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Italian Pages 272 [273] Year 2014
INCHIESTE
Fabio Sanvitale Armando Palmegiani Vincenzo Mastronardi
Sangue sul Tevere
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Un grazie lo dobbiamo ad alcune persone che sono state indispensabili per scrivere questo libro: Paolo Musio, la famiglia Ricci, Germana Cesarano, Massimo Lugli, Michele De Camillis, Antonio Del Greco. Davvero grazie.
Capitolo 1
Sparito nel nulla
Alle 14 di un qualsiasi giorno di febbraio del 1988 nel cuore della Magliana, a Roma, c’è una donna di 47 anni, Vincenzina, che sta vicino al telefono. Una dopo l’altra compone le cifre che stanno già facendo squillare un altro apparecchio, qualche km più verso il centro di Roma, a Monteverde. Quando una voce risponde, Vincenza chiede alla nipote di passarle suo figlio, Giancarlo. “Un momento ‘a zì, sta co’ uno”, risponde la ragazza. “Quanno arivi, Giancà?” chiede Vincenza, che il figlio lo sta aspettando per pranzo, anzi lo aspetta da un pezzo e intanto si sono già fatte le due. “Quanno arivi, Giancà?”. E lui risponde: “Sto a’arivà, a mà”. Vincenza riappende e le resta un dubbio. “Sta cò uno. Uno chi? Uno di quelli?”. Passano dieci minuti ed eccola che rifà lo stesso numero.“A Giancà, ma quanno arivi? Cò chi stai?”. La voce dall’altra parte risponde:“Mà, butta la pasta, che accompagno Fabio da ‘na parte e arivo”. Ma alle 15 Giancarlo – che ha 26 anni, quasi 27– proprio non si vede, la pasta nel piatto è lì da un bel pezzo, a raffreddarsi ricoperta da un altro piatto fondo, i cellulari, come li conosciamo oggi, non li hanno ancora inventati e Vincenza scampanella all’amica Gina e con lei esce e va a cercare suo figlio. E se vi chiedete perché si allarma tanto, beh, qualche motivo c’è. Ma abbiamo tempo, per raccontarlo. Dunque, Vincenza e Gina prendono la macchina e vanno. Cercano in tutti i posti dove Giancarlo va di solito, nel quartiere. Girano ore per la Magliana ed arrivano fino a Monteverde, dove lui abita. Niente. Preoccupata è preoccupata, ma a chi può dirlo? Il marito è al lavoro, Orlando, l’altro figlio, quasi 22 anni,
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è fuori. Rientrano, sono le 17,30: non sarà mica tornato a casa, nel frattempo? Ma a casa Giancarlo non c’è. Ogni tanto Vincenzina si affaccia per vedere se di sotto, in via Vaiano, c’è per caso parcheggiata la macchina di Giancarlo, un’ Alfetta bianca che s’è comprato da un tre settimane. Alle 18.30 esce di nuovo, stavolta da sola, e va a fare un altro giro. Non fa in tempo a rientrare che dal balcone – sono le 19, adesso – Gina le dice “‘a Vincè, vedi che Giancarlo è tornato, c’è la macchina sua, sta là!”. E cha ragione. Eccola là l’Alfetta, è parcheggiata proprio male: sembra che voglia entrare col cofano dentro la vetrina della pizzeria! Ma quando sale a casa – e mò Giancarlo me lo deve proprio dì dov’è stato – Vincenza si meraviglia non solo che Giancarlo non c’è, ma che neppure arrivi dopo. Anzi nemmeno passa per citofonare. Aspetta un pò; e intanto, alle 20, rientra il marito, Alessandro, che fa l’autista in Corte di Cassazione, ed è a lui che chiede di cercare Giancarlo in piazzetta. Niente. Non c’è a piazza Certaldo, che poi è proprio dove sbocca via Vaiano, non c’è. Alessandro cerca allora almeno di spostare la macchina, che è messa troppo male: così, sopra al marciapiede dà fastidio. Ma è chiusa e non c’è solo questo, di strano. C’è dell’altro, perché il figlio non ha l’abitudine di chiuderla, la macchina. “Giancarlo aveva il vizio di lasciare attaccate le chiavi al cruscotto” dirà Orlando, il fratello. E poi, il fatto è che l’Alfetta è sporca di benzina all’altezza del tappo del serbatoio. Quando si potrà aprire l’auto, si scoprirà che dentro c’è tutto, tranne una bottiglia di plastica, tagliata a imbuto, che Giancarlo teneva sempre nel bagagliaio. Strano proprio, perché lui non è uno che la tiene sporca l’auto, anzi: un maniaco della pulizia, tanto che gli amici lo prendono in giro. Il pizzettaro, poi, non ha visto nulla: stava servendo e non sa quando l’auto è stata parcheggiata. Però adesso si sono fatte le 22 e da via Vaiano chiamano l’altra figlia, Stefania. Saranno lei e Vincenzina a cercare Giancarlo per tutta la notte, nel quartiere. Alessandro resta di guardia al balcone, mentre il 18 febbraio esala le sue ultime ore.
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Le due donne guidano dappertutto. Niente. Stefania e Vincenzina consumano gomme e serbatoio della Panda nuova della ragazza, ossessivamente, strada per strada, piazza per piazza, semaforo per semaforo, con gli sguardi incollati ai marciapiedi a vedere dappertutto se c’è in giro Giancarlo, a chiedere a tutti i ragazzi della notte che trovano, mentre per strada c’è sempre meno gente. E poi più nessuno. Nel buio. Vincenzina e Stefania fanno100 km dentro la Magliana: e quante volte saranno passate per via Pescaglia o via Pian due Torri nessuno lo sa. Sono le 2 di notte quando decidono che sono troppo stanche per andare avanti. Vanno a buttarsi sul letto: in un’attesa che non conosce sonno. Dov’è finito Giancarlo Ricci?
“Giancarlo Ricci, per gentile concessione della famiglia”
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Adesso s’è fatto giorno, il buio che ha inondato il quartiere s’è ritratto. È mattina, sono quasi le 6 e nessuno, dietro la porta di casa Ricci, ha chiuso occhio. Sono stati lì ad aspettare che il citofono suonasse, il telefono squillasse, a vedere da dietro il vetro se per caso Giancarlo stava sotto. Alle 5.30 Vincenzina non ne può più: prende e butta giù dal letto Giovanni Pignataro, un poliziotto che conosce. Gli spiega che il figlio non si trova, è sparito. E torna a guardar fuori, da dietro ai vetri. Vetri dai quali si vedono i palazzi della Magliana: un quartiere che fa da quinta a questa storia, da fondale; ma che, soprattutto, è per tutti un brutto nome. Un bruttissimo nome, come Corviale, come Tor Bella Monaca, come il Laurentino 38. Eppure, la gente di quella che qualche decennio fa si chiamava borgata, in quel 1988, avverte un riscatto che è appena cominciato e che, agli occhi del mondo, ritardò ad essere riconosciuto proprio per la vicenda che vi raccontiamo; mentre ancora, nei bar e sui marciapiedi, si raccontavano le gesta della Banda della Magliana. Tanto che “Il Tempo”, nei giorni successivi a questa storia, titolò: “Ma la Magliana non è il Bronx”. C’era, purtroppo, bisogno di specificarlo1. Alla fine, gli unici a sapere che era un quartiere con molti problemi, ma non il solo né il peggiore, erano quelli che ci abitavano. Ma adesso il telefono squilla in via Vaiano. Sono le 6 passate, al massimo le 7. Oddio, sarà Giancarlo! Vincenzina non c’ha dormito tutta la notte, ha due occhi così. “Pronto?” E subito riattaccano. Passa qualche minuto ed il telefono squilla di nuovo. “Pronto!?”. Niente. Chiunque sia non è lei che vuole sentire, sembra sorpreso di udirne la voce. O intimorito. Riattacca, anche stavolta. Più o meno alla stessa ora, sono le 7.30, il telefono squilla a Monteverde, nell’appartamento della zia di Giancarlo, Ada, ed è Sabrina, la nipote di Vincenzina, che risponde. “Pronto?”. C’era, perché “Repubblica” aveva invece titolato: “Terrore quotidiano nel Bronx della capitale”. 1
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Ma dall’altra parte riattaccano anche stavolta. Risquilla. “Pronto?”. E stavolta la voce parla: “L’avete trovato?Allora? L’avete trovato?”. Corte d’Assise di Roma, 25 gennaio 1990. Deposizione di Ricci Stefania. “Posso dire che Giancarlo aveva sempre appresso un’ agendina di Pierre Cardin, grigia, in cui erano segnati alcuni numeri. Tra cui quello della zia, da qui probabilmente l’equivoco di chi ha chiamato lì pensando magari di trovarcelo”. Intanto Pignataro, alle 7.30, ha preso servizio al Commissariato San Paolo e fa qualche controllo. Chiama la Sala Operativa, ma nulla. Nessun Ricci figura tra gli arrestati o i fermati di quella notte o tra quelli coinvolti in qualche incidente. Poco dopo Pignataro alza il telefono: è di nuovo Vincenzina. Con la voce imbottita d’ansia, lo aggiorna: ci sono delle telefonate mute! Ma che vuol dire? Che sta succedendo? E torna dietro al vetro, a consumarsi. Mentre accade tutto questo – sono circa le 8.30, adesso – Pignataro sente che la Volante 30 ha trovato qualcosa proprio alla Magliana e decide di andare a vedere. Un presentimento, forse. È successo che il signor Emilio Atzori, che ha 60 anni, mentre col figlio Marco, di 16, stava attraversando un terreno per portare a pascolare i cavalli – miracoli di Roma, dove nello stesso momento i jet decollano da Fiumicino e a migliaia di metri più in basso si pascolano cavalli, dove antico e moderno convivono continuamente – mezz’ora prima, dicevamo, ha trovato qualcosa che fa fumo. Pascolare? Parole grosse. Dovreste vedere dove. Quel terreno è poco più di una discarica. Intanto che parte, Pignataro chiama i Ricci e dice loro di non muoversi, che sarebbe arrivato lui. E sale in macchina. Intanto – più o meno negli stessi minuti, sono le 8.15/8.30, sta squillando di nuovo il telefono, a via Vaiano. Il giochetto delle telefonate sta esasperando i Ricci. Pignataro non può essere, perché ha appena chiamato, per cui stavolta è Orlando
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che toglie di mano il telefono alla madre. “Sono Giancarlo, chi parla!” La sorpresa dall’altra parte del filo c’è tutta. Si sente un vocìo e poi la chiamata viene interrotta. Un paio di minuti dopo. Stavolta è a Monteverde che squilla il telefono. È di nuovo la stessa voce di uomo di un’ora prima, che chiede a Sabrina, ancora: “L’avete trovato? Allora? L’avete trovato?”. Subito richiamano in via Vaiano: “C’hanno telefonato n’artra vorta!” E l’angoscia aumenta.
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Capitolo 2
Hanno trovato Giancarlo
Il posto, se lo cerchi, è ancora là. Non molto diverso da un tempo. In questa mattina d’inverno spazzata da un vento dell’est, io e Armando abbiamo parcheggiato la Vespa e ci troviamo qui. Ci sfiliamo i caschi e restiamo a guardare, nell’aria gelata e senza parole del primo mattino. Restiamo senza parole, sì, di fronte a questa terra di nessuno, perché niente può spiegare davvero ciò che accadde. L’oscurità che un giorno precipitò in questa strada. Ma è la mattina del 19 febbraio 1988 quando Pignataro percorre la via Portuense. All’ altezza dell’ospedale Forlanini, gira in via Belluzzo2. All’ incrocio con via Greppi vede, sulla destra, un appezzamento di terra e capisce che quello è il posto. Lo fiancheggia per un po’, in attesa che la recinzione in Eternit ed il lampeggiante della Volante 30 gli rivelino l’ingresso. Lo trova. Il terreno è pieno di detriti, di materiali di risulta. Un posto da tossici. Ed è terreno morbido: nei giorni scorsi ha piovuto ed è segnato dai solchi di qualche pneumatico, che portano, sovrapponendosi, dritti in un punto. A dieci–venti metri dall’ingresso, infatti, c’è qualcosa; e bisogna avere una certa fantasia per capire che si tratta di un essere umano, seduto e col busto piegato in avanti. Ci vuole fantasia, perché quell’essere umano è stato dato alle fiamme. È rannicchiato su se stesso, con i jeans abbassati e le braccia al di sotto delle gambe, legate tra loro tramite delle spire di corda di Nonostante alcuni organi d’informazione, siti, libri e trasmissioni televisive riportino che le Volanti accorsero in via Cruciani Alibrandi, il luogo esatto è via Belluzzo, come è d’altronde indicato sul verbale di sopralluogo della Polizia Scientifica. 2
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canapa. Una seconda legatura, stavolta su tutto il corpo, è stata fatta sopra il telo di cellophane e la coperta fiorata che avvolgono il corpo. La Volante 30 l’ha trovato che c’erano ancora delle fiammelle ardenti. Quello che Pignataro ha davanti non è un bello spettacolo. Ma quello che vede, un tempo, è stato un uomo. La Scientifica arriva in quella terra desolata, chiamata dagli abitanti della zona “la buca”, alle 9,30. Ad un primo esame esterno, dicono, l’uomo è arrivato sul posto già cadavere e successivamente è stato dato alle fiamme, già legato in quel modo, probabilmente per trasportarlo meglio. Indossava una camicia bianca e dei jeans. E l’hanno portato fin là avvolto nella coperta fiorata ed anche in un lenzuolo bianco, i cui frammenti bruciacchiati se ne stanno là intorno, spostati dall’aria fredda del mattino, con lentezza, senza tempo. Armando vede quel terreno e si immagina di stare lì a dover fare il sopralluogo oggi. E intanto sfoglia il fascicolo e cerca di capire cosa fecero allora gli esperti della polizia scientifica. “Sì, Fabio, questo sopralluogo era veramente difficile, per due motivi: il primo è che era all’aperto e con altissima probabilità l’evento omicidiario era avvenuto in un altro luogo… quindi il corpo vi era stato trasportato. La peggiore accoppiata: all’aperto e su un corpo trasportato. Il secondo motivo è che ci si trovava davanti ad un cadavere carbonizzato: e questa situazione crea delle difficoltà enormi dal punto di vista della ricerca delle tracce”. Leggiamoci la descrizione che venne data allora. E’ il verbale del 1988 che parla. “Il cadavere si rinviene sul terreno, a mt. 10 circa dall’accesso ed è stato adagiato al suolo con i glutei, con le spalle rivolte verso via Belluzzo. Esso si presenta rannicchiato su sé stesso, con le braccia al di sotto delle gambe, legate tra di loro mediante varie spire di corda di canapa, ed è riverso sul terreno con la parte anteriore”. Armando si ferma, alza la testa ed inizia: “Vedi la postura rannicchiata che aveva assunto il corpo? Sicuramente dovuta alla legatura, ma gli arti non erano contratti solamente per questa, che ricordiamo era fatta con cordicelle di canapa che
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le fiamme avevano in parte reciso, ma soprattutto anche per una caratteristica postura che assumono i corpi carbonizzati, la postura cosiddetta “del pugile”. Mi è capitato, purtroppo, di riscontrarla molte volte: il calore da cui viene investito un corpo fa letteralmente “rapprendere” le giunture degli arti facendo assumere al cadavere la postura di un pugile in guardia. Certo in questo caso, dove parte degli arti erano inizialmente legati come abbiamo detto, dalla corda, anche quando il fuoco ha spezzato i legami la postura contratta è rimasta…” E continua a leggere il verbale: “Da un primo esame esterno si può affermare che il corpo è stato trasportato sul posto già cadavere e dato alle fiamme successivamente. Quasi tutta la superficie epidermica è interessata da estese lesioni, con particolare accentuazione alla schiena, agli arti superiori ed inferiori, ai glutei ed alla testa; in tutte le zone interessate si evidenzia la carbonizzazione degli strati superficiali con ampi squarci nella carne”. Armando alza lo sguardo e commenta: “Vedi Fabio, l’epidermide è interessata da profonde lesioni, come vedi fino a diventare ampi squarci. È molto comune nel rinvenimento di cadaveri carbonizzati. Mi ricordo una volta, quando si rinvenne, in una baracca totalmente bruciata, un corpo con una profonda ferita alla testa. I primi che arrivarono sul posto pensarono ad un omicidio mediante corpo contundente e successivo incendio della baracca per nascondere le prove. Invece, no! La cute di un corpo soggetto a calore intenso si squarcia e queste sembrano vere e proprie ferite”. Mi viene da domandargli quanto allora, è difficile discriminare se una ferita, su un corpo carbonizzato, è causata da un colpo violento o dalla temperatura, ma sono di fronte ad un caso di lettura del pensiero. Armando, infatti, continua senza batter ciglio: “Ovviamente, analizzando successivamente, in sede autoptica, le ferite, sarà possibile determinarne la loro origine. Ricordiamoci che qualunque ferita effettuata in vita o peri mortem, cioè nella fase del trapasso per intenderci, sarà infiltrata. Mi spiego meglio, aspetta: la circolazione sanguigna, se la ferita è fatta in vita, è attiva e quindi il sangue penetra nella zona traumatizzata, cercando di “riparare” la ferita. Questo è possibile riscontrarlo
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con un esame istologico, cioè osservando mediante il microscopio, strati sottili asportati dalla ferita in sede autoptica”. Quando la polizia scientifica ed il medico legale iniziano ad osservare meglio il corpo – siamo ancora in Via Belluzzo – si accorgono che ha una signora ferita sulla fronte, larga più di undici centimetri, così profonda da mostrare il cervello. Sembra inferta da un martello, qualcosa come un martello, qualcosa che ha colpito molte volte nello stesso punto. Ma c’è di peggio. Perché si accorgono anche che negli occhi sono stati conficcati il pollice e l’indice della mano destra. E che le orecchie sono state amputate. Così come il naso. I genitali, invece, sono in bocca, con un altro dito; mentre il pollice della mano sinistra sta nell’ano. Più che un omicidio è stata una mattanza: qualcosa che a Roma non si vedeva da anni, che non s’era mai visto. Qualcosa che non si vedrà mai più. Perché? È un omicidio rituale, ha un significato nascosto? Che vuol dire? Armando mi mostra una pagina: “C’è poi qui, vedi, a pagina 3, un passo del testo che mi lascia un poco perplesso: ‘nel terreno, nel punto in cui è stato adagiato il cadavere, si osserva la presenza di sangue; tale rinvenimento trova giustificazione nel fatto che tutte le amputazioni sono state verosimilmente eseguite in presenza di circolazione sanguigna e di battito cardiaco’. Se non sbaglio, Fabio, il medico legale aveva pure detto un qualcosa di simile nel video che era stato allegato al fascicolo...”. “Non capisco, Armà... e quindi?” “Beh, diciamo che si è cercato di anticipare le conclusioni della perizia medico legale, mentre, come poi vedremo, le conclusioni saranno decisamente diverse. Il punto è che, anche quando una amputazione viene effettuata post mortem, nelle prime ore dal fatto può esserci comunque una fuoriuscita di sangue dal corpo, dipende solamente dall’inclinazione che ha. Ovvio, no? In questo modo si sono anticipate, in quella mattinata a via Belluzzo, le risultanze medico legali su uno degli elementi più importanti della perizia...” Non c’ha torto, Armando. In vita o non in vita fa una bella differenza. Era più facile pensare ad un omicidio rituale, se le
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ferite erano state eseguite in vita: quando a quell’uomo batteva ancora il cuore. Batteva il cuore? Oddio santo. Ma anche gli elementi più impercettibili, allora, diventano importanti. Ogni frammento, ogni piccola cosa che si muovesse nell’aria, intorno al corpo nella discarica, poteva essere decisivo, poteva parlare la stessa lingua di quel delitto. “Leggi qui, Fabio: ‘Il cadavere presenta, altresì, adesi intorno alla testa, residui combusti della corda e di un cappuccio’. E, poche righe dopo, “intorno al corpo sul terreno si rinvengono numerosi pezzi di lenzuolo di colore bianco a fantasia e di una coperta di colore celeste serviti per avvolgere il cadavere prima del trasporto sul luogo del rinvenimento”. “Un cappuccio? Non ne sapevo niente!” “È la prima volta che ne sento parlare: forse venne messo, sulla testa, per contenere alla meglio la grossa perdita di sangue. Per quanto riguarda i frammenti di coperta, questi sicuramente sono tra gli elementi importanti nel nostro sopralluogo. Mentre il vestiario rinvenuto, ovviamente, appartiene alla vittima, la coperta utilizzata per avvolgere il corpo appartiene, invece, con ogni probabilità, all’autore del crimine… E quindi, risultava importantissima la documentazione di qualunque lembo rinvenuto, per le successive comparazioni”. Armando sfoglia altre pagine del fascicolo originale. “Ma dov’è finita quella parte? Ah, eccola! Il sopralluogo sul luogo del ritrovamento si conclude con: “si rilevano numerose tracce di orme di pneumatico di autovettura intrecciate l’una con l’altra”. I fogli del 1988 tornano a chiudersi l’uno sull’altro, lasciandoci un po’ di polvere sulle dita. “Purtroppo non vennero effettuati rilievi fotografici su queste tracce, rilievi che potessero essere utili per eventuali, successive comparazioni”. È uno scenario così orrendo che il mondo sembra fermarsi in quella radura di periferia. Bisogna immaginare un odio profondo, un disprezzo che si fa fatica a pensare razionalmente, per credere che un altro uomo – o altri uomini – possano aver
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ridotto così uno come loro. Davvero un essere umano è capace di arrivare a questo punto? Intorno al cadavere, a diversi metri di distanza, calcinacci e mucchi di terra scomposta. Più in là, ammassi di rifiuti, una vecchia cucina buttata a diventare ruggine. Le ante di una vecchia credenza. Flaconi di plastica, come se una mareggiata li avesse abbandonati là. Una bottiglia verde. I soliti cessi sfondati. Chi lo ha ridotto così e soprattutto chi è quell’uomo? La Scientifica preleva qualche frammento d’impronta digitale: le condizioni del corpo, delle dita rimanenti, non aiutano di certo. Se fosse stata una ricerca alla cieca non ci sarebbe stata soluzione, i frammenti erano piccoli ed ancora non esisteva A.F.I.S., l’Automated Fingerprint Identification System che, oltre l’archiviazione, permette oggi anche la ricerca, nel suo immenso database, di frammenti di impronte. Ma il compito dei dattiloscopisti, cioé degli esperti delle impronte digitali, della polizia scientifica questa volta era più semplice. C’era questo Ricci che era sparito, che abitava in zona: e dato che era stato segnalato qualche anno prima, per un tentato furto, avevano a disposizione le sue impronte digitali. Pignataro, a questo punto, ha già parlato coi superiori, quelli della Squadra Mobile, quelli che sono venuti dalla Questura. Gli dicono di portare i Ricci da loro. Quando arriva in via Vaiano – sono le undici, adesso – il poliziotto trova una famiglia molto più agitata di prima. Non può ancora dire cosa ha visto, non sa ancora chi è l’uomo trovato in via Belluzzo. Ma, quando scendono, Alessandro Ricci chiede a Pignataro ed all’ispettore Bartolini, che è con lui, di aiutarlo a spostare la macchina di Giancarlo: sta messa così male! Ed è allora che si accorgono che... ma come è possibile? Lo sportello destro adesso è aperto. Eppure ieri, poche ore fa, era chiuso! Nella macchina, però, non manca nulla… Comunque sia, la rimettono dritta, tra le righe. Si avviano tutti verso il commissariato San Paolo. Sono per strada quando superano un furgone blu scuro della Polizia Mortuaria. Senza sapere chi c’è dentro.
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Un’ora dopo, nelle stanze della Squadra Mobile, i funzionari comunicano ad Alessandro e Vincenzina che loro, Giancarlo, l’hanno trovato. Morto. Ricci Giancarlo, nato a Roma, il 27 aprile 1961. Residente in via Vaiano, Roma. Netturbino. Pregiudicato per furto. Ha un soprannome, er puggile. Che poi, alla Magliana, il soprannome ce l’hanno in tanti. Che poi, a Roma, il soprannome è un’arte raffinata. Ma basta poco per prenderselo: in questo caso, più per l’attitudine a menare – di cui parleranno in tanti – che per aver fatto davvero il pugile. Giancarlo aveva fatto uno-due incontri soltanto, tutto qui. Nel maggio dell’anno prima, però, era stato gambizzato dai fratelli Sergio e Giuseppe Ferraro e, poco tempo prima di morire, gli avevano bruciato la moto, la sua Bimota SB4, rimasta abbracciata dalle fiamme la notte del 10 ottobre 1987, nel cortile di uno stabile di via della Magliana 270. Una moto che si riconosceva facilmente: ce n’erano tre in tutta Roma. E che Vincenzina aveva comprato al figlio. Lira su lira. Ma allora c’era gente che ce l’aveva con lui... fino a quel punto? Possibile? Chi? Siamo in quella che un tempo s’è chiamata Piazza Certaldo e che oggi si chiama Piazza Fabrizio De Andrè. Quello che è stato un grande slargo tra rettangoli immensi di cemento e mattoni oggi è un po’ diverso, s’è rifatto il trucco. Le buche piene d’acqua, il terreno fatto a singhiozzi, quei quattro alberelli stitici, hanno fatto posto ad una piazza ordinata e degna di questo nome. Ci sono i giochi per i bambini, i murales colorati. E gli alberi, sono cresciuti, gli alberi della piazza. Ne hanno viste, di cose. Il barista che sta all’angolo con la chiesa di San Gregorio Magno ci serve i cappuccini ed ha senz’altro l’aria meno assonnata di noi, nonostante non siano ancora le 7 di mattina. “Armà, ma tu te la ricordi quella storia che avevano sparato a Ricci? Come successe?” “No, non me la ricordavo. Però sta scritta qui, guarda...” E si mette a rovistare in un esercito di carte uscite da un altro secolo. “Trovato!” esclama trionfante. “Ecco, ne parlano in questo interrogatorio di Orlando, il fratello di Giancarlo,
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del 19 febbraio, il giorno stesso del ritrovamento. Senti cosa dichiara: ‘Circa un anno fa, mio fratello venne ferito a colpi di pistola. Per tale episodio delittuoso vennero poi arrestati i fratelli Giuseppe e Sergio Ferraro. Il motivo del ferimento derivava dal fatto che mio fratello era in contatto con i Ferraro per questioni di droga e, per quanto io sappia, Giancarlo aveva fatto una ‘sòla’ ai predetti. Mi risulta però che, successivamente, allorquando i Ferraro vennero dimessi (!) dal carcere, si riappacificarono con Giancarlo, tanto che avevano ristabilito un rapporto di normale amicizia’” 3. Insomma, spararsi era il normale intercalare di un’amicizia. Ti sparo, ma amici come prima. Sono anni, comunque, in cui tutto sta precipitando nella vita di Giancarlo Ricci: prima una pistola fa fuoco contro di lui, poi gli bruciano la moto e poi lo ammazzano. È davvero una discesa all’inferno, sempre più veloce. Perché? Chi ce l’ha con lui? Cosa sappiamo di lui? Pregiudicato, d’accordo. Poi? Si faceva; e a questo daranno risalto, molto, i giornali, per cercare di capire. Per dirla col linguaggio di Questura: “Si accerta anche che Ricci si riforniva di droga che non pagava quasi mai, picchiando anzi gli spacciatori”. Ma adesso il punto non è nemmeno questo. Perché tra il dire “butta la pasta” e il farsi ritrovare bruciato in una mezza discarica di periferia c’è un abisso. Ci sono due oceani. È esattamente questo il problema, per quelli della Mobile. Con chi era Giancarlo, chi era l’amico che doveva accompagnare? Dove sta questo Fabio con cui ha detto che stava? Cosa sa? La storia dell’omicidio Ricci è una di quelle che sconvolgono Roma e che la grande città ancora ricorda. E’ una storia che ha sconvolto anche noi. Uscendo dal bar, lo sguardo di Armando cade sull’edicola che sta là, all’angolo. “Te la ricordi, la notizia?” mi fa, mentre ci rimettiamo i caschi e risaliamo in Vespa. “E sì che me la ricordo. Non avevo ancora finito la scuola Dall’interrogatorio di Orlando Ricci, reso alla Squadra Mobile il 19 febbraio 1988. 3
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di giornalismo. Erano anni in cui volevo sapere tutto di questo mestiere, ogni virgola. Aprii il giornale, lo distesi sul tavolo e la lessi. Era il titolo di spalla, quel giorno. Dopo un po’ avevo il ghiaccio al posto del sangue. E tutta la storia sembrava troppo brutta per essere vera. Tu dov’eri?” “Dov’ero una settimana circa prima del mio compleanno? Beh, avevo fatto da poco il concorso per entrare in Polizia ed attendevo di effettuare le visite mediche. Che poi feci qualche mese dopo, partendo per Piacenza, a giugno. Ma in quel periodo mi capitava spesso di passare per la Magliana: amici, cuore, ero sempre lì”. Ripartiamo, un po’ meno assonnati. Sentiamo il rumore delle serrande delle camere da letto che vengono su. Sopra di noi, il cielo nuvoloso di Roma. Sono le prime luci del giorno. Vincenza, che ha 47 anni, intanto sta raccontando tra le lacrime, ai poliziotti, che il figlio abitava in via Cesari, a Monteverde appunto, in un appartamento che avevano acquistato proprio allo scopo di allontanarlo dalla Magliana. Da agosto 1987, poi, Giancarlo faceva il netturbino e anche questa era sembrata una buona cosa, per tenerlo impegnato con qualcosa di serio. Molte volte, racconta la sorella, Stefania, anche lei andava a Monteverde a dormire, per stare vicina al fratello. E, aggiunge Stefania, che in questi ultimi due-tre giorni suo fratello, in maniera assillante, ripeteva che volevano ammazzarlo e anche se era proprio grosso, ultimamente aveva paura, addirittura di dormire da solo a Monteverde. E qui c’è qualcosa che non sappiamo. Ma chi poteva volere morto Giancarlo Ricci? Di chi aveva così tanta paura? Vincenzina spiega che era stato minacciato dalla madre di uno spacciatore, uno di cui non sa il nome, che Giancarlo aveva picchiato per farsi dare droga senza pagare. Questo spacciatore era poi morto di malattia, per fatti suoi, ma la madre riteneva Giancarlo responsabile. Diceva che lo avrebbe fatto ammazzare. È una traccia. Ma il vero motivo per cui l’avevano allontanato dalla Ma-
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gliana non è nemmeno questo. Bisognava allontanare Giancarlo da una cosa: dalla droga. Dalla droga e dalla Magliana: perché in quel 1988 dire droga era dire Magliana, e viceversa. Di roba nel quartiere ne girava non tanta, di più. I marciapiedi erano lastricati di polvere bianca e Giancarlo era una delle gocce di quel fiume di cocaina ed eroina che massacrava quelle strade. Guadagnava bene, come spazzino: turno di notte, un milione e seicentomila lire. Di giorno, arrotondava come operaio asfaltista. Con i suoi 80 kg di muscoli e sicurezza per 1.76 di altezza, col suo 50 di spalle, er puggile girava in Alfetta il quartiere. La madre lo vedeva prendere pasticche o gocce, in quelle settimane: e chiedeva che roba fosse. Ma lui rispondeva che era per l’insonnia di cui soffriva. Solo per l’insonnia? Eppure, lei lo aveva rimesso su benissimo, dopo che era si era ridotto così male per la droga. Gli aveva fatto anche un sacco di flebo. Solo per l’insonnia? Squadra Mobile di Roma. Deposizione di Ciro Achille Ascione, titolare della palestra “Associazione Miami 86”, sita in via Pietro Frattini 63. “Giancarlo veniva da settembre 1986. Secondo me si faceva perché alle volte veniva, ma non si allenava al sacco. Molto spesso sua madre chiamava in palestra per sapere se il figlio stava lì oppure no. Ho pensato che doveva stare in qualche brutto giro, tipo droga”. Lo smarrimento è sulle facce di tutti, nel quartiere. La notizia della morte del figlio dei Ricci s’è sparsa. E poi Giancarlo lo conoscevano in tanti e la mamma, Vincenzina, pure. Questo non è il solito morto sparato, la solita scazzottata, la solita rapina finita male. Quello che stava nel campo di via Belluzzo è molto, molto, molto di più. E anche per gli uomini della Mobile è un brutto affare: in quella Roma da ottanta omicidi l’anno, in cui droga, armi e gioco d’azzardo erano gli affari della malavita, la città era divisa
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per bande e per zone. Sì, ma un omicidio come questo dove lo metti, come lo classifichi? Così, la polizia navigava a vista, in quelle prime ore. Ogni ipotesi era possibile. Corte d’Assise di Roma, gennaio 1990. Deposizione di Carnicella Vincenza. “Giancarlo quel giorno è passato a casa alle 7,30, ci ho parlato un po’ perché erano due settimane che stava agitato. Quella mattina gli avevo detto ‘sei un drogato, sei cattivo’ e lui allora mi aveva risposto: ‘vieni con me al San Camillo (l’ospedale dove all’epoca si facevano i trattamenti per la tossicodipendenza, N.d.A.) e vediamo se è come dici tu’. E siamo andati al San Camillo a fare questi accertamenti. Poi torniamo a casa e io risalgo. Dopo un po’ Giancarlo suona col clacson e mi dice ‘mò ritorno’. E lei: ‘no, mò scendo pure io’. ‘Va bene, scendi pure tu’ mi fa. Erano Giancarlo ed un altro ragazzo, (Giuliano Raffaelli, N.d.A.) e siamo andati tutti a Monteverde. È qui, mentre scendiamo da casa, l’amico mi ha detto di mandar via Giancarlo dalla Magliana, che lo volevano ammazzare. Io chiedo: chi? Ma non faccio in tempo ad avere la risposta, perché Giancarlo rientra in macchina. (…) All’ora di pranzo gli ho detto: ‘Non mi far fare la pasta che poi non vieni’. Lui:‘Non ti preoccupare, il tempo di mettere giù la pasta che arrivo’. Lo richiamo dopo 10 minuti, ‘Giancarlo ma con chi stai?’. ‘Con Fabio, non ti preoccupare, devo andare via che devo vendere una radio, lo accompagno in un posto e rivengo subito’. ‘Guarda, sbrigati’ faccio io. Aspetto fino alle tre meno dieci e poi sono uscita a cercarlo. ‘Guarda, se sta al bar gli faccio vedere che casino gli combino’ pensavo. Ma per tutto il quartiere la macchina non c’era. Quando tornò dal lavoro mio marito lo mandai a vedere alle Poste”. Certo, dire che Vincenzina è presente nella vita del figlio è dire poco. È molto presente, controlla passo passo tutto quello che fa, ma gli avvenimenti successivi dimostreranno due cose. Una è che ne aveva tutte le ragioni e, due, che pensare di controllare la vita di qualcun altro è impossibile.
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Perché questa è la storia di una madre che lotta come una pantera per tirare fuori il figlio dalle spire della droga, ma anche di un figlio che sarà grande e grosso, ma che, se sta un attimo da solo, soccombe quando ha nelle mani la polverina bianca.
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Capitolo 3
Fabio Beltrano
Ora però torniamo a seguire i Ricci. Sconvolti, escono dalla Questura e tornano in via Vaiano: ormai si sono fatte le 14,30. Ma quel giorno Orlando è in moto e così arriva prima di tutti a casa. È sotto il palazzo che saranno le due, le tre e trova Fabio, Fabio Beltrano, l’amico di Giancarlo: quello che stava con lui l’altra mattina. Insiste che deve dirgli qualcosa. Orlando gli chiede che vuole. Fabio insiste che lui c’ha ‘ste chiavi della macchina da ridare. “Le chiavi? Un momento. Come le ha? Perché? L’ha spostata lui, allora?” faccio io. “Se ti leggessi le carte del processo, per una volta... E’ scritto qua” fa Armando sorridendo, mentre tira fuori, dal bauletto della Vespa, una borsa con un pacco di fotocopie svolazzanti, che mi piazza sotto il naso. Corte d’Assise di Roma, gennaio 1990. Deposizione di Ricci Orlando “Io Fabio l’ho visto alle due. Mi si è avvicinato e mi ha detto: ‘l’hai visto a tuo fratello? C’ho le chiavi della macchina, non lo vedo, allora le do a te’. Gli dico: ‘ah, perché te stavi co’ mio fratello?’ E lui: ‘sì stavo co’ lui, stavamo dar canaro, a Via della Magliana’. ‘E che stavate a fare?’ gli ho detto. ‘Non lo so che doveva fare, stavamo là’”. “Sì, vabbè, ho capito. Ma come ce le ha, queste benedette chiavi?” dico ad alta voce, tra me e me. “Senti qua – riprende Armando, fermandosi – che succede? Succede che, alla fine, Fabio racconta tutta una storia,
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che Giancarlo doveva fare una rapina, che un tosacani gli ha portato le chiavi… non ci si capisce niente, anche perché la conversazione con Orlando avviene in mezzo al casino. In via Vaiano, infatti, ci stanno già tutti i giornalisti che aspettano i Ricci e riuscire a fare un discorso chiaro è proprio difficile. Comunque una cosa Orlando l’ha capita: è successo qualcosa e qualunque cosa fosse, Fabio c’era. Fabio, che continua a dire che ci stavano dei siciliani coinvolti, dei calabresi. Giancarlo sembra – sembra – essere rimasto coinvolto in una rapina dove c’era altra gente, insomma. I giornalisti che stanno intorno a questa conversazione la sentono e se la appuntano sul block notes. E la notizia della rapina piano piano comincia a muoversi per Roma. Ma, nelle prime ore di quel pomeriggio, solo tra i giornalisti…” “Ok, fin qui ci sono – faccio io, che ho finalmente ricollegato – dopo un po’ arrivano anche Alessandro e Vincenzina. Per scoprire che le sorprese non sono finite. La prima è che, incredibilmente, l’Alfetta non è più dove si trovava quando sono usciti quella mattina, quando l’hanno trovata aperta e l’hanno spostata. Adesso s’è spostata un’altra volta, cinquanta metri più giù, addirittura pure in zona vietata. È proprio quella di Giancarlo, la targa è la stessa: PA 504511”. Ma insomma! Chi è che sta giocando? Che senso ha? È l’assassino che sposta l’auto? Perché? Con questa domanda nella testa che ormai va a mille, Alessandro e Vincenzina salgono e sul pianerottolo ci trovano Orlando, Fabio e i giornalisti, che già sanno la storia delle chiavi. Fabio ripete che mica le ha prese lui, anzi; gliele ha date il tosacani – er canaro – più o meno, aggiunge, alle 18/18,30 del giorno prima e che è stato sempre lui che gli ha detto della rapina e di riportare la macchina ai Ricci. È il momento in cui Alessandro Ricci si arrabbia di brutto, sbotta: “Ma tu tutte queste cose le vieni a dire ai giornalisti il giorno dopo, dovevi dirle subito in Questura! Cammina, esci fuori! Vai adesso lì in Questura e vallo a raccontare a loro, a me mi vieni a raccontare queste cose?”. Ed è allora che Orlando decide, innanzitutto, di andare dal
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tosacani a sentire se è vera questa storia. E di portarsi dietro anche Fabio. La strada non è molta. Si fanno tutta Via Vaiano, che non è lunga, sbucano in Piazza Certaldo, tra le buche e il groviglio di auto parcheggiate una sull’altra. Da lì girano per via della Magliana. Sono pochi minuti, in fondo. Eccoli, davanti all’ingresso scalcinato del “Mambli lavaggio cani”. L’insegna gialla e nera del negozio sta in fondo ad un piccolo slargo condominiale, contornato da tre facciate di palazzi. Sul lato aperto, una sbarra di ferro a strisce bianche e rosse impedisce l’accesso alle auto. Il tosacani è un uomo d’una trentina d’anni, magro, col viso affilato, i capelli ricci ed un maglione addosso. Corte d’Assise di Roma, gennaio 1990. Deposizione di Ricci Orlando. “Quando arrivammo dal tosacani, gli dico: ‘Mio fratello dove sta?’ Quello viene fuori e dice: Che ne so e se lo vedi digli di riportarmi lo stereo’, lo dice a Fabio”.
Il negozio Mambli
Ma Orlando non gli chiede né delle chiavi né altro. E poi
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che strano: chiede al canaro dove sta Giancarlo e l’altro che gli risponde? “Digli di riportarmi lo stereo”. È una risposta che non serve a nulla, soprattutto non serve a placare la domanda di Orlando: è piuttosto un modo per depistarla. È un modo per non rispondere, per eludere, e poi per mettere Giancarlo in cattiva luce. Della serie: m’ha fregato lo stereo e tu vieni a chiedermi dove sta? Sono io che vorrei sapere dove sta lui. La conversazione è breve, comincia fuori dal negozio e finisce dentro. Ma c’è di più. Orlando guarda il canaro che lava i coltelli ed ha paura. Forse è qualcosa nello sguardo di lui, forse è la scena, saranno questi coltelli, ma si sente dentro che quello ha ucciso Giancarlo. Forse è per questo che non gli chiede di più. Quando torna a casa lo racconta alla madre: “Ma no, non è possibile, aspettiamo”, dice lei. Inizia un pomeriggio di dolore, in casa Ricci. Arrivano un po’ alla volta i parenti, i pensieri che esplodono, facce sconvolte e lacrime vengono ad abitare nell’appartamento di via Vaiano. La rabbia si muove invisibile tra le stanze; e poi la disperazione, senza che ci sia una risposta a consolarli. Vincenzina l’hanno già portata via da quella confusione, sta a Monteverde. Distrutta. Ci sono il padre, la cugina di lei, Elena col marito. In tutto questo, a metà pomeriggio, suona la porta. Sul pianerottolo c’è un’altra volta Fabio e dietro di lui uno che Alessandro non riconosce. Uno magrolino, riccetto, col maglione. Corte d’assise di Roma, gennaio 1990. Deposizione di Ricci Alessandro. “Alle 17.35 del giorno del ritrovamento arrivano il canaro e Fabio. In casa c’ero io, mia cognata ed altre 5-6 persone, oltre a due poliziotti che aspettavano Orlando per portarlo in Questura, dove proprio il Questore lo rivoleva perché prima aveva rilasciato una dichiarazione e poi detto un’altra cosa ai giornalisti (si riferisce al fatto che alla Mobile, di mattina, Orlando aveva detto di non avere idea del perché suo fratello fosse stato ucciso, mentre adesso tra i giornalisti circolava voce che lui avesse parlato di una rapina come movente, N.d.A.). Suonano. Vedo questi due appoggiati alla porta. ‘Che c’è?’ Chiedo. ‘No,
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cerco Orlando, perché oggi gli ho detto una cosa, quella della rapina, che non era vera’ risponde Fabio. Io faccio: ‘Non lo so, è andato dalla ragazza, quando viene glielo dirò che l’hai cercato’. E quelli allora: ‘non fa niente, grazie, buonasera’. Ma gli altri che stanno in casa si affacciano alle spalle di Alessandro e devono essere davvero poco convinti della scena, deve sembrargli strana forte se arrivano a dire ai due poliziotti: “ma chi sono quelli, vedete chi sono!” In effetti sono rimasti tutti stupiti: sia per la scarsa delicatezza della visita, sia per il voltafaccia di Fabio nel cambiare versione. È così che gli uomini in blu – gli agenti Gaeta e Catania – escono e identificano quei due. Carte d’identità alla mano, risultano essere Beltrano Fabio e De Negri Pietro. Ma com’era De Negri, che diceva? Corte d’Assise di Roma, 7 febbraio 1990. Deposizione di Gaeta Mauro. “Parlava confusamente, era agitato, strillava, diceva che non era vero che Ricci era morto e parlava della storia di uno stereo. Anzi, insisteva che noi a Ricci lo volevamo proteggere. All’inizio se ne andò, poi dopo venti minuti tornò, calmissimo e disse: ‘Allora è vero che Ricci è morto, l’ho visto alla televisione, ma allora è vero?’ Noi però non gli stavamo molto appresso, perché era più un fastidio che altro”. Dopo un tot, però, Orlando torna in via Vaiano. Il padre gli spiega che lo stanno aspettando in Questura, e pure – pensa te – che poco fa sono passati quei due che lo andavano cercando e perché e per come. Insomma, la storia della rapina che adesso non è più una rapina. Anche se resta una faccenda confusa, poco chiara. Non resta che richiamare quelli della Questura per dire: cessato allarme, la rapina sembra che non c’entri nulla. È Orlando a fare questa seconda telefonata, solo che alla Mobile non la prendono proprio bene: “Ma che state dicendo? Qui Orlando prima fa una dichiarazione e poi ne dice un’altra!” È Alessandro, il padre, a prendere la cornetta: “Non è così” spiega “è Fabio che ne parla. Chiedetelo a lui”.
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Ormai però il casino s’è creato. Ed è così che Orlando deve tornare alla Mobile, insieme ai due agenti che lo stavano aspettando da prima. Ci resterà fino a tarda sera. È solo a quel punto che fa il nome di Pietro De Negri e di Fabio Beltrano e racconta meglio tutto quello che Fabio gli ha raccontato poche ore prima: le chiavi, i calabresi, insomma tutta quella storia lì. Senza dire, però, che i due sono passati a casa sua anche nel pomeriggio: forse non gli sembra importante, chissà, comunque la faccenda non esce fuori. Rimarrà un dato sconosciuto, senza importanza, fino al processo, due anni dopo. Una cosa, che lo ha colpito, però la dice. Orlando dichiara che quando andò da De Negri ebbe una strana sensazione. L’uomo inveiva esageratamente contro di loro, che in fondo erano andati solo a chiedere notizie. Era troppo agitato: per cosa, in fondo? E insisteva con Fabio: “Tu ricordati di riportarmi lo stereo”, mentre l’altro gli rispondeva “non mi mettere in mezzo”. Nel frattempo la Mobile ha fatto scattare una bella retata di tossici e pregiudicati del quartiere: sono più di ottanta. E ha iniziato a spremerli. Tra loro ci casca anche Fabio. È notte alta, sono le tre del 20 febbraio, quando mette la sua firma sotto il verbale intestato “Questura di Roma”. “Ecco che ci siamo Fabio, questo era tipico degli anni ’80, quando succedeva un fatto importante si dovevano trovare i testimoni” fa Armando. “A quell’epoca c’era sicuramente una rete d’informatori, che al giorno d’oggi è meno estesa, ma si vede che comunque non era riuscita a dare qualche elemento importante per risolvere il caso. E quindi via, si getta una rete fitta e si prendono quelli della zona che hanno avuto problemi di giustizia. Altri tempi”. Squadra Mobile di Roma, 20 febbraio 1988. Deposizione di Beltrano Fabio, nato il 04.03.1965. “Ero in piazza Certaldo, al bar, l’altro ieri, quando è arrivato il Ricci e mi chiese di fargli compagnia e anche dei soldi per farsi di coca. Al mio diniego cominciò a chiedere in piazza, tra i presenti, se c’era qualcuno con del denaro per acquistarne un ‘pezzo’. Avendo risposto tutti negativamente, chiese a me se l’ac-
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compagnavo. Andammo a casa sua e mi fece vedere dei componenti di uno stereo, che voleva vendere. Prese dei soldi. Mentre lasciavamo casa io gli chiesi da chi avrebbe acquistato cocaina e lui rispose: dal canaro. Mi disse che si riforniva lì di coca”. E poi, che avete fatto? “Arrivammo al negozio del De Negri, che non conoscevo, e ci fermammo 50 metri prima della rientranza. Da lì non vedevo il negozio. Lui entrò e mi disse di aspettare fuori. Erano circa le tre meno dieci e nel fare questo lasciò le chiavi nel quadro. Io attesi in auto per circa un’ora, un’ora e venti”. E tu non hai fatto niente, hai solo aspettato, così? Chiede uno dei funzionari. “Aspettai e poi cominciai a passeggiare davanti al negozio”. La macchina da scrivere riprende a ticchettare nella stanza. È tardi. “Ritornato alla macchina, vidi arrivare il De Negri alla guida della sua automobile, che accostò. Gli chiesi se aveva visto il Ricci e mi rispose se l’avevo visto io. Risposi che l’avevo solo visto entrare da lui e che anzi se lui poteva dirmi dove fosse. Allora De Negri prima mi chiese notizia di uno stereo che a suo dire Giancarlo gli aveva rubato e poi mi disse che Giancarlo doveva dargli la stecca (quota di bottino, N.d.A.) per una rapina fatta insieme”. Un momento. Una rapina? Continua, gli dicono. “Disse che, dopo averla fatta, il Ricci era scappato dalla finestra sul retro e che lo cercava anche lui. Poi si allontanò per andare a cercare Giancarlo e quando tornò, dopo dieci-venti minuti, mi disse: tutto a posto, ho visto Giancarlo in una 500 bianca. Aggiunse che si erano chiariti e, da parte del Ricci, che io dovevo posteggiargli l’auto sotto casa e che il Ricci stesso sarebbe tornato a casa alle 22.30. A quel punto, io mi recai con l’auto di Giancarlo in piazza Certaldo, attesi un’ora e andai a posteggiare l’auto in via Vaiano”4. E qui Armando scuote e scuote la testa. Proprio non gli torna, ’sta storia. 4 Strano. Dichiarerà Alessandro: “Beltrano disse a mio figlio Orlando che De Negri gli aveva dato le chiavi alle 18-18.30”. Se è vero, che ci faceva Beltrano col canaro a quell’ora?
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“Ma ti sembra tutto lineare? Beltrano è un tossico della zona e non conosceva De Negri, che già aveva una bella fama di spacciatore? Vediamo i punti salienti della sua deposizione: non conosceva il canaro ed ha parcheggiato circa 50 metri prima del negozio. Continuando con la deposizione, ci racconta che gli si accostò un’automobile con alla guida De Negri e gli chiese se aveva visto Ricci. Ma come, Beltrano non conosceva De Negri e ci si mette a parlare? Non solo, visto che non si conoscevano De Negri gli dice di non sapere dove sia Giancarlo ed aggiunge che, per una rapina fatta insieme, Giancarlo gli doveva anche dare una stecca. Cioè, dice tutto questo ad un perfetto sconosciuto! Poi De Negri indica a Beltrano dove mettere l’automobile e gli dice che il pugile sarebbe tornato a casa verso le ore 22.30: ma come faceva a dirlo, se nemmeno sapeva dove era andato e lui stesso lo andava cercando? Fabio, questa deposizione è allucinante. Se la mettiamo insieme con l’altro episodio di quando il giorno successivo, nel tardo pomeriggio, De Negri va a casa Ricci con Beltrano, ne esce un quadro davvero allucinante. Il tutto non torna, ne convieni?” Mi fermo a pensare. Sembra che Beltrano sia diverso da quel che sembra. Il suo profilo è un altro, adesso. Ma torniamo al suo interrogatorio. E le chiavi, che c’hai fatto con le chiavi? Fa un’altra voce. “Fui io a riprendere la macchina la mattina dopo: dovevo andare in ospedale, dove ero in cura. La presi che erano circa le 11. Ricordo che quel pomeriggio del 19 febbraio (è il giorno del ritrovamento di Ricci, N.d.A.) mi trovavo a piazza Certaldo quando si presentò il De Negri, tutto incattivito, che rivoleva la radio e voleva andare a casa di Ricci a chiederla e io allora gli dissi: guarda che non è il caso perché è morto. Ma De Negri insisteva: no, è una storia che vi siete inventati per non ridarmi la radio. Non volevo accompagnarlo ma lui insistette e andai con lui, restando per le scale. Parlò solo De Negri e quando tornò indietro mi disse: allora non era una bugia, comunque a me di questa radio non mi importa più niente”. Ma non gli avevano chiesto i documenti, i due agenti? Questo particolare non se lo ricorda più, quando depone in Questura? La porta del corridoio della Mobile si chiude dietro Fabio
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Beltrano, alle tre di notte. Fabio, che qualche ora prima aveva confidato ad Orlando, e poi smentito ad Alessandro, la tesi della rapina. Ma che adesso la tira fuori in pieno, di nuovo, chiamando in causa De Negri. Miracoli di un buon interrogatorio, vero? A questo punto della notte, i funzionari rimasti nella stanza, esausti e stanchi, possono almeno tirare fuori dal pacchetto ed accendersi l’ennesima sigaretta. Hanno un nome nuovo: Pietro De Negri. Cercano il suo fascicolo. Prima avevano solo un omicidio. Ora anche una rapina. Poche ore dopo – mentre su Roma sorge il livido sole del 20 febbraio 1988 – le prime mani che sfogliano “Il Messaggero”, intanto, si sporcano con l’inchiostro fresco ed una storia nera. Il quotidiano continua ad interrogarsi sul senso oscuro di questo delitto.“La posizione in cui è stato trovato il cadavere riconduce ad un incaprettamento, mentre i precedenti di Ricci per droga fanno pensare ad una vendetta maturata in quell’ambiente”, così c’è scritto. Torna fuori la storia della gambizzazione di Ricci, avvenuta il 16 maggio 1986, con due colpi di pistola. Due spari nel classico stile col quale alla Magliana si risolvevano i problemi: quelli dei fratelli Giuseppe e Sergio Ferraro, per una storia, si racconta, di droga presa e non pagata. Una delle tante storie successe in via Vaiano. Insomma, è anche per questo che sulle prime si parla di vendetta. Di sgarro nel mondo della droga. Nella stessa pagina però interviene Silvio Merli, che è docente alla Sapienza, di Medicina Legale. Un luminare. E Merli dice una cosa di cui dobbiamo ricordarci, che è come mettere una specie di “post it” giallo su questo racconto: “Se fosse stato per uno sgarro, la reazione sarebbe spropositata. C’è invece un insulto al cadavere, un disprezzo verso l’onore di chi viene mutilato sessualmente”. E siccome si parla anche di vendetta della criminalità organizzata, Franco Ferracuti, altro luminare (ma della criminologia), aggiunge qualche rigo più in là che “La tortura è estranea alla cultura mafiosa”. Non sanno, nella redazione di via del Tritone, che nelle lunghe ore della notte è successo qualcosa. È così che nelle indagini, guidate dal capo della Mobile Rino Monaco e dal dirigente della Omicidi Antonio Casini, entra il dirigente dell’antirapine, il commissario capo Antonio Del Greco.
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Capitolo 4
Er Canaro
De Negri abita a cento metri da via Vaiano, praticamente girato l’angolo, in viale Vicopisano. È nato vicino Cagliari nel 1956. Sposato, ha una bambina di 7 anni e qualche precedente per furto, oltraggio a pubblico ufficiale, violazione delle norme sulla circolazione stradale. Insomma, niente di speciale. Uno così, alto un metro e sessantanove per sessantanove chili. Ha i capelli ricci, corti, e sopracciglia spesse, nere. Vanno a prenderlo. È la mattina del 20 febbraio 1988, due giorni dopo il ritrovamento di Giancarlo, quando Pietro De Negri entra negli uffici della Questura per essere interrogato in merito alla rapina. Di questo parla e non altro: della rapina, organizzata ai danni dello spacciatore che lo doveva rifornire quel giorno e avvenuta, dice, alle 15. Perché questo lo ammette. Ammette di avere iniziato a spacciare cocaina da qualche mese, di usarla lui stesso. Dice che ha proposto a Ricci di rapinare insieme il tizio, il grossista che veniva a rifornirlo: Giancarlo doveva solo nascondersi nel suo negozio, uscire fuori a volto coperto, di sorpresa, colpire tutti e due, rubare i soldi del grossista – che sarebbe arrivato lì alla fine del suo giro, imbottito di soldi – e squagliarsela. Dice che Ricci non sapeva niente di quest’idea, prima di entrare oltre la porta del “Mambli”. L’aveva scoperto così, al volo, quando era andato a prendere la coca da De Negri e altrettanto al volo aveva fiutato l’affare ed accettato. Quanto al famoso siciliano, De Negri lo descrive di 40 anni, dall’aspetto truculento. E aggiunge che, peraltro, aveva pure riconosciuto Giancarlo, nell’attimo in cui era saltato fuori dal suo nascondiglio. Così è andata, dice il canaro, e dove sia finito dopo, Ricci, beh questo lui non lo sa proprio. Che chiedano a quel siciliano. Sarà stato lui, no?
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A dire il vero, però, non parla solo di questo: insiste su una cosa che stona davvero, che davvero è fuori contesto. Dice che Ricci gli ha rubato lo stereo (aridaje!) il mercoledì sera, cioè il giorno prima della rapina. Che il giorno dopo, quando è andato da lui, gli ha chiesto 100.000 lire per riaverlo. Ma la polizia non è convinta che il siciliano si sarebbe mai presentato da solo ad un appuntamento del genere. Specie se – è lo stesso De Negri a dirlo – era la prima volta che si incontrava con il canaro. “Strano che Giancarlo si fosse messo a rapinare uno che poteva riconoscerlo; e stranissimo, soprattutto, che, se fosse andata così, dopo aver massacrato Ricci per vendetta, il siciliano ed i suoi avessero lasciato vivo un teste pericoloso come De Negri, no?” Mi dice Armando, come emergendo dai suoi pensieri. “Niente da dire, giusto. Proprio giusto. Infatti, guarda qui… dove l’ho messo?” Dal mucchione di fogli di carta dello zaino tiro fuori un foglio che una macchina da scrivere elettrica ha battuto molto, molto, molto tempo fa. Corte d’Assise di Roma, 25 gennaio 1990. Deposizione di Casini Carlo, dirigente Squadra Omicidi. “… Esatto, noi glielo contestavamo perché uno spacciatore che va in giro con un etto di roba non si avventura in un negozio senza conoscere preliminarmente De Negri, cosa che non era. E poi, se era stato questo siciliano a fare fuori Ricci, perché si sarebbe dovuto vendicare solo su di lui e non anche su De Negri?” Sulle prime la faccenda tiene. Elementi contrari non ce ne sono. Anche perché certo, per come hanno ritrovato Giancarlo si potrebbe pensare ad una vendetta di qualche organizzazione criminale – non la Banda della Magliana, ma qualcosa tipo mafia o camorra, che a sua volta riforniva di droga quelli della Banda. Ma, nello stesso tempo, qualcosa non torna. Una rapina, va bene. Diciamo che è stata solo una rapina. Che il corriere se l’è
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presa. Ma per una cosa del genere non si massacra così il colpevole. Per una cosa come questa la legge della malavita dice che vai in quattro e lo pesti; che gli spari alle gambe. Solo che il 20 febbraio 1988 questa è l’unica pista, a quel momento. Quella meno lontana dalla realtà. La pista della mafia, della droga. Ricci era uno impulsivo, uno che partiva de capoccia, poteva aver urtato qualcuno col suo modo di fare. Anche Olga Capasso, il magistrato che s’è trovato nella discarica di via Belluzzo, se ne ricorda: “Pensammo come prima cosa ad un regolamento di conti”, dice. Però no, c’è sempre qualcosa che non torna. C’è sempre troppa sproporzione. Solo che De Negri ripete sempre la stessa storia. Le ore passano e si fa pomeriggio: ma il tosacani non si sposta di mezza virgola. È stata una rapina, Ricci s’è nascosto, l’ha aggredito, ha colpito anche lui, è scappato, non so dov’è.
Pietro De Negri
Corte d’Assise di Roma, 25 gennaio 1990. Deposizione di Casini Carlo, dirigente Squadra Omicidi.
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“... Allora tornammo nel negozio, ci andò Del Greco e guardando bene trovò delle tracce di sangue. In particolare ci colpì che la macchina di De Negri era tutta sporca, tranne il bagagliaio... dove la moquette era stata lavata. Nella perquisizione dai Ricci trovammo poi pezzi di stereo che erano quelli rubati a De Negri. Sotto un telone, in terrazzo, c’erano vari amplificatori, equalizzatori, piastre...” A questo punto, dobbiamo davvero andare in un posto. Ormai è pomeriggio. Roma si distende intorno a noi, dai palazzi fino ai campi verdi ai confini della città. Mentre siamo per strada, Armando ferma la Vespa proprio davanti a dove si trovava “Mambli”. Siamo in via della Magliana 253. “Beh, che c’è? Ci siamo già stati”, grido da dentro il casco. Amando si gira di scatto e mi fa: “Aspetta, c’è l’ennesima cosa che non torna, vedi dove si trova via Vaiano? Qui dietro”. Sì, effettivamente stando sul posto si capisce realmente di quali luoghi stiamo parlando. Via Vaiano, via Pian Due Torri, via Pescaglia, tutti nomi che si ripetono senza senso a meno che non ci si vada direttamente. Da qui, invece, è tutto più chiaro. “Fabio, questa storia non mi convince proprio: un’automobile presa proprio qui, dove ci troviamo, che viene parcheggiata dopo 3 ore? Parliamo di nemmeno 200 metri di distanza, presa da qui alle ore 15 e riapparsa dopo le 18 in via Vaiano? No, dico: l’automobile di Ricci! Ricordiamoci il timore che incuteva in zona. Nessuno l’avrebbe utilizzata per farsi ‘una passeggiata’ con il rischio di riportargli magari qualche danno. Tutti sapevano quanto ci tenesse alla sua automobile. L’orario del parcheggio sotto casa ce lo fornisce la testimonianza della Gina, se ricordi: era stata sicuramente imprecisa riguardo la persona che aveva visto parcheggiare, ma chi ci dice che fosse imprecisa anche sull’orario in cui era stata parcheggiata?” “È un’altra delle cose che non tornano, anche perché lui non ha mai spiegato cosa abbia fatto in quelle tre ore. E forse non gliel’hanno nemmeno mai chiesto. Sono tante, le cose strane di questo Beltrano, eh?” Armando annuisce e ripartiamo.
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Il viaggio sul raccordo anulare è un’avventura. Dopo un paio di sorpassi di Armando siamo vivi per miracolo. Di più: come se non bastasse, un pullman c’ha mancati di un buon paio di centimetri e ringraziamo sempre Iddio per essere in Vespa, perché sennò a quest’ora staremmo già nominando tutti i santi nel più tragico degli imbottigliamenti all’altezza dell’Eur. Entriamo nell’atrio delle Partenze Internazionali di Fiumicino, dove abbiamo appuntamento con una poliziotta in borghese che ci scorterà negli uffici soprelevati della Polaria. Mentre stiamo salendo le scale, ci indica dei fori sul soffitto dell’aeroporto. Da sotto è impossibile vederli. “Sono le pallottole dell’attentato palestinese del 1985”, dice. Già, la strage dimenticata. E con gli occhi silenziosi, a me ed Armando sembra di rivedere i banchi della El-Al, quei cadaveri per terra, le chiazze di sangue, i bossoli sparsi dappertutto, i vetri in frantumi, la sicurezza israeliana che si guarda intorno con le pistole in mano, i nostri poliziotti che portano via uno degli attentatori. Entriamo in un ufficio, una grande stanza. Antonio Del Greco ha un’aria simpatica ed è appassionato di boxe da sempre. Adesso ha 60 anni e fa, da Questore, il Direttore della V Zona Polizia di Frontiera Fiumicino. Ha sotto di sé la sicurezza di tanti aeroporti e porti italiani. Dietro i baffi e l’abito elegante c’è un uomo che sta dal 1978 in polizia, che a Roma ha diretto la Buon Costume e l’Antirapina, dove si trovava all’epoca del delitto Ricci, per arrivare poi fino alla Omicidi. Poi eccolo alla Dia, in Questura a dirigere la Sala Operativa, a fare il Capo del Personale. C’è un grande tavolo da riunione – regolarmente ingombro di carte – c’è la parete dietro la scrivania tappezzata di encomi solenni (uno lo ebbe proprio per questa storia) e c’è il berretto da poliziotto, orgogliosamente poggiato davanti a tutto. “Ricci era uno che menava subito. Bastava che qualcuno lo guardasse storto e menava”, racconta. E poi che accadde? “La vicina di casa della madre di Ricci (la signora Gina, ricordate? N.d.A.) vide Beltrano parcheggiare alle 18.30 del giorno della scomparsa e ce lo disse, solo che
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l’aveva scambiato per Ricci: per cui sembrava che alle 18.30 di quel giorno Giancarlo fosse vivo. A quel punto la storia di De Negri reggeva e stavamo per fermarlo per concorso in rapina. Intanto risentiamo la donna ma adesso non era più certa che fosse Ricci: mah, forse, non lo so...” Ma De Negri, com’era De Negri mentre lo interrogavate? Chiedo io. “Era impaurito, scantonava subito e bastava avvicinarsi di scatto con la mano per fargli fare un salto. Non avevo mai visto uno così. Mai. Per questo motivo tra di noi ci dicevamo che era un cacasotto. Dopo 24 ore di interrogatorio Monaco mi chiese di provarci io a cavargli fuori qualcosa: loro erano esausti”. Le ore passano ed è notte. Quelli della Omicidi sono distrutti. Torchiano il canaro da ore e hanno sulle spalle tutta la fatica degli oltre ottanta interrogatori del giorno prima. Sono le otto di sera. Oltre la finestra è buio. De Negri è fermo come un disco rotto sulla sua posizione. Niente da fare. È allora che Del Greco ha un’idea, forse perché è più fresco degli altri. Armando lo guarda. E? “Un vigliacco come te non può essere stato, gli faccio. Allora ci guardò con aria di sfida. Cambiò voce: era una voce dall’oltretomba... non me ne dimenticherò mai”. Il poliziotto sentì che la vittoria era vicina. Il canaro divenne un fiume di parole, strette come i vicoli di Trastevere. La confessione di Pietro De Negri aveva inizio. “‘Ma se gli ho lavato er cervello co’ lo shampoo dei cani! So’ stato io a uccidere Ricci e l’ho pure bruciato. Ho fatto tutto io. Tutto. Tutto io ho fatto’. E parlò per un’ora. Fu un cambio impressionante. Raccontò tutto quello che era successo nel suo negozio, tutto quello che aveva fatto a Ricci. Eravamo a bocca aperta”. E mentre i minuti passavano, i poliziotti si guardavano in faccia, allucinati. Non capivano dove De Negri andasse a parare e soprattutto come fosse arrivato a quel tronco fumante nella discarica. Ma più il tosacani si inoltrava nel sentiero dell’orrore, più non riuscivano a credere a quello che sentivano. E capivano che il peggio doveva ancora venire. Quella che De Negri stava raccontando, infatti, era la storia di un massacro. Un massacro compiuto nel suo negozio ed andato avanti per ore ed ore su un uomo vivo. Tra gabbie, funi,
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tronchesi, gas, rabbia e sangue. E non si sa più quanta cocaina, perché De Negri aveva perso il conto di quanta se n’era sniffata. Del Greco storce il naso. “Ci sembrava però che alcuni particolari fossero impossibili, fossero le cose che voleva fargli … non quelle che aveva fatto. Dopo aver confessato però era cambiato: non era più spaventato. No”. Che idea s’è fatto di come andarono le cose in quel retrobottega, dottor Del Greco? “Io dico che se quelli del Siciliano volevano vendicarsi su Ricci gli avrebbero sparato, non lo avrebbero lasciato vivo come testimone. Non di più”. Sono le 23.10 del 20 febbraio. Un poliziotto porta via De Negri verso l’inferno. Monaco, Casini e Del Greco si guardano in faccia: mai visto niente del genere. E chi se l’aspettava che fosse stato il magrolino? Solo ora, ripensandoci, si accorgono che per tutta l’ora in cui ha parlato senza sosta è riuscito a non chiamare mai per nome Giancarlo Ricci. L’ha ucciso, torturato, mutilato, bruciato, così ha detto: ma alla fine, per lui, è solo “quello”. Un oggetto. È stato un fiume di parole che ha travolto tutti, come una liberazione, sì, ma una liberazione intrisa di un esibizionismo che si vedeva lontano un miglio. De Negri ha covato un odio sordo e nero contro Ricci, per le rapine a tanti tossici lui compreso, per essere un infame e per aver venduto alla polizia tanta gente. Così ha detto. Per le mazzate prese e lo sfregio alla sua cagna, che er puggile avrebbe fatto. E alla fine è esploso, come Charles Bronson ne “Il giustiziere”. Solo che non è film, santoddio, è la realtà. Ci vorrebbe un temporale, adesso, per allagare Roma e lavare via tutto il sangue, l’orrore, la morte. Ci vorrebbe un temporale e il rombo dei tuoni e i fulmini all’orizzonte, sui tetti. E quei lampi che per un attimo illuminano il cielo buio, sopra le cupole di queste mille chiese ferme nel tempo. Che lampeggiano, ma solo per il tempo di un respiro E poi un suono di campane lontane, che si rincorrono lievemente, a riportare, su tutto, la pace. Ci vorrebbe davvero; e non c’è. Non c’è redenzione nelle strade di Roma, quando sorge l’alba del 21 febbraio 1988.
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Capitolo 5
Il giorno dopo, alla Magliana
De Negri ha confessato a notte fonda. I quotidiani del giorno dopo non fanno in tempo ad andare in stampa con la notizia. Uscirà solo il 22 febbraio. La Magliana del giorno dopo è un quartiere sotto shock. Un quartiere che non vuole sentirsi Bronx. Per le strade, facce dure e facce normali. Gente che va al lavoro e ragazzi senza niente da fare in Piazza Certaldo. In giro c’è stupore: l’arresto di De Negri è una sorpresa di cui parlare mentre si torna con la spesa in mano. Fuori dai bar. Ma De Negri chi? Ah, quello dei cani! Chi ha un ruolo nel quartiere, il 22 febbraio si sveglia chiedendosi se poteva fare di più. Il comandante dei vigili urbani, Maurizio Necci, ad esempio: “Non stiamo qui a fare solo le multe, potremmo fare di più, perché in via Vaiano c’è anche tanta brava gente e sempre più spesso chiamano noi per dirimere le beghe”. Già, fare di più: ma forse nessuno ha davvero le idee chiare su cosa sia questo famoso “di più” che si potrebbe fare. C’è ostilità nell’aria, verso i giornalisti – e non solo forse perché chi scrive ha sempre l’aria di avere una cravatta, di essere parte delle istituzioni – ma anche perché la gente non si fida di tutta questa solidarietà pelosa, improvvisa. E tanto meno delle etichette facili. All’improvviso a Roma basta dire che sei della Magliana e ti senti messo sotto osservazione; e insomma, a chi qua ci vive non gli va di finire sui giornali solo quando c’è un morto. Di fare, tutti, la figura dei delinquenti, dal primo all’ultimo. Sentono un’attenzione sbagliata. Un marchio. E rispondono: ma quale Bronx! Qui non c’è il verde, non ci sono spazi di
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aggregazione, se chiami un taxi quello via Vaiano fa finta pure di non sapere dov’è… E c’hanno ragione, c’hanno. Alla Magliana non c’è un cinema, non c’è un liceo, un commissariato, un pronto soccorso. Per incontrarsi c’è il bar. E poi dice che la sera qui hai paura a stare in giro e ti chiudi a casa. Nessuna scuola superiore e, anzi, grandi battaglie (che sono rimaste nella memoria di queste strade, di questi marciapiedi) per evitare i doppi e i tripli turni. Un consultorio che funziona male e ha poco spazio, nessuna ludoteca. Dal Sat del San Camillo (l’attuale Sert, il servizio delle Asl per le tossicodipendenze) dicono che il 70% dei loro assistiti viene dalla Magliana. Quasi tutti gli uomini sono impiegati o operai. Ma anche artigiani, carrozzieri e parrucchieri. Qui c’è una sola linea per andare a Roma (per andare a Roma? Perché, dove siamo? Ma anche questo dà l’idea di quanto ne siamo lontani in tutti i sensi). Sì, la lotta tra il Bene e il Male sembra impari, qui alla Magliana. Ci vuole altro che la solidarietà. Il parroco si chiama don Pietro, il portone della sua nuova chiesa guarda in faccia lo spaccio di piazza Certaldo: ogni giorno. Dice cose semplici, ma come fai a dargli torto? “Io mi chiedo perché, se li conosciamo noi gli spacciatori, perché la polizia non può fare di più? È che adesso via Vaiano fa notizia, ma tra qualche giorno non se ne occuperà più nessuno”5. La chiesa, fino a qualche anno prima, beh, era un garage all’inizio di via Pescaglia: come a sottolineare la frontiera che queste zona rappresentava. Previsione azzeccata, don Pietro. Rimarrà l’immagine della fogna a cielo aperto, o quella di “Romanzo Criminale”. E in via Vaiano spacciatori e drogati faranno tutto come sempre, alla luce del sole, ancora per molto tempo. Perché questa strada non è solo l’epicentro del dramma che vi stiamo raccontando, ma anche il simbolo della Magliana stessa, della sua vita sotto il livello del fiume e del suo desiderio di risalire, riscattarsi. Riavvolgiamo il nastro del tempo. Rewind. Torniamo ai volti, alle voci, alle mani di quei giorni che guardavano in faccia la fine di febbraio 1988. 5
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“Il Messaggero”, 21 febbraio 1988.
Quelle della Biblioteca autogestita, ad esempio. Nel 1988 c’era dentro Pino Veneziano, psicologo: “È che i nostri modelli sono perdenti rispetto alla droga”. E a “Magliana ’80” che dicevano? Loro erano quelli della cooperativa che provava a togliere i ragazzi dalla siringa e dal buco. Una specie di trincea, di avamposto della speranza. Qui c’era Guglielmo Masci, che la dirigeva: “In questo quartiere altri dieci possono fare la stessa fine di Ricci. Lo conoscevo, da noi veniva una volta alla settimana. Aveva una personalità fragile, era fondamentalmente un immaturo, forte coi deboli. Era provocatorio, aggressivo”6. C’era Anna Iannotta: “Ma se in molte famiglie della via c’è tolleranza verso il furto, la microcriminalità, lo scippo, se i bambini parlano della violenza con ammirazione!”7. Non possiamo nasconderci dietro un dito. Se lo Stato s’era scordato di queste strade, se l’Istituto delle Case Popolari destinò proprio uno dei palazzoni della strada agli ex detenuti, poi era facile gettare la croce e dire che qui c’era l’inferno sulla terra. E poi c’era, a peggiorare le cose, la Banda della Magliana: i cui membri in quel 1988 si erano già abbastanza ammazzati l’un altro da fare meno paura, ma che comunque aveva ancora tre anni di vita davanti, prima di essere spazzata via da nuovi mandati di cattura e alcuni pentiti. Per tutto questo la gente, per strada, era livida di rabbia, non si fidava: le voci erano urla e le mani si muovevano con violenza nell’aria. Perché adesso sembrava che la Magliana fosse solo la fogna di Roma, il tubo in cui scolare tutti i rivoli neri della città. Va bene, proviamo a dare ragione a Necci, allora. La brava gente c’è. Ma dove è finita? Un’altra che ha preso la mazzata è Maria Paola, la moglie di De Negri. Pietro era andato via di casa nel settembre precedente, dopo che già da un anno le cose non andavano più bene: la loro era una separazione di fatto. La figlia di 7 anni, cui lui era legatissimo, era rimasta con la mamma, anche perché il padre s’era adattato a vivere nel retro del suo negozio di tosacani. 6 7
“La Repubblica”, 23 febbraio 1988. “Il Messaggero”, 21 febbraio 1988.
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Le parole di Maria Paolina finiscono su “Il Messaggero”. Sono l’altro lato dell’assassino. E anche un disperato bisogno di credere che non hai fatto una figlia con una belva. Seduti sulle panchine davanti la chiesa, Armando legge ad alta voce: “Non può essere lui, non sarebbe capace di un’atrocità del genere, anche se ha improvvisi scatti di rabbia ed è nervoso, forse perfino aggressivo. Se provocato è il tipo che può perdere la testa. Non è vendicativo, è profondamente buono. Lui non sa simulare, non è un furbo, è un impulsivo. Pietro è sempre stato un padre dolcissimo. Non ha mai fatto mancare niente alla figlia. Ci siamo divisi sei mesi fa, non andavamo più d’accordo come prima. E lui non è un tipo da mezze misure. Non ha neanche un amico, per questo: ha paura dei tradimenti. È un sardo tutto d’un pezzo, anche se parla romano. La sua unica vera amica sono stata io. Quando mi ha lasciata, dall’oggi al domani, per me è stata una botta tremenda, non me lo aspettavo. Ora dicono che spacciava droga: non ci credo. Lui era contro la droga. Il negozio rendeva bene ed era l’unico in tutta la Magliana. Avevamo un negozio di proprietà, una casa popolare in arrivo, un’auto, una moto. E poi era contrario alla droga, com’è possibile che fingesse? Quel Giancarlo Ricci non gliel’ho mai sentito nominare, in dieci anni di matrimonio. Finché è stato con me non mi ha nascosto nulla. Ora non so se qualcuna delle donne che gli ha fatto girare la testa lo ha trasformato pure in un drogato o uno spacciatore. Io so che nel condominio era benvoluto perché aiutava tutti, senza chiedere mai nulla. Si fermava l’ascensore? E lui lo rimetteva a posto. C’era bisogno di un idraulico? Ci pensava lui e gratis. Non è il tipo assetato di quattrini: non pensa all’eleganza o alle cose da comprare. È un tipo semplice, per dieci anni è stato tutto casa e bottega. Se qualcuno è riuscito a cambiarlo così profondamente, che arrestino lui: è il vero colpevole” 8. “È proprio vero – fa Armando, abbassando la vecchia copia del giornale – vediamo solo quello che vogliamo vedere. Ma sai che ti dico? Maria Paola ha detto, senza volere, anche 8
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“Il Messaggero”, 22 febbraio 1988.
qualcosa che più in là ci tornerà utile, per spiegare quello che è successo”. “E c’hai ragione – rispondo – non se ne è nemmeno accorta, ma tra le sue parole c’è la chiave di lettura. È sempre stata lì. Davanti a lei, l’unica che poteva vedere Pietro così da vicino”. Pietro De Negri è il quinto di nove fratelli. Due di loro ed il padre sono morti, la madre vive a Reggio Emilia con uno dei figli. Sorelle e fratelli sono sparsi tra Sardegna e Roma. Gli psichiatri che lo esamineranno dopo i fatti di via della Magliana 253 diranno9: “L’infanzia è stata caratterizzata, in tutti i racconti del periziando, da irrequietezza, instabilità, impulsività delle condotte, con grande labilità dell’attenzione. A questo sembra collegato lo scarso rendimento scolastico”. In collegio ce l’hanno messo dopo la morte del padre, ma non sembra essere stata una buona idea: Pietro fugge spesso. Fugge spesso e socializza poco. Da adolescente è un ragazzo “con accentuazione dei tratti aggressivi”. Prima di morire il padre aveva affidato tutti i suoi averi ad un amico che però se n’era appropriato, gettando in miseria i De Negri. Altri psichiatri completano il quadro10. A loro, Pietro ha detto che la madre era molto fissata con la religione. Che nel 1973 si sono trasferiti a Roma, dove lui ha finito la 3^ media. E con la scuola la pianta lì. Tornato allora in Sardegna, ha fatto il tornitore, l’elettrauto ed il falegname: è uno che con le mani ci sa fare. Al servizio militare si fa notare dai superiori per il suo bisogno di opposizione alle istituzioni ed alle norme. A questo punto Pietro fa il militare, ma lo congedano prima e lui si trasferisce a Roma. “Dopo il servizio militare l’inserimento nella vita civile e nel lavoro è stato improntato ancora da posizioni di isolamento narcisistico e dall’uso delle persone invece che da rapporti interpersonali, con sostanziale povertà ed isolaDalla perizia psichiatrica su Pietro De Negri, eseguita dai professori Francesco Carrieri e Adolfo Pazzagli. 10 Dalla perizia psichiatrica su Pietro De Negri, eseguita dai professori Franco Ferracuti – Cesare Fieschi – Leonardo Ancona – Silvio Merli. 9
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mento affettivo, tentativi di negazione del profondo senso di vuoto affettivo”11. Sente una gran solitudine, Pietro. E siccome con gli esseri umani non gli va molto bene, nasce questo grande amore per i cani. Per compensare. Solo che il suo amore per gli animali, probabilmente, finirà con l’aumentare il suo isolamento. Ed i suoi rapporti con gli altri “diventano sempre più caratterizzati come rapporti di potere, di potenza, di controllo o sottomissione”12. Non c’è pezza. Del suo delitto agghiacciante, senza motivi – non esiste motivo al mondo che giustifichi un massacro – ci balza ancora all’occhio la sproporzione tra le offese e la vendetta. Una distanza così esagerata da chiederci, davvero, se è tutto qui. Se le cose sono andate davvero come dice lui, s’intende. Non riusciamo a smettere di pensarci. Ma questa storia è intrisa del quartiere dov’è successa. Di queste facce che stendono i panni ai balconi, di quelle appoggiate alle porte dei bar, di quelli che non trovano mai il posto per parcheggiare e dei citofoni bruciati. E allora lasciamo un momento da parte gli psichiatri e torniamo a camminare sui marciapiedi della Magliana anni Ottanta. Brava gente, con la licenza di scuola media, operai e casalinghe che vivono la fine degli anni Ottanta in un quartiere che si porta addosso le stimmate della sua nascita, tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta. Numero tre milioni di metri cubi di stanze, messe su 42 ettari. 19.000 abitanti al censimento del 1971, 31.000 nel 1975, tanto per dare un’idea. Le strade di fango, le pozzanghere, i comunisti, la parrocchia. I maestri, insegnanti di una vita incomprensibile e inservibile: quando i bulli, per strada, ti insegnavano la ricchezza col minimo sforzo. E per loro i maestri erano nemici, cui rigare la macchina fuori la scuola. I maestri, che facevano i tripli turni nelle poche scuole di allora; e le famiglie a protestare per i casini, fuori. Un autobus solo, il 97, per raggiungere Roma: perché alla 11 12
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Dalla perizia Carrieri–Pazzagli. Dalla perizia Carrieri–Pazzagli.
Magliana negli anni Settanta eri a Roma e non c’eri, allo stesso tempo. Dentro e fuori. E, come dice bene un cronista di nera che la sa lunga, Massimo Lugli, “Per prendere il 97 bisognava essere o molto magri o molto aggressivi”. “Mi ricordo, Fabio, quante volte ho preso il 97… faceva capolinea su via della Magliana, nello slargo con via dell’Impruneta, a circa 100 metri dal negozio del De Negri. La cosa che più mi ricordo era il distacco che si percepiva quando percorrendo la strada, con l’autobus si lasciava piazza Meucci, quindi zona Marconi semi-centrale, e si giungeva nel quartiere. L’autobus faceva un tratto, costeggiato a destra da capannoni che si trovavano tra via della Magliana e la ferrovia ed a sinistra da piccoli edifici, la maggior parte abusivi, situati tra la strada ed il Tevere. Passato questo tratto, ecco che si arrivava ai palazzoni della Magliana. Il tratto che li separava era minimo. poco più di un chilometro, eppure si percepiva un passaggio netto”. Un quartiere che nel 1988 sconta ancora il suo peccato originale: essere nato sotto il livello del fiume. Un quartiere tirato su dai vari Marchini, Anzalone, Minciarone, Caltagirone, i palazzinari, nato in deroga alle prescrizioni del Piano Regolatore del 1962, con abusi edilizi che qualcuno calcola pari a circa un quarto dei circa 3 milioni di metri cubi di cui sopra. Palazzi costruiti sbattendosene dell’estetica e dei disgraziati che c’avrebbero vissuto dentro. Palazzi che buttavano le loro fogne nelle fosse biologiche che, diventate canale di scolo, gettavano tutto nel Tevere. Il risultato fu un quartiere umido, sovrappopolato ma sprovvisto dei servizi più elementari, dove le fogne erano a cielo aperto. Ovviamente, bastavano due gocce di pioggia perché le cosiddette fogne – se così si poteva chiamarle – non tirassero più. Ma anche perché non tirasse più nemmeno il terreno che, proprio poco più sotto, aveva una bella falda: risultato, pozzanghere perenni. Ed allora vedevi il parroco ed il segretario della sezione del Pci che si mettevano d’accordo, come nei libri di Guareschi, e organizzavano squadre di spalatori volontari. Sì, perché per edificare sotto il livello del fiume ai costrut-
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tori era stato dato l’obbligo di non fare i primi due piani, di mettere il primo a sei metri da terra, insomma. Ma loro se ne sbatterono altamente. Così, palazzi che dovevano essere di sette piani diventarono di nove e le cubature aumentarono quindi del trenta per cento. Un trenta per cento abusivo, perché, appunto, anche i primi due piani vennero edificati. Piani fantasma per gente vera: tanto non controllava nessuno. Andate alla Magliana, controllate dove sono i palazzi a sei metri da terra. Se ne trovate uno fateci un fischio, che arriviamo con la banda. Nel 1971 arrivarono nel quartiere più di duecento famiglie di baraccati del Borghetto di Prato Rotondo, tra Salaria e Nomentana. Non c’erano servizi per nessuno, ma a tutti fu data comunque una casa. Così cominciarono le occupazioni di alloggi sfitti, le autoriduzioni delle bollette. Una lotta per la casa durissima, che si è conclusa all’italiana, con seimila regolarizzazioni negli anni Ottanta. Ecco, se ci foste passati in quel 1988, avreste trovato palazzoni di bassissima qualità edilizio-architettonica, zero verde e servizi, auto spalmate dappertutto: ma il parcheggio come miraggio. Avreste trovato la gente a parlare fuori dai bar della Fiat Tipo appena uscita, forse, ma di molte altre storie no, non se ne sarebbe parlato. Non erano, quelli, marciapiedi su cui fare salotto. Cesare Casella era appena stato rapito a Pavia (sarebbe rimasto buttato in una buca per mesi e mesi), ma Pavia era lontana. Un altro paio di agguati di mafia a Palermo, va bene, ma Palermo stava su un’isola. Licio Gelli era appena stato estradato dalla Svizzera, ma lo sai te quanno lo condannano a quello! Piuttosto, i tossici li vedevi per strada. Nel 1988 circolava tanta di quella cocaina alla Magliana che – per dirla sempre con Lugli – “La gente aveva la proboscide al posto del naso”. Oggi siamo al contrario: di scuole ne hanno chiuse qualcuna, visto il calo demografico, le strade non si allagano più. E ci sono tante altre cose che ne fanno un posto profondamente diverso, cresciuto. Eppure qui ci sono anche, affogati e scacciati dai rettangoloni con le facciate a cortina, resti che per gli archeologi hanno un peso.
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Per esempio la chiesa di Santa Passera, che sta tra la riva destra del Tevere e via della Magliana, e sorge sui resti di un mausoleo romano. I primi mattoni, addirittura, li misero durante le persecuzioni di Diocleziano, per ospitare le spoglie dei martiri cristiani Ciro e Giovanni. E il Castello della Magliana? Nome a parte, è un’antica villa papale, vicino al Tevere. Non credo proprio che chi passi oggi per il quartiere se l’immagini, ma è stata a lungo residenza estiva dei pontefici già dal 1400. D’altronde stava in mezzo alla campagna. Dulcis in fundo, le Catacombe di Generosa, un antico cimitero situato su un’altura. Ma noi abbiamo bisogno di capire qual era il clima degli anni Ottanta, perché l’aria che respirava De Negri era la stessa di Ricci. Eppure uno è morto ed uno è vivo. Io e Armando freniamo la Vespa in via Vaiano, a pochi metri dalla casa dove abitava Giancarlo Ricci. Mentre si toglie il casco, Armando si guarda intorno e mi fa, piano: “Sai che ti dico? A ‘Magliana ’80’ si devono essere guadagnati il rispetto della gente, sennò li avrebbero fatti saltare in aria, all’epoca”. Qui ci aspetta Germana Cesarano, una delle animatrici di questa cooperativa, che aveva sede a 20 metri da casa Ricci, e che ancor oggi è il punto di riferimento per i tossicodipendenti che vogliono uscirne fuori. Seduti in un piccolissimo ufficio ingombro di carte, di fronte a dei ripiani sommersi di faldoni che hanno l’aria di venir giù da un momento all’altro, mentre i ragazzi dai volti segnati ogni tanto si affacciano gentilmente a chiederle qualcosa, ripensiamo alla possibilità che De Negri possa aver coperto qualcun altro o che non abbia agito da solo. Che possa essersi accollato il delitto di qualcun altro; o che se lo sia voluto accollare lui solo. Possibile? Germana, è vero che c’era molta omertà nel quartiere, all’epoca? “C’era, c’era – risponde – era difficile espiare il marchio di infamità. Eri segnato nell’ambiente, se lo facevi. Ecco perché ad un livello più basso era difficile per la polizia trovare collaboratori. Perché dopo, chi lo faceva, era isolato, non poteva più passare in certi posti, mentre chi se la cantava ad un livello più alto veniva protetto dalla polizia e quindi parlava più vo-
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lentieri. C’era, in pratica, un codice d’onore che imponeva di accollarsi un delitto e stare zitto”. E per quanto sia inverno, che strano, in questo piccolo ufficio io e Armando dobbiamo difenderci dalle zanzare. “Abituatevi – ci fa Germana – qui alla Magliana ci sono zanzare anche a dicembre, una specie autoctona che prolifica nel chiuso”. “Un gentile omaggio dei palazzinari, certo...”, sorride Armando. Per fortuna che altre cose sono cambiate, in questo quartiere. Prima Piazza Certaldo, che è a un metro da qui, che era tutto lo spazio rettangolare che stava davanti la chiesa; ora è solo la prima parte davanti San Gregorio Magno. Il resto è intitolato a Fabrizio De Andrè. Nel 1988, comunque, la piazza non era nemmeno tutta asfaltata, come oggi, e c’erano le buche. Solo a guardarla pensavi al degrado, a storie che non potevano finire diversamente. Intorno la piazza correva via Vicopisano e in uno dei palazzoni di via Vicopisano abitavano i De Negri, perché la Magliana è grande ma questa storia davvero è successa in pochi metri quadri. Vittima, assassino, scena del crimine: tutto lì, giri l’angolo ed è tutto lì. Lo spaccio, poi, in quel 1988, era dappertutto: non solo in piazza. Germana ripensa ad allora, ai tempi in cui fresca fresca scelse di lavorare qui. E comincia a ricordare. “Collaboravo con la cooperativa dal 1981, poi sono entrata in pianta stabile proprio dal 1988. C’era un consumo di droga massacrante dalla fine dei Settanta, nel quartiere, non c’era un servizio sociale o una risposta qualsiasi dello Stato. C’erano e ci sono 30.000 abitanti, ma non c’era il Municipio, c’erano invece case occupate e la Posta. C’era la Chiesa, due-tre sezioni dei partiti che si davano molto da fare, il Comitato di Quartiere, due scuole medie. Oggi sembra che questo quartiere sia la 34^ città italiana... Allora, invece, era semplicemente un quartiere sovrappopolato, era periferia: dopo c’era il Trullo e poi il nulla. Le case erano affastellate, non c’erano fogne, era il simbolo del degrado. L’origine degli abitanti era calabro-abruzzese, questi erano i dialetti che si sentivano, con difficoltà di comunicazione
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con tutti gli altri, quindi. C’era però, ricordo, la gentilezza di lasciare la macchina in doppia fila sì, ma a folle: così gli altri potevano spostarla, se serviva. Perché il parcheggio, semplicemente, non esisteva”. “E oggi? – fa Armando – abbiamo visto facce diverse, per strada”. “Beh, allora c’era tanto scippo e borseggio, ora non più”, risponde Germana. Erano senz’altro altri tempi, l’eroina dilagava in realtà per tutta Roma, il prezzo di una dose era uno stereo o quello che si trovava scippando una borsetta. Scippare era facile: i motorini, allora, erano tutti senza targa e quasi tutti con il motore truccato. Un ragazzo entra e ci porta tre caffè, e dopo una piccolissima pausa Germana continua:“Ora ci sono 7-8 chiese. Ma soprattutto sono cresciute le persone. Chi arrivò allora era un pioniere, gente eterogenea, adesso c’è stato un radicamento e quindi una rete di tessitura sociale. Molti immigrati però stanno sull’argine, in insediamenti abusivi che sarebbero fatali, in caso di piena del Tevere. Sono zingari, rumeni. Ma tanti altri fanno i negozianti. Oggi il quartiere è molto meno degradato. Ci sono tante nonne che mantengono con la pensione i nipoti, molta microcriminalità sotto traccia ed una povertà ancora diffusa, certo. All’epoca invece si è sentito così tanto il discorso della Banda della Magliana, che c’era chi, pur di non dire che abitava qui, diceva: abito a Portuense basso. Era il peso della stigmatizzazione, pensate”. Germana, Giancarlo Ricci veniva qui a Magliana’80? “Sì, veniva qui in comunità, faceva colloqui, io ci parlai tre giorni prima che morisse, è stata la prima persona che ho incontrato lavorando qui. Si faceva di eroina e mi disse che un giorno aveva fatto volare giù la tv dal balcone, che aveva litigato con la fidanzata”. Scaccio l’ennesima zanzara autoctona, alzo gli occhi dal Moleskine e le chiedo di De Negri. “De Negri non lo conosceva nessuno. I giornalisti, all’epoca, arrivarono qui con molto pregiudizio, stravolgevano quel che avevamo detto. Scrissero quello che pensavano già. Andò a
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finire che nessuno entrava più in cooperativa, perché noi eravamo quelli che avevano parlato male del quartiere…” De Negri disse che spacciava cocaina. Chi poteva permettersela, nel quartiere? “La coca? Allora era per i ricchi o per la malavita. Solo chi aveva i soldi poteva permettersela. Nel quartiere, comunque, si dice che lui non poteva aver fatto tutto da solo”. È ora di pranzo ed anche di parcheggiare davanti al civico 253. C’è un bar, adesso, dove stava “Mambli”. Dietro la porta bianca e vetrata c’è un piccolo spazio luminoso in cui non esiste traccia di ciò che accadde tra quelle mura. Una cosa è sicura. Germana ci ha ricordato una cosa di cui avevamo già sentito. Nel 1988, nel quartiere, erano stupiti tutti che fosse lui l’assassino, il mingherlino e innocuo tosacani che solo a quel punto, e per tutti, divenne, grazie a un titolo de “Il Messaggero”, il canaro. Eh sì, perché l’assassino è con tutti un tipo gentile, uno che chiede sempre “per favore”. Il pizzettaro di via dell’Impruneta13, una delle grandi vie del quartiere, che fa angolo con via della Magliana, dice quello che in molti pensano: che si è solo preso la colpa, ma che non è stato lui. Troppo mingherlino: come poteva torturare, uccidere così e portarsi via il corpo? Insomma, per molta gente del quartiere Pietro non è il colpevole, o per lo meno non è il solo. Ma, se De Negri passava inosservato, non era così per Giancarlo Ricci. Le sue corse in moto su via dell’Impruneta le vedevano tutti. Il pizzettaro ricorda bene che, quando aprì il negozio, Ricci era andato lì a dirgli che, se avesse avuto dei problemi in giro, poteva chiamare lui. “Credeva di essere il capo del quartiere. Insomma, se l’è cercata”. Ma da fare il bullo a finire in una discarica ce ne corre: cosa è successo in quel negozio al 253 di via della Magliana, allora? 13
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Da “Repubblica” del 28 ottobre 2005.
Perché forse le cose non stanno come sembrano. Vincenzina e Alessandro sbiancano quando vedono le foto di De Negri stretto tra i poliziotti che lo portano in galera. Uno riccetto, magrolino: possibile che è lui, possibile che proprio lui ha ucciso nostro figlio? “Dovevano esse almeno in quattro!”, dice Vincenzina. La domanda ci sta tutta. Ci sta tanto che ancor oggi non si sono rassegnati all’idea che sia De Negri l’assassino. E hanno continuato a cercare quello vero. Perché diverse cose non tornano, in questa storia. D’altronde, i primi dubbi ai miei colleghi, nel 1988, vennero subito. Passati cinque giorni dal delitto “Il Messaggero” li affilava tutti insieme. Eppure gli investigatori confermavano, dicendo che la confessione era verosimile, punto per punto. Sì, ma allora perché sulle prime sembra che non ci sia sangue nella gabbia? Perché non ci sono tracce di benzina nel negozio? La gabbia, poi, che avrà un ruolo centrale in questa storia, è integra ed è ben possibile che la minuziosa descrizione dei fatti firmata da De Negri sia stata ingigantita dalla cocaina: è il dubbio di Fiorenza Sarzanini. “Fabio – Armando entra in scivolata nei miei pensieri – vediamoci bene il fascicolo del sopralluogo nel negozio di De Negri, forse riusciamo a capirci qualcosa”. E tira fuori la copia del fascicolo, presa in Corte d’Assise, dal suo zaino senza fondo. A salvarmi, almeno per un attimo, arriva il vassoietto bianco con i numerosi tranci di pizza che abbiamo ordinato. Mentre aggrediamo quella con i peperoni e quella con la salsiccia ed i broccoli, Armando tira fuori tutti i suoi dubbi. “Il sopralluogo venne fatto il 20 febbraio alle ore 23, il giorno successivo al rinvenimento di Ricci. Intanto possiamo, finalmente, capire come era fatto questo negozio. L’ingresso immetteva subito in una sala d’attesa che, a sinistra, comunicava con un corridoio che portava al laboratorio e alla camera che utilizzava De Negri per dormire. Guarda la camera da letto, osserva bene le foto: confusa e in disordine al massimo grado. All’inizio ho pensato che vivesse in un vero stato d’abbandono, invece no. Quando la Scientifica entra nel locale, questi era già stato perquisito: oddio, non è che il canaro fosse un esempio di
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ordine, ma l’ambiente è stato proprio rigirato. Guarda questa immagine della sala d’attesa, non noti che il cuscino del divanetto è sollevato? Il personale della Squadra Mobile era entrato nel negozio ben prima di chiamare la Scientifica. Una procedura decisamente errata, al giorno d’oggi in cui la prova scientifica è sempre più importante un tale comportamento avrebbe comportato l’annullamento di eventuali successive analisi di laboratorio, basate proprio sulle repertazioni effettuate. E poi, leggi bene l’intestazione del verbale di sopralluogo, quando si elencano i presenti: oltre la polizia scientifica, c’è solo un Assistente della Squadra Mobile, ti sembra normale? Si sta accedendo ad uno dei luoghi più interessanti della storia del crimine e chi dirige le indagini non va a vedere com’era fatto? Stavano sentendo testimonianze e non vanno a verificare con i propri occhi se fossero compatibili con le ricostruzioni? Si, lo avevano già visto tutti, sicuramente. Ma adesso, Fabio, andiamoci a vedere la sala degli orrori. Ecco la descrizione: ‘media, rettangolare con estensione longitudinale’, non mettono le misure dell’ambiente. Invece si descrive in maniera maniacale la finestra posta sulla parete anteriore: ‘Detta finestra, il cui davanzale dista cm. 98 dal pavimento, è larga cm. 205, alta cm. 130 ed è protetta: internamente da due imposte di metallo con pannelli di vetro e maniglia a scatto, scorrevoli su guide trasversali; sotto la maniglia si nota un foro, nel quale si inserisce un chiodo che funge da sicura; esternamente, da una saracinesca di metallo a maglie trasversali, scorrevoli su guide verticali, munita di due serrature tipo Yale e di tre chiavistelli interni’. Ecco, evidentemente al momento del sopralluogo la Scientifica ha ricevuto delle indicazioni dirette da parte degli investigatori. Si sapeva già che la finestra era un punto importante della dinamica omicidiaria. Così, quando la scientifica effettua il sopralluogo, gli investigatori hanno già un quadro generale di come si erano svolti i fatti. Particolare importante è poi la documentazione dall’esterno della finestra: ‘Esternamente, nella parete sita sotto la finestra della sala da lavoro, a cm. 4 dal travertino che ricopre il
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davanzale, si rileva una chiazza di sostanza rossastra, lunga cm. 3 e larga mm. 4 che abbiamo asportato chiudendola in una provetta di vetro’.
La finestra sul retro del locale, dalla quale è stato fatto uscire il corpo di Ricci
Torniamo alla sala. L’ambiente non è pulito, tutt’altro, entrando in questa stanza rettangolare si hanno a destra le quattro gabbie che ospitano i cani e poi la vasca rettangolare, in muratura, dove veniva effettuata la toeletta. I piani sono cosparsi di flaconi, bottiglie e prodotti: ma andiamo a vedere le gabbie. Sono quattro, di cui le due centrali senza parete divisoria, e sono provviste di sportello in metallo con chiavistello. La parte superiore, degli sportelli, è costituita da una lamina interessata, come viene scritto nel sopralluogo, da piccoli fori tondi a forma di quadrifoglio, cioè per capirci di un pannello retinato per far passare l’aria, mentre la parte inferiore degli sportelli è pannellata in metallo. La terza gabbia, partendo da destra,
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presenta molti segni di strisciature interne, come se per esempio qualcuno abbia provato ad aprirla con i piedi, in particolare queste strisciature si riscontrano anche sullo sportello interno. Lo sportello ha una dimensione di 68,05 cm di altezza e 61 di larghezza, l’interno della gabbia – ti ricordo Fabio che l’ambiente di quella centrale è doppio – ha una larghezza di 125 cm. ed una profondità di 91 cm., insomma lo spazio non era piccolissimo. Questo manufatto che vedi sulle gabbie, è invece, una tubatura con il relativo motore di aspirazione: infatti, queste celle avevano un secondo scopo, tenere i cani in attesa e asciugarli dopo la toeletta. All’interno delle gabbie venne effettuata, allora, una campionatura delle strisciature e di una piccolissima imbrattatura di sostanza ematica presente su uno dei montanti. C’è una cosa curiosa, la pavimentazione rialzata delle gabbie è formata da assi di legno che poggiano su delle guide. Infatti durante il sopralluogo vengono anche tolte e, come vedi, viene fotografata anche la pavimentazione sottostante. Intanto mi risulta difficile pensare che queste assi, non particolarmente trattate, possano essere davvero pulite senza che gli eventuali imbrattamenti di sostanza ematica non penetrassero nella porosità del legno, rendendone difficile la pulizia. Ma c’è una seconda cosa che mi lascia perplesso... immagina una persona di grossa corporatura inserita nella gabbia. Scalcia, e segni riconducibili a pedate sembrerebbero esserci, poi si accorge che le assi, sulle quali è seduto, si muovono e che quindi avrebbe potuto toglierle semplicemente con le mani. Dopodiché soltanto mettendo i piedi sulla pavimentazione sarebbe riuscito a fare forza ed alzare tutta la struttura, che non sembra leggera, ma sicuramente alla portata di un ragazzone come Ricci. Da lì ad uscire o fare altre azioni sarebbe stato un gioco. Fabio... c’è sicuramente qualcosa che non quadra, in tutta la vicenda”. Armando riesce a mettermi sempre dei dubbi che non mi sarei aspettato. Ma nei giorni immediatamente successivi all’arresto di Pietro De Negri questi dubbi non ci sono. La versione
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del canaro è troppo spettacolare perché i giornali non la trovino vera. Così, passa. Viene amplificata; mentre tutto il quartiere fa la figura di un covo di banditi. Giorni dopo, c’è un’assemblea di quartiere in un ex garage di viale Vicopisano. Siamo nell’epicentro della Magliana, nell’epicentro del dramma. La riunione è talmente calda che le fiamme escono dalla porta, a guardare da fuori. C’è la deputata del Pci Leda Colombini, che se ne esce con un “Niente può giustificare un fatto come questo, neanche la vita squallida di un quartiere privo di tutto”. Una donna le grida in faccia: “Io sono orgogliosa di vivere alla Magliana!” Giancarlo, intanto, si trova al cimitero di Prima Porta. In una bara di noce chiaro. E aspetta che qualcuno gli spieghi perché. Ma la faccenda, ormai, già non è più romana. È finita sull’Espresso. Della serie: la droga dilaga in Italia e guarda che può succedere. Antropologi come Alfonso Di Nola a spiegare il mix devastante tra cocaina e soggetti psicolabili. Di più: il mix di pornografia, cinema violento e fumetti sadomaso, che può essere micidiale per chiunque come per De Negri. Un momento, Di Nola: la gente alla Magliana avrà anche la proboscide a forza di sniffare, ma non per questo il numero degli omicidi è aumentato. Con Armando, mentre ci portano le pizzette con le patate, facciamo un paio di telefonate per controllare quanto uccideva la droga a Roma, in quegli anni. E scopriamo che, dal 1980 al 1988, gli omicidi nati dalla droga, qui, sono stati 9. Tanti, pochi? Pochi, diciamo noi, se pensiamo che i tossici sui marciapiedi erano migliaia e migliaia. Tutti successi, peraltro, in altri quartieri: il più vicino, finito male, uno scippo carico di violenza: tutte idiozie che però eroina e cocaina facevano esplodere con la potenza devastante di una mina antiuomo. Intanto, il canaro sta a Regina Coeli. Modello “leone in gabbia”. E, nelle cartelle della sezione “Nuovi Giunti” – quella dove obbligatoriamente viene messo chiunque sia arrivato fresco fresco ar gabbio – scrivono che è carico di un’aggressività che stenta a trattenere.
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E noi ci allontaniamo in Vespa, nel traffico eterno come Roma, tra gli autobus arancioni dell’Atac, sgommando tra le auto in fila, lasciandoci alle spalle il quartiere, che diventa sempre più piccolo.
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Capitolo 6
Esplode il Memoriale
Olga Capasso è il magistrato che guida le indagini. È stata alla discarica, è stata nel negozio. Forse le sembra che sia tutto già molto chiaro. Oddio, la confessione c’è: niente da dire. “Può essere stato solo lui, perché nella confessione ha citato particolari di cui solo l’autore poteva essere a conoscenza, stando che le agenzie di stampa non avevano ancora detto delle mutilazioni alla lingua, naso, labbra e orecchie; perché lo stereo di De Negri veniva rinvenuto a casa di Ricci; perché ci sono le dichiarazioni di Beltrano Fabio che aspettava Ricci fuori; perché c’è una teste, Gabrielli Emma, che dichiara di essersi affacciata e di aver chiesto a De Negri come mai ci fosse quell’odore insistente di benzina che saliva su dal suo negozio; per la presenza di tracce di terra nella gabbia e di sangue sul davanzale”14. Insomma, c’è proprio tutto. E quando sembrava che ci fosse proprio tutto, per la gioia dei fratelli Madia che lo difendevano e che non ne sapevano nulla, De Negri chiese carta e penna e in cella si mise a scrivere. Si mise a scrivere un foglio, poi due, poi il terzo e poi ancora e ancora, fino a che non sentì di aver raccontato tutto, ma proprio tutto quello che c’era da dire. Era il 27 febbraio e la bomba esplose sui giornali qualche giorno dopo, anche se quei fogli erano solo per la Capasso. Un memoriale. Nel salotto di casa di Armando, mentre le polpette finiscono di cuocersi e la sera scende sulla città, sfogliamo quelle pagine. La grafia in più di un passo è incomprensibile, ma il documento è straordinario. Il 14
Dall’ordine di cattura firmato dal Pubblico Ministero, Olga Capasso.
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canaro ha raccontato tutto e soprattutto la sua vita, soprattutto quello che è successo prima, come ci è arrivato. Come ha vissuto, cosa ha pensato, tutto quello che lo ha fatto diventare un assassino. Eccolo, così com’è, con l’unica accortezza di aver tagliato il nome della figlia. “All’opinione pubblica rendendo chiaro il concetto per cui arrivai all’omicidio sotto indicato. Roma, 27 febbraio 198815. DE NEGRI PIETRO… sino a qualche giorno fa un nome come tanti... eccetto ovviamente per i conoscenti, ora non più. Con il mio demoniaco gesto, ho infangato un rispettato cognome che con tanti sacrifici il mio povero Padre ha sempre onorato. Come ben sapete i giornalisti si sono buttati a capofitto in questa tragedia. Non anno certo risparmiato sarcasmo. Ho letto di tutto su questi giornali. Ma tanto, non mi appartiene. Sia di cose dette da me sia per la classificazione datami. Sono perfettamente cosciente del mio macabro delitto e nello stesso tempo sono qui per assumermi tutte le responsabilità che fin d’ora ne conseguono. Riguardo la mia sorte mi sono già messo l’anima in pace. Capisco che questa è l’ultima cazzata. Ma non per questo l’opinione pubblica deve avere distorta l’immagine mia, per il sarcasmo ironico per l’inesattezza di qualche giornalista. Spero tanto che il Messaggero o altra immagine pubblica per intero pubblicare questo scritto. Più che altro per rendere più chiara la mia persona. Sento che Il Messaggero me lo deve. Ma diranno. Non sono uno stinco di santo. Ma sono leale, ho un gran rispetto di me stesso e rispetto tutti coloro che mi circondano ma pretendo d’essere rispettato. Nonostante tutto non nego le mie responsabilità nell’ammettere per esempio sia ultimamente a sprazzi e ripetutamente in passato. Io sono un lavoratore. Sembrerà strano ma io ho sempre lavorato. Ho fatto il falegname, l’idraulico, elettricista, pittore, meccanico, fabbro, muratore, tornitore... Io ho una Dal memoriale originale di Pietro De Negri, conservato agli atti dell’inchiesta. 15
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memoria fotografica, mi basta vedere una qualsiasi cosa e già la seconda, la terza volta riesco a rifarla meglio di chi me l’ha mostrata. Preciso che amo tanto gli animali, specie i cani, forse perché sono i veri amici dell’uomo. In quell’anno mi sono fatto una cultura medica anche in questo campo. M’affascinava osservare come per quanto malato mediante farmaci o interventi potesse godere nuovamente la sua sanità. Ho imparato a curare malgrado la mia ignoranza nel settore, aiutando i veterinari anche su interventi. Fino a quando mi rendevo conto d’aver imparato il veterinario stesso. Ho in seguito da solo fatto interventi chirurgici alle orecchie ed alla coda di tutte le cucciolate dei miei cani con sorprendenti risultati. Pensate che allevatori stessi o grandi veterinari tipo FATTORI MARCO stupiti dalla perfezione dell’intervento da me effettuato. Non nego le mie grandi soddisfazioni quando amici e conoscenti mi interpellavano per responsi medici. Ho salvato tanti cani e sempre gratuitamente. Solo per dare qualcosa agli altri. Ho dato tutto me stesso per gli altri e sempre non ho chiesto nulla in cambio. Quando mi circondo di gente felice io godo, sono felice anche io, anche se non ho soldi, non sono venale, malgrado tantissime volte specie in questo ultimo periodo sono stato costretto a tornare a rubare. malgrado ammetto che avrei potuto evitare di farlo, se avessi preteso da tutti i miei soldi, prestati in passato. Non riesco, mi vergogno a dire ad un amico che ho bisogno di riavere il mio denaro indietro. Anche perché ogni qualvolta che ci ho provato mi sono sempre sentito di aver ferito la loro dignità già umiliata per avermeli chiesti per problemi veri a cui come sempre non avevano ancora risolto. Però nonostante tutto non ho cambiato sistema anche perché tutto sommato era una mia libidine far sì che sempre gli altri dovevano a me e non io a loro. Tutti dico tutti quelli che mi conoscono con me anno sempre guadagnato in qualche modo. Se non finanziariamente, moralmente. Sì perché oltretutto sono appassionato per la psicologia”. Sono le parole di un uomo soddisfatto di sé, della sua vita. E allora proprio non capiamo come sia finito in quella mattanza.
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Se tutto andava bene, che bisogno c’era? Dov’è Ricci, in tutto questo? “Rammento di quante volte ho preferito evitare d’uscire e divertirmi con gli amici e amiche per dedicarmi a leggere un testo a me tanto caro di psicocibernetica. Ho imparato tanto da esso e mi è anche servito per aiutare moralmente tutti coloro che mi circondavano che ne avevano bisogno. Nonostante la mia terza media io ho sempre cercato di inculturarmi per me stesso principalmente per un mio orgoglio personale poi per gli altri. La mia soddisfazione è sempre stata quella di stupire chi erroneamente mi aveva giudicato male, stupendolo continuamente di tutte le mie molteplici possibilità di uomo”. Con Armando ci guardiamo perplessi: quest’uomo vuole dare a tutti i costi una magnifica visione di sé. Non gli basta dire di essere un lettore, riesce a tirare fuori una materia come la psicocibernetica “a lui tanto cara”. Da non credere. “Nonostante da solo riesca a fare di me una severa autocritica, mi accorgo di quanti errori continuamente faccio, tutte le mie contraddizioni. Ma ciò che ammiro tanto di me è la tenacia con cui cerco da sempre di correggermi sino ad arrivare all’eccesso. Per far sì che non sia mai io a sbagliare ma gli altri. Non sopporto di essere rimproverato o subire paternali. Ecco anche perché mi sforzo continuamente di non sbagliare. Preferisco rimproverare che essere rimproverato. È difficile che intraprenda una litigata con chi che sia se non sono certo d’aver ragione. Se mi accorgo che sono io in torto ho l’umiltà di chiedere scusa. Penso sia giusto farlo, non è certo un demerito. Nonostante mi pesi parecchio riesco a mettere da parte l’orgoglio e chiedere scusa. Rammento tanti anni fa il portiere dove ora non abito più attaccò la mia persona, non commento il motivo, io cercavo in tutti i modi di evitare anche perché poteva essere mio padre. Ma lui si approfittava di questo ed insisteva nell’offendermi fintanto che mi colpì talmente tanto nell’orgoglio che sfogai la mia rabbia dandogli un semplice spintone. Me ne andai
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lasciandolo continuare ad inveire. Qualche ora più tardi nel rientrare a casa mi sento afferrare dal figlio avvelenato contro di me per essermi permesso di colpire il padre. Rammento con quanta grinta sferrava pugni su di me che, inerme, neanche provavo a scolparmi a cercare d’evitare i suoi duri colpi. Mi spaccò un dente (per giunta cariato) ero tutto gonfio, ma mentre... lì subendo colpo su colpo capisco il suo stato d’animo, e lui in quel momento aveva ragione, perciò capivo che sarebbe stato inutile spiegarsi o discolparsi”. Che strana situazione. E che strano racconto. De Negri sembra quasi contento della potenza dei colpi subiti. Ma che razza di frase è “con quanta grinta sferrava pugni su di me”? Non sembra avercela con l’altro. È quasi orgoglioso della forza che aveva l’altro, di come lo colpiva... Riesce, anche quando ha un ruolo passivo nell’azione, ad apparire il migliore, al punto di tessere le lodi di chi lo malmena. “Solo dopo averlo lasciato sfogare ho spiegato la vicenda. Ci guardammo negli occhi. Stringendoci la mano e scusandoci avvicenda. Ancor oggi c’è un gran rispetto tra noi. Ho sempre ammirato il classico uomo d’onore per il suo codice morale di lealtà e fedeltà. Oltre fratellanza vera. Come dicevo io sono leale, pulito, non rincorro doppi scopi per un secondo fine. Ma non sono neppure un coglione. Io ho un mio codice d’onore e lo rispetto al massimo. Consiste in TUTTO. L’importante è non subbentrare nella libertà altrui. Rispettare tutti coloro che mi circondano senza mai tradire la loro felicità o amor proprio. Io sento il bisogno di sentirmi pulito con me stesso perché solo così. Sento di avere la carica sufficiente per sopportare tutte le avversità che specie in questo ultimo periodo non smettevano mai di lasciarmi. Circa 6 MESI fa mi sono lasciato con mia moglie lasciando a lei sia la casa che mia figlia XXXX. Amo molto mia figlia, ci sono attaccato morbosamente Dio solo sa quanto mi manca, specie ora che sono qui. Fino a prima della mia separazione posso dire che XXXX me la sono cresciuta io. Anche perché la madre poverina stava sempre lavorando al diffuori del lavaggio per cercare di
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incrementare i periodi morti del nostro lavoro. Non nego che tantissime volte quei soldi da lei sudati tantissime volte anno evitato che io riuscissi a rubare. Dovete sapere che circa 9 anni fa dopo essermi licenziato dall’ENEL dove tramite raccomandazione ero stato assunto, per non far fare brutta figura a chi mi raccomandò andai via perché schifato dalla meschinità di tutti coloro che prestavano servizio lì. Quando arrivai all’ENEL facevo il mio lavoro più quello di altri tre. ANCHE perché ero l’ultimo arrivato. Dato che complessivamente non era faticoso lo facevo volentieri. Ma quando vengo a sentire da uno di quei tre stronzi che sono raccomandato lì ho preferito per riconoscenza e per rispetto evitare dimettendomi su due piedi”. “Ah, ecco dove inizia a raccontare finalmente la sua vita passata. Vediamo un po’ che ha fatto prima”, dice Armando a bassa voce, “certo speriamo che sia un racconto un pò più realistico. Di come finisce il matrimonio nessun accenno. E poi, questo posto all’Enel… sarebbe il primo caso di una persona che si dimette da un buon posto pubblico perché lavora troppo rispetto a chi lo circonda...” “Sì, vediamo un po’...” gli rispondo. “Nel frattempo mia moglie rimane incinta di XXXX. Riesco a trovare un posto come rappresentante di formaggi presso la SEGGIARO ma nonostante tutti i miei sforzi l’introito non era sufficiente a soddisfare il fabbisogno quotidiano cambiai andando a lavorare presso la VIPITENO. ERO FELICE perché l’introito calcolato superava di gran lunga quello precedente. Feci una settimana di prova gratis mi alzavo alle 4 del mattino per stare lì alle 6. Ero sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Avevo preso questo lavoro con anima e corpo. Pensavo che a mia figlia non doveva mancare nulla perciò non pensavo ai sacrifici ed erano tanti. Pensavo che se mi avesse visto mia madre avrebbe stentato a crederci. Anche perché mi ha sempre definito uno scansafatiche. Nell’arco della mia vita ho sempre cercato di farmi capire ma non ci sono mai riuscito. Questo m’addolora tanto anche se fingo a me stesso di non
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pensarci. Finita la settimana di prova il padrone mi assume con un minimo fisso ed una percentuale. Malgrado non avessi nessuna conoscenza x i formaggi e salumi tanto che io rappresentante in precedenza lo avevo fatto per sei anni, ma di tuttaltro genere abbigliamento libri, AMC. REBA. Ma sentivo che con la mia carica e la mia chiacchiera avrei sfondato. Per mia figlia questo e altro pensavo. Mi mandarono in una zona (CASTELLI) dove da due anni non passavano per PRECEDENTI frodi fatte ai commercianti. In tre giorni ero riuscito a rabbonire i furenti commercianti che sfogavano su di me la truffa meschina della VIPITENO compiuta 2 anni prima. Ricordo mancava poco a Natale. Ero fiero di me stesso per via che nonostante la mia estraneità in materia avevo già al 3° giorno di assunzione alla VIPITENO superato l’incasso medio di ogni operaio che da 10 anni lavorava in quella ditta. Al 4° giorno durante il percorso tra Quarto Miglio e i Castelli l’ispettore (VECCHIO RINCOGLIONITO) comincia con tanti discorsi strani tipo sei simpatico al padrone in finale pretendeva che oltre il rappresentante dovessi fargli anche da ruffiano. E chiaro che lo mandato a fare in culo. Quel giorno tornando a casa dissi a mia Moglie ‘Paola io vado a rubare’ . Premetto che non lo avevo mai fatto prima eccetto una bici rubata da minorenne per la quale presi il perdono giudiziario”. Un momento. Vado a rubare, dice qui. Se la figlia ha 7 anni nel 1988, allora è nata nel 1981 e De Negri non dovrebbe avere precedenti prima del 1981. Eppure prima di quella data ha già due condanne per furto16. Altro che “non lo avevo mai fatto prima”. “Rimasi una settimana a pensare al tipo di reato da compiere perché dire vado a rubare è facile, ma cosa, a chi, come. Una settimana dopo daccordo con un gommista che mi acquistava le ruote cominciavo così la mia carriera delinquenziale. Il mio intuito era d’aprire un attività mia dove nessuno potesse dirmi cosa o che fare. Io dovevo e volevo essere il padrone. 16
Come risulta al Casellario Giudiziale.
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Dopo breve tempo finalmente riuscivo nel mio intento. Aprivo il mio Lavaggio PER CANI. Era un lavoro che amavo perché oltre ad avere la mia libertà, operavo su un campo a me congeniale. Aperto il negozio abbandonai definitivamente l’arte del ladro. Il mio sogno era realizzato. Rammento che dopo qualche anno, quando il negozio subiva un calo di lavoro, vedevo le bollette da pagare, accumularsi, l’affitto da pagare, la spesa da fare. Ero tentato di riuscire con la mia abbandonata arte criminosa. Mia moglie (Santa Donna) riuscì a farmi capire, che se l’avessi rifatto ad ogni difficoltà sarebbe stata sempre la solita e unica soluzione. Diedi retta alla sue sante parole e ammetto che superammo quei momenti senza bisogno di RUBARE. E proprio in questa circostanza vengo a conoscenza di questo RICCI GIANCARLO che mi si presenta con la scusa di lavare il cane”. “Ecco Ricci, Armà! Vediamo che dice”. “Dai, andiamo avanti”. Mentre Olimpia, la moglie di Armando, ci sostituisce nell’occuparsi delle polpette, giriamo pagina. La grafia accatastata di Pietro De Negri continua a raccontare. “Comincia con tutti discorsi alla lontana per tastarmi il polso poi comincia a chiarire dicendo che aveva bisogno del mio locale per fare un buco a quelli affianco per rubargli il vestiario (nel magazzino affianco al mio negozio) istintivamente lo mandai a fare in culo senza tanti preamboli. Quando mentre non curante di lui continuo ad asciugare il suo cane sento un cazzotto alla schiena che mi piega in due facendomi accasciare a terra senza respiro. Mentre sto lì accasciato ancora per terra, prima di cominciare a capire m’arriva una scarica di cazzotti dappertutto. Ci rivediamo presto mi dice con tono sarcastico mette il collare al suo cane e senza neanche pagare se ne va. Ancora sto lì, allibito e dolorante cerco di capire ma è tutto confuso. Andiedi al CTO dove riscontravano la frattura di una costola e mi ingessarono il busto. Mi vergognavo a far sapere di essere stato succube di uno stronzo infame. Raccontai per giustificare il mio stato d’essere caduto con il motorino da CROSS. Non sapevo cosa fare ma
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temevo quell’individuo. Qualche giorno dopo si ripresenta con quella faccia di cazzo sarcastico e cinico mi minacciava vendetta nel caso avessi parlato. Lo assecondai e non lo vidi sino a dopo essermi levato il gesso. Sarà passata più o meno una mesata. Riviene spavaldo al negozio sempre con il cane dopo essersi assicurato di essere soli mi comunica che aveva deciso di fare il buco il sabato perciò in quel giorno non avrei dovuto aprire il negozio. Avevo paura di contraddirlo ma con tutta la mia diplomazia riuscii a organizzargli il tutto dandogli la chiave per evitare oltre tutto di dover cambiare la serranda e la porta. Provai vistolo calmo a distoglierlo da questa fissa ma mi accorsi del suo diabolico sorriso. È NOTO A TUTTI IL SUO SORRISO INFAME CHE VIENE SEGUITO DA UN DESTRO PROFESSIONALE. IO NE SAPEVO qualcosa”.
Non è possibile. Lo ammira! Un destro professionale: ma se gli ha menato! Ci guardiamo, senza parole. Poi la storia è, come al solito, irreale. Armando sbarra gli occhi: “Ma come, non lo conosceva affatto e Ricci appena entrato nel negozio, che fa? Gli dice che gli serve il negozio per effettuare un colpo? Ma ti sembra una cosa logica?” “Allorchè cambiai tattica assecondandolo e finalmente non vedo più quel ghigno infame. Provocai un litigio con mia moglie e riuscii a far sì che andasse a Frosinone dai suoi con la mia XXXX, non volevo che la mia famiglia potesse in qualche modo venire coinvolta in questa vicenda. La notte del furto io, assecondando GIANCARLO con la mia moto vado a FROSINONE per avere il mio alibi. Avevo paura, malgrado mi avesse promesso la metà del bottino. Continuavo ad aver paura del suo modo di fare. L’indomani tornato a Roma dopo aver fatto con mia moglie scopro il furto. Nonostante provi a far l’indiano mi sento in merda nei confronti del derubato che d’altra parte è il mio padrone delle mura dove ho il negozio. Non meritava quel furto, anche perché era sempre stato buono con me aiutandomi all’inizio dell’attività da me creata. Però quando da lui ho sentito dire che non era neppure assicu-
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rato, ero tentato di raccontargli tutto. Preciso che io dal GIANCARLO non ho mai percepito la metà dei 110 milioni rubati al
mio padrone del locale. In seguito venni condannato a 10 mesi di carcere per via di quel furto che mi portò solo una costola rotta e tante botte. Quando lo rividi gli chiesi perché non mi avesse dato la mia parte promessa. Mi rispose che gli era stata rubata. Lo supplicai che a me servivano i soldi. E con fare arrogante l’amico mi rispose se nun c’hai er core de rubbà sfrutta quelle… donne che tieni a casa, mandale a spigne. A brutto rotto in culo gli dico avventandomi come una bestia su di lui. Sono accecato dall’odio e non curante più della sua forza tanto era il suono dei cazzotti che era chiaro che ero io a prendere poi non lo rividi più. (...) Avevo completamente chiuso con tutto ciò che di illegale poteva capitarmi. Mi comprai una moto a rate ero felice a mia figlia non mancava nulla, mia moglie era orgogliosa di me. Cosa potevo voler più di tutto ciò che avevo. Erano ormai trascorsi tanti mesi dall’ultima volta che vidi GIANCARLO quando un bel giorno si ripresenta in negozio. Non nego che alla sua vista mi sono sentito gelare. Avanzando verso di me con quel suo ghigno beffardo supplica un prestito di 100.000 lire. Ho paura io non possiedo quella cifra arrivo solo a 50.000. Lui più minaccioso che mai mi obbliga ad aprire il portafoglio, io acconsento dimostrandogli di non avergli mentito, ma lui s’accorge che in uno scompartimento avevo 400.000 lire. Provo a spiegargli che sono i soldi dell’affitto quando un cazzotto in faccia mi piega al suolo. Imperterrito più cattivo che mai mi sbatte il portafogli in faccia tenendosi le 100.000 iniziali, ma perché lo avevo imbrogliato sarebbe regolarmente passato tutte le settimane e se non gli avrei fatto trovare subito al suo arrivo le 100.000 sarebbero stati cazzi miei. Questa storia andò avanti per tre mesi. Gli dissi che sarebbe stata l’ultima volta perché sarei stato disposto anche a prendere le sue botte ma che lo avrei denunciato alla polizia. Cambiò atteggiamento facendomi capire che avrebbe messo fine a questa tangente ma se avessi avvisato la polizia non mi avrebbe fatto più vivere, non lo vidi più ma qualche mese dopo trovai la serranda forzata e in negozio violentato mi rubarono una camera professionale un te-
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levisore... pollici a colori e l’impianto stereofonico. Ero sicuro che era stato lui. Ma non potevo certo denunciarlo, tantomeno affrontarlo, immaginavo già la conclusione. Come sempre lasciai perdere. (...) Veniamo ai giorni nostri. 6 mesi fa mi separo da mia moglie. (...) XXXX comunque la vado a prendere tutti i giorni a scuola stiamo insieme e m’accorgo che non è più la mia XXXX. La sento più fredda. Sento che risente malgrado cerco di distrarla con regali e divertimenti dalla nostra separazione. Come oramai tutti gli anni da che ho aperto il negozio, il periodo invernale il lavoro mio cala al punto da pagarci a malapena le spese. Io che come economo faccio pena come sempre mi ritrovo scannato. Decido di tornare a rubare mentre sto rubando una macchina mi casca in mano da sotto lo sterzo un pacchetto, lo apro e trovo all’interno una busta trasparente con della polvere bianca e una bilancia con relativi pesi. Lascio perdere l’auto e porto via il pacchetto. Al negozio scopro che si tratta di un etto di cocaina pura. Mi informo come ricavarne introito ma avrei compromesso me stesso”. Un pacchetto? Sotto lo sterzo? Così, per caso? Sorridiamo. “Non avevo dimestichezza con questo stupefacente benché un paio d’anni prima di tanto in tanto lo avessi provato. Infatti misi 30 grammi in un posto umido dove trovai tutto squagliato. Capito lo sbaglio, comincio a vendere ad amici un grammo per volta. Comincio a vedere un bel po’ di soldi, copro tutte le bollette accumulate e comincio a calcolare che se avessi gestito bene quel ben di Dio non sarei più stato a rubare. Perché avrei potenziato il servizio a domicilio pagando un ragazzo avrei messo la vendita di tutti gli articoli per cani. Cominciavo a riaver fiducia nella mia buona stella quando riaffiora come un incubo ormai scordato GIANCARLO. Era venuto a conoscenza della cocaina. Nonostante negassi, lui mi minacciò di mandarmi le guardie. Ancora una volta acconsentii al suo ricatto, però mi feci pagare. Tutti i giorni regolarmente veniva al negozio pagava e io gliela davo. Il 25° giorno che ormai frequentava il mio locale gli dissi che non c’è l’avevo più anche perché tutti i tossici venivano al negozio e io lo stavo sfruttando.
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Mi promise che non sarebbe più venuto a patto che gliel avessi per l’ultima volta data. Come sempre acconsentii alla sua richiesta. Andò via, approfittai per portar via bilancino e le 30 bustine preparate. (...) Io dopo averlo scaricato vado ad accompagnare la mia fidanzata che mi stava aspettando a casa di mio fratello. Al ritorno lo incontro al semaforo e mi ordina 5 pezzi che avrei poi riscosso alla consegna. Rifiuto, comincia ad offendermi sempre più minaccioso. Come sempre acconsento. SONO LE 21.30. La consegna è per le 22 al semaforo. Incontro un mio amico che mi mette al corrente dell’ultima prepotenza di GIANCARLO. Dice di aver levato tutti i soldi e oro a un suo amico dopo esserci uscito insieme. Questo è un ragazzino avrà 20 anni l’ho intravvisto una o due volte. Rammento che quando ho sentito che è stato carcerato con una pistola mentre aspettava Giancarlo sotto casa, m’è dispiaciuto tantissimo, 5 minuti alle 22 io passo al semaforo ma lui non c’è. Passo e ripasso sino alle 22.05 poi decido di non dargli più nulla. Mentre vado a prendermi una birra incontro l’amico di prima che mi dice di aver visto Giancarlo passare il semaforo a tutta velocità. Non commento, saluto e torno al negozio. Quando arrivo trovo la porta spaccata, il mio cane tramortito a terra, sanguinava dalla testa e dalla bocca. Sento aumentarmi i battiti cardiaci. Dopo aver rimesso in sesto il mio amato cane, provo a rimetterla vicino ai cuccioli e noto che sbarellava, cascava, mentre cerco di stargli vicino carezzandola tutta, vedo il violentamento subito dal mio negozio. Mi aveva messo tutto a soqquadro, come fosse passato un esercito di vandali, non avevo subito un gran furto, riscontrai dopo alcune ore che rimettevo un po’ di ordine a quel disastro che mancavano 3 pezzi dell’impianto stereo, i telecomandi del televisore e del videoregistratore, ma nel televisore e nel videoregistratore aveva rubato. Avevo due ricetrasmittenti e me ne ha rubato una sola. Forse mi voleva chiamare per rivendermi il tutto. Ho cominciato a caricarmi (...). Volevo sbranarlo come non ha potuto fare il mio cane che ancora priva a rialzarsi ma cade come una pera sui cuccioli. Gli sento i battiti cardiaci, sono troppo forti, allora gli faccio una fiala di VALIUM endovena sento che comincia a calmarsi ma m’accorgo che forse anche io dovrei prenderla
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perché sto per esplodere. Approfitto del rilassamento del cane per cominciare a camminare su e giù per il negozio più avvelenato che mai. Mi rendo conto di non riuscire a pensare bene sono troppo agitato. Apro una bustina e senza neanche schiacciarla faccio 2 tiri. Ho le mani e le gambe che mi tremano. Sono agitatissimo, non so neppure io cosa fare, torno dal mio cane, noto che s’è addormentata, mi siedo accanto a lei e cerco di pensare ma non ci riesco e comincio a fumare, a far su e giù per il negozio e continuo a pippare a fumare una sigaretta dopo l’altra. Ho sete di vendetta, sono tutta una vibbrazione, non riesco a ragionare. Intanto verso l’una mi accorgo che ho già consumato 3 pezzi voglio vegliare su Jessy, allora vado via a prendere altra coca. L’ho presa tutta e portata al negozio. Il cane sta bene dorme provo a sdraiarmi sul letto ma quel bastardo me l’ha tutto bagnato. Giro il materasso è zuppo poi trovo sotto il letto il secchio vuoto. Era uno sfregio. Comincio a tremare dalla rabbia. Comincio a pippare come un pazzo non riesco a calmarmi lo vorrei aver lì per sbranarlo, vorrei sparargli. Capisco che sto sragionando e la migliore soluzione è dormirci sopra. Allora chiudo il negozio e dopo aver per l’ennesima volta controllato Jessy mi sdraio sul divano nella sala d’attesa. Passai così tutta la notte cercando come ammazzare quel bastardo. Rammento che all’alba ho un’idea per punire l’infame. Se sfrutto il mio cervello, alla forza di quell’essere immondo posso riuscire ad avere giustizia e più mi viene l’idea buona. (...) Cerco di mantenermi calmo, sono tutto pippato sento in me malgrado non abbia dormito tutta la notte una carica esplosiva. Sentivo che poteva tornare da un momento all’altro e solo all’idea le gambe mi ritremavano tutte. Nonostante tutta quella cocaina avevo una paura fottuta. Non sapevo cosa fare nonostante tutti i progetti fatti, comincio a dubitarne della riuscita continuo a pippare per caricarmi ma sento ancora tanta paura. Cerco di controllarmi, ma sento il bisogno di uscire ma mi sento sconvolto e non voglio che nessuno mi veda in quello stato allora immergo la testa dentro il lavabo dandomi una rinfrescata, mi sento meglio esco fuori dal vicolo e arrivatone alla fine vedo entrare Giancarlo con la sua auto. Penso sia
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superfluo descrivere la vibrazione mia intrinseca ed una paura fottuta. Mi faccio coraggio e gli vado incontro controllandomi al massimo per far sì che non si avveda e percepisca niente”. Il resto è il racconto di ore e ore di violenze inaudite. Di come il canaro ha convinto Ricci, appena arrivato, della possibilità di rapinare un corriere che stava per arrivare per consegnargli droga. Di quale fosse il piano: Ricci si sarebbe nascosto in una delle gabbie dei cani e sarebbe balzato fuori al momento opportuno. E così succede. Ma una volta dentro, De Negri mette mano al suo torbido piano. Lo chiude dentro. Lo inonda di benzina. Lo lega ad un gancio sul muro quando l’altro cerca di sfondare la gabbia e uscire. E riesce ad uscire dalla gabbia con tutto il busto, Ricci, giusto per farsi prendere a bastonate. Una volta svenuto, comincia a farlo a pezzi, per ore, mentre parla con lui, cauterizzando le ferite e ricominciando. Fino alle fine, alle 21 passate. Eppure, qualcosa non torna. Ci sembra tutto così esagerato. Lui ne parla come se fosse dentro “Scarface”, il film. Come se ne fosse un personaggio. C’è qualcosa di strano, nel Memoriale. Sia nella violenza sproporzionata e disumana di De Negri, sia nella capacità di resistenza (per nove ore, disumana anche questa) di Ricci. È tutto troppo esagerato per essere vero. Poi prende il corpo e vaga in auto per il quartiere, finche non finisce in via Belluzzo, per l’atto finale. “L’incubo era finalmente finito. Invece devo riscontrare che era appena cominciato. M’anno preso. Ancora oggi nonostante mi renda conto della gravità non nego che sto a posto con la mia coscienza perché ancora ora a distanza di 10 giorni sono convinto più che mai che lo rismonterei nonostante tutto. Ritengo che solo dico solo coloro che anno conosciuto il RICCI GIANCARLO o chi ne ha subito oltraggio possa capirmi perché nonostante la mia accurata confessione voi non potreste mai arrivare a capire il mio stato d’animo le mie emozioni che mi anno portato al mio disperato e diabolico GESTO. De Negri Pietro”.
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Capitolo 7
Vincenzina e Alessandro
Chissà se a Vincenzina e Alessandro, la mamma e il papà di Giancarlo Ricci, è mai capitato sott’occhio quell’articolo che Massimo Fini scrisse su “L’Europeo” dell’11 marzo 1988, quindi a caldo. C’è, dentro, un pezzo del quale si può discutere a lungo, se se ne ha voglia. Ma che è importante. Questo. “Dico solo che questa storia non è folle. È umana, molto umana e ha a che fare con quel pendolo fondamentale della nostra vita che è il sadomasochismo, il quale non si esercita solo nelle botteghe per cani ma anche, sia pur in forme meno truculente ed evidenti, più acculturate, negli uffici, nelle fabbriche e nella vita d’ogni giorno. E credo anche che la vicenda della Magliana contenga un suo insegnamento. Ci sono dei limiti oltre i quali anche l’arroganza, la prepotenza, la sopraffazione dei più forti nei confronti dei miti, dei deboli, degli eternamente sconfitti non può andare, senza incendiare il ‘cane di paglia’. E terribile, dice la Bibbia, è l’ira del mansueto”. Ma ci sono stati davvero un arrogante ed un mansueto, quel giorno, nella bottega del tosacani? Chi era chi, in quella fine mattinata di febbraio? Sono passati molti, molti anni dal febbraio 1988 quando fermiamo l’auto in questa stradina. Villette, una di fila all’altra. Una zona silenziosa. Vincenzina e Alessandro ci stanno aspettando. È da tanto che hanno lasciato la Magliana e via Vaiano. No, davvero quella era una casa in cui non era più possibile trovare un po’ di pace. È una bella giornata di sole, calda: ci metteremo fuori, per parlare. Gli anni sono passati, ma il dolore no. Se ne sta lì,
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nell’immagine di Giancarlo che lei, la mamma, porta sempre appesa al collo. “Giancarlo aveva amici, molti amici. Anche tra poliziotti e carabinieri, se ne stavano tutti lì con le moto, a parlare. Giancarlo litigava per aiutare gli altri, una volta da solo ne stese tre e quindi per averlo fermato, lì, quel giorno, ce ne volevano armeno quattro. Un’altra volta fece ritrovare ai Carabinieri della roba rubbata in casa ad uno di loro, in via dell’Impruneta, n’artra vorta picchiò chi per rubare una catenina, aveva menato una donna. Questo era mì fijo!” È la prima cosa che dice Vincenzina, che ha lavorato tanti anni all’archivio di un ospedale. Ci tiene a riabilitare la figura del figlio, che ha finito col sembrare una specie di boss del quartiere, in diverse ricostruzioni giornalistiche. Ma quando erano iniziati i problemi con la droga? Perché c’erano... “Un anno prima, quando aveva avuto una storia con una ballerina di ‘Domenica In’, interrompendo quella con la ragazza con cui era fidanzato e che si doveva sposare. Ho fatto di tutto per tirarlo fuori, gli stavo dietro, gli facevo le flebo, un periodo andò anche in Sardegna proprio per stare lontano da qua”. Ma ci tiene a raccontare in un altro modo quella mattinata, con qualcosa di nuovo. “La mattina di quel giorno io, Giuliano Raffaelli e Giancarlo andammo a Monteverde, ricorda? Giuliano je disse: te cerca er canaro, cor bastone17. Giancarlo ci andò, al negozio, a vedere che voleva. Ci andò alle 10.30 e non lo trovò. Alle 12.30 ci tornò, stavolta stava cò Fabio Beltrano e non c’era, nemmeno allora”18. Ma è sicura che c’era già andato quella mattina? “Sì, me lo ha detto Fabio: e poi lo vide una nostra parente 17 Ci dice Del Greco: “Non credo che il canaro possa aver detto che cercava in giro Ricci col bastone, non era il tipo: se l’avesse trovato per strada quello l’avrebbe fatto a pezzi, non poteva rischiare”. 18 E infatti, minuto più minuto meno, un’informativa della Squadra Mobile del 9 giugno 1988 riferisce una dichiarazione di Raffaelli: alle 11 erano tornati tutti a via Vaiano.
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dall’autobus che stava a passà su via della Magliana, perché pe’ entrà ner vicolo con la macchina Giancarlo bloccò l’autobus. A quel punto, quando ci tornò era già in ritardo, addirittura alle 14 doveva prendere servizio. No, no, troppe cose nun tornano...” Perché e di chi Giancarlo Ricci aveva paura, nei suoi ultimi giorni di vita? C’è una dichiarazione di Stefania, la sorella, che ci ha sempre colpito. Corte d’Assise di Roma, 25 gennaio 1990. Deposizione di Ricci Stefania. “Negli ultimi giorni era molto agitato, Giancarlo: perché diceva che volevano ammazzarlo. Aveva paura”. Da un po’, nel quartiere, si diceva che se la facesse con la polizia; tanto che Giuliano Raffaelli – ricordate? – aveva detto, la mattina in cui Giancarlo scomparve, a Vincenzina, “Signò qui dicono che fa l’infame con gli amici. Mandate via Giancarlo dalla Magliana, sennò ve lo ammazzano!” Giancarlo sapeva benissimo che era stata messa in giro la voce che fosse un infame. Sapeva i rischi che avrebbe corso ad andare in giro, con una diceria del genere. Rimettiamo insieme le due frasi, quella di Giuliano e quella di Stefania. Il fatto che Giancarlo dormisse male, ultimamente. Se aveva paura lui, doveva essere per qualcosa di grosso. Cosa? Orlando Ricci, all’epoca dell’inchiesta, disse che Giancarlo aveva solato più volte dei ragazzi della Magliana, facendosi dare del denaro per acquistare droga che poi non consegnava, tenendosi i soldi. Ma non poteva essere questa la ragione della sua paura. Se Giancarlo aveva fatto l’infame, su cosa se l’era cantata con la polizia? C’è qualcosa che non torna a Vincenzina ed Alessandro. E basta accennarlo perché diventino due fiumi in piena. E alla fine esce fuori. “ Io avevo prestato 6 milioni di lire ad uno, su suggerimento di Giancarlo – fa Vincenzina – Poi Giancarlo, purtroppo, disse alla Polizia che quello spacciava, fecero 4 arresti e per vendetta quello lì lo fece ammazzare. Ecco com’è annata!”
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Tra metà gennaio e metà febbraio di quel 1988, la Polizia sferrò diversi, potenti pugni in faccia al mercato della droga, su piazza. Furono arrestate più di quaranta persone e venne sequestrata roba per circa mezzo miliardo di lire. Ripercorriamo le operazioni di allora. A fine gennaio ci fu l’arresto di una gang di spacciatori tunisini che operava nella zona di via Volturno e via Goito. Stazione Termini, quindi. Del gruppo faceva parte un solo romano, che era di Portuense, della parte più esterna di Portuense, quasi di Corviale. È lui che ha scatenato tutto? Pochi giorni prima della scomparsa di Giancarlo, invece, c’era stata una grossa operazione tra Lazio e Toscana, con 33 chili di cocaina sequestrata. Un’operazione che era partita da Fiumicino, con l’arresto di un corriere. Roba grossa, iniziata settimane prima da una soffiata. Era stata quella di Giancarlo? Nelle carte dell’inchiesta, su un’informativa della Squadra Mobile, c’è scritto, parlando di Giancarlo: “Era inoltre amico di un pluripregiudicato siciliano, sospettato di far parte dei Corleonesi, arrestato pochi giorni prima per il possesso di un grosso quantitativo di droga”. Un terzo scenario. È lui il mandante? 36 anni nel 1988, quell’uomo aveva avuto a che fare con lo spaccio già dall’ottobre 1985, quando era stato arrestato a Roma all’interno di una grossa operazione voluta dai giudici di Palermo. In cui era indicato come mafioso. Continuerà ad entrare ed uscire di galera perlomeno fino al 1999, quando finirà in mezzo a nuovi arresti, sempre per droga. Che si conoscesse con Giancarlo lo conferma anche Stefania Ricci che riconosce, il 19 febbraio 1988, la segnaletica del siciliano negli uffici della Questura: “È un conoscente di mio fratello”, dice. Vincenzina l’ha addirittura visto,: “Mi venne presentato da mio figlio 7-8 mesi fa, in un bar della Magliana. Si trattava di un siciliano che abitava a Roma. Una ventina di giorni fa è venuto a casa mia insieme a Giancarlo. Si sono trattenuti in casa per circa mezz’ora e poi sono usciti insieme”19. Il siciliano, gestiva nel 1988 un ristorante a Tor Bella Monaca. È questo l’uomo che Giancarlo ha segnalato alla polizia? Dall’interrogatorio di Vincenza Carnicella alla Squadra Mobile, del 19 febbraio 1988. 19
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Veniva da qui la storia del mandar via Giancarlo dal quartiere? E’ per questo che Giancarlo appariva così tanto spaventato, ultimamente? Perché aveva fatto una soffiata e temeva la vendetta del mafioso? Vincenzina e Alessandro non ci credono: non può essere stato quel mingherlino di De Negri. Con tutte le balle che ha raccontato, poi. Non può averlo fatto da solo. “No, no: fece da esca, ma ce so voluti in quattro-cinque per prendere mì fijo. Quello da solo ‘ndò annava? Certo l’ha aiutati, ma nun era da solo! Ma che da solo! Successe tutto ‘na settimana prima”. Armando le chiede se conosceva De Negri. Quello? Era uno sconosciuto assoluto: “Se avessi sentito prima da Giancarlo il nome di De Negri mi sarei fermata al negozio a chiedere informazioni, quer giorno che è sparito. Mai, mai l’avevo sentito!”. Insomma, potrebbe essere anche la vendetta di uno spacciatore che obbligò De Negri ad aiutarlo. Poi, magari, la storia finisce col canaro che paga per tutti, magari guadagnandoci qualcosa, e tanti saluti alla verità. Dice Vincenzina: “Quello m’ha rovinato la vita, io non vivo più. Giancarlo se doveva sposà il 5 ottobre ed io tutti i sabbati invece vado ar cimitero…” Alessandro, il padre, una vita a fare l’autista in Corte di Cassazione: “Giancarlo aveva un cane e l’aveva addestrato, amava i cani: non avrebbe mai picchiato quello di De Negri né di nessuno. E questo cane era morto, sarà stato l’86 - l’87. Ci hanno dipinto come una famiglia di delinquenti, ecco come ci hanno dipinto”. E il dispiacere gli si legge in faccia. È una storia, questa, che sembra non finire mai per i Ricci. Le lettere lasciate dagli sconosciuti sulla tomba, al Verano. Le donne che guardando la medaglietta che Vincenzina porta al collo, quella col viso del figlio, e la riconoscono, quando sta dal parrucchiere. “È stata colpa mia che jò ho fatto le mani grosse”, dice lei sospirando, mentre un sole fortissimo ci obbliga a rientrare in casa. Usciti da casa Ricci, decidiamo di fare una telefonata. Deci-
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diamo di chiamare una persona. Ha sessant’anni ed è un uomo che è stato molto vicino a Giancarlo, che gli ha voluto molto bene. Una persona che lo conosceva bene e che ci chiede di restare senza nome. Che inizia con noi una conversazione che un po’ ha bisogno di fare e che un po’ non vorrebbe mai fare. Sono passati venticinque anni, ma sembra ieri. “C’è ben altro dietro a tutta questa storia, sa? Ho scoperto dopo un anno quello che era successo. Anch’io ho indagato, mi sono mosso in certi ambienti ed è venuto fuori che De Negri ha pagato per tutti. Quello che ha detto il canaro, che Giancarlo gli faceva le prepotenze, non è vero assolutamente niente. Una persona di ottanta chili, uno come lui, non riesce ad alzarla e metterla in macchina da solo! La Polizia non ha fatto il suo dovere... C’erano altre tracce di sangue, che non hanno valutato... sono stati molto leggeri, molto leggeri”. Come sono andate le cose, secondo lei? “... Giancarlo, per evitare che mettessero di mezzo il fratello in quel giro, in quello dove stava già lui, ha fatto una soffiata e ha fatto in modo che la polizia scoprisse, in un deposito di pesce, la droga. E hanno arrestato questo siciliano. Che da dentro ha dato l’ordine. È stato uno sfregio nei confronti di Giancarlo, che aveva fatto quella soffiata: hanno voluto far vedere che alla Magliana non si gioca. Questo è l’incidente da cui è nato fuori tutto… ed è successo una settimana prima”. Ora il discorso della soffiata ci diventa ancora più chiaro. E anche la paura che afferrava Giancarlo negli ultimi giorni di vita. E le parole di Vincenzina. Nella voce dell’uomo ora c’è tensione. Molta. “Questa persona sta fuori, non ha pagato quello che doveva pagare: ed è stato aiutato da altre persone, venute da giù. Quella persona deve pagare. A quello che è successo ci si può arrivare proprio da quell’episodio. Ma nessuno ha ricollegato la soffiata con quello che era successo! De Negri gli ha solo teso un tranello… Quello che non ho perdonato a Giancarlo è che quello che ha fatto poteva farlo diversamente. Dopo ventiquattr’ore quello che aveva detto lo sapevano tutti”. Quindi fu la polizia stessa a dirlo al siciliano, quando lo arrestò. Ci sembra di sentirlo, quell’interrogatorio. Col tipo che
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nega e un poliziotto che gli rimbecca “Qui c’è uno che dice che la droga la tenevi tu, vedi, lo dice Ricci. Come la mettiamo?” “In certi ambienti chi fa una cosa del genere passa per infame. Ma Giancarlo l’ha fatto per salvare il fratello più piccolo, per evitare che entrasse nel contesto sbagliato, quello in cui stava già lui. Solo che in quell’ambiente ha fatto la cosa che non doveva fare e l’ha pagata amaramente. L’hanno ucciso per fare da esempio. Potevano sparargli, ma invece hanno fatto quello che hanno fatto… una cosa del genere non si paga così, in quell’ambiente, si paga così per il gesto che lui ha fatto verso quella persona. E hanno seguitato a fare queste cose qui, anche negli anni: sono andati al cimitero, alla lapide, hanno rotto la foto…” La voce si spezza, si frastaglia, si crepa. Il ricordo fa ancora male, trent’anni dopo. “Io ero attaccatissimo a lui. Mi imitava in tutto: faceva boxe perché l’avevo fatta io. Al solo pensiero di parlarne, mi fa ancora male, ritorno indietro di trent’anni… Io ho un rammarico solo. Quattro-cinque giorni prima della morte lui fece un furto nel mio magazzino. Io l’ho scoperto, l’ho chiamato, lui è venuto… ma non era più il Giancarlo che conoscevo. Gli mostrai le prove che avevo: sapevo che era stato lui. Lui negò. Gli dissi che non volevo vederlo mai più. Lui la mattina dopo mi ha riportato tutto, però ero stato ferito da questa cosa. Una settimana dopo passò con la moto e mi suonò: voleva che uscissimo tutti in moto. Io per orgoglio dissi di no, feci dire che non c’ero e da allora non l’ho più visto. Sono stato così cretino… a stargli più vicino magari non sarebbe successo, magari sarebbe successo a tutti e due. Peccato che è finita così, senza un saluto... che qualcuno gli avrebbe sparato, prima o poi, poteva accadere, ma quello che ha sofferto non è giusto!” La voce sembra sul punto di cedere, si riprende, sbanda ancora. “Stava sempre dalla parte del debole, era così. La boxe la faceva per lo sport, poi per la droga ultimamente non era più lui. Giancarlo, sì, poteva anche entrarci col furto nel negozio, nel senso che poteva aver ricevuto la merce per rivenderla, questo poteva starci. Ma non era solo quello, lui, era anche
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altro. Era solo un delinquente che si è meritato quello che gli è successo? No, niente affatto. Certo, era forte, ma metteva in risalto la sua forza per usarla contro chi faceva prepotenze. Possibile che alla fine il canaro era la vittima e lui il colpevole?” L’uomo con cui parlo resta in bilico, vorrebbe farsi giustizia ma sa che sarebbe sbagliato. Sono venticinque anni che vive sospeso su questa domanda. Sono venticinque anni che sta per piangere e si trattiene. “Io in questa conversazione sto rivedendo quella tragica cosa che è successa… mi auguro di non portare ancora questo grosso rancore dentro, può far scattare una molla e non è giusto. Oggi sto riaprendo una pagina che non avrei voluto più riaprire... è che bisogna diventare come loro. Se non avessi famiglia avrei già fatto giustizia con le mie mani, ma sarei il primo ad essere preso. Diciamo che per adesso a quelli l’ho fatti campare venticinque anni di più. Non sono mai apparso, in questa storia, non c’ho mai tenuto, ma so io quello che ho sofferto in questi anni… il giorno che voglio fare una pazzia... se oggi non ho fatto quello che dovevo lo devo alla mia famiglia. Ecco, quando ne riparlo mi si rimuove tutto un meccanismo, cercavo sempre di tenerlo tutto da parte, quando sentivo parlare di Giancarlo io facevo il forte che non piangeva per fare forza agli amici, ma le garantisco che è dura. Ecco, oggi sono riuscito a sfogarmi un po’ e a tirare fuori quel veleno maledetto che mi trovo dentro di me. Oggi, dopo 25 anni dalla morte di Giancarlo lo sto facendo adesso, per la prima volta...” Fa una pausa. “E va bene, si vede che deve andare così”.
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Capitolo 8
Tutto quello che non torna
Con le finestre aperte su Roma, io e Armando riguardiamo quelle pagine. Sono al balcone, col sigaro acceso, mentre Armando, sul divano, sfoglia il memoriale. C’è un attimo di silenzio. Un lungo attimo di silenzio. Il diabolico gesto. Così l’ha chiamato De Negri, parole da romanzo ottocentesco. E, in effetti, più che un memoriale è un romanzo. E, come in un romanzo, è lo stesso tosacani a sentirsi il personaggio di un libro. E anche di un film. “Sai che ti dico? De Negri aveva perso di vista completamente la realtà. Ma per dirlo abbiamo bisogno di prove, fatti oggettivi, certi”, dice Armando, di colpo. “A me sembra che non possa essere andata come dice lui”, rispondo girandomi, mentre il fumo denso si allontana nell’aria della sera. “Dobbiamo ripartire dall’autopsia” fa Armando “è l’unica cosa sicura. Vediamo che dice. Non possiamo dare per scontato tutto quello che De Negri ha scritto a Regina Coeli”. “No, e sai perché? Per due motivi, secondo me”. E aspiro il fumo. “Il primo è che ci sono parti che non mi convincono...” “Come la gabbia... no?”, fa Armando. “E certo, proprio la gabbia. Ricci che ci entra dentro, che esce di colpo… No, non è possibile”. “E il secondo vediamo se l’indovino…” “Dai, vediamo”, dico io. E libero il fumo nel freddo che sta intorno. “La droga. A sentire lui, ne ha sniffata un chilo. Ma ti pare?” “Esatto, porca miseria! È solo uno dei tanti punti che non possono essere”.
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“Dai, smettila con quel sigaro e rileggiamoci l’autopsia, che le cose che non convincono aumentano di minuto in minuto”. Le ore passano, mentre sfogliamo le pagine scritte nel lontano 1988 dai professori Achille Calabrese e Giovanni Arcudi. Roba chiara e precisa. C’è silenzio, intorno. Il quartiere dorme. Sembra attendere una verità che non arriva. Sfoglio altre pagine. “Guarda qua, vedi? Adesso sappiamo cosa stava nel sangue di Ricci, quel giorno: morfina e cocaina. E dalla dose trovata, presumibilmente aveva assunto quella roba due-tre ore prima della morte”. Nell’aria della stanza c’è solo il suono delle pagine sfogliate, una per una. Fuori è la notte di Roma. Armando indica un rigo. Leggo: i vapori di benzina, che De Negri dice di aver fatto respirare per prima cosa a Ricci rinchiuso nella gabbia, non tramortiscono nessuno. Anzi, hanno effetto esilarante! Ci guardiamo in faccia. Pazzesco. Una balla colossale. Invenzione pura. E c’è di più: essendo la benzina volatile, per tramortire la sua vittima, De Negri avrebbe dovuto usarne una quantità enorme, non i 5 litri che lui dice di aver usato. “Che poi Arcudi non ha fatto una valutazione del sopralluogo dal punto di vista tecnico – fa Armando – se avesse visto con occhio critico le foto della scena del crimine, o fosse andato sul posto, avrebbe capito che qualcosa non tornava. Ti ricordi Fabio il sistema di aspirazione posto sopra le gabbie? L’unico modo per De Negri di ‘inondare’ le gabbie era di smontare la base dell’areazione, cosa che a prima vista non appare semplice. La benzina, entrando nella conduttura, sarebbe comunque caduta nella parte posteriore della gabbia dove c’era la bocchetta di forma rettangolare d’aspirazione. L’alternativa sarebbe stata di versare la benzina sulla griglia davanti, quella dello sportello. Ancora più difficile ed inverosimile. Vuoi sapere cosa penso? La benzina De Negri la utilizzò solamente in seguito, quando doveva cercare di distruggere il corpo”. Pausa. “Aspetta. Qui” fa Armando, scrivendo rapidamente qual-
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cosa su un foglio: “Guarda qui. I periti dicono che non c’è traccia di nessuna cauterizzazione su Ricci; anzi, dicono che con la benzina non si cauterizza nulla perché, è scritto in questo punto, è così volatile che fa solo la fiammata e basta. Sì Fabio, siamo troppo abituati alle serie televisive: la benzina ha una temperatura di evaporazione bassissima, quando si versa su una superficie evapora rapidamente, cioè in parole povere ne rimane poca. Pensi davvero che sia facile accenderla con un cerino gettato sulla scia bagnata? Nella quasi totalità dei casi si spegnerebbe, serve la persistenza della fiamma per almeno qualche secondo… diciamo che un accendino, tenuto fermo con la mano, sarebbe risultato più idoneo. Quindi, per essere precisi, non c’è stato nessun prolungamento della tortura cauterizzando le ferite, tecnica che sarebbe servita, dice De Negri, a evitare grosse fuoriuscite di sangue ed il dissanguamento. Questo, ancora una volta, è quello che succede nei film… ma non nella nostra drammatica storia reale”. Niente stordimento con la benzina, niente cauterizzazioni. Un altro pezzetto delle dichiarazioni di De Negri se ne va. Sono le 22.30. Ma non è tutto. Ci siamo divisi i fogli della perizia autoptica e continuiamo ad esaminarla. “Non ci credo” fa Armando, bloccandosi. “Che è successo?” gli chiedo, alzandomi dalla sedia. “Esaminando le amputazioni, Arcudi scoprì che tutte erano state fatte da morto. Nessuna tortura di ore ed ore, nessuna” “Mi stai dicendo... che De Negri s’è inventato tutto? Ma perché avrebbe dovuto farlo?” “Non lo so, ma quello che è certo è che le amputazioni sono post-mortem e non in vita, come ha confessato lui”. “Ecco perché a quelli della Mobile sembrava tutto esagerato…” Mezz’ora dopo, un altro tassello va al suo posto. “C’è di più, Armà: leggi qua. Per tutte le botte, i calci, i
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pugni che il canaro dice di avergli dato, Ricci dovrebbe recare i segni di un pestaggio. Che non ci sono affatto”. “Scherzi?” “Macchè. Non c’è nessun segno di bastonate, ecchimosi, fratture. Zero. Non l’ha proprio toccato. E senti qui… Esaminando la testa di Giancarlo, poi, il medico scopre anche che lo sfondamento della teca cranica è il risultato di più colpi subìti con un oggetto piccolo e arrotondato, sei o sette”. “E quindi? L’ha colpito alla fronte con qualcosa. Questo, De Negri l’ha confessato”. “Sì, ma sono stati questi colpi la causa di morte, loro e non altro…” “No, aspetta, dai: che me stai a ‘ddì? Che è morto per questo? E le sette ore di torture di cui ha sempre parlato De Negri?” “Oh, è scritto qui. D’altronde, si tratta di un buco in fronte di 13 cm. Mica uno. E con una lesione così nessuno poteva resistere per ore, reagendo come De Negri asserisce che Ricci abbia fatto. Insultando, risorgendo sempre da ogni violenza, da ogni colpo, con una capacità di resistenza sovrumana”. Giancarlo Ricci, per fortuna, in quel primo pomeriggio di febbraio perse conoscenza subito, non appena fu colpito in fronte. Cadde. E non si accorse di quello che avvenne dopo. Morì quasi subito. Tutto il dialogo che De Negri raccontò di aver avuto con la sua vittima è, quindi, completamente inventato. Torniamo a leggere. La stanza è in silenzio. Anche il traffico, fuori, si è allontanato, rifugiandosi in qualche remoto angolo della notte. Sono passate le 23.30, quando Armando si schiarisce la voce. “Ed ecco il botto finale. Tutto è durato, sai quanto? Non oltre i 40-50 minuti, ricostruisce il medico legale. Altro che sei-sette ore, come dice il memoriale!” “Cioè, mi stai dicendo che dall’inizio dell’aggressione fino alla fine delle mutilazioni, De Negri ha infierito per al massimo 50 minuti?” “Sì. È così. Nero su bianco”.
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“Ma quante balle ha raccontato il canaro? E perché?” “Non lo so, a Fà. Ma è quello che dobbiamo scoprire”. Eppure, sui giornali è sempre stata raccontata tutta un’altra storia. E anche in tv, la storia che viene raccontata è sempre un’altra. La versione inventata da De Negri piace, la verità no. Anche se l’hanno scritta Giovanni Arcudi e Achille Calabrese pochi giorni dopo il delitto. Anche se sono i dati reali, scientifici, inoppugnabili. A noi giornalisti piace di più quello che ha scritto il canaro nel memoriale, perché è più truculento, più spettacolare. Perché colpisce di più. La verità, invece, è decisamente più moscia, più banale. Eppure, quella verità l’aveva capita benissimo anche il Pm, Olga Capasso, che scriveva così, il 3 aprile successivo, parlando dell’assassino: “Nel corso della confessione si sforza, con puntigliosità, di essere il più preciso possibile nel descrivere nei minimi particolari la progressione delle mutilazioni, lo scambio di frasi tra vittima e carnefice, lo scempio del cadavere. L’ansia di dire tutto, non per liberarsi di un peso troppo grande, ma per far capire a chi l’ascolta che lui, l’inoffensivo canaro era stato il giustiziere di tanti piccoli delinquenti della Magliana vessati dalle prepotenze del Ricci, traspare da ogni rigo di quel verbale”. Appunto. Ne vogliamo aggiungere un’altra? Beh, c’è la faccenda della gabbia: che non reca tracce di sangue all’interno e che non appare minimamente sfondata. “Sì Fabio, la storia della gabbia non tiene per diversi motivi, vediamoli uno per uno: il sangue non è presente, se non teniamo conto di quella minuscola traccia di sangue, definita dai sopralluoghisti come piccolissima e che viene campionata dal montante della gabbia. Praticamente, il sangue è assente. E poi, come abbiamo già detto, il piano della gabbia era formato da assi di legno che sarebbe stato difficilissimo pulire, se non impossibile. Il secondo motivo è lo sportello, la parte puntinata per l’areazione. Come vedi in queste foto, non è particolarmente robusta. Nel memoriale De Negri ci racconta che Ricci ad un certo punto la sfonda, fino a fuoriuscire con metà del corpo.
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Ma questo non ci risulta dalle foto… cosa dobbiamo pensare, che De Negri ha fatto riparare la gabbia? Risistemare il pannello? Gli sportelli sono integri, il pannello puntinato anche e non è possibile che De Negri lo abbia riparato. Quindi, altra imprecisione del memoriale ed altro punto che ci fa escludere che Ricci sia mai entrato lì dentro. Le strisciature che abbiamo ipotizzato siano state fatte dalle scarpe di Ricci, mentre si divincolava all’interno della gabbia, beh, possono avere varie, poi, spiegazioni. Comunque non mi sembrano robustissime queste gabbie, pensi che Ricci non sarebbe riuscito ad aprirle a calci? Altro che pochi segni! E poi ti dico l’ultimo motivo, guarda bene questa foto che ci fa vedere le assi che fanno da sfondo alla gabbia. Ed ora guarda quest’altra, durante il sopralluogo levarono queste assi semplicemente perché non erano fissate. Ricci avrebbe potuto toglierle e mettendo i piedi sul pavimento spingere in alto con la schiena. Ricordiamoci quanto era robusto. La struttura gli sarebbe venuta dietro cedendo”.
Le gabbie presenti nel negozio
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Una gabbia, insomma, in cui non è entrato nessuno. Perlomeno, nessun uomo. Nessun uomo che si preparava a compiere una rapina. Nessun uomo che è stato intrappolato al suo interno. Non c’è traccia di tutto quello che vi sarebbe successo dentro. Dei tentativi di uscire di Ricci, delle percosse che avrebbe ricevuto quando stava ancora mezzo dentro e mezzo fuori, come scrive De Negri. Insomma: dire che Ricci è entrato nella gabbia è come dire che Cristoforo Colombo portava i capelli verdi ed è sbarcato in Giappone. Ma di cose che non tornano ce ne sono anche altre. Al di fuori e al di là della perizia medico-legale, più ci pensiamo e più non torna nemmeno l’altra l’ipotesi, quella dell’agguato compiuto da più persone. Proviamo comunque a pensare che sia andata così: in fondo, Giancarlo era grosso e ci stava che ci volessero tre-quattro persone ad assalirlo. Vero: il negozio offre un nascondiglio dal quale saltar fuori. Non si tratta delle gabbie, ovvio, ma del piccolo spazio che dà sull’area di lavoro vera e propria. Quello dove De Negri dormiva. Perché, da quando se n’era andato di casa, dormiva in negozio. Ok, potevano saltar fuori da lì; però è anche vero che tutta quella gente non poteva stare nascosta ad aspettare Giancarlo tutta la vita. De Negri confessò, all’inizio, che Ricci era passato per caso e aveva aderito all’idea della rapina così, al volo. Ma è ridicolo. Pensare che Ricci decida di colpo di fare una rapina e lasci fuori Fabio Beltrano senza dirgli nulla di una cosa così importante è davvero ridicolo. E allora, se le cose stavano così, lo sapeva da prima, della rapina. Ma, anche se così fosse, si sarebbe fatto accompagnare a farla senza spiegargli nulla, lasciandolo fuori, col rischio che entrasse in qualsiasi momento a mandare all’aria un colpo così grosso? Questa versione non tiene. De Negri, però, confessò di aver fatto tutto da solo. E allora pensiamo invece che ci siano state comunque più persone, e che De Negri le copra per qualche ragione (minacce, ricatto, ricompensa) e sia disposto a farsi la galera per loro senza farne i nomi. Ovviamente, proprio per quello che abbiamo appena detto,
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dobbiamo pensare ad un appuntamento tra lui e Ricci, ovvio. Dei sicari non potevano stare tutto il giorno nascosti da un tosacani ad aspettare la loro vittima. Ma quando sarebbe stato preso questo appuntamento? Non si sa. E se fosse invece che Ricci passava ogni giorno, prima di pranzo, a ritirare il pizzo? De Negri ci dice che aveva smesso di darglielo, ma era vero? Come sempre l’esperienza ci insegna a privilegiare l’ipotesi più semplice: Giancarlo era solito, più probabilmente, rifornirsi di cocaina verso l’ora di pranzo, no? E, se non è andata così, che movente avrebbero avuto quattro assassini per uccidere Ricci? Quello che ci hanno suggerito Vincenzina ed Alessandro. Il misterioso “Siciliano”. Si tratta di capire due cose. La prima, se quel movente regge un simile massacro. La seconda, se De Negri poteva comunque fare tutto da solo. Già, De Negri. Se ne sono accorti in pochi, ma non ha detto sempre le stesse cose. La confessione alla Mobile non è la stessa del Memoriale. Una che se n’è accorta è la Capasso. Nota, il magistrato, che nel memoriale ci sono differenze rispetto alla confessione resa a caldo20. Ad esempio: nello scritto l’omicidio non è più premeditato come nella confessione, De Negri dice che voleva solo spezzargli le ossa e lasciarlo in piazza. Anzi, l’idea omicida nasce solo quando Ricci minaccia di affettargli la figlia. “Armà, ma non è strano il cambio di versione in corsa?” “Vedi Fabio, qui ci troviamo davanti ad una parte interessante… da un lato lo scritto fatto a Regina Coeli è finalizzato alla magnificenza delle sue azioni. Non si risparmia nel raccontare le mutilazioni ‘in vita’ che ha recato al pugile. Ma poi mentre continua a creare e scrivere le sue farneticazioni riesce ad avere un barlume di lucidità: che lo porta ad un ragionamento semplicissimo e banale. Se l’omicidio è premeditato rischio più anni di carcere, quindi è meglio che dico che era d’impeto. Un barlume di lucidità in un buio totale”. 20
1988.
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Il verbale di interrogatorio in cui c’è la confessione è quello del 20 febbraio
Poi, anche la progressione delle mutilazioni è differente. Poi, l’uscita dal negozio per parlare con Beltrano è riferita solo nel memoriale e peraltro in un orario diverso da quanto riferito da Beltrano stesso, cioè più tardi. Non è roba da poco. Che De Negri sia uscito per parlare con Beltrano, dopo aver ucciso Giancarlo, è un fatto: lo dice il ragazzo stesso. Che poi lo abbia rivisto nel pomeriggio del giorno dopo, per passare insieme a casa Ricci, è un altro fatto. Ma cosa vogliono dire queste due versioni diverse sull’orario? È solo un errore della memoria? C’entra qualcosa tutta la cocaina che s’è pippato in quelle 48 ore? O c’è qualcos’altro sotto? Un’idea ce la siamo fatta… Perché qui più riguardiamo le carte ed i tempi, più ci sono anche altre cose che non tornano. Quelli che non tornano sono gli orari. È la mattina dopo quando suono al citofono di Armando. Di fronte a due tazzine di caffè, entriamo subito in argomento. “... Allora, Giancarlo Ricci e Fabio Beltrano sono insieme da prima, già dalle 12.30 almeno: perché sono andati a cercare De Negri al negozio, senza trovarlo” fa Armando, passandomi lo zucchero. “Esatto. Poco più di mezz’ora dopo, però, sono di nuovo a Monteverde. Infatti, il teste Agostino Ieritano ha parlato in via Cesari con Giancarlo alle 13.15-13.30. È agli atti. Giancarlo gli proponeva di comprare uno stereo rubato ed era presente anche Fabio: lo stesso stereo che aveva proposto, presente Vincenzina, a Giuliano Raffaelli solo qualche ora prima, quando tutti e tre insieme erano andati alla casa di via Cesari: e la mamma era andata su tutte le furie a sentire che quello era il risultato d’un altro furto”. “Ok. Ma ad Agostino lo stereo non interessa. Allora Giancarlo gli chiede un prestito di 300.000 lire, come molte altre volte aveva fatto in passato e sempre ridandogli i soldi. In quel momento, Fabio non c’era. Forse aspettava sotto, in auto”. “Ti seguo”. “Passa una mezz’oretta e Vincenzina parla due volte a tele-
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fono con Giancarlo: alle 14 ed alle 14.10. Ora, da Monteverde al negozio del canaro ci sono un paio di percorsi possibili, però quei 6-7 km non te li leva nessuno e sempre una ventina di minuti di macchina sono…” “Il che vuol dire che Giancarlo s’è mosso da via Cesari, con Fabio, verso le 14.30”. Alle 14.50 Giancarlo e Fabio sono davanti il negozio di De Negri. Lo dice Fabio. Alle 15 Giancarlo è già morto, o quanto meno tramortito. Alle 15.40, al massimo, De Negri ha già completato le mutilazioni. Lo dice la perizia. Inizia a pulire. Ma Armando ha un’idea anche di cosa sia successo dopo. E tutti abbiamo un’idea di come tutto questo rientri col discorso se ad uccidere Giancarlo è stata una persona sola o più persone. “La teste Emma Gabrielli, che abita al piano di sopra il negozio, sente odore di benzina nel primo pomeriggio e si affaccia per chiedere a De Negri che succede: lui esce, la tranquillizza, dice che sta pulendo e rientra. Appare in ordine e senza macchie sospette. Verosimilmente, a quell’ora – che non sappiamo qual è, la teste non ci ha fatto caso – è già successo tutto e siccome Arcudi ci dice che De Negri non ha cauterizzato proprio nulla, è verosimile che stesse davvero pulendo. Quindi, la scena avviene quando tutto è finito: appunto, dopo le 15.40...” “Giusto, Armà, forse appena dopo le 15.50-16.10, quando De Negri esce di nuovo e parla con Beltrano per mandarlo via...” “Aspetta Fabio, però questo Beltrano, come abbiamo visto, non ci convince. Al di fuori di alcune dichiarazioni, in cui lo nega, la verità che non dice è che invece conosceva De Negri. Altrimenti non si capisce perché il canaro, uscendo, si sia accostato all’Alfetta e si sia messo a parlare con lui. Come faceva a sapere che quello era Beltrano, se non si conoscevano? Com’è possibile che un tossico come Beltrano non conoscesse De Negri, che spacciava proprio dietro Piazza Certaldo? E il canaro avrebbe davvero dato l’Alfetta da rimettere a posto ad uno sconosciuto, ad uno mai visto prima? Quella macchina era pur sempre collegata col delitto che aveva appena commesso...
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Ora, ipotizziamo che ci sia stata una sudditanza psicologica tra Beltrano e De Negri, visto anche che il canaro era uno spacciatore e Beltrano un tossicodipendente, no? Ci sta. Non dimenticarti che il tossico dipende in tutto e per tutto dallo spacciatore. Lui ha la roba, che per l’altro è essenziale, è Dio. In genere, uno che si fa, venderebbe anche la madre a quello che spaccia. A questo punto facciamo un’ipotesi fantasiosa. Questa, che De Negri, quando esce all’incirca alle 16, non lo fa per mandare via Beltrano, ma per chiedergli di seguirlo nel negozio. Una volta che Beltrano entra nel negozio e vede il corpo di Ricci, morto o quanto meno moribondo, non gli rimane, vista la sudditanza psicologica di cui parlavamo, che aiutare De Negri a sbarazzarsi del corpo. Tanto più che potrebbe essere stato allettato dal canaro con la promessa di droga gratis… E questa è una ipotesi, se vogliamo, di non premeditazione: perché, in teoria, Beltrano avrebbe potuto sapere a priori che Ricci si sarebbe cacciato in qualche guaio quel giorno. È proprio una ipotesi, diciamo, fantasiosa. E, se chiudi gli occhi e metti due persone intorno al corpo di Ricci, nella bottega, ecco che la situazione cambia, ecco che diventa possibile che Giancarlo sia stato addirittura messo nella vasca adibita al lavaggio dei cani, quella in muratura che si vede qui, vicino alle gabbie. Qui, certamente, si sarebbero potute fare tutte le escissioni possibili senza spargimento di sangue. Gli ambienti, anche se caotici e di certo non puliti, non presentavano infatti tracce di sostanza ematica: il fascicolo di sopralluogo non ne fa per niente menzione. Qualcosa vorrà dire, no?” Questa ipotesi mi convince: sono stati tutti convinti da sempre di trovarsi di fronte ad un assassino solitario. In pochi, anzi solo i genitori di Giancarlo Ricci, hanno ipotizzato che l’omicidio venne fatto da più di una persona, vista anche la prestanza fisica del pugile. Ma la possibilità che qualcuno abbia aiutato il canaro come manovalanza, senza essere quindi la mente dell’omicidio, no, a questo non ci avevamo pensato. Una possibilità che è più di questo. “Armà... e infatti, adesso che mi ci fai pensare, c’è una contraddizione nelle deposizioni di Beltrano. Fammi ricordare…
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allora, lui dice sempre che l’auto l’ha presa da De Negri, verso le 16. Tranne quando parla con Orlando, il fratello di Giancarlo. Con lui gli scappa una cosa molto diversa: se ne esce che De Negri, l’auto, gliel’ha portata alle 18 circa21. Premesso che anche questo conferma che i due si conoscevano, sai che penso? Che ogni tanto Beltrano si tradisce. Che gli è successo con Orlando Ricci. Dov’era Fabio Beltrano, con chi era, che faceva tra le 16 e le 18.30 di quel 18 febbraio 1988?” Torniamo a quel giorno ed a quei momenti, De Negri ad un certo punto controlla l’orario e capisce che non può andare a riprendere a scuola la figlia: certo, non con il cadavere in negozio. Ha altro da fare. Ben altro. Chiama sua cognata, le dice che è rimasto imbottigliato nel traffico e le chiede la cortesia di andare lei. E la cognata va22. “Sì, però manca una parte fondamentale per concludere la giornata. Il trasporto del corpo di Ricci, nell’automobile di De Negri, fino a dove lo hanno ritrovato”, continua Armando. “L’auto di De Negri venne rinvenuta in normale stato d’uso, ma con il portabagagli particolarmente pulito, curioso vero? Ma la cosa che più mi ha colpito non riguarda la sua automobile, ma quella di Ricci. Quella in teoria guidata da Beltrano. Guarda il sopralluogo sull’autovettura Giulia 1300, dell’Afa Romeo, di proprietà di Ricci, fatto dalla Polizia Scientifica nei giorni successivi; ed integrato con quello nella bottega di De Negri. La Giulia è tenuta benissimo, il proprietario si vede che ci teneva molto. Nel portabagagli, la Scientifica rinviene una parte di una bottiglia in plastica, utilizzabile come imbuto, e fino a qui nulla di particolarmente strano. Ma la cosa che più colpisce la vedi nella fotografia numero 69 del fascicolo di sopralluogo”. 21 Lo riferisce Alessandro Ricci, nella sua deposizione davanti al Giudice Istruttore Maria Luisa Carnevale, il 6 maggio 1988. 22 Diverse ricostruzioni giornalistiche riportano invece che De Negri ebbe la freddezza di interrompere la mattanza, mandare a prendere la figlia, portarla dalla madre e tornare in negozio a riprendere il lavoro interrotto. Peccato che le cose siano andate diversamente. È un altro esempio di come sia stata riportata la versione più spettacolare, non quella vera.
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Gli faccio cenno con la mano. Lui si interrompe, io prendo il fascicolo e lo sfoglio fino ad arrivare al fotocolor numero 69. “Ok, ci sono”. “Guarda. La foto riprende la parte posteriore destra dell’autovettura, guarda bene sotto il tappo del serbatoio, vedi tutte queste macchie ‘a strie’, come vengono definite nel fascicolo di sopralluogo? Si notano benissimo rispetto alla carrozzeria bianca, immacolata. Curioso, vero? Perché su una autovettura molto pulita, quindi che potremmo ipotizzare lavata di recente, si è proceduto in maniera grossolana a prendere della benzina dal serbatoio? Potrebbe esserci una spiegazione logica, ne parliamo più avanti?” “E certo. Tanto più che Giancarlo aveva messo benzina proprio quella mattina, la mattina in cui è morto, intendo. Alle 7.15 era andato dal benzinaio a mettere 10.000 lire. C’è anche un’altra cosa che non torna in quella macchina, però”. “Sarebbe?” “Ti sei scordato la faccenda della tanica. Quando finalmente riesce ad entrare in auto, Alessandro Ricci si accorge che dal bagagliaio manca la tanica bianca da cinque litri che ci teneva il figlio23. Quindi abbiamo: una tanica che manca e il serbatoio sporco…” “Ed una spiegazione c’è...” “Senti un po’. Passiamo al giorno dopo. Ecco una cosa strana. Secondo te come mai, di pomeriggio, De Negri e Beltrano si presentano a casa Ricci? Ma non ti sembra una cosa strana, presentarsi a casa della vittima?” Armando ci pensa su un pochino e mi risponde: “No, molto meno di quanto si pensi, immedesimati nei panni di De Negri… ha compiuto un gesto orrendo ma dentro si sente un eroe, un paladino che lotta contro le ingiustizie. A questo punto deve fare di tutto, per evitare però la punizione. Ricordiamoci che già conosceva la galera e quindi era forte il suo desidero di non ritornarci. Tra l’altro, una punizione, per quello che aveva Dalla deposizione di Alessandro Ricci del 6 maggio 1988, davanti al Giudice Istruttore Maria Luisa Carnevale. 23
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fatto a Ricci, gli sembrava davvero ingiusta. Però gli capita un fatto improvviso: arriva in negozio il fratello della vittima, Orlando. Non appena se ne va, subito si domanda a questo punto come abbiano fatto a risalire a lui. Pensa allo stato d’agitazione che doveva avere. Sicuramente, prima di quella visita, era tranquillo del fatto che Fabio Beltrano si sarebbe limitato a fare esclusivamente il fattorino. Parcheggiare l’auto e mettere le chiavi nella buca delle lettere. Stop. Le chiavi non sarebbero mai state analizzate dalla polizia scientifica, allora non esisteva il test del DNA, sarebbe stato impossibile stabilire chi le avesse toccate per ultimo. Ma non divaghiamo. De Negri, quando va a trovarlo Orlando, capisce di aver fatto un grave errore non indottrinando bene Beltrano. E ha ragione. Beltrano infatti s’è messo a parlare con Orlando in mezzo alla strada e gli è scappato pure di dire delle 18. Di più, pensa e ripensa si accorge che dire a Beltrano di raccontare ad Orlando la storia della rapina potrebbe essere stato un autogol. Accende troppo i riflettori su di lui. Così, il canaro inizia a rimuginare su quello che potrebbe accadergli. Ma si trova anche nella situazione di non sapere cosa abbiano in mano gli investigatori, quindi decide di buttarsi nella tana del lupo. E va, proprio con Beltrano, a casa della vittima. A negare la storia della rapina. Ricordiamoci anche, in tutto questo, che De Negri e Beltrano, sempre secondo le dichiarazioni di quest’ultimo, non si conoscevano fino al giorno prima... affermazioni smentite, a maggior ragione, anche da questa visita fatta insieme”. Sì. Le cose che non tornano sono duemila. Ma ora lasciamo da parte per un attimo la ricostruzione oraria e vediamo come anche altre cose raccontate dall’assassino non stanno in piedi… Ad esempio, l’aggressione alla cagna: subita da De Negri durante il furto della sera prima. Che Ricci fosse andato a rubare lo stereo da De Negri ci sta: non era certo il primo furto che faceva e d’altronde la testimonianza di Ieritano e i pezzi di stereo ritrovati a casa Ricci parlano chiaro.
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La deposizione del poliziotto Claudio Gabriele24, che entrò nel negozio “Mambli” per perquisirlo dopo il fermo di De Negri, è chiarissima: c’erano una cagna e 6-8 cuccioli. La madre non sembrava ferita, alcuni cani giravano per il negozio, altri erano nelle gabbie. Aggiunge però il suo collega, Mauro Gaeta, che, quando andarono a prendere De Negri per interrogarlo, la mattina del 20 febbraio, la cagna che stava nel negozio si avventò contro di loro: saltava contro la porta del negozio, ringhiava, tanto che ordinò a De Negri di legarla. Insomma, 36 ore dopo le botte prese da Ricci non sembrava proprio né ferita, né intontita. D’accordo, era uno Schnautzer e con quel pelo lungo una ferita poteva benissimo non vedersi, ma la reazione della cagna Jessy è chiarissima: e non è quella di un animale colpito alla testa così pesantemente come afferma De Negri. Quindi, non c’è stata nessuna aggressione alla cagna, o quanto meno che abbia lasciato chiari segni esteriori. Un momento. Stiamo parlando del negozio, no? E allora prendiamone le foto e cominciamo ad andare in giro. Noi non ne capiamo di cani e tosacani, ma sicuramente uno che ne capisce può leggere quelle foto in un modo diverso da come le vediamo noi. Componiamo il numero di un bravo veterinario, Michele De Camillis. Dopo dieci minuti gli abbiamo spedito le foto via mail, dopo venti sentiamo la sua voce che ci giunge da un altro mare. Siamo in vivavoce, Armando tende l’orecchio. Michele, guarda queste foto. Cosa ti dicono? Come stava messo questo benedetto negozio “Mambli”? “Queste foto mi dicono che usava lo shampoo della Bayer. Piuttosto, dice ha versato benzina nel condotto, vero? Per farlo deve aver spostato questi due motori che sono qui, li vedete? Questi sopra le gabbie. Che infatti non servono a spruzzare, sono due asciugatori della Peggy”. Le nostre supposizioni riguardo la possibilità di mettere la benzina nel condotto erano quindi giuste. Ma la gabbia? Che ne pensi? Può esserci stato qualcuno dentro? 24
Dalle deposizioni di Gabriele e Gaeta in Corte d’Assise, del 7 febbraio
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“Sapete che c’è? Non vedo segni di piedate, dentro. Ci sono i segni delle unghie dei cani, quelli si vedono bene, ma non ci sono segni di Ricci. Ecco, vedete, questi sulle pareti sono segni tipici che lasciano i cani. Comunque, una cosa è certa: a uno grosso come Ricci non serviva dare una testata, come mi dite abbia detto De Negri. Una gabbia così bastava spingere coi piedi e, francamente, l’aprivamo pure noi. Questa qui è una gabbia da cacciatore, non una professionale”. Armando sobbalza, dandomi un colpo sul braccio. Ho capito cosa vuole dire. Ecco spiegati anche quei segni neri che ad una prima occhiata potevano essere ricondotti allo strusciamento di scarpe e che erano stati campionati dalla polizia scientifica! Erano stati lasciati dalle unghie dei cani! Ci rimane, quindi, sempre più difficile pensare che un ragazzo come il nostro pugile sia riuscito ad entrare in quel piccolo spazio con il preciso scopo di uscire fuori di scatto e fare un assalto: ma come è stato possibile anche solo pensarlo? “Ma certo, Michele – dice Armando – infatti, se poi vediamo tutto il negozio, pur non essendo molto grande, ha sicuramente altri luoghi per ipotizzare un agguato! Guarda le foto della camera da letto, una persona si sarebbe potuta nascondere benissimo lì, no? Invece, secondo De Negri, Ricci si fa convincere ad entrare nella gabbietta; no, non è possibile. Quando sarebbe dovuto uscire, poi? Ad una parola convenzionale? Anche perché dai buchini della rete non sarebbe riuscito sicuramente ad avere una visione del laboratorio. Al momento giusto, invece, avrebbe dovuto aprire la porticina cigolante e uscire ‘con un balzo felino’, per assaltare il fantomatico spacciatore”. “Scherzi? – risponde Michele – Ma niente affatto. Ricci ci poteva stare al massimo carponi in una gabbia così, ci avrebbe messo tempo ad uscire, non ci sarebbe mai stato l’effetto sorpresa. Poi, era inverno e l’abbigliamento più pesante creava ulteriore impaccio, no?” Armando comincia a farmi segni e tira fuori il fascicolo del sopralluogo: “Eccola qui, la gabbia. Le ante centrali sono 68x61, la gabbia intera misura 125x73; profonda 91, alta 17 cm dal pavimento. Ogni anta ha apertura e chiusura singola,
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quindi Ricci sarebbe dovuto entrare e uscire di sorpresa, con le sue dimensioni ed il giubbotto, da uno spazio di 68x61…! Dunque, lui indossava una camicia, jeans, una sciarpa verde.25 Mentre è proprio De Negri a dirci che aveva anche un giubbotto di pelle, che era rimasto nella gabbia26. No, questa cosa non è mai successa!” “E comunque in questo negozio di professionale c’è poco” conclude Michele. “La vasca idem, nemmeno lei è professionale. Questa che vedo è in muratura, quando dovrebbe essere invece in acciaio. È proprio tutto il negozio che non dà l’impressione di igiene. In questo contesto la benzina non può servire a niente. Non certo a pulire il negozio. Tra l’altro, vedete questo flacone? Aveva già il prodotto giusto, la Clorella”. Ma c’è di più. De Negri parla del furto fatto al negozio accanto, giusto? Dice che lo fece Ricci, che lui venne messo in mezzo, finì dentro, e quando andò a chiedere la sua parte, Giancarlo lo prese a botte. Bene: facciamo qualche ricerca. Ora, il furto nel magazzino accanto al negozio è del 10 luglio 1984. Il proprietario si chiama Salvatore Lupo ed il valore della merce – perlomeno, il valore che viene dichiarato al momento della denuncia – è di 104 milioni. I carabinieri indagano e ci vanno di mezzo, oltre De Negri, anche i fratelli Morico, Claudio e Luigi, due pregiudicati che gestivano un garage in via della Magliana. Er canaro ci rientra perché i carabinieri notano che la serratura d’ingresso del suo negozio non appare forzata neanche un po’: quando, poi, i militari vanno nell’autorimessa dei Morico, a via della Magliana 91, vedono che Claudio fugge dal retro, su una moto di grossa cilindrata, insieme a De Negri27 I Morico confessano di essere gli autori del furto. E vengono denunciati insieme a De Negri 28. 25 Dall’informativa della Squadra Mobile del 19 febbraio 1988: la fonte è la madre di Ricci. 26 Dalla confessione di De Negri alla Squadra Mobile, del 20 febbraio 1988. 27 Dalla deposizione del M.llo Vincenzo Minella al sostituto procuratore della Repubblica Olga Capasso del 16 novembre 1984. 28 Dal rapporto della Legione Carabinieri di Roma, del 16 luglio 1984.
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Dunque, i Morico e non Ricci sono indicati come responsabili del furto: è a loro che De Negri aveva aperto la porta per fare il buco nel muro, passare dal suo negozio e ripulire il magazzino del signor Lupo! Giancarlo, col furto, non c’entra: è un’altra invenzione di De Negri, che deve dipingerlo come il suo persecutore per poterne giustificare il massacro. “Fabio ecco l’ennesima cosa che non quadra dal famoso memoriale… dunque, De Negri, subendo le minacce e le percosse di Ricci, che tra l’altro non conosceva, si fa convincere e diventa complice del furto al negozio vicino. Lascia aperto il proprio, permettendo l’accesso al Ricci, e se ne va fuori Roma creandosi un alibi. Questo è ciò che racconta. Ora, il proprietario del negozio, Salvatore Lupo, è anche il proprietario delle mura del “Mambli” e De Negri, infatti, scrive nel memoriale di essersi pentito di aver danneggiato il proprio locatore, anche per la stima che aveva nei suoi confronti. E poi che fa? Dopo essere uscito dal carcere continua la sua attività nel negozio di proprietà di chi ha derubato? Ma ti rendi conto? E Lupo gliel’avrebbe pure lasciato, se avesse saputo che era lui il colpevole? Ma siamo certi che è stato partecipe di quel furto? Che sia finito dentro per quel furto e non per un altro reato?” Insomma, che De Negri sia stato condannato per quel furto non siamo affatto sicuri; ma di sicuro c’è che, nelle indagini, Ricci non è mai entrato ed altri invece, i Morico, hanno confessato. Vincenzina se lo ricorda bene: “La moto a mì fijo gliel’ho comprata io, prendendo un prestito in banca”, come a dire che se Giancarlo avesse avuto davvero in tasca i 100 milioni del colpo, lei se ne sarebbe accorta e non solo per la moto. Uno come Giancarlo, se avesse avuto 100 milioni in tasca, si sarebbe fatto notare da tutto il quartiere… Le balle raccontate da De Negri aumentano a vista d’occhio. Eppure, per lui il suo memoriale è la verità: chi lo contraddice o è incompetente o in malafede. Guai a dirglielo. O lascia cadere l’argomento bollandolo come “cazzate”, o ha accessi di una rabbia improvvisa, che controlla a stento. Esattamente come farà con i periti psichiatrici quando lo esamineranno.
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Abbiamo fatto un’ipotesi su chi possa aver aiutato De Negri dopo il delitto.Vogliamo fare di più. I Ricci tirano in ballo la mafia. E allora andiamo a vedere se l’ipotesi regge. Facciamo una ricerca, perché abbiamo, istintivamente, molti ma molti dubbi su questa idea. A dimostrazione del fatto che è difficilissimo vedere la morte di Giancarlo Ricci come una vendetta del crimine organizzato, confrontiamo la sua morte con altre, simili, avvenute in ambito di mafia, per vedere se il discorso torna o no. Alla fine degli anni Novanta, ad esempio, si scopre che nel catanese la mafia aveva usato la corrente elettrica applicata a varie parti del corpo delle sue vittime, per farle parlare a botte di scosse da 120 volt. Ma è solo la brutta copia di quello che faceva Filippo Marchese nello scantinato delle torture di Piazza Sant’Erasmo, a Palermo. Dove in un odore di marcio c’era un tavolo mangiato dall’umidità, strumenti di tortura e brandelli di pelle umana insanguinati, strappati a gente che era stata viva e la cui colpa era di aver messo le corna alla persona sbagliata o aver fatto una rapina senza autorizzazione. Sono i primi anni Ottanta. Ci sono anche un paio di taniche di latta piene di acido, così, per distruggere i corpi e gettare quel che restava in un canalone collegato alle fogne.29 Innanzitutto, nel primo caso gli aguzzini hanno infierito in vita e non post mortem, senza comportare la morte della vittima. Nel secondo è vero che Marchese puniva per un nonnulla ma c’è comunque un fatto sicuro: la criminalità organizzata riserva il peggio di sé nel territorio che controlla, non al di fuori, non a Roma. Non esistono notizie, infatti, di gesti altrettanto violenti di questi tre compiuti nella Capitale, prima e dopo il caso Ricci, da parte di mafia o camorra. Cose così eclatanti, la mafia, le fa a casa sua: non è mai venuta a farle a Roma né altrove. “Certo che la mancata aggressione alla cagna Jessy e la verità sul furto al negozio accanto una cosa ce la spiegano”, fa Armando, mentre seduti al bar facciamo il punto della situazione. 29
Ne parla Vincenzo Mugnosi in Cose loro, Novecento editore, pp 62-63.
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“Ecco perché nessuno aveva mai sentito nominare da Ricci il nome di De Negri e viceversa! Perché non era vero che il loro rapporto di botte e soprusi andava avanti da anni”. “Così come il delitto non ha un movente e nemmeno un modus operandi compatibile con quelli che la mafia ci ha insegnato”. “Esatto, giusto”. “Però lo stereo Ricci gliel’aveva rubato sul serio, al canaro”, faccio io, e mi interrompo subito perché la pizzetta romana col crudo o la mangi calda o non la mangi più. “Lo stereo ci sta. Sai che penso? Che Ricci conosceva ‘Mambli’ perché una volta c’aveva portato il suo, di cane. Questo ce lo ha detto la madre. E che ci tornava ultimamente, ma per comprare droga da De Negri. Poi lo stereo, poi De Negri può avercele prese, poi la cocaina che s’è sniffato e poi… ma qui dobbiamo leggerci le perizie psichiatriche”. “E dobbiamo anche ricordarci che cosa successe un anno dopo l’arresto”, dico io.
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Capitolo 9
Rimettono fuori l’assassino!
Abbiamo lasciato Pietro De Negri nella sua cella. Ha poggiato la penna, consegnato il suo memoriale alla guardia ed ora legge cosa ne dicono i giornali, cioè gli ultimi che avrebbero dovuto avere quei fogli, visto che sono destinati solo alla Capasso. Probabilmente non è contento di quel che legge, non è contento di sentirsi dipingere come un mostro senza fine. Ma tant’è. Passano quindici mesi: e De Negri ritrova il sorriso. È successo qualcosa di incredibile. Lo rimettono fuori. Com’è potuto succedere? È il 12 maggio 1989, l’anno dopo. Sono quasi le 19 quando il portone di Rebibbia si apre davanti al canaro. Immaginatevi quanti giornalisti ci stanno. Tutti. Serata primaverile, per uscire di cella. De Negri avanza nel grande spazio vuoto tra l’ingresso del carcere e il muro di cinta. In mano non ha nulla. Indossa una camicia jeans, pantaloni azzurri, scarpe da ginnastica. Ogni tanto si accarezza la collana d’oro massiccio che porta al collo. Si ferma, ironia della sorte, ad accarezzare il cagnolino del direttore. Dietro di lui s’intravede la divisa di una guardia e si sente una voce: “Spero di non rivederti più”. E lui: “E chi ci vuole tornare?” Supera il cancello, vede i giornalisti. Sembra incerto, le prime parole sono per dire che si sente stordito, che la sua liberazione è la prova che c’è giustizia in questo Paese. D’altronde gli sembra di sognare, era convinto di passare “120 anni in galera”. La bolgia inizia subito. Una giungla di taccuini, telecamere, microfoni e penne lo circondano da ogni lato. “Ve prego,
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lasciateme stà. Non voglio sapé niente”. Ce l’ha con noi, con la stampa: “M’avete combinato un casino”. Però, evitare di rispondere ad una mitragliata di domande come questa è difficile. Qualcuno gli dice che alla fine ha vinto lui, che da carnefice è diventato vittima. “Io non sono né vittima né carnefice – risponde lui – sono un povero disgraziato che ha reagito sotto l’ effetto della cocaina. Non mi rendevo conto di quello che stavo facendo. Lo hanno detto anche i periti. Come si dice? Incapace di intendere e di volere. Ma i periti, periti seri, gente importante, hanno aggiunto anche che non sono pericoloso. Quindi, è logico che sono uscito. Adesso? Non lo so, sono frastornato, confuso. Forse partirò per un viaggio, forse tornerò a lavorare. Sì, questo maledetto incubo è finito. Adesso ricomincerò tutto daccapo. Con mia moglie, la mia bambina...”30 Ma a prenderlo non c’è nessuno: la moglie, la figlia, sono state avvisate tardi. “E adesso come torno a casa?”. Sbuffa. Così, si mette a cercare una cabina per chiamare un taxi. Se vuoi il passaggio te lo do io, gli dice Mariella Regoli de “Il Messaggero”. De Negri sale: e ancora non sa cosa sta per succedere. Il giorno dopo, sul giornale c’è tutto quello che ha detto alla Regoli, mentre lo accompagnava a casa. Roba pesante. “La mia liberazione dimostra che la giustizia c’è, eccome”. E poi: “Io sono un tipo tranquillo, non un sadomasochista, sono uno che si arrabbia solo quando scopre di dover alzare la voce per veder riconosciuti i propri diritti elementari. E se mi incavolo te ce poi giocà mamma che ho ragione da vendere. Con coso, al posto mio, chiunque avrebbe fatto quello che ho fatto io. Come mi si può condannare? Quello era il terrore del quartiere”31. Lo chiama “coso”, al massimo “quello”: perché dice non ha rimorsi e rifarebbe quello che ha fatto. No, De Negri non è cambiato. Neanche un po’. Un anno di galera, ma pensa sempre di aver fatto bene. Quanto a Ricci, non 30 31
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Da “Repubblica” del 13 maggio 1989. Da “Il Messaggero” del 13 maggio 1989.
esisteva prima e non esiste adesso come persona. Ed è convinto di essere considerato un benefattore, nel quartiere. “Aprirò una sala da gioco unica in Italia”, conclude con uno spiccato senso della realtà. Ancora non ha capito cosa sta per succedere. Una cosa è certa: che alla Magliana ci siano quelli del “ha fatto bene”, è vero. Molti credono che De Negri ha fatto bene a reagire ai soprusi. Il primo giorno di libertà lo trascorrerà andando in giro per il quartiere con moglie e figlia. Dice che vuole tornare al negozio. Ma come si è arrivati a questo? È successo che, durante quest’anno passato dentro, giustamente i giudici hanno richiesto una perizia psichiatrica. Gli incaricati sono quattro: è una perizia collegiale. E sono: Franco Ferracuti, famoso criminologo e psichiatra, docente a “La Sapienza”; lo psichiatra Leonardo Ancona, il neurologo Cesare Fieschi, Silvio Merli, altro docente dell’Università e Medico Legale. De Negri s’è presentato a loro quasi facendo gli onori di casa, salvo poi, una volta entrati nel vivo delle domande e dei test, diventare praticamente assente, indifferente, comunque orgoglioso del delitto.32 Loro lo hanno esaminato in lungo ed in largo ed hanno concluso che non è capace di intendere e volere. E se non sei capace di intendere e di volere, per il nostro Codice Penale, non sei responsabile di quello che hai fatto, quindi vai liberato. Il carcere non ha senso per un pazzo, non gli fa niente. Giusto. È stata, comunque, una perizia allucinante. Perché De Negri “Conferma quanto narrato nel memoriale. Aggiunge di non essere pentito perché sa di stare nella ragione. La vittima della persona aveva solo le sembianze: era un animale, un serpente. E uno è a posto con la coscienza se uccide un serpente, ‘lo rifarei se fosse necessario’”.33 Base di personalità è “il narcisismo che, frustrato, dà origine 32 33
Dalla perizia Ferracuti, Ancona, Fieschi, Merli, pag 73. Dalla perizia Ferracuti, Ancona, Fieschi, Merli, pag. 65.
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a impulsi etero o autoaggressivi”. Ha “un’immagine negativa di sé che contrasta con fantasie megalomaniache di grandezza e potenza, (...) che contrastano con la realtà circostante”. De Negri è uno che “identifica mete che eccedono le sue capacità. (…) L’orientamento di base della sua personalità è narcisista e paranoide, ma senza deliri”, insomma. “Ha reazioni impulsive, rapide e forti, con attrazione verso il pericolo e mancanza di valutazione delle conseguenze. Ha un disturbo patologico di personalità di tipo paranoide. (…) Alterna fasi depressive e maniacali, accentuate anche dall’abuso di cocaina, che dà astinenza psichica (ma non fisica)”34. Ma le indagini, nate col vecchio codice di procedura penale, sono in mano a due giudici: il Pubblico Ministero ed il Giudice Istruttore, che ha l’ultima parola. Il Pm – l’abbiamo già incontrato, è Olga Capasso – accoglie le conclusioni dei periti, ma non intende mettere De Negri in libertà perché lo trova socialmente pericoloso, vale a dire: potrebbe rifarlo. Armando, ma cos’è questo “socialmente pericoloso”? “È un requisito tutto sommato soggettivo. La persona può essere soggetta a misure restrittive o patrimoniali, pensa che la pericolosità sociale si applica anche a persone non imputabili. Queste misure possono essere: detentive, per esempio essere ristretti in una casa di cura o un ospedale psichiatrico giudiziario; restrittive, per esempio il divieto di frequentare osterie; o patrimoniali. Sembra incredibile, ma la durata è prevista nel minimo... ma non nel massimo, perché hanno una funzione rieducativa e riabilitativa. Quindi, per esempio, se la persona entra in un ospedale psichiatrico giudiziario, potrà uscirne solamente se guarito. Molto spesso sentiamo di pluri-assassini che vengono condannati non alla detenzione ma, per esempio, a 10 anni di ospedale psichiatrico giudiziario: e rimaniamo scandalizzati. Ci domandiamo se una tale pena sia giusta per quello che hanno fatto. In realtà non funziona così, quello è il tempo minimo di detenzione, ma non è fissato il massimo: alcune di queste persone, proprio per la loro pericolosità sociale, non usciranno mai più. 34
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Dalla perizia Ferracuti, Fieschi, Ancona, Merli, pag. 72.
Ovviamente ti rendi conto quanto era importante determinare, in maniera concreta ed oggettiva, la loro pericolosità sociale?” Siccome però proprio la pericolosità sociale non è stata ben specificata in perizia, il giudice istruttore – anche lei donna, Maria Luisa Carnevale – chiede un supplemento di perizia, chiede lumi proprio su questo. I periti, allora, rispondono che non è socialmente pericoloso. Che tutto è dipeso dall’incrocio esclusivo tra il disturbo paranoide che gli hanno trovato e l’abuso di cocaina, che quello che è successo, insomma, non ha nessuna possibilità di ripetersi. De Negri era, al momento del delitto, “totalmente incapace di intendere e di volere per essere in stato di intossicazione cronica da cocaina”; per via di questo mix non era cioè in grado di rendersi conto delle proprie azioni. E, più che il disturbo paranoide in sé, è stata la cocaina che lo ha reso incapace di intendere e di volere. Il Pm legge il supplemento di perizia e allora dice: io, però, non sono convinta lo stesso che non sia davvero socialmente pericoloso. E chiede, al Giudice Istruttore, conseguentemente, a chiusura delle indagini, non una condanna, ma il ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (l’ex Manicomio Criminale), per 10 anni. Il giudice istruttore deve adesso decidere se essere d’accordo o no col Pm: chiederà il carcere o il manicomio? Nel frattempo Giuseppe e Marcello Madia, cioè i due avvocati di De Negri, si attaccano a questo discorso dell’incapacità di intendere e di volere certificata dai periti e chiedono al Giudice Istruttore la libertà provvisoria o gli arresti domiciliari per il loro assistito. Insomma, dicono, se sei matto non puoi stare in carcere. Giudice Istruttore e Pm si oppongono. Allora i Madia non mollano, fanno ricorso al Tribunale della Libertà e quello dà loro ragione. De Negri viene scarcerato, in attesa del processo. In barba alla Capasso ed alla Carnevale. Ma tutto non sarebbe successo se il Giudice Istruttore ed il Tribunale della Libertà, che tutto sommato stavano decidendo sulla stessa cosa, si fossero coordinati tra loro.
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Il giorno dopo “Il Messaggero” titola a tutta pagina: “Lo rifarei”. È il risultato del passaggio in macchina. La Regoli, ovviamente, da vecchia volpe, l’ha dato apposta al canaro, per strappargli un’intervista. E De Negri per parlare ha parlato. Pure troppo. Mentre il giorno dopo De Negri gira per la Magliana, potete immaginare come si sentono a casa Ricci. La liberazione di De Negri è sale sulle ferite aperte. Ecco cosa dice Vincenzina a“Il Messaggero”, in quelle ore. “Io non voglio che quel verme del canaro muoia, sarebbe un atto di pietà, deve vivere e capire la mostruosità che ha fatto. Quel moscerino si sente un eroe solo perché una sentenza ingiusta lo ha rimesso in libertà. Se si sente tanto invincibile accetti la mia sfida”. Quale sfida? “Se ha coraggio venga sulla piazza della Magliana e ripeta le cose infamanti che ha detto su Giancarlo, guardandomi negli occhi. Davanti a tutto il quartiere. Me lo sogno di notte quel momento: io e lui faccia a faccia, a mani nude”. La dimensione del quartiere è fortissima, qui. La giustizia popolare. La vendetta, visto che lo Stato non è capace di fare la sua parte. Vincenzina, in quelle ore, in quei giorni, gira per il quartiere cercando De Negri. Dio solo sa che sarebbe successo se si fossero incontrati. Ed è solo per un caso che non succede. Il canaro passeggia per la Magliana a bordo della Renault 4 della moglie. Guida a passo d’uomo, il braccio fuori del finestrino, riconoscibile, senza gli occhiali nerissimi. In jeans e giubbotto, con qualche etto di collane d’oro al collo, tranquillo; pure troppo, come se il peggio fosse passato e non ci fosse sempre il rischio che i giudici cambino idea e lo sbattano di nuovo dentro. Ce l’ha con quelli de “Il Messaggero”, perché la Regoli ha pubblicato quell’intervista. Si sente preso in giro. Dice che s’è inventata tutto. Ma la Magliana è un gruppo di palazzi che scottano come una pentola d’acqua bollente, in quel giorno di
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maggio. Ci sono bar in cui alcuni pregiudicati assicurano che saranno gli amici di Giancarlo a fare fuori De Negri. Parlano della vittima come di uno che ogni tanto perdeva il controllo ma poi si scusava. Una vicina di casa aggiunge che aveva salvato il marito da cinque teppisti che lo stavano aggredendo con le catene. Bruno, l’ex poliziotto che gestisce la palestra dove si allenava, dice che aveva fatto un solo incontro e dopo aver atterrato l’avversario, siccome gli faceva pena, aveva smesso di combattere e perso ai punti. Altri invece lo dipingono come uno che menava per nulla, una brutta persona che frequentava gente altrettanto brutta, che faceva casino con la moto e che si atteggiava a piccolo boss. Ma i giudici non sono rimasti con le mani in mano. Possiamo immaginarci il casino a Palazzo di Giustizia. Tutti sanno che la palla ce l’ha la Carnevale e dovrà pure decidere qualcosa. La sera del 17 maggio De Negri è andato in tv a raccontare la sua storia da Enzo Biagi: Vincenzina ha avuto un collasso. Ma l’ordine di arresto è pronto già dalle 12 del giorno dopo, il 18 maggio. Nel primo pomeriggio gli agenti della Squadra Mobile, diretta da Rino Monaco, bussano alla porta di casa De Negri. Da un lato della porta si sente “Polizia! Aprite!” e dall’altro una vocina che risponde: “... Papà non c’è...” In effetti a casa c’è solo, la figlia. Pietro è uscito a fare la spesa con la moglie. Alle 15 rientrano e non appena vedono l’Alfa Romeo della Polizia capiscono che sta per succedere qualcosa. Ma, come sempre in questi casi, non ci sono spiegazioni. Gli agenti di una Volante non sono tenuti a darne. Alle 15.30 De Negri sta già entrando in Questura e saluta tutti con sorprendente familiarità: ancora non sa, ancora non gli hanno detto i motivi di quello che lui non considera certo un arresto. Poi, la mazzata. Anche se la decisione della Carnevale era nell’aria. Alle 16.15 chiede di telefonare alla moglie. “Sta’ tranquilla, non ti agitare, non so ancora dove mi portano, ma tu parla con l’avvocato... ciao”. Quello che è successo – ma De Negri non lo so ancora – è
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che la Carnevale ha deciso di non accettare le conclusioni dei periti e di rigettare anche le conclusioni del Pm: ritiene infatti De Negri socialmente pericoloso e parzialmente capace di intendere e di volere. Alla faccia della perizia. E lo ha rinviato a giudizio, ordinando di tenerlo nel frattempo in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, con una sentenza di ricovero provvisorio, provvisorio in attesa di giudizio. Anche perché, annullato il primo mandato di cattura, per legge non ne avrebbe potuto emettere un altro. Per tenere dentro De Negri la Carnevale aveva una sola soluzione, dissentire dalla perizia per poterlo tenere al chiuso in un Opg. E così è stato. Immaginate la gioia del canaro, che a passare per matto non ci teneva per niente. L’uscita di De Negri di fronte a giornalisti e fotografi nel cortile della Questura, quel giorno, è di quelli classici. Urla contro i fotografi, si dimena, va avanti e indietro, fa una sceneggiata, si butta per terra: ce l’ha soprattutto con “Il Messaggero”, che ritiene direttamente responsabile del suo ritorno in galera. I cronisti, sgomitando tra loro, gli gridano mille domande. In mezzo al casino, sembra che dica non è pentito, ma che non lo rifarebbe perché la vita di moglie e figlia valgono di più di uno come Ricci35. In via Vaiano la notizia arriva col telegiornale delle 20. Vincenzina piange di gioia. Abbraccia la figlia Stefania. Solo il giorno prima era andata al Verano a trovare il figlio e chiedergli la forza di sopportare tutto quello che stava accadendo. Di andare avanti, in qualche modo, fino alla fine: perché una fine doveva pure arrivare, doveva arrivare, prima o poi, una giustizia che punisse l’infame che le aveva ammazzato il figlio. Stasera, invece, va al balcone: e grida a tutta la Magliana che il canaro è di nuovo dentro.
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Da “Repubblica” del 19 maggio 1989.
Capitolo 10
Il processo
Il processo per il massacro del canaro inizia alle Assise di Roma il 22 gennaio 1990, ma il protagonista al nero non c’è. L’imputato non ha nessuna intenzione di venire e rinuncia al dibattimento. Si dice che abbia paura di incontrare Vincenzina in aula. In molti hanno paura, in questo processo. De Negri manda una lettera al Presidente della Corte, Severino Santiapichi, che dice così:“(...) Giornali e televisioni non fecero altro che parlare di me e del mio demoniaco gesto, quanto macabro delitto; dipingendomi più nero del loro stesso inchiostro. Per questo scrissi un mio memoriale, per cercare di ridimensionare l’intera vicenda. Il risultato fu a dir poco deprimente”. Poi ripercorre tutta la sua vicenda, lamentandosi di non aver avuto nemmeno i domiciliari. Ma non solo è scontento per come sono andate le cose. Ci sono anche altri motivi per i quali non ha nessuna voglia di farsi vedere: “Per non parlare poi della quasi certa presenza in aula del padre, della madre, fratelli e sorelle della vittima; nonché dei parenti o, se gliene erano rimasti, degli amici; che non si faranno certo perdere questa ghiotta occasione per mettere in atto chissà quale machiavellica sceneggiata nei miei confronti; o in alternativa con mia moglie. Senza contare poi i giornalisti; che come avvoltoi, attendono ansiosi il giorno 22 per rigettarsi a capofitto su questo insolito, questo redditizio caso. Questi sono i veri motivi per cui non presenzierò al processo. Del resto, tutto ciò che avevo da dire, l’ho già più volte detto e anche scritto. In fede, De Negri Pietro”. No, il canaro non s’è mosso di un millimetro da dove era rimasto. Si sente che pensa sempre di stare dalla parte della ragione. E si sente anche che ha paura.
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C’è invece, al processo, Maria Paolina, la moglie. Si siede davanti alla Corte e nell’aria c’è l’idea che forse le sue parole possano aiutare a capire qualcosa di più di quello che è spaventosamente successo alla Magliana. Un raggio di luce, qualcosa che vada oltre le pagine dei periti, oltre i termini tecnici per dire cosa si muoveva dentro il cuore di De Negri, in quel pomeriggio in cui scelse di non averne più. E comincia a raccontare questo matrimonio, con un uomo nient’affatto facile. “Ci siamo sposati nell’aprile del 1979 – inizia Maria Paola – lui è entrato all’Enel, ma si è licenziato poco dopo. Quando nostra figlia aveva due anni aprimmo il negozio (quindi nel 1983, N.d.A.). Io andavo a servizio e intanto lavoravo nel negozio pur di portare soldi a casa e non lasciare che Pietro tornasse a rubare. Quando poi sono diventata abbastanza brava da sola in negozio lui veniva poco, faceva sport, prendeva la bambina e se la portava al mare, io restavo a lavorare. Nei primi anni lui ha imparato il mestiere a me, poi si è lasciato andare, era un megalomane, questa era la sua vita, il divertimento”. 36 Ci guardiamo in faccia con Armando: ma tutto questo nel memoriale non c’era… “Ci separammo alla fine del 1987, ma già un anno prima lui aveva un comportamento strano: era irascibile, scattava su ogni cosa, avevamo frequenti discussioni. Nell’ultimo anno, quando discutevamo, aveva sempre ragione lui, aveva eccessi d’ira. Non pensavo alla droga. Quando fummo separati lui non mi passava una lira, però si occupava sempre della figlia”. “Conosceva il Ricci Giancarlo, signora?” Chiede Santiapichi. “Non conoscevo il Ricci né lo avevo mai sentito nominare. Sentii nominare Ricci solo per il furto al negozio”. “Che tipo è suo marito, signora?” “Lui era un tipo esaltato, pensava di essere al centro dell’universo, si sentiva grande in tutto, qualsiasi cosa vedesse fare sapeva rifarla, è vero. Poi spendeva troppo, per me è paranoia anche quella. Entravano soldi e lui ne spendeva tre volte tanto, Il testo dell’interrogatorio di Maria Paola Mannino è tratto dal verbale del dibattimento. 36
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per fare bella figura coi miei parenti, faceva regali al di sopra delle nostre possibilità, era generoso all’eccesso. Se vedeva uno che se la prendeva con una vecchietta, scendeva in strada a litigare, ma tutto all’eccesso, come in qualsiasi cosa. Era molto forte fisicamente”. “Cosa ricorda o può dirci del 18 febbraio 1988?” “Quel giorno non riprese la bambina all’asilo, ci mandò mia sorella dicendo che era rimasto bloccato nel traffico, lei mi disse che gli aveva telefonato”. Una deposizione che invece è sconcertante è quella di Giuliano Raffaelli. Sconcertante per i contenuti: che di colpo diventano l’opposto di quello che aveva detto ai tempi dell’inchiesta. Sì, perché Raffaelli si rimangia tutto quanto aveva dichiarato alla Mobile e ai giudici. E cioè, che Ricci (che conosceva dall’adolescenza) gli aveva detto che De Negri faceva uso di cocaina, che si riforniva da lui e che non gliela pagava37. A momenti arriva anche a negare di essere stato colpito, durante una lite avvenuta con Giancarlo pochi giorni prima del delitto, con un’insalatiera. Una lite che era nata, presente Vincenzina, quando era andato in via Vaiano a farsi ridare da Giancarlo l’autoradio Pioneer che lui gli aveva rubato dall’auto. Era finita con molte urla e una ferita sanguinante. E con questa frase, detta a Vincenzina: “Vi consiglio di portare via Giancarlo dalla Magliana, altrimenti, prima o poi, qualcuno lo fa fuori”38. La lite si era ricomposta proprio il giorno della sparizione: il 18 febbraio. Ricci era improvvisamente comparso mentre Giuliano stava al bar, gli aveva offerto la colazione, s’era scusato e l’aveva portato con sé a Monteverde, per fargli vedere dei pezzi di uno stereo che disse di aver rubato il giorno prima e che, evidentemente, non era quello di Raffaelli, che altrimenti se lo sarebbe ripreso39. E che allora potrebbe essere quello di De Negri. Ma oggi, in Assise, Raffaelli nega di avere avuto altre liti Lo disse di fronte al giudice Carnevale, il 18 maggio 1988: “Mi risulta che si facesse consegnare la droga da lui con la prepotenza, senza pagargliela”. 38 Dall’informativa della Squadra Mobile del 9 giugno 1988. 39 Dall’informativa della Squadra Mobile del 9 giugno 1988. 37
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con Giancarlo. Smentisce pure di aver saputo del furto in cui Ricci avrebbe coinvolto De Negri. Di più: dice anche che lui non ha mai detto alla madre di portar via Giancarlo altrimenti lo ammazzavano, ma solo di portarlo via, così, genericamente. E non perché qualcuno poteva farlo fuori, o perché nel quartiere si diceva fosse un infame… E certo che è strano, no? Corte d’Assise di Roma, 7 febbraio 1990. Deposizione di Raffaelli Giuliano. “Negli ultimi tempi molti temevano Ricci per la sua violenza ed era peggiorato da quando si drogava. Non ho detto io alla madre che si comportava da infame, anche se nell’ambiente girava questa voce. Ho sentito dire che Ricci si facesse dare droga senza pagarla. Quando dissi ‘ve lo fanno fuori’ non mi riferivo a qualcosa di preciso che sapevo”. Alla fine, la sostanza è questa: negare, negare tutto, minimizzare qualsiasi contatto avuto con Giancarlo Ricci. Ma perché adesso Raffaelli fa il pesce in barile? Perché adesso cerca di stare il più lontano possibile da quella storia e non vede l’ora di alzarsi da quella maledetta sedia nera, lì, di fronte alla Corte, che scotta come il cofano di una macchina sotto il sole di Ferragosto? Dev’essere successo qualcosa tra il momento dell’omicidio e quello del processo. Qualcosa che gli ha messo paura e che gli ha fatto pensare che fosse meglio negare anche l’evidenza, pur di allontanare da sé l’immagine di Giancarlo. E sulla stessa strada si mette anche la deposizione di Gianluca Ballarini. Anche Gianluca è stato amico di Giancarlo ed abitava a tre numeri civici dal “Mambli”. Proprio pochi giorni prima del delitto, anche lui fece la stessa cosa di Giuliano: avvertì Vincenzina. Le disse “di stare attenta al figlio, perché nella zona della Magliana si stava comportando male con molti ragazzi. Infatti faceva continuamente delle prepotenze. Per esempio si faceva dare dai tossicodipendenti i soldi con la scusa di acquistare per loro la droga e poi non gli dava né soldi né droga”40. 40
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Dalla deposizione di Gianluca Ballarini alla Squadra Mobile del 30 maggio 1988.
Ma ora è diverso. Nega di aver detto che Giancarlo vendeva droga ai ragazzi della Magliana. Nega pure che gli misero sedici punti dopo una lite con lui (Giancarlo pensava che la moto gliel’avesse bruciata lui), dice che no, erano solo cinque. “Succede, succede, capita spesso Fabio. Alle prime parole di getto, dette magari in un ufficio di Polizia davanti ad una sola persona, non sempre segue una deposizione, durante il dibattimento, dello stesso livello e con le stesse ammissioni. Un conto è parlare con un investigatore che magari ti mette a tuo agio ed una volta che riesce ad istaurare un rapporto empatico ti spinge senza accorgertene a dire praticamente tutto. Diverso è trovarsi seduto in un’aula di Corte d’Assise piena di giudici, avvocati, spettatori, gente che ti fissa. Le persone addette al processo, non contando gli spettatori, saranno state più di 50-60. Ecco che le cose, anche dette durante la prima verbalizzazione, uscite di getto come se dette in confidenza, vengono rielaborate. Poi, Raffaelli era parte di quella realtà ed in quella doveva tornare. Quindi la parola d’ordine divenne minimizzare al massimo il proprio ruolo. E allora ecco una nuova deposizione che non dice nulla delle tresche tra Ricci e De Negri, o di quello che il quartiere pensava di Ricci, o di liti che c’erano state. Il nuovo Raffaelli non conosce nulla, specialmente davanti a così tante persone...” “E probabilmente non voleva essere messo in mezzo alla storia del siciliano finito dentro per via di Giancarlo, Armà, no? Credo che anche questo abbia pesato”. Una deposizione molto importante è quella di Franco Ferracuti, lo psichiatra che ha curato la prima perizia. Il professore insegna a La Sapienza. Si siede e comincia a spiegare cosa è successo quel giorno. E parte da Ricci. Spiegando cos’aveva nelle vene e cosa comportava quel mix di cocaina e morfina. “Già la cocaina quando decade porta sedazione psichica, poi con la morfina questo effetto è ampliato. La persona entra allora in fase depressiva. I poteri di attenzione sono incisi” e quindi ecco che quando è entrato era meno sveglio, meno reattivo del solito! Però dice anche un’altra cosa, Ferracuti. Dice che De Ne-
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gri non ha detto la verità, ha detto la sua verità. Quella che lui pensa essere. “De Negri racconta la realtà per come l’ha vissuta nel suo stato allucinatorio. Non è solo paranoico nel senso persecutorio ma anche portatore, perché paranoico, di deliri di grandezza. La persecuzione è finita col delitto. I deliri di grandezza invece no, perché in carcere era convinto di aver inventato dei nuovi tipi di busta da lettera, fatti con la pubblicità delle riviste, con cui si poteva guadagnare tanto. Poi, leggeva libri di psicologia e cibernetica. Poi, aveva iniziato due volte un memoriale che interruppe. Ma anche il contenuto del memoriale è paranoide. Lui ha vissuto trent’anni con una personalità paranoide e non è successo nulla, poi con la cocaina è successo tutto. È difficile che un paranoico commetta omicidi: in genere non ci arriva senza la droga”. A spiegare meglio cosa se ne va in giro nella testa del canaro è un altro perito, Leonardo Ancona, co-autore della perizia fatta da Ferracuti. Anche il professor Ancona spiega bene alcune cose importanti. “Il suo è un disturbo paranoide che è passato inosservato, perché disturbi così si manifestano solo in certe occasioni. Ma il rapporto con gli altri è distorto in De Negri fin dall’infanzia. Una distorsione latente, ma che subisce improvvise evoluzioni ed una di queste è la sudditanza di tipo sadico che il soggetto porta rassegnatamente dentro di sé, fino al limite di rottura; ed allora c’è l’esplosione. Questo disturbo è stato inoltre complicato dall’assunzione di cocaina, che lo ha slatentizzato”. Il professore sembra quasi sentire la domanda che resta sospesa nell’aria dell’aula di Corte d’Assise. Ma come è possibile? È sempre stato normale, er canaro! Nun se vedeva gnente! Pareva normale, no? Il professore, allora, spiega a tutti come funziona la faccenda, in questi casi. “Uno è il piano delirante in cui è implicato il persecutore: ma rimane libero il rapporto con le altre persone, verso le quali può apparire, in quei momenti, assolutamente normale, perché non è toccato dal delirio. È come un cambiamento di registro, come quando si cambia canale alla tv. Anche mentre scrive il memoriale è ancora in delirio: e infatti non è tutto credibile”.
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C’è un punto su cui però Ancona ha una visione diversa da Ferracuti: “Senza la cocaina avrebbe ucciso lo stesso, ma non in modo così trucido”. Per lui è chiaro: aveva già preordinato di fare fuori Ricci, poi qualcosa deve averlo fatto scattare proprio quel giorno. Ma Santiapichi non è convinto. È qui il colpo di scena del processo. Il Presidente, nonostante la perizia che ha animato la fase istruttoria, vuole vederci chiaro a fondo e chiede una nuova perizia. Il processo si ferma. Cosa c’è che non è chiaro? Nessun dubbio sul disturbo paranoide di personalità, infatti. Ma è il ruolo della droga, che non è affatto chiaro. Perché Ferracuti, Ancona, Fieschi e Merli le hanno assegnato un ruolo secondario, mentre Santiapichi non ne è convinto affatto. Gira voce che non l’abbia convinto la relazione dei quattro periti: troppo schiacciata sul memoriale e troppo certa della cronica intossicazione. Un dato rilevato dalle dichiarazioni di De Negri nel suo testo, quindi per forza qualcosa di infido... “Fabio, chiariamo al volo una cosa importante, il problema della cronica intossicazione esula dal fatto che la persona in quel momento abbia più o meno assunto una sostanza stupefacente. Chi è intossicato cronicamente, ‘è incapace di intendere e di volere’ sempre, quindi non è punibile a livello di detenzione in una struttura restrittiva come un carcere, ma solo in una casa di cura. È ovvio che era fondamentale determinarne per la Corte la presenza di una intossicazione cronica”. È l’11 aprile 1990 quando sono incaricati della nuova perizia Francesco Carrieri (professore ordinario di Medicina Legale, direttore dell’Istituto di Criminologia e Psichiatria Forense dell’Università di Bari, specialista in neuro psichiatria) e Adolfo Pazzagli (professore ordinario di Psicologia Clinica e Direttore della Clinica Psichiatrica dell’ Università di Firenze). Qualche mese dopo, depositano una perizia che dice qualcosa di molto diverso. È l’11 giugno del 1990 quando Pazzagli e Carrieri si presentano davanti alla Corte per parlare. Quel giorno, il processo riprende. Come dopo una lunga apnea.
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Quando si siede davanti alla corte, Pazzagli ha le idee chiare su chi è Pietro De Negri: dice che non prendeva bene le osservazioni dei periti, perché voleva sempre far vedere di essere “una mente eccellente che ricorda tutto, che organizza tutto. Mi è parso di poter dedurre che ci sia come un bisogno coatto di essere in possesso di una verità totale”, dice. A Pietro De Negri non piace essere messo in discussione e il perito se ne è accorto, eccome! “Durante i colloqui aveva a volte reazioni violente quando gli contestavamo delle cose: alzava la voce, aveva degli scatti, parolacce, cercava di alzarsi dalla sedia. Però descrive la vittima come il ricettacolo di tutto il male per semplificare il rapporto con lui, per gestirlo. All’inizio aveva ammirazione per la forza di Ricci e per la sua capacità di guidare grosse moto, poi dev’esserci stata una delusione nella possibilità di stabilire un’alleanza: e qui è cambiato tutto”. Carrieri si aggiusta sulla sedia là, al pretorio, davanti alla Corte e assegna alla cocaina un ruolo centrale. “È l’assunzione di cocaina che spiega la straordinaria efferatezza di questo crimine. Quando gli contestavamo le modalità dell’esecuzione, De Negri aveva reazioni decisamente violente. Per lui i periti come Arcudi sono dei mascalzoni, dei delinquenti, non capiscono niente, dei farabutti, ve lo faccio vedere io, sono pezzi di merda. Invece si è reso conto, parlando con noi, che non aveva assunto cinquanta grammi di cocaina: ‘Beh, quelle sono cazzate’ ha detto. Su questo punto si è reso conto. Senza quell’assunzione di cocaina non è che il crimine non si sarebbe verificato, ma non con quella efferatezza che ha pochi riscontri nella letteratura criminologica mondiale. Il suo è un grave disturbo di personalità. Una situazione borderline che ci porta a parlare di vizio parziale di mente. Non è ancora una psicosi. Se lo fosse, il delitto sarebbe davvero incomprensibile, come accade con gli schizofrenici. Come quando uno si alza di notte e uccide senza motivo tutti gli altri in casa. Ma questo non è il caso, anzi c’erano contrasti precedenti tra vittima e assassino. E comunque, l’assunzione della stessa dose di droga può avere effetti diversissimi su ogni persona. Si possono anche as-
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sumere cinque grammi di cocaina ed essere abbastanza lucidi da ripulire il negozio, inventare la banda dei siciliani, andare a casa del Ricci, ecc... come ha fatto lui”. Se le ricorda bene, quelle sedute col Canaro, Carrieri. Con De Negri compiaciuto di tener testa a tanti illustri interlocutori. Che crede nel Memoriale, nonostante tutte le contraddizioni evidenti. Che lo difende, che non tollera gli si dimostri che ha torturato un cadavere, non un uomo vivo. E che non ha sensi di colpa. E che continua ad ammirarlo, Ricci. Per come ha sopportato il dolore con forza, senza chiedere pietà. Guai a dirgli che si è fatto un film! “Se viene contraddetto si offende e diventa aggressivo, rabbioso, alza il tono della voce, tira fuori una collera a stento repressa – conclude Carrieri – mentre, se parla della moglie o della madre mostra affetto ma ne parla con distacco, quasi parlasse di altri. È una freddezza affettiva”. E no, davvero, nessun senso di colpa. “De Negri capiva insomma cosa stava facendo e le conseguenze, il problema è che aveva compromessa la capacità di scegliere, controllarsi. E questo fu dovuto alla sua struttura emotiva che ne alterava i processi di volontà”, dichiara Carrieri. Conclusione: per i periti il canaro è seminfermo di mente e l’uso cronico di droga è stato determinante. Senza questo, non sarebbe successo. Ma tutte queste cose il canaro non le sente, perché lui, in aula, non c’è. De Negri è ristretto presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino e in ogni caso non ha nessuna intenzione di farsi un viaggetto a Roma. Ricordate la lettera? La sentenza arriva il 26 giugno del 1990. Pietro De Negri si prende 15 anni per omicidio volontario e vilipendio e altri 5 per illecita detenzione e cessione di sostanza stupefacente. La Corte lo assolve dall’accusa di sequestro di persona, per il semplice motivo che non c’è mai stato. Ricci, nella gabbia, non c’è entrato.
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Anche il processo d’Appello si gioca tutto sul filo dello stato di mente di De Negri. Da ricostruire, d’altronde, c’è davvero poco. La difesa dice che l’assassino va assolto perché totalmente incapace di intendere e di volere, che nessuno ha mai visto De Negri prendere droga. Il Pubblico Ministero, invece, vuole anche la premeditazione. L’11 aprile 1991 inizia e finisce il processo d’Appello. D’altronde, poche volte un processo di secondo grado rivede tutte le carte. Anche nella primavera del 1991, De Negri rimane in cella. Il dibattimento si apre alle 10.30: alle 14.30 c’è già la sentenza: 21 anni di pena–base per omicidio, più 1 per vilipendio di cadavere, meno due per il condono e fanno 20. Esattamente come in Assise. Apparentemente è andata uguale, ma nemmeno poi tanto. Perché la Corte, stavolta, ha aggiunto a De Negri l’aggravante della premeditazione, che però non gli ha aumentato la pena perché c’è la diminuente della seminfermità mentale ed il condono. Fanno pari. Roba da matematica giuridica. Risultato: sempre 20 anni di galera. Neanche la Corte d’Appello ha creduto a De Negri. Non ha creduto alla provocazione, perché era da tempo che De Negri rifletteva sulla vendetta, non c’è stato uno scoppio d’ira. E poi la reazione, comunque, sarebbe sempre troppo sproporzionata. E poi Ricci aveva vestiti ingombranti, invernali, per i quali non sarebbe riuscito ad entrare nella gabbia nemmeno col pensiero. Di più, dice la Corte: non è nemmeno pensabile che si sarebbe nascosto tranquillamente nella gabbia, come se niente fosse. Non è pensabile che avrebbe accettato l’idea della rapina così, in pochi minuti, una rapina di cui non sapeva nulla; tanto che, infatti, aveva lasciato fuori tranquillamente Beltrano ad aspettarlo, proprio perché sapeva di dover entrare solo a prendere della droga. Aggiunge un’osservazione, la Corte: e non da poco. Questa: che non c’è stata nemmeno una lite tra Ricci e De Negri, perché si sarebbe sentita da fuori. Quindi, resta solo una cosa: è stato colpito immediatamente. È una ricostruzione lucida, puntuale, razionale, quella dei giudici. Nessuno all’esterno sentì lamenti o grida, come sarebbe stato se le torture fossero durate per ore ed ore. E poi c’è la balla
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dell’uso della benzina, che non ha mai tramortito nessuno, anzi: al massimo produce effetti esilaranti. Finisce l’ultima pagina della sentenza d’appello e scende l’oblio sulla vicenda della Magliana. Ma quella che si fisserà, purtroppo sarà la verità del Memoriale: non quella dei fatti.
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Capitolo 11
Le parole del professore
Su Roma è scesa la sera quando fermiamo la Vespa sotto casa del professor Mastronardi. Mentre ci togliamo i caschi, non abbiamo dubbi: abbiamo capito subito che faremo le ore piccole, il professore passa così tanto tempo a fare lezione e seguire i suoi allievi che gli unici momenti in cui può concentrarsi sul libro è quando si trova nel suo studio, dopo le nove di sera. Saliamo e, senza pensare lontanamente a mangiare, iniziamo a tirare fuori, dai nostri zaini, tutto il carteggio di atti ed appunti. Stiamo per iniziare a domandargli di De Negri quando Mastronardi ci guarda negli occhi e parte deciso: “Iniziamo a parlare della vittima!” Armando a questo punto lo guarda perplesso: “Ma… secondo lei aveva un disturbo di personalità, allora?” I comportamenti di Ricci sono descritti come violenti da molti, ma ritenerli frutto di una qualche patologia… beh, non lo avevamo nemmeno pensato. Mastronardi sembra averci letto nel pensiero: “Non possiamo di certo saperlo, Ricci non è stato esaminato clinicamente, possiamo solo fare supposizioni, certo; ma, basandoci sulla testimonianza del suo carnefice e su quelle dei suoi conoscenti, che ne descrivono un quadro riconducibile ad una forte struttura narcisistica di personalità, potremmo addirittura parlare di ‘Narcisismo maligno di Kemberg’. Sì, forse ci siamo”. Intanto Mastronardi continua a girarsi i documenti tra le mani: “Sembrerebbe, qui il condizionale è d’obbligo, che ci fosse in Ricci la volontà di esprimere una supremazia, anche con comportamenti simil-mafiosi, fatemi passare il paragone, con la volontà di provar piacere a mortificare l’altro. Le nostre intuizioni si basano solamente sulla sua psico-biografia. Da
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questa è possibile, anche se non clinicamente accettabile, desumere dei tratti caratteriali e comportamentali che ricondurrebbero ad una struttura narcisistica di personalità, che però non sconfina in una patologia. Ma il comportamento atto ad intimidire il prossimo è un comportamento perdente che prima o poi si paga, ancor di più in un ambiente dove sicuramente gli scrupoli non sono di casa”. Proprio mentre il professore dice queste parole, si avvicina, facendo le feste, il suo cagnolino, Ursula. Ma non ci facciamo distrarre più di tanto e lui continua “Se dovessimo pensare a quanto l’essere umano riesce a sopportare nella sua vita ed a quanto, invece, non riesce a sopportare più, diventando di colpo intollerante... Sopportazione ed intolleranza sono separate da un sottilissimo scalino che sarebbe bello non dover mai superare. Nel nostro caso la droga è stato l’elemento scatenante, che ha permesso il superamento di questo gradino, della soglia di tolleranza”. Insomma, senza la droga sarebbe stata un’altra storia, giusto? “Sì. Mi viene in mente un caso che trattai alcuni anni fa, una rapina ad un gioielliere a Trani. L’autore della rapina era una vera e propria persona timorosa: strano a pensarlo, vero? La droga gli serviva per superare la paura, prendere forza e riuscire a commettere la rapina. Qui invece ci troviamo di fronte ad un caso senz’altro differente”. È Armando a parlare. “Con Fabio ne avevamo già discusso prima, e ci veniva sempre un dubbio: ma De Negri, se non avesse vissuto la sua storia di soprusi, veri e inventati, sarebbe diventato il ‘canaro della Magliana’? Uno dei personaggi più conosciuti della cronaca nera romana?” “Dubito che inserendo De Negri in un altro contesto sociale si sarebbe verificato lo stesso un caso di omicidio – risponde Mastronardi – Le disposizioni individuali sono fondamentali, certo, come anche il contesto familiare e sociale. Come diceva Freud, anche chi nasce con un temperamento aggressivo non è detto che con il passare del tempo possa svilupparlo. Sono la famiglia e la società che limano il suo temperamento, costituendo il suo super ego, la sua coscienza morale, il suo ‘giudicante
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interno’, quello che fornisce i limiti comportamentali, i limiti che non devono essere superati. Sono loro che confezionano i concetti di Bene e Male e quindi la strada che si deve seguire. Differente è quando la persona ha un naturale comportamento particolarmente aggressivo: beh, a questo punto devo ricorrere ad un paragone non pienamente calzante… in questo caso potrei dire che è l’occasione che fa l’uomo ladro. Ipotizziamo che la vittima, Ricci, avesse ascoltato le richieste di De Negri: questo avrebbe smorzato l’impeto e la voglia di rivendicazione del canaro. L’occasione non ci sarebbe stata”. Siamo però curiosi di una cosa. Lo abbiamo visto, ricordate? Se compariamo le dichiarazioni di De Negri (compreso il suo memoriale) con le risultanze medico legali troviamo delle grosse incongruenze. Ma grosse. Una per tutte, il tempo in cui Ricci è rimasto in vita. Le escissioni sono senz’altro avvenute post mortem. Eppure De Negri è convinto del contrario, al punto che, quando questo gli viene contestato, si infuria contro i medici legali, che – urla – non sanno fare il loro mestiere. Mastronardi sente la domanda, nonostante sia assorto a sfogliare carte: “Non è escluso che in quel momento di concitazione, in cui la droga accelera i processi dissociativi, lui abbia avuto la volontà o abbia avvertito la necessità di compiere determinati rituali che poi non ha compiuto. Qui ritorna ancora Freud… per il nostro inconscio ciò che è fantastico è come se fosse realmente avvenuto, non c’è parametro di confronto. Vedete, in uno stato di coscienza crepuscolare, cioè quella che si ha negli stati di slivellamento di coscienza (ira, paura, insonnia protratta, fame, sonno, assunzione di droga) si entra in uno stato modificato di coscienza. Freud fa un esempio particolare, parla di alcuni casi che seguì: donne che ipotizzavano seduzioni da parte del proprio padre quando erano state piccole. In alcuni dei casi che analizzò si accorse che le loro erano solo produzioni fantastiche, che non corrispondevano alla verità. Freud rimase molto colpito da questo fatto e scrisse nel suo diario: ‘Ho osato profanare la sacralità della famiglia, quando erano solo costruzioni fantasiose’. Ma da quel grande uomo che era, poi scoprì quale era il problema: non c’è differenza nel nostro inconscio tra ciò che è stato fantasticato e ciò che è
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stato veramente vissuto. Quindi, la paziente aveva desiderato, inconsciamente, la seduzione del padre. Per analogia possiamo dire che la volontà di De Negri di tagliare un dito alla vittima ed inserirla nell’occhio, o le altre escissioni di cui parla con una precisione quasi maniacale, sono la sua volontà, ma… non potendo realizzarla prima della morte di Ricci, lo fece dopo. Solo che, per lui, la sua vittima era ancora ben in vita... Non l’ho fatto prima ma lo faccio dopo, convincendomi che invece è avvenuto prima della morte. Ripeto, è solo un tentativo didattico, ipotetico di entrare nella mente dell’assassino”. Adesso è tutto chiaro! De Negri viene arrestato e poi rilasciato, per un vizio di forma. Per cinque giorni è in giro per la Magliana. Cammina con aria spavalda, o quanto meno così appare alla gente del quartiere: addirittura sembra che, quando si muoveva in automobile, camminasse piano per farsi vedere bene e tenesse il braccio fuori dal finestrino. Ma professore, le sembra un comportamento normale? Mostrarsi così apertamente, dopo aver compiuto un delitto tremendo? A questo punto Mastronardi rischia il tutto per tutto e si arrampica sulla libreria, incredibilmente fornita, ed estrae un volume pieno di polvere. Io e Armando ci guardiamo negli occhi, sicuri che gli cadranno in testa almeno un altro centinaio di grossi libri, che vediamo oscillare paurosamente. Temiamo il peggio. Avessimo avuto qualche istante in più avremmo addirittura scommesso qualcosa sull’eventualità del disastro letterario. Ma non c’è tempo, i libri oscillano come onde, poi si placano: per rimanere, come sempre, fermi e saldi al loro posto. L’unico che non sembra essersi accorto dello scampato pericolo è il professore, che ovviamente è a conoscenza del fatto che in quella libreria le leggi della fisica non riescono a fare presa. Con il libro in mano si gira trionfante verso di noi: “Vedete, l’ho trovata, è la lirica di Aldo Palazzeschi, L’Assolto. Guardate questo meraviglioso passo, quando l’assolto si porta in pubblico, ed addirittura in teatro!, per farsi ammirare. Certo, nel nostro caso non possiamo parlare di assoluzione, ma met-
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tetevi nei panni di un omicida così efferato che, invece di stare scontando la pena in carcere, si trova, per un vizio di forma, libero. Il nostro De Negri si sentiva in quel momento assolto e quindi, ma eccola... “Allor che i miei buoni fratelli m’avevan due volte sepolto, disse una voce: (io non so come e dove) ‘Assolto. Mancanza assoluta di prove’. Si apersero tutte le porte, si apersero tutti i cancelli. ‘Assolto!’ Io sono ‘l’assolto’ miei cari signori, e ora che sono fuori guardatemi bene in viso: ho ucciso? ‘Assolto!’ È la mia professione, che intendo bene di sfruttare dal suo lato migliore. ‘Assolto!’ Appena uscito mi accorsi subito qual era il miglior partito. Fuggire? Nascondersi agli occhi della gente? Macché! Sottrarsi alla sconcezza del dubbio ch’io rivesto? Macché! Rivestirlo dignitosamente o con disinvoltura? Macché! Niente, niente! Esibirsi, senza misura, generosamente. Gli è perciò ch’io frequento le strade, il passeggio, i teatri, il caffè, come ogn’altr’uom non assolto: certe volte mi diverto poco... certe altre molto... né più né meno di lui o di te. Si sa che color che incontrandomi intrecciavan col mio bei sorrisi, vedeste ora che visi... che visi mi fanno! E che voci sorprendo dai crocchi! Vedeste che occhi! - Un innocente si scolpa. - E un farabutto lo stesso. - Ha taciuto, ecco tutto. - Ha taciuto come un innocente. - Ha taciuto come un farabutto! - E gli errori? - Questi sono gli errori, i delinquenti sono tutti fuori!
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Entro per tempo in teatro, prendo possesso della mia poltrona con molto sussiego. Mi volgo, mi chino, mi spiego; mi lascio ammirar giro giro con aria da Dio. E se certi visi si spostano resta inflessibile il mio. Per i primi venti minuti lo spettacolo lo do io. ‘Bella che stai puntandomi attraverso la lente dell’occhialino, dimmi, mio bel musino, mi desideri innocente, o mi desideri assassino?’ Un signore là indietro, dai posti distinti, macina lesto fra i denti: ‘sul trono, sul trono i briganti!’ E un altro: ‘guardate che ghigna stasera, facciaccia da galera!’ Quando s’alza il sipario divento anch’io un umile spettatore, come lui, negli anfratti ritorno un poco attore, eppoi ancora spettatore come te, come tutti gli altri. E se dopo all’uscita qualcuno mi aspetta, io esco pian pianino senza nessuna fretta. Poi vado al caffè. Finché c’è gente sveglia nella città resto a sua disposizione, nessuno dev’essere defraudato nella legittima curiosità, sono un galantuomo nella mia professione. E non crediate ch’io sia tardivo ad escir fuori al mattino, macché! Bisogna pensare che il mattiniero ha gli stessi diritti del nottambulo cittadino. ‘Assolto!’ Può sembrar poco... e può sembrar di molto. Guardatemi bene in viso: ho ucciso?” Ecco... Palazzeschi riesce a dipingere sicuramente bene lo stato d’animo di chi ha avuto a che fare con la legge riuscendo a ‘farla franca’. Sia ben chiaro, qui non stiamo parlando di una persona che ha una giusta assoluzione, ma di una persona che, pur avendo infranto la legge, riesce a non dover pagare il prezzo alla giustizia. Nel nostro caso, poi, c’era la volontà di far vedere la propria non colpevolezza: lui era la vittima di soprusi, una vittima costretta a diventare carnefice”.
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Un’altra cosa ci gira per la testa, ripensiamo alle parole dei genitori di Ricci, ci immaginiamo la scena di De Negri, che certo robusto non è, a mettere quel colosso dentro il portabagagli. Ma è possibile che abbia agito da solo? Vincenzina e Alessandro Ricci ne sono convinti: il canaro non sarebbe stato mai in grado di sopraffare da solo Giancarlo. Noi un’alternativa l’abbiamo proposta. “Qui entrano in gioco due fattori importanti. Il primo, da non escludere, è il fattore sorpresa: se ci pensiamo bene, proprio il fatto che Ricci era conscio della sua supremazia fisica rispetto a De Negri lo faceva stare più tranquillo e lo rendeva invece soggetto a sorprese. Il secondo, il fattore adrenalina… immaginiamo una scena in cui, secondo la visione di De Negri, lui sta lottando contro i soprusi subiti. È carico di questa voglia di riscatto, una scena vissuta chissà quante volte nella sua testa. Ecco, in quel momento Ricci entra nel suo negozio e lui può dar sfogo a tutto il suo impeto. L’adrenalina a quel punto permette cose inimmaginabili. Ovviamente, passato il momento, la persona risentirà fisicamente dell’energia spesa, ma fino a quel momento la sua forza sarà moltiplicata. Che possa aver trascinato il corpo da solo fin dentro il bagagliaio? Con la forza trovata e – non dimentichiamoci – sotto la spinta della cocaina che accelera tutto, certo, è possibile”. Un’altra cosa che ha colpito molto me ed Armando è che, leggendo il memoriale, De Negri, durante lo scempio, dice di aver fatto delle pause in cui ha vissuto dei momenti normali, addirittura affettuosi. Ad un certo momento, si mette a preparare da mangiare per Jessy, la sua cagna: e gioca con la cucciolata. Ma come si spiegano questi momenti di normalità incastonati in una sequenza di atti di violenza e follia? Mastronardi ci guarda con la massima naturalezza e riprende: “Qui è importante far capo a quelli che sono gli automatismi dell’essere umano. Ci sono delle azioni che l’essere umano compie e che esulano dalla volontà, addirittura esulano dallo stato di veglia. Prendiamo come esempio, anche se il termine è ovviamente un po’ anacronistico, ‘il sonno della balia’. Viene sempre considerato come l’esempio principe per spiegare
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quali siano gli automatismi. La balia, mentre dorme, può essere circondata dal frastuono più incredibile, che però non la fa svegliare: apre gli occhi di scatto solamente quando il suo bambino emetterà il più piccolo rumore. O, se preferite, prendiamo l’esempio della guerra con ‘il sonno del telefonista’, il quale non certo viene svegliato dal rumore fragoroso dei bombardamenti ma… basta che il telefono squilli e lui è pronto a rispondere. Mi piace raccontarvi, però, un altro aneddoto che si racconta sul sommo poeta. Dante si trovava dallo speziere, che al giorno d’oggi potremmo considerare una figura tra il farmacista e l’erborista, e mentre era in attesa che gli preparasse il composto che voleva, gli venne in mente una parte del cantico che stava componendo in quel periodo. Tutto preso, lo elaborava e lo sistemava a mente, ovviamente senza aiutarsi con carta e penna. Ad un certo momento la pozione era pronta e lo speziere avvicinandosi a Dante gli disse: ‘Maestro, ha sentito che bella banda?’. Poco prima, infatti, nella strada era passata una banda che aveva fatto un frastuono incredibile. Dante, con lo sguardo sperduto, rispose candidamente di no. Era così forte il monoideismo di Dante, in quel momento, che tutto il resto era secondario, per lui. Questi monoideismi non contrastano però con le azioni routinarie, classiche, ricorrenti, che la persona può compiere in quel momento. Quindi ci sta che De Negri si sia messo a preparare il cibo per il cane, o a giocare con i cuccioli, compiendo quasi un rituale che svolgeva sempre. Poi, finita questa pausa, ricomincia, facendo uso della stimolazione fornita dalla cocaina”. E qui non possiamo non fare quella domanda che abbiamo in testa da tempo. E che avete anche voi. Professore, De Negri sconta la sua pena in maniera anonima, senza dare problemi durante la detenzione. È finita qui la sua volontà criminale o dobbiamo aspettarci un nuovo delitto, alla prima occasione? “Rispondo con le parole di un uxoricida che ho periziato. A conclusione del colloquio, che come ricordo è parte fondamentale nello svolgimento di una perizia, mi domanda: cosa ne pensa di me? Intuisco subito che la domanda andava letta nella chiave giusta, cioè l’uomo voleva sapere se poteva aspi-
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rare alla possibilità di poter vivere un’altra vita ed anche, ovviamente, capire come stava andando la perizia. In quel momento non potevo rispondere per due motivi: il primo per una motivazione deontologica, professionale, che ovviamente mi impediva di anticipare gli esiti, a chiunque esso sia, di una perizia affidatami dal Giudice. Il secondo che il colloquio doveva ancora essere integrato con la parte dei test, a conclusione. Comunque, al periziato gli risposi così: credo che, prima o poi, ci si può sempre rifare una vita. Solo che è indispensabile fare come diceva il saggio: quando arrivi all’ultima pagina devi fare una sola cosa, chiudere il libro! Lui fece una pausa lunghissima, che ovviamente non mi ha intimorito, avendo sempre insegnato nei miei corsi l’importanza paraverbale delle pause nel discorso, poi rispose. Lo fece con un modo di dire caratteristico delle sue parti – proveniva da un paese dell’est: ‘Ho capito professore, noi diciamo: – quando sei passato da una parte e ti sei bagnato i piedi, non ci ripassi più’. Quindi, cosa significa? Che la sua volontà di resistere agli impulsi c’era, era valida. Per tornare al nostro caso e rispondere alla precedente domanda rivoltami sul canaro, ritengo che chi ha vissuto esperienze simili possa riuscire a mettersi al riparo da eventuali analoghi rischi futuri, non solo per quello che ha vissuto in quel momento, ma anche, come in diversi casi avviene, grazie all’effetto terapeutico e di prevenzione secondaria della carcerazione”. Mastronardi si arrampica nuovamente sulla sua libreria e ne riemerge impolverato ma soddisfatto. Tocca terra con un volume fondamentale: la perizia Carrieri-Pazzagli. Fu proprio il presidente Santiapichi, ricordate?, l’11 aprile del 1990, quindi due anni dopo l’omicidio, ad incaricare i due famosi psichiatri di esaminare Pietro De Negri. C’era qualcosa che voleva approfondire, rispetto alla prima perizia. Santiapichi incaricò Carrieri e Pazzagli di rispondere a poche, semplici domande: se l’imputato al momento del fatto era infermo di mente per ragioni di imputabilità esclusa o grandemente scemata, quindi per vizio totale o parziale di mente; la specifica natura dell’infermità mentale, nel caso di risposta positiva; se l’imputato era affetto da cronica intossicazione da sostanza stu-
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pefacente ed in particolar modo da cocaina41; e, se positivo il giudizio sull’infermità mentale, se l’imputato fosse socialmente pericoloso. Con la perizia tra le mani partiamo subito con una domanda: ma su cosa si basarono i periti per rispondere a questi quesiti, visto che comunque si trattava di un’analisi del paziente fatta a posteriori? Com’era possibile determinare se fosse affetto da cronica intossicazione da cocaina, dopo quasi due anni di carcere? Il professore si gira la perizia tra le mani ed inizia a sfogliarla: “Vedete, stiamo parlando di due veri professionisti, il cui giudizio non poteva basarsi solo su un esame clinico del paziente, visto il tempo trascorso. Era ovvio che a loro servissero le cartelle anamnestiche di tutti i luoghi dove era stato ricoverato o recluso, delle perizie psichiatriche già effettuate, ma non solo. I periti lavorarono anche sulle perizie medico legali. Infatti, per l’effettuazione di una solida perizia, è necessario confrontare le dichiarazioni del periziato con la realtà. E quale miglior occasione, visto che nel suo memoriale De Negri aveva raccontato l’omicidio in modo minuzioso e completo? Ma era davvero la verità o era la sua verità?” Appunto. Mastronardi continua: “Parliamo di ‘intossicazione cronica’, attenzione! Non di super-dosaggio (cioè di una ‘intossicazione acuta’), assunto appositamente al doppio scopo di abbassare i freni inibitori ed avere una ‘attenuante’ in sede giudiziaria!” E già, perché può succedere anche questo. Solo che sono due cose molto diverse. E allora, come hanno fatto Carrieri e Pazzagli a capire se De Negri era davvero intossicato in modo cronico all’epoca del delitto o aveva solo fatto finta? Finisce la nostra domanda e parte subito la risposta: “La differenza è difficile da accertare in sede diagnostico peritale, ma una intossicazione acuta da cocaina comporta delle conse41 Per la giurisprudenza italiana una intossicazione si ritiene cronica se ha provocato alterazioni neuropsichiche a carattere patologico, ormai stabilizzate e “permanenti” almeno da sei mesi–un anno, con compromissione stabile anche se non irreversibile di tutte le funzioni psichiche. È solo la cronica intossicazione che determina la totale o la parziale incapacità di intendere e/o di volere.
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guenze fisiologiche non trascurabili, visibili, come per esempio l’atrofizzazione della mucosa nasale. In alcuni casi limite è possibile che si riscontri la perforazione del setto nasale. De Negri venne sottoposto, quindi, ad una visita otorinolaringoiatrica che non riscontrò niente di tutto questo. E non c’erano alterazioni dell’apparato cardiovascolare o gastroenterico, che possono subire alterazioni per il prolungato uso della sostanza stupefacente. Nulla! Non c’erano segni che riconducessero ad un’acuta intossicazione”. E dunque De Negri aveva sicuramente una grave dipendenza da cocaina, che si prolungava da diverso tempo, ma sicuramente quel giorno non ne aveva assunti i cinquanta grammi di cui parla nel memoriale. Anche perché nessun essere umano riesce a sniffarne più di qualche grammo (al massimo) senza morire... Continuiamo a sfogliare la perizia nelle nostre mani: pagina dopo pagina, ci sembra come se fossimo lì. Analisi cliniche, colloqui, esami fisiologici, la somministrazione di test proiettivi come il Rorschach, la cura messa da parte dei periti in questa perizia sembra davvero aver superato il normale zelo lavorativo. Come se avessero la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un caso unico, forse irripetibile. La figura del canaro, istrionica, poi faceva il resto: raccontava, si arrabbiava, si vantava, tirava fuori un memoriale, tutto lì, davanti a loro, che si sentivano spettatori privilegiati. Mentre stiamo pensando a questo ci interrompe il professore: “Vedete... un disturbo di personalità, al giorno d’oggi e specie in certi casi, non si nega a nessuno. Nella società moderna, dove lo stress sembra essere il normale stile di vita, è abbastanza comune riscontrare disturbi di personalità che però non assurgono a vere patologie o qualcosa che rasenta il ‘valore’ o il ‘significato’ di malattia (come ben specificato in una nota sentenza giurisprudenziale del 2005). De Negri, sicuramente, aveva dei tratti di personalità disturbati. Nel suo memoriale, dalle sue azioni e dalle testimonianze, traspare una sfiducia generale nella gente ed una sospettosità nel prossimo… non possiamo escludere di trovarci di fronte ad un individuo con disturbo di personalità di tipo paranoideo, narcisistico e sicuramente antisociale”.
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I periti poi analizzano la motivazione dell’omicidio che inquadrano in un “conflitto di lunga data” fatto di “torti, soprusi, infamità, una lunga storia di tipo sado-masochistico nella quale la vittima, nel finale, ribalta d’improvviso le posizioni”. Per loro il momento di rottura, quello scatenante dell’azione, va trovato nel furto fatto da Ricci, quello in cui aveva anche picchiato la cagna Jessy. I periti sottolineano a questo punto una cosa importante: “La motivazione al delitto non è dunque patologica, nel senso che non trae origine da disturbi ideativi, interpretazioni; in altri termini essa non trae spunto da falsi elementi di realtà ma da concreti ed oggettivabili riscontri che la rendono derivabile sul piano comprensivo”. E come finì questa perizia? È l’ultima domanda al professore: “Alla fine i periti risposero in questo modo: De Negri aveva, al momento del fatto, per infermità (grave disturbo di personalità a radicali misti), grandemente scemata la capacità di intendere e di volere; tale quadro psichico, che si riferisce a disturbo strutturale, è tuttora presente ed immutato; non vi sono elementi a sostegno di una ipotesi di cronica intossicazione da sostanze stupefacenti. Inoltre i periti ritennero che al momento della redazione della perizia De Negri era da considerarsi persona socialmente pericolosa. Per concludere poi con le stesse parole dei colleghi Carrieri e Pazzagli (è a pagina 70 della loro perizia): ‘Nel De Negri non venne meno la capacità di comprendere l’atto che andava a compiere (della cui finalità e giustezza è del resto ancor oggi convinto) ma fu compromessa la possibilità di pienamente e liberamente scegliere e soprattutto di controllarsi e auto inibirsi’”. Quindi, seminfermo di mente. Perché fu un pomeriggio non di ordinaria, ma di “straordinaria cattiveria e follia”, quello del 18 febbraio 1988, a via della Magliana 253.
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Capitolo 12
Diciassette anni dopo
A ripensarci oggi, dopo tutto questo tempo, ci colpisce ancora un corto circuito che avvenne nella testa di De Negri. Questo: che aveva un’alta opinione di sé nel memoriale i suoi furti diventano: “la mia carriera delinquenziale”, “l’arte del ladro”, “l’arte criminosa”, come se avesse fatto chissà cosa. E di sé dà una buona immagine, in cui tutto si tiene: “Ho sempre ammirato il classico uomo d’onore per il suo codice morale di lealtà e fedeltà, oltre a fratellanza vera”. Insomma pensiamo che De Negri, alla fine, nella sua follia, abbia ucciso anche per dimostrare a sé stesso che era capace – anche lui – di essere un criminale che conta, uno cattivo. Ricordate cosa scriveva di Ricci? “È noto a tutti il suo SORRISO INFAME seguito da un DESTRO PROFESSIONALE”. I due aggettivi, messi insieme, stridono come le unghie sulla lavagna: è un infame, ma quanto è professionale! Come dire: è un bastardo, ma ci sa fare. È incredibile, ma quella frase significa che lui, in fondo, ammirava Ricci, che in fondo avrebbe voluto essere così tosto e così professionale anche lui. L’ammirazione e l’odio. Ti uccido per essere come te. E poi la paranoia, poi la droga. E poi, qualcos’altro: la cattiveria. Quell’alba oscura che si nasconde nel cuore degli uomini e che non appartiene soltanto alle raccomandazioni che riceviamo da piccoli: fai il bravo, non fare il cattivo! No, è molto di più. È la capacità di tenere a freno le forze nere che ci abitano, di frenarle, di riconoscerle. È la capacità che alcuni non hanno. Per fortuna sono pochi, altrimenti sarebbero più quelli in carcere che quelli fuori. Per fortuna non è così. Ma, qualunque cosa lui dica di sé e qualunque cosa se ne possa pensare, certo Pietro De Negri quella cattiveria ce
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l’aveva tutta in corpo, quel giorno. Sappiamo bene, purtroppo, com’è andata a finire. E poi, ci colpisce il successo della versione De Negri. Nonostante fosse falsa, il memoriale ha avuto così tanto successo nelle ricostruzioni televisive e giornalistiche da passare come verità ufficiale. Semplicemente – lo ripetiamo – perché era una versione spettacolare, che quasi nessuno s’è preso la briga di controllare, tanto che ancor oggi è ripetuta sic et simpliciter. E un criminale spettacolare ci sta da Dio in un mondo spettacolare, lo esprime, ci sta a pennello. Fa spettacolo nella società dello spettacolo. Peccato che fosse cattivo giornalismo e che le cose stessero davvero in un’altra maniera. Ancora un giro in Vespa. Stavolta sulla Cristoforo Colombo, per andare a trovare Massimo Lugli. Massimo da anni (molti anni) segue le rughe e i vicoli della malavita a Roma. Da giornalista, s’intende. E, oltre questo, è scrittore. Quella vicenda l’ha seguita ed eccoci qui nel salone della cronaca di “Repubblica”, dove ci facciamo una chiacchierata sui vecchi tempi, mentre intorno si muove la vita frenetica di una redazione che prepara il giornale di domani. Voci, mani che volano sulle tastiere, telefoni che squillano. In mezzo al mare in tempesta, Massimo mantiene la calma, dietro la sua scrivania. Che ne pensi, di questa storia? “Io penso che spacciassero e consumassero insieme. Ricci era ad un livello criminale basso, un rompicoglioni: ma d’altronde era il livello di tanti di loro, mica era il boss del quartiere. C’era tuttavia un livello di violenza enorme, allora, alla Magliana. Le persone si aggiustavano le cose tra di loro, andando dal boss. De Negri doveva essere per forza mansueto: d’altronde, se avesse litigato con tutti, nessuno gli avrebbe portato i cani”. Io ed Armando ci guardiamo negli occhi e pensiamo con stupore a come in pochi anni il quartiere sia così tanto cambiato. Lo spostamento del mercato che si trovava a Viale Vicopisano ha permesso di creare il giusto spazio davanti alla chiesa di San Gregorio Magno, che è diventata piazza Fabrizio De Andrè, un
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luogo di aggregazione che rende la zona più viva e piacevole. Certo, la delinquenza c’è ancora, ma non quella che i telefilm ci hanno propinato con l’idealizzazione e la spettacolarizzazione della banda della Magliana. Anzi, se proprio vediamo le statistiche, beh, ci troviamo davanti ad un quartiere sicuramente più tranquillo di molte altre zone di Roma. La criminalità, quella pesante, quella che spara, non è più di casa qui. Ha deciso di spostarsi in altre zone, in altri quartieri. Il mitico maxi condominio di via Pescaglia 93, che per la sua estensione era considerato il “più grande d’Europa”, fornendo addirittura, nel 1991, lo spunto per un film di Felice Farina, non è più una roccaforte delinquenziale all’interno della Magliana, ma è sempre più aggregato nel quartiere. “Cambiano i tempi, cambia la gente, la cultura aumenta, qualche cosa di buono il progresso l’avrà portata o no?” Conclude Armando. Massimo, come te lo ricordi il quartiere, com’era prima? “La caratteristica più forte che ricordo era l’omertà. Non parlava nessuno, potevi stare tranquillo e forse per questo De Negri si permise di uscire ad esporsi con Beltrano. Per avere rispetto in quel quartiere dovevi fare l’uomo, non parlare e non farti pestare i piedi”. Senti, ma la pista dell’agguato? “Credetemi, se davvero qualcuno avesse voluto vendicarsi di qualcosa su Ricci non avrebbe fatto tutto quel casino, no? Non lo facevano per nessuno. Dai, gli avrebbero sparato, come si usava allora per chiudere una questione”. Armando annuisce ed interrompe: “Che poi, la gambizzazione negli anni Novanta era uno strascico degli anni di piombo. Ai tempi delle Brigate Rosse era prassi, sparare alle gambe. La persona così, pur non rischiando generalmente la morte, veniva punita pesantemente. C’era anche il rischio spesso che, secondo quali parti delle gambe venivano colpite, la persona poteva perdere la normale deambulazione”. “E già, noi non ci pensiamo, ma è successo spesso, invece…” faccio io. “Esatto. Ovviamente queste motivazioni non sono le stesse
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che troviamo negli anni Novanta, qui la gambizzazione era un serio avvertimento per chi sbagliava. La vittima sapeva che non aveva più chance, la prossima volta avrebbero sparato più in alto. Forse Ricci non doveva essere uscito ancora dal giro, aveva ancora degli interessi incrociati, forse anche per via della droga, si doveva avvertirlo senza volerlo uccidere. A proposito, uno dei modi di dire, nato negli anni Settanta ma rimasto ancora in uso, che difficilmente viene ricollegato all’epoca, è ‘… alzare il tiro’, cioè essere più precisi alla seconda occasione”. Massimo prosegue: “De Negri, se voleva, si poteva procurare una pistola e l’avrebbe chiusa così, come chiunque altro. Nella logica del quartiere di quegli anni, Ricci l’aveva puntato, ma De Negri doveva chiudere la cosa, non poteva certo andare a denunciarlo, alla Magliana. Doveva fare da sé. Io credo che volesse solo fargli paura, fargli male un po’”. Senti, che ne pensi dell’ipotesi che il canaro non fosse da solo, quel giorno? “De Negri non era così importante da essere contattato dai boss per una vendetta. Ricci sarebbe stato oggetto di una vendetta mafiosa? L’hanno detto, ma né prima né dopo è successo più qualcosa di simile, a Roma, neppure a gente più grossa di lui. Piuttosto, sapete da dove viene il soprannome di De Negri?” Ci guardiamo l’un l’altro. No, non lo sappiamo. Da dove? “Il soprannome glielo dette la Regoli e praticamente fu lei che lo fece rimettere dentro, con quell’intervista...” Siamo in via Vaiano, è sera. La gente torna a casa, ognuno sta nel suo cappotto o dietro la sua sciarpa. Non sappiamo nemmeno perché siamo qui, ma ci siamo. Ci guardiamo intorno. Il palazzo in cui abitavano i Ricci è ancora lì, con metà citofoni interi e metà bruciati. È tutto freddo, intorno. Anche il Tevere sta sempre oltre il fondo della strada, oltre l’argine. E le case sono sempre sotto il livello del fiume, solo che stavolta le fogne funzionano. Adesso, 17 anni dopo il delitto, il 26 ottobre 2005 Pietro De Negri è tornato a casa. Dicono che hanno pesato sulla decisione del Tribunale di Sorveglianza le testimonianze di direttori e operatori delle carceri in cui è stato il classico detenuto modello.
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Uno di quelli che cercano di aiutare gli altri compagni di cella. Lontano dal mondo e dalle sue paranoie, De Negri Pietro sembra sia tornato ad essere una persona in grado di stare nel mondo. In carcere, nei primi tempi, collezionava radioline rotte: era diventata un po’ una fissazione, quella. Ma forse in galera ognuno ha la sua, di mania. Di certo non ne ha mai parlato, di quello che era successo a via della Magliana. Di certo preferiva fare lo scrivano del braccio C14 di Rebibbia, dove aiutava i malati di Aids a scrivere le loro istanze alla direzione. Dicono, che fosse uno dei pochissimi che li aiutasse. Dicono, anche, che questi lunghissimi 17 anni se li sia fatti tutti senza creare problemi, sapendo di non avere altre possibilità per giocarsi quel che gli resta della vita; sempre puntuale a rientrare dai permessi premio passati a casa. Pienamente reinserito, insomma. Così, davanti a lui si è aperto il portone di ferro del carcere e poi si è aperta la porta di legno di un appartamento alla periferia di Roma, dove ad aspettarlo c’erano Paolina e la figlia, che è diventata maggiorenne da un pezzo. Ma il quartiere non è più lo stesso. In questi 17 anni la Magliana è cambiata e ha fatto di tutto per scrollarsi il nome nero che la Banda le ha lasciato in eredità. La Chiesa a Piazza Certaldo non è più un garage di pochi metri quadrati, il mercato caotico è diventato un edificio coperto e la circoscrizione un Municipio che ha uffici degni di questo nome. Banche ne sono spuntate ovunque e il vecchio quartiere dormitorio, dove vigeva la legge della giungla, ha i suoi supermercati, i pub e ha cominciato ad animarsi anche di notte. E poi, la Magliana si è collegata con la città. C’è voluta una lotta forsennata, ma alla fine la linea dei treni regionali di Trenitalia che unisce Fiumicino (e Tiburtino, Nomentana e Trastevere da una parte) con Monterotondo, Mentana e Fara Sabina, oggi ferma anche nel quartiere. Il prezzo delle case è risalito. Ah, una cosa è rimasta come allora ed è il problema dei parcheggi: se volete lasciare la macchina cominciate prima a farvi il segno della croce. In compenso è arrivata anche la pista ciclabile; ma soprattutto è cambiato il paesaggio urbano delle facce.
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Usciamo da via Vaiano, attraversiamo la piazza e torniamo in via della Magliana 253, dove tutto è iniziato, dove stava il lavaggio per cani “Mambli”. Oggi, questo è anche un quartiere invecchiato, con tanti anziani portati in carrozzella. E con tanti stranieri. Nei sessanta passi che vanno da dove stava il negozio all’angolo del palazzo non sentiamo nessuno parlare in italiano. Pakistani come se piovesse: ed anche le facce per strada, i negozi, beh, anche loro sono cambiati. Chi se lo sarebbe aspettato, nel 1988? “Voglio essere dimenticato – ha detto De Negri uscendo dal carcere – Tutto questo clamore che ha suscitato la mia scarcerazione mi fa male. Io il mio conto con la giustizia l’ ho pagato. Chiedo di essere lasciato in pace, anche per mia moglie e per mia figlia”. Il mondo, ovviamente, non dimenticherà. Chi commette reati come quello del canaro si consegna all’eternità, mani e piedi. Si procura il proprio bel posto nella Galleria degli Orrori e tant’è. Ha diritto a rifarsi una vita, ma il mondo ha diritto a ricordarsi cos’è successo. Il mondo non dimentica certe cose. Non dimenticheranno nemmeno Vincenzina e Alessandro; che a questa storia sono sopravvissuti; e lei ogni tanto ci pensa, avvolta nel suo dolore, di andare a trovare De Negri e guardarlo in faccia. I figli la trattengono, ogni volta. La Bimota di Giancarlo è tornata su strada: lo scheletro di ferro che era emerso dall’incendio è stato parzialmente ricostruito, i pezzi originali rimessi al loro posto, uno per uno. Oggi quella motocicletta corre ancora sulle strade di Roma, così com’era allora. È un ricordo, è la memoria che non vuole spegnersi. Non dimenticherà nemmeno De Negri. Ne siamo sicuri. Perché quando crei un incubo come quello di via della Magliana 253, beh, lui non ti abbandona. Torna sempre a trovarti, anche se fai finta di avere una vita normale e ti convinci persino di averne una. E passi le giornate a fare il nonno. Perché, come dice il poeta, “noi possiamo chiudere col passato, ma è il passato che non chiude con noi” 42. 42
W. Shakespeare, “Il mercante di Venezia”.
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.L’insegna gialla e nera del “Mambli” è finita buttata chissà dove. In via Belluzzo la recinzione in Eternit ha lasciato il posto ad una normale rete metallica ed un cancello rosso, un po’ scrostato, è l’attuale ingresso di quella che fu l’ultima dimora di Giancarlo Ricci. Nell’area, tutto dentro l’area, dove prima era una brulla discarica, è cresciuto un piccolo bosco.
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Capitolo 13
Cesarino
“Che poi Fabio, se ci si pensa bene, è una delle poche volte che una storia di grandissimo interesse criminologico è concentrata in un periodo temporale ristretto e tutto conseguente la morte. Mi spiego meglio, se De Negri avesse compiuto un omicidio d’impeto senza accanirsi sul corpo, depezzandolo e, molto tempo dopo, scrivendo il memoriale e raccontando – ormai abbiamo capito, in maniera romanzata – azione per azione, questa storia sarebbe stata una delle tante. Ma il depezzamento, cioè il fare a pezzi il cadavere, è una cosa che provoca, per chi legge la cronaca nera, un fascino unico. C’è chi è affascinato dal male, o dal lato oscuro; ma sicuramente rimaniamo turbati dall’accanimento sul corpo, forse perché comunque possiamo essere affascinati dalla costruzione del crimine ma pensiamo che il corpo umano, specie dopo morto, sia sacro, non credi?” Armando ha ragione, il fascino del male esiste, ma riguarda i personaggi, il crimine, il modus operandi: quando si arriva al corpo si entra in un terreno minato, che non viene accettato da tutti gli spettatori del delitto. “Chi fa cronaca nera conosce questo meccanismo e come sia importante superare quel limite per attirare subito l’attenzione. Mi ricordo di un sopralluogo che feci; un signore era stato ucciso ed inserito dentro una grossa valigia. Era una valigia talmente grande che il corpo vi era entrato, in posizione rannicchiata, senza difficoltà...” “Ah, ma è la storia dell’amministratore di condominio!” “Ecco, lo sapevo che te ne saresti ricordato… Comunque, i giornali lanciarono la notizia con un ‘Fatto a pezzi e messo dentro la valigia’. Nei giorni successivi fu chiaro che non era
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vero, ma non c’era più nulla da fare, la notizia rimbalzava sempre nella sua versione più sensazionalistica: il corpo era stato fatto a pezzi”. “A dirla tutta, anch’io pensai automaticamente che l’avessero depezzato…” “Però, adesso questa faccenda mi fa tornare in mente una storia particolare avvenuta negli anni Trenta a Roma, Fabio, una vicenda che ha che fare con quella su cui abbiamo appena investigato… fammela raccontare”. Ormai conosco Armando e so benissimo che sarebbe inutile opporsi e quindi mi siedo, ormai rassegnato ad ascoltarlo. “Allora, la storia che ti racconto inizia, o se vogliamo finisce, alla stazione Centrale di Napoli alle 10 di mercoledì 16 novembre del 1932, un giorno come tanti altri. Da dieci anni eravamo immersi nel regime fascista e quando giunge il treno direttissimo numero 7 proveniente da Torino, ovviamente in perfetto orario come accadeva nel Ventennio, scendono i passeggeri dal treno e un manovale ferroviario si mette ad effettuare, svogliatamente, il controllo delle carrozze appena giunte. Bagagli perduti, effetti personali ed eventuali senza tetto, rari però, che cercavano di entrare nelle carrozze prima che il treno venisse chiuso ed inviato al deposito; sì, il controllo andava fatto. Il manovale, controllando i vari scompartimenti trova su una retina porta bagagli, di uno scompartimento di seconda classe, due grosse valigie, in fibra chiara. Dimenticarsi due valigie così grandi è strano veramente... ombrelli tanti, piccole borse, sì certo, ma valigie così grandi, no. Appena prova a farle scendere, scopre che non solo sono grandi ma anche molto, anzi troppo pesanti. Comunque, si arma di santa pazienza e riesce a portarle all’Ufficio Bagagli. Passano le ore, senza che nessuno le reclami, e verso le 18 due facchini le vanno a recuperare per trasportarle nell’Ufficio bagagli smarriti. Durante il trasporto la valigia più grande improvvisamente cade a terra e, stupore generale, ne esce un braccio di donna. Non era l’unica parte di un corpo umano, immerso nella segatura, a stare li dentro... Inizia così il mistero della donna nelle valigie”.
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Armando questa volta mi ha proprio incuriosito, forse non mi annoierò a sentirlo... “Fabio, stai pensando a voce alta, così mi distrai, torniamo alla storia; il treno era partito da Torino, il giorno prima, alle 18.30 per poi passare per Genova alle 21.24, poi Livorno, quindi Roma, e giungere infine a Napoli nella mattinata del 16. Passano poche ore, sono le 6.30 del giorno successivo. Adesso siamo alla Stazione Termini, quando giunge al binario 3 il treno numero 5 della linea Torino-Genova-Pisa. Anche in questo caso il personale ferroviario, nel solito giro d’ispezione, rinviene una valigia di color marrone, nuovissima lasciata da un ignoto passeggero. Sembra di rivivere la stessa scena avvenuta a Napoli il giorno prima. La grande valigia viene consegnata all’ufficio “oggetti rinvenuti” ed appoggiata in un angolo del locale pieno di borse, ombrelli e oggetti dimenticati. Passa un po’ di tempo ed il personale inizia a sentire uno strano odore, sì un odore non comune, di carne andata a male: proviene dai bagagli. Ormai s’è saputo del rinvenimento del giorno prima a Napoli e quindi avvisano immediatamente la Polizia ferroviaria. Tra l’altro, dall’Istituto di Medicina Legale di Napoli era giunta la notizia che mancavano all’appello alcuni pezzi per ricomporre il corpo della donna ritrovata il giorno prima. Quell’odore è troppo forte ed il personale inizia a preoccuparsi, ma ecco giungere finalmente la Polizia, diretta dal Commissario Jantaffi. La scena che segue è surreale: il Commissario con i suoi due collaboratori, Commissari Patti e Capri, aiutati dal Capo del Compartimento Argenti tutti lì a carponi, ad annusare le valigie per capire da dove proveniva il forte odore. Eccola, è quella; appena individuata, il gruppo provvede ad aprirla ed ecco lì i resti mancanti della donna rinvenuta a Napoli. Alle 9.30 giunge sul posto il Procuratore del Re, antesignano del Procuratore della Repubblica, ed il funzionario dottor Giri, della Polizia Scientifica, che effettua i primi rilievi fotografici del caso. Si cercano, visto che la valigia appare comunque nuova, eventuali impronte digitali sulla superficie esterna ma, purtroppo, la superficie risulta troppo porosa per essere utile.
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Il Procuratore prende contatto con il suo collega di Napoli e decide di inviargli la valigia, in modo da mettere a disposizione del medico legale gli ultimi pezzi di questo macabro puzzle. Intanto, le indagini a Napoli proseguono con un nuovo sopralluogo nella vettura, contrassegnata col n. 50703, dove erano state rinvenute due giorni prima le valigie; ma non si scopre nulla. La ricomposizione della vittima permette di accertare che si tratta di una giovane di 30 anni, con unghie delle mani e dei piedi curate, che presenta nella regione glutea destra una profonda cicatrice, di un qualche intervento pregresso e, come particolare identificativo, a circa 10 centimetri al di sopra del ginocchio destro un grosso neo. Ma come è morta? L’assassino, incauto, ha lasciato ben integra la parte del collo e quindi il medico legale riesce a sentenziare: strangolamento! Certo, se si conoscesse il nome della vittima sarebbe un passo avanti per individuare anche il nome dell’autore. Gli investigatori diramano, tramite i giornali, una descrizione approssimativa della vittima e poi iniziano a contattare una per una le varie Questure, attraversate da quell’infernale treno. Come d’altronde le Questure, in cui risultano donne scomparse, chiamano quella di Napoli. Per esempio, il giorno successivo venne fatto un vero tentativo, andato a vuoto, di identificazione per telefono, con la Questura di Torino, dove una famiglia ‘distinta’ era andata a denunciare la scomparsa della propria servetta ventiseienne. Ma, nelle stesse ore, poteva essere Erissena Ginacchini di anni 38, scomparsa misteriosamente da Seravezza qualche giorno prima e per la quale era stato fermato il suo amante, Leandro Leonardi. Oppure, perché non poteva essere la trentaduenne Ida Mosti, i cui tratti fisici erano così uguali alla donna depezzata? Nulla, non se ne esce fuori. Le indagini sul misterioso proprietario delle valigie fanno invece passi avanti: si scopre, infatti, che è salito sul treno a La Spezia, con valigie che sembrano simili a quelle rinvenute,
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ed è sceso a Viareggio. Un carabiniere di scorta al treno lo ricorda come: di piccola statura, vestito modestamente e con un cappello nero a larghe tese, abbassate sugli occhi. Viene pure trovato da un ragazzo, tal Ilo Meschi, un coltello nel piazzale vicino alla Stazione da un ragazzo, tal Ilo Meschi, e via altre ricerche per scoprire chi aveva comprato quel coltello con la lama a forma di foglia di limone”. “Certo che quando capitava, all’epoca, una serie di omicidi in province differenti era un vero problema, le comunicazioni erano più che difficili. Anche se la rete telefonica si era già iniziata a sviluppare vent’anni prima, dal 1912. Comunque anche per gli investigatori non era facilissimo telefonare, non tutti gli uffici avevano una linea telefonica, questo sistema si sviluppò proprio nel Ventennio: non so se lo sai ma se ancor oggi siamo abituati a dire ‘pronto' quando rispondiamo è per un vero e proprio retaggio storico. Il ‘vero fascista’era sempre pronto e scattante in ogni momento e quindi così si doveva rispondere all’epoca”. “Questa cosa non la sapevo proprio! Bene, se sei ‘pronto’ continuerei, d’accordo? Le indagini, intanto, proseguono, infatti si accerta che sul direttissimo 7, tra La Spezia e Pisa, il controllore Giovanni Salvati aveva elevato una contravvenzione ad un individuo, per l’eccessivo peso delle sue valigie. Pensa che tempi, oggi chi avrebbe badato al peso di una valigia? Il Salvati ne dà anche una descrizione, che risulta simile a quella fornita dal carabiniere ed anche a quella rilasciata da un capo assistente della Stazione di La Spezia, Giuseppe Pescatori. Pescatori, la sera del 15, circa 40 minuti prima che giungesse il direttissimo proveniente da Torino, era stato fermato da un viaggiatore che gli domandava dove si sarebbero fermate le vetture di seconda classe. Ne dà, tra l’altro, una descrizione accurata: uomo sulla quarantina, alto circa 1 metro e 70, con baffi piccoli e spioventi, indossava un paletot avana scuro, con intorno al collo un piccolo scialle di lana grigia”. “Armando, sembra che l’assassino non abbia fatto nulla per rimanere nell’ombra, eh? Un genio, per la miseria!” “Aspetta, non è ancora tutto, c’è ancora un testimone addirittura più incredibile, il tornitore Artemio Jacopone di anni
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42. Jacopone apprende del ritrovamento della ragazza a pezzi dal proprio medico, mentre sta facendo una visita. Sentendo il racconto gli viene in mente che il giorno 15 aveva incontrato un individuo nei pressi di una falegnameria, vicino alla macchia del Cappelletto, a sua volta vicino alla stazione di La Spezia, con due grosse valigie, che gli chiese se poteva dargli un aiuto nel trasportarle. Le valigie erano pesantissime e lui venne ricompensato, una volta giunto alla Stazione, con 2 lire”. “Non ho parole: se lasciava pure il suo biglietto da visita, in valigia, faceva prima…” “L’identificazione, intanto, della donna, si fa sempre più difficile: potrebbe essere la ventiquattrenne Lucia Tanas, nativa di Cagliari, che da 7 anni lavora a Milano, ma forse invece è Tessie, la nipote di New York di una nobildonna italiana. Oppure potrebbe anche essere una giovane marsigliese amante dei viaggi, scomparsa poco tempo prima, quando si trovava su un treno per l’Italia. Si arriva, tra una ipotesi e l’altra, al 12 dicembre, quasi un mese dopo, quando Olga Melgradi, una cameriera romana, si reca dai fratelli Gorietti, Gino ed Anna, e pone un dubbio: “E se il cadavere nelle valigie provenienti da La Spezia fosse vostra sorella Paola?” Ma chi era Paola Gorietti? La sua storia inizia a fine ottobre. È cameriera di una buona famiglia romana, ed è un pò depressa avendo raggiunto l’età di 39 anni senza essersi ancora sposata. Legge sul giornale un annuncio interessante: ‘Pensionato 450 mensili conoscerebbe scopo matrimonio signorina con mezzi libera ed indipendente’. Quell’annuncio le aveva dato una nuova spinta. Alla risposta all’annuncio era seguito un primo incontro con questo ‘maresciallo in pensione’, e poi la sua presentazione al fratello Gino, che però non ne aveva avuto una buona impressione. Si inizia subito a parlare di matrimonio, ma il pensionato evitava sempre il discorso fino a quando era stato lui che le aveva proposto di trasferirsi a La Spezia, perché le formalità del matrimonio sarebbero state sbrigate più celermente, avendo delle conoscenze in loco. La Gorietti lascia, quindi, il proprio lavoro, il 3 novembre
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del 1932; e preleva dal suo conto corrente lire 2000. Per qualche giorno continuerà a scrivere alla sua amica Melgradi, ma a metà novembre non invierà più lettere. Scrive anche, pochi giorni prima del ritrovamento dei resti a Napoli, ai suoi fratelli chiedendogli di inviarle i documenti di stato civile in fermo posta a Firenze. La Melgradi ed i fratelli Gorietti si recano allora alla Questura di Roma: subito viene presa una denuncia di scomparsa e quindi vengono mostrate loro le fotografie della vittima rinvenuta. Non ci sono dubbi, è lei. In particolare viene identificata dalla cicatrice, dovuta ad una operazione d’ernia, e dal dente finto. La Melgradi riconosce anche una delle valigie, che gli aveva venduto proprio lei. La Gorietti era di bassa statura ed aveva grossi problemi di salute e, come riporteranno i giornali dell’epoca, aveva un aspetto malaticcio e le era stata prescritta una cura ricostituente. Quasi contemporaneamente viene identificato il misterioso individuo multato per le valigie dal peso eccessivo. E qui entra in scena il commissario Musco, che sta finendo di collocare tutti i pezzi di questa intricata faccenda. Però Fabio, ti devo raccontare di questo poliziotto, un tipo veramente particolare. È uno ‘controvento’, nato nel 1900, figlio di poliziotto. In una famiglia socialista di origine beneventana. All’inizio milita nel disciolto corpo degli ufficiali ed agenti della polizia della Capitale per poi transitare come impiegato nel Ministero del Lavoro. Vi rimane fino al 1925, quando perde il posto non avendo la tessera del partito fascista. Con moglie ed una figlia, decide di fare l’unico concorso per cui non era necessario avere la tessera del partito, quello per la Pubblica Sicurezza; lo vince e vi entra nel 1926. Ironia della sorte, nel 1928 la tessera fascista venne data d’ufficio a tutti i funzionari che ne erano sprovvisti e quindi anche il Musco si dovette adeguare, aveva fatto così tanto per evitarla...
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A destra il commissario Musco, travestito da sacerdote
Guarda questa fotografia, bellissima vero? Vedi questi due preti? Viene scattata durante una operazione finalizzata alla scoperta di una banda di falsari con a capo Voleine Giulio, specializzata in falsificazione di biglietti da 50 dollari, con ramificazione in varie zone d’Italia. Musco ed il suo compagno, il commissario aggiunto Mario De Simone, si erano mascherati addirittura da preti, fratel Simone e padre Venanzio, per effettuare, l’8 febbraio del 1933, l’arresto della banda. Ed ecco il perché del loro l’abito talare… Ma torniamo a quel 1932: Musco ed il suo collega De Simone fermano la persona multata e scoprono che è anche l’autore dell’annuncio: ma chi è questo individuo? Si tratta di Cesare Serviatti, nato a Subiaco, una moglie, nessun figlio, corpulento, un po’ calvo, baffi neri e faccia san-
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guigna, come ci viene descritto dai giornali dell’epoca. È stato infermiere, vent’anni prima, al Policlinico di Roma e poi ha esercitato molti mestieri, gestendo anche per un breve periodo un albergo a La Spezia. Gli manca il pollice della mano sinistra, che dichiara di aver perduto in guerra, quando era maresciallo di artiglieria, cosa che risultò assolutamente falsa. Dopo un breve periodo di permanenza a La Spezia era rientrato a Roma proprio il 17 novembre. Nell’interrogatorio senza fine di Serviatti, girano intorno a quella scrivania i commissari Musco, Eugenio e De Simone. Addirittura, cosa inconsueta, viene interrogato direttamente dal questore Cocchia: ‘Io non so nulla di nulla e mi pare pure fatica sprecata se pretendete da me nuove confessioni’. Ogni sera viene interrotto l’interrogatorio per la cena e poi si riprende fino a tardi. Serviatti si dimostra infaticabile, nei primi cinque giorni d’interrogatorio praticamente non dorme e sfotte i poliziotti dichiarando di non aver dormito, alcune volte, anche per 15 giorni consecutivi. E continua a negare ‘Sì, sono stato a La Spezia, ma solo per incontrare una mia ex amante, non so nulla di nulla’. Ma allora era in vigore il vecchio codice di procedura penale, il modello inquisitorio, in cui le prove si formavano anche nella fase istruttoria: ed in questo caso erano schiaccianti. Alla fine lo mettono a confronto con la moglie e crollando sulla sedia confessa: ‘Non ho mai dubitato della mia buona stella; le mie vere preoccupazioni non sono durate più di due giorni; il tempo necessario cioè a far sparire le tracce di quello che avevo compiuto: dopo pensavo all’avvenire. E se questa volta sono stato scoperto non è stata colpa mia, ma della contravvenzione in treno, altrimenti a quest’ora non sarei qui! Quando scesi a Pisa, nel secondo viaggio, rimasi indeciso se ripartire per Roma o tornare a La Spezia, allo scopo di raccogliere il coltello e farmi restituire gli indumenti della vittima: ma ebbi timore che fosse troppo tardi e che mi si potesse arrestare. Preferii perciò venire a Roma’”. L’omicidio in realtà lo confessa a modo suo, lo riconduce ad un evento fortuito ‘Mentre ero intento a radermi, nella gior-
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nata del 13 novembre, nacque una lite tra me e lei. Quando la Gorietti si gettò su di me per togliermi il rasoio, chissà con quali intenzioni, allora la colpii con un calcio all’addome e la vidi accasciarsi a terra. Avevo paura di averla uccisa e mi sono rifugiato nell’albergo i Tre Re: la mattina sono poi andato a comprare un grosso coltello da cucina, 3 kg di segatura, giornali e carta da imballaggio’. Ma è stato difficile tagliare a pezzi la vittima ‘Fatica? Una donna morta si taglia facilmente, in un’ora al massimo tutto è già spacciato’43. Ecco che racconta come si sono svolti i fatti, mettendo al loro posto gli ultimi tasselli: il 15 era salito sull’ormai noto treno per Napoli e aveva lasciato le valigie sulla retina. Era sceso a Pisa e tornato a La Spezia. Il giorno successivo era tornato alla Stazione ed aveva messo la terza valigia su un treno con direzione Roma. Era tornato quindi all’appartamento per risistemarlo ed era partito, poi, anche lui alla volta di Roma. Nella sosta a Firenze aveva dato 5 lire ad uno sconosciuto per fargli un telegramma, in cui, come abbiamo visto, chiedeva ai fratelli della Gorietti i documenti di stato civile. Serviatti aveva ricavato dall’omicidio della Gorietti circa 4000 lire, somma non indifferente per allora, che spese quasi tutta per pagare i propri debiti a Roma e per riscattare alcune polizze di pegno. Musco e i suoi compagni presero da questa storia una promozione per meriti speciali, ma non solamente per l’omicidio della Gorietti. Avevano capito già dai primi momenti di trovarsi di fronte ad una persona scaltra, che sicuramente non era al primo delitto… Gli annunci matrimoniali, Serviatti, non aveva iniziato a metterli con la Gorietti, anzi erano anni che li metteva, ed allora? C’erano altre donne sparite? La freddezza e sicurezza che ostentava Cesarino facevano ritenere di sì. E infatti, ecco che si presenta spontaneamente in Questura Assunta Sturlese, anch’essa di La Spezia: al Commissario 43
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“La Stampa” del 15 dicembre 1932.
Grossi racconta di aver già conosciuto l’uomo apparso sui giornali. Serviatti doveva sposare Pasqua, una sua amica. Fu così che anche questa storia venne a galla. Era il 1928 – quattro anni prima – e la sua amica di 54 anni, Pasqua Bartolini, vedova di un ispettore delle ferrovie, aveva risposto ad un annuncio matrimoniale. È così che aveva conosciuto Cesare Serviatti, che non era certo un adone, ma aveva un modo di fare carismatico e, come si scoprì in seguito, manipolatore. Dopo qualche breve incontro, la convinse a trasferirsi presso di lui, nella pensione che gestiva a La Spezia. La Bartolini vendette tutti i suoi mobili, tranne una libreria che portò nella nuova casa: poi commissionò un abito da sposa, che non ritirerà né indosserà mai e, nell’estate del 1928, insieme al suo cane, si trasferì infine a casa di Serviatti. Cesare gli chiese, però, di non spargere la voce del loro prossimo matrimonio per via della madre malata e ricoverata in ospizio, che tra l’altro le fece conoscere. In realtà non si trattava della madre, ma della Morsiani, una sua vecchia amante. La Bartolini mantenne con tutti il silenzio ma non ci riuscì con la sua amica Assunta, che anche dopo la sparizione di Pasqua si diede da fare per rintracciarla. Assunta andò anche dallo stesso Serviatti, che però le rispose in malo modo “Quella pazza l’ho cacciata e farò così anche con questo cane lupo che ancora mi gira per casa”. Come andarono precisamente le cose Serviatti non lo confesserà mai, rinchiudendosi in un ‘non ricordo’ e negando sempre l’omicidio della Bartolini, ma fatto sta che, nell’autunno di quell’anno lo si vede andare in giro da solo, con una mano fasciata e il grosso cane, che cercava di regalare a destra e sinistra. L’omicidio era stato sicuramente cruento e la grossa fasciatura con cui andava in giro era dovuta proprio all’amputazione del pollice: altro che ferita di guerra! Della povera donna rimasero solo pochi resti, rinvenuti nel pozzo nero dell’abitazione più di quattro anni dopo; ed un vestito da sposa mai ritirato.
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Passano due anni, siamo nel 1930; e Serviatti lo ritroviamo di nuovo a Roma, sempre a caccia di donne da maritare. Ecco lì un nuovo annuncio matrimoniale. Questa volta, a cadere nella trappola, è la cinquantenne Beatrice Margarucci, detta Bea. La descrizione che ci viene fatta dai giornali dell’epoca non ce la fa apparire molto avvenente: ‘Grassoccia, bassa e con il collo solcato da cicatrici scrofolose’. Alle contestazioni del Commissario Musco, Serviatti ammette di averla conosciuta, ma poi la loro amicizia era terminata: Bea era partita alla volta dell’America, per andare dal fratello. Ricorda comunque il primo incontro e lo racconta agli investigatori ‘Dopo un breve scambio epistolare decidemmo di incontrarci, io dovevo tenere un giornale aperto in mano e lei un mazzo di violette collocato sul seno’. Fabio, certo che erano altri tempi: ci si metteva d’accordo tramite lettera e non per telefono... La Margarucci prestava servizio dalla famiglia Nebiolo, nel nuovissimo quartiere Trionfale, era tornata in Italia dopo aver lavorato negli Stati Uniti, dove risiedeva il fratello, per un breve periodo. Ed era tornata con un bel gruzzoletto, circa 8500 lire, gioielli e molti bagagli. Dopo essersi visti per alcune volte, Bea si trasferisce, il 28 ottobre 1930, definitivamente nell’appartamento di lui, in via Ricasoli. È il 3 novembre del 1930 quando, sulla spiaggia di Santa Marinella, viene rinvenuta, trasportata dalle correnti, una gamba umana appartenente ad una donna. Pochi giorni dopo, un’altra ne viene rinvenuta sul litorale di Ostia. All’Istituto di Medicina Legale di Roma si cerca di dare una identità a questa donna, che a prima vista è una venticinquenne. Nulla. Però la polizia non demorde, c’è una denuncia di scomparsa fatta pochi giorni prima dalla famiglia Nebiolo, che aveva segnalato la scomparsa delle propria governante, la Margarucci. Ai Nebiolo non tornava chiaro il modo in cui si era allontanata dal posto di lavoro. Bea aveva detto loro di licenziarsi perché si sarebbe sposata, ma alle loro richieste di conoscere il futuro sposo si era opposta categoricamente, stranamente per volontà di lui.
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Poteva essere lei? Fecero vedere ai Nebiolo la fotografia delle gambe e la riconobbero, sebbene con qualche logico dubbio. Lo so, lo so cosa stai pensando… “… Beh, è ovvio: che la convivenza con Serviatti durò ben poco. Dopo soli due giorni l’ha uccisa!” “E non solo: l’ha uccisa, tagliata a pezzi, messa in tre sacchi e, approfittando della notte, con un carretto l’ha trasportata presso il ponte Palatino, per poi gettarla nel Tevere. Viene addirittura fermato da una persona che gli domanda cosa stesse facendo e lui, con fare tranquillo ‘Nulla, getto vecchi stracci’. Il giorno dopo spedisce tre bauli, con i vestiti ed il fonografo ‘americano’ della Margarucci, a Rocca Canterano, presso Subiaco, alla famiglia Segatori, i contadini che lo avevano allevato da ragazzo. Nei giorni successivi li raggiungerà per distruggere definitivamente gli abiti della vittima. Davanti al commissario Musco Serviatti confessa anche questo delitto, ovviamente, secondo lui, compiuto nel tentativo di difendersi dalla donna… E non è tutto! Il commissario scoprirà pure che, nei mesi antecedenti la cattura, Serviatti aveva contattato, sempre con la tecnica dell’annuncio matrimoniale pubblicato sul giornale, Felicita Brunetta, la cameriera di un diplomatico. Dopo essersi conosciuti a fine settembre, l’aveva portata nella sua casa in via Principe Amedeo, in un grande palazzone umbertino che esiste ancora, vicino Stazione Termini, dove sarebbero andati ad abitare. Qui Cesarino approfitta, con vera abilità, delle critiche che Felicita – da brava domestica – gli fa subito sul disordine della casa e le chiede in prestito 1500 lire per risistemare l’abitazione. Lei gliele dà. Ma la Brunetta, per sua fortuna, era senz’altro più scaltra delle sue sventurate compagne e quando Serviatti le disse che doveva recarsi temporaneamente a La Spezia iniziò a tempestarlo di richieste di restituzione della somma prestatagli. Il 23 novembre, dopo la tragica ‘spedizione’ della Gorietti, Serviatti, nel pomeriggio, incontra la Brunetta, consegnando-
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le 300 lire di anticipo, prese ovviamente dal portafogli della Gorietti ed invitandola la sera a vedersi per la consegna del resto. Quella sera, all’osteria della Pariola, all’angolo tra via Salaria e viale Liegi, vista l’insistenza della donna, alla quale servivano i soldi per recarsi dal padre in Francia, Serviatti la minaccia con: ‘Se tu parli io ti taglio la testa e la metto in una cassetta e la spedisco a tuo padre in Francia’. In seguito, la Brunetta riceverà un biglietto col quale Serviatti la invitava a casa sua, per il saldo della cifra, ma quell’incontro, per fortuna, non avverrà mai: Cesarino era stato arrestato. Ha rischiato molto anche Elena Esposito, che si prostituiva a La Spezia e che, inseguita dai carabinieri che l’avevano sorpresa ad adescare i passanti, si era rifugiata proprio nella pensione che Serviatti gestiva nel 1928”. “Diamine, aveva scelto proprio il posto giusto, eh?” “Diciamo dalla padella alla brace… lui, oltre alla protezione, le propose di entrare in affari per regolarizzare la sua ‘attività’ e lei gli diede tutti i suoi averi, 2800 lire. La scampò per caso. Sai perché? Perché venne comunque arrestata… come dire, quando da una sfortuna esce fuori qualcosa di positivo, vero? “Ma secondo te c’erano state anche altre vittime?” “Non si saprà mai, gli investigatori cercarono di attribuirgli l’omicidio di una giovane donna rinvenuta sulla ‘spiaggia dei morti’, nei pressi di Pertusola, che venne ritrovata con una corda al collo e le gambe legate. Ed anche l’omicidio, avvenuto a Roma, di una certa Maria Pallucchi di anni 28, proveniente da Ferrara, che venne rinvenuta, mutilata, il 21 luglio 1925. Ma nulla, questi delitti rimasero irrisolti. Tre omicidi, almeno due mezze confessioni, è quindi l’ora di andare al processo. Le testimonianze ed i riscontri erano più che sufficienti, basti pensare al sequestro del fonografo della Margarucci ancora in mano ai Segatori o di una bambola, che recava ancora il timbro di un negozio di New York, trovata a casa di Giuseppe, fratello di Barberina Baldelli, che la ebbe da Serviatti in cambio della sistemazione dell’impianto elettrico”.
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“Scusa Armando ma chi era Barberina Baldelli, non mi sembra di averla sentita prima…” “Sì, scusa Fabio, nella foga di raccontarti ho dimenticato di precisarti che la dattilografa Barberina Baldelli era la sua amante e abitò con Serviatti per due anni, prima in via Ricasoli e poi in via Principe Amedeo 168. Quando Bea si trasferisce in via Ricasoli la Baldelli, curiosamente, non è presente”. “Scusa, ma se la Baldelli era l’amante, mi stai dicendo che c’era persino una signora Serviatti?!” “Certo, esisteva anche una signora Serviatti: Angela Taborri, che insieme alla Baldelli verrà arrestata ed accusata di favoreggiamento, il 18 dicembre 1932. A parte la Baldelli, però, sulla quale il dubbio del favoreggiamento rimarrà sempre, la Taborri è invece una vera e propria vittima. Una persona soggiogata totalmente dall’istrionico Cesarino. Venne anche arrestato il vecchio facchino Sante Bassi, padre di una delle amanti del Serviatti, anche lui per favoreggiamento; quando, infatti, Serviatti lasciò La Spezia, lui contribuì a spargere la voce che ‘il Romano’ era morto per una infezione sopraggiunta a seguito del ferimento accidentale di una mano. Prima del processo si deve pronunciare la Corte di Cassazione, però: in che città farlo? Il 27 dicembre la Corte decide che il processo si dovrà svolgere a La Spezia. Mercoledì 14 giugno 1933 inizia finalmente il processo, è il giorno di Serviatti: il pubblico è lì per lui. Entra nell’aula attraversando la gente assiepata, donando ampi sorrisi ed ammiccando. È vestito di nero, con il mento alto e l’atteggiamento rilassato. Poco dopo è il momento della Taborri che quel giorno, come anche nei successivi, non smetterà mai di piangere. L’avvocato Cassinelli, difensore di Serviatti, prende per primo la parola chiedendo una perizia psichiatrica, che non era stata concessa nella fase istruttoria: ovviamente le altre parti si oppongono. Interessante, Fabio, è la motivazione con la quale si oppone il Procuratore Generale Sanna. Riguarda il fatto che, nel 1929, l’imputato venne sottoposto ad analisi del sangue ed era
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risultato in perfetto ‘stato organico’, mentre le malattie invece di cui è affetto al momento Serviatti, sifilide e tubercolosi, non avrebbero alcuna correlazione con i tre omicidi... La Corte d’Assise di La Spezia si ritira in camera di consiglio e delibera di non sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica: prima sconfitta per la difesa. Si susseguono, udienza dopo udienza, i testimoni, le prove come i coltelli rinvenuti, i resti delle sue vittime, le perizie medico legali. Serviatti sembra averne per tutti, scherza, ride, sbeffeggia i testimoni. Udienza dopo udienza, si giunge infine alle requisitorie finali. Il 4 luglio del 1933 parla l’avvocato Gino Sotis per la famiglia di Bice Margarucci e l’avvocato Giuseppe Caradonna per la famiglia Gorietti, ribadendo la linea di colpevolezza di Serviatti. Nel pomeriggio è la volta del Procuratore Generale Sanna: chiede la condanna alla pena capitale e 4 anni per la Taborri, per il reato di concorso in furto. Il giorno dopo è la volta della difesa della Taborri che chiede, come prevedibile, l’assoluzione per la sua assistita. Il 6 è la volta della difesa di Serviatti. L’avvocato Eraldo Bellincione, nella requisitoria durata tutta la mattina, dice che non c’era premeditazione negli omicidi e chiede nuovamente una perizia psichiatrica. Il giorno dopo è la volta della requisitoria difensiva dell’avvocato Cassinelli. Il tempo di parlare è terminato, si aspetta tutti il verdetto e la Corte d’Assise di La Spezia si ritira. Sono le 22 quando il suono di un campanello preannuncia l’ingresso della Corte, pochi istanti dopo si dà lettura della sentenza: ‘… la Corte condanna il Serviatti all’ergastolo per l’omicidio della Margarucci; all’ergastolo per l’omicidio della Bertolino; condanna alla pena di morte per l’omicidio della Gorietti; lo condanna inoltre a 3 anni per vilipendio di cadavere; a 2 anni e 2 mesi e 1.000 lire di multa per furto ed a 4 anni per dissezione di cadavere. Assolve la Taborri e la Baldelli dai reati per concorso negli omicidi e per i reati di furto, disponendone la scarcerazione’.
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Gli avvocati di Serviatti faranno ricorso in Cassazione (allora non esisteva il secondo grado di giudizio), ma la Cassazione respinge. Venne respinta anche l’incredibile richiesta, fatta alla Corte di Cassazione, avanzata dalla parte civile Gorietti, di avere come risarcimento danni la testa di Serviatti ‘Il documento esamina la particolare istanza avanzata dalla parte civile Gorietti per il risarcimento danni, rilevando l’assurdità della richiesta che respinge per ragioni morali, etiche e di igiene e di diritto’. E volevo vedere!” “Ma Serviatti?” “Accetta con tranquillità il verdetto, anche se qualche cronista scorge gli occhi lucidi. Non sa quando la sentenza avrà luogo. Nell’attesa non perde però il suo modo di fare, scrive infatti una lunga lettera a Bea, nella quale addirittura le chiede di denunciare, a suo nome, tutti gli inquilini dello stabile dove si trovavano… per appropriazione di biancheria! Ore 2 e 30 del 13 ottobre del 1933, viene svegliato, nel carcere di Sarzana, dove si trovava, dal direttore. È lui a comunicargli che la sua richiesta di grazia è stata respinta. E sai che fa? Si accende un Toscano ed esclama: ‘Se lo sapevo ieri sera avrei chiesto per cena un pollo arrosto’. Scrive quindi alla moglie un breve biglietto, dicendole di “ubbriacarsi” quando avrebbe saputo della notizia della sua morte ed inveisce contro il prete che era andato a confortarlo: ‘Vorrei che il mare de La Spezia diventasse benzina e gli uomini torce accese!’ Viene preso in custodia dai carabinieri e poco dopo le 6 il prefetto ne dispone la traduzione al poligono di Sarzana, tramite un carro cellulare scortato da carabinieri in bicicletta... Serviatti è vestito di bianco, con scarpe gialle: viene fatto sedere su una sedia di fronte al plotone e bendato. La notizia è corsa per tutta la città e sono arrivati in tanti. Questo la dice lunga su quanto il suo caso fosse celebre… Attorno, si è ritrovata una folla enorme: circa 6.000 persone, che assistono in silenzio. I ventidue moschetti della polizia metropolitana fecero un rumore solo e Serviatti si accasciò”.
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“Che storia, Armando… E Musco? Sai che fine ha fatto?” “Dopo la grande operazione che portò all’arresto di Serviatti, venne inviato ad Asmara, a coordinare la polizia locale. Al suo ritorno fu destinato, era l’inizio della guerra, all’O.V.R.A., la polizia segreta attiva dal 1930 al 1943. Era una polizia politica, in mano al partito fascista che, successivamente all’armistizio continuò ad operare anche nella Repubblica Sociale, fino al 1945. L’ O.V.R.A. aveva come compiti principali la soppressione delle organizzazioni operaie e di sinistra, il controllo dei giornali, la soppressione delle testate clandestine ed il controllo delle infiltrazioni straniere. Diciamo che Musco, di famiglia socialista, non gradì molto questo nuovo incarico... Infatti nel 1943, non sapendo più come fare, addirittura accettò, per fuggire dall’OVRA, una missione in Albania, con l’incarico di indagare su alcune malefatte attribuite a Galeazzo Ciano...”
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Capitolo 14
Stavamo camminando sull’argine, quando…
È il 9 luglio 1969 quando due bambini entrano nella stazione Carabinieri della Magliana, a Roma. Manca una mezz’oretta all’ora di pranzo. Sono molto sudati e spaventati. Si chiamano Gualtiero e Paolo. Dieci anni il primo, sei il secondo. Sono anni in cui si può ancora andare a giocare sulle sponde del Tevere, in cui ancora ci si tuffa nel Tevere. I canneti sono un posto meraviglioso, dove si scoprono gli oggetti abbandonati che il fiume lascia sbadatamente sulle rive, si vivono avventure e si vede Roma da un’altra prospettiva. Fantastico, per due bambini. A meno che uno dei due getti uno sguardo alla superficie dell’acqua e gridi un “guarda!”. Il resto è una corsa, via dal fiume, che per quel giorno ha regalato a Gualtiero e Paolo una scena che ricordano ancor oggi. Quel giorno, dopo pranzo, il brigadiere dei carabinieri Messina spedisce un fonogramma, questo. Ore 12 oggi, sponda fiume Tevere lato destro, altezza ponte autostrada Roma-Fiumicino, è stata rinvenuta una testa di uomo staccata dal tronco. La testa presenta radi capelli, la stessa appartiene a un uomo, apparente età 35-40 anni. Connotati: viso curvilineo di media grandezza, fronte media rettilinea, leggermente sfuggente; occhi chiari; colorito bruno; barba folta e scura; naso piccolo e rettilineo; orecchio piccolo; bocca media. Giudice di turno informato. Indagini in corso. Segue rapporto. “Quindi Fabio”, interviene inaspettatamente Armando, “il sopralluogo venne fatto dagli stessi Carabinieri, che al momento di effettuare i rilievi fotografici trovarono la testa ancora a
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galleggiare a ridosso del margine. Ecco come la descrivono… a tratti anche in maniera colorita: ‘la testa è in discreto stato di conservazione ed è recisa dal tronco all’altezza del mento con taglio quasi netto e presenta varie ferite da arma da punta e taglio di cui una, in prossimità del lobo dell’orecchio sinistro, di una certa ampiezza e profondità. Presenta inoltre la barba folta e scura rasata di recente ed il capo con un solo ciocchetto di capelli, circa una ventina, situato nella regione occipitale destra; il resto è tutto depilato a causa della permanenza in acqua; depilate sono pure le ciglia e le sopracciglia. I pochi capelli osservati hanno una lunghezza di circa 4 centimetri e sono di colore scuro. Dalla differenza esistente tra la zona depilata dei capelli e la barba si evince che la testa apparteneva ad un individuo che aveva le basette regolari, all’altezza del drago (è una parte anatomica dell’orecchio, che in realtà si chiama “trago”, N.d.A.) dell’orecchio. Gli occhi presentano il bulbo affacciato e sono di colore grigio. La testa medesima ha i seguenti connotati: viso medio e curvilineo; fronte media, rettilinea e leggermente sfuggente; naso piccolo rettilineo a base orizzontale; orecchio piccolo, ovale, attaccato alla testa e con lobo leggermente discendente; bocca piccola, rettilinea ed orizzontale’. Hai visto che accurata descrizione?” Ecco cosa c’era, nel Tevere. Una testa che galleggiava, oscena e pelata. Gonfia, assente, con la bocca spalancata. Si è bloccata più o meno all’altezza di uno dei due estremi del ponte, dove la natura cede a dei muretti di cemento. Se da lì ti metti a guardare Roma, vedi in lontananza il Fungo dell’Eur, San Pietro e Paolo e er Colosseo quadrato, vale a dire il Palazzo delle Esposizioni. Nei giorni successivi si cerca il corpo, i sommozzatori fanno km. nel Tevere. Si diffonde un identikit, molto somigliante. I carabinieri vorrebbero tanto sapere di chi stradiavolo sia quella testa. Ma resta sconosciuta. L’indagine è estesa a tutt’Italia, ma nessuno si presenta a riconoscerla. Si pensa ad uno straniero. Nessuno si fa avanti, nessuno la riconosce, nessuno denuncia la sparizione di qualcuno. I militari sono stupiti, si aspetta-
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vano il contrario. Non è che uno rimanga senza testa così, da un giorno all’altro. Qualcuno dovrebbe pur sapere qualcosa… Si pensa sia di un annegato suicida, che magari si sia distaccata dal busto. Oppure si pensa all’elica di un motoscafo che ha ucciso un bagnante. La fantasia non manca… Tre giorni dopo, alle 9 del 12 luglio 1969, i medici legali Carella e Marracino, aprono il portello di uno dei comparti frigoriferi dell’Istituto, al Verano, ed esaminano la testa. E descrivono meglio la decina di ferite lacero-contuse che vedono sulla parte sinistra del cranio. Inoltre, anche sul viso notano ferite simili, da punta e taglio, in particolare vicino alla bocca ed al mento, una di 1,5 cm ed una di 4 cm; e sotto l’orecchio sinistro. Di più non possono dire. Tranne che non è stato un motoscafo folle, ma un essere umano, a staccare quella testa dal corpo cui apparteneva. Armando prende la perizia ed arriva alla parte forse anche più significativa, per capire quando poteva essere morta la persona. “Ti leggo questa parte molto significativa: ‘I tessuti epicranici si presentavano alquanto rigonfi, viscidi e untuosi al tatto, con desquamazione epidermica pressoché totale e con assenza quasi completa dei capelli. Oltre ai fenomeni putrefattivi erano evidenti anche quelli macerativi’. Vedi Fabio, la macerazione avviene quando un corpo, o parte di esso, rimane per un tempo prolungato in acqua; in particolare, alcuni studi hanno permesso di riscontrare che la macerazione è tanto più rapida quando più alta è la temperatura. E ti ricordo che ci troviamo ai primi di luglio. In genere l’inizio della macerazione avviene con lo sbiancamento ed il raggrinzimento della pelle, che sarebbero evidenti dopo circa 12-24 ore, anche se si sono osservati casi dove i fenomeni apparivano dopo sole 6 ore. Ma, a parte il tempo in cui appaiono questi fenomeni, è importante sottolineare che il distacco epidermico avviene dopo circa 13-15 giorni: se poi la permanenza in acqua prosegue, il corpo passa dalla macerazione alla saponificazione. Questo è un dato molto importante ed il medico legale ne è pienamente consapevole, infatti riporta: ‘La macerazione diffusa della cute, con distacco totale dell’epidermide e caduta delle formazioni pilifere, si osserva in genere dopo 10-15 giorni circa di sommersione in acqua del cadavere. Variazioni in più o meno possono dipendere da
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molteplici fattori, quali le condizioni ambientali, soprattutto la temperatura e la salinità dell’acqua, la presenza di correnti marine e le condizioni intrinseche del corpo sommerso. Nel nostro caso il clima estivo, la temperatura più elevata dell’acqua, la presenza di correnti nel Tevere ed il fatto che la testa, avulsa dal tronco, era povera di sangue, deve far pensare ad un acceleramento della macerazione cutanea. Ammesso quindi che il periodo massimo di permanenza in acqua della testa in questione possa essere stato di circa 15 giorni, non abbiamo altri elementi su cui basare il giudizio sulla cronologia della morte del soggetto cui la testa apparteneva. La morte stessa può essere avvenuta qualche ora od anche qualche giorno prima della dissezione del capo dal tronco e dalla sua dispersione in acqua’. Quindi sappiamo il tempo massimo, ma il minimo?” Chi è l’uomo del fiume? Dov’è il resto del cadavere? Perché è stato decapitato? Quando è morto? Per ora, sono tutte domande che non conoscono risposta. Passano i giorni e il mistero svanisce nel caldo di Roma e di un’estate senza tempo, accaldata da giorni bollenti e avidi. La grande città ha digerito la testa dello sconosciuto. L’ha fatta diventare una delle sue storie, una delle sue tante storie. Il fiume scorre, come fa ad ogni minuto da secoli. Una settimana e passa più tardi, le mani di un sottufficiale, di polizia, qualche chilometro più verso il mare, battono sui tasti di una macchina da scrivere Olivetti. È una notizia che merita attenzione, anche se la giornata ne ha portata un’altra ben più attraente: l’Apollo 11 è decollato, alla volta della Luna. Ora è un invisibile puntino nello spazio; bianchissimo, perso nel buio, che vola silenzioso verso un pianeta lontano. Le mani continuano a battere, però hanno altro cui pensare. Questura di Roma, commissariato di PS Fiumicino. Fiumicino, 21 luglio 1969. Oggetto: rinvenimento braccio umano appartenente a persona sconosciuta. Alle ore 19 del 16 detto, questo Commissariato di PS veniva informato dal locale Ufficio Marittimo che tale Palumbo
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Raffaele aveva rinvenuto nel fiume Tevere, altezza ristorante “La Perla”, un braccio umano appartenente a persona sconosciuta. Personale dipendente, recatosi nella località indicata, provvedeva ad imbracare il citato braccio destro che presentava segni di tatuaggio non decifrabile all’altezza del muscolo, in avanzato stato di putrefazione. È successo che il ventunenne Palumbo Raffaele stava passeggiando sul molo del porto di Ostia, quando ha visto il citato braccio nel fiume, al di là dei pescherecci ormeggiati. Ma stavolta c’è almeno un indizio su cui lavorare: E certo, il tatuaggio. Perché è di un uomo, questo è sicuro. Di un uomo alto, in vita, 165 cm, tra i 40 ed i 50 anni, su cui è stata usata post mortem una sottile sega, 15–20 giorni prima. Quindi, tra il 25 ed il 30 giugno precedente. E la sega è andata avanti e indietro quando ancora l’uomo indossava i vestiti: ci sono fibre tessili nei margini della ferita. È tutto quello che si sa, perché le condizioni di conservazione del braccio non consentono di estrarre le impronte digitali. Consentono di vedere che quel tatuaggio inizia sul bicipite e termina sulla spalla. Ma la spalla non c’è. “Giusto. Nel sopralluogo vediamo ben poco, tirarono su il braccio e lo misero dentro una cassetta in legno, abbiamo solo poche fotografie che ritraggono il braccio e parte del suo tatuaggio. Interessante, invece, è il momento in cui chiamano il medico della locale Stazione Sanitaria, il dr. Lionello Rebeck, che emette un referto necroscopico. Dice così: ‘Si constata il rinvenimento di arto superiore destro reciso al suo terzo superiore, appartenente probabilmente ad individuo di sesso maschile, presenza di tatuaggio mal riconducibile al limite della sezione, in stato di putrefazione. La probabile epoca di separazione dal corpo risale da due a dieci giorni addietro’. Così, con questo metodo sentenzia un lasso di tempo: ma non sarà un po’ azzardato?” Dopo il ritrovamento di Fiumicino, la polizia ispeziona il tratto di litorale fino a Coccia di Morto, dove in genere il mare restituisce i corpi. Ma non c’è nient’altro da trovare. ‘Ma le impronte le hanno cercate? Si poteva fare qualcosa?’
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Armando mi guarda senza molto entusiasmo. “Le impronte, Fabio, non saranno d’aiuto. Si riuscì a prelevare esclusivamente un piccolo frammento di palmare che sarebbe risultata utile per i confronti solamente avendo un cartellino dattiloscopico da raffrontare. In quegli anni possiamo ritenere che erano presenti, al Casellario Centrale d’Identità, il punto di raccolta dei cartellini segnaletici della Polizia Scientifica, circa 3-400 mila cartellini. Di questi meno di un decimo aveva anche le palmari. Già la ricerca di una singola impronta digitale poteva risultare al limite dell’impossibile, dovendo visionare, anche se con l’occhio e la velocità degli esperti dattiloscopisti, più di 3 milioni d’impronte. E senza dati che potessero restringere il campo, come l’età o la cittadinzanza, era come cercare un ago in un pagliaio. Cercare tramite le impronte palmari, poi, era impossibile”. E io che pensavo che le impronte al Casellario, all’epoca, fossero già decine di migliaia… Nel frattempo il 20 luglio, sui giornali, si ipotizza che possa essere di un turista, un marinaio del nord, ma no, non può essere: “la dentatura è troppo sconnessa” (e che vorrà mai dire?). Un turista, un marinaio del nord. Senza nemmeno accorgersene, i cronisti stanno facendo di tutto per allontanare la testa ed il braccio da Roma. Un italiano non può essere, dev’essere per forza uno straniero: una storia che si sta disegnando in modo così pesante deve per forza appartenere a qualcuno lontano di noi. Perché se la vittima non è italiana non lo sarà nemmeno l’assassino. E l’orrore sarà venuto ad abitare sul Tevere per caso, solo per caso. E poi, abbiamo altro da fare. Ci si prepara per la serata, ci si troverà dagli amici. Io porto il cocomero, tu porti il vino. Non è una notte qualunque, quella del 20 luglio 1969. È la notte della Luna. La diretta Rai comincia dallo studio 3 di via Teulada, alle 19.30 di domenica 20. In studio, tre grandi firme: Tito Stagno, Andrea Barbato, Enzo Forcella. Da Houston, vi parla Ruggero Orlando. Quella diretta ha un titolo: “L’uomo sulla luna”. È una
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notte storica. Roma trattiene il fiato. Per la prima volta nei tinelli entrano le immagini lattiginose e in bianco e nero del suolo di un altro pianeta. È una notte che tutti ricorderanno, perché apre ad un’altra era, in cui tutto sembra possibile. In cui nel 2000, già si sa, saremo tutti in un altro mondo, inimmaginabile, diversissimo, iper-diverso, futuristico, ultramoderno e migliore. Alle 22.17, ora italiana, la navicella del Lem sta per toccare il suolo lunare, si contano i metri che mancano allo storico impatto. E’ la prima volta che un veicolo terrestre tocca un altro pianeta. Nello studio scatta un applauso liberatorio. Nei salotti, nelle cucine della Roma del ’69, partono grandi pacche sulle spalle. Je l’hanno fatta! Anvedi, ahò! Quando Neil Armstrong poggia il piede sul suolo lunare, sono quasi le 5 del mattino: ma Roma è tutta lì, le luci sono rimaste accese. L’acqua delle fontane scorre nel silenzio di una notte di veglia. Le auto sono parcheggiate accanto a marciapiedi vuoti. I cani si guardano intorno nelle strade deserte di Trastevere. Perché sono tutti di sopra, perché quella notte, per la prima volta, se guardi la luna dal balcone, vedi due uomini che ci passeggiano sopra. Poche ore dopo, sono le dieci di mattina del 21 luglio. Pellegrino Ciriello ha 47 anni e fa un mestiere che poteva esistere solo negli anni Sessanta e che ora è roba da immigrati: lo stracciarolo. Sta andando col suo motofurgone Benelli per via di Lungotevere San Paolo, quando deve andare in bagno. Il mondo ha ripreso a girare, non ha nemmeno la tv a casa, Pellegrino, e lui è sempre in giro a cercar roba per campare. Così, accosta prima di girare su Ponte Marconi, parcheggia e scende per l’argine del Tevere. Segue i sentieri che ci stanno e vede un canneto: sta prima di arrivare all’argine, vicino un palo della luce. Il posto giusto per trovare un bagno. Incuriosito da un involucro in tela, che sta proprio al bordo delle canne, si avvicina: anche perché pensa, Pellegrino lo stracciarolo, che magari dentro c’è qualcosa di utile, qualcosa che può rivendere. Però, più si avvicina e più sente un fetore devastante. Tira fuori il coltello e taglia il sacco, poi un altro involucro di nylon che sta sotto, pensando di trovare un animale
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morto. E invece è una persona, quella che cade fuori. È allora che, facendo un salto indietro, vede a tipo cinque metri anche un altro involucro in juta, da cui fuoriesce un pezzo di spalla. È allora che capisce che l’orrore lo circonda, lo bracca, gli soffoca la gola44. Corre come un pazzo, risale l’argine, fugge via, si ferma, si guarda intorno, cerca un qualsiasi cosa gli ricordi l’autorità, il meglio che trova è un vigile urbano. Lo blocca, dicendo cose che appaiono dette da un folle. Il vigile, comunque, decide di dare un’occhiata. Scende anche lui l’argine, segue il percorso nell’erba, arriva in quel punto dove la puzza è insopportabile e guarda nei due sacchi. E sì, non c’è dubbio: chiunque sia, quello un tempo è stato un essere umano. O forse, due esseri umani... Passa mezz’ora e tutta la Squadra Mobile di Roma si fionda in mezzo alle canne, perché una storia del genere non s’è mai vista prima e forse non si vedrà più, in città. Guardando meglio e ispezionando l’area con il fazzoletto bianco premuto sul naso, i poliziotti trovano però anche qualcos’altro. A circa 150 metri dal punto in cui stanno i due sacchi, vedono tra le canne un gonnellino e un sanpietrino. Il posto è stato occupato fino a pochi mesi prima da una tribù di zingari che stavano in quattro tende, si ricorda un agente. Che c’entrino loro, con questa storia? Luglio 2014. Immersi nell’aria bollente, io e Armando camminiamo su ponte Marconi. Abbiamo in mano le foto scattate dalla Scientifica quel giorno e cerchiamo il punto in cui fu ritrovato il sacco. “Questo è stato il rinvenimento più importante”, mi dice Armando, mentre ci troviamo ad attraversare a piedi ponte Marconi in direzione dell’Eur45. A piedi, eh sì. Stamattina la 44 Nella sua deposizione, Ciriello dirà: “Non ho portato a termine tale bisogno perché mi sono subito imbattuto nell’involucro suaccennato”. E avremmo voluto vedere… 45 Il ponte – er ponte bianco – cosa inconsueta, venne costruito a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Infatti, fu iniziato alla fine degli anni ’30; i lavori furono ripresi nel ’53, e conclusi nel ’55. È il ponte più lungo di Roma.
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Vespa di Armando, che ci accompagna da sempre nella Roma del delitto, ha deciso di non partire. Prima di arrivare qui eravamo infatti dal nostro amico Luigi, meccanico in pensione, a rianimare lo scooter. Luigi, che era uno dei pochi che all’epoca viveva nel quartiere Marconi, dove allora c’erano, al posto dei palazzi, campi coltivati e vigne. Stava in un palazzetto che ancora oggi spicca per la sua unicità. Ci racconta come l’urbanizzazione della zona ha comportato l’innalzamento del piano stradale di almeno 5–6 metri. Da via Prati di Papa, dove si trova adesso l’entrata del palazzetto, si potevano vedere le scintille dei saldatori che operavano sul ponte: era tutto libero. Altri tempi. Siamo quasi giunti alla fine, quando Armando mi indica la sponda sul lato sinistro: “È proprio quello il punto, vedi?”
Il punto del Tevere dove furono ritrovati i sacchi
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Vedo il punto: so a cosa si riferisce. Proseguo con lo sguardo e mi accorgo che a solo un centinaio di metri ci sono vari fabbricati, sembrano ad uso commerciale. Cerco di focalizzare lo sguardo e la memoria, mi ricordano qualcosa, qualcosa che io ed Armando conosciamo bene, per averlo affrontato nelle nostre ricerche. Ecco!, è la terrazza sul fiume del ristorante “Il biondo Tevere”, dove passò Pasolini con Pelosi in quella sera del 1975, prima di andare a morire all’Idroscalo di Ostia. Quante volte ci abbiamo mangiato io e Armando; è diventato anche il posto dove, tradizionalmente, andiamo a cenare dopo la nostra prima presentazione. Quando si dicono le coincidenze: due fatti di cronaca romana intrecciano qui le loro strade. Questa distrazione la pago cara, Armando ha già tirato fuori la planimetria che era allegata al fascicolo di sopralluogo e ricomincia a parlare. “Certo, è facile trovare il punto dove sono stati rinvenuti i corpi in quell’afoso 21 luglio del 1969, la zona è rimasta pressoché uguale”. Mentre parliamo mi indica una tratto del lungotevere che va da piazzale Edison in direzione di via Ostiense. “Ecco è proprio lì sotto che stavano, questa parte è rimasta uguale, tranne qualche baracca che ostacola l’accesso alla sponda del fiume. Prima erano molto più sporadiche e, come abbiamo visto, in quest’area ogni tanto si accampava qualche zingaro. Il punto preciso è lì” e mi indica un piccolo canneto presente sulla sponda. “Guarda questa fotografia, la possiamo quasi sovrapporre a quello che vediamo, non è cambiato nulla tranne che adesso mancano i tralicci elettrici. Allora ne venne utilizzato uno come punto di riferimento… si trovava pressappoco lì”. Armando mi indica un altro piccolo canneto: “Ecco, a circa 15 metri in direzione di via Ostiense sono stati rinvenuti i resti dei corpi”. Scendiamo la non ripidissima scarpata e ci troviamo immersi in un mondo diverso. Roma è qui accanto, ma sembra lontanissima. Intorno è silenzio. Il canneto c’è sempre, un po’ come nel ’69, a ciuffi, a tratti, tutto ha comunque un’aria selvaggia. Gli alberi sono cresciuti sulle rive. Ma i sentieri nell’erba sembrano gli stessi di 45 anni fa.
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Armando riprende in mano il fascicolo fotografico “Oggi come allora, abbiamo i canneti e vari viottoli pedonali che si estendono paralleli al fiume. Il piano di ritrovamento, dove si trovava la stradina ed il canneto – e dove siamo ora – è circa 8 metri sotto il piano stradale. Vedi, all’inizio avevo pensato, quando abbiamo iniziato a lavorare sul caso e ci siamo basati unicamente su alcune fotografie, prese sui giornali dell’epoca, che l’intenzione dell’assassino fosse di far finire i corpi nell’acqua e che, quindi, il canneto lambisse il fiume. Invece proprio no, come vedi lo spazio tra il traliccio e la sponda è proprio grande. Nessuna possibilità di errore, i corpi sono stati lasciati là senza pensare che il fiume potesse portarli via”. E continua: “Quindi vediamo che viene rinvenuta parte del corpo della donna, parzialmente inserito in una serie di sacchi di iuta, plastica e ad una coperta. Viene rinvenuto a ridosso del canneto ed, alla parte opposta di questa vegetazione, un sacco di iuta che viene definito ‘pieno e maleodorante, interessato da macchie scure di aspetto ematico. Il punto di rinvenimento di questo sacco, che successivamente si scoprirà contenere parti del corpo di un uomo, viene localizzato sulla retta immaginaria che va dal cadavere al palo, estremi dai quali dista, rispettivamente, mt. 7,50 e mt. 8’”.
Nel canneto, dove furono ritrovati i sacchi
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Torniamo a quel 21 luglio del 1969, mentre gli uomini in blu e accaldatissimi funzionari in giacca e cravatta sono sull’argine per ispezionare tutto, i sacchi finiscono intanto all’Istituto di Medicina Legale, a piazzale del Verano, dove altri uomini in camice verde li aspettano per scoprirne i misteri. È qui che vengono aperti meglio e la sorpresa aumenta. L’uomo nel sacco, infatti, non è intero. Non ha gambe e braccia; non ha la testa. Ovunque siano finite, sta di fatto che il sacco contiene solo un tronco. Ha sei lesioni da punta e taglio, che gli hanno causato una imponente emorragia interna ed esterna. Avvolgerlo in plastica e juta non è stata proprio la migliore delle idee dell’assassino: ha rallentato la putrefazione. E così, adesso, Carella e Marracino possono esaminarlo con calma. E scoprire se il braccio e la testa sono suoi. Alla prima domanda possono già rispondere sì dopo poche ore. Perché il tatuaggio del braccio finisce dove inizia la spalla: se li metti accanto ti accorgi che combaciano perfettamente. Il braccio è dell’uomo nel sacco. Nel sacco col tronco, comunque, ci sono 3 sanpietrini. Armà, ma allora l’assassino voleva davvero buttare i sacchi nel fiume e poi ha desistito. Li ha lasciati, anzi, abbastanza in vista, in mezzo alle canne. Forse si è reso conto che non era tanto semplice, chissà; e comunque quell’argine, di notte, è frequentato da coppiette e prostitute… E l’altro sacco? Beh, è quello che resta di una donna ed è in avanzato stato di putrefazione. Età: circa 30 anni, statura 150 cm. Cause della morte non stabilite, forse strozzamento. “Adusa al coito” (un modo formale e involuto per dire: “non vergine”, nell’Italia del 1969), anche se non ci sono prove di rapporti sessuali recenti per via della putrefazione. Ha partorito. Ha le gambe tagliate a mezza coscia. Amputazioni tramite sega, anche nel suo caso. “E poi indossava: una maglietta a mezze maniche, in filo verde, n. 46, con mezza abbottonatura anteriore e con taschino nel laterale anteriore sinistro; una gonna corta in gabardine, di colore verde bottiglia, foderata in raso, con chiusura lampo su un lato; una sottoveste di colore rosa, a bordi ricamati, recante due etichette di cui una con la scritta ‘Modital via Appia Nuova’ e l’altra ‘Marvel Italy nylon Rhodiatoce’; un corpetto a busto, di colore nero e con arabe-
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schi chiari, completo di bretelle, chiusura lampo anteriore e reggicalze, recante un’etichetta con la scritta ‘Madis Roma-3 Made in Italy’”. Non resta, allora, che far parlare le mani della donna. Non resta che estrarre le impronte digitali da quel corpo che aspetta la pace da qualche settimana. Sperando, ovviamente, che sia schedata per qualsiasi motivo. “Ma guarda che non era mica facile estrarre le impronte da queste dita così devastante, in questo caso avranno reidratato la cute, immergendola per alcune ore in alcool e poi avranno effettuato una infiltrazione di paraffina liquida sotto il polpastrello. Una tecnica che spesso permette di ottenere buoni risultati. Fabio, le fotografie 119 e 120, sono tratti di pelle dei polpastrelli che si sono scollati a seguito della putrefazione. In questo caso i tecnici avranno effettuato il così detto ‘guanto epidermico’, una tecnica molto particolare che prevede che il tecnico si infili da prima un guanto in lattice per poi calzarsi successivamente la pelle staccatasi del cadavere”. Gesù. “…Una volta fatto, si assumeranno le impronte mediante inchiostrazione sul cartellino fotosegnaletico. Oggi avremmo anche potuto scegliere un’altra tecnica, una volta ‘calzata’ la pelle si sarebbero cosparsi i polpastrelli di polvere a base di alluminio, come quella utilizzata per cercare le impronte latenti sulla scene del crimine e successivamente si sarebbero esportate le impronte, evidenziate dalla polvere, mediante degli adesivi gommati, per poi applicarli su dei fogli trasparenti”. Infilarsi la pelle del cadavere? Roba da Polizia Scientifica, solo a pensarci mi vengono i brividi e mi riprometto di non stringere più la mano di Armando, se non sotto tortura. Sono quei rari momenti in cui mi chiedo perché ho scelto di fare questo mestiere... Siamo sempre vicino al “nostro” canneto, però. “Ma scusa, la mia domanda è questa: secondo te, perché non ha buttato tutto nel fiume? Ormai aveva già fatto tutta ’sta strada...” “Fabio ricapitoliamo, abbiamo visto altre parti del corpo rinvenute nel fiume, questi sacchi a più di 10 metri dalla riva:
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possiamo fare una supposizione. Partiamo anche dal fatto che entrambi gli involucri erano costituiti da più sacchi di plastica e di iuta. Chi voleva sbarazzarsi dei corpi giunse in questo tratto del lungotevere, poco trafficato di notte, ed iniziò a scaricare i sacchi. Come ha proceduto? Dapprima avrà dovuto, velocemente, una volta parcheggiato, liberare l’auto dai corpi. Era una cosa da fare urgentemente, un’automobile parcheggiata in quella zona buia poteva destare curiosità e sospetto in una pattuglia della Polizia. Ovviamente doveva scaricarli e non lasciarli neanche per poco sulla strada… quindi ecco che prende il primo sacco, non affatto leggero, effettua la discesa e lo adagia a ridosso del canneto, per fare questo compie circa quaranta metri. Torna di corsa, riapre l’automobile, afferra il secondo sacco ed effettua lo stesso percorso… unica variante è che durante la discesa, credo che sia una supposizione che possiamo assolutamente fare, gli scivoli di mano il sacco numero due e cadendo si apra parzialmente. Ecco che è costretto quindi ad adagiarlo nel primo punto utile, vicino al canneto. In alternativa possiamo pensare che sia stato qualche cane randagio ad aprire i sacchi. Comunque, dopo averli poggiati deve essere successo qualcosa: non si effettua un tragitto in autovettura, non si corrono dei rischi così per poi lasciare i sacchi in bocca agli investigatori, che ne potrebbero trarre degli elementi utili. In effetti hai ragione. A riprova del fatto che il destino dei sacchi è che dovessero finire nell’acqua, è la presenza, in quello dove si ritrovò il tronco dell’uomo, appunto, di tre sanpietrini e poi un lenzuolo… che tutto sommato sarebbe dovuto sparire. Come sappiamo, in quei giorni sulla sponda era accampata una tribù di zingari che devono aver disturbato il suo piano, fino a farlo fuggire. Oppure può essere arrivato qualcuno: qui ci venivano anche coppiette oltre alle prostitute di viale Marconi con i loro clienti. Mancava poco e ce l’avrebbe fatta: i corpi gettati nell’acqua, ancor più se tagliati a pezzi, seguono sempre uno strano loro destino… e forse la storia avrebbe avuto un epilogo differente”. Io e Armando ci guardiamo intorno. Andiamo verso il fiume. Le auto scorrono, metalliche, alla nostra sinistra, in alto. Può sembrare un posto isolato per abbandonare due sacchi del genere, ma non esiste luogo davvero isolato per fare abbando-
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nare al mondo qualcosa del genere. No, questo è il posto meno indicato per liberarsi di due esseri umani. Un gabbiano si ferma a pochi metri da noi. “È una storia enorme – fa Armando, di colpo – ricordami cosa facemmo noi della Polizia, dopo”. Passano i giorni, come motociclette. Corrono via nell’afa di una città che si svuota, lasciando gli uomini della Mobile con due cadaveri a pezzi nelle celle frigorifere e un mistero che si ingrandisce giorno dopo giorno. Il fatto che ci fossero lavori in corso non lontanissimo dal ponte, a piazza Re di Roma, e quindi che ci fossero mucchi di sanpietrini, induce la polizia a credere che il colpevole sia della zona. Il colpevole. Eh, parola grossa. Qui non si tratta di un colpevole qualunque. Non sono tanti gli squartatori, al mondo. La storia del crimine ci ha consegnato ad esempio le figure di Henri Desirée Landrù (che uccideva vedove e fidanzate dopo averne incamerato i beni; i corpi erano sezionati e bruciati nella stufa della sua villetta di Gambais), di Fritz Haarmann (il macellaio di Hannover, le cui vittime finivano gettate nella Leine oppure vendute come carne bovina al mercato nero), di Leonarda Cianciulli (che uccise tre donne per rubarne i beni e poi ne fece sparire quasi perfettamente i pezzi, affidandoli al figlio che li portava via46). Ma l’orrore del Tevere no, Roma non l’aveva ancora visto. Alla Mobile si guardano in faccia e decidono che, per quanto esile, certo non è da buttare via la pista degli zingari. Partono tre–quattro Volanti verde militare, di quelle col disco del telefono disegnato sulla portiera e la scritta “Polizia 113”, che sgommano verso zona San Paolo, mentre altre inchiodano davanti ai campi nomadi, dove trovano rom slavi e turchi. Altre setacciano i chioschi-bar della zona di lungotevere San Paolo. Qualcuno dovrà pur aver visto l’assassino scendere l’argine coi sacchi! Altre Volanti corrono poi da una carovana di zingari italiani che sta al Mandrione e da un’altra di jugoslavi a Centocelle, ma Una storia che abbiamo raccontato in “Leonarda Cianciulli. La Saponificatrice”, di Fabio Sanvitale e Vincenzo M. Mastronardi, Armando Editore, 2010. 46
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nessuno riconosce il tatuaggio. Anzi, specificano che tra loro non manca nessuno. La “pista dei gitani” finisce nel prevedibile nulla che ci si aspettava, nell’arco di ventiquattr’ore. Fino a quando, tre giorni dopo il ritrovamento, squilla il telefono in via San Vitale e l’uomo che risponde riceve la grande notizia: identificata! Il cadavere di donna che il Tevere ha regalato allo stracciarolo, ora ha nome e cognome. È quello che resta di Poidomani Teresa, nata a Roma il 19.12.1937, prostituta, moglie di Lovaglio Graziano, nato a Roma il 20.3.1938, pregiudicato, nullafacente. Ma qual è la loro storia? E come sono finiti in quei sacchi? Perché, chiunque sia stato, in questo momento è libero, col suo coltello e la sua sega. Libero per le strade e le piazze di Roma.
Graziano Lovaglio
La polizia si mette in cerca dei parenti dei coniugi e sarà proprio Luigi, il fratello di Graziano, che nel frattempo ha letto la notizia sul giornale, ad andare in Questura e dire dove abitano: in via Cutilia 51. La Mobile si getta come un sol uomo su questa pista. C’è da sapere tutto dei Lovaglio. Chi sono? Da dove vengono? Nemici, debiti, bollette, luoghi frequentati, parenti, ogni cosa che tengono nei cassetti del comodino, nelle tasche, tutto. È a caccia di tutto questo che si mette la polizia.
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La Poidomani, allora lavorava, risulta dai primi accertamenti, alle Tre Fontane, a S. Paolo, sulla Laurentina, alla Stazione della Magliana. Ma anche a Caracalla, a Piazzale degli Eroi... Si spostava di continuo da un posto all’altro di Roma, senza parlare con le colleghe, notte dopo notte. Il che non è un bell’affare per la Mobile, perché significa che le colleghe suddette sono poco in grado di aiutare nelle indagini. Della prostituta, comunque, Teresa ha l’aspetto e i modi. Qualunque sia la sua storia, in molti racconteranno che avevano intuito che mestiere facesse, pure senza saperlo, solo a guardarla. Ad un certo punto, dai e dai, notte dopo notte, automobile dopo automobile, ne aveva preso quella durezza dello sguardo, quel modo appariscente e sfrontato di vestire, quella gestualità spiccia e di poche parole, che va dritta al sodo e che ti guarda negli occhi da un pianeta lontano, in cui ogni uomo è solo un portafoglio da svuotare. In via Cutilia, civico 51, dalle parti di piazza Re di Roma, Graziano si fa chiamare Conti anziché Lovaglio e paga 47.000 lire d’affitto. L’appartamento ha tre camere e servizi e i Conti (pardon, Lovaglio) ci sono sbarcati il 12 aprile scorso, quindi da poco.
La casa di via Cutilia. La freccia indica il balconcino di casa Lovaglio
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Capitolo 15
Ce l’hanno fatta
Alle prime ore del 26 luglio 1969, così, ‘Il Messaggero’ batte tutti sul tempo. La prima apre con questo titolo: “Identificate le vittime. Catturato l’assassino”. Poi: “Ce l’hanno fatta. Hanno identificato le vittime e hanno preso l’assassino. È successo quando ancora sembrava che le indagini fossero ferme. L’uomo dalla testa mozzata si chiamava Graziano Lovaglio ed aveva 31 anni. La donna con le gambe segate, invece, si chiamava Teresa Poidomani ed era la moglie del tatuato. La coppia abitava in un appartamento del quartiere San Giovanni. La donna era nota alla Polizia dei Costumi”. A parte il meraviglioso giro di parole per non dire il mestiere della Poidomani, c’è un piccolo particolare che non torna, in questo pezzo. Che quando il giornale va in stampa, nella notte tra il 25 e il 26, l’assassino in realtà non è stato ancora catturato: ma, evidentemente, al cronista quelli della Mobile hanno spifferato di averlo già individuato. Che stanno andando a prenderlo. E questo è un bel colpo. Se quella mattina aveste avuto il giornale in mano, sorseggiando il vostro cappuccino, mentre dalla radio usciva “Oh happy days” degli Edwin Hawkins Singers, avreste letto anche un’altra chicca, però: che il tatuaggio per gli inquirenti richiama comunque l’ambiente del circo o degli zingari e che per capirne di più sono stati interpellati dei sociologi (!). “Armando, ma da quel tatuaggio cosa ne avremmo tratto, oggi?”. “Poco, Fabio, molto poco comunque. Il tatuaggio era formato da una testa di donna con sopra quella di un cavallo. La fattura era rozza e schematica, riconducibile a quelli che possono essere fatti in carcere con i pochi mezzi di fortuna a disposizione. Vedi, le linee non sono riempite e poi il cavallo
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è un soggetto ricorrente in carcere, dopo ovviamente scritte o soggetti religiosi. Oggi la cultura del tatuaggio è cambiata, in quegli anni erano rari i negozi specializzati, oggi sono invece frequenti. Non troviamo una predominanza di ceto, di lavoro, di sesso: oggi troviamo un tatuaggio, seppur piccolo, in un’altissima percentuale di popolazione. E pensare che il grande Ottolenghi, che creò la Polizia Scientifica, ne fece addirittura un trattato per caratterizzare i delinquenti, altri tempi. Il Lovaglio deve esserselo fatto in carcere, pensa che già dal 1955, all’età di diciannove anni, era stato arrestato in esecuzione di un ordine di cattura per un furto compiuto l’anno precedente”. “Ma poi c’è stato l’ingresso in via Cutilia…” fa Armando “ed è lì che la storia è cambiata, davanti la porta dell’interno 5, dove si precipita la Mobile alle prime ore del 26 luglio. Sfondano la porta e si mettono a guardare dappertutto. E scoprono che ne valeva davvero la pena…” Esatto, Armà. Nello stesso momento in cui gli agenti sono lì che forzano la porta d’ingresso dell’appartamento, un paio di Volanti si fermano davanti all’albergo Flora, in piazza del Biscione 6, un piccolo posto proprio nel cuore del cuore di Campo de’ Fiori, che ha solo 21 stanze. In realtà sarebbero 24, ma mancano, per scaramanzia, la 13, la 15 e la 17. Roma ’69 è anche questo. Il Flora è frequentato da prostitute, che ci dormono e qualche volta ci portano i clienti. Ognuna ha il suo nome di battaglia: c’è Pina, c’è la Veneziana, c’è la Matta... Sono le cinque del mattino e gli agenti si portano via – proprio dalla 24 – un uomo e una donna. Lui, dicono, è uno tranquillo, uno che paga sempre, che parla e scherza con tutti, seppure con una certa riservatezza, senza lasciar capire, però, che tipo sia... Mentre lo portano via, gli cade l’occhio su una macchia di caffè che sta su un gradino all’entrata dell’albergo. È quello il momento in cui dice: “Oddio, il sangue”. Mentre inizia la perquisizione del Flora, torniamo in via Cutilia, a quel palazzo dalla faccia scrostata: gli agenti hanno sfondato la porta e sono entrati. Ma cosa trovano a questo punto? “Trovano un appartamento molto caotico, in parte con il
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mobilio accatastato, che sembra in procinto di dover subire un trasloco. La scena viene congelata dalla Polizia Scientifica e possiamo riviverla con il sopralluogo, che è molto accurato e ci permette di scoprire parecchie cose. Come vedi, inizia già da fuori il palazzo, facendoci vedere l’ubicazione dell’appartamento che è posto al primo piano, un particolare non da poco. Proseguendo, vediamo che nel pianerottolo, alla sinistra della porta dell’appartamento, c’è il campanello con riportato il nominativo ‘Conti Amato’, particolare che conoscevamo, ma che ancora mi suona molto strano. Entrati troviamo un corridoio rettangolare che si estende longitudinalmente. Sulla parete destra si aprono due porte: un piccolo soggiorno, che spesso nelle testimonianze viene chiamato salotto, ed il bagno. Sulla parete anteriore del corridoio troviamo la porta che conduce alla cucina, quest’ultima si estende trasversalmente a destra. Sulla parete sinistra del corridoio sono presenti le porte che conducono alla camera da letto ed alla sala da pranzo, che poi sfocia nella terrazzina. Quest’ultima dà sulla strada, come abbiamo visto prima. Guarda la foto effettuata il 26 luglio dalla Polizia Scientifica, nel corridoio: c’è questa grande specchiera e sul ripiano in basso è addossata una consolle. Sopra vi troviamo alcune cose interessanti: due grandi fogli di carta vetrata; una retina per pulire le pentole ed una spugna ancora sigillata. Penso che questi particolari li rivaluteremo in seguito. Entriamo nel soggiorno, ed abbiamo già la consapevolezza che quello che stiamo vedendo non è solo l’appartamento delle vittime: ma la scena del crimine”. Fermo Armando nella sua spiegazione, perché mi viene da pensare quanto è lontana questa scena del crimine da quella che abbiamo visto nell’omicidio Martirano, vero? Due casi diversi, due omicidi diversi e due ceti sociali differenti. Alto borghesi con cameriera nel delitto di via Monaci, pregiudicati in fuga dai creditori qui in via Cutilia. Avrà quest’ultimo punto fatto la differenza e plasmato le scene del crimine? Armando ha avuto il mio stesso dubbio, annuisce e continua. “Stavamo dicendo, quindi, del soggiorno che, in quel giorno di giugno, ha avuto anch’esso un ruolo importante anche se, con ogni probabilità, l’omicidio non vi è avvenuto. Ti faccio
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notare due particolari important: un quadro sopra il divano, dove sono presenti anche due cuscini, e delle sedie accatastate, forse trasportatevi dalla sala da pranzo. Il bagno non è grande ed ha, accatastata sul wc, della biancheria lavata; però, come verrà riscontrato dalla Scientifica e dalle perizie successive, decisamente non bene, visto che presentava ancora delle tracce di sangue. Un’altra traccia di sangue viene trovata sul montante destro della porta del bagno. Guarda proprio questa traccia, è alta: la Scientifica la colloca ad 80 cm al di sopra della vasca, guarda bene, è proprio all’altezza dell’interruttore. L’omicida è entrato con le mani insanguinate ed ha cercato, a tentoni, di accendere la luce strusciando il montante.
Il bagno
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Possiamo dedurne due cose: la prima è che quest’azione dev’essere stata fatta di notte, infatti la finestra del bagno, che dà sulla chiostrina interna, ha il vetro smerigliato quindi, se fosse stato giorno, non ci sarebbe stata la necessità di andare a tentoni. La seconda è che l’assassino fosse di ‘casa’, infatti il tentativo di trovare l’interruttore viene fatto direttamente all’altezza di dove è ubicato. Come vedi non ci sono altri sbaffi, è la classica memoria di dove sono collocati gli interruttori che ognuno di noi ha quando entra in una stanza che ben conosce”. La cucina sta messa peggio: c’è una tanica sui fornelli e sul tavolo della carta da imballaggio. Un gomitolo di spago, aperto. Per terra c’è un cesto. In un cassetto, un coltello a seghetto di 30 cm con una macchia rossastra. “Appena si entra nella camera da letto troviamo una busta in cellophane, contenente delle scarpe da donna, ma appena subito dopo vediamo che la stanza è pronta per il trasloco. I cassetti del comò messi sul letto, classica azione per alleggerire il mobile; scarpe inserite nelle apposite scatole; valige pronte ed addirittura un fagotto, fatto con una coperta, contenente vestiario poggiato sul pavimento. Vedi, nel letto non ci sono le lenzuola, possiamo senz’altro ritenere siano quelle presenti sul wc, quelle che abbiamo visto prima. Sono state trovate, nella camera da letto, diverse tracce di sangue: ma in particolare la quantità più cospicua è stata rinvenuta sotto il battiscopa, in prossimità del comodino posto alla destra del letto, per chi osserva, cioè quello più vicino alla porta. Questo sangue è del gruppo A. La sala da pranzo è quella che colpisce di più. Appena entrati ci troviamo in un ambiente molto illuminato (ricordiamoci che nella parete anteriore è posta la porta-finestra che conduce al balcone) in cui troviamo, addossato alla parete destra, un mobile credenza; ed addossato alla parete sinistra il tavolo mancante delle sedie, che come abbiamo visto sono state rinvenute invece nel salotto. Addirittura troviamo una sedia, diciamo più ornamentale che altro, addirittura sul tavolino. I mobili dell’appartamento, è chiaro, sono proprio in procinto di essere traslocati! Vediamo però gli elementi più importanti che vengono trovati in quel fatidico sopralluogo...
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La camera da pranzo. In fondo, la porta-finestra che dava sul balconcino
Abbiamo, sul tavolo, un raschietto ed un barattolo di D.D.T. in polvere (altri tempi, uno degli insetticidi più dannosi e pericolosi per l’uomo, che ancora si vendeva liberamente) che, come vedremo, verrà molto utilizzato; il vetro di destra della porta finestra, rotto; sul balcone 3 sanpietrini simili a quelli che abbiamo rinvenuto nei sacchi contenenti le parti di cadavere ed, in prossimità della finestra, sul pavimento, troviamo un tegame. Il suo contenuto verrà analizzato dai periti alla ricerca di eventuali sostanze velenose o insetticide dando esito
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negativo: ma una cosa verrà trovata, la presenza di carta da parati in tracce. Ed è proprio nei due angoli vicino alla finestra che troviamo la giustificazione di tutto questo, infatti è da lì che buona parte della carta da parati è stata tolta... ecco giustificare le tracce della stessa nella pentola ed il raschietto sul tavolo. Inoltre, nello zoccolo, in prossimità dell’angolo anteriore sinistro, si riscontra una cospicua quantità di sangue, tale da permettere di effettuarvi una perizia, da parte del medico legale, che riuscirà in seguito ad identificare il gruppo sanguigno: B, quello di Lovaglio”.
L’angolo della camera da pranzo dal quale l'assassino provò a cancellare le tracce di sangue di Lovaglio
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La casa è disseminata di piccole tracce rossastre. Nell’ingresso (sullo zoccolo della parete di sinistra; e poi sulla carta da parati, tra la specchiera e la porta del salotto), in salotto (sulla maniglia interna della porta e sulla chiave, poi una macchia sulla parete, un’altra sul pavimento), in bagno (sul montante della porta, su una mantellina appesa al termosifone), in cucina (sulla carta di rivestimento interno di un cassetto, su un apriscatole, due cavatappi, un apribottiglie, un forchettone, un bilancino, un tappo, una vite; sulle maniglie del terzo e quarto cassetto, su una presa di corrente, sul battente della porta, sull’anta del mobile), in camera da letto (sulla maniglia interna, sulla gamba del comò, sullo zoccolo), in sala da pranzo (schizzi a forma di punto esclamativo sulla parte inferiore del battente della porta, su una mattonella, sul piano inferiore e su una gamba del mobile porta televisore, su numerosi frammenti di vetro della porta finestra, sugli zoccoli, sulla porta, sul frigorifero, sul battente della porta-finestra, sullo stipite della porta, sull’interruttore della luce, su due federe ed un lenzuolo). Non c’è una sola stanza in cui non ci siano i segni dell’orrore. Qualcuno scende sotto e dalla radiomobile di una delle Volanti chiama la Questura: qui ci vuole il medico legale. “Ma c’è un colpo di scena. Ti ricordi? Sono le sette di mattina. È in quel momento che, con la faccia a punto interrogativo, due uomini si affacciano nella luce della porta dell’interno 5. I poliziotti chiedono subito cosa vogliono, anche perché un passo ancora e finiscono dentro la scena del crimine. Si chiamano Alfredo e Amadio, sono i facchini della ditta di traslochi Sbordoni e sono venuti per portar via i mobili di casa. Trasloco? Quale trasloco? Di sicuro non è stato Graziano Lovaglio, a ordinare quel lavoro. Ed a pagarlo 30.000 lire. No, macchè, spiegano Alfredo e Amadio: è stato Vincenzo Teti”. Esatto. Intanto, la polizia butta giù gli inquilini di via Cutilia 51. Quelli dell’interno 5? No, non li vediamo dal 20 giugno. Già, ma adesso chi è questo Vincenzo Teti? Nelle ormai familiari sale dell’Emeroteca del Senato, dove la storia si fa silenzio, sfogliamo pesanti annate di giornali del 1969.
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“Guarda qui” dico io “senti che clima c’era nel palazzo, il giorno dopo…” “Che stai vedendo?” “È Il Messaggero, del 28 luglio. Guarda che titolo in prima: ‘Il mostro non vuole confessare’. I cronisti che non riescono a parlare con nessuno in via Cutilia,la gente con la catenella alla porta, che ha paura, che non vuole essere associata alla strage nemmeno per aver detto ‘buongiorno’ all’assassino o alle vittime. La porta dell’interno 5 sigillata con due nastri di carta, timbrati dalla questura di Roma. Solo nell’appartamento sottostante gli inquilini, una coppia, accetta di dire qualcosa. Ah, leggi cosa dice lui, Gesualdo Maturani. Senti qua: ‘Il nostro tormento notturno è iniziato a marzo scorso. Non passava notte senza che fossimo svegliati alle tre di notte, da grida e urla. Lui era un tipo distinto, in ordine, non si impicciava dei fatti degli altri. Lei aveva un aspetto non troppo serio, al punto che avevo intuito che mestiere facesse. Teti l’abbiamo visto solo un paio di volte per le scale, ma pensavamo fosse il fratello della donna. Dopo il 21 giugno pensavamo fossero andati fuori. (…) Ogni tanto, nei giorni successivi, qualche volta anche di giorno, sentivamo dei passi sul pavimento. Erano di una persona sola e pensavamo che in casa fosse rimasta solo la donna. Avere due morti sulla testa e non essersene accorti è un colpo veramente grande!’” Il Messaggero, 27 luglio. Stavolta il titolo è a tutta pagina: “Il mostro del Tevere è stato catturato”. L’attacco di Virgilio Crocco è da manuale: “Il mostro è un bel ragazzo di borgata. Ha 30 anni. Un mostro alto uno e settantacinque che faceva la comparsa a Cinecittà nei western caserecci. Si chiama Vincenzo Teti. Davanti al capo della Mobile, Palmeri, respingendo con troppa disperazione le accuse, agita le mani non più sporche di sangue. Ha avuto tanto tempo per lavarsele”. Teti ha precedenti per furtarelli, conosce come funzionano gli interrogatori. “Nega tutto. Non vuol essere lui lo squartatore”. L’articolo insinua il dubbio che la Poidomani non deve essere stata la prima donna che ha sfruttato. Anzi, dà per scontato che Teti la sfruttasse. Il Messaggero (e non sarà il solo) darà nei giorni successivi un’immagine precisa di Graziano e Teresa.
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E anche di Vincenzo. È l’immagine che ci è arrivata fino ad oggi, la fotografia di quella storia. Due figure nel bianco e nero del 1969, e sono proprio questi due colori che hanno resistito al tempo, all’usura e alla polvere del tempo. Su quelle pagine intrise di un grasso inchiostro scuro, le vite dei Lovaglio sono quelle che sono. “Come ne parlano?” “Dunque, senti qua… Graziano dicono che ha venduto fiori per le strade: è un parassita. Un uomo debole, che ogni tanto alzava la voce; ma poi tutto tornava come prima. Un fallito. Era arrivato dalla Sicilia, aveva fatto il manovale, ma per pochi mesi. Non gli piaceva lavorare, era troppo duro per lui. Venne licenziato. Si mise a rubare, lo arrestarono. Ricominciò. Lo ripresero di nuovo, becca un anno e mezzo. Smise di lottare, se mai aveva cominciato. A 25 anni incontrò Teresa e la sposò subito, ma con tutt’altre intenzioni che toglierla dal marciapiede. Il cronista ha un’idea precisa di lui47: ‘Sfruttare una donna vuol dire anche proteggerla’. Graziano Lovaglio non aveva la stoffa del souteneur. Al solito, gli mancava la grinta. Ed ecco allora entrare in scena il Teti. Lui sì che era fatto su misura per quel compito: con la sua sicurezza, il fisico prestante. La sfruttavano in due, ma al marito andavano le briciole. Si rodeva dentro il Lovaglio, in preda a sempre più frequenti attacchi di epilessia aggrediva la moglie: ‘Basta, dobbiamo finirla con questa vita’. Lo lasciavano dire, non avevano paura di lui. Una sera, verso la fine di giugno, il fallito ha gridato qualche parola di troppo. Forse, come sostiene Teti, si è avventato sulla moglie. Il suo gesto ha segnato la fine di una vita che è stata un naufragio”. Sono parole che ci giungono da un passato lontano, in cui eravamo bambini. Sono parole che non conoscono pietà. Graziano il debole, Teresa la sfruttata, Vincenzo il duro? I giornali hanno sentenziato, ma è stato così? È quello che vogliamo scoprire nella nostra indagine. Usciamo nell’assolata piazza di fronte l’Emeroteca. Avrem47 Questa ipotesi resta giornalistica. Non è stata seguita né dalla Mobile né al dibattimento. Non ci sono prove che Teti sfruttasse anche lui Teresa. La verità, anzi, è probabilmente un’altra.
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mo preferito rimanere dentro, in quelle stanze fresche. Qui la città ci aggredisce subito. File di turisti guidate da ombrelli gialli. I clienti eleganti dell’albergo di fronte. E un caldo allucinante. Domani ci aspetta un nuovo viaggio in Vespa (che nel frattempo Luigi ha rimesso in piedi), dovremo muoverci nelle prime ore della mattinata. Vogliamo saperne di più. I cancelli della Corte d’Assise di Roma si aprono presto. Il tempo di toglierci i caschi ed ecco che superiamo i controlli della sicurezza. Quel lungo cammino che sta tra l’ingresso e l’edificio è lo stesso che migliaia di persone hanno percorso, sospese tra verità e condanna. Qui si compie il destino degli uomini. La grande sala d’udienza è vuota. Silenziosa. Le fasce tricolori dei giudici popolari pendono da un attaccapanni. Il lungo tavolo di legno della giuria aspetta una nuova storia, un nuovo delitto, il compiersi di nuovi riti. In un saletta più piccola e poco distante ci aspetta il gentilissimo personale della Cancelleria. Ormai ci conosciamo bene: più tardi andremo a prendere un caffè insieme. Cominciamo a sfogliare i faldoni del delitto di via Cutilia. Intorno a noi, gli armadi strabordanti di carte, una fotocopiatrice sempre al lavoro, il grande bussolotto di ferro scuro che serve a estrarre i nomi dei giurati nei processi. A incrociare le vite, gli sguardi. Quegli attimi fatali in cui tutto si compie. Il silenzio è rotto da Armando, che mi passa un foglio ingiallito. È una vecchia informativa della Squadra Mobile. Parla delle prime indagini, che cominciarono dal precedente domicilio dei Lovaglio. Via Palasciano 65, a Portuense. Abitavano a piano terra, fu per quattro-cinque mesi. “Erano soliti litigare violentemente e lanciarsi l’un l’altro oggetti vari e stoviglie. Anche tra i due fratelli avvenivano liti e spesso il Graziano veniva dall’altro rimproverato di essere interessato solo al danaro. (…) Sulla targhetta di casa vi era la scritta ‘ContiPoidomani’, in quanto così asseriva di chiamarsi il Graziano”. “Hai capito?”, mi fa Armando. “Eh già... questi litigavano anche nell’altra casa. Ah, ecco
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l’indirizzo: via Palasciano. E i due fratelli devono essere Graziano, ovviamente, e suo fratello Luigi. Ma ’sto Graziano litigava con tutti…” “Sì, non sembra proprio tanto mite. Chissà...” E riprendiamo a sfogliare i faldoni, le cartelle, la storia di un duplice delitto. Perché, nei giorni successivi all’arresto, tutta la storia della strage di via Cutilia comincia a riempirsi di dettagli, particolari, scoperte. Delle parole di Teti, dei piccoli gesti delle vittime, dei loro soprammobili, delle loro urla disperate quell’ultima notte, dei loro vestiti, delle loro scarpe. Di quello che accadde. E di chi vide tutto. Ma c’è qualche punto fermo? Non si può dire molto, a fine luglio del 1969: certo, lo stato della casa, le tracce di sangue, le ferite su Lovaglio fanno ritenere che, solo con lui, una colluttazione ci sia stata. Ma perché? Quale può essere il movente che ha spinto Teti, l’amico di casa, a fare fuori marito e moglie? Esaminando le larve presenti nell’appartamento, i medici legali dicono che i cadaveri hanno soggiornato nell’appartamento per non meno di 3 giorni: infatti, hanno trovato dei gusci e sanno che questi schiudono dopo 3 giorni. E questo è quanto. Armando, oggi che avremmo potuto dire? “Un buon campionamento di questi gusci, come ci vengono descritti, effettuato da parte degli operatori della Polizia Scientifica, avrebbe permesso ad un entomologo forense di tirar fuori qualche dato di più, sicuramente. Quelle che sono state descritte dai due medici legali erano con ogni probabilità ‘pupari’ di Ditteri, cioè quello che ne resta dopo il passaggio da larva a mosca. I Ditteri fanno parte degli insetti e ne fanno parte le comuni mosche; tra le mosche ci sono tre famiglie che sono universalmente riconosciute come importanti ai fini forensi: le Calliphoridae, che conosciamo più comunemente come i mosconi; le Muscidae, le mosche domestiche e le Sarcophagidae che sono le mosche carnarie. Generalmente, a seguito del decesso di un essere umano, ovviamente questo vale anche per gli animali, le mosche di queste tre famiglie ne percepiscono l’odore, anche a chilometri di distanza. Il corpo
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viene raggiunto in breve tempo, per effettuare la deposizione delle proprie uova nei punti più riparati, un tempo che viene statisticamente stimato all’interno dell’ora e mezza. Questi non sono solamente gli orifizi naturali, naso, bocca, orecchie, ecc... ma anche quelli dovuti, come nel nostro caso, all’azione criminale. Mi spiego meglio, Lovaglio aveva anche delle ferite aperte, no? Bene, queste erano un ottimo punto di colonizzazione per queste mosche. Quello che segue dopo è molto importante ai fini forensi. Le uova dopo circa 20 ore si schiuderanno ed usciranno delle larve, che verranno considerate al primo stadio. Mano mano che crescono passeranno al secondo stadio, per giungere quindi al terzo. Successivamente inizierà la loro trasformazione per diventare una mosca passando prima per lo stadio di ‘pupa’. Tra i vari stadi passano dalle 20 alle 30 ore e più di quattro giorni dal passaggio dal terzo stadio alla pupa. La pupa si schiuderà dopo più di 6 giorni, facendo alla fine uscire la mosca. L’entomologo forense è in grado, analizzando le larve, di capire a quale stadio ci si trova: questa parte non è molto difficile, uno dei punti di differenziazione sono gli spiracoli posteriori delle larve, osservabili con un microscopio...” “Armà, adesso esageri: scusa, che intendi per spiracolo posteriore?” “Fabio, non era nulla di drammatico, diciamo che lo spriracolo posteriore è opposto alla testa dove la larva espelle aria ed altro. Bene, questo ‘tubo di scappamento’ ha delle strisce ben visibili sulla sua superficie. Se ne contano da una a tre a seconda dello stadio, non è facile? Ma il lavoro dell’entomologo non è sempre così semplice, è necessario capire indispensabilmente di che tipo di mosca stiamo analizzando i resti, visto che ognuna delle famiglie ha un suo ciclo vitale influenzabile più o meno anche dalla temperatura; e poi bisogna poter stabilire, con l’analisi di tutti gli elementi campionati (larve rinvenute, pupari e magari delle uova), una data di inizio colonizzazione. Perché, questo è molto importante da sottolineare, ogni tipologia dei Ditteri ha una sua evoluzione di crescita. Pensa che, alcune volte, per determinare con certezza di quale specie faccia parte la larva, viene addirittura fatto un test specifico ed
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indirizzato del DNA. Per tornare a noi, sarebbe servito fare una campionatura delle larve, anche se in Italia, a quell’epoca, la figura dell’entomologo forense non era conosciuta. Come per altre scienze criminalistiche, è impreciso fare stime generali. I medici legali del 1969, che stimarono in 3 giorni il tempo di permanenza dei corpi nell’appartamento, fecero due errori: il primo è legato alle non conoscenza dell’entomologia forense, infatti nella loro relazione non fanno un discorso tecnico (parlando cioè della tipologia della specie rinvenuta), anzi generalizzano chiamandoli genericamente ‘gusci’. Possiamo dedurre che non era un campo dove erano particolarmente ferrati. Il secondo errore è dovuto al fatto che questi generici 3 giorni non vengono considerati possibili in nessuna delle famiglie di Ditteri che ho menzionato, ma allora? Hanno provato ad indovinare? E quindi il discorso su gusci e larve è meglio che lo mettiamo da parte per questo delitto”. Ma il 1969 non è esattamente l’anno zero della medicina legale e della polizia scientifica. Carella e Marracino, a parte l’entomologia forense che hanno affrontato senza conoscenze, danno una bella mano alle indagini. Posto che Lovaglio ha sangue gruppo B, e la Poidomani gruppo A, vanno a verificare di che gruppo sono le tante macchie rossastre che chiazzano le pareti, i mobili, le maniglie della casa di via Cutilia 51. E scoprono che c’è prevalenza di sangue di gruppo A in camera da letto (soprattutto nell’angolo posteriore destro, nei pressi del comodino più vicino all’ingresso) e B in salotto, soprattutto nell’angolo anteriore sinistro in prossimità della porta finestra; e cucina. Armando segue il mio ragionamento e sa che sta per arrivare la domanda da cento milioni di euro. E infatti arriva, perché comincia a sorridere prima ancora che io abbia parlato. “Ma scusa, tanto per iniziare, Teti di che gruppo aveva il sangue? E poi, la presenza di sangue A potrebbe dirci qualcosa su come e dove è morta la Poidomani, no?” “Non possiamo sapere il gruppo di Teti: si rifiutò di farsi prelevare il sangue. Pensa che differenza, oggi basta fare un
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piccolo prelievo dalla mucosa orale, mediante un tamponcino piccolissimo, e possiamo effettuare una analisi completa del DNA.
Per quanto riguarda la causa di morte della donna, i medici legali non si sbilanciarono: dissero che forse era strozzamento. Anche se il ‘forse’ era d’obbligo: lo stato di conservazione del corpo permetteva di escludere molte cause di morte, per esempio quelle riconducibili all’utilizzo di armi da fuoco o bianche. Il dubbio che poteva nascere era dovuto, più che altro, all’eventuale presenza di veleni nel sangue. Gli esami vennero fatti, specialmente sul corpo della donna, sui resti dei polmoni, del cuore, del fegato, reni , milza e la parete gastrica ed intestinale. Vennero ricercati veleni metallici, però con esito negativo, a parte una fisiologica presennza di arsenico, rame e piombo”. Rimango colpito dal fatto che il nostro corpo ha una fisiologica presenza di arsenico, sembra così strano ed incredibile, ma Armando continua come un treno. “Successivamente cercarono i veleni organici, come ad esempio alcaloidi, barbiturici, ecc..., con il metodo Stass-Otto, ma anche questa ricerca dette esito negativo. Ed infine ricercarono i veleni volatili, cioè l’eventuale presenza di acidi, cianuri e di insetticidi nel contenuto gastrico. Tutto negativo!” La polizia, nell’estate della Luna, non ha puntato Vincenzo Teti per caso. Ha lasciato duemila tracce diverse. Ad esempio, in un referto del Pronto Soccorso del San Camillo. Qui, risulta, nero su bianco, che proprio Teti è stato medicato (guarda caso) alle 16.45 di sabato 21 giugno, per delle ferite lacero-contuse al primo e quinto dito mano destra, alla base del secondo dito della mano destra, alla base del primo e secondo dito mano sinistra e per una contusione al polso sinistro. Il 21, cioè il giorno dopo la sparizione dei Lovaglio… Ne ricava un punto alla base del pollice della mano destra e due alla base del dito indice della mano sinistra. Sono ferite compatibili a quelle che si sarebbe potuto procurare impugnando un coltello nell’atto di pugnalare qualcuno. “Perché quello che le serie tv non raccontano mai è questo:
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che accoltellare qualcuno non è esattamente una passeggiata di piacere. Il sangue schizza, si infiltra nel pugno che stringe il manico, le dita scivolano nell’atto di colpire, la base delle dita si ferisce. Ecco perché le armi bianche, come le spade, hanno l’elsa: per proteggere la mano che colpisce”, fa Armando. Il sangue della vittima e quella dell’assassino si mischiano, insomma. Anche al Flora hanno trovato roba interessante, che adesso è nelle mani dei periti: un coltello a scatto con lama di 7 cm, un coltello da sub... tutti con delle macchie sospette. E poi c’è quello da cucina, con la classica lama a seghetto, che invece viene da via Cutilia. Sono stati loro a depezzare Teresa e Graziano? “Purtroppo non lo sapremo mai, forse il seghetto era idoneo, comunque l’esame del DNA non era possibile nel 1969: sarà bastato lavarlo con una certa cura sotto l’acqua corrente per far sparire ogni traccia allora identificabile. Oggi sarebbe stato differente”, mi risponde Armando. Poi c’è l’automobile. Quella di Teresa. Si trova bella parcheggiata in un garage pubblico, vicino via Cutilia. È l’autorimessa di Giuseppe Caporella, in via Britannia 18–20. Dalle parti di Re di Roma. È qui che la trova la polizia. Sarebbe una cosa normale, se non fosse che i Lovaglio la loro auto (una Innocenti Mini Cooper verde, immatricolata nel dicembre 1968, targata ROMA D 32040) non la tenevano che sotto casa. Nell’autorimessa ci mettono sei secondi e mezzo per fare il nome di chi ha portato lì l’auto: Vincenzo Teti, di nuovo. È lui che paga il posteggio dal 21 giugno al 6 luglio: 5.200 lire. La Mini appare di colpo nell’autorimessa alle 16.45, sempre del 21 giugno, che è sempre il giorno dopo la sparizione dei coniugi. Che per tutti diventa quello della loro morte. Perché l’idea è questa: che i Lovaglio siano stati ammazzati il 20, cioè da quando non hanno dato più notizie di loro. Perché proprio il 20? Lo vedremo nel prossimo capitolo... Solo che Teti, in ogni caso, non ha la patente: sono anni che sta cercando di prenderla. È il 28 giugno, infatti, quando ottie-
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ne l’ennesimo foglio rosa tramite l’autoscuola Pancalli, sulla Tuscolana. È con quell’auto che ha portato i corpi sul Tevere? “Sicuramente è stata utilizzata la Mini, comunque rimane curioso”, aggiunge Armando, “che nell’informative della Polizia si batte sul fatto che l’auto era sempre parcheggiata in strada, anche se veniva pagato regolarmente il garage, molto curioso...” Una cosa è certa, però: il 29 giugno Teti ha ancora le mani fasciate, lo vedono bene gli operai dell’autorimessa. Le fasciature sono regolari, cioè di garza normale, ma abbondantemente vistose. E anche un’altra certezza è matematica: in quell’auto, che la Scientifica rivolta come un guanto, invece, non ci sono tracce di sangue. Ma proprio non ci sono. Armando, ma certo questo non vuol dire che i corpi non siano comunque passati di lì, no? “Quell’estate la Polizia fece una bella ricerca sulle autovetture in uso al Teti, ma non ne risultarono. Pensa che, quando si fece la perquisizione, vennero rinvenute due fotografie raffiguranti una Alfa Romeo Giulia, che veniva guidata dalla Poidomani, e due foto raffiguranti due diverse Fiat 500. Vennero eseguite ricerche anche su tali autovetture e risultò che l’Alfa era passata di mano due anni prima e così anche le due Fiat: una l’aveva venduta la Poidomani l’anno precedente e l’altra, inquadrata casualmente, apparteneva ad un indivuo del tutto estraneo. Quindi è altamente probabile che i corpi siano passati dalla Mini. Però pensaci, una persona che è così accurata da inserire le parti dei corpi dentro quattro buste di plastica e due sacchi di juta può ragionevolmente mettere un semplice telo nel cofano, non ti pare?” ‘Certo! E non è tutto... Il nastro adesivo nero, ritrovato a casa dei Lovaglio, è stato acquistato, ancora da un uomo con le mani fasciate, alla cartolibreria Del Marro, in via Appia Nuova 169. Qui c’è una commessa che si ricorda bene la scena e riconosce in fotografia Teti. Ricorda bene di aver pensato “poverino, come avrà fatto a farsi male a entrambe le mani?’” “Certo che me lo ricordo. È lo stesso negozio, si scoprirà
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poi, in cui Teti acquisterà anche dello scotch e dei sacchi di nylon, uguali a quelli in cui erano contenuti i cadaveri ritrovati accanto al Tevere. E poi, c’è anche il fatto – che non sarà una prova, ma è indicativo – che l’affitto di luglio, di via Cutilia, l’ha pagato Teti”. “Esatto, giusto. Per avere più tempo. Ma tempo per fare cosa? Io vorrei sapere che diamine ha fatto per un mese in via Cutilia, se poi ha lasciato l’appartamento come l’ha lasciato, con duemila tracce!” “Non si capisce proprio, qui dobbiamo pensare che ci siano delle motivazioni non soltanto logiche e funzionali, ma anche di carattere emozionale. Parte dei corpi era stata portata via sicuramente nei primi giorni. È quello che verrà restituito dal Tevere. I due sacchi invece successivamente, a ridosso della data di ritrovamento, ma in quello spazio di 20-25 giorni? Cos’ha fatto Teti? Lo sai cosa penso, Fabio? Che lui abbia semplicemente chiuso la porta di via Cutilia, cercando di dimenticarsi tutto. Di fuggire da quello che aveva fatto. In quel periodo, addirittura, regala dei soldi ai figli di Lovaglio attraverso la nonna. Le motivazioni non sono funzionali, secondo me dobbiamo tornare a parlare con il Professore”. Armando non ha torto, in questo periodo ne compie Teti, di stranezze. Nei giorni successivi al delitto viene visto dagli inquilini del palazzo. Apre il portone con le chiavi, ma quando si accorge che c’è gente intorno finge invece di suonare al citofono, come a voler dare l’impressione che ci sia ancora qualcuno vivo, all’interno 5... Di prove contro di lui, poi, ce ne sono anche altre. C’è un anello, per esempio. Al pegno della Cassa di Risparmio di Roma risulta impegnato da Teti, il 30 giugno 1969, a sei mesi, un anello in oro bianco con brillante, per 270.000 lire, che risulterà essere stato di Teresa Poidomani. Come di Teresa era la borzetta nera che Teti, generosamente, regala alla Boccanera nei giorni successivi al delitto. E ancora, c’è la roba sequestrata all’albergo Flora, nella stanza 24: un coltello da sub, uno a scatto, la polizza dell’auto di Teresa Poidomani, il contratto d’affitto di via Cutilia, la ricevuta del garage dove si trova l’auto. No, non si mette affatto
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bene per lui. Nemmeno un po’. È uno che sta annegando in alto mare, Teti. A ogni buon conto, che sia stato lui, a fare quel massacro, non se l’aspettava davvero nessuno. Per tutti lo spiega Giuseppe Ferretti, il proprietario del Flora: “Non ho mai sospettato che Vincenzo Teti potesse essere un assassino, ma evidentemente non conosco bene il mio prossimo, se un mostro di quel genere è potuto vivere sotto i miei occhi per tanto tempo senza mai tradire la pur minima emozione”. Sì, signor Giuseppe, è la solita vecchia storia. Del nostro prossimo non conosciamo nulla: a stento conosciamo noi stessi. Chiunque può uccidere. Chiunque. Ma noi non l'accetteremo mai e continuiamo a stupirci, ogni volta. Lavorare ogni giorno col delitto regala questo grande insegnamento: non meravigliarsi mai di quello che l'animo umano è in grado di fare.
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Capitolo 16
Gli sguardi dei bambini
Ma in via Cutilia, quella notte, c’erano altri occhi. Non solo quelli di Teresa e Graziano, che sono rimasti sbarrati nel vuoto. Altri sguardi entrano in questa storia agghiacciante. Sguardi cui nessuno avrebbe pensato, almeno all’inizio. Sono quelli di Luigino Lovaglio (che sta per compiere 12 anni: il suo compleanno è ad agosto) e di suo fratello Franco (che di anni, invece, ne ha 5). Luigino e Franco sono i figli di Teresa Poidomani. Il primo l’ha avuto da un altro uomo, il secondo da Graziano. Ma hanno entrambi il suo cognome. Sulle prime nessuno pensa che abbiano qualcosa da dire. I bambini, infatti, li trovano a casa della nonna, in via Dameta 26, a La Rustica, una zona appunto al confine del Raccordo Anulare. È Luigi, il fratello di Graziano, a dire agli investigatori che i bambini sono vivi e stanno lì da un pezzo. In via Dameta, in una zona che è fuori mano oggi, nel 1969 era un viaggio arrivarci. È qui che la nonna dice ai poliziotti una cosa che proprio non si sapeva: che la sera del delitto era stata a cena in via Cutilia con i bambini, Graziano e sua sorella Anna, per festeggiare l’onomastico di Luigino (che in realtà era il giorno dopo, sabato 21 giugno), ma di non aver mai sentito nemmeno nominare ’sto Vincenzo Teti. Che non c’era. Ce ne vorrà perché i bambini raccontino quello che hanno visto e anche quello che non hanno visto, ma sentito. Ci vorrà che la nonna sia torchiata a dovere: e ammetta che, invece, Teti c’era. E che i poliziotti si preparino ad ascoltare l’orrore. Era andata così. Quella sera, Graziano era andato a prendere madre, sorella e figli con la Mini; e aveva portato tutti in via Cutilia, per poi riportare solo le donne a casa, dopo cena. Luigino e Graziano,
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dunque, erano rimasti a dormire a casa dei genitori; a dire il vero Graziano aveva chiesto anche alla madre e alla sorella se volevano restare, ma loro avevano detto di no. Troppo piccola la casa, facciamo un’altra volta. Vedremo dopo, nel dettaglio, come si erano svolti i fatti, quella sera. Per adesso segnatevi mentalmente la presenza di questo gruppo di famiglia in via Cutilia. Perché ora è il 26 luglio 1969: e finalmente Luigino Lovaglio può dire quello che sa. I suoi verbali sono i più interessanti: quelli di Franco, semplicemente, non esistono. Possibile che non sia stato nemmeno interrogato? O forse davvero non aveva visto e sentito nulla? Verosimilmente, Franco dev’essere stato giudicato troppo piccolo per testimoniare: solo 5 anni. Luigino, comunque, di cose ne dice. Sentite. Ad esempio, dice una cosa che ci fa rimanere a bocca aperta: che venerdì 20 giugno era tipo la terza volta che andava nella casa di via Cutilia. Ma come, non ci abitava? Non stava coi suoi genitori? In realtà, è la nonna (insieme a sua figlia Anna) a portarlo, col fratello, a casa dei genitori. Luigino e Franco, infatti, abitano praticamente a casa sua. Il che vuol dire che hanno genitori molto più che assenti. E vanno in via Cutilia, dicevamo, perché c’è da festeggiare l’onomastico di Luigino, che è esattamente il giorno dopo, il 21 giugno. Sarà un onomastico che ricorderà tutta la vita. Interrogato, il bambino dice che quella sera arrivano a casa e Graziano – che è andato a prendere tutti con la Mini – fa vedere il frigo nuovo, in cucina. Teresa non c’è, è sul marciapiede. A un certo punto, però, Graziano esce e ritorna con Teti, che presenta a tutti come “Vincenzo, un amico”. Ha con sé delle bombole da sub, Vincenzo: Luigino, curioso come tutti i bambini, gli chiede a che servono e Teti risponde “Per fare delle prove sott’acqua con papà”. Dopo una cena modesta, Vincenzo e Graziano riaccompagnano le due donne a via Dameta, dove abitano. I bambini si sistemano intanto sul divano-letto del salotto: Luigino aveva letto dei giornaletti fino alle 00.40, quando s’era addormentato. Era certo dell’ora, perché aveva guardato il suo orologio. Fino ad allora non aveva sentito il padre e Vincenzo rientrare.
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Era stato svegliato dalle urla dei genitori nel corridoio, ma aveva ripreso sonno. Poi, nell’ora più alta della notte, un profondo e lungo urlo del padre gli aveva fatto sbarrare gli occhi. Gli aveva “fatto seguito, con intensità sempre minore, la voce della madre, invocante ripetutamente il nome ‘Vincenzo’. Si era allora alzato per andare a vedere quel che era successo, ma la porta del salotto era risultata chiusa a chiave dall’esterno. Aveva bussato e subito Vincenzo gli aveva risposto ‘vai a letto che stanno bisticciando’. Aveva spiato dal buco della serratura, senza però riuscire a vedere alcunché d’insolito, per cui era tornato a dormire. La mattina successiva si era svegliato verso le ore 8, constatando che Vincenzo dormiva vicino a loro, nel salotto, per terra, su alcuni cuscini. In silenzio si era alzato per uscire dalla camera, ma mentre apriva la porta Vincenzo si era svegliato chiedendogli dove stesse andando. Aveva risposto che doveva recarsi in bagno e nel dirigersi al servizio aveva notato sul pavimento del corridoio tra la porta del salotto e quella della camera da pranzo delle macchie di sangue. Un’altra grande macchia di sangue l’aveva notata ritornando al salotto, sulla parete a destra della porta di ingresso dell’appartamento. Allorquando era uscito, aveva cercato di entrare nella camera da letto dei genitori, ma Vincenzo glielo aveva proibito, dicendogli che il padre gli aveva raccomandato di non farlo entrare nelle altre camere dell’abitazione. Più tardi, Vincenzo lo aveva mandato a ritirare un paio di pantaloni stesi sul balcone della cucina, su cui aveva notato una macchia di sangue. L’indumento era umido e Vincenzo gli aveva riferito che la madre glielo aveva lavato con una spazzola, durante la notte. Altre piccole macchie di sangue aveva notato sul pavimento del suddetto ambiente. A sua domanda, Vincenzo aveva asserito che i genitori erano improvvisamente partiti nel corso della notte in compagnia di un amico, a bordo di una Giulia nera per recarsi fuori Roma, in quanto la madre era sofferente di un esaurimento nervoso. (…) Chiestogli come si fosse ferito, questi gli aveva risposto che durante la notte, nel recarsi a Nettuno in motocicletta unitamente ad un amico, era rimasto coinvolto in un incidente”.
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Ai bambini Teti dice anche che, durante la notte, i genitori erano entrati due volte in camera e li avevano baciati. Strano, pensa il bambino: io non me ne sono accorto. Luigino però ha fame: vuole prendersi un pezzo di torta gelata dal frigo ed entra in cucina, ma Vincenzo gliela toglie di mano e porta in fretta e furia al bar a fare colazione lui e Franco, con paste e cappuccini. Luigi ricorda che Vincenzo, a quel punto, indossa maglia e pantaloni del padre. Strano. E qui dobbiamo fermarci. Armando, ma allora secondo te cosa è successo quella notte? “Uhm... rivediamo al volo gli elementi più importanti come la localizzazione di alcune delle tante tracce di sangue rinvenute nell’appartamento. In particolare, il medico legale riscontrerà una maggiore concentrazione delle tracce in due punti: vicino al battiscopa posto dietro il comodino di destra della camera da letto, che risulterà appartenere al gruppo A e sotto il battiscopa posto nell’angolo anteriore sinistro della camera da pranzo, che risulterà appartenere invece al gruppo B. Ora guarda bene questa foto, lo vedi questo alone davanti al comodino, con parti rotondeggianti? Potrebbe essere il risultato di un tentativo non completo di pulire il pavimento? Se fosse così, non si tratterrebbe di sangue: avrebbe sicuramente lasciato degli aloni rossastri e sarebbe stato menzionato nel verbale. La macchia da pulire era senz’altro scura, tendente al nerastro. Sto pensando sai cosa? Che potrebbe trattarsi dei liquidi cadaverici. Altro particolare importantissimo: la carta da parati raschiata ed il vetro destro rotto della porta finestra della camera da pranzo. Mi è capitato più di una volta di trovare delle scene del crimine in cui l’autore, per ripulire l’ambiente, aveva raschiato con un coltello la parete, per togliere le tracce di sangue. L’ultima testimonianza utile è quella di loro figlio, che non sente rientrare nessuno fino a mezzanotte e quaranta. Azzardiamo una ipotesi, allora. Vincenzo e Graziano rientrano e si mettono nella camera da pranzo a parlare e bere vino. Rientra successivamente Teresa: possiamo ritenere che non sia rientrata prima di Teti e Lovaglio, visto il suo abbigliamento. E cioè il corpetto che indossava e la corta gonna, “da
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lavoro”. Presumibilmente, se fosse entrata prima di loro, non trovandoli si sarebbe spogliata e messa a letto. Il motivo per cui si accende la lite tra marito e moglie e poi tra i due uomini non lo conosciamo, la posizione del tavolo da pranzo era sicuramente più centrale da come viene documentata nel fascicolo di sopralluogo della Scientifica. La colluttazione tra Teti e Lovaglio avviene nello spazio compreso tra il tavolo e la finestra, però. Teti, probabilmente, era seduto a capotavola, con le spalle alla finestra. Questa ipotesi si basa sul fatto che quello era il posto migliore del tavolo: una volta la posizione dei membri di una famiglia aveva delle regole tacite ma ferree. Il capofamiglia si sedeva a capotavola; ma in quel piccolo gruppo chi lo era? Non possiamo sapere chi dei due abbia estratto per primo il coltello, è ragionevole supporre che entrambi ne fossero provvisti, visto che ne vennero trovati sia nella Mini Cooper della Poidomani, in uso al marito, e sia nella stanza d’albergo dove dormiva Teti. Lovaglio viene colpito e grida, Teresa deve aver cercato dapprima di difendere il marito, ma vista la presumibile furia omicida di Teti avrà cercato di scappare nella camera da letto. Ci sta. Durante questa aggressione si rompe il vetro della porta-finestra. Il fatto che Luigino senta la madre gridare ‘aiuto Vincenzo’, la mancanza di ferite da arma bianca sulle parti del corpo rinvenute della Poidomani e l’assenza di tracce di veleno fa senz’altro ritenere che Teti, dopo aver ucciso il Lovaglio, abbia raggiunto nella camera da letto Teresa e l’abbia strozzata. Cosa succede dopo? Vincenzino si preoccupa di non far uscire i bambini dal salotto, chiudendoli dentro a chiave e tranquillizzandoli, parlandogli da dietro la porta. Questo succede quando il delitto è successo da poco e sai perché? Perché ci sono tracce di sangue sulla maniglia e sulla chiave. La loro esigua quantità non ha permesso, all’epoca, di determinare a quale gruppo appartenessero. Poi si reca al bagno per lavarsi le mani, ed ecco spiegarsi l’imbrattamento, presente vicino l’interruttore, sul montante della porta. Dopo essersi lavato, Vincenzo entra in salotto e dorme con i
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figli della coppia, sdraiandosi sul pavimento. La scelta di dormire così scomodamente si spiega col fatto che le altre due camere erano ‘occupate’ dai corpi dei Lovaglio”. Adesso Vincenzo Teti è diventato un duplice omicida e deve fare i conti con questo. Armando, dopo che i bambini sono stati accompagnati dalla nonna, Teti probabilmente ritorna nell’appartamento e si reca al Pronto Soccorso. Da qui ne esce con le mani vistosamente fasciate: e non sa ancora che questa sarà la sua rovina. Il marchio del delitto, che vedranno tutti: in cartoleria, al garage, tutti. Ma i corpi? Che fine hanno fatto? “Per capire cosa successe ai corpi è importante la testimonianza di Ditta Roberto, tappezziere, che, presentandosi spontaneamente alla Polizia, dichiara ‘Il giorno 23 o 24 giugno decorso, un individuo, da me ben conosciuto di vista in quanto abituale frequentatore del circolo Enal, sito nella stessa piazza Imola, (in piazza si trovano sia il negozio di Ditta che il circolo, N.d.a.) si è presentato nel mio laboratorio ordinandomi la confezione su misura di 10 sacchi di tela di juta’. Il rapporto della Squadra Mobile continua così: ‘Detto individuo, che aveva le mani fasciate, aveva richiesto il lavoro ultimato per lo stesso giorno od, al massimo, per il successivo. Ritornato in negozio il giorno dopo, in un momento in cui egli era assente, non avendo trovato pronti i sacchi ordinati, se li era fatti confezionare immantinente dagli operai e li aveva ritirati. Con la tela acquistata (metri 10), però, era stato possibile confezionare soltanto 8 sacchi’”. La ricevuta del negozio riporta la data del 24 giugno 1969. Il medico legale, nella sua perizia, ritiene che dalla morte al sezionamento dei cadaveri non siano passati più di 3 giorni. Tutto torna, Teti non effettua il sezionamento dei corpi fino a quando tutto è pronto e i sacchi sono a sua disposizione. I corpi, fino a quel momento, sono stati lasciati sul pavimento, permettendo ai Ditteri di colonizzarli. Il depezzamento viene effettuato, dice la perizia medicolegale, con una sega a ferro, mai ritrovata; sul terrazzino troviamo una mensola in marmo fissata alla parete sinistra, con sopra delle fioriere dove stanno morendo diverse piante e ci sono anche, attenzione, tre sanpietrini. Poi c’è anche una cas-
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setta degli attrezzi, che sta proprio sotto la mensola, addossata alla parete destra. Nel fascicolo di sopralluogo e relativa foto è chiaro che la scatola non contiene arnesi atti a ‘segare’. La mancanza di una sega di ferro potrebbe addirittura essere considerata un indizio. I corpi potrebbero essere stati depezzati nella sala da pranzo ed ecco perché, per fare spazio, il tavolino viene addossato alla parete sinistra. Sul pavimento Teti mette qualche sacco in plastica per non sporcare troppo, ma questo non evita una fuoriuscita di sangue verso il battiscopa. Però, sembra più probabile che il corpo della Poidomani sia stato depezzato nella camera da letto, proprio alla destra del letto, dov’è stata uccisa. Il corpo di Teresa viene poggiato, semplicemente, su uno dei lenzuoli tolti dal letto e che poi finirà dentro il sacco rinvenuto sulle sponde del Tevere.
Il punto della camera da letto in cui è morta la Poidomani. Sul pavimento, Teti ha provato a cancellare le tracce di una macchia di sangue prodotta dal depezzamento, ma è restato l’alone
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Fabio, dal sopralluogo effettuato il 21 luglio 1969 riusciamo anche a capire come sono stati poi avvolti i corpi. Procediamo dall’esterno verso l’interno. Erano ‘imballati’ così: innanzitutto in un sacco di juta delle dimensioni di cm. 59 per 91. All’interno del sacco, due sacchi di nylon, uno dentro l’altro, che contenevano un secondo sacco di juta, pressappoco delle stesse dimensioni. Ma non è finita qui, quest’ultimo conteneva a sua volta altri due sacchi di nylon, ovviamente l’uno dentro l’altro, ed infine il tutto conteneva un lenzuolo avvolto con all’interno, finalmente, i resti umani. Vedi Fabio, da quello che ci risulta Teti era la prima volta che uccideva e con ogni probabilità è stata anche la prima volta che ha dovuto occultare corpi umani. Potrebbe, all’inizio non aver utilizzato tutti questi strati, per confezionare i cadaveri, ma poi, percependo l’odore della putrefazione che avanzava, li ha inseriti in altri sacchi ancora. Una volta preparati i sacchi, ha iniziato a pensare a dove sbarazzarsene. L’arto e la testa rinvenuti nel fiume, visto lo stato macerativo in cui vengono rinvenuti, saranno stati tra i primi pezzi gettati. Probabilmente da ponte Marconi, che è il primo ponte a monte di quello della Magliana, dove venne rinvenuta la testa. Per quanto riguarda, invece, i due sacchi, la zona del ritrovamento è relativamente troppo di passaggio per pensare che vi siano stati per quasi un mese senza che nessuno se ne sia accorto. Ricordiamoci che uno dei due era anche parzialmente aperto. Si può ritenere che i due sacchi furono portati lì solo qualche giorno prima che lo stracciarolo li trovasse per caso”. Sì, i fatti potrebbero essere andati così. E nonna Carmela, dopo l’identificazione dei cadaveri, quando ormai la storia è di tutti e tutti ne parlano in città, non fa più uscire i bambini sul balconcino di via Dameta: sotto c’è la confusione dei fotografi e dei fotoreporter che li aspettano. Ma la verità è che è già tanto che siano vivi. “Li ha salvati – osserva un cronista – l’abitudine a non fare domande, ad accettare sbigottiti le urla, a non preoccuparsi delle invocazioni”. Il Tribunale dispone che vengano portati al collegio Mater Dei di Riccione. Quell’ambiente, quella città, non sono più per loro.
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Capitolo 17
Vincenzo, Graziano, Teresa e Anna
Vincenzo, Teresa, Graziano, Anna. Ma cosa sappiamo di loro? Sappiamo che Vincenzo ha 31 anni (è nato a Roma il 26 gennaio 1938) ed ha un fratello più piccolo. Sappiamo che sua madre Maria Parisi non vuole più saperne di lui, dopo quello che è successo. Che il padre si chiama Francesco, faceva il muratore, tuttavia lui non lo ha mai conosciuto: ferito durante la guerra d’Africa, è morto al Policlinico per le ferite riportate, mentre la madre era incinta del fratello. La madre è sarta, lui viene portato dapprima da parenti in Calabria, dalla nonna paterna. A 6 anni entra dalle suore salesiane, a Roma, ci resta fino ai 9. Quindi va all’Istituto Agricolo di Vigna Pia, gestito dai sacerdoti, fino ai 13, un grande edificio per “orfani e altri garzonetti più sventurati”, circondato dai campi, dove consegue l’avviamento professionale. Lì impara agronomia e agrimensura, orticultura, cerealicultura e viticultura. E la scuola si trovava a Portuense, cioè non lontano dall’argine del Tevere dov’è iniziata la nostra storia... La madre, intanto, si risposa con un ex agente di Pubblica Sicurezza. Lui torna in famiglia a 14 anni e scopre solo in quel momento di avere un patrigno: lei non lo ha informato. Si mette a lavorare. Lei lo sgrida quando non riporta soldi a casa. Insulti e parolacce. Lui se ne va e trova lavoro al Luna Park dell’Eur, prima come uomo di fatica e poi dirigendo una giostra, che però un giorno chiude: Vincenzo Teti s’inventa tappezziere. Si fa prestare il denaro necessario, fa debiti, ma il negozio una sera va a fuoco. Lui sospetta sia stato il fratello minore, invidioso, che aveva preso a lavorare con lui ma che era sfaticato, tanto che l’aveva cacciato. Soldi per assicurarsi non ne aveva: deve ripartire da zero.
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Inizia a lavorare presso una ditta che vende salotti, ma lo cacciano perché lo tanano a rubare della stoffa. Tenta un grosso affare a Milano, ma lo truffano. Si mette a rubare sul serio. Ha precedenti per furto e appropriazione indebita. Vive prima all’Albergo Sole, poi al Flora (dove sta nella 24, appunto), ma nella pratica è sempre imbucato al Circolo Enal di Piazza Imola 7. È proprio al Flora che, mesi prima, ha conosciuto Anna Boccanera, una prostituta con cui ha avviato una storia. È lei la ragazza che la Mobile porta via con Teti, alle prime ore del 26 luglio 1969. Vincenzino usciva alle 9–10 dall’albergo e rientrava alle 22, spesso passando il pomeriggio per riposare. Per cui Anna era praticamente da sola tutto il giorno; lui stava al Circolo. Che in realtà, poi, è un ex Enal, anche se tutti lo chiamano ancora così; nell’estate del 1969 è ormai un Circolo dell’UMN, Unione Monarchica Nazionale. Giuseppe Caruso, il titolare, dice di lui: “Tutti i frequentatori del Circolo conoscono Teti come un tipo solitario, taciturno, schivo da qualsiasi pubblicità. Di lui sospettavano che fosse un poco di buono, capace di commettere furti. Per questo motivo non aveva amicizie particolari. Le sue abitudini erano quelle di arrivare nelle prime ore del pomeriggio, farsi qualche partitella di calcio balilla, alle carte, ecc. Ultimamente riceveva telefonate da una certa Anna, di cui non so di più. Nell’ambiente si sapeva che era conoscente di Lovaglio, ma non amico”. Teti ama mangiar fuori: con gli amici frequenta l’osteria con cucina “Umberto”, in Vicolo del Cinque 21. Anna, però, ce la porta poco. E Lovaglio? Ha 31 anni, due fratelli (Domenico che sta in galera e Luigi, detto Gino). Anche Graziano è un frequentatore di Piazza Imola, del Circolo: lui, il mite, il debole, l’incapace Graziano Lovaglio. Eppure, tanto mite forse non è. Qualche tempo prima ha avuto una lite, al Circolo. Ha spaccato una bottiglia, è salito sul bancone. L’hanno fermato48. Insomma, è uno de quelli che je parte la brocca. Caruso conferma l’episodio della lite e 48
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L’episodio sarà confermato dal teste Aldo Ortenzi.
aggiunge, col tipico linguaggio da verbale di Questura: “Analoga lite ebbe in una trattoria nei pressi del Circolo, non molto tempo fa. Anche in questa occasione ruppe una bottiglia e minacciò tutti. Il Graziano più di una volta si vantò di essere pazzo e come prova era solito mostrare un tesserino della neuro. Si sapeva che il Lovaglio, oltre che essere matto, era anche uno sfruttatore. Per questo motivo veniva schivato da tutti, nessuno aveva voglia di stringere amicizia con un tipo simile”. Persino Teti dice di lui: “Era uno che cambiava carattere di colpo”. Sono parole che mettono Lovaglio in una luce nuova. Da uomo buono solo a subire, diventa un mezzo matto con scatti improvvisi49. Non abbiamo trovato tracce di follia nella sua storia, ma di esplosioni di rabbia, come vedete, sì. E anche i cronisti del 1969 ne trovarono: eppure, non fu quello il lato di Graziano che passò alla cronaca. Era più facile, più semplice da raccontare, la versione del debole nelle mani di una donna rapace e di uno sfruttatore violento. Di uno che aveva avuto l’unica impennata della sua vita edera morto. Di Davide contro Golia. Ma forse non era poi tutto così semplice. Così netto. Quando i cronisti, in quella lontana estate, si mettono a cercare i colori per dipingere Graziano, trovano solo il grigio, il nero, il viola. Lovaglio è descritto come un collerico, un violento. Ha precedenti per lesioni personali. Un giorno, la moglie era andato a cercarlo per dirgli che il parrucchiere l’aveva imbrogliata col resto: la scenata di Graziano nel negozio era stata enorme. Gli amici stessi lo dipingono come un rissoso, un megalomane, uno che non aveva paura di niente, uno che si vantava di avere un bel conto in banca (dimenticando che i soldi li guadagnava la moglie), uno che perdeva facilmente le staffe. Con Teti, invece, sono tutti più generosi: uno gentile, timido, che non dava confidenza a nessuno, introverso, che parlava poco, che non alzava mai la voce, che se perdeva a carte pagava subito, che non aveva un nemico, al Circolo. Teti, raccontano, diceva senza vergogna di essere un ladro. È lui stesso che rac49 In una sentenza precedente, Graziano è definito così: “Pronto alla reazione violenta, incline al cieco furore” (proc. penale 51/66 della Pretura di Roma, a suo carico, per lesioni e minacce).
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conta – agli amici dell’Enal, tutti, gestore incluso – di aver fatto la controfigura e la comparsa nei film di Cinecittà. Adesso sentite qui: Vincenzo dice anche agli amici che odia i papponi, lo ripete spesso e – questa poi è bella – quando incontrava Lovaglio al Circolo sembra che non si parlassero. Teresa: ha anche lei 31 anni. I Poidomani hanno abitato in otto in una baracca, a Vicolo del Vicario. Da bambina, Teresa dal 1948 al 1951 è andata dalle suore missionarie francescane, in via Monte del Gallo. Un buon posto, in fondo: almeno lì si mangiava. Però si vedeva subito che era una bambina ribelle e irrequieta. Vent’anni dopo, incasellata da varie denunce per atti osceni e false dichiarazioni d’identità, nella segnaletica della polizia del Buon Costume, ha un buffo aspetto da liceale cresciutella. Una minigonna plissettata, le scarpe basse col calzino corto, la faccia volgare con lo sguardo che fissa qualcosa che non è l’obiettivo, la posa con le mani lungo i fianchi, imbranata, della serie “e adesso le braccia dove le metto?”, le gambe magre, 155 cm d’altezza. In mezzo c’è una vita.
Teresa Poidomani
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Teresa passerà sui giornali come una rassegnata, che per un po’ di rispettabilità avrebbe dato tutto. Per i figli era disposta a qualsiasi cosa, scrivono: ma francamente questa è proprio un’edulcorazione giornalistica. Una bella favoletta. Luigino e Franco, lo sappiamo, stavano parcheggiati dalla nonna come due soprammobili. Dire che Teresa avrebbe fatto tutto per i figli è proprio una forzatura. “Quello che non voleva perdere non erano i figli, ma quello che si era guadagnata a furia di entrare e uscire dalle automobili: la Poidomani”, mi interrompe Armando. “Risulta infatti titolare di un libretto nominativo con 2.500.000 lire al Banco di Santo Spirito e di uno postale con 2.781.660 lire. Su due altri libretti postali intestati al figlio Luigi ci sono 8.000 lire e 5.000 lire...” “Leggi invece come la descriveranno sui giornali: ‘Arrivata a Roma, aveva fatto la domestica. Una domenica pomeriggio in una sala da ballo aveva conosciuto un giovanotto. Si era innamorata, voleva sposarsi (...). Aveva 20 anni. Il giovanotto si era dileguato lasciandola nei guai, in attesa. In attesa di un bimbo, Teresina Poidomani era stata licenziata. Bene o male, Luigi venne al mondo e a questo punto l’ex domestica si trovò ad un bivio. Scelse la strada sbagliata, nella convinzione illusoria di poter cambiare il giorno che avesse voluto. (...) Quando conobbe Graziano Lovaglio tornò ad illudersi, ma per poco. Ebbe un secondo figlio, Franco, che ora ha 6 anni. Soldi a casa non ce n’erano. Graziano non lavorava, diceva che non gli riusciva di trovare un impiego per il fatto che era stato in galera, ma in realtà non aveva voglia. Toccò a lei mandare avanti la baracca e lo fece tornando sul marciapiede. Era inevitabile che prima o poi apparisse un tipo come Vincenzo Teti’”. Il padre di Luigino Lovaglio è un certo Riccardo, pittore edile calabrese, zoppo, di cui perfino la madre della Poidomani ignora il cognome e che abita genericamente alla Garbatella. Questa faccenda di non conoscere i cognomi la ritroveremo in tanti punti di questa storia: sono nuclei familiari esplosi, sia i Poidomani che i Lovaglio, i cui componenti sono frantumati, non si vedono da anni, ignorano ognuno dove abita l’altro, l’indirizzo, la via. Si incontrano per caso, indifferenti ai legami di
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sangue ed alle vite degli altri. Sono tutti a Roma, da qualche parte, genericamente. Nella Grande Madre Roma. È anche su questo perdersi, su questo non interessarsi, in questo non volersi bene, non cercarsi, che l’assassino di via Cutilia, di fatto, ha potuto contare. Teresa e Graziano, l’avrete capito, sono due bombe a miccia corta, che esplodono ogni notte. Una volta, quando la mezzanotte era passata da un pezzo, quelli del piano di sotto l’avevano sentita gridare “aiuto mi ammazza!”. Altre sere la sentivano piangere. La vita, dietro la porta dell’interno 5, era un inferno le cui fiamme si riaccendevano tutte le notti. Questo è un dato di fatto. Ed è a queste frasi smozzicate che superavano mattoni e tramezzi, che andavano al di là della vernice bianca delle pareti, che dobbiamo chiedere cosa è successo la notte del 20 giugno 1969. Per questo, i vicini di casa sono decisivi per ricostruire i mesi che i Conti (alias Lovaglio) hanno trascorso in via Cutilia e la loro ultima notte su questa terra. E poi, in questa storia, c’è Anna, Anna Boccanera. Qualcuno, nel giro di Campo de’ Fiori la chiama “la matta”, chissà perché. Anna ha 29 anni ed è romana. Si prostituisce da otto e da due alloggia al Flora, stanza 10. Ha due figli, Rosalba di 8 e Patrizio di 6, che vivono col padre, di cui lei però non sa, tanto per cambiare, nemmeno l’indirizzo. Ha conosciuto Teti nel novembre 1968. Lui l’ha convinta a smettere col marciapiede, con la promessa di sposarla. Paga tutte le sue spese, è affettuoso e premuroso, Vincenzo, un po’ irascibile, ma è anche volutamente molto fumoso sulla vita che fa. Le dice che ripara biliardini, ma non precisa dove e come. Non le presenta gli amici. Lei pure, d’altronde, domande non ne fa. A fine giugno 1969, però, Anna scopre che è rimasta incinta di lui. Il progetto di matrimonio prende corpo e viene messo in cantiere per ottobre–novembre dello stesso anno. La mattina dell’arresto, dice Anna, era un giorno speciale: dovevano portare i mobili della casa di via Cutilia in quella dove sarebbero andati ad abitare, in via di Rocca Priora. Perché intanto andavano a vivere insieme: l’albergo costava troppo, ormai.
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Capitolo 18
Qui Squadra Mobile
Arrestato, Vincenzo Teti dichiara di svolgere attività di compravendita di giradischi, radio, oro. Non nega di andare a rubare. Nel verbale di interrogatorio del 26 luglio 1969 c’è la prima versione che dà dei fatti del 20 giugno. Sentiamo. Teti dice che conosceva Lovaglio da quattro anni, perché svolgeva anche lui la sua stessa attività; Teresa da due, invece. Con lui aveva trattato qualche piccolo affare di ricettazione. Dice di essere stato solo una volta nella casa di Monteverde e quattro–cinque volte in quella di via Cutilia, dove aveva visto i figli di Graziano per la prima volta proprio il 20. Dice che quella sera lui e Graziano arrivarono alle 22: l’amico era andato a prenderlo al Circolo, ma mentre andavano a casa, improvvisamente, Graziano gli aveva detto che a casa c’erano anche la sorella e la madre e cominciò ad insultarle perché avevano riportato i figli senza avvisarlo. Arrivano, si mettono tutti a tavola. Mentre mangiano telefona Teresa: Graziano le dice che ci sono i figli. Ah, le bombole: le aveva portate a Graziano perché lui gli aveva detto che voleva andarsene in giro in Francia, con Teresa, in tenda, per un paio di mesi, per non far sapere a nessuno dove si trovava50. Mentre riportano le donne a casa loro, dopo cena, Graziano ci litiga: dice che loro l’avrebbero mandato in galera. Dopo che Vincenzo e Graziano sono tornati a casa, suona il campanello ed è Teresa: è l’1-1.30 di notte. Quasi subito inizia la lite tra Tutti i parenti di Lovaglio dichiareranno che Graziano non solo non faceva il sub, ma neppure sapeva nuotare... 50
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marito e moglie, la solita lite di tutte le notti. Lui resta in cucina, mentre loro litigano in sala da pranzo: Vincenzo preferisce farsi i fatti suoi. Teti dice di essere accorso solo quando ha sentito lo schianto minaccioso di una bottiglia rotta. Di essere intervenuto nella lite solo a quel punto, bloccando Graziano e calmandolo. La moglie è ferita e col marito esce, a quel punto, per andare dal dottore. Teti dice di essere rimasto a casa su richiesta di Graziano, e di aver risposto lui al citofono a Luigi, il fratello di Graziano. Sì, perché tra le cose incredibili di quella notte di giugno è successo anche questo: che ad un certo punto della notte passa lo zio dei bambini, così, per andare a trovarli. È abituato a passare quando gli pare e così fa anche quella notte. Ma la porta dell'interno 5 si apre giusto d'uno spiraglio, dietro la catenella appare la faccia di Teti, che manda via lo zio Luigi, perché Graziano gli ha detto di non far entrare nessuno mentre lui e Teresa sono via; e per lui nessuno vuol dire nessuno. Poi Graziano e Teresa sono tornati, ma è scoppiata una nuova lite, lei è stata colpita da dei calci in pancia, dal marito; ancora una volta, Teti è intervenuto, ha bloccato Graziano che però stavolta ha un coltello in mano; e disarmandolo, Vincenzo s’è ferito. È in quel momento, dice, che hanno sentito bussare alla porta: è la polizia chiamata da quelli del piano di sotto; così Graziano ha spento tutte le luci di casa. Da dietro la porta s’è sentito “Polizia, ha telefonato?”; e Graziano “No, niente, grazie”. A quel punto, i coniugi decidono di partire, di andar via. Graziano, prima di uscire, ha chiuso a chiave la stanza da pranzo e si è portato via la chiave, perché ci sono vetri rotti e qualche goccia di sangue. Rimasto di nuovo solo coi bambini, Teti si è addormentato a terra, nella stanza dei bambini. Il mattino dopo, non ha fatto entrare i bambini in camera da letto “in quanto vi erano gli oggetti dei genitori” (!). Ha portato i bambini in via Dameta, come da richiesta di Graziano e poi l’auto nel garage. Non sa spiegarsi perché Graziano e Teresa siano partiti lasciando l’auto sotto casa. Il racconto di Vincenzino, er calabrese prosegue. È la notte
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tra 21 e 22 giugno, verso l’1-2 di notte, quando, davanti al Flora, vede Graziano scendere da una Giulia Bianca. L’amico gli dice che l’aspettava da 2 ore e gli chiede in prestito 1 milione: ha bisogno di soldi, deve partire. Teti tira fuori dalle tasche 600.000 lire in bigliettoni epoi altre 200.000, perché Graziano gli vende il suo anello ed il suo orologio. La Polizia adesso passa a fare domande sulla faccenda dei mobili, che i facchini di Teti si stavano portando via. Gli chiedono spiegazioni: “Circa un mese prima e cioè verso la fine di maggio, Graziano mi propose di acquistare tutti i mobili di sua proprietà e di prendere in affitto l’appartamento. Io accettai la sua proposta e gli diedi un milione e mezzo. In tale cifra era compresa anche l’acquisto della Mini Cooper. Era mia intenzione andarvi ad abitare unitamente alla mia fidanzata Anna Boccanera. Ho cambiato poi idea in quanto il contratto d’affitto era intestato al Graziano e l’affitto era caro: 46.000 lire al mese”. Poi, Teti racconta di come è stato contattato da una persona che non conosce, né vedrà mai in viso: il “dottore”. È lo stesso cui si è rivolto Graziano la notte in cui è partito, è lo stesso che ha curato e curerà Teresa per le ferite. Ma quest’uomo misterioso è anche implicato in affari poco puliti. Nei giorni successivi alla sparizione di Graziano e Teresa (che per Teti sono semplicemente partiti: così, infatti, gli hanno detto loro la notte del 20) sarà proprio il “dottore” a comunicare con Teti, esclusivamente a telefono. Lo chiama al Circolo, lo chiama al Flora, lascia messaggi, dà appuntamenti. Gli ordina di far preparare i sacchi, senza dirgli perché; Teti ubbidisce. Ubbidisce a tutti, quest'uomo... Quando ritira i sacchi e li va a portare in casa, Vincenzino suona, pur avendo le chiavi in tasca; il dottore è dentro, ma gli apre solo uno spiraglio, gli dice che non può farlo entrare e di lasciarli per terra. Dopo un racconto del genere, gli uomini della Mobile sanno che è necessario ed importante far crollare Teti, che si sta evidentemente nascondendo dietro una nebbia di bugie. È chiaro. Dal cassetto di legno della scrivania mettono allora sul piano di vetro l’accendino di Graziano e due foto in bianco e nero: la testa, il braccio. “Il Teti si rifiuta decisamente di osservare l’oggetto e le foto, dichiarando di non voler vedere alcuna cosa
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appartenente ai Lovaglio. Lo stesso è preso da viva agitazione”. Vincenzino trema, impossibile continuare l’interrogatorio: è fisicamente distrutto, annientato, le sue pupille sono dilatate, si porta le mani in faccia, sconvolto, tremante. “Non voglio vedere niente! Non fatemeli vedere!”. Alle 14 bisogna chiudere per forza il verbale, non c’è scelta. Quando lo portano via da San Vitale, quando sbuca nel cortile della Questura, Teti è ormai un fagotto umano, floscio, la faccia (non un viso, non un volto), è una maschera di legno, disperata e persa. È piegato in due, sorretto da due agenti in borghese. È un fantoccio, che mostra la sua calvizie. Una volta salito nella Volante si accartoccia e si tiene la testa tra le mani. Si riprende il giorno dopo, 27 luglio. Teti dichiara che sa che “In piazza Re di Roma, per dei lavori in corso, sono ammonticchiati vari sanpietrini”. Bene. Gli investigatori si tolgono la giacca, l’appoggiano alla sedia e passano a contestargli le affermazioni di Luigino, rese il giorno prima. Teti risponde che è falso quanto afferma Luigi e cioè che “La notte, quando sentì gridare il padre e la madre, cercò di aprire la porta del salottino e io gli dissi ‘dormi che papà e mamma hanno bisticciato’”. Che ha dormito sì per terra, nella stanza dei bambini, ma perché non poteva dormire nella stanza di Graziano, gli sarebbe sembrato di fargli un affronto. Che non è vero che ha impedito a Luigi di mangiare la torta in cucina nè che ha messo fretta ai bambini. Conferma che si era sporcato di sangue i pantaloni e la maglietta, che li lavò e li appese al balconcino della cucina. Ma che era successo quando voleva disarmare Graziano. Conferma di aver portato i bambini alla “Vecchia Pineta” di Castelfusano a pranzo, perché lì sarebbero dovuti arrivare i loro genitori. L’indicazione gliel’aveva data “il dottore”. E di averli portati a Termini subito dopo, perché, se non fossero venuti a Castelfusano, “il dottore” gli aveva detto che sarebbero arrivati quella notte alla stazione. A questo punto tirano fuori un coltello di cm 30, a lama seghettata, con una macchia rossa. È quello del sopralluogo. “Il Teti viene preso da viva agitazione, chiude gli occhi e si rifiuta
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di vedere detto coltello”. Il copione del giorno prima s’è ripetuto: alle 14.10 devono di nuovo chiudere il verbale ed aspettare le 18 per riaprirlo. Per quattro ore Vincenzino er calabrese non è altro che uno straccio su una sedia. Perso nei suoi pensieri. Il giorno dopo, 29 luglio, Teti si ricorda che Teresa rimproverava al marito che “non avrebbe dovuto fregarli”. Ma non sa a chi si riferisse. Gli chiedono perché rimase a dormire dai Lovaglio: perché era stanco – risponde – perché era tardi e poi Graziano gli aveva chiesto di portare i bambini dalla nonna, il mattino dopo. Era ritornato in via Cutilia 5-6 giorni dopo la partenza dei Lovaglio: aveva visto che erano stati spostati il televisore ed il tavolo, che la carta da parati era bagnata. Si era allora convinto, dice ai poliziotti, che i coniugi fossero stati smembrati in casa. In quel periodo, racconta, era andato 2-3 volte dalla madre di Graziano. Vincenzino nega di aver mai avuto una relazione con Teresa. Interrogatorio del 31 luglio. Si rifiuta di rispondere sull’acquisto dei sacchi di plastica. Non risponde neanche alle domande su quando abbia usato la Mini dopo il 20 giugno. Annuncia la consegna di un memoriale per il 2 agosto successivo. “Non so che ne pensi tu, Armando, ma secondo me, in tutta questa valanga di parole di contraddizioni ce ne sono, eccome”. “Ok, dimmi le tue. Poi ti dico che penso io”. “Ad esempio, sul fatto che Teti fosse andato poche volte in via Cutilia, quando invece vedremo che gli inquilini dichiareranno di averlo visto davvero molte volte. Altra contraddizione: quando dice che portò le bombole perché Graziano voleva partire per la Francia. Ma allora aveva già deciso prima, di ucciderli? Le bombole sembrano servire a questo, visto che poi si disferà dei corpi usando il fiume...” “Potrebbe proprio essere, forse quando deposita i sacchi vicino a ponte Marconi e poi deve fuggire ha in mente qualcosa di più complesso”. “E comunque... se Graziano aveva già deciso di partire per la Francia, perché a cena non lo aveva detto alla madre, che gli
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avrebbe dovuto tenere i figli, ovviamente? E se lo aveva deciso, allora non è vero che la scelta di partire avvenne solo a seguito della lite... se ne deduce che le bombole servivano a Teti e che affibbiarle a Graziano è un modo per non farlo capire”. “Sai cosa penso io? Che è del tutto priva di senso la versione di Teti: cioè che lui sia rimasto dopo cena così, senza motivo, a meno che, invece, lui e Graziano non aspettassero proprio il rientro di Teresa, perché dovevano parlare con lei. Di cosa, vedremo dopo. Non ha senso nemmeno che Graziano e Teresa siano entrati e usciti due volte: Teti deve inventarlo per giustificare come mai Teresa e Graziano non c’erano proprio quando il fratello di lui, Luigi, è passato. Anche la visita di Luigi, comunque, è strana: che ci faceva in via Cutilia a quell’ora? Per non dire di quanto sia inverosimile che sia stato Graziano a chiudere a chiave il salotto per due gocce di sangue (ma pulire, no?) e che Teti neghi ai bambini di entrare in camera da letto dei genitori per non turbarli”. “Assolutamente sì. Quello che racconta lui non tiene, rimane sempre più verosimile quello che abbiamo detto…” “Come è inverosimile l’incontro con Graziano davanti l’albergo, visto che a quel punto era già morto; e poi, tutta la storia del ‘dottore’! Assurda! Contraddittoria anche la sua idea di voler andare a vivere in via Cutilia con la Boccanera e di averci poi ripensato per via dell’affitto alto (e prima non lo sapeva? Al Flora pagava 36.000 lire lui e ne pagava 60.000 per la Boccanera. Via Cutilia costava 46.000 al mese, meno della metà! Semmai era più conveniente...). Il punto è un altro: l’intenzione l’avrà anche avuta, ma per come era ridotta quella casa dopo la notte del 20 giugno, Teti deve averci ripensato. Faccio prima a trovarne un’altra che a pulire questa, deve essersi detto...” “E poi non trovi ridicola la scusa del non aver voluto dormire sul letto di Graziano per non fargli un affronto?” “Per non parlare di quanto sia stata priva di ogni sentimento la farsa di portare i bambini in giro a pranzo ed alla stazione, quando sapeva benissimo che i genitori li aveva messi lui in due sacchi. Era solo un modo per capire cosa sapessero o no, e intanto tenerli buoni...” Ma l’abilità di chi mente è quella di mischiare vero e falso.
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Che la lite sia avvenuta in due tempi è vero, lo dicono i vicini. Che sia passata la Polizia, quella notte, pure. Che Graziano fosse irascibile è vero, lo dicono tutti i testi. E che Graziano avesse venduto i mobili è vero anche questo: altri lo sapevano e lo testimonieranno (i parenti, soprattutto). Che la lite fosse essenzialmente tra marito e moglie è dunque vero, perché era Graziano che aveva venduto i mobili a Vincenzo (e forse voleva lasciargli anche la casa; l’auto la escluderei: Teti non aveva ancora la patente e un’auto serviva sempre ai Lovaglio) ed era lui a doversela vedere con sua moglie. Quindi, che Teti abbia sostanzialmente assistito alla lite finale tra loro, è plausibile. Altro è dire cosa è successo dopo. Resta una Volante ferma davanti al 51 di via Cutilia, quella notte, chiamata per quella che appare come una banale lite tra marito e moglie. Ferma, ad un passo da un duplice delitto. Ad un passo dalla verità e da un assassino.
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Capitolo 19
Storia del sangue
Ma c’è un problema. Vincenzo Teti non confessa. Sbanda, urla, piange, si chiude a testuggine, prende tempo, grida, si affloscia, ma non confessa i delitti. È forse in questo momento, da questa esigenza investigativa, ma anche per il tipo di delitto, che l’indagine criminalistica, quella di Polizia Scientifica, prende un peso enorme in questa storia. Tutti a cercare il sangue, insomma. Il sangue è la grande ossessione della Polizia e dei cronisti del caso Teti. Lo vedono dappertutto, lo cercano dappertutto. In auto, nei cassetti della cucina, tra le canottiere nella stanza del Flora, nei racconti di Teti, nei referti del San Camillo ed in quelli dei ragazzini. Tra le ore che senza requie scorrevano in quella notte di giugno. Lo cercano perché questa è una storia che ha l’odore del sangue. I periti si rigirano tra le mani i reperti dell’albergo, poi li guardano al microscopio, quindi si mettono alla macchina da scrivere: “Gli oggetti repertati: un coltello a scatto, uno da cucina, uno da sub ed uno da campeggio sono assolutamente inidonei a produrre depezzamento, in particolare a livello osseo”. Fanno anche un esperimento: solo una sega di ferro, di quelle con i denti piccoli, può ottenere lo stesso risultato. Ecco perché prima ve l'avevamo nominata. C’è una smorfia sulla faccia di Palmeri, il capo della Mobile: quel coltello a scatto, tipo da caccia, con la sua lama di 7 cm era il loro candidato ideale per inchiodare Teti. E invece no. Una sega, piuttosto: esattamente quella che non si trova. E qui c’è la seconda smorfia e la sigaretta spenta nel posacenere. Perché Teti ha lasciato duemila tracce, da perfetto dilettante dell’omicidio, ma di questa benedetta sega che farebbe quadrare tutto, beh, non c’è traccia. Né lui ha intenzione di dire qualcosa. Punto.
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E allora i poliziotti cercano. Nel negozio di coltelleria di Piazza Sulmona salta fuori un ragazzo, Angelo Muglieri, commesso di 19 anni, che si ricorda di aver venduto un coltello a scatto ad un giovane, con entrambe le mani fasciate. Era da 8 cm. Questo giovane, che poi riconoscerà sul giornale essere Teti, tornò il giorno dopo, chiedendo l’affilatura di un tagliacarte di 15-20 cm. Angelo gli rispose che non sarebbe mai venuto così bene come un coltello, ma l’altro insistette di farlo comunque: e presto. No, queste non sono coincidenze. Non possono esserlo. Sarà pure da deficiente pensare di depezzare un paio di persone con un tagliacarte, ma tant’è. Vincenzino Teti c’ha pensato. Che poi ci sia riuscito, beh, questa è tutta un’altra storia. E non è l’unica cosa “geniale” che ha fatto, in quell’appartamento. Perché il sangue non è qualcosa che sparisce così. Ronchetti e Marracino trovano tracce di quelle ferite, sulle mani di Teti, ancora il 28 settembre 1969: “Sul polpastrello del primo dito della mano sinistra si nota una perdita degli strati cutanei a forma di U, della larghezza di circa mezzo cm e della lunghezza di un cm e mezzo (…). In corrispondenza della prima falange, faccia volare del secondo dito della mano sinistra, al suo terzo medio, è presente un complesso lesivo in avanzato stato di riparazione, disposto in senso trasversale, lungo circa 2 cm e largo circa mezzo cm (…); sul polpastrello del primo dito della mano destra esiste un esito lesivo a forma di V con apertura mediale della lunghezza di circa 1,5 cm e della larghezza massima di circa 1 cm (…)”. Qui è stato applicato un punto di sutura. “In corrispondenza della piega tra la prima e la seconda falange del quinto dito della mano destra si apprezzano una cicatrice della lunghezza di circa 0.5 cm e dell’ampiezza di 0,3 cm (…)”. Il sangue segna davvero tutta la storia di via Cutilia.
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Capitolo 20
I testimoni parlano
Nell’estate del 1969 intere pagine di verbali di interrogatorio furono riempite a penna ed a macchina davanti ai funzionari della Squadra Mobile e al Giudice Istruttore. Alcuni testi aiutarono solo a definire il quadro, altri furono decisivi per ricostruire cosa accadde nell’interno 5. Sentiamo le loro voci. E, alla fine, è da questo coro che trarremo altri elementi utili a ricostruire la storia dell’interno 5. Silvana Benatti. Ha 34 anni ed abita al piano sotto i Lovaglio. Ha una bambina piccola, che spesso viene svegliata la notte dalle grida di quelli di sopra. La notte del 20 giugno ha sentito sia l’uomo che la donna gridare aiuto, cosa che peraltro era avvenuta anche altre volte, visto che litigavano spesso e se le davano pure. Poi grida maschili, il pianto di una donna. Sente i vetri rompersi, verso l’1.30; e nel silenzio della notte diventa un rumore infernale, una cascata di paura. Poi, silenzio. Ma, verso le 3, ecco che la lite riprende ed un uomo grida molte volte “non ce la faccio più!” C’è un tonfo, come di un armadio che precipita sul pavimento; la Benatti dice che proviene dalla camera da letto dei Lovaglio. A quel punto suo marito, Gesualdo Maturani, chiama la polizia, che arriva subito dopo. Ma, a quel punto, all’interno 5 regnava già il più assoluto silenzio. La Benatti, nei giorni successivi, vede spesso Teti entrare con circospezione nel palazzo: solo quando si accorgeva di essere visto da uno degli inquilini, allora suonava al citofono. Era sempre verso le 14: poi lo sentiva battere, in cucina. Cosa? Antonio Bigetti. Frequenta il Circolo di Piazza Imola e dice che Teti aveva sempre soldi con sé. Si diceva vendesse gomme
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e oggetti usati e stava quasi sempre al Circolo. Lovaglio, invece, veniva poco. Teti gli disse che sapeva guidare e che guidava; è a Bigetti che fa provare la Mini Morris, qualche domenica dopo il delitto. Anna Boccanera. Venne subito esclusa dalle indagini: davvero non sapeva nulla di quell’uomo che usciva la mattina e rientrava la sera e che era così taciturno pure con lei. Anzi: Anna capì rapidamente che era meglio dire tutto quello che sapeva, di quella storiaccia. E così fece, aiutando di fatto le indagini e mettendo nei guai il suo uomo che, dopo un’accusa del genere, considerò rapidamente come il suo ex uomo, per quanto ne fosse incinta. Di cosette ne raccontò parecchie. Ad esempio, raccontò alla Mobile che era stata lei, su incarico di Vincenzo, a ritirare in un negozio vicino il Flora l’orologio di Lovaglio. Come mai ce l’aveva Vincenzo? È sempre lei che ritroverà, il 28 agosto, dei calzini di Teti tra la sua biancheria. Li aveva visti dentro delle scarpe di Teti, sotto l’armadio, prima dell’arresto. Ricorda l’episodio: voleva lavarglieli, ma lui si era rifiutato di lasciarglielo fare. Anzi: diceva di volerli buttare. Incuriosita, perché in fondo quei calzini erano nuovi, Anna li aveva presi a insaputa di Vincenzo e s’era accorta che erano macchiati di sangue. Lui le aveva detto che era sangue delle sue mani. Lei li aveva lavati allora in varichina, senza riuscire a risolvere molto il problema delle macchie. E da lì aveva dimenticato i calzini in mezzo alle sue cose. “Dichiaro inoltre – sono le sue parole, nella deposizione del 28 agosto, di fronte alla Squadra Mobile – che il 19 o 20 del mese di luglio scorso il Teti nel rientrare in albergo nelle prime ore della notte mi fece visita nella mia camera contrassegnata col numero 10. Nell’occasione notai che lo stesso aveva le scarpe ed i calzini sporchi di terra fangosa, già asciutta, anche all’interno. Chiesi al Teti dov’era stato per essersi sporcato le scarpe a quel modo, ma non mi rispose. Mi disse solamente che era stato con un amico. Io non ho insistito, conoscendo il carattere dello stesso, alquanto irascibile”. Come fai ad esser certa che fosse proprio il 19 o 20 luglio? Le chiedono. Facile risponde lei, era la notte prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna: una data che non si dimentica.
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Come non possiamo dimenticare nemmeno che è proprio il 21 luglio che vengono ritrovati i corpi. Teti ha dunque portato i sacchi sull’argine del Tevere solo 24-48 ore prima? Possibile, anzi forse lo ha fatto apposta a scegliere proprio la notte della luna, sapendo che la maggior parte delle persone non sarebbe stata in giro, ma incollata al televisore e pensando di avere quindi decisamente meno possibilità di esser visto? Gli occhi di Anna Boccanera, comunque, guardano diverse scene di questo dramma. È con Teti e i suoi amici, nella solita trattoria di Vicolo del Cinque, quando esce il discorso del ritrovamento della testa: ma Vincenzino non reagisce in alcun modo, si limita a dire che dovevano esser stati gli zingari. Ad Anna piace leggere le notizie di nera e dopo il tramonto compra sempre “Momento Sera”. Così, in trattoria, nota in prima pagina proprio la notizia del ritrovamento dei corpi: “Il Teti in quella occasione mi levò il giornale e lo mise su una sedia”. Poi si mise a ridere della notizia, col suo amico Renè. Un’altra volta Vincenzino le disse che, se la testa l’avesse ritrovata lui, sarebbe morto di paura. E racconta una cosa strana: “Ricordo che una volta, prima del rinvenimento dei resti ma dopo il 7 luglio, il Renè chiese al Teti se aveva provveduto per i bambini. Io chiesi spiegazioni e mi risposero che parlavano dei figli di certi loro amici”. Una frase sospetta. Tuttavia, nonostante tutto questo, Anna, che vede Vincenzino da vicinissimo, lo dice chiaro: “Nel luglio era diventato sempre più strano, gli chiesi anche se si drogasse”. Flavia Chiarantini. È la madre della Poidomani. Madre e figlia si vedono poco, diciamolo subito. Assai poco. La madre ignora l’indirizzo della figlia, sa solo che ha traslocato. Dice che Graziano l’ha minacciata e insultata perché lei si rifiuta di ricevere in casa la posta di lui, che poi sono cambiali e contravvenzioni. E’ un altro tassello della vita di Graziano che rimettiamo a posto. Gabriella Carinci. È la commessa della cartoleria Del Marro. Racconta che, a fine giugno, Teti è andato da loro voleva dello scotch nero molto forte. Aggiunge un altro particolare, che si somma ai precedenti: vede che Teti, in negozio, non è in grado di usare le mani, ancora molto fasciate. È l’ulteriore
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conferma che, nei giorni successivi al delitto, la sua capacità di usarle era zero. Ma, se le cose stanno così, come ha fatto a depezzare e portar via i cadaveri? Renato Carnemolla. Amico di Teti, è il Renè cui si riferisce la Boccanera: d’altronde, gli amici lo chiamano così. Nato a Tunisi, ha 41 anni. Di Vincenzo dice che era contento che si sposasse, così sarebbe diventato meno schivo e solitario. Definisce Lovaglio “un temperamento rissoso”. Ha un negozio di biliardini proprio accanto al Circolo: Vincenzo praticamente fa la spola tra l’uno e l’altro. Gli chiedono della frase detta dalla Boccanera, ma lui nega: nessun conoscente comune – suo e di Teti – ha figli. La Boccanera, suggerisce, deve essersi sbagliata. Ricorda però che un giorno, non sa quale, al ristorante, dovettero tagliargli la carne nel piatto, a Vincenzo, perché non era in grado di farlo da solo. Che la Squadra Mobile qualche sospetto su di lui debba averlo avuto viene impercettibilmente fuori da un’affermazione con cui Renè chiude il suo verbale di interrogatorio: quella in cui dice di non saper guidare, ma di possedere un’auto Zagato che era della società che aveva prima, un laboratorio elettro-meccanico. Chiara risposta ad una domanda del funzionario che lo interroga… Giuseppe Caruso. È il gestore del Circolo Enal. Ricorda bene che la sera di un sabato dovette aiutare Teti a bere un tè freddo: non era capace di farlo da solo. E fin qui… Ma poi aggiunge delle cose interessanti, molto interessanti su Graziano, invece. Perché la strage di via Cutilia è così: di Teti continuiamo a sapere davvero poco e dei Lovaglio, invece, vengono fuori particolari su particolari, teste dopo teste. Insomma, Caruso dice che Graziano prima veniva al Circolo, però quando s’era dovuto fare il tesserino aveva dato generalità false, (aridaje), così lui se n’era accorto e lo aveva cacciato. A Caruso quella storia del nome falso proprio non era piaciuta. Ecco perché aveva detto a Lovaglio di non farsi più vedere. Da quel momento Graziano era tornato saltuariamente e sempre trattenendosi poco, fino all’episodio della rissa, avvenuto proprio mentre Caruso non c’era. Tornato, il gestore l’aveva preso in castagna a pulire per terra (vi ricordate? Bottiglia rotta), aveva scoperto il casino e l’aveva cacciato
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di nuovo. Da lì in poi non era più venuto per sei mesi, poi di nuovo saltuariamente. “Non mi risulta fossero amici. Teti veniva sempre da solo e quando si vedevano si salutavano appena”. E aggiunge che le bombole con cui Teti si presenta in via Cutilia la sera della strage gliele ha prestate Ugo Scollato. Eleonora Casagrande. È quella che abita di fianco ai Lovaglio, nello stesso palazzo. Successivamente al 23 giugno sente dei passi di una persona sola nell’appartamento, nelle ore notturne. Poi, di mobili aperti. Carmela Civita. 57 anni, è la madre di Graziano ed è un altro fenomeno. Il figlio Luigi lavora come manovale ma lei non sa dove, la figlia Anna come portantina, ma non sa dove. Non conosce gli indirizzi di Graziano negli ultimi anni. Quando la polizia si reca le prime volte da lei a chiedere notizie di Teti, Carmela Civita nega di conoscerlo, per non mettere eventualmente nei guai il figlio. E ci vorrà del tempo per farglielo ammettere… e che racconta, a questo punto? Che, quando Teti si presentò a sorpresa la mattina del 21 a portarle i bambini, aveva le mani fasciate ma perdeva molto sangue, così sua figlia gli rifece le fasciature. Ma qui viene il bello. La Civita, infatti, se ne esce candida e dice di aver interrogato, subito dopo che Teti era andato, il nipote Luigino. E che da lui s’era sentita raccontare cos’era accaduto quella notte... anzi, il bambino le aveva detto che, quando poi era andato in bagno, aveva visto il sangue. E cosa fa, a questo punto, la nonna? Niente. Evidentemente deve essergli sembrato un racconto fantastico, inventato. Il racconto della fantasia d'un bambino. Carmela Civita non vuole nemmeno pensarci, che possa essere successo qualcosa. Fin qui può starci. Ma cosa pensare del suo comportamento, col passare dei giorni? Cosa pensare, di fronte alla sparizione del figlio e della nuora? Cosa fa la Civita? Beh, ancora niente. Ma veramente niente. E qui il discorso è diverso ed il giudizio morale anche. Daniela Consorti. È una delle commesse che lavorano da Del Marro, la cartoleria. Ricorda che Teti – lo riconosce in foto – andò da loro due volte in tre giorni e poi ancora, a distanza di 4-5 giorni. Se ne ricorda bene, di lui, perché dovette aiutarlo a mettere sul braccio il pacco con lo scotch, i sacchi di nylon e lo
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spago che aveva acquistato da loro, mentre la sua collega Patrizia Bitti dovette addirittura prendergli i soldi dal portafoglio per farlo pagare. I sacchi? Certo, ricorda che modello fossero: grandi, 125x65. Anche la terza volta che vide Teti notò le mani fasciate. Vittorio Crescitelli. È il titolare dell’agenzia di compravendita che trova ai Lovaglio l’appartamento di via Palasciano, a Portuense. Agli investigatori dice che Graziano si presentò esibendo una carta d’identità a nome Conti. È sempre Crescitelli che gli trova anche la casa precedente, quella di via Monteverde 61. E ricorda che il signor Conti voleva un appartamento con più uscite: e quindi sospettò che fosse un ricercato. Claudio Curci. Sta traslocando in via Cutilia e si trova lì col padre a portare una credenza quando, alle 20 del 25 giugno, vide un uomo portare un pacco o sacco voluminoso, che scende dalle scale. Non ne nota le mani. E non è in grado di dire se fosse Teti. Paolo De Pilla. Amico di Graziano. Gli cede, nell’aprilemaggio 1969, un negozio per la vendita di materiale elettrico – in via dei Platani – di cui aveva la licenza. Graziano inizia a gestirlo così, senza apparire, perché sa benissimo di avere una condanna da scontare (per guida senza patente) e teme sempre che arrivino a prenderlo. Poi però, poco dopo metà giugno, Graziano sparisce senza dirgli nulla e senza pagargli l’affitto del negozio. De Pilla saprà dai giornali il resto della storia. Roberto Ditta. E’ il titolare della tappezzeria di piazza Imola 3. Ricorda che Teti si è presentato da lui il 23 o 24 giugno per ritirare i sacchi e che aveva entrambe le mani fasciate tanto che anche qui si ripete la scena: è Ditta stesso che deve prendergli il portafoglio di tasca. Giuseppe Ferretti. È il titolare del Flora ed ha 60 anni. Ricorda che Teti disse a sua moglie che sarebbe andato a vivere con la Boccanera; e che questo avvenne circa un mese prima dell’arresto. La mattina dell’arresto Teti rientrò in albergo tardissimo, alle 4; e già aveva chiesto la sveglia alle 5, per cominciare da via Cutilia il trasloco dei mobili. Ma poco dopo arrivò la polizia, tanto che quando presero er calabrese era ancora vestito. Giusto per darvi un quadro della situazione, Ferretti
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conferma agli inquirenti che sua moglie, Pia, è attualmente detenuta per favoreggiamento della prostituzione. Succede, molto semplicemente, che buona parte delle clienti dell’albergo erano prostitute; e che si riportavano i clienti in albergo. Il Flora era anche questo. Servilio Gagliardi. Abita al 47 di via Cutilia, nel palazzo a fianco, alla stessa altezza dei Lovaglio; un muro lo divide dall’interno 5. Muro che confina proprio con la loro camera da letto e cucina. Sente le liti e l’uomo dire “basta, sono stanco di questa vita, tutti ci guardano, voglio cambiare vita”. La donna, ricorda, a volte parlava piano. Volavano piatti e bicchieri, spesso. E spesso si sentiva anche l’uomo piangere. Durante il litigio del 20 giugno, ricorda di aver sentito la donna dire “tanto ho la pistola e ti sparo”: fu subito prima dell’arrivo della polizia. Gagliardi, comunque, ricorda anche cosa gli disse un giorno sua moglie, Fausta Meneghini, che frequentemente vedeva i Lovaglio e Teti uscire ed entrare insieme dal portone: tanto che pensava vivessero tutti insieme. È un equivoco che durerà a lungo sui giornali, proprio per la sua suggestività: pensa, l’assassino viveva con le vittime! Peccato fosse solo un’impressione... Antonio Ghenzer. Conosceva e frequentava sia Lovaglio che Teti. Dice che Lovaglio commerciava in oggetti d’oro e biancheria che gli procurava Teti stesso. Potete immaginare come. Anna Lovaglio. È la sorella di Graziano, ha 35 anni. È lei a raccontare, minuto per minuto, come si svolge la serata del 20 giugno. Graziano va a prenderla, con sua madre e i bambini, in auto, con la Mini. Quando arrivano in via Cutilia non trovano Teresa, ma nessuno se ne meraviglia. A quel punto sono le 21.10. Dopo un po’ Graziano esce, senza troppe spiegazioni. Quindi, telefona (sono le 21.40) per dire che sta per tornare: ed eccolo, alle 22, presentarsi con un amico mai visto prima, Vincenzo. Un’ora dopo, sono le 23, consumata una cena molto semplice, tutti in cucina, ripartono con la Mini per riportare Anna e Carmela in via Dameta: tutti insieme, Vincenzo incluso. I bambini li lasciano a casa da soli. Lungo la strada, ricorda Anna, si fermano in un bar: offre Vincenzo.
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Lei e sua madre rivedono Vincenzo il giorno dopo, quando all’improvviso sbarca da un taxi davanti casa loro, con i bambini. Teti sostiene, con le due donne, che Graziano e la moglie sono dovuti improvvisamente partire e che ha ricevuto l’ordine di portarli dalla nonna. Aggiunge che non gli è stato detto quando sarebbero tornati. Poi, si era ripetuta la scena che ormai conoscete benissimo: lui con le mani fasciate alla buona (racconta anche a loro che s’è ferito cadendo dalla motocicletta, nella notte) da dei fazzoletti di Teresa, Teti che vuole che Anna prenda dal suo portafoglio 1.000 lire come regalo per l’onomastico di Luigi; lei che rifiuta. Anna, però, ricorda benissimo di aver parlato con Luigino, subito dopo che Vincenzo se n’era andato: quella partenza improvvisa dei fratello e di sua moglie le sembrava strana. Possibile? Possibile, visto che solo poche ore prima, a cena, non le aveva detto nulla? Luigino racconta subito, anche a lei, delle urla e aggiunge che ha visto del sangue uscire fuori da sotto la porta di una delle stanze. E Anna, allora, che fa? Leggiamo le parole precise. Queste: “Nonostante quanto io ho appreso sia da Vincenzo che da mio nipote Luigi, non mi sono preoccupata di andare in casa di mio fratello, perché sapevo che era solito litigare con la moglie e che tutti erano soliti trasferirsi all’improvviso. (…) Effettivamente era mio intendimento andare a cercare questo Vincenzo per avere notizie di mio fratello e di mia cognata, ma poi ho sempre rimandato perché avevo poco tempo disponibile”. Anche qui, che dire? Suo fratello sparisce in modo assai vago, il nipote dice che ha visto del sangue: e cosa fa, Anna? Non va a cercarlo, semplicemente perché ha altro da fare. La verità è che Luigino non viene creduto da nessuno; il suo racconto viene bollato come la fantasia di un bambino e tanti saluti. Nonostante abbia detto una parola precisa: sangue. Ma evidentemente quella del Lovaglio era una famiglia sulla carta. Senza parole, davvero. Il 1° settembre Anna, poi, aggiunge una cosa: che entrerà paro paro nella mitologia del delitto di via Cutilia. Dice che, secondo lei, Teti se la intendeva con Teresa. Ricorda che una volta, nella casa di Monteverde, Teresa aveva detto a Graziano:
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“È inutile che fai così, tanto ne ho uno meglio di te”. Graziano non aveva voluto spiegare ad Anna cosa volesse dire questa frase. Secondo Anna, la cognata si riferiva a Teti. Però era e resterà una sua impressione, che verrà amplificata a dismisura dalla stampa. Domenica Lovaglio. Altra sorella di Graziano, è la moglie di quel De Pilla da cui Graziano rileva il negozio di articoli elettrici. Qualche mese prima aveva rivisto il fratello dopo 4-5 anni che non si rivedevano. Era successo verso Pasqua e fu una visita di riappacificazione. Da lì avevano ripreso a frequentarsi (anche perché Graziano ne approfittava per mollare Franco alla sorella) e l’ultima volta si erano visti cinque giorni prima che Graziano morisse: il 15 giugno. In quella occasione Graziano se ne era uscito dicendo che un suo amico voleva sposarsi e così voleva comprare tutti i mobili di casa sua. È l'ulteriore conferma che la trattativa tra lui e Vincenzo sui mobili esisteva davvero, era in piedi. Teresa, che era presente, era caduta dal pero e gli aveva risposto, irata, che lei i suoi mobili non li avrebbe mai venduti. Ricorda Domenica che non era stata mica l’unica volta in cui avevano litigato davanti a lei: lui le rimproverava il modo in cui teneva casa, Teresa gli rispondeva che, se avesse insistito a scocciarla, sarebbe fuggita, “tu sai con chi”. È la seconda volta che questo personaggio misterioso entra in scena: chi è? Domenico Lovaglio. 33 anni, fratello di Graziano, è detenuto nel carcere di Fossombrone: i coniugi Lovaglio vanno a trovarlo il 12 o 13 maggio precedente, con Teresa, nel carcere di Fossombrone dove è detenuto. Ricorda che Graziano gli disse che aveva molta paura di qualcuno, ma proprio in quel momento, quando stava per dire qualcosa di più, Teresa gli aveva dato una gomitata e lui aveva cambiato discorso. E’ lo stessa persona cui si riferisce allusivamente la Poidomani in più occasioni? Giuseppina Lovaglio. Altra sorella. Con lei Graziano appare assai infelice, ripete la faccenda dei mobili che vuole vendere, si mette a piangere in più occasioni, dicendo però qualcosa in più: che era ricercato per una condanna a 6 anni di carcere, che voleva separarsi dalla moglie. Luigi Lovaglio. Fratello di Graziano, ha 33 anni. Anche lui abita in via Dameta, anche lui non sa in che clinica lavori la
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sorella. La testimonianza di Luigi è molto importante, perché quella notte, mentre tutto sta avvenendo, lui ha fatto una cosa fondamentale per l'inchiesta: è arrivato in via Cutilia, a sorpresa. All’1.30, quella notte, è in strada e per prima cosa trova la Mini parcheggiata male, in seconda fila, col portabagagli aperto, come se stesse per partire. Una cosa davvero strana. Quando suona, gli apre Vincenzo, solo che ha messo la catenella e si rifiuta di farlo passare. Dice che Graziano è uscito e non vuole entri nessuno. Luigi pensa che Vincenzo non abbia capito chi è, allora tira fuori la carta d’identità, come a dire: ahò, ma nun lo vedi? So er fratello! Macchè, niente da fare: Vincenzo non lo fa entrare. E così deve andarsene, bofonchiando parolacce. Anche Luigi si ricorda che Teti venne altre volte a vedere i bambini in via Dameta e che, quando si presentò la seconda volta, portò anche paste e cassate. Luigi è l’unico della famiglia veramente interessato a sapere che fine ha fatto Graziano (e sua moglie): tant’è vero che incontrerà Vincenzo Teti alla casina “Donati” a San Giovanni, ben due volte. È Luigi, qualche giorno prima di questi incontri, a dire alla madre che, se non avrà notizie del fratello da Teti, ne interesserà la Questura. Vincenzo gli racconta due storie diverse: la prima volta, che Graziano e Teresa sono dovuti partire per sistemare “un giro d’oro” (evidentemente rubato). La seconda che si trovano a Napoli perché tra marito e moglie c’è stata una lite la sera del 20 giugno, lei è rimasta sfigurata al viso da un colpo di bottiglia, e così ecco che ci vuole il chirurgo plastico. Ma niente paura, Graziano ha chiesto a lui di occuparsi di tutto. Luigi, incredibilmente, prende per buone le panzane dell’assassino. E così non indaga, non cerca. Si accontenta, forse non vuole pensare al peggio, chissà. Si ricorda che, la seconda volta che incontrò Teti, lui non aveva più le mani fasciate. Poi, una mattina, sul giornale, legge del braccio ritrovato nel fiume, legge del tatuaggio: è assalito da un senso di paura, non si capacita che sia successo davvero, non compra più il giornale. Rimuove quel senso di angoscia che però gli cresce dentro come un cancro nero. Fino a quando il giornale non è costretto a comprarlo di nuovo, combattuto com’è dal desiderio di sapere e il bisogno di non sapere. Negli uffici della Squadra
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Mobile metterà a verbale queste parole: “Non avendo più avuto notizie sia da Vincenzo che da mio fratello e Teresa oggi, nel pomeriggio, ho acquistato il quotidiano ‘Paese sera’, dal quale ho appreso anche che la donna rinvenuta cadavere sul Tevere aveva dei denti anteriori finti ed una fede, sapendo che Teresa portava sempre con sé la fede ed aveva una protesi dentaria quasi non ho avuto più dubbi che essa potesse identificarsi con la donna rinvenuta sulla sponda del Tevere ed ho incominciato a sospettare di Vincenzo. A questo punto devo precisare che io, circa 3 giorni fa, ho chiesto a mio nipote Luigi se avesse sentito dei rumori o strilla allorquando col padre e la madre abitava in via Cutilia. Mio nipote mi ha risposto che circa un mese fa, di notte, aveva sentito la madre gridare aiuto Vincenzo e dei grandi rumori. Aveva allora cercato di aprire la porta della cameretta da letto ed aveva notato che era chiusa a chiave. Mi ha riferito anche di aver visto delle macchie di sangue in casa”. Luigi Lovaglio è dunque il terzo adulto che ascolta la verità da Luigino: ma è il primo a credergli. A farsi venire un dubbio freddo. È allora che va in Questura e chiede di vedere gli oggetti delle vittime. Li riconosce. Ricorda anche una cosa importante: che il fratello aveva, in via Palasciano, una sega ad arco. Che adesso non si trova più, ricordate? Natalia Lovaglio. È un’altra sorella di Graziano, ha 30 anni. Natalia serve a pochissimo, in questa inchiesta. Non vede il fratello da quando si è sposata, cioè dal 1959-60, perché suo marito non ha voluto avere rapporti con la famiglia di lei. Crede addirittura che sia Franco che Luigi siano figli di Graziano! Ovviamente, non sa che indirizzo abbia il fratello e nemmeno il lavoro di Teresa. Ma non ci stupisce più. Giancarlo Marinelli. Dipendente di Ditta, dice che i sacchi furono ordinati il 21 giugno. Ricorda che Teti si presentò a ordinare di sabato, che li voleva subito, per lunedì; che non fu possibile e che quando lo seppe, il lunedì appunto, si seccò molto: insistette e glieli fecero per martedì, cioè il 24 giugno. Gesualdo Maturani. 34 anni, abita al piano sottostante l’interno 5, che poi è pianoterra. È il marito della Benatti. È lui, dipendente della Sai, a chiamare la polizia la notte del delitto. Arriva infatti un casino infernale di urla, una cosa insostenibile,
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che rende impossibile dormire. Un bordello ancora peggiore di quello delle altre volte. E la polizia arriva. La Volante si ferma e trova lui e la moglie alla finestra; indicano agli agenti dove andare. Ma all’arrivo della Polizia, improvvisamente, il trambusto finisce. Così, la polizia non sente più nulla e se ne va51. E il signor Gesualdo va finalmente a dormire, senza sapere cosa è successo sulla sua testa. Vedremo dopo in che punto della sequenza omicidiaria si colloca l'arrivo della volante. Nei giorni successivi, però, sia lui che la moglie sentono dei forti battiti provenire dalla cucina dei Lovaglio, soprattutto tra le 14 e le 15. Il lunedì i colpi diventano talmente forti da indurre il signor Gesualdo a uscire per strada e fischiare alla pecorara per farli smettere. E infatti finiscono. Nei giorni seguenti li sente ancora, ma meno forti. E, nelle ore notturne, sulla sua testa, i passi di una sola persona. Italia Pancalli. Figlia della titolare dell’autoscuola Pancalli, in via Tuscolana 358. Ci serve per capire se Teti sapeva guidare o no. Il 4 maggio 1966, ricorda, si era presento per prendere la patente. Lo bocciano per 5 volte agli esami di teoria. Solo una volta era riuscito a superarli, ma non aveva comunque passato la pratica. Risultato: tre anni dopo, nel 1969, è ancora lì che deve prendere la patente. “Un ottimo ragazzo, sempre molto educato. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel pomeriggio del 28-29 giugno quando è venuto a ritirare il foglio rosa. Ricordo che in quell’occasione aveva dei graffi evidenti al viso. Lo avevo già visto con i graffi il 25, quando era venuto per la visita di idoneità fisica per il patentino. Sono sicura che era in grado di guidare un’auto, anche perché una volta ebbe a dirmi: io la macchina la so guidare, è la teoria che mi spaventa!” Famiglia Poidomani. La loro famiglia si compone di otto sorelle e un fratello. Giovanna, sorella di Teresa, la vedeva raramente, ma qualche volta ricorda di averla vista di sera in viale Giulio Cesare, in Piazza S. Pietro, all’Eur. Non dobbiamo spie51 Secondo Teti, Graziano all’arrivo della Polizia aveva spento tutte le luci della casa e risposto, da dietro la porta, “No, niente, grazie” alla loro domanda “Avete telefonato?” È una versione falsa: fu Maturani a indicare alla Volante dove suonare, per cui non aveva senso chiedere a Graziano se avesse telefonato lui.
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garvi cosa stesse facendo, ovviamente. La sorella Agnese dice che suo marito non voleva che avesse a che fare con Teresa, che era sempre stata molto libera e indipendente. La vedeva raramente. La sorella Emanuela dice che non sa dove abiti e che non vede Graziano da 2 anni. Giuseppina non vede Teresa da 4 anni, da quando i Lovaglio abitavano nella stessa via Nerli dove stava anche lei. Maria, infine, non la vede da 6 anni e gliene importa talmente poco della sorella che non intende nemmeno costituirsi parte civile. Ugo Scollato. Amico di Teti, gli presta le bombole da sub e l’erogatore. Vanno insieme a prenderle a Lavinio, dove Scollato le tiene. A Teti chiede a cosa gli servono, ma l’altro risponde che non può dirglielo e Scollato, incredibilmente, non insiste. Che questa non sia che una balla, emerge anche da altri particolari. Ad esempio, il fatto che Scollato sapeva bene che Teti non praticava attività subacquee. Vero, qualche anno prima era andato in Sardegna con gli amici e si era immerso, ma riconoscendo lui stesso (e gli amici) che non aveva maturato sufficiente esperienza per farlo bene. Inoltre – e questo colpisce – Teti non sapeva nuotare in superficie. A Teti dice: riportamele per il 21, perché ci devo fare immersione. Ma la mattina di sabato – il 21 giugno, appunto – Teti non gliele ha ancora ridate e così lui va a cercarlo. Lo trova: e nota che ha le mani fasciate. Le bombole gli verranno poi riportate al Circolo. Scollato nota una cosa che ci serve tantissimo: che scariche gliele ha date (pesavano una ventina di chili) e scariche gli vengono restituite. Quindi, non le ha usate, alla fine. Aggiunge anche qualcosa su Lovaglio: che aveva un temperamento violento e si vantava di essere stato dichiarato incapace di intendere e volere. E di Teti ricorda che diceva di vivere di furti. Pia Straforini. 63 anni, moglie di Ferretti. Sfoglia i registri e dice: Teti è arrivato al Flora il 4 aprile 1969. Le disse di lavorare nel cinema come acrobata. Ricorda questo: che una notte tra giugno e luglio (non sa dire quando) non tornò a dormire, ma arrivò direttamente alle 7 di mattina e con le mani fasciate (dovevano essere per forza le 7 del 22 giugno, N.d.A.). Claudio Trasciani. È l’amico da cui Teti si fa accompagnare in Ospedale, al San Camillo, per le ferite alle mani. Ma
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a noi interessa perché ricorda un episodio in cui ha avuto a che fare con Graziano. Una volta, mentre è lì con i suoi amici, gli si avvicina Lovaglio e gli chiede se, con la sua nuova 500 grigio topo, poteva fare delle corse con loro, che erano appassionati. Loro rifiutano. “Si adombrò, mi diede un colpo con la mano e poi diede in escandescenze, strappandosi una catenina e gettandola a terra”. Marisa Valentini. È la moglie di Claudio Curci ed assiste anche lei alla scena della credenza, in via Cutilia. Si trovava vicino l’ascensore al piano terra e dice che incrociarono l’uomo col sacco verso le 19.30-20 del 25 giugno. Non sa dire, però, se fosse Teti. E ora, vediamo cosa abbiamo scoperto dalle testimonianze. • Graziano non regge più lo stress della vita che conduce: ha una condanna da scontare, multe e cambiali che gli arrivano. Usa nomi falsi, cambia casa di continuo, le cerca con doppi ingressi. È rissoso, irascibile e violento, con improvvisi scatti d’ira. Vorrebbe una vita normale, vorrebbe gestire quel negozio di articoli elettrici. Grida spesso “Basta, sono stanco di questa vita, tutti ci guardano, voglio cambiare vita!” Lovaglio non è quello che sembra: il mite, l’inetto, al di là di come fu disegnato sui giornali. Tanto è vero che al Circolo si meravigliarono che Teti avesse ucciso Lovaglio: e non il contrario. • I rapporti tra Graziano e Vincenzo sono d’affari (sporchi). Quelli, eventuali, tra Teresa a Vincenzo non li sappiamo. • Teresa ha conquistato un piccolo benessere: denaro, auto, mobili. È lei che porta i soldi a casa. Non vuole rinunciarci. Cinque giorni prima di morire, scopre che Teti vuole comprare i suoi mobili, quelli di casa sua. E trasferirsi lì. Non vuole saperne. Teresa fa pesare più volte a Graziano di avere un altro uomo. Per Anna Lovaglio, quell’uomo è Vincenzino er calabrese. • I rapporti tra Graziano e Teresa sono alla frutta. Lui vorrebbe separarsi ma non ne ha la forza, lei non lo sopporta e dice che è un pazzo. L’energia compressa esplode in
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quelle liti notturne che avvengono quando Teresa torna: cioè quando ha i soldi nella borsetta. I soldi sono il detonatore. Vincenzo fa il ladro: ma vuole sistemarsi con Anna Boccanera, dalla quale aspetta un figlio. Basta alberghi, basta con tutto: metto su casa, come tutti. Graziano, la sera del 20 giugno, invita madre e sorella a fermarsi a dormire, vero, ma sembra più un invito di cortesia che altro. Non tollera nemmeno che ci siano i figli a casa, Graziano, quella notte: figurarsi i parenti della moglie. La notte del delitto, Graziano e Teresa gridano aiuto come già in altre liti. Dei vetri vanno in frantumi (è la finestra del soggiorno), qualcosa di pesante precipita al suolo: non era la prima volta che i due si tiravano qualcosa, ma rumori così violenti era la prima volta che venivano sentiti. Assumiamo che sia morto prima lui e poi lei (testimonianza di Luigino Lovaglio). Poco dopo, intorno all’1.30, arriva in via Cutilia Luigi Lovaglio: Teti gli impedisce di entrare, segno che verosimilmente uno dei due delitti è già avvenuto. Graziano, a quel punto, è già in un lago di sangue. Le condizioni del suo cadavere indicano una lotta per la vita, rumorosa e violenta. Nell’interno 5 scende il silenzio della paura. Teresa è lì accanto, atterrita. Verso le 3 la lite riprende, ancora tra un uomo ed una donna. Ma stavolta, probabilmente, sono Vincenzo e Teresa. Così, alle 3.30, arriva una Volante, chiamata dai coniugi Maturani del piano di sotto: qualcuno, da dietro la porta, quasi certamente Teti, rassicura gli agenti che è tutto a posto. Loro non insistono, non entrano. Se l’avessero fatto, questa storia racconterebbe forse un delitto in meno. Sta di fatto che, in casa Conti, da quel momento regna il silenzio assoluto.Teresa Poidomani ha pochi minuti di vita. O forse non ne ha più. Teti sapeva di dover restituire le bombole entro sabato 21. Se gli occorrevano per disfarsi dei corpi nel Tevere, sapeva anche di dover commettere il delitto entro il 20. Nel periodo fino a perlomeno il 23–24 giugno, Teti non è
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in grado di usare le mani per fare nulla(testi della cartolibreria e della tappezzeria). Nei giorni successivi dell'assassinio, Teti torna sul luogo del delitto in vari orari. Verso le 14 e anche di notte. Sposta, fruga, rovista, batte. Utilizza, forse, anche la sega che Graziano possiede (e che non verrà ritrovata). Teti ha dei calzini sporchi, presumibilmente, di sangue. Presumibilmente, perché non furono analizzati. Teti ordina i sacchi il 21 giugno, il giorno dopo il delitto. Teti non ha la patente, ma sa guidare. Teti rientra, proprio 24 o 48 ore prima del ritrovamento dei sacchi nel canneto, al Flora con “le scarpe ed i calzini sporchi di terra fangosa, già asciutta, anche all’interno”.
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Capitolo 21
Vincenzino scrive
Le prime settimane di Teti in carcere non sono state delle migliori: ha anche provato ad impiccarsi con una striscia di stoffa ricavata da un asciugamani. È il 7 agosto 1969. Sotto il materasso, le guardie trovano questa lettera: “Roma 2 agosto 1969 Non sono eccitato né fuori di senno. Sto scrivendo ciò che segue al fine che sappiate la verità. Vi prego di non paragonarmi al Cimino che non parlò neanche in punto di morte. È mio fermo volere farvi sapere la verità. Stavo per scrivere un memoriale al giudice in codesto memoriale (dietro suggerimento della Polizia) voleva addossarmi un solo omicidio, cioè quello di Grazziano, volevo scrivere di aver ucciso Grazziano per difesa personale. Date le prove i fatti avvenuti mi sentivo perso. Il suggerimento della polizzia (e ha me parso logico) era questo. Dovevo dire che Grazziano ha ucciso Teresa e che dopo si hè scagliato contro di me ed io per difendermi l’ho ucciso e che poi preso dalla paura ho comprato i sacchi li ho insaccati dopo averli segati, e di aver gettato al tevere le quattro gambe le braccia e la testa e di aver gettato sempre nel canneto del tevere i tronconi dei morti. Date le prove che ci sono ha mio carico sarebbe conveniente accettare questa tesi. Così l’omicidio di Grazziano non l’ho pagherei percche ucciso legittima difesa e pagherei solo il villipendio ed’occultamento di cadaveri e letto il codice che mi mostrò la polizzia per tali reati me la sarei cavata con un massimo della pena non superiore ai sei anni. Ripeto, come stanno le cose sarebbe molto ma molto conveniente accettare e dire questa tesi. Ma vi giuro che non ho ucciso nessuno. Gambe braccia testa non li ho mai gettati al tevere e così l’aver deposto i corpi nel canneto. Non
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ho mai segato nessuno e se voi non mi credete, in queste condizioni non ci posso fare nulla. Perciò meglio la morte. Tutti siete convinti della mia colpevolezza e per prima la polizzia (forse in buona fede o forse per comodo). Dite alla polizzia di trovare gli assassini o l’assassinio. Fatelo per quel figlio che sta per nascermi, percchè se non li trovate sarebbe meglio che non vedesse mai la luce del giorno. Mi avete fatto passare oltre che per un mostro, anche per un rapinatore, uno sfruttatore, ma io non ho mai ucciso nessuno non ho mai rapinato nessuno dalle donne non ho mai accettato neanche un caffè. Mi avete incolpato di cose orribili. Spero non vi capiti lo stesso. Per questo ho deciso di impiccarmi. Spero solo non mi manchi il coraggio all’ultimo momento. Aspettare un infame processo un buggiardo processo, seccregato in questa stretta afosa cella, antigienica ed adatta solo per bestie. (...)” “Trattasi di soggetto taciturno e refrattario ad ogni intervento”, scrive il maresciallo delle guardie carcerarie, nel suo rapporto, dopo il tentato suicidio. Difficile dargli torto. Nella stessa perquisizione trovano anche un’altra lettera, datata 1 agosto 1969, indirizzata al giudice Ugo Berni Canani: “(...) Conobbi il Lovaglio circa quattro anni fa, non posso dire il giorno esatto né la circostanza di questa nostra conoscenza, ma credo, se non erro, di avermelo presentato un certo Giulietto dentro al Circolo ENAL o nei pressi di San Giovanni. Tengo ha precisare che tale conoscenza dopo dieci incontri già non mi garbava più, ma dato che il mio era un periodo in cui non potevo scegliere gli amici di mio grado, accettai la sua compagnia ed andammo a cenare tutti assieme. Da quella sera, se ben ricordo, per circa una quindicina di giorni, ci vedemmo tutte le sere. Con il Lovaglio dopo detto periodo stabilimmo un rapporto di lavoro che durarono con periodi alternati fino al giorno 20 giugno scorso. La di lui moglie la conobbi circa due anni dopo aver fatto la conoscenza del Lovaglio. Voglio aggiungere che al contrario del Lovaglio non ho mai capito perfettamente il carattere della Poidomani in quanto non ci ho mai parlato più di un quarto d’ora per volta, all’infuori di una occasione insieme (...)”.
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Da qui in poi la grafia dell’assassino cambia radicalmente... è disordinata, più grande, sembra più emotiva e sconnessa. Una mutazione incredibile. “Io non ho mai ucciso nessuno e chiunque mi crede colpevole che andasse ha quel paese e gli auguro di capitargli di peggio che ha me. Ragionando con il cranio vostro potrei anche sembrare colpevole ma è da imbecilli ed io non lo sono mai stato fino a questo punto. Cercate chi ha approfittato di quella sera, cercate chi mi ha manovrato in seguito. E fatemi uscire da questa gabbia per matti, che i matti siete voi tutti che mi credete colpevole, siete dei miserabili disgraziati. Voglio uscire. Il fesso Teti Vincenzo”. Sì, Vincenzo Teti ci prova a difendere l’indifendibile. Ci prova a dire che non c’entra niente. Ammette qualcosa, nega il resto. Sotto il materasso c’è anche altro: si tratta di un memoriale, quello che contiene la sua difesa. Quel memoriale finisce con “trovate gli assassini. Ringrazio i pochi che credono nella mia innocenza e gli altri vadano pure al diavolo. Non ho ucciso. Non ho rapinato nessuno. Non ho sfruttato nessuno. Non ho fatto a pezzi nessuno. Teti Vincenzo”. Ma Teti non scrive soltanto. Riceve, anche. “Napoli, 12.8.1969. Mostro infame chi ti scrive sono il fratello di il fu Graziano e dato che io ho i giorni contati per la mia infame malattia farò del tutto per incontrarmi con te perché io mi ti voglio succhiare il sangue goccia a goccia fino che tu sei crepato e ti dico questo perché non riesco aver pace carogna assassino. (…) Io con tutto che sono un delinquente incallito pregherò i signori magistrati di non avere pietà per un Mostro Assassino della tua specie. Mio fratello Graziano quando mi venne a trovare nelle carceri di Fossombrone mi è parso molto preoccupato e mi disse che aveva una gran paura (…)”. Il 21 novembre 1969 da Regina Coeli la direzione carceraria scrive al giudice: è sicuro, gli amici di Lovaglio vogliono farla pagare a Teti. Un coltello viene sequestrato nel carcere. Meglio trasferirlo. Teti intanto si isola, non esce per l’ora d’aria, è nervoso. Ha paura. Scrive al Ministro di Grazzia e Giustizzia. Nega tutto, an-
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che che lo chiamassero Vincenzino er calabrese e di aver mai fatto parte della malavita. Lo periziano: sano come un pesce. “È – scrivono i periti – la classica persona che fa la morale agli altri quanto poi è liberaleggiante verso se stesso. Conosce benissimo l’etica della malavita e l’ha interiorizzata per autogiustificarsi. Si esprime con appropriatezza, seppure con grossolani errori in congiuntivi e condizionali, anche perché legge soltanto gialli. La cultura generale è buona”. Sì, l’assassino di via Cutilia non ha nemmeno mezza rotella fuori posto. Nemmeno mezza. Non è un pazzo, un cavernicolo o un miserabile. È uno che ha avuto un’infanzia complicata e triste, ma come diecimila altri ragazzi. Anzi, è uno che ha lottato per emergere: prima di arrendersi e andare a rubare. Uno che forse aveva anche trovato la donna giusta. Insomma, uno che meno di chiunque altro poteva avere un motivo per fare a pezzi un paio di cristiani. Almeno sulla carta.
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Capitolo 22
Il processo
Il processo per il duplice omicidio di Vincenzo Teti si apre alle Assise di Roma, in un’altra estate, quella del 1972, una delle estati più insolitamente fresche di sempre. Lui è già diventato il “Mostro del Tevere”, intanto. In aula si presenta asciutto, con le guance un po’ scavate e con un ordinato completo color chiaro. È il giugno del 1972. Sarà un processo molto seguito. A guardarlo bene, Teti sembra smagrito, ha le guance un po’ scavate, ha perso molti capelli, la tensione se l’è mangiato. Ha una giacca verdina a righe e se ne sta con una mano sulla bocca, appoggiato alla panca, come se fosse troppo quello cui deve assistere. La Boccanera è piccoletta ed ha le gambe piene. Quando si siede per deporre non le va di dire che lavoro fa. Allora si limita a girarci intorno: “Lavoro di notte”. È bruna, occhi scuri. Abita adesso alla pensione Marzia, in via Magenta. È una che reagisce: ecco perché la chiamano “la matta”. Una volta ha fatto una piazzata in una redazione, un’altra ha tirato la borsetta in faccia (e ha fatto bene) ad un cronista che le ha chiesto: “Anna, è vero che al tuo fidanzato piace lo spezzatino?” Anche adesso riempie di insulti i giornalisti. “Conobbi il Teti all’albergo Flora – racconta – dove io alloggiavo da qualche tempo. Tra me e il Teti ci fu subito una certa simpatia e ci furono dei convegni intimi che normalmente avvenivano nella mia camera al secondo piano, mentre lui stava all’ultimo piano. Non disse che praticava la pesca subacquea. Dopo circa tre mesi ci fidanzammo. Nel mese di giugno, dopo due o tre mesi di fidanzamento, essendomi io stancata di quella posizione e volendo la mia libertà, me ne scappai e andai ad abitare con un’amica. Lo rividi il 7 luglio, a seguito di
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varie telefonate fattemi dal Teti allo scopo di riavvicinarsi. Il Teti manifestò il desiderio che io non uscissi più la sera per il mio lavoro. Dopo il 7 luglio ebbi in regalo una borsetta usata. Non chiesi di questo oggetto quale fosse la provenienza. (…) Il Teti mi diceva che viveva aggiustando biliardini. Tra me e Teti c’era una forte simpatia, ma mai un forte innamoramento. Nego di avere dato denaro al Teti. Dal 7 luglio fino al suo arresto, siamo stati sempre insieme. Dopo il 7 luglio io non uscivo mai dall’albergo la sera. Quando vidi Teti con le mani fasciate e gli feci notare che non potevo credere che si era fatto male con la moto, mi disse che si era ferito durante una lite fra due coniugi, uno dei quali aveva una bottiglia rotta in mano”. È poi la volta di Carmela Civita, la nonna di Luigino. “Luigi, il giorno del suo rientro a casa, giustificò il suo ritorno dicendo che, durante la notte, mamma e papà avevano litigato; che Teti era pure in casa ed aveva dormito in salotto. Non disse altro. Del sangue notato nell’appartamento mi parlò quando venne la polizia”. Alla nonna, insomma, Luigino non raccontò nulla; come fece, al contrario, con Anna e Luigi, gli zii. Ma Carmela Civita mente, solo che nessuno glielo fa notare. Nei primi interrogatori, infatti, disse che Luigino del sangue gliene aveva parlato e subito. Ma ad un processo, si sa, bisogna salvare per prima cosa la faccia... Anna Lovaglio è lì, segue; lancia occhiate dense d’odio verso Teti e lo chiama “quel signore”. Mai per nome. Teti ascolta, immobile, mano al mento o braccia conserte; qualche volta però non riesce a stare seduto e resta in piedi. È un fascio di nervi. Domenica Lovaglio, l’altra sorella, getta luce sui rapporti tra i coniugi Lovaglio, che erano devastati. “Mio fratello tempo prima ebbe una crisi di nervi, diceva, senza fare il nome della moglie, che doveva fare lo sguattero, fare la spesa. In un’altra occasione disse che la moglie non gli dava una lira, che era stanco di quella vita e che voleva che la moglie smettesse. Mia cognata Teresa aveva un carattere piuttosto chiuso”. Attesissima è la deposizione di Luigino: avviene a porte chiuse. “Prima di essere interrogato dalla polizia – dice lui, che ora ha 14 anni – non parlai con nessuno di quanto era accaduto quella notte. Riferii solo, alla nonna, che avevo sentito
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litigare babbo e mamma. Anzi, riferii che Vincenzo mi aveva detto che babbo e mamma avevano litigato. Non le parlai del sangue”. È il sangue la vera ossessione di questa storia: perché Luigino sa benissimo di aver parlato del sangue sia con la nonna che con zia Anna. E lo sanno anche loro. Perché menta in udienza, Dio solo lo sa. Ma è una bugia. A questo punto il Presidente fa entrare Franco, il fratello, ma lui esce subito dal processo: dice di non sapere nulla. Tocca adesso ad un altro Luigi, il fratello di Graziano. Gli tocca spiegare quella sua visita notturna in via Cutilia. “Sono andato quella notte, verso l’una, in casa di mio fratello Graziano per vedere i bambini, Luigi e Franco. La circostanza non sembri strana perché conoscevo l’attività di mia cognata e il modo di pensare di mio fratello riguardo i bambini e quindi mi venne desiderio di vedere i bambini, tanto più che quel giorno non avevo potuto vederli a casa di mia madre dove normalmente andavo. Non pensai di avvertire mio fratello per telefono. In casa di mio fratello potevo entrare e uscire quando volevo, per i bambini. Pensavo di trovare il bambino più grande alzato, perche spesso gli capitava di stare alzato dopo mezzanotte. Il pianerottolo era illuminato ma il Teti si rifiutava di farmi entrare, data l’attività più o meno lecita di mio fratello supponevo non mi si volesse far entrare nell’appartamento. Teti l’avevo visto una volta sola. Mi disse: ho avuto l’ordine da Graziano di non far entrare nessuno. Successivamente mi telefonò e ci incontrammo alla Casina Donati, vicino al Cinema Massimo, a San Giovanni. Qui mi disse che Graziano e Teresa erano andati a Napoli perché durante una lite lui l’aveva sfregiata con una bottiglia; ed erano andati a Napoli per farle la plastica. Non gli chiesi in che ospedale o clinica fossero andati”. Ma adesso è il giorno della deposizione più attesa, quella di Vincenzo Teti. Tra il pubblico, il grande Vittorio De Sica: c’è sempre da imparare, per un attore. “Sono qui per curiosità”, risponde alle domande dei giornalisti, che già pensano debba fare un film sulla vicenda. Ma è il giorno di Teti. L'assassino del Tevere indossa un completo celestino, di gabardine, camicia bianca, niente cravatta, abbronzato. “Non sembra uno squartatore”, sussurra Dino Cimagalli
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del Messaggero. Quando il presidente Salemi lo invita a discolparsi, risponde: “Io sono completamente innocente. Ho bisogno di qualche giorno per riflettere. Se fosse possibile vorrei riordinare le idee e venire domani…” E Salemi: “Perché vuole mettersi in urto con me, che la tratto in guanti gialli e la chiamo signor imputato? Se vuole le do dieci minuti, mezz’ora o anche un’ora. Il processo però deve andare avanti”. E lui: “Sono assolutamente innocente, più di questo non saprei cosa dire!” Ma deve accomodarsi per forza su quella sedia di legno che gli scotta come ferro fuso. Ecco Vincenzo Teti può cominciare a deporre. “Ammetto di essere stato la sera del 20 giugno nella casa dei coniugi Lovaglio che conoscevo da tempo, ma in maniera particolare solo il Lovaglio. Mi ci ero portato verso le 20-21 per consegnargli una bombola da subacqueo, della quale mi aveva fatto richiesta. Nell’appartamento c’erano la madre e la sorella e i suoi due figli. Abbiamo mangiato e bevuto. Ad una certa ora andarono via.
Il cartellino segnaletico di Vincenzo Teti
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Io ed il Lovaglio le accompagnammo. Ritornati nell’appartamento sopraggiunse la moglie del Lovaglio, che non aveva mangiato con noi, la quale cominciò a litigare subito col marito. Il mio intendimento di ritornare nel mio albergo (Flora) venne frustrato dal litigio dei coniugi. Il motivo della lite, da quanto ho potuto capire e dedurre, era collegato alla sistemazione dei figlioli, i quali in quel periodo dormivano a casa dei parenti. La lite si accese ancora di più quando la moglie rimproverò al marito che, per colpa sua, dovevano lasciare l’appartamento. A questo riguardo aggiungo che avevo comprato tutto il mobilio dell’appartamento... io mi disinteressai della lite e mi portai in cucina. I coniugi si posero in camera da pranzo e continuarono a litigare in modo sempre più acceso e violento. La moglie diceva al marito: “Non dovevi fregare a quelli, tocca lasciare la casa per colpa tua”. Ad un certo punto sentii la donna che chiedeva il mio intervento, dicendo “Vincenzo aiutami”. Io sentii fra l’altro il rumore caratteristico di una bottiglia andare in frantumi, mi portai in camera da pranzo, la cui porta avevano lasciata socchiusa e avendo visto che il Graziano aveva in mano il tronco di una bottiglia ed era ancora in procinto di colpire la moglie che era a terra, lo afferrai dalla parte delle spalle, gli cinsi le spalle all’altezza del torace per immobilizzarlo. Il Graziano voleva continuare a colpire la moglie, ma ad un certo punto colto da crisi epilettica cadde per terra. Nel mentre, era riuscito a colpire con uno o due calci la moglie al basso ventre, facendola cadere per terra. Dopo pochi momenti, il Graziano si riprese e subito mi chiese scusa per l’accaduto, ossia per aver dovuto assistere ad una serata incresciosa. Io me ne tornai in cucina. Quando, dopo circa tre quarti d’ora, o dopo circa 10 minuti, il Lovaglio mi disse che accompagnava la moglie dal dottore, mi pregò di attenderli e che durante la sua assenza non doveva entrare nessuno. Aggiunse che al ritorno mi avrebbe accompagnato all’albergo. (...) È probabile che prima di uscire abbia telefonato al dottore. Dopo un po’ sentii bussare alla porta. Aprendo notai che era il fratello di Graziano, Luigi, che io conoscevo. Questi mi
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chiese di Graziano ed io lo informai che non c’erano né Graziano né la moglie, ma non gli dissi dove erano andati, gli dissi che se intendeva aspettare poteva farlo giù per le scale o fuori dal portone. (...) Temevo che da un eventuale incontro del Graziano col Luigi sarebbe scoppiata una lite, dati i cattivi rapporti tra i due. (...) Dopo circa un’ora dall’allontanamento del Luigi Lovaglio ritornarono marito e moglie. Io non chiesi loro, né loro mi dissero, se erano stati dal medico (...). Sta di fatto che i due cominciarono a litigare in modo violento e si portarono in camera da letto. Io mi ero già portato in cucina e sentii delle grida. Udii ancora le parole pronunciate dalla moglie ‘Vincenzo, Vincenzo, aiuto!’ Udii anche questa volta altre grida e parolacce per cui ritenni opportuno intervenire. Entrando notai che la donna aveva entrambe le mani intrise di sangue e appoggiate al viso (…). Mi avventai verso Graziano e questa volta invece di prenderlo per le spalle lo presi per il corpo e nel fare ciò mi ferii entrambe le mani perché durante la relativa colluttazione io con entrambe le mani afferrai la bottiglia. Questa volta il Lovaglio ebbe una crisi epilettica, gridava ‘Lasciami, lasciami! L’ammazzo, l’ammazzo!’ Quando si riebbe e riprese le forze, mi chiese ancora una volta scusa dell’accaduto, si allontanò e mi portai in cucina per fasciarmi le mani. Portai con me un fazzoletto che fuoriusciva da un cuscino posto nel letto; nel prenderlo cadde qualche goccia di sangue sulle lenzuola (…). Arrivato in cucina mi lavai le mani, riuscii a prendere un altro fazzoletto che avevo nella tasca dei pantaloni, riuscii ad aprire un cassetto della credenza per prendere un coltello col quale mi feci le bende (…). Ricordo che qualche goccia di sangue cadde sul bordo del cassetto e forse anche all’interno. Altre caddero certamente su un piano della credenza”. Armando scalpita visibilmente. “Sai una cosa? Che le bugie di Teti sono tante, già a questo punto: • l’inverosimiglianza del portare le bombole a uno che non sa nuotare • l’inverosimiglianza di non far entrare nemmeno il fratello di Graziano in casa
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• l’errore sull’orario di arrivo in via Cutilia, la sera del delitto • l’errore sul fazzoletto: erano tutti e tre da donna • l’assenza, soprattutto, di ferite da taglio su Teresa Poidomani”. “Mi togli le parole di bocca. Il fatto è che stava difendendo l’indifendibile. E lo sapeva…” Sentiamo che altro racconta, adesso. Graziano, dice Teti continuando a deporre, a questo punto lo raggiunge e gli dice che vuole riportare la moglie dal dottore e che lui avrebbe dovuto ancora aspettarlo a casa e che si sarebbero visti la mattina dopo, all’Enal. Gli chiede di portare i figli dalla madre. Gli consegna le chiavi della Mini Morris e se ne va con la moglie. Vincenzo, allora, si addormenta su una poltrona, ma sta scomodo. Così, prende due cuscini e si addormenta per terra (!). Il giorno dopo, col taxi, porta i bambini dalla nonna. Ritorna indietro: è il garagista stesso che si prende l’auto. L’amico Trasciani, del Circolo, lo accompagna invece in ospedale. Si fa medicare e va con gli amici a cena, a vicolo del Cinque. Lo riaccompagnano al Flona. E qui, chi vede? Il Lovaglio scende da un’Alfa Romeo bianca, lo chiama, gli chiede in prestito un milione ma così, evasivamente. Gli dice che in auto lo aspettava un “dottore”, lo stesso che aveva visitato la moglie. Insiste, Teti risponde che non li ha ma poi gli consegna comunque 600.000 lire. L’altro in cambio gli dà il suo orologio ed un anello che ne valeva 180.000. Poi gli dice che per 4 giorni non sarebbe dovuto andare in via Cutilia, perché ci sarebbe dovuto andare il “dottore” che non voleva essere visto, essendo del giro. Il lunedì successivo il “dottore” telefona al Circolo52. Gli ordina di portare sacchi di juta a via Cutilia e lui obbedisce. Gli dice che servono a Graziano per portare della refurtiva. Teti porta tutto, senza fare domande... Qualche giorno dopo torna una seconda volta, per riprendere 52 Lo riporta nella sua testimonianza anche Caruso, il gestore del Circolo… Teti non c’era in quel momento. In realtà anche le altre telefonate del “dottore” avverranno sempre quando Teti non c’è...
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le bombole. Sono passati otto giorni dalla sera della cena. “Ho sentito un puzzo (…). In camera da pranzo notai che le pareti erano lavate, che la carta da parati in alcuni punti era stata asportata. Notai che il televisore non era più al suo posto. Non feci caso se ci fossero macchie di sangue per terra”. La cucina è sporca, ci sono resti di cibo. Intanto il “dottore” telefona al Circolo e ci parlano i suoi amici: dice loro di riferire a Teti che va a Napoli, con i Lovaglio, per fare una plastica a lei. Teti rientra dopo ancora altri due–tre giorni in via Cutilia, stavolta per togliere quella puzza e fare le pulizie. Dice di aver portato successivamente i bambini a Castelfusano perché il dottore glielo aveva chiesto, dicendogli che lì se li sarebbe ripresi Graziano. Armando sbotta di colpo. “Eh no, non è possibile! Scusa, senti com’è farcita di stupidaggini anche quest’altra parte della deposizione in Assise! Abbiamo: • l’inverosimiglianza di Lovaglio che gli lascia le chiavi dell’auto (e di lui che le accetta) sapendo entrambi che Teti non ha la patente • l’inverosimiglianza dell’incontro con Lovaglio, in cui gli chiede soldi e gli vende roba e l'assurdità dell’esistenza del dottore. • l’inverosimiglianza di tutto!” “E non hai ancora sentito il resto! L’avv. Romeo, di parte civile, chiede ad un certo punto, a Teti, perché rifiutò di farsi prelevare del sangue, per la comparazione con quello prelevato sulla scena del crimine. La risposta? Stupefacente: ‘Perché il sangue mi fa impressione. E poi, dovevo pensarci sopra’”. È il primo luglio 1972 e la luna è lontana quando, dalla sua cella di Regina Coeli, Vincenzo Teti prende un quaderno dalla copertina coloratissima, una penna blu e comincia a scrivere. Scrive a Salemi ed alla Corte. Stavolta ha una grafia ordinata, però. E anche i periodi scorrono, segno che Vincenzino ha dato molta importanza al suo memoriale: si è fatto aiutare a scriverlo, anzi sicuramente lo ha dettato, magari allo scrivano
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del carcere. In ogni carcere ce n’è sempre uno, quello che è più ordinato di tutti a metter giù parole. Ci tiene a spiegare un po’ di cose, Teti. A dire che sulla stampa sono state scritte stupidaggini, infamità. La prima è che lui sfruttasse la Poidomani insieme a Graziano: “A me Teresa mi faceva schifo, sia per la sua volgarità che nei modi, che ho potuto notare nelle rare volte che veniva a cercare il marito al Circolo”. Si attacca a due cose vere: che su quel coltello, quello della cucina, sangue non ce n’era; e che i testi Curci e Valentini (quelli della credenza) non lo riconobbero nell’uomo che portava il sacco per le scale. Poi, dice anche cose che sappiamo false: ripete che la Poidomani era d’accordo sulla vendita dei mobili. Che con le mani non avrebbe potuto fare nulla, né uccidere né niente. Che tutte le sere era a cena da Umberto a Vicolo del Cinque, altro che in via Cutilia, che poi lo accompagnavano in albergo. E dice che, sì, quando a cena Carnemolla gli chiese se aveva “sistemato i bambini” si riferiva proprio a Luigino e Franco; e lo fece perché era stato lui, a raccontare all’amico che quelle ferite se le era fatte nella lite tra Teresa e Graziano; e che erano partiti. Su questo si può credere a Teti: che, evidentemente, ha cominciato ben prima dell’arresto a far circolare la sua verità sulla sparizione dei Lovaglio. Carnemolla, ricorderete, negherà l’episodio: ma è evidente che voleva prendere una distanza siderale da Teti, in tutto e per tutto, dopo quello che era successo. Nel volersi difendere, poi Vincenzino spiega anche che ci faceva tutti i pomeriggi alle 14 in via Cutilia: stavo sempre dalle parti di San Giovanni, dice – e infatti anche il Circolo Enal era da quelle parti – e sapendo che la casa era vuota ci andava a fare il suo irrinunciabile riposino pomeridiano. “Guarda che roba, è pure vero. Guarda questa foto del divano in salotto”, fa Armando “ci sono sopra dei cuscini per dormire e davanti, belle allineate, le pantofole di Graziano, che Teti si è messo ogni volta che entrava in via Cutilia,... È proprio vero, andava a fare la pennichella lì… coi cadaveri nelle altre stanze... sono senza parole...”
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Il 13 luglio 1972, alle 15.45, dopo due ore e mezza di camera di consiglio, la lettura del verdetto. La Corte d’Assise di Roma condanna Vincenzo Teti a 30 anni di carcere. Il Presidente Salemi non ha ancora finito di leggere che lui balza in piedi, stravolto:“Non è possibile! Io non c’entravo niente!” Mormora frasi incomprensibili, per un attimo sembra calmarsi, ma subito riprende ad urlare, in preda ad una crisi violentissima, poi crolla sul pavimento. “Non è possibile, io non ho ucciso!” Sembra un ossesso, percorso dalla corrente elettrica. Si abbranca alla panca, non si riesce a portarlo via. Si affloscia, scoppia a piangere, è piegato su se stesso, poi si dimena, ci vogliono quattro carabinieri per tenerlo, per mettergli gli schiavettoni. Grida, urla, piange ancora. E’ una maschera. La polizia lo trascina – letteralmente – a via della Lungara 29. Regina Coeli. Sfogliamo le pagine della sentenza. Sarà stato un gentiluomo, Salemi, ma le parole che scrive sono durissime: “…Con il passare del tempo l’imputato, disperatamente attaccato alla sua vita, che non vuole sconvolta da quanto è accaduto, insensibile alla necessità di confessare il misfatto, avrà modo di fornire altre versioni… (...) Lo soccorrono le abitudini di una vita sregolata e meschina, quale è quella che conduceva la sventurata coppia, e lo scarso attaccamento dei congiunti. Illogicamente, costoro credono al Teti: Graziano ha deciso di trascorrere alcuni giorni di vacanza fuori Roma. Perché non ne ha parlato durante la cena ed ha anzi manifestato tutt’altri proponimenti? Perché non è andato personalmente ad accompagnare i figli dalla madre? Perché è partito nel cuore della notte senza nemmeno servirsi della propria autovettura? Nulla. (…) La prova, inconfutabile: è il Teti che si reca con le mani fasciate per le recenti ferite ad ordinare l’occorrente: sacchi di juta, di nylon, spago, nastro adesivo (…), agisce come se nulla fosse accaduto, perché fuggire equivarrebbe a confessare. Il giorno dopo è negli stessi luoghi della sua vita antisociale ed oziosa: al bar dell’Enal. (…) Il frequentatore di alberghi malfamati ha trovato una casa arredata e pensa di andarci a
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vivere con la sua compagna. (…) La Boccanera riferirà che fin dai primi di giugno l’imputato le aveva parlato dell’intenzione di acquistare i mobili e l’autovettura dei due sposini; dell’esistenza di un simile progetto, il 9 febbraio 1971, riferiscono i testi Lovaglio Giuseppina e Lovaglio Domenica. Aggiungono costoro che la Poidomani era decisamente contraria a cambiar casa. Nulla prova che Teti abbia acquistato i mobili prima del 20 giugno. (…) Le telefonate sono un parto della sua fantasia di lettore di libri gialli, non assistito però, da intelligenza completa, da idoneo senso critico, perciò; un aborto”. E la sentenza prosegue, lucidissima, implacabile. La perizia sulla Poidomani, ricorda, ha evidenziato l’assenza di qualsiasi lesione vitale, come invece disse Teti. Quindi, niente ferite dalla bottiglia rotta. Ancora: se è vero che trovò tracce dell’assassinio in via Cutilia, perché non ne parlò con i Lovaglio? Ancora: può essere vero che nei primi giorni Teti per le ferite alle mani non potesse usarle ma, dicono i giudici, è lui stesso che afferma che 5-6 giorni dopo tornò nell’appartamento per usare il raschietto sulle pareti... e qui (lo diciamo noi) si è dato la classica zappa sui piedi. E poi, c’è la questione di come andarono i fatti, quella notte. La Corte d’Assise li ricostruisce così: “Gagliardi Servilio e Benatti Silvana percepirono il riaccendersi della lite alle 3 di notte ed a quell’ora Maturani Gesualdo, marito della Benatti, afferma di aver richiesto l’intervento della polizia, disturbato dal rumore che proveniva dall’interno 5. Deve allora inferirsi che quando Lovaglio Luigi all’1.30, bussò all’appartamento del fratello, se non entrambi, almeno uno dei coniugi era ancora in vita. È possibile che l’uccisione sia avvenuta in due momenti distinti e distanziati nel tempo. Il Teti potrebbe aver ucciso per primo Lovaglio dedicandosi subito dopo al tentativo di procurarsi la connivenza della Poidomani, sulla quale aveva un certo ascendente e che doveva essere paralizzata dal terrore. Solo quando vide fallire il suo tentativo, si vide costretto ad uccidere anche la donna”. D’altronde, sono state usate due armi diverse. Coltello per lui e verosimilmente mani per lei, anche se lo stato in cui la Poi-
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domani fu ritrovata non consentiva di dire molto di più. “Gagliardi Servilio afferma di aver sentito per ultima la voce di donna dire ‘Tanto ho la pistola e ti ammazzo’. Poi c’è Lovaglio Luigi che riferì di aver sentito prima un urlo del padre e poi la voce sempre più flebile della madre e nel sonno potrebbe aver percepito come vicini due momenti distanti”. “Si, torna tutto”, interviene al volo Armando, “la voce sempre più fievole di Teresa, sentita dal figlio, conferma sempre più lo strozzamento”. C’è una sola cosa che la Corte non è riuscita a spiegarsi: il movente. Il 14 aprile 1975 la Corte d’Appello di Roma conferma i 30 anni a Vincenzino er calabrese e mette una pietra tombale su questa storia.
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Capitolo 23
L’elemento umano
Sembra tutto chiaro e tutto concluso, ma c’è qualcosa che ancora non ci soddisfa. Quando si affronta un caso non ci basta la nuda cronaca, vogliamo capire il perché, come, quale siano le spinte motivazionali dell’assassino e delle vittime. Io e Armando ci guardiamo negli occhi e la Vespa sembra partire da sola, già sapendo dove andare. È quasi un rituale: appena entrati nello studio del professor Mastronardi ci mettiamo a vedere i suoi libri, una collezione veramente unica sul crimine. Ursula, la maltesina di casa, arriva subito scodinzolando. La prima domanda che ci esce di getto è quella che ci era venuta già nelle prime ricerche: un eventuale rapporto a tre, morboso ma stabile, come venne ipotizzato dalla stampa dell’epoca, può sfociare in un omicidio? “In questo caso, sì! Perché ci sarebbe stata una miscela esplosiva. E la miscela sarebbe stata caratterizzata dalla debole struttura di personalità di Graziano Lovaglio che non solo approfittava, accettando quindi, come peraltro qualcuno fa per diverse ragioni sotto il profilo socioculturale, la prostituzione della moglie, ma addirittura non riusciva ad imporre nessuna fermezza nell’interazione con la propria donna e con chi gravitava intorno a loro. Essendo lui l’elemento debole del trio è stato dato ampio spazio operativo, ed emozionale, al Teti, il quale mano a mano si è sentito sempre più in diritto di approfittare di tutte le situazioni che gli capitavano a tiro. In tutto questo commento a posteriori non dimentichiamo che stiamo parlando solo di ipotesi ricostruttive, pur partendo da elementi investigativi certi. È come se ci avvicinassimo ad un quadro raffigurante il volto di un bambino. Man mano
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che ci avviciniamo distinguiamo, per esempio, solo il tratto del sopracciglio ma, se ci avviciniamo ancora di più, di quel sopracciglio si notano solo dei punti con, in mezzo, tra un punto e l’altro, il nulla. Ecco, in questo come in altri casi, sulla scorta di elementi certi tentiamo un’ipotesi ricostruttiva in grado di colmare gli spazi tra un punto e l’altro. A tutto questo potrebbe essersi aggiunto il consumo di alcol da parte di Lovaglio e del Teti, quella notte: come risulta da alcune foto della scena del crimine, con il repertamento di un fiasco di vino vuoto. Giova ricordare che nelle ricerche che già effettuammo con il Prof. Francesco Carrieri – Medico legale e Criminologo Emerito dell’Università di Bari – non c’è bisogno che il quantitativo di alcol ingerito sia massivo, in quel caso si avrebbe direttamente un effetto soporifero; viceversa è sufficiente un quantitativo anche moderato per slatentizzare le proprie istanze aggressive che nel Lovaglio, dalle testimonianze, sembrerebbero essere abituali, quasi come se si trattasse di un meccanismo di difesa per compensare le sue più profonde inadeguatezze. Nella miscela ci sono le tre strutture di personalità: una permissiva come era la donna; una personalità debole quale quella di Graziano Lovaglio e viceversa un altro, il Teti, con una struttura dominante e spesso manipolativa di personalità. Di queste la più instabile è senz’altro quella di Lovaglio, che forse quella notte ha voluto esprimere ancora una volta una qualche reazione aggressiva, in sostituzione della sua abituale succubanza in cui si sentiva relegato. Parlo ovviamente di una sua succubanza emozionale, intendiamoci, un atteggiamento intriso di mediocrità esistenziale, non confessato neanche a se stesso. Non dimentichiamo che quella serata partì da un festeggiamento e non dimentichiamo che quella sera c’erano i figlioli presenti alla cena. Proprio il non riuscire a garantire ai suoi stessi occhi la figura di padre aumentava la sua sensazione di essere realmente un perdente, connotandosi sempre più in vesti estremamente deboli. Quindi, riassumendo possiamo dire che questa miscela esplosiva si innesca per tre fattori consequenziali: la debole struttura di personalità del Lovaglio; forse
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l’alcol, ben in grado di slatentizzare qualunque aggressività ed infine, ne sono convinto, la reazione inaspettata di rivalsa dello stesso Lovaglio, che prende di sorpresa Teti, scatenando la sua consequenziale reazione a corto circuito. Poniamoci un quesito: in quel momento, possiamo supporre che la moglie abbia cercato all’inizio di difendere il marito, come persona più debole, forse? Possiamo ritenere di sì, anche se come sappiamo questo non è mai stato accertato”. Ma allora se non ci fosse stato l’alcol sarebbe stato diverso? Non si sarebbe creata la miscela esplosiva ? “Beh, tutto lascerebbe pensare che non sarebbe avvenuto il duplice omicidio. Se ci fosse stata, mi riferisco al Lovaglio, una struttura di personalità in grado di auto-affermarsi, se pur saltuariamente, con una gestione di se stesso un po’ più granitica e nel momento in cui delle strutture di personalità così particolari incontrano l’alcol, assunto proprio in dosi non già massive, si innesca la miccia ed esplode la volontà, finalmente, di esprimere la propria supremazia, specialmente dopo che i figlioli sono già andati a dormire”. All’epoca la stampa trovò molto gusto a dare per certa una relazione tra Vincenzo e Teresa, in realtà mai provata. Se fosse stato vero, avrebbe potuto incidere sul delitto? “Certo, mi viene in mente il primo duplice omicidio di quella serie riconducibile al cosiddetto Mostro di Firenze. L’omicidio di Barbara Locci ed Antonio Lo Bianco, avvenuto nel 1968. La Locci aveva una relazione con Salvatore Vinci, anche se, in precedenza non aveva disdegnato il fratello Francesco, che praticamente aveva vissuto nella sua stessa casa. Stefano Mele, il marito, una persona con uno sviluppo psichico al limite della oligofrenia, sopportava questa situazione a tre senza reagire. Addirittura, si racconta che il Mele portasse la mattina la colazione alla moglie e al suo amante, nel loro letto matrimoniale. Il terzo “incomodo” non era in quel caso il Lo Bianco, vittima della furia omicida e che ne pagherà le spese, ma uno dei fratelli Vinci. Ora questa storia a tre ha una trasposizione, nel momento della ‘ribellione’ dell’anello debole del gruppo, il Mele, perlomeno stando alle risultanze processuali. Il Mele, tuttavia, non si ribella al Vinci, come abbiamo detto, ma contro
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il Lo Bianco che in quel momento si trovava in intimità con sua moglie, Barbara Locci. Se Teti e la Poidomani avessero avuto una relazione, sarebbero stati due casi totalmente simili, anche se sotto certi aspetti diversi”. Ci viene spontanea una domanda, quanto influisce l’arma in una situazione come questa? Ci spieghiamo meglio, con un’arma da fuoco Lovaglio avrebbe avuto il sopravvento? “Ecco, vi rispondo subito, però facciamo una premessa fondamentale, nell’esempio del duplice omicidio Locci-Lo Bianco: è che per paragonarlo al nostro caso dobbiamo dare per scontato che il Mele sia colpevole. Come sappiamo, la sequenza degli omicidi attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze non ci dà sempre certezze. Fatta questa premessa d’obbligo… sì, il mezzo lesivo è importante, ma lo è ancor di più la struttura di personalità di chi ce l’ha in mano. Graziano non era oligofrenico, era solo una persona estremamente debole e comunque poco risoluta, priva di qualsivoglia fattivo investimento nel domani”. Dopo l’uccisione, Teti lascia Lovaglio nella camera da pranzo e la Poidomani nella camera da letto; entra nel salotto, dove dormivano i due bambini, e si sdraia per terra, per dormire su alcuni cuscini rimediati per l’occasione. Come mai? Aveva ucciso i loro genitori eppure si mette a dormire vicino ai bambini, come per proteggerli. “Questa è una domanda molto interessante. Tutto lascerebbe pensare all’affetto che il Teti aveva per questi bambini, che non immaginavano nulla di ciò che era successo attimi prima. Possiamo vedere nelle azioni di Teti un segno di simbolica richiesta di perdono. Ma, mentre questa mia considerazione è quasi bonaria, contestualmente non posso esimermi dallo spolverare quel minimo di cattiveria investigativa che può albergare in ciascuno di noi criminologi, nel momento in cui investighiamo sugli stati d’animo dell’omicida. Non è escluso, infatti, che la sua azione sia stata finalizzata alla strumentalizzata rassicurazione e tranquillizzazione dei due bambini, in modo che non avessero timori e sospetti. Doveva evitare che, durante la notte, scendessero dal divano per correre dai loro genitori. Il suo posto era, quindi, disteso a terra, ad impedire ogni tentativo di passaggio da quella porta”.
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Durante il mese che seguì Teti per almeno due volte – ne abbiamo una testimonianza nel fratello di Lovaglio – portò dei soldi alla nonna dei bambini. Si preoccupava di loro? Questo stona con quello che penseremmo tutti, l’omicida che dopo aver compiuto il crimine evita ogni relazione con i familiari della vittima. “È una pietas che può albergare anche in un omicida. Non è escluso che a questo punto, proprio per i suoi stessi sensi di colpa, Teti abbia messo in atto un particolare comportamento denominato ‘dissonanza cognitiva’, che venne chiarita da Festinger nel 1956, la quale spiega che l’autore del reato tende a ritenersi comunque vittima delle circostanze; e non artefice. È quello che può capitare a ciascuno di noi quando attraversiamo un incrocio con il rosso, sappiamo che è un reato stradale, ma siamo abilissimi a mentire a noi stessi. E più intelligenti siamo, più siamo abili a barare e inventiamo a noi stessi attenuanti e scusanti di tutti i tipi: ‘Dovevo farlo, altrimenti perdevo un appuntamento importante, ecc.’. A questo punto, come spesso ho avuto modo di registrare in più casi peritali, l’omicida tende a de-colpevolizzarsi, sono i ‘meccanismi di svincolo morale’ già esaminati anche più recentemente da un apprezzato autore, Bandura. Pur sapendo che sono stato io ad uccidere, trovo tutte le attenuanti generiche a me stesso, comprovo a me stesso che sono una brava persona e se non mi avessero stimolato o se non avessero favorito gli altri l’azione aggressiva, a cui sono stato costretto a reagire per una sorta di legittima difesa, non l’avrei fatto. Posso quindi continuare a fare lo zio, occuparmi dei due bambini a cui ho ucciso i genitori… perché in realtà sono stati loro a farsi uccidere, con il loro comportamento”. Ecco... Teti affronta un viaggio in auto per sbarazzarsi dei corpi che aveva preventivamente fatto a pezzi: ma perché non sbarazzarsene, magari seppellendoli, interi? Perché infierire così tanto sulle vittime? “Possiamo affermare che ci troviamo di fronte ad una intrinseca necessità-volontà di possedere l’altro, alla volontà di prevalere sull’altro, di gestire il predominio sull’altro – prendo tutto quanto quello che riesco a prendere da te –, o mangian-
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dolo o bevendone il sangue oppure depezzandolo. Anche se l’azione del depezzamento è stata motivata dalla necessità fisica di ridurre il volume dei resti, per occultarli meglio, c’è una specifica volontà di compiere questo atto, una chiara volontà di esprimere il predominio sull’altro essere umano. Io ho supremazia sull’altro. Con la mia forza ti anniento in tutti i modi: anche depezzandoti. Ti faccio a pezzi per facilitare l’occultamento, ma ti anniento anche perché te lo meriti proprio, lo devo fare”. Però... Teti e Serviatti non abitavano vicino al fiume, hanno dovuto trasportare i corpi, anche con il rischio di essere scoperti. Serviatti caricando i corpi su un carrettino e percorrendo diversi chilometri di notte e Teti, presumibilmente, trasportando i corpi in automobile, possiamo dire che il progresso rende la vita più comoda. Ma allora perché ricorrere al fiume, solo per comodità o c’è una ragione più profonda? “La domanda è suggestiva ed ovviamente dobbiamo pensare al suo simbolismo: il Tevere è il fiume che porta via ogni nefandezza, porta via verso il mare ogni detrito ed impurità, nasconde ogni situazione, persone o cose. Affido al fiume il mio biglietto o la mia testimonianza di ciò che desidererei fare, il mio diario: che sia poi il Tevere a decidere dove volerlo portare. Lo affido ad un mezzo di trasporto che sicuramente può dare l’oblio, far dimenticare ogni cosa. Già guardando il fiume, noi pensiamo a queste acque che si lasciano guardare, ma non compenetrare. Il ruscello forse con la sua trasparenza lo consente, ma non il fiume, nessuno può compenetrarlo: cosa c’è dentro, lì sotto il pelo scuro dell’acqua, nessuno lo saprà mai. A questo punto purifica, porta via, oscura”. Teti continua a negare di aver ucciso. Lo farà sempre. Perché? “Conosco pochissime persone che hanno confessato. Prima c’era il famoso Maigret che dalle fumose stanze usciva e diceva: ‘Ha confessato signori, finalmente ha confessato’. Adesso si sa benissimo, anche atteso il giusto garantismo che ci viene offerto, che la sola confessione non basta e bisogna poi ratificarla al processo. Peraltro il nostro garantismo ha ‘garantito’ anche il diritto di continuare a mentire, innanzitutto a se stessi.
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Ritorniamo perciò alla dissonanza cognitiva di cui abbiamo parlato prima. Così, mentiamo, dapprima a noi stessi e successivamente agli altri, nella atroce speranza di trovare un bravo avvocato che riesca a tirarci fuori. Anche quando il processo inesorabilmente si conclude e siamo condannati, mentiamo: ‘io comunque continuo a negare’, ‘si saranno sbagliati!’ e si vive in una realtà parallela diversa, una realtà costruita da noi stessi. Si costruiscono una o più realtà inesistenti, alcune volte tali costruzioni sono incredibilmente articolate. Si continua a visualizzare e quindi rivivere quella scena, ricostruita ed inventata, come se stessimo rivivendo il nostro film. La storia diventa parte della propria memoria, come un file auto-costruito, la persona inserisce nella propria memoria un nuovo file che prima e nella realtà non c’è mai stato. In letteratura criminologica si parla del detenuto che ‘ribadisce le dichiarazioni già rese’, alla quali poi si affeziona”. Ursula, che finora è stata a sentire, decide che è giunta l’ora di andare a dormire e si allontana. Guardiamo l’orologio: quasi mezzanotte. Ci resta spazio per un’ultima domanda. Una domanda non da poco. Ma chi si auto-convince, come Teti, da qualche parte conserva la consapevolezza che quello che ha costruito, in realtà, non esiste? “Per capire questa parte fondamentale della nostra memoria in relazione a quella che può comparire come menzogna, abbiamo strutturato in questi giorni dei corsi mirati presso il ‘Centro Sperimentale Cine-teatrale di Criminologia’, da noi creato dietro suggerimento del Colonnello dei Carabinieri Salvino Paternò, già Comandante del Reparto operativo dei Carabinieri di Rieti e formatore alla Scuola per Marescialli a Velletri, all’interno dell’attività di praticantato nella formazione dei Criminologi e frequentato anche dagli allievi e dagli ex allievi del nostro Master in Scienze criminologico-forensi della Sapienza Università di Roma. Abbiamo effettuato delle sperimentazioni con una serie di allievi. Questi costruiscono, dietro nostra istruzione e anche grazie a bravi attori quali per esempio Luigi Di Majo, dell’‘Associazione Avvocati Attori’ e Fioretta Mari, una realtà recitata e ar-
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tificialmente costruita, impersonando i protagonisti di casi noti della criminologia nazionale e internazionale con la tecnica Stanislavsky; e quindi calandosi appieno nella realtà mentale di un criminale, nel suo vissuto, nelle sue costruzioni psicologiche posteriori al delitto, prendendo a prestito da se stessi stati d’animo realmente vissuti in qualche istante della loro vita, anche se per brevissimi momenti. Dopo un po’, è così tenace il convincimento creato in loro stessi che, quando si affaccia alla mente la rivisitazione di come era il ricordo reale, iniziale, del loro reato, l’accantonano immediatamente, in una operazione mentale che oscilla tra il recitato e l’istintuale. Ovviamente, il tutto artificialmente creato nella fictio scenis, ma vissuto così intensamente da convincere se stessi che potrebbe essere vero53. Proprio come riteniamo possa essere successo a Vincenzo Teti nel suo fermo convincimento di mentire ad oltranza. Difatti, dalla perizia su Teti, effettuata dai colleghi Carlo Citterio e Antonino Cirrincione nel 1970, non solo risulta l’assenza di qualsivoglia psicopatologia, ma si configura una ben organizzata struttura di personalità, in grado di gestire e di dirigere ogni colloquio nella direzione voluta. Menzioniamo dei passaggi estremamente importanti, per meglio comprendere le sue risposte a qualunque sollecitazione dei periti, relativi ai macabri fatti di cui era accusato. E li menzioniamo in quanto si tratta, didatticamente, di un classico nelle risposte, in cui è legittimo sospettare una buona organizzazione mentale protesa alla manipolazione delle risposte e dei colloqui investigativi54: Interrogato in merito ai fatti di cui è processo, risponde: ‘Prego V.S. di voler rimandare, se possibile, il mio interrogatorio perché in questo momento non sono assolutamente in condizioni di rispondere e mi limiterei soltanto a confermare quanto ho già detto alla Polizia. Invece, ho bisogno di riposo e di calma per riordinare le mie idee e richiamare alla mia mente il ricordo preciso dei fatti che sono successi e che possono interessare I filmati delle sperimentazioni, con Luigi Di Majo e Fioretta Mari, sono su www.vmastronardi.com 54 Il brano che segue è tratto dalle pagine 26-27 della perizia psichiatrica Citterio–Cirrincione su Vincenzo Teti. 53
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la Giustizia. Sono stato fermato dalla Polizia da oltre due giorni e ripetutamente interrogato ed ora ho una grande confusione di idee, stanchezza mentale e mi sento anche moralmente abbattuto’. (...) A.D.R.: ‘Ho ripensato a lungo sui fatti, ma devo confermare a V.S. che non ricordo più nulla all’infuori delle cose che ho detto alla Polizia. Io ricordo solo che i due coniugi litigavano e la moglie diceva al marito che egli avrebbe dovuto pagare e non avrebbe dovuti ‘fregarli...’ Ancora55: ‘Stavo per scrivere un memoriale al Giudice. In codesto memoriale (dietro suggerimento della Polizia) volevo addossarmi un solo omicidio, cioè quello di Graziano, volevo scrivere di avere ucciso Graziano per difesa personale. (…) Date le prove, i fatti avvenuti, mi sentivo perso. Il suggerimento della Polizia (ed a me è parso logico) era questo. Dovevo dire che Graziano ha ucciso Teresa e che dopo si è scagliato contro di me, ed io per difendermi l’ho ucciso, e che dopo preso dalla paura, ho comprato i sacchi, li ho insaccati dopo averli segati, ho gettato al Tevere le quattro gambe, le braccia e le teste e nel canneto i tronconi dei morti. (…) Date le prove che ci sono a mio carico, sarebbe conveniente accettare questa tesi. Così l’omicidio di Graziano non lo pagherei perché ucciso per legittima difesa, e pagherei solo il vilipendio e occultamento di cadaveri, e letto il codice che mi mostrò la Polizia per tali reati, me la sarei cavata con un massimo della pena non superiore ai 6 anni. (…) Vi giuro che non ho ucciso nessuno... mi avete incolpato di cose orribili. (…) Per questo ho deciso di impiccarmi. Spero solo che non mi manchi il coraggio all’ultimo momento (…) trovate gli assassini”. Ancora56: ‘Ben diversamente si è però condotto il periziato allorché l’intervista ha dovuto trattare dei fatti criminali che gli si imputano, perché al riguardo il soggetto si è mostrato estremamente riservato e vivacemente dialettico non solo nel propugnare la sua estraneità alle vicende, ma addirittura nel non consentire che qualche espressione del discorso potesse 55 56
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Dalla stessa perizia, pagine 79–80. Dalla stessa perizia, pagine 88–89.
coinvolgerlo – sia pure indirettamente – in qualche responsabilità. Dalla sua autobiografia si sono tratti molteplici elementi utili alla comprensione psicologica di questo caso che si è prospettato sin dall’infanzia come un ragazzo di governo piuttosto difficile. (…) Cessata la scuola il soggetto è comunque entrato nella palestra della lotta per la vita ove dopo pochi anni si è trovato nella spiacevole condizione di dover rispondere al Magistrato di una serie di atti antigiuridici che nel frattempo aveva commessi. Si può senz’altro concedere al periziato che in ciò grande sia stata l’incidenza del caso, ma non si può certo nascondere che, dopo, a questa prima fatalità negativa, sia stato concesso un soverchio diritto di decisione nella vita del periziato, quanto meno perché questi dopo la prima condanna non ha più palesato il benché minimo interesse ad una esistenza normale (…)’ A pagina 89 leggiamo: ‘Queste, in breve sintesi, le dichiarazioni del soggetto nelle quali invero non si rintracciano elementi di significato psicopatologico, ma piuttosto quelle tipiche progettazioni difensive che sono specifiche di strutture delinquenziali organizzate. Alla naturale evoluzione della vicenda, infatti, il soggetto immette deduzioni d’ordine giuridico, richiami alla norma giudiziaria ed alla metodologia della prova che quand’anche dovessero essere riguardate come abili attestazioni della sua intelligenza, conferiscono al suo discorso una nota di tale artificiosità ed immaturità da richiamare ragionevoli dubbi sulla sua stessa fondatezza’. E infine, a pagina 99-100: ‘Appare comunque ovvio che una condizione di variazione dalla norma media debba essergli riconosciuta quanto meno perché un’esistenza condotta nell’ambito di una vita tanto socialmente differenziata quanto difficile, favorisce ampiamente la psicopaticizzazione di un carattere, ma è subito opportuno aggiungere che anche questo riconoscimento non altera né modifica il fatto fondamentale e cioè che il soggetto non è e non è mai stato affetto da alcun genere di infermità mentale. Non lo è stato all’epoca del crimine, non lo è tuttora e nemmeno ha potuto esserlo al momento del tentativo suicidiario’.
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Capitolo 24
Il tempo passa
Passano sei anni e nel 1978, su “Lo scalino”, il giornale dei reclusi di Regina Coeli, esce un articolo di Teti: è un lungo racconto, una sorta di confessione, in cui dice che lui ha ucciso solo Lovaglio, per legittima difesa. Graziano – scrive Vincenzino – dopo aver assassinato Teresa si era avventato anche contro di lui, la lite era proseguita in cucina, lui s’era difeso come aveva potuto e l’aveva ucciso. Che lui, è vero, aveva fatto sparire i corpi, perché tanto nessuno gli avrebbe creduto. È una mezza ammissione, ma non è ancora la verità. Perché Luigino ce l’ha detto, che è morto prima papà e poi la mamma. E non il contrario. Perché la cucina non aveva traccia di un delitto. E perché non si spiega come mai il buono, l’onesto Vincenzo avrebbe assistito senza batter ciglio alla morte di Teresa, terrorizzato, per reagire solo dopo. Teti comincia così a girare le carceri. Porto Azzurro, Volterra, Spoleto, poi torna a Rebibbia. La madre si rifiuterà sempre di andarlo a trovare. Nel settembre del 1985, dopo 16 anni di carcere, Vincenzo Teti ottiene la semilibertà. Potrebbe ancora rifarsi una vita, in fondo ha 46 anni, ma sa bene che sarà impossibile. Va a lavorare come giardiniere alla parrocchia della “Sacra Famiglia”, a Portuense. Ironia della sorte, vicinissimo a quell’istituto per orfani dove tutto era iniziato, dove l’aveva buttato sua madre fino a 13 anni. È allora che confessa ad un giornalista che il suo vero shock non fu uccidere Graziano, ma sezionare i cadaveri: che di quelle ore, di quei giorni nell’appartamento, non ricorda, infatti, più nulla. La sua mente si rifiuta. C’è un cratere oscuro che ha
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ingoiato quei giorni di sangue. Un cronista gli chiede cosa gli manca, adesso: “I figli. Vorrei tanto avere figli. Ma lei capisce... Chi è che correrà il rischio di essere chiamata la moglie del mostro?” La “Sacra Famiglia” è davvero vicina all’argine di Ponte Marconi, er ponte bianco: quante volte gli occhi di Vincenzo Teti avranno rivisto le ombre di quella notte allucinata di giugno, in cui lanciò una testa umana nel Tevere? La Vespa corre veloce, di nuovo. Le strade sono trafficate, ma poteva andare decisamente peggio. La nostra destinazione è Infernetto, una delle ultime espansioni territoriali della città, quando la Colombo prende la via del Tirreno. Giriamo un po’, ma non ci perdiamo. L’indirizzo lo sappiamo bene. È l’ultimo domicilio conosciuto di Vincenzo Teti. Siamo sorpresi: è un bel villino col giardinetto, chiaramente diviso tra tanta gente che si abita una stanza a testa. Incontriamo un cinese. Si ricorda del signol Vincenzo, ma ora non c’è più. E’ andato al nord, a Bergamo. Ma questo lo sapevamo già: perché Vincenzo Teti è morto nel 2012. Non resta che fermarci al bar e ordinare due caffè. Le nostre carte, i fascicoli, le foto; niente ci serve più. “Ma secondo te, alla fine, il movente qual era?”, mi fa Armando, versando lo zucchero. “Mah, sai cosa mi colpisce? Che quella notte i vicini di casa sentirono le liti, ok, ma non la voce di Teti: Gesualdo Maturani, Silvana Benatti, Sestilio Gagliardi, nessuno sentì Teti. Perché avrebbe ucciso nell’unica notte in cui c’erano i bambini?”. “È tutto molto bello, tutto molto giusto – fa Armando sorridendo – ma, scusa, che diavolo c’entra?” “E c’entra sì, invece. Perché vuol dire che la lite, la famosa lite per questioni di interesse, come scrissero i giornali, quella per i guadagni di Teresa, era solo tra Graziano e la moglie. Teti non litigò con nessuno. Almeno nella prima fase della nottata. La sua rabbia omicida, secondo me, esplose solo quando vide che i due non trovavano una soluzione...”
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“Aspetta, aspetta… vuoi dire che… I mobili. Il matrimonio, il desiderio di una vita normale. Anna Boccanera. Era questo il movente?” “Io credo davvero di sì. Ci siamo scordati l’elemento umano. Vincenzo Teti non ha conosciuto il padre, è vissuto in collegio, ha una madre che lo tratta a pesci in faccia, un fratello che lo detesta. Possiamo dire che non ha mai avuto una famiglia”. “Però è ambizioso, vuole una vita normale, ci prova; fa il giostraio, poi apre il negozio. Alla fine si arrende, fa il ladro, diventa uno scioperato che campa al bar, però conserva il suo sogno…” “E qual è questo sogno? Avere quello che non ha mai avuto. Lo stesso che conserva nel petto anche quando, sedici anni più tardi, esce di galera: casa, moglie e figli. Così incontra la Boccanera…” “… che esce incinta. Progetta di sposarla e mettere su casa con lei. È quello che si può permettere, ma va bene. Lasciare la vita d’albergo, essere una persona come le altre”. “Hai capito, adesso? A questo punto si organizza. Fa leva su Graziano, che non sopporta Teresa e vuole cambiare vita. Graziano non ne può più della moglie, forse vuole anche andarsene, ma è un debole, non ci riesce. Poi, campa alle sue spalle, anche se fa ricettazione con Vincenzo. In un certo senso, dipende da loro. Però è uno violento. Comunque, Vincenzo lo convince a vendergli i mobili e forse anche a cedergli casa…” “Ho capito dove vuoi arrivare… Teresa non vuole saperne, però: e poi, nemmeno lei sopporta più il marito57. Quella sera hanno la discussione finale sulla faccenda dei mobili. Ecco perché Vincenzo resta, perché riguarda anche lui. I bambini sono 57 La prova è in alcuni bigliettini scritti da lei e ritrovati poi a via Cutilia, a cui non viene dato il giusto peso. Il primo: “E con la mia macchina non ci voglio niente rubato si capite tanto ho le doppie chiavi – fai pure come ti pare tanto da ieri sera io avevo intenzione da andarmene se tu vuoi io lo faccio a denunciarti perché ormai vai con Vincenzo”. Il secondo: “Non mi venire a cercare perché non mi trovi io prendo il primo treno che capita e vado via dove il destino mi porterà Teresa”. Il terzo: “Io sottoscritta Poidomani Teresa dichiaro di non convivo più con mio marito perché non ci prendiamo di carattere lui è un pazzo mi mena sempre perché vuole più soldi tutte le notti quando mi ritiro”.
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presenti per puro caso: non erano previsti. E saranno la rovina di Vincenzo, i testimoni decisivi. La lite è fra Graziano e Teresa, parte dai mobili e arriva alla loro vita. Nessuno sente la voce di Vincenzo, perché lui c’entra poco, in quel discorso…” “Esatto! Esatto! Poi, ad un certo punto, Graziano attacca Vincenzo. Ci sta, è uno violento, che non si controlla, che mena per poco. Forse ha ragione Teti, quando dice che ha ucciso perché è stato aggredito. Ma è stata una lotta dura, per la vita, avrebbe potuto solo ferirlo. Invece no: Vincenzo cerca di colpirlo col coltello prima alla testa, poi lo prende al petto. Graziano muore. Oppure no. Forse Graziano aggredisce Teresa, forse dà di matto, forse Vincenzo si mette di mezzo per difenderla e lo uccide. Che sia morto prima lui e poi lei, comunque, ce lo dice Luigino Lovaglio: che ha sentito prima morire il papà e poi la mamma”. “E qui passa suo fratello, Luigi. Vincenzo prende in mano la situazione, non apre con una scusa. Teresa è in un angolo”. “Lui cerca di convincerla a testimoniare in suo favore o comunque a coprirlo, ad aiutarlo a sbarazzarsi del corpo. Teresa non ci sta. La discussione va avanti, passa un’ora e mezza. Vincenzo ormai ha perso il freno. Ha un morto sulle spalle e davanti una donna che non vuole aiutarlo. Prima non voleva cedergli casa e mobili, ora vuole affossarlo. E poi, ha visto. E poi, Vincenzo vuole disperatamente un’altra vita, un’altra occasione. La lite esplode anche tra loro. C’è una sola cosa da fare. E la strozza. È la seconda fase della lite, quella delle tre di notte. I vicini chiamano la polizia, che arriva ma si limita a bussare. Non sanno che ci sono due cadaveri e due bambini, dietro la porta dell’interno 5…” “… Però lasciami aggiungere che lui quella sera forse ci aveva già pensato, a fare fuori i Lovaglio. Sennò perché si sarebbe presentato con le bombole al seguito?” Restiamo un poco in silenzio. Ci ritroviamo sull’argine, a fissare assorti il grande fiume. Il traffico sembra essersi bloccato, di colpo non passa più nessuno in questo pezzo di Roma. Ora è chiara anche la difesa di Vincenzino er calabrese. Ci sediamo sulla sponda.
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“A questo punto”, dice Armando tra sé e sé, “l’assassino doveva per forza capovolgere tutto. Teti si trasforma, così, in un agnellino mansueto che ubbidisce al furente Lovaglio, vera anima fiammeggiante. È Lovaglio che detta i tempi della storia, Teti si limita ad eseguire”. “È Lovaglio” proseguo io, guardando le acque “Che fa e disfa, lo picchia, si scusa, esce ed entra da casa, mentre lui, da bravo bambino, aspetta nell’angolo, in cucina, come Cenerentola; lo aspetta davanti al Flora e gli spreme soldi come un bancomat...” “In realtà, sai che c’è? Che quei due morti furono il risultato di due urgenze. L’urgenza di essere normale di Graziano, che voleva aprire un negozio e fuggire da mandati di cattura, cambiali e nomi falsi; e quella di Vincenzo che voleva sposarsi, avere un figlio e una casa, invece di vivere con una prostituta in un alberghetto. Ecco perché sono morti…” Il sole tramonta a ovest, in lontananza, dove i palazzi si perdono verso Ostiense. “Questo era il loro punto debole, secondo me: voler essere normali. E non esserlo, al tempo stesso. Quello di via Cutilia 51 non è il dramma della miseria, della follia e dell’indigenza, non è quello che c’hanno raccontato. C'è il dramma di due uomini che volevano di più dalla vita e che non sapevano come altro fare per ottenerlo, se non ingannando o uccidendo. Sai che ti dico? È il dramma del bisogno di essere come gli altri. Del non esserlo mai stati. Del conoscere il margine, il bordo del foglio e della paura fottuta che il proprio nome restasse scritto fuori. Per sempre”. “Sì, lo penso anch’io. Era un po’ più complicato di come venne raccontato. Sinceramente, quando Teti dice “io non ho mai sfruttato nessuno”, secondo me, ha ragione. Prove non ne vennero trovate, per quanto questa storia sia stata ripetuta e ripetuta sui giornali”. “Vero! Non erano le lire che la Poidomani aveva nel portafoglio, la misura della lite. Anzi, è verissimo che Teti tolse la Boccanera dalla strada: lo confermò anche lei stessa!” “Certo che si vede che leggeva solo gialli, Teti – fa Armando, sorridendo di colpo – il dottore, voler fare il sub per oc-
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cultare i corpi, le telefonate misteriose… se li avesse sepolti a Castelfusano faceva prima e ci risparmiava un lavoraccio…” “E si vede pure un’altra cosa”. “Cioè?” “Che è la prima volta che guardiamo il Tevere da così vicino. Io almeno non c’ero mai stato, sull’argine. Beh, è notevole, non trovi? Roma, da qui, è un'altra città. Anzi, adesso mi ci accendo sopra anche un sigaro…” “Veramente notevole, anche se io di sopralluoghi sul fiume ne ho fatti un sacco. Dici che se chiediamo al fiume come andarono i fatti nella notte della luna, ci dirà davvero di chi era l’ombra che si muoveva tra le canne? E perché non arrivò fino alla riva?” “Io dico di no, ma va bene così. In fondo, è bene che non tutti i misteri siano svelati…” Ci alziamo insieme: direzione, stazione Termini.
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Capitolo 25
È ora di mangiare
Ci troviamo qui, in via dello Statuto, per rivedere le ultime pagine di questo libro. Senza sapere bene come finire. Che dire, alla fine di questo lungo viaggio nel crimine? Decidiamo di camminare ancora un po’: ci fermeremo da Regoli. Eppure, ci siamo abituati: per lavoro, è proprio di delitti che ci occupiamo ogni giorno. Viviamo e respiriamo in questo ambiente. E c’è sempre qualcuno che ci chiede: ma come fate? Forse, la risposta è che per noi il delitto diventa un modo per spiegare il mondo, i rapporti, il senso delle cose. Un modo un po’ strano, se volete, ma qualcuno dovrà pur farlo. Ci dev’essere stato un giorno, nel passato, in cui abbiamo silenziosamente pensato che, tra tutte le cose possibili, tra tutto quello che potevamo fare, scoprire il colpevole fosse il modo migliore per restituire un po’ di giustizia al mondo e per capirlo. Perché spesso succede che noi e loro, i buoni e i cattivi, non siamo così diversi. È questione di occasioni; e di fin dove siamo capaci di sopportare certe situazioni. Ma questo, in fondo, è un altro discorso… Perché adesso le pareti bianche e blu di Regoli prendono il sopravvento: soprattutto le vetrine, stracariche di ogni ben di Dio. “Che prendi?”, mi chiede Armando. “Eh, bella domanda. Sai che ti dico? Io apro le ostilità con un classico: quella spettacolare crostatina alle fragole lì, coperta di zucchero a velo. Che ne dici?” “Ottima scelta. Rilancio con un fagottino ricotta e cioccolato fondente”. Pochi morsi e ci troviamo in paradiso: d’altronde, questo posto esiste dal 1916, prima del nostro Serviatti.
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Forse non ci siamo entrati nemmeno per caso, dopo quello che abbiamo raccontato. “Hai qualche idea per il finale?”, chiede Armando. “Proprio no” rispondo, seriamente distratto dal capolavoro che sto mangiando. “Però…” “Però?” Armando è curioso, lo sento; ed io seguo il filo dei miei pensieri. “No, pensavo a questa pasticceria. Bisogna saperlo, quant’è importante. Se uno cammina per via dello Statuto rischia di non scoprirla, incassata com’è tra un portone e un altro negozio. È un po’ una specie di metafora di Roma, che è una città che contiene altre città, che devi scoprire. E anche di questo libro…” “… E anche delle nostre storie, vuoi dire?” “Eh sì: perché non so quanti conoscono queste pagine di nera romana. Sono casi incredibili, eppure poco noti. Che vanno scoperti”. “Sai, forse è per via del tipo di delitti. Sono cose che si tende a rimuovere. Ma scusa, Regoli che c’entra?” “C’entra, perché così come è un piccolo posto da scoprire, visibile e invisibile allo stesso modo per chi non lo sa, allo stesso modo le nostre storie sono sotto gli occhi di tutti, sono successe in strade e luoghi nient’affatto misteriosi, eppure invisibili agli occhi. Via Cutilia, Via della Magliana, via Principe Amedeo, il Lungotevere San Paolo. In ognuno di questi posti è successo qualcosa di incredibile, eppure se ci passi non lo vedi…” “Aspetta, forse ho capito… vuoi dire che Roma nasconde dei misteri, invisibili ma presenti, delle storie nascoste, e che la città è la somma di tutte queste storie, di tutte queste vite, queste persone vive e morte che le hanno attraversate…” “Sì: ed è qualcosa più grande di noi. È come se ognuna di queste strade portasse con sé il senso di presenze passate…” Usciamo dalla pasticceria con un sontuoso carico dei suoi celebri profitterolles: ci farà una gran compagnia. “È una cosa che ho sempre avvertito. Per me, Roma, fin da bambino, è sempre stata un susseguirsi di palazzi e strade a perdita d’occhio, la città più grande del mondo, nelle cui vie, androni, cortili, periferie poteva quindi nascondersi qualsiasi
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storia. Quando una città non ha confini, ecco quello che può succedere, che qualsiasi tipo di storia nera può venire ad abitarci. Anche le nostre. Per uno che vuole raccontarle, come me, è tutto. È il Bengodi, è il mondo”. Camminiamo verso piazza Vittorio. A me ricorda sempre un’altra Roma, quella di “Ladri di biciclette”. “E pensa a tutte le storie che io, col lavoro che faccio, ho visto. Le più incredibili. Le più surreali, eppure tragicamente vere. Alcune anche buffe, altre solo drammatiche…” “Sai quando ho scoperto che Roma era un posto straordinario per il mistero? Avrò avuto dieci anni, al massimo…” “E come hai fatto?” “Fu mio nonno. Mi leggeva le notizie che trovava su ‘Il Tempo’. Un giorno, a metà estate, salta fuori un titolo così: ‘Ripescata nel Tevere la gamba di un uomo’. Ecco, la nostra attenzione si bloccò su questa piccola notizia a centro pagina. Il fatto che mancasse tutto il resto la rendeva straordinariamente misteriosa ed interessante. Chi era l’uomo? Come era morto? Perché? Da quanto tempo? Cominciammo a leggere il giornale ogni giorno, per vedere se c’erano sviluppi”. “E c’erano?” “L’avevano trovato verso Fiumara, verso la foce del fiume. Alla gamba erano attaccati dei sanpietrini, col filo di ferro…” “Ma allora è una fissazione! Eccone un altro. E non ha funzionato…” “Assolutamente no. Mentre indagano, decidono di fare una battuta sulle rive del Tevere, come già era successo per Teti”. “In fondo, quanti anni erano passati? Non molti…” “Infatti, solo sette da via Cutilia. E dunque, fanno questa battuta e salta fuori l’altra gamba, non molto distante. Si pensa ad un maniaco… così scrivevano, un maniaco, che vuol dire tutto e niente, ovvio… si esclude la pista della malavita, che a Roma non aveva e non ha quelle usanze. Bene, fanno l’autopsia e si scopre che il morto era alto un metro e ottanta. Mica poco. Una ricerca tra gli scomparsi non porta a nulla. Altri particolari: l’uomo aveva circa 40 anni ed era in acqua da 15 giorni. E qui si ferma tutto”. “Cioè, non si viene a capo del delitto”.
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“Esatto. Io e mio nonno ci rimanemmo pure male, perché volevamo sapere come andava a finire. Ma non avevamo fatto i conti con Roma e con la sua capacità di nascondere sempre colpi di scena”. “E cioè?” “Vedi, Roma è come una donna esperta: ti porta dove vuole. Credevamo che fosse finita lì ed invece, a settembre, ecco che nello stesso posto, salta fuori un teschio”. “Ma dai!” “Proprio così! Si pensò fosse dello sconosciuto, quello delle gambe. Si fecero dei nomi, ma non si approdò a nulla. Non si riuscì, all'epoca a dimostrare il collegamento con i due rinvenimenti. Roma aveva deciso di non far sapere di più. Ma ti rendi conto, si può sparire senza lasciare nessuna traccia? Nessuno seppe mai di chi erano le gambe e la testa, quale storia c’era dietro, perché era stato assassinato…” “Quindi Teti e Serviatti non sono stati i soli…” “Assolutamente no. Fu solo molti, molti anni dopo, quando già facevo questo mestiere, che scoprii che a fine novembre dell’anno precedente, il 1975, cos’era successo? Un altro cadavere”. “Un altro?” “Sì, più o meno… un uomo, senza testa, mani e piedi. E lo avevano ripescato pure più o meno all’altezza di dove sarebbe stato successivamente ritrovato l’altro… sempre a Fiumara, dove stanno gli stabilimenti nautici”. “È un posto dove spesso il fiume restituisce ciò che vuole”. “Ecco ed il bello è che non è mai stato possibile scoprire più nulla su questi morti. Chi erano, perché morirono. Queste storie per me sono sempre state il simbolo del mistero, perché sono il massimo: non sai nulla. Né un nome né una storia. Niente rimane, una nebbia: e tu non vedi cosa c'è dall'altra parte”. “Roma è davvero piena di misteri”. Ma camminiamo ancora. E non abbiamo trovato il finale del nostro libro. Ecco piazza Vittorio, ecco i portici, ecco le mille e mille storie popolari che sono successe qui. Ci vengono in mente voci,
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volti, sguardi, racconti che abbiamo sentito in queste strade. Ci vengono in mente i lampeggianti blu che tagliano la notte, storie che sono passate e che non si vedono più, nell’aria della sera. Abbiamo girato Roma per scrivere questo libro e forse ha un senso essere qui. Vincenzo Teti, Teresa Poidomani, Graziano Lovaglio, Cesare Servianti, Pietro De Negri, Giancarlo Ricci: nessuno di loro veniva dai quartieri alti della città. Vittime e assassini venivano dalla strada, eppure la strada non li ricorda più. È passato tanto tempo. Non abbiamo voglia di entrare nel giardino; eccoci a prendere via Mamiani. Passiamo davanti un edificio basso e… ma questa è via Principe Amedeo! Svoltiamo subito: cerchiamo qualcosa, un segno di qualcosa che è stato qui. Il 168 è un condominio enorme, colonizzato a piano terra dai soliti negozi cinesi in serie che in questa zona sono davvero tanti. Eppure, Cesare Serviatti è vissuto qui, magari rientrava a casa dopo aver preso i dolci da Regoli, proprio come noi. Chiudiamo gli occhi e lo vediamo uscire da questo portone, coi baffi grandi, vestito di nero, la bombetta in testa, come si usava all’epoca. Uno dei tanti. Nessuno poteva immaginare, allora. Nessuno, nemmeno oggi, può immaginare dove si nasconda il male. Lo vediamo uscire, magari sottobraccio a Felicita, la cameriera che rivoleva indietro il suo prestito. Ignara di essere accanto ad un serial killer. Eppure, è successo qui, in questo palazzo abbastanza grande e anonimo da nascondere le tracce di un uomo simile. Quale di queste cento finestre sarà stata quella dell’assassino? Dietro quale di loro viveva nel disordine? Forse ha ragione Armando: i delitti di cui vi abbiamo parlato sono inspiegabili. Sì, la scienza, la filosofia, la sociologia, va tutto bene: ma poi arrivi ad un certo punto e devi fermarti. Non c’è spiegazione per quello che è successo qui, per quello che successe in via della Magliana e in via Cutilia. È questo il senso del mistero; e sappiamo bene che è il nostro limite, quello di fronte al quale il nostro raccontare deve fermarsi. Perché è bene che non tutti i misteri vengano svelati, perché non tutti possono esserlo.
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Ma la sera diventa buia e noi non ci siamo ancora tolti il freddo del fiume da sotto la pelle. Torniamo verso piazza Vittorio: una botticella, la tipica carozzella romana, ci attraversa la strada. “Te l’ho mai detto che mio nonno Erasmo era conduttore di botticelle? Erano proprio gli anni di quando Serviatti imperversava, allora non erano per i turisti ma venivano usate come taxi, forse gli sarà capitato di trasportare anche lui…” Entriamo nei giardini, arriviamo ad una cancellata e vediamo dei ruderi chissà di quale epoca, vedo Armando che cerca con lo sguardo. “La conoscevi?”, mi chiede Armando. Di fronte a noi c’è un pezzo di muro bruno, al cui centro sta una porta murata, con accanto due statue egizie. Sono le memorie di un Settecento in cui Roma era impregnata di alchimismo. “Ma guarda te… sono entrato tante volte in questo giardino, eppure non sapevo nemmeno che ci fosse. Come ho fatto a non vederla?” “Era una delle porte della Villa del Marchese Palombara, che stava ad una cinquantina di metri da qui” spiega Armando “vedi le iscrizioni ed i simboli sugli stipiti, sull’architrave? Nella villa c’era un circolo di alchimisti. La leggenda racconta che Francesco Giuseppe Borri, un uomo che cercava un’erba particolare in grado di trasformarsi in oro, sia sparito nel nulla, attraversando quella porta…” “È un po’ come le vittime di cui abbiamo parlato stavolta. Non ci sono più ed a loro la storia, quella degli uomini, ha riservato una fine che nessuno merita e che loro non meritavano. È come se, anche loro, ad un certo punto della loro vita, fossero passati per questa porta e svaniti nel nulla…” “Non proprio nel nulla. Le loro storie ora sono nelle nostre pagine. La memoria è importante… e mi piace pensare che ora di loro rimarrà qualcosa di più. Che ne dici?” “Che hai ragione”. Guardo l’orologio. “Visto che ora?” “Sì, è tardi. Andiamo, dai”. Intorno, tutt’intorno a noi, si allarga un’altra notte romana. E si alza, chissà da dove, un vento caldo.
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Bibliografia. Cristiano Armati in AA.VV., Roma in nera, Palombi Editore, 2006. Vincenzo Cerami, L’atroce vendetta, supplemento a Il Messaggero, Il Messaggero Editore, 1988. Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006. Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, Omicidio a piazza Bologna, Sovera, 2013 Quotidiani e Periodici «Il Messaggero», Anni: 1988, 1989, 1990 e 2006 «La Repubblica», Anni 1985, 1988, 1989, 1998, 2005, 2006 e 2008. «L’Unità», Anni 1969, 1972, 1975, 1976, 1985, 1986, 1988, 1989 e 1990. «Corriere della Sera», Anni 1988 e 2005. «La Stampa», del 6 agosto 1969. «L’Espresso», del 6 marzo 1988. «L’Europeo», numero 32 del 1969 e dell’ 11 marzo 1988. «La Stampa», annate 1928-1935 Archivi Atti del Processo De Negri, Corte d’Assise di Roma. Atti del Processo Teti, Corte d’Assise di Roma. Archivio Fotografico de “L’Unità”. Emeroteca del Senato della Repubblica, Roma. Emeroteca della Biblioteca Provinciale, Pescara. Archivio Centrale dello Stato - Roma Sitografia Wikipedia, voci “Magliana”, “Gelsomina Verde”, “Porta alchemica”. www.ristretti.it/commenti/opinione/canaro.htm www.hortus.it-Tesi di laurea di Fabrizio Battisti: “La rottamazione della Magliana” www.pasolini.net/cinema_uccellacci_romadiPPP_portuense-note.htm http://pigneto.romatoday.it/pigneto/camper-via-lanusei-storia-domenico.html Videografia “Delitti”, Fox Crime, 2008, puntata 7 (dichiarazioni di M. Lugli e O. Capasso)
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Indice Capitolo 1 Sparito nel nulla 7 Capitolo 2 Hanno trovato Giancarlo 13 Capitolo 3 Fabio Beltrano 25 Capitolo 4 Er Canaro 34 Capitolo 5 Il giorno dopo, alla Magliana 41 Capitolo 6 Esplode il Memoriale 59 Capitolo 7 Vincenzina e Alessandro 73 Capitolo 8 Tutto quello che non torna 81 Capitolo 9 Rimettono fuori l’assassino! 101 Capitolo 10 Il processo 109 Capitolo 11 Le parole del professore 120 Capitolo 12 Diciassette anni dopo 132 Capitolo 13 Cesarino 139 Capitolo 14 Stavamo camminando sull’argine, quando… 157 Capitolo 15 Ce l’hanno fatta 174 Capitolo 16 Gli sguardi dei bambini 193 Capitolo 17 Vincenzo, Graziano, Teresa e Anna 201 Capitolo 18 Qui Squadra Mobile 207 Capitolo 19 Storia del sangue 214 Capitolo 20 I testimoni parlano 216 Capitolo 21 Vincenzino scrive 232 Capitolo 22 Il processo 236 Capitolo 23 L’elemento umano 248 Capitolo 24 Il tempo passa 258 Capitolo 25 È ora di mangiare 264 Bibliografia 270
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