e ne mutuerà esasperandole le sottigliezze, il concettismo. Il Settecento lo rinnoverà in veste pastorale. Ma torniamo a Dante. L’assunzione di un dantismo lessicale è stato spesso adottato dai poeti, in condizioni diverse, in funzione antipetrarchesca, come a trovare in esso un riferimento forte di plurilinguismo alto-basso, colto-plebeo, per contrastare e sfuggire al monolinguismo alto della tradizione lirica dominata da lessico e stile petrarcheschi. Si accostano a Dante quanti trovano suggestioni nel suo sperimentalismo, nel suo espressionismo, nella complessità del disegno poematico, nella forma metrica della terzina, nel mix prosa-poesia del prosimetro, nel suo universalismo. Altra ragione di un accostamento alla lezione di Dante può essere riconosciuta nel bisogno di un referente forte, d’ ispirazione morale e religiosa o politica o filosofica da contrapporre alle vanità del tempo, alla frammentazione dei valori, alle frivolezze dell’edonismo, alle veneri della mitologia. Un esempio può esser riconosciuto nel dantismo di Lorenzo de’ Medici, di Michelangelo, di Campanella, dello stesso Manzoni degli Inni sacri. In quest’ultimo, a differenza dei primi, nei quali sono riconoscibili anche concordanze di stilemi e di lessico, non sembra esservi prelievo di forme espressive, ma una tensione fortissima, un procedere quasi ‘colluttatorio’ nella ricerca delle parole, con ripresa di latinismi in funzione di neologismi, nello sforzo di sottrarsi ai modi della vecchia poesia ed al suo splendore ornamentale : una forma fortemente espressiva, al limite dello sprezzo di ogni eleganza, che ricorda certo procedimento dantesco nei momenti di più forte tensione della sua creatività. Devo confessare che personalmente ritengo più significativo questo esempio di dantismo degli altri più segnatamente e limitatamente formali. Lascio da parte altre forme di dantismo, che pure sono riconoscibili ed hanno significato nello svolgimento della civiltà letteraria. Mi riferisco alla ideologia letteraria e politica che nell’Ottocento romantico e risorgimentale ha fatto di Dante oltre che il poeta delle passioni umane il padre della patria, il profeta dell’unità nazionale,
episodi di dantismo novecentesco 51 l’icona referenziale della civiltà e della lingua italiana nel mondo. E tutto ciò non importa se a prezzo di non poche contraddizioni ed aggiustamenti. Ma è un fatto che tutto il secolo, dall’Ortis di Foscolo, agli esuli della Partenopea, al giovane Manzoni dei Sermoni e del Carme all’Imbonati, a Leopardi delle canzoni patriottiche, a Mazzini a Gioberti, a tutto il dantismo neoghibellino, fino a Carducci ed a Bonghi espresse un forte dantismo che ebbe non poche ricadute negli studi, nelle edizioni, nella popolarità del poeta. E bisognerà non trascurare quel filone interpretativo eterodosso, a forte connotazione misteriosofica e palingenetica che partendo dall’Inghilterra del primo Rossetti e di Blake, riconoscendo in Dante un poeta impegnato in una grande impresa di redenzione dell’umanità oppressa dalla tirannide politico-clericale, attraverso le varie interpretazioni del Veltro e l’esegesi neoghibellina, giunge fino a Pascoli della Minerva oscura e di Sotto il velame e, dopo il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, a Luigi Valli dei « fedeli d’amore ». Dantismo anche questo, senza dubbio, anche se piegato a risolvere i grovigli della interpretazione e a stabilire una sunpateia intellettuale assai più che ad assimilazioni di forme espressive. Ma con Pascoli e Valli siamo alle soglie del Novecento. Sul dantismo novecentesco ha scritto parole illuminanti, com’è noto, Gianfranco Contini fin dal 1951, anzi dal ’39, se si considerano alcune osservazioni contenute nella introduzione alla sua edizione delle Rime di Dante. È un fatto che noi moderni ci sentiamo più solidali col temperamento, dico il temperamento linguistico, di Dante ; ma è altrettanto un fatto che la sostanza della nostra tradizione è più prossima alla cultura petrarchesca… 1
Il riconoscimento di un frammentario dantismo e di un prevalente petrarchismo novecentesco è stato sottoscritto, talora con eccessiva enfasi, da molti studiosi, da Getto a Bo a Petrucciani, il quale ultimo peraltro s’intrattiene sul rapporto tra poesia e scienza nel Novecento, che può essere ascritto ad ascendenze dantesche. Con più larghe aperture di credito da Caretti per l’area fiorentina e da Dionisotti per quanto attiene alle ragioni patriottico-ideologiche che vi sarebbero sottese ; mentre a percorrere con maggior convinzione la linea dell’influenza del plurilinguismo dantesco sui poeti del Novecento 1. G. Contini, Preliminari sulla lingua di Petrarca, « Paragone », aprile 1951, poi in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1979, pp. 170-171.
52 michele dell ’ aquila sono Guglielminetti, Bigongiari, con molte riserve Ramat, più decisamente la Nòferi e recentemente Luigi Scorrano. 2 Tutti, naturalmente presentavano argomenti convincenti e ricchezza di esemplificazioni non difficili da trovare nel panorama vasto e differenziato della produzione poetica del secolo. Mi sembra peraltro resistente l’impressione che la gran parte delle individuazioni non fuoriescano dalla contrapposizione plurilinguismo dantesco-monolinguismo della tradizione della impostazione continiana, e concentrandosi soprattutto nella individuazione dei prelievi lessicali o stilistici, finiscano per riconoscere alla fin fine un dantismo frammentario, eletto per una scelta di campo o difesa espressiva. Che è poi anche la tesi di Scorrano, quando con larghezza di argomenti, afferma che « negli smarrimenti e nelle incertezze di un secolo tanto lacerato, gli scrittori nella loro autonoma visione del mondo, hanno cercato di pareggiare i propri con i “passi fidi” del poeta ; sono andati dietro le sue “fidate spalle” ». La stessa tesi radicale di Getto, sommaria e forse ingiusta in enunciato, non sembra nella sostanza superabile, per l’assenza nella nostra vicenda novecentesca di una poesia di forte tensione morale e cognitiva che possa aspirare ad un paragone non frammentario con il precedente dantesco. Pound ed Eliot non ci appartengono. E forse nella mutazione dei tempi e dei valori, è Dante nel suo più complessivo e profondo significato che ci rimane lontano, almeno nella sfera della creazione poetica. Il più sostanziale accostamento a Dante nel Novecento l’avrebbero compiuto i filologi che hanno lavorato sul testo, gli studiosi della cultura medioevale, i critici e commentatori. 2. G. Getto, Dante e il gusto del Novecento, articolo del 1946 raccolto poi in Poeti, critici e cose varie del Novecento, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 208-221 ; C. Bo, Dante e la poesia italiana contemporanea, « Terzo programma », 1965, 4 ; M. Petrucciani, Dante e le poetiche contemporanee, in Idoli e domande e altri studi di letteratura contemporanea, Milano, Mursia, 1969 ; C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, « Rivista storica italiana », lxxviii, 1996, poi in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967 ; L. Caretti, Dantismo fiorentino, « L’approdo letterario », 43, 1968, poi in Antichi e moderni, Torino, Einaudi, 1976 ; M. Guglielminetti, Con Dante attraverso il Novecento, in Tetrarca fra Abelardo ed Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Bari, Adriatica, 1969 ; S. Ramat, Una traccia dantesca, in La pianta della poesia, Firenze, Vallecchi, 1972 ; A. Noferi, Dante e il Novecento, « Studi danteschi », xlviii, 1971, L. Scorrano, Modi ed esempi di dantismo novecentesco, Lecce, Adriatica salentina, 1976 ; Idem, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994.
episodi di dantismo novecentesco 53 Ma per restringerci a Saba, sono note certe affermazioni contenute in Storia e cronistoria del Canzoniere : 3 Petrarca paragonato a una candela, rispetto al sole Dante. Un vero rovesciamento della tesi di Bembo, che pur nel rispetto formale tributato al poeta della Commedia, ne rimuoveva l’influenza, come di poeta rozzo e primitivo, preferendogli Petrarca raffinato e moderno. Di Dante Saba mostrava di apprezzare la vastità dell’opera la complessità del disegno, lo sperimentalismo linguistico che sentiva assai più ricco di sollecitazioni rispetto al monolinguismo esangue del poeta di Laura, la capacità di esprimersi nel mix prosa/poesia, come nella Vita nuova, ma anche nel Convivio, ove s’era fatto commentatore di se stesso ; e sappiamo quanto ciò potesse sembrare importante al poeta triestino autore di una Storia e cronistoria della sua opera ; ne ammirava la compresenza nei temi e nel linguaggio di alto e basso, colto e plebeo, la padronanza di livelli linguistici vari e compositi. Insomma a lui, Saba, che cercava strade fuori dalla tradizione accademica e fuori dalle strettoie dell’ermetismo, una forma che fosse popolare e colta nello stesso tempo, che potesse fargli dire di aver usato « trite parole che non uno osava » – la rima fiore/amore « la più antica, difficile del mondo » – la gran riserva di Dante doveva sembrare più congeniale del vitreo Petrarca, dal quale pure prese), ma non da quello logorato ed estenuato da secoli di petrarchismo. Mi soffermerò solo su di una sezione del Canzoniere sabiano, quella dei Versi militari che si presenta in struttura compatta e quasi immutata nelle complesse vicissitudini del libro. Ad accentuarne la compattezza, già notevole fin dalla prima edizione nelle Poesie del 1911, provvide lo stesso Saba nella scelta e sistemazione delle sue liriche giovanili nel 1921, e poi in maniera immutata nelle successive edizioni del Canzoniere. I Versi militari 4 vi apparivano ristretti nella compagine di 27 sonetti, con soppressione di alcuni componimenti difformi nel metro, e 3. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondatori, 1977, p. 28 : « Chi molto fa molto sbaglia, nell’arte come nella vita, perfezione e grandezza non vanno sempre d’accordo. Dante ha sbagliato più e più spesso del Petrarca ; ciò non toglie che questi stia al primo come una candela al sole. E chi esamini con occhi acuti un breve componimento, concepito nell’intento di raggiungere la perfezione assoluta, e nient’altro che quella, si accorge ben presto che le imperfezioni resistono, hanno solo mutato di proporzioni ; sono cioè rimpicciolite com’è rimpicciolito il resto ».
54 michele dell ’ aquila con lo spostamento del Sogno del coscritto nella sezione delle Poesie dell’adolescenza e giovanili, a farvi felicemente da lirica junctura. Trieste e la Lina sembrano lontane da quei versi pensati e buttati giù dopo le marce nelle camerate di una caserma salernitana. Ma non al punto di esserne assenti, che, anzi, quei versi potrebbero leggersi anche come una ininterrotta epistola amorosa di un fantaccino ancora in bilico tra diversità e medesimezza, il quale scopre per la prima volta, tra i sudori delle soldatesche fatiche, una riposante animalità di ristoro alle pene assai più laboriose dell’intellettuale. Ma restringiamoci per un momento alla dimensione metrica, agli schemi di struttura, alle frequenze lessicali e stilistiche di essi. Si tratta – come Saba stesso ebbe modo di osservare – [di] « una serie di 27 sonetti, regolari per il numero e la disposizione degli endecasillabi, irregolari, ma non sempre, per il gioco delle rime ». 5 Quelle irregolarità, in effetti, erano più notevoli di quanto lì non si dichiarasse : in quasi tutti i sonetti gli schemi regolari delle rime risultano frequentemente modificati, con inversioni, corrispondenze, richiami di rima che si sovrappongono alla consuetudine consolidata in un metro tra i più rigidi e chiusi, quale è appunto il sonetto. Le anomalie vanno dalla smagliatura di una sola rima (quasi sempre nelle terzine), fino alla quasi totale irregolarità di corrispondenze. Pur nella diversità delle frequenze, sembra di intravedere una certa maggior inclinazione per la rima baciata, per richiamo della quale si registrano le trasgressioni più numerose, soprattutto nelle terzine, ed ogni volta che il poeta sembra voler enfatizzare un sentimento, un passaggio. Ciò porta alla predilezione per un certo tipo di schema che, come si vede, privilegia nell’interno le sequenze baciate. 6 4. I riscontri sono sempre relativi al testo dei Versi militari nella ed. de Il Canzoniere di Umberto Saba, Torino, Einaudi, 1958. II riferimento in nota sarà indicato con la sigla VM seguito dal numero progressivo del sonetto. Le Poesie di Umberto Saba, contenenti già i VM furono pubblicate in Firenze, Casa editrice italiana, 1911, con prefazione di Silvio Benco. Del Canzoniere del 1921 esiste una edizione critica a cura di Giordano Castellani, Milano, Fondazione A. ed A. Mondadori, 1981, in cui è possibile riscontrare anche per i VM il lavoro di correzione negli anni. L’edizione del 1932 ove i VM apparvero nella redazione definitiva, è intitolata Umberto Saba, Ammonizione ed altre poesie, Trieste, Libreria Antica e Moderna, 1932. 5. Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1977, p. 48. 6. Questi sono gli schemi metrici dei 27 sonetti : I (ABBA ABAB CCD DEE) ; II (ABBC CBBA DEF FDD) ; III (ABBC CBBC DEF DEF) ; (ABBA ABBA CDC EEF) ; V (ABBA ABBA CDC DEE) ; VI (ABBA ABBA CCD EDE) ; VII (ABBA ABBA CDD
episodi di dantismo novecentesco 55 Ma sarà ancora da rilevare tutta una serie di rime imperfette o insolite o sforzate ; di assonanze (persona con tuona ; campagna con accompagni ; vedere con levriere ; calpesto con grottesco ; stanchi con fanti ; ecc.) ; un ricorso frequente all’enjambement ; un lessico costantemente in bilico tra espressioni di parlato, fortemente realistiche, decisamente impoetiche, e qualche volta sgraziate (sudori, mezza lingua di fuori, macellato bue, ove il lavoro frutta, te la sgugni, me la spiccio, son borghese, ronfia, stalla, ecc.), e residui (o inserti ?) di linguaggio aulico, di costrutti astrusi, di stilemi un bel po’ lambiccati, di termini arcaici ricorrenti (fuore per fuori, lice per permette, doce per insegna, ecc.) che sembrano attendere da un calore esterno alla parola una attenzione o vanificazione di gradevolezza ; come in effetti accade per quasi incredibile miracolo. Ed ancora, una non coincidenza della frase lirica (o della frase, più semplicemente) con il verso. Per contrasto (anche questo incredibile), scopriamo poi che il lessico e le forme prevalenti di quei versi risultano di registro aulico, qualche volta perfino con effetto esasperato e stridente : il cielo arroventato, l’urto soldatesco, un pueril canto, la querela antica, il culmine lontano, il guerresco gioco, la tetra luce incerta, un sagace levriere, un soldatesco saio, i putri umor che suda, le iridescenti arene, la rea soldatesca, intentamente, un ciglio leso, i chiari occhi, l’aria del tuo viso, le chiare stelle, quell’argenteo gelo, la sabbia umida e netta, la luna ha un tenue velo, le piastre d’oro, i liquidi sentieri, ecc.). Certi versi sono addirittura cantati ma, sembrerebbe, non di rado, in un tono di falsetto, quasi per uno studiato effetto d’inserto di melodramma, o meglio di stornello popolare : giungendo con freschezza a me l’aurora ; Il volo che nel grano entra e poi scatta ;
Una citazione petrarchesca : a lenti e tardi passi vorrei pensosamente andare ; CDC) ; VIII (ABBC CDDA EFF EGG) ; DEE) ; X (ABBC CDDA EFF GHE) ; XI (ABBC CDDA EFE GGF) ; XII (ABBA ABBA CCD DCD) ; XIII (ABBA ABBA CDD CEE) ; XIV (ABBC CDDA EFE FGG) ; XV (ABBC CDDA EFF GEG) ; XVI (ABAB ABAB CDD CEE) ; XVII (ABBA ACCA DED EFF) ; XVIII (ABBA ACCA DED FGF) ; XIX (ABBC CBBA DED EGG) ; XX (ABBC CDDA EFF EGG) ; XXI (ABBA BAAB CDD CEE) ; XXII (ABBA ACCA DEE DFF) ; XXIII (ABAB BCCA DED EFF) ; XXIV (ABBA ABBA CCI) DFE) ; XXV (ABBA ACCA DEE DFF) ; XXVI (ABBA BCCB DEE DFF) ; XXVII (ABBA ACCA DED EDE).
56 michele dell ’ aquila e piú ancora, certe intere sequenze : Saperti amante e non poterti avere, star lontano da te quando in cor m’ardi [...] udir quest’acqua e non chinarsi a bere [...] ;
Che pensare ? Ad una incertezza di segno e faticosità compositiva ? All’inesperienza del giovane poeta che affastella materiali e cambia registri ancora alla ricerca di un suo stile ? alle difficoltà della dimora militare inadatta all’assidua applicazione della lima ? È Saba stesso a dichiarare : La licenza [poetica], se, per il motivo che diciamo subito, parve allora necessaria al poeta, non lo persuase mai interamente.
Ed il motivo sarebbe stato questo : Questi sonetti furono “improvvisati”, o quasi, fra il tumulto di una vita attiva, nella quale il poeta era caduto dalle sue solitarie fantasticherie e meditazioni. 7
Più tardi, rispetto a queste annotazioni della Storia e cronistoria del Canzoniere, Saba poco prima della fine, nel 1957, avrebbe fatto dire da Noretta : ... so benissimo, ed anche tu lo sai, che i tuoi cari Versi militari sono un’opera di giovinezza [...] e che, se ignorano [...] i pregi della sintesi, è perché, trattandosi di un affresco, dipinto – per così dire – sulle nude pareti di una camerata di caserma, dovevano ignorarli. Se dopo hai scritto più o meglio, la colpa non è del critico ; se mai tua. 8
Tanti anni prima, nel Sogno di un coscritto, che è addirittura del 1907, precedente i sonetti di cui parliamo, e quasi introduzione ad essi, aveva, senza parere, voluto quasi offrire la chiave di lettura di quella sua esperienza poetico-militare : Non un poeta, ero uno sperduto che faceva il soldato, guatandosi all’intorno, l’affollato mondo, stupido e muto. 9
Saba – si sa bene – è di quegli scrittori che sembrano aver già detto tutto di sé, storia e cronistoria, in chiaro e in filigrana ; da restringere tanto il margine del lettore e del critico, da far venir voglia quasi di 7. Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 48. 8. Il sogno di un coscritto (1957), in Prose, cit., p. 231 sg. 9. Il sogno di un coscritto, in Il Canzoniere, cit.
episodi di dantismo novecentesco 57 contraddirlo per partito preso. Ma questa volta non credo ve ne sia necessità. Quella incompiutezza, o apparente incompiutezza – che era poi sprezzatura – si dimostra in realtà ben deliberata. Come quell’accumulo di materiali diversi e quella intersezione di registri e variazione di toni. Quei sonetti, in apparenza difficoltosi e sconnessi, erano nati senza pentimento, e rimasero tali nelle successive edizioni, a ripercorrere le quali non si ritrovano se non lievi e rare correzioni, e quasi mai riguardanti riaggiustamenti di rima o eleganze di lessico. Eppure si sa bene quanto Saba fosse ligio agli schemi metrici, e con quanta cura rivedesse continuamente le sue cose. Per quei Versi militari, l’unica cura fu volta a rimarcarne la compattezza, espungendo tutto quanto vi potesse apparire non omogeneo per metro e per tono. Dunque, niente incompiutezza formale, che sarebbe stata inconcepibile rimanesse nelle edizioni successive alla prima. D’altro canto Saba stesso per quei suoi versi giovanili mostra di avere una particolare predilezione. Nel già citato ricordo-racconto del 1957 intitolato con ironia Il sogno di un coscritto, egli ce ne offre la prova ulteriore, con quel discorso messo in bocca alla Noretta, e quel lungo rimuginare inquieto del poeta malato che ancora non si rassegna, dopo tanti anni, alla incomprensione della critica per quelle sue cose giovanili, e ne prova “irritazione” ; che non si acquieta se non nel ricordo di quegli anni lontani e nel racconto dell’episodio della libera uscita e della cassiera di quel cinema di Salerno, in cima ad un’erta, come a Trieste, quando si ebbe, per pagare il prezzo ridotto del biglietto concesso ai militari, lui recluta non ancora in uniforme, la solidarietà dei commilitoni : – « non è ancora vestito, ma è uno come noi ! » – : una frase che schietta e senz’altre implicazioni com’era, suonava alle sue orecchie di letterato-intellettuale come la dichiarazione di una solidarietà, di una medesimezza popolare fino allora sconosciuta. ... i Versi militari (belli o brutti che siano) sono nati tutti allora [ci dichiara Saba], sulla soglia di quel cinematografo [...]. E non solo, ma anche, e soprattutto, il desiderio di fare di me stesso quel Ritratto d’Ignoto, che non mi è mai riuscito di realizzare, e, quindi, di dipingerlo [...]. 10
Ancora una chiave di lettura, dunque, che non discorda da quella più nota offerta nel sonetto 11 dell’Autobiografia che è del 1924 : 10. II sogno di un coscritto (1957), in Prose, cit., p. 234 sg.
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michele dell ’ aquila
Me stesso ritrovai tra i miei soldati. / Nacque tra essi la mia Musa schietta. / In camerata, durante i sudati / giochi, nella prigione oscura e stretta, / pochi sonetti mi cantai, beati/di libertà, per un’appena detta /vena di nostalgia qua e là dorati, /volti a chi solo il tuo ritomo aspetta [...] :
con la individuazione delle note dominanti di schiettezza e nostalgia di canto e beatitudine di libertà. 11 Ed ancora Saba, a difendere quei versi, anzi a sollevarli sull’altra produzione parla di una « prima volta che Saba canta attraverso figure » ; di quei « miei versi militari, che sono molto belli » ; « concepiti nella maniera forte di Saba » (dobbiamo intendere nel senso della schiettezza e del realismo ?) ; « fatti per resistere – come infatti hanno resistito – al tempo ». 12 Tutto chiaro, dunque ? Tutto dichiarato, come in apparenza avviene, per ogni passaggio di questa « troppo facile poesia » di cui già Pasolini aveva sottolineato la difficoltà ? 13 E proprio non dice nulla il silenzio disorientato della critica, intorno al 1911, con l’eccezione di Aldo Valori ? Saba se ne duole, fino ad affermare che in un paese più spiritualmente vivo di quanto fosse allora l’Italia, l’apparizione dei Versi militari sarebbe stato un piccolo avvenimento letterario. 14
I Versi militari portano in fronte una data : Salerno, 12° Fanteria, 1908. Carducci era appena scomparso. Il grande amatore D’Annunzio continuava a far vittime (e versi) nella sua impareggiabile, ma ormai declinante stagione. Il fratellino Pascoli dalle sue piccole cose, dalla siepe e dall’orto, debordava ogni giorno più verso poemi di risorgimento e canzoni medioevali. Gozzano scriveva proprio in quegli anni La via del rifugio (1907) e nell’11 I Colloqui, avviando, nell`« attraversamento » di D’Annunzio, quella nuova maniera d’ironia e manipolazione volutamente manieristica del linguaggio poetico tradizionale già frantumato dal Pascoli, e quell’operazione linguistico-prosodica intesa a sostituire al canto un tono disincantato e colloquiale, in cui peraltro il canto era ridotto non di rado, per deformazione, a note di falsetto. Montale ed Ungaretti, se non in fasce, erano ancora sui banchi della scuola. 11. In Il Canzoniere, cit. 12. Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 51. 13. P. P. Pasolini, Saba, per i suoi 70 anni (1954), in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960, p. 380 14. Storia e cronistoria del Canzoniere, cit., p. 54.
episodi di dantismo novecentesco 59 La critica aveva dunque ragione per essere distratta dietro a futuristi e crepuscolari (che erano le avanguardie del momento) da non riconoscere una poesia nuova al punto da poter sembrare ottocentesca e betteloniana, mentre in realtà anticipava tutti (intendo lo svuotamento per stanchezza e caduta di tutti), per offrirsi fresca e verde « come foglietta pur mo’ nata » all’ammirazione ed ai nuovi equivoci di lettori del secondo Novecento nauseati di ermetismo ed ansiosi di realismo a buon mercato e di poesia per il popolo. Altre disavventure per Saba, dunque. Ma non sarà il caso di accennarvi, tanto son note. 15 La realtà è la solita : che i poeti si offrono, quasi predestinati ed indifesi, all’appropriazione come al disprezzo. Ed il testo poetico è per sua natura un intreccio di diversi che può consentire, sotto parvenza di legittimità, letture preferenziali. E v’era certamente quello che Debenedetti disse « un sorprendente trapianto di verismo in poesia », che insieme ad un « lessico impoverito » potevano sembrare credenziali valide in quegli anni di populismo e neorealismo. 16 Ma solo insieme a molte altre cose, tante da renderne se non irrilevante, certamente meno rilevante la connotazione esclusiva. È v’era certamente il ritrovamento, anzi la scoperta, di un altro se stesso in quella dolce intimità, in quella beatitudine che si dispone ad un incontro, ad osservazione docile e fraterna, senz’altre implicazioni che un arricchimento di umanità. Saba il suo piccolo grande miracolo lo compie nella vita, prima ancora che nella poesia. Essersi saputo dislocare quasi naturalmente, d’istinto, senza sforzo apparente né polemiche fumose, contro le retoriche false del secolo, contro tutto quel che di guasto, di tronfio, dalle ideologie, dalla letteratura e dai modelli di pochi rifluiva sulla vita di tutti : in un ‘letterato’ come lui, quel miracolo di naturalezza appare superato solo dall’altrettanto miracolosa ed imprevedibile linea della sua poesia. Resta il fatto che, fuori di ogni retorica e luogo comune, in una ebbrietudine di lontananza, di fatica fisica, di sonno ristoratore, di distrazione e di vacanza dell’animo, Saba scopre altri valori, forse quelli veri della vita : « l’attenzione agli immediati grovigli vitali », 15. Per i diversi interventi critici, si veda tra l’altro il vol. La critica e Saba, a cura di Francesco Muzzioli, Bologna, Cappelli, 1976 16. Molte osservazioni acute di Giacomo Debenedetti su Saba sono nel vol. La poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, pp. 127-173.
60 michele dell ’ aquila come li disse Contini, la fatica fino allo stremo, gli abissi profondi e grevi del sonno, la giovinezza tenera, fisicamente forte eppur disarmata, la spensieratezza senz’ombre, la malinconia di un momento o di una sera In questo spazio esistenziale, quotidiano e dimesso, anzi ‘borghese’, per dirla con valenza militaresca, si dispongono le lunghe ore di camerata o delle corvées, quando si muta « in vile / spazzino il fante » ; le marce sotto il cielo infuocato « per polveroso piano / ed erte che il tedio senza fine allunga » ; le incresciose dimore nella « prigione oscura e stretta » ; i sonni ebeti e lunghi ; i giochi fanciulleschi, anzi di animalesca tenera ed irruente giovinezza. E proprio una di queste scene, quella dei « due giovani cani » ramazzanti e correnti per il cortile della caserma, è quella che l’attenzione degli antologisti ha proposto come esemplare : il cortile della caserma nella luce dell’alba, con venti umidi e freschi ; i volti fanciulleschi delle due reclute ; il cupo turchino dei berretti ; il loro sgambettare giovane, il presentat’arm con la ramazza ; la lotta, la corsa pazza, le esclamazioni in gergo di reclute ; l’arrendimento in quell’atto tenero e confidente degli ultimi versi : motteggiando, mi presero le mani / Ed io sorrisi, ché ai piccoli snelli / corpi, agli atti parevano gemelli. 17
Ma c’è dell’altro : la scoperta di una dimensione fisica, e quasi animale della vita. Non è un caso che la metafora fatica umana/pazienza animale sia così ricorrente in questi versi, che offrono un bestiario rilevante : bue, pecora, branco, mulo, levriere, cagnazzi, bestie, cani, e per estensione, stalla, fieno, sonno, ed ancora per estensione, bambino, giovani, fanciulleschi, e via dicendo : immagini di una fatica estenuante ed inutile, da sopportare come una imposizione, e, in fondo alla giornata, il sonno ristoratore, ebete, allucinato, greve, animale, fanciullesco, indifeso, fiducioso : Così che intorno io mi ritrovi il bello /lasciato quando qui venni a marciare, / e i sonni dell’infanzia a ritrovare.
Arsura di sete, di sole, di polvere, di pesi, di fatica durante le marce, insetti, cavallette, zaini affardellati, caporali clamanti, ufficiali dai verdi occhi freddi e crudeli, prigioni strette e buie : sofferenza dun17. U. Saba, Versi militari, xvii.
episodi di dantismo novecentesco 61 que e fatica. Ma anche scoperta di nuove dimensioni, imprevedibili, affascinanti del mondo : In quella medesimezza con il popolo, in quella vita quasi animale, buttati carponi sull’erba, nelle “tattiche” di esercitazione, poteva accadere che si scoprisse un’ottica della vita e delle cose di imprevedibile essenzialità, un’ottica radente, dal basso, che fa vedere il tutto in altra prospettiva, più vera, forse, comunque più naturale : E vedono il terreno oggi i miei occhi / come artista non mai, credo, lo scorse. / Così le bestie lo vedono forse ; / Le bestie per cui esso è casa, è letto, /talamo, è podere, è mensa, è tutto. / Vi godono la vita, ogni suo frutto, / vi danno e vi ricevono la morte [...].
L’esame non si ferma qui. L’intreccio tematico e stilistico è fittissimo : impressioni, riflessioni, diario, racconto, amplificazione, mistificazione, grottesco, ironia, idillio, nostalgia, canto, sorriso. Mille fili intrecciati a dar consistenza al testo, com’è sempre della buona poesia. Si potrebbe continuare con queste indicazioni : è, in fondo, la lettura che Saba suggeriva. Saba che si premura di difendere questi versi dalle riserve di qualche critico. 18 Ma non vogliamo seguire Saba nella sua vicenda esistenziale né insistere sulla condizione d’animo all’origine di questi Versi militari. Lo abbiamo fatto in altro studio. Quel che preme qui dire è che per una operazione del genere occorreva a Saba un codice linguistico vario, di grande amplitudine ; in quello scorcio di secolo, nella compresenza delle esperienze poetiche coeve, il plurilinguismo dantesco poteva offrire scaffali vasti di riferimento ed autorizzazioni non oppugnabili. Uno spoglio delle concordanze e dei prelievi può essere indicativo : In Vita di guarnigione leggiamo : « Dio sa quest’arte s’io l’apprenderò » : richiama il dantesco « ma i vostri non appreser ben quell’arte », Inf. x, 51 ; « S’egli han quell’arte, disse, mal appresa », Inf. x, 77. « Ramazzavo, una Dea che ho in cuore ascosa”, Servizio interno, 8 ; ascondere, ascosa hanno ben 12 occorrenze nella Commedia. « Gente dai visi ebeti o cagnazzi », Il capitano, 16 ; cagnazzo è lemma infernale 18. La polemica con Claudio Varese è riportata nella prima pagina di Storia e cronistoria del Canzoniere, cit. Il Varese è tornato recentemente su Saba con un saggio : Il Canzoniere di U. Saba, « La Rassegna della Letteratura Italiana », gen.-ag. 1981, p. 61 sgg. Il riferimento al mio altro studio è a M. Dell’Aquila, Saba dei Versi militari, « Otto/Novecento » 1983, 2, pp. 81-92.
62 michele dell ’ aquila dantesco. « Noi cui la vita tanto sangue costa », Dopo una passeggiata, 6 ; in Dante, Pd. xxix, 91, « Non vi si pensa quanto sangue costa » ; « Se qui l’occhio non falla », Bersaglio, 4-14, in Dante sette occorrenze per falla, fallare. « Quel suo aspetto un poco di Farinata », Il capitano, 14, richiamo dantesco. « Questa che giace e ronfia è gente nuova », Dopo il silenzio, 7, in Dante « La gente nova e i subiti guadagni », Inf. xvi, 73, con altre tre occorrenze : « quando la gente nova alzò la fronte », Pg. ii, 58 e « la gente nova Soddoma e Gomorra », Pg. xxvi, 40. « Stavo nella trincea ghiacciata e stretta », Vita di guarnigone, 55, Dante : « ch’io vidi due ghiacciati in una buca », Inf. xxxii, 125. « Ove al rezzo dei grandi alberi antichi », Così passo i miei giorni, 13, « allor che al rezzo della pia dimora », La sera, 14 ; e in Dante « e triema tutto pur guardando il rezzo », Inf. xvii, 87, « e io tremava ne l’etterno rezzo », Inf. xxxii, 75. « Quel ferreo ben vigilato serrame », L’intermezzo de la prigione, 57, in Dante « la qual sanza serrame ancor si trova », Inf. viii, 126, « umilemente che ‘l serrame scioglia, Pg, ix, 108. « Tranquillerà », L’intermezzo de la prigione, 48, Dante : « buon ti sarà per tranquillar la via », Pg. xii, 14, « Or sappi che là entro si tranquilla », Pd. ix, 115. Uno spoglio più ampio esteso ad altri comparti del Canzoniere può servire di conforto. Esempi solo per scorrere un lemmario comune : abbaiare, abbicare, abisso, accorare, affannare, agghiacciare, apprendere, ascondere, aspetto, attristare, bando, beato, broda, cane, cagnazzo, carco, cerchia, ciglio, croce, cura, discendere, discoprire, dispregio, doglia, dolci amici addio (Pg. viii, 5 e Addio, 2), errare, fallare, femminetta, figgere, fioretto, fiso, imbrunare, innova, landa, lito, lucere, mandra, natio loco, onesto, panni bigi, piova, pispigliare, pondo, ragionare, ratto, riguardare, ristare, sanza fine amaro (Dante, Giù per lo mondo sanza fine amaro Saba, ch’oggi è presente sanza fine amaro, Il caffè dei Negozianti), scernere, serrame, snelletto, soletto, tardo, tranquillare, trasmutare, trasvolare, turba, vespero, viaggio, vista. 19 Ma non è tanto rilevante la concordanza o il prelievo lessicale, che può anche essere eco di memoria, anche se nei poeti nulla è casuale, quanto la scelta di campo, l’opzione plurilinguistica, l’intreccio alto-basso, colto-plebeo, l’accostamento di un forte realismo di stile ‘comico’ con ricercate espressioni al limite dell’arcaismo e dell’alambicco letterario, l’avventura del viaggio con sdoppiamen19. Si veda il volume della Concordanza delle poesie di Saba, a cura di G. Savoca, Firenze, Olschki, nella serie delle concordanze della poesia del Novecento, ed anche il Dizionario dantesco della poesia del Novecento, di D. M Pegorari, Bari, Palomar, 2000.
episodi di dantismo novecentesco 63 to poeta/personaggio che fa un’esperienza nuova in un mondo sconosciuto, remoto, imprevisto e giustappone la sua coscienza di giovane/vecchio alla animalesca naturalezza di quei tanti giovani/ giovani. L’inclinazione a farsi commentatore di se stesso. La poesia dell’Alighieri, dalle rime di tenzone alle « petrose » alle cavalcantiane allo stile alto/basso della Commedia sembravano offrire approdi sicuri. In Storia e cronistoria del Canzoniere Dante è citato solo quattro volte, e di una si è detto. Saba dice di avere ammirazione per Leopardi, Petrarca, Shakespeare (i sonetti), e per le Satire di Ariosto. Ma Dante s’intravede (mi sembra) dietro molte sue affermazioni : quando contrappone la dimensione della profondità e dell’ampiezza a quella dell’altezza privilegiata dai critici che vanno dietro la lirica, una certa lirica, e trascurano l’opus compositum. Ungaretti, che pure gli è caro, è certamente un poeta solo in altezza, ma la sua silloge poetica s’intitolerà Vita di un uomo, aspirando ad una composita organicità. Altra considerazione relativa alla perfezione stilistica elaborata fino al parossismo, contrapposta alla forza creativa che traccia grandi linee e tiene d’occhio un vasto progetto complessivo. Ancora il poetare per figure. Saba afferma che la sua poesia sull’esempio di grandi modelli è poesia per figure, al punto da essere stato più volte tentato di intitolare il suo libro Canti e Figure : quale modello più grande della Commedia, anche per la epicità, altro carattere rivendicato da Saba (« la poesia di Saba non è soltanto lirica » 20 e presente in Dante, accostato ad Omero e a Shakespeare, per « ampiezza di respiro », estesi non solo in altezza, ma in profondità ed in larghezza, « la larghezza e la profondità di un mare ». 21 Così, secondo l’autore, « la poesia di Saba va sentita non soltanto nei suoi vertici, ma anche in tutta la vastità del suo registro e nelle linee interne della sua densità psicologica ». 22 Ed ancora la organicità del libro, il Canzoniere, contesto di tante parti che si susseguono e si rispondono, non antologizzabile, tracciando il viaggio di una vita, della sua vita. La sezione Autobiografia, arieggia non poco la Vita nuova, con quanto di terreno e di ultraterreno, di reale e di onirico vi si trova, con la tendenza anche ad un autocommento che richiama quello dantesco. L’ardimento di certi versi (« Nella rosata in cielo e in terra fresca / mattina io ben la 20. U. Saba, Storia e cronistoria, cit., p. 311. 21. Ivi, p. 314. 22. Ibidem.
64 michele dell ’ aquila ritrovavo… »). Più esplicitamente, in un passo del libro, trovandosi a riflettere su quel pericoloso restringimento di un concetto letterario per cui si fa coincidere la poesia con la lirica, o meglio la si limita sempre più strettamente alla sola lirica e addirittura a un modo particolare di concepire la lirica. A questo punto mi colse un senso di soffocamento, e anche un impeto di ribellione ; e per liberarmene, per respirare più largo e placarmi, mi guardai in giro, nel pomeriggio splendido, e pensai a Dante ; che nessuno potrà mai – io credo – misurare con simil metro. 23
L’ambizione di Saba era di « rappresentare la vita » ; altro che astrazione rimproveratagli e liricità ascrittagli. E forse non bisognerà perdere di vista nella ricerca di un certo dantismo di Saba la natura poetica « facile e difficile » (per dirla con una espressione sabiana) del suo Canzoniere ; il fatto che in esso, nonostante la segmentazione in parti in sé compiute, « tutto si tiene » come struttura irrelata e diacronica. La qual cosa introduce un altro elemento : il libro poetico quale romanzo di una vita o di una esperienza di vita, il libro quale resoconto di un viaggio esistenziale, quasi romanzo di formazione, oltre la frammentazione lirica novecentesca. Si rimanda in particolare ai Versi militari e ai sonetti di Autobiografia. Una peculiarità che in qualche modo avvicina a Dante, ritrovandosi in tutta l’opera sabiana. E bisognerà rimarcare, sia pure con qualche distanziamento da Pound e da Eliot, la funzione memoriale e conoscitiva riconosciuta alla poesia da Saba, anche in questo casi con chiara ascendenza dantesca. Vengo a concludere. Certo i prelievi (le concordanze) sono importanti, e quando sono una massa dichiarano una scelta di campo. Ma non mi terrei soltanto ad essi, quanto ad altre concordanze, di forma, di metodo, di sperimentazione, di sistema, di modo di rapportarsi al reale, di varietà e complessità. In altre parole, poteva darsi che a Saba, come ad altri, in quello scorcio di Novecento, per uscir fuori dalle vitree costruzioni della lirica ermetica e postermetica si offrisse come referente salvifico il padre Dante, la sua esperienza esistenziale e poetica, la sua concezione della poesia che, in polemica con filosofi e teologi voleva sollevata da una mera esperienza letteraria, che avesse essa stessa una alta 23. Ivi, p. 311.
episodi di dantismo novecentesco 65 funzione conoscitiva ; il suo realismo, la sua capacità di far interagire linguaggio e realtà, alto e basso della vita, colto ed incolto, per ottenere quello che Debenedetti aveva visto bene, cioè quel « sorprendente trapianto di verismo in poesia », anche se poi esso sarebbe stato fonte di tante ambiguità e sviamenti della critica sulla sua poesia. Dante, dunque, come via di salvezza, non la sola, ma non secondaria nella conquista di uno spazio, di una autonomia, di una voce propria nell’affollato coro della poesia novecentesca. In sintesi, si è tentato innanzi tutto di definire cosa abbia ad intendersi per dantismo novecentesco oltre il prelievo sporadico di qualche lemma, citazione o forma espressiva, magari con funzione contrastiva rispetto al sistema linguistico dominante. L’assunzione di un dantismo lessicale è stato spesso adottato dai poeti in condizioni diverse in funzione antipetrarchesca, come a trovare in esso un riferimento forte di plurilinguismo alto-basso, colto-plebeo, per contrastare e sfuggire al monolinguismo alto della tradizione lirica dominata da lessico e stile petrarcheschi. Si accostano a Dante quanti trovano suggestioni nel suo sperimentalismo, nel suo espressionismo, nella complessità del disegno poematico, nella forma metrica della terzina, nel mix prosa-poesia del prosimetro, nel suo universalismo. Altra ragione di un accostamento alla lezione di Dante può essere riconosciuta nel bisogno di un referente forte, d’ ispirazione morale e religiosa o politica o filosofica da contrapporre alle vanità del tempo, alla frammentazione dei valori, alle frivolezze dell’edonismo. Ma per restringerci a Saba, sono note certe affermazioni contenute in Storia e cronistoria del Canzoniere : Petrarca paragonato a una candela, rispetto al sole Dante. Un vero rovesciamento della tesi di Bembo, che pur nel rispetto formale tributato al poeta della Commedia, ne rimuoveva l’influenza, come di poeta rozzo e primitivo, preferendogli Petrarca raffinato e moderno. Di Dante Saba mostrava di apprezzare la vastità dell’opera la complessità del disegno, lo sperimentalismo linguistico che sentiva assai più ricco di sollecitazioni rispetto al monolinguismo esangue del poeta di Laura, la capacità di esprimersi nel mix prosa/poesia, come nella Vita nuova, ma anche nel Convivio, ove s’era fatto commentatore di se stesso, e sappiamo quanto ciò potesse sembrare importante al poeta triestino autore di una Storia e cronistoria della sua opera. Insomma a lui, Saba, che cercava strade fuori dalla tradizione acca-
66 michele dell ’ aquila demica e fuori dalle strettoie dell’ermetismo, una forma che fosse popolare e colta nello stesso tempo, la gran riserva di Dante doveva sembrare più congeniale del vitreo Petrarca, dal quale pure prese, ma non da quello logorato ed estenuato da secoli di petrarchismo. Uno spoglio delle concordanze e dei prelievi può essere indicativo. E se ne riporta qualche campionatura, in particolare dal Versi militari. E certo i prelievi sono importanti, e quando sono una massa dichiarano una scelta di campo. Ma non mi terrei soltanto ad essi, quanto ad altre concordanze, di forma, di metodo, di sperimentazione, di sistema, di modo di rapportarsi al reale, di varietà e complessità. In altre parole, poteva darsi che a Saba, come ad altri, in quello scorcio di Novecento, per uscir fuori dalle astratte costruzioni della lirica ermetica e postermetica si offrisse come referente salvifico il padre Dante, la sua esperienza esistenziale e poetica, la sua concezione della poesia che, in polemica con filosofi e teologi voleva sollevata da una mera esperienza letteraria ad alta funzione conoscitiva, il suo realismo, la sua capacità di far interagire linguaggio e realtà, alto e basso della vita, colto ed incolto. Dante, dunque, come via di salvezza, non la sola, ma non secondaria nella conquista di uno spazio, di una autonomia, di una voce propria nell’affollato coro della poesia novecentesca. [2004] Nota bibliografica G. Getto, Dante e il gusto del Novecento, articolo del 1946 raccolto poi in Poeti, critici e cose varie del Novecento, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 208-221 ; C. Bo, Dante e la poesia italiana contemporanea, « Terzo programma », 1965, 4 ; M. Petrucciani, Dante e le poetiche contemporanee, nel vol. Idoli e domande e altri studi di letteratura contemporanea, Milano, Mursia, 1969 ; C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, « Rivista storica italiana », lxxviii, 1996, poi in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967 ; L. Caretti, Dantismo fiorentino, « L’approdo letterario », 43, 1968, poi in Antichi e moderni, Torino, Einaudi, 1976 ; M. Guglielminetti, Con Dante attraverso il Novecento, in Petrarca fra Abelardo ed Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Bari, Adriatica, 1969 ; S. Ramat, Una traccia dantesca, in La pianta della poesia, Firenze, Vallecchi, 1972 ; A. Noferi, Dante e il Novecento, « Studi danteschi », xlviii, 1971, L. Scorrano, Modi ed esempi di dantismo novecentesco, Lecce, Adriatica salentina, 1976 ; Idem, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, Milano, Mondadori, 1977.
UN ROMPICAPO POETICO : PETRARCA RVF 66 L’aere gravato, et l’importuna nebbia compressa intorno da rabbiosi vènti tosto conven che si converta in pioggia ; et già son quasi di cristallo i fiumi, e ‘n vece de l’erbetta per le valli non se ved’altro che pruine et ghiaccio. Et io nel cor via più freddo che ghiaccio ò di gravi pensier’ tal una nebbia, qual si leva talor di queste valli, serrate incontra agli amorosi vènti, et circundate di stagnanti fiumi, quando cade dal ciel più lenta pioggia. In picciol tempo passa ogni gran pioggia, e l’ caldo fa sparir le nevi e ‘l ghiaccio, di che vanno superbi in vista i fiumi ; né mai nascose il ciel sì folta nebbia che sopragiunta dal furor d’i vènti non fugisse dai poggi et da le valli. Ma, lasso, a me non val fiorir de valli, anzi piango al sereno et a la pioggia et a’ gelati et a’ soavi vènti : ch’allor fia un dì madonna senza ‘l ghiaccio dentro, et di for senza l’usata nebbia, ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi. Mentre ch’al mar descenderanno i fiumi et le fiere ameranno ombrose valli, fia dinanzi a’ begli occhi quella nebbia che fa nascer d’i miei continua pioggia, et nel bel petto l’indurato ghiaccio che tra’del mio sì dolorosi vènti. Ben debbo io perdonare a tutti vènti, per amor d’un che ‘n mezzo di duo fiumi mi chiuse tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio, tal ch’i’ depinsi poi per mille valli
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michele dell ’ aquila l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia né suon curava di spezzata nebbia.
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Ma non fuggìo già mai nebbia per vènti, come quel dì, né mai fiumi per pioggia, né ghiaccio quando ‘l sole apre le valli. Al Chiarissimo professore e caro amico Vincenzo Cappelletti questo saggio di commento dedico con viva gratitudine
Trapassano anche i più aspri inverni, non mai la sua angoscia. Il senso del componimento sembra essere piano, e tuttavia ha dato luogo a non poche incertezze e contrasti tra i lettori antichi e moderni, forse perché perduti dietro a « un vento… ’n mezzo di duo fiumi / tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio », alla ricerca del senso univoco della poesia. Come se questa non fosse per sua natura affidata alla forza impulsiva dei significanti, alla molteplicità dei significati ed alla polisemia, alla dilatazione dei campi semantici. L’ intuizione di Mallarmé sul valore della suggestione (« le sugèrer : voila le rêve ! ») dovrebbe valere non solo per la poesia moderna, ma per tutta la poesia in quanto connaturata con la sua natura fantastica, affidata alla suggestione della parola, fatta di suono, splendore, capacità di evocazione, rapporto interattivo, metafora, contesto, non già quale formula di una equazione. Leopardi nel suo commento al Canzoniere, messo giù un po’ di malavoglia per l’editore Stella, ne riesce semplicemente, con sobrie note esplicative ed interpretazione di buon senso, aderente alla lettera, come deve farsi ad uso del semplice lettore, lasciando a chi vuole di cercar eventuali altri sensi. Due secoli prima Tassoni, senza calcare, come in genere fa nei confronti del poeta aretino, se la cava con alcune note chiarificatrici di punti oscuri, e con un freddo brevissimo commento finale : « Pare haver assai dello spezzato in questa sestina rispetto all’altre ». Delle altre del Canzoniere aveva detto bene solo della 22 (« A qualunque animale alberga in terra ») : « Ancorché la Sestina oggidì sia una sorte di composizione poco usata, per un certo mancamento c’ha di dolcezza, pochi nondimeno saranno per avventura quegli, a’ quali questa, come vaga, e leggiadramente tessuta non soddisfacci ».
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66 69 Muratori, altre volte più equilibrato e attenuativo nei confronti della severità tassoniana, per questa sestina ha espressioni di vera stroncatura : « Mi crederei più facile il discoprire col cannocchiale abitatori nel globo Lunare, che qui alcuna rilevante bellezza Poetica. Versi, e parole ; parole, e versi ; e poco o nulla di più. Sbrighiamoci dunque presto da così asciutto paese, e non me ne voglia male, chi ha interesse alla gloria del Poeta, perciocché io dico qui male, non del Petrarca, ma d’una Sestina fatta con poca attenzione da quel grand’uomo del Petrarca ». Ciò non gli impediva, peraltro, di riconoscere qualche bel verso qua e là : « Non dico però, che bei versi, belle frasi, e qualche nobile pensiero non s’incontrino in quelle del Petrarca, Ingegno fecondissimo, e veramente felice ; ma vi s’incontrano ancor i soprammentovati difetti, e questa medesima Sestina ( RVF 22 « A qualunque animale alberga in terra »), che pure è assai lodata dal Tassoni, potrà farne fede, senza ch’io m’affatichi a mostrarlo col dito ». Anche nei confronti della RVF 30 (« Giovene donna sotto verde lauro »), stesse riserve : « ci si dicono molte parole per conchiudere poco che vaglia, in materia di bei lumi Poetici, o pensieri pellegrini, forti, e delicati ». Solo per la RVF 80 (« Chi è fermato di menar sua vita »), una lode : « Ci trovo dentro non delle parole sole, ma de’ nobili pensieri ancora, e con felicità espressi, i quali tanto più la ragione insegna a prezzare, quanto più malagevole l’esprimerli bene colla schiavitù di quelle determinate rime ». Così per RVF 332 (« Mia benigna fortuna e ‘l viver lieto »), l’apprezzamento va per essere sestina doppia, dunque ancor più difficoltosa. Assai più vicino a noi Chiorboli giudica la nostra sestina 66 « di gran lunga inferiore alle due sestine precedenti (RVF 22 e 30) : faticosa già nelle tre prime strofe, diviene involuta e oscura nell’altre : lo sforzo opprime e soffoca la poesia, per quanto metta in evidenza una bravura singolarissima ; una bravura, se ci fosse lecito dirlo, sprecata ». Più obbiettivo il Carducci, che ci mette su di una traccia : « Questa sestina per istudio nella diversità del disegno e dei colori, bisogna raffrontarla alla canzone di Dante che incomincia Io son venuto al punto de la rota ». E dichiara la prima strofa meglio delle altre. Ma l’elenco dei consensi e dei dissensi sarebbe lungo, lunghissimo. Lo scarso entusiasmo per questa e per le altre sestine in generale risulta peraltro diffuso tra i lettori antichi e moderni, come per strut-
70 michele dell ’ aquila tura metrica costringente ad artifici e funambolismi verbali, e corre sotterranea pur nelle lodi ed isolati apprezzamenti. La sestina è un rompicapo, una camicia di forza per virtuosi ; così almeno la intendono alcuni. Altri ne riconoscono la straordinaria forza espressiva, concessa a pochi, pochissimi. Ma è poi proprio così ? Sei stanze, ciascuna di versi endecasillabi (almeno per Dante, che la prese da Arnaut Daniel, perfezionandone il sistema nell’unica sestina delle sue rime, « Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra »), senza legame di rima, se non quella, rigidissima, che lega le sei parole-rima della prima, sempre bisillabe, a quelle delle successive che le presentano uguali, ma in altro ordine. La scelta delle parole-rima cade spesso su di un lessico di realtà naturale, nel nostro caso, nebbia, venti, pioggia, fiumi, valli,ghiaccio ; ma anche in altri componimenti terra, selve, sole, giorno, stelle, alba, tempo, cielo, ombre, verde, etc. Legge di questo ordine è la cosiddetta retrogradatio cruciata, per cui il primo verso della seconda strofa rima con l’ultimo della prima, il secondo della seconda con il primo della prima, il terzo della seconda col penultimo della prima, il quarto col secondo, il quinto col terzultimo, il sesto col terzo. Lo schema diventa così ABCDEF-FAEBDCCFDABE-ECBFAD-DEACFB-BDFECA. L’ipotesi di una sestina doppia, come in Petrarca RVF 332, reitera lo schema. Il congedo è di tre versi che nei provenzali riprendevano le tre parole-rima più vicine ; ma Dante rese ancora più complesso il sistema richiamando tutte e sei le parole-rima, a due a due in ogni verso, con rima al mezzo. Va rilevato anche che per il vincolo del metro solo poche volte nella sestina il verso si distende in quello successivo per una estensione del concetto, corrispondendo quasi sempre questo compiutamente con l’estensione del verso. La sestina, che per i provenzali, e in qualche modo anche per Dante, non si distingueva dalla canzone se non per una particolare forma metrica e regola di rime, in Petrarca assume una fisionomia di forma metrica propria, e va rilevato il gioco ardito delle parole/rima che s’intrecciano in virtuosi richiami, già presente nelle petrose di Dante, nelle quali la rima obbligata del componimento esaspera le pene di un amore frustrato. Altro che rigidità del sonetto, che per la sua chiusa misura provocava le critiche del Gravina, come di componimento troppo stretto per alti concetti, troppo largo per miseri. Carducci però lo esaltava quale « Breve ed amplissimo carme », Muratori si dichiara disgustato :
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66
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Le Sestine del Petrarca, non che quelle de gli altri antichi, io a tutta corsa le soglio leggere, perché infin da’ primi anni cominciai a odiarle, e a credere, che tanto poco di buono si possa trovare in tal sorta di componimenti, che non meriti punto d’arrestare il guardo de gli studiosi. Io non pretendo che alcuno mi segua in questa antipatia, o si fidi di questo mio crudele giudizio. Ma dico bene, parendomi facile, che un’Ingegno anche fortunato, volendo comporre Sestine, cada in seccaggini, e pensieri stentati, e versi poveri di cose, o almen privi di cose forti, per cagione de’ ceppi delle Rime ch’egli volontariamente elegge. E se non altro, gli avverrà quasi sempre di far servire i pensieri alle rime, in vece di fare, come ragion vorrebbe, il contrario.
Una camicia di forza, dunque, da indossare per virtuosi. Ma i grandi poeti sono anche dei virtuosi. La differenza tra essi ed i virtuosi minori è data dal fatto che questi fanno del virtuosismo l’unica ragione poetica ; gli altri, i poeti, piegano le ingegnosità e le strettezze delle forme obbligate non già per un gioco, ma per esprimere una condizione interiore, obbligata e stretta anch’essa. D’altro canto tutto nella vita, non solo nella poesia o più generalmente nell’arte, si svolge nella dimensione di un limite, di una misura, di un condizionamento, di strette pareti entro le quali muoversi. Dante per rappresentare una passione torbida e chiusa che si scontrava con resistenze ed ostinazione (una donna Petra, o non piuttosto la Filosofia ?), aveva bisogno d’inventarsi un lessico ed una rima petrosa. E forse non è un caso che Alfieri, nel suo apprendistato poetico e nelle reiterate letture delle rime di Petrarca, nell’aspirazione a trovare una forma alta e severa, di costringente impegno stilistico ad incanalare la lava del suo poetico parossismo, notasse a margine molti versi delle sestine del poeta di Laura e segnatamente i versi 1-8, 12-18,22-24,27-28,33,37-39 di questa RVF 66, quanto dire i passaggi più intensi o difficoltosi. Petrarca si muove in tutto il suo Canzoniere, ed anzi in tutta l’opera e la vita, nello spazio chiuso delle sue contraddizioni. La resistenza della donna non è da intendersi solo come quella di una Laura-Dafne sfuggente al suo poeta, ma com’è noto ha altre implicazioni più larghe e molteplici. Così le difficoltà tecniche in cui il poeta volontariamente si chiude, l’uso obbligato delle sei parole-rima fissate nella prima stanza che si ripetono secondo una norma inderogabile, il limitato numero di combinazioni che costringe ad una faticosissima ricerca di immagini e di combinazioni logico-verbali, ben si addicono alla tensione psicologica che sostiene i componimenti.
72 michele dell ’ aquila Senza dubbio l’ingegno poetico di queste sestine, come delle petrose di Dante, è tecnico-espressivo oltre che psicologico, e ciò tanto nella ipotesi di una interpretazione realistica della passione, quanto allegorica, quale amore difficoltoso e non corrisposto per la filosofia, o per la gloria o per la pace dell’anima. Ma in ogni caso il trobar clou provenzaleggiante, con le ferree costrizioni che comporta e lo sforzo del poeta volto a muoversi e ad esprimersi entro la camicia di forza di una metrica complicatissima, ben corrisponde agli spasimi dell’anima nelle strette di una passione che non lascia respiro. Soccorre una confessione di uno scrittore contemporaneo, Gesualdo Bufalino, in una intervista rilasciata a Leonardo Sciascia relativamente alla composizione del suo intensissimo romanzo Diceria dell’untore : M’importava esorcizzare quell’esperienza (la malattia, che è il tema del libro), ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi, fu come un gioco serio : e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva (…), legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, né esoterico o cabalistico, ma insorgente da una parentela e coalizione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia…
Il poeta di Laura si misurò dunque con la sestina, inserendone il metro per ben nove volte nel suo Canzoniere (RVF 22, 30, 66, 80, 142, 214, 237, 239, 332) e già Dante nelle sue Rime aveva offerto un esempio di grande efficacia. La tradizione attraverserà poi i secoli della nostra poesia, arrivando fino a Ungaretti (l’intensissimo Recitativo di Palinuro), a Fortini (La sestina a Firenze), fino a Pasolini. Dinanzi alla discrepanza e freddezza di giudizi di lettori antichi e moderni sembra forse non azzardato avanzare un’ipotesi, e cioè che la questione riguardi non già il livello interpretativo ma tocchi ben più profondamente quello espressivo. Il poeta/personaggio riconosce, infatti, nella forma chiusa della sestina e nei campi semantici delle successive parole-rima (nebbia, venti, pioggia, fiumi, valli, ghiaccio, nel caso di RVF 66) come in un caleidoscopio immutabile lo sfondo paesaggistico del suo stato d’animo con suggestivo effetto comprensivo-ondulatorio che ben rappresenta nella mutazione dei campi semantici e nella suggestione degli stati d’animo la propria condizione trasmettendola al lettore.
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66 73 Di un tale effetto non sembra essere rimasto ignaro Giuseppe Ungaretti, il quale nella sua sestina Recitativo di Palinuro, con altre parole-chiave (furia, sonno, onde, pace, emblema, mortale) ricrea la suggestione nei termini di una classicità di alto livello. Qui, infatti, non già la passione amorosa, come in RVF 66, ma un sentimento epico d’impresa occupa gli scenari del canto, riproposti ossessivamente dalle parole- rima. Nessuna meraviglia, dal momento che tutto l’episodio è ispirato dai versi di Virgilio (Aen. v, vv. 827 sgg. e vi, vv. 337-392). La piccola flotta degli esuli troiani risale le coste tirreniche d’Italia, diretta alle foci del Tevere, dove i Fati hanno decretato che trovino una seconda patria. Ma i Fati sono volontà superiore che ha bisogno della concorrenza del valore degli uomini e della congiuntura degli eventi. Perciò è incerto il loro avverarsi e lascia nei cuori anche dei più consapevoli una ondulazione di misteriosa incertezza. A guidare la flotta è Palinuro, il più esperto dei nocchieri troiani, sfuggito alle mille tempeste e forse perciò fatto oggetto di invidia da parte degli Dei. Palinuro era di schiatta d’eroi, ma gli Dei sono più forti degli eroi e il Sonno, dio ombroso ed ingannevole, mette in atto la sua rivincita. Cala improvviso sul prode nocchiero e ne confonde la volontà d’impresa con fallaci visioni. La resistenza dell’uomo è strenua ma nulla può contro gli inganni del Nume. La scena è avvolta da un’ondulazione marina, i flutti confondono la rotta e le costellazioni del cielo perdono nitidezza agli occhi del timoniere che, infine, stremato, cade in mare abbrancato al timone ormai inutile. La rivincita della divinità sull’Uomo risulta così compiuta nella ondulazione degli scenari ossessivamente riproposti dalle parole in rima. Enea, accortosi dell’incertezza della rotta, prenderà il posto al timone e Palinuro, inseguirà invano a bracciate la nave fuggente, e troverà sepoltura su un lido che ne porterà il nome. Altre cose, dunque, il poeta affidava alla sestina ed alle oscillazioni ossessive evocate dalle sue parole-chiave. Ma si ritorni a RVF 66, che è la nostra sestina. Il senso si può riassumere così : trapassano anche i più aspri inverni, non mai la sua angoscia. Ma sono riassumibili le metafore dell’arte ? Si può riassumere, spiegando, il sorriso della Gioconda, la tensione che intercorre tra il dito di Dio e Adamo che si leva alla vita nella Sistina di Michelangelo ?
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michele dell ’ aquila Si prendano le parole-rima che ritornano nelle sei stanze : nebbia, venti, pioggia, fiumi,valli, ghiaccio. S’intende subito che il poeta vuol trasmettere una sensazione tempestosa, che come è prevedibile dalla natura passi all’animo, anzi, ne costituisca la metafora, il correlativo oggettivo, direbbe Eliot. L’impressione esce rafforzata dall’analisi interna della prima sestina : « aere gravato », « importuna nebbia compressa », « rabbiosi venti », fiumi coperti da lastre di ghiaccio a guisa di cristalli invece di erbette « pruine e ghiaccio ». Gravato è termine forte : esprime il gravame della nebbia compressa da venti insistenti, che prelude il suo convertirsi in pioggia (ma grave direbbe meno, osserva Chiorboli). I fiumi per il freddo sono sul punto di gelare (« e già son quasi di cristallo i fiumi »), con una progressione che si chiude sulla immagine finale di « pruine (alla latina, brine) e ghiaccio ». La seconda strofa di RVF 66 trasferisce tempesta, gelo e paesaggio invernale nell’animo dell’Io poetico, con relazione alla causa amorosa di un tale stato d’animo. Ritroviamo dunque espressioni quali « più freddo che ghiaccio », « gravi pensier », nebbia che si leva talora da « valli / serrate incontra a gli amorosi venti/ e circundate da stagnanti fiumi », mentre « cade dal cielo più lenta pioggia ». Il poeta ha introdotto alcuni elementi connotativi : le valli serrate agli amorosi venti parafrasano la sua dimora di Valchiusa lontana dalla donna amata ( gli amorosi venti, nel gioco consueto di Laura / l’aura amorosa). Più difficile l’individuazione degli « stagnanti fiumi » che, se riferiti al Rodano ed alla Durenza, che passano per Avignone, come vuole il Castelvetro con altri, presentano la difficoltà di non potersi definire stagnanti, non presentando nel loro corso gomiti o impaludamenti. Così altri intendono usciti dagli argini per la pioggia, e Carducci richiama Virgilio (Georg. iv, 288,« effuso stagnantem flumine Nilum » ; Tassoni crede ci si riferisca a « que’ fiumicelli che corrono per la valle », affluenti o rigagnoli ; Chiorboli, opponendo a Carducci che in Virgilio l’uscir fuori dagli argini è reso da effuso non già da stagnantem, vuole stagnanti con valore di irrigiditi per il gelo, con richiamo del verso 4 « e già son quasi di cristalli i fiumi » ; opinione del Chiorboli, ma già di Leopardi. E lascio da parte Vellutello che legge secchi, o addirittura il Daniello che chiama in causa la località di Acque Morte alle foci del Rodano, troppo lontana ad avviso di tutti, dalla Provenza di Petrarca e di Laura. Come che sia, il paesaggio è similitudine della condizione d’angoscia del poeta : « Et io nel cor
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66 75 via più freddo che ghiaccio / ò di gravi pensier tal una nebbia / qual si leva talor… ». Nella terza stanza il paesaggio muta : pioggia,ghiaccio, fiumi, nebbia, venti, valli delle parole rima risultano contrastate nei versi da immagini più temperate e quasi estive : la pioggia in breve cessa di cadere, il caldo sopravveniente fa sparire le nevi e scioglie i ghiacci, i fiumi vanno a valle gonfi e superbi per l’acqua affluita, non v’è nebbia, per quanto fitta che non si dissolva per forza di venti. E però il cambiamento naturale prepara nella quarta stanza il contrasto con l’immobile animo del poeta : a lui non valgono quei mutamenti, « anzi piango al sereno et a la pioggia / et a’ gelati et a’ soavi venti » ( come detto in molti altri componimenti), e vedrà piuttosto cose impossibili (« secco il mare e’laghi e i fiumi ») prima che madonna dismetta il ghiaccio del cuore e le nebbie del suo sdegno. Alla figura dell’ adynaton nella quarta stanza segue un antiadynaton nella quinta : finché i fiumi discenderanno al mare e le fiere ameranno l’ombra delle valli, quella nebbia persisterà dinanzi ai begli occhi e farà nascere dai suoi continua pioggia di lacrime, e persisterà nel petto di lei il duro ghiaccio che provoca nel suo dolorosi venti di sospiri. L’adynaton è figura retorica ricorrente, per esprimere cosa che è impossibile ad avverarsi. Così anche in RVF 22 vv.37-39. « Ma io sarò sotterra in secca selva / e ‘l giorno andrà pien di minute stelle / prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole ». E tuttavia, dirà nella sesta stanza, egli perdonerà a tutti i venti per amore di quello (l’aura /Laura) che in quel luogo (« ‘n mezzo di duo fiumi », il detto Rodano o il Sorga e la Durenza) lo chiuse come prigioniero « tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio » ; sì che egli poi in mille altri luoghi ove fu immaginò (dipinsi) la figura (l’ombra) di lei, incurante di intemperie e disdegni (« né calor né pioggia / né suon curava di spezzata nebbia »). Ma Tassoni, riferisce curava all’ombra rappresentata, cioè all’immagine di lei, « ch’ei dipingea con la mente », la quale « né Sol, né pioggia, né vento non potevano cancellare ». E però trova da ridire su « spezzata nebbia » per vento o tuono, che gli sembra improprio. Il passaggio della strofa sesta, versi 32-33 (« per amor d’un che ‘n mezzo di duo fiumi / mi chiuse », etc.) sembra riproporre la vexata questio del luogo dell’innamoramento, che la tradizione ed alcuni riferimenti del poeta vorrebbero nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, ed altri (con qualche indizio sparso dal poeta stesso) in
76 michele dell ’ aquila un locus amoenus in riva al Sorga. Tassoni non prende posizione. Molti antichi e moderni si limitano a spiegare « ‘n mezzo di duo fiumi », tra Sorga e Durenza, senza inoltrarsi nella questione del luogo dell’innamoramento.Il passo, secondo Santagata, documenta come l’isotopia Laura/l’aura, che si affermerà a partire da RVF 79,3, nasca dall’elaborazione del topos del vento che spira dal luogo dove spira l’amata. I due fiumi sarebbero Rodano e Durenza ad Avignone (cfr RVF 190, 1-3 « Ove Sorga e Durenza in maggior vaso / congiungon le lor chiare e torbide acque,/…ivi, onde agli occhi miei il bel lume nacque / che gli volse al bon porto, si ratenne / quella, per cui ben far prima mi piacque ». Dunque il luogo natale di Laura, non quello dell’innamoramento (Santagata). I tre versi del congedo si aprono ad una dolce ricordanza. Nessuna nebbia si disciolse sì rapidamente per forza di vento, né mai fiumi per forza di corrente, né si sciolse mai ghiaccio per calore di sole, come quel dì in cui la vide luminosa e dolce. Chiosa Tassoni : « Accenna la fugace dolcezza di quel giorno, come son tutte l’altre de li amanti ». Ed anche su questi versi s’incontrano pareri diversi : « quando ‘l sole apre le valli » è inteso da molti nel senso che scioglie i ghiacci che le ostruivano ; ma Leopardi : in primavera, « quando il sole apre il grembo della terra, esatto rovesciamento del virgiliano ‘Rura gelu tum claudit hiems’, Georg., ii, 317 ». La parafrasi che s’è tentata, come ogni parafrasi, fa forza allo splendore delle immagini. Basterebbe quel « dolce ghiaccio », ossimoro prezioso di dilatato campo semantico, a dar forza al componimento. Che dire dell’acqua chiara fresca e dolce che fu testimone di una vista (come in RVF 126), nel giorno dell’innamoramento o in uno dei (pochi) giorni benedetti di uno sguardo sereno, o come intende altri, per estensione metaforica, tra la giovanile bellezza (« ‘l bel verde ») e la seducente freddezza di lei (« il dolce ghiaccio ») ; e può forse assumersi nell’uno e nell’altro senso, tra loro interattivi. L’accenno al colore verde potrebbe implicare le speranze d’amore o di gloria, adombrate dalla relazione Laura/lauro, che peraltro bisognerebbe riconoscere in quel passaggio (« l’ombra ov’io fui »), l’alloro alla cui ombra io fui, che non si curava di intemperie, men che mai di tuoni e fulmini (« non curava di spezzata nebbia »), richiamando così il mito del lauro intangibile da fulmini, come detto in altri luoghi (RVF 24, 1-2 : « Se l’onorata fronde che prescrive /l’ira del ciel, quando ‘l
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66 77 gran Giove tuona » ; RVF 323, 33 sgg. : « folgorando ‘l percosse, et da radice / quella pianta felice / subito svelse » ; per cui Castelvetro : « Che è contra natura del lauro, che non è folgorato : E mostra che fosse contra natura che Laura morisse di simil morte » ; e spiega un po’ stranamente, essendo difficile pensare ad una tal condizione per un incontro d’innamoramento, « tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio » : tra l’erba e la rugiada. Più verosimile Tassoni che spiega « tra la fiorita erbosa riva, e l’acqua di Sorga, ch’ei chiama dolce ghiaccio per la freddezza, non perch’ella fosse gellata. E veggasi quello, che si dice nella Canzone Chiare, fresche et dolci acque ». Ma è « un intrico buio », ammetteva Chiorboli. Da quell’intrico, tuttavia, esce vincitrice la forza impetuosa e verde dei versi che è anche nelle espressioni forti, nelle rime dure, nel gelo dell’inverno e del cuore ; e che quella camicia di forza della sestina non sia casuale, ma rappresenti nell’andamento ondoso delle strofe « il cumulo delle memorie » e delle frustrazioni che « s’avvolve e pesa » in capo al naufrago d’amore. Non sfuggiranno le analogie con certe espressioni, anche nelle parole-rima, della canzone di Dante « Io son venuto al punto de la rota », ove troviamo « gelo » al verso.7, in rima ; « ombra » al verso 9, in rima ; « lo vento peregrin che l’aere turva » al,verso.13 ; « di nebbia tal, che s’altro non la sturba » al verso 18 ; « e poi si solve, e cade in bianca falda / di fredda neve e di noiosa pioggia,/onde l’aere s’attrista tutto e piagne » ai versi 20-22 ; ed ancora, per gli stagnanti fiumi nel senso di gelati : « Versan le vene le fummifere acque / per li vapor che la terra ha nel ventre,/ e l’acqua morta si converte in vetro / per la freddura che di fuor la serra ». Ed ancora nella sestina « Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra « , ove troviamo il « bianchir de’ colli / quando si perde lo color ne l’erba », i colli ricoperti « di fioretti e d’erba », « i fiumi a’colli », la « nera ombra » e il verde della natura e della vita in contrasto con la durezza ferrigna della donna petra. Anche nelle altre « petrose » di Dante, costante è il richiamo del freddo, del gelo, della neve, dell’« innoiato lungo tempo », dell’acerbità, della durezza diamantina.. Ed ancora un lessico forte aspro e duro : asprezza, natura cruda, aspro, petra, impetra, diaspro, arretra, arme, atarme, spezzi, asconda, fronda, rima, lima, scemi, scorza, forza, perverso, riverso,, stanco, disperso, squatra, atra, latra, rezzo, mezzo, borro, ferza, terza, sferza, inciso, fiso, saetta, vendetta.
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michele dell ’ aquila Nelle sestine petrarchesche ritroviamo forme di una tale sperimentazione petrosa : è il caso della sestina « Giovene donna sotto un verde lauro / vidi più biancha et più fredda che neve », RVF 30 ; e nella canzone RVF 29, « Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi », in cui si avverte l’ eco del provenzale Arnaut Daniel. Ma anche da taluni luoghi della Commedia (Petrarca, RVF 66, v. 16,« folta nebbia », Dante, Inf., ix, 6, per l’aere nero e per la nebbia folta » ; Purg., v, 109-111 « Ben sai come ne l’aere si raccoglie / quell’umido vapor che in acqua riede, /. Tosto che sale dove ‘l freddo il coglie » ; ed ancora : Purg., v, 118 « sì che ‘l pregno aere in acqua si converse » ; Petrarca, RVF 66 vv. 17-18 « sopragiunta… fuggisse », Dante, Purg.,v, 79-80 : « Ma s’io fosse fuggito in ver la Mira / quando fu’ sovragiunto ad Oriaco » Petrarca, RVF 66, v. 13 « In picciol tempo », Dante, Par., xii, 85, « In picciol tempo gran dottor si feo ». Ed ancora da Virgilio (per l’adynaton di versi 20-21, « Mentre …fiumi – Virg. Aen., i, 607-609, « In freta dum fluivi current, dum montibus umbrae / sustrabunt convexa, polus dum siderea pascet,/sempre honos nomenque tuum laudesque manebunt »), Lucano (iv, 76-77 : « nubes… graves » (« polo pressae largos densantur in imbres / spissataeque fluunt, nec servant fulmina flammas »), gli antichi, secondo un costume letterario non contraddetto, anzi, avvalorato da Petrarca, il quale riteneva che un autore moderno potesse e dovesse certificarsi su di un antico. Dante in quei componimenti faceva le prove delle rime chiocce che avrebbe poi usato in alcuni passaggi dell’Inferno. Oltre ogni rispondenza biografica e affettiva, esistenziale, andava costituendo un immenso magazzino di un lessico vario alto/medio/basso da cui attingere secondo le occorrenze. Petrarca, pur nel suo monolinguismo tendente all’astrazione semantica, non disdegnò di attingervi, e forse proprio l’occasione offerta dalla sestina, con le sue strettezze ed obbligazioni, poteva esser propizia ad una non dichiarata derivazione. Sulla base di alcune varianti attestate intorno al 1344 da manoscritti desunti da uno smarrito codice appartenente alla famiglia padovana degli Obizzi, si può presumere che Petrarca stesse allora limando la sua sestina RVF 66, la cui data di concepimento e di prima stesura può affermarsi precedente, ma non precisata. Da alcuni riscontri intertestuali, quali l’accenno a l’aura/Laura, l’ambientazione montana, invernale o autunnale, la chiusa valle, la contiguità tematica con
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66 79 alcuni testi di lontananza (RVF 37, 50), Santagata inclina a credere la data di composizione vicina a quella del primo viaggio a Roma tra il 1336 e il ‘37 o durante i primi tempi del soggiorno in Valchiusa, o forse concepita prima e poi con ritocchi e rifacimenti in Valchiusa. Comunque tra il 1336 ed il ’37, secondo altri nel dicembre del ’40 (Dotti), con successive limature nel ’43-’44. « Un testo antico, dunque, anche se non giovanile, la qual cosa spiegerebbe assai bene la stretta dipendenza dalla sestina dantesca e più in generale dal Dante della montanina e delle rime petrose ». Ci si è soffermati a lungo (forse troppo a lungo) sulle divergenti, qualche volta capziose interpretazioni, e sulle fonti, per mostrare quanto fitto sia l’ordito di un testo complesso quale è ogni testo poetico, facendo cenno alle diverse sensibilità dimostratesi nel tempo nei suoi confronti. Rileggere la sestina senza prevalenti preoccupazioni logico-geografico-cronologiche potrà forse restituire lo splendore alle parole e la commozione del sentimento. Inanellare « bei versi, belle frasi e qualche nobile pensiero » : ma basta questo alla poesia ? È ciò che si vuole da essa ? In fondo la (nostra) distanza dalle osservazioni e dalle critiche di Muratori e di altri è proprio in questo, nella considerazione dei mezzi e dei fini della poesia. Che può voler rappresentare anche uno stato d’animo d’angoscia, d’inquietudine oscura, di costrizione, e sceglie forme adeguate, la costrizione della sestina in questo caso, lasciando nell’ombra, come sono nell’animo, le dolorose certezze, preferendo le oscurità e le ambivalenze espressive, le metafore, i sensi riposti, rispetto alle forme care ai teorici della poesia/raison, per i quali, per dirla con l’abate Ceva, « la poesia è un sogno al cospetto della ragione ». Nella sestina 66 Petrarca dice di sé, utilizzando con straordinaria abilità tecnica il luogo comune secondo cui col mutare delle stagioni non muta il suo stato d’animo d’incertezza e frustrazione ; lo aveva fatto altre volte ; lo fa servendosi talora delle stesse immagini, dello stesso lessico, e stilemi, riprendendoli dagli antichi e dai moderni, sulla scorta di Dante, oppure aggiungendovene di nuovi. Ma nei meandri del suo animo, dalle volute strette delle parole-rima e della struttura obbligata, esce una storia di lontananza e di sofferenza, di desiderio e di sfiducia, di pena, di rimembranza e d’ineluttabilità che
80 michele dell ’ aquila rispecchia una situazione, quella che si ritrova in molta parte di questo canzoniere e consegna ancora a noi la modernità di un Io poetico divenuto esemplare. Così restano nella memoria commossa del lettore l’invernale paesaggio della prima stanza, i fiumi fatti quasi di cristallo, il cor « più freddo che ghiacci », la nebbia dei « gravi pensier », gli amorosi venti, i fiumi che vanno superbi allo sciogliersi delle nevi, il furor di venti, il suo piangere « al sereno et a la pioggia, / et a’ gelati et a’ soavi venti », l’amorosa prigione « tra ‘l bel verde e ‘l dolce ghiaccio », il sole che apre le valli. : lampi di luce, fotogrammi sfuggiti a una moviola che svolge e riavvolge senza tragua le stesse sequenze sull’onda ripetitiva delle parole-rima di una sestina/prigione. Nella sua astrattezza senza contorni, nella ostentata in/definizione reale, la poesia di Petrarca ( ma anche tutta la poesia), trae in fondo la sua maggior suggestione dall’essere polisemia, dalla capacità di saper dire molte cose in una, dal suo carattere di definito/indefinito/ infinito. [2002] Nota bibliografica Il testo della sestina e di ogni altro riporto da RVF si riferisce alla edizione del Canzoniere di Francesco Petrarca curata da G. Contini, Parigi, Tallone, 1949, poi con poche modifiche presso Einaudi, Torino, 1964 e successive ristampe. I testi di Dante sono nella edizione della Società dantesca italiana. Si offrono qui di seguito i riferimenti ai commenti petrarcheschi citati : Le Rime del Petrarca, con la interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi, Milano, presso A. F. Stella, 1826. Le Rime di Francesco Petrarca, con le considerazioni di Alessandro Tassoni e le osservazioni di Ludovico Antonio Muratori, seconda edizione, Venezia, 1741. F. Petrarca, Le Rime sparse commentate da Ezio Chiorboli, Milano, Trevisini, 1926. Le Rime di Francesco Petrarca commentate da Giosue Carducci, Severino Ferrari, Firenze, Sansoni, 1899. Le Rime di Petrarca brevemente sposte per Lodovico Castelvetro, Basilea, 1582, poi Venezia, 1756. Sonetti, Canzoni e Triomphi di Francesco Petrarca con la sposizione di Bernardino Daniello, Venezia, 1561, poi 1549. Il petrarcha con l’esposizione di Alessandro Vellutello, Venezia, 1588.
un rompicapo poetico : petrarca rvf 66
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F. Petrarca, Canzoniere, con il commento di Marco Santagata, Milano, « I Meridiani », Mondadori, 1996. F. Petrarca, Canzoniere, con il commento di Ugo Dotti, Roma, Donzelli, 1996. G. Bufalino, Diceria dell’untore, Milano, ristampa Rcs, 2003. G. Ungaretti, Tutte le poesie, Milano, « I Meridiani », Mondadori, 1988.
FOSCOLO, GABRIELE ROSSETTI E GLI ESULI ITALIANI A LONDRA
L’
Inghilterra ove nel 1824 sbarcava Rossetti, reduce da Malta e fuggiasco da Napoli dopo il fallimento dei moti del ’21, era la stessa ove era approdato Foscolo nel settembre del ’16, dopo la fuga da Milano ed il breve soggiorno svizzero, con l’aiuto di alcune conoscenze altolocate e l’interessamento dell’ambasciatore inglese, oltre che del conte di Capodistria, l’antico compagno di studi allora diplomatico di Russia. Londra si offriva in quegli anni come approdo senza alternative per gli esuli di ogni provenienza europea dopo il crollo napoleonico e la restaurazione vendicativa di molti stati europei. Parigi al ritorno degli aristocratici fuorusciti viveva anni di terrore bianco ed era dunque da evitare ; solo dopo la rivoluzione del ’30, insieme a Bruxelles, sarebbe stata meta preferita dell’esilio. L’Inghilterra era pur sempre la vincitrice di Napoleone, ma nella sua costituzione e tradizione liberale appariva quale terra di libertà ; la società, quella aristocratica ed altoborghese, nell’arco di tutto il secolo xviii aveva acquisito modi di vita signorili e tolleranti, e cominciava a considerare le cose d’Europa con distacco misto a misurato interesse dall’alto di una sua privilegiata ed agiata posizione. Le buone famiglie avevano ripreso la tradizione del grand tour in Italia ed in Grecia, interrotta negli anni del blocco continentale e delle campagne militari. Con il diffondersi del romanticismo la fama del suo Shakespeare, mito e modello di ogni romantico, sospingeva la cultura e la letteratura inglese tra le maggiori e più suggestive d’Europa ; fama e fascino rinverditi dai suoi poeti e scrittori moderni, Scott nel romanzo, Byron, Shelley, Keats, Wordsword nella poesia ; mentre una quantità di ammiratori, studiosi, archeologi, antichisti, collezionisti e storici dell’arte, sostenuti da rilevanti possibilità economiche, percorrevano l’Europa e l’Italia, visitavano i monumenti antichi, frequentavano le botteghe antiquarie a caccia di tesori da portare nelle patrie dimore. Ma era soprattutto l’interesse nei confronti dell’antica civiltà classica a muoverli, l’aspirazione a conoscerne la storia, la letteratura, la lingua a determinare nei primi decenni del secolo xix un nuovo classicismo
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 83 che non contrastava con la moderna sensibilità romantica, e ne costituiva anzi l’anima, con vibrante nostalgia del passato. Tutto ciò produceva nelle classi colte e ricche una sempre più diffusa conoscenza della lingua italiana accanto al latino ed al greco, con interesse e disposizione di ascolto nei salotti, nelle sale di conferenze e nelle riviste di temi storici, letterari, archeologici, eruditi ed ammirazione e rispetto della cultura e dell’eloquenza non solo negli studiosi, ma anche nei collezionisti e nei nobili e ricchi amatori, nonché perfino nell’attività politica e nelle cariche di governo, alle quali non si accedeva, da entrambi i partiti Tory e Wigh, se non in possesso di una salda cultura classica e di una forbita eloquenza. La scelta dell’Inghilterra e di Londra per gl’intellettuali esuli italiani poteva esser considerata anche da questo punto di vista, essendo l’unico luogo, nonostante la poca conoscenza della lingua, ove poter nutrire la speranza di potersi sostentare con il proprio lavoro intellettuale, con lezioni, collaborazioni editoriali e conferenze, per chi lontano dalla patria non aveva altri mezzi. Non v’era famiglia aristocratica e ricca che non avesse o aspirasse ad avere un maestro d’italiano per i propri figli in preparazione o a compimento del viaggio in Italia. Nei confronti della quale, per le antiche memorie e per l’arte e le rovine che ne rendevano affascinante l’immagine e vivo il sentimento, per l’intensità delle passioni, per il clima più dolce, per il carattere incline all’allegria, ma anche per non aver avuto nella storia moderna ragioni di contrasto e di guerra, la disposizione d’animo inglese era favorevole e si guardava con simpatia, ora che il pericolo bonapartista era debellato, alle sue aspirazioni all’indipendenza ed a una civile libertà. Gli esuli dunque erano considerati con rispetto, certamente senza sospetti né prevenzione. Foscolo, peraltro, veniva con l’aureola vera o presunta del perseguitato politico, non senza una sua fiera ripugnanza ad ogni servile acquiescenza al potere : gl’inglesi sapevano del suo coraggio nell’aver saputo rivolgere a Napoleone dure parole di monito in occasione di Campoformio e poi dei Comizi di Lione ; sapevano della sua partecipazione coraggiosa ed attiva alle vicende che seguirono a Milano la caduta del Regno, a rischio della vita e dell’esilio ; inoltre egli aveva reso omaggio al valore britannico nell’episodio dei cimiteri inglesi e di Nelson in alcuni versi Dei Sepolcri (« Pietosa insania che fa cari gli orti / de’ suburbani avelli alle britanne / vergini, dove le conduce amore / de la perduta madre, ove clementi /
84 michele dell ’ aquila pregaro i Geni del ritorno al prode / che tronca fe’ la trionfata nave / del maggior pino, e si scavò la bara », vv. 130-136) ; aveva tradotto un noto libro, Il Viaggio sentimentale, di un noto autore inglese, Laurence Sterne, modello del nuovo modulo ironico-sentimentale di tanti libri di viaggio del nuovo secolo. Greco di nascita, italiano di vita, grande artista e poeta, conoscitore profondo delle lingue e delle letterature classiche, provvisto di una discreta conoscenza del francese e di un poco d’inglese, sembrava unire tutti i pregi dell’interesse di quella società nei confronti dell’antico. Senza dire che era pur sempre autore di un romanzo, l’Ortis, noto in tutta Europa, la cui vicenda d’esilio egli in qualche modo impersonava. Ed a questo proposito non va trascurato il fatto ch’egli, anche per rinverdirne la suggestione e come per presentarsi al suo nuovo pubblico nella nazione in cui cercava asilo, si affrettò a ripubblicare il libro che già conteneva nella edizione zurighese del ’16 l’aggiunta della famosa lettera del 17 marzo, nella quale non a caso aveva accentuato il suo antibonapartismo. Quella edizione portava la falsa data di Londra 1814 e dichiarava di esser « l’unica rifatta sovra la prima », quanto dire una inesistente edizione veneziana anteriore a quella del 1802. Per questa e per altre affermazioni contenute nella Notizia bibliografica premessa al libro, Dionisotti ha affermato che « testo più bugiardo, dal frontespizio innanzi, non esiste nella storia della letteratura italiana ». 1 E tuttavia Foscolo aveva le sue buone ragioni. Pur essendo egli in tanti anni dalla prima redazione assai mutato, sempre più Didimo e meno Ortis, sentiva ora, in questa stretta drammatica della sua vita, che a quel libro era legato più di quanto non avesse creduto il suo destino : lo risentiva suo, e nelle rinnovate vicende di esilio e delusione politica, ad esso sentiva consegnata presso i contemporanei ed i posteri la sua immagine ideale. Gli premeva inoltre precisarne il messaggio in senso più alfieriano e meno sentimentale, in uno scostamento definitivo da quello che poté essere, e sembrò, il nucleo iniziale wertheriano di quella ispirazione. Nel riproporre, dunque, una nuova edizione, dopo tanti anni e mutar di eventi, non poteva ridursi solo (come pur fece) a semplici correzioni linguistiche e aggiustamenti strutturali. Ritenne indispen1. C. Dionisotti, Foscolo esule, in Appunti sui moderni, Bologna, il Mulino, 1988, p. 76.
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 85 sabile, invece, che la sua posizione politica ed il sindacato intellettuale da lui esercitato in tanti anni nei confronti del Potere repubblicano, napoleonico ed austriaco, e nei confronti della stessa figura del Tiranno, riuscisse più netta, come si era venuta configurando in tante occasioni di opposizione e di critica. Certamente non sfuggiva al Foscolo esule l’utilità di accentuare nel libro questo suo già marcato antibonapartismo, proprio nel momento in cui si accingeva a sbarcare in Inghilterra, ove si proponeva di ottenere fortuna e successi anche letterari in quella società liberal, cui peraltro non doveva essere sgradito per gli accennati trascorsi filoinglesi. Ma non si può ridurre l’operazione ad un mero calcolo di convenienza, anche se egli si affrettò a offrirne copia alle sue nuove altolocate conoscenze. Foscolo in quel sentimento si riconosceva ; riconosceva il significato e l’insegnamento di tutta l’esperienza giovanile e della maturità. E comprendeva che presso i suoi nuovi ospiti, egli era indefettibilmente legato alla figura simbolo del personaggio del romanzo. Tutto dunque sembrava cospirare per una buona accoglienza e per un sicura possibilità di autosostentamento in una società di diffuso benessere, avviata ad un vivace modello industriale, con organi di stampa ed imprese librarie ed editoriali che potevano contare su di un buon pubblico di lettori ed acquirenti ed erano in grado di intraprendere progetti ambiziosi, con remunerazione discreta ai collaboratori. Londra in quegli anni usciva dal lungo isolamento del blocco continentale tentato da Napoleone, durante il quale, peraltro, i suoi vascelli erano rimasti padroni delle rotte marittime che assicuravano i commerci d’oltremare. Non era ancora la megalopoli dai bassifondi paurosi che avevano indignato Dostoevskij a metà Ottocento, quando il processo di industrializzazione aveva raggiunto livelli di soffocamento urbano. E tuttavia, essa era la capitale pulsante di una nazione florida, già da un secolo protagonista della storia d’Europa e vincitrice dell’ultimo grande conflitto europeo. L’impressione di Foscolo e degli altri esuli che vi approdavano era di una città brulicante di folla, di carri, di merci, con la selva dei pennoni delle navi attraccate ai docks sul Tamigi ed il suono della campana dei Lloyds che ne segnalava gli arrivi. Ma oltre i quartieri commerciali si estendevano le ancora verdi praterie dei quartieri residenziali, con le dimore fastose dei ricchi signori terrieri, dei lords, delle famiglie in vista ; più lontano, intorno, l’immensa periferia di parchi e sobborghi, con
86 michele dell ’ aquila case modeste ma accoglienti secondo un costume non dismesso nel tempo. Il tutto avvolto in una bambagia grigia, argentea o nebbiosa secondo gli umori del cielo, tendenzialmente umida e fredda, con qualche sprazzo di azzurro e di sole. In Inghilterra, nello Hampshire, Foscolo aveva un amico, William Stewart Rose, conosciuto in Italia nel ’14. Un personaggio bizzarro, reduce da una carriera politico-diplomatica dalla quale si era dovuto ritirare per un attacco di apoplessia che gli aveva prodotto danni nel parlare, ma gli aveva lasciato viva l’intelligenza e la disponibilità ai lavori letterari Nei tanti viaggi compiuti nel continente ed in Italia, aveva acquisito conoscenze discrete e si era prodigato nella diffusione in Inghilterra della letteratura italiana. Egli viveva in una sua altrettanto bizzarra abitazione non lontana dal mare. Foscolo rimase suo ospite per qualche tempo, dopo una fugace apparizione a Londra subito fatta curiosa al diffondersi nella società bene del suo arrivo. Rose gli fu utile nell’introdurlo in quella società e presso Lord Fox Holland, nella cui magnifica casa fornita di una ricchissima biblioteca si riuniva la società colta ed aristocratica, politici, ministri, funzionari di governo, critici, scrittori, il meglio di quanto ci fosse nella città, per pranzi, cene e vivaci conversazioni. Lord Holland si serviva per funzioni di segretario di un altro italiano, Giuseppe Binda, che scambiò molte lettere con il Foscolo e rimase per qualche tempo in buoni rapporti con lui. Quella società colta e signorile era divisa politicamente tra conservatori e liberali, il padrone di casa era un esponente del partito whig o liberale, ma nel costume inglese, a differenza di quello italiano, alla fermezza dei principi corrispondeva una grande tolleranza e rispetto per le opinioni contrarie, e non si concepiva l’ostracismo per amicizie o collaborazioni con l’altra parte ; così che Foscolo non ebbe mai problemi nella frequentazione delle case dei suoi ospiti, né nella collaborazione alle riviste d’opinione, potendo egli contare amici e accoglienza in entrambi gli schieramenti. Lord Holland gli si dichiarò ammiratore ed amico, avallando così la reputazione del poeta e dell’esule nella società, gli mise a disposizione la sua biblioteca e gli rimase fedele, nonostante certi incidenti e malintesi, e le asprezze del carattere di Foscolo, durante tutta la sua permanenza in Inghilterra, fino alla morte, soccorrendolo con aiuti d’ogni genere, anche in denaro nelle strettezze degli ultimi anni. Quelli dall’autunno del 1816 al ’18 furono anni di intenso fervore e di grandi speranze. Cominciava per il poeta una nuova esperienza
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 87 di vita, assai fertile sotto il profilo degli studi e delle opere, amareggiata però e resa precaria dalla comprensibile aspirazione a non sfigurare nel tenore di vita, egli senza beni di fortuna ed esule, con i suoi aristocratici ospiti ; presso i quali la povertà – come egli soleva dire – era sentita quasi come una colpa. Dissimulerà gli scarsi mezzi con ostentazione di benessere, spendendo prima ancora di riceverli i proventi non scarsi delle sue collaborazioni con editori e riviste letterarie, indebitandosi in breve oltre il possibile. Le due più autorevoli riviste, la « Quarterly Review » e la « Edimburg Review » ed inoltre la « New Monthly Magazine » accolgono ed anzi sollecitano la sua collaborazione che tratta materie storiche e letterarie d’Italia, tra cui un quadro della rivoluzione napoletana del ’99, e medaglioni sui maggiori poeti ed artisti italiani dal medioevo al rinascimento ; argomenti di grande interesse per il pubblico inglese in quegli anni. La remunerazione è notevole, di alcune centinaia di sterline per articolo. Ma gli era necessario pagare i traduttori inglesi, ricercare fonti, consultare opere di difficile reperimento. S’intravedeva la prospettiva di una esistenza sicura e onorata, ma intemperanza e dismisura erano nel suo carattere e contrastavano ogni considerazione di prudenza. La società inglese lo riceveva con un misto di ammirazione per il suo ingegno e per il fascino che ne emanava, ma con inevitabile imbarazzo per le sue intemperanze, per il modo tribunizio ed intollerante di affermare il suo punto di vista, per la suscettibilità : comportamenti tutti che mal si integravano con una società dai modi flemmatici e riflessivi. Si aggiunga il suo stato di salute, particolarmente aggravato dal clima umido e freddo ; e la solitudine in case arredate alla meglio, prive delle comodità cui era avvezzo. Anche in questi primi anni, che furono i migliori, la condizione di vita in certi momenti è penosa. Sono solo, deserto, non ho in casa chi mi aiuti ; e propriamente mi pare che l’ingegno mio si sia irruginito. E poco più ch’io mi stia in questo modo di vivere, io cadrò nella stupidità e nella fredda disperazione, perchè ho bisogno d’amore e d’essere amato… » (Lettera a Lord Holland, del luglio 1817).
Alla Quirina confidava i suoi stati d’animo depressi : Il clima è funesto a’ forestieri, il carbone col quale unicamente si può scaldare le stanze, l’acqua pessima, per me segnatamente che non bevo vino, il modo di nutrirsi di carni sanguinolenti, ma più che altro la tristezza e lo
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scoraggiamento che prostrano l’anima mia, hanno forse rieccitato, ma certamente inasprita la infermità ch’io credeva guarita per sempre. 2
Ma i suoi umori erano mutevoli. In certi giorni appariva a cavallo o in carrozza, in elegante abbigliamento e con servitore, o invitava compatrioti e conoscenti a colazione o a pranzo. Frequentava i salotti e le case dei personaggi in vista, del mondo politico e di quello letterario. I volumi londinesi dell’Epistolario ci rendono questa varietà di umori, la molteplicità e l’urbanità dei rapporti, l’eleganza letteraria della corrispondenza, l’entusiasmo dei progetti, l’incredibile capacità di lavoro in paese straniero, con scarsa conoscenza della lingua, il fuoco e l’ira delle controversie e delle liti, le malinconie, l’immane fatica di districarsi tra orgoglio e bisogno, umiliazioni ed espedienti. In casa di Roger Wilbraham conobbe John Cam Hobhouse con il quale avviò una collaborazione letteraria intesa a fornire all’inglese notizie sulla situazione letteraria italiana e sui suoi principali scrittori. La collaborazione, retribuita, sarebbe dovuta rimanere segreta, ma allorché apparve il saggio dello Hobhouse Sullo stato attuale della letteratura italiana, appendice al commento al Childe Harold di Byron, esso suscitò grande scalpore e risentimento in Italia negli ambienti letterari ed in quelli del « Conciliatore ». Molte notizie e profili di autori apparivano chiaramente di mano di persona ben addentro nella materia, non certo di uno straniero quale era l’Hobhouse. Inoltre vi erano giudizi sprezzanti nei confronti della polemica romantica, liquidata come « idle enquiry », una futile questione, e silenzi eloquenti, come l’assenza di ogni cenno su Manzoni. I sospetti, anzi da parte del Di Breme le certezze, caddero su Foscolo che se ne chiamò fuori, senza risultato, e la polemica, che coinvolse anche l’Hobhouse, allontanò definitivamente Foscolo dai suoi giovani amici milanesi, i pochi che avesse ancora in una città ostile. Il capitolo delle polemiche e delle incomprensioni tra Foscolo ed i romantici italiani è stato largamente lumeggiato, ed io stesso mi ci sono soffermato in altra occasione, né sarà il caso qui di tornarvi. 3 Le ragioni ed i torti erano da entrambe le parti, ed il discorso sem2. Epistolario, vii, p. 131. 3. M. Dell’Aquila, Primo romanticismo italiano, Bari, Adriatica, 1976 ; Idem, Profilo di Ludovico Di Breme, Schena, Fasano, 1988 ; Idem, Foscolo e il Romanticismo, Bari, Adriatica, 1992.
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 89 brava tra sordi, tanto erano mutate le posizioni nei tempi mutati. Si aggiunga che Foscolo da Londra e dall’alto della sua opera precorritrice considerava con sufficienza tutta quella “futile polemica” di regole e di mitologia. Altri per lui erano il cuore del problema, il fine e i mezzi della letteratura e della poesia. Nei Discorsi sulla lingua italiana, nel Discorso sui poemi narrativi, e soprattutto nel saggio Della nuova scuola drammatica in Italia esprimerà giudizi impietosi, perfino su Manzoni e sul suo teatro storico. Né si deve perdere di vista, inoltre, che mentre in Inghilterra, dove Foscolo si trovava, la cultura classica era al centro degli interessi e degli entusiasmi, a Milano il gruppo dei romantici dichiarava di volgervi le spalle e di abbracciare la religione e il medioevo quali oggetto dell’arte, cosa ch’egli sentiva come inaccettabile. Dell’attegiamento foscoliano e dell’impressione ch’esso destava nella nuova generazione liberale italiana troviamo una testimonianza in Pecchio : « Rinchiuso sempre nell’antichità, come un antiquario in un museo, non arrivò mai ad intendere la differenza che passa tra que’ tempi… e i tempi moderni ». 4 Era sentito, dunque, dagli amici milanesi, nonostante tutto, come un uomo del passato, irrimediabilmente di altra generazione. Non tarda anche la rottura con lo stesso Hobhouse, cosa che fa cadere molti altri progetti letterari proprio mentre i proventi relativi, spesi in anticipo si trasformano in ulteriori obbligazioni finanziarie. Intanto viene affievolendosi l’interesse della società inglese per l’esule scontroso. Gli restano pochi amici, tra i quali lord Holland che gli rimane vicino anche in occasione dell’incidente della scomparsa delle presunte lettere autografe di Petrarca prese in visione da Foscolo e da lui smarrite ; con grande mortificazione, dinanzi alla richiesta di restituzione, protesta di voler compensare la perdita con un Omero postillato da Alfieri. L’inglese declinò l’offerta con rammaricata signorilità. Poi, fortunatamente, dopo alcuni anni le lettere saltarono fuori dalle pagine di un libro di Foscolo e poterono essere restituite con grande soddisfazione di entrambi. A proposito dei mutevoli umori di Foscolo, nel marzo del 1819, in una lettera a Robert Finch leggiamo : « Qui gli uomini mi sono amici – il clima avverso, e sono spesso malato ; e la fortuna non resta di menarmi a dure lotte – non però riesce a vincermi e l’onore mio che 4. G. Pecchio, Vita di Ugo Foscolo, Lugano, Ruggia, 1833, più volte ristampato.
90 michele dell ’ aquila serbo incontaminato, e la fama cresciuta, mi sono conforto a combattere ». 5 Interessante, anche, il rapporto non sempre cordiale, talora freddo, qualche volta risentito, con gli altri esuli italiani. Londra come si è detto era meta di esuli da tutte le parti d’Europa. Ecco come la descrive non senza ironia Giuseppe Pecchio che vi giunse nel ’23 : Nel 1823 Londra era popolata d’esuli d’ogni specie e d’ogni paese ; costituzionali volenti una sola Camera, costituzionali volenti due Camere,costituzionali alla francese, altri alla spagnola, altri all’americana ; generali, presidenti dimessi di repubbliche, presidenti di parlamenti sciolti a bajonetta in canna, presidenti di cortes disperse dalle bombe e uno sciame di giornalisti, poeti e uomini di lettere. Londra era l’Elisio d’uomini illustri e di eroi manqués. 6
Forse poteva esserci una ragione per Foscolo nel tenersi in disparte da quella folla inquieta di agitati e di postulanti. Molti, come si vedrà, vennero da lui. E ne ebbero ospitalità, sia pure in affitto, in uno dei cottages attigui al Digamma. Foscolo aveva portato con sé arrivando in Inghilterra un giovane greco, un tal Andrea Calbo, che gli avrebbe fatto da segretario ; ma ne fu abbandonato dopo pochi mesi. Tra i segretari, traduttori e copisti, che furono molti e spesso licenziati o licenziatisi per dispute con il poeta, vi fu anche tra il ’23 e il ’24 un tale Andrea Scorno ; e poi nel ’25 in qualità di copista un Giovanni Berra, giovane liberale che aveva combattuto in Ispagna ; e poi ancora nel ’27 un tale Giovanni Golla. Hobhouse sentì dire che Foscolo non andava a genio agli italiani di Londra. In effetti molti giudizi sprezzanti sui letterati italiani, sulle viltà e i tradimenti che avevano contrassegnato la caduta del Regno Italico nel ’14, i risentimenti espressi a gran voce nei confronti di questo e di quel partito in quelle drammatiche giornate nelle quali egli stesso fu coinvolto, non facevano bene alla causa italiana in Inghilterra, e questa era l’accusa ricorrente contro di lui, alimentata anche dal suo carattere spigoloso 5. U. Foscolo, Epistolario, 6. G. Pecchio, Osservazioni semiserie di un esule sull’Inghilterra, in Idem, Scritti politici, per cura di Paolo Bernardinelli, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, 1978, p. 404
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 91 e sprezzante. Se Mazzini, qualche decennio più tardi stenderà un velo su queste polemiche, nell’intento di costruire con Foscolo la figura dell’esule/eroe, Pecchio, suo primo biografo, non gli fu parco di maldicenze. A Londra prima dei processi del ’21 giunse il conte Federico Confalonieri, già protagonista nelle giornate del ’14, con il quale allora il Foscolo aveva avuto contrasti.. Una sua lettera a Gino Capponi, del 4 luglio 1819 rivela il suo umore nei confronti del poeta : Quest’uomo [Foscolo] giuoca un role a Londra che mi dispiace e che è di danno all’Italia. Egli ha voluto passare per il solo buon cittadino italiano, portante in petto il sacro amor di patria, obbligato ad esser profugo dalla durezza de’ tempi e dalla malvagità e persecuzione de’ suoi. Per sostenere questo role, egli è quindi il detrattore perpetuo dell’Italia, degli Italiani e delle italiche cose. E siccome molto grida, molto declama, ed alcun poco è ascoltato, quindi rappresenta male la causa italiana in quel paese.
L’eco e la conferma di queste animosità foscoliane si ritroveranno poi nella Lettera apologetica che scriverà nel ’25 a difesa della sua memoria relativamente alle accuse mossegli per i fatti del ’14. Ma proprio i rancori lasciati da quegli avvenimenti e dal piano preparato per la « Biblioteca italiana », e qualche malinteso, per la mancata restituzione di quel piano dato in visione da Foscolo al Confalonieri, furono alla base della rottura tra i due. A proposito della Lettera apologetica Dionisotti ebbe ad affermare che in quella « testamentaria » Foscolo avrebbe raccolto tutti i rancori e corrucci, grandi e piccoli, pubblici e privati, che non avevano trovato sfogo al momento giusto, che non potevano più trovare sfogo,se non come grotteschi fantasmi insistenti alla rinfusa nella solitudine, nell’inerzia della fantasia poetica e purtroppo anche nella menzogna. 7
Ma proprio da quel fermentare di fantasmi e di accuse sentite come ingiuste veniva la necessità di una difesa, crescente nell’animo esacerbato del Foscolo in quegli anni di esilio,di polemiche con i letterati milanesi, con il Di Breme per il saggio sulla letteratura italiana steso per 1’Hobhouse, per la questione romantica e della rivoluzione italiana del 1820-1821, per i casi di Parga e della rivoluzione greca ; insomma per tutto un ininterrotto e implacato contenzioso che lo vide costantemente al centro di polemiche, insinuazioni, maldicenze, 7. Dionisotti, op. cit., p. 77.
92 michele dell ’ aquila accuse, che finivano per metterlo in cattiva luce anche nell’ambiente inglese, più o altrettanto di certi suoi trascorsi e burrascose vicende sentimentali, finanziarie ed editoriali. La Lettera apologetica nasceva da un bisogno profondamente sentito di verità e di preservazione d’immagine, presso i contemporanei e, forse, tenuto conto della stanchezza, dei malanni fisici e dei presentimenti di morte del poeta, più ancora presso i posteri. Altre controversie il Foscolo ebbe a subire per la cosiddetta questione greca, viva in quegli anni per le lotte di indipendenza, la repressione turca, l’episodio di Parga. Foscolo non dimenticava di essere greco di nascita e legato a quella sua prima patria ; ma il partito greco in esilio chiedeva da lui interventi che egli non poteva o non voleva operare nell’ambito delle sue conoscenze. Scrisse e fece pubblicare un saggio, Narrazione delle fortune e delle cessioni di Parga, ma i malintesi e le accuse non cessarono. Per certi suoi rapporti con l’ambiente delle ambasciate, fu perfino sospettato di essere un informatore al servizio di una potenza straniera e di aver ceduto per convenienza alle pressioni del governo inglese. Ciò naturalmente produsse accuse e difese esagitate e nuove animosità. D’altro canto egli, a differenza di altri esuli, non volle mai entrare nella logica e nell’azione delle sette delle quali fu inimicissimo, sia delle politiche che delle massoniche. Giovanni Berchet, giunto a Londra nel ’22, ebbe ad incontrarlo, e pranzare con lui, e tuttavia fu costretto ad usar molta cautela per non contrariarlo e nello stesso tempo non rinunciare ai suoi principi ch’erano evidentemente molto diversi da quelli del poeta dei Sepolcri. Gabriele Rossetti a Londra arrivò nel ’24, dopo tre anni passati a Malta in fuga da Napoli dopo gli avvenimenti del ’21. In casa del banchiere Gurney incontrò Foscolo, gli si rivolse con la spontanea napoletana giovialità, ma gli sembrò di riceverne una risposta fredda, poco incoraggiante, « di uomo muto, cogitabondo, e pieno di boria e di vanità ». 8 Va detto, peraltro, che Foscolo in quei giorni era vivamente preoccupato perché costretto a sfuggire ai suoi creditori. 8. E. R. Vincent, Gabriele Rossetti in England, Oxford, 1936, p. 70. Al Vincent, che pure compì le sue ricerche prima della pubblicazione dei volumi londinesi dell’Epistolario, si devono molte notizie e testimonianze sulla vita di Foscolo in Inghilterra.
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 93 Non è improbabile che vi sia stato qualche altro incontro. Va rilevato tuttavia che i tre anni di compresenza di Rossetti e Foscolo a Londra non furono dei più facili per il poeta del Sepolcri. Una convergenza di interessi, che sarebbe potuto diventare uno scontro, vi fu nel ’27, allorché presso la università laica di Londra fu creata una cattedra di lingua e/o di letteratura italiana, anche se con modesto emolumento, vista la non grande affluenza di studenti.. Rossetti, che aveva appena pubblicato il suo Comento analitico all’Inferno di Dante, pensò che potesse essere la sua occasione ; ritenendo di avere titoli sufficienti per la chiamata e presentò la domanda ; seppe, peraltro che vi era un interesse anche del Foscolo che stava facendo pressioni presso alcuni conoscenti autorevoli. Forse dinanzi al Foscolo Rossetti non avrebbe avuto da obiettare, tanto era il prestigio e la fama dell’uomo ; ma nei confronti di ogni altro Rossetti era certo di spuntarla. La cosa andò per le lunghe, l’assegnazione fu rimandata all’anno seguente ; troppo tardi, dunque per Foscolo scomparso nel settembre del ’27. Ma anche Rossetti dové rassegnarsi con grande amarezza alla sconfitta. Non gli giovarono alcune critiche di oscurità ed eccessivo simbolismo del suo Comento, da parte di Panizzi ed anche di Salfi, e decisive furono le accorte manovre dello stesso giovane Panizzi che riuscì ad ottenere per sé l’incarico. Naturalmente, al di là di queste questioni pratiche, il vero punto di convergenza tra Rossetti e Foscolo era il comune interesse per Dante. Ma anche qui, senza che tra i due potesse esservi contrasto, se non indiretto per il confronto accennato da alcuni recensori, tra i quali il Panizzi, tra le due interpretazioni, va rilevata la grande distanza tra l’impostazione storico-filologico-critica del Discorso sopra il testo della Commedia di Foscolo e l’interesse più allegorico-simbolico del Comento di Rossetti, allegoria e struttura che non erano assenti nel discorso foscoliano, ma assai più bilanciati da un interesse alla poesia che risultava marginale nel Rossetti. In ugual misura l’ispirazione religiosa di Dante nel poema era intesa da Foscolo come perfettamente rispondente alla ortodossia cattolica, pur nel fiero contrasto con la corruzione del clero e dello stesso papato ; mentre in Rossetti si ipotizzava una eterodossia di Dante rivolta ad una palingenesi dello spirito cristiano da raggiungere attraverso il misticismo ed il settarismo misterico. Giovita Scalvini allorché giunse a Londra nel ’22 esule politico, fu da Foscolo ricevuto con simpatia e per qualche tempo alloggiò
94 michele dell ’ aquila nella villetta attigua (Green Cottage) al Digamma Cottage che Foscolo di volta in volta fittava ai suoi amici. E tuttavia, nonostante i buoni rapporti apparenti, in Scalvini non facevano buona impressione il disprezzo di Foscolo per il denaro, anche nei momenti di maggiori debiti, certe sue manie di grandezza nell’arredamento della casa, l’intemperanza nei comportamenti. Leopoldo Cicognara si fece mallevadore presso Foscolo di due giovani italiani in viaggio d’istruzione per l’Inghilterra : uno di essi, il conte Girolamo Velo fu molto caro al nostro poeta che amava conversare con lui in toni affabili e scherzosi. L’altro, il marchese Gino Capponi, gran signore toscano allora giovanissimo e destinato ad essere protagonista della vita culturale fiorentina, viaggiò a lungo per tutto il paese interessato alle innovazioni industriali, agricole, manifatturiere. Nonostante la sua visione delle cose politiche fosse ispirata ad un liberalismo cattolico moderato, con Foscolo intrattenne rapporti di grande cordialità ed anzi il poeta fu nei suoi confronti di una gentilezza, ospitalità e tolleranza eccezionali, tali da cementare un’amicizia durevole anche dopo il ritorno del Capponi a Firenze, considerato che Foscolo per suo tramite riuscì a pubblicare nell’« Antologia » la traduzione del terzo libro dell’Iliade ed a lui affidò la copia in tiratura speciale dei suoi Saggi su Petrarca da consegnare al lady Carolina Russel ch’era in Svizzera. Il conte Santorre di Santarosa dopo i moti piemontesi del 1820-’21 nei quali aveva avuto gran parte, arrivò a Londra esule nel ’22 senza alcuna risorsa, accolto da Foscolo con grande sollecitudine e generosità. Dopo qualche tempo, anzi, finì con prendere in fitto, insieme al conte Porro, la dependance foscoliana per buona parte del 1823. Nel corso di quei mesi le vivaci ed amichevoli conversazioni, gli inviti a colazione e a pranzo fra i tre amici alleviarono non poco la solitudine del poeta. Santarosa ch’era coetaneo di Foscolo lo amò molto e si rammaricava della sua dissipatezza (erano gli anni dell’eredità della figlia Floriana e del Digamma Cottage), al punto da raccomandargli invano una maggiore moderazione (« Mio caro Ugo, io ve ne scongiuro a mani giunte ; se vi riesce di uscire da quell’insoffribile stato di angoscia dell’aver debiti e non mezzi per pagarli, dell’esser obbligato di lavorare collo spasimo… se ciò vi riesce (lasciatevene pregare e ripiegare da chi vi ama, e vi desidera sinceramente pace e gloria), ordinate le vostre cose in modo da non incominciare una nuova serie di
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piccole ma pur amare calamità : Forse le grandi calamità esaltano l’uomo, ma le piccole lo contristano e lo abbassano »). 9
Santarosa prima di andarsene in Grecia a morire per la libertà di quella nazione soggetta al Gran Turco, s’era piegato, come tanti, a far lezioni di italiano nelle case delle famiglie inglesi, mestiere comune a tanti esuli, dal Rossetti al Panizzi, almeno nei primi tempi d’esilio, ma aborrito dal Foscolo che mai volle piegarvisi ed a mala pena accettò in tempi di grande strettezza di svolgere un ciclo di conferenze ad un circolo di sottoscrittori procuratigli nella società aristocratica da lady Dacre : conferenze dai cui appunti sarebbero poi usciti i Discorsi sulle epoche della lingua italiana. Quello che sarebbe stato poi il primo biografo, non sempre benevolo, di Foscolo, Giuseppe Pecchio, esule anch’egli, con condanna a morte, giunse a Londra nel ’23 proveniente dalla Spagna ove aveva sostenuto la causa liberale, e per un paio di mesi tra l’agosto ed il settembre, prese alloggio presso il Green Cottage. Sarebbe passato poi in Grecia, per la resistenza contro i turchi, ne sarebbe uscito illeso, e poi, tornato in Inghilterra, vi si sarebbe stabilito, sposando una inglese « non giovane, ma ha l’apparenza giovane, non bellissima, ma gentile e senza difetti, piacevole, dolce, signorilmente educata, sensatissima, e ciò che non poteva essere altrimenti nelle mie circostanze, piuttosto ricca… ». Fare un buon matrimonio era anche una scelta per molti esuli privi di mezzi. Vi si piegò anche nel ’39 il conte Carlo Pepoli, l’amico di Leopardi a Bologna, destinatario della nota Epistola, in esilio dopo i fatti del ’31 in Emilia. Gabriele Rossetti, invece, com’è noto, in Inghilterra sposò nel ’26 una italiana, Giacinta Polidori figlia di Gaetano da tempo residente in Inghilterra, uomo colto, già segretario per alcuni anni dell’Alfieri, avendone quattro figli tutti interessati alle cose dell’arte e della letteratura. Per Foscolo le cose andarono diversamente. Una sua passione per miss Wilmont, divenuta poi lady Dacre, viene freddamente respinta, anche se poi la signora gli rimarrà amica per lunghi anni ; identico insuccesso con la giovane Carolina, figlia di lord Russel, alla quale andava leggendo il Petrarca. Al grande amatore di un tempo non riusciva quel che riuscì a molti altri esuli, una buona sistemazione matrimoniale. Da quelle letture stenderà poi i famosi Saggi sul Petrarca, stampati dapprima in edizione di pochissime copie nel ’21, di 9. U. Foscolo, Epistolario, iii, p. 456.
96 michele dell ’ aquila cui una per la Russel, poi in edizione definitiva nel ’23, dedicati alla Dacre. Intanto Rossetti, dopo esser stato posposto con suo grande rammarico al Panizzi per la cattedra d’italiano nella università di Londra, avrebbe raggiunto anche lui nel ’31 la cattedra universitaria nell’anglicano King’s College. Il suo Comento all’Inferno di Dante, aveva ricevuto, come si è detto, non poche critiche per certe forzature settarie e “cabalistiche”, ma la sua conoscenza delle cose letterarie italiane era indiscussa ; ed inoltre con i suoi studi avrebbe avviato tutta una interpretazione politico-morale e simbolistica dell’opera dantesca. Al culto di Dante s’impegnò in molta parte della sua opera, trasmettendolo anche ai quattro figli che in varia misura ne accolsero l’eredità. E va rilevato che proprio in questo ambiente di esilio e durezza di vita e stenti di fortuna nei primi anni dell’Ottocento, in terra inglese, prese avvio il ritorno a Dante lontanamente anticipato da Gravina e da Vico, ma inerte nell’arco di tutto un Settecento arcadico e illuministico. Certamente, come può leggersi in alcune chiose scritte a margine del commento foscoliano, potrate in luce dal compianto e caro Giorgio Petrocchi, v’era un sentimento comune di sofferenza e di sfida alla crudeltà della sorte ed ai rivolgimenti della storia ed una fraterna ammirazione per il grande poeta exul immeritus, sentito quale grande modello e compagno di avversità. Un comune sentimento evidentemente legava questi esuli, Foscolo, Rossetti, Salfi, al poema ed alla figura di Dante, anche se poi diversissimi e contrastanti erano gli esiti critici della loro lezione. Col Pecchio nel ’23 arrivò anche Antonio Panizzi, un giovane modenese esule dopo i processi modenesi seguiti ai moti del ’21 : Foscolo gli fece buona accoglienza, lo consigliò opportunamente di cercar fuori da una Londra molto affollata di esuli aspiranti all’insegnamento, dandogli anche alcune lettere di presentazione per gli influenti amici Roscoe e Shepherd di Liverpool, ove in effetti il giovane si stabilì per qualche tempo per dedicarsi all’insegnamento della lingua italiana e alla collaborazione alle riviste. Più tardi, nell’ultimo anno di vita del poeta, nel tentativo di riprendere il lavoro di edizione di Dante per l’editore Pickering, pensò di associarlo nell’impresa, discutendo con lui, che aveva più di un dubbio, sulla opportunità di inserire nell’ultimo volume la Lettera apologetica composta nel ’25, alla quale Foscolo teneva moltissimo. Ma ormai le forze gli veniva-
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 97 no meno e tutto il lavoro rimase a mezzo nella bottega dell’editore. Panizzi invece era destinato ad una brillante carriera : nel ’28 ottenne, in contesa con Rossetti, la nuova cattedra di letteratura italiana nella laica università di Londra, traguardo sfuggito al Foscolo che vi aveva fatto domanda ed esercitato pressioni attraverso Thomas Campbell, ma troppo tardi per la morte sopraggiunta nel ’27. In seguito Panizzi entrato quale impiegato nella biblioteca del British Museum vi raggiunse la direzione e perfino il titolo di sir ; mentre, tornato in Italia, fu Senatore del Regno. Con Rossetti, fin dai primi anni ebbe una accesa rivalità ed una sostanziale incomprensione. Allorché nel ’26 apparve il primo volume del Comento rossettiano all’Inferno di Dante, Panizzi non si astenne dall’esprimere in una recensione la sua critica negativa, largamente condivisa negli ambienti letterari, nei confronti di una interpretazione giudicata ‘cabalistica’, oscura, esasperatamente ghibellina e poco sensibile ai valori poetici e culturali del poema (critica in gran parte condivisa anche da Salfi che riteneva l’esasperato allegorismo un modo di rendere ancor più oscuro il poema) ; e non si trascurava di fare un confronto con il primo volume del Dante foscoliano (Discorso sopra il testo della Divina Commedia) uscito l’anno prima e giudicato per l’impianto storico-filologico-estetico di gran lunga superiore per dottrina e per sensibilità critica. A dividerli era non solo la comprensibile rivalità in un momento difficile ed in una terra straniera, ma anche una concezione opposta della letteratura, arcadica e settecentesca nel più anziano Rossetti, legato a schemi retorico-sentimentali d’estrazione meridionale ; pragmatica e moderna nel più giovane Panizzi formatosi in una cultura che da tempo si era rivolta con le sue riviste e dibattito culturale ad un confronto con l’Europa. Va rilevato inoltre che Panizzi insieme a Rossetti fu tra i pochi esuli capaci di integrarsi nel tessuto culturale e sociale inglese. Nel caso di Panizzi, arrivato giovane, senza mezzi e senza grande preparazione culturale, giocò un ruolo decisivo la sua grande applicazione al lavoro, l’acquisto di una crescente competenza letteraria e bibliografica ed una straordinaria capacità di rapporti umani. Nel Green cottage dopo Porro e Santarosa furono ospiti Scalvini, Filippo Ugoni e Giovanni Arrivabene, il quale col padrone di casa non mancò di avere diverbi, giungendo ad una lite furiosa che amici comuni fecero in modo che non finisse in duello. Il duello fu altra
98 michele dell ’ aquila forma di intemperanza foscoliana durante il soggiorno inglese. Vi si impegnò anche in difesa di alcune giovani cameriere, insidiate da un giovane copista, un tal William Graham. « A chi studia la vita di Foscolo in Inghilterra sarebbe facilissimo (perché abbondano i documenti) di addentrarsi nel ginepraio dei suoi rapporti con italiani ; di rivangare il corso delle conoscenze, delle amicizie, delle rivalità, delle liti, delle rappacificazioni ; e ne salterebbero fuori episodi divertenti, commoventi e talvolta poco onorevoli. Due motivi ricorrono contemporaneamente : l’Arte e il Denaro. Prima o poi tutti coloro che vennero a contatto con Foscolo finirono col restare implicati nei suoi tortuosi affari finanziari o nella sua attività letteraria, e qualche volta negli uni e nell’altra » 10
A Londra in quegli anni giungevano aristocratici come il Marchese Grimaldi, uomini di mondo come il barone Sigismondo Trechi, artisti come Filippo Pistrucci, che dipinse il ritratto di Foscolo nel ’22, ed un tale Charles Rossi, un italiano anglicizzato che in cambio di un ingente prestito non restituito, finì per subentrare a Foscolo nella gestione dei suoi mobili nella smobilitazione del Digamma cottage. Tra le varie dimore londinesi del Foscolo, numerosissime, alcune abitate sotto falso nome per sfuggire ai creditori, va detto qualcosa circa la famosa sua residenza da lui chiamata Digamma Cottage,in riferimento al suo studio sul Digamma eolico, ma forse anche, come fa notare Carlo Maria Franzero, « in quanto motto, latinizzato dell’inglese die-game, espressione di caccia che vien data all’animale che si difende bene ed è duro a morire ». 11 Nel 1822, come è noto, Foscolo ritrovò la figlia Floriana, natagli dalla relazione con la Emmerit negli anni del soggiorno a Valenciennes sulla Manica (1804-1805), la quale gli portava una discreta fortuna (circa tremila sterline) ereditata dalla nonna. Il poeta progetta di vivere una dignitosa vecchiaia accanto alla figlia così avventurosamcnte ritrovata. In effetti quel ritrovamento riempie un vuoto nella sua vita di esule solitario, riaccende il calore di affetti familiari. Ma ancora una volta il temperamento e la poca cura del denaro gli 10. E. R. Vincent, Ugo Foscolo esule fra gli inglesi, trad. it. Firenze, Le Monnier, 1954, p. 165. 11. C. M. Franzero, Le stazioni del calvario di U. Foscolo a Londra, « L’Illustrazione italiana ».
foscolo, gabriele rossetti e gli esuli italiani 99 fanno svanire la fortuna per una volta propizia. Si fa costruire una casa in un quartiere residenziale della città, « tempio agli studi e come asilo alla sua vecchiezza », che fa arredare con gusto da esteta. Le ricerche dei biografi hanno chiarito, contro le insinuazioni dei malevoli, che il terreno fu preso in fitto per ventuno anni con canone annuale di ottantasette sterline, oltre il carico dei tributi e tasse ed altre obbligazioni da un tale Charles Davis, costruttore, il quale a sua volta era titolare di un contratto per una specie di enfiteusi, secondo la legge inglese, che glene garantiva il possesso per 99 anni, con canone annuale ; e dunque Foscolo non ne fu mai proprietario. Inoltre la casa, pur ampia, con parco, non era quella sontuosa costruzione che si è voluto credere. Le 3000 sterline di Floriana non furono spese per l’acquisto della casa, ma solo in parte nel suo arredamento con mobilia pregiata, arredi e corredi di buon livello, porcellane di marca e posate d’argento, oltre a un certo numero di servitori. Certo il passo fu più lungo della gamba ; i soldi finirono, e nonostante alcune buone entrate per lavori letterari, il fitto della dépendence, gli aiuti finanziari dall’Italia del fratello Giulio e della Quirina Si riprese con i prestiti e con l’assedio dei creditori. Gli amici fidati non fecero mancare il loro aiuto, lord Holland, il banchiere Hudson Gurney, lady Dacre, William Rose, Robert Roscoe, tra gli italiani l’Ugoni, il dottor Negri, Francesco Mami, il canonico Riego. Quanti lo incontravano lo trovavano schiacciato da un lavoro immane di produzione letteraria in conseguenza dei contratti stabiliti con alcuni librai editori, il Murrey, il Pickering con i quali aveva disegnato una collana di classici italiani con introduzione storico-critica, testo e commento. Ne risultarono il Discorso sul testo della Divina Commedia, cui sarebbero seguiti i commenti del poema, il Discorso sul testo del Decameron, i Saggi su Petrarca, i Discorsi sulla lingua italiana, il Discorso sui poemi narrativi, il saggio Della nuova scuola drammatica in Italia : opere di gran valore che segnano una svolta nella storia della critica letteraria ; e si stenta a comprendere come gli fosse stato possibile condurle a termine in condizioni precarie, tra malattie, debiti, mortificazioni varie e difficoltà nel reperimento delle fonti. Intanto, anche se con minore tempo ed applicazione, continuava la collaborazione con le riviste, le Lettere su gli usi, la letteratura e la storia politica d’Inghilterra e d’Italia rifusi poi nel postumo Gazzettino del Bel mondo, fino a quella Lettera apologetica che doveva essere l’estrema autodifesa a futura memoria, che non arrivo a veder pubblicata,
100 michele dell ’ aquila ed anzi, dispersa nei magazzini del Pickering, sotto una pila di carte, fu avventurosamente ritrovata, su indicazione dell’Ugoni, nel ’40 da Mazzini esule a Londra e portata in Italia con le carte del poeta. Quegli anni londinesi di Foscolo e di altri esuli italiani sono un calvario di angustie, amarezze, solitudine, avversità ; eppure in molti, certamente in Foscolo, vi fu una forza incredibile di resistenza, di dignità, una incredibile capacità di lavoro in condizioni spesso penose, una disponibilità a misurarsi con un ambiente estraneo, retto da leggi e consuetudini diverse. Naturalmente, occupandoci di queste vicende è utile distinguere l’aspetto umano e contingente da quello intellettuale e letterario. Foscolo ha avuto la ventura di essere fatto oggetto di esaltazione sconfinante nel mito e di verifiche impietose intese a metterne a nudo la sregolatezza di certi suoi comportamenti o in qualche caso la mendacia di talune sue affermazioni. Tutto ciò riguarda la sua vita, privata e pubblica. La sua opera, che pure vi affonda le radici, ha richiesto, e per fortuna ha ricevuto, altri metri di giudizio. L’idea che abbiamo di Foscolo in questi anni miseri deve essere corretta peraltro da una immagine d’uomo che pur nelle imprudenze, dissipatezze, irruenza di carattere, mantenne sempre uno stile di vita dignitoso se non elegante e trattò e fu trattato dalla migliore società da pari a pari. Le sue numerose relazioni e la capacità di raggiungere anche i luoghi del potere ne fecero un protagonista, un letterato tenuto in alta considerazione per cultura e personale prestigio, pur nelle difficoltose condizioni in cui spesso venne a trovarsi. Scorrere l’epistolario di quegli anni ci restituisce la sua più vera immagine, quel ch’egli era nel profondo e ciò che voleva sembrare agli altri. Dignità, dolcezza, alti pensieri, consapevolezza di un destino eroico ma ingrato. Negli ultimi mesi, si applicava ancora alla traduzione dell’Iliade, forse per sentirsi vicino, fra tanta bassezza di vita, ai suoi eroi. Il pensiero corre a quella sua giovanile autobiografia poetica che sono i Sonetti e a certi passaggi del Sepolcri : restavano ivi fissati profeticamente i lineamenti di una immagine rimasta uguale a se stessa nell’arco di una vita intensa consumata in quarantanove anni. Ma che vita, e tra quali avvenimenti ! [2004]
SUGGESTIONI FOSCOLIANO-BREMIANE IN LEOPARDI
I
ntorno al foscolismo leopardiano non poco si è scritto, con individuazioni e rilievi di acuta perspicacia. 1 La distanza cronologica che divide Leopardi da Foscolo è breve ed immensa nello stesso tempo. Appena vent’anni, misurati all’anagrafe e sui calendari. Ma decenni più che anni, se si pensa alla densità degli eventi ed alle rivoluzioni politiche e letterarie fatte registrare. Si aggiunga inoltre il fatto che allorché Leopardi diciottenne si affacciava sulla scena letteraria nazionale con i suoi tentativi di intervento nella polemica classicoromantica, Foscolo aveva lasciato l’Italia per la Svizzera prima e per l’Inghilterra poi, e da Londra si rivolgeva con malcelata sufficienza a riguardare le “futili questioni” che appassionavano i nostri letterati. E tuttavia, lasciando l’Italia da esule o da fuggiasco, secondo le contrapposte spiegazioni di amici e avversari, Foscolo rimaneva con la sua opera, quella resa pubblica prima del 1815, che lasciava fuori le Grazie incompiute e gli scritti letterari o apologetici degli anni londinesi. Non tutti, peraltro, poiché alcuni di essi, il Saggio sul Petrarca, il Discorso sul testo della Commedia, ed altro giungevano in Italia ed erano nelle librerie e sul tavolo degli scrittori. Opera cospicua, dall’Ortis ai sonetti alle Odi, ai Sepolcri, agli esperimenti di traduzione da Greci e Latini, da Omero e Callimaco, da Catullo, da Lucrezio e da Sterne, alle tragedie ; per non dire delle cose legate alla sua attività politica, l’Ode a Bonaparte liberatore, la lettera allo Championnet, l’Orazione per i Comizi di Lione, e gli scritti di natura storica, letteraria, filologica. Su quest’opera, nonostante le riserve e le censure provocate anche dal temperamento polemico e dalle dismisure caratteriali del poeta, si spuntavano le malignità e gli umori corrosivi degli avversari, che potevano riguardare l’uomo, ma non scalfivano l’opera che s’imponeva negli anni quale modello di un nuovo classicismo non archeologico né esornativo, attraversato da forte sentimento e passione romantica. L’Ortis poteva sembrare al Cesarotti opera di un genio in preda ad una febbre maligna, così come i Sepolcri esser 1. Si rimanda alle bibliografie leopardiane, in particolare agli studi di Fubini, di Binni, di Figurelli, di Lonardi e di altri.
102 michele dell ’ aquila criticati per l’oscurità di certa concentrata espressione ed improvvisi passaggi, ma il romanzo era lo specchio di uno stato d’animo largamente diffuso ed i versi del Carme, e già prima le Odi ed i Sonetti, si ponevano sulla linea della nuova poesia, da Parini ad Alfieri, ed infatti egli era citato quasi sempre di seguito ad essi. Leopardi, dunque, affacciandosi alla letteratura, non poteva ignorarlo, ed anzi se negli anni della giovinezza lo ebbe a modello per certi suoi progetti autobiografici, vi rivolse attenzione e ne ebbe stima grande fino agli anni maturi. L’anagrafe e l’esilio risparmiavano al giovane Leopardi i veleni degli anni veneziani e milanesi e gli consentivano di guardare all’opera con occhio sgombro da coinvolgimenti polemici. La sua educazione ed apprendistato s’erano svolti sui classici greci e latini, aveva tradotto i suoi Orazio e Virgilio, s’era dato a studi di erudizione e di tradizioni popolari e colte ; ma tra il 1816 ed il ’18 altra aria circola nella sua stanza ed altri libri s’accumulano sullo scrittoio per la sua nuova vocazione letteraria. Le prime pagine dello Zibaldone 2 avviato in quegli anni, ed alcuni progetti di opere annotati nelle Memorie e disegni letterari e negli Argomenti e abbozzi di poesie 3 denunciano tra le righe suggestioni che si preferiva non dichiarate esplicitamente. Certo i suoi autori rimanevano altri, dagli antichi illustri e meno noti, a Petrarca a Poliziano a Tasso, ai lirici del Sei-Settecento e tra i moderni Alfieri e Monti. E tuttavia Foscolo viene progressivamente allo scoperto nelle citazioni, quale esempio, insieme ad Alfieri, dei « pochissimi poeti italiani che in questo o nel passato secolo hanno avuto qualche barlume di genio e natura poetica, qualche poco di forza d’animo o nel sentimento, qualche poco di passione, sono stati tutti malinconici nella loro poesia » (Zib. 2363-2364). L’annotazione è del 27 gennaio del 1822, di un Leopardi dunque maturo che sa cogliere con acutezza il fondo ‘malinconico’ della grande poesia moderna e ne riconosce in Foscolo e nella sua opera il segno. Ma già in Zib. 58, dunque tra il 1817 ed il ’18, troviamo una puntuale annotazione. « Per un’ode lamentevole sull’Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell’Ortis lett.19 e 20 febbraio 1799, p. 200 ediz. di Napoli 1811 ». Il pensiero foscoliano, meglio l’interrogazione esclama2. Dallo Zibaldone si cita sempre dalla edizione Pacella, Milano, Garzanti, 1991, con riporto della pagina nella segnatura leopardiana. 3. Per i testi delle altre opera il riferimento è alla edizione di Tutte le Opere di G. L., a cura di W. Binni, E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 103 tiva, dopo un incalzare angosciato di domande, è il seguente : « Ove sono dunque i tuoi figli ? (…) Ma che può far il solo mio braccio e la nuda mia voce ? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria ? Miseri ! Noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abietta schiavitù » ; 4 e sarà ripreso, com’è noto, nella canzone All’Italia : « O patria mia, vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri,/ ma la gloria non vedo… (…) Nessun pugna per te ? non ti difende / nessun de’ tuoi ? L’armi, qua l’armi : io solo / combatterò, procomberò sol io… (…) Dove sono i tuoi figli ? (…) » etc. E perfino più scoperta la suggestione appare nell’Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia, che precede la canzone, in Argomenti e abbozzi di poesie. 5 Ma già nella orazione Agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno, del maggio-giugno 1815, di un Leopardi diciassettenne, il modello sembra essere la foscoliana orazione A Bonaparte liberatore pel Congresso di Lione, del 1802 : di segno opposto certamente, bonapartista, anche se di fiero monito al « liberatore », quella foscoliana ; antinapoleonica e antimurattiana quella di Leopardi, anzi legittimista senz’altro, sostenuta dagli stessi argomenti della pubblicistica dei regimi « paterni » della Santa Alleanza. Ma la stessa enfasi classicistica, lo stesso ruolo dello scrittore clamante che si fa voce dello sdegno comune e chiama alla virtù prisca, all’onore, ricordando la gloria antica, con profusione di citazioni dai classici e ripresa dei luoghi comuni della oratoria civile della tradizione letteraria. Anche le Memorie e disegni letterari 6 denunciano suggestioni foscoliane nei progetti della Vita abbozzata di Silvio Sarno, nella Storia di un’anima scritta da Giulio Rivalta, nelle quali certi accenni alla natura arcadica (“suono delle campanelle del pagode udito di notte o di sera dopo cena […] mio desiderio della vita […] » etc. richiamano certe pagine dell’Ortis (e certamente di molti altri libri del genere, numerosi in quegli anni), con la già leopardiana inclinazione a spostare la questione sull’esistenziale, e sul desiderio spasimato di gloria contrastato dai tempi, motivo anch’esso, peraltro, foscoliano. « La forza di 4. U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Ed. Nazionale, lettera del 19 e 20 febbraio 1899. Le citazioni dall’opera di Foscolo sono sempre tratte da questa edizione. 5. G. Leopardi, Tutte le Opere, cit. 6. Ibidem.
104 michele dell ’ aquila incidenza dell’Ortis è grandissima – afferma Binni –, e se l’Ortis fu un vivaio di germi della poesia foscoliana, esso lo fu anche per Leopardi in una direzione di accentuazione pessimistica che il Foscolo venne controbilanciando nel suo sviluppo postortisiano ». 7 Molte letture di formazione sono comuni. Entrambi disegnavano progetti di opere e piani di letture o di studio. Comune sarà l’inclinazione per la filologia. Certe smanie giovanili (« Oggi finisco il ventesim’anno. Misero me che ho fatto ? » etc.) sono tipicamente ortisiane. Tra i disegni letterari rimasti allo stato di progetto all’Elogio o Vita del General Polacco Cociusco, che « si potrebbe anche mutare nella Vita del General Paoli difensore della Corsica, che sarebbe un bel soggetto », 8 nonostante la indicazione di modelli quali Tacito dell’Agricola, sembra non essere estraneo il Montecuccoli foscoliano ; così come il progetto di un’opera Della condizione presente delle lettere italiane libri sette 9 (1819) con la giunta di un libro Della presente letteratura italiana in genere, potrebbe richiamare un genere coltivato dal Foscolo (Epoche della lingua italiana, Della scuola drammatica italiana, Sulla letteratura italiana dei primi vent’anni del sec. xix), anche se l’interesse leopardiano, a stare all’indice abbozzato, inclina più sullo stile e sulla lingua con minor impostazione storicistica. Anche il famoso articolo di Foscolo/Hobhouse sullo Stato presente della letteratura italiana, trova un riscontro nel progetto di contrapposizione di altro saggio « ad uso specialmente degli stranieri ». 10 Traduzioni da Omero, da Virgilio, da Orazio e da altri latini e greci si ritrovano nei ripetuti esperimenti dell’uno e dell’altro e per entrambi quelle traduzioni costituiranno un semenzaio di stilemi, lessico e forme poetiche utilizzati poi nella propria poesia. Certo tutto quel nostro primo Ottocento, da Cesarotti a Monti a Pindemonte si misura nella traduzione dagli antichi come su di un banco di prova e ricerca di stile. Ma le occorrenze foscoliano/leopardiane sono numerose ed indicative. D’altro canto Leopardi mostrava di tenere ben da conto i progressi fatti dallo stile poetico italiano grazie a quel lavoro a più mani di traduzione dagli antichi. Nell’appunto sul progetto di saggio Della condizione presente delle lettere italiane 11, notan7. W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, p. 218. 8. G. Leopardi, Tutte le Opere, cit. 9. Ibidem. 10. Ivi, Memorie e disegni letterari, xiii. 11. Ivi, Memorie e disegni letterari, iii, 4.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 105 do « l’andamento che ora ha preso la letteratura, verso il classico e l’antico », Leopardi raccomandava che si avvertisse – tra le altre cose positive – « in materia di poesia il polimento, che ha ricevuto in questi ultimi tempi per opera dell’Alfieri del Parini del Monti dell’Arici poi e del Pindemonte e del Foscolo, ec. il suo incamminamento totale alla maniera latina e Virgiliana ». Foscolo è ancora citato in Zib. 1366 del 21 luglio del 1821, a proposito della grazia che « bene spesso non è altro che un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (ché la grazia è sempre nel bello) ». Ed aggiungeva : Diversa è l’impressione che a noi produce la semplicità degli scrittori greci, verbigrazia Omero, da quella che produceva nei contemporanei. A noi par graziosa (vedi Foscolo nell’articolo sull’Odissea del Pindemonte Discorso sulla traduzione dei primi due canti dell’Odissea, 1821 ; dove parla della sua propria traduzione del primo Iliade), perché divisa da’ nostri costumi, e naturale. Ai greci contemporanei, appunto perché naturale, pareva bella, cioè conveniente, perché conforme alle loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo meno che a noi. 12
Non sarà superfluo riflettere sulla data della notazione : 1821. Le opere di Foscolo in esilio a Londra arrivavano regolarmente dunque in Italia e Leopardi non se le lasciava sfuggire. Foscolo è citato tangenzialmente in Zib. 932 del 12 aprile 1821 per la Memoria intorno ai Druidi e ai Bardi Britannici (1809) mentre si discorre del poetare per aforismi, e si nota (nei bardi) oltre alla famosa malinconia, una certa profondità di pensiero, e la osservazione di « certe verità che anche oggi in tanto progresso della filosofia, non sono le più triviali ». Ed ancora quando discorre delle continuazioni di opere « per cui gli uomini di gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere, per esempio le continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze, gli stili, ec, delle opere classiche » cita espressamente quello che dice il Foscolo della continuazione del viaggio di Sterne (Zib. 101, del 20 gennaio 1820). A proposito del significato di fante (per uomo adulto) con tutti i diminutivi e derivati, come sulla sua etimologia, Leopardi rimanda al Glossario e all’articolo di Foscolo sopra l’Odissea di Pindemonte pubblicato negli « Annali di scienze e lettere » di Milano, 1810 (Zib. 4049-50). Nella polemica insorta da parte di molti, tra gli altri lo stesso Pindemonte nella sua Epistola, con biasimo 12. Zib. 1366 del 21 luglio del 1821.
106 michele dell ’ aquila dell’« introduzione di Ettore e delle cose troiane nel carme dei Sepolcri », Leopardi ne difende la presenza, per il grande interesse e vero piacere che si prova a leggerne : « Certo quell’argomento è rancido, ma appunto perché egl’è rancido, perché la nostra acqaitance con quei personaggi data dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto » (Zib. 4449, del 1829).
Pur in un problema complessivo, qual è quello della proprietà ed antichità delle lingue (Zib. 3418, del 12 settembre 1823), sugli arcaismi e sull’arcaica lingua in poesia, che è conservazione dell’antico e distinto dal prosaico, cita Parini, Alfieri, Monti e Foscolo il cui linguaggio e lo stile “è molto e più propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de’ nostri poeti, inclusi nominatamente i più classici e sommi antichi». Sempre in tema omerico e di traduzioni, in Zib. 4305-06 del 10 maggio 1828, si riporta le traduzioni foscoliana e montiana dei primi versi dell’Iliade, soffermandosi sul termine alme d’eroi che in realtà Omero non avrebbe usato, avendo detto le anime (psukàs) ed essi (autoùs) cioè gli eroi, non i loro corpi. Differenza non piccola, e secondo me, non senza grande importanza a chi vuol conoscere veramente Omero e i suoi tempi, e il loro modo di pensare. Questa infedeltà, non di stile e di voci solo, ma di sostanza e di senso,nata dall’applicare alle parole d’Omero le opinioni contemporanee a’ traduttori, questa infedeltà, dico, commessa nel primo principio del poema, anche da’ traduttori più fedeli dotti ed accurati, e in un caso in cui le parole son chiare e note ; mostra quanto sia ancora imperfetta l’esegesi omerica (…).
Discorrendo di questioni generali intorno alle edizioni dei classici antichi e moderni, ed all’ “abuso delle minime date d’anni (cioè de’ minimi indizi di tempo ne’ libri antichi) che rannuvola più che non illustra la storia letteraria ; e rigettarle tutte, o fondare sistemi sopra le incerte ha diviso novellamente i tre critici maggiori dell’età nostra” (Zib. 4378-4379) Leopardi cita Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante (che egli aveva nella edizione Lugano del 1827) : testimonianza anche questa di una ininterrotta attenzione nei confronti dell’opera dell’esule. Anche nell’epistolario 13 è dato riscontrare tale ininterrotto interes13. In Tutte le Opere, cit.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 107 se. Scrivendo al Brighenti il 17 luglio del 1829 Leopardi chiede di procurargli le Poesie del Foscolo nella edizione di Faenza 1819. In lettere immediatamente successive allo stesso Brighenti dichiara di esser pronto ad inviare l’importo e chiede indicazioni sul destinatario di esso. Scrivendo allo Stella il 13 settembre del 1826 nell’ambito della trattativa su una possibile edizione commentata delle Rime di Petrarca cui si accingeva malvolentieri, dichiarava : « Ella osserva molto bene che dopo il Tiraboschi e Ginguené, cui ora si aggiunge il Foscolo coi suoi saggi sopra il Petrarca è ben difficile dir cosa alcuna di nuovo sopra questo poeta ». Nel ’28 al Vieusseux chiedeva « se con vostro comodo potete farmi avere le Poesie del Foscolo » che gli servivano forse per la Crestomazia, essendo lontano da casa. Nella Crestomazia includerà le due Odi e tutti i Sepolcri, ma non i sonetti. In un’altra lettera del 21 (gennaio) del 1832 al Vieusseux, discorrendo del « penultimo fascicolo dell’Antologia, che mi parve più variato, più ricco, e più dilettevole degli altri a leggere », accenna ad un Monsignor Muzzarelli « che possiede, come sapete, una ricchissima collezione di autografi, ha, tra questi, parecchi manoscritti di Ugo Foscolo, veramente curiosi per quanto egli mi dice ; e li comunicherà volentieri al futuro autore della nuova Vita del Foscolo che voi annunziate ; ma vorrebbe, se si può, conoscere il nome della persona. Potendo soddisfarlo, farete piacere anche a me, che mi fo mallevadore, bisognando, del più scrupoloso segreto : e questa manifestazione non sarà senza molto frutto ». Non ebbe soddisfazione. Vieusseux, rispondendogli, si disse obbligato al segreto, « segreto che a dire il vero mi pare una freddura ». Nelle prime canzoni del 1818-1820 la suggestione foscoliana appare evidente : l’episodio delle Termopili nella canzone All’Italia con la descrizione della rotta dell’esercito persiano richiama i versi dei Sepolcri relativi alle visioni notturne di Maratona ; così Simonide che canta l’epopea degli eroi fa pensare all’Omero che abbraccia gli avelli e consola le afflitte alme col canto. La rassegna dei grandi della patria nell’Angelo Mai, quasi un Pantheon di nazione oppressa, ha il precedente delle tombe di Santa Croce.Anche a livello lessicale il « ma non sorgea dentro a tue mura un sasso » di Sopra il monumento di Dante, 27 e il « nobil sasso », ivi, 61, richiamano il foscoliano « qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso » di Sepolcri, 13 ; senza dire dello sdegno per il mancato monumento funebre di Dante in Firenze, che richiama l’indignazione foscoliana nei confronti di Milano che non aveva
108 michele dell ’ aquila onorato degnamente Parini. Così « l’ira de’ greci petti e la virtute » di All’Italia, 108, riporta a « la virtù greca e l’ira » di Sepolcri, 201. Ma vi è di più. Le alternanze di singolare/duale/plurale nell’Ultimo canto di Saffo, in cui si può riconoscere il segno di una dialettica mito personaggio poeta, 14 con forte coinvolgimento autobiografico di se stesso con Saffo, e dell’uno e dell’altra con la sorte comune del genere umano, con le relative identificazioni e sdoppiamenti, trovano un modello in Foscolo lirico e nei Sepolcri. La poesia moderna, che riprende l’artificio dall’antica (poesia di eroi e di re o di regime, generalmente, in cui il plurale maiestatis poteva esser ben più familiare), mostra con Foscolo e con Leopardi di saperne fare uso discreto e non casuale, con scelte che sono sempre ben ponderate, risolvendo spesso così quella interna dialettica dell’individuale-universale, particolare-generale che la sovrimpressione dell’autobiografia al mito consentiva alla poesia moderna. Nel Foscolo, modello vicino e tutt’altro che poco utilizzato, Leopardi poteva ritrovare esempi solo apparentemente riconducibili alle ragioni del plurale rafforzativo del singolare. I Sonetti, infatti, nella fitta tessitura di autobiografia lirica, sono tutti intensamente martellati dalla insistenza pronominale singolare : me, mi, a me, mio, miei, meco, io, ed io, etc. Tra le pochissime eccezioni, assai note, il noi del primo verso del sonetto « Non son chi fui ; perì di noi gran parte » ; che peraltro è tutto costruito sull’insistenza pronominale singolare (mio, me, in me, mia, di me, conosco il meglio ed al peggior mi appiglio ; sicché quel noi, anzi quel di noi gran parte, bilanciato nello stesso verso dal singolare non son chi fui, appare chiaramente come reminiscenza di un distico di Massimiano, « Non sum qui fueram : periit pars maxima nostri ; / Hoc quoque quod superest languor et horror habet », con il genitivo oggettivo nostri che è parso naturale tradurre di noi meglio che di me. Di maggior rilievo il riferimento plurale del sonetto A Zacinto : « A noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura ». Ma è poi questo un plurale maiestatis o anche semplicemente intensivo ? Non gioca anche in questo caso un ruolo determinante la contrapposizione tra il destino di Ulisse ed il suo personale, nel quale peraltro il poeta emblematicamente ed orgogliosamente poteva sentir rappresentato 14. Rimando al mio saggio La dialettica mito personaggio poeta nelle alternanze di singolare plurale dell’Ultimo canto di Saffo, « Otto/Novecento », 1979, pp. 5-6, poi in M. Dell’Aquila, La virtù negata : Il primo Leopardi, Bari, Adriatica, 1987.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 109 il destino di tutti i generosi nemici di adulazione e servitù in quegli anni difficili tra rivoluzione e dispotismo ? – Certamente in quell’ A noi c’è il Foscolo e innanzi tutto Foscolo, con la sua orgogliosa enfasi retorica ed etica ; ma proprio per la collocazione contrappositiva e per la suggestione del verso, il destino individuale, già sollevato ad una grandezza eroica nel raffronto con Ulisse, si slarga a divenire emblema e sorte comune di una generazione di generosi decisi a non piegarsi all’adulazione ed al tremore. Non è un caso, infatti che quell’ A noi torni in un noto passo dei Sepolcri, 145-146 (« A noi / morte apparecchi riposato albergo, etc. »), con la stessa contrapposizione intensiva ed intenzione rivendicatíva di dignità civile e di ricchezza umana contro i fasti corrotti del « bello italo regno », nella definizione quasi paradigmatica di una moralità (« ove una volta la fortuna cessi / dalle vendette, e l’amistà raccolga / non di tesori eredità, ma caldi / sensi e di liberal carme l’esempio ») che se pur orgogliosamente rivendicata a se stesso, slarga i suoi confini (l’accenno all’amistà, ai caldi sensi e all’esempio di liberal carme mi sembra possano sostenere una tal interpretazione estensiva) sino a porsi come alternativa morale e civile per tutti i generosi. Nulla, mi sembra, vada perduto, in una interpretazione estensiva, della vigorosissima e tipicamente foscoliana irruzione autobiografica nel tessuto lirico del carme, che anzi esce arricchita da questo programma di corrispondenze affettuose e di presenza poetica richiesto come premio non alla vita ma alla morte, come quei tempi (ma forse tutti i tempi) comportavano ai generosi. Né sembra ancora casuale che in una medesima posizione di forte analogia-contrasto, a conclusione dell’episodio di Aiace, eroe sfortunato cui solo la morte restituisce onore e meriti, vi sia il riferimento personale (« E me che i tempi ed il desio d’onore / fan per diversa gente ir fuggitivo, / me ad evocare gli eroi chiamin le Muse, etc. » Dei Sepolcri, 226-228), questa volta con un singolare ugualmente fortissimo ribadito due volte in principio di verso (E me, me), con riferimento però ad un più individuale e particolare destino di poeta rievocatore degli eroi. Nel Foscolo il singolare/individuale ha un suo preciso ambito di uso e frequenza, con più o meno forza, secondo i casi e la posizione e il senso. Ed il plurale, anche nelle accezioni intensive che non si vuol disconoscere, né sottovalutare quanto possa avervi contribuito l’eredità classica in una poesia che al classicismo si richiamava, mantiene un valore di plurale, cioè contiene implicito, oltre
110 michele dell ’ aquila che il riferimento al poeta, un senso emblematico-paradigmatico e quindi suggerisce allargamenti ad un senso più ampio e ricco di sfumature storico-morali, oltre la sfera autobiografica pur innalzata a livelli di sublimità eroica. D’altro canto là dove il tema della morte e dell’esilio ritorna come assunto centrale, ma entro un ambito individual-familiare, come nel sonetto In morte del fratello Giovanni,il poeta non sente il bisogno di alcun riferimento plurale, bastandogli (ed insistendovi) esclusivamente il martellante riferimento singolare. Questi esempi Leopardi leggeva nel suo Foscolo e potrebbe essersene mostrato non insensibile. Naturalmente anche nella sua Saffo per tornare al nostro tema, il riferimento, singolare o plurale (e duale), è sempre ancorato al dramma del personaggio, e non poteva essere diversamente, essendo Saffo che piange il suo destino e depreca le leggi di natura. Ma, per le sovrimpressioni poata-personaggio e per le altre sovrimpressioni, nel poeta, del dramma individuale della bellezza-felicità e di quello più largo, di tutta l’umanità esclusa da quell’eden di natura cui pensava di esser stata chiamata, i passaggi e le alternanze del singolare-duale-plurale sono troppo numerosi e certamente non casuali ; dal singolare individuale dei primi versi (« mi fur l’erinni e il fato », già reso più ampio nella valenza indeterminata dei versi seguenti : « già non arride / spettacol molle ai disperati affetti ») a quell’improvviso Noi del verso « Noi l’insueto allor gaudio ravviva », preludio a tutta una serie di plurali-duali. Ed ancora il ritorno alla infelice vicenda personale della misera Saffo (« A me non ride / l’aprico margo », etc.) e la invettiva ancora individuale, traboccante personale risentimento (« Qual fallo mai (…) macchiommi » etc. « onde sì torvo il ciel mi fosse », etc. ; fino al « ferrigno mio stame »), amplificato nella pessimistica visione di una condizione umana destinata al dolore, tanto più sentito da quanti sono nobili d’animo : « Arcano è tutto / fuor che il nostro dolor. Negletta prole / nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa » : chi ?, certo Saffo, e, letteralmente, quanti soffrono le sue pene ; ma non anche lui stesso il poeta spasimato di gloria e d’amore, e tutti gli uomini per l’esclusione che ormai Leopardi aveva compreso esser toccata in sorte, dal godimento di una condizione privilegiata ? D’altro canto, appena dal generale si torna al particolare individuale (riferimento di struggente tenerezza a Faone : « E tu cui lungo / amore indarno, e lunga fede, e vano / d’implacato desio furor mi strinse, / vivi felice, se felice in terra / visse nato mortal ») torna al singolare (mi strinse, me non
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 111 asperse, mia fanciullezza), che subito si amplia nel plurale (« ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola », a confermare il rapporto complesso ed estensivo personaggio-mito-poeta ed il riferimento ad una più complessiva condizione umana nella quale quella dolorosissima di Saffo (e di lui Leopardi) finisce assorbita. E si dovrebbe sottolineare nell’uno e nell’altro, l’uso frequente delle citazioni occulte, di cui hanno offerto esempi per Leopardi la Corti e per Foscolo Vincenzo Di Benedetto. 15 Leopardi non era prodigo di citazioni né di giudizi positivi, soprattutto verso i contemporanei. Non di rado le sue citazioni o imprestiti sono occulti, com’è il caso, fra tutti, di Ciro di Pers. 16 E tuttavia nei confronti del Foscolo la suggestione (e l’ammirazione) devono esser state grandi se se ne considera la frequenza e la sostanza, nella naturale indipendenza e diversità. Ed ancora si notino certi movimenti dell’enfasi poetica intesa a commuovere e a persuadere, certe interrogazioni incalzanti denunciano quantomeno il riferimento ad una medesima fonte, come nel caso di Lucrezio De Rer. Nat., V, 218-227, ove il vagito dell’infante è interpretato quale presagio di un destino umano d’infelicità, ripreso dal Foscolo nel Canto di Erato, in Versi del velo, come ha mostrato lo stesso Di Benedetto : 17 tema poi leopardiano, che denuncia la comune fonte lucreziana nella ripresa delle interrogazioni accusative (cur/quare) : « O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor ? / perché di tanto / inganni i figli tuoi ? » (A Silvia). Così il « percotea la faticosa tela » dello stesso canto, potrebbe avere un riscontro nei Versi del Velo, ove il verbo riferito a Psiche, « la quale virgilianamente percorreva col pettine la tela », mentre Tersicore « danzava » e « percoteva » uno strumento musicale e il Tempo « percote » un plettro. 18 Naturalmente Leopardi all’altezza di A Silvia (1828) non era in grado di leggere il brogliaccio delle Grazie del Foscolo morto l’anno prima a Londra. Ma certe concordanze denunciano una comune matrice, un modo di riferirsi agli antichi e 15. M. Corti, Entro dipinta gabbia, Milano, Bompiani, 1967. V. Di Benedetto, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990 16. Rimando al riguardo ad un mio saggio Leopardi lettore di Ciro di Pers ?, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del iv Convegno internazionale leopardiano di Recanati, Firenze, Olschki, 1978. 17. Di Benedetto, Lo scrittoio, cit., pp. 288-289. 18. Ivi, pp. 416-417.
112 michele dell ’ aquila di prendere (di saper prendere) da essi lo spunto per originali ed innovativi avanzamenti della poesia. Le voyage du jeune Anacharsis offre spunti al Leop : autobiografico, come al Foscolo dell’Ortis e del Sesto tomo dell’Io. E credo abbia rilevanza certa comune inclinazione all’andamento argomentativo di certi incipit lirici, che nel Leopardi di Sopra il monumento di Dante (« Perché le nostre genti / pace sotto le bianche ali raccolga, non fien da’ lacci sciolte / dell’antico sopor l’itale menti… »), della canzone Nelle nozze della sorella Paolina (« Poi che del patrio nido / i silenzi lasciando, e le beate / larve e l’antico error, celeste dono,/ ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido… »), e soprattutto nell’altra, Alla Primavera (« Perché i celesti danni / ristori il sole, e perché l’aure inferme / zefiro avvivi, onde fugata e sparta / delle nubi la grande ombra s’avvalla… ») con l’interrogazione retorico-argomentativa appaiono di chiara derivazione dal modello foscoliano del Carme (« All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto è forse il sonno /della morte men duro ?... »), con la replica espansiva della domanda ad incalzare il lettore. Il frequente ricorso all’interrogazione che assai più che retorica ha carattere allocutivo-argomentativo, ed in Leopardi solo negli anni più maturi si attenua in forma meditativa. Comune è anche il piglio epistolare, in Leopardi foscolianamente frequente, sia che si rivolga ad un preciso interlocutore (Angelo Mai, la sorella Paolina, il vincitore nel pallone, il Conte Carlo Pepoli, etc.) sia più genericamente all’indistino lettore. Ma si possono segnare, tra le altre, anche alcune divergenze : l’assunto dell’operetta Parini o della gloria vanifica la foscoliana religione della fama che in qualche modo cerca di opporsi alla morte ; mentre per quanto attiene allo stile di entrambi nei ricchi epistolari, alla prosa commossa e ricca di sentimento del Foscolo corrisponde una più lucida ed intellettuale capacità di osservazione e di confessione del Leopardi. Ma è sulla questione romantica che la convergenza/divergenza di opinioni e di poetica può ritenersi più articolata e varia di quanto non sia dato credere. Tentando inutilmente di intervenire nella polemica avviata dalla Stael sulle traduzioni, il giovane Leopardi lascia intravedere una concezione del classicismo e del rapporto con i modelli antichi che
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 113 non sarebbe forse dispiaciuta al Foscolo già lontano dall’Italia ed allo stesso Di Breme che sarebbe scomparso di lì a poco. Certo, come è stato osservato, 19 il suo classicismo, almeno negli anni della polemica classico-romantica, è altra cosa rispetto a quello del Foscolo : agonistico e primitivistico, quello del giovane poeta, schietto e naturale anche nella sedimentata consapevolezza della tradizione ; spoglio di astrattezze teoriche, antiaccademico in qualche modo graviniano e vichiano, nutrito della grande tradizione storica e letteraria quello del Foscolo. 20 Entrambi peraltro, pur nei nuovi impegni assunti dalla letteratura nei confronti del pensiero e della società, erano letterati letterati, che non avrebbero consentito in alcun modo arretramenti di sorta della lingua e dello stile per operazioni di accrescimento del pubblico dei lettori. La polemica sul romanticismo in Italia in quegli anni tra il 1816 e il ’19 fu, com’è noto, piegata a finalità e sorretta da motivazioni in buona parte extraletterarie ; o meglio, intese a definire e sostenere una nuova funzione da attribuire alla letteratura ; ma la vera discussione, al livello specifico di poetica, si svolgeva, come appare chiaro, al di sopra del frastuono dei contendenti minori, e vedeva impegnati i grandi scrittori-poeti, che avevano particolare sensibilità per il problema della espressione, pur senza perdere di vista le possibili e necessarie interconnessioni : Manzoni, Monti, Di Breme, il lontano Fo19. G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno, 2001, pp. 77-78 ; M. Fubini, Giordani, Mad.me de Staël, Leopardi, ora in Romanticismo italiano, Bari, Laterza, 1953 e 1971 ; S. Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, ora in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento Italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965. 20. Si veda al riguardo la pagina di W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, pp. 173-174. Sulla distinzione dei due classicismi. « Marmoreo, winchkelmaniano, con smaltature neoclassiche e vibrazioni di sentimento (“il marmo che imita il calor della carne”), bellezza ideale, uso della mitologia, quello di Foscolo ; nonostante il suo singolarissimo classicismo, Leopardi si aprì a nozioni vitali e poetiche più moderne, la sua perfezione è più porosa e densa, ha un linguaggio più tenero, ricco di cadenze sentimental-musicali, di amore per la realtà, anche quando si fa energico e sinfonico, con tutta una serie di implicazioni interne che distinguono la via leopardiana da quella foscoliana postortisiana, pur così mossa da istanze romantiche e così poeticamente alta ». Confronta le figure di Silvia e Nerina con la giovinezza delle Grazie. Afferma che la direzione preromantica di Leopardi non fu moda letteraria o nordica, ma implica una autentica inquietudine della spiritualità e della sensibilità, una problematica seria impegnativa, anche se irrisolta da remore di vario genere sulla natura dell’uomo, sulla sua sorte, sul rapporto vita-morte. Vedi dello stesso Binni, Preromanticismo italiano, Napoli, esi, 1947, poi Bari, Laterza.
114 michele dell ’ aquila scolo, lo sconosciuto Leopardi. Ma sarà un dialogo a distanza, senza riscontro reciproco, e neppure incidenza (se si esclude il Manzoni) sull’orientamento del nostro romanticismo ; più chiaro per noi, che ne possediamo i documenti e possiamo giustapporli, ma oscuro, o ignoto (Leopardi) per i contemporanei che non potevano seguirlo nei carteggi o nei diari e zibaldoni cui era consegnato, o in lettere e articoli destinati al pubblico, ma diffusi solo assai più tardi. Il discorso vero si svolgeva in qualche modo dunque sopra la testa dei contendenti, ed aveva interlocutori che di necessità parlavano assai più per i posteri che non per i contemporanei. Già nel Discorso intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani, 21 scritto nel 1816 in difesa della Staël, Ludovico Di Breme aveva affrontato il tema centrale della nuova estetica romantica e, liberatosi delle faticose distinzioni e degli impacci polemici, aveva individuato nella forza latente, in uno spirito ascoso la fonte originaria della poesia, già da Alfieri, com’è noto, indicata nell’impulso naturale, quanto dire nel genio poetico. La vera poesia nasce da una forza latente, da uno spirito ascoso, che ci rende idonei a percepire ed esprimere la gran vita della natura, nella quale, naturalmente, « in ogni età e per prima cosa, rispetto all’uomo, v’ha l’uomo. Perché la natura non ti ha già composto nella mira che tu imitassi lei in quel solo modo che lo intendi ; ché anche tu sei la natura, e sei per di più il suo interprete, il suo rivale nell’ordine morale, sensitivo, imaginoso... (Discorso, p. 43).
Lo ripeterà anche nel Commentaire (pp. 150-151), e con sempre maggior convinzione nelle lettere agli amici e nella recensione al Giaurro di Byron. Rimaneva individuata, dunque, nel discorso bremiano la genesi della vera poesia, il suo campo d’azione, che era poi quello della natura, ma con preminenza dell’umano che in esso era tutt’altro che marginale. In un secondo momento, nelle Osservazioni sul Giaurro di Byron, 22 Di Breme tenterà un restringimento del campo, alla vicenda dell’umano incivilimento, soprattutto nella sua fase 21. Per i testi di poetica romantica si rimanda al vol. di E. Bellorini, Discussioni e polemiche sul romanticismo (1816-’26), 2 voll. Bari, Laterza, 1943, ora in ed. reprint a cura di A. M. Mutterle, Bari, Laterza, 1973 ; ma anche il mio Primo romanticismo italiano, Bari, Adriatica, 1976. 22. Se ne veda l’edizione da me curata, Fasano, Schena, 1989, che riporta anche il Discorso sulla poesia romantica di Leopardi.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 115 più vicina a noi, prospettando, dunque, una materia d’ispirazione “moderna” senza peraltro porvi un vincolo assoluto. In quello stesso scritto si tenterà anche una caratterizzazione della poesia moderna, individuandola nel patetico (Leopardi nel suo polemico Discorso preferirà l’espressione sentimentale). Si tratta dei tentativi di maggior applicazione di Di Breme al problema propriamente letterario del romanticismo, entro lo spazio di una prevalente (in Italia) operazione politico-culturale. Le Osservazioni sono del 1818, dell’anno del « Conciliatore », e della collaborazione con il gruppo degli altri romantici lombardi ; lo stesso anno dell’ingresso di Leopardi nell’agone propriamente poetico-letterario. E tuttavia Di Breme lascia intravedere un certo ‘scostamento’ o ‘non allineamento’ rispetto all’indirizzo del gruppo, orientato verso forme di ispirazione storico-realistiche che nel decennio successivo prenderanno definitiva consistenza per l’esempio manzoniano. Proprio la individuazione e lo svolgimento (ed anche la esemplificazione nel Romitorio di Sant’Ida, scritto nel 1816) del patetico « non volgamente inteso, ma in quanto egli è espressione di ciò che v’ha di più riposto e di più profondo, non già di più maninconioso, nell’animo e nel sentire umano » (Osservazioni, p. 90) costituisce un momento rilevante di questa ‘individualità’ bremiana nei confronti del gruppo, che è nello stesso tempo disponibilità verso un altro romanticismo, appunto patetico/sentimentale, che da noi tardò ad affermarsi. Né è senza significato che solo il Leopardi mostrerà di aver bene inteso il discorso bremiano le cui osservazioni gli parvero « per la più parte acute e ingegnose e profonde ». Al riguardo non sarà da trascurare l’influenza che può aver esercitato sul Leopardi la lettura di queste e di altre pagine del Di Breme, e non tanto nel citato Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, uno degli scritti più interessanti per la individuazione della nuova spiritualità romantica sotto la crosta di una stratificata educazione classicistica, ancor più esemplare per esser riferita ad un letterato di provincia, ancorché di grandissimo ingegno ; quanto in molte osservazioni dello Zibaldone sui caratteri di poesia patetica, sentimentale, malinconica, meditativa, sulla differenza tra antichi e moderni, sulle condizioni nuove dell’animo moderno a seguito dell’incivilimento. Naturalmente, per tutti codesti temi Leopardi si sarà fondato su Rousseau e la Staël e Sismondi e gli Schlegel, e la crisi dell’illuminismo rivissuta originalmente ; così come per gli altri temi della fanta-
116 michele dell ’ aquila sia poetica, l’intuizione della natura da parte dell’umanità fanciulla, della lingua che nasce e s’accresce sotto la spinta di una crescente vita interiore, vi saranno stati Vico e Gravina e Cesarotti ; ma la mediazione bremiana poté non esser stata secondaria in certe scelte del poeta di Recanati ; e comunque, anche a considerare la polemica del Discorso (anzi, la mancata polemica del Discorso, perché, come è noto, lo Stella, trascurando di pubblicare il manoscritto leopardiano, privò il dibattito classico-romantico di uno dei contributi più densi), non si stenta a riconoscere, al di là dell’opposizione spesso fittizia dei ‘sistemi’, molti punti di sostanziale convergenza. Ma per tornare alle Osservazioni bremiane risulta evidente come l’aspetto propriamente critico-interpretativo di esse risulti subordinato ad un discorso più generale, inteso alla delucidazione della più ampia questione della poesia romantica, di cui il Giaurro e lo stesso Byron sono chiamati ad uffcio di mera esemplificazione. Il Di Breme che affronta il problema della recensione di un testo “romantico” da ideologo-filosofo è riconoscibile già dall’esordio quasi lucreziano : Gli uomini e le cose e le idee che furono già fino a noi argomento di poesia, formano ormai un portentoso universo, ben altrimenti sublime, e ben più altamente animato che non il reale e corpuscolare Universo senza confini, in cui gli oggetti del nostro mondo, angustissimo e per ogni suo verso determinato, grandiosi son fatti e nuotano, per cosí dire, in un loro elemento di luce e di armonia, oltre le misure e le sfere tutte del possibile. Eppure quell’universo, e quelle sfere, e quell’immensità, non soltanto si contengono nell’ambito dell’umano concetto, ma se ben si considera, sembrano tuttavia occuparne appena un punto in paragone della restante vastissima capacità ond’è fornito (Osservazioni, 81).
Cartesio gli sembra il filosofo che più degli altri si è disposto nei confronti di un tal universo con animo sgombro di pregiudizi, come colui che non volendo argomentare dell’uomo che dall’uomo, torse gli occhi dalla immensa farragine delle opinioni ; si disimpacciò da quelle dottrine di che già le scuole, l’educazione e la consuetudine lo avevano imbevuto, e ricco in certo modo di quella studiosa ignoranza, pieno il petto di felici presentimenti, ei si affacciò con sincerità a se stesso : dubitante s’ei dovesse mai nulla sapere : indifferente su ciò ch’ei fosse per dover credere : certo solo frattanto di esistere in un qualche determinato modo (Osservazioni, 82).
La netta distinzione tra le cose ed i metodi della scienza e quelli della poesia sembra già, vichianamente, proporre la necessità di una
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 117 diversa misura ed il riconoscimento di una ‘autonomia’ che solo più tardi sarà ben chiarita, anche se per la stessa letteratura si auspica quella « rivoluzione cartesiana », peraltro « poco sperabile nei giorni che corrono ». Rivoluzione che dovrebbe consistere nel totale affrancamento dai modelli, quali che fossero, nella elaborazione di una scienza nuova che dichiarasse di abolire per sempre le grette convenzioni sopra di cui riposa l’attuale pedagogia letteraria e le attuali discipline poetiche, più galliche per certo che italiche, e meno greche d’assai ch’altri non s’avvede. Impareremo dai greci, e da quanti furon grandi nei secoli di poi, a non ricopiare mai la natura ideale, modificata secondo i vari tempi, e nello spaziare generosamente e grandiosamente per la immensità del cuore umano.
Certo è ben più arduo per l’uomo incivilito « costituirsi rispetto alla poesia nella stessa indifferenza con cui Cartesio si costituì rispetto alla scienza » ; e forse potrà solo esser possibile ad un allievo, che un maestro tenga religiosamente nell’ignoranza di tutta la precettistica retorica, sì quella dei grandi che dei minimi. Si configura così, per il Di Breme, l’ideale di una educazione letteraria, un poco roussoiana se vogliamo, in cui la natura tiene il posto che le compete rispetto ai modelli che le si vogliono sostituire. Tralasciamo di soffermarci su quel programma educativo, sul rifiuto dei precettori, anche di nome illustre come Orazio e Aristotele e Quintiliano ed Ermogene, e sulla preferenza accordata a filosofi, quali Eraclito o Democrito, e poeti, come Byron, che intendono la poesia non poter esistere « sine inflammatione animorum et sine quodam afflatu quasi furoris », secondo la testimonianza di Cicerone, quanto dire « non già sempre quell’estremo grado di concitazione, a cui assurse per modo d’esempio Eschilo nel suo Prometeo, ma bensí un incessante, continuo calore di cuore e d’immaginazione, per cui se anche non vi sia sempre luogo a un sublime ideale, non venga meno giammai la profondità della passione, e non cessi il poeta di ricercarti le viscere del sentimento » (Osservazioni, 89). In fondo una tal concezione della poesia come prodotto della passione poteva esser sottoscritta da molti, anche di fede non dichiaratamente romantica, come è facile vedere dalle convergenze leopardiane sulla teoria bremiana del patetico quale carattere distintivo della poesia moderna. Il nodo era invece proprio in quelle ultime righe del programma : quella « conoscenza dei tempi e dei costumi per essenziale parte della Natura » come oggetto ed interesse
118 michele dell ’ aquila preminente dell’animo che si dispone alla poesia. Aveva ragione il Leopardi, quando replicava che per questa strada, che era poi quella del vero come oggetto, del vero storico e della vicenda dell’umano incivilimento, Di Breme e i romantici si sforzavano « di sviare il più che possono la poesia dal commercio dei sensi, per li quali è nata e vivrà fintantoché sarà poesia, e di farla praticare con l’intelletto e strascinarla dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale [...] e che s’adatti (il poeta nel fingere) ai costumi e alle opinioni nostre e alle verità conosciute presentemente » ; la qual cosa sembrava a lui, almeno allora, inaccettabile per la poesia ; meno che mai, secondo s’esprimeva il Di Breme, che « la vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’industria » etc., potessero esser ispiratori di poesia, assai più dell’antica mitologia. Era evidente che su questo punto non ci sarebbe mai stato incontro, neppure quando anche il Leopardi riconoscerà il carattere meditativo e riflessivo della poesia moderna, e l’arido vero di cui essa si nutre e patisce. Al Di Breme ed ai romantici era un certo tipo di poesia che non stava a cuore, o non serviva al loro programma pedagogico, al quale la poesia doveva piegarsi, risultando assai più utile una riflessione poetica sulla storia e sull’umano incivilimento di quanto non fosse una mitologia poetica, anche leopardianamente intesa, che rimaneva sempre in sospetto di una nuova arcadia che continuasse l’antica, di un ‘disimpegno’ del poeta rispetto alla comune vicenda umana. Ma se quello era il programma del gruppo, molti indizi dimostrano lo ‘scostamento’ del Di Breme, o almeno certe sue inclinazioni non ortodosse, che gli derivano poi da una irriducibile coscienza filosofico-letteraria. Il Giaurro byroniano, che riaffiora nell’onda del discorso come l’occasione di esso, offre anche l’esempio di quel carattere particolare della poesia moderna che è il patetico, che « non consiste nel lugubre, ma sí nel profondo e nella vastità del sentimento » ; ed anche il Leopardi è d’accordo nel riconoscere che in tal genere siamo certamente meglio disposti degli antichi, dal momento che più lunga e remota è la nostra dimestichezza col dolore. Se si rivolge a considerare i mezzi di cui può servirsi la poesia moderna, Di Breme ritrova l’analogia, sulla quale si sofferma con individuazioni penetranti, rivelatrici di una sensibilità per i diritti della parola poetica in contrasto con la tendenza dei nostri romantici e del Manzoni stesso, ad una espressione largamente convenuta.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 119 Alla esigenza di trovar relazioni tra la vita naturale e la umana che gli antichi avevano tentato di risolvere con la mitologia, i moderni rispondono con la più approfondita nozione che « la natura è vita : vita modificata in migliaia di guise ». L’analogia, o idee poeticamente analoghe, capaci di armonizzare tra loro i fasci di pensieri e d’immagini che si offrono al poeta nella contemplazione di se stesso e della Natura : ecco la soluzione della moderna poesia, in contrapposizione alla logora mitologia su cui si attardano i classicisti. E vi è già quasi un precorrimento baudelairiano o, se si vuole, pascoliano, nella definizione del sistema : L’universo poetico è un tutto governato da queste leggi di analogia : il capirle non è dato a chi non le sente ; il sentirle profondamente è proprio soltanto di quegli animi generosi e dilicati, che diconsi, e sono poeti. (Osservazioni, 104)
Naturalmente, soprattutto nell’applicazione concreta, siamo solo nell’ambito degli accostamenti di sentimenti, di scene naturali, di effetti, e non ancora alla più profonda e rivoluzionaria analogia della parola dei decadenti, con le sue infinite suggestioni. Rivela perspicacia anche la individuazione da parte del Di Breme critico di Byron, della « felicità poetica » dell’eroe negativo dei romantici, già largamente rappresentato in Shakespeare e dagli antichi tragici. In tal rappresentazione di titanismo e pietà, « la poesia romantica si trova nella sua provincia prediletta » dal momento che in questi nostri tempi moderni « molto si sopravanza l’antichità in fatto di cognizioni del cuore umano » (Osservazioni, 133-135). Di un tal patetico, non certo satanico, come si era trovato a dover giustificare nel Giaurro di Byron (Osservazioni, 134), anzi, di toni sentimentali – anche se nel disegno generale, rimasto incompiuto, forse tendente al romanzo nero, – Di Breme stesso intendeva offrire l’esempio con l’Ida, di cui la prima parte, racconto introduttivo alla storia vera e propria, Il romitorio di Sant’Ida, si offre come immagine speculare dei difficili equilibri della ideologia e della scrittura bremiane proprio nel momento della sua partecipazione polemica alle vicende del primo romanticismo. Così come di passaggio ci si potrà chiedere se tali prove bremiane fossero del tutto ininfluenti sul Leopardi ‘truce’ di certi progetti o abbozzi di canzoni del 1819, quali Per una donna inferma di malattia lunga e mortale, Per la morte di una donna fatta trucidare col suo portato etc.
120 michele dell ’ aquila In quanto al Foscolo, nel 1816 era in Svizzera, di dove avrebbe raggiunto l’Inghilterra. Risultò così assente, almeno fisicamente, e salvo qualche svogliato intervento, dal dibattito classico-romantico. Ma le ragioni del distacco erano altre, da non trascurare, non tanto ai fini della attribuzione di un torto-ragione sempre ambigui e di difficile commisurazione in questi casi, quanto per intenderne il senso, e stabilire il suo conto individuale nella partita doppia accesa tra lui ed i giovani romantici italiani. Come il Monti, anche se di vent’anni più giovane di quello, il Foscolo apparteneva ad un’altra generazione, quella che aveva vissuto da protagonista il fervore giacobino e l’avventura napoleonica. Il riformismo illuministico, la lunga aspettazione di un mondo retto dai principî della ragione, e poi il furore ideologico del rinnovamento, negli uomini di quella generazione avevano avuto modo di consumarsi nell’azione oltre che nella sfera del pensiero, ed in quella dimensione pratica e negli eventi duramente sofferti della storia avevano avuto modo di entrare in crisi e di produrre sfiducia, contrastata, nei più fieri (il Foscolo tra quelli) da un senso severo della dignità e della coerenza ai principî, pur nell’opposizione alla nuova tirannide napoleonica, Si aggiunga il ritmo accelerato, quasi frenetico, delle esperienze che coinvolse tutta quella generazione nel giro vorticoso di un’avventura irripetibile, che lasciò alla fine esausti, come per uno sforzo immane di vita. Con la caduta di Napoleone ed i primi anni della Restaurazione il ritorno degli Austriaci a Milano sembrava avvenire nei segni apparenti del buon governo e di una certa tolleranza liberale. Foscolo che pure aveva accettato di stendere il programma della « Biblioteca Italiana », si era presto disilluso ed aveva scelto l’esilio. I letterati della nuova generazione, i vari Pellico, Borsieri e Berchet, e Di Breme, quest’ultimo quasi coetaneo del poeta dei Sepolcri, ma dislocato per maturazione ed attività nei primi anni della Restaurazione, affacciatisi alle lettere tra gli anni estremi del « bello italo Regno » ed i primi della nuova gestione austriaca, tentarono di misurarsi con un preciso programma di rinnovamento culturale, letterario e civile, nella convinzione che, usando moderazione e fermezza, si potesse riprendere il discorso interrotto delle riforme del buon governo illuminista. L’atteggiamento dell’Austria, in un primo momento almeno, sembrava offrire qualche speranza, presto delusa, appena la situazione politica divenne più definita.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 121 Ma in quei primi incerti avviamenti, e poi nelle difficoltà di un clima sempre più repressivo e poliziesco, il programma fu portato avanti con lucida coerenza e preciso disegno : era la progettazione, ancorata alla realtà, di una società più moderna, nella cultura, nelle industrie, nei commerci di idee e di beni, aperta all’Europa, e prima ancora aperta all’Italia dalle tante patrie, nell’aspirazione, non più solo letteraria e retorica, di farne una sola. Un tal progetto aveva a protagonista la classe borghese alla quale si univano aristocratici di mente aperta, ma non più nella posizione di preminenza degli anni illuministici. I tempi erano mutati, non consentivano grandi illusioni, ma solo misurati progressi. L’impegno comune era per una operazione realistica, moderata, che non destasse sospetto nell’Austria. La questione letteraria, e la battaglia romantica, erano in fondo solo un aspetto, neppure il più importante del programma di ammodernamento e di apertura all’Europa, il terreno più adatto sul quale impegnare la lotta, quello che poteva destar meno sospetti per l’antica indifferenza nutrita dai potenti nei confronti delle cose della letteratura. Comunque fosse, e da una posizione diversa, quei primi romantici-carbonari non potevano avere la fiducia del lontano Foscolo. Il loro programma culturale era in un certo senso troppo moderato e concreto, calato nel quotidiano e nello spirito, quanto dire nei tempi brevi, anzi brevissimi ; la loro illusione di riforma una cosa modesta e velleitaria, per lui, letterato di vecchia maniera, abituato alle sintesi dei millenni ed al sublime del verso sonante ; il risvolto politico di esso, se pure si era soffermato a considerarlo, gli sembrava di assai modesto respiro, commisurato ad una procedura di piccoli passi e ad un ambito angustamente regionale. Non si faceva illusioni sull’Austria. Quando era ancora a Milano, nel primo anno dopo il ritorno degli Austriaci, aveva visto giusto, e ne era consapevole. Accettando la direzione della « Biblioteca Italiana » che gli era stata offerta in un momento di provvisoria ed ambigua politica culturale del nuovo regime, non gli sarebbe toccata sorte diversa di quella del più cauto Giordani o del più scaltro Monti, entrambi estromessi, dopo un anno o poco più, dalla gestione del giornale ormai completamente nelle mani dell’austriacante Acerbi, anche lui spesso (tuttodire !) in difficoltà con la censura. Meglio l’esilio e l’Inghilterra. Di lì, e nel breve soggiorno svizzero, lo sguardo spaziava più ampio, il respiro era europeo, veramente europeo ; non quella timida e contraddetta
122 michele dell ’ aquila apertura che era la speranza dei nostri romantici, impaludati in futili questioni di mitologia e di regole aristoteliche. Sentiva nei loro confronti tutto il distacco e la superiorità di chi ha consumato assai più esperienze ed ha una consapevolezza ben più profonda delle lettere : i Borsieri, i Pellico, i Berchet, che tenevano banco erano stati suoi allievi a Pavia, e gli si erano sempre rivolti come a maestro anche negli anni di disgrazia, soprattutto in quelli, aureolato com’era della fama del poeta civile e poi dell’esule ; Manzoni lo aveva visto venir su, e gli era stato anche largo di incoraggiamenti ; Di Breme era solo un aristocratico prelato ligio al regime francese, quando era in Italia ; la sua attività letteraria più consistente era di pochi anni. Tutto quel vociare di regole, di mitologia, di nordiche leggende, di popolarità, quelle polemiche in cui pedanteria ed astrattezze metafisiche prendevano facilmente il sopravvento sul buon senso e sui reali problemi della poesia, lo infastidivano o lo lasciavano indifferente. A tutto questo si sentiva estraneo, ormai ; lui che pure con l’Ortis aveva offerto, assai più di un Cesarotti o di un Pindemonte, un modulo valido, ed in certo modo “popolare” (se si pensa alla diffusione ed alla presa sul più largo pubblico) di letteratura romantica lui che tante battaglie aveva sostenuto in difesa di una letteratura civile, della funzione altissima delle lettere e dell’uomo di lettere in una società che non voglia rassegnarsi alla corruzione e all’inedia. Gli sembrava, inoltre, di aver già risolto per conto suo, e da tempo, certi problemi presentati ora come nuovi e con risoluzioni prospettate in maniera fumosa, fuori dalla concreta pratica dell’uomo di lettere. L’invito alle storie era ben nella sua orazione pavese (1809), così il concetto pedagogico (di alta pedagogia) della letteratura, e lo svolgimento storico dell’umanità secondo prospettive vichiane ; la polemica contro la erudizione fine a se stessa, senza capacità di sintesi storiche ; senza dire del senso profondo della nazionalità, delle sofferenze per esso patite, l’impegno di partecipazione del poeta alla vicenda civile, il suo stesso furore politico, il gusto del moderno, con il sepolcrale, il patetico, il notturno, e dall’altro canto l’amore per l’antico, con una vibrazione struggente che solo un moderno poteva conferire. Ed ancora, il vivo interesse per le letterature straniere contemporanee, lui traduttore di Sterne, sensibile al gusto ossianico e wertheriano, ed ora interlocutore della società letteraria britannica che gli faceva grande onore e gli si rivolgeva con l’ammirazione che si deve al grande poeta esule dalla patria.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 123 Vi era, dunque motivo per quel suo atteggiamento di distacco e di sufficienza. Bisognerà anche considerare che a Londra altre cure lo stringevano in una società diversa, quale quella inglese, assai più avanzata sotto il profilo civile e culturale. La società inglese della quale era ospite proprio in quegli anni viveva nel mito della grande cultura classica, si traducevano gli antichi scrittori,le case delle persone ricche e colte erano piene di libri antichi in edizioni pregiate e le riviste e gli editori accettavano articoli e s’impegnavano in collane di classici. In confronto a tutto questo, che gli era congeniale, il rifiuto degli antichi e della classica mitologia gli sembrava un errore, una enormità antistorica. Lì il romanticismo, di cui si discuteva e di cui veniva considerando le opere e gli scrittori, gli si mostrava in una luce assai diversa, si venava di nostalgia della bellezza antica, era più autonomo ed articolato e ricco di idee, rispetto a quella che doveva apparirgli un’angustia della società letteraria italiana, sempre pronta a voltar in polemiche provinciali, in contrapposizioni personali di comodo, in finti problemi ed antiche querelles anche le questioni più grosse e di maggior conto. Tra l’altro in un mai denegato, anzi prevalente amore per l’antico. E non gli piaceva, inoltre, quella organizzazione semiclandestina, quel trasferire alla letteratura ed ai suoi dibattiti la logica degli schieramenti e delle sètte, le odiate sètte che proprio dalla massoneria inglese erano trapassate in Europa, si diffondevano ora in Italia, ed immiserivano con la loro logica angusta, faziosa, freddamente calcolatrice, le cause anche nobili per cui si dicevano costituite. In letteratura, poi, era ancora più distante, (e la distanza cresceva anche con gli amici-discepoli) se poteva ironizzare con l’Ipercalisse e con il Gazzettino del bel mondo sullo stato della nostra letteratura ; « dimenticarsi » del Manzoni nel saggio apparso col nome dell’Hobhouse ; minimizzare, in quelle stesse pagine, sulla polemica classicoromantica, ingenerosamente definita « una questione oziosa » ; recensire, questa volta con puntiglio e con acume, anche se con preconcetta intenzione contraria, alcuni lavori drammatici, tra i quali il Carmagnola del Manzoni, per mostrare la sua avversione ai principî teorici affermati dalla nuova scuola. Questa sua polemica si alimentava del risentimento e dell’acredine accumulata nei confronti della società letteraria italiana, milanese in particolare ; gli antichi rancori si mescolavano alla naturale diffidenza generazionale, esasperata in chi vedeva le nuove cose (alcune delle quali aveva pur avviato) compiersi fuor delle sue intenzioni e
124 michele dell ’ aquila sotto altro segno. L’asprezza di tono nei confronti del Manzoni, pur dopo l’avallo autorevole del Goethe, in qualche modo va ricondotta in questo quadro, anche se nella recensione affiorano motivi di un dissenso di fondo sul modo stesso di concepire il rapporto tra storia e poesia. Manzoni non aveva fatto lega con i suoi avversari milanesi ; la sua gentilezza e superiore distacco li ricordava bene ; al Manzoni giovanissimo era stato largo di incoraggiamento e di lode, citando alcuni suoi versi del Carme in morte dell’Imbonati in una nota dei Sepolcri. Ma il Manzoni, con il rifiuto della letteratura neoclassica, aveva, in fondo, anche rifiutato il suo modulo di poesia, la sua lezione di parlar sublime. Inoltre, i vecchi insuccessi nel teatro dovevano aver reso il dente avvelenato al poeta di Aiace, ed intollerabile quella manipolazione di storia veneziana (di un’altra delle sue patrie), soprattutto del personaggio del Carmagnola, da lui ritenuto traditore ben punito dal Senato. Ma accanto a questi risentimenti, vi erano delle ragioni teoriche : il rifiuto della distinzione manzoniana tra personaggi storici e personaggi d’invenzione (critica già mossa dal Goethe e poi accettata, ma nel senso contrario, con la soppressione dei personaggi d’invenzione, dallo stesso Manzoni nell’Adelchi) ; il fastidio per la preponderanza della verità storica (che peraltro nel Carmagnola gli sembra mal rilevata), nella quale ravvisa un limite ed un attentato alla libertà della fantasia creatrice ; uguale fastidio per quella preoccupazione di giustificare teoricamente la propria opera di poeta e di mostrare storicamente fondati i fatti accennati (Prefazione e Notizie storiche del Carmagnola) ; l’affermazione della unicità dell’opera d’arte, che non comporta aggregazioni ed assimilazioni di scuola, di gruppo, di poetiche : unicità da intendersi anche nello svolgimento stesso dell’artista : « ciascuna produzione grande è un oggetto individuale che ha meriti diversi e caratteri distinti dalle altre » ; ed ancora, il rapporto tra verità storica e verità poetica, non facile a definirsi (il Manzoni lo sapeva bene), ma che non comportava certamente la sottomissione della poesia alla storia : Il suo rifiuto del programma « progressivo » di quei giovani romantici (e del Manzoni) avveniva dunque per motivazioni diverse e distanti da quelle del giovane Leopardi, ma non senza sotterranee convergenze determinate da un comune sentimento della poesia, passionata e non popolare ed una comune freddezza verso la ricerca dei « venticinque lettori » che imponeva a Manzoni e agli altri un inconcepibile sbassamento di tono.
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 125 La lettura delle Osservazioni cremiane non poteva non produrre un forte effetto sul Leopardi che nel 1818, in Recanati, viveva i suoi anni intensi e spasimati per la letteratura e per la poesia. È noto che il Leopardi non riuscí ad intervenire nella discussione, se non assai più tardi, quando molte cose erano cambiate, anche per lui, da quei primi avviamenti. L’eco delle polemiche e della controversia classicoromantica gli giungeva con le gazzette ed i fogli letterari nella remota Recanati, e lo trovava nutrito fino a quel momento dei succhi della grande cultura erudita settecentesca, inteso al vagheggiamento della poesia degli antichi, ai cui dilettosi inganni riconosceva il carattere di una piena condizione poetica, non più recuperabile in questi nostri tempi moderni. Ma questi spunti e sollecitazioni non le trovava anche in buona parte in certi scritti di Foscolo che gli erano familiari ? E non solo per la comune consuetudine con gli antichi, con Omero, Lucrezio e Virgilio, per la convinzione e capacità di averli a modello,ma in una tensione agonistica, per la convinzione che l’analogia non fosse scoperta della poesia moderna, ma già largamente praticata con risultati di straordinaria bellezza dagli antichi, e che l’erudizione, anche la più scaltrita, non fosse la madre della poesia, ma che essa nascesse da una forza ascosa, da un impulso interiore, da una forte commozione. Si rileggano certe osservazioni di poetica sulla natura e funzione della poesia di Foscolo contenute nella Orazione pavese (1809), sulla imitazione e creazione nella poesia nelle Epoche della lingua italiana (1818), sulla verità storica e verità poetica nel saggio Della nuova scuola drammatica in Italia (1825), scritti foscoliani tutti ben noti al Leopardi che mostra di conoscerli nello Zibaldone ; e si potrà misurare quanto di quelle suggestioni bremiane trovassero rispondenza in altre foscoliane operanti in lui. Aveva letto nel fascicolo dell’aprile 1816 della « Biblioteca Italiana » la risposta del Giordani alla Staël e si era affrettato ad inviare una sua risposta, la Lettera ai Sigg. Compilatori della « Biblioteca Italiana » etc., non pubblicata dall’Acerbi, alla stessa maniera di altri tentativi di collaborazione inviati alla rivista. In tale lettera, come è noto, si può riscontrare un certo allineamento alle ragioni classicistiche del Giordani. In fondo, l’uno e l’altro (e certamente anche il Foscolo lontano) potevano sottoscrivere in buona parte l’invito di Madame a rinnovare, a sprovincializzare, a conoscere, senza per questo imitare, altre letterature, a cercar gloria negli studi severi, a smetterla con
126 michele dell ’ aquila l’alluvione di sonetti e odicine e canzoncine d’occasione, e perfino sull’abuso della mitologia con funzione freddamente decorativa. Ma se nelle righe dell’articolo del Giordani vibrava il risentito moralismo della più sana tradizione puristica, con quel vagheggiamento dei severi studi e la consapevole difesa di una tradizione nobilissima sentita come irrinunciabile ; nello scritto giovanile del Leopardi, il primo che consenta di definire una qualchesia provvisoria poetica, oltre i consensi e gli allineamenti alle posizioni già definite dei classicisti, si agita un più grosso problema, individuale e generale. Se da una parte, per lui che si affaccia alla poesia, vi è il mondo delle favole antiche nelle quali ha trovato fin allora piacere e conforto, e la grande tradizione classica che si pone come indiscutibile riferimento e magistero di poesia ; dall’altra, nonostante la condanna d’obbligo del romanticismo nordico e tenebroso, v’era pur qualcosa che egli sentiva di attraente nell’invito della Staël ad un più largo orizzonte di cultura, ed alla meditazione sulla condizione dell’uomo moderno. Si trattava di definire una linea, alla quale attenersi ; ed essa non poteva non essere quella classicistica, per il momento ; ma intanto, era necessario discuterne, scriverne, chiarirsene. Senza dire che lo stesso canone dell’imitazione sembra esser messo in discussione dal giovane poeta, desideroso di preservare, come è stato notato, « quella divina scintilla », « la forza in quel vivissimo impulso » che è l’ispirazione, la quale non richiedeva modelli, quando il genere umano viveva l’età beata della fantasia poetica, come dimostra l’esempio di Omero e dei Greci. I moderni, per la condizione stessa in cui operano, non possono far a meno dei modelli, ed allora tanto vale ch’essi siano altissimi, quelli che per primi imitarono senza intermediari la natura ed alla sua celeste naturalezza si posero più vicini. Può sembrare – come ha osservato il Fubini – « un rientrare nei recinti del classicismo regolistico » ; in realtà è l’accettazione di una poetica e di un gusto, non senza indipendenza, non senza (come la storia di quella poesia mostrerà luminosamente) la ricerca di una originalità anche formale, per non dire del sentimento e del pensiero, Non può sfuggire, peraltro, che se il tema della originalità della poesia, un tema romantico, risulta fortemente rilevato, con un consenso perfino insolito in un « classicista », già reciso e totale risulta il rifiuto della funzione moralistica ed utilitaristica dell’arte cara ai romantici, e del legame tra essa ed i progressi e le esigenze dell’incivilimento contemporaneo. Il Discorso di un Italiano intorno alla poesia
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 127 23 romantica (1818), di lì a due anni, avrebbe compiutamente e (pateticamente) dichiarato quella poetica, la poetica, per dirla ancora con il Fubini, di un primitivismo classico, antagonistico e vibrante, lontanissimo, nei suoi umori moderni, dal freddo classicismo decorativo di tanti ritardatari contemporanei, già racchiudente in boccio le amare riflessioni dello Zibaldone e la lucida poesia del vero degli ultimi anni. Anche il Discorso, come è noto, rimase inedito, per trascuraggine o indifferenza dello Stella, cui era stato inviato per la pubblicazione, e l’Italia perdé la possibilità di una polemica ben altrimenti proficua di quella che sullo stesso tema di Byron e del Giaurro vide contrapposti il Di Breme ed il Londonio. Anche qui le posizioni sembrano rigidamente assunte, e sono quelle della difesa della tradizione contro i « romantici » cui non si risparmiano le accuse ricorrenti di voler sostituire orrori e nordiche oscurità in luogo del bello solare e sereno dell’antica poesia, il vero, l’arido vero, in luogo dell’illusione e delle dilettose immagini ; e vi si poteva ben riconoscere, accanto alle inclinazioni neoclassiche del momento, ed anzi più forti di esse, i residui della poetica settecentesca resistenti nella pàtina di una più assorta cultura provinciale ; la funzione edonistica, di piacevolezza, di intrattenimento, della poesia : il decorativo da un lato, il consolatorio e l’evasivo dall’altro. A un tale classicismo tardo settecentesco rimane, in fondo, ancorata (a parte le originalissime aperture e certe vibrazioni di tono e consistenza di spessore poetico) la prima poesia leopardiana, quella che precede le canzoni. « Il poeta – egli dice – deve illudere, e illudendo imitare la natura, e imitando la natura dilettare ». Da una poesia siffatta restano esclusi, naturalmente, realismo, modernità in senso ‘popolare’ ed istanza pedagogica, cioè il programma dei romantici italiani ; ed anzi a seguire le argomentazioni del Discorso, sembrerebbe di poter configurare con nettezza di contorni un Leopardi classicista intransigente. La perorazione finale, con accesa e perfino patetica esortazione ai Giovani Italiani a muoversi a compassione delle sventure d’Italia e a volerle risparmiare quest’altra calamità, quanto dire le innovazioni della scuola romantica, dissolvitrici di quanto ci resta della gloriosa tradizione, sembrano anzi allinearlo con l’ala più intransigente e ‘na23. Per il testo del Discorso oltre che a Tutte le Opere di G. L., a cura di W. Binni, E. Ghidetti, cit., si rimanda al testo da me pubblicato presso Schena, Fasano, 1989.
128 michele dell ’ aquila zionalistica’ dello schieramento ; e corre subito la mente alla lettera del Botta al Di Breme, ma anche ad alcune tirate del Foscolo. Se non che, a parte la connotazione particolare di un tale classicismo, non è difficile riconoscere in un tale rifiuto non tanto (anzi, tutt’altro) un dissenso rispetto alla richiesta di un rinnovamento profondo nelle forme e nei temi letterari, all’aspirazione ad un più vasto commercio di idee, con fini altissimi assegnati alla letteratura, ben più alti di quelli mediocri dell’intrattenimento e del decoro di cui sembravano appagarsi tanti contemporanei ; quanto, senza dubbio, una difesa quasi autobiografica di quel mondo di illusioni e di favole antiche di cui si era nutrita la sua adolescenza. Un tale mondo, che pure era stato da lui stesso illuministicamente, ma con troppo giovanile baldanza (anche se non priva in tutto di abbandoni e di ritegni) condannato nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, ritornava ora, confondendosi nel più largo concetto di natura, di cui gli antichi sarebbero stati i più schietti ed istintivi interpreti, ricevendone dolcezza e consolazione, mentre i moderni, sempre più lontani da quel modello di vita nelle vicende del loro incivilimento, ne rimanevano irrimediabilmente esclusi. Era, come è facile vedere, una difesa del mito, assai più che della mitologia ; della condizione di grazia dei poeti antichi, assai più che delle forme in cui essi si erano espressi, le quali, ancorché perfette, non costituivano ai suoi occhi modelli obbligatori e pedantescamente vincolanti. E non è chi non veda quanto siffatte posizioni fossero compatibili con quelle foscoliane. Come in quelle vi era, inoltre, una vibrazione personale, di una vicenda sentita individualmente, oltre che storicamente ; di qui il patetico di certi periodi, come quando (ed è il vero nucleo generatore del Discorso) richiama alla esperienza di ciascuno, da lui fortemente sentita, la fanciullezza favolosa e ricca di immaginazione, la brevissima, poetica età dell’uomo moderno : Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia ; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna...
Una posizione che avvicinava oltre che al Foscolo della prolusione pavese ad altri poeti di un altro romanticismo, in gran parte estraneo
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 129 al nostro, che riguardava l’antico e l’Ellade favolosa come ad una dimensione ideale dello spirito, e ne sentiva « romanticamente » la nostalgia. Anche il Di Breme ed i romantici nostri indicavano la natura come unica fonte di ispirazione, ma vi includevano evidentemente anche l’uomo e la storia : « S’io parlo di esporre l’animo all’azione della Natura, intendo non meno i di lei quadri morali che fisici, ed ho l’uomo per primo degli oggetti da contemplare, e la conoscenza dei tempi e dei costumi per essenziale parte di questa Natura » (Di Breme, Osservazioni sul Giaurro di Byron). Il Leopardi, per il momento, come Foscolo, era lontanissimo da questo accoglimento, come è alieno da quei colori del vero di cui i romantici vogliono intinta la rappresentazione poetica. Per lui, almeno in questa fase del suo svolgimento, il contrasto classicismo-romanticismo tende a cangiarsi nella opposizione di illusione-realtà, con un abbandono fortemente patetico verso le illusioni e la favolosa condizione naturale degli antichi. Nei colori del sogno con cui si disponeva a rappresentarle, si trovavano naturalmente mescolate antiche forme classiche, materiali d’arcadia, favole antiche, ed una pàtina d’irrealtà, di sogno assorto e favoloso, appunto, già consapevole, per istinto, che fuori di esso non v’era che l’arido vero. Naturalmente, come è noto, la resistenza ad uscire da una tal dimensione incantata non vuol dire che il Leopardi non vi uscisse ; e la stessa esperienza poetica degli Idilli, inclinati verso forme di autobiografismo lirico, di poesia della memoria, di condizione presente, rappresentata nella sofferenza-consolazione della parola, è già fuori di quel giovanile classicismo trasognato, che pur aveva le sue valide motivazioni, sia culturali che autobiografiche. Negli anni maturi della negazione delle facili fedi del riformismo sia laico che cattolico, il suo « classicismo » assumerà ben altra antagonistica e polemica motivazione, fino a costituirsi per la straordinaria forza patetica che lo innerva, come la più alta nostra voce poetica « romantica ». In lui, come in diversa maniera ed esiti nel Foscolo, risultava operante la crisi della ragione illuministica, assorbiti tutti gli aspetti contraddittori della cultura settecentesca, nei quali già, come in un controcanto doloroso affioravano frequenti i toni di una disperata sfiducia nei miti di una Ragione, e, per contro, il vagheggiamento struggente di un’antica condizione di natura, fanciullezza beata del mondo, irripetibile condizione per l’uomo moderno ridotto nell’arida dimensione del vero. Vico, le pagine della Scienza nuova ove
130 michele dell ’ aquila quella prima età veniva rievocata con le implicazioni poetiche di una prevalente attività della fantasia perturbata e commossa, gli riuscivano persuasivi attraverso la lettura di Rousseau ; e trovava conferma in esperienze autobiografiche che ne rendevano ancor più patetica e personale la soufrence : quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli, e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia....
Un Vico ed un Rousseau risentiti con vibrazioni nuove, patetiche e disperate, quasi presaghe delle tristi vicende che lo attendevano. Cosa poteva dire a questo cuore, che soffriva l’incivilimento come un allontanamento dalla felice condizione di natura, il programma del nostro romanticismo, con il suo vero, l’utile, l’interessante (ma nell’ambito del verosimile, del quotidiano, del contemporaneo), quel programma di progresso « popolare », di poesia pedagogica, di « magnifiche sorti e progressive » ? Il suo rifiuto in questo senso era totale ; per un tal canto, disperato e consolatore, non la dimensione del realismo e della storia, della quotidiana e rassegnata esperienza degli uomini, lo appagava in quegli anni, ma l’ideale sovramondo del mito, anche (soprattutto) nella esperienza individuale ed autobiografica, da contrapporre alla trita realtà quotidiana ; e poi via via negli anni, sempre più senza speranze né desideri, ma come modulo alternativo in cui esprimere non più il sogno o il piacevole incanto del mondo fanciullo, ma la dolente elegia dell’uomo moderno ; infine, nel cedimento dei residui inganni, la ferma resistenza, la coraggiosa consapevolezza della universale condizione di dolore. Si comprende la ragione del suo distacco dal programma riformatore dell’« Antologia » ed il rifiuto opposto all’amico Vieusseux che lo invitava a collaborarvi : era il rifiuto coerente del modello riformistico-moderato in cui si esprimeva il nostro primo romanticismo. Nello svolgimento leopardiano, come è noto, l’incanto giovanile e la elegia dolente cede via via al titanismo disperato, alla pietà, e poi alla negazione lucida, radicata nella coscienza razionale e materialistica del secolo dei lumi, alla protesta contro una antica ed eterna iniquità ; e nello stesso tempo contro le mistificazioni, i misticismi, gli ottimismi, sia pur moderati, del nuovo secolo ; una poesia, peral-
suggestioni foscoliano-bremiane in leopardi 131 tro, (non sembri un paradosso) « che è rapimento, entusiasmo, illuminazione, che rifiuta le strutture razionali o realistiche, e tende a realizzarsi come ritmo, immagine, musica, parola », come egli stesso dice nello Zibaldone ; senza peraltro rinunziare ad esprimere pensiero, ideologia, verità. L’inno Alla Primavera, del 1822, enuncerà liricamente (con ben altra forza che non il Sermone sulla mitologia di Monti) la poetica già delineata nel Discorso, e maturata attraverso infinite riflessioni sulla poesia e sulla condizione umana consegnate alle pagine dello Zibaldone, alle quali bisognerà riferirsi per individuare le motivazioni di quella ispirazione solo apparentemente riducibile al classicismo tradizionale, mentre in realtà realizzava per altra strada che non quella dei « conciliatori » e del Manzoni, un modulo di poesia fortemente meditativa, affidata ad una prorompente vena di affetti, quanto dire di poesia, anzi di lirica (poiché quella dei nostri tempi è riducibile al solo genere lirico) moderna (e dunque romantica) inclinata alle vibrazioni del patetico, ai motivi fascinosi della ricordanza, ma anche ai toni titanici ed eroici di un antagonismo umano nei confronti della condizione esistenziale. Si realizzava, dunque, per altre strade, un romanticismo italiano più vicino, anche nel suo atteggiamento di rifiuto e di protesta, alle scelte di molti grandi romantici europei, alle quali lo accostavano anche la concezione, diversamente motivata, ma non del tutto difforme sotto il profilo oggettivo, di uno stato di natura, dell’età antica e favolosa, del mito, dell’Ellade giovane ed eroica, dello stesso classicismo concepito fuori di ogni costrizione regolistica e pedanteria d’imitazione ; insomma, quel romanticismo « ellenico » di tanti romantici europei, inglesi e tedeschi in particolare, che sembrava precluso a noi, almeno in quegli anni, dalla prevalente scelta borghese, moderata, realistica e civile dei « conciliatori » e del Manzoni. Ma. tutte le motivazioni (ed il serrato dibattito interiore) restavano in gran parte inespresse, consegnate alle carte inedite e a quelle pure esse inedite dello Zibaldone, ai carteggi con interlocutori o indifferenti o poco ricettivi o già fortemente orientati ; neppure molto alla conversazione, essendo il Leopardi taciturno per lo più, dopo gli anni giovanili, e di non molti ascoltatori : un tesoro da riscoprire lentamente ; la linea « romantica » leopardiana era ancor tutta da riconoscere. Allo stesso modo, e per le stesse motivazioni, sempre per la sopraffazione dei miti ritenuti prioritari della popolarità, della pedagogia,
132 michele dell ’ aquila del realismo, non trovava attuazione e svolgimento quella « rivoluzione cartesiana » che pure il Di Breme aveva auspicato nel campo delle lettere e della poesia, attraverso una ispirazione che saltando i modelli si rivolgesse direttamente alla natura, all’uomo, e sapesse coglierne la vita vera, le segrete analogie che il sentimento avrebbe percepito e la parola avrebbe espresso ; analogie che non son già quelle della metafisica rigorosa, né della storia naturale, né delle scienze matematiche. L’universo poetico è un tutto governato da queste leggi di analogia : il capirle non è dato a chi non le sente ; il sentirle profondamente è proprio soltanto di quegli animi generosi e dilicati, che diconsi e sono poeti. (Osservazioni sul Giaurro, in Bellorini, cit., i, p. 270).
La nostra letteratura, per riscoprire l’analogia e le sue possibilità poetiche, avrebbe dovuto attendere il decadentismo. Il nostro romanticismo, almeno il primo, su tal terreno non manterrà l’impegno, e non seguirà i pur ammirati Byron, Shelley, Keats, Hölderlin, e via dicendo. Di Breme mostrava di interpretare le ragioni della poesia e quelle più concrete dell’incivilimento e del progresso : nei suoi scritti coesistono le due coscienze del nostro romanticismo, ma appare anche evidente la preferenza accordata, almeno per il momento, alle ragioni civili. La « rivoluzione cartesiana » della letteratura era, per Di Breme che sarebbe scomparso nel ‘20, e per quella generazione romantica, solo un auspicio. Ma forse, come per molte rivoluzioni vere, sul versante della poesia avrebbe provveduto a farla, nell’apparente continuità, il ‘classicista’ Leopardi.
PARINI IN LEOPARDI
A
scorrere lo Zibaldone, le lettere e le altre cose leopardiane non si può dire che Parini vi abbia una frequente né forte presenza, almeno in termini di citazione. Pochi sono i riferimenti e in qualche modo riduttivi, anche se di tutto rispetto. Vi si dice che non è un poeta poeta, piuttosto un artista ; che inclina alla malinconia anche nel comico ; viene peraltro associato sempre ai grandi, Alfieri, Foscolo, Monti, Botta, ed anche al Petrarca e a Dante. 1 Il nome di Parini è accomunato a quelli di Alfieri, Monti, Tasso, Ariosto nella sdegnata denuncia al Giordani dell’ignoranza dei recanatesi, ma anche di molti letterati europei. 2 Nelle Carte napoletane si trova tuttavia qualche 1. « Dal trecento in poi lo stil poetico italiano non è stato richiamato agli antichi esemplari, massime latini. né ridotto a una forma perfetta e finita, prima del Parini e del Monti. Parlo dello stile poetico perché nel resto se si eccettuano quanto agli affetti il Metastasio e l’Alfieri (il quale però fu piuttosto filosofo che poeta) quanto ad alcune (e di rado nuove) immagini il Parini e il Monti (i quali sono piuttosto letterati di finissimo giudizio che poeti), l’Italia dal cinquecento in poi ha avuto solamente versi senza poesia » (Zibaldone, 701). Nella rassegna della poesia sei/settecentesca contenuta nelle prime pagine dello Zibaldone alle notazioni di lode di biasimo o di riserva nei confronti di questo o quel poeta, a Parini tocca, insieme all’Alfieri e al Monti la lode di esser « illesi » nella generale corruzione, ma le nostre opere grandi non possono esser stimate « opere tutte senza difetti, perfettissime, ma insomma non più originali. Esempio manifesto del Parini, Alfieri, Monti ecc. Non si avevano più poeti spontanei perché tutto era arte » (Zibaldone, 1-4). Ed ancora : le opere moderne di poesia sembrano di una perfezione senza vita, « non son quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali », insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto » (Zibaldone, 10) Ed ancora : « Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano quanto ci mancasse (in fatto di stile poetico), e quanto poco si sia guadagnato » (Zibaldone, 1057). Nel confronto prosa-poesia, nella convinzione che la poesia conservi meglio la lingua antica che non la prosa, annota che « il linguaggio e lo stile delle poesie del Parini, Alfieri, Monti. Foscolo è più propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de’ nostri poeti » (Zibaldone, 3418). Sui poeti malinconici, che nei nostri tempi sono i veri poeti, Leopardi osserva che « il Parini tende anch’esso alla malinconia, specialmente nelle Odi ma anche nel Giorno per ischerzoso che paia. Il Parini però non aveva bastante forza di passione e di sentimento, per esser vero poeta » (Zibaldone, 2363). Nei tempi moderni, ovunque non regna il malinconico, ne sarebbe causa la debolezza di passione e di sentimento. 2. Lettera a Pietro Giordani, del 30 aprile 1817. Lettera ai Compilatori della Biblioteca Italiana del 18 luglio 18 16.
134 michele dell ’ aquila notazione di maggior stima, frutto forse anche di una più approfondita conoscenza : al traduttore di Virgilio, si raccomanda « di studiare assaissimo il Parini, e quanto più al (verso) Pariniano s’accostasse, tanto più avrebbe di Virgiliano » ; lodando l’Arici che annunciava una traduzione delle Georgiche, lo indicava come colui che aveva « rimenato il Parini assiduamente » ; ai traduttori di Virgilio raccomandava Parini anziché il Caro : E chi non comprende quale divario sia dallo stile (sempre grande) di Virgilio a quello del Caro, metta il Caro col Parini : e questo confronto sarà il caso anche per coloro (e non saranno pochi) che non crederanno poter Virgilio parlare l’italiano altramente che presso il Caro. Veggano come parla Virgilio della moderna Italia, veggano se nel suo stile è ombra di quella del Caro, veggano se a Virgilio si può far parlare l’italiano virgilianamente... Dovrebbe un traduttore di Virgilio studiare assaissimo il Parini ; e quanto più al pariniano si accostasse tanto più avrebbe del virgiliano. 3
Sembra riferirsi al Parini anche una notazione di censura in Zibaldone 3552, in cui si dice chc al poeta didascalico «non dev’essere che una maschera la persona dell’insegnatore », se si pensa che invece il Parini, almeno nelle prime due parti del Giorno, vi appare alquanto scoperto. Un bisogno di maggior conoscenza può forse dedursi da alcune lettere al Brighenti, intorno al 1823 in cui leggiamo di una richiesta di acquisto dei due tomi delle Poesie del Parini 4 e nel’27 al Pepoli, di prestito di quell’opera. 5 La prima, forse da mettersi in relazione al progetto di operetta titolata appunto Parini o della gloria, del 1824, la seconda con il lavoro della Crestomazia. Ma già in una lettera al Giordani del 19 febbraio 1819, non nascondeva la sua convinzione allorché, discorrendo di generi letterari e di autori, dichiarava di concordare con il Parini « che anche questo genere capitalissimo di componimento (allude al genere lirico) abbia tuttavia da nascere in Italia, e convenga crearlo ». Nelle Memorie e disegni letterari, venendo a tratteggiare in sintesi la « presente condizione delle lettere italiane », si proponeva di evidenziare 3. Delle traduzioni poetiche. La Titanomachia di Esiodo. 4. « Del Parini, quando non abbia ad essere con troppo vostro fastidio, gradirò molto che lo proccuriate da Milano, e lo mandiate per la posta, coll’avviso della spesa. Intendo, come vi dissi, il tomo delle poesie, che mi par che si venda separato ; se no, tutti due » (lettera a Pietro Brighenti, del i° marzo 1822) 5. Lettera a Carlo Pepoli, del 18 maggio 1827 : « Se con tuo agio potrai farmi avere per pochi momenti il Parini, lo avrò ugualmente caro ».
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In materia di poesia il polimento, che ha ricevuto in questi ultimi tempi per opera dell’Alfieri del Parini del Monti, dell’Arici e poi del Pindemonte e del Foscolo ec. Il suo incamminamento totale alla maniera latina e Virgiliana, lo sgombramento delle riempiture degli epiteti ec. Tanto e poi tanto frequenti appresso i nostri, quantunque ottimi poeti antichi, anzi di tutti i tempi fino agli ultimi anni dei tanti ornati vani ec. Per la composizione e l’impasto dei quali non c’è dubbio che paragonando lo stile di mollti, anzi dei più de’ cinquecentisti, p. es. del Tasso, con quello di Virgilio, si può considerare come orpello rispetto all’oro, giusta il famoso detto di Boileau.
Nelle Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824, dichiarava la dissimiglianza di esse da ogni altro esempio corrente, comprese le liriche del Parini. Un tale distanziamento, che meravigliò anche il Giordani, 6 e la serie di riserve – cui potrebbe aggiungersi il non averlo incluso, forse solo per non aver avuto una vita di sofferenze al pari degli altri, nella galleria dei grandi della canzone Ad Angelo Mai, quella sorta di leopardiano carme Dei Sepolcri, non deve tuttavia far pensare che nel segreto della sua officina di poeta non ne facesse gran conto e non lo prendesse a modello in più di una occasione. È nota certa reticenza leopardiana riguardo alle sue fonti ed i silenzi su autori che pure il riscontro dei testi induce a ritenere fossero non solo noti, ma presenti nella memoria e sullo scrittoio. Il caso di Ciro di Pers può ritenersi esemplare. 7 Parini nella stima del tempo rappresentava con il Monti e con il Foscolo, ed in qualche modo l’Alfieri, il culmine della nostra poesia. Leopardi poteva non averlo in gran simpatia per la sua calma ispirazione, per quel suo comporre pacato, quasi senza impulso, che contrastava con la leopardiana concezione forte e patetica del poetare e della poesia (« che sta essenzialmente in un impeto » (Zibaldone, 4356, agosto 1828) ; ma era troppo consapevole della necessità dell’arte, dell’intarsio e della ‘letteratura’ per trascurare la lezione di quel « gran fabbro del parlar materno », per quel « maestro del numero, dell’epiteto felice, dell’iperbato sapiente », come lo definisce il Natali. 8 6. Pietro Giordani, in una lettera del 1825 Al più caro degli amici, in Scritti editi e postumi, Milano, Borroni e Scotti, iv, p. 131. 7. Rimando ad un mio saggio su Leopardi lettore di Ciro di Pers ?, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del Convegno leopardiano di Recanati del 1976, Firenze, Olschki, 1978. 8. G. Natali, Viaggio col Leopardi nell’Italia Letteraria, Milano, Montuoro ed., 1943.
136 michele dell ’ aquila La lezione pariniana in Leopardi, peraltro, non sembra abbia interessato più di tanto la critica. Alcune concordanze sono indicate tra gli altri da Binni, 9 e più dal Bigi, 10 e sono utili i riscontri offerti da Dante Bianchi ed Emilio Santini, da Giannantonio, da Giulio Herczeg e Norbert Jonard ; 11 e dietro ad essi le pagine relative di quel gran conoscitore della letteratura settecentesca che fu Giulio Natali. 12 E già da esse risalta una attenzione non marginale ed un prelievo di figure, stilemi, lessico poetico non irrilevante. Mi sembra tuttavia che la lezione pariniana non possa restringersi a questo ; v’è ben altro – almeno mi sembra – a livello di poetica, di sensismo/edonismo, e soprattutto, di tecnica della composizione, di pregnanza lessicale, della ricerca di una forma ‘alta’ messa a rincalzo, quando necessario, di una materia realistica o quotidiana. Armoniche pariniano-leopardiane è dato riscontrare senza dubbio nei registri dell’ironia, del sarcasmo, del riso, così frequenti nelle due opere, accanto agli altri dell’eloquenza e della naturalezza. La svolta d’attenzione avviene già nelle Canzoni, dall’Angelo Mai e prima dalla seconda patriottica Sopra il monumento di Dante : basterà fermarsi a considerare la densità e la ricerca espressiva del lessico, dell’aggettivo. In quest’arte, e nella naturalezza e forza che dev’esser propria della poesia, Leopardi dichiarava maestri Virgilio ed Orazio, ma sembra non disdegnasse di usufruirne attraverso il filtro pariniano. Fu notato da molti, anche contemporanei, che Parini era stato escluso dalla galleria dei grandi nella canzone Ad Angelo Mai. Non so se l’avergli intitolata l’operetta del ’24 e l’averlo chiamato a tenere quel discorso sulla gloria, in cui si mescolano il disinganno e fermezza morale, fosse un modo di riparare all’omissione. Resta che l’operetta, ed il ritratto del poeta che l’apre, dichiarano una stima alta, senza incrinature non solo per l’uomo, ma per la sua statura nelle lettere contemporanee : un Parini certamente foscolia9. Walter Binni, nelle pagine della introduzione a Tutte le Opere, cit., e poi nella Protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973 ; ma anche in Primo romanticismo italiano, Bari, Laterza, e nel saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento, in Leopardi e il Settecento, Atti del i Convegno recanatese del 1962, Firenze, Olschki, 1964. 10. E. Bigi, Leopardi e l’Arcadia, in Leopardi e il Settecento, cit. 11. Tutti nel vol. Leopardi e il Settecento, cit. 12. G. Natali, op. cit.
parini in leopardi 137 no, di più forte inclinazione pessimistica, portatore di un messaggio vicino a quello della canzone Nelle nozze della sorella Paolina : « o miseri o codardi/figliuoli avrai. Miseri eleggi… » ; un Parini mediato dal discorso di Teofrasto morente ai discepoli e dai succhi amari dell’alfieriana operetta Della virtù sconosciuta. Il ritratto del poeta che apre l’operetta non appare frutto di finzione scenica ma di profonda convinzione, e quasi anticipa « l’uomo nuovo » desanctisiano : Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza delle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente : cose ormai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, com’è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d’animo, costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità.
Nell’operetta, naturalmente, il rapporto tra Parini ed il suo giovane amico è giocato su risvolti autobiogralici e parafrasa l’amara consapevolezza acquisita dal contino recanatese che si dichiarava « spasimato della gloria » dopo l’impatto col mondo, gl’inconvenienti della condizione letterata nel piccolo borgo e nelle grandi città, le invidie, i disagi della salute, ed infine l’accettazione del ruolo, nella coscienza di un destino da sostenere, quale che sia, con orgogliosa umiltà. Gli altri attendono ad operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito,di molti piaceri umani ; privi di molti altri per volontà ; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi ; hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l’ottengono, dopo sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande ; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano.
Riprendendo la concezione classica circa la superiorità dell’azione sul pensiero e sulle lettere, che doveva averlo affascinato non poco nella giovinezza « spasimata di gloria », Leopardi poneva in bocca al Parini queste parole che mostrano di avere più di una radice autobiografica : E veramente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni ; non è dubbio che
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l’operare è tanto più degno e più nobile dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niun ingegno è creato dalla natura agli studi ; né l’uomo nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa medesima età ; come, a cagion d’esempio, Vittorio Alfieri, furono da principio inclinati straordinariamente alle grandi azioni : alle quali ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi.
Perché dunque Parini, proprio Parini, chiamato al ruolo di Mentore di una così disincantata e forte concezione della poesia e della vita ? Né la considerazione si ferma alla figura dell’uomo. Non sembra un caso che proprio al Parini Leopardi ponga in bocca la difesa di Virgilio (« l’esempio supremo di perfezione agli scrittori ») e della sua infinita superiorità sopra ogni altro poeta « moderno » da qualche parte messa in dubbio. E sempre per rimanere allo stile ed alla forza di fascinazione di esso in ogni scrittura l’affermazione di questo Parini/Leopardi non può non sottintendere un sotterraneo rapporto di ascendenza e modello letterario ; si dice, infatti che va ben considerata quanta sia nelle scritture la forza dello stile, delle cui virtù principalmente, e dalla cui perfezione, dipende la perpetuità delle opere che cadono in qualunque modo nel genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in istato, che ella ti par cosa di niuna stima.
Credo si debba riflettere su questa affermazione, sia per quanto attiene in assoluto alla poesia ed alla pagina leopardiana essenzialmente affidata in molti casi alla straordinaria fascinazione dello stile, sia per quanto vi s’intravede relativamente alla strenua cura formale comune ai due poeti,alla loro inesausta elaborazione,ripensamenti, ritorni, successione di varianti, correzioni e puntigliose difese delle scelte lessicali, anche in lungo procedere di anni : intendo la mai dismessa revisione sia del Giorno che dei Canti. Ma già prima, nel Discorso sopra il romanticismo, negli anni giovanili delle sue freddezze e distanziamenti nei confronti della poesia pariniana, nella dichiarata preferenza delle scene di vita rustica rispetto a manifestazioni di un ‘popolare’ cittadino, Leopardi sembra non essere insensibile alle suggestioni che certo gli venivano dalla tradizione arcadica, ma non meno da quelle prime odi pariniane
parini in leopardi 139 13 sulla Vita rustica appunto e la Salubrità dell’aria D’altro canto tutta la zona ‘idillica’ della poesia leopardiana (che poi a guardar bene è straziatamente elegiaca) 14 osserva questa preferenza per un paesaggio naturale che assume il valore di una metafora figurativa di stato esistenziale. Nella Vita solitaria la suggestione pariniana risulterà più appariscente, ed accanto ad echi del Monti degli sciolti Al Principe Sigismondo Chigi, alle elegie del Gray nella traduzione cesarottiana, al Foscolo ed agl’immancabili Virgilio e Petrarca, Parini del quadro di esordio della Notte e di alcune odi risalta scopertamente nel confronto campagna/città e nella polemica anticittadinesca dei versi 75-91 : Infesto scende Il raggio tuo fra macchie e balze e dentro A deserti edifici, in su l’acciaro Del pallido ladron ch’a teso orecchio Il fragor delle rote e dei cavalli Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi Su la tacita via ; poscia improvviso Col suon dell’armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passegger, cui semivivo e nudo Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre Per le contrade cittadine il bianco Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo e resta, e si spaura Delle ardenti lucerne e degli aperti Balconi. 15 13. G. Leopardi, Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, in Tutte le Opere, cit., p. 922 : « Ed è stato già notato che le similitudini de’ sommi poeti sono per lo più tratte dalle cose campestri ; ma i romantici con altrettanto studio s’ingegnano di cavarle dalle cose cittadinesche, e dai costumi e dagli accidenti e dalle diverse condizioni della vita civile, e dalle arti e dai mestieri e dalle scienze e fino dalla metafisica ». Per il Discorso rimando anche alla edizione da me curata a fronte delle Osservazioni sul Giaurro di Byron del Di Breme, con cui esso è in contraddittorio, Fasano, Schena, 1989. 14. Per tale interpretazione rimando al mio recente volurne La linea d’omhra. Note sulla elegia di Leopardi, Fasano, Schena, 1994. 15. Il richiamo è ai versi 68-70 del Mattino (« col fragor di calde / precipitose rote e il calpestio / di volanti corsier ») e di Notte, vv. 21-23 (« Il sospettoso adultero che lento / col cappel sulle ciglia e tutto avvolto / entro al manto se’n gìa con l’arme
140 michele dell ’ aquila In un passaggio dedicato alla Viita solitaria, giudicata peraltro da non pochi critici intrisa da troppa letteratura, Binni parla di « passi e quadri così letterari e poco funzionali da richiamare fin troppo vistosamente i loro punti di appoggio (il Parini del Giorno e il Pindemonte delle Quattro parti del giorno) ». 16 A parte il dissenso di fondo sul valore poetico dell’idillio, che con gli altri di quella stagione mi sembra abbia ben altro risalto e funzione nell’arco dell’esperienza poetica ed umana di Leopardi, 17 quel che mi appare interessante qui mettere in rilievo non è tanto la suggestione delle immagini e perfino dei lemmi, quanto la capacità di appropriazione e diversificazione della fonte, e soprattutto la non isolata assunzione di una lezione stilistica nello scavo del lessico, in quello che si può indicare come involucro classicistico a presidio e salvaguardia di un contenuto realistico, nel tentativo di sollevarne la rappresentazione rispetto alla soglia ritenuta impoetica del quotidiano : orientamento che, con diversificazioni ed equilibri, fu originalmente di un certo Leopardi, in tal caso alla scuola di Monti, dei neoclassici, di Foscolo delle Odi, ma anche (forse soprattutto) di Parini. Un tale procedimento si ritrova, infatti, anche fuori della stagione idillica, nella rappresentazione satirica della decadenza moderna, del lusso, delle illusioni dei contemporanei, nei versi della Epistola al Pepoli, dei Paralipomeni e della Palinodia, componimenti questi ultimi intensamente pariniani, nella satira della società moderna, nella rappresentazione della quale uno stile ‘alto’ sembra adoperato quasi ‘a protezione’ di una materia frivola, come per esasperarne il grottesco. Nella Epistola non solo la situazione satirica è pariniana (l’ozio neghittoso, la noia incombente, la dissipazione, la ricerca ossessiva di eleganze, il vuoto esistenziale, orazianamente messi a confronto con la vita industre dei semplici), ma certo lessico, l’aggettivo elaborato a renderlo fortemente espressivo : « faticoso » riferito a retaggio, che richiama in Parini il « faticoso ozio de’ grandi » (Alla Musa, 21). ascose ») ; ma anche per molte scene e figure di vita rustica e di operosa quiete campestre. 16. W. Binni, Introduzione a Giacomo Leopardi, Tutte le Opere, cit., p. xlii. 17. Rimando alle pagine relative della mia Linea d’ombra, cit., ed alla lettura dell’idillio presentata in occasione delle Letture leopardiane di Torre del Greco ora nel volume Lettura leopardiana, a cura di A. Maglione, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 299-319.
parini in leopardi 141 Naturalmente « l’ozio » leopardiano qui rappresentato è la noia stessa del vivere faticosamente contrastata e qualche volta elusa, dall’impegno della vita attiva che crea distrazione. Tutti, nobili ed umili, ricchi e poveri ne sono oppressi : così, il giovin signore « delle vesti e delle chiome il culto / e degli atti e dei passi, e i vani studi / di cocchi e di cavalli, e le frequenti / sale, e le piazze rumorose, e gli orti, / lui giochi e cene e invidiate danze / tengon la notte e il giorno ; a lui dal labbro / mai non si parte il riso ; ahi, ma nel petto / nell’imo petto, grave, salda, immota, / come colonna adamantina, siede noia immortale… » (Epistola a Carlo Pepoli, vv. 63-73). Sul tema della noia le concordanze sono numerose, non solo a livello di lessico e di immagini, anche se, com’è stato rilevato, 18 la noia del giovin signore di Parini (« questi noiosi e lenti / giorni di vita cui sì lungo tedio / e fastidio insoffribile accompagna… », Mattino, 8-10), non è quella romantica di Leopardi, che in positivo ne fa il segno delle anime grandi cui risulta negata dalla nequizia dei tempi l’esercizio della virtù, mentre in negativo è la « nebbia di tedio » che affligge il « secol morto ». In Parini, secondo l’edonismo sensista cui partecipava, la noia del giovin signore ha qualcosa di tetramente languido, di morbido, di sonnolento, sembra levarsi da disfatti boudoirs e « sprimacciate piume ». La rappresentazione della bellezza femminile nell’Epistola (« dolce parola di rosato labbro / e non lo sguardo tenero, tremante, / di due nere pupille, il caro sguardo, / la più degna del ciel cosa mortale » vv. 74-77) richiama analoghe rappresentazioni pariniane delle odi Il messaggio, Il pericolo ; modelli presenti anche nella rappresentazione della bellezza muliebre nell’ode Il risorgimento, e poi nei versi di Aspasia. Il « mercatante avaro » che rimanda al pariniano « il mercadante... Chiama / dura avarizia » (Alla Musa, 1-3) ; etc. un procedimento già avviato nella serie aggettivale delle prime canzoni e negli elenchi di aggettivi a margine dei manoscritti, tutti tesi ad una espressività pregnante e densa di cui era stato maestro il Parini e dietro di lui Orazio. Nella Palinodia la rappresentazione della società moderna proiettata ad inseguire nuovi prodotti, invenzioni e scoperte, il riferimento a terre e paesi lontani, la necessità di dar nome « poetico » a oggetti 18. N. Jonard, Leopardi et le sentiment de l ‘ennui au xviii siècle, in Leopardi e il Settecento, cit.
142 michele dell ’ aquila e concetti della moderna tecnologia, la satira di quell’entusiasmo acritico per la novità di una civiltà delle macchine, della tecnica e dei consumi, per il vento di novità e di progresso che soffia « da Parigi a Calais, di quivi a Londra, / da Londra a Liverpool, rapido tanto / quant’altri immaginar non osa », riportano chiaramente alla situazione ed alle tecniche espressive del Giorno, esotismo, abbigliamento, cibi, bevande arredi – « il brun cioccolatte. onde tributo / ti dà il guatimaltese e il caribbeo / ch’ha di barbare penne avvolto il crine » (Mattino, 134-136) ; « la nettarea bevanda ove abbronzato / fuma e arde il legume a te d’Aleppo / giunto e da Moca… » ivi, 140-142). Il brano presenta non solo qualche coincidenza lessicale, ma, forse, anche una comune fonte d’informazione e di suggestione, la Storia di America, di William Robertson, punto di confluenza di un processo revisionistico avviato nel Settecento sulla colonizzazione americana e sulle sanguinose violenze, già presente sottotraccia nella cultura rinascimentale in alcune relazioni cinquecentesche, da Bartolomeo de las Casas all’inca Garçillaso de la Vega. L’opera di Robertson, come ha notato recentemente una studiosa di iberoamericano 19 era ed è presente nella biblioteca di Casa Leopardi a Recanati e può esser stata fonte leopardiana oltre che per il Dialogo di Colombo e Pietro Gutierrez, anche per certi passaggi della Palinodia, e più ancora nella rappresentazione delle « vaste californie selve » dell’Inno ai Patriarchi, abitate da « beata prole cui non sugge / pallida cura il petto, a cui le membra / fera tabe non doma… », profanati da « nostro / scellerato ardimento… / I lidi e gli antri / e le quiete selve apre l’invitto / nostro furor ; le violate genti / al peregrino affanno, agl’ignorati desiri educa ; e la fugace, ignuda / felicità per l’imo sole incalza ». Con altrettanta satira polemica Parini : « e ben fu dritto / se Cortez e Pizarro umano sangue / non istimar quel ch’oltre l’Oceano / scorrea le umane membra, onde tonando / e fulminando, alfin spietatamente / balzar giù da’ loro aviti troni / Re messicani e generosi Incassi » (Mattino, 149-155). Parini si era soffermato nella introduzione del poema sulla volubilità della Moda, onnipotente regina delle cose umane, dedicandole con ostentata sottomissione, ma con discorso tutto satirico, la prima parte di esso. Tutto il Giorno poi sembra satiricamente muoversi 19. T. Cirillo Sirri, La costruzione mentale del mondo americano nella letteratura della Conquista, in Leopardi. Viaggio nella memoria, Milano, Electa, 1999, p. 83.
parini in leopardi 143 in questa dimensione del volubile, del leggero, del cangiante. Nel leopardiano Dialogo della Moda e della Morte la Moda è ugualmente indicata quale forza impegnata a « disfare e rimutare di continuo le cose di quaggiù », come la Moda pariniana che « repentinamente sopravvenendo » seppellisce nell’oblio libri e libri « troppo lusingati da’ loro autori » ed aspiranti all’immortalità. L’ironia di Parini nei confronti de1 secolo « avventurato » trova riscontro nella citazione da Casti (Gli animali parlanti) nella Proposta di premi fatta all’Accademia dei Sillografi, ove s’accenna « al fortunato secolo in cui siamo ». Non poche osservazioni del pariniano Dialogo sopra la nobiltà si ritrovano nel leopardiano Discorso sopra lo stato presente de’ costumi degli Italiani : oltre il diaframma : satirico e paradossale il primo (una tenzone tra due morti, uno nobile, l’altro poeta), di straordinario acume sociologico il secondo ; identico è il biasimo nei confronti di una nobiltà priva di meriti e scaduta nell’ozio, per una classe elevata incapace di creare società, di avere un discorso progettuale e perfino una civile ‘conversazione’, arroccata nei propri privilegi ; in entrambi se se auspica il rinnovamento ed il ritorno ad una funzione civile e sociale. In entrambi i poeti v’è il raffronto sarcastico, più sottilmente e diffusamente ironico in Parini, del proprio secolo corrotto e vile con « l’innocente secol » vagheggiato anche da Virgilio nella iv ecloga Dai pariniani scritti sparsi sull’arte sembrano venire non poche suggestioni sul primo Leopardi sensista del Discorso sul romanticismo, della teoria del « commercio coi sensi » e dell’oraziano « utile dulci », anche se poi le fonti di riferimento ed il background culturale erano dissimili, e lo stesso sentimento della poesia. A voler tralasciare la pariniana difesa della prosa del secentista Segneri, che insicme al Bartoli avrà anche la stima e l’ammirazione di Leopardi, talune affermazioni che si leggono nei pariniani scritti sopra la lingua e la poesia sembrano anticipare quelle del leopardiano Discorso sul romanticismo, in linea con la cultura letteraria entro la quale si muovevano Parini, Verri e l’illuminismo lombardo, allorché leggiamo Esser la poesia l’arte d’imitare o di dipingere in versi le cose in modo che sien mossi gli affetti di chi legge od ascolta aciocché ne nasca diletto. Questo è il principal fine della poesia.
E vi si parla di « fisiche sorgenti » dalle quali deriverebbe « il piacere che dal poeta ci vien ministrato » ; del « reale e fisico diletto » che produce la poesia nel cuore umano ; che « la poesia abbia facoltà di
144 michele dell ’ aquila piacerne per via del sentimento, ch’è la parte più nobile, anzi l’anima e lo spirito di quest’arte » ; che « il poeta dee toccare e muovere, e per ottener ciò, dee prima esser tocco e mosso egli medesimo » ; che « la parola dee considerarsi come suono e come segno ». 20 Perfino le distinzioni del linguaggio e dei gradi della prosa e della poesia fanno registrare non poche consonanze. Altrettanto dicasi per alcuni giudizi sullo svolgimento e decadimento delle nostre lettere e su letterati del secolo. Nella Crestomazia della poesia poi la scelta dei poeti sembra attenersi ad un criterio pariniamo, tra Arcadia e neoclassicismo, con larga presenza di Z.appi, Fortiguerri, Manfredi, Crudeli, Frugoni, Rolli, Metastasio, Varano, Passeroni, Savioli, Cesarotti, Bertola e per Parini delle Odi Il brindisi (qui intitolato I provetti giorni, forse con un richiamo all’analoga espressione nel Passero solitario, 21), La caduta, Il pericolo, A Silvia. Il metro del Brindisi sarà ripreso pari pari nel Risorgimento : omaggio di non poco conto, se si pensa all’isolamento metrico del canto ed alla cui centralità ed importanza nella ‘ripresa’ poetica leopardiana. Ma la suggestione pariniana non si ferma qui : vi è dispiegato l’eterno inganno della bellezza femminile e dell’amore in termini che riportano al Parini delle Odi. L’inclusione della Caduta si spiega quale omaggio al Parini morale, e può aver offerto, secondo il Binni, qualche suggestione (i versi 97-98 : il poeta « né si abbassa per duolo / né s’alza per orgoglio ») alla dignitosa umiltà della Ginestra (vv. 306-317) : « E piegherai / sotto il fascio mortal non renitente / il tuo capo innocente : / ma non piegato insino allora indarno…/ ma non eretto / con forsennato orgoglio inver le stelle… »). Il pericolo, con l’accenno alle insidie d’amore sempre incombenti nonostante i disinganni, rientra di diritto nelle armoniche sentimentali leopardiane. A Silvia può aver offerto insieme all’Aminta del Tasso, lo spunto per la trasfigurazione della Fattorini nella nota lirica. Quel che colpisce nella scelta e nella utilizzazione poetica, mai peraltro dichiarata, è la consonanza con quella espressione inten20. Nel Discorso sul romanticismo di Leopardi numerose sono le concordanze, così nello Zibaldone, 5-6 : « E può anche il poeta mirare espressamente all’utile e ottenerlo... senza però che l’utile sia il fine della poesia, come può l’agricoltore servirsi della scure a segar biade o altri, senza che il segare sia il fine della scure. La poesia può essere utile indirettamente... ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare... imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia ».
parini in leopardi 145 samente ma soavemente e mestamente affettuosa, come traspare nel Risorgimento, nei versi di Aspasia, in alcuni passaggi delle sepolcrali. In Aspasia tutta la descrizione dell’incanto amoroso (« E mai non sento / mover profumo di fiorita piaggia, / né fiori olezzar… » etc. ; ed ancora : « del color vestita della bruna viola, a me s’offerse / l’angelica tua forma, inchino il fianco / sovra nitide pelli… » etc. vv.10-26) è di suggestione pariniana, con perdurante edonistica poetica di un « commercio coi sensi ». Insomma, per dirla col Binni, una perdurante volontà di classicismo che aveva i suoi modelli, e tra essi, eminente e vicino, il Parini. In quanto al Giorno, egli riteneva che dovesse leggersi per intero, e quindi non potesse entrare in una crestomazia. Se si dovesse entrare poi nelle concordanze di stilemi e lemmi tra le due opere poetiche, gli esempi non mancherebbero e sono tali da sostenere assai più che l’ipotesi di una lettura attenta e di una suggestione perdurante nell’eco di memoria. Certe forme pariniane non possono non richiamarne altre più note del poeta di Recanati : così « i leggiadri studi » (Mattino, 604), « il vago crine » (Mattino, 709), il vocativo « godi, Vincenza mia » (La Magistratura, 181), « l’adorato grembo » (Mattino, 1021), « dotti fianchi », « novella Aspasia », « tepide pelli » (Mattino, 274, 261, 611), « ozio vile » (Mattino, 669), « il folle secol » (Mattino, 689), « sciocco volgo » (Mattino, 689), « vil volgo maligno » (Mattino, 74), « bamboleggia il mondo » (Mattino, 102l), « le ferrate zampe / de’ superbi destrier » (Mattino, 930-931). Per contro, il leopardiano « Allobrogo feroce » che « in su scena / mosse guerra a’ tiranni » (Ad Angelo Mai, 155-160) trova un precedente ne1 pariniano « fero Allobrogo... odiator de’ tiranni » (Il dono, 14) ; la figura di Colombo (« la tua vita era allor con gli astri e il mare / ligure ardita prole », Ad A. Mai, 76-77) trae qualche suggestione dal Colombo dell’Innesto del vaiolo (vv. 19-22) ; l’aggettivo « arguto » largamente usato dal Leopardi, lo era stato anche dal Parini ; Aspasia dell’omonima canzone, la bella e crudele Fanny, era già stata evocata da Parini per Ninon de Leclos (« Novella Aspasia ») nel Mattino, 681. Si potrebbe continuare per molto. Quel che preme rilevare è la comune cura dell’aggettivo fortemente espressivo e classicamente rilevato : in Parini, per esempio : seccaginoso, secolo avventurato, magnanimi lombi, compri onori, noiosi e lenti giorni, queruli recinti, orride larve, estremo orizzonte, all’opre torna, la sonante officina, il patetico gioco, calde precipitose rote, queto aere
146 michele dell ’ aquila notturno, pruriginosi cibi, l’ongarese bottiglia, papaveri tenaci, cimmeria nebbia, il guatimaltese e l’arabico, licore agro indigesto, cerèbro, seerica zimarra, cristallino rostro, terribil ombra, sospettoso adultero, l’armi ascose, etc. ; cui corrisponde ugual cura e ricerca in Leopardi : acerbo fato, ridenti correste al passo lacrimoso e duro, nell’imo strideran le stelle, la vereconda fama, l’antico sopor, lu prisca etade, sì tristo e basso obbrobrio, il boreal deserto, le conscie sibilanti selve, affaticata e lenta / di sì buia vorago e sì profonda, questa d’animi altrice e scola, questo secol morto,tanta nebbia di tedio, i polverosi chiostri,il nostro disperato obblio, inonorata, immonda /plebe, la dira obblivione antica, i vetusti divini, il notturno occulto sonno del maggior piameta, l’odio e l’immondo livor privato e de’tiranni, l’anlico error, l’obbrobbriosa etade, la sudata virtude, l’ardua palestra, le putri e lente ore, il caduco fervor, le selve ignude, gl’inesorandi numi, le cave nebbie, marmorei numi, la ferrata necessità, il viver macro, cognati petti, i putridi nepoti, I ‘aure inferme,i penetrati boschi,le commosse belve,l’ardue selve, i ruinosi gioghi, il niveo lato e le virginee braccia, gl’impuri cittadini consorzi, i luttuosi accenti, gli antichi danni, le flessuose linfe, negletta prole,le frequenti sale, le sperate palme e i dilettosi errori ; etc. Le corrispondenze sono ancor più puntuali se rapportate al riscontro dei testi : il prelievo dal pariniano « ferrata zampa » (Mattino, 986), diventa con progressione metaforica riferita al fato « ferrata necessità » (Bruto minore, 31-32) ; « d’aurei drappi a separar lo stame » (Notte, 443) diventa efficacemente in Leepardi « il ferrigno mio stame » (Ultimo canto di Saffo, 44) ; il frequente uso in entrambi i poeti dei lemmi nefando, ignudo, sonnolento, avaro, irti, invitto, campion, industre (Leopardi : « il villanello industre » della Ginestra) ; « gli studi leggiedri » di A Silvia, sono preceduti da « tu appresta al mio signor leggiadri studi » di Parini (Mattino, 621), così « le sudate carte » vengono forse dal Pindemonte (« Ma i molli studi e le sudate carte », Alla Repubblica francese) ; nel Pericolo troviamo espressioni quali « il mobil seno », « il nudo braccio », « le nevi del petto », che conducono alle canzoni amorose del Leopardi, ad Aspasia innanzi tutto ; certi stacchi iniziali : « O Genovese » (Parini), « Italo ardito » (Leopardi) ; « d’emula brama / arser per te » (Parini, In morte del maestro Sacchini), « d’emula brama punse » (Leopardi, A un vincitore etc.) ; « il faticoso ozio de’ grandi » (Parini), « grave retaggio e faticoso » (Leopardi, Epistola al Pepoli). Sulla rappresentazione della noia, come si è visto non poche sono le concordanze : Così sul rapporto dolore / piacere : Leepardi « dolor figlio di affanno / gioia vana ch’è frutto del passato timor.. » (La
parini in leopardi 147 quiete), Parini, « e maggior nasce il piacere / de la pena che fugì » (Le nozze). Naturalmente il raffronto comporta anche le differenze e le distinzioni, sulle quali, in sintesi, sembra di poter dire che l’aggettivo pariniano appare in genere solido, compiutamente connotativo ; quello leopardiano come attraversato di volta in volta da vibrazioni di sdegno o di dilettosa adesione. Si potrà dire : quella era la letteratura, i luoghi comuni, le figure, il lessico, la tradizione di un linguaggio immobile nei secoli. E senza dubbio molte concordanze possono ascriversi al repertorio letterario presente nella mente di Giacomo come degli altri poeti. Bigi, anzi, non solo per Parini, ma per tutte le influenze d’Arcadia, le giustifica come una « coincidenza di gusto stilistico che non implichi necessariamente vera e propria congenialità psicologica… accoglimento di luoghi comuni di un linguaggio poetico diffuso », ed anzi non manca di sottolineare « un graduale allontanamento dalla iniziale educazione arcadica... verso un nuovo e più personale classicismo ». 21 Ma, forse, non tutto può ridursi a tanto. Anche le parole sono tutte nei vocabolari ; e però ogni scrittore vi opera una scelta, individua un suo vocabolario. Quello leopardiano ha la tavola dei suoi autori, ben definita ; tra essi, non solo Virgilio ed Orazio e Petrarca e Poliziano e Tasso ; autori dichiarati o lasciati in ombra, citazioni occulte delle quali, come dice la Corti, egli fu maestro di prelievo, d’intarsio e di occultamento. Se nel rivolgersi all’Arcadia Leopardi andava incontro al bisogno di trovar corrispondenze e suggestioni per una cifra stilistica « intensamente ma soavemente e mestamente affettuosa » come dice il Bigi, 22 nel rivolgersi a Parini egli appagava un bisogno di classicismo rilevato e di una grandezza virgiliana. E però, questo Parini mai citato,nella dissimulazione di una mai calorosa stima, mi sembra sia stato lungamente e con buon magistero sul suo scrittoio e nelle armoniche della sua poesia. [2000]
21. E. Bigi, cit. 22. E. Bigi, cit.
LEOPARDI. PRIMI ESERCIZI DI LINGUA E DI STILE
S
uperati i pochi scalini che sollevano il piano, varcata la soglia dopo la lieve curvatura della strada che rivela il palazzo quasi in bilico sulla piazzetta scoscesa, il primo incontro avviene nel vano centrale della biblioteca : quei quaderni di scuola accuratamente trascritti e rilegati in forma di libretti con disegni di cigni e uccelli e cornicette fiorite sotto legni e cristalli di vetrinette offerte all’oltraggio del tempo nella penombra della stanza, allo sguardo sussiegoso dei ritratti della famiglia. E ogni volta, ad ogni ritorno, la stessa stretta al cuore alla vista di quegli spartiti miracolosi e fragili di questo nostro Mozart fanciullo consegnato dalla sorte alla disciplina di altro padre, meno interessato, ma non meno ambizioso ed autoritario. Su quegli scritti, dopo l’incuria di decenni, molto si è detto, sottovalutando spesso, o sopravvalutando. Così si ha quasi il timore di tornarvi con nuova violenza di segni. La massima di Quintiliano che raccomandava maxima reverentia pueris deve valere anche per questi libricini dell’enfant prodige, fanciullo sempre, anche se prodigioso, per quei titoli, quella grafia, quella esperienza e quasi predestinazione alla dolorosa pratica della letteratura. 1 Dice bene la Corti nella sua introduzione a quei puerilia : più che la cultura, che pure si dichiara, ed i precorrimenti, che pure possono esservi, v’è da riscontrare (e restar stupiti) i presentimenti, le prime impressioni di lettura e di scrittura, che poi al fondo non muteranno, anche nella naturale maturazione e nella mutazione. 2 Si vuol dire quella lingua e quello stile, che se appaiono già destinati a crescere e ad affinarsi, fino a diventar pura e rinnovata invenzione ed assoluta originalità, secondo ritmi che solo indirettamente risultano legati all’incremento della cultura e delle esperienze di vita, non muteranno di molto i materiali, né i modelli, e perfino certe 1. Anche Brancati raccomandava, nella ricerca delle fonti, delicatezza e riguardi, e di procedere « senza rompere troppo i fili ». Cfr. V. Brancati, Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), Milano, Bompiani, 1942. 2. Entro dipinta gabbia. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di G. Leopardi, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972.
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 149 movenze, che sembrano già accennate come in un preludio la cifra musicale acerba. Il terreno di coltura era quell’Arcadia di poeti e letterati corregionali e più lontani, i Baldi, Varano, Casser, Isidori e Frugoni, Granelli, Minzoni, Ceva, fino a Rolli e Metastasio e tutti gli altri infiniti ; e v’era Recanati, il legnoso gusto della tradizione provinciale, ma anche le sue biblioteche, non poche, oltre quella paterna, ed una consuetudine aristocratico erudita coltivata dalle famiglie, gli Antici, i Roberti, i Leopardi, segno di signorile distinzione ; e v’era la cultura già più larga eppur provinciale della tradizione marchigianoemiliana, e l’educazione umanistica che consigliava di mandar versi a memoria e di farne anche, ad ogni occasione. Ma v’era, più larga e più alta, quell’Arcadia infinita e senza tempo ch’era approdata a Metastasio e attraverso i secentisti risaliva fino al Tasso, al petrarchismo del gran secolo, a Sannazzaro, Poliziano, al Petrarca e di lì ai latini e ai greci. Insomma i domini immensi della letteratura, una grande Arcadia non solo per la finzione bucolicosentimentale che vi era sottesa, per i moduli patetici e sublimativi che prediligeva, ma per la immaginativa che attivava, amplificandosi come una immensa bolla iridescente, lieve sovramondo incantato che trascendeva la diatriba meschina del quotidiano attraverso una operazione di assolutizzazione e di astrazione e ne rendeva costanti e quasi immobili i referenti tematici e formali. Ma, con i dipinti armenti sulle pareti e le volte della casa paterna, così quelle storie di cui leggeva nei libri gli suscitavano una immaginazione creatrice travalicante il dato iniziale, ch’era arcadico e di maniera, per divenire fuoco d’immaginazione, spasimo di virtù. Valery Larbaud, citato dalla Corti, si spinge ad immaginare quelle accademie provinciali cui le riunioni in casa di Monaldo si conformavano, quei giochi innocenti di letteratura, di filosofia, di retorica, con quei saggi tra scolastici ed accademici cui genitore, zio, pedagogo ed ospiti partecipavano, con il fanciullo Giacomo ed i fratelli : essi « jouaient innocemment avec le feu [...] croyant que cela se fait ainsi [...] s’amusaient avec les coleurs sans danger de la rethorique et de l’imitation des classiques […] ne voyent pas les frontières, les mures de flammes qui séparaient leurs doctes travaux de la grande passion littéraire... ». 3 Les mures de flammes ! 3. V. Larbaud, Lettre d’Italie, in Oeuvres (« La Pléiade », n. 126), Paris, Gallimard, 1957, pp. 803-827, segnatamente p. 819.
150 michele dell ’ aquila Forse, semplicemente, la differenza, e la distanza, di Leopardi non solo da quei piccoli testimoni della sua prodigiosa infanzia poetica, ma dai letterati in genere del suo tempo e d’altri tempi, era in questo : che lui a quelle parole, a quei versi credeva fin da allora, se si escludano quelli più strettamente impostigli per dovere di scuola. Questa fede nella parola, che è poi nella letteratura e nella immaginativa che la sottende, può indicarsi come il suo codice genetico che lo accomuna alla famiglia dei più grandi uomini di lettere. Si comprende dunque come quel mondo di libri e di versi fosse il suo mondo, mondo vero, di passione e non di gioco. Non poteva prendere quella finzione per gioco. Il gioco, nonostante la tradizione di un Giacomino affabulatore e maestro di giochi con i fratelli (ma è un gioco, il gioco, per i fanciulli ?), non ebbe molto spazio nella sua vita. Uno dei suoi primissimi scritti, una letterina al padre del 16 ottobre 1807, dunque a nove anni, dichiara una vocazione che ha il sapore di una profezia : « et erit gratius mihi studium quam ludus ». 4 Accettiamo i limiti della circostanza : una letterina infantile di buoni propositi. Rimane il presentimento e forse una già non oscura vocazione per quelle « sudate carte » che lo gli avrebbero fatto dire con l’ombra di un rimpianto : « ogni diletto e gioco / indugio in altro tempo ». Che non fosse un gioco, né una passiva esercitazione, è detto già nell’epigrafe delle sue raccolte di primi componimenti poetici, tra il 1809 e il ’10, quel sentimento agonistico della letteratura, di sofferenza e fatica nel raggiungere la meta, quella citazione da Orazio (« multa tulit, fecitque puer, sudavit et alsit ») ripetuta ad ogni sezione, che inaugura la serie dei luoghi leopardiani in cui tornano, quasi cifra di riferimento espressiva, le parole sudare, sudore, sudato, a significare l’impegno estremo dell’agonismo atletico, eroico e poetico. 5 V’era già in quei versi un sogno di gloria e, via via, l’esercizio delle lettere vagheggiato in maniera romantica e moderna, quale strumento d’intervento nel mondo, i primi semi di quell’agonismo giovanile che culminerà nelle canzoni patriottiche prima di declinare nell’amara pedagogia delle canzoni Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, fino al Bruto minore e all’Ultimo canto di Saffo. 4. Entro dipinta gabbia, cit. p. 417. 5. Rimando ad un mio saggio, M. Dell’Aquila, La poesia dei “Canti” e il “commercio coi sensi”, « Otto/Novecento », 1989, 3-4, pp. 5-24, poi nel volume Leopardi. Il commercio coi sensi, Fasano, Schena, 1993.
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 151 V’era soprattutto quell’idea dinamica ed agonistica dell’imitazione che se avrebbe atteso per esplicitarsi l’occasione della Lettera ai Signori Compilatori della « Biblioteca Italiana », era già attiva nella pratica quotidiana delle traduzioni da Orazio e da Virgilio e nella produzione poetica degli anni della acerba adolescenza. 6 S’intende dunque perche egli potesse dichiarare in seguito, senza timori, che più modelli si pone un artista, più egli ha possibilità di essere originale. 7 Quelle prime prove, per quanto fanciullesche ed in qualche modo scolastiche, superato il senso di sgomento che ispira ogni cosa straordinaria (e qui di straordinario v’è molto), dimostrano innanzi tutto la eccezionale capacità di immaginativa, di memoria poetica che si traduce in immaginativa : un mondo di libri e di versi assimilato e trasformato in frantumi di suggestioni e di materiali che consentono di produrre di riflesso un proprio mondo di libri e di versi che nascono da quelli ma già non son quelli poiché vi è intervenuto con sagacia ed intarsio, ma anche via via con più affinata arte e capacità di scarto e innovazione, un poeta che è già un poeta capace come pochi altri di lavorare sulla parola. Lo studio di quei quaderni e libretti ha segnato alcune cose notevoli per chi voglia individuarne le specificità tematiche, ma soprattutto della lingua e dello stile, anche in ordine a certe anticipazioni e consolidate costanti dei componimenti più maturi. Per esempio l’intarsio, e perfino la disimulazione delle fonti e la contaminazione di esse. E sarebbe lavoro meritorio se fosse condotto ormai, come da tempo si auspica, in maniera sistematica, quasi un sistema di concordanze che ponga nella giusta luce, non più di tanto, ma non meno di tanto, quei primi segni di una vocazione alle lettere. Bisognerà dire, inoltre, che non tanto devono apparire interessanti, anche se certamente suggestivi, certi scorci che sembrano al lettore anticipazioni miracolose ma improbabili nella consapevolezza dell’artista, quanto il riconoscimento dei sotterranei itinerari di certe forme poetiche che possono sembrare attinte in uno stato di grazia, mentre hanno dietro di sé infinite prove di penna e successive contaminazioni. 6. Rimando, tra l’altro, al mio volume, M. Dell’Aquila, La virtù negata. Il primo Leopardi, Bari, Adriatica, 1987. 7. G. Leopardi, Zibaldone, 2184-2186.
152 michele dell ’ aquila Difficile farlo in poche carte, come pure richiede il tempo concesso, e così non si potrà offrire che qualche riscontro. Non ci si soffermerà più di tanto sul livello tematico che pure offrirebbe spunti interessanti in quanto strettamente collegato con l’altro, formale e linguistico che ne consegue. Il vagheggiamento della virtù cominciò certamente quale esercitazione letteraria, come i versi dal 1809 in poi mostrano, e sarà buona norma di prudenza non assumerli per altro da quello che sono, testimonianza di una precocissima capacità di asimilazione e manipolazione dei luoghi e forme offertigli dalla letteratura nella sconfinata dimensione che gli era familiare. L’impianto retorico di quegli studi, più ancora che l’educazione dei sentimenti che in fondo non si proponevano, può spiegare l’utilizzazione e poi la scelta imitativa di certi tòpoi che si ritrovano in quasi tutti i componimenti di tirocinio, non solo leopardiani : patriottismo, amore della virtù, disprezzo del vizio, desiderio di gloria, celebrazione del valore fisico e morale, specie se impedito o sopraffatto dalla sorte : una tematica presente nel modello educativo settecentesco, anche gesuitico,con più o meno sincerità, quasi sempre con una generica sincerità di riferimento e con una utilizzazione di tipo meramente formale degli assunti. Si aggiunga la suggestione del neoclassicismo di fine secolo, con le sue intense vibrazioni eroiche e la riproposta di traduzioni di testi antichi, insieme alle tensioni del sopravveniente romanticismo che vi si mescolavano, anche da noi, se pur in minor misura. La tradizione scolastica filtrata più che attraverso l’insegnamento dei maestri di casa attraverso i testi di scuola adoperati, si ritrova tutta nelle prose e nei versi di quei puerilia : nelle traduzioni da Orazio, nel modulo del pensum svolto in prosa o in versi sui luoghi comuni della tradizione morale, negli apologhi, favole, idilli, canzonette, nelle Exercitationes variae in latino, negli scherzi, nei componimenti d’ispirazione biblica o classica : insomma tutto il repertorio della tradizione d’Arcadia, soprattutto periferica ed ecclesiastica degli autori che s’è detto, di classicismo settecentesco, rinverdita dall’esempio montiano che aveva reso accessibili (insieme ad altri, ma più degli altri) anche temi e modelli ed umori più moderni : la letteratura di visione, wertherismo, ossianesino, elegia campestre e cimiteriale, e via dicendo. Né si dovrà insistere sul fatto che tutta quella produzione di scuola rivelasse qua e là, improvvisamente, « qual raggio di sole/ da’ nuvoli
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 153 sciolti » avrebbe detto Manzoni, una sua genialità in nuce. Molto gioca la suggestione del poi. Ma non v’è dubbio : il genio non è acqua. Se mai, ciò che impressiona scorrendo le pagine di quelle prime cose, è l’ampiezza insospettata di campo, la consapevolezza dei filoni moderni, relativamente moderni (Young, Gessner, Ossian), sia pure filtrati attraverso i canali letterari italiani (l’Arcadia sepolcrale, Vittorelli, Cesarotti, Bertola, Fantoni, Alessandro Verri, Monti dei Pensieri d’Amore, degli Sciolti a Sigismondo Chigi, etc.). Quella che generalmente si indica come « una produzione tardo-arcadica e di periferico classicismo » si connota in una dimensione insospettata non solo per amplitudine ma per sensibilità ed intelligenza d’individuazione delle tematiche vive e per la pratica già notevole di un « eclettismo attivo », come disse il Porena, che ogni volta riesce o s’adopera ad aggiungere qualcosa al modello. 8 Più che la rassegna delle ricorrenze tematiche, il topos dell’eroe sconfitto, dall’animo virtuoso non protetto da fortuna o destino, Ettore o Pompeo o Catone Uticense, Scipione esule o Sansone, colpisce l’insistenza antagonistica affidata alla protesta delle lettere, che si dispiega anche nelle due tragedie della Virtù indiana e del Pompeo in Egitto quell’energia attiva e desiderosa di affermarsi con fatiche e sofferenze e prove da superare : « sudavit et alsit », come nel suo Orazio. Ed impressiona tutto quel mondo d’immaginazione che la tradizione antica suscita, quei personaggi « rancidi » (per usare la sua espressione) gli si ravvivano in mano ; Catone è già Bruto maledicente alla sorte nella luce livida della notte. Lo stesso tema delle rovine, questo tema così settecentesco e preromantico, il paesaggio a contrasto, con notturni quieti ed indifferenti in cui si consuma la tragedia della virtù, che altre volte richiama sfondi sinistri o tempestosi, costituiscono una costante in questa produzione poetica ed una anticipazione di luoghi più celebri. Ma, come i dipinti armenti sulle pareti e le volte della casa paterna, così quelle storie di cui leggeva nei libri gli suscitavano una immaginazione creatrice travalicante il dato iniziale, ch’era arcadico e di maniera, per diventare fuoco d’immaginazione e spasimo di virtù. E per passare ad alcuni riferimenti di stile e di lingua, non sarà da perdere di vista che, almeno a livello di questa infanzia e prima 8. M. Porena, Un settennio di letture di G.L., in Scritti leopardiani, Bologna, Zanichelli, 1959.
154 michele dell ’ aquila adolescenza letteraria, è proprio l’esercizio della prosa a rivelare una maggiore maturità ed una quasi nativa nitidezza ed eleganza di scrittura. Non per nulla Giordani, che aveva l’orecchio fino, rimase incantato innanzi tutto di quella prosa e vagheggiava nel giovane Leopardi il modello del perfetto scrittore. Saranno state le buone letture, la lezione già da quegli anni del Bartoli, questo secentista sovrano, « scrittore di lussuosa malafede », per usar l’espressione di Manganelli 9, cui si mantenne fedele per tutta la vita ; o anche l’innata vocazione al periodo dalle clausole intrecciate, leggere volute eleganti come i monogrammi e i disegni impressi su quei libriccini, natura ed arte straordinariamente riunite per il miracolo di una scrittura senza uguali – resta che certe pagine di quelle prime composizioni, certi incipit (« Lunghe e penose sono le notti e perfino gli armenti languiscono nelle loro stalle. Ma torni il Sole ad alzarsi, ed incominci a riscaldare il suolo, che ben tosto fugate le sonanti tempeste, piacevoli zeffiretti si odono sussurrare dolcemente, ed ecco ritornare i pinti canori augelli dalle oltramarine contrade... » Descrizione del Sole per i suoi effetti ; « Pallida sul cielo volveasi la luna, e fra le squarciate nubi mostravasi di volo. Tutto era silenzio... quando all’improvviso mi desto da insolito rumore » Descrizione di un incendio ; « La parca mensa è già terminata, e alla primiera fatica ciascuno lieto, e indefesso ritorna. Intanto il sole declina all’orizzonte », ibidem) costituiscono già mature prove di penna, anticipazioni e precorrimenti di momenti più avanzati, non solo nella suggestione ingannevole del poi. E certo non sono che acerbi germogli, questi del fanciullo undicenne ; ma quelle « fugate tempeste sonanti » e gli altri particolari di quella prosetta, per far solo un esempio, richiamano irresistibilmente in grande motivo sinfonico della canzone Alla Primavera, con lo stesso aggettivo, miracolosamente sopravvissuto a tanti affinamenti : « onde fugata e sparta delle nubi la grande ombra s’avvalla ». Così, per passare alle composizioni in versi, l’incipit della Canzonetta iii Sopra la campagna (« Il crudo verno sciogliesi/ torna la primavera »... etc.), se da un lato rimanda a modelli settecenteschi (Rolli, Bertola etc.) e più all’ode di Orazio (« Solvitur acris hiems ») alla quale sembra aderire più di quanto non fosse stato nella traduzione dell’ode, di quello stesso anno 1809 (« Torna la primavera, e il verno 9. G. Manganelli, Intervista per Hilarotragedia, Milano, Mondadori, 1964.
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 155 sciogliesi... » etc.), risulta essa stessa l’ anticipazione di un motivo per il momento letterario, destinato ad affinarsi fino alla pastorale sinfonia della famosa canzone del ’22. Che quelle traduzioni puerili da Orazio e le altre dell’adolescenza da Virgilio costituiscano una vera miniera di fonti e di precorrimenti della poesia più matura è cosa ben nota agli studiosi che non hanno mancato di volta in volta di metterlo in rilievo. V’è da osservare che molto spesso il poeta, in corrispondenza delle occasioni della sua poesia più alta, nel recuperare un modello o una fonte classica o settecentesca, recuperava anche la sua utilizzazione dei primi anni, in felice contaminazione, quasi a far intendere il valore generativo di prima felice e indelebile impressione che il poeta attribuiva a quei suoi primi incontri con la letteratura. Tanto avviene, come è stato mostrato, per la Vita solitaria, in non pochi passaggi della quale si risente l’eco della Noia della vita del Fantoni, ma anche della sua puerile Spelonca (1810) esemplato sull’altro ; e così per alcuni passaggi della Ginestra ove si ritrovano gli analoghi componimenti di Frugoni, del Chiabrera, dell’Alamanni, e più del Baldi, ma anche il suo giovanile Diluvio universale (1810) che a quelli s’era esemplato. E proprio la Corti ha illustrato gl’intricati sentieri di questo procedimento di recupero poetico, citando alcuni passaggi del sonetto La morte di Cesare (1810) (« E di Cocito su la negra foce/ freme, presaga de’ futuri mali/ di Bruto la sdegnosa ombra feroce ») che aveva utilizzato la terzina frugoniana del sonetto xii dell’Ostracismo di Scipione (« E giù di Stige su la negra foce/ di lui, che l’Alpi superò primiero,/ rise l’invendicata ombra feroce »), di quel Frugoni che sempre riferendosi ad Annibale, nel sonetto vi del medesimo componimento aveva detto al verso 7 « maligno rise » : elementi tutti che dopo la sedimentazione in una pagina dello Zibaldone (87, del 1819 : « quel maligno amaro ironico sorriso ») affioreranno in un intarsio fortemente espressivo nell’ultimo verso del Bruto minore : « E maligno alle nere ombre sorride ». 10 Intanto, oltre questi acerbi boccioli e stupefacenti sinopie, che sono numerosi e più potrebbero dimostrarsi ad un lavoro analitico ed applicato, appaiono evidenti, e già quasi definitivamente fissati certi procedimenti sintattici e movenze liriche, certe preferenze 10. Entro dipinta gabbia, cit. p. xxvi.
156 michele dell ’ aquila avverbiali (già, talor, intanto), l’amplificazione, il raddoppio dell’aggettivo preceduto da virgola e congiunzione, gli incipit esclamativi, e via dicendo ; mentre, a livello di lessico e di scelte linguistiche, dai testi disponibili e dalla scarsa variantistica relativa si deve rilevare la frequenza di un procedimento correttorio oscillante tra scelte arcaico-settecentesche e loro ammodernamenti ; dunque non contrario a quello prevalente nel Leopardi maturo ; la qual cosa non sorprende se non pensassimo alla maturazione delle sue idee sulla poesia e sullo stile ed al valore di eleganza ed espressività ch’egli veniva attribuendo al sapiente uso ad intarsio di espressioni moderne e di altre arcaiche ed indefinite. I riscontri sono numerosi e più sarebbero ad ogni nuova lettura. E certo quel suo tavolo di lavoro oggi così nudo e indifeso allo sguardo dei curiosi riserva infinite scoperte e motivi d’interesse. Seguire Leopardi in questi suoi segreti percorsi potrebbe portare ad un altro dei labirinti senza uscita in cui ci si avventura nella speranza di un incontro più che di una risposta. Piacerebbe sorprenderlo, come ha saputo di recente qualche narratore, 11 nella stanza rischiarata da un lume a gettar luce sui fogli, su quella scrittura minuta e implacabile con la quale s’arrovellava a decifrare la natura e la vita, mutando a poco a poco il suo rapporto stesso con la vita, sicché si può dire che vivesse scrivendo. Coglierlo in una sospensione assorta, che ne disveli le ragioni riposte, quei suoi segreti e quasi magie della scrittura, che lasci intravedere zone d’anima nella fenditura d’un tratto aperta in quei segni d’inchiostro. Ma nella distanza buia non rimane che il testo, quei segni d’inchiostro compatto, simboli essi stessi da decifrare, e testimoni. Bisognerà restringersi a pochi esempi di questo suo procedimento per accumulazione, sedimentazione, richiamo, intarsio in cui non poco spazio hanno proprio questi componimenti germinali. Il topos lunare, per accennar solo ad una costante d’interesse della scrittura leopardiana può riservare qualche motivo d’interesse non solo per la persistenza tematica, che non credo sia solo convenzionale o letteraria, tanto esso ritorna quasi un antico amore per imprevedibili intrecci e nodi di sensibilità e di cultura, quanto per 11. Per esempio recentemente L. Testaferrata nel romanzo Perché ho ammazzato Leopardi, Milano, Rusconi, 1990 e M. Mari nel romanzo Io venia pien d’angoscia a rimirarti, Milano, Longanesi, 1990.
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 157 le concordanze ed affinamenti di lingua e di stile che ne segnano i percorsi, soprattutto per certe forme nominali, verbali o aggettivali, per il cromatismo ed il luminismo della rappresentazione. Già ad apertura di libro di quei testi « puerili » troviamo una ouverture lunare « Pallida sul cielo volveasi la luna, e fra le squarciate nubi mostravasi di volo » (Descrizione di un incendio). La serie aggettivale lunare è aperta. In un componimento poetico del 1810, i versi della favola Il sole e la luna, c’imbattiamo in un notturno lunare non mediocre (« Era la notte, e di un oscuro velo,/In fra l’oscuro,tenebroso orrore,/tutta si ricuopria la terra e il cielo./ Non comparia del Sol l’almo fulgore,/tacean le genti : quando desiata/ Cinzia diffuse il pallido splendore »). Viene fissandosi, dunque, quell’impressione di pallore lunare, con una scelta ch’è già luministica assai più di quanto non sia cromatica, secondo una costante preferenza del Leopardi più maturo. Può attribuirsi qualche significato alla ripresa, forse non casuale, di questo effetto di luce, dello stesso sostantivo « splendore » nell’ultimo dei componimenti di questo poeta, Il tramonto della luna (« caduto lo splendor che all’occidente/inargentava della notte il velo »),nella metafora del dileguarsi della vita e dei suoi inganni dilettosi, quasi una corrispondenza tra l’incipit e l’explicit di quest’opera poetica ? In altro componimento puerile, l’idillio L’amicizia, del 1810, la rappresentazione lunare è più sontuosa e mossa : « Ma già la notte il tenebroso manto/ d’ogni intorno stendea ; e già dal cielo/ fulgidi risplendean gli astri lucenti ;/ al tremolante suo pallido lume/ l’argenteo cocchio per l’eterne vie/ Cinzia guidava, e l’atro velo oscuro/ che d’ogni parte ottenebrava il mondo,/rompea benigna... » In uno scrutinio dell’aggettivazione leopardiana riferita alla luna sarà da rilevare accanto alle sequenze luministiche, quelle affettive e morali : nella persistenza di « pallido », « pallore », contrapposta all’altra di velo oscuro, qui « benigna » ha già la densità dei momenti più adulti. Non seguirò qui, come ho fatto in altro saggio, 12 le immagini lunari della Storia dell’Astronomia e del Saggio sugli errori popolari degli antichi ; ma in tutte quelle citazioni di miti da antichi testi eruditi e poetici si ritrovano i materiali utilizzati (e reinventati) di scritture successive. Basterà pensare ai lividi bagliori dell’aggettivazione del Bruto minore. 12. Mi riferisco al mio saggio M. Dell’Aquila, Leopardi lunare, « Otto/Novecento », 1991, 2, pp. 89-106, poi nel vol. Leopardi. I viaggi La luna, Fasano, Schena, 1996.
158 michele dell ’ aquila Nel capitolo Della magia, nel Saggio, dopo una serie di riporti da scrittori antichi in trascrizione latina, si legge : « Teocrito fa solamente invocare la luna alla sua maga : ‘Ma tu più bella, o Luna, ora risplendi’. Della quale invocazione rende cagione il suo scoliaste. Dipoi fa ripetere alla maga più volte queste parole : ‘O santa luna,/ intendi l’amor mio perchè s’accese’ » Questi ultimi riferimenti sono in traduzione italiana, e s’avverte ben chiaro il suono della voce del Leopardi traduttore. I riferimenti (e gl’incantamenti) di un a mitologia lunare favolosa attraversano tutte le carte leopardiane, perfino gli appunti e i disegni di opere mai riprese o venute a compimento. In uno degli Argomenti e abbozzi di poesie, quello che porta il titolo Erminia, da riportare agli anni 1818-1819, si legge, inserito tra gli altri, un appunto : « Luna viaggiatrice », che è un altro dei referenti lunari del nostro poeta, e di seguito un altro appunto che è una anticipazione del noto passo della Vita solitaria sulla danza delle lepri nelle notti di luna : « Beltà in mezzo alla natura, alla campagna. Lepri che saltano fuor dei loro covili nelle selve ec. e ballano al lume della luna, onde ingannano il cacciatore co’ loro vestigi, e i cani. ». In uno degli Argomenti di Idilli, forse anche questo del 1819 : « Ombra delle tettoie. Pioggia mattutina del disegno di mio padre. Iride alla levata del sole. Luna caduta secondo il mio sogno. Luna che secondo i villani fa nere le carni, onde sentii una donna che consigliava per riso alla compagna sedente alla luna di porsi le braccia sotto lo zendale ». 13 Nei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, degli stessi anni, può sembrare incredibile in quante prove di penna e semenzaio di suggestioni poetiche sia dato d’imbattersi : « mio giacere d’estate allo scuro a persiane chiuse colla luna annuvolata e caliginosa allo stridore delle ventarole consolato dall’orologio della torre ec. veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero » ; ed ancora : « Canto mattutino di donna allo svegliarmi... logge fuor della porta del duomo ch’io spesso vedeva uscendo ec. tornando ec. alla luna o alle stelle... si ricordi quella finestrella sopra la scaletta ec. onde io dal giardino mirava la luna o il sereno... ». Ma per tornare a quelle prove di una educazione letteraria, poco più che scolastiche esercitazioni, e in qualche caso sono prove di 13. Per questi riporti, si rimanda alla edizione di G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di W. Binni, E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969.
leopardi. primi esercizi di lingua e di stile 159 penna da non trascurare, negli sciolti della Libertà latina, del 1810, ancora la luna è detta « pallidetta » (ahimè, l’arcadia insidiosa !) ma la rappresentazione di essa è inquieta e inquietante : « incerta fra l’orror di rotte nubi/ con fioco lume il rugiadoso corno/ ora scopriva ed or togliea fuggendo ». Nell’aggettivazione lunare di questi anni (amica, desiata, pallida, tremolante, d’argento, benigna, incerta, fioca, ecc.), qualche forma sembra già destinata a più suggestivo effetto, mentre va facendosi strada una aggettivazione affettiva più intensa, accanto all’altra meramente intesa a renderne la luce. La seconda delle Odae adespotae è dedicata alla Luna e vi si ritrovano in forma sintetica, come s’addice alla poesia, non poche delle attribuzioni e leggende accennate nella Storia dell’astronomia e nel Saggio. La luna è detta (nel testo latino giustapposto a quello greco) « sublimem,os argenteam » ; signora della notte e dei negri sogni (« Quietae noctis imperium/ nigrorumque somniorum tenes »), muove col carro luminoso e i cavalli splendenti, e mentre da per tutto tacciono prostrati gli umani, « medium per coelum tacite/ nocturna solaque iter facis », spargendo la sua luce sui monti e le cime degli alberi e delle case, per le vie e i corsi d’acqua,. Gli usignuoli ti celebrano, ma il ladrone ti teme muta testimone (« Te fures quidem reformidant, universum orbem spectantem »), ecc. Ed anche in questo caso sono ben evidenti le anticipazioni, quasi in bozzo, di passi ben noti. La sera de La dimenticanza è « fresca serena e placida,/bella, ma senza luna ». Nell’idillio Le rimembranze, del 1816, c’imbattiamo in una placida anche se manierata ouverture lunare : « Era in mezzo del ciel la curva luna,/ e di Micon la povera capanna/ sol piccola da un lato ombra spandea... » ; nello svolgimento concitato del racconto di morte tra i due pastori, la luna si riaffaccia a disegnare l’alto palagio signorile (« Passai non lungi/ a quell’alto palagio, che alla luna/ or vedi biancheggiar dietro alle piante... ») con un chiaroscuro di luci che se richiama lo stato d’animo del protagonista, affonda nella dimestichezza di familiari visioni domestiche dell’autore. E ancora nell’Appressamento della morte, dello stesso anno 1816, sullo stesso tema della morte in giovane età, la ouverture notturna della « gran landa » ove si svolge la visione è ancora lunare (« Spandeva suo chiaror per ogni banda/ la sorella del sole, e fea d’argento/ gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda : ... Chiaro apparian da lungi le monta-
160 michele dell ’ aquila gne... » ecc.) : una scena in apparenza idillica, nei cui chiaroscuri ed effetti di luce ed ombra s’indovina una sospensione d’avvenimento soprannaturale, la tempesta sopravveniente e l’inizio della visione ultraterrena. Nella Telesilla la notte di ambage dei due amanti risuona di ululati lupeschi, ma è muta di chiarori lunari (« Certo la luna è sotto... »dice uno dei cacciatori). « La luna già s’asconde » tra i flutti con le Pleiadi, lasciando il cielo oscuro, nel frammento tradotto da Saffo ; le corna di Giove/torello che rapisce la giovinetta Europa nell’idillio tradotto da Mosco, sono « alla lucente faccia/ simili appunto di novella luna » ; « argentea » e « pallida »è la luna dell’altro idillio Espero, mentre la virgiliana luna del secondo libro dell’Eneide (« tacitae per amica silentia lunae » è resa nella traduzione leopardiana (vero semenzaio di lessico e stilemi per tutta la sua poesia avvenire) con « l’amico silenzio della cheta luna ». « Cheta » : un aggettivo già caro e vicino al « queta » della Sera del dì di festa. Così da quegli archivi infiniti della memoria, da quei libri compagni delle veglie, attingeva per le prove più alte della poesia, fin dalle prime cose, quei quadernini di versi, scherzi, burlette e saggi che fanciullo veniva scrivendo e offriva per ricorrenze familiari nei rituali di corte di quel Monarca delle Indie 14 alla cui dimora era allogato. [1991]
14. Il monarca delle Indie, corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Milano, Adelphi, 1990.
LEOPARDI. IL RISO DEL FANCIULLO Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per codesti figliuoli, acciocché siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda. Veramente io volevo destinare a ognuno il suo regalo, per esempio a chi un corno, a chi un altro, ma ho temuto di dimostrare parzialità, e che quello il quale avesse li corni curti invidiasse li corni lunghi. Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e farete così. Dentro l’annessa cartina trovarete tanti biglietti con altrettanti Numeri. Mettete tutti questi biglietti dentro un Orinale, e mischiateli bene bene con le vostre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto, e veda il suo numero. Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene codesti Signori, non solo col Caffé che già si intende, ma ancora con Pasticci, crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perché chi vuole la conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamerà la Conversazione del Pasticcio. Fra tanto state allegri... Et cetera et cetera. 1
L
a Befana che nella ricorrenza dell’Epifania dell’anno (forse) 1810 lasciava questa scherzosa letterina si serviva della penna del nostro Giacomino dodicenne o giù di lì, e lo scritto è uno tra i pochi giunti fino a noi, dei tanti in prosa e in rima ch’egli veniva confezionando, e più ancora improvvisando, a testimonianza dell’altra faccia della luna, di quell’altro aspetto della sua indole incline al riso, allo scherzo, alla favola, che connota gli anni della fanciullezza e l’attraversa come un vento carezzevole e caldo prima di mutarsi nel gelo dei sentimenti e dei risentimenti. Quei personaggi sussiegosi, ora ritratti appesi alle pareti, di antenati monsignori, monache e magistrati, fino a quelli degli zii Antìci, della Contessa Mosca, del severo Monaldo, ultimo spadifero d’Italia,
1. Per i testi ci si riferisce a Entro dipinta gabbia. Tutti gli scritti inediti,rari e editi 1809-1810 di G. L., a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972. Inoltre alla edizione di Tutte le Opere di G.L., a cura di W. Binni, E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, 2 voll.
162 michele dell ’ aquila e della Adelaide, bella e terribile, come la Natura grande dell’operetta famosa, sapevano dunque anche sorridere ? Nelle stanze dorate, tra poltrone e tappezzerie di Damasco, armenti dipinti alle pareti, finestre sul giardino murato aperte ai raggi della luna ed al chiaror delle nevi, sapevano dunque aprirsi anche al gioco, all’intrattenimento, al riso ? E ben vero che la letterina nell’originale manoscritto dal fanciullo è rimasta in Casa Leopardi (e la vediamo esposta nella mostra al piano terra del palazzo) e forse non è venuta mai nelle mani della Marchesa, probabilmente fermata dalla censura familiare che poteva aver trovato sconveniente, pur nella dimensione scherzosa, il tono dello scritto. Ma Monaldo nella molteplice sua natura di buon Monarca delle Indie, sapeva alternare severità e condiscendenza e gli piaceva partecipare a quelle conversazioni in Casa Roberti ; vi accompagnava i figli, pur in dissenso con la più severa Adelaide, e di tanto in tanto apriva anche la sua biblioteca e il salone, soprattutto per Accademie e Recite, in occasione delle quali dinanzi agli Ospiti ed ai Parenti i ragazzi con i rispettivi precettori, dovevano offrir prova dei loro progressi negli studi. Entriamo così, come per caso, e quasi in punta di piedi, nella dimensione intima e familiare delle consuetudini di vita di una famiglia aristocratica del primo Ottocento, nella Marca pontificia, in un borgo di vie ricurve, come a chiudere e quasi a riguardare case di mattoni, alte le une sulle altre, protese a scorgere il mare lontano e i dossi coltivati degradanti intorno, quella Recinetum monaldescamente orgogliosa e misera che pure aveva i suoi agi e le dolcezze pel fanciullo, appannate negli anni (ma non tanto) nelle sovrimpressioni di una odiatamata memoria. Il rimbombo delle carrozze dalle ruote ferrate, il passo dei cavalli sul selciato delle vie, i portoni severamente chiusi a proteggere intimità e segreti di vita, e più ancora ad escludere e guardare da possibili pretese ; le redingotes nere appena subentrate agli sfarzosi abiti settecenteschi ingrigivano ancor più nelle mantelline e nei ferraiuoli di un inverno quasi perenne ; fanciulli intristiti dall’ombra del pedagogo messo accanto a segnarne la separatezza dalla vitale allegria del volgo, dai suoi giochi, dalle grida. Ma se appena fuori dal portone scuro che si chiudeva più che aprirsi sulla piazzetta famosa la contegnosa separatezza imponeva le sue leggi, dentro, come a frangere il rigore delle obbligazioni e dei
leopardi. il riso del fanciullo 163 doveri familiari e scolastici, la vitalità fanciullesca dei fratelli esplodeva nell’intimità delle stanze remote, nei conciliaboli segretissimi, nel gergo solo a loro familiare, nelle risa irresistibili ed infinite in cui s’espande l’irragionevole gioia di vivere dell’infanzia. In quei giochi, favole e racconti, immaginazioni e risa, Giacomo era maestro e donno, dalla sua mente le invenzioni uscivano come nastri colorati dal cilindro di un prestigiatore. Bruciava in quegli anni una vitalità ed un piacere del gioco e della conversazione che poi lo avrebbero abbandonato per sempre. Un’eco sbiadita ritroviamo nelle pagine del Diario del Primo amore, quando riferisce dei giochi e delle conversazioni con la Cassi, nelle sere della sua dimora in Recanati. Ma già lo frenavano orgoglio e timidezza ed uno strano sentimento che per la prima volta sentiva e forse era amore. Poi, con la Malvezzi e la Fanny, e le altre donne della sua vita, sapeva esser pure divertente ; ma era ancora e solo bisogno di amore, e schermo della conversazione scherzosa. Altra sfera, di altra galassia. Lì, invece, in quegli anni spensierati, appena aduggiati dalle già sudate carte degli esercizi quotidiani, che potevano anche essere l’Orazio tradotto ed assorbito poi esemplarmente, le grida e i salti dei fanciulli « su la piazzuola in frotta » e il lor lieto romore » si trasmettevano alle stanze oltre il portone per altri giochi e grida in spazi al riparo dal gelo materno ; e dobbiamo credere che solo in anni più tardi prendesse inclinazione a « schivare gli spassi », alla maniera del passero solitario sulla torre antica. Intorno al borgo di mattoni rossi passava intanto il gran fiume della storia, i cui marosi talvolta giungevano a lambire anche quelle mura, spandendosi per le vie, superando la soglia delle antiche dimore, mettendo scompiglio negli ordini costituiti e nei patrimoni : Recanati repubblica democratica al seguito dei francesi dopo Tolentino ; poi la reazione sanfedista, Monaldo Governatore ; poi ancora i francesi, la fuga della famiglia, la condanna a morte di Monaldo poi revocata, il dissesto del patrimonio, l’amministrazione controllata ; ancora i francesi nello stato pontificio, il Papa prigioniero di Napoleone ; l’eco delle battaglie in Europa ; poi di nuovo in Italia, Napoleone all’Elba, a Sant’Elena, il ritorno dell’ordine e dell’antico regime. Si comprende come quegli eventi potessero essere vissuti con sentimenti diversi da ciascuno. Recanati stessa era un microcosmo dell’universo. E però il palazzo, nelle chiuse stanze, poteva aver l’illusione di essere un’arca sovrastante i flutti inquieti del secolo.
164 michele dell ’ aquila Placatasi, almeno per le più dirette conseguenze, la tempesta che aveva rischiato di travolgerlo, Monaldo chiuso nelle mura di casa, raccoglieva libri, scriveva tragedie e fondava un’Accademia poetica a rinnovamento dell’Accademia de’ Disuguali che aveva operato in Recanati nel secolo xv. Chi può dire se in quella scelta del nome non vi fosse un’intenzione segreta, nella misura di una honesta dissimulatione, a sottolineare un programma aristocratico di vita ed un saldo convincimento sociale ? Voleva che fosse considerata più « scuola di ben vivere » che non « scuola di ben poetare ». Giacomo vi fu ammesso nel 1810 con il nome di Tirso Licedio Arcade ; Paolina divenne invece invece Doralice. I ragazzi intanto crescevano e svezzati dal latte materno e delle balie venivano affidati al pedagogo per i loro studi. Dopo don Giuseppe Torres è la volta dell’abate Sanchini « il quale ammaestrò Giacomo e il suo minore fratello Carlo fino allo 20 di luglio del 1812, in cui diedero ambedue pubblico sperimento di filosofia » – secondo la testimonianza dello stesso Monaldo. Il fine di quegli studi, sempre secondo Monaldo, era ispirato alla regola di « eccitare alcun principio di emulazione, accendere qualche desiderio di gloria, imporre l’amore per lo studio o perlomeno la necessità di simularlo, rendere familiari le frasi buone e le eleganze della lingua, e servire non di rado la religione, imponendo di parlarne in certe adunanze con alti e rispettosi concetti ». Ma se quelli erano i maestri di casa, l’aio, il personaggio cui erano affidati i ragazzi in ogni ora del giorno e soprattutto nelle uscite da casa fu don Vincenzo Diotallevi, il pedante della nota composizione scherzosa di Giacomo. Non saprei dire se le osservazioni e la testimonianza di Monaldo nella famosa lettera memoriale al Ranieri sul carattere e le inclinazioni puerili di Giacomo siano da prendere senza ombra di riserva o non giochi in esse una volontà paterna di consegnare un ritratto fin dai primi anni esemplare del poeta. Leggiamo infatti in essa che Giacomo « era sommamente inclinato alla divozione ; e pochissimo dato ai sollazzi puerili, si divertiva solo molto impegnatamente con l’altarino. Voleva sempre ascoltare molte messe, e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più ». 2 2. Lettera di Monaldo ad A. Ranieri, da questi pubblicata nel Supplemento alla notizia intorno alla vita e agli scritti di G.L.
leopardi. il riso del fanciullo 165 Può essere vero ; così come l’altra manìa di Giacomo, attestata nella stessa lettera, di scrupoli religiosi che gli procuravano l’assillo, camminando, « di non metter piede sopra la croce nella congiunzione dei mattoni ». 3 Sappiamo anche quali erano le suggestioni cui poteva essere sensibile il fanciullo nel chiuso di una casa di genitori religiosissimi praticanti, di parenti monache e prelati, e in una società di antico regime papalino. Ma forse a Monaldo, soprattutto ex post, poteva sembrar utile contrapporre un certo ritratto del figlio scomparso a contrastare quello che potevano averne fatto amici e detrattori. Resta il fatto che « sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia » non gli erano estranei in quei primi anni e la memoria di essi risuona ancora fragorosa e lieta nei versi delle Ricordanze (« rimbombaro i sollazzi e le festose / mie voci al tempo che l’acerbo, indegno / mistero delle cose a noi si mostra / pien di dolcezza... ») Ma allora era al termine del cammino. La nuvola lieve dei pensieri e dei giochi d’infanzia s’era dissolta al vento degli anni e delle esperienze. Di quei sollazzi e festose voci non resta neppure l’eco nelle stanze del palazzo, nel murato giardino. Se vogliamo trovarne le pallide sinòpie dobbiamo cercare nelle carte, nei versi raccolti in quei quadernetti copiati in scrittura compatta, istoriati con figure di alberi, uccelli e monogrammi, donati ai genitori nelle ricorrenze festive o nei saggi di fine anno, ed ora offerti allo sguardo dei visitatori nelle vetrinette dell’antisala della biblioteca paterna e più ancora in quelle allestite con cura dalla famiglia di questa mostra sul ‘giovane Leopardi’. 4 Ma anche quella disposizione giocosa ed ironica, quelle risa e quei giochi, passando per la penna – come avrebbe detto Manzoni – dovevano mettersi l’abito della festa. E l’abito era la letteratura, quanto dire la tradizione di tutta una materia giocosa, ironica, satirica, di cui il fanciullo aveva dimestichezza dai greci ai latini, ai nostri poeti antichi e moderni, dai ‘comici’ del tempo di Dante a quelli del rinascimento e dell’Arcadia ; il grande filone della letteratura del riso, della parodia, della commedia e della satira di cui veniva traducendo o raccogliendo esemplari in quegli anni di scolastiche esercitazioni che per il fanciullo precoce avevano già il sapore della prova di valore e dell’agonismo. « Sudavit et alsit » – troviamo scritto ad epigrafe di ogni raccolta di quelle sue puerili traduzioni oraziane. 3. Ibidem. 4. Se ne veda il Catalogo splendidamente stampato per l’occasione.
166 michele dell ’ aquila Alle prove di penna di una disposizione poetica che naturalmente si orientava verso il modello classico antico e moderno nella georgica, nella bucolica, nel poema e nell’epigramma, nella gnomica e nella didascalica (e se ne appropriava genialmente traducendo ed imitando), s’intreccia dunque una letteratura del gioco e del riso che aveva i suoi modelli e produceva imitazioni ed estrose invenzioni. Il topos del divieto o della imposizione dei cibi al desco familiare s’esprime giocosamente nei martelliani Contro la minestra che sono del 1809 : « Non or d’eroi tu devi, o degli Dei cantare... / Ma solo la Minestra d’ingiurie caricare ». E via accuse d’ogni genere da questo Giamburrasca d’eccezione. Fino alla conclusione : la minestra è cibo di malati : « chi desidera la Dio mercè esser sano / deve lasciar tal cibo a un povero malsano. / Piccola seccatura vi sembra ogni mattina / dover mangiare a mensa la cara minestrina ? / Levatevi, o mortali, levatevi d’inganno, / Lasciate la minestra, che se non è di danno, / è almen di seccatura. Or da te mia Musa, / sia pur la selva opaca del tuo Elicone chiusa./ Io forse da qualcuno talor sarò burlato, / ma non m’importa, bastami d’essermi un po’ sfogato ». La perorazione in distici endecasillabi A favore del gatto e del cane del 1810, attinge ai luoghi comuni della favolistica antica che sovente aveva privilegiato gli animali, tornata di moda nel Settecento ed a lui familiare per esercitazioni scolastiche.Il comico non nasace tanto da certi accostamenti storici (« Se Ciro non aveva e Gatti e Cani / come poteva vincer gli Egiziani ? » ; « E fecer meglio a l’armi Persiane / di quel che fecer poi l’oche Romane »), quanto dall’inserimento burlesco di alcune formule e procedimenti sillogistici che erano familiari al fanciullo Leopardi esercitato nella disciplina scolastica alla ginnastica razionale dei « logici sofismi », « nego e probo » e « nego minorem ». Alla fine, sconfitte le ragioni del disprezzo, « i cagnuoli oramai sien consolati, / e i gatti non più sien disprezzati. / Onde poi debban dirmi grazie tante / e scuoter coda, e saltellarmi innante ». Tra le prime cose, e sempre nello stesso filone della favola degli animali è il componimento intitolato I Filosofi e il Cane e, più ancora, L’Asino e la Pecora, nel quale ultimo la caratterizzazione dei due animali ha elementi della comicità tradizionale e lessico ugualmente di maniera : « Asinel pasciuto, e grasso / vide un giorno andando a spasso / d’un lion l’orrida pelle, / l’aspre zanne e le mascelle / stese in terra abbandonate / e d’alcun più non curate ». Vanità e rivalsa meschina portano al travestimento ; crede di essere temuto da tutti
leopardi. il riso del fanciullo 167 gli animali, « dal cornuto / bue robusto, e dal veloce/ corsier nobile e feroce » ; ma non dalla « candidetta pecorella » che anzi lo smaschera, sicché « il Somaro svergognato / fu del basto caricato ». Lo scambio di letterarie burlette tra i fratelli è attestato anche da questi componimenti che forse rivolti alla sorella Paolina erano accompagnati da questa dichiarazione : « L’autore si protesta che non ha intenzione di offendere una Letterata rispettabile per ogni verso, ma questa Signora non farebbe male di applicare a sé la moralità di questa favola a tutti nota ». Le sette odicine del 1810 Alla signora contessa Paolina Leopardi, di volta in volta chiamata dotta grammatica, e letterata, oppure erudita traduttrice di Marco Tullio Cicerone, svariano tra scherzo ed omaggio alla « immortal dama erudita », « erudita signorina / dei dottori alta Regina », per sfociare nell’ultima in più ridanciane allusioni : « Fuvvi un dì che si potea / dirvi quel che si volea. / Si potea scherzare un poco/ senza farvi andare in fuoco. / Sentivate questo e quello/ senza prendere un cappello… ; / Noi perciò nel quarto esame/ con le fette di salame / vi facemmo una corona / da portarsi in Elicona, / e mostrarsi a quei poeti / che sen van contenti e lieti / di uno straccio sol d’alloro / comperato a peso d’oro... / Io però prendo partito, / umiliato ed avvilito, / di donare al vostro merto / di melloni e fichi un serto... » Ma la prima odicina ha l’andamento cantato delle bambocciate infantili. Paolina (Pilla o don Paolo, nel gergo scherzoso dei fratelli, era ai primi passi nello studio del latino : « O mia cara Paolina,/ la Grammatica latina/ molto incomodo a ognun dà, / e assai dura vi parrà. / Io non so cosa mi dire,/ma vi voglio un po sentire / a far questi Latinelli, / che son tutti buoni e belli... » Poi, con i progressi, le lodi, tra il serio ed il faceto : « Mi permettono, che inchini / la mia nuova Bandettini ? (una ballerina letterata, quest’ultima, amica del Bettinelli, improvvisatrice di versi, nota nell’ambiente bolognese) / Delle scienze l’Eroina / l’immortal grande Paolina ? » ; e con un madrigale : « Si riverisca ognuno / l’esemplare delle dame / ammiri ognun la forte alta Eroina / della diletta sua lingua Latina, / il gran Tullio l’onori, / e gli offra i verdi allori, / e Corilla, e le dotta Bandettini / gli tributino ossequj e umili inchini ». Due letterine in versi al precettore don Sanchini, del 1810, ne presentano scherzosamente l’immagine di « precettor giocoso e gaio, / immortal poeta invitto, / che va sempre con il sajo... / buona notte
168 michele dell ’ aquila e buona sera/ state a far la vostra nanna, / e sopisca l’ombra nera/ ogni cura che vi affanna ». La firma è scherzosamente anonima : « Indovini di chi sono questi versi » ; e per la seconda : « Indovini il solito ma adesso ci vuol poco ». Del 1811 sono i versi Alla Signora Contessa Virginia Mosca-Leopardi, il cui tono parodistico gioca sull’incontro/scontro tra aulicità e prosastiche espressioni : « Già salisco sul Parnaso/ tutto pien di buon umore ; / pria mi soffio un poco il naso/ ed ascugomi il sudore : / poi la cetra appendo al collo, / e m’assido in su l’erbetta... » E via una lode delle « rare doti e i pregi / nobili ed egregi / dell’« ava amica. / Ogni fatica/ si adopri pure ; / tutte le cure / per opra tale / non fanno male ». La scherzosa ode che ha titolo La dimenticanza esce dalla penna del fanciullo già quasi giovinetto, essendovene alcune redazioni del 1811, edite dal Piergili, secondo il quale il poeta scrisse la poesia nell’età di 13 in 14 anni ; ma nel testo definitivo essa è inclusa in un elenco di opere « da stamparsi quando si voglia » allestito nel 1816. Nei tre giovinetti sotto il nome arcadico di Cleone, Lucio ed Eurilla è facile riconoscere i tre fratelli Leopardi, e nel « pedante rigido » il buon Diotallevi. L’andamento dell’ode asseconda l’intento scherzoso e gioca sul contrasto tra aulico e popolare, tra Arcadia colta e rappresentazione di basso profilo, con effetto di parodia, secondo ben collaudati schemi di una secolare poesia comico/rusticale. Così all’apertura solenne « Nel tempo che dileguasi / all’orizzonte il rosso » fa riscontro il gracidare della « rana dentro il fosso » ; con iterazioni d’immagine sullo stesso motivo, a far da soglia di attesa dell’entrata in scena degli eroi : « alla città tornavano / da non lontana villa / tre giovinetti nobili / Cleon, Lucio ed Eurilla / d’un attempato e ruvido/ fattore in compagna, / vermiglio, grasso, florido/pedante li seguia ». Reduci da una abbondante colazione campestre e da più abbondante libagione, tiravano lentamente a concludere la giornata nel domestico riposo, quando « Cleone (cioè Giacomo), astuto giovine / che d’essi era il maggiore, / e avea tra gli altri vizii / un capriccioso umore ; / con uno scherzo innocuo / fitto s’aveva in testa / a quel pedante macero / far terminar la festa ». Usando un ombrellino a guisa di archibugio e camuffandosi da brigante, « con voce orribile » simula un’imboscata al pedante che »pel calle solitario.. ; / veniva tranquillissimo / ciarlando col castaldo ». La sorpresa riesce : « Il buon pedante gelido / confondesi e ristà, / e sclama in arretrandosi :/la vita per pietà ». Risa generali, faticoso
leopardi. il riso del fanciullo 169 rimettersi in sesto dalla paura, il pedante per mitigare il ridicolo, che esclama :« Oh dice, incauti giovani, / oh malaccorta etade ! / Se in tasca, il ciel mi liberi ! / trovavami un coltello, / Di voi...qual rischio barbaro !... / Facea crudel macello ». Finale, con sorpresa, anzi, dimenticanza... : giunti a casa, « Il precettor, dell’abito/ levandosi ogni arnese, / a trar di tasca vennesi / un suo coltello inglese ». Questa disposizione burlesca, questa vena di umor comico incline al riso ed alla giocosa parodia delle situazioni, si esprimeva nei canali della letteratura di tradizione, che nel caso di Leopardi e di tutta quella provincia marchigiana primo Ottocento, un po’ classicista vecchia maniera, un po’ monaldesca, si muoveva tra erudizione, filoni della cultura letteraria tardoellenica e latina, umanesimo ed arcadia rusticale. Un filone privilegiato era quello epigrammatico e satirico, come è attestato dalle numerose traduzioni e rifacimenti del giovine poeta dagli antichi, e soprattutto da quel testo classico del genere ch’è la Batracomiomachia : un amore antico di Giacomo, se già ne confezionò una traduzione nel 1815, preceduta da un Discorso, pubblicati l’una e l’altro nello « Spettatore » del 31 ottobre e del 16 novembre del ’16. Nel Discorso troviamo qualche considerazione sul comico e sul riso che val la pena rileggere : volendo spiegare perché anche grandi poeti come Omero possano indulgere a componimenti giocosi, egli cita l’autorità di Pope quando afferma che un grande autore può qualche volta ricrearsi col comporre uno scritto giocoso, che generalmente gli spiriti più sublimi non sono nemici dello scherzo, e che il talento per la burla accompagna d’ordinario una bella immaginazione, ed è nei grandi ingegni, come sono spesso le vene di mercurio nelle miniere d’oro. 5
Quella traduzione del ’15 non doveva essere un fatto occasionale. La insistenza del poeta con una seconda versione nel 1821-22 apparsa anonima nel « Caffè di Petronio » nel maggio del ’26 e poi di una terza traduzione compiuta nel 1826 in Bologna ed apparsa in B 26, è più che una prova della confermata inclinazione satirica di Leopardi che su quel testo faceva le sue sperimentazioni di stile « comico ». Solo che, negli anni, quella puerile giocosità veniva mutandosi nel distanziamento e nel riso di chi ha compreso il Grande Inganno ed irride le stolte illusioni di quanti ancora vanno dietro alle fole e alle mistificazioni. 5. Discorso sopra la Batracomiomachia, in Tutte le Opere di G. L., cit., i, p. 384.
170 michele dell ’ aquila L’approdo sarà costituito dalle strofe comiche e tragiche, le terribili caricature dei Paralipomeni degli anni napoletani, « le ottave più belle che la letteratura italiana possa vantare », secondo la stima quasi coeva dello Schulz. 6 Esse, com’è noto, toccando con spregiudicatezza il tema risorgimentale, furono oscurate dalla ideologia patriottica preunitaria e dell’Italia unita. Si preferì non parlarne, o spingerla ai margini. Facevano ombra al più funzionale poeta della canzone All’Italia ed anche a quello delle illusioni e del dolore. Forse oggi, venute meno certe ingessate idolatrie, quelle strofe possono offrire illuminanti chiarificazioni su certi nodi della storia d’Italia, su talune illusioni dure a morire, sulla vanità e leggerezza degli uomini. Cose amare a scriversi e a leggersi. Perciò, forse, preferimmo rimuovere. Più utile a comprendere gli avvii e l’approdo di questa mutazione ripercorrere alcuni suoi pensieri dello Zibaldone sul riso, che gettano luce sulla nativa e poi razionale inclinazione alla satira, giocosa negli anni beati della fanciullezza, gelida negli anni più tardi ; anche se non giurerei che anche in quello stremo di vita non fosse del tutto senza turbamenti del cuore e resistenti scatti di sentimento : Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura, 107 ; frequente nei pazzi, ma anche nei savi ridotti alla estrema disperazione della vita, 188 ; il comico degli antichi consisteva nelle cose, quello dei moderni nelle parole, 41-42 ; perché giovi e piaccia deve cadere su qualcosa di serio e d’importante, 1393-1394 ; terribile ed awful è la potenza del riso ; chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire, 23 sett. 1828 ; con il crescere dell’esperienza e quindi dell’infelicità, l’uomo diviene più proclive al riso e sempre più incapace di pianto, 4138 (vedere il testo dello Zib, non quello dell’Indice).
[1995]
6. H. W. Schult, G. L., sein Leben und seine Schriften, nella strenna « Italia », ii, Berlin, 1840.
CROCE STORICO E CRITICO DI LETTERATURA : UN MODELLO DI STILE
M
ezzo secolo, quanto ne corre dalla scomparsa di Croce, consente di riguardarne l’immagine ed il segno lasciato dalla sua opera con minori pregiudizi di quanto non potesse farsi negli anni della celebrazione ed in quelli della denigrazione. Anni che abbiamo attraversato, con i relativi luoghi comuni, come tutti i luoghi comuni non equi e deformanti, dei quali abbiamo lungamente sofferto. Sappiamo, per esserne stati testimoni, quanta acqua sia passata sotto i ponti di questi cinquant’anni, e degli altri che precedettero, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, dai quali presero avvio il pensiero e la scrittura del Nostro : fatti e vicende della storia della cultura e della storia tout court : egemonie e declini di grandi sistemi, guerre, rivoluzioni, mutamenti economici e sociali. Croce li ha attraversati, in vita, nella operosa sua vita e nell’affezione/disaffezione che ne ha accompagnato il corso e seguito, come una lunga scia, la scomparsa. Oggi molti luoghi comuni mostrano di non avere più tenuta, e non ne avevano prima, giustificandosi soltanto, in qualche modo, per il naturale e storico contrasto delle generazioni e la conseguente necessità di accusare il passato nel tentativo di avvalorare il presente. Così l’accusa che egli avesse contrastato l’avvento delle nuove scienze umane, la psicologia, la psicanalisi, la fenomenologia, l’antropologia, le stesse discipline linguistiche, retoriche, stilistiche ; che avesse chiuso l’Italia all’apporto di esse, producendo un ritardo di molti decenni nella loro scoperta e divulgazione ; che avesse contribuito ad isolare la cultura italiana dai filoni più vivi della cultura europea, mentre venivano taciuti i rapporti ininterrotti di lui con filosofi, storici, critici, linguisti di tutt’Europa, in particolare tedeschi e spagnoli ; che avesse negato valore al disordine e caotico groviglio di diversi dal quale pure scaturisce la forza vitale che genera la vita e produce la storia, contrapponendogli l’ordine categoriale, la disciplina dei distinti, lo schema razionale della dialettica sistemica che tutto riconduce alla pacificata comprensione di un caos ordinato a cosmo ; di aver avuto responsabilità e compromissioni con la dittatu-
172 michele dell ’ aquila ra, offrendo perfino terreno teorico all’attecchire delle radici di essa, egli che pure era stato polo autorevole di un antifascismo liberale e aveva teorizzato nella sua opera coeva al ventennio la religione della libertà. Ma l’europeismo e la dimensione europea di Croce non possono esser messi in discussione. Scorrere l’elenco delle sue opere vuol dire scorrere la storia della cultura europea oltre che italiana. Spagna, Francia, Germania erano per lui territori culturali largamente battuti : ne conosceva lingua e cultura ed era in relazione con i maggiori intellettuali di quelle nazioni, da Unamuno a Sorel, a Mann, a Bergson, Ortega, Boutroux, Vossler, Spitzer. La raccolta di saggi Poesia e non poesia 1 è una rassegna puntuale della maggior letteratura europea del secolo xix. I saggi su Corneille e su Shakespeare sono esemplari per informazione e densità : Il volume sulla Storia d’Europa nel secolo xix è dedicato non a caso a Thomas Mann, quello che Croce sentiva come uno dei massimi intellettuali/testimoni del momento. Può essere interessante scorrere gli elenchi degli amici e corrispondenti europei che Croce inviava a Laterza affinchè fosse spedita copia dei suoi ultimi libri, con carta da visita e saluti : vi troviamo, per la Storia d’Europa, i nomi di Mann, Vossler, Bédarida, Einstein, Unamuno, Meinecke, insieme a molti altri. D’altro canto in una serena valutazione dell’opera di Croce la prospettiva europea, entro la quale fu tra i protagonisti, meglio si addice nei primi decenni del Novecento, rispetto a quella italiana. Di lui si è voluta avallare l’immagine pacificata di un sedicente imperturbato possessore della verità, di un uomo senza inquietudini e senza affetti, neppur familiari, duro con tutti, intransigente perfin puntiglioso anche con gli amici ; del benestante dedito agli studi coltivati senza risparmio per tutta la vita, non considerando volutamente le crisi intellettuali, l’ansia del dubbio, l’assidua ricerca dei punti di equilibrio, la passione, la curiosità intellettuale, la molteplicità degli interessi. Basta rileggere le pagine sue più autobiografiche, il Contributo alla critica di me stesso, certe lettere attraversate da una fortissima tensione intellettuale, perfino esistenziale ed emotiva ( il suo ricorrente timore di una morte precoce !), la lezione morale che scaturisce da tutta la sua opera, che nelle diverse specificazioni pre1. Per questa e per le altre citazioni di opere di Croce ci si riferisce ai relativi volumi nella edizione Laterza.
croce storico e critico di letteratura 173 senta una compattezza ed una unità che è frutto non certo gratuito, ma conquista sotterranea dell’impegno di ogni giorno. Per tutta la sua vita operosa Croce, in fondo, non fece che tenere a freno, tenendosi fermo al suo polo razionale, le forze inquiete che gli si agitavano dentro. Nei Taccuini di lavoro troviamo scritto : « Per invigilare me stesso ». E dunque la sua prima battaglia contro le forze della esistenzialità irruente e disordinata la combatteva dentro se stesso. Su tale interezza dell’opera. sulla sua eticità, sull’inquietudine, la curiosità, la molteplicità di interessi dell’uomo e del filosofo ha scritto pagine illuminanti Giuseppe Galasso in un volume recentemente ristampato da Laterza dopo dieci anni dalla sua prima edizione, 2 né sarà d’uopo qui ritornarvi. Insisterei piuttosto sulla sua scrittura, sullo stile dei suoi libri, quale strumento dell’articolazione del pensiero e della sua organica chiarezza. Uno stile inconfondibile, un modello della prosa saggistica novecentesca e in qualche caso anche di quella narrativa. 3 Uno stile, anch’esso, in apparenza naturale e senza fatica, ma, come tutte le cose perfette, laboriosamente, anche se quasi invisibilmente conquistato. E varrà subito dire che questa dello stile di un filosofo e di un critico che a differenza di tanti altri fu anche scrittore, non va intesa in lui quale veste esteriore, forma o involucro del pensiero, dote innata, dovuta ad una consapevolezza e coscienza della tradizione letteraria, che pure era in lui vivissima ; ma elemento in tutto innervato nella articolazione del pensiero, che si disponeva e risolveva totalmente in quella, presentando le stesse connotazioni ed inflessioni, gli stessi picchi speculativi e pause discorsive, in una alternanza esemplare di densità e chiarezza, colloquialità e letterarietà, ironia ed autoironia, severità di principi e di assunto ed interfaccia amichevole col lettore. Il modulo conversevole manzoniano risulta temperato da più recenti o vicine suggestioni carducciane e desanctisiane, da retrodatazioni lessicali verso l’arcaismo,tipiche del gentiluomo colto napoletano, da una disposizione naturale all’aneddoto, al racconto, all’intermezzo autobiografico, 2. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano, Il Saggiatore, 1990 ; nuova edizione, Bari, Laterza, 2002. 3. Ci si riferisce, naturalmente, ai volumi di aneddoti, curiosità napoletane ed a quelle Storie d’avventura e di passione, recentemente ristampate da Adelphi.
174 michele dell ’ aquila Sarà lui stesso a definire certi parametri stilistici, con riferimento a se stesso o ad altri, ma in ogni caso con implicita autoriflessione : Sono gli scrittori filosofici che abbiano un grado di notevole pathos, quelli che importano soprattutto alla storia letteraria. Il loro pathos può essere svariatissimo : dal sentimento sublime del Vero e dell’Eterno alle trepidanze e agli smarrimenti ansiosi della ricerca ; dalla calma di chi annuncia, quasi sacerdotalmente, la verità, incurante di coloro che la contrastano, alla polemica, anzi alla satira, di chi ha sempre la visione degli avversari e degli ostacoli che si oppongono al libero dispiegarsi dell’attività filosofica.
Descrive con adesione il modulo coinvolgente della prosa di De Sanctis. ; analizza le modulazioni della sua forma espressiva : Nella mia forma espositiva e letteraria – scrive nel 1914 – ho preferito adottare, secondo i casi, ora una certa andatura didascalica che somiglia a quella degli scolastici, ora un modo disinvolto, descrittivo, popolare quale usarono i filosofi inglesi nel Settecento ; e nel tutto insieme posso dire di aver tenuto una forma che è ben mia e bene italiana. 4
Una apparente conversevole stabilità, connessa all’immagine moderata ed olimpica, per dirla con Russo, ma ritmo costante del mutamento. Perpetua instancabile opera di revisione sintattica e lessicale che si esprime in una scrittura dinamica. Prezzolini si chiedeva : « Perché Croce scrive bene ? » Ed attribuiva lo splendore di quella scrittura all’« ebbrezza filosofica », la formula che rende meglio il grado di vivacità di stile, anche nei soggetti che parrebbero più scolastici. E indicava il libro su Hegel, « così vivo, spigliato, corrente, caldo… ». 5 Serra, non certo benevolo verso Croce, ne riconosceva la supremazia del letterato sul critico, « in quanto è un eccellente scrittore, classicamente misurato e composto, nutrito di reminiscenze e citazioni che sostituiscono in lui, come in tanti classici e classicisti, il pittoresco dell’immaginazione, ricco di pathos e di calore sincero… ». 6 Cecchi avanza un paragone tra Croce e D’Annunzio, sostenendo che la pagina di entrambi produce una impressione luminosa, pacata, voluminosa ; una impressione di franca ampiezza. Ma ne 4. B. Croce, Intorno alla mia teoria del diritto. 5. G. Prezzolini, Il poeta della filosofia, in Diario 1968, 1982, Milano, Rusconi, 1999. 6. R. Serra, Scritti letterari, 1914.
croce storico e critico di letteratura 175 denuncia la mancanza di nerbo, di architettura. il vuoto della parola, la « sostituzione integrale della cosa in parola, nome, immagine », lontano da quanto nella vita « sia di inconfessato ed inesprimibile ». Cecchi quando ne scriveva era vicino alla irrequietezza vociana del primo Novecento. E tuttavia nessuno negava che la sua (di Croce) fosse una prosa limpida, avvolgente, cordiale, nello stesso tempo compatta, senza incrinature, classica, ispirata alla migliore tradizione letteraria. In realtà Croce andava modificando il modo stesso di scrivere il saggio critico, il contributo scientifico o filosofico. Si provi a confrontare la sua pagina con uno qualsiasi degli scritti dei professori della scuola storica di quegli anni. Non pochi ritengono che il Croce prosatore migliore è nelle Storie e leggende napoletane, in quelle curiosità e note marginali scritte in gioventù, ma « riscritte da cima a fondo » nel 1915.Vi troviamo ironia ed allegoria, una cordiale disposizione narrativa, le tracce di « favola di sé che egli sempre narra a se stesso », come notava Galasso. 7 Rileggerle costituisce ancora un piacere per lettori d’ogni livello. Ma a testimonianza della sua ininterrotta cura formale, va ricordato che anche i saggi pubblicati nella « Critica » passando nella raccolta della Letteratura della Nuova Italia subirono un notevole processo correttorio classicizzante. Lo stile in lui, lo stile nuovo della scrittura filosofica e critica, era ben altro che lo scriver colorito di certe pagine. Nasceva da un rapporto organico con il pensiero, ne mutuava la chiarezza, la capacità di distinzione, la persuasività degli argomenti. Gli ornamenti della retorica vengono dopo. Traccia della sua ricerca inesausta, di una verità intesa quale progressiva approssimazione alla verità, si trova nel Contributo alla critica di me stesso che è del 1915, di un Croce quasi cinquantenne e già avanti nella costruzione del suo sistema e nell’affermazione della sua egemonia culturale : Sono entrato nell’ultimo anno del decimo lustro, e mi giova, nella pausa ideale indetta nel mio spirito da questa data, guardare indietro al cammino percorso e cercar di spingere lo sguardo su quello che mi conviene percorrere negli anni di operosità che ancora mi resteranno 8 7. G. Galasso, 8. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, nella redazione del 1915 nel vol. Etica e politica, Bari, Laterza, 1921.
176 michele dell ’ aquila Non era, Croce, uomo che si proponesse in quella sede di andar dietro a confessioni o ricordi o memorie o ad altre « vanità ». Lo muoveva semplicemente, e fermamente, l’intento di « abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso... ». Anzi, come precisava, non senza una punta di enfasi, « la storia della mia vocazione o missione ». 9 Ed era, quello, il rendiconto di trent’anni di lavoro, di una operosità che appariva già imponente nel suo ritmo aequabile e necessario », per usar l’espressione di Serra, 10 che verso di essa non ebbe certo tenerezze : aveva delineato un sistema filosofico entro cui scavava ad allargare, a correggere, a sistemare ; aveva enunciato una concezione dell’arte e della critica in opposizione ai materialismi positivista e marxista, ma anche a tutti gli irrazionalismi che variamente camuffati avevano corso il campo ; aveva difeso quelle sue asserzioni teoretiche con ininterrotti ed instancabili interventi nella polemica d’ogni giorno ; poteva considerare di aver inferto colpi decisivi negli schieramenti avversari ; i volumi delle sue opere, solidi ed autorevoli, uscivano dalle officine baresi dei Laterza a raggiungere i banchi dei librai delle città d’Italia e d’Europa ; da quei volumi, e dalle pagine della « Critica », puntuale nelle librerie ad ogni 20 dei mesi dispari, egli governava e ordinava l’universo letterario, storiografico e filosofico, rettificando, contrastando, ridicolizzando opinioni diverse ; era presente nei congressi europei, nelle dispute nazionali, perfino in mezzo a quell’inquieta pattuglia di giovani intellettuali delle riviste primonovecentesche, a quei vociani coraggiosi ma velleitari, cui si rivolse con simpatia o con severità secondo le occasioni. E tuttavia, nei toni di una consapevolezza vittoriosa è facile scorgere l’inquietudine febbrile del ricercatore che sa di non essere giunto alla meta, di essere ancora in cammino, di dover rivedere, confrontare, sottoporre a dubbi e revisioni, il proprio sistema ; cosa che Croce fece ininterrottamente, per tutta la vita, sia sul piano della speculazione filosofica, dell’estetica, della concezione stessa della poesia e perfino nella revisione di alcuni giudizi critici su opere ed autori. Valga per tutti il caso Manzoni. Già nel 1912, nel Breviario di estetica, un testo dunque tutt’altro che ‘autobiografico’ nella sua concisa paradigmaticità, non s’era tratte9. Ibidem. 10. R. Serra, Scritti letterari, 1914.
croce storico e critico di letteratura 177 nuto dal rappresentare con soddisfazione ed immagini quasi militaresche la conquista di quelle sue posizioni di verità, e l’orizzonte che da esse gli si dispiegava innanzi : La semplicissima formula : che l’arte è intuizione’... si ode dalle bocche di tutti coloro che discorrono quotidianamente di arte... Né farà più meraviglia che la conquista filosofica di essa sia costata una somma stragrande di fatiche, perché quella conquista è come il metter piede sopra una collinetta contrastata in battaglia… non è il semplice punto di riposo di una passeggiata, ma l’effetto e il simbolo della vittoria di un esercito. 11
I suoi cominciamenti eruditi di storia e curiosità napoletane sono noti. Lui stesso vi scherzava sopra, ricordando di essere entrato, in quegli ultimi decenni dell’Ottocento, in quella società tutta composta di bibliotecari, archivisti, eruditi, curiosi, e altra onesta e buona e mite gente – com’egli stesso dice nel Contributo – uomini vecchi o maturi i più, che non avevano l’abito del troppo pensare, e ai quali io mi assuefeci, e quasi mi adeguai, almeno nell’estrinseco. 12 Ma sarebbe un errore considerare quella fase come ‘separata’ preparazione, in attesa di una crisi o conversione che in Croce non ci fu. I due momenti, della ricerca erudita e della riflessione critica sul documento, sul fatto, risultano sempre in Croce strettamente collegati ed essenziali all’avanzamento del sapere. Anche i suoi scritti più teorici ed ‘astratti’ poggiano su ricerche attentissime, talora dissimulate, o ristrette nelle minuziose bibliografie ch’egli volle di tanto in tanto offrire. Ma intramezzata a quella sua produzione, fin da principio cospicua, di note storiche, ricerche d’archivio, studi di storia politica, della cultura, dei teatri, profili e aneddoti di varia letteratura, egli cominciava a far giungere segnali non ambigui di un pensiero che intedeva considerare « filosoficamente » le questioni del !a letteratura della storia e dell’arte. Tali devono intendersi i due scritti, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, del 1893 ; e l’altro, più polemico, del 1894, che in qualche modo ne costituiva il logico corollario : La critica letteraria : questioni teoriche. Veniva delineandosi la scelta di campo e il rifiuto 11. B. Croce, Breviario di estetica, in Nuovi saggi di estetica, Bari, Laterza, 1920, pp. 19-20. 12. Idem, Contributo, cit.
178 michele dell ’ aquila della identificazione della critica nella scontata sequenza di biografia, bibliografia e storia della fortuna, con l’appendice della ricerca delle fonti. Nei sessanta e più anni di studio e di scrittura egli ha percorso tutti i comparti e territori delle nostre lettere, dalle origini neolatine ai grandi trecentisti, agli scrittori del Cinque e del Seicento, a quelli del rinnovamento arcadico ed illuminista, all’Ottocento romantico e verista, fino all’inquieto Novecento, a quegli scrittori della nuova Italia sui quali, anzi, egli cominciò ad affinare il metodo e a fare le prove di penna. Scorrendo i volumi laterziani in cui quel lavoro è raccolto, ed anche la bella antologia curata negli anni Cinquanta da Mario Sansone nella quale quei saggi sono disposti per secoli, 13 è possibile ripercorre la storia di quella operosità, rimarcarne il metodo monografico, non ritenendosi dal Croce, com’è noto, che potesse esservi svolgimento e dunque storia della poesia ; notare le questioni teoriche che sono a presupposto del metodo, le distinzioni tra questioni relative alla poesia colta nella suo momento di pura intuizione ed espressività e le questioni pur importanti, ma propedeutiche ed allotrie, relative alla biografia, al contesto storico, alla stessa struttura dell’opera d’arte, al suo impianto filosofico, scientifico, politico, religioso, sentimentale. Ed è possibile anche rimarcare lo stretto rapporto tra i momenti più tesi della asseverazione teorica e certi interventi dimostrativi e quasi dichiarativi di critica letteraria ; i momenti di approfondimento e svolgimento dei presupposti teorici riguardanti la poesia, con le relative nuove acquisizioni ed ampliamento della categoria di letteratura, con i nuovi interessi e relativa rivalutazione della gran mole della letteratura ‘oratoria’, morale, politica, religiosa, della didascalica, delle forme giocose, satiriche, piacevoli o altro che sia. Per rendere giustizia a Croce bisogna disporsi, come propone Galasso, a storicizzarne il pensiero. Al Croce, nonostante le accuse da più parti ed insistentemente rivoltegli, sembra non essere mai sfuggita la complessità e l’unità della vita spirituale, il suo dispiegarsi in forme diversificate che peraltro non annullano, ma solo si sovrappongono di volta in volta alle altre che coesistono in profondità. 13. Idem, La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, a cura di M. Sansone, 4 voll., Bari, Laterza, 1956.
croce storico e critico di letteratura 179 L’accusa di schematismo e di astrazione, di insensibilità agli infiniti intrecci della vita, al suo « polipesco groviglio » per dirla con una espressione di Gadda, risulta contraddetta nei fatti dalle continue messe a punto su questo problema. Mi sembra che questa postilla ad una pagina del saggio su Carducci risulti eloquente : Lo spirito umano è uno e diverso insieme ; e quelle che si chiamano forze poetiche, intellettive, passionali o pratiche, sono tutte attive in ogni istante, tutte in una, e pur l’una distinta dall’altra : dalla quale distinzione nasce l’opposizione e la lotta, e dalla lotta lo svolgimento e la produttività spirituale. Perciò non vi ha poeta, che non sia semplice poeta, come non vi ha uomo pratico che sia soltanto uomo pratico ; poeti e uomini pratici, in senso eminente, chiamiamo coloro il cui animo è accordato e disposto in modo che la poesia o l’azione sia come il fine principale, al quale tutti gli altri si subordinano e cospirano. Ma se un poeta non fosse insieme uomo pratico e passionale, se non fosse uomo, non sarebbe nemmeno un poeta. Cosicché, intendere criticamente un poeta è intendere la dialettica della sua anima, le forze pratiche e passionali, non meno di quelle contemplative e poetiche le quali si muovono in lui ; e mostrare come dalla lotta di queste forze la sua poesia ora venga favorita, ora impedita ; come gli elementi non poetici del suo spirito ora nutrano di sè quelli poetici, ora li divorino e se ne nutrano. 14
A riflettere appena un poco su tale delucidazione in apparenza lasciata cadere quasi di passaggio in un contesto inteso alla definizione di una poesia a lui cara, quella di Carducci, è possibile ritrovare la spiegazione e la giustificazione della teoria dell’unità poetica, quella unità nella quale, senza annullarsi, ma senza soverchiare, si ritrovano dialetticamente correlate ed interagenti tutte quelle altre sollecitazioni, morali, pratiche, esistenziali, politiche, sentimentali (le quali è pur compito della critica misurare e valutare), che risultano sottese alla poesia, ma devono risolversi ed essere valutate unicamente nella loro espressione. Ripercorrere una tale attività di storico e critico della letteratura nella sterminata distesa di sette secoli e di tanti interventi risulta disagevole e finirebbe con l’essere dispersivo. Il contributo di Croce, che non risulta innovativo nella periodizzazione storica e forse di non grande rilievo nella indicazione di valori poetici,di nuovi autori da 14. Idem, Giosue Carducci, Bari, Laterza, 1942, pp. 40-41.
180 michele dell ’ aquila proporre all’attenzione degli studiosi, nonostante non manchino gli esempi notevoli, da Fazio degli Uberti lirico, al Della Valle tragico, a Ciro di Pers e gli altri secentisti, ai petrarchisti del Quattrocento, ai melici del Settecento, si dimostra invece di straordinaria forza nella determinazione e chiarificazione di problematiche storico-letterarie, morali e culturali, quali per esempio la questione della lingua, dei dialetti, le indagini sul Quattrocento umanistico, il secolo senza poesia, sul carattere artistico e non artificiale del latino in quegli scrittori, sul valore della imitazione, sulla letteratura del rinascimento, del barocco, sui poeti secentisti, sull’ufficio dell’Arcadia, sui rapporti tra la poesia colta e quella popolare e di questa con quella, il mondo popolare e dialettale, soprattutto napoletano e campano, con i suoi Masuccio e Basile, e poi Di Giacomo e Russo ; gli aneddoti e le leggende e le ricostruzioni storiche ; sui limiti morali del romanticismo e del decadentismo.Nella trattazione delle questioni, più che nell’esercizio critico egli offre il meglio della sua capacità di approccio alla letteratura. Potranno esserci state disattenzioni e miopie o sordità, come è stato detto ; certamente spiegabili con il riferimento ad una concezione integra ed intera della vita, al suo assillo teorico di ricomporre in unità la discorde e rissosa molteplicità delle forme, per una sua visione classica e serena, oltre le inquietudini e le tempeste di cui è fatta la storia di ognuno e di tutti. Rimane la esemplarità di certi interventi che credo avessero una funzione dimostrativa oltre che conoscitiva. Il libro sulla Poesia di Dante 15 ne è un caso da manuale. Pubblicato alle soglie del 1921, anno centenario della morte di Dante, contemporaneamente ad una quantità di studi particolari degli ultimi seguaci della scuola storica e alla edizione delle Opere di Dante curata dai maggiori rappresentanti di essa, il libro di Croce fin dal titolo e dalla esile dimensione si preannunciava polemico verso un indirizzo critico che aveva fatto oggetto delle proprie attenzioni non solo la poesia, finendo anzi col perdere di vista proprio la poesia. Scritto in forma di estrema chiarezza e semplicità, che ne accresceva la suggestione rispetto agli aridi ed irti volumi della critica storica ed allegorizzante, ma in realtà sorretto da principi estetici e da una metodologia critica di estremo rigore, il saggio, partendo da una 15. Idem, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1920.
croce storico e critico di letteratura 181 idea della poesia intesa come pura attività fantastica, si volse innanzi tutto a svalutare il faticoso lavoro della critica inteso a cercar notizie biografiche, fonti, sistemi religiosi, filosofici, politici etc., intorno a Dante e alla Commedia, cose tutte che, secondo il Croce, hanno il loro indubbio interesse, ma non illuminano, anzi rischiano di occludere la poesia soverchiandola. L’immenso lavorio della critica storica ne usciva mortificato, al massimo accolto come propedeutico, mentre il critico insisteva sul concetto desanctisiano che Dante è soprattutto poeta e che della sua attività di poeta bisogna rendere conto, individuando nella sua opera, attraverso una lettura attenta ai valori poetici e non culturali, i luoghi ove quella poesia è realizzata e quelli ove essa non lo è. La formula poteva sembrare schematica, e non solo per le opere cosiddette ‘minori’, che ne uscivano più svalutate in quanto compromesse con sollecitazioni biografiche, sentimentali, letterarie, dottrinali, politiche, e via dicendo ; ma anche per il poema maggiore, anzi, soprattutto per esso ; anche se per sostenerla il critico parla di rapporti esistenti nell’opera d’arte e segnatamente nella Commedia tra poesia e struttura, intendendo per quest’ultimo termine il cosiddetto romanzo teologico, quello che De Sanctis aveva chiamato mondo intellettuale e intenzionale, il mondo prepoetico, fatto di convinzioni, passioni, aspirazioni, connesse al tempo storico che il poeta pure si propose di esprimere nella Commedia, ma che per lo più finirebbe, con quel tanto di rigido e volontaristico che conteneva, con intralciare il libero espandersi della ispirazione poetica. Poteva sembrare, ed a molti sembrò, che una tale poesia si affermasse contro la struttura, rimanendo adombrata in questa tesi (esemplificata con finezza di citazioni e persuasività di argomenti) la svalutazione se non la condanna di quelle parti più scopertamente teologiche e dottrinarie, particolarmente frequenti nel Paradiso ; anche se il critico, nel tentativo di reagire alla posizione desanctisiana che privilegiava l’Inferno, veniva mostrando la particolare bellezza della terza cantica, la poesia ch’egli chiama « dell’insegnare e dell’apprendere ». Più tardi, com’è noto, il Croce attenuerà il rapporto contrappositivo di poesia e non poesia in quello di poesia e altro dalla poesia ; ed anzi, nel volume del ’36 su La poesia costituirà la dignità di una più larga categoria della letteratura. Ma già nel saggio sulla Poesia di Dante, che nasceva negli stessi anni del volume teorico/esemplificativo di Poesia e non poesia e ad esso si
182 michele dell ’ aquila collegava, il ricorso alla struttura era assai più ricco di implicazioni di quanto non fosse nella sistemazione desanctisiana, e la considerazione dell’ampiezza e drammaticità del mondo concettuale, filosofico, politico, sentimentale, umano di Dante lo portava subito a riconoscere quantitativamente oltre che qualitativamente la forte intensità del rapporto tra questi elementi, di indubbia alterità rispetto alla poesia, e la poesia stessa, e alla definizione di un rapporto dialettico epperò non rigido né deterministico tra essi. In nessuna opera poetica tale rapporto poteva mancare, così come quello tra la umanità ( che è poi biografia ed esistenzialità dell’uomo che è dietro il poeta) e la scrittura poetica ; ma in Dante tale rapporto appariva subito rilevantissimo. La nuova prospettiva critica che Croce proponeva non poteva certamente essere accettata pacificamente. Peraltro il risultato dell’intervento crociano, accolto da dissensi fortissimi e da consensi non meno convinti, fu, tuttavia, se non nell’immediato, di spostare l’interesse della lettura dantesca sui valori della poesia, come mostrano non pochi commenti apparsi dopo di esso. Altro esempio di analisi critica delucidativa di una concezione della poesia è senza dubbio il saggio sull’Ariosto, anch’esso raccordato, nella sua esemplarità, ad una asseverazione di ideale di vita, quella del sereno equilibrio in cui le diversità si ricompongono e la vitalità verde da tanti in quegli anni conclamata esce rasserenata nella visione dell’artista che la contempla come l’occhio di Dio contempla il creato divenuto cosmo dopo essere stato caos. Proprio il caso del Furioso, così libero nella immaginazione del mondo e della vita, sospeso com’era (o come si poteva credere) nel mondo della pura fantasia, sembrava offrirgli l’occasione per verificare la teoria della poesia quale intuizione pura e assoluta espressività lirica, e nello stesso tempo mostrare come quegli intrecci avventurosi, quel mondo composito di avventura, amore, magia, eroismo, quella dimensione smisurata dell’avventura umana spinta agli estremi della intemerata virtù e della pura passione, pur tra gl’inganni e i contrasti del male, che sempre insidia il valore e la purezza degli animi ; tutta quella vitalità giovane e vigorosa, variegata e difforme nelle infinite apparenze dell’epifania esistenziale, potesse trovare ordinamento ed armonia, una sua rasserenata compostezza nella architettura di un mondo ideale che non risultava irriso per la « gran bontà dei cavalieri antiqui », ma proprio nell’ironia trovava la
croce storico e critico di letteratura 183 sua libertà e il limite, quasi ordinamento e misura contro ogni sfrenatezza d’immaginazione o irrazionalità di sentimento. L’occhio di Dio che contempla il creato, era l’occhio del poeta che governa e dispone la sua materia, che intreccia e scioglie i nodi della vita dei suoi eroi, che disegna la trama di un mondo ideale, ordinato e regolato ove anche la irrazionalità e la follia trovano il loro spazio, ma confinato nelle pene amorose di Orlando o nella valletta della Luna ove giace il senno dei più. Accostato nel noto volume del 1920 ai saggi su Shakespeare e Corneille, dunque in una dimensione alta ed europea della poesia, il saggio sull’Ariosto prende l’avvio da una smorzatura di toni, quasi una svalutazione delle opere minori del poeta ferrarese, in particolare le Commedie e le Satire, e di conseguenza dell’interesse che in quelle sembrava rilevato di diretti rapporti e suggestioni della vicenda biografica del poeta sulla sua opera poetica. Dichiarate tali opere come compromesse da umori ed intenzionalità polemiche che non riescono a farsi poesia, il critico tende a tenerle nettamente separate dal capolavoro, ininfluenti su questo, per un divario che corre « come tra le valli e il monte ». Il tono del capolavoro gli pare invece non sottomesso ad alcun elemento nè passionale né sentimentale né intellettuale ; ma neppure può dirsi rispondente ad un puro ludus ad un ideale di « arte per l’arte » ; ché, anzi, gli sembra inverare quel gusto spontaneo della vita, anzi del ritmo vitale stesso, ch’egli chiama il reale. All’origine del Furioso non sarebbe stato dunque questo o quell’interesse per un particolare sentimento o contenuto (patria, religione, amori, avventura, senso dell’onore, cavalleria, etc.) bensì, in quegli anni del primo Cinquecento segnati dalle sanguinose vicende delle guerre d’Italia, « l’affetto per il puro ritmo dell’universo, per la dialettica che è unità, per lo svolgimento che è Armonia ». La qual cosa, come appar chiaro, non vuol dire negazione di tutti i particolari sentimenti o indifferenza ai vari contenuti, bensì superiore capacità di fusione di ciascuno di essi in una unitaria visione armonica nella quale tutti sopravvivono e coesistono, ma disindividualizzati e liberi di quel che poteva essere una troppo tesa vibrazione, la quale ove sopravveniente, li avrebbe fatalmente ricollocati in una dimensione particolare e inferiore. Al critico sembra così di superare la stessa antinomia classico/romantico, in una superiore mediazione in cui i due termini, metasto-
184 michele dell ’ aquila ricizzati ed assunti a categorie esistenziali e poetiche, si ricomponevano in unità nella teoria della poesia/intuizione pura/espressività. Nella ferma e costante asseverazione della categoria della espressività, per cui valutare un’opera d’arte significa misurarne la capacità espressiva oltre la nuda materia e la disancorata natura, l’impianto e lo sviluppo del sistema trova riscontri nell’allargamento e definizione del concetto di poesia come intuizione, della liricità dell’atto poetico, della non riducibilità a sistema storico, quanto dire di collegamento e derivazione, delle distinte ed indipendenti esperienze poetiche, con la conseguenza di un procedimento monografico dell’attività dello storico e del critico della poesia, venivano progressivamente allargandosi con l’acquisizione del concetto di letterarietà accanto a quello di poesia, con il concetto di struttura e delle relative correlazioni con la poesia : progressi teorici che il concreto operare del critico veniva producendo, senza peraltro, alcuna rivoluzione di fondo, ma in un processo di continuità e di sistemazione, di scavo e di approfondimento. Ed insieme all’opera in cui quell’investigazione veniva manifestandosi ed alla coerenza che vi si esprimeva, era anche quella puntualità, sistematicità, presenza, insieme all’acutezza degli interventi, che scoraggiava gli avversari, incapaci di discuterne le premesse teoriche, e intimoriti nell’entrar in dispute con quel ferratissimo ed intransigente interlocutore. Perciò col crescere della sua autorità, molti tacevano ; l’avversione si misurava dai silenzi, dalle mormorazioni e dal mugugno ; quasi mai, almeno da parte della cultura accademica di vecchia fede positivista, dalla discussione teoretica. D’altro canto Croce risultava inattaccabile anche sul terreno dell’erudizione. Dopo le prime tentazioni di negarne la competenza, si era stati costretti a cambiar registro, tanto quel ‘filosofo’ in fatto di erudizione e di conoscenza storica era in grado di dar punti a tutti. La esemplare lettura della novella di Andreuccio da Perugia poteva valere come monito. E così ne risultava confermata, insieme alla fedeltà e alla coerenza ai presupposti teorici, anche la straordinaria libertà del letterato e del critico rispetto al filosofo. Da vincitore generoso, aperto alla stima per ogni impegno serio di studi,offrì non pochi volumi dei suoi « Scrittori d’Italia » ad esponenti della scuola storica, imponendo peraltro il canone della sua filologia sobria e chiarificatrice.
croce storico e critico di letteratura 185 Della rivoluzione romantica s’impegnò a cogliere tutto quanto idealisticamente poteva esser fatto rientrare in una sfera di ordinato ed armonico accrescimento dello spirito, con espunzione di tutto il romanticismo irrazionale e sentimentale, e perfino di quelle situazioni dilacerate che si affacciavano alla soglia della riflessione filosofica da posizioni che gli sembravano esistenziali. Leopardi rappresenta il caso più clamoroso : Leopardi freddamente ricondotto ad un livello prefilosofico, ad un ingorgo sentimentale ; e solo dichiarato poeta per la cristallina risoluzione in poesia (solo quella degli Idilli) della gran mole farraginosa di riflessione. 16 E forse sopravviveva in lui la freddezza della cultura napoletana liberale e progressiva nei confronti del pessimismo o scetticismo leopardiano. Tutta la letteratura dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento era passata al vaglio. Alcuni saggi celebri, quali quelli su Carducci, su Verga, su Nievo, approfondivano linee tradizionali e consolidavano valori ; altri, come quelli su D’Annunzio e su Pascoli, contrastavano, dimensionandoli, i miti del tempo ; con quelli su Di Giacomo e su Gaeta, il critico confermava il suo interesse per le cose meridionali e napoletane. Certo v’erano dismisure e disuguaglianze in quella produzione critica che sarebbe poi confluita nei volumi della Letteratura della nuova Italia. Ma non è del valore di essa che si vuol qui parlare, quanto della sua influenza e capacità di formar opinione. In una estetica che identificava la poesia in espressione, e la funzione del critico nel riconoscimento di tale compiuta espressione, tutte le forme sperimentali, innovative, disarmoniche, non potevano non apparirgli imperfette, con conseguente espunzione dalla sfera della poesia compiuta, anzi, della poesia tout court. Così come sentimenti, riflessioni, ideologia, e perfino la poetica, risultavano essere allotrie, altra cosa, rispetto a quel nocciolo del nocciolo ch’era la poesia. Non mancarono, in quel lungo esercizio critico, le disavventure e le incomprensioni, che sono proprie di ognuno. Non sarà fuori luogo, peraltro, ricordare che nell’incessante messa a punto delle sue posizioni, nella lenta elaborazione progressiva delle sue teorie sulla poesia, sulla letteratura, sulla critica e storia di esse, seppe anche rettificare e qualche volta riconoscere gli errori. Il caso di Manzoni rimane esemplare. Quali pregiudizi fossero alla 16. Idem, il saggio su Leopardi, in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923.
186 michele dell ’ aquila radice della prima valutazione, piena di riserve, dell’opera manzoniana, soprattutto del romanzo, è chiaro a tutti. Pesò certamente l’eredità dell’anticlericalismo risorgimentale che rese difficoltoso il riconoscimento del liberalismo coraggioso e del cristianesimo inquieto del cattolico Manzoni. Poi, apparentemente improvvisa ed inattesa, la postilla del ‘52, pochi mesi prima della morte, in cui si riconosceva la poesia dei Promessi sposi e si dichiarava l’errore con un esplicito mea culpa. Se la battaglia filosofica era contro le sopravvivenze dei vari materialismi del secolo xix, quella letteraria era intesa alla identificazione dei valori della poesia intesa come intuizione lirica e all’esercizio di una critica che non fosse mera ricerca bio-bibliografica, della fortuna e delle fonti, ma valutazione e giudizio, a rischio di una discriminazione tra poesia e non poesia. Ma la battaglia era anche contro le inquietudini del secolo, considerate non solo come pretesti all’evasione da quell’impegno morale fortemente sentito dal critico e assorbito nella sua dottrina dell’intuizione nella categoria della sincerità, ma come malattie dello spirito e turbamento di quell’ordine rasserenato in cui egli si sforzava di ricomporre dialetticamente le contraddizioni e le complessita della vita : irrazionalismo, decadentismo, le balbettanti e deliranti velleità di filosofi ed intellettuali « bambini » così freneticamente agitati nelle riviste di quel primo Novecento. Al ‘filosofo’ che era in lui quel torbido attivismo appariva più nell’aspetto inquieto e perturbatore, che non in quello problematico. Non il rispecchiamento della crisi del secolo e della civiltà ottocentesca vi riconosceva, ma una manifestazione morbosa, perfino patologica, di quella dialettica dei distinti ch’egli riconosceva nelle vicende della vita, ma che, in quanto filosofo, quanto dire superiore coscienza abilitata a ‘comprendere’, si sforzava di rischiarare e ricomporre in intellegibile armonia. In quella fermentazione intellettuale s’incontravano invece, scontrandosi, istanze decadenti e palingenetiche, disposizioni teoretiche e aspirazioni impetuose a risolvere tutto in azione, rifiuto del positivismo, del socialismo, della stessa democrazia come metodo, individualismi esasperati, tentazioni dommatiche e totalitarie : insomma una miscela esplosiva che sarebbe precipitata nell’avventura della guerra invocata come « bagno di sangue purificatore » e poi nel fascismo : un vero e proprio tradimento dei chierici, a guardar bene, uno
croce storico e critico di letteratura 187 dei momenti di maggior distacco ed ambigua autrance della funzione intellettuale nei confronti delle esigenze reali della società. E però, in qualche tempo, poté sembrare che tra quei giovani irrequieti ed il filosofo Croce potesse stabilirsi un mutuo accordo ; se non un comune schieramento nei confronti del resistente positivismo, almeno una unità d’intenti nel buttarlo in breccia e denunciarne le angustie. Il patrocinio di Croce nei confronti del giovane Borgese, il rapporto più duraturo con Prezzolini, la sua collaborazione alla prima « Voce », una rivista che sembrò a molti ispirata da lui, erano tutte manifestazioni di una convergenza che sembrava a più d’uno il frutto di un accordo. Ma Croce, che pure poté guardare in qualche caso con simpatia a quella pattuglia di giovani, e ne sostenne in qualche fase le imprese, non rinunciò mai con essi alla sua funzione di coordinamento e di guida, non senza una crescente diffidenza nei confronti di certe manifestazioni d’irruenza e di scompostezza irrazionale. Quelle esuberanze egli poté in qualche momento illudersi di disciplinarle ; come dall’altra parte ci poté essere il calcolo di servirsi di quell’autorità. Ma non tardò, dall’una parte e dall’altra, il disinganno e la presa di distanza, quando non fu diretta contrapposizione. E però in quegli anni di primo Novecento, e poi fino alla svolta del ‘25, gl’intellettuali s’interrogavano sulla loro funzione ; sul valore, sui fini e sui mezzi, e sul riconoscimento e l’autorizzazione di quel loro compito di guida. E certo la storia non solo culturale e della critica letteraria di quegli anni passa attraverso questi rapporti : Croce-Gentile ; Croce-Salvemini ; Croce-Prezzolini ; Croce Gobetti ; Croce-vociani ; Gramsci-Croce ; con incontri, scontri, convergenze, divergenze, confusioni, sovrapposizioni, come i carteggi e le testimonianze dei protagonisti vanno confermando. La contesa con quei giovani fu dura e senza esclusione di colpi. Quell’irrazionalismo esasperato, non solo di Papini, e del già caro Borgese, ma di molti altri, non era riconducibile a quel sistema ordinato ed ordinatore che Croce veniva costruendo. In quanto a D’Annunzio poi, il suo conterraneo, attivissimo nella sfera dell’azione, dopo esser ormai quasi spento in quella della poesia, lo sentiva « di una diversa razza », per usare l’espressione del Contributo. E certo era quello l’ultimo sforzo di leadership della generazione liberale ; e quella razionalizzazione del politico, e la sua mediazione
188 michele dell ’ aquila e sforzo di allargamento de ! consenso erano certamente funzionali al mantenimento dell’egemonia borghese. Ma c’è anche da chiedersi cosa ci sarebbe stato in alternativa, senza quella mediazione, se non lo scontro, o – come fu – la guerra. Ordine e ragionevolezza. Certo, come quello giolittiano che ne costituiva in certo senso il pendant politico, qualche volta poté sembrare un programma ristretto e difensivo, inteso alla conservazione e salvaguardia di un particolar patrimonio di valori e istituzioni in cui si definiva, sia pur ormai imperfettamente, la cedente struttura dello Stato liberale uscito dal Risorgimento, e la sua letteratura. E credo sia nel vero Mario Sansone quando fa rilevare che nelle cosiddette preclusioni crociane verso il decadentismo, verso l’irrazionalismo, verso certa poesia ed arte, v’era non già insensibilità o incomprensione o sordità, ma più semplicemente, e duramente, opposizione. Nel Contributo, Croce si fa un punto d’orgoglio nel dichiarare di esser divenuto, grazie alle difese della sua filosofia, « del tutto impenetrabile alle insidie del sensualismo e del decadentismo ». Quella opposizionne, prima ancora di esser letteraria, era ideologica è ‘morale’ ; lungo la strada poté assumere anche gli aspetti di un fenomeno caratteriale. Ma quel partito della ragione, che pure aveva celebrato le sue vittorie, dové registrare il suo declino e la sconfitta. L’irrazionalismo multicolore delle riviste e della smania d’azione aveva avuto partita vinta precipitando il paese nella guerra. Croce, come Giolitti, erano stati neutralisti fino in fondo, ma dovettero conoscere la forza irresistibile delle passioni. Seguirono gli anni della dittatura e le dissacrazioni del secondo dopoguerra. La cultura italiana, dopo averlo avuto maestro incontrastato per alcuni decenni, gli volgeva le spalle, presa da altri idoli, vogliosa di nuove sperimentazioni. Negli ultimi anni, quando già si delineava il tramonto, egli continuava sereno gli studi, senza sottrarsi agli impegni, anche politici, ma con animo distaccato, secondo il suo solito. Conosceva la legge dei mutamenti della storia. Leggeva in Hegel che perfino le guerre e le rivoluzioni non debbono considerarsi quali mali assoluti ; come ogni rivolgimento hanno significato in ciò : « che per mezzo loro la salute etica dei popoli è conservata, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione nel quale lo ridurrebbe una quiete perenne ». 17 17. G. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze, 1960.
IL TEMPO IMMOBILE E IL CHIUSO SPAZIO DEI SEGRETI NEI PRIMI RACCONTI DI CORRADO ALVARO
I
l tempo sembra essere fermo, nei primi racconti di Alvaro, come un lago immoto, sospeso nella incerta luce di un crepuscolo albare. In essi, in molti di essi, lo scorrere degli eventi e dei pensieri procede lentamente, inesorabilmente verso esiti quasi preannunziati, che s’intravedono indistinti. Così il tempo è come sospeso, fino al precipitare della fine. Alvarianamente, come fa notare Pampaloni, si direbbe che « tutto è accaduto ». 1 La scansione delle vicende, quasi sempre ristrette a pochi particolari, senza esito o precipitose in un attimo decisivo, con lunga scia di memoria e sospensione di pensieri, è affidata piuttosto a percezioni di particolari minuti, a gesti, interni domestici, luoghi e oggetti sui quali lungamente si è soffermata l’esistenza della gente umile che vi si aggira ; ed anche suoni, odori, vibrazioni di luce, in una prosa dietro cui, per la cura dei particolari, sembra quasi si stagli l’ombra di un Proust arcaico (proprio in quei primi anni Trenta Alvaro traduceva Proust), di un Forster o di un James contadini, e forse anche del nostro Nievo campagnuolo e dei rusticani dell’Ottocento, ma con una forza mitica che per altro verso lo allontana da essi. Così il fascino discreto della scrittura s’affida assai più che alla vicenda ai destini individuali e collettivi, ai segreti dei sentimenti e dei gesti, al silenzioso scorrere immoto del tempo che tutto sembra assorbire e livellare, anche le ferite più profonde, nelle ombrosità degli stati d’animo, mai dichiarati, appena lasciati intravedere, nei chiarori ed obnubilamenti di un cielo interiore, nel nitore delle descrizioni, nell’intreccio appena percettibile delle relazioni umane, nelle malinconie, nei silenzi. E tuttavia questa zona della narrativa alvariana, così poeticamente intensa, sembra quasi essere stata posposta nell’attenzione dei critici ad altra scrittura e zone di quell’opera, così variegata e disuguale. 1. G. Pampaloni, Introduzione al vol. C. Alvaro, Opere, a cura di G. Pampaloni, P. De Marchi, Milano, Bompiani, 1990.
190 michele dell ’ aquila Ed anzi quel suo intimismo ‘magico’, la lezione bontempelliana di « Novecento » assimilata da lui criticamente e, peraltro, anticipata in certi esiti formali già in alcune sue cose degli anni Venti, la propensione a superare il dato realistico in una trasfigurazione mitica, analogica, con levitazione dell’oggetto in una sfera di assorto mistero, gli saranno imputati come residui di dannunzianesimo, debolezza decadente, affastellamento di metafore e similitudini « in successione pesantemente nebulosa » ; 2 mentre dall’altro canto tutta la stagione critica dello storicismo marxista lo considererà scrittore borghese velleitariamente lacerato da un contrasto tra civiltà urbana e primitivismo rurale, nel quale lo stesso innegabile moralismo di fondo si dimostrava incapace di un messaggio in positivo. 3 Ed anche chi si è soffermato su questi primi racconti anni Venti/Trenta, pur rilevando che « il modulo tecnico narrativo è ormai quello della durata interiore, ma non fino al punto che la materia sia tutta riscattata », aggiunge che « le residue scorie sono dovute all’influsso illudente e deludente del magismo novecentista » ; 4 la qual cosa rischierebbe – secondo un altro critico – « di fermare la narrazione alvariana ad una suggestiva, ma esterna, lirica, e di isolare le sue figure in una falsa metastoricità, anche quando egli intenderebbe presentare una problematica sociale storicamente e realisticamente precisa ». 5 Perfino in un passaggio che può voler essere di positiva caratterizzazione di una poetica, non sfugge la riserva in negativo : nei racconti « le cose sono guardate come magiche (De Robertis aveva accennato ad una atmosfera di féerie), e il reale nasconde sempre un sogno, un raccordo sotterraneo con altri misteri, in una vaga intuizione, divinazione dell’infinito : allora di analogia in analogia, di metafora in metafora, la cosa considerata perde il contatto con la realtà, ridotta 2. L. Reina, Alvaro e il “Novecento”, in Letteratura Italiana : Il Novecento, Milano, Marzorati, v, 1979, p. 4285. Ma si veda anche Cultura e storia di A., Napoli, Guida, 1972 e Umanesimo politico di C. A., in Esperimenti novecenteschi, Napoli, Loffredo, 1979. 3. Un esempio, tra gli altri, in C. Salinari, L’Italia di Alvaro, (1955), in La questione del realismo, Firenze, Pironti, 1965, poi in Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967. 4. A. Mele, Racconti di Alvaro, « Primato », 15 marzo 1941 ; poi in C. Alvaro, in Letteratura italiana cit., vi, p. 5310. 5. A. Balduino, Scrittori del Novecento e quesiti di critica testuale, « Studi novecenteschi », 1972. Il giudizio di Balduino, ribadito in molti scritti alvariani, è decisamente negativo.
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 191 a un’idea, o meglio a una catena di sensazioni sospese nel vuoto ». 6 Assai più incisivo Carlo Bo che ricorda di Alvaro il « rispetto religioso della vita » per cui egli non si cura « spiegare un mistero ma di lasciare intatto e sensibile questo mistero ». Ma forse proprio la notevole dimensione dell’opera alvariana, la sua stessa complessità perfino contraddittoria (narrativa, saggistica, giornalistica, teatrale, ideologica) ha comportato di conseguenza una articolata applicazione critica che è venuta esercitandosi sui diversi segmenti con l’aspirazione neppur celata di pervenire ad un giudizio unitario che, legittimo nello sforzo di definizione, è risultato assai spesso compromesso dalla sovrapposizione di uno o di alcuni aspetti sugli altri, in qualche caso messi in ombra, ritenuti in certo modo minori, rispetto a quanti potevano sembrare più appariscenti. Così l’Alvaro inquieto dei romanzi (L’uomo nel labirinto, Domani) o l’autore della denuncia libertaria contro le dittature (L’uomo è forte), lo scrittore prigioniero di un mai risolto contrasto tra radicamento ed evasione, tra provincia ed Europa (Vent’anni), l’ambiziosa rappresentazione di un disagio individuale e sociale (L’età breve, Mastrangelina, Tutto è accaduto), la tentazione di una narrazione saggistica o fantascientifica (Belmoro), e l’altra, più scopertamente ideologica (L’Italia rinunzia ?, Il nostro tempo e la speranza) ; la diaristica autobiografica che ne ha messo a nudo le tensioni di intellettuale (Quasi una vita, Ultimo diario) ; ed ancora le lettere in questi anni raccolte in più volumi ; senza dire della vastissima produzione di viaggio, le corrispondenze acute dalle capitali europee ; la drammaturgia, con testi di notevole rilievo (Il caffè dei naviganti, Il diavolo curioso, Lunga notte di Medea) ; hanno finito col distogliere dalla produzione dei racconti che sebbene imponente ed ininterrotta nell’arco della vita, sembra esser stata considerata come minore (con qualche notevole e recente eccezione, naturalmente). Anzi su di essa, auspice quel celebrato capolavoro che è Gente in Aspromonte, si sarebbe creato lo stereotipo di un Alvaro calabrese, del radicamento, della nostalgia regressiva dell’antico, di un certo verghismo ammodernato, del lirismo di una scrittura che sarà riguardata con sospetto soprattutto nei decenni del trionfante neorealismo e poi, più decisamente, in quelli della vulgata progressista. Lo stesso Pancrazi, in altre occasioni fine interprete, 6. M. I. Tancredi, Corrado Alvaro, Firenze, Nuova Italia, 1969 (« Castori »), pp. 28-29.
192 michele dell ’ aquila ebbe per questi racconti un giudizio negativo (« invece di correre al suo termine, sbanda » ; « resta in lui qualcosa di non detto, e non riesce » ; le novelle gli appaiono « piuttosto rievocazioni, idilli, che vere novelle »), per poi ripiegare, con tanti altri, sul motivo della nostalgia paesana. In altri critici prevale l’indicazione di velleità e vaporosità espressiva, di una oscillazione pendolare tra primitivismo e intellettualismo, tra provincia ed Europa. 7 Vittoriani, invece fu il primo ad intuire la immobilità temporale del racconto di Alvaro : esso si muove in una successione di spazio, non di tempo, con « momenti di paesaggio ». Anticipando addirittura un titolo alvariano, scrive : « Nei racconti di Alvaro tutto è avvenuto, il mondo stesso è avvenuto, la tragedia è scoccata, gli uomini e le cose sono fermi a una specie di status quo, di situation faire ». E tuttavia, il critico scrittore rimane ugualmente prigioniero del pregiudizio regionalistico che sarebbe il limite di Alvaro. 8 Viene così il sospetto che sulle spalle dello scrittore si siano voluti caricare pesi impropri, con responsabilità certamente dello stesso Alvaro prima ancora che dei suoi critici, e si sia persa di vista la centralità, in sede poetica, naturalmente, e direi la preminenza nella pur variegata sua produzione, dei racconti, soprattutto dei primi, quelli raccolti poi sotto il titolo dell’ Amata alla finestra. Solo tardivamente va affermandosi la convinzione che essi siano tra le cose più alte di tutta l’opera, l’espressione più intensa delle qualità di uno scrittore/scrittore che, tra l’altro, nella misura del racconto riusciva a dare il meglio della sua arte. Più ancora che nella rappresentazione di un colore meridionale o di una scissura d’anima drammaticamente sentita da intellettuale inquieto, credo sia qui da cercare o da ritrovare il miglior Alvaro, quello che ancora oggi parla a noi, oltre gli impegni e le polemiche datate del suo tempo : nella straordinaria capacità di rappresentare l’oscurità dei destini, di fermarsi sulla soglia del segreto delle cose, degli eventi, nella rappresentazione dello sradicamento o per converso del radicamento, nei silenzi intensi che s’accompagnano ai gesti, che dicono più di ogni discorso. 7. P. Pancrazi, « Corriere della Sera », 21 marzo 1930, seguito da altri scritti alvariani. Per i testi e per un profilo bibliografico e di storia della critica si rimanda al volume C. Alvaro, Opere, a cura di G. Pampaloni, P. De Marchi, cit. 8. E. Vittorini, Alvaro, la sublimazione del regionalismo, « Solaria », 1930 ; poi, in parte si legge in Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957.
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 193 Dice bene Pampaloni : « Alvaro nasce come poeta del segreto e tale rimarrà nella parte più autentica e duratura della sua opera ». Segreto : quanto dire « mistero della natura, delle cose, degli altri, di se stessi, libertà gelosa, memoria occulta e profonda, permanenza dell’infanzia perennemente insidiata dalla vita adulta che rivela e corrompe ». 9 E già prima di lui Solmi : « Messo da parte Verga, ambiente e condizione sono elementi meramente metafisici, simbolo delle cose fissate per sempre. Alvaro è poeta dei trasalimenti, dell’indeciso e stupefatto fluttuare delle zone profonde di vita ». 10 E Piovene, con intelligente allargamento all’orizzonte letterario non solo italiano, indicava in Alvaro dei racconti la sensualità contadina e meridionale e il funambolismo alla Bontempelli, quali antidoti per invertire la formula « guarire Parigi con la provincia ». 11 In un passaggio dei suoi appunti su Le ragioni d’ una poesia (questo appunto è del 1930, ripreso dalla « Gazzetta del Popolo », ove era apparso), Ungaretti si chiedeva se Una parola che tenda a risuonare di silenzio nel segreto dell’anima – non è parola che tenda a ricolmarsi di mistero ? È parola che si protende per tornare a meravigliarsi della sua originaria purezza.
E aggiungeva : Se il carattere dell’Ottocento era quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti e di pali e di carbone e di fumo – il poeta d’oggi cercherà dunque di mettere a contatto immagini lontane, senza fili. Dalla memoria all’innocenza, quale lontananza da varcare ; ma in un baleno ! 12
Certo vi è distanza tra la concentrata parola delle liriche dell’Allegria e la prosa di questi racconti, quelle metafore e similitudini fulminanti cui in essi si affida l’espressione (meglio sarà dire la suggestione). E tuttavia l’intendimento sembra essere il medesimo. Lo stesso bisogno di liberarsi della camicia di forza del naturalismo, come faceva,d’altra parte, ogni espressione artistica di quei primi decenni del secolo. Altro che « successione pesantemente nebulosa ». Borjes,in polemica con Croce aveva sostenuto che la poesia non è 9. G. Pampaloni, Introduzione al vol. C. Alvaro, Opere, cit. 10. S. Solmi, recensione all’Amata alla finestra, « Fiera Letteraria », 1930. 11. G. Piovene, recensione all’Amata alla finestra, « Petaso », 1930. 12. G. Ungaretti, Le ragioni d’una poesia, nel vol. G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, pp. lxxix-lxxx.
194 michele dell ’ aquila espressione, ma allusione. E già prima Mallarmé : « Le sugèrer : voila le rêve ! ». Possono sembrare formule, niente più che stereotipi classificatori. Ma non è così per questi racconti, non lo è per il ritegno di Melusina nell’affidare la sua immagine al ritratto del pittore che si porta via per sempre una parte di sé e con quella quasi l’obbligo per lei, tacito e sofferto, di una compromissione, di una dedizione, di un segreto doloroso da nascondere. 13 La sovrimpressione (o paca attenzione) cui si accennava appare peraltro ingiustificata se a ripercorrere l’intensa attività dello scrittore, si deve riconoscere l’assidua applicazione ch’egli esercitò verso la forma racconto e l’ininterrotta cura rivolta a raccoglierne in volume con non poche aggiunte, varianti e rifacimenti, gli esemplari diversi via via pubblicati in luoghi ed occasioni svariate. La raccolta che s’intitola L’amata alla finestra, com’è noto, è del 1929, ampliata poi nel ’42 e nel ’53, in edizione “interamente riordinata” e accresciuta con la parziale ristampa di Misteri e avventure e La signora dell’isola. Ma le prime cose dovevano essere già dei primi anni Venti. Nel ’55 appaiono presso Bompiani i Settantacinque racconti che comprendono anche le quattro novelle di Incontri d’amore del ’40. Dopo la scomparsa dello scrittore, ad opera di Aldo Frateili e Davide De Camilli saranno proposte raccolte di racconti, alcuni dei quali inediti (La moglie e i quaranta racconti, Milano, 1963 ; Come parlano i grandi e altri racconti scelti, Milano, 1966), mentre non pochi altri sono ancora consegnati alle pagine di quotidiani e riviste nell’arco dell’attività dello scrittore. Come si vede, a scorrere solo l’elenco dei titoli, e più ancora a sfogliare le riviste ed i quotidiani degli anni tra i Trenta ed i Settanta del secolo, dai noti « Il resto del carlino », al « Mondo », al « Corriere della sera », alla « Stampa », al « Risorgimento », fino alle miscellanee ed alle pubblicazioni occasionali, la presenza dei racconti di Alvaro appare tutt’altro che episodica o isolata. Si può dunque ritenere che l’impegno narrativo nella forma del racconto fosse non occasionale né semplicemente di sperimentazione e di approccio alle tematiche della forma romanzo. Se è vero, infatti, che non pochi racconti rivelano i motivi germinali di più larghi disegni narrativi (si pensi per tutti a Gente in Aspromonte, ma anche a L’età breve), mi sembra anche che non solo quali preannunci aurorali 13. C. Alvaro, Ritratto di Melusina, in L’amata alla finestra, in Opere, cit.
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 195 di più larghe scritture essi debbano essere intesi, ma disegni in sé compiuti ed in qualche caso perfino più compatti e sobriamente definiti rispetto alla composita (e perciò insidiosa) partitura dei romanzi. Intendo dire che, tornando a leggere questi dispersi frammenti di un mondo poetico in levitazione, eppur fortemente compatto nell’arco di quasi un quarantennio, si può forse riconoscere una congenialità dello scrittore per questa forma breve della sua vocazione narrativa, per la connaturata leggerezza, come di un disegno, un cartone cui non attribuire solo una funzione sperimentale o preparatoria, ma su cui la mano prendeva a scorrere talora più leggera e felice nei chiaroscuri accennati, nei passaggi di tono, nei distanziamenti lasciati in ombra, rispetto al necessariamente più compiuto disegno e coloritura dell’affresco. Ritengo indiscreto insistere su questa ipotesi, che lascio agli studiosi di Alvaro verificare, non senza adombrare la considerazione che quella compresenza (ed in qualche caso dicotomia) nell’opera alvariana di un dissidio tra radicamento e oltranza, mistero e tensione dichiarativa, vocazione autobiografico/memoriale e rappresentazione di segno netto, con sobrio riferimento alla realtà umile della sua terra, che farebbero pensare ad un intreccio di ascendenze naturalistiche e levitazione mitica, mi sembra trovino più agevole e felice fusione ed equilibrio nella leggerezza strutturale del racconto rispetto alle più articolate architetture del romanzo che in qualche caso deve registrare interi inserti di una materia storico-sociale (non solo nelle problematiche della sua terra), la quale evidentemente chiedeva di essere espressa dalla coscienza civile e dall’impegno dello scrittore, ma in qualche caso mal s’accordava (o mal s’accorda in quella forma) con l’intensa, metastorica poesia del silenzio, dei destini individuali e collettivi, i simboli umani o naturali, inverati senza retorica, del doloroso contrasto tra ciò che è e ciò che potrebbe essere o si sarebbe desiderato che fosse, le intense ed inquiete retrospettive di vita, i dolorosi bilanci esistenziali, in cui quell’opera poeticamente si esprime, le assorte contemplazioni della vita che continua mentre si è quasi immobili, spinti dagli anni sulla soglia di essa. Tutto ciò consiglierebbe, sia detto in margine, una più attenta ricostruzione testuale, al fine di arrivare ad un corpus sicuro e storicamente certificato, dal momento che molti di quei racconti hanno una diversa forma e sono stati sottoposti a modifiche non irrilevanti nelle successive occasioni di stampa.
196 michele dell ’ aquila Per la edizione delle Opere, Romanzi e racconti (Milano, 1990), Pampaloni e De Marchi hanno ritenuto di comprendere solo i trentatré racconti dell’ Amata alla finestra. Ma già essi (forse soprattutto essi) lasciano intravedere che ci troviamo dinanzi ad una dimensione non secondaria dello scrittore, e forse nel cuore del cuore della sua arte. Pampaloni, come per un risarcimento, vi premette pagine esemplari nelle quali rende giustizia ad Alvaro delle lunghe incomprensioni e dismisure critiche. Melusina, adolescente contadina sopravvissuta in uno di quei paesi rimasti vuoti, è personaggio simbolo di questo mondo poetico, del tempo immobile, del suo segreto gelosamente difeso. « La sua bellezza in questo luogo è sorprendente come se reggesse il simbolo d’una vita finita... », nota Pampaloni. L’esordio del racconto, con quell’excursus di paesaggio e società contadina e pastorale calabrese, in una dimensione di abbandono, di disfacimento e quasi di crollo, di « sfasciume geologico » come aveva scritto per la contigua Lucania Giustino Fortunato, è tutt’altro che sociologica o folklorica ; appare invece assolutamente funzionale al sentimento di esso ed al rapporto scrittore-narratore-personaggi che s’instaura fin dall’inizio : l’occasionale ritrovamento del ritratto, il bisogno di « prendermi questa sconosciuta e nasconderla agli occhi degli estranei », come a proteggerla, e preservarne la verecondia e il segreto ; quelle mani indifese che si coprono come colombe sotto il grembiule, la bellezza acerba che il tempo avrà distrutto, e forse si saranno spartita i figli, « tenendosi chi la bocca e chi gli occhi… e forse per lei rivivrà, come un fuoco che si appicca male, la vita del paese ». Così quella sua bocca tumida, sporgente sul mento rotondo, che rompe l’armonia del volto che ha lo stupore delle statue ed è « come un bacio cattivo su un volto ignaro ». Ritratto di una delicatezza ed una penetrazione straordinarie che lo rendono indimenticabile, mentre il futuro è dato come già accaduto nella ineluttabile (e prevedibile) sequenza del destino. Quante cose future, come già decise, a sapervi leggere, sono contenute in un ritratto ! Il destino, indecifrabile e oscuro nell’immagine fissata, che può sembrare un presagio, come osservò acutamente Sciascia nella prefazione ad una mostra fotografica su Ignoto a me stesso. Pittura di ritratto e fotografia : « il ritratto fotografico può essere inteso quale entelechia, oscuro (ma chiaro) essere in atto che realizza il proprio fine (o destino) ». Nel ritratto è espressa tutta l’immobilità
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 197 temporale in una proiezione atemporale che è passato, presente e futuro nel silenzio delle parole, nella immobilità dei gesti, nella tempesta tutta interiore e segreta dei sentimenti. La dinamica immaginata della vicenda è semplice : la richiesta di farle il ritratto da parte del pittore, un estraneo che viene da un mondo lontano, sconosciuto ; il consenso guardingo di padre e nonno che si schierano accanto, come a difesa ; la sua riluttante obbedienza, come di bestia sospinta al mercato : fin qui la cronaca e l’antropologia. Ma già scatta il salto di qualità, l’interiorizzazione dell’evento, la sua levitazione segreta : l’instaurarsi di un rapporto senza parole tra l’occhio dell’artista che la percorre « come se la consumasse », intento a cogliere i tratti del volto e quasi il segreto dell’anima, la sua mano « che tracciava il segno come se lavorasse con un coltello in una materia viva » ; e la difesa sempre più debole di lei, che via via sembra quasi cedere ad una compromissione ch’è come una violenza, sia pure d’immagine, un esproprio di quella parte segreta di sé che cederà un giorno a qualcuno, e sente già in parte rapita, come per « un bacio cattivo su volto ignaro ». Ogni ritratto, in fondo, è un furto d’immagine e di segreto, si configura come un ratto, un tradimento. Ella non vorrebbe farsi ritrarre da un pittore straniero rimasto incantato della sua figura. Forzata a farlo, vi si dispone per obbedienza, chiusa in sé come in una difesa di poveri panni e di gesti, perché le sembra di subire violenza dagli sguardi e dai segni tracciati sul foglio, come per qualcosa che le venga strappato e portato via con quel doppio di sé ch’è il ritratto ; e però presa dall’avventura ha un tremito d’abbandono : il pittore « era nella sua mente come se l’avesse sposata... tirò fuori la mano come se gli concedesse qualche cosa... le sembrava che l’avesse rapita, che ella gli avesse confidato un segreto, che si fosse affidata a lui per sempre ». Quella immagine portata via è come qualcosa di vivo, una violenza che sembra sottrarre la intatta verginità, e più ancora il segreto gelosamente custodito di una vita. L’abbandono di Melusina nella tensione e nell’incantamento dell’opera, quella sua mano scoperta « come se gli concedesse qualche cosa », sono sentite come un atto d’amore, sia pure estorto ma alla fine concesso per involontario arrendimento ; sicché, compiuto il disegno, alla domanda se volesse vedere, che rompe l’incanto, a Melusina non resta che nascondersi in casa e piangere « col pianto lungo, tenue, calmo, di chi piange una morte e avrà da piangere per molto tempo ».
198 michele dell ’ aquila Non credo, ormai pochi più credono, che tutto questo sia solo Calabria, realismo, primitivismo antropologico. Il dato realistico va oltre il realismo, scava nel profondo, contempla e lascia intravedere un sentimento alto e umile e misterioso della vita. Non lo rappresenta, né lo esprime, perché non si rappresenta il mistero.Il mistero chiede che ci si soffermi sulla soglia, che vi si alluda, che se ne colga e suggerisca la presenza. Vi è un segno stilistico ricorrente nei racconti di Alvaro, un click significativo, direbbe Spitzer, che richiama l’attenzione del lettore : « come se », talora in forma implicita nell’analogia o nell’accenno comparativo della similitudine : Melusina va al ritratto « come una bestia riluttante al mercato » ; confida le proprie sembianze « come un segreto » ; la sua bellezza sorprendente « come reggesse il simbolo d’una vita finita » ; nasconde le mani « come due colombe sotto il grembiule » ; l’occhio del pittore la percorre « come se la consumasse » ; e così via. In ogni racconto le immagini e i gesti si affidano ad altre immagini e gesti, per rimanere nel cerchio di un segreto inesprimibile. Lo scrittore vuole andare oltre il realismo, servendosi delle immagini reali ; ma anche dei silenzi e delle reticenze nel tempo immobile dei segreti del cuore. La reticenza, così espressiva quando è espressiva, come direbbe un maestro di essa quale fu Manzoni, è artifizio principe della scrittura che rifiuti il banale esplicito. Alvaro ritenne il realismo insufficiente, come il meridionalismo che a lungo gli si è voluto appiccicare addosso. L’uno e l’altro erano certamente al fondo della sua pagina, ma altrove era l’intento e l’effetto. Così il lirismo. Certo il poeta è un fingitore, diceva Pessoa : immagina, incanta, seduce, trasforma il dato banale in preziosa invenzione, operando sulla parola svela nessi impensabili e nuovi tra le cose ; nelle sue mani gli oggetti, i pensieri, le scaglie della vita risplendono di una luce nuova, altra. « Sed aliam reddit » – recita un emistichio virgiliano per dire della luce riflessa in uno specchio. Ma Alvaro non cercava gli effetti, né l’affabulazione ; scavava nel profondo, con forza e delicatezza, per giungere al segreto delle cose, dei gesti, dei pensieri ; non già per svelarli, né per tentare di esprimerli, ché non si sarebbe potuto ; solo per accennare, sommessamente, come non volesse egli stesso compiere violenza e profanazione. Sulla soglia di questo spazio chiuso, di questo tempo immobile si ferma lo scrittore. E se pur muove un passo, come a sollevare
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 199 un lembo, verso quella zona segreta, provvedono le similitudini, i richiami figurali, le metafore così frequenti nelle pagine di questi racconti, a raffronto di pensieri, gesti, situazioni che ripugnano da analisi e spiegazioni, affidandosi più congenialmente all’analogia delle suggestioni, alla cifra anch’essa segreta di risorse espressive consuetudinarie, appartenenti alla zona profonda della cultura dei personaggi, ad una antropologia dello scrittore che coinvolge anche il lettore. Si sono fatti degli esempi : Altri se ne possono fare : « la luna era divenuta altissima e di quando in quando faceva uno scatto come il quadrante di un orologio » ; « la meraviglia di tanti corpi umani con la loro grazia favorevole a tutti come il pane e l’aria » ; « sedette tirandosi la veste sulle gambe, guardando il mare, e intanto crollava la testa come chi rimandi indietro un singhiozzo » ; « il melograno vi metteva, al tempo suo, quel rosso che accende i segreti stupiti degli orti » ; « un mistero vivo stava nascosto sotto la pagina bianca come sotto un lenzuolo » ; « ella rideva mettendosi il rovescio della mano davanti alla bocca, ed era come se tutti e due parlassero un linguaggio segreto su cui si fossero accordati da anni » ; « il caldo del suo viso riverberava su di lui come la fiamma di un focolare » ; « sembrava avvolta in una nube bruna e fatale » ; « le prese dolcemente la testa fra le mani, cominciò a baciarla piano piano, come una fonte d’acqua diaccia » ; « nessuna voce più nel mondo ; lo specchio come uno stagno, che rimanda bluastro il riflesso dei panni sulla sedia » ; « il mare era torpido, si destava allora scuro ancora e denso, si muoveva appena come sotto una coltre » ; « la sera meridionale che si leva da tutte le cose » ; « la fanciullesca altalena del sonno » ; « l’improvviso silenziuo era colmato dal canto dei galli che entrava dai campi come un carico di fieno » ; « la sua voce era chiara e lenta come una fonte che cominci a buttare ». Nella storia triste e incantata di Carmela, la protagonista della Corona della sposa, ritroviamo questo globo sospeso ed immobile di eventi che pur dislocati in una successione temporale, sembrano accamparsi sullo stesso piano prospettico, come nelle tavole dei pittori primitivi : la sua bellezza, ch’era « come il senso riposto e segreto della sua casa » ; « la bocca pronunciata e ritrosa, pareva che avesse morso un frutto goloso » ; l’idillio amoroso per Filippuccio, reso impossibile dalle nozze impostele e non gradite con il paesano pretenzioso (« Giacomo Ardore era stato in città. Aveva un odore speciale,
200 michele dell ’ aquila un odore di sigaretta misto a un profumo di cerotto per capelli che lo annunziavano di lontano. Nell’aria secca del paese meridionale le volute della sua sigaretta si arricciavano immobili nell’aria e parevano soffi di un incenso profano »). Ella, dopo le nozze, disgustata, « sembrava greve di non so quale parto virgineo, greve della sua innocenza » ; infine la fuga con quel suo amore giovane, Filippuccio, la vista del mare, la luna, le onde « che scintillavano come se tutti i pesci salissero a galla », i boschi attraversati, il silenzio notturno (« Ella posava il braccio sul suo, ed egli lo sentiva per la prima volta »), le cose che si chiudevano alla vista in un segreto impenetrabile. Ed ancora il fascino del racconto non è nella vicenda di un idillio e di un tradimento paesano, ma nella innocenza tenera contrapposta alla rozzezza greve, nel segreto dei sentimenti disgelati misteriosamente, nella sospensione degli atti, dei pensieri, degli eventi. Nel bellissimo racconto intitolato Stazione di notte c’incontriamo con personaggi e destini imprecisati, appena accennati, un rifiuto del presente imposto come da una determinazione già presa, gesti chiusi ma significativi, una infinità notturna assonnata, un caleidoscopio di piccole cose, gesti, parole, particolari che sembrano insignificanti ed assumono valore di simbolo. Ed ancora un ritratto di donna sconosciuta, disvelata appena nel biancore delle carni, nella nebbia del sonno e della pelliccia in cui si stringeva. Il femminino di Alvaro è carnale, ritroso. In questo caso renitente condotto a forza ad un destino meridionale. Il contesto, il prima ed il dopo sono sottintesi, intuibili. Tutto è schiacciato sulla immobilità temporale di quell’attesa in una stazioncina sperduta, non definita, in quella sala fumosa, nel sonno rancoroso e nelle facce segnate dei viaggiatori, nell’ansimare d’un treno sospinto dal vento (« ed era come se non potesse più andare avanti e si fosse fermato laggiù dove la pianura terminava e sorgevano i monti d’un paesaggio qualunque »). Appena accennato, come in chiaroscuri sommari di un disegno, il mènage dei due personaggi, un lui possessivo e terragno, una lei riluttante e rassegnata, relitto forse di chissà quali urbani naufragi esistenziali, destinata ad una prigionia di mantenuta. La sospensione di quella sonnolenza notturna si popola degli sguardi, delle scoperte, dei desideri di occhi intenti a decifrare quel segreto, a carpire un lembo più scoperto di quel femminino, con scontro di pregiudizio e concupiscenza. Fino al disvelamento di un corpo tozzo « che la pelliccia non riusciva a dissimulare, e le gambe rozze, calzate di seta », fino al fischio del tre-
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 201 no in arrivo, l’ultima resistenza, l’urto ferroso di sportelli sbattuti, e lei che « si era buttata sul divano e parlava a dirotto, mentre l’uomo, affacciato al finestrino, osservava con attenzione la sua terra che cominciava a svolgersi lentamente uguale e avara intorno al movimento del treno ». In Altri amori, nella storia della donna del Toma, un piccolo proprietario di provincia, e della sua mantenuta, è rappresentata la solitudine, l’avarizia degli affetti contesi, l’invidia maldicente della gente, gl’interni domestici (altro spazio privilegiato di Alvaro), i particolari di una cronaca che rimbalza dalle poche battute in dialogo diretto o indiretto, la dimensione del paese, resa più sperduta e isolata da fischi di treni lontani (anche qui una sospensione di spazio e di tempo), fino al gesto insano e finale di gelosia e di follia che conclude irrimediabilmente la lunga sopraffazione della donna. La Calabria povera e la dimensione contadina torna per esser subito superata in dimensione metafisica in Alfabeto, nella lotta faticosa contro i segni delle parole, cifrario misterioso per chi non sa leggere e vuole penetrare nel mistero (« un mistero vivo stava nascosto sotto la pagina bianca come sotto un lenzuolo, ed egli strappava lentamente questo lenzuolo e non sapeva che si sarebbe svelato ») ; ma al primo disvelamento di esso il contadino scolaro rimane deluso per la banalità del significato di alcuni segni decifrati, che si credeva nascondessero chissà quale segreto e mistero. E proprio in questo racconto, in tutto calato nell’ambiente contadino di una Calabria primitiva e analfabeta, con i particolari di una vita agreste che fuoriescono da ogni parte, è più agevole registrare la distanza della scrittura di Alvaro da ogni angustia naturalistica. Lo scatto metafisico atemporale e metastorico (richiamo della bontempelliana lezione di « Novecento » ?), si può misurare nel desiderio ingenuo e primordiale di disvelamento di un mistero lungamente sognato : « un mistero vivo stava nascosto sotto la pagina bianca come sotto il lenzuolo, ed egli strappava lentamente questo lenzuolo e non sapeva che si sarebbe svelato. Aspettava di scoprire tutto quel mondo, che, per ora,era nel libro non come una scatola di caratteri tipografici quale appare a noi ma il magazzino dell’universo, un universo nel corso di una creazione ; e sulle M delle onde in tempesta fluttuavano i suoi pensieri ». Il destino, misterioso e segreto, più forte di ogni forza umana è il tema della storia di Gioia « bellissima, con qualche cosa d’insolito nel viso e nella persona, qualcosa di nuovo e di alto », figlia forse di
202 michele dell ’ aquila un adulterio ; la storia di due vecchi amici che « si parlavano come con gli occhi chiusi », della predilezione quasi paterna dell’uno per la figlia dell’altro, del matrimonio impostole per sistemarla convenientemente, della sua adolescente bellezza sfiorita dopo la violenza maritale, del padre che ad un tratto è preso da un oscuro pensiero legato a un ricordo di un insignificante episodio cui mai aveva fatto caso e che ora, emergendo casualmente da una nebbia di anni, gli appariva disvelatore, e lo riduceva ad essere sempre più chiuso ed estraneo in casa, prigioniero di quel rovello e del vino e del sonno con cui tentava di liberarsene. Anche in questo capolavoro alvariano tutto è già accaduto, e il tempo è immobile mentre lo spazio, ben oltre l’orizzonte rurale e regionale, è quello indefinito e oscuro dei segreti. I due amici coetanei « si trovarono tutti e due alla fine dei loro anni, quando tutto è fatto e compiuto ». Il loro sodalizio è di vecchi compagni cui è consentito riprendere, dopo decenni,discorsi antichi e ritrovati d’incanto. Le spose erano vecchie come loro, nella diversa condizione sociale seguita ad una diseguale fortuna. Gioia nei suoi diciotto anni era fresca come la frutta appena colta che porgeva tornando dalla campagna, e nello sguardo, « tirando su le ciglia, faceva più grande il bianco degli occhi, l’iride affondava dietro le palpebre come la luna fra gli alberi ». La sua bellezza era un richiamo per la gioventù del paese ; ma per lei era predisposto un partito che la sistemasse bene. Andò così, secondo le premure paterne dell’amico del padre, un altro padre (il vero padre) della fanciulla. Il banchetto di nozze fu fastoso, eppur triste, tra bevute e brindisi. La corona di rose nell’acconciatura della sposa si disfaceva sulla fronte accaldata, tra battute triviali e sfide vinose dei commensali che parevano litigi. Dopo la partenza della sposa la casa rimase vuota. Nel silenzio rancoroso dei due vecchi frattanto un pensiero si faceva strada, come un tarlo, mosso da un particolare riemerso nel ricordo da decenni di passato. Non valevano a dissiparlo le domande e i dinieghi secchi e subito troncati. « Adesso la sua memoria lo tradiva, il ricordo si lacerava come un velo o come una nuvola ». Il sospetto di un tradimento remoto, senza essere certezza, prendeva corpo, mentre dall’altra parte un astioso silenzio era la trincea della donna. Così ad ottundere la pena del vecchio non rimaneva che il vino e il sonno, in attesa che sopraggiungesse la fine. L’amore di Celina, irresistibile, fino all’« abisso delle ore finite » al colpo di pistola forte, « come schiantasse la casa » e il « viaggio buio
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 203 vertiginoso » verso la morte che la prende come un sonno. Anche qui il precipitare degli eventi nella immobilità del tempo, nel chiuso spazio di una stanza. Ma in quel cerchio ristretto il passato s’insinua con la forza dei ricordi, l’idillio marino « in riva al mare e il mare era l’Jonio. Pareva che il mondo avesse un nuovo colore : leggero e felice » ; l’ingannevole esca d’amore, che porta alla reclamata ‘prova’, lungamente contrastata, poi assecondata, fino alla visita imprudente, al piano inclinato dei cedimenti, all’atto d’amore carpito, al disinganno, all’amaro risveglio (lui « pesante, pallido, immobile, confitto in un sonno senza sogni. Ella sola, distaccata dal mondo, guarda l’orologio sul tavolino, accanto al piatto della frutta », con intorno « un odore di vino acido e di bucce di mandarino ». I particolari, al solito, sono minuti, incalzanti ; come prima quelli della bellezza soda, campagnola di lei, il broccato che fasciava la sua mano corta e piccola « a forma di stella ». Il dramma è tutto interiore, tra una illusione, una debolezza e un disinganno, nel chiuso di una quotidianità,nel cerchio angusto dei « misteriosi atti nostri », avrebbe detto Tozzi. Ancora interni domestici, esterni rurali e urbani, personaggi straniti tra folle estranee nel Viaggio di nozze a Napoli : eppure il racconto s’incentra in una liturgia tutta interiore e segreta di atti, di pensieri, e più di sentimenti lasciati intuire, appena accennati. I due sposi si aggirano sperduti nelle strade di quel « mondo grande » cercando segni della vita del paese lontano da cui vengono, ed approdano infine nella camera d’affitto nota allo sposo per suoi remoti trascorsi militari e lì vi consumano la cena estratta dalla pesante valigia, e la notte di nozze. Ma la poesia del racconto è nella grossolanità diffidente ed avara dell’uomo, nella indifesa delicatezza della sposa, nel suo cappello di paglia con le roselline delicate, nel suo silenzio obbediente, nella sua confidente rassegnazione, nel pianto silenzioso, che dice tutto del destino oscuro che l’attende. I personaggi femminili di questi racconti sono quelli nei quali più significativamente si celano e traspaiono il senso misterioso della vita, i fragili violentati segreti. Il racconto prende le mosse, come spesso, da un’occasione di ritorno dello scrittore in quelle sue terre d’infanzia, dal ritrovamento delle cose antiche, « perfino dei buchi nei muri, quei buchi ove la pietra si corrode al vento e al sole meridionale, dove fanno il nido le rondini, dove le donne nascondono i capelli caduti sotto il pettine… » ; « il canterano, nel cui cassetto più alto mio padre teneva in serbo cose misteriose ».
204 michele dell ’ aquila La vicenda del viaggio si dispiega come memoria familiare, paterna e materna. A suscitarne il ricordo, il vestito da sposa riaffiorato dal canterano tra odori di cui non s’era persa memoria, con la sua « seta nocciola, col suo odore di fiore appassito ». Un matrimonio ch’era stato quasi un ratto, « la sposa nel suo abito frusciante, col cappelluzzo di paglia sul tupé, scompariva sul cavallo per la strada del mare : Accanto a lei l’ombra di mio padre, lungo i torrenti rinsecchiti dove l’acqua sorpresa dall’estate splendeva stagnante al sole ». Il lungo viaggio, l’arrivo a Napoli (« le case le si facevano incontro coi loro balconi vertiginosi sui piani alti ». Il padre sicuro, « con lo stesso grosso portafogli che io gli vidi da piccolo” ; “la sposa contenta di stare accanto a un uomo fidato, nel mondo grande » ; infine l’approdo alla misera pensioncina per la cena risparmiosa : « la sposa teneva le mani in grembo, le mani abituate al lavoro e ora per la prima volta oziose e imbarazzate di oziare ; poi la notte nuziale, con in mente già i figli che sarebbero venuti » : « Mia madre aveva poggiato il braccio sul tavolo e piangeva silenziosamente ». Un rammemorare e sentire, nell’intarsio di scaglie di voci, echi di memoria, come nella chiusa sfera di un sogno. Nel Nipotino il bimbo di città accompagnato dal padre fa visita ai nonni del paese e nell’incontro, dall’una parte e dall’altra prevalgono distanza ed estraneità. Nel malessere « delle sere meridionali così tarde a finire », grande è il divario e forte lo spessore di altre abitudini urbane contratte. « Voglio andare dalla mia mamma » – « Non vuole stare con noi – disse la nonna ». Poi alcune piccole cose avvicinano, un cestino con le ciambelle di Pasqua, e giù nella stalla « gli occhi dell’asino che si spalancarono su di noi come occhi dell’oscurità », la sua groppa ruvida, mai conosciuta ma accogliente di un calore animale antico ; e avviene il miracolo come per un istintivo riconoscimento, per un atteso, inconsapevole ritorno a casa. La stessa Calabria arcaica e povera nelle brevi pagine di Piccola storia familiare, in cui non è antropologico né sociale il tema, bensì intimo e centrato su di una semplicità densa di sentimento, di accettazione. Un matrimonio proibito dal vecchio padre, la sposa che se ne va, tremante, seguita da una maledizione. Ma la nuova casa le sembra fredda, vuota e provvisoria. L’ombra del padre suscita memorie di sicurezza, di familiarità perduta. Ora si sente non protetta, « come nelle notti d’insonnia quando la coperta del letto non basta a coprirvi del tutto. I due ragazzi si sentono smarriti, pensano sia la
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 205 maledizione a non portar bene. Nacque una bimba e solo la nonna, di nascosto si recò a trovarla. Il vecchio padre rimase lontano e vicino, irremovibile nel diniego. Un giorno la bambina scivolò e cadde, producendosi una brutta ferita che non guariva e la faceva zoppicare come un uccellino che avesse una gamba spezzata. Passò del tempo, la ferita non si chiudeva. Un giorno la bimba disse – Voglio andare dal nonno – : “Forse ella aveva sentito quella parola, del nonno, quando sembra che i ragazzi dormono, e sono dappertutto, sentono tutto, penetrati in ogni rumore, voce, brusio”. La giovane madre ricordava di essere stata più volte guarita dal padre, con il solo tocco della sua mano protettiva. La bimba fu accolta, prima con freddezza, poi con affetto e lasciata lì in casa, con i vecchi, cui sembrava di ricominciare da capo, di avere di nuovo da “badare a una creatura”. La piaga non si chiudeva. La bimba saltellava per casa come un uccello ferito. Il vecchio cominciò a pentirsi di aver pronunciato quella parola maledetta. Una sera, guardandola nel sonno, disse “Somiglia a me. Vuol dire che se è colpa mia rimedierò e ci spenderò magari dei soldi per chiamare il medico”. A poco a poco la bimba guarì “e prese a ruzzare e a correre con le bambine, e per casa non faceva più niente. I vecchi mobili tornarono nella loro solitudine decrepita. E così i nonni che non le facevano nessuna paura. Quando stava male li seguiva a ogni passo come uno spiritello, voleva occuparsi delle faccende, e la sera stava zitta accanto alla nonna nel buio, o se parlava diceva parole piccine piccine. Ma ora aveva voglia di correre, e non pensava ad altro. La nonna la riportò dalla mamma. Gioventù, gente sana, che ha voglia di correre e che infila l’uscio di casa appena può ». Nel racconto Il marito e nell’altro I denari Alvaro affronta i tema doloroso della emigrazione, della fatica, della solitudine, del mito quasi sempre sfuggente del denaro, delle spose che attendono decenni al paese, sfioriscono, muoiono nell’occhiuta sorveglianza dei vicini. L’America amara dei cercatori di fortuna, di tanta solitudine e fatica e infelicità. I viaggi per mare, le montagne e i laghi gelati, le pianure ventose, le città crudeli ; i ritorni avventurosi verso la misera Itaca del paese, qualche volta con un gruzzolo, ma con tanto senso di sradicamento. Anche qui particolari e immagini come segnali di una vita chiusa, ripiegata su se stessa nel silenzio e nella rassegnazione. Nel Marito, in una America di emigrazione genericamente appena accennata, la solitudine dell’uomo che vede passare gli anni in
206 michele dell ’ aquila una attesa infinita di ricongiungimento familiare eluso da inganni e contrattempi ; l’attrazione quotidiana verso una femminilità diversa che gli produceva alternanze di desiderio, di timore e diffidenza. Ma quelle donne del paese straniero gli sembravano tutte estranee e diverse da quelle della sua razza « con cui sembrava parlare un dialetto segreto dei sensi » : « Ella continuava a fargli delle domande inutili, e gli stava tanto vicina che egli sentiva sulla guancia i fili dei suoi capelli, aridi, biondi, a spirale, coi colori dell’arcobaleno nella luce » ; « Tutte le mattine, quando andava a prendere il caffè nel bar di fronte all’ufficio, guardava la donna che stava al banco. Ella lo osservava con quella curiosità interrogativa e sospettosa con cui si osservano gli stranieri. Lui rimaneva pensieroso, e vedeva le mani, gli occhi di colei, come meravigliandosi che una straniera avesse quelle fiammelle nell’iride, quelle stesse che gli avevano fatto tanta impressione un tempo, quando lo passavano da parte a parte » ; « a lui piaceva andare per la via del mercato, dove le donne forti stanno attorno alle lor grosse faccende, e si confondono con tutte le merci e i prodotti della terra che sono una meraviglia tra il nero della città. Si sentiva come un albero dai rami secchi, solitario. Se non fosse stato un senso di terrore misterioso, avrebbe seguito una cinese che tirava un carretto di frutta… scoprì una faccia antica. Egli stesso ebbe paura di trovarvi qualche cosa di familiare e si nascondeva perché ella non si accorgesse che la guardava »). E vi fu anche l’incontro con una di esse, attratto dal suo « profilo pieno d’ombre », le parole familiari « che uscivano dai covi della loro memoria » ; tentarono un rapporto per entrambi difficoltoso, finché capirono che camminavano insieme non per amore « ma perché erano soli nella città, quasi soli nel mondo ». La moglie gli si era fissata nella memoria come era nel ritratto ricevuto tanti anni addietro, « e le porosità della carta su cui era stampato gli parevano le porosità della sua pelle ». Tornato a casa una sera, trovò nella stanza due donne che lo aspettavano ed una era la figlia ch’egli scambiò per la moglie, la donna della fotografia e della memoria, e l’altra, stentò a riconoscerla : poi la vide avvicinarsi a lui « con gli occhi pieni di memorie » e si ricordava di lei come era stata, « come a risentirne una musica » e ripeteva : « Quanto tempo perduto, quanto, e perché ? ». Una straordinaria forza evocativa spira dal racconto La donna di Boston. Qui Alvaro rovescia la situazione. È una straniera, un’ame-
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 207 ricana che per misteriose passaggi si trova a vivere il suo dramma nella rurale realtà calabrese. La scansione del racconto ha la fatalità precipitosa e l’immobilità sospesa del sortilegio. Il bandito aveva terrorizzato l’America lontana e tutto il paese con la sua efferata violenza : « la gente che pensava a Saverio, lo vedeva correre come una vela tremante sul mare oceano, correre dietro al suo nemico per vendicarsi… » ; finché venne la notizia che era finito sulla sedia elettrica. « Questa soluzione impensata e difficile, questa idea della sedia accoppiata alla morte, una morte senza verità, certo senza grandezza, aveva lasciato la gente incredula, come se quello potesse levarsi e correre, correre, arrivare in paese col coltello fra i denti ». Il mortorio fu lungo, con le donne del paese accanto alla madre intorno ad una coperta distesa. Un giorno, come un fulmine sbucò dal bosco a cavallo una donna bionda come un angelo. Come fosse potuta arrivare fin lì era un mistero. Disse di essere la moglie americana di Saverio. Abbracciò la madre e prese a vivere con lei nella casa. Stupore e meraviglia nell’accostamento dei due universi : la straniera costituiva un miracolo : « il suo arrivo turbò tutto,come un pensiero inatteso tra pensieri consueti ». Dita sottili, unghie lucide, la testa gialla di un biondo luminoso, le calze sottili, le sottovesti di seta, i tappeti di tela cerata con la statua della libertà stampata in puntini bianchi e azzurri. Le bambine si stringevano in fila dinanzi alla finestra per guardarne i movimenti, le giovani cercavano di imitarne i gesti, gli uomini avevano facce accese e proterve, tra offesa e difesa, « si sentiva odore di zuffa, e l’imminenza delle grida, quelle grida strangolate, il colore della fuga e della paura, il rosso dei carabinieri ». Ma lei s’incantava con angelica indifesa semplicità dinanzi a quel mondo primitivo, ai presepi ed alle cornamuse dell’imminente Natale, mentre s’udiva lo scroscio dei torrenti gonfi intorno ai boschi « tra cui soffiavano come nelle canne d’un organo ». Poi le donne più anziane, fattesi coraggio, presero a circuirla con premure e consigli, attratte da una comunanza di vita, nella scoperta progressiva di una comune identità femminile. E il contrasto era tra quella bellezza bionda che sembrava immarcescibile, d’altro mondo e quelle figure « di povere spose stemperate come lame vecchie ». Nel paese di uomini e donne, tra desiderio invidia e curiosità, ormai ella era diventata « il pensiero fisso, un dippiù, una sregolatezza della creazione : era la fortuna ignara che gira con la sua ruota fino a che qualcuno non l’afferri per i capelli ». Proprio i capelli finì col reciderle una monaca nera sopraggiunta
208 michele dell ’ aquila d’improvviso, una delle tante che per voto s’era stretta in abito monacale senza esser monaca, ma vivendo solitaria in una sua capanna lontana. La circuì, l’incantò, la colse all’improvviso senza difesa, nel vocio di tante intorno che la frastornavano, e le dicevano di essere buona, invitandola a seguirne l’esempio ; e intanto le ciocche bionde cadevano a terra, tante quante non si sarebbe immaginato. « Ebbe freddo. Si volle coprire con qualche cosa. Allora le misero in capo una cuffia nera.Una veste nera le buttarono indosso. La monaca la chiamò sorella e l’abbracciò.Ella cercava uno specchio, lo vide in terra rotto in pezzi. Vi si affacciò come su un fiume torbido e diceva parole che non si capivano ». Nell’Amata alla finestra che dà il titolo anche alla raccolta, e in Camera mobiliata Alvaro si muove in un altro dei suoi spazi privilegiati : gl’interni domestici, la vita dei giovani di umile estrazione fuori sede per studi, la loro solitudine nella città, il desiderio di amore, di compagnia, la figura di donna intravista « di bellezza piuttosto piena e assai bruna… che gli ricordava le donne della sua infanzia » ; le finestre delle case che s’illuminano di sguardi, come giungessero « da una profondità misteriosa e umida » ; i lineamenti, l’incarnato della pelle dai « sottili pori iridati, come le trame di cui sono intessute le foglie nuove » ; i cenni d’intesa, i biglietti amorosi, le gioie e le disperazioni, amore e morte ancora una volta insieme, « fratelli a un tempo stesso » come nei famosi versi del contino di Recanati ; i viaggi di ritorno ai paesi « fra gli odori e i rumori noti » ; « le forme delle cose che accompagnano tutti nel loro cammino su questa terra : le scarpe allineate, il tavolino con lo specchio e gli oggetti di toeletta, confidenti muti e comuni a tutti, le parole dei dentifrici, delle creme, delle ciprie che tutti leggiamo e sappiamo, uguali per tutti, e che sussurrano il loro clamoroso nome a noi soli quando siamo soli ». Il colloquio muto con i propri desideri, con i sogni, con gli avari fiori quotidiani delle occasioni, il valzer malinconico e irripetibile della giovinezza che si consuma come un vecchio disco sotto la puntina del tempo. Tutto sembra accaduto, tutto è immobile in una in distinzione di tempo, tra sensazioni, pensieri, desideri, memorie. Come se, come se… : lo spiraglio appena socchiuso a lasciar intravedere il segreto delle cose, per tentare « l’expresiòn de la irrealidad », per dirla con Borges. In altri racconti, i treni sulla linea ferrata che costeggia il mar Jonio, con il passo ansimante, i fischi nella notte, che facevano sentire più lontani o più vicini al grande mondo, lo sbuffo di fumo, i nomi
il tempo immobile e il chiuso spazio dei segreti 209 delle locomotive che richiamavano antichi personaggi greci, Temistocle e Milziade, Sofocle. Epaminonda ; il paesaggio, la natura, così viva, così umana, segni anch’essi di una vita il cui significato profondo resta sconosciuto, misterioso, immobile, appena intuibile per brevi lampi : il mare che « respira pesante » e « si purga » ai primi soffi di primavera ; le sere meridionali che scendono come scenari di fuoco sul mondo (anni dopo Bodini, un poeta salentino, avrebbe detto « come di bestia macellata ») 14, « il sole stretto nel telaio delle montagne », la commistione di fattezze umane e paesaggio : « l’iride affondava dietro le palpebre come la luna fra gli alberi » ; la terra dei ritorni « che cominciava a svolgersi lentamente uguale e avara intorno al movimento del treno ». Naturalmente dietro questo realismo oltre il realismo vi sono le esperienze letterarie e figurative del suo tempo : gli ardimenti delle avanguardie primonovecentesche, la scomposizione della figura umana, le prospettive nuove del paesaggio. Lo sguardo fermo di Melusina che ha lo stupore delle statue, i nudi sulla spiaggia dell’Jonio richiamano Sironi e De Chirico, le donne ristrette nelle vesti o carnali nelle braccia nude e nel petto richiamano le figure di tanta pittura anni Venti/Trenta, l’esperienza di « Novecento », del realismo magico di Bontempelli. Ma tutto questo come antefatto, come residui ineliminabili. Alvaro attraversa tutto, ma scava nel profondo, non si lascia distogliere dagli orpelli né dalle mode. Manzoni fa dire ad Adelchi morente che « gran segreto è la vita » : Alvaro, con quella sua faccia chiusa come un pugno, è come se volesse già dirci che l’uomo è forte, ma più forte e profondo e oscuro è il suo destino, che non vale affannarsi ad esplorarne il segreto, ma avendone intuito per piccoli segni e per simboli la sacralità misteriosa, bisogna fermarsi alla soglia di essa, come i profani fuori dal tempio, da un tempio entro il quale non sono ammessi neppure i sacerdoti.
14. V. Bodini, Poesie, Galatina, Congedo, 1970.
composto, in carattere dante monotype, impresso e rilegato in italia dalla accademia editoriale ®, pisa · roma * Aprile 2005 (cz2/fg3)
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